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Patanjali Yoga Sutra, cosa è lo yoga, Ia parte I° Libro [YS1:1-29]

maggio 25, 2017

Questo articolo vuole rispondere ad una domanda: gli Yoga Sutra di Patanjali
arrivano ancora al cuore dei praticanti di yoga? E ancora: Chi pratica yoga da
qualche tempo è interessato ad approfondire le radici spirituali antiche?
Mi è capitato di pormi queste domande trornando a leggere vari commentari e
trovandomi un po' perso. L'occasione è nata da una foto di una pagina del terzo
libro di Patanjali pubblicata su Instagram da un'amica, Patanjali è passato dalle
pergamene a Instagram! A parte questo però, il verso che mi ha colpito era III,25:
Concentrandosi sulla forza dell'elefante o di altri animali la si può assimilare.
Il commento proseguiva: è il solito principio emulativo, si assorbono le qualità
dell'oggetto della meditazione. Il libro terzo parla effettivamente dei poteri che
si acquisiscono con la pratica dello yoga. Con Patanjali abbiamo duemila anni di
stratificazione delle interpretazioni, per cui alcuni commentari hanno generato
filoni di interpretazioni e tradizioni che poi a loro volta si sono sedimentate.
Una traduzione come questa è ben documentata nell'esegesi di Patanjali, ma parla ai
moderni praticanti? Ricordavo un'interpretazione diversa, quindi ho iniziato a
ripercorrere i commentari, fino a rivedere il testo sanscrito. Sapete cosa dice il
verso 3,25?
balesu hasti baladini,
ovvero letterale: il potere, l'elefante, la forza.
Che può essere tradotto:
Esercitando la forza si diventa forti come gli elefanti.
Servono interpretazioni filosofiche? no. Cinque pagine di spiegazioni? Nemmeno,
tutti sappiamo che nella pratica dello yoga si esercita anche la forza, a vari
livelli (1).

Ripercorrendo i vari filoni interpretativi delle varie scuole, si oscilla in


effetti tra interpretazioni molto vivide, ma che spesso hanno un'interpretazione
distante dalla moderna pratica dello yoga, e traduzioni molto tecniche in cui il
senso ultimo è rimandato a pagine e pagine di commentari, (un esempio: I,24: Isvara
è uno speciale purusa completamente non influenzato dai klesa o dal karma, dalla
maturazione del karma o dal deposito del karma). Lasciare molti termini in
sanscrito è pratica diffusa, ma appesantisce molto la lettura, con una catena
interminabile di definizioni.

Facendo queste riflessioni torniamo alle domande iniziali: è possibile tradurre


gli yoga sutra di Patanjali in un modo che non solo siano immediatamente
comprensibili ma che arrivino al cuore dei praticanti? Non lo so. Ma qualora fosse
possibile, chi pratica yoga sarebbe ancora interessato? Leggendo di meditazioni
sugli elefanti potremmo nutrire qualche dubbio. A parte gli scherzi, il commento
sarà ridotto al minimo e vuole solamente dare una visione d'insieme a chi non
conosce già l'opera (oppure il contesto di riferimento) e la traduzione sarà il più
semplice e lineare possibile, correndo il rischio di fare alcune semplificazioni,
pur nel rispetto del testo. Patanjali parte dal macroscopico e poi dettaglia le sue
affermazioni, quindi si parte dai grandi concetti per arrivare ai dettagli della
pratica. I primi 29 sutra del primo libro che esamineremo in questo articolo,
trasmettono effettivamente concetti basilari e alti.
Sarei onorato di sapere nei commenti se questa lettura ha significato qualcosa per
voi in relazione alla vostra pratica e se apprezzate una traduzione di questo tipo.

Samādhi Pāda
Libro sul ricongiungimento

I:1 atha yoga anuasanam ||


Ora [illustreremo] la disciplina dello Yoga.

I:2 yoga citta vritthi nirodha ||


Lo Yoga consiste nell'arresto delle oscillazioni della mente.

I:3 Tada drastuh svarupe ‘vasthanam ||


In questo modo lo yogin acquisisce la consapevolezza del proprio spirito.

I:4 Vrtti sarupyam itaratra ||


Nei momenti in cui non c’è consapevolezza, lo spirito si identifica con le
oscillazioni della mente.

Quando la mente è in movimento è impossibile prendere coscienza del proprio


spirito e ci si identifica con i propri pensieri. Quante volte sentiamo dire che
l'uomo e fatto di mente e corpo, come fossero due cose distinte e come se l'essere
umano si fermasse a solo questo: a cervello, carne e sangue. Lo yoga ci permette
secondo Patanjali di osservare la mente acquietata e di capire quindi che ciò che
la sta osservando è il nostro spirito. In queste condizioni, come vedremo,
sperimentiamo pace e benessere. Per alcuni queste affermazioni potrebbero sembrare
artificiose. Questa ricerca è però comune in tutte le culture, in tutte le
religioni e in tutte le pratiche spirituali, di tutti i tempi, tra i santi come tra
la gente comune, tra i frati, i monaci e gli asceti come tra i semplici praticanti
o gli allievi, con caratteristiche piuttosto simili. La base comune è il
superamento della mente pensante e un contatto con qualcosa di più elevato rispetto
al mondo dei sensi e della speculazione. Patanjali è Però l'unico a dare la ricetta
di come fare. Nei sutra successivi definirà come compiere questo viaggio. Non è un
percorso facile, non basta sedersi a gambe incrociate, ma nemmeno impossibile. Lui
lo articola in otto punti: Ashtanga (=otto membra) Yoga, riassumibili in principi
etici e morali (come non rubare, non nuocere al prossimo, studiare se stessi) ed
esercizi pratici (come le asana, la respirazione e la meditazione).

I:5 Le oscillazioni della mente sono di cinque tipi e possono essere facili o
difficili da arrestare.

I:6 Esse sono: retta conoscenza, falso sapere, immaginazione, sonno e memoria.

I:7 La retta conoscenza ha tre fonti: percezione diretta, deduzione e


testimonianza.

I:8 Il falso sapere è un costrutto che non corrisponde alla realtà.

I:9 L'immaginazione è un'attività mentale priva di fondamento.

I:10 Il sonno è l'oscillazione della mente fondata sull'assenza di ogni contenuto.

I:11 La memoria è la rievocazione di precedenti esperienze.

Cosa ci distrae durante la pratica? Le oscillazioni della mente, cioè il divagare


incontrollato del pensiero, riconducibile alle cinque categorie sopra enunciate. La
mente scappa verso pensieri su cose che abbiamo conosciuto o studiato, verso
impegni e affari. Scappa verso nostre fantasticherie o congetture. Può altresì
capitarci, ad esempio, di addormentarci durante la meditazione o di correre dietro
ai nostri ricordi durante le asana. Patanjali non parla in verità solamente di cosa
ci distrae dalla pratica, ma applicando questo principio alla nostra pratica è più
facile estenderlo alla vita di tutti i giorni ed a concetti un po' più elevati,
legati al nostro essere nel mondo ed alla percezione che abbiamo della realtà.

I:12 Abhyasa vairagy abhyam tannirodhah ||


L'arresto delle oscillazioni della mente si raggiunge con due mezzi: una pratica
costante e il distacco dalle cose del mondo.

I:13 Tatra sthitau yatno’ bhyasah ||


La pratica è lo sforzo continuo e ripetuto di mantenere la mente stabile e
tranquilla.

I:14 Satu dirgha kala nairantarya satkarase vito dradha bhumih ||


La pratica diventa un fondamento stabile e solido quando è portata avanti per un
periodo lungo ed ininterrotto e viene compiuta con profonda dedizione.

I:15 Drasta anusravika visaya vitrasnasya vasikara samjna vairagyam ||


Il primo stadio di distacco dalle cose del mondo si ottiene quando si superano i
propri desideri materiali.

I:16 Tatparam purusa khyater guna vaitrisnyam ||


Il secondo e ultimo stadio di distacco dalle cose del mondo si ottiene grazie alla
scoperta del proprio spirito.

Il ragionamento si dipana in modo molto lineare: abbiamo definito cosa porta la


mente a divagare, adesso ci dice che per acquietare questi stimoli ci sono due
mezzi. Uno è praticare molto yoga; alcuni di voi saranno contenti della buona
notizia: potete controbattere al vostro partner che lo dice Patanjali! ma non sono
sicuro che sia una buona scusa. Il secondo è di cercare di non farci colpire
nell'intimo dagli accadimenti della vita, cercare di rimanerne un po' distaccati.
Non perdersi in mille desideri e passioni materiali è il primo passo del distacco,
scoprire il mondo spirituale è il secondo e ultimo.

I:17 Vitarka vicara ananda asmita anugamat samprajnatah ||


Inizialmente questo processo avviene in quattro passaggi: il pensiero analitico,
l'intuizione, la beatitudine e la percezione dello spirito individuale.

I:18 Virama pratyayabhyasapurvah samskaraseso’nyah ||


Successivamente, grazie alla pratica continua, resta solamente la percezione
profonda dello spirito universale.

I due sutra precedenti non sono di facile interpretazione dal sanscrito e generano
traduzioni molto disparate(2). Ma, favorendo sempre un approccio semplice e
lineare, possiamo dire che la pratica e il distacco dalle cose del mondo (adottati
per acquietare le oscillazioni della mente) avvengono in una serie di passaggi
successivi:
1) ragionando sul percorso da fare e su come funziona (un po' come leggendo questo
articolo),
2) lasciandoci guidare dal nostro intuito (posso sentire intimamente che lo yoga
mi dia molto, lasciando perdere le ragioni per cui questo accade),
3) arrivando ad una profonda sensazione di benessere (che quindi non ha più
bisogno né di ragioni né di intuito, ma solo di essere sperimentata),
4) per giungere alla percezione stabile del proprio spirito interiore ed
5) infine all'abbandono dell proprio spirito nel ricongiungimento con lo spirito
che tutto pervade, come sarà approfondito in seguito.
Nessuno ci garantisce che arriveremo in fondo, non siamo tutti uguali, ma
Patanjali ci indica la strada.

I:19 Bhava pratyayah videha prakriti layanam ||


Alcune persone, che vivono naturalmente oltre l'attaccamento alle cose del mondo,
riescono a raggiungere questi più alti livelli di consapevolezza con maggiore
facilità e rapidità.

I:20 Sraddha-virya-smrti-samadhi-prajnapurvaka itaresam ||


Altri raggiungeranno i livelli più alti solo grazie alla fiducia nel percorso,
mediante lo sforzo nella pratica, con l'allenamento alla concentrazione e in virtù
del perseguimento della conoscenza.

I:21 tivra-samveganam asannah ||


L'obiettivo è raggiunto grazie ad una pratica intensa.

I:22 Mrdu-madhya adhimatratva attato pi visesah ||


Coloro che perseguono la pratica con maggiore intensità e convinzione raccolgono i
frutti più rapidamente, rispetto a quelli che lo fanno con minore intensità.

Come dicevamo, non siamo tutti uguali e per qualcuno è più semplice placare le
oscillazioni della mente rispetto ad altri, ma è fondamentale praticare con
intensità e convinzione. L'intensità deve essere accompagnata da uno approccio
sincero e convinto. La via dello yoga come la intende Patanjali non è per i curiosi
o per gli eruditi che vogliono ampliare le proprie conoscenze, questi non
arriveranno a nulla. La via dello yoga è per chi ne fa una ragione di vita, sapendo
essere sincero e convinto, e tra questi, chi avrà maggiore volontà avrà risultati
migliori e più in fretta.

I:23 Isvara pranidhana dva ||


L'obiettivo può essere ottenuto anche mediante la devozione allo spirito assoluto.

Patanjali ha indicato la strada della pratica intensa, ma aggiunge come nota a


margine che è possibile anche la via dell'abbandono. Questa via è possibile solo a
chi sia già arrivato in prossimità della fine del percorso, come ultimo passo. Già
poco prima ci aveva avvisato che per alcuni spiriti eletti i livelli elevati sono
raggiunti con maggiore facilità. Per tutti gli altri, dopo avere praticato in modo
estenuante, dopo avere intravisto, fallito, provato e riprovato, quando si lascia
ogni sforzo, si riesce. Arrendersi, lasciarsi andare, abbandonarsi come mezzo per
arrivare. La pratica costante negli anni, intensa, può generare ossessione verso
l'obiettivo e attaccamento alla pratica stessa. In questo momento bisogna ricorrere
alla devozione e non aspettarsi più nulla, avendo però fiducia nell'assoluto. Anche
chi è molto disciplinato e costante ogni tanto si deve lasciare andare per
crescere. Questo concetto verrà ripreso dal Buddha, ma non spingiamoci troppo
oltre.

I:24 Klesa karma vipaka asayaira aparamrstah purusa visesa isvarah ||


Lo spirito assoluto è il sommo Sé che non viene perturbato dalle vicende della
vita, dalle azioni e dalle loro conseguenze.

I:25 Tatra niratisayam sarvajna bijam ||


Nello spirito assoluto quanto nell'uomo è in germe, diviene infinito.

I:26 Purvesamapi guruh kala ananavacchedat ||


Essendo al di là di ogni limitazione temporale, è il Maestro dei Maestri.

Ecco infine il premio, l'obiettivo, l'elezione per chi è arrivato alla fine del
sentiero: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito assoluto,
cioè prendere coscienza che il barlume intravisto all'inizio fa parte dello spirito
che tutto pervade, che era già in noi. Ciò che era in germe diviene infinito. Noi
abbiamo tradotto, in coerenza con l'interpretazione dei sutra precedenti, 'ishvara'
con 'spirito assoluto', minuscolo, ma, molti traducono, correttamente per il loro
discorso, 'ishvara' con Dio, anche in relazione alla Bagavad Gita. Poi però diventa
molto difficile fornire una definizione di Dio che rientri nei discorsi e nei
parametri di Patanjali. Soprattutto per noi occidentali il concetto di Dio (padre,
creatore) è qualcosa di molto differente da quello che Patanjali vuole dirci e
significare.
La scoperta e la contemplazione dello spirito assoluto ha ispirato tutti i guru in
tutti i tempi.

I:27 Tasya vacakah pranavah ||


Lo spirito assoluto è il verbo
oppure: Il suo nome è il suono OM.

I:28 Taj japas tad artha bhavanam ||


Si deve ripetere e meditare sull'OM e il significato sarà chiaro.

I:29 Tatah pratyak cetana adhigamopya antaraya abhavasca ||


La ripetizione e la meditazione sull'OM comportano la scomparsa di tutti gli
impedimenti e il risveglio dello spirito interiore.

Coerentemente con quanto fatto fin'ora, abbiamo offerto una prima traduzione del
sutra 27 senza lasciare termini in sanscrito, in questo modo però il significato
rimane forse meno evidente. Lo spirito assoluto è la forza creatrice universale,
l'Om o il verbo che dir si voglia, il suono primigenio articolato che crea il
mondo. Pronunciando l'OM ci mettiamo in contatto con questa forza, sentiamo
risuonare in noi questo potere.
OM è l'inizio, la prima lettera dell'alfabeto sanscrito, ma forse per noi
occidentali il collegamento più evocativo per capire a quale forza si faccia
riferimento non è con Shiva Nataraja ma con il Vangelo secondo Matteo, 1,1: in
principio era il verbo, il verbo era presso Dio e il verbo era Dio. Ovvero quanto
detto anche dalla Genesi 1:3, Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. E' la parola, il
verbo, il suono primigenio creatore, che genera la realtà. In questa sede non si
vuole percorrere queste strade, ma semplicemente far comprendere la potenza, la
potenzialità e l'universalità di questi sutra.

Dopo essere arrivato a leggere fin qui, mi auguro che qualcuno possa cantare l'OM
all'inizio e alla fine della propria pratica con uno spirito rinnovato.

Questi primi 29 sutra del primo libro di Patanjali formano in qualche modo un
insieme omogeneo, nel prossimo articolo si analizzeranno i sutra dal 29 al 51
sempre dal samadhi pada ovvero dal primo libro che tratta il raggiungimento dello
spirito assoluto.

NOTE:
(1) La questione che si acquisice la forza dell'elefante meditando sull'elefante è
ricorrente in molti commentatori autorevoli. Non si vuole dire che sia sbagliata,
assolutamente, ma solo che oggi apprare fuori contesto. Torneremo sull'argomento a
proposito del III libro, ma il termine dhasana, interpretato da questa linea di
pensiero come oggetto (III:1 l'attenzione, dharana, consiste nel concentrasi su un
oggetto), può essere inteso anche come luogo e quindi in questo contesto come la
pratica stessa (l'attenzione [dharana] consiste nel concentrarsi sulla pratica).

(2) nel testo si è tradotto come segue il sutra I:18:


Successivamente, grazie alla pratica continua, resta solamente la percezione
profonda dello spirito universale.
Claudio Biagi traduce, I:18:
L’altra (regione attraversata dalla sezione super-conscia di citta dopo aver
trasceso lo stato di asmita, è) preceduta da (seguita da / accompagnata da) la
pratica continua della totale cessazione dell’esperienza (da parte di citta), (e
che tuttavia) lascia un effetto residuo.

Swami Jnaneshvara scrive, I:18;


L'altro tipo di samadhi è asamprajnata samadhi e non ha un oggetto su cui
l'attenzione sia concentrata e rimangono così solo impressioni latenti. Il
conseguimento di questo stato è preceduto dalla pratica di consentire a tutte le
fluttuazioni mondane e sottili della mente di ritirarsi nel campo da cui sono
sorte.

BKS Yiengar, traduce I:18


Il vuoto che nasce in queste esperienze è un altro samadhi. Le impressioni nascoste
rimangono inattive, ma emergono nei momenti di consapevolezza, creando fluttuazioni
e disturbando la purezza della coscienza.

WILLIAM QUAN JUDGE, riporta, I:18:


La meditazione sopra descritta è preceduta dall’esercizio del pensiero senza
argomentazione. Un altro genere di meditazione si attua nella forma di
un'autogenerazione del pensiero dopo la scomparsa di tutti gli oggetti dal campo
della mente.

Ronald Stainer, riporta, I:18:


L'altro stato di intuizione, che si basa sulla pratica costante, sorge quando si
eliminano le percezioni e rimangono solamente le impressioni non manifeste.

e infine Osho, I:18


In asamprajnata samadhi si verifica la cessazione di tutte le attività mentali e la
mente trattiene solamente le impressioni non manifeste.

Yoga Sutra: ostacoli, metodo e scopo, IIa parte I° Libro [YSI:30-51]


giugno 19, 2017

La prima volta che ho letto gli ultimi sutra del primo libro di Patanjali, sono
rimasto sbalordito: sembrava parlare proprio a me. Ritrovare esperienze così
personali in uno scritto dell'India antichissima, mi ha sempre emozionato e
continua a farlo. Come già per la prima parte del primo libro, cercheremo di
fornire una traduzione immediatamente comprensibile, che sia sufficientemente
semplice ed evocativa dei concetti del testo, limitando i commenti ad un ausilio
per capire dove ci troviamo rispetto l'intera opera e a qualche ragguaglio di
contesto rispetto la filosofia del tempo, qualora ce ne sia bisogno. Patanjali
continua a descrivere cosa si intenda per ricongiungimento tra lo spirito
individuale e lo spirito universale (samadhi), aggiungendo maggiori dettagli sulle
modalità della pratica e sugli stati di coscienza e beatitudine che si verificano.
Nel secondo capitolo fornirà nel dettaglio gli strumenti, per ora ci stà indicando
la strada e spiegando cosa avverrà.

30. Vyadhi styana samsaya pramada alasya avirati bhrantidarsana alabdabhumikatva


anavastthitatvani cittaviksepaste’ntarayah
Gli ostacoli al progresso nella pratica sono: la malattia fisica, l'apatia,
l'indecisione, la negligenza, la pigrizia, i desideri mondani, le supposizioni
errate, la mancanza di progressi e la difficoltà a mantenere i progressi raggiunti.

31. Duhkha daurmanasya angamejayatva svasaprasvasa viksepasahabhuvah


Questi ostacoli causano sofferenza, depressione, instabilità e irregolarità del
respiro.

L'autore elenca esattamente tutti i motivi per i quali si salta un giorno di


pratica oppure cosa accade nei giorni in cui manca quell'intensità raccomandata in
precedenza. E' incredibile l'attualità di queste parole. Gli infortuni sono al
primo posto, inflitti durante la pratica o meno, così come l'attenzione allo stato
di salute generale. L'attenzione al proprio corpo, ma, più in generale, alla
propria condizione è fondamentale, senza una buona salute è impossibile praticare.
Al secondo posto viene la pigrizia in tutte le sue sfaccettature. Possibile che
anche i contemporanei di Patanjali faticassero ad alzarsi dal divano? A parte gli
scherzi, il concetto ribadisce quanto già affermato, ovvero che lo yoga è solo per
chi ha grandi motivazioni e ne fa un abito di vita. L'aperitivo con gli amici,
ovvero i desideri mondani, segue a breve distanza, così come tutte le ragioni di
attaccamento verso i risultati della propria pratica. E' normale che la corretta
pratica ci faccia progredire costantemente, ma non dobbiamo trarre conclusioni
affrettate o ossessionarci con i progressi raggiunti. Il vero praticante di yoga,
seppure distaccato dai risutlati della pratica, soffre e vacilla davanti agli
ostacoli ai suoi progressi. Sembra apparentemente una contraddizione, ma ad una più
attenta analisi non lo è. E' importante progredire, rendersi conto del progresso,
ma non si deve fare del miglioramento lo scopo della pratica. Di contro una pratica
senza avere percezione di progressi è inutile, concetto che nei tempi moderni si
tende molto a sfumare. La soluzione, vedremo, sarà solamente una: praticare secondo
il metodo dello yoga.

32. Tat pratisedha artham eka tattva abhyasah


Per prevenire questi problemi è necessario seguire con fermezza il metodo dello
yoga.

33. Maitri karuna muditopeksanam sukha duhkha punyapunya visayanam bhavanatah


citta prasadanam
Questo metodo consiste nel calmare la mente e nel dimostrare distacco da felicità e
dolore, virtù e vizio, ma anche nel coltivare un atteggiamento di amicizia verso
tutti e nel mostrare compassione con i deboli.

Ecco che Patanjali fornisce una prima ricetta per proseguire nella via dello yoga.
Ci ha detto: in cosa consiste lo yoga, ovvero nell'arresto delle oscillazioni della
mente e nel distacco dalle cose del mondo (in modo da poter ricongiungere lo
spirito individuale con lo spirito assoluto); ha esposto in cosa consiste lo
spirito assoluto; ci ha detto che serve una pratica intensa ; adesso inizia a
delineare in cosa consiste la pratica. Personalmente mi emoziona sentire parlare di
sentimenti di amicizia verso il prossimo e compassione, in uno scritto datato 500
anni prima di Cristo. La compassione verso gli ignoranti ed i deboli sarà
importante per interpretare nella giusta proporzione alcune affermazioni successive
molto dure.

34. Pracchardana vidharanabhyam va pranasya


Inoltre questo metodo consiste nel controllo della respirazione: inspirazione,
espirazione e ritensione.

35. Visayavati va pravrttirutpanna manasasthitini bandhani


Inoltre nel concentrasi sull'insorgenza delle oscillazioni della mente.

36. Visoka va jyotismati


Inoltre nel percepire lo spirito, che è luce e gioia.
(lett. visoka=sereno, va=e inoltre, jyotismati=pieno di luce)

37. Vita-raga visayam va cittam


Inoltre nel trascendere l'attaccamento

Il respiro controlla la mente, si ritornerà su questo argomento nel secondo libro,


il controllo della mente permette allo spirito di emergere e trascendere
l'attaccamento accedendo alla beatitudine dello yoga. Si possono riempire pagine
nel definire cosa possa intendere in questo passo Patanjali per attaccamento ovvero
raga, ma credo che questo concetto sia nell'immaginario di tutti; si parla di
attaccamento a cose e persone, il concetto che diverrà uno dei tre veleni del
buddismo: ignoranza, attaccamento/desiderio e odio. Raga come avidità, sensualità,
passione e desiderio. Patanjali ribadisce quanto detto nel sutra I:12 dove
affermava che la via dello yoga era l'arresto delle oscillazioni della mente e il
non attaccamento, definito vairagya, ovvero proprio la liberazione dal raga.

38. Svapna nidra jnana alambanam va


Inoltre il metodo consiste nell'osservare la consapevolezza che sorge durante il
sonno.

39. Yatha abhimata dhyanad va


Inoltre nel praticare secondo la maniera che più si addice a se stessi.

40. Paramanu paramamahattvanto asya vasikarah


In questo modo infine il praticante dominerà tutto, dal particolare all'universale.

In questi tre sutra Patanjali continua a dispensare riflessioni che ognuno di noi
può ritrovare nella propria pratica. L'arresto delle oscillazioni della mente
assomiglia allo stato che si verifica quando si è ancora svegli, ma si sta per
prendere sonno, quella situazione di sospensione nella quale possiamo essere
richiamati dalla mente verso i pensieri in qualsiasi momento, dal benchè minimo
rumore o distrazione, ma che può anche volgere al sonno. Osservare questo stato è
utile a capire come bisogna ritrovarsi nella meditazione.
Le interpretazioni esegetiche si dividono significativamente sul sutra 39, come a
dire il vero su quasi tutti i sutra. Noi abbiamo interpretato abhimata con il
significato di “come si desidera”, traducendo "Inoltre nel praticare come si
desidera". Una cospicua fazione interpreta questo termine come “amore o attrazione”
traducendo “Inoltre meditando/praticando l'amore”, ma onestamente sembra molto
distante dal resto dell'opera. Come sempre si riporta anche questa interpretazione
per offrire un confronto e per sottolineare che per loro stessa natura i sutra
necessitano di una qualche interpretazione.
Quindi attenzione: ognuno deve praticare come più gli piace, certo, sempre con
intensità e convinzione, ma gli ingredienti della ricetta che Patanjali rivelerà,
possono, anzi devono, essere mischiati a proprio piacimento, non esiste un modo
valido per tutti. Ci aveva già avvertiti che studiare se stessi è fondamentale,
altrimenti non è possibile capire come si deve praticare. Lo sappiamo, i grandi
maestri guidano ogni allievo verso la sua pratica personale e individuale e per
ognuno hanno un percorso differente.
Infine, ancora una volta viene ribadito che il nostro spirito individuale potrà
ricongiungersi con lo spirito universale, dominando ogni aspetto di noi stessi.

41. Ksinavrtter abhijatasyeva maner grahitr grahana grahyesu tatstha tadanjanata


samapattih
Quando vengono arrestate le oscillazioni della mente, questa diviene pura e
riflette senza distorsione colui che percepisce, ciò che viene percepito e come
viene percepito.

42. Tatra sabda artha jnana vikalpaih samkirna savitarha samapattih


Nella prima fase lo yogin è ancora incapace di discriminare tra vera conoscenza,
conoscenza basata sulle parole e conoscenza fondata sul ragionamento o le
percezioni dei sensi, che permangono nella mente mescolandosi tra loro.

43. Smrtiparisuddhau svarupa sunya eva arthamatra nirbhasa nirvitarka


Nella seconda fase la mente è in grado di percepire la vera natura delle cose,
senza contaminazione alcuna.

44. Etayaiva savicara nirvicara ca suksmavisaya vyakhyata


Nella terza fase, allo stesso modo, lo spirito individuale diverrà capace di
percepire la realtà.

45. Suksma visayatvam calinga paryavasanam


Nella quarta fase sarà possibile osservare la realtà direttamente nella sua origine
indifferenziata.

46 Ta eva sabijah samadhih


Queste quattro fasi intraprendono il ricongiungimento dello spirito individuale con
quello universale con l'intervento della volontà.

47. Nirvicara vaisaradya adhyatma prasadah


Quando si consegue la purezza suprema di questo stato, la natura dello spirito
individuale diviene chiara.

Gli effetti della pratica sono progressivi. In una prima fase le percezioni che
provengono dalla mente si confondono addirittura con le percezioni che arrivano dai
sensi, si confondono pensiero e input provenienti dai sensi. Successivamente si
riescono ad isolare questi due aspetti. Proseguendo ulteriormente nella via dello
yoga la mente è ancora vigile e le percezioni che provengono dalla sua esclusione,
ovvero che provengono dallo spirito, si mescolano con le percezioni che provengono
da essa stessa, ma sarà comunque un grande progresso, il risveglio dello spirito.
Nell'ultima fase lo spirito diverrà il veicolo della realtà.
Queste quattro fasi costituiscono il percorso del ricongiungimento tra spirito
individuale ed universale, il samadhi che da il titolo al primo libro dei sutra,
nel quale nella pratica interveniamo con la volontà. In quasi tutti i testi la
pratica o la meditazione in cui interviene la volontà viene chiamato letteralmente
“samadhi con seme”. L'espressione, di per se incomprensibile, diventa quasi un
codice tecnico, personalmente non mi piace, ma lo diciamo per offrire la
possibilità di raffronti.
In questo stato, che si raggiunge a questo livello del percorso, conquistiamo
l'immagine chiara di cosa sia lo spirito in noi. Per interpretate il termine
adhyhatma come spirito del Sè, possiamo rifarci alla Bhagavad Gita, 8,3: "L'entità
vivente indistruttibile e trascendente è chiamata Brahman, e la sua natura eterna è
chiamata adhyātma, lo spirito individuale".

48. Rtambhara tatra prajna


In questa calma interiore, la consapevolezza diviene poi verità.

49. Sruta anumana prajnabhyam anyavisaya visesarthatvat


In quanto si consegue una conoscenza diretta della realtà, libera dall'utilizzo
delle correnti del pensiero.

50. Taj-jah samskaro’nya samskara-pratibandhi


Le percezioni che si conseguono vanno al di là delle percezioni normali.

51. Taj-jah samskaro anya samskara pratibandhi


Quando si trascendono le percezioni, il ricongiungimento dello spirito individuale
con quello universale avviene senza volontà.
Gli effetti della pratica sulla mente e lo spirito proseguono in una nuova serie
di fasi che possono essere raggruppate come ricongiungimento tra spirito
individuale ed universale nel quale non c'è intervento della volontà, questa fase
viene chiamata in quasi tutti i testi “samadhi senza seme”. Patanjali si riferisce
ora agli stati più alti di illuminazione. Facciamo più fatica, rispetto ai sutra
precedenti, a capire esattamente a quali fasi della pratica faccia riferimento, non
avendole probabilmente sperimentate. Cercando di cogliere l'essenza del discorso,
subentra alla fine del percorso un livello di consapevolezza nel quale il
ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito universale durante la
pratica e durante la vita, non avverrà più con il nostro intervento volontario, ma
spontaneamente. Un maestro mi disse una volta che, i primi tempi in cui riusciva a
raggiungere il samadhi, lui aveva necessità di ore ed ore di pratica, poi, dopo
molti anni, gli succedeva come quando ci distraiamo, si ritrovava in uno stato di
estasi senza sapere come, se non rendendosene conto quando rientrava in se stesso.
Credo Patanjali si riferisca ad un meccanismo di questo tipo.

Fiumi d'inchiostro sono stati spesi interrogandosi se il pensiero di Patanjali sia


dualistico o non dualistico, ovvero se la divinità o lo spirito assoluto pervada il
mondo e le persone oppure se sia un'entità differente. Generalmente prevale
l'interpretazione dualistica, contrapponendo lo yoga di Patanjali all'Hata yoga
tantrico che sarebbe invece puramente non dualistico. Non siamo d'accordo con
questa visione. Patanjali indica chiaramente che lo spirito individuale sia della
stessa sostanza dello spirito universale al quale infatti si ricongiunge. Il
pensiero dualistico a cui siamo abituati è quello cristiano, per il quale uomo e
Dio padre e creatore sono unità esattamente distinte e l'uomo al massimo della sua
evoluzione può aspirare solamente a contemplare Dio. Il pensiero di Patanjali è
molto lontano da questo tipo di dualismo e sarà poi ripreso, quasi due millenni
dopo, dal pensiero Tantrico e mosso ancora più avanti sulla via del non dualismo.
Per i testi tantrici non c'e' necessità nemmeno di purificazione in quanto lo
spirito assoluto è già presente nell'uomo così come deve essere. Parlerei di
evoluzione storica del contesto tra il raja yoga di Patanjali e l'hata yoga
tantrico e non di contrapposizione. Questa contrapposizione è sorta in realtà tra i
sostenitori delle due scuole nell'India moderna, scuole che sostengono la maggior
importanza della pratica individuale (hata yoga) rispetto agli aspetti sociali e
religiosi (raja yoga), ma le sfumature sono molte, stiamo semplificando.

Nel secondo libro Patanjali fornirà una descrizione della via e delle modalità che
costituiscono il percorso dello yoga.

Yoga Sutra: rimuovere le cause della sofferenza, Ia parte II° Libro [YS2:1-28]
luglio 04, 2017

Il secondo libro dei sutra di Patanjali è forse quello più dibattuto in quanto si
entra nel vivo della pratica dello yoga ovvero si affrontano gli strumenti che
condurranno il praticante sulla trada del ricongiungimento, trattato nel primo
libro. In particolare, nella prima parte del secondo libro, vengono gettate le basi
imprescindibili per affrontare poi l'elenco delle singole componenti della pratica
dello yoga. Patanjali affronta le domande che sono insite nell'uomo, in tutte le
epoche: le cause dell' infelicità, le conseguenze delle nostre azioni e il senso
del mondo ovvero quale è lo scopo della nostra vita. Non sono temi da poco. Staremo
particolarmente attenti a non dare interpretazioni preconcette, ma a fornire una
traduzione semplice e lineare, nel rispetto del testo sanscrito.

Libro secondo: Sadhana Pada


Capitolo sugli strumenti
1:II. Tapah svadhyayes isvarapranidhanai kriyayogah
La parte dinamica dello yoga ha tre componenti: pratica intensa, studio di
sé‚ abbandono allo spirito assoluto.

2:II. Samadhi bhavana arthah klesa tanukarana arthasca


Il suo scopo è di ridurre l'infelicità e il ricongiungimento tra spirito
individuale e spirito universale.

Il Krya Yoga o yoga dell'azione viene menzionato anche da Krishna nella Gita,
secondo alcuni storici ha origini antichissime, secondo gli induisti deriverebbe
addirittura dalle ere caratterizzate da una maggiore illuminazione spirituale. Già
ai tempi di Patanjali si riteneva che si fosse in un'era di materialismo e
oscurantismo, ma direi che la situazione è poi peggiorata. Vista la raffinatezza
filosofica raggiunta ed altri elementi, è certo che l'autore raccolga una
tradizione più antica. Teniamo a mente che pratica intensa, studio di sé e
abbandono allo spirito assoluto, citati nel primo sutra, sono gli ultimi tre
precetti dei cinque che costituiscono, come vedremo, il secondo passo dello yoga,
ovvero le regole morali verso se stessi. Apre così il capitolo sugli strumenti
dello yoga perché questi tre sono gli elementi basilari che dobbiamo trovare dentro
di noi.
Patanjali ricapitola quindi che senza una pratica disciplinata non c'è yoga,
questa pratica porta a studiare se stessi altrimenti è fine a se stessa e così si
ottiene lo scopo ultimo, il ricongiungimento spirituale con lo spirito assoluto.
Coerentemente al primo libro, Patanjali indica lo yoga dell'azione come una pratica
che ci fa scoprire la nostra parte spirituale assoluta, divina, ma anche il cui
scopo è alleviare l'infelicità durante il cammino.

3:II. Avidya asmita ragadvesa abhinivesah klesah


L'infelicità è prodotta da: ignoranza, egoismo, attaccamento, odio e paura della
morte.

4:II.Avidya ksetram uttaresam prasupta tanu vicchinna udaranam


L'ignoranza è la causa delle altre fonti di infelicità, sia che sussista in forma
latente, in forma attenuata, in forma intermittente o al massimo grado.

5:II. Anitya asuci duhkha anatmasu nitya suci sukha atmakhyatir avidya
L'ignoranza è considerare eterno ciò che è caduco, puro ciò che è impuro, piacere
ciò che arreca dolore e confondere il proprio spirito individuale con ciò che non
lo è.

Quali sono quindi le cause di sofferenza che andremo a mitigare grazie allo yoga
sulla strada del ricongiungimento con lo spirito assoluto? L'ignoranza è la causa
di tutti i mali; anche il buddismo riprenderà questo concetto, avydia è il primo
dei tre veleni (ignoranza, attaccamento e odio). L'ignoranza non comporta solamente
la non conoscenza delle cose, rispetto alla quale non sarebbe semplicemente
possibile comprendere nulla, ma questo sarebbe comunque un male più tollerabile
rispetto ad interpretare il mondo in modo errato e contrario alla sua forma
corretta. Chi è ignorante rispetto allo spirito non si limita a non conoscere, ma
ha una sua conoscenza errata che ritiene vera. La sua vita diventa quindi misera,
più misera degli animali che si limitano a non comprendere. Il giudizio di
Patanjali sulle persone ignoranti appare qui spietato, sono persone che infliggono
sofferenza a se stessi e agli altri. II sutra I:33, l'affermazione che la via dello
yoga consiste anche nel mostrare compassione verso i deboli, mitiga forse in parte
questo giudizio.
Ignoranza è per l'autore non solamente conoscere nel significato di erudizione o
di apprendimento di qualcosa di codificato, come intendiamo spesso nel senso
comune, ma conoscere anche come sentire a livello spirituale. Ignoranza è non
avere nozione di come contemplare la propria parte spirituale o, ancora peggio,
identificarsi con i pensieri ed il corpo (indetificarsi con l'a-atman, il “non
spirito individuale”). Questo è un concetto fondamentale da cui si comprende
l'importanza della pratica, che conduce ad una conoscenza, che si estende su vari
gradi, per evitare una vita di miseria ed ignoranza.

6:II. Drg darsana saktyor ekatmateva asmita


L'Egoismo è l'identificazione di colui che vede con la cosa vista.

Al secondo posto della classifica delle caratteristiche che conducono l'uomo


all'infelicità troviamo l'egoismo, in quanto consiste nel proiettare se stessi in
ogni aspetto dell'universo che ci circonda, ovvero, mettendo il nostro ego al
centro di tutto, vediamo solo noi stessi riflessi in tutte le cose. Questa
definizione di ego è molto efficace, chi ha un grande ego non riesce a vedere che
se stesso riflesso in tutto il sapere e la bellezza del mondo e delle altre
persone, ovvero identifica il soggetto con l'oggetto. I Tamil, una popolazione
dell'India del Sud, quando una persona parla per mettere in mostra se stesso e non
per condividere un pensiero, quando ostenta la propria ricchezza o il proprio stile
di vita, per definire chi si autocelebra, chi dimentica di essere umile, hanno un
modo di dire molto divertente: “grande coltello, piccolo uomo” ovvero: chi ha
bisogno di portare un grande coltello per sentirsi forte è come chi ostenta un
grande ego per darsi più valore, cioè una persona di poca qualità. I Tamil sono
guerrieri, di coltelli e di persone ne sanno molto.
Per gli induisti l'Io è qualcosa di molto pericoloso rispetto all'interpretazione
della realtà, che rischia di far vedere solo se stessi, ma che può diventare
positivo quando rappresenta la sana espressione della propria personalità. Citavo
l'induismo perché Shiva, nella rappresentazione di Signore dello Yoga, viene
immaginato con un cobra, simbolo dell'ego, intorno al collo, per rappresentare il
fatto che, ricondotto alla giusta posizione, l'ego può diventare un piacevole
ornamento. Questa immagine mi è sempre piaciuta molto. Generalmente chi pratica
yoga conosce bene le insidie dell'ego, ma non per questo ne è esente.

7:II. Sukha anusayi ragah


Si ha attaccamento verso qualsiasi cosa arrechi piacere.

8:II. Duhkha anusayi dvesah


Si ha repulsione verso qualsiasi cosa arrechi dolore.

9. Svarasa vahi viduso api taharudho abhinivesah


La paura della morte domina tutti, perfino il saggio.

Arriviamo quindi alle ultime due cause di infelicità: attaccamento e paura della
morte. Viene ribadita la necessità di abbandonare l'attaccamento alle cose del
mondo e quindi ai concetti di piacere e dolore, perché effimeri. Il piacere e la
sua ricerca generano aspettative e di conseguenza sofferenza. Infine la paura della
morte è per Patanjali la causa di infelicità più connaturata all'uomo, tanto che
può rifarsi viva in qualsiasi momento, anche dopo aver condotto una vita nella
pratica e nella saggezza. Seppure sia una forma di attaccamento, l'autore ritiene
importante comunque citarla, forse perché lo tocca da vicino. Oltre ad essere una
forma di attaccamento alle passioni della vita, è anche una forma di ego, l'unica
cosa che va a morire con la morte fisica è infatti l'ego, riflesso della nostra
mente, lo spirito è per Patanjali eterno, lo sappiamo.

10:II. Te pratiprasava heyah suksmah


Le cinque cause della sofferenze possono essere eliminate, riconducendole alla
loro fonte originaria.

11:II. Dhyana heyastad vrttayah


Le oscillazioni della mente causate dalle cinque cause di sofferenza scompaiono
attraverso la pratica della meditazione (dyhana).

Come dicevamo Patanjali sta procedendo dal macroscopico verso il particolare, nel
primo libro ha trattato il ricongiungimento (samadhi), ora ci parla della
meditazione (dyhana); come vedremo tra poco, questi sono gli ultimi due elementi
tra gli otto che costituiscono la pratica dello yoga.
L'infelicità causata da ignoranza, ego e attaccamento, può essere contrastata e
vinta con un processo particolare: riconducendo l'effetto alla causa originaria
(prati-pasav). E' un principio conosciuto ed applicato in molti ambiti, anche
quando la psicanalisi riporta il paziente alla propria infanzia, per superare i
traumi che hanno causato l'infelicità. Fino a che non si và alle radici, il
problema non può essere risolto. Andando a ritroso Patanjali afferma che la causa
prima di tutte le afflizioni è la mancanza di consapevolezza, l'ignoranza. E'
quindi necessario portare consapevolezza nella propria vita, essendo presenti in
ogni momento e consapevoli del proprio spirito. Per poter vedere la nostra parte
spirituale ci viene in soccorso la meditazione, componente finale della pratica
yoga, alla quale si arriva dopo aver praticato gli altri sei passi e che porta
all'ottavo e più importante, il ricongiungimento con lo spirito assoluto.

12:II. Klesamulah karmasayo drstadrsta janma vedaniya


Ogni azione, generata dalla sofferenza, ha una conseguenza sia nel presente che
nel futuro.

13:II. Sati mule tadvipako jatyayurbhogah


Fino a che la sofferenza resterà l'origine delle azioni, le conseguenze si
ripercuoteranno nella vita.

14:II. Te hlada paritapa phalah punya apunya hetutvat


La virtù porta piacere; il vizio arreca dolore.

15:II. Parinama-tapa-samskara-duhkha ir–guna-vrtti-virodhac-ca duhkham-eva sarvam


vivekinah
La persona consapevole sa che l'infelicità è causata dai mutamenti e dai
conflitti generati dalle cinque cause della sofferenza.

16:II. Heyam duhkham anagatam


Si deve prevenire anche il timore delle sofferenze future.

La persona consapevole sulla via dello yoga, che ha conosciuto lo spirito,


interrompe la propria sofferenza combattendo le cause che ne sono all'origine.
Questa interruzione fa si che le proprie azioni non siano più causa di sofferenza
per se stessi e per gli altri. La persona consapevole vive nel presente: sa che le
azioni passate non possono essere cambiate e che quindi è inutile vivere nei
ricordi, ma è anche distaccato da ciò che accadrà nel futuro, non ha aspettative,
sa che il ricongiungimento con lo spirito assoluto è tutto quello di cui ha bisogno
per raggiungere il benessere. Questi cinque sutra, non lo neghiamo, non sono di
facile traduzione ed esistono interpretazioni significativamente differenti da
quella proposta, in quanto si parla di un tema dibattuto in tutta la storia
dell'intera Asia, ovvero il karma, la conseguenza delle azioni. Essi riflettono una
notevole sofisticatezza e maturità filosofica, ma ancora dippiù ciò è evidente nei
prossimi versi, che trattano un tema molto elevato: il senso del mondo. Riportiamo
consecutivamente tutti i sutra sull'interpretazione della realtà ed il senso della
vita, in modo da non interrompere il filo logico del pensiero.

17:II. Deve essere interrotta l'identificazione tra colui che osserva e ciò che
viene osservato.

18:II. Ciò che viene osservato possiede le qualità della beatitudine e quindi può
dare la liberazione dalla sofferenza.
19:II. Ci sono quattro tipi di qualità in ciò che si osserva: il definito,
l'indefinito, il differenziato e l'indifferenziato.

20:II. Colui che osserva, sebbene abbia consapevolezza, vede attraverso le


distorsioni della mente.

21:II. La cosa osservata esiste in funzione di colui che osserva.

22:II. Sebbene la cosa osservata non abbia importanza per la persona consapevole,
essa è importante per chi non ha ancora intrapreso il percorso di consapevolezza.

23:II. Per chi non ha intrapreso questo percorso, colui che osserva e ciò che
osserva si presentano insieme, in modo tale che sembrano indivisibili.

24:II. La causa di questa indivisibilità è l'ignoranza.

25:II. La dissociazione di colui che osserva e di ciò che osserva è il rimedio, la


liberazione dall'ignoranza.

26:II. La consapevolezza di ciò che si osserva, è il mezzo per la soluzione


dell'ignoranza.

Non bisogna identificarsi con i propri pensieri e con le proprie percezioni. Il


concetto è simile a quanto elaborato nel primo libro, ma più specifico, se
riusciamo a porci un gradino più in alto dei nostri pensieri, placando la mente ed
osservandola, cogliamo l'essenza dello spirito e cessa la sofferenza. Se possiamo
osservare il nostro corpo, non ci identificheremo con il nostro corpo, se possiamo
osservare i nostri pensieri, non ci identificheremo con la nostra mente, colui che
osserva, il nostro spirito, è più in alto dei pensieri. In questo modo Patanjali
rende lo spirito qualcosa di oggettivo, scentifico, osservabile, misurabile, almeno
nella sua interpretazione della vita.
Per molti anni non capivo come mai Patanjali non aprisse il secondo libro sugli
strumenti dello yoga elencando semplicemente gli otto passi, che tratterà invece
nella seconda metà. Prima di entrare nei dettagli degli otto aspetti che
costituiscono lo yoga, Patanjali vuole essere sicuro di definire tre aspetti
imprescindibili per la pratica: cause di infelicità, conseguenze delle azioni,
senso del mondo e quindi della vita. Perché esiste il mondo? Qual'è il senso di
tutto questo? Patanjali afferma che il mondo esiste per permettere la liberazione,
il ricongiungimento con lo spirito assoluto. Non c'è possibilità di elevazione
spirituale per gli uomini senza aver sperimentato l'infelicità o la condizione
d'ignoranza. Il ricongiungimento può essere realizzato solo attraverso questo
percorso. Il mondo materiale esiste per poter sperimentare il mondo dello spirito,
anzi il mondo materiale ha in sé il seme del mondo dello spirito. Per gli uomini la
via verso la beatitudine ed il ricongiungimento con lo spirito assoluto deve
partire dal mondo, bisogna conoscere l'attaccamento per potersene distaccare,
l'ignoranza per poter conoscere, le oscillazioni della mente per placarle e vedere
lo spirito. Senza questi concetti, capiamo bene, i successivi precetti perdono il
loro vero significato. La pratica dello yoga ha i piedi in terra e la testa nel
cielo, direbbe qualcuno, ma non lasciamoci trasportare dalla bellezza di questi
sutra.

27:II. Tasya saptadha pranta-bhumih prajna


Il potere di conoscere si consegue attraverso sette regioni.

28:II. Yoganga anusthanad asuddhi ksaye jnanadiptira viveka khyateh


Praticando lo yoga si eliminano le impurità e si consegue la conoscenza e l'
illuminazione spirituale.
Fin dai commentari più antichi gli studiosi hanno cercato di interpetare quali
fossero secondo questo sutra le sette regioni che conducono al potere di conoscere,
all'illuminazione, dai commentatori antichissimi come Vyasa, il rishi veggente,
fino ai giorni nostri. Vyasa ha anche creato questi sette passi secondo una sua
visione. Ammettiamo che il passaggio sia ermetico e lasci dei sott'intesi, ma
l'interpretazione più lineare inerente alla pratica dello yoga, secondo chi scrive,
è quella che fa riferire le sette regioni alla purificazione dei sette chakra
ovvero alla tradizione ayurvedica, oggi ben conosciuta. Secondo questa visione
alcune impurità e alcuni blocchi non permettono all'energia di scorrere dal primo
centro energetico del corpo, alla base della spina dorsale, fino al settimo centro
energetico alla sommità della testa e al ricongiungimento con l'energia che tutto
pervade. Questo significato sembra anche rafforzato dal punto in cui Patanjali
introduce l'argomento, subito prima di elencare i passi dello yoga, di cui il primo
elemento del secondo passo sarà appunto la purificazione. Rimandiamo questa
tematica alla sterminata letteratura sull'argomento, qui sarà sufficiente
constatare che per Patanjali le pratiche dello yoga, gli otto passi descritti nel
prossimo sutra, permettono la liberazione dei centri energetici e l'illuminazione
spirituale, in linea con tutta la tradizione dell'Hata Yoga e del risveglio di
Kundalini.

Solitamente questi primi 28 sutra vengono letti in modo precipitoso, perchè subito
dopo sappiamo esserci l'elenco dei passi dello yoga ovvero l'enunciazione
dell'Ashtanga Yoga, ma, se ci soffermiamo un attimo, possiamo capire quanta
saggezza ci sia in questa prima parte.

Yoga Sutra: otto passi, Yama e Nyama, IIa parte II° libro [YS2:29-45]
luglio 19, 2017

Questi sutra sono il cuore dell'opera di Patanjali. L'autore, dopo aver dato tutte
le definizioni indispensabili per delineare il campo nel quale sta operando,
fornisce la ricetta, passo per passo, per arrivare alla beatitudine. Sebbene
Patanjali indichi questi punti come passi successivi, non devono essere considerati
compartimenti avulsi gli uni dagli altri, ma essi formano un'unica pratica dello
yoga integrandosi tra loro. Sono successivi, ma integrati. E' stato spesso
affermato Patanjali abbia un approccio scientifico proprio perché prescrive un
percorso di azioni da compiere per arrivare all'illuminazione, alla cessazione
della sofferenza ed alla beatitudine. Non è vago, non dice che un bel momento
capirai, ma prescrive una ricetta, una via, uno stile di vita. Inevitabilmente, il
commento a ogni singolo aspetto che compone lo yoga, sarà più esteso di quanto
fatto per il resto dell'opera; Patanjali utilizza spesso un solo termine per
significare un concetto, che va necessariamente contestualizzato. Iniziamo quindi
con i le norme di comportamento, etiche ovvero yama e morali ovvero nyama. Fino a
questo momento inoltre non abbiamo mai lasciato termini in sanscrito nella
traduzione, per non appesantire il discorso e non rimandare a successive
definizioni; per gli otto passi dell'Ashtanga Yoga faremo un'eccezione in quanto
sono termini a cui tutti gli yogin si riferiscono comunemente e che sono diventati
veri e propri monumenti. Ogni singolo termine ha dato luogo a sterminate
disquisizioni, ma il filo del discorso è, in questa seconda parte del secondo
libro, piuttosto lineare. Ecco lo Yoga di Patanjali:

29:II. Yama niyama asana pranayama pratyahara dharana dhyana samadhayo ‘stavangani
Gli otto passi dello yoga sono:
> yama: osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri
> niyama: osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi
> asana: le posizioni del corpo
> pranayama: il controllo della respirazione
> pratyahara: l'introspezione e il ritiro dei sensi,
> dharana: la capacità di concentrazione
> dhyana: la meditazione
> samadhi: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito universale
e la beatitudine che ne deriva.

30. Ahimsa satya asteya brahmacarya aparigraha yamah


Yama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri, si
compone a sua volta di cinque regole:
> ahimsa: non violenza ,
> satya: verità ,
> asteya: onestà,
> brahmacharya: morigeratezza
> aparigraha: possedere solo l'indispensabile.

Entra ora nel vivo la trattazione analitica di tutti e otto gli elementi
costitutivi dello yoga. Il percorso dello yoga è sicuramente un percorso di
crescita individuale interiore, l'obiettivo finale è dentro di noi, eppure il primo
gradino sono le norme “sociali”. Anche l'asceta non può vivere scollegato dalla
società che lo circonda, ma al contrario lo yogin deve influenzarla positivamente
ed agire nel sociale. Gli appassionati di questo messaggio troveranno nella
Baghavat Gita una lettura entusiasmante, in particolare nel commentario di Sri
Aurobindo, fermo sostenitore dello yoga delle opere.

La prima e più importante regola etica dello yoga, il primo gradino da


intraprendere sulla via della beatitudine, è la non violenza. Letteralmente il
termine significa a=non, himsa= nuocere o uccidere.
Questo è esattamente il concetto assunto a principio dal Mahatma Gandhi,
estimatore degli Yoga Sutra. Uccidere, imporre sofferenze o essere partecipi
all'uccisione o alla sofferenza di qualsiasi essere ha delle conseguenze a cascata
sul mondo e su di noi, è contrario alla purificazione e il karma che ne deriva è
considerato cattivo sotto ogni aspetto. Per Patanjali la non violenza è una
condizione irrinunciabile anche solo per iniziare la via dello yoga. Non è solo
Patanjali a indicare questa via, tutto l'Induismo, da cui nasce ogni forma di yoga
tradizionale, prescrive la non violenza. Ognuno è artefice del proprio destino e
purtroppo a volte anche del destino degli altri esseri. Patanjali ha definito
l'ignoranza proprio come considerare piacere ciò che arreca dolore. L'autore ha
inoltre precedentemente trattato le leggi del karma ovvero le conseguenze delle
azioni, proprio per far avere al lettore le basi di questi principi che ora sta
trattando: “Ogni azione che genera sofferenza ha una conseguenza sia nel presente
che nel futuro” (YS 2:12).
E' necessario chiarire che viene considerata violenza ogni azione in cui si vuole
nuocere, in cui si esprime la specifica intenzione. Se la colpa deriva da un'azione
fatta senza volontà, non è una colpa. Gli animali non hanno colpe, l'ignorante si,
perché sa di nuocere. Inoltre, secondo le regole del karma, quando un'azione
comporta inevitabilmente una sofferenza, bisogna scegliere la sofferenza minore.
Focalizzandoci un momento su alcuni temi divenuti di conversazione comune, possiamo
dire che per questi motivi chi pratica l'ahimsa adotta determinate regole
alimentari, è inutile forzare il ragionamento in altre direzioni. Ma anche, per le
ragioni legate alla volontà o all'evitabilità del nuocere, gli yogin non andranno
in giro con la mascherina davanti alla bocca per non inspirare i microrganismi,
come fanno alcuni sacerdoti gianisti, oppure non denigreranno l'agricoltura perché
può comportare la morte di alcuni insetti. E ancora, per analizzare alcune
obiezioni comuni nella dialettica, ma forse un po' sciocche, anche se mangiare
frutti comportasse veramente la sofferenza delle piante, non nutrirsi sarebbe
considerabile violenza contro se stessi e quindi un male peggiore.
Qualcuno, infine, traduce ahimsa con “amore”, è suggestivo e corretto, ma secondo
chi scrive un po' forzato, amore in sanscrito si indica con la parola “rati”. Non-
violenza significa comunque sicuramente anche “amore”.

Il secondo precetto delle regole etiche è Satya, termine sacro in tutto l'oriente
che significa “la Verità”, concetto che si spinge un po' oltre alla verità di
pensiero, parola ed azione, oltre al vivere senza menzogna ed essere se stessi.
Satya, Verità, è uno dei nomi di Visnù. Le quattro nobili verità sono il principio
chiave del Buddhismo, duḥkha-satya: verità del dolore; samudaya-satya: verità
dell'origine del dolore ; nirodha-satya: verità della cessazione del dolore; mārga-
satya: verità della via che porta alla cessazione del dolore. Se ne potrebbe
parlare a lungo, ma credo che il significato profondo risuoni nel cuore di ognuno
di noi. Un aspetto ampiamente dibattuto nelle scuole filosofiche orientali è se
bisogna dire o agire secondo verità qualora questo comporti sofferenza o violenza;
gli esempi possono essere moltissimi e nei miti orientali sono molto comuni. La
risposta in merito è pressochè unanime: non bisogna agire secondo verità, quando
questo agire comporti sofferenza o violenza. Cosa fare se la verità rischia di
ferire? Nell’antico poema epico del Mahabharata, si discute questo apparente
dilemma: «La verità dovrebbe essere detta solo se piacevole e con modi piacevoli;
la verità che ferisce non andrebbe detta. Tuttavia non si dovrebbe mai mentire per
compiacere qualcuno». Queste azioni o menzogne diciamo “a fin di bene” seppure
inevitabili possono avere delle conseguenze non positive (cattivo karma), ma
comunque migliori di quelle che si verificherebbero se dicessimo la verità. La non
violenza è il primo ineluttabile principio e tutti i precetti sono in ordine di
importanza, quindi bisogna trasgredire quello meno importante qualora comporti
l'infrazione di quello più importante. Questa è la regola generale.

Asteya, l'onestà, può avere varie sfumature: dal semplice non rubare al non
desiderare le cose degli altri, dal non essere avari ad abbandonare il concetto di
“mio”, eccetera. Brahma-charya o morigeratezza, comporta il non abbandonarsi alle
passioni, ma in realtà il termine composto significa letteralmente “condotta in
armonia con lo spirito assoluto”, quindi anche in questo caso il concetto va
leggermente oltre la continenza sessuale o alimentare, di cui però costituiscono
l'inizio. Aparigraha, quinto e ultimo precetto etico, è il non-possesso ovvero il
possedere solo l'indispensabile. Ai monaci buddisti è concesso di possedere la
veste da indossare e la ciotola con la quale ricevere le offerte e sfamarsi. In
questo caso il necessario è ridotto "all'osso", ma ho conosciuto monaci, anche in
vista, che avevano nella stanza l'impianto Hi-Fi e questo non li rendeva
sicuramente dei trasgressori, ma il concetto alla base del precetto è anche che nel
tempo cambiano le necessità e che comunque ci sono delle priorità che devono avere
la precedenza rispetto al possesso, ad esempio legate ai primi quattro yama più
importanti rispetto a aparigraha.

31. Ete jati desa kala samayanavacchinnah sarvabhauma mahavratam


Queste cinque norme, che formano la prima grande regola dello yoga si applicano
senza riguardo al ruolo sociale, al luogo, al tempo o alle circostanze.

Patanjali sembra aggiungere a margine: “non cercate scuse invocando principi sopra
di voi”. Come dicevamo, l'infrazione può essere giustificata esclusivamente dal
rispetto di uno dei principi più elevati, di cui la non violenza è quello più
elevato di tutti, che non può essere mai infranto. Non è possibile trovare
giustificazioni dell'infrazione legate ai tempi, ovvero affermare che oggigiorno
ormai è anacronistico rispettare una certa prescrizione o che la società si è
evoluta percui rubare è diventata la prassi oppure addurre una giustificazione
legata al luogo in cui ci si trova, addossando agli usi e costumi di un certo paese
le nostre infrazioni. Quindi non possiamo appellarci nemmeno alle circostanze
contingenti , lo scoppio di una guerra o una catastrofe, oppure, molto importante,
al ruolo che si occupa nella società (l'autore scrive “jati”, termine che fa
riferimento alle caste, le caste a nostro giudizio esistono in ogni tempo e in ogni
luogo). Se siamo militari non siamo legittimati a fare violenza o uccidere a meno
che non scongiuri violenze più grandi, così come è esecrabile in ogni caso svolgere
compiti che comportano sofferenza evitabili a uomini o animali. Per questo motivo
determinati mestieri, come il conciatore, in India sono svolti quasi esclusivamente
da persone che hanno altri valori di riferimento, musulmani o fuori casta.

32:II. Sauca samtosa tapa svadhyayesvara pranidhanani niyamah


Niyama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi, si
compone di cinque regole:
>sauca: purezza,
>santosa: appagamento,
>tapah: disciplina, pratica intensa,
>svadhyaya: studio di se stessi‚
>isvara: abbandono allo spirito superiore.

Yama e niyama sono dieci regole generali, la tentazione di fare un raffronto con i
dieci comandamenti biblici potrebbe essere forte, ma, seppure alcuni punti siano
simili, siamo in un campo completamente diverso, le dieci regole di Patanjali
mirano alla crescita interiore, non sono proibizioni, sono passi progressivi in un
percorso.

La purezza a cui rimanda il primo precetto che dobbiamo rispettare verso noi
stessi, sauca, è la purezza di corpo, mente e spirito generata dal percorso
attraverso i sette chakra ed al conseguente fluire dell'energia, coerentemente con
l'interpretazione che avevamo fornito nei sutra precedenti (YS 2:27). Questa
purezza si raggiunge con la pratica di tutti gli otto passi dello yoga. Quindi, in
questa chiave, il più importante precetto morale è di praticare. Senza pratica non
c'e' yoga. Il termine può rimandare anche ad una purezza meno elevata, intesa come
igiene personale e dei luoghi di pratica, in questo contesto di massimi sistemi
sembra fuori argomento un tale riferimento, ma in India molti maestri citano il
concetto di sauca in rapporto all'igene. In realtà questo è coerente con lo schema
dei cinque corpi, da quello fisico a quello spirituale, propri del pensiero Indiano
ed ayurvedico, cui sauca si riferisce. E' una purezza complessiva quella che ne
risulta.

Il secondo punto è l'appagamento, o santosa, chiave di volta della cessazione dei


desideri e cardine del distacco. Una persona più saggia di me diceva che la
felicità è inversamente proporzionale alla differenza tra le mie aspettative e ciò
che sono oppure ho. Se le mie aspettative sono poche, sarò molto felice, se non ho
aspettative, la felicità tenderà all'infinito. Nella nostra cultura consumistica e
di bisogni indotti, seppure nessuno di noi aspiri probabilmente a diventare un
monaco, questo precetto è particolarmente prezioso. L'appagamento derivante da un
desiderio materiale realizzato può essere molto inferiore all'angoscia che esso ha
generato mentre era irrisolto, questo è un trucco della mente per mantenere il
predominio e mantenerci nella sofferenza. Il distacco è la chiave, diceva Patanjali
poco sopra. Questo principio può facilmente essere applicato a tutte le nostre
azioni, dobbiamo agire con distacco verso i frutti che trarremo, senza diventare
dipendenti da essi. Praticherò quindi le asana perché esse mi giovano sotto vari
aspetti, ma senza diventare schiavo del risultato; che riesca o meno a compiere una
posizione non ha importanza, è importante il tentativo; esisteranno sempre
posizioni che faccio con facilità e posizioni che non riesco a fare, il giusto
percorso è per Patanjali, come abbiamo visto, mantenersi nella massima intensità.
Il risultato finale è ininfluente e rischia di generare, come minimo, attaccamento,
ma anche invidia, frustrazione, mancanza di entusiasmo e falsi obiettivi (confronta
YS 1:30).

La disciplina o tapah, è, come abbiamo visto uno dei principi chiave della
pratica, ovvero l'intensità. Letteralmente significa calore, il calore che brucia
le impurità del corpo e della mente. Nel Rig Veda acquisirà il significato di
austerità. Allo stesso modo sia lo studio di se stessi che l'abbandono allo spirito
superiore o isvara sono concetti sui quali Patanjali già si è espresso. Come
sappiamo la pratica deve essere adattata alle esigenze personali e consiste in un
intenso e metodico esercizio lungo la via degli otto passi. In alcuni casi, proprio
quando l'obiettivo finale di ricongiungimento con lo spirito superiore sembra
precluso, al massimo dell'impegno, può essere necessario abbandonarsi.

33:II. Vitarka badhane prati paksa bhavanam


In caso di difficoltà causata da pensieri nocivi è possibile neutralizzarli con i
pensieri opposti.

34:II. Vitarka himsadayah krta karitanumodita lobha krodha moha purvaka


mrdumadhyadhimatra duhkha jnananantaphala iti pratipaksa bhavanam
I pensieri nocivi sono la violenza e le altre cause di dolore. Possono essere
compiuti direttamente, imposti con le parole o approvati mentalmente; provengono da
sentimenti di cupidigia, ira e altre condizioni di confusione; possono essere
deboli, medi o intensi e portano inevitabilmente dolore e sono causati
dall'ignoranza. Perciò è necessario coltivare le opposte inclinazioni.

L'esercizio proposto da Patanjali può sembrare banale, ma non lo è. Per eliminare


dalla mente i pensieri negativi o gli atteggiamenti che sappiamo arrecare
sofferenza, è sufficiente concentrarsi sui pensieri o sui comportamenti opposti.
Questo precetto ha moltissime applicazioni, come, ad esempio, soffermarsi sempre
sulle caratteristiche positive delle persone o delle situazioni, oppure eliminare
dalla mente un pensiero capendo che ci farà soffrire e che in quel momento abbiamo
bisogno dell'atteggiamento opposto. La violenza e tutte le sue conseguenze, possono
avere sfumature e gradazioni diverse, pensare ad una violenza verbale ad esempio,
non è come compiere una violenza fisica, ma, comunque, quale sia la gradazione,
l'unica certezza è che questi comportamenti causeranno sofferenza, seppure secondo
una scala di sfumature crescenti.
Coltivando inclinazioni, pensieri e azioni positivi, avremo un effetto positivo
sulla realtà che ci circonda.

35:II. Ahimsa pratisthayam tat sannidhau vaira tyagah


La solidità di aimsha, la non violenza, porterà l'abbandonano delle ostilità.

Vengono ora elencati gli effetti della pratica dei principi di yama e nyiama.
Questo passaggio può essere inteso con un duplice significato. Il primo è che
essendo noi stessi solidi nella qualità della non violenza indurremmo gli altri a
non essere violenti. Il secondo è che se tutti praticassero la non violenza nessuno
sarebbe ostile contro il prossimo perché verrebbe meno il motivo del contendere.
Entrambe le interpretazioni mi sembrano coerenti, accettabili e partecipi dello
stesso disegno che Patanjali sta tracciando tra procetti verso se stessi e verso la
società.
Questo sutra è spesso invece tradotto con una terza sfumatura ovvero che la sola
presenza dello yogin saldo in aimsha è sufficiente a disinnescare i conflitti,
semanticamente correttissimo, ma, a giudizio di chi scrive, leggermente limitante.
Il significato proposto è, crediamo, più generale e di senso comune.

36:II.Satya-pratisthayam kriya-phalasrayatvam
La solidità di satya, la verità, farà conseguire i frutti dell'azione senza agire.

Colui che è illuminato dalla verità riesce a trasmetterla agli altri rendendo
inutile qualsiasi azione. La verità è il fine ultimo. Quando la verità illumina
tutte le persone il fine è già raggiunto, non c'e' bisogno di ulteriori azioni.
Analogamente a quanto detto relativamente al sutra 35, non interpretiamo questo
sutra con la sfumatura che la sola presenza dello yogin basti a influenzare le
situazioni senza agire, infondendo la verità. Questa interpretazione porta poi come
estremizzazione ad affermare che la sola presenza del guru, del maestro, sia
sufficiente ad illuminare i discepoli. Patanjali non crediamo voglia dire questo, e
tale principio seppure esalti il ruolo del guru, limiterebbe il senso della
pratica, in contrasto con quanto sin qui esposto.

37:II. Asteya pratisthayam sarva ratnopasthanam


La solidità di asteya, l'onestà, farà raggiungere la ricchezza.

38:II. Brahma carya pratisthayam virya labhah


La solidità di brahmacharya, la morigeratezza, porterà l'acquisizione di energia.

39:II. Aparigraha sthairye janma kathanta sambodhah


La solidità di aparigraha, possedere solo l'indispensabile, farà comprendere lo
scopo dell'esistenza.

L'onestà è in realtà essa stessa una ricchezza, percui una volta raggiunta
un'onestà senza tentennamenti o la comunione con le persone con le quali viviamo,
saremo già ricchi. Allo stesso modo l'energia non si consegue soltanto bruciando,
trasformando altre energie, ma anche risparmiando queste.

Sono state elencate quindi tutte e cinque le osservanze delle norme di


comportamento etiche verso gli altri e capiamo meglio come mai queste siano passi
successivi, partendo dalla prima, più importante, perché venendo a mancare cadono
tutte le altre, piano piano si arriva allo scopo ultimo, al quale partecipano tutte
le precedenti. Non possedere cose materiali, il non-possesso, il non attaccamento
ai concetti di dolore e soprattutto piacere, porterà lo yogin a comprendere il
senso dell'esistenza, ovvero la sapienza più elevata.

40:II. Saucat-svanga-jugupsa parair-asamsargah


Sauca, la purezza, farà raggiungere il distacco dalle cose materiali.

41:II. Sattva-suddhi-saumanasyaikagryendriya-jayatma-darsana-yogyatvani
La purezza genera felicità, potere di concentrazione, controllo dei sensi, e
capacità di realizzare il Sé.

42:II. Samtosad-anuttama sukha-labhah


Santosa, l'appagamento, genera la felicità suprema.

43:II. Kayendriya-siddhir-asuddhi-ksayat-tapasah
Tapah, la disciplina, elimina le impurità e porta la perfezione del corpo e dei
sensi.

44:II. Svadhyayad-ista-devata-samprayogah
Svadhyaya, lo studio di se stessi‚ porta a percepire la propria parte spirituale
individuale.

45:II. Samadhi-siddhir-isvara-pranidhanat
Isvara, l'abbandono allo spirito superemo, porta all'unione dello spirito
individuale con lo spirito superemo.

Patanjali elenca ora i frutti delle cinque osservanze delle norme morali verso se
stessi. La pratica, il cui scopo è la purificazione, porterà al distacco dalle cose
del mondo e la possibilità di accedere alle successive qualità. Il ragionamento è
motlo lineare.
La pratica porta alla purificazione, si superano cioè gli elementi grossolani del
proprio essere, si acquisisce sottigliezza, raffinatezza, si diviene “il tempio
dell'essere surpemo” a cui ci si ricongiunge. Alcuni osservano giustamente che
l'atteggiamento di Patanjali non è moralistico, egli non afferma di non nuocere al
prossimo e di rispettare gli altri precetti perché esiste una legge superiore, ma
solamente con lo scopo di purificare se stessi e trascendere il proprio spirito. La
punizione è una vita infelice in questo mondo e cattive conseguenze delle nostre
azioni.

Avendo regolato le norme di comportamento verso noi stessi e verso gli altri,
possiamo giungere all'obiettivo finale dello yoga ovvero il samadhi, il
ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito superemo. Se questi
fossero visti unicamente come passi successivi, non avremmo necessità di aggiungere
altri passi alla nostra pratica. Come abbiamo detto più volte, sono passi
successivi, ma si influenzano l'un l'altro favorendo il raggiungimento degli
obiettivi. Le successive pratiche concorreranno al conseguimento di yama e niyama.
E' stato dibattuto se gli spiriti illuminati potrebbero non avere necessità della
pratica costituita dai successivi passi sulla via dell'ashtanga yoga, ma la
questione non ci sembra di particolare interesse.

Nel prossimo articolo tratteremo il tema che forse più interessa i praticanti
moderni, le posizioni o asana, gli esercizi di respirazione e la meditazione.

Yoga Sutra: Asana, Pranayama, Pratyahara, IIIa parte II° libro [YS2:29-55]
luglio 28, 2017

Rullo di tamburi... ecco che Patanjali arriva a parlarci delle asana (posizioni),
della respirazione e della meditazione. Secondo molti questa è la parte più
avvincente e poetica dell'intera opera. Questi aspetti specifici della pratica
saranno ripresi dalle opere classiche successive, come ad esempio l' Hatha-Yoga
Pradipika, la Gheranda Samhita e la Shiva Samhita, datate intorno al 1400 DC,
approfonditi e trattati in modo più analitico. Poco dopo la redazione dell'Hatha-
Yoga Pradipika si creeranno due scuole principali di yoga, il Raja Yoga,
focalizzato in modo uniforme su tutti gli otto passi dei sutra di Patanjali e
l'Hata Yoga, incentrato maggiormente su asana, pranayama e meditazione. Oggi giorno
nel mondo, India compresa, l'impostazione dell'Hata Yoga è predominante. Stiamo
parlando comunque di sfumature, tutte le scuole di yoga del presente e del passato
raccomandano che si faccia ordine nella propria vita per dedicarsi alla pratica
delle asana o alla meditazione, semplicemente perchè, come sanno tutti i
praticanti, una vita caotica e sregolata rende estremamente difficile già solamente
sedere a gambe incrociate. A volte iniziare la pratica può però rappresentare uno
stimolo per cominciare anche il processo di revisione del proprio comportamento.
Come sempre i passi del percorso sono successivi, ma integrati e collegati.
"Pratica e tutto il resto seguirà", la famosa frase del maestro Pattabhi Jois, è da
interpretarsi secondo noi in questa direzione.

Un'osservazione che muovono spesso i sostenitori del Raja Yoga è quella che
Patanjali non avrebbe dedicato molto spazio alle asana o almeno ne dedicherebbe
meno rispetto l'importanza attribuita ad esse dagli "eretici" fautori dell'Hata
Yoga. "Patanjali non cita nemmeno una posizione!" rincarano. Per bilanciare il
discorso, basti ricordare che, secondo il mito, lo yoga è stato ideato da Shiva,
dopo una meditazione di migliaia di anni e carpito da Matsyendra, il signore dei
pesci, per donarlo agli uomini, quando il Dio lo stava insegnando a sua moglie
Parvati. Lo yoga ideato da Shiva consta di otto milioni e mezzo di asana, o un po'
meno a seconda delle versioni. Il mito vuole chiaramente dirci che le posizioni
dello yoga sono tutte le posizioni che il corpo può assumere. Questo concetto unito
a quanto affermato in precedenza da Patanjali, cioè che la pratica deve essere
personale e secondo il modo che piace di più allo yogin, ci fa capire che un elenco
di posizioni avrebbe poco senso all'interno di questa opera.

Ma veniamo ora ai magnifici sutra che descrivono le asana:

46. sthira sukham asanam


Le asana, o posizioni, sono stabili e comode.

47. prayatna saithilya ananta samapatti bhyam


Questo avviene abbandonando ogni sforzo e unendosi con l'infinito.

48. tato dvandva anabhighatai


Così cessa la sofferenza causata dalle coppie di opposti.

Sappiamo dalla precedente esposizione del concetto di tapah, che la pratica deve
essere intensa, ma a completamento del quadro di insieme, si aggiunge ora che le
asana devono mirare a diventare solide e comode. Nei sutra 46 e 47, in sei parole,
c'è un'opera intera, l'autore ha composto due sutra perfetti:

sthira (=facile, comodo) sukham (=stabile, forte) asanam

prayatna (=ogni sforzo) aithilyananta (=abbandonando)

Patanjali non è un ginnasta, avendo spiegato l'unione tra mente, corpo e spirito,
indica come la grazia del corpo permetta di raggiungere la grazia della mente con
cui iniziare a intravedere la grazia dello spirito. Passo dopo passo sempre più in
profondità dentro noi stessi, sempre più verso l'alto, verso percezioni sottili ed
elevate. Le asana non devono indurre sofferenza al corpo, ma essere stabili e
confortevoli, non si parla di contorsioni o di forzare il fisico, ma di una zona di
confort. Di contro, Patanjali afferma che stabilità e semplicità di esecuzione si
realizzano abbandonando lo sforzo verso uno scopo, prayatna, quindi
presumibilmente, precedentemente l'intensità richiesta era dovuta in parte ad uno
sforzo e ad uno scopo, che però si deve mirare ad abbandonare e a trascendere.
Sukham è la forza che nasce dalla stabilità. Cercando una sintesi potremmo dire che
la pratica deve andare verso l'intensità nella stabilità e mai verso la tensione.
Secondo questo precetto si avrà un'evoluzione naturale verso posizioni che portano
il corpo ad una maggiore intensità qualora si raggiunga una mancanza di intensità
nelle stesse, ma mirando sempre ad una stabile e forte esecuzione. E' anche chiaro
che in questa ottica, non esistono due persone che eseguiranno la stessa posizione
allo stesso modo e che solamente noi stessi possiamo capire la giusta intensità.

prayatna shaithilya (= l'abbandono di ogni sforzo) ananta (= cio che è senza


confini, l'infinito) samâpattibhyâm (=contemplazione)

La stabilità e semplicità di esecuzione si realizza anche unendosi con ciò che non
ha confini, unendosi con l'infinito, cioè quando si raggiunge uno stato di quiete
meditativa durante la pratica fisica. Il concetto è molto bello. Come realizzare
questo aspetto è chiaramente del tutto soggettivo, per alcuni si verificherà con
una danza del corpo e del respiro, per altri con l'immobilità nell'equilibrio e
nella flessibilità, per altri anche solo sedendosi a gambe incrociate, non esiste
una ricetta valida per tutti, ognuno dovrà trovare le sue posizioni e la sua
pratica. La pratica fisica influenza la mente e lo spirito e a sua volta è da loro
influenzata. L'abbandono e la quiete meditativa non si possono forzare, potrò
ricercarle, facendo una serie di operazioni che so' portarmi in quella direzione,
ma il viaggio è sempre unico, irripetibile e mai scontato. Credo che questo sia uno
dei motivi per il quale moti di noi amano lo yoga. Qualcuno porta come esempio il
sonno: non è possibile decidere di addormentarsi, ma liberando la mente,
sdraiandosi e spegnendo la luce, con una buona dose di stanchezza, generalmente si
riesce, ma spesso, ossessionandoci con il pensiero di dormire, otteniamo l'effetto
opposto. Per la pratica è la stessa cosa, lasciamola accadere contemplando
l'infinito. La mente è allenata a porre limiti, Patanjali suggerisce il percorso
inverso, farla andare verso ciò che non ha limiti.

tato (=così) dvandva (=dagli opposti) anabhighatai (=la libertà)

Le asana portano alla beatitudine generata dal superamento delle sensazioni e dei
sentimenti, alla libertà che solo chi pratica ha sperimentato. Grazie alle asana si
giunge ad un benessere assoluto oltre gli aspetti fisici o mentali, oltre le coppie
di opposti, il caldo e il freddo o il piacevole e spiacevole, oltre i concetti di
bene e male, rilasciando ogni sforzo e percependo l'infinito. Questo è il concetto
che il Buddha Siddharta, che visse dopo Patanjali, indicherà come la via di mezzo,
majhim nikaya. Il viaggio solitamente inizia dal corpo e pervade la mente e lo
spirito, ma la distinzione è fittizia e il percorso soggettivo. Le posture fisiche
sono il mezzo per giungere al distacco dalle cose materiali e capire che abbiamo in
noi qualcosa di molto grande e molto elevato. Gli Yoga Sutra sono una perla di cui
tutti gli yogin devono essere grati.

49. tasmin sati svasa apravasayor gati vicchedai pranayamah

Da qui, il passo successivo è l'espansione del respiro, il pranayamah, che consiste


nell'inspirare, nell'espirare e nell' interrompere il flusso.

50. bahya abhyantara stambha vettir dea kala saokhyabhi parideo dirgha sukemai

Quando si osserva attentamente la durata e la frequenza di inspirazione,


espirazione o ritenzione, i respiri diventano sempre più prolungati e sottili.

51. bahya abhyantara visayaksepi caturthah

A questo punto si trascendono inspirazione, espirazione e ritenzione in una quarta


tipologia di respirazione.

52. Tatah ksiyate prakasa avaranam

Quindi si affievolisce e scompare il velo che offusca la realtà.

Il respiro è il collegamento tra corpo, mente e spirito o, meglio, ciò che ci fa


percepire l'unità di questi tre aspetti. Le posture solide, la mente focalizzata
sull'infinito e la percezione dello spirito si fondono grazie al ritmo unisono
impartito dal respiro. Il respiro riflette in modo estremamente puntuale le
variazioni assunte dal corpo, le oscillazioni della mente e gli sguardi sullo
spirito. Quale strumento migliore quindi per dominare tutta la nostra essenza? Per
Patanjali il respiro rappresenta l'espansione della forza vitale, l'accesso e
l'incameramento dell'energia che tutto pervade, il prana. Il termine prana
(=energia) - yama (=espansione) si spinge quindi un poco oltre al concetto di
controllo del respiro, come generalmente, per brevità, viene tradotto. Secondo i
principi dell'ayurveda, alla base delle enunciazioni di Patanjali, ogni nostra
cellula partecipa all'assunzione di energia mediante la respirazione, partecipando
alla forza vitale dell'universo e ad una vibrazione che tutto pervade, ad un ritmo
vibratorio inspirazione-espirazione, che fa pulsare tutto l'universo. Le scuole
tantriche successive approfondiranno molto questo concetto che chiameranno spanda.
Ma non vogliamo spingerci così oltre, basti sottolineare come e perchè per il
nostro autore, il respiro è il collegamento e il mezzo per controllare il nostro
essere tutto: corpo, mente e spirito.
Anche in questo caso l'autore non fornisce indicazioni di dettaglio, ma ognuno
troverà la migliore modalità per realizzare quanto indicato: qualcuno preferirà
trovare il giusto ritmo del respiro in movimento durante asana più o meno intense,
come alcune scuole himalayane, altri seduti immobili in posizioni più meditative
oppure assumendo posture che secondo le scuole ayurvediche incanalano i flussi
energetici in modi particolari, i cosiddetti mudra, altri un insieme di tutto
questo e così via.

Inspirare, espirare e sospendere per alcuni attimi il respiro tra l'uno e l'altro,
è un gesto meccanico, portare consapevolezza su questo atto è già un passo
importante. Lavorare sull'espansione ed il potenziamento del respiro è un punto
cruciale dello yoga di Patanjali, ma di qualsiasi scuola di yoga. Il pranayama, gli
esercizi di respirazione, o, meglio, gli esercizi di controllo dell'energia,
portano a prolungare sempre dippiù le varie fasi della respirazione, rendendo
lungo, flebile e uniforme ogni respiro. Molte opere successive indicheranno una
serie di tecniche di condizionamento del respiro da molto semplici a molto
complicate, ma come ormai abbiamo visto, a Patanjali non interessano i dettagli
tecnici, lui indica la strada anche ai maestri, loro sapranno come seguirla e
condividerla.

Il sutra 51 si presta ad una duplice interpretazione, riportiamo entrambe perché


in qualche modo complementari e comunque degne di nota. Il quarto tipo di respiro,
oltre inspirazione, espirazione e ritenzione, è da alcuni considerato il flusso
continuo di puro prana, che trascende ed affianca inspirazione ed espirazione
grossolani, che insorge quando si ha un livello di pratica avanzato, un modo di
respirare distaccato, da osservatore, in un respiro che tutto unisce. Secondo
altri il quarto tipo di respirazione sono le apnee spontanee che insorgono talvolta
in uno stato di coscienza molto elevato, nel quale comunque il prana fluisce in
modo fluido attraverso il corpo. A giudizio di chi scrive queste due
interpretazioni sono vere e valide entrambe. Molti praticanti di pranayama si
focalizzano in modo spasmodico sulle apnee spontanee, ma secondo quanto appena
detto, l'apnea spontanea è una forma di respiro pranico consapevole.

Infine, traducendo letteralmente, si dissolve il velo che copre la luce.


Personalmente questo sutra mi ha aiutato a comprendere meglio cosa si intenda per
illuminazione, cioè percepire senza l'oscuramento della falsa conoscenza e dei
sensi. Senza mezzi termini Patanjali sta affermando che posture fisiche, asana, e
espansione del respiro, pranayama, praticati congiuntamente alle norme di
comportamento, yama e nyama, portano all'illuminazione. Diversamente dal Buddha,
per lui non è questo l'ultimo gradino del percorso.

53. Dharanasu ca yogyata manata

Quindi la mente non ostacola più la capacità di concentrazione, Dharana.

54.Sva-visayasamprayoge citta-svarupanukara ivendriyanam pratyaharah

Pratyahara, il ritiro dei sensi, consiste nell'abilità di rinunciare alle


percezioni esteriori.

55. Tatah parama vasyatendriyanam

Quindi si ha la completa padronanza su tutti i sensi esterni.


Ora la pratica dello yoga si sposta completamente all'interno di ognuno di noi. E'
una semplificazione e in realtà il confine non esiste, ma questa semplificazione
può aiutare a comprendere questo ulteriore passaggio. Con l'illuminazione dovuta
all'eliminazione del velo che offusca la percezione della realtà, è divenuto
possibile contemplare la nostra parte spirituale, il nostro spirito individuale e
su di esso spostare la nostra concentrazione. A questo punto siamo completamente
assorbiti verso il nostro interno, i sensi e ciò che è esteriore sono tagliati
fuori. Pratyahara, che abbiamo sempre tradotto con il ritiro dei sensi, è
interpretabile, in modo molto letterale, anche come "il ritorno alla sorgente", il
ritorno verso lo spirito assoluto da cui il nostro spirito individuale proviene, di
cui Patanjali ha trattato approfonditamente nel primo capitolo, si è preferita la
prima traduzione perchè di più immediata comprensione. Questo è l'inizio del
viaggio interiore dello spirito individuale verso lo spirito assoluto, che
terminerà con il samadhi ovvero il ricongiungimento dei due. Le persone o i santi
uomini che stanno sedute a gambe incrociate per ore, per giorni, per anni, sono
immerse in questo viaggio che inizia con il rivolgimento verso l'interno e il
distacco dai sensi. Meglio ancora, che inizia comportandosi con regolatezza,
praticando le asana e uniformando il respiro alla vibrazione dell'universo per poi
giungere dentro ognuno di noi. In realtà non c'è più contrapposizione tra interno
ed esterno, ogni cosa è al suo posto e si prosegue il cammino con quello che per
semplicità espositiva potremo considerare come una fase successiva, approfondita da
Patanjali nella prima parte del terzo libro, che poi, nella seconda parte si
occuperà dei premi che il successo nel percorso della pratica potranno donare agli
yogin.

Yoga Sutra: i doni dello yoga, prima parte III libro [YS2:29-55]
agosto 11, 2017

Il terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali tratta dei risultati che si conseguono
con la pratica dello yoga, intesi anche come obiettivi finali e livelli più alti
della pratica stessa. Personalmente è un libro che ritengo di grande ispirazione.
L'argomento a questo livello diventa piuttosto elevato e sotto alcuni aspetti anche
più comlplesso. Il terzo libro tira un po' le fila di quanto detto finora e
probabilmente per questo motivo si evidenzia in modo particolare la coerenza del
discorso e le interpretazione fornite sino a questo punto. L'idea di pubblicare una
nuova traduzione dei sutra sullo yoga è nata proprio dalla lettura di molte
traduzioni del terzo libro che interpretavano questi passi come il conseguimento di
"superpoteri", come l'invisibilità o la telepatia, raggiunti mediante la
meditazione su questa o quella cosa. Vedremo che interpretazioni alternative non
solo sono possibili, ma forse più coerenti con quanto enunciato sin qui
dall'autore, pur rimanendo fedeli al significato letterale.
Ma veniamo ora al testo, Patnjali alla fine del secondo libro, stava enunciando
gli ultimi due passi degli otto che costituiscono il suo Ashtanga Yoga
(Ashta=otto, anga= passi), ovvero la concentrazione e la meditazione, il discorso
riprende da questo punto senza soluzione di continuità introducendo poi anche
l'ultimo passo, il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito
assoluto, questi ultimi sono gli strumenti più elevati di tutta la pratica.

Libro Terzo: Vibhuti


Capitolo sui Poteri

YSIII:1 desha bandha cittasya dharana


Dharana, la concentrazione, è l'attenzione cosciente sulla pratica.
La concentrazione durante la pratica è un passo essenziale e consiste, banalmente,
nell'essere attenti ed immersi nel momento presente. Questo è un meccanismo
cosciente in cui, semplificando, possiamo dire che i pensieri sono rivolti
interamente a quanto si sta facendo. Credo che il concetto sia molto chiaro a chi
pratica asana e pranayama. La pratica deve essere intensa proprio perché in questo
modo si lascia meno spazio alla mente di divagare, una pratica intensa più
facilmente coinvolgerà tutti i miei pensieri impedendo distrazioni. La
concentrazione è una parte imprescindibile dell'intensità.
La traduzione di questo sutra è fondamentale per l'interpretazione dei prossimi,
la traduzione più ricorrente che viene fornita è: "Dharana, la concentrazione,
consiste nel fissare la mente sull'oggetto su cui si medita." Questa traduzione,
seppure in linea con certi tipi di meditazione buddista, porterà poi a confondere
l'attenzione a ciò che si sta facendo con l'attenzione su qualcosa. A supporto
della nostra interpretazione, che non nascondiamo essere minoritaria, possiamo dire
che essa è letterale in quanto desha, oltre ad oggetto, può significare anche luogo
della pratica ovvero la pratica stessa. Torneremo su questo concetto.

YSIII:2. tatra pratyaya ikatanata dhyanam


Il passo successivo è dhyana, la meditazione, l'ininterrotto flusso della
percezione profonda.

Dopo la concentrazione sulla pratica e grazie ad essa, il praticante potrà


sperimentare il passo successivo, la meditazione, che consiste in uno stato di
assenza dei pensieri che ci permette di vedere il nostro spirito, avendo escluso la
mente. Come dicevamo, se la mente può essere a sua volta osservata, cesserà
l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri e comparirà la consapevolezza
che ciò che sta osservando la mente è qualcosa di più elevato ovvero il nostro
spirito. Questa è la percezione profonda, pratiyaya, ricordiamo a questo proposito
il sutra I,25: “Successivamente, grazie alla pratica continua, resta solamente la
percezione profonda dello spirito universale”. La meditazione è una prolungata
assenza di oscillazioni della mente, percezione profonda che ci permette di vedere
il nostro spirito individuale. Non vogliamo qui fare l'esegesi delle traduzioni del
testo, ma analogamente al sutra precedente, una corrente predominante traduce:
"Dhyana è l'ininterrotta fissità della mente sull'oggetto".

YSIII:3. Tadeva artha matra nirbhasam svarupa sunyam iva samadhih


Poi si raggiunge il samadhi, l'unione dello spirito individuale con lo spirito
assoluto, la beatitudine derivante dalla contemplazione in cui sparisce il soggetto
che osserva.

Successivamente, grazie alla meditazione, ma anche grazie a tutti e sette i


precedenti passi, si arriva allo stadio finale della pratica, il più elevato di
tutti. La percezione profonda ci ha fatto scoprire lo spirito individuale, ora
questo ci permette di contemplare lo spirito assoluto ovvero di ricongiungere lo
spirito individuale con lo spirito assoluto che tutto pervade. Tale illuminazione,
ovvero l'osservazione spirituale della realtà senza i veli dell'ignoranza, porta ad
uno stato di beatitudine. Questo potrebbe sembrare un concetto astratto, ma non lo
è, Patanjali si riferisce esattamente al momento in cui in particolari momenti
della vita, dopo una pratica sistematica e intensa, composta in modo ottimale
secondo le proprie esigenze tra asana, respirazione, concentrazione e tutto quanto
detto in precedenza, arrivati alla meditazione, si sperimenta uno stato di
beatitudine assoluto. Il soggetto che osserva scompare perché si fonde con lo
spirito che viene osservato. E' un concetto molto bello ed elevato. Come sanno
tutte le persone che praticano con una certa continuità, il percorso che conduce a
questo punto, nonché le sensazioni che si provano e la durata di questi processi
sono vari quanto sono vari gli esseri umani, ma non sono concetti astratti. Chi ha
interpretato questi ultimi tre passaggi come passi della mente, cosa che a noi
sembra in contrasto con i primi due libri degli yoga sutra, traduce questo sutra
come: “il Samadhi si ha allorché, la mente si unisce all'oggetto osservato”. Lungi
dal fare polemica con traduttori ben più titolati di chi scrive, mantenendo però
questa linea, il tutto diviene un pochino meccanico e il primo libro sul samadhi
sembra fuori contesto.

YSIII:4. trayam ekatra samyamaḥ


Questi tre passi sulla via dello yoga, dharana, dhyana e samadhi, generano la
perfetta integrazione, detta samyama.

Concentrazione, meditazione e unione con lo spirito assoluto, ultimi tre passi


della pratica sono tra loro sinergici ovvero la loro somma produce un risultato
accresciuto rispetto all'unione dei singoli elementi che la compongono. In realtà
questo è vero per tutti e otto i passaggi sin qui trattati. Con samyama,
l'integrazione, Patanjali non sta introducendo un nono passo, quello che vuole qui
affermare è che per sperimentare il vero samadhi, la vera contemplazione dello
spirito assoluto è necessario padroneggiare perfettamente questi tre passaggi,
inoltre si ribadisce che i passi sono integrati e che in particolare gli ultimi tre
sono proprio inseparabili l'uno dall'altro, per arrivare all'ultimo dobbiamo
continuare ad essere stabili anche nei due precedenti, concentrazione e
meditazione, altrimenti è impossibile. In realtà il testo di Patanjali è molto
sintetico e letteralmente dice: “integrazione, i tre come uno”, che abbiamo
parafrasato, ma il cui concetto è chiaro.

5. taj jayat prajoalokaj


Padroneggiando l'integrazione di questi tre aspetti, samyama, emerge la luce della
somma consapevolezza.

6. tasya bhumisu viniyogah


L'integrazione, Samyama, si sviluppa per gradi.

7. trayam antar angam purvebhyah


Questi tre passi sulla via dello yoga, dharana, dhyana e samadhi, hanno conseguenze
interiori più profonde se paragonati ai cinque che li precedono.

8. tad api bahir aogam nirbijasya


Tuttavia sono esterni, se paragonati al samadhì quando sopraggiunge senza
l'intervento della volontà.

Arrivati quindi a percorrere tutti e gli ottto passi della via dello yoga e in
particolare grazie alla perfetta integrazione degli ultimi tre, giunti al samadhi,
si giunge alla massima consapevolezza spirituale, obiettivo finale dello yoga.
Questo stato finale ha comunque a sua volta dei gradini e dei livelli. Il samadhi
può essere intuito, sperimentato per brevi momenti oppure in modo stabile e
sistematico. Nulla si compie d’improvviso, ma tutto è invece risultato di un
processo lungo e costante.
Dicevamo che non ci piaceva la divisione tra aspetti fisici ovvero i primi cinque
passi e aspetti spirituali, ovvero gli ultimi tre gradini, perché induce una
separazione che non è propria dell'autore. Patanjali afferma tuttavia che dharana,
dhyana e samadhi siano aspetti della pratica che portano lo yogin ad una maggiore
introspezione rispetto ai passaggi precedenti, questo è un dato di fatto. Le norme
di comportamento, ma soprattutto asana, respirazione e ritiro dei sensi, comportano
l'uso dei sensi e del pensiero che invece in questi altri passi tenderemo
gradualmente a superare. Preso contatto cosciente con “l'nteriorità” e i flussi di
energia, il praticante può dedicarsi all’uso dei mezzi soggettivi e intimi. Come
spesso accade ritengo che questi passaggi appaiano più chiari a chi pratica yoga
rispetto a chi si occupa dei sutra da un punto di vista puramente filosofico.
Patanjali ritorna poi a ribadire quanto già accennato alla fine del primo libro
ovvero che esistono due tipi di ricongiungimento con lo spirito universale,
samadhi, uno meno elevato che si raggiunge grazie all'intervento della volontà,
perché perseguito e ricercato, ed uno più elevato, che si consegue senza
l'intervento della volontà, involontariamente. Questo stadio rappresenta la massima
introspezione possibile in cui si riesce ad osservare la propria parte divina o
meglio ci si fonde con la divinità presente in se stessi. Soggetto contemplante
ovvero me stesso e oggetto contemplato, ovvero ciò che sento, ciò che emerge
dall'esclusione della mente, lo spirito, diventano una cosa sola.

9. Vyutthana nirodha samskārayoh abhibhava pradurbhavau nirodhaksana cittānvayo


nirodha parināmah
Nel percorso verso l'immobilità è importante la transizione tra concentrazione e
meditazione, quando da uno stato si passa al successivo.

10. tasya prasanta-vahita samskarat


Quando questo passaggio diviene stabile come flusso, la percezione dello spirito
diviene stabile.

11. sarvarthataikagratayh ksayodayau cittasya samadhi parinamah


La transizione tra concentrazione e meditazione sorge quando cessa la
concentrazione su singoli aspetti e non interviene nessuna distrazione.

12. tatah punah satoditau tulya pratyayau cittasya ikagrata parinamah


Poi ancora, la transizione da concentrazione a meditazione diviene unidirezionale
quando diventa stabile la sospensione della concentrazione su aspetti mutevoli.

I sutra tra 9 e 12 sono tra i più controversi di tutta l'opera, non annoieremo il
lettore con una panoramica delle interpretazioni. Operando qualche semplificazione
diremo che l'oggetto di cui si sta parlando è l'evoluzione delle fasi di controllo
della mente, della consapevolezza e dello spirito. Particolarmente difficile è la
transizione dalla concentrazione alla meditazione ovvero l'acquietazione definitiva
delle oscillazioni della mente, definizione dello yoga stesso secondo quanto
affermato nell'apertura dell'opera: yoga citta vritti nirodha, lo yoga consiste
nella cessazione delle oscillazioni della mente. Il passaggio tra concentrazione
e meditazione è difficile e cruciale nella pratica. Chi pratica lo sa bene ed è il
motivo per il quale è generalmente necessario prepare questo passaggio con intensi
asana e pranayama. Patanjali suggerisce che riusciremo a sperimentarlo
sistematicamente e a portare avanti la meditazione per un periodo sufficientemente
lungo e costante, senza essere richiamati indietro dalla concentrazione su alcun
aspetto o elemento, grazie ancora una volta all'esercizio di una pratica costante.
Questo esercizio eviterà che si interrompa la meditazione per tornare nuovamente ad
uno stato di concentrazione e quindi di attenzione su qualcosa.
Vogliamo richiamare l'attenzione sul passaggio tra consapevolezza e integrazione
definitiva e stabile tra corpo, mente e spirito. E' necessario secondo l'autore
prendere consapevolezza di questi tre aspetti, ma nello stato meditativo si
trascende questa separazione che capiremo solamente ora essere fittizia, seppure
funzionale.

13. etena bhutendriyesu dharma-laksana-avastha parinama vyakhyatah


Grazie a questa pratica si comprendono le proprietà di tutte le cose: le
caratteristiche, la forma materiale e le evoluzioni.

14. san odita avyapadesya dharmanupati dharmi


Vengono comprese tutte le cose, siano esse latenti, attive o non manifeste.

15. kramanyatvam parinamanyateve hetuh


Le differenze nel livello individuale raggiunto produrranno una varietà di
esperienze mentali e spirituali.

Si entra quindi nel vivo della trattazione dei risultati che la via dello yoga
permette di ottenere, come indicato dal titolo stesso del presente capitolo. Il
raggiungimento dello stato finale della pratica, permette di conoscere la vera
essenza del mondo e di vedere sotto una nuova luce la realtà, di approcciarsi in
modo differente con il mondo. Oltre al mondo materiale, si comprendono anche gli
aspetti spirituali e le leggi che regolano il tutto.
Le esperienze che deriveranno dall'osservazione dipenderanno sicuramente dal
livello raggiunto nella pratica, perché, anche a questo sommo gradino, esistono
livelli più o meno alti. Aggiungeremo che non ci saranno due persone che
percepiranno le medesime esperienze, perché strettamente personali e individuali.

16. parinamatraya-samyamat-atitanagata jnanam


Praticando i tre tipi passi dell'integrazione, samyama, si perviene alla chiara
analisi del passato e del futuro.

La pratica integratra della concentrazione, della meditazione e del


ricongiungimento con lo spirito assoluto porta ad una chiarezza mentale tale che il
passato diviene oggettivo, non più mediato dalla nostra interpretazione. Allo
stesso modo tale chiarezza permette di vedere nel futuro con oggettività, senza
l'intervento dei nostri desideri, delle nostre speranze. L'uomo continuamente
illuso dalla speranza, strumento per rendere sopportabile la vita di chi è schiavo
dell'ignoranza, è ora liberato. Sembrerebbe a chi scrive fuori luogo spingere il
discorso nel senso della chiaroveggenza del passato inteso come storia e fatti ai
quali non si è assistito oppure del futuro inteso come predizione dello stesso.
Questa linea interpretativa è però abbastanza diffusa e, soprattutto nel secolo
passato, abbondavano yogin che dichiaravano di avere “superpoteri” o che
raccontavano i miracoli compiuti dai loro maestri. Ne è un chiaro esempio l'opera
“Autobiografia di uno yogi” di Paramahansa Yogananda, grande classico della
letteratura e racconto senza soluzione di continuità di miracoli di ogni tipo. Non
si vuole qui ovviamente criticare quest'opera, tralaltro di grande interesse, ma
solamente affermare che, contrariamente ad una ben attestata linea interpretativa,
non riteniamo che Patanjali si riferisca a poteri miracolosi, ma si riferisca a
doti spirituali.

17. sabdartha pratyayamam itaretaradhyasat samkarah tat pravibhaga samyamat


sarvabhuta ruta jnanam
La pratica porta alla comprensione delle parole di tutti gli uomini, del loro
significato e della loro essenza spirituale.

La chiarezza mentale porta il praticante ad afferrare le parole nei loro tre


strati di significato ovvero il suono prodotto, ciò che vogliono rappresentare e
ciò che vogliono intendere.
E' possibile interpretare questo sutra anche in un altro senso, più religioso, nel
senso che diventa possibile comprendere il Verbo, il suono primigenio ed il suo
significato. Non convince però questa interpretazione perché il termine usato per
parola è sabda e non ad esempio Om, ananat o simili. Si riporta questa
interpretazioni perché per alcuni autori è fondamentale per capire addirittura
tutta l'opera di Patanjali, o meglio forse, del significato che a questa loro
vogliono attribuire.

18. samskara-saksatkaranat purva-jati-jnanam


Osservando le impressioni del passato si ottiene la conoscenza sulle nascite
precedenti.

Patanjali, con buona pace di chi definisce il suo approccio come scientifico o la
sua opera come laica, è chiaramente immerso nel pensiero induista del suo tempo e
non potrebbe essere altrimenti. Ogni autore è sempre figlio del suo tempo e la sua
opera va inquadrata nel suo periodo storico. Per tutti gli induisti, da sempre, un
chiaro sintomo di elevazione spirituale è avere cognizione delle proprie vite
precedenti. Secondo questo pensiero, l'uomo comune non ha percezione della
trasmigrazione e dell'evoluzione che la propria anima ha compiuto in altri esseri,
mentre l'uomo illuminato ricorda qualcosa delle vite precedenti. Sono molti i casi
in cui si porta a dimostrazione della santità di una persona, il suo ricordare
aneddoti o oggetti delle vite precedenti. Andando indietro nel tempo i ricordi sono
sempre più flebili e l'ultima vita trascorsa prima dell'ultima reincarnazione è
quella di cui si può conoscere meglio alcuni dettagli.
Un bramino indiano considerato molto saggio mi disse una volta di diffidare sempre
di coloro i quali pretendono di dare indicazioni agli altri sulle loro vite
precedenti, egli era considerato un Santo e per sua stessa ammissione era in grado
di ricordare poco delle sue vite precedenti e ancora meno del passato e del futuro
delle altre persone, se non in rarissimi casi. La conoscenza del passato era
inoltre per lui equivalente a quella del futuro considerando ininterrotto il flusso
temporale al di fuori del velo dell'ignoranza, conoscere le vite precedenti era
secondo lui difficile come predirre il futuro. Ma questo discorso ci spingerebbe
troppo lontano.

pratyayasya para citta jnanam


19. Grazie alla pratica è possibile capire le intenzioni altrui

pratyayasya para itta jnanam


20. La pratica di cui stiamo parlando non porta a leggere i pensieri nella mente
altrui, in quanto quello non è un oggetto che può essere percepito direttamente.

Fortunatamente in questo caso è l'autore stesso che previene possibili


interpretazioni legate a “superpoteri”. Patanjali afferma che la chiarezza mentale
derivante dalla pratica permette permette di conoscere i pensieri altrui, ovvero
vedendo e parlando con una persona si è in grado di capire le sue intenzioni, da
mille indizi e sfumature. L'apertura mentale e la compassione verso tutte le
persone, garantiscono al praticante un livello di empatia con il prossimo tale da
capire i suoi reali pensieri. Ma l'autore sembra rendersi conto che questa
affermazione potrebbe essere fraintesa nel senso di leggere la mente altrui, di
stabilire un contatto telepatico o cose simili, quindi specifica anche cosa non può
essere capito ovvero ciò che è insito nella sola mente.

21. kaya rupa samyamat tad grahya sakti stambhe caksuh prakasa asamprayoge
‘ntardhanam
Praticando con attenzione alla forma che il corpo assume ed alla forza, scompaiono
quindi i difetti che l'occhio vede alla luce.

22. etena sabdadya antardhanam uktam


Allo stesso modo scompaiono anche le espressioni degli altri difetti.

Secondo la maggior parte dei commentatori questo sutra significa: “Concentrandosi


sulla luce e sul corpo è possibile diventare invisibili all'occhio umano”. Sembra
impossibile, ma la nostra traduzione è quantomai fedele al testo originario.
Facendo un'eccezione, perché capiamo che sia difficile a credersi, riportiamo il
significato letterale parola per parola:

kāya = corpo,
rūpa = forma,
saṁyamāt = la pratica,
tat = quindi,
grāhya = percepibili,
śakti = forza,
arhtaḥ = difetti,
cakṣuḥ = occhio,
prakāśa = luce,
asaṁprayoge = sotto,
antardhānam = scomparire.
Non vogliamo in alcun modo proporre la nostra interpretazione come quella vera e
giusta, ma semplicemente dire quello che noi abbiamo capito. Saremmo ben contenti
di ricevere commenti in merito. Secondo noi si sta parlando di posizioni e pratica
fisica incentrata sulla forza fisica e mentale. Secondo chi scrive si sta ponendo
l'attenzione sulle asana e ai benefici che esse portano al corpo fisico, soggetto a
sofferenze non meno di quello spirituale. Grazie ad una pratica incentrata sul
corpo quindi i difetti fisici, visibili all'occhio (ovvero non quelli dell'animo),
dice Patanjali, scompaiono. Allo stesso modo scompaiono anche i problemi legati
agli altri sensi, come ad esempio dolori o i sintomi dei mali calssici identificati
dell'ayurveda, bocca amara, vista annebbiata, ronzii etc.

23. sopakramam nirupakramam ca karma tatsamyamāt-aparāntajñānam aristebhyo va


La pratica permette di avere chiarezza del karma, delle conseguenze delle nostre
azioni, presenti e future, e diviene possibile, percependo anche altri segni,
predire il momento della liberazione dello spirito.

Ogni azione in questa vita è effetto di una causa avviata in un’incarnazione


antecedente; ogni azione nella vita origina effetti, a meno che sia compiuta in
modo tale che l’effetto sia immediato e si esaurisca entro i limiti della vita
stessa oppure non generi karma perché compiuta per motivi altruistici e con
distacco. Gli uomini illuminati grazie a quanto precedentemente detto ed alla
pratica che li purifica, si incarnano con pochi effetti del karma dalle vite
precedenti e, anche grazie alla continua purificazione della pratica, potrebbero
riuscire a liberarsi dagli effetti del karma e quindi dal ciclo delle rinascite
ovvero potrebbero raggiungere la perfezione e la conseguente liberazione permanente
dello spirito. La pratica, oltre a purificare dal karma precedente, dona coscienza
di questa possibile liberazione. Inoltre, secondo una diffusa credenza induista, i
santi uomini possono predire il momento della propria morte fisica, in molti casi è
anche vero che queste persone quando sentono di essere arrivate alla fine del
proprio percorso, intraprendono l'ultimo viaggio lasciandosi di fatto morire. Il
riferimento potrebbe anche essere questo, predire il momento della liberazione è
interpretabile sia come predire il momento in cui si sfuggirà al ciclo delle
rinascite oppure alla morte del corpo fisico.

24. maitry adisu balani


Grazie alla pratica lo yogin sviluppa grande benevolenza, e diviene empatico con
gli altri.

La chiarezza mentale della pratica, generata anche dal rispetto delle norme etiche
e morali dei primi due passi dell'ashtanga yoga di Patanjali, tra le quali era
appunto presente la benevolenza verso i deboli, porta ad identificarsi con gli
altri e ad avere benevolenza verso i più deboli, ovvero tutti gli uomini comuni. In
realtà nella traduzione abbiamo arricchito leggermente il discorso, il verso recita
semplicemente: i poteri (donano) amicizia verso gli altri.

25. balesu hasti baladini


Incentrando la pratica sulla forza, si diventa forti come un elefante.

Come detto, la decisione di pubblicare gli Yoga Sutra di Patanjali era stata presa
anche per una traduzione del sutra 24 del III libro, letta su Instagram che
recitava così: Concentrandosi sulla forza dell'elefante o di altri animali la si
può assimilare. Il commento proseguiva: è il solito principio emulativo, si
assorbono le qualità dell'oggetto della meditazione. Immaginavamo yogin del passato
e del presente intenti a meditare visualizzando un elefante, con lo scopo di
acquisirne la forza. Ci strappava un sorriso. A nessun titolo si vuole però
indicare come sbagliata questa traduzione che, tralaltro è riportata da moltissimi
autori più illustri di chi scrive. Diremo che non è in linea con quanto abbiamo
capito noi dell'opera di Patanjali fino a questo punto e che quindi è molto lontana
dalla nostra interpretazione.
La pratica dello yoga richiede grande forza di volontà e a sua volta la alimenta,
ogni yogin ne è consapevole, nonché una certa forza fisica. Per gli indiani
l'elefante è simbolo della saggezza e della forza fisica, qualità rappresentate al
massimo grado dal Dio dalla testa di elefante: Ganesh. Molti yogin indiani sono
devoti di Ganesh, figlio di Shiva, proprio perché egli rappresenta le due doti più
ambite dai praticanti: forza e saggezza, grazie a queste doti Ganesh è il Dio che
rimuove gli ostacoli.

La seconda parte del terzo libro continuerà a trattare i poteri che si ottengono
grazie allo yoga.

Yoga Sutra: i poteri del prana, IIa parte del III° libro [YS:26-43]
settembre 19, 2017

La seconda parte del terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali prosegue nel
viaggio attraverso i poteri che si possono conseguire grazie ad una completa ed
intensa pratica di tutti e otto i passi fondamentali descritti nei capitoli
precedenti. Come abbiamo visto, la nostra linea di traduzione mira in primo luogo
ad essere coerente attraverso tutti i sutra dei quattro libri che compongono
l'opera, obiettivo già di per sé non scontato. In secondo luogo intendiamo lo yoga
oggetto della trattazione di Patanjali come un'attività prettamente esperenziale,
legata alla pratica e non un'attività filosofica, speculativa, teorica o
religiosa. In particolare, come più volte affermato, crediamo che gli obiettivi
indicati dall'autore siano strettamente legati alla pratica e non di natura
sovrannaturale. Gli obiettivi della pratica non sono superpoteri, ma doti fisiche,
mentali e soprattutto spirituali. In quest'ottica l'opera ci appare una grandissima
fonte di ispirazione, molto attuale, un dono per tutti gli yogin. Infine,
procederemo sempre dapprima con l'interpretazione più semplice e scontata per poi
muoverci verso i significati più elaborati. Patanjali offre inizialmente una
panoramica sui doni che l'ascolto dell'energia e del suo concentrarsi nei punti
nodali, i famosi chakra, può portare a chi pratica yoga.

YSIII:26. pravrtty aloka nyasat suksma vyavahita viprakrsta jnanam


Incentrando la pratica sulla luce interiore si consegue la conoscenza di ciò che è
sottile, celato e remoto.

Volgendo all'interno lo sguardo durante la pratica miglioreremo la capacità di


ascoltarci e di percepire le energie sottili che permeano il corpo attraverso i
canali delle nadi e i centri energetici dei chakra. Il prana, l'energia che tutto
pervade, entra nel corpo grazie alla respirazione e viene poi portato dal basso
ventre verso la sommità del capo, da alcuni canali detti nadi. Tutte le scuole di
yoga tradizionali si basano sul fatto che la pratica dello yoga favorisca questa
circolazione del prana o energia sottile. La coscienza della circolazione di questa
energia è uno degli obiettivi dello yoga . Su questi concetti, definiti con un
termine molto appropriato “anatomia sottile”, si basano da oltre tremila anni la
medicina ayurvedica indiana, ma anche, seppure con le dovute differenze, la
medicina tradizionale cinese ed orientale in senso lato.

YSIII:27. bhuva jnanam surye samyamat


Incentrando la pratica sull'energia maschile, surya, si migliora la comprensione
dell'universo fisico.

YSIII:28. candre taravyuha jnanam


Incentrando la pratica sull'energia femminile, chandra, si migliora la comprensione
del passare del tempo.
YSIII:29.dhruve tad gati jnanam
Incentrando la pratica sul passare del tempo, si comprende meglio il suo
funzionamento.

Le due nadi principali ai lati di shusumna, il canale energetico centrale, sono


ritenute, dallo schema ayurvedico classico, portatrici di due energie differenti ed
in qualche maniera opposte. Alla destra si trova pingala, che trasporta un'energia
di natura solare, maschile, attiva, calda, positiva. Incentrare la pratica
sull'energia maschile significa solitamente fare una pratica più attiva, ma anche
altri aspetti più complessi che non approfondiremo in questa sede. Secondo l'autore
questa pratica favorisce la comprensione del corpo, del mondo fisico e delle forze
che lo pervadono. Il Sole e la Luna sono in questo caso chiaramente le due
tipologie di energia sottile interiore, che fanno riferimento anche alla dualità
universale indiana incentrata su Shiva (principio maschile) e Shakti (principio
femminile).

La nadi di sinistra, Ida, trasporta invece un'energia di natura femminile, lunare,


passiva, tiepida, caratteristica di una pratica che definiremo meno attiva e più
introspettiva. Questa pratica dona secondo Patanjali la conoscenza del passare del
tempo, in prima analisi durante la pratica stessa. Questo sutra viene spesso
tradotto: “concentrandosi sulla luna si ottiene la conoscenza delle stelle”.
Secondo chi scrive è chiaramente una metafora, e per conoscenza delle stelle si
intende lo scorrere del tempo, misurato all'epoca da calendari che si basavano sui
movimenti celesti. Rimanendo alla base di questo concetto, tutti noi abbiamo
sperimentato quanto sia difficile avere la percezione del tempo durante la
meditazione e questo sarebbe davvero un grandissimo risultato. Anche altri
commentatori dissentono con le traduzioni in cui i riferimenti astronomici sono
intesi in senso letterale. Tutti gli yogin conoscono la particolarissima percezione
del tempo che si ha durante la pratica. Questo è vero soprattutto all'inizio, con
l'esperienza si acquista migliore consapevolezza dello scorrere del tempo e dei
riferimenti da adottare per avere una misura del movimento assoluto in avanti che
il tempo compie per noi esseri terreni. Letteralmente il sutra 29 dice: “Stella
Polare movimenti conoscenza”, ma in coerenza con quanto detto per il sutra
precedente, si ritiene la Stella Polare il punto di riferimento per il movimento
delle stelle, l'astronomia antica indiana la riteneva immobile, e quindi punto
nodale per la misurazione dello scorrere del tempo . L'assenza di movimento
significa anche il non essere soggetti al passare del tempo, incarnare l'eternità,
un gradino interpretativo superiore potrebbe spingerci in questa direzione ovvero
come la pratica possa distaccarci dal tempo ordinario e metterci in contatto con il
tempo assoluto, l'eternità, con le ere che si succedono.

YSIII:30. nabhi cakra kayavyuha jnanam


Incentrando la pratica sull'energia dell'addome, si consegue la conoscenza del
proprio corpo.

Tutta l'energia del prana si accumula, secondo la concezione indiana classica,


nella zona tra il basso addome e la base della colonna vertebrale, qui risiede
kundalini, il serpente personificazione di questa forza, che la pratica ha il
compito di risvegliare. Il primo passo del suo risveglio è la presa di
consapevolezza del fluire del prana all'interno di tutto il corpo. Nabhi chakra è
in genere considerato sinonimo e corrispondente a Manipura chackra, il terzo chakra
situato tra ombelico e stomaco. Il basso addome è inoltre il baricentro fisico del
corpo, fulcro di tutti i movimenti, il suo controllo dona sicuramente equilibrio e
stabilità. Avendo il preciso controllo del proprio addome si acquisisce la
consapevolezza e il controllo del respiro e di tutto il corpo, nessuno yogin potrà
dissentire con questa affermazione.
YSIII:31. kantha kupe ksutpipasa nivrttih
Incentrando la pratica sulla gola, si ottiene l'arresto delle sensazioni di fame e
di sete.

La gola è il centro del chakra visuddhi, anche la stimolazione di questo chakra ed


i suoi effetti sono ben documentati in varie tipologie di pratiche: pranayama,
asana, mudra, etc. Banalmente, tutti i praticanti avranno sperimentato il drastico
cambiamento dell'appetito una volta intrapresa una pratica intensa e sistematica;
l'astensione dal bere durante la pratica viene inoltre raccomandata da numerose
opere tradizionali per l'influenza negativa che l'acqua avrebbe su alcune tipologie
di energie corporee. Il senso si ritene però più complessivo: i chakra controllano
le risposte della mente e incentrando la pratica su taluni centri è possibile
modificare le risposte del nostro corpo, anche agli stimoli più profondi e vitali,
come la fame e la sete. Il potere qui riportato è proprio il controllo della mente
e del corpo attraverso una pratica mirata verso alcuni centri energetici. La
pratica dello yoga ha un effetto che può essere indirizzato verso taluni centri
energetici, questi aspetti saranno trattati da autori successivi a Patanjali in
modo più approfondito e sistematico. Come sappiamo l'opera di Patanjali non entra
nei dettagli, ma traccia le linee guida.

YSIII:32. kurma nadyam sthairyam


Incentrando la pratica sull'energia che scorre nella colonna vertebrale, lo yogin
realizza l'assoluta immobilità.

L'immobilità è essenziale per portare a termine una buona meditazione e spesso la


scomodità della postura, la stanchezza o altri fattori portano ad effettuare dei
movimenti che fanno regredire la condizione mentale raggiunta. Allo stesso modo è
anche raccomandato da tutti i testi classici di mantenere la colonna vertebrale
dritta ed allungata mentre si siede in meditazione. Questo sutra sembra in
continuità con questa tradizione. Riassumendo: una buona pratica permette al prana
di scorrere lungo tutti i chackra situati a vari livelli lungo la colonna
vertebrale o nei suoi pressi, questa circolazione dell'energia porta il praticante
a sedersi in meditazione con la schiena ben eretta, la giusta respirazione e a
raggiungere la condizione di immobilità indispensabile alla meditazione stessa e al
passo successivo del samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto.

YSIII:33. murdha jyotisi siddha darsanam


Incentrando la pratica sull'energia al culmine della testa, si acquista la capacità
di entrare in contatto con la perfezione.

La parte terminale della testa è sede dell'ultimo chakra, sahasrara, il chakra dai
mille petali. Questo chakra si attiva al momento della nascita quando l'energia
vitale e lo spirito entrano nel corpo, al momento della loro dipartita e, secondo
alcune tradizioni, durante l'illuminazione. Patanjali ci sta dicendo che lo
scorrere dell'energia attraverso tutti i chakra, fino all'ultimo, è frutto di una
pratica molto evoluta, che arriva a padroneggiare l'ultimo passo dell'ashtanga yoga
ovvero il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto. Questo avviene
proprio grazie al dischiudersi del chakra alla sommità del capo che permette il
contatto con la perfezione dello spirito che tutto pervade. E' bene ricordare che,
l'autore, per fusione con lo spirito assoluto, intende una condizione fisica,
mentale e spirituale indotta dalla pratica, una pratica di qualità ottimale
condotta da un praticante particolarmente abile, focalizzato e realizzato.

34. pratibhad va sarvam


Incentrando la pratica sull'intuizione, si comprende ogni cosa.

Ammetto di amare in modo particolare questo sutra e il successivo. Il termine


pratibhad è stato tradotto come "intuizione" perché è sicuramente la parola che più
si avvicina, seppure questo termine offra molte sfumature. Praibhad è l'intuizione
femminile contrapposta all'intelletto maschile, è anche un nome proprio di donna
traducibile come luce, intelligenza, ingenuità, splendore, come caratteristiche
femminili. Alcuni intendono il termine come il superamento stesso della
contrapposizione tra intelletto e intuizione. Questa interpretazione apre strade
interessanti. La pratica yoga può sviluppare molto questo aspetto di intuizione
creativa, in molti modi. Anni fa, parlando con alcuni yogin indiani di grande
esperienza e dedizione, mi dicevano che spesso la mattina svolgevano la loro
pratica abbandonandosi completamente, iniziando a gambe incrociate e concatenano
ogni movimento al successivo ed ogni fase della pratica alla successiva secondo
l'ispirazione inconscia del momento, in questo modo a volte giungevano ad uno
stadio finale di meditazione particolarmente profondo ed ispirato. Mi piace pensare
che Patanjali si riferisca a questo tipo di ispirazione, quella che riempe il cuore
e illumina la pratica personale. Una pratica di questo tipo può gettare una nuova
luce sulle nostre modalità di rapportarci allo yoga ma forse anche al mondo, dove
la logica non è contrapposta alla preghiera, la scienza non è contrapposta alla
poesia, dove mistica e razionalità, materialità e spiritualità si incontrano.
Stiamo divagando. Più semplicemente potremmo dire che saper leggere le proprie
intuizioni non è affatto semplice, ma la pratica può aiutare e le giuste intuizioni
corrisponderanno poi a verità. Alcuni si fideranno ciecamente di esse, altri meno,
altri riusciranno a superare il dualismo tra analisi compiuta dall'intelletto ed
intuizione.

35. hrdaye citta-samvit


Incentrando la pratica sul cuore, si ottiene la consapevolezza della natura della
mente.

Il cuore corrisponde per Patanjali al chakra Anahata, situato al centro del petto,
che potremmo definire il cuore spirituale, associato con il bilanciamento della
personalità, la calma e la serenità, l'amore e la compassione verso gli altri. Ci
sono molti tipi di pratica che possono stimolare questo plesso energetico, esercizi
di respirazione, asana e meditazione, ma anche comportamenti sociali e verso noi
stessi. Questo tipo di pratica fa comprendere esattamente cosa sia la mente. Per il
termine mente (citta) qui l'autore usa esattamente lo stesso utilizzato nel primo
sutra quando ci diceva che lo scopo dello yoga è arrestare le oscillazioni della
mente. Quando si è in equilibrio e pervasi dall'amore si comprende che
l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri è sbagliata, che la mente non
è altro che un organo di senso come il naso o la lingua, l'organo di senso che
permette di pensare, ma oltre i pensieri c'è molto altro.
In una tradizione diversa da quella induista ma con origini comuni, nella
tradizione buddista, questo superamento del pensiero razionale è spesso
rappresentato come una meditazione su concetti contraddittori: in molte storie,
alla fine del percorso il maestro dice ad esempio al discepolo “vai e medita sul
suono di un applauso con una mano sola, poi tra un anno torna e dimmi cosa hai
capito”. Questo è il concetto di trascendere l'intelletto ed affidarsi allo spirito
o all'intuizione. Non casualmente il termine Anahat (il nome del chakra del cuore)
significa anche tintinnio prodotto tra due oggetti metallici, ma a volte è
utilizzato per indicare il mistico suono senza suono chiamato anche Ahum. Quando
tutti i suoni scompaiono sorge la vera natura dello spirito. Ci stiamo però
spingendo molto oltre, riassumendo l'autore, in tre parole, dice: “hrdaye (cuore)
citta (mente) samvit (capire, consapevolezza)“, ovvero abbandonandosi al cuore,
nella pratica ma non solo, si pone nella giusta prospettiva la mente ed i pensieri.
A ognuno la sua interpretazione finale. Credo che questo sutra parli con chiarezza
anche ad un occidentale dei nostri giorni.

YSIII:36 sattva purusayoh atyanta samkirnayoh pratyayaviseso bhogah para artha va


sva arthasamyamat purussa jnanam
L'esperienza consiste in percezioni nelle quali non si riesce a differenziare la
coscienza e il mondo sensoriale, sebbene essi siano perfettamente distinti tra
loro. Incentrando la pratica con perfetta disciplina sulla coscienza, si comprende
la sua vera natura.

YSIII:37 tatah pratibha sravana vedana adarsa asvada varta jayante


In questo modo anche udito, tatto, vista, gusto e olfatto possono aiutare la
capacità d'intuizione.

YSIII:38 te samadhav upasargah vyutthane siddhayah


I sensi sono utili allorché la mente è rivolta verso l'esterno, ma sono ostacoli
sul cammino del samadhi, il ricongiungimento tra spirito individuale e spirito
assoluto.

Questo sutra sembra in prima analisi molto speculativo e filosofico, semplicemente


perché fa riferimento in modo stretto a tutto l'universo già descritto nei capitoli
precedenti. Patanjali ha detto chiaramente che per raggiungere gli ultimi stadi
dello yoga e quindi arrivare alla contemplazione dello spirito assoluto, al
samadhi, bisogna distaccarsi dalle cose materiali, distaccarsi dai sentimenti e in
ultima analisi dai sensi. Il ritiro dai sensi è infatti un passo fondamentale
dell'ashtanga yoga. Grazie alla pratica possiamo diventare consapevoli di quali
input siano originati dal mondo materiale esterno e quali dal nostro mondo
interiore, dal mondo spirituale e dalle energie sottili. Questo è uno dei poteri
raggiungibili attraverso lo yoga. Patanjali chiarisce poi un aspetto importante del
suo pensiero che fino a questo momento non era forse emerso: ritiro dei sensi non
significa in prima istanza cessazione dei sensi o completo assopimento degli organi
preposti, ma rivolgere questi verso l'interno in modo che anche i sensi partecipino
all'intuizione dello spirito. Questo processo lo sperimentiamo spesso ad esempio
con il senso di calore che si percepisce provenire dal basso ventre, con il
formicolare della pelle, con l'udire suoni o con il presentarsi di immagini, o
molte altre sensazioni interiori che possono intervenire durante la nostra pratica
e riguardo le quali la letteratura classica è particolarmente ricca.
Come è stato però precedentemente detto con chiarezza, il ritiro dei sensi deve
essere superato con la meditazione e con la successiva fusione dello spirito.

YSIII:39 badnha karana saithilyat pracara-samvedanacca cittasya parasariravesah


Abbandonando le cause dell'attaccamento agli aspetti materiali e incanalando
correttamente l'energia, prana, è possibile scoprire un nuovo corpo.

Il ritiro dei sensi e la cessazione della schiavitù all'attaccamento verso il


piacere e verso le momentanee soddisfazioni dei desideri, già analizzati nel
secondo libro, ci permettono di scoprire un nuovo modo di sentire il nostro corpo,
percependo una nuova corporeità. Questo è un dono prezioso e un concetto
fondamentale: superando l'attaccamento e abbandonando l'uso tradizionale dei sensi,
non si svilisce il corpo, ma se ne scopre una nuova funzionalità. Il corpo non è
un'inutile o nociva appendice, ma il tempio dell'anima, il veicolo del prana e lo
strumento che ci fa percepire lo spirito. Lo yoga di Patanjali conduce all'unione
tra corpo, mente e spirito, non è lo svilimento del corpo e della mente per
esaltare lo spirito. Per giungere a questa perfetta unione, certo, corpo e mente,
con tutti gli aspetti che li riguardano, vanno ricondotti al giusto indirizzo.
Per dovere di cronaca segnaliamo che la traduzione più comune di questo sutra è:
”Cessando l'attaccamento al regno fisico e divenendo sensibili alle correnti
praniche, è possibile entrare nel corpo di un'altra persona”. Tralasciamo la
traduzione parola per parola a supporto della nostra interpretazione, diremo che
qualunque sia l'interpretazione del concetto di “entrare nel corpo di un'altro”:
sia come vera e propria possessione, sia come comunicazione a distanza, sia come
pervasione da parte dello spirito del maestro nel corpo dell'allievo, eccetera
(risparmieremo al lettore anche le varie declinazioni e sfumature del concetto),
questa traduzione è lontana da quello che abbiamo capito fino a questo punto
dell'opera di Patanjali e lontana dal senso dei sutra immediatamente precedenti.
Comunque la si ponga, la possessione ci sembra un'arte più da fachiri che non da
yogin, intendendo il termine “fachiri” con l'accezione negativa data
strumentalmente dai colonizzatori inglesi ad un certo tipo di sadhu o baba che loro
dipingevano come dediti ad arti oscure. Non sappiamo se questa linea di pensiero
abbia potuto influenzare le successive traduzioni in inglese, ma il discorso è
troppo lungo e complesso per essere affrontato in questa sede.

YSIII:40 udana jayaat jala pankha kantakadisv asango 'tkrantisca


Padroneggiando il soffio vitale, o udana, il praticante è in grado di elevare il
corpo sopra il fango, l'acqua stagnante o le spine e risollevarsi.

41. samana-jayaj-jvalanam
Padroneggiando il soffio del plesso solare, o samana, il praticante diviene
raggiante.

Il discorso di questi ultimi sutra sembra estremamente lineare e coerente.


L'autore sta spiegando quali doni o poteri può conseguire il nostro corpo, la
nostra mente e il nostro spirito, quando si padroneggi veramente a fondo la
pratica, tanto da dominare i vari tipi di prana e i cinque soffi vitali che
pervadono il corpo.
Udana vayu fluisce dalla base della gola alla sommità del capo, fluisce in tutte
le direzioni e pervade il corpo intero trasportando il prana in ogni cellula, con
il suo controllo il corpo secondo Patanjali nasce a nuova vita, una vita
spirituale ed elevata, sopra le miserie materiali e morali, risorge a nuova
bellezza. Molti traduttori intendono il sutra 40 come “padroneggiando samana si
conquista il potere della levitazione”. Non aggiungiamo altro.
Samana vayu è invece un tipo di soffio vitale che oscilla nello spazio tra
l’ombelico e il diaframma, la cui sede a volte è fatta coincidere con il terzo
chakra, Manipura. Avendo risollevato a nuova vita il nostro corpo attraverso il
controllo e la gestione dell'energia vitale udana, successivamente, grazie al
controllo di samana, il nostro corpo diviene radioso, raggiante, emana forza e
bellezza. Tutti noi abbiamo presente il viso sorridente di un maestro dopo una
lunga pratica, lo stupendo volto rilassato di un monaco tibetano dopo la
meditazione, secondo noi Patanjali si riferisce a questo concetto, la pace
interiore e la gioia spirituale divengono percepibili anche dall'esterno per chi sa
padroneggiare il plesso solare e la relativa circolazione del respiro e quindi
dell'energia.

YSIII:42 srotra akasayoh sambandha samyamat divyam srotram


Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra l'udito e l'etere, si
acquisisce un udito straordinario.

Da un punto di vista fisico, un suono è ascoltabile perché produce delle


oscillazioni nell'etere che tutto circonda. Nel vuoto nessun suono si propaga.
Traslando questo concetto, che serve a noi per capire, ma che Patanjali con tutta
probabilità ignorava, da un punto di vista interiore, capendo come i suoni si
propaghino al nostro interno si acquisisce il potere di ascoltare l'energia che
tutto pervade. E' un concetto che in prima analisi sembra molto astratto, ma
nell'immaginario dell'autore non lo è. Già riguardo il sutra 37 avevamo avuto modo
di esporre cosa si intenda per suono senza suono e udito mistico. Semplificando
diciamo che attraverso i più alti livelli della pratica è possibile udire il
mistico suono senza suono ovvero la contemplazione dell'assoluto, dell'Ahum, quel
tipo sommo di meditazione dove anche tutti i sensi sono colmi della gioia dello
spirito e si contemplano immagini che non sono immagini ma il nostro stesso
spirito, così come si ascoltano suoni che non sono suoni. Questo è l'udito
straordinario. Alcuni maestri indiani riferiscono di poter ascoltare il rumore
prodotto dal circolare del prana all'interno del proprio corpo. Essendo il prana
strettamente legato al respiro, questo non ci sorprende più di tanto, seppure,
indagando maggiormente l'argomento, si capisce che non parlano esattamente del
rumore del respiro, ma proprio di ciò che il respiro veicola.
YSIII:43 kayakasayoh sambandha samyamat laghu tula samapattesca akasa gamanam
Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra il corpo e l'etere, e
incentrando la pratica sulla leggerezza, lo yogin è in grado di muoversi senza
peso.

Grazie alla pratica si sperimenta la relazione tra il corpo e lo spazio, questo


probabilmente è vero ad un livello più scontato ed elementare nelle asana e meno
evidente e più complesso anche durante le fasi successive della pratica, dal
pranayama alla meditazione eccetera.
Una pratica avanzata permette quindi di padroneggiare perfettamente i movimenti
del corpo nello spazio e la percezione del mondo che ci circonda. La leggerezza e
l'elevazione del corpo e dello spirito, sono i doni che ne conseguono. Il concetto
sembra piuttosto chiaro.
Alcuni interpretano questo sutra come la capacità di ottenere il potere di volare
e muoversi attraverso lo spazio, coerentemente con la propria traduzione del sutra
40 dove si raggiungeva la levitazione. Seppure si discorda in questa sede con
alcune linee interpretative, chi scrive, è inutile dirlo, ha il massimo rispetto
per gli illustrissimi autori che hanno a volte dedicato a Patanjali parte della
propria vita. I testi, ma anche le traduzioni e le interpretazioni degli stessi,
sono sempre frutto del contesto storico-culturale nel quale vengono prodotti e al
quale, per averne un'esatta comprensione, bisognerebbe ricondurli.

Negli ultimi sutra del terzo libro, come vedremo presto, si compieranno tutti i
doni provenienti dalla pratica illuminata dell'ashtanga yoga di Patanjali, per
arrivare poi al quarto libro il cui tema sarà Kaivalya, la liberazione.

Yoga Sutra: la perfetta conoscenza, IIIa parte del III° libro [YS:44-52]
ottobre 09, 2017

Gli ultimi sutra del III libro di Patanjali cercano una risposta alle domande
ancestrali dell'uomo: chi siamo, qual'è il senso della vita, cosa è la realtà che
ci circonda. La pratica dello yoga, secondo l'autore, getta chiarezza su questi
aspetti, una volta arrivata alla sua massima vetta. Questi sono i doni finali che
si possono conseguire, prima della grande liberazione finale, quando non sarà più
necessaria nemmeno alcuna pratica. Abbiamo voluto isolare questi dodici sutra
perché per alcuni praticanti rivestono un senso particolare e gettano una nuova
luce sull'essenza profonda dello yoga. Non vogliamo dire che siano tutti di
semplice e immediata comprensione, ma soffermandosi alcuni istanti su taluni
passaggi e rapportandoli alla propria esperienza quotidiana di pratica, talvolta
può iniziare un fruttuoso processo di approfondimento. Questa almeno è la
testimonianza raccolta da diversi maestri.

YSIII:44.bahir akalpita vrttih maha videha tatah prakasa avarana ksayah


Entrando in contatto con lo stato di consapevolezza esistente all'esterno dei
pensieri, e che pertanto è inconcepibile razionalmente, si raggiunge la grande
conoscenza o mahavidya. Grazie ad essa cade il velo sul vero sè.

Grazie alla pratica dello yoga, in particolare durante gli ultimi stadi più
meditativi, abbiamo detto si sperimenta la consapevolezza dello spirito al proprio
interno, arrivando all'eliminazione delle oscillazioni della mente. In modo analogo
è possibile sperimentare anche consapevolezza dello spirito al di fuori di noi,
dello spirito che tutto pervade, ciò non avviene grazie alla mente o ai pensieri;
il testo ci dice che tale consapevolezza è inconcepibile razionalmente. Questa
rivelazione fa capire che la separazione attuata fino a questo punto nell'opera,
tra spirito individuale, spirito assoluto e spirito che tutto pervade, non ha senso
di esistere; anzi ha senso nella misura in cui diviene funzionale per arrivare a
comprendere che lo spirito è uno. Noi uomini siamo un'unica entità e siamo della
stessa essenza dello spirito. Yoga significa unione. Pausa. L'opera di Patanjali va
metabolizzata, a nostro giudizio, proprio mediante la pratica. Forse non arriveremo
mai ad una consapevolezza dello spirito che tutto pervade, interno ed esterno a
noi, come ce la sta delineando in questi passaggi l'autore, tra i massimi doni
dello yoga, ma qualche intuizione in questo senso potremmo averla colta o
ricercarla in futuro.

YSIII:45. sthula svarupa suksma anvaya arthavattva samyamat bhutajayah


Incentrando la pratica sugli aspetti della materia: grossolani, sottili,
intrinsechi e pervasivi, si ottiene la padronanza del proprio essere.

Siamo arrivati ai doni più profondi che la pratica dello yoga può regalare.
L'autore invita a concentrare la pratica sulla realtà fisica tangibile e su quella
intangibile nonché sugli aspetti nascosti e su quelli espliciti. Osservando al
nostro interno le caratteristiche del mondo fisico e quindi distinguendo
chiaramente da esso il mondo spirituale, otteniamo il controllo finale del nostro
essere. Il discorso riprende il concetto del sutra precedente: la conoscenza dello
spirito dentro di noi ed esterno a noi, anche in relazione al mondo materiale, ci
fa capire chi siamo. Questo sutra è intimamento connesso con il concetto di Dharma,
anche se non viene espressamente citato. In questo senso intenderemo gli aspetti
della materia e il mondo fisico, come il mondo in cui le cose sono ovvero come la
legge naturale. Per un approfondimento rimandiamo alla sterminata letteratura
buddista, induista, janista e sikh in merito.

YSIII:46. tato anima adi pradurbhavah kayasampat tad dharanabhighatsca


Da qui si conseguono le altre perfezioni, quali la perfezione del corpo e la
rimozione di tutti gli ostacoli.

47. rupa lavaṇya bala vajra samhananatvani kayasampat


Questa perfezione del corpo include bellezza, grazia, forza e fermezza.

Patanjali afferma che giunti a questo livello della pratica e raggiunte tutte le
precedenti capacità, si arriva alla perfetta integrazione dei cinque corpi
immaginati dalla tradizione ayurvedica, quindi di tutto l'essere, e si arriva ,
udite bene, alla rimozione degli ostacoli nella vita. Un essere illuminato
difficilmente incontra ostacoli sul suo cammino, li ha già risolti dentro di sé.
Siamo noi che creiamo i nostri stessi ostacoli: distaccàti dalle cose materiali e
dalle emozioni, nulla può ostacolare la perfetta felicità. La tradizione indiana
ritiene che i pensieri, ma più in generale il nostro modo di essere e di
raffrontarci con il mondo, possano influenzare profondamente gli avvenimenti,
persino, al limite, quando non direttamente correlati al nostro operato, il
discorso potrebbe anche essere inteso in questo senso.
Come dicevamo, la perfezione del corpo, kaya sampat, è in realtà la perfezione dei
cinque corpi ed il loro allineamento, così come immaginati dal pensiero classico
indiano. Essi sono: Annamayakosa, il corpo grossolano; Pranamayakosa, il corpo
energetico, Manomayakosa, il corpo mentale; Vijnanamayakosa, il corpo intellettuale
e Anandamayakosa, il corpo della beatitudine. Le qualità raggiutne dalla
perfezione di questi cinque corpi sembrano piuttosto chiare: bellezza, grazia,
forza, fermezza. Sono qualità da intendere estese a tutti e cinque i corpi, quindi
quando parliamo di bellezza, stiamo parlando di bellezza fisica, bellezza
dell'energia che lo pervade, bellezza dei pensieri e dei ragionamenti e infine
bellezza dell'illuminazione e della felicità raggiunta. La forza del fisico
riflette la forza della mente, raggiunta grazie all'energia che lo pervade e con la
quale raggiungiamo l'illuminazione. E così via.

YSIII:48. grahaṇa svarupa asmita avaya arthavattva samyamat indriya jayah


Incentrando la pratica sul potere cognitivo dei sensi, sulla loro vera natura, sul
loro rapporto con l'ego e con la vitalità, si ottiene la loro padronanza.
YSIII:49. tato mano javitvam vikarana bhavah pradhana jayash cha
Da qui segue la percezione istantanea, la liberazione dai sensi stessi e la
completa padronanza del mondo materiale.

YSIII:50. sattva purusha anyata khyatimatrasya sarva bhava adhishthatritvam sarva


jnatritvam cha
La padronanza dei sensi e l'onniscienza possono essere conseguiti solamente
comprendendo a pieno la differenza tra il mondo fisico e il vero sè.

Molti testi classici di yoga quando arrivano a descrivere i livelli più evoluti
della pratica e le condizioni che si raggiungono, ricorrono a una descrizione
fortemente metaforica, immaginifica, descrivendo coni di luce, l'intervento divino,
lo stato di estasi; Patanjali non lo fa. Patanjali cerca di descrivere ogni passo,
anzi ce lo descrive, siamo noi che cerchiamo di interpretare esattamente cosa
voglia comunicarci. Egli ci ha descritto un viaggio attraverso il risveglio
dell'energia e lungo tutti e sette i chackra, compiuto grazie alla pratica
costante e intensa.

Patanjali ha affermato nei sutra precedenti, riassumendo, che conoscendo i sensi e


la materia si raggiunge la perfezione del corpo e dello spirito. Ora aggiunge un
ulteriore tassello, ovvero che dobbiamo approfondire e padroneggiare il potere
cognitivo dei sensi. Abbiamo perso questo potere sia verso l'esterno, verso la
natura, che verso l'interno, e, grazie alla pratica, dobbiamo risvegliarlo. Lo
yoga, secondo Patanjali, non serve a disconnetterci dai sensi, ma ad incanalare il
loro potere verso nuove strade, anche ampliandoli. Inizialmente ci ha detto che
dobbiamo rivolgerli all'interno, poi successivamente superare gli input fisici che
da essi provengono, ma alla fine possiamo goderne percependo grazie ad essi ciò che
è spirito. Riflettiamo per un momento cosa voglia dire veramente incentrare la
pratica sui sensi, tutti i sensi, ed utilizzarli per un tipo di conoscenza
spirituale. E' un concetto molto elevato che può effettivamente dare un nuovo
significato a tutta la pratica dello yoga. Per utilizzare una metafora, Ramkrishna
diceva che per capire il potere dei sensi possiamo pensare alla differenza che
passa tra toccare una tazza per portarla alla bocca e toccare la mano della persona
che amiamo per portarla alla bocca. Questa immagine è molto evocativa e ci fa forse
intuire una scintilla di cosa accade quando i sensi incontrano i sentimenti e
trascendono la materia.

Capire il rapporto dei sensi, e dell'attaccamento, con il nostro ego, concorre a


conoscere la loro vera natura. La parola utilizzata per indicare l'ego è “asmita”,
che indica propriamente l'ego inteso come l'io o l'essere. I sensi non hanno ego,
l'ego risiede nella mente, è questo il tema da indagare grazie alla pratica:
l'essere dei sensi che trascende l'ego. Spero di aver reso il concetto in modo
diretto e non filosofico.
Infine, i sensi vanno riscoperti cercando di capire in cosa concorrano alla nostra
vitalità, come percepiscano l'energia che ci tiene in vita, il prana, energia che
dobbiamo riscoprire nel mondo. Si chiude così il cerchio con quanto già detto nei
sutra precedenti riguardo allo yoga come disciplina per incanalare e risvegliare la
coscienza dell'energia pranica.

Questa è la via per la liberazione dai sensi in quanto porta alla comprensione
della distinzione che esiste tra la natura che ci circonda e il nostro intelletto
da una parte e il nostro io più profondo (purusa) ovvero la nostra consapevolezza e
lo spirito che tutto pervade dall'altra.

YSIII:51. tad vairagyad api dosa bija ksaye kaivalyam


Quando poi si è liberi dall'attaccamento a questi stessi poteri, si distrugge il
seme che ci imprigiona. A questo punto segue la liberazione, kaivaiya.
YSIII:52. sthany upam nimantrane sanga smaya akaranam punar anishta prasangat
Si dovrebbe evitare qualsiasi attaccamento o orgoglio nei confronti dei poteri
spirituali conseguiti, poiché questo porterebbe con sé la possibilità di risveglio
di attitudini negative.

Patanjali inizia ad introdurre il tema del libro successivo, l'ultimo, quello che
ha come argomento la liberazione, kaivaiya. Ci dice che non dobbiamo rimanere
attaccati e vincolati neanche alla pratica stessa. Come molte altre arti, anche
nello yoga, bisogna apprendere la tecnica, farla propria, dimenticarla e non
preoccuparsi più del risultato. Ad un livello molto quotidiano, questo concetto
significa anche non preoccuparsi di come appaiono le nostre asana; non preoccuparci
se oggi non sentiamo le stesse stupende sensazioni durante la meditazione; in poche
parole dobbiamo ignorare il risultato, perché la totalizzazione nella pratica
stessa è il risultato. Quando arriviamo a questo livello otteniamo i poteri dello
yoga perché la nostra gioia, la nostra illuminazione non dipende più da nulla. Ad
un livello più alto, possiamo aggiungere che è sicuramente molto difficile
abbandonare l'attaccamento verso il mondo materiale, con le estenuanti tecniche
descritto nel secondo libro, ma è ancora più difficile abbandonare l'attaccamento
al mondo spirituale ed i poteri descritti nel presente capitolo. Quando si sia
dischiusa questa porta, abbandonarla è quasi impossibile, ma ciò conduce alla
liberazione finale. Le consapevolezze spirituali possono addirittura far
risvegliare sentimenti di immodestia, risvegliare il nostro ego giudicatore. Questa
condizione, che tutti i maestri di yoga dovrebbero temere al massimo grado, può
ritrascinare il praticante nell'abisso. Un maestro indiano, considerato un santo,
diceva a me, che in quel momento ero l'ultimo degli uomini agli occhi di tutti i
presenti: “io sono il tuo maestro, ma tu sei il mio maestro, io ti trasmetto il
messaggio che tu mi permetti di vedere, grazie”, un discorso simile fa comprendere
quanto gli Indiani aborriscano i discorsi autoreferenziali, l'auto esaltazione per
la consapevolezza raggiunta, perché frutto del baratro dell'attaccamento quando non
addirittura al mondo materiale, a quello spirituale. Al contrario la perfezione
spirituale corrisponde alla massima umiltà, alla consapevolezza che nella
perfezione dell'universo siamo un granello e che provare orgoglio per aver visto un
poco oltre sarebbe ridicolo e ci rigetterebbe nell'abisso.

YSIII:53. ksana tat kramayoh samyamat vivekajam jnanam


Praticando nel momento presente si ottiene la conoscenza ultima della realtà.

Questo sutra è particolarmente chiaro per chi pratica yoga costantemente. Ogni
fuga della mente in avanti o indietro durante la pratica, vanifica la pratica
stessa. Ogni fuga verso sensazioni, percezioni o altro che abbiamo già provato è
negativa e ostacola la pratica. Allo stesso modo l'attesa di qualcosa si tramuta in
attaccamento. Qualcuno ha detto che l'atteggiamento dello yogin deve essere quello
di uno spettatore senza spettacolo e credo che renda molto bene l'idea [Questa
interpretazione viene data spesso al terzo sutra del primo libro YSI:3 NdR].
Patanjali ci ricorda che l'unico attimo che conta è quello presente, ma va un
pochino oltre, ci ricorda che questa riflessione è una delle chiavi della pratica e
porta alla vera conoscenza, jnana, che è la conoscenza ultima, la realizzazione che
lo spirito individuale coincide con lo spirito assoluto eterno, non nato ed
immortale. Contraendo sempre dippiù l'attimo presente, esso diviene l'unico attimo
eterno che era, è e sarà. Ciò avviene nel samadhi, la ricongiunzione dello spirito
individuale con lo spirito assoluto. Questa è l'ultima realtà, dopo c'è solo la
liberazione. Il concetto non è da poco se si pensa che per il Vedanta, l'Jnana Yoga
è uno dei quattro sentieri di base per raggiungere la salvezza (insieme a Bhakti
Yoga, Raja Yoga e Karma Yoga). Ma ci siamo spinti molto oltre.

54. jati laksana desaih anyata anavacchedat tulyayoh tatah pratipattih


Da qui nasce la capacità di distinguere tra oggetti simili che non possono essere
differenziati da categorie, caratteristiche o posizione.
Avendo raggiunto la consapevolezza ultima, la conoscenza del tempo e del momento
presente, il praticante di yoga è in grado di cogliere la vera essenza del mondo.
Avendo compreso l'eternità si diviene capaci di conoscere le cose senza giudicarle
dall'esterno, ma dalla loro profonda essenza. E' quindi possibile conoscere le
persone per quello che sono realmente, immedesimarsi profondamente negli altri e
non tentare più di conoscerle da come esse appaiono o si comportano. Questo
concetto può essere esteso molto lontano.

55. tarakam sarva visayam sarvatha visayam akramam ceti vivekajam jnanam

La conoscenza superiore nata da tale consapevolezza è trascendente e include la


cognizione di tutta la realtà contemporaneamente, in qualsiasi direzione, nel
passato, nel presente e nel futuro.

Questo ultimo gradino permette al praticante di fondersi con lo spirito universale


trascendente che tutto pervade ed assimilarne l'eternità. Comprendere l'eternità
sembrerebbe qui inteso equivalente a percepire l'eternità priva di dimensioni
spaziali e temporali e perdersi nell'estasi dell'illuminazione. Si è saliti in
questo momento sulla cima più alta, da cui è possibile vedere tutto il mondo che ci
circonda, materiale e spirituale.

YSIII:56. sattva purusayoh suddhisamye kaivalyam


Si consegue la liberazione allorché esiste una eguale purezza tra se stessi, ovvero
il purusha, e il mondo circostante, ovvero il sattva.

Gli occhi di colui che ha raggiunto la perfezione attraverso la pratica guardano


il mondo per la prima volta, tutto appare puro e trasparente, lui stesso ed il
mondo che lo circonda sono la medesima cosa.

Il maestro Baba Sri Ananda diceva che il quarto libro dei sutra di Patanjali non
può essere commentato, può solamente essere letto e interiorizzato, da ognuno a
modo suo. Faremo un'eccezione ed affiancheremo un breve commento alla traduzione
del quarto ed ultimo capitolo degli Yoga Sutra di Patanjali.

Yoga Sutra: corpo, spirito e karma, Ia parte IV libro [YSIIII:1-13]


novembre 09, 2017

Il quarto e ultimo libro dei sutra di Patanjali è dedicato alla “liberazione” ed è


secondo alcuni il libro più importante. L'autore riprende infatti concetti già
espressi negli altri tre capitoli e li ribadisce alla luce di tutti i sutra
enunciati sino a questo punto. Non vogliamo arrivare a dire che siano i concetti
più importanti, ma sono quelli riguardo ai quali l'autore sente di dover ancora
puntualizzare qualcosa. Questo quarto libro ha però dovuto scontare un destino
simile a quello del terzo capitolo. Se ricordate il terzo libro è spesso
interamente interpretato dai traduttori come una sequenza interminabile di doni
prodigiosi che si ricavano dalla pratica dello yoga, dalla levitazione alla
telecinesi. Abbiamo visto come questa visione sia ampiamente limitativa e faccia
perdere di interesse il messaggio restituibile invece da questo testo veramente
unico. In modo analogo il quarto libro è spesso tradotto con una sequenza
interminabile di regole e principi poco comprensibili: incipit, “i doni dello yoga
si conseguono alla nascita oppure con l'uso di droghe... ”, chi non chiuderebbe il
libro dopo un simile esordio? La buona notizia è che una traduzione alternativa è
possibile e che sembra parlarci in modo molto vivido.
La liberazione che da il titolo al IV capitolo è quella dello spirito, il concetto
ha vari punti di contatto con l'illuminazione buddista, pensiero con il quale
Patanjali ha molto in comune, se non altro da un punto di vista storico e
culturale. La liberazione dai vincoli della vita mondana, dai desideri e
dall'incessante vagare della mente è però raggiunta mediante la pratica dello yoga
e ai progressi che questa ha consentito.

Libro quarto: Kaivalya


Capitolo sulla Liberazione

YSIIII:1. janma oshadhi mantra tapas samadhi jah siddhayah


I doni dello yoga sorgono tramite la nascita, le cure, i mantra, ovvero la
ripetizione di parole sacre, una intensa pratica e il samadhi, ovvero il
ricongiugimento con lo spirito universale.

Alla nascita possediamo già i doni che lo yoga permetterà di scoprire, ma li


ignoriamo. Queste risorse non sono distribuite probabilmente in misura eguale a
tutti gli uomini, ma tutti possiamo riscoprirle. Le cure che permettono questo
percorso sono le medicine dello spirito, la parola utilizzata è proprio osadhim che
indica le erbe degli infusi ayurvedici utilizzati come rimedi. Dobbiamo curare il
nostro corpo, la nostra mente e la nostra anima con le medicine indicate nei libri
precedenti, con gli otto passi dello yoga. Già molte volte Patanjali aveva fatto
riferimento all'importanza ed al potere dei suoni per risvegliare lo spirito in
noi, ma, per la prima volta, vengono indicati espressamente i mantra come parte
integrante della pratica. Infine ribadisce quanto sin qui enunciato ovvero che sia
indispensabile una pratica intensa e aver completato tutto il percorso delle otto
membra che portano al risveglio della parte di spirito assoluto presente in noi,
per conseguire i massimi benefici dello yoga. Lo spirito assoluto risiede in noi
dalla nascita e lo yoga permette solamente di renderci conto della sua esistenza e
di goderne. Questo è sicuramente un concetto fondamentale per tutta l'opera.

Questo sutra viene spesso tradotto “i poteri sono conseguiti alla nascita oppure
con mezzi chimici (droghe) o con i mantra o con la mortificazione fisica o con la
concentrazione”, anche in autorevoli testi, tra i quali quello di Swami
Vivekananda. Contravvenendo quanto sin qui fatto, riportiamo la sua versione
originale, pubblicata: “The Siddhis (powers) are attained by birth, chemical
means, power of words, mortification or concentration”. Senza entrare nel merito,
ci sembra tutto molto lontano da quanto sin qui professato dall'autore, da dove
compaiano ora le droghe o le pratiche ascetiche nel discorso di Patanjali risulta
oscuro, dato che non se ne è fatto cenno tra gli otto passi né altrove, così come
il perché questi sei fattori siano tra loro alternativi e non complementari. Come
sempre riportiamo le traduzioni di altri autori, qualora significativamente
diverse e diffuse, per rendere chiaro che esiste sempre una certa interpretazioni
per taluni sutra e che esistono ben avvalorate alternative, non per una polemica o
per denigrare il valore indiscusso di ben noti commentatori. Per lo stesso motivo a
volte indichiamo perché si è scelta una linea interpretativa, senza spingerci
nell'esegesi della critica del testo o nei meandri di tremila anni di filosofia del
pensiero Indiano, da cui non usciremmo con le idee più chiare.

YSIIII:2. jaty antara parinamah prakrity apurat


La trasformazione fisica genera l'evoluzione delle proprie potenzialità interiori.
Da solo questo sutra può bastare a farci ripensare tutte le nostre idee sullo
yoga. Riteniamo che il significato proposto possa parlare direttamente ad ogni
praticante e non ci dilungheremo nella sua spiegazione. Il risveglio dell'energia
kundalini è un processo sia fisico che spirituale e, in questa accezione, prima
fisico e poi spirituale, prima inteso temporalmente e non come importanza. La
fisiologia sottile, il viaggio del prana attraverso i sette chakra e
l'illuminazione che ne consegue alla fine del percorso, sono un processo che
riguarda il corpo, la mente e lo spirito. Le pratiche descritte dall'autore nel
secondo libro sono mirate di volta in volta ad aspetti che noi riconduciamo a
taluno di questi tre campi, ma in realtà “curano” una unica entità, cioè noi
stessi.

Mi fa sorridere come in occidente spesso maestri che si proclamano “spirituali”


sviliscano la pratica fisica in favore di quella più meditativa o interiore. Questo
atteggiamento è meno conosciuto in India dove, anzi, i discepoli cercano tracce
fisiche della santità, della saggezza o dell'esperienza del guru, altrimenti è
difficile che gli diano credito. Molte volte mi è capitato di sentire commenti
canzonatori, da parte di smaliziati osservatori indiani, nei confronti di sedicenti
sadhu, qualora fossero sovrappeso, oppure nervosi, oppure avessero atteggiamenti
molto inclini alle vicende del mondo, cellulare compreso. In effetti si trattava
spesso di questuanti travestiti in modo folkloristico, soprattutto nelle grandi
città. Ma non divaghiamo. Il saggio porta per gli indiani il segno della sua
santità anche nel corpo e probabilmente da essa è iniziata e ne trae origine.

YSIIII:3. nimittam aprayojakam prakritinam varana bhedastu tatah ksetrikavat


Tuttavia le causa esterne non sono sufficienti a muovere le tendenze naturali
interne; si limitano a rimuovere gli ostacoli come avviene per l'irrigazione di un
campo: il contadino rimuove gli ostacoli e l'acqua scorre liberamente per suo
conto.

Anche in questo caso il concetto sembra chiaro. Patanjali, nel sutra precedente,
ha affermato che la pratica fisica ingenera le evoluzioni che portano al risveglio
dello spirito o ad accorgersi del proprio spirito che dir si voglia. Ora chiarisce
che però la pratica fisica non genera le doti spirituali. La pratica fisica si
limita a rimuovere gli ostacoli che impediscono all'energia che tutto pervade di
muoversi all'interno di noi e trasformarci spiritualmente. Un altro modo di dire
questo stesso concetto potrebbe essere che lo spirito è presente in noi e le
tecniche fisiche eliminano i processi che ce ne impediscono la percezione, come ad
esempio le oscillazioni della mente. Ed infatti il discorso prosegue in questa
direzione.

YSIIII:4. nirmana chittany asmita matrat


La mente mutevole è generata unicamente dall'identificazione con ciò che è
mutevole.

YSIIII:5. pravritti bhede prayojakam chittam ekam anekesham


Mentre ciò che è mutevole può manifestarsi in molti modi, la mente mutevole ne è il
principio sottostante.

YSIIII:6. tatra dhyanajam-anashayam.


Solamente dyana, la meditazione, permette di raggiungere la libertà dalle
oscillazioni dei mutamenti della mente.

Patanjali esprime ora con parole diverse quanto già affermato nel IV sutra del I
libro, ovvero che lo yoga consiste nella cessazioni delle oscillazioni della mente
(YSI:2) e che quando ciò non si verifica la mante assume la forma delle
oscillazioni stesse (YSI:4). La mente sgombra e priva di oscillazioni è la forma
perfetta che permette di osservare la mente stessa e di farci capire che non
dobbiamo identificarci con i nostri pensieri: noi non siamo la nostra mente e
infatti possiamo osservarla dall'esterno. Questa condizione permette di intravedere
lo spirito che è presente in noi, perché è questo ciò che siamo. Anzi, meglio,
siamo l'integrazione perfetta di spirito, mente e corpo. Ma per nostra stessa
natura tendiamo a percepire solo la mente che rimbalza, muta di condizione e
oscilla senza sosta. L'uomo è il cervello che pensa e basta, questa visione molto
meccanica è sicuramente diffusa in Occidente. Lo yoga ci dimostra ogni giorno il
contrario. In particolare la meditazione, che sappiamo deve essere preparata con
opportune pratiche di asana, con esercizi di respirazione, avendo posto ordine
nella propria vita, eccetera. Il sommo momento di assenza di oscillazioni nella
mente è la meditazione o dyana. Per chi pratica quotidianamente questo passaggio
appare vero se non scontato.
Quarto sutra del primo libro e quarto sutra del quarto libro esprimono lo stesso
concetto, secondo voi è un caso? Direi proprio di no, il percorso si è compiuto e
siamo ritornati al concetto originario, ma con tutta la consapevolezza della
conoscenza acquisita durante questo fantastico viaggio.

Patanjali riflette poi se siano i pensieri a far oscillare la mente o se sia la


mente a produrre pensieri che la perturbano, chiarendo che sia vero questo secondo
caso e cioè che la mente è il principio da cui nascono i pensieri, senza la quale
non ci sarebbero i pensieri. A noi contemporanei questo sembra piuttosto ovvio, ma
l'autore ci tiene a specificarlo, nulla deve essere lasciato al caso. Ai suoi tempi
esistevano anche tesi filosofiche che facevano provenire i pensieri da fonti
esterne all'essere stesso. Non indagheremo oltre.

YSIIII:7. karma ashukla akrishnam yoginah trividham itaresham


L'azione, o karma, dello yogin non è pura né impura, mentre quella delle altre
persone è di tre tipi: pura, impura e mista.

YSIIII:8. tatah tad-vipaka-anugnanam-eva-abhivyaktih vasananam


I tre tipi azioni, o karma, si manifestano allorché le circostanze si rivelano
favorevoli alla loro realizzazione.

YSIIII:9. jati desha kala vyavahitanam-apy-antaryam snriti-sanskarayoh ekarupatvat


Poiché i ricordi e le impressioni sono parte eterna dell'essere, la relazione di
causa ed effetto permane e non svanisce perfino allorché cessa di esistere la
modalità, lo spazio e il tempo in cui si sono compiuti.

YSIIII:10. tasam-anaditvam chashisho nityatvat


E questo processo non ha inizio ne fine, in quanto il desiderio di vivere è eterno.

YSIIII:11. hetu-phala-ashraya-alambanaih-sangrihitatvat-esham-abhave-tad-abhavah
Essendo le conseguenze e le azioni, i principi del karma, legate insieme, in quanto
causa e effetto, gli effetti svaniscono allorché scompaiono le cause.

YSIIII:12. atita-anagatam svarupato-'sti-adhvabhedad dharmanam


Passato e futuro esistono nel presente, tuttavia non sono sperimentati nel presente
in quanto sussistono su piani diversi.

YSIIII:13. te vyakta-suksmah guna-atmanah


Siano essi manifesti o non manifesti, il passato, il presente e il futuro
partecipano della natura della realtà, ovvero dei guna: sono stabili, attivi o
inerti.

Questo lungo discorso sul karma può inizialmente spiazzarci, ma se riprendiamo il


filo del discorso dal principio appare molto più lineare. Le conseguenze delle
azioni su passato, presente e futuro, ovvero il karma, è stato un tema trattato in
tutti i capitoli precedenti degli yoga sutra. Nel primo libro Patanjali afferma che
lo spirito assoluto presente in se stessi, è atemporale e non viene influenzato dal
karma (YSI:24). Nel secondo libro arriva a dichiarare che solamente le azioni
generate dalla sofferenza, azioni che bisogna abbandonare, hanno conseguenze sul
karma (YSII:12). Quindi nel terzo libro sentenzia che la pratica dello yoga
permette di avere chiarezza in merito a quali siano le vicende e le regole del
karma e che è possibile sfuggire al karma una volta raggiunto il sommo livello
della pratica. Ovvero a questo livello di illuminazione le azioni non hanno più
conseguenze karmiche, cessando anche la catena delle rinascite (YSIII:23). Avendo
chiaro questo percorso del pensiero dell'autore appare naturale come ora affermi
definitivamente che lo yogin illuminato, giunto alla vetta della sua pratica,
avendo conseguito i più alti lasciti dello spirito, si sottrae alla legge del
karma. Le sue azioni, in quanto sagge ed illuminate, in quanto compiute con
distacco dai risultati e senza scopo, non hanno conseguenze nel presente e nel
futuro, venendo a mancare la causa, viene a mancare l'effetto. Voi direte che la
causa è l'azione stessa e quindi non viene a mancare, giusta osservazione, ma
l'azione dello yogin è come se non fosse compiuta da lui stesso, egli è il mezzo
per un attore più alto, lo spirito assoluto. Esistono numerosi testi che dibattono
questo tema molto importante per il pensiero indiano, la Bagavat Gita tra gli
altri. Basti pensare che tutto il ciclo delle rinascite e la fortuna che tocca in
sorte nella vita, tutto dipende dal karma, ci sembra normale una simile attenzione
da parte di Patanjali. Se si parla di eliminazione della sofferenza dalla vita, non
è possibile non approfondire e sviscerare il tema del karma.
Il karma è trattato dall'autore in sutra con una numerazione geometricamente
simile nei diversi libri: I:24, II:12, III:24 , IV:12 (N.B. il 3° libro in alcuni
commentari ha un sutra in più o in meno). Non è chiaramente casuale, tutta l'opera
di Patanjali ha delle interconnessioni tra le numerazioni dei sutra, ma abbiamo
riportato queste evidenze solo nel momento in cui sono state particolarmente
rilevanti, per non annoiare il lettore.

Patanjali rammenta anche in cosa consiste il karma delle persone comuni, che possa
essere buono, cattivo o neutro, e che queste tre tipologie diano conseguenze di
pari entità (buone o cattive) in momenti separati dal tempo e dallo spazio, solo
quando l'attimo è opportuno, ma in modo inesorabile perchè il desiderio di vivere è
eterno e quindi il karma, dal quale dipende, è eterno. Cessata la paura della
morte, cessata la brama di vivere e di reincarnarsi, essendosi ricongiunti col lo
spirito assoluto, si sfugge al ciclo eterno e quindi ci si sottrae al karma. Il
presente è la sublimazione di passato e futuro, ma questo non è vero per lo yogi,
che agisce su di un piano differente, un piano spirituale eterno.

I primi tredici sutra del quarto libro hanno espresso concetti veramente
significativi e Patanjali ha sigillato definitivamente la sua visione su due
aspetti fondamentali: il rapporto tra corpo, mente e spirito da una parte e
conseguenza delle proprie azioni nell'armonia del mondo, o karma, dall'altra. Anche
il proseguo di questo quarto libro non sarà da meno.

Yoga Sutra: la mente, la realtà e la liberazione, IIa parte IV libro [YSIIII:14-22]

dicembre 05, 2017

L'ultima parte del quarto libro degli Yoga Sutra di Patanjali, conclusivo
dell'opera, costituisce la summa del suo pensiero e forse la parte più bella e
importante dell’intero testo. Si è detta la stessa cosa per ogni capitolo e gruppo
di sutra, è vero, ma il genio di Patanjali e la bellezza dello yoga da lui
descritto continuano a emozionarci ancora, dopo la non trascurabile cifra di tre
millenni trascorsi. Si può osservare che l'uomo è uno e da quando è venuto al mondo
si è interrogato su chi fosse, sul perché esistesse e su quale fosse il significato
di tutto questo. L'uomo è per eccellenza colui che attribuisce significato al mondo
circostante: dall'arte al linguaggio, dalla filosofia alla religione, ma proprio
per questo tende a sfuggirgli il significato ultimo e ha quindi cercato infinite
strade che lo potessero restituire. L'approccio di questo capitolo è assimilabile
ai grandi sistemi filosofici, seppure con proprie caratteristiche uniche, tra cui
quella forse più importante di descrivere una scienza empirica, cioè non teorica,
ma pratica. Tra gli otto passi che compongono lo yoga, non è prevista nessuna
attività speculativa, ma solamente la pratica costante. Patanjali scrive per i
maestri più che per i discepoli, per chi deve perpetrare il messaggio e per questo
motivo si dilunga in questioni filosofiche, altrimenti estranee allo yoga.
Patanjali ci dice che la pratica porta gli yogin a sentire la perfetta unione tra
mente, corpo e spirito, ma il percorso e i risultati saranno soggettivi. Il
percorso è precluso solamente a chi non prova (o a chi è pigro, come era solito
ripetere Pattabhi Jois). La grandezza e unicità dello yoga consiste, secondo chi
scrive, nell'iniziare non con grandi proclami ma con piccoli passi, con un po' di
allungamento muscolare a terra. “Inizia a praticare, tutto il resto seguirà”
aggiungeva il grande guruji. Nessuno può prevedere esattamente quale sarà il
viaggio, né dove condurrà, ma a chi volesse, con tenacia e costanza, perseverare in
un’intensa pratica (tapah come dice il nostro autore), esso potrebbe riservare
grandi sorprese e offrire una fonte di tranquilla gioia difficilmente eguagliabile,
una ricerca appassionante che dura tutta la vita. E non sono parole vuote. Scusate
l'esternazione, forse fuori luogo, ma a parlare è il mio amore per lo yoga. Ora
lasciamo invece che a parlare sia Patanjali.

YSIIII:14. pariṇama ikatvat vastu tattvam


La qualità di ogni oggetto è data dall'unicità della sua reale composizione.

YSIIII:15. vastusamye citta bhedat tayorvibhaktah panthah


Lo stesso oggetto è visto in modi diversi da menti diverse.

YSIIII:16. na caika citta tantram cedvastu tad apramaṇakam tada kim syat
L'esistenza di un oggetto non dipende dalla percezione di un'unica mente.

YSIIII:17. tad uparaga apeksitvat cittasya vastu jnatajnatam


Un oggetto è noto oppure è ignoto a seconda che la mente lo percepisca oppure no.

In questi quattro sutra Patanjali spiega cos’è la realtà e come noi ci mettiamo in
relazione con essa. Quando scrive “oggetto” o “cosa”, intende oggetto della nostra
attenzione e del nostro pensiero, in contrapposizione a soggetto, ovvero noi che li
osserviamo. Non necessariamente si tratta di oggetti fisici, ma anche di sentimenti
e spirito, per esempio. L'autore non sta parlando degli elementi della tavola
periodica né di atomi ed elettroni (è questa l'interpretazione di Osho), ma come
potrebbe?

Il suo discorso è talmente lineare, chiaro e moderno che sembra scontato:

Ogni cosa su cui poniamo l’attenzione esiste indipendentemente da noi, cioè, anche
se noi non la notassimo, starebbe lì. La sua esistenza dipende dal fatto di avere
una composizione reale che prescinde dal contesto e non dal fatto che noi la
scopriamo e, allo stesso modo, potremmo ingannarci e ritenere reale una cosa che
non lo è e non esiste. Il fatto che noi conosciamo o non conosciamo un oggetto, lo
rende semplicemente a noi noto o ignoto. Ognuno di noi percepisce la realtà e le
cose che la compongono in un modo differente, prescindendo dai reali elementi
costitutivi.
Le esperienze di diverse persone, il loro carattere intimo, la loro mente, possono
offrire un significato completamente diverso per i medesimi oggetti.

Patanjali prende fermamente le distanze da tutta la linea di pensiero che ritiene


la realtà, in ultima analisi, generazione o mero inganno della mente. Per assurdo,
il mondo esisterebbe anche se non vi fosse nessuno a osservarlo. L'interpretazione
della realtà da parte della mente è però soggettiva. Successivamente chiarirà che
la realtà oggettiva deve essere percepita andando oltre la mente, che inganna. La
realtà non è il sogno della nostra mente e quando meditiamo, escludendo la mente,
ne abbiamo la prova: quella è la realtà, priva di inganni.
Che messaggio magnifico!
YSIIII:18. sada jnatas citta vrttayas tat prabhoh purusasyaparinamitvat
Il vero se stessi, può osservare le oscillazioni della mente, perché esso è lo
spirito immutabile.

YSIIII:19. na tat svabhasam drsyatvat


La mente non brilla di luce propria, dal momento che è essa stessa percepibile.

Un minuto di raccoglimento sul significato di queste parole in relazione alla


pratica che ognuno di noi svolge: il vero se stesso può osservare le oscillazioni
della mente, perché esso è spirito immutabile. La mente non brilla di luce propria,
dal momento che è essa stessa percepibile.
Dopo un'ora e mezza di estenuante pratica, completa di ogni elemento,
coerentemente con quanto descritto da Patanjali nel secondo libro, dopo anni di
esperienza giornaliera, seduti a gambe incrociate, alla fine, banalmente, cosa
percepiamo? Che la mente può essere controllata e osservata come fosse una nostra
mano. Chi osserva la mente? Noi stessi, nella nostra parte più intima, il nostro
spirito individuale, drasthu o purusha che dir si voglia. L'autore aveva già
dichiarato questo concetto all'inizio dell'opera, ma in quel contesto poteva
sembrare un'affermazione un po’ dogmatica perché non avevamo gli strumenti per
afferrarne il significato e infatti, dopo aver compiuto tutto il percorso, egli vi
ritorna. Nel secondo e terzo sutra del primo libro leggevamo: “Lo Yoga consiste
nell'arresto delle oscillazioni della mente, così acquisiamo la consapevolezza
dello spirito”. Il concetto si spinge oltre: Patanjali afferma che un praticante
consapevole è in grado di osservare in realtà la mente mentre oscilla, perché
anche essa è una componente inprescindibile del nostro spirito. Il vero se stesso
si compone di spirito immutabile, mente e corpo, differenti manifestazioni di
un'unico essere. La vita ci porta a separare queste entità, la pratica a riunirle.

YSIIII:20. eka samaye cobhaya an avadharaṇam


E' impossibile per la mente conoscere simultaneamente il soggetto che percepisce e
l'oggetto che viene percepito.

YSIIII:21. cittantara drsye buddhi buddheh atiprasangah smrti samkarasca


Se si desse per assunto che un secondo tipo di mente illumini la prima, si dovrebbe
anche assumere una cognizione della cognizione, all'infinito, e la confusione
sarebbe completa.

E' difficile rendere con parole altrettanto semplici questo concetto in realtà
molto lineare:
quando la mente è impegnata, vediamo solo l'oggetto che la impegna. E' il medesimo
concetto espresso nel quarto sutra del primo libro: quando non si arrestano le
oscillazioni della mente, essa assume la forma delle oscillazioni stesse. Se penso
a cosa mangerò per cena o che ho freddo, tutta la mia mente sarà pervasa da quel
pensiero. Per la stessa ragione potremmo dire che è praticamente impossibile
formulare due pensieri evoluti in maniera esattamente contemporanea, perché la
mente è pervasa dall'uno o dall'altro, o meglio in quel momento essa è quel
pensiero. Ma che succede quando i pensieri si fermano? Quando le oscillazioni della
mente si arrestano? Percepiamo ciò che osserva e non ciò che viene osservato,
ovvero lo spirito che osserva la mente stessa, e ci accorgiamo che una è
manifestazione dell'altro.
Possiamo spingerci oltre e affermare che la mente e il nostro spirito sono un'unico
soggetto, la distinzione è puramente funzionale alla comprensione del discorso e la
parte “spirito” di questo unico soggetto si palesa quando si spengono i pensieri.

Alcune scuole filosofiche contemporanee di Patanjali, per spiegare il fatto che la


mente potesse essere osservata e quindi superare l'impasse su chi fosse
l'osservatore, introducevano il concetto di una seconda mente che osserva la prima
ma, come giustamente fa notare il nostro autore, se entriamo nel circolo che la
prima mente osserva la seconda dovremmo assumere il concetto che la seconda è
osservata da una terza e così via, all'infinito, senza risolvere di fatto la
questione. Concordiamo con Patanjali, questa spiegazione confonde. Esiste poi
un'altra scuola che sostiene che la prima mente osserva la seconda e la seconda la
prima in un gioco schizofrenico di specchi, e anche questa risposta, più che
chiarire, rimanda soltanto la soluzione ultima del problema di chi sia il testimone
ultimo della realtà, problema cui Patanjali offre un ulteriore tassello nel
prossimo sutra.

YSIIII:22. citer aprati samkramayah tad akara apattau svabuddhi sam vedanam
La conoscenza della propria natura, si consegue allorché la consapevolezza assume
quella stabilità per cui è immodificabile.

Come ormai siamo abituati, il senso dei sutra è spesso concatenato uno con il
successivo, come in questo caso, in cui il soggetto è il sutra precedente: la
percezione del proprio io, ovvero il fatto che noi siamo spirito, si riesce a
raggiungere quando si interrompono le oscillazioni della mente in modo stabile per
un periodo significativo, quindi in relazione alla pratica, quando non si salta più
da uno stadio all'altro. Il ritiro dei sensi precedeva la concentrazione per poi
arrivare alla meditazione e al samadhi, o ricongiungimento con lo spirito assoluto.
La conoscenza di essere in primo luogo spirito si consegue quando si riesce a
rimanere nella condizione di samadhi in modo protratto; questo stato infatti,
sembra suggerire Patanjali, può essere portato anche al di fuori della pratica. Il
soggetto testimone della realtà è uno ed è il nostro spirito. Esso è
autoconsistente, è come una candela che illumina la stanza, non dobbiamo supporre
l'esistenza di un'ulteriore luce per osservare la candela stessa. La luce illumina
anche se stessa. Svabuddhi sam vedanam: la coscienza più profonda è immodificabile,
è auto-illuminante. Ecco che siamo arrivati alla vera risposta, senza rimandarla
all'infinito.

Nei sutra conclusivi, si entrerà ancora più in profondità su quali siano le


caratteristiche della mente e dello spirito che donano la libertà a colui che
pratica yoga e giunge al massimo livello.

Yoga Sutra: il grande finale, IIIa parte IV° libro


dicembre 22, 2017

di Marco Sebastiani

Gli ultimi dieci Sutra dell'opera di Patanjali raccontano come il corpo , la mente
e lo spirito raggiungano la liberazione grazie allo yoga. Liberazione dai desideri
effimeri, dal falso conoscere, la liberazione dalla sofferenza del vivere e dalle
conseguenze delle proprie azioni. Quando ogni azione è guidata dai principi dello
yoga illustrati nel secondo libro (non violenza ,verità , onestà, morigeratezza,
frugalità; purezza, appagamento, pratica intensa, studio di sè‚ abbandono allo
spirito assoluto); quando ogni azione non ha più nessuno scopo utilitaristico, né
di raggiungere il bene né di raggiungere il male; allora le azioni compiute non
hanno più conseguenze che possano toccare il nostro cuore in questa vita; si
raggiunge quindi la pace e la liberazione. Il percorso illustrato da Patanjali è
stato lungo, ma ora che è possibile osservarlo nella sua interezza, colpisce in
modo particolare l’organicità del pensiero. Egli ha descritto lo yoga compiendo un
percorso non lineare, ma molto efficace: ha iniziato nel primo libro definendo il
termine stesso di yoga, come la cessazione delle oscillazioni della mente e il
perché dell’importanza di questa condizione per il ricongiungimento con lo spirito
assoluto. Ha poi proseguito indicando passo per passo il sentiero da compiere. Il
secondo libro è senza dubbio la parte fondamentale dell’opera, il manuale per come
arrivare all’illuminazione, alla consapevolezza, alla felicità o alla liberazione
che dir si voglia. E' il manuale dello yoga. Il secondo libro è la luce che indica
la strada da seguire. Nel terzo capitolo Patanjali ha spiegato dove porta questa
pratica, quali sono gli effetti di tutti questi sforzi fisici e mentali, gli
effetti di questa pratica metodica e intensa. Infine l’autore ci mostra il quadro
d'insieme o, meglio, ci spiega che la pratica non deve diventare fine a se stessa,
ma all’ultimo va ababndonato anche l’attaccamento alla pratica e ai bellissimi doni
che questa regala, in favore di una totale liberazione da ciò che è terreno e
materiale, in favore di una pace completa ed assoluta. Questo ultimo capitolo è in
generale quello preferito dagli studiosi, dai filosofi, ma anche dagli asceti, che
qui trovano un’analisi delle grandi questioni della vita. Alcuni maestri indiani
che ho conosciuto, bramini che avevano dedicato l’intera vita allo yoga, guardavano
con sospetto e forse anche con disinteresse al quarto libro, per motivi differenti.
Taluni mi spiegavano che erano felici nella loro pratica quotidiana, nell’unione
della mente e del corpo e nell'estasi dello spirito e che altro non gli
interessava. La quotidianità dei riti dei bramini e la visione del mondo induista,
giocano forse un ruolo importante in questa scelta. Altri ritenevano che gli
argomenti riguardanti le massime sfere dello spirito, non possano essere
concettualizzati o, meno che mai, scritte, ma che siano solamente nel proprio animo
e che, anzi, concettualizzarle avrebbe nuociuto alla loro esperienza perché avrebbe
creato un sentiero non più completamente libero, ma preordinato o comunque con
delle aspettative di un certo tipo. Immagino che queste stesse osservazioni
potessero essere rivolte all’autore anche dai suoi contemporanei, siamo quindi
estremamente grati a Patanjali per aver formalizzato qualcosa che i più forse
avrebbero lasciato segreta, una scienza per iniziati, al massimo da tramandare da
maestro a discepolo.

YSIIII:23. drastr drsy opa raktam cittam sarva artham


Allorché la mente è in grado di comprendere il soggetto che conosce e l'oggetto
conosciuto, essa comprende tutto.

YSIIII:24. tad asankhyeya vasanabhih citram api parartham samhatya karitvat


La mente, anche se perturbata da innumerevoli desideri, ha un altro scopo, vale a
dire stabilire una connessione tra il mondo esterno e il vero sé.

Il significato ultimo di questo sutra è più semplice di quanto sembri. Nei sutra
precedenti erano stati illustrati due concetti di primaria importanza. In primo
luogo veniva esaminato come l'eliminazione delle oscillazioni della mente
permettesse di osservare la mente stessa e di comprendere che l'osservatore, il
soggetto che conosce, fosse lo spirito individuale. In un passaggio successivo
Patanjali rivelava che spirito e mente sfossero in realtà una unica entità che
insieme al corpo costituisce noi stessi, ovvero il soggetto che osserva la realtà.
In secondo luogo diceva che realtà fosse oggettiva, ma che ogni differente persona
ne riceveva una impressione differente a causa della perturbazione della mente.
Quando cessano le oscillazioni della mente, riusciamo a vedere la realtà nella sua
vera forma, attraverso una intuizione dello spirito, come quando siamo immersi in
una meditazione profonda.
Ora si sommano questi due concetti, affermando che avendo portato calma ed
illuminazione nella mente, conosciamo realmente noi stessi e il nostro spirito, ma
anche il mondo che ci circonda.
La mente è un ponte tra noi stessi e il mondo, per usare la metafora di un grande
autore, e quando posta nella giusta condizione, comprende ogni cosa. La realtà ha
due facce: il mondo interno a noi ed il mondo esterno a noi, lo yoga permette di
comprendere entrambe ed avvicinare il praticante alla liberazione dalla sofferenza
e dall'illusione.
La mente è un organo di senso, questo punto di vista è particolarmente importante,
come avevamo detto in precedenza. La pratica allena a comprendere come la mente si
possa muovere ed osservare alla stregua di una mano; ora Patanjali ritorna su
questo concetto affermando che la mente ha lo scopo di trasferirci informazioni dal
mondo esterno. Quando è perturbata e non ne abbiamo la giusta consapevolezza,
queste informazioni sono inganni, come i desideri inutili e sbagliati. Per tornare
alla metafora precedente delle mani, quando la mente è perturbata, si agisce come
chi al buio agiti inutilmente le mani davanti a sé, invece di procedere toccando ed
analizzando. Ma ristabilita la quiete le mani possono essere utilizzate in vece
degli occhi. La mente, ristabilita la quiete, può essere utilizzata come strumento
conoscitivo del vero sé, dello spirito. A questo punto la mente e lo spirito, ed il
corpo aggiungeremo noi facendo riferimento a quanto affermato nei libri precedenti,
lavorano all'unisono, si ricongiungono, c'è unione, c'è armonia, c'è yoga nel suo
significato sanscrito di aggiogamento e unione. Il fine ultimo dello yoga è vicino.
La liberazione è vicina. In questo, il pensiero indiano e lo yoga come sua alta
manifestazione, si differenziano in modo fondamentale dai due punti di vista
principali dell'Occidente, quello materialistico e quello religioso. Da una parte
il corpo non è visto come la sede inutile dello spirito, ma al contrario ne è la
manifestazione e attraverso di esso prendiamo consapevolezza dettagliata dello
spirito stesso. Dal lato opposto, l'uomo non è immaginato come la sola unione di
carne, sangue e un cervello pensante, non siamo ciò che pensiamo, anzi proprio
quando smettiamo di pensare cogliamo la nostra essenza più alta e spirituale.

YSIIII:25. visesa darsinah atmabhava bhavana ni vrttih


La mente che comprende tutto arresta i desideri riflessi in noi stessi.

YSIIII:26. tada viveka ninnam kaivalya prag bharam chittam


La mente rafforzata dal discernimento, gravita verso la liberazione.

Essendo la mente l'organo ultimo di percezione della realtà, quando illuminata,


restituisce la giusta comprensione del mondo e la giusta comprensione di se stessi
e dello spirito in noi. A questo punto non ci possono essere desideri. I desideri
sono frutto di una cattiva interpretazione della realtà: immagino che un'azione o
un evento possano avere conseguenze positive nei miei confronti, non rendendomi
conto che l'aspettativa e l'epilogo, paradossalmente qualunque esso sia, positivo o
negativo, potranno portare esclusivamente sofferenza. L'ultimo desiderio è quello
di vivere e la paura della morte che ne consegue, la caduta dell'ultimo desiderio è
la cessazione della paura di morire, la caduta del Sè.

YSIIII:27. tach chhidreshu pratyaya antarani sanskarebhyah


La condizione raggiunta è perturbata dai preconcetti sorti grazie alla forza delle
impressioni precedenti.

YSIIII:28. hanam esam klesavad uktam


Questi pensieri possono essere eliminati come descritto in precedenza (ovvero
riconducendo la mente al giusto discernimento e abbandonando i desideri).

Inizialmente, anche il saggio illuminato è soggetto a possibili regressioni. Una


vita passata nel mondo dell'illusione, dell'attaccamento e dei desideri, ha
generato abitudini molto radicate. Per estirparle in via definitiva bisogna agire
come detto. Questa affermazione è un pochino ermetica lo ammettimo. Infatti tutte
le traduzioni offrono una interpretazione differente del termine uktam, “come
descritto in precedenza”, cercando giustamente di restituirne il significato
ultimo, di spiegare cosa si sia detto in precedenza. Secondo chi scrive il termine
si riferisce a due ambiti: in primo luogo a quanto detto nei sutra immediatamente
precedenti riguardo alla mente ed alla capacità di discernere il vero io e il vero
mondo reale, quindi, in buona sostanza, riconducendo la mente al giusto modo di
pensare ed il conseguente abbandono dei desideri. In secondo luogo si riferisce a
quanto detto in tutta l'opera precedente, a tutto il viaggio che costituisce lo
yoga di Patanjali, che ha portato il praticante fino a questo punto.

YSIIII:29. prasamkhyane pyakusidasya sarvatha vivekakhyateh dharma meghas samadhih


Chi riesce ad essere distaccato anche dagli stati di consapevolezza più esaltanti,
discernendo sempre e in ogni circostanza, entra nello stato finale di integrazione
inmperturbabile con lo spirito assoluto, ovvero dharma meghah samadhi.

Il distacco va esercitato anche verso la pratica, quindi non bisogna praticare


pensando all'ottenimento di un risultato. Questo concetto era già stato espresso da
Patanjali. L'ultimo passo della pratica è il non praticare, sembra una
contraddizione o un gioco per eruditi, ma non lo è. Ad un livello più basso,
potremmo aver sperimentato anche noi l’ ossessione verso la pratica, attaccamento e
desiderio verso, ad esempio, la nostra pratica quotidiana del mattino. Saremmo
stati male se non avessimo praticato. Questo è un tipico esempio di sofferenza
causata da un desiderio, sia pure elevato quanto vogliamo. Allo stesso modo
potremmo esserci sentiti insoddisfatti dopo una pratica nella quale non avessimo
sentito le stesse sensazioni di una precedente più esaltante. Questo ne è un'altro
esempio. Ad un livello più alto lo stato finale di libertà della mente e dello
spirito è mantenuto anche senza la pratica o comunque con una pratica
disinteressata dai risultati raggiunti. Si praticherà come costume di vita, non per
ottenere qualcosa in cambio. Si giunge quindi all'illuminazione, quando i veli del
mondo cadono nel ricongiungimento con lo spirito assoluto. Il concetto di dharma
meghah samadhi offre il fianco a varie interpretazioni, è il livello più alto della
pratica, non fa una grande differenza a nostro giudizio tradurlo unione spirituale
con la legge cosmica, dissoluzione delle impurità e delle distorsioni oppure, come
abbiamo fatto, integrazione imperturbabile con lo spirito assoluto, che comunque ci
sembra più in linea con il significato di samadhi portato avanti sin qui
nell'opera.

YSIIII:30 tatah klesa karma nivrttih


Quindi segue la liberazione da ogni sofferenza e da ogni karma.

Ad un primo livello di interpretazione, quando ogni azione non ha più nessuno


scopo utilitaristico, né di raggiungere il bene né di raggiungere il male, non ha
più nemmeno alcuna conseguenza che possa toccare il nostro cuore in questa vita; si
raggiunge quindi la pace e la liberazione. Non possiamo però ignorare che esista
anche un livello interpretativo più profondo in quanto sia i buddisti che gli
induisti ritengono che , semplificando un po’, questo ultimo gradino, la perfetta
illuminazione conseguente in ultima istanza l'abbandono definitivo dei desideri e
della paura della morte, collochi il soggetto al di fuori della legge del karma:
sono disinteressato al frutto delle mie azioni perché non agisco per desiderio,
sono illuminato e sono quindi al di fuori del ciclo delle reincarnazioni,
nell'ultimo traguardo per la felicità e la pace assoluti ed eterni. Questa è la
liberazione, una liberazione che avviene in primo luogo in terra ma che si propaga
nell’eternità. [NB in talune opere i sutra 29 e 30 sono invertiti di numero]

YSIIII:31. tada sarva avarana malapetasya jnanasya anantyat jneyamalpam


Una volta che tutti i veli e le imperfezioni che nascondono la verità sono stati
spazzati via, l'intuizione è sconfinata e poco resta ancora da conoscere.

YSIIII:32. tatah krtarthanam parinama krama samaptir gunanam


Quindi comincia a crollare il flusso continuo della realtà, trasformata dalle
qualità fondamentali della natura, realizzandosi così la vera missione della
coscienza.
YSIIII:33. ksana pratiyogi parinama aparanta nirgrahyah kramah
Infatti si può vedere che il flusso è in realtà una serie di eventi discreti,
ciascuno corrispondente al più piccolo istante di tempo, in cui una forma diventa
un'altra.

Lo yogi si pone fuori dal flusso del tempo. Il tempo è la trasformazione della
realtà naturale che ci circonda, una realtà che se non cambiasse, sarebbe immobile
e non avrebbe il concetto di tempo. Analogamente a quanto fatto dai filosofi greci,
in particolare da Zenone di Elea, suo contemporaneo storico, Patanjali osserva che
il tempo può essere scomposto in una successione di attimi immobili, di cui ha
prontezza colui che percepisce la vera realtà, potendo prolungare all’infinito un
singolo attimo. Il praticante illuminato ricongiungendosi con lo spirito assoluto
ferma il tempo e si pone nella stessa dimensione dello spirito, atemporale. Il
concetto di tempo è inoltre molto esteso e importante per gli Induisti. Noi siamo
soliti ragionare in termini di una vita, o al massimo in termini di tempo storico,
tre o quattromila anni, contrapponendo questo all’eternità. Gli induisti ragionano
invece in termini di cicli molto più lunghi. Non vogliamo ripercorrere la
cosmologia indiana, ma basti pensare che sulla terra si susseguono quattro Yuga, o
ere, per un totale di circa quattro milioni di anni, che si ripetono a formare un
kalpa o giorno di Brahma, di circa quattro miliardi e mezzo di anni (come l’età
della terra stimata dagli scienziati), al termine dei quali il mondo viene
distrutto da Shiva e ricreato da capo. Essere incarnati nel tempo del cambiamento,
per un’anima che ciclicamente ritorna nel mondo ha quindi conseguenze che hanno una
durata oltre quella che generalmente siamo abituati a considerare, la liberazione
che ne deriva acquisice connotati particolari e avvicina il soggetto all’unico
spirito che tutto pervade, imperituro o, meglio, l’Imperituro di cui parla la Gita.
Shiva o la trinità Bramha, Shiva e Visnù o altre visioni secondo i molti rami
dell’Induismo.
Il fine della presa di coscienza è quello di far crollare il tempo e l’alternarsi
delle ere, ponendo il soggetto sul piano atemporale dello spirito assoluto.

YSIIII:34. purusa artha sunyanam gunanam pratiprasavah kaivalyam svarupa pratistha


va citisaktiriti
La liberazione, kaivalya, compie quindi l'obiettivo del vero sé, o purusha: la
materia e la natura, cioè i guna, sono superati. Viene quindi rivelata la vera
sostanza dell'essere e la forza della conoscenza assoluta.

Lo spirito che abbiamo dentro di noi è della stessa sostanza dello spirito che
tutto pervade ed ha quindi già connaturato in sé il ricongiungimento finale. La
conoscenza assoluta regala la liberazione in questo ricongiungimento. L'uomo non fa
parte della natura, ma di chi l'ha creata.

Il viaggio è giunto alla fine, non stupisce di essere arrivati così in alto,
l’autore ci aveva avvisato che le esperienze sarebbero state oltre l’ordinario e
gli obiettivi massimi e totalizzanti.

Sutra significa letteralmente "filo". Speriamo di aver reso almeno il “filo” del
discorso, restituendo organicità all’opera, dal primo all’ultimo verso, con un
discorso coerente. Utilizzando una metafora di un’autore più illuminato di chi
scrive (Jaggi Vasudev) potremmo dire che ogni sutra è però come una formula.
Chiunque conosca l'alfabeto può scrivere "E = mc²". Ma dietro questa piccola
formula c'è un'enorme quantità di scienza che può essere compresa su vari livelli.
Ogni formula, ogni sutra, può restituire risultati sensibilmente diversi e la
grande bellezza degli Yoga Sutra è proprio questa, cambiando il contesto nel quale
vengono tradotti o analizzati il risultato cambia leggermente. E non pensiate che
un lavoro esegetico scrupoloso di comparazione sia quello che porta più lontano.
Forse proprio le versioni più incoerenti e criptiche che mi sono capitate tra le
mani, erano quelle che analizzavano l’evoluzione delle interpretazioni e traduzioni
dal sanscrito nel corso degli ultimi secoli. Spesso a seconda della scuola di
apparteneza dell’autore il significato viene forzato per essere coerente con tale
scuola e comparando e analizzando tutte queste versioni non aumenta la nostra
capacità di comprensione ultima. Analogamente anche chi abbia cercato di
ripercorrere filologicamente la storia dei principali termini sanscriti utilizzati
nell’opera ha spesso fallito poi nel ricondurre al significato originario,
d’insieme, finale. Chi afferma infine che il significato sia chiaro e univoco
spesso afferma anche che lui stesso sia il solo ad averlo afferrato. La nostra
posizione è molto distante da queste dichiarazioni e, come dicevamo, non
rivendichiamo di aver compreso il significato ultimo e assoluto di un’opera tanto
intima e profonda, ma almeno di esserci potuti creare una nostra interpretazione
onesta, perché non viziata da uno scopo pre-esistente o da un fine e fedele il più
possibile al significato stretto dei termini sanscriti, e, ci sembra, organicamente
coerente dall’inizio alla fine.

Ci piace però completare il discorso ricordando che Patanjali è considerato da


intere generazioni di praticanti, di guru, di sacerdoti, di luminari e di filosofi,
anche enormenmente lontani nello spazio e nel tempo tra loro, uno dei più grandi
uomini che ha camminato su questo pianeta, per averci consegnato l’arte della quale
può essere considerato quantomeno il padre putativo, lo yoga.

Patanjali Yoga Sutra, Primo Libro: Il ricongiungimento [new]


gennaio 19, 2018

di Marco Sebastiani

Questa nuova edizione dell’opera di Patanjali vuole rispondere ad una domanda: gli
Yoga Sutra arrivano ancora al cuore dei praticanti? E ancora: Chi pratica yoga è
interessato ad approfondire le radici spirituali antiche? E’ quindi possibile
tradurre gli yoga sutra di Patanjali in modo che non solo siano immediatamente
comprensibili ma che arrivino al cuore dei praticanti? Non lo so. Ma, qualora fosse
possibile, chi pratica yoga sarebbe ancora interessato? Il commento sarà ridotto al
minimo e volto solamente a dare una visione d'insieme per chi non conosca già
l'opera oppure il contesto di riferimento. La traduzione sarà il più semplice e
lineare possibile. Ripercorrendo infatti i vari filoni interpretativi delle varie
scuole, mi sono reso conto che si oscilla tra interpretazioni molto vivide, ma che
spesso hanno un significato distante dalla moderna pratica dello yoga, e traduzioni
molto tecniche in cui il senso ultimo è rimandato a pagine e pagine di commentari.
Lasciare molti termini in sanscrito è pratica diffusa, ma appesantisce molto la
lettura, con una catena interminabile di definizioni. Inoltre il significato di
tali termini è a volte dato per scontato, ma analizzando con cura, ogni autore ne
ha in realtà una propria visione personale.

Sutra significa letteralmente "filo". Cercheremo di rendere in primo luogo il


“filo” del discorso, restituendo organicità all’opera, dal primo all’ultimo verso,
con un discorso coerente. Utilizzando una metafora di un’autore più illuminato di
chi scrive, Jaggi Vasudev, potremmo dire che ogni sutra è però come una formula.
Chiunque conosca l'alfabeto può scrivere "E = mc²". Ma dietro questa piccola
scritta c'è un'enorme quantità di scienza che può essere compresa a vari livelli.
Ogni formula, ogni sutra, può restituire risultati sensibilmente diversi e la
grande bellezza degli Yoga Sutra è proprio questa, cambiando il contesto nel quale
vengono tradotti o analizzati il risultato cambia leggermente. E non pensiate che
un lavoro esegetico scrupoloso di comparazione sia quello che porta più lontano.
Forse proprio le versioni più incoerenti e criptiche che ho avuto modo di studiare,
erano quelle che analizzavano l’evoluzione delle interpretazioni e traduzioni dal
sanscrito nel corso dei secoli. Spesso, a seconda della scuola di appartenenza
dell’autore, il significato viene forzato per essere coerente con tale scuola e
comparando e analizzando tutte queste versioni non aumenta la nostra capacità di
comprensione ultima. Analogamente anche chi abbia cercato di ripercorrere
filologicamente la storia dei principali termini utilizzati nell’opera ha spesso
fallito poi nel ricostruire il significato originario, d’insieme.

Chi afferma infine che il significato degli Yoga Sutra sia chiaro e univoco spesso
afferma anche che lui stesso sia il solo ad averlo afferrato. La mia posizione è
molto distante da queste dichiarazioni e, come dicevo, non rivendico di aver
compreso il significato ultimo e assoluto di un’opera tanto intima e profonda, ma
almeno di aver potuto creare una interpretazione onesta, perché non viziata da uno
scopo preesistente o da un fine, e fedele il più possibile al significato letterale
dei termini sanscriti, e, ci sembra, organicamente coerente dall’inizio alla fine.

Patanjali descrive lo yoga compiendo un percorso non lineare, ma molto efficace:


inizia nel primo libro definendo il termine stesso di “yoga” come la cessazione
delle oscillazioni della mente e stabilendo l’importanza di questa condizione per
il ricongiungimento con lo spirito assoluto. Prosegue poi indicando passo per passo
il sentiero da compiere. Il secondo libro è senza dubbio la parte fondamentale
dell’opera, il manuale per come arrivare all’illuminazione, alla consapevolezza,
alla felicità o alla liberazione che dir si voglia. E' il manuale dello yoga. Il
secondo libro è la luce che indica la strada da seguire. Nel terzo libro Patanjali
spiega dove porta questa pratica, quali sono gli effetti di tutti questi sforzi
fisici e mentali, gli effetti di questa pratica metodica e intensa. Infine l’autore
ci mostra il quadro d'insieme o, meglio, ci spiega che la pratica non deve
diventare fine a se stessa, ma all’ultimo va abbandonato anche l’attaccamento alla
pratica e ai bellissimi doni che questa regala, in favore di una totale liberazione
da ciò che è terreno e materiale, in favore di una pace completa ed assoluta.

Dovendo trattare ogni singolo aspetto dello yoga, era possibile scegliere vari
percorsi alternativi. Gli Yoga Sutra hanno sicuramente il dono di essere molto
concisi, in meno di duecento sutra viene affrontata ogni aspetto della natura dello
yoga. Non necessariamente questo stesso percorso è raccomandabile a chi si accosta
inizialmente allo yoga, anzi. Molti illuminati maestri consigliano infatti di
iniziare proprio dall’esercizio fisico per poi approfondire in maniera spontanea
ogni altro aspetto della pratica ed arrivare a comprendere il senso di tutto
questo, nonché sperimentare i doni che ne conseguono. Dovendo però affrontare un
discorso necessariamente speculativo, l’autore ha preferito gettare le basi delle
definizioni che verranno utilizzate in seguito e definire lo scopo ultimo dello
yoga. Patanjali procede in questo primo libro dall’universale verso il particolare,
l’incipit è quindi molto elevato, viene data la definizione di yoga, il massimo
livello raggiungibile con la pratica, viene definito il fine ultimo della pratica.
Viene anche illustrato il perché sia necessario un certo tipo di pratica. Alcune
affermazioni che in prima istanza sembrano leggermente dogmatiche, sono chiarite e
approfondite nel seguito dell’opera.

Patanjali Yoga Sutra, Primo Libro

Samadhi Pada
Capitolo sul ricongiungimento

YSI:1. atha yoga anuasanam


Ora [illustreremo] la disciplina dello Yoga.
YSI:2. yoga citta vritthi nirodha
Lo Yoga consiste nel controllo delle oscillazioni della mente.

YSI:3. Tada drastuh svarupe ‘vasthanam


In questo modo lo yogin acquisisce la consapevolezza del proprio spirito.

YSI:4. Vrtti sarupyam itaratra


Nei momenti in cui non c’è consapevolezza, il soggetto si identifica con le
oscillazioni della mente.

Quando la mente è in movimento, oscillando da un pensiero all’altro, è impossibile


prendere coscienza della parte più elevata dell'io e l’uomo si identifica con i
propri pensieri. Io sono la mente pensante, sono in quanto penso. Lo yoga ci
permette, secondo Patanjali, di superare questa identificazione, di osservare la
nostra mente acquietata e di capire quindi che ciò che la sta osservando è qualcosa
che sta al di sopra di essa, ovvero il nostro spirito. In queste condizioni, come
vedremo, sperimentiamo pace e benessere. Per alcuni queste affermazioni potrebbero
sembrare artificiose. Soprattutto per chi non ha una pratica yoga consolidata negli
anni. Questa ricerca è d'altronde comune in tutte le culture, in tutte le religioni
e in tutte le pratiche spirituali, di tutti i tempi, tra i santi come tra la gente
comune, tra i frati, i monaci e gli asceti come tra i semplici praticanti o gli
allievi, con caratteristiche piuttosto simili. La base comune è il superamento
della mente pensante e un contatto con qualcosa di più elevato rispetto al mondo
dei sensi e della speculazione. Patanjali è però l'unico che darà la ricetta di
come fare. Nei sutra successivi definirà come compiere questo viaggio. Non è un
percorso facile, non basta sedersi a gambe incrociate, ma nemmeno impossibile. Il
nostro autore lo articola in otto punti: Ashtanga (=otto membra) Yoga, riassumibili
in principi etici e morali, come non rubare, non nuocere al prossimo, studiare se
stessi, ed esercizi pratici, come le posizioni del corpo, la respirazione e la
meditazione. Alcuni autori pongono l’attenzione sul termine atha, ovvero “adesso”,
che apre l’opera, evidenziando come nell’affermazione “adesso lo yoga”, si
sottolinei come sia necessario scegliere un momento specifico della propria vita,
quando si sia pronti e preparati ad affrontare questo percorso.

YSI:5. vrttayah pancatayyah klistaklistah Le oscillazioni della mente sono cinque e


possono essere facili o difficili da arrestare.

YSI:6. pramana viparyaya vikalpa nidra smrtayah Esse sono: retta conoscenza, falso
sapere, immaginazione, sonno e memoria.

YSI:7. pratyaksa anumana agamah pramanani La retta conoscenza ha tre fonti:


percezione diretta, deduzione e testimonianza.

YSI:8. viparyayo mithya jnanam atadrupa pratistham Il falso sapere è un costrutto


che non corrisponde alla realtà.

YSI:9. sabda jnana anupati vastu sunyo vikalpah L'immaginazione è un'attività


mentale priva di fondamento.

YSI:10. abhava pratyaya alambana tamo vrttir nidra Il sonno è l'oscillazione della
mente fondata sull'assenza di ogni contenuto.

YSI:11. anu bhuta visaya asampramosah smrtih La memoria è la rievocazione di


precedenti esperienze.

Come dicevamo, il discorso inizia con un tono piuttosto elevato e con uno stile
molto conciso. In sei sutra l’autore riassume tutte le possibili definizioni di
oscillazioni della mente. Inizialmente potremmo chiederci, cosa ci distrae durante
la pratica? Ciò che ci distrae sono esattamente le oscillazioni della mente, cioè
il divagare incontrollato del pensiero, riconducibile a cinque categorie. La mente
divaga verso pensieri su cose che abbiamo conosciuto o studiato, verso impegni e
affari. Scappa verso nostre fantasticherie o congetture. Può altresì capitare, di
addormentarci durante la meditazione, anche questo è un tipo di oscillazione della
mente, di perdita del focus su quello che si sta facendo. In modo analogo può
capitare di correre dietro ai nostri ricordi durante le asana. Patanjali non parla
in verità solamente di cosa ci distrae dalla pratica, ma applicando questo
principio alla nostra pratica è più facile estenderlo alla vita di tutti i giorni e
a concetti un po' più elevati, legati al nostro essere nel mondo e alla percezione
che abbiamo della realtà. Quando la mente oscilla, diviene padrona del nostro
essere e ci restituisce una visione della realtà alterata, erronea, guidata, ad
esempio, da passioni e desideri. Ma stiamo anticipando ciò che verrà trattato in
seguito.

YSI:12. Abhyasa vairagy abhyam tannirodhah


L'arresto delle oscillazioni della mente si raggiunge con due mezzi: una pratica
costante e il distacco dalle cose del mondo.

YSI:13. Tatra sthitau yatno’ bhyasah


La pratica è lo sforzo continuo e ripetuto di mantenere la mente imperturbabile e
tranquilla.

YSI:14. Satu dirgha kala nairantarya satkarase vito dradha bhumih


La pratica diventa un fondamento stabile e solido quando è portata avanti per un
periodo lungo ed ininterrotto e viene compiuta con profonda dedizione.

YSI:15. Drasta anusravika visaya vitrasnasya vasikara samjna vairagyam


Il primo stadio di distacco dalle cose del mondo si ottiene quando si superano i
propri desideri materiali.

YSI:16. Tatparam purusa khyater guna vaitrisnyam


Il secondo e ultimo stadio di distacco dalle cose del mondo si ottiene grazie alla
scoperta del proprio spirito.

Il ragionamento si dipana in modo molto lineare: è stato definito cosa porta la


mente a divagare, poi viene illustrato come, per acquietare questi stimoli, ci
siano due mezzi complementari tra loro. Il primo è la pratica costante dello yoga.
Rispetto a quanto detto nel secondo sutra, cioè che lo yoga consiste nella
cessazione delle oscillazioni della mente, viene aggiunto un ulteriore tassello, lo
yoga e la pratica dello yoga coincidono, lo yoga è in realtà la pratica. Una
pratica continua e ripetuta, condotta per anni, senza interruzioni e dedicandosi
anima e corpo, come si suole dire. Chiunque abbia praticato per alcuni anni
quotidianamente conosce la verità dietro queste parole e come la pratica si evolva
durante questi periodi in un percorso che dura una vita intera o come si possa
regredire rispetto alla capacità di mantenere la mente stabile e tranquilla,
qualora si trascuri la pratica. Questi aspetti saranno approfonditi nel secondo
libro. Il secondo mezzo per acquietare la mente, consiste nel cercare di non farsi
colpire nell'intimo dagli accadimenti della vita, cercando di rimanerne distaccati.
Non perdersi in mille desideri e passioni materiali è il primo passo del distacco,
scoprire il mondo spirituale è il secondo e ultimo. Entrambi questi due mezzi
saranno trattati con dovizia di particolari nel corso dell’opera.

YSI:17. Vitarka vicara ananda asmita anugamat samprajnatah


Questo processo di conoscenza inizialmente avviene in quattro passaggi: il pensiero
analitico, l'intuizione, la beatitudine e la percezione dello spirito individuale.

YSI:18. Virama pratyayabhyasapurvah samskaraseso’nyah


Successivamente, grazie alla pratica continua, avviene grazie alla percezione
profonda ed alle impressioni non manifeste.

I due sutra precedenti non sono di facile interpretazione dal sanscrito e generano
traduzioni molto disparate. Ma, favorendo sempre un approccio semplice e lineare,
possiamo dire che la pratica e il distacco dalle cose del mondo, adottati per
acquietare le oscillazioni della mente, avvengono in una serie di passaggi
successivi:
1) ragionando sul percorso da fare e su come si articola, come per esempio
leggendo questo articolo; per intraprendere un percorso, ci sarà sempre un momento
zero in cui prendere coscientemente questa decisione;
2) successivamente lasciandosi guidare dall’intuito è possibile, ad esempio,
sentire intimamente che lo yoga ci da molto, tralasciando le ragioni per cui ciò
accade;
3) poi arrivando a una profonda sensazione di benessere, che quindi non ha più
bisogno né di ragioni né di intuito, ma solo di essere sperimentata;
4) questo percorso porta poi alla percezione stabile del proprio spirito
interiore;
5) infine, il praticante sarà condotto all'abbandono del proprio spirito nel
ricongiungimento con lo spirito che tutto pervade, dalle percezioni più profonde,
come sarà approfondito in seguito.
Nessuno ci garantisce che arriveremo in fondo, non siamo tutti uguali, ma
Patanjali ci indica la strada.

YSI:19. Bhava pratyayah videha prakriti layanam


Alcune persone, che vivono naturalmente oltre l'attaccamento alle cose del mondo,
riescono a raggiungere questi più alti livelli di consapevolezza con maggiore
facilità e rapidità.

YSI:20. Sraddha virya smrti samadhi prajnapurvaka itaresam


Altri raggiungeranno i livelli più alti solo grazie alla fiducia nel percorso,
mediante lo sforzo nella pratica, con l'allenamento alla concentrazione e in virtù
del perseguimento della conoscenza.

YSI:21. tivra samveganam asannah


L'obiettivo è raggiunto grazie ad una pratica intensa.

YSI:22. Mrdu madhya adhimatratva attato pi visesah


Coloro che perseguono la pratica con maggiore intensità e convinzione raccolgono i
frutti più rapidamente, rispetto a quelli che lo fanno con minore intensità.

Come dicevamo, non siamo tutti uguali e per qualcuno è più semplice placare le
oscillazioni della mente rispetto ad altri. E’ davvero molto difficile incontrare
persone che vivono in modo spontaneo oltre gli aspetti materiali della vita, ma
comunque l’autore ci dice che per questa tipologia di persone la via dello yoga
sarà molto più semplice, in discesa come si suol dire. Per noi tutti invece sarà
fondamentale praticare con intensità e convinzione. L'intensità deve essere
accompagnata da un approccio sincero e convinto. La via dello yoga, come la intende
Patanjali, non è per i curiosi o per gli eruditi che vogliono ampliare le proprie
conoscenze, questi non arriveranno a nulla. La via dello yoga è per chi ne fa una
ragione di vita, sapendo essere sincero e convinto, e tra questi, chi avrà maggiore
volontà avrà risultati migliori e più rapidamente. L’autore non ha un approccio per
così dire “morbido” alla pratica, non dice di fare solo quello che riesce, che poco
è meglio di niente, dice di praticare il più possibile, con tenacia, intensità e
dedizione quotidiane. Ora che siamo entrati nel vivo della trattazione possiamo
aggiungere una ulteriore sfumatura alla traduzione del primo sutra, in origine reso
con “Ora illustreremo la disciplina dello yoga”. Una traduzione più elaborata, ma
meno lineare, potrebbe essere “La disciplina dello yoga, ora!”. Nel senso che non
bisogna rimandare, attendere, tergiversare, ma applicarsi da questo momento, in
modo totalizzante. L'autore sembra dire: “i sutra leggili anche in un secondo
momento, ora pratica!” Ho sentito questa interpretazione da un maestro indiano e mi
ha fatto sorridere, mi è piaciuta molto. L’idea che Patanjali inizi l’opera
incoraggiando alla pratica e non a leggere i sutra è piuttosto affascinante e
divertente.

I:23. Isvara pranidhana dva


L'obiettivo può essere ottenuto anche mediante la devozione allo spirito assoluto.

Patanjali ha indicato la strada della pratica intensa, ma aggiunge, come nota a


margine, che è possibile anche la via dell'abbandono. Questa via è possibile solo a
chi sia già arrivato in prossimità della fine del percorso, come ultimo passo. Già
poco prima aveva avvisato che per alcuni spiriti eletti i livelli più elevati sono
raggiunti con maggiore facilità. Per tutti gli altri, dopo avere praticato in modo
estenuante, dopo avere intravisto, fallito, provato e riprovato, quando si lascia
ogni sforzo si riesce. Arrendersi, lasciarsi andare, abbandonarsi come mezzo per
arrivare. La pratica costante negli anni, intensa, può generare ossessione verso
l'obiettivo e attaccamento alla pratica stessa. In questo momento bisogna ricorrere
alla devozione e non aspettarsi più nulla, avendo però fiducia nell'assoluto. Anche
chi è molto disciplinato e costante ogni tanto si deve lasciare andare per
crescere. Questo concetto, raggiungere lo scopo quando non si ha più scopo, verrà
ripreso dal Buddha, ma non spingiamoci troppo oltre.

I:24. Klesa karma vipaka asayaira aparamrstah purusa visesa isvarah


Lo spirito assoluto è il sommo Sé che non viene perturbato dalle vicende della
vita, dalle azioni e dalle loro conseguenze.

I:25. Tatra niratisayam sarvajna bijam


Nello spirito assoluto quanto nell'uomo è in germe diviene infinito.

I:26. Purvesamapi guruh kala ananavacchedat


Essendo al di là di ogni limitazione temporale, è il Maestro dei Maestri.

Ecco infine il premio, l'obiettivo, l'elezione per chi è arrivato alla fine del
sentiero: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito assoluto,
cioè prendere coscienza che il barlume intravisto all'inizio dentro di sé fa parte
dello spirito che tutto pervade, che era già in noi. Ciò che era in germe diviene
infinito. Abbiamo tradotto, in coerenza con l'interpretazione dei sutra precedenti,
'ishvara' con 'spirito assoluto', minuscolo, ma, molti traducono, correttamente per
il loro discorso, 'ishvara' con Dio, anche in relazione all’uso di questo termine
nel testo classico della Bagavad Gita. Poi però diventa molto difficile fornire una
definizione di Dio che rientri nei discorsi e nei parametri di Patanjali.
Soprattutto per noi occidentali il concetto di Dio (padre, creatore) è qualcosa di
molto differente da quello che Patanjali vuole dirci e significare.
La scoperta e la contemplazione dello spirito assoluto ha ispirato tutti i guru in
tutti i tempi. Vedremo in seguito che questo approccio viene chiamato dai filosofi
“non-dualista” ovvero Dio è in noi ed è della nostra sostanza e deve essere
riscoperto.

I:27. Tasya vacakah pranavah


Lo spirito assoluto è il verbo
oppure: Il suo nome è il suono OM.

I:28. Taj japas tad artha bhavanam


Si deve ripetere e meditare sull'OM e il significato sarà chiaro.

I:29. Tatah pratyak cetana adhigamopya antaraya abhavasca


La ripetizione e la meditazione sull'OM comportano la scomparsa di tutti gli
impedimenti e il risveglio dello spirito interiore.

Coerentemente con quanto fatto fin'ora, abbiamo offerto una prima traduzione del
sutra 27 senza lasciare termini in sanscrito, in questo modo però il significato
rimane forse meno evidente. Lo spirito assoluto è la forza creatrice universale,
l'OM o il verbo che dir si voglia, il suono articolato primigenio che crea il
mondo. Pronunciando l'OM ci mettiamo in contatto con questa forza, sentiamo
risuonare in noi questo potere.
OM è l'inizio, la prima lettera dell'alfabeto sanscrito, ma forse per molti
occidentali il collegamento più evocativo per capire a quale forza si faccia
riferimento non è con Shiva Nataraja ma con il Vangelo secondo Giovanni, 1,1: in
principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Ovvero quanto
detto anche dalla Genesi 1:3, Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. E' la parola, il
verbo, il suono primigenio creatore, che genera la realtà. In questa sede non si
vuole percorrere queste strade, ma semplicemente far comprendere la potenza, la
potenzialità e l'universalità di questi sutra.
OM è anche la parola creatrice intesa come vibrazione o forza pulsante che pervade
l’universo. I moderni induisti creano un collegamento tra l’OM e la radiazione di
fondo che gli scienziati studiano, eco del Big Bang. Quando si canta l’OM, la
sillaba si compone di tre suoni: A, che viene fatto risuanare nell’addome, U, che
sale e vibra nel petto e M, nasale, muta e con la bocca chiusa, che arriva a
vibrare nella testa. Queste vibrazioni mettono in relazione con la vibrazione che
tutto pervade di cui si parlava, che quasi duemila anni dopo Patanjali i seguaci
del Tantra chiameranno spanda.
Cantare l'OM all'inizio e alla fine della propria pratica, cosi’ come si aprono e
si chiudono i versi che compongono i Veda, ha un significato più profondo di quanto
a volte si sospetti.

YSI:30. Vyadhi styana samsaya pramada alasya avirati bhrantidarsana


alabdabhumikatva anavastthitatvani cittaviksepaste’ntarayah Gli ostacoli al
progresso nella pratica sono: la malattia fisica, l'apatia, l'indecisione, la
negligenza, la pigrizia, i desideri mondani, le supposizioni errate, la mancanza di
progressi e la difficoltà a mantenere i progressi raggiunti.

YSI:31. Duhkha daurmanasya angamejayatva svasaprasvasa viksepasahabhuvah Questi


ostacoli causano sofferenza, depressione, instabilità e irregolarità del respiro.

La prima volta che ho letto questi sutra del primo libro di Patanjali, sono
rimasto sbalordito: sembrava parlare proprio a me. Ritrovare esperienze così
personali in uno scritto dell'India antichissima, mi ha sempre emozionato e
continua a farlo. Patanjali continua a descrivere cosa si intenda per
ricongiungimento tra lo spirito individuale e lo spirito universale (samadhi),
aggiungendo maggiori dettagli sulle modalità della pratica e sugli stati di
coscienza e beatitudine che si verificano. L'autore sembra elencare esattamente
tutti i motivi per i quali si salta un giorno di pratica o cosa accade nei giorni
in cui manca l'intensità raccomandata. E' incredibile l'attualità di queste parole.
Gli infortuni sono al primo posto, inflitti durante la pratica o meno, così come
l'attenzione allo stato di salute generale. L'attenzione al proprio corpo, alla
propria condizione è fondamentale, senza una buona salute è impossibile praticare.
Al secondo posto viene l’apatia, ovvero la mancanza di stimoli, il non trovare
motivi sufficienti. Al terzo posto l’indecisione, ovvero la mancanza di
determinazione, il non sapere cosa fare e come orientarsi nella vita. Quindi,
solamente al quarto, la negligenza, ovvero non fare qualcosa pur sapendo che questo
andrà a nostro detrimento, ma non curarsi delle conseguenze. Di seguito la
pigrizia, cioè l’indulgere nel troppo riposo. Viene ribadito quanto già affermato,
ovvero che lo yoga è solo per chi ha valide motivazioni e ne fa un abito di vita. I
desideri mondani, ovvero la socializzazione di bassa levatura, seguono a breve
distanza, così come tutte le ragioni di attaccamento verso i risultati della
propria pratica. E' normale che la corretta pratica faccia progredire
costantemente, ma non dobbiamo trarre conclusioni affrettate o ossessionarci con i
progressi raggiunti. Il vero praticante di yoga, seppure distaccato dai risultati
della pratica, soffre e vacilla davanti agli ostacoli ai suoi progressi. Sembra
apparentemente una contraddizione, ma ad una più attenta analisi non lo è. E'
importante progredire, rendersi conto del progresso, ma non si deve fare del
miglioramento lo scopo della pratica. Di contro, una pratica senza avere percezione
di progressi è inutile, concetto che nei tempi moderni si tende molto a sfumare.
Accettarsi ed accettare la propria pratica, qualunque essa sia, anche svogliata o
inconcludente, sembra diventato l’unico traguardo. La soluzione, vedremo, sarà
invece solamente una: praticare con intensità secondo il metodo dell’ashtanga yoga,
ovvero con otto strumenti precisi, attraverso otto gradini. L’assenza di pratica o
la pratica scorretta, sono per Patanjali causa di sofferenza, di oscillazioni della
mente.

YSI:32. Tat pratisedha artham eka tattva abhyasah


Per prevenire questi problemi è necessario seguire con fermezza il metodo dello
yoga.

YSI:33. Maitri karuna muditopeksanam sukha duhkha punyapunya visayanam bhavanatah


citta prasadanam
Questo metodo consiste nel calmare la mente e nel dimostrare distacco da felicità e
dolore, virtù e vizio, ma anche nel coltivare un atteggiamento di amicizia verso
tutti e nel mostrare compassione con i deboli.

Ecco che Patanjali fornisce una prima ricetta per proseguire nella via dello yoga.
Ci ha detto: in cosa consiste lo yoga, ovvero nell'arresto delle oscillazioni della
mente e nel distacco dalle cose del mondo, in modo da poter ricongiungere lo
spirito individuale con lo spirito assoluto; ha esposto in cosa consiste lo spirito
assoluto; ci ha detto che serve una pratica intensa; adesso inizia a delineare in
cosa consiste la pratica. Personalmente mi emoziona sentire parlare di sentimenti
di amicizia verso il prossimo e compassione, in uno scritto risalente a 2500 anni
fa. La compassione verso gli ignoranti ed i deboli sarà importante per interpretare
nella giusta proporzione alcune affermazioni successive molto dure nei confronti
delle persone di bassa levatura. Distacco non significa alienarsi dal mondo,
chiudersi dentro una grotta, ma al distacco egli aggiunge l’amicizia verso il
prossimo.

YSI:34. Pracchardana vidharanabhyam va pranasya


Inoltre questo metodo consiste nel controllo della respirazione: inspirazione,
espirazione e ritenzione.

YSI:35. Visayavati va pravrttirutpanna manasasthitini bandhani


Inoltre nel concentrasi sull'insorgenza delle oscillazioni della mente.

YSI:36. Visoka va jyotismati


Inoltre nel percepire lo spirito, che è luce e gioia.
(lett. visoka=sereno, va=e inoltre, jyotismati=pieno di luce)

YSI:37. Vita-raga visayam va cittam


Inoltre nel trascendere l'attaccamento

Il respiro controlla la mente, si ritornerà su questo argomento nel secondo libro,


il controllo della mente permette allo spirito di emergere e trascendere
l'attaccamento accedendo alla beatitudine dello yoga. Contravvenendo a quanto fatto
sin qui, si è fornita la traduzione letterale del sutra 36, perché spesso tradotto
in modo molto differente. Si possono riempire pagine nel definire cosa possa
intendere in questo passo Patanjali per attaccamento, ovvero raga, ma credo che
questo concetto sia nell'immaginario di tutti; si parla di attaccamento a cose e
persone, il concetto che diverrà uno dei tre veleni del buddismo: ignoranza,
attaccamento/desiderio e odio. Raga come avidità, sensualità, passione e desiderio.
Patanjali ribadisce quanto detto nel sutra I:12 dove affermava che la via dello
yoga era l'arresto delle oscillazioni della mente e il non attaccamento, definito
vairagya, ovvero proprio la liberazione dal raga.

YSI:38. Svapna nidra jnana alambanam va


Inoltre il metodo consiste nell'osservare la consapevolezza che sorge durante il
sonno.

YSI:39. Yatha abhimata dhyanad va


Inoltre nel praticare secondo la maniera che più si addice a se stessi.

YSI:40. Paramanu paramamahattvanto asya vasikarah


In questo modo infine il praticante dominerà tutto, dal particolare all'universale.

In questi tre sutra Patanjali continua a dispensare riflessioni che ognuno di noi
può ritrovare nella propria pratica. L'arresto delle oscillazioni della mente
assomiglia allo stato che si verifica quando si è ancora svegli, ma si sta per
prendere sonno, quella situazione di sospensione nella quale possiamo essere
richiamati dalla mente verso i pensieri in qualsiasi momento, dal benché minimo
rumore o distrazione, ma che può anche volgere al sonno. Osservare questo stato è
utile a capire la condizione mentale propria della meditazione. Le interpretazioni
esegetiche si dividono significativamente sul sutra 39, come, a dire il vero, su
quasi tutti i sutra di questa sezione. Noi abbiamo interpretato abhimata con il
significato di “come si desidera”, traducendo: "Inoltre nel praticare come più si
addice a se stessi". Un cospicuo gruppo interpreta questo termine come “amore" o
"attrazione” traducendo: “Inoltre meditando/praticando l'amore”, ma questa
interpretazione sembra molto distante dal resto dell'opera. Come sempre la si
riporta per offrire un confronto e per sottolineare che per loro stessa natura i
sutra necessitano di una qualche interpretazione. Quindi attenzione: ognuno deve
praticare come più gli piace e si addice alle proprie caratteristiche, certo,
sempre con intensità e convinzione, ma gli ingredienti della ricetta che Patanjali
rivelerà, possono, anzi devono, essere mescolati a proprio piacimento, non esiste
un modo valido per tutti. Ci aveva già avvertiti che studiare se stessi è
fondamentale, altrimenti non è possibile capire come si deve praticare. Qualcuno
dovrà sfinirsi con la pratica fisica, altri dovranno rimanere immobili nella
respirazione molto a lungo, per alcuni sarà l’impegno morale ad avere la
predominanza, eccetera, eccetera, ad ognuno il suo. Lo sappiamo, i grandi maestri
guidano ogni allievo verso la sua pratica personale e individuale e per ognuno
hanno un percorso differente. Infine, ancora una volta, viene ribadito che, con la
giusta pratica, il nostro spirito individuale potrà ricongiungersi con lo spirito
universale, dominando ogni aspetto del sé.

YSI:41. Ksinavrtter abhijatasyeva maner grahitr grahana grahyesu tatstha


tadanjanata samapattih
Quando vengono arrestate le oscillazioni della mente, questa diviene pura e
riflette senza distorsione colui che percepisce, ciò che viene percepito e come
viene percepito.

YSI:42. Tatra sabda artha jnana vikalpaih samkirna savitarha samapattih


Nella prima fase lo yogin è ancora incapace di discriminare tra vera conoscenza,
conoscenza basata sulle parole e conoscenza fondata sul ragionamento o le
percezioni dei sensi, che permangono nella mente mescolandosi tra loro.
YSI:43. Smrtiparisuddhau svarupa sunya eva arthamatra nirbhasa nirvitarka Nella
seconda fase la mente è in grado di percepire la vera natura delle cose, senza
contaminazione alcuna.

YSI:44. Etayaiva savicara nirvicara ca suksmavisaya vyakhyata


Nella terza fase, allo stesso modo, lo spirito individuale diverrà capace di
percepire la realtà.

YSI:45. Suksma visayatvam calinga paryavasanam


Nella quarta fase sarà possibile osservare la realtà direttamente nella sua origine
indifferenziata.

YSI:46 Ta eva sabijah samadhih


Queste quattro fasi intraprendono il ricongiungimento dello spirito individuale con
quello universale con l'intervento della volontà.

YSI:47. Nirvicara vaisaradya adhyatma prasadah Quando si consegue la purezza


suprema di questo stato, la natura dello spirito individuale diviene chiara.

Gli effetti della pratica sono progressivi. In una prima fase le percezioni che
provengono dalla mente si confondono addirittura con le percezioni che arrivano dai
sensi, si confondono pensiero e input provenienti dai sensi. Successivamente si
riescono ad isolare questi due aspetti. Proseguendo ulteriormente nella via dello
yoga la mente è ancora vigile e le percezioni che provengono dalla sua esclusione,
ovvero che provengono dallo spirito, si mescolano con le percezioni che provengono
da essa stessa, ma sarà comunque un grande progresso, il risveglio dello spirito.
Nell'ultima fase la mente verrà esclusa e lo spirito diverrà il veicolo della
realtà. Queste quattro fasi costituiscono il percorso del ricongiungimento tra
spirito individuale ed universale, il samadhi che da il titolo al primo libro dei
sutra. Per mettere in atto queste quattro fasi della pratica, interveniamo con la
nostra volontà. In quasi tutti i testi la pratica o la meditazione in cui
interviene la volontà vengono chiamate letteralmente “samadhi con seme”.
L'espressione, di per se incomprensibile, diventa quasi un codice tecnico:
personalmente non mi piace, e preferisco tradurla con “ricongiungimento allo
spirito universale con l’intervento della volontà”. Come sempre si offre una
finestra sulle traduzioni alternative molto diffuse per offrire la possibilità di
raffronti. In questo stato, che si raggiunge a questo livello del percorso,
conquistiamo l'immagine chiara di cosa sia lo spirito in noi. Per interpretare il
termine adhyhatma come spirito del Sè, possiamo rifarci alla Bhagavad Gita, 8:3
"L'entità vivente indistruttibile e trascendente è chiamata Brahman, e la sua
natura eterna è chiamata adhyātma, lo spirito individuale".

YSI:48. Rtambhara tatra prajna


In questa calma interiore, la consapevolezza diviene poi verità.

YSI:49. Sruta anumana prajnabhyam anyavisaya visesarthatvat


In quanto si consegue una conoscenza diretta della realtà, libera dall'utilizzo
delle correnti del pensiero.

YSI:50. Taj-jah samskaro’nya samskara-pratibandhi


Le percezioni che si conseguono vanno al di là delle percezioni normali.

YSI:51. Taj-jah samskaro anya samskara pratibandhi Quando si trascendono le


percezioni, il ricongiungimento dello spirito individuale con quello universale
avviene senza volontà.

Gli effetti della pratica sulla mente e lo spirito proseguono in una nuova serie
di fasi che possono essere raggruppate come ricongiungimento tra spirito
individuale ed universale nel quale non c'è intervento della volontà, questa fase
viene chiamata in quasi tutti i testi “samadhi senza seme”. Patanjali si riferisce
ora agli stati più alti di illuminazione. Non è semplicissimo capire esattamente a
quali fasi della pratica si faccia riferimento. Cercando di cogliere l'essenza del
discorso, potremmo dire che subentra alla fine del percorso un livello di
consapevolezza nel quale il ricongiungimento dello spirito individuale con lo
spirito universale durante la pratica e durante la vita, non avverrà più con il
nostro intervento volontario, ma spontaneamente. Un maestro mi disse una volta che,
i primi tempi in cui riusciva a raggiungere il samadhi, lui aveva necessità di ore
ed ore di pratica, poi, dopo molti anni, gli succedeva un meccanismo simile a
quando ci distraiamo, si ritrovava in uno stato di estasi senza sapere come, se non
rendendosene conto quando rientrava in se stesso. Credo Patanjali si riferisca ad
un meccanismo di questo tipo.
Fiumi d'inchiostro sono stati spesi interrogandosi se il pensiero di Patanjali sia
dualistico o non dualistico, ovvero se la divinità o lo spirito assoluto pervada il
mondo e le persone oppure se sia un'entità differente. Generalmente prevale
l'interpretazione dualistica, contrapponendo lo yoga di Patanjali all'Hata yoga
tantrico che sarebbe invece puramente non dualistico. Non siamo d'accordo con
questa visione. Patanjali indica chiaramente che lo spirito individuale sia della
stessa sostanza dello spirito universale al quale infatti si ricongiunge. Il
pensiero dualistico a cui siamo abituati è quello cristiano, per il quale uomo e
Dio padre e creatore sono unità esattamente distinte e l'uomo al massimo della sua
evoluzione può aspirare solamente a contemplare Dio. Il pensiero di Patanjali è
molto lontano da questo tipo di dualismo e sarà poi ripreso, quasi due millenni
dopo, dal pensiero Tantrico e mosso ancora più avanti sulla via del non dualismo.
Per i testi tantrici non c'e' necessità neanche di una purificazione in quanto lo
spirito assoluto è già presente nell'uomo così come deve essere. Parlerei di
evoluzione storica del contesto tra il raja yoga di Patanjali e l'hata yoga
tantrico e non di contrapposizione. Questa contrapposizione è sorta in realtà tra i
sostenitori delle due scuole nell'India moderna, scuole che sostengono la maggior
importanza della pratica individuale (hata yoga) rispetto agli aspetti sociali e
religiosi (raja yoga), ma le sfumature sono molte, stiamo semplificando. Nel
secondo libro Patanjali fornirà una descrizione della via e delle modalità che
costituiscono il percorso dello yoga.

Patanjali Yoga Sutra, Libro Secondo: Gli Strumenti [new]


febbraio 07, 2018

Il secondo libro dei sutra di Patanjali è forse quello più dibattuto, in quanto si
entra nel vivo della pratica dello yoga ovvero si affrontano gli strumenti che
condurranno il praticante sulla strada del ricongiungimento, trattato nel primo
libro. In particolare, nella prima parte del secondo libro, vengono gettate le basi
imprescindibili per affrontare poi la trattazione delle singole componenti della
pratica dello yoga. Patanjali affronta le domande che sono insite nell'uomo, in
tutte le epoche: le cause dell' infelicità, le conseguenze delle nostre azioni e il
senso del mondo ovvero quale è lo scopo della nostra vita. Non sono temi da poco.
Staremo particolarmente attenti a non dare interpretazioni preconcette. Giungiamo
poi alla formulazione dell’ashtanga yoga, ovvero lo yoga degli otto passi. Otto
gradini successivi, ma permeati tra loro, che compongono la pratica giornaliera.
Regole di comportamento, pratica fisica, meditazione, fino ai livelli più elevati.
Il secondo libro degli Yoga Sutra di Patanjali è un viaggio meraviglioso nello yoga
della tradizione più antica.
Patanjali Yoga Sutra, Libro Secondo

Sadhana Pada
Capitolo sugli strumenti

YSII:1. Tapah svadhyayes isvarapranidhanai kriyayogah


Lo yoga è azione e si realizza in tre componenti: pratica intensa, studio di
sé‚ abbandono allo spirito assoluto.

YSII:2. Samadhi bhavana arthah klesa tanukarana arthasca


Il suo scopo è di ridurre l'infelicità e il ricongiungimento tra spirito
individuale e spirito universale.

Lo yoga è azione. Si realizza nella pratica, non con la teoria o la speculazione.


Anche lo studio di sè avviene tramite la pratica e non concettualmente. L’azione è
talmente connaturata con lo yoga che si parla comunemente di "yoga dell’azione". Il
Kriya Yoga o yoga dell'azione viene menzionato anche da Krishna nel poema della
Bhagavad Gita; secondo alcuni storici ha origini antichissime, secondo gli induisti
deriverebbe addirittura dalle ere caratterizzate da una maggiore illuminazione
spirituale. Già ai tempi di Patanjali si riteneva di trovarsi in un'epoca di
materialismo e oscurantismo, ma probabilmente la situazione è poi anche peggiorata
nei secoli successivi. Vista la raffinatezza filosofica raggiunta ed altri
elementi, è certo che l'autore raccolga una tradizione più antica.
Questo concetto sarà ripreso anche dai testi classici succcessivi, citiamo ad
esempio l'Hatha Yoga Pradipika, vero pilastro del pensiero yogico, scritto nel 1400
circa, nei versi 66 e 67 del primo libro leggiamo: "Il successo è raggiunto da chi
pratica Yoga assiduamente. Come può accadere al pigro? Non si può ottenere il
successo nello Yoga leggendo i testi. Il successo non si raggiunge indossando
l'abito adatto o parlando di Yoga. Solo la pratica è causa del successo; non c'è
alcun dubbio, questa è la verità."
Lo yoga è azione anche nel senso di trasformazione e purificazione del praticante.

Il Krya Yoga della Gita e di Patanjali non deve essere confuso con lo stile di
yoga del maestro Yogananda, vissuto ad inizio 900, e della tradizione alla quale
egli si ispira. Egli divenne famoso per la sua predicazione negli Stati Uniti e per
il racconto dei propri e altrui innumerevoli miracoli pubblicato nel libro
“Biografia di uno yogi”. Egli chiamò così il suo stile di pratica in onore a queste
due tradizioni antiche, ma il suo pensiero è lontano da queste.

Teniamo a mente che pratica intensa, studio di sé e abbandono allo spirito


assoluto, a cui si riferisce questo primo sutra del secondo libro, saranno ripresi
successivamente e costituiscono gli ultimi tre precetti del secondo passo dello
yoga, ovvero le regole morali verso se stessi. Apre così il capitolo sugli
strumenti dello yoga perché questi tre sono gli elementi basilari che dobbiamo
trovare dentro di noi. La pratica intensa si riferisce ad una vita semplice ed
austera, ma anche ad una pratica metodica e disciplinata. Patanjali ricapitola
quindi che senza una pratica disciplinata non c'è yoga, questa pratica porta a
studiarsi altrimenti è fine a se stessa. Coerentemente al primo libro, Patanjali
indica lo yoga dell'azione come una pratica che ci fa scoprire la nostra parte
spirituale assoluta, divina, ma anche il cui scopo è alleviare l'infelicità durante
il cammino.

Nel primo sutra sono definiti i mezzi da impiegare sulla via dello yoga. Nel
secondo sutra è definito lo scopo dello yoga. Lo yoga sappiamo consiste nella
cessazione delle oscillazioni della mente, ottenuta con i mezzi di cui dicevamo e
il cui obiettivo è l’eliminazione dell’infelicità e la scoperta e l’elevazione del
proprio spirito. Ma cosa è l’infelicità? Da cosa è prodotta?
YSII:3. Avidya asmita ragadvesa abhinivesah klesah
L'infelicità è prodotta da: ignoranza, egoismo, attaccamento, odio e paura della
morte.

YSII:4.Avidya ksetram uttaresam prasupta tanu vicchinna udaranam


L'ignoranza è la causa delle altre fonti di infelicità, sia che sussista in forma
latente, in forma attenuata, in forma intermittente o al massimo grado.

YSII:5. Anitya asuci duhkha anatmasu nitya suci sukha atmakhyatir avidya
L'ignoranza è considerare eterno ciò che è caduco, puro ciò che è impuro, piacere
ciò che arreca dolore e confondere il proprio spirito individuale con ciò che non
lo è.

Quali sono quindi le cause di sofferenza che andremo a mitigare grazie allo yoga,
sulla strada del ricongiungimento con lo spirito assoluto? L'ignoranza è la causa
di tutti i mali. Le cause di infelicità qui elencate sono molto simili ai tre
veleni del buddismo: ignoranza ovvero avydia, attaccamento e odio. Qui Patanjali
aggiunge egoismo, ovvero asmita, e paura della morte. Questi aspetti saranno
dettagliati nei prossimi sutra.
L'ignoranza non comporta solamente la non conoscenza delle cose, rispetto alla
quale non si possiedono semplicemente gli strumenti o le nozioni, questo sarebbe
comunque un male più tollerabile rispetto ad interpretare il mondo in modo errato e
contrario alla sua forma corretta. Chi è ignorante rispetto allo spirito non si
limita a non conoscere, ma ha una sua conoscenza errata che ritiene vera. La sua
vita diventa quindi misera, più misera degli animali che si limitano a non
comprendere. Il giudizio di Patanjali sulle persone ignoranti appare qui spietato,
sono persone che infliggono sofferenza a se stessi e agli altri. II sutra I:33,
l'affermazione che la via dello yoga consiste anche nel mostrare compassione verso
i deboli, mitiga forse in parte questo giudizio.
Ignoranza è per l'autore non solo “non conoscere”, nel significato di mancare di
erudizione o di apprendimento in qualcosa di codificato, come intendiamo spesso nel
senso comune, ma “non conoscere” anche come “non sentire” a livello spirituale.
Ignoranza è non avere nozione di come contemplare la propria parte spirituale o,
ancora peggio, identificarsi con i pensieri ed il corpo (indetificarsi con l'a-
atman, il “non spirito individuale”). Questo è un concetto fondamentale per
Patanjali da cui si comprende l'importanza della pratica, che conduce ad una
conoscenza, che si estende su vari gradi, per evitare una vita di miseria ed
ignoranza.

YSII:6. Drg darsana saktyor ekatmateva asmita


L'Egoismo è l'identificazione di colui che vede con la cosa vista.

Al secondo posto della classifica delle caratteristiche che conducono l'uomo


all'infelicità troviamo l'egoismo, in quanto consiste nel proiettare se stessi in
ogni aspetto dell'universo che ci circonda, ovvero, mettendo il nostro ego al
centro di tutto, vediamo solo noi stessi riflessi in tutte le cose. Questa
definizione di ego è molto efficace, chi ha un grande ego non riesce a vedere che
se stesso riflesso in tutto il sapere e la bellezza del mondo e delle altre
persone, ovvero identifica il soggetto con l'oggetto. I Tamil, una popolazione
dell'India del Sud, quando una persona parla per mettere in mostra se stesso e non
per condividere un pensiero, quando ostenta la propria ricchezza o il proprio stile
di vita, per definire chi si autocelebra, chi dimentica di essere umile, hanno un
modo di dire molto divertente: “grande coltello, piccolo uomo” ovvero: chi ha
bisogno di portare un grande coltello per sentirsi forte è come chi ostenta un
grande ego per darsi più valore, cioè una persona di poca qualità. I Tamil sono
guerrieri, sono le tigri del Tamil, di coltelli e di persone ne sanno molto.
Per gli induisti l'Io è qualcosa di molto pericoloso rispetto all'interpretazione
della realtà, che rischia di far vedere solo se stessi, ma che può diventare
positivo quando rappresenta la sana espressione della propria personalità. Citavo
l'induismo perché Shiva, nella rappresentazione di Signore dello Yoga, viene
immaginato con un cobra, simbolo dell'ego, intorno al collo, per rappresentare il
fatto che, ricondotto alla giusta posizione, l'ego può diventare un piacevole
ornamento. Questa immagine mi è sempre piaciuta molto. Chi pratica yoga, i maestri
in modo particolare, ben conoscono le insidie dell'ego, il non vedere i propri
allievi, ma vedere essi come un riflesso di se stessi, il non vedere la propria
piccolezza di fronte all’universo ed allo spirito universale, ma vedere se stessi e
la propria presunta grandezza riflessi nell’universo. L’egoismo, tra tutti i veleni
che causano infelicità è forse il più subdolo perché si insinua anche in menti
illuminate e a nulla serve una dissimulazione apparente per eliminarlo.

YSII:7. Sukha anusayi ragah


Si ha attaccamento verso qualsiasi cosa arrechi piacere.

YSII:8. Duhkha anusayi dvesah


Si ha repulsione verso qualsiasi cosa arrechi dolore.

YSII:9. Svarasa vahi viduso api taharudho abhinivesah


La paura della morte domina tutti, perfino il saggio.

Arriviamo quindi alle ultime due cause di infelicità: attaccamento e paura della
morte. Viene ribadita la necessità di abbandonare l'attaccamento alle cose del
mondo e quindi ai concetti di piacere e dolore, perché effimeri. Il piacere e la
sua ricerca generano aspettative e di conseguenza sofferenza. Paradossalmente
ricerca del piacere e paura del dolore hanno la stessa natura, sono fughe nel
futuro per ritrovare qualcosa del passato, che ci impediscono di vivere il
presente.
Infine la paura della morte è per Patanjali la causa di infelicità più connaturata
all'uomo, tanto che può rifarsi viva in qualsiasi momento, anche dopo aver condotto
una vita nella pratica e nella saggezza. Seppure sia una forma di attaccamento,
l'autore ritiene importante comunque citarla, forse perché lo tocca da vicino.
Oltre ad essere una forma di attaccamento alle passioni della vita, è anche una
forma di ego, l'unica cosa che va a morire con la morte fisica è infatti l'ego,
riflesso della nostra mente, lo spirito è per Patanjali eterno, lo sappiamo.

YSII:10. Te pratiprasava heyah suksmah


Le cinque cause della sofferenze possono essere eliminate, riconducendole alla loro
fonte originaria.

YSII:11. Dhyana heyastad vrttayah


Le oscillazioni della mente causate dalle cinque cause di sofferenza scompaiono
attraverso la pratica della meditazione (dyhana).

Come dicevamo Patanjali sta procedendo dal macroscopico verso il particolare, nel
primo libro ha trattato il ricongiungimento (samadhi), ora ci parla della
meditazione (dyhana); come vedremo tra poco, questi sono rispettivamente ultimo e
penultimo elemento tra gli otto che costituiscono la pratica dello yoga.
L'infelicità causata da ignoranza, ego e attaccamento, può essere contrastata e
vinta con un processo particolare: riconducendo l'effetto alla causa originaria
(prati-pasav). E' un principio conosciuto ed applicato in molti ambiti, anche
quando la psicanalisi riporta il paziente alla propria infanzia, per superare i
traumi che hanno causato l'infelicità. Fino a che non si va alle radici, il
problema non può essere risolto. Andando a ritroso Patanjali afferma che la causa
prima di tutte le afflizioni è la mancanza di consapevolezza, l'ignoranza. E'
quindi necessario portare consapevolezza nella propria vita, essendo presenti in
ogni momento e consapevoli del proprio spirito. Per poter vedere la nostra parte
spirituale viene in soccorso la meditazione, componente finale della pratica yoga,
alla quale si arriva dopo aver praticato gli altri sei passi, la parte di rispetto
delle regole etiche, quella più fisica, o meglio esteriore, costituita da posizioni
e respirazione, quella maggiormente interiore di cui fa parte la meditazione stessa
e conduce il praticante all'ottavo e più importante passo, il ricongiungimento con
lo spirito assoluto. Ma non anticipiamo i temi della seconda parte del capitolo
presente.

YSII:12. Klesamulah karmasayo drstadrsta janma vedaniya


Ogni azione, generata dalla sofferenza, ha una conseguenza sia nel presente che
nel futuro.

YSII:13. Sati mule tadvipako jatyayurbhogah


Fino a che la sofferenza resterà l'origine delle azioni, le conseguenze si
ripercuoteranno nella vita.

YSII:14. Te hlada paritapa phalah punya apunya hetutvat


La virtù porta piacere; il vizio arreca dolore.

YSII:15. Parinama tapa samskara duhkha ir guna vrtti virodhacca duhkham eva sarvam
vivekinah
La persona consapevole sa che l'infelicità è causata dai mutamenti e dai conflitti
generati dalle cinque cause della sofferenza.

YSII:16. Heyam duhkham anagatam


Si deve prevenire anche il timore delle sofferenze future.

La persona consapevole sulla via dello yoga, che ha conosciuto lo spirito,


interrompe la propria sofferenza combattendo le cause che ne sono all'origine.
Questa interruzione fa si che le proprie azioni non siano più causa di sofferenza
per se stessi e per gli altri. La persona consapevole vive nel presente: sa che le
azioni passate non possono essere cambiate e che quindi è inutile vivere nei
ricordi, ma è anche distaccato da ciò che accadrà nel futuro, non ha aspettative,
sa che il ricongiungimento con lo spirito assoluto è tutto quello di cui ha bisogno
per raggiungere il benessere. Questi cinque sutra, non lo neghiamo, non sono di
facile traduzione ed esistono interpretazioni significativamente differenti da
quella proposta, in quanto si parla di un tema dibattuto in tutta la storia
dell'Asia, ovvero il karma, la conseguenza delle azioni. Secondo l’interpretazione
proposta, nel momento in cui le nostre azioni non hanno uno scopo, esse non sono
più generate dalla ricerca del piacere, dell’appagamento di un desiderio o dalla
paura della sofferenza, in questo momento le nostre azioni si posizionano fuori
dalle leggi del karma e non hanno quindi più effetto sul karma stesso. Questa
condizione porta secondo gli Induisti a sfuggire alla legge delle eterne rinascite.
Patanjali tornerà su questo concetto in modo più esteso.
Questi sutra riflettono una notevole sofisticatezza e maturità filosofica, ma
ancora dippiù ciò è evidente nei prossimi versi, che trattano il senso del mondo.
Riportiamo consecutivamente tutti i sutra sull'interpretazione della realtà ed il
senso della vita, in modo da non interrompere il filo logico del pensiero.

YSII:17. Drastr drsyayoh samyogo heyahetuh


Deve essere interrotta l'identificazione tra colui che osserva e ciò che viene
osservato.

YSII:18. Prakasa kriya sthiti silam bhutendriya atmakam bhoga apavarga artham
drsyam
Ciò che viene osservato possiede le qualità della beatitudine e quindi può dare la
liberazione dalla sofferenza.

YSII:19. Visesa avisesa linga matra alingani gunaparvani


Ci sono quattro tipi di qualità in ciò che si osserva: il definito, l'indefinito,
il differenziato e l'indifferenziato.
YSII:20. drasta drsimatrah suddho pi pratyaya anupasyah
Colui che osserva, sebbene abbia consapevolezza, vede attraverso le distorsioni
della mente.

YSII:21. tadartha eva drsyasya atma


La cosa osservata esiste in funzione di colui che osserva.

YSII:22. krtartham pratinastam apy anastam tadanya sadharanatvat


Sebbene la cosa osservata non abbia importanza per la persona consapevole, essa è
importante per chi non ha ancora intrapreso il percorso di consapevolezza.

YSII:23. Svasvami śaktyoh svarūp oplabdhi hetuh samyogah


Per chi non ha intrapreso questo percorso, colui che osserva e ciò che osserva si
presentano insieme, in modo tale che sembrano indivisibili.

YSII:24. tasya hetur avidya


La causa di questa indivisibilità è l'ignoranza.

YSII:25. Tad abhabat samyoga abhavo hanam taddrseh kaivalyam


La dissociazione di colui che osserva e di ciò che osserva è il rimedio, la
liberazione dall'ignoranza.

YSII:26. Viveka khyatir aviplava hanopayah


La consapevolezza di ciò che si osserva, è il mezzo per la soluzione
dell'ignoranza.

Non bisogna identificarsi con i propri pensieri e con le proprie percezioni. Il


concetto è simile a quanto elaborato nel primo libro, ma più specifico: se
riusciamo a porci un gradino più in alto dei nostri pensieri, placando la mente ed
osservandola, cogliamo l'essenza dello spirito e facciamo cessare la sofferenza. Se
possiamo osservare il nostro corpo, non ci identificheremo con il nostro corpo, se
possiamo osservare i nostri pensieri, non ci identificheremo con la nostra mente,
colui che osserva, il nostro spirito, è più in alto dei pensieri. In questo senso
Patanjali rende lo spirito qualcosa di oggettivo, scentifico, osservabile,
misurabile, perno centrale della sua interpretazione della vita. Il pensiero
scientifico occidentale è però molto differente da quanto enunciato in questi
sutra, in quanto ritiene che esista una realtà oggettiva ed una possibilità di
conoscenza che definiremo impersonale, ovvero tra osservatore e ciò che viene
osservato non c’è nessuna partecipazione, altrimenti sarebbe viziato il risultato
della misurazione scientifica. L’imparzialità dell’osservatore è necessaria.
Patanjali al contrario afferma che non esiste nessuna conoscenza che sia
impersonale. La natura stessa della conoscenza è individuale e personale. Questo
non ci stupisce, Patanjali indaga questioni filosofiche legate allo spirito ed alle
domande ultime: chi siamo? perché siamo qui? questo è un campo in cui la scienza
dimostra facilmente tutta la sua limitatezza e per questo fa sorridere quanto
spesso affermato e cioè che Patanjali abbia un approccio “scientifico”, nell’unico
senso occidentale che il termine può avere. L’approccio di Patanjali è
necessariamente filosofico e spirituale, forse perfino religioso. Avendo chiara
questa premessa, sarà anche chiaro che per il nostro autore, quando osserviamo,
sentiamo o percepiamo qualcosa, non siamo più gli stessi di prima e ogni volta
vedremo quella cosa in modo differente.
Potrebbe sembrare oscuro il motivo per il quale Patanjali non apre il secondo
libro sugli strumenti dello yoga elencando semplicemente gli otto passi, che
tratterà invece nella seconda metà. Prima di entrare nei dettagli degli otto
aspetti che costituiscono lo yoga, egli vuole essere sicuro di definire tre aspetti
imprescindibili per la pratica: le cause di infelicità, le conseguenze delle
azioni, il senso del mondo e quindi della vita. Perché esiste il mondo? Qual'è il
senso di tutto questo? Patanjali afferma che il mondo esiste per permettere la
liberazione, il ricongiungimento con lo spirito assoluto. Non c'è possibilità di
elevazione spirituale per gli uomini senza aver sperimentato l'infelicità o la
condizione d'ignoranza. Il ricongiungimento può essere realizzato solo attraverso
questo percorso. Il mondo materiale esiste per poter sperimentare il mondo dello
spirito, anzi il mondo materiale ha in sé il seme del mondo dello spirito. Per gli
uomini la via verso la beatitudine ed il ricongiungimento con lo spirito assoluto
deve partire dal mondo, bisogna conoscere l'attaccamento per potersene distaccare,
l'ignoranza per poter conoscere, le oscillazioni della mente per placarle e vedere
lo spirito. La sofferenza è l’esercizio per raggiungere l’illuminazione, o meglio
lo yoga è l’esercizio con cui impariamo a sfuggire alla sofferenza e a comprendere
il nostro spirito e il mondo di cui fa parte.
Senza questi concetti, capiamo bene, i successivi precetti perdono il loro vero
significato. La pratica dello yoga ha i piedi in terra e la testa nel cielo,
direbbe qualcuno, ma non lasciamoci trasportare dalla bellezza di questi sutra.

YSII:27. Tasya saptadha pranta bhumih prajna


Il potere di conoscere si consegue attraverso sette regioni.

YSII:28. Yoganga anusthanad asuddhi ksaye jnanadiptira viveka khyateh


Praticando lo yoga si eliminano le impurità e si consegue la conoscenza e l'
illuminazione spirituale.

Fin dai commentari più antichi gli studiosi hanno cercato di interpretare quali
fossero le sette regioni che conducono al potere di conoscere, all'illuminazione.
Dai commentatori antichissimi come Vyasa, il rishi veggente, fino ai giorni nostri
ognuno ha dato una propria spiegazione. Vyasa ad esempio ha enumerato questi sette
passi secondo una sua visione molto particolare. Ammettiamo che il passaggio sia
ermetico e lasci dei sottintesi, ma l'interpretazione più lineare inerente alla
pratica dello yoga, secondo chi scrive, è quella che fa riferire le sette regioni
alla purificazione dei sette chakra ovvero alla tradizione ayurvedica, oggi ben
conosciuta. Secondo questa visione alcune impurità e alcuni blocchi non permettono
all'energia di scorrere dal primo centro energetico del corpo, alla base della
spina dorsale, fino al settimo centro energetico alla sommità della testa, quando
l’energia individuale si ricongiunge con l'energia che tutto pervade. Questo
significato sembra anche rafforzato dal sutra successivo: lo yoga serve ad
eliminare le impurità, che bloccano il fluire dell’energia e una volta fatto questo
lo spirito e l’energia non hanno più confini. Rimandiamo questa tematica alla
sterminata letteratura sui chakra e la cosiddetta anatomia sottile, qui sarà
sufficiente constatare che per Patanjali le pratiche dello yoga, gli otto passi
descritti nel prossimo sutra, permettono la liberazione dei centri energetici e
l'illuminazione spirituale, in linea con tutta la tradizione successiva dell'Hata
Yoga e del risveglio di Kundalini.

Solitamente questi primi 28 sutra vengono letti in modo precipitoso, perchè subito
dopo inizia l'elenco dei passi dello yoga ovvero l'enunciazione dell'Ashtanga Yoga,
ma, se ci soffermiamo un attimo, possiamo capire quanta saggezza ci sia in questa
prima parte, seppure, innegabilmente, i successivi sutra siano il cuore dell'opera
di Patanjali.

Ecco lo Yoga di Patanjali:

YSII:29. Yama niyama asana pranayama pratyahara dharana dhyana samadhayo


‘stavangani
Gli otto passi dello yoga sono:
> yama: osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri
> niyama: osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi
> asana: le posizioni del corpo
> pranayama: il controllo della respirazione
> pratyahara: l'introspezione e il ritiro dei sensi
> dharana: la capacità di concentrazione
> dhyana: la meditazione
> samadhi: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito universale
e la beatitudine che ne deriva

L'autore, dopo aver dato tutte le definizioni indispensabili per delineare il


campo nel quale sta operando, fornisce le istruzioni, passo per passo, per arrivare
alla beatitudine. Sebbene Patanjali indichi questi punti come passi successivi, non
devono essere considerati compartimenti avulsi gli uni dagli altri, ma essi formano
un'unica pratica dello yoga integrandosi tra loro. Sono successivi, ma integrati.
E' stato spesso affermato, come dicevamo poc’anzi, che Patanjali abbia un approccio
scientifico perché prescrive un percorso di azioni da compiere per arrivare
all'illuminazione, alla cessazione della sofferenza ed alla beatitudine. Non è
vago, non dice che “un bel momento capirai”, ma prescrive una formula, una via, uno
stile di vita.
Non bisogna confondere l’Ashtanga Yoga di Patanjali con quello moderno del maestro
Pattabhi Jois, le serie di asana da lui insegnate e lo stile di vinyasa yoga che lo
caratterizza, molto famosi ai giorni nostri. Sri Jois chiamò così il suo yoga in
omaggio a Patanjali e perché gli Yoga Sutra sono alla base della sua pratica, ma
l’Ashanga di Patanjali e quello di Pattabhi Jois sono due entità ben distinte e
separate da 2500 anni.

Inevitabilmente, il commento a ogni singolo aspetto che compone lo yoga, sarà più
esteso di quanto fatto per il resto dell'opera; Patanjali utilizza spesso un solo
termine per significare un concetto, che va necessariamente contestualizzato. Fino
a questo momento inoltre non abbiamo mai lasciato termini in sanscrito nella
traduzione, per non appesantire il discorso e non rimandare a successive
definizioni; per gli otto passi dell'Ashtanga Yoga faremo un'eccezione in quanto
sono termini a cui tutti gli yogin si riferiscono comunemente e che sono diventati
veri e propri monumenti. Ogni singolo termine ha dato luogo a sterminate
disquisizioni, ma il filo del discorso è, in questa seconda parte del secondo
libro, piuttosto lineare.

YSII:30. Ahimsa satya asteya brahmacarya aparigraha yamah


Yama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri, si
compone a sua volta di cinque regole:
> ahimsa: non violenza
> satya: verità
> asteya: onestà
> brahmacharya: morigeratezza
> aparigraha: possedere solo l'indispensabile

Entra ora nel vivo la trattazione analitica di tutti e otto gli elementi
costitutivi dello yoga. Iniziamo quindi con le norme di comportamento, etiche
ovvero yama e morali ovvero nyama. Il percorso dello yoga è sicuramente un
percorso di crescita individuale interiore, l'obiettivo finale è dentro di noi,
eppure il primo gradino sono le norme “sociali”, esterne a noi. Anche l'asceta non
può vivere scollegato dalla società che lo circonda, al contrario lo yogin deve
influenzarla positivamente ed agire nel sociale. Gli appassionati di questo
messaggio troveranno nella Baghavat Gita una lettura entusiasmante, in particolare
nel commentario di Sri Aurobindo, fermo sostenitore dello yoga delle opere.

La prima e più importante regola etica dello yoga, il primo gradino da


intraprendere sulla via della beatitudine, è la non violenza. Letteralmente il
termine significa a=non, himsa= nuocere o uccidere.
Questo è esattamente il concetto assunto a principio dal Mahatma Gandhi,
estimatore degli Yoga Sutra. Uccidere, imporre sofferenze o essere partecipi
all'uccisione o alla sofferenza di qualsiasi essere ha delle conseguenze a cascata
sul mondo e su di noi, è contrario alla purificazione e il karma che ne deriva,
ovvero le azioni complessive che si scatenano, sono considerate negative sotto ogni
aspetto. Per Patanjali la non violenza è una condizione irrinunciabile anche solo
per iniziare la via dello yoga. E’ il primo gradino del primo passo. Non è solo
Patanjali a indicare questa via, tutto l'Induismo, da cui nasce ogni forma di yoga
tradizionale, prescrive la non violenza. Ognuno è artefice del proprio destino e
purtroppo a volte anche del destino degli altri esseri. Patanjali ha definito
l'ignoranza proprio come considerare piacere ciò che arreca dolore. L'autore ha
inoltre precedentemente trattato le leggi del karma ovvero le conseguenze delle
azioni, proprio per far avere al lettore le basi di questi principi che ora sta
trattando: “Ogni azione che genera sofferenza ha una conseguenza sia nel presente
che nel futuro” (YS 2:12).
E' necessario chiarire che viene considerata violenza ogni azione in cui si vuole
nuocere, in cui si esprime la specifica intenzione. Se la colpa deriva da un'azione
fatta senza volontà, non è una colpa. Gli animali non hanno colpe, l'ignorante si,
perché sa di nuocere. Inoltre, secondo le regole del karma, quando un'azione
comporta inevitabilmente una sofferenza, bisogna scegliere la sofferenza minore.
Focalizzandoci un momento su alcuni temi divenuti di conversazione comune,
possiamo dire che per questi motivi chi pratica l'ahimsa, chi adotta lo yoga come
sentiero di vita, adotta anche determinate regole alimentari, è inutile e stupido
forzare il ragionamento in altre direzioni. E ancora, per le ragioni legate alla
volontà o all'evitabilità del nuocere, gli yogin non andranno in giro con la
mascherina davanti alla bocca per non inspirare i microrganismi, come fanno alcuni
sacerdoti gianisti, oppure non denigreranno l'agricoltura perché può comportare la
morte di alcuni insetti. E ancora, per analizzare alcune obiezioni comuni nella
dialettica, ma forse un po' sciocche, anche se mangiare frutti comportasse
veramente la sofferenza delle piante, non nutrirsi sarebbe considerabile violenza
contro se stessi e quindi un male peggiore. L’unico caso in cui sia possibile
utilizzare la violenza, e in realtà i poemi e i miti induisti sono pieni di episodi
nei quali i virtuosi protagonisti uccidono, rapiscono o combattono, è per far
cessare un male peggiore.
Qualcuno, infine, traduce ahimsa con “amore”, è suggestivo e corretto, ma secondo
chi scrive un po' forzato, amore in sanscrito si indica con la parola rati. Non-
violenza significa comunque sicuramente anche “amore”.

Il secondo precetto delle regole etiche è Satya, termine sacro in tutto l'oriente,
che significa “la Verità”, concetto che si spinge un po' oltre alla verità di
pensiero, parola ed azione, oltre al vivere senza menzogna ed essere se stessi.
Satya, Verità, è uno dei nomi di Visnù. Le quattro nobili verità sono il principio
chiave del Buddhismo, duhkha-satya: verità del dolore; samudaya-satya: verità
dell'origine del dolore ; nirodha-satya: verità della cessazione del dolore; marga-
satya: verità della via che porta alla cessazione del dolore. Se ne potrebbe
parlare a lungo, ma credo che il significato profondo risuoni nel cuore di ognuno
di noi.

Un aspetto ampiamente dibattuto nelle scuole filosofiche asiatiche è se sia


necessario dire o agire secondo verità qualora questo comporti sofferenza o
violenza; gli esempi possono essere moltissimi e nei miti orientali sono molto
comuni. La risposta in merito è pressoché unanime: non bisogna agire secondo
verità, quando questo agire comporti sofferenza o violenza. Cosa fare se la verità
rischia di ferire? Nell’antico poema epico del Mahabharata, si discute questo
apparente dilemma: «La verità dovrebbe essere detta solo se piacevole e con modi
piacevoli; la verità che ferisce non andrebbe detta. Tuttavia non si dovrebbe mai
mentire per compiacere qualcuno». Queste azioni o menzogne diciamo “a fin di bene”
seppure inevitabili possono avere delle conseguenze non positive (cattivo karma),
ma comunque migliori di quelle che si verificherebbero se dicessimo la verità. La
non violenza è il primo ineluttabile principio e tutti i precetti sono in ordine di
importanza, quindi bisogna trasgredire quello meno importante qualora comporti
l'infrazione di quello più importante. Rimanendo nel contesto del Mahabharata,
moltissimi sono i casi in cui i prìncipi protagonisti, per mantenere la parola
data, per rispettare la verità, si trovano in situazioni molto difficili, come ad
esempio vivere nella giungla vestiti di pelli. Questo atteggiamento è considerato
virtuoso.

Il termine asteya, onestà, può avere varie sfumature: dal semplice non rubare al
non desiderare le cose degli altri, dal non essere avari ad abbandonare il concetto
di “mio”, eccetera. Brahma-charya o morigeratezza, comporta il non abbandonarsi
alle passioni, ma in realtà il termine composto significa letteralmente “condotta
in armonia con lo spirito assoluto”, quindi anche in questo caso il concetto va
leggermente oltre la continenza sessuale o alimentare, di cui però costituisce
l'inizio. Aparigraha, quinto e ultimo precetto etico, è il non-possesso ovvero il
possedere solo l'indispensabile. Ai monaci buddisti è concesso di possedere la
veste da indossare e la ciotola con la quale ricevere le offerte e sfamarsi. In
questo caso il necessario è ridotto "all'osso", ma ho conosciuto monaci, anche in
vista, che avevano nella stanza l'impianto Hi-Fi e questo non li rendeva
sicuramente dei trasgressori, ma il concetto alla base del precetto è anche che nel
tempo cambiano le necessità e che comunque ci sono delle priorità che devono avere
la precedenza rispetto al possesso, ad esempio legate ai primi quattro yama più
importanti rispetto ad aparigraha.

YSII:31. Ete jati desa kala samayanavacchinnah sarvabhauma mahavratam


Queste cinque norme, che formano la prima grande regola dello yoga si applicano
senza riguardo al ruolo sociale, al luogo, al tempo o alle circostanze.

Patanjali sembra aggiungere a margine: “non cercate scuse invocando principi sopra
di voi”. Come dicevamo, l'infrazione può essere giustificata esclusivamente dal
rispetto di uno dei principi più elevati, di cui la non violenza è quello più
elevato di tutti, che non può essere mai infranto. Non è possibile trovare
giustificazioni all'infrazione invocando “i tempi correnti”, ovvero affermare che
oggigiorno ormai è anacronistico rispettare una certa prescrizione o che la società
si è evoluta percui rubare è diventata la prassi oppure addurre una giustificazione
legata al luogo in cui ci si trova, addossando agli usi e costumi di un certo paese
le nostre infrazioni. Quindi non possiamo appellarci nemmeno alle circostanze
contingenti, lo scoppio di una guerra o una catastrofe, oppure, molto importante,
al ruolo che si occupa nella società. Patanjali indica questo concetto con termine
“jati”, che fa riferimento alle caste, ovvero non è possibile giustificare la
cattiva condotta adducendo come scusa la propria casta o condizione sociale, le
caste a nostro giudizio esistono in ogni tempo e in ogni luogo. Banalizzando essere
poveri non giustifica rubare, avere fame non giustifica mangiare carne, eccetera.
Se siamo militari non siamo legittimati a fare violenza o uccidere a meno che il
nostro operato non scongiuri violenze più grandi, non si deve eseguire
incondizionatamente gli ordini, ma valutare i motivi delle azioni. Allo stesso modo
è esecrabile, in ogni caso, svolgere compiti che comportano sofferenze evitabili a
uomini o animali. Per questo motivo determinati mestieri, come il conciatore, in
India sono svolti quasi esclusivamente da persone che hanno altri valori di
riferimento, musulmani o persone fuori casta oppure che si sono rassegnate ad una
vita grama, intoccabili.

YSII:32. Sauca samtosa tapa svadhyayesvara pranidhanani niyamah


Niyama, ovvero l'osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi, si
compone di cinque regole:
>sauca: purezza,
>santosa: appagamento,
>tapah: disciplina, pratica intensa,
>svadhyaya: studio di se stessi‚
>isvara: abbandono allo spirito superiore.
Yama e niyama sono dieci regole generali, la tentazione di fare un raffronto con i
dieci comandamenti biblici potrebbe essere forte, ma, seppure alcuni punti siano
simili, siamo in un campo completamente diverso, le dieci regole di Patanjali
mirano alla crescita interiore, non sono proibizioni, sono passi progressivi in un
percorso.

La purezza a cui rimanda il primo precetto che dobbiamo rispettare verso noi
stessi, sauca, è la purezza di corpo, mente e spirito generata dal percorso
attraverso i sette chakra ed al conseguente fluire dell'energia, coerentemente con
l'interpretazione che avevamo fornito nei sutra precedenti (YSII:27). Questa
purezza si raggiunge con la pratica di tutti gli otto passi dello yoga. Quindi, in
questa chiave, il più importante precetto morale è di praticare. Senza pratica non
c'e' yoga. Il termine può rimandare anche ad una purezza meno elevata, intesa come
igiene personale e dei luoghi di pratica, in questo contesto di massimi sistemi
sembra fuori argomento un tale riferimento, ma in India molti maestri citano il
concetto di sauca in rapporto all'igene. In realtà questo è coerente con lo schema
dei cinque corpi, da quello fisico a quello spirituale, propri del pensiero Indiano
ed ayurvedico, cui sauca si riferisce. E' una purezza complessiva quella che ne
risulta.

Il secondo punto è l'appagamento, o santosa, chiave di volta della cessazione dei


desideri e cardine del distacco. Una persona più saggia di me diceva che la
felicità è inversamente proporzionale alla differenza tra le mie aspettative e ciò
che sono oppure ho. Se le mie aspettative sono poche, sarò molto felice, se non ho
aspettative, la felicità tenderà all'infinito. Nella nostra cultura consumistica e
di bisogni indotti, seppure nessuno di noi aspiri probabilmente a diventare un
monaco, questo precetto è particolarmente prezioso. L'appagamento derivante da un
desiderio materiale realizzato può essere molto inferiore all'angoscia che esso ha
generato mentre era irrisolto, questo è un trucco della mente per mantenere il
predominio e mantenerci nella sofferenza. Il distacco è la chiave, diceva Patanjali
poco sopra. Questo principio può facilmente essere applicato a tutte le nostre
azioni, dobbiamo agire con distacco verso i frutti che trarremo, senza diventare
dipendenti da essi. Praticherò quindi perché la pratica mi giova sotto vari
aspetti, ma senza diventare schiavo del risultato; che riesca o meno a compiere una
posizione, a ritrovare la massima estasi nella meditazione, non ha importanza, è
importante il tentativo; esisteranno sempre posizioni che faccio con facilità e
posizioni che non riesco a fare, giornate in cui ricevo sensazioni migliori
rispetto ad altre, il giusto percorso è per Patanjali, come abbiamo visto,
mantenersi nella massima intensità. Il risultato finale è ininfluente e rischia di
generare, come minimo, attaccamento, ma anche invidia, frustrazione, mancanza di
entusiasmo e falsi obiettivi (confronta YS 1:30).

La disciplina o tapah, è, come abbiamo visto uno dei principi chiave della
pratica, ovvero l'intensità. Letteralmente significa calore, il calore che brucia
le impurità del corpo e della mente. Nel Rig Veda acquisirà il significato di
austerità. Allo stesso modo sia lo studio di se stessi che l'abbandono allo spirito
superiore o isvara sono concetti sui quali Patanjali già si è espresso. Come
sappiamo la pratica deve essere adattata alle esigenze personali e consiste in un
intenso e metodico esercizio lungo la via degli otto passi. In alcuni casi, proprio
quando l'obiettivo finale di ricongiungimento con lo spirito superiore sembra
precluso, al massimo dell'impegno, può essere necessario abbandonarsi.

YSII:33. Vitarka badhane prati paksa bhavanam


In caso di difficoltà causata da pensieri nocivi è possibile neutralizzarli con i
pensieri opposti.

YSII:34. Vitarka himsadayah krta karitanumodita lobha krodha moha purvaka


mrdumadhyadhimatra duhkha jnananantaphala iti pratipaksa bhavanam
I pensieri nocivi sono la violenza e le altre cause di dolore. Possono essere
compiuti direttamente, imposti con le parole o approvati mentalmente; provengono da
sentimenti di cupidigia, ira e altre condizioni di confusione; possono essere
deboli, medi o intensi, portano inevitabilmente dolore e sono causati
dall'ignoranza. Perciò è necessario coltivare le opposte inclinazioni.

L'esercizio proposto da Patanjali può sembrare banale, ma non lo è. Per eliminare


dalla mente i pensieri negativi o gli atteggiamenti che sappiamo arrecare
sofferenza, è sufficiente concentrarsi sui pensieri o sui comportamenti opposti.
Questo precetto ha moltissime applicazioni, come, ad esempio, soffermarsi sempre
sulle caratteristiche positive delle persone o delle situazioni, oppure eliminare
dalla mente un pensiero capendo che ci farà soffrire e che in quel momento abbiamo
bisogno dell'atteggiamento opposto. La violenza e tutte le sue conseguenze, possono
avere sfumature e gradazioni diverse, pensare ad una violenza verbale ad esempio,
non è come compiere una violenza fisica, ma, comunque, quale sia la gradazione,
l'unica certezza è che questi comportamenti causeranno sofferenza, seppure secondo
una scala di sfumature crescenti.
Coltivando inclinazioni, pensieri e azioni positivi, avremo un effetto positivo
sulla realtà che ci circonda. Siamo noi in ultima analisi gli artefici del nostro
Universo.

YSII:35. Ahimsa pratisthayam tat sannidhau vaira tyagah


La solidità di aimsha, la non violenza, porterà l'abbandonano delle ostilità.

Vengono ora elencati gli effetti della pratica dei principi di yama e nyiama.
Questo passaggio può essere inteso con un duplice significato. Il primo è che
essendo noi stessi solidi nella qualità della non violenza indurremmo gli altri a
non essere violenti. Il secondo è che se tutti praticassero la non violenza nessuno
sarebbe ostile contro il prossimo perché verrebbe meno il motivo del contendere.
Entrambe le interpretazioni mi sembrano coerenti, accettabili e partecipi dello
stesso disegno che Patanjali sta tracciando tra precetti verso se stessi e verso la
società.
Questo sutra è spesso invece tradotto con una terza sfumatura ovvero che la sola
presenza dello yogin saldo in aimsha è sufficiente a disinnescare i conflitti,
semanticamente correttissimo, ma, a giudizio di chi scrive, leggermente limitante.
Il significato proposto è, crediamo, più generale e di senso comune.

YSII:36.Satya-pratisthayam kriya-phalasrayatvam
La solidità di satya, la verità, farà conseguire i frutti dell'azione senza agire.

Colui che è illuminato dalla verità riesce a trasmetterla agli altri rendendo
inutile qualsiasi azione. La verità è il fine ultimo. Quando la verità illumina
tutte le persone il fine è già raggiunto, non c'e' bisogno di ulteriori azioni.
Analogamente a quanto detto relativamente al verso precedente, non interpretiamo
questo sutra con la sfumatura che la sola presenza dello yogin basti a influenzare
le situazioni senza agire, infondendo la verità. Questa interpretazione porta poi
come estremizzazione ad affermare che la sola presenza del guru, del maestro, sia
sufficiente ad illuminare i discepoli. Patanjali non crediamo voglia dire questo, e
tale principio seppure esalti il ruolo del guru, limiterebbe il senso della
pratica, in contrasto con quanto sin qui esposto.

YSII:37. Asteya pratisthayam sarva ratnopasthanam


La solidità di asteya, l'onestà, farà raggiungere la ricchezza.

YSII:38. Brahma carya pratisthayam virya labhah


La solidità di brahmacharya, la morigeratezza, porterà l'acquisizione di energia.

YSII:39. Aparigraha sthairye janma kathanta sambodhah


La solidità di aparigraha, possedere solo l'indispensabile, farà comprendere lo
scopo dell'esistenza.

L'onestà è in realtà essa stessa una ricchezza, percui una volta raggiunta
un'onestà senza tentennamenti o la comunione con le persone con le quali viviamo,
saremo già ricchi. Allo stesso modo l'energia non si consegue soltanto bruciando,
trasformando altre energie, ma anche risparmiando queste.

Sono state elencate quindi tutte e cinque le osservanze delle norme di


comportamento etiche verso gli altri e capiamo meglio come mai queste siano passi
successivi, partendo dalla prima, più importante, perché venendo a mancare cadono
tutte le altre, piano piano si arriva allo scopo ultimo, al quale partecipano tutte
le precedenti. Non possedere cose materiali, il non-possesso, il non attaccamento
ai concetti di dolore e soprattutto piacere, porterà lo yogin a comprendere il
senso dell'esistenza, ovvero la sapienza più elevata.

YSII:40. Saucat-svanga-jugupsa parair-asamsargah


Sauca, la purezza, farà raggiungere il distacco dalle cose materiali.

YSII:41. Sattva suddhi saumanasyaikagryendriya jayatma darsana yogyatvani


La purezza genera felicità, potere di concentrazione, controllo dei sensi, e
capacità di realizzare il Sé.

YSII:42. Samtosad anuttama sukha labhah


Santosa, l'appagamento, genera la felicità suprema.

YSII:43. Kayendriya siddhir asuddhi ksayat tapasah


Tapah, la disciplina, elimina le impurità e porta la perfezione del corpo e dei
sensi.

YSII:44. Svadhyayad-ista-devata-samprayogah
Svadhyaya, lo studio di se stessi‚ porta a percepire la propria parte spirituale
individuale.

YSII:45. Samadhi siddhir isvara pranidhanat


Isvara, l'abbandono allo spirito superemo, porta all'unione dello spirito
individuale con lo spirito superemo.

Patanjali elenca ora i frutti delle cinque osservanze delle norme morali verso se
stessi. La pratica, il cui scopo è la purificazione, porterà al distacco dalle cose
del mondo e la possibilità di accedere alle successive qualità. Il ragionamento è
motlo lineare.

La pratica porta alla purificazione, si superano cioè gli elementi grossolani del
proprio essere, si acquisisce sottigliezza, raffinatezza, si diviene “il tempio
dell'essere surpemo” a cui ci si ricongiunge. Alcuni osservano giustamente che
l'atteggiamento di Patanjali non è moralistico, egli non afferma di non nuocere al
prossimo e di rispettare gli altri precetti perché esiste una legge superiore, ma
solamente con lo scopo di purificare se stessi e trascendere il proprio spirito. La
punizione è una vita infelice in questo mondo e le cattive conseguenze delle nostre
azioni.

Avendo regolato le norme di comportamento verso noi stessi e verso gli altri,
possiamo giungere all'obiettivo finale dello yoga ovvero il samadhi, il
ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito superemo. Se questi
fossero visti unicamente come passi successivi, non avremmo necessità di aggiungere
altri passi alla nostra pratica. Come abbiamo detto più volte, sono passi
successivi, ma si influenzano l'un l'altro favorendo il raggiungimento degli
obiettivi. Le successive pratiche concorreranno al conseguimento di yama e niyama.
E' stato dibattuto se gli spiriti illuminati potrebbero non avere necessità della
pratica costituita dai successivi passi sulla via dell'ashtanga yoga, ma la
questione non ci sembra di particolare interesse.

Rullo di tamburi... ecco che Patanjali arriva a parlarci delle asana (posizioni),
della respirazione e della meditazione. Secondo molti questa è la parte più
avvincente e poetica dell'intera opera. Questi aspetti specifici della pratica
saranno ripresi dalle opere classiche successive, come ad esempio l' Hatha-Yoga
Pradipika, la Gheranda Samhita e la Shiva Samhita, datate intorno al 1400 DC,
approfonditi e trattati in modo più analitico. Poco dopo la redazione dell'Hatha-
Yoga Pradipika si creeranno due scuole principali di yoga, il Raja Yoga,
focalizzato in modo uniforme su tutti gli otto passi dei sutra di Patanjali e
l'Hata Yoga, incentrato maggiormente su asana, pranayama e meditazione. Oggi giorno
nel mondo, India compresa, l'impostazione dell'Hata Yoga è predominante. Stiamo
parlando comunque di sfumature, tutte le scuole di yoga del presente e del passato
raccomandano che si faccia ordine nella propria vita per dedicarsi alla pratica
delle asana o alla meditazione, semplicemente perché, come sanno tutti i
praticanti, una vita caotica e sregolata rende estremamente difficile già solamente
sedere a gambe incrociate. A volte iniziare la pratica può però rappresentare uno
stimolo per cominciare anche il processo di revisione del proprio comportamento.
Come sempre i passi del percorso sono successivi, ma integrati e collegati.
"Pratica e tutto il resto seguirà", la famosa frase del maestro Pattabhi Jois, è da
interpretarsi secondo me in questa direzione.

Ma veniamo ora ai magnifici sutra che descrivono le asana:

YSII:46. sthira sukham asanam


Le asana, o posizioni, sono stabili e comode.

Sappiamo dalla precedente esposizione del concetto di tapah, che la pratica deve
essere intensa, ma a completamento del quadro d’insieme, si aggiunge ora che le
asana devono mirare a diventare solide e comode. Patanjali non è un ginnasta,
avendo spiegato l'unione tra mente, corpo e spirito, indica come la grazia del
corpo permetta di raggiungere la grazia della mente con cui iniziare a intravedere
la grazia dello spirito. Passo dopo passo sempre più in profondità dentro noi
stessi, sempre più verso l'alto, verso percezioni sottili ed elevate. Le asana non
devono indurre sofferenza al corpo, ma essere stabili e confortevoli, non si parla
di contorsioni o di forzare il fisico, ma di una zona di confort. Di contro,
Patanjali afferma che stabilità e semplicità di esecuzione si realizzano
abbandonando lo sforzo verso uno scopo, prayatna, quindi presumibilmente,
precedentemente l'intensità richiesta era dovuta in parte ad uno sforzo e ad uno
scopo, che però si deve mirare ad abbandonare e a trascendere. Sukham è la forza
che nasce dalla stabilità. Cercando una sintesi potremmo dire che la pratica deve
andare verso l'intensità nella stabilità e mai verso la tensione. Secondo questo
precetto si avrà un'evoluzione naturale verso posizioni che portano il corpo ad una
maggiore intensità qualora si raggiunga una mancanza di intensità nelle stesse, ma
mirando sempre ad una stabile e forte esecuzione. E' anche chiaro che in questa
ottica, non esistono due persone che eseguiranno la stessa posizione allo stesso
modo e che solamente noi stessi possiamo capire la giusta intensità.

YSII:47. prayatna saithilya ananta samapatti bhyam


Questo avviene abbandonando ogni sforzo e unendosi con l'infinito.
La stabilità e semplicità di esecuzione si realizza anche unendosi con ciò che non
ha confini, unendosi con l'infinito, cioè quando si raggiunge uno stato di quiete
meditativa durante la pratica fisica. Il concetto è molto bello. Come realizzare
questo aspetto è chiaramente del tutto soggettivo, per alcuni si verificherà con
una danza del corpo e del respiro, per altri con l'immobilità nell'equilibrio e
nella flessibilità, per altri anche solo sedendosi a gambe incrociate, non esiste
una ricetta valida per tutti, ognuno dovrà trovare le sue posizioni e la sua
pratica. La pratica fisica influenza la mente e lo spirito e a sua volta è da loro
influenzata. L'abbandono e la quiete meditativa non si possono forzare, potrò
ricercarle, facendo una serie di operazioni che so' portarmi in quella direzione,
ma il viaggio è sempre unico, irripetibile e mai scontato. Credo che questo sia uno
dei motivi per il quale molti amano lo yoga. Qualcuno porta come esempio il sonno:
non è possibile decidere di addormentarsi, ma liberando la mente, sdraiandosi e
spegnendo la luce, con una buona dose di stanchezza, generalmente si riesce, ma
spesso, ossessionandoci con il pensiero di dormire, otteniamo l'effetto opposto.
Per la pratica è la stessa cosa, lasciamola accadere contemplando l'infinito. La
mente è allenata a porre limiti, Patanjali suggerisce il percorso inverso, farla
andare verso ciò che non ha limiti.

YSII:48. tato dvandva anabhighatai


Così cessa la sofferenza causata dalle coppie di opposti.

Le asana portano alla beatitudine generata dal superamento delle sensazioni e dei
sentimenti, alla libertà che solo chi pratica ha sperimentato. Grazie alle asana si
giunge ad un benessere assoluto oltre gli aspetti fisici o mentali, oltre le coppie
di opposti, il caldo e il freddo o il piacevole e spiacevole, oltre i concetti di
bene e male, rilasciando ogni sforzo e percependo l'infinito. Questo è il concetto
che il Buddha Siddharta, che visse dopo Patanjali, indicherà come la via di mezzo,
majhim nikaya. Il viaggio solitamente inizia dal corpo e pervade la mente e lo
spirito, ma la distinzione è fittizia e il percorso soggettivo. Le posture fisiche
sono il mezzo per giungere al distacco dalle cose materiali e capire che abbiamo in
noi qualcosa di molto grande e molto elevato. Gli Yoga Sutra sono una perla di cui
tutti gli yogin devono essere grati.

Un'osservazione che muovono spesso i sostenitori del Raja Yoga è quella che
Patanjali non avrebbe dedicato molto spazio alle asana o almeno ne dedicherebbe
meno rispetto l'importanza attribuita ad esse dagli "eretici" fautori dell'Hata
Yoga. "Patanjali non cita nemmeno una posizione!" rincarano. Per bilanciare il
discorso, basti ricordare che, secondo il mito, lo yoga è stato ideato da Shiva,
dopo una meditazione di migliaia di anni e carpito da Matsyendra, il signore dei
pesci, per donarlo agli uomini, quando il Dio lo stava insegnando a sua moglie
Parvati. Lo yoga ideato da Shiva consta di otto milioni e mezzo di asana, o un po'
meno a seconda delle versioni. Il mito vuole chiaramente dirci che le posizioni
dello yoga sono tutte le posizioni che il corpo può assumere. Questo concetto unito
a quanto affermato in precedenza da Patanjali, cioè che la pratica deve essere
personale e secondo il modo che piace di più allo yogin, ci fa capire che un elenco
di posizioni avrebbe poco senso all'interno di questa opera.

YSII:49. tasmin sati svasa apravasayor gati vicchedai pranayamah

Da qui, il passo successivo è l'espansione dell’energia, il pranayamah, che


consiste nell'inspirare, nell'espirare e nell' interrompere il flusso.

YSII:50. bahya abhyantara stambha vettir dea kala saokhyabhi parideo dirgha sukemai
Quando si osserva attentamente la durata e la frequenza di inspirazione,
espirazione o ritenzione, i respiri diventano sempre più prolungati e sottili.
YSII:51. bahya abhyantara visayaksepi caturthah
A questo punto si trascendono inspirazione, espirazione e ritenzione in una quarta
tipologia di respirazione.

YSII:52. Tatah ksiyate prakasa avaranam


Quindi si affievolisce e scompare il velo che offusca la realtà.

Il respiro è il collegamento tra corpo, mente e spirito o, meglio, ciò che ci fa


percepire l'unità di questi tre aspetti. Le posture solide, la mente focalizzata
sull'infinito e la percezione dello spirito si fondono grazie al ritmo unisono
impartito dal respiro. Il respiro riflette in modo estremamente puntuale le
variazioni assunte dal corpo, le oscillazioni della mente e gli sguardi sullo
spirito. Quale strumento migliore quindi per dominare tutta la nostra essenza? Per
Patanjali il respiro rappresenta l'espansione della forza vitale, l'accesso e
l'incameramento dell'energia che tutto pervade, il prana. Il termine prana
(=energia) - yama (=espansione) si spinge quindi un poco oltre al concetto di
controllo del respiro, come generalmente, per brevità, viene tradotto. Secondo i
principi dell'ayurveda, alla base delle enunciazioni di Patanjali, ogni nostra
cellula partecipa all'assunzione di energia mediante la respirazione, partecipando
alla forza vitale dell'universo e ad una vibrazione che tutto pervade, ad un ritmo
vibratorio inspirazione-espirazione, che fa pulsare tutto l'universo. Le scuole
tantriche successive approfondiranno molto questo concetto che chiameranno spanda.
Ma non vogliamo spingerci così oltre, basti sottolineare come e perché per il
nostro autore, il respiro è il collegamento e il mezzo per controllare il nostro
essere.
Anche in questo caso l'autore non fornisce indicazioni di dettaglio, ma ognuno
troverà la migliore modalità per realizzare quanto indicato: qualcuno preferirà
trovare il giusto ritmo del respiro in movimento durante asana più o meno intense,
come alcune scuole himalayane o del Karnataka, altri seduti immobili in posizioni
più meditative oppure assumendo posture che secondo le scuole ayurvediche
incanalano i flussi energetici in modi particolari, i cosiddetti mudra, altri un
insieme di tutto questo e così via.

Inspirare, espirare e sospendere per alcuni attimi il respiro tra l'uno e l'altro,
è un gesto meccanico, portare consapevolezza su questo atto è già un passo
importante. Lavorare sull'espansione ed il potenziamento del respiro è un punto
cruciale dello yoga di Patanjali, ma di qualsiasi scuola di yoga. Il pranayama, gli
esercizi di respirazione, o, meglio, gli esercizi di controllo dell'energia,
portano a prolungare sempre dippiù le varie fasi della respirazione, rendendo
lungo, flebile e uniforme ogni respiro. Molte opere successive indicheranno una
serie di tecniche di condizionamento del respiro da molto semplici a molto
complicate, ma come ormai abbiamo visto, a Patanjali non interessano i dettagli
tecnici, lui indica la strada anche ai maestri, loro sapranno come seguirla e
condividerla.

Il sutra 51 si presta ad una duplice interpretazione, riportiamo entrambe perché


in qualche modo complementari e comunque degne di nota. Il quarto tipo di respiro,
oltre inspirazione, espirazione e ritenzione, è da alcuni considerato il flusso
continuo di puro prana, che trascende ed affianca inspirazione ed espirazione
grossolani, che insorge quando si ha un livello di pratica avanzato, un modo di
respirare distaccato, da osservatore, in un respiro che tutto unisce. Secondo
altri il quarto tipo di respirazione sono le apnee spontanee che insorgono talvolta
in uno stato di coscienza molto elevato, nel quale comunque il prana fluisce in
modo fluido attraverso il corpo. A giudizio di chi scrive queste due
interpretazioni sono vere e valide entrambe. Molti praticanti di pranayama si
focalizzano in modo spasmodico sulle apnee spontanee, ma secondo quanto appena
detto, l'apnea spontanea è una forma di respiro pranico consapevole.
Infine, traducendo letteralmente, si dissolve il velo che copre la luce.
Personalmente questo sutra mi ha aiutato a comprendere meglio cosa si intenda per
illuminazione, cioè percepire senza l'oscuramento della falsa conoscenza e dei
sensi. Senza mezzi termini Patanjali sta affermando che posture fisiche, asana, e
espansione del respiro, pranayama, praticati congiuntamente alle norme di
comportamento, yama e nyama, portano all'illuminazione. Diversamente dal Buddha,
per lui non è questo l'ultimo gradino del percorso.

YSII:53. Dharanasu ca yogyata manata


Quindi la mente non ostacola più la capacità di concentrazione, Dharana.

YSII:54.Sva-visayasamprayoge citta-svarupanukara ivendriyanam pratyaharah


Pratyahara, il ritiro dei sensi, consiste nell'abilità di rinunciare alle
percezioni esteriori.

YSII:55. Tatah parama vasyatendriyanam


Quindi si ha la completa padronanza su tutti i sensi esterni.

Ora la pratica dello yoga si sposta completamente all'interno di ognuno di noi. E'
una semplificazione e in realtà il confine non esiste, ma questa semplificazione
può aiutare a comprendere questo ulteriore passaggio. Con l'illuminazione dovuta
all'eliminazione del velo che offusca la percezione della realtà, è divenuto
possibile contemplare la nostra parte spirituale, il nostro spirito individuale e
su di esso spostare la nostra concentrazione. A questo punto siamo completamente
assorbiti verso il nostro interno, i sensi e ciò che è esteriore sono tagliati
fuori. Pratyahara, che abbiamo sempre tradotto con il ritiro dei sensi, è
interpretabile, in modo molto letterale, anche come "il ritorno alla sorgente", il
ritorno verso lo spirito assoluto da cui il nostro spirito individuale proviene, di
cui Patanjali ha trattato approfonditamente nel primo capitolo, si è preferita la
prima traduzione perchè di più immediata comprensione. Questo è l'inizio del
viaggio interiore dello spirito individuale verso lo spirito assoluto, che
terminerà con il samadhi ovvero il ricongiungimento dei due. Le persone o i santi
uomini che stanno sedute a gambe incrociate per ore, per giorni, per anni, sono
immerse in questo viaggio che inizia con il rivolgimento verso l'interno e il
distacco dai sensi. Meglio ancora, che inizia comportandosi con regolatezza,
praticando le asana e uniformando il respiro alla vibrazione dell'universo per poi
giungere dentro ognuno di noi. In realtà non c'è più contrapposizione tra interno
ed esterno, ogni cosa è al suo posto e si prosegue il cammino con quello che per
semplicità espositiva potremo considerare come una fase successiva, approfondita da
Patanjali nella prima parte del terzo libro.

Patanjali Yoga Sutra, Libro Terzo: i Doni [new]


marzo 14, 2018

di Marco Sebastiani

Il terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali tratta dei risultati che si conseguono
con la pratica dello yoga, intesi anche come obiettivi finali e livelli più alti
della pratica stessa. Personalmente è un libro che ritengo di grande ispirazione.
Il terzo libro tira le fila di quanto detto finora e probabilmente per questo
motivo evidenzia in modo particolare la coerenza del discorso e le interpretazioni
applicate sino a questo punto. L'idea di pubblicare una nuova traduzione degli Yoga
Sutra è nata proprio dalla lettura di molte versioni del terzo libro che
interpretavano questi passi come il conseguimento di "superpoteri", come
l'invisibilità o la telepatia, raggiunti mediante la meditazione su questo o quel
punto focale. Vedremo che approcci alternativi non sono solo possibili, ma sono
forse più coerenti con quanto enunciato sin qui dall'autore.

Una completa ed intensa pratica di tutti e otto i passi fondamentali descritti nei
capitoli precedenti permette di raggiungere alcuni traguardi. Intendiamo lo yoga
oggetto della trattazione di Patanjali come un'attività prettamente esperenziale,
legata alla pratica e non un'attività filosofica, speculativa, teorica o religiosa.
In particolare, crediamo che gli obiettivi indicati dall'autore siano strettamente
legati alla pratica e non di natura sovrannaturale. Gli obiettivi della pratica non
sono superpoteri, ma doti fisiche, mentali e soprattutto spirituali. In
quest'ottica l'opera ci appare una grandissima fonte di ispirazione, molto attuale,
un dono per tutti gli yogin.

Gli ultimi sutra del III libro di Patanjali cercano inoltre una risposta alle
domande ancestrali dell'uomo: chi siamo, qual'è il senso della vita, cosa è la
realtà che ci circonda. La pratica dello yoga, secondo l'autore, fa chiarezza su
questi aspetti, una volta arrivata alla sua massima vetta. Questi sono i doni
finali che si possono conseguire, prima della grande liberazione finale, argomento
del quarto libro, quando non sarà più necessaria nemmeno alcuna pratica.

Ma veniamo ora al testo. Patnjali, alla fine del secondo libro, stava enunciando
gli ultimi due passi degli otto che costituiscono il suo Ashtanga Yoga
(Ashta=otto, anga= passi), ovvero la concentrazione e la meditazione. Il discorso
riprende da questo punto senza soluzione di continuità, introducendo poi anche
l'ultimo passo, il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito
assoluto, questi ultimi tre gradini essendo gli strumenti più elevati di tutta la
pratica.

Patanjali Yoga Sutra, Libro Terzo

Vibhuti Pada
Capitolo sui doni

YSIII:1 desha bandha cittasya dharana


Dharana, la concentrazione, è l'attenzione cosciente sulla pratica.

La concentrazione durante la pratica è un passo essenziale e consiste, banalmente,


nell'essere attenti ed immersi nel momento presente. Questo è un meccanismo
cosciente in cui, semplificando, possiamo dire che i pensieri sono rivolti
interamente a quanto si sta facendo. Credo che il concetto sia molto chiaro a chi
pratica asana e pranayama. La pratica deve essere intensa proprio perché in questo
modo si lascia meno spazio alla mente di divagare, una pratica intensa più
facilmente coinvolgerà tutti i pensieri impedendo distrazioni. La concentrazione è
una parte imprescindibile dell'intensità.

La traduzione di questo sutra è fondamentale per l'interpretazione dei successivi.


La versione più comune è: "Dharana, la concentrazione, consiste nel fissare la
mente sull'oggetto su cui si medita." Questa traduzione, seppure in linea con
certi tipi di meditazione buddista, porterà poi a confondere l'attenzione a ciò che
si sta facendo con l'attenzione su qualcosa. A supporto della nostra
interpretazione, che non nascondiamo essere minoritaria, possiamo dire che essa è
letterale in quanto desha, oltre ad oggetto, può significare anche luogo della
pratica ovvero la pratica stessa. Torneremo su questo concetto.

YSIII:2. tatra pratyaya ikatanata dhyanam

Il passo successivo è dhyana, la meditazione, l'ininterrotto flusso della


percezione profonda.

Dopo la concentrazione sulla pratica e grazie ad essa, il praticante potrà


sperimentare il passo successivo, la meditazione, che consiste in uno stato di
assenza dei pensieri che ci permette di vedere il nostro spirito, avendo escluso la
mente. Come dicevamo, se la mente può essere a sua volta osservata, cesserà
l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri e comparirà la consapevolezza
che ciò che sta osservando la mente è qualcosa di più elevato ovvero il nostro
spirito. Questa è la percezione profonda, pratiyaya, e ricordiamo a questo
proposito il sutra I,25: “Successivamente, grazie alla pratica continua, resta
solamente la percezione profonda dello spirito universale”. La meditazione è una
prolungata assenza di oscillazioni della mente, percezione profonda che ci permette
di vedere il nostro spirito individuale. Non vogliamo qui fare l'esegesi delle
traduzioni del testo, ma analogamente al sutra precedente, una corrente
predominante traduce: "Dhyana è l'ininterrotta fissità della mente sull'oggetto".

YSIII:3. Tadeva artha matra nirbhasam svarupa sunyam iva samadhih

Poi si raggiunge il samadhi, l'unione dello spirito individuale con lo spirito


assoluto, la beatitudine derivante dalla contemplazione in cui sparisce il soggetto
che osserva.

Successivamente, grazie alla meditazione, ma anche grazie a tutti i sette


precedenti passi, si arriva allo stadio finale della pratica, il più elevato. La
percezione profonda ci ha fatto scoprire lo spirito individuale, ora questo stato
ci permette di contemplare lo spirito assoluto ovvero di ricongiungere lo spirito
individuale con lo spirito assoluto che tutto pervade. Tale illuminazione, ovvero
l'osservazione spirituale della realtà senza i veli dell'ignoranza, porta a uno
stato di beatitudine. Questo potrebbe sembrare un concetto astratto, ma non lo è,
in quanto Patanjali si riferisce esattamente al momento in cui in particolari
momenti della vita, dopo una pratica sistematica e intensa, composta in modo
ottimale secondo le proprie esigenze tra asana, respirazione, concentrazione e
tutto quanto detto in precedenza, arrivati alla meditazione, si sperimenta uno
stato di beatitudine assoluto. Il soggetto che osserva scompare perché si fonde con
lo spirito che viene osservato. E' un concetto molto bello ed elevato. Come sanno
tutte le persone che praticano con una certa continuità, il percorso che conduce a
questo punto, nonché le sensazioni che si provano e la durata di questi processi
sono vari quanto sono vari gli esseri umani, ma non sono concetti astratti. Chi ha
interpretato questi ultimi tre passaggi come l’impegno della mente su qualcosa,
versione che a noi sembra in contrasto con i primi due libri, traduce questo sutra
come: “il Samadhi si ha allorché, la mente si unisce all'oggetto osservato”. Lungi
dal polemizzare con traduttori ben più titolati di chi scrive, mantenendo però
questa linea, il tutto diviene un poco meccanico e il primo libro sul samadhi
sembra fuori contesto.

YSIII:4. trayam ekatra samyamaḥ


Questi tre passi sulla via dello yoga, dharana, dhyana e samadhi, generano la
perfetta integrazione, detta samyama.

Concentrazione, meditazione e unione con lo spirito assoluto, ultimi tre passi


della pratica, sono tra loro sinergici ovvero la loro somma produce un risultato
accresciuto rispetto all'unione dei singoli elementi che la compongono. In realtà
questo è vero per tutti gli otto passaggi sin qui trattati. Con samyama,
l'integrazione, Patanjali non sta introducendo un nono passo: quello che vuole qui
affermare è che per sperimentare il vero samadhi, la vera contemplazione dello
spirito assoluto, è necessario padroneggiare perfettamente questi tre passaggi,
inoltre si ribadisce che i passi sono integrati e che in particolare gli ultimi tre
sono proprio inseparabili l'uno dall'altro; per arrivare all'ultimo dobbiamo
continuare ad essere stabili anche nei due precedenti, concentrazione e
meditazione, altrimenti ciò è impossibile. In realtà il testo di Patanjali è molto
sintetico e letteralmente dice: “integrazione, i tre come uno”, che abbiamo
parafrasato, ma il cui concetto sembra chiaro.

YSIII:5. taj jayat prajoalokaj

Padroneggiando l'integrazione di questi tre aspetti, samyama, emerge la luce della


somma consapevolezza.

YSIII:6. tasya bhumisu viniyogah

L'integrazione, Samyama, si sviluppa per gradi.

7. trayam antar angam purvebhyah

Questi tre passi sulla via dello yoga, dharana, dhyana e samadhi, hanno conseguenze
interiori più profonde se paragonati ai cinque che li precedono.

8. tad api bahir aogam nirbijasya

Tuttavia sono esterni, se paragonati al samadhì quando sopraggiunge senza


l'intervento della volontà.

Arrivati quindi a percorrere tutti e gli ottto passi della via dello yoga e in
particolare grazie alla perfetta integrazione degli ultimi tre, giunti al samadhi,
si giunge alla massima consapevolezza spirituale, obiettivo finale dello yoga.
Questo stato finale ha comunque a sua volta dei gradini e dei livelli. Il samadhi
può essere intuito, sperimentato per brevi momenti oppure in modo stabile e
sistematico. Nulla si compie d’improvviso, ma tutto è invece risultato di un
processo lungo e costante.

Dicevamo che non convicne la divisione tra aspetti fisici ovvero i primi cinque
passi e aspetti spirituali, ovvero gli ultimi tre gradini, perché induce una
separazione che non è propria dell'autore. Patanjali afferma tuttavia che dharana,
dhyana e samadhi sono aspetti della pratica che portano lo yogin a una maggiore
introspezione rispetto ai passaggi precedenti, questo è un dato di fatto. Le norme
di comportamento, ma soprattutto asana, respirazione e introspezione, comportano
l'uso dei sensi e del pensiero che invece successivamente tenderemo gradualmente a
superare. Preso contatto cosciente con “l'nteriorità” e i flussi di energia, il
praticante può dedicarsi all’uso dei mezzi soggettivi e intimi. Come spesso accade
ritengo che questi passaggi appaiano più chiari a chi pratica yoga rispetto a chi
si occupa dei sutra da un punto di vista puramente filosofico.

Patanjali ritorna poi a ribadire quanto già accennato alla fine del primo libro,
ovvero che esistono due tipi di ricongiungimento con lo spirito universale, o
samadhi, uno meno elevato che si raggiunge grazie all'intervento della volontà,
perché perseguito e ricercato, ed uno più elevato, che si consegue senza
l'intervento della volontà, involontariamente. Questo ultimo stadio rappresenta la
massima introspezione possibile nella quali si riesce ad osservare la propria parte
divina o meglio ci si fonde con la divinità presente in se stessi. Soggetto
contemplante ovvero me stesso e oggetto contemplato, ovvero ciò che sento, ciò che
emerge dall'esclusione della mente, lo spirito, diventano una cosa sola.

YSIII:9. Vyutthana nirodha samskārayoh abhibhava pradurbhavau nirodhaksana


cittānvayo nirodha parināmah

Nel percorso verso l'immobilità è importante la transizione tra concentrazione e


meditazione, quando da uno stato si passa al successivo.

YSIII:10. tasya prasanta-vahita samskarat

Quando questa transizione diviene un flusso stabile, la percezione dello spirito


diviene stabile.

YSIII:11. sarvarthataikagratayh ksayodayau cittasya samadhi parinamah

La transizione tra concentrazione e meditazione sorge quando cessa la


concentrazione su singoli aspetti e non interviene nessuna distrazione.

YSIII:12. tatah punah satoditau tulya pratyayau cittasya ikagrata parinamah

Poi ancora, la transizione da concentrazione a meditazione diviene unidirezionale


quando diventa stabile la sospensione della concentrazione su aspetti mutevoli.

I sutra tra 9 e 12 sono tra i più controversi di tutta l'opera, non annoieremo il
lettore con una panoramica delle interpretazioni. Operando qualche semplificazione
diremo che l'oggetto di cui si sta parlando è l'evoluzione delle fasi di controllo
della mente, della consapevolezza e dello spirito. Particolarmente difficile è la
transizione dalla concentrazione alla meditazione ovvero l'acquietazione definitiva
delle oscillazioni della mente, definizione dello yoga stesso secondo quanto
affermato nell'apertura dell'opera: yoga citta vritti nirodha, lo yoga consiste
nella cessazione delle oscillazioni della mente. Il passaggio tra concentrazione e
meditazione è difficile e cruciale nella pratica. Chi pratica lo sa bene ed è il
motivo per il quale è generalmente necessario prepare questo passaggio con intensi
asana e pranayama. Patanjali suggerisce che riusciremo a sperimentarlo
sistematicamente e a portare avanti la meditazione per un periodo sufficientemente
lungo e costante, senza essere richiamati indietro dalla concentrazione su alcun
aspetto o elemento, grazie ancora una volta all'esercizio di una pratica costante.
Questo esercizio eviterà che si interrompa la meditazione per tornare nuovamente ad
uno stato di concentrazione e quindi di attenzione su qualcosa.

Vogliamo richiamare l'attenzione sul passaggio tra consapevolezza e integrazione


definitiva e stabile tra corpo, mente e spirito. E' necessario secondo l'autore
prendere consapevolezza di questi tre aspetti, ma nello stato meditativo si
trascende questa separazione che capiremo solamente ora essere fittizia, seppure
funzionale.

YSIII:13. etena bhutendriyesu dharma-laksana-avastha parinama vyakhyatah

Grazie a questa pratica si comprendono le proprietà di tutte le cose: le


caratteristiche, la forma materiale e le evoluzioni.

YSIII:14. san odita avyapadesya dharmanupati dharmi

Vengono comprese tutte le cose, siano esse latenti, attive o non manifeste.

YSIII:15. kramanyatvam parinamanyateve hetuh

Le differenze nel livello individuale raggiunto produrranno una varietà di


esperienze mentali e spirituali.

Si entra quindi nel vivo della trattazione dei risultati che la via dello yoga
permette di ottenere, come indicato dal titolo stesso del presente capitolo. Il
raggiungimento dello stato finale della pratica, permette di conoscere la vera
essenza del mondo e di vedere sotto una nuova luce la realtà, di approcciarsi in
modo differente a ciò che ci circonda. Oltre al mondo materiale, si comprendono
anche gli aspetti spirituali e le leggi che li regolano.

Le esperienze che deriveranno dall'osservazione dipenderanno sicuramente dal


livello raggiunto nella pratica, perché, anche a questo sommo gradino, esistono
livelli più o meno alti. Aggiungeremo che non ci saranno due persone che
percepiranno allo stesso modo le medesime esperienze, perché queste sono
strettamente personali e individuali.

YSIII:16. parinamatraya-samyamat-atitanagata jnanam

Praticando i tre passi dell'integrazione, samyama, si perviene alla chiara analisi


del passato e del futuro.

La pratica integrata della concentrazione, della meditazione e del


ricongiungimento con lo spirito assoluto porta a una chiarezza mentale tale che il
passato diviene oggettivo, non più mediato dalla nostra interpretazione. Allo
stesso modo tale chiarezza permette di vedere nel futuro con oggettività, senza
l'intervento dei nostri desideri, delle nostre speranze. L'uomo continuamente
illuso dalla speranza, strumento per rendere sopportabile la vita di chi è schiavo
dell'ignoranza, è ora liberato. Sembrerebbe a chi scrive fuori luogo spingere il
discorso nel senso della chiaroveggenza del passato inteso come storia e fatti ai
quali non si è assistito oppure del futuro inteso come predizione dello stesso.
Questa linea interpretativa è però abbastanza diffusa e, soprattutto nel secolo
passato, abbondavano yogin che dichiaravano di avere “superpoteri” o che
raccontavano i miracoli compiuti dai loro maestri. Ne è un chiaro esempio l'opera
“Autobiografia di uno yogi” di Paramahansa Yogananda, grande classico della
letteratura e racconto senza soluzione di continuità di miracoli di ogni tipo. Non
si vuole qui ovviamente criticare quest'opera, di grande interesse, ma solamente
affermare che, contrariamente a una ben attestata linea interpretativa, non
riteniamo che Patanjali si riferisca a poteri miracolosi, ma si riferisca a doti
mentali e spirituali.

YSIII:17. sabdartha pratyayamam itaretaradhyasat samkarah tat pravibhaga samyamat


sarvabhuta ruta jnanam

La pratica porta alla comprensione delle parole di tutti gli uomini, del loro
significato e della loro essenza spirituale.

La chiarezza mentale porta il praticante ad afferrare le parole nei loro tre


livelli di significato ovvero il suono prodotto, ciò che vogliono rappresentare e
ciò che vogliono intendere. Si consegue quindi la capacità di capire ciò che le
persone sottendono alle proprie parole oppure ciò che vogliono celare o
dissimulare.

E' possibile interpretare questo sutra anche in un altro senso, più religioso, nel
senso che diventa possibile comprendere il Verbo, il suono primigenio ed il suo
significato. Non convince però questa interpretazione perché il termine usato per
parola è sabda e non ad esempio om, ananat o simili. Si riporta questa
interpretazione perché per alcuni autori è fondamentale per capire addirittura
tutta l'opera di Patanjali, o meglio forse, del significato che a questa loro
vogliono attribuire.

YSIII:18. samskara-saksatkaranat purva-jati-jnanam

Osservando le impressioni del passato si ottiene la conoscenza sulle nascite


precedenti.

Patanjali, con buona pace di chi definisce il suo approccio come scientifico o la
sua opera come laica, è chiaramente immerso nel pensiero induista del suo tempo e
non potrebbe essere altrimenti. Ogni autore è sempre figlio del suo tempo e la sua
opera va inquadrata nel suo periodo storico. Per tutti gli induisti, da sempre, un
chiaro sintomo di elevazione spirituale è avere cognizione delle proprie vite
precedenti. Secondo questo pensiero, l'uomo comune non ha percezione della
trasmigrazione e dell'evoluzione che la propria anima ha compiuto in altri esseri,
mentre l'uomo illuminato ricorda qualcosa delle vite precedenti. Sono molti i casi
in cui si porta a dimostrazione della santità di una persona, il suo ricordare
aneddoti o oggetti delle vite precedenti. Andando indietro nel tempo i ricordi sono
sempre più flebili e l'ultima vita trascorsa prima dell'ultima reincarnazione è
quella di cui si può conoscere meglio i dettagli.

Un bramino indiano considerato molto saggio mi disse una volta di diffidare sempre
di coloro i quali pretendono di dare indicazioni agli altri sulle loro vite
precedenti. Egli era considerato un Santo e per sua stessa ammissione era in grado
di ricordare poco delle sue vite precedenti e ancora meno del passato e del futuro
delle altre persone, se non in rarissimi casi. La conoscenza del passato era
inoltre per lui equivalente a quella del futuro considerando ininterrotto il flusso
temporale al di fuori del velo dell'ignoranza, conoscere le vite precedenti era
secondo lui difficile come predirre il futuro. Ma questo discorso ci spingerebbe
troppo lontano.

YSIII:19. pratyayasya para citta jnanam

Grazie alla pratica è possibile capire le intenzioni altrui


YSIII:20. pratyayasya para itta jnanam

La pratica di cui stiamo parlando non porta a leggere i pensieri nella mente
altrui, in quanto quello non è un oggetto che può essere percepito direttamente.

Fortunatamente in questo caso è l'autore stesso che previene possibili


interpretazioni legate all’ottenimento di presunti “superpoteri”. Patanjali afferma
che la chiarezza mentale derivante dalla pratica permette di conoscere i pensieri
altrui, ovvero vedendo e parlando con una persona si è in grado di capire le sue
intenzioni, da mille indizi e sfumature. L'apertura mentale e la compassione verso
tutte le persone, garantiscono al praticante un livello di empatia con il prossimo
tale da capire i suoi reali pensieri. L'autore sembra però rendersi conto che
questa affermazione potrebbe essere fraintesa ed interpretata in modo fuorviante,
nel senso di leggere la mente altrui, di stabilire un contatto telepatico, quindi
specifica che ciò che è insito nella sola mente non può essere compreso in modo
diretto.

YSIII:21. kaya rupa samyamat tad grahya sakti stambhe caksuh prakasa asamprayoge
‘ntardhanam

Praticando con attenzione alla forma che il corpo assume ed alla forza, scompaiono
quindi i difetti che l'occhio vede alla luce.

YSIII:22. etena sabdadya antardhanam uktam

Allo stesso modo scompaiono anche le espressioni degli altri difetti.

Secondo la maggior parte dei commentatori il sutra 21 viene tradotto:


“Concentrandosi sulla luce e sul corpo è possibile diventare invisibili all'occhio
umano”. Sembra impossibile, ma la nostra traduzione è quantomai fedele al testo
originario. Facendo un'eccezione, riportiamo il significato letterale parola per
parola:

kāya = corpo,

rūpa = forma,

saṁyamāt = la pratica,

tat = quindi,

grāhya = percepibili,

śakti = forza,

arhtaḥ = difetti,

cakṣuḥ = occhio,

prakāśa = luce,

asaṁprayoge = sotto,
antardhānam = scomparire.

Non vogliamo in alcun modo proporre la nostra interpretazione come quella vera e
giusta, ma semplicemente esporre quello che noi abbiamo capito. Saremmo ben
contenti di ricevere commenti in merito. Secondo noi si sta parlando di posizioni e
pratica fisica incentrata sulla forza fisica e mentale. Secondo chi scrive si sta
ponendo l'attenzione sulle asana, sui benefici che esse portano al corpo fisico,
soggetto a sofferenze non meno di quello spirituale. Grazie ad una pratica
incentrata sul corpo quindi i difetti fisici, visibili all'occhio (ovvero non
quelli dell'animo), dice Patanjali, scompaiono. Allo stesso modo scompaiono anche i
problemi legati agli altri sensi, come ad esempio i dolori o i sintomi dei mali
calssici identificati dell'ayurveda, bocca amara, vista annebbiata, ronzii ecc.

YSIII:23. sopakramam nirupakramam ca karma tatsamyamāt-aparāntajñānam aristebhyo


va

La pratica permette di avere chiarezza del karma, delle conseguenze delle nostre
azioni, presenti e future, e diviene possibile, percependo anche altri segni,
predire il momento della liberazione dello spirito.

Ogni azione in questa vita è effetto di una causa avviata in un’incarnazione


antecedente; ogni azione nella vita origina effetti, a meno che sia compiuta in
modo tale che l’effetto sia immediato e si esaurisca entro i limiti della vita
stessa oppure non generi karma perché compiuta per motivi altruistici e con
distacco. Gli uomini illuminati grazie a quanto precedentemente detto ed alla
pratica che li purifica, si incarnano con pochi effetti del karma dalle vite
precedenti e, anche grazie alla continua purificazione della pratica, potrebbero
riuscire a liberarsi dagli effetti del karma e quindi dal ciclo delle rinascite
ovvero potrebbero raggiungere la perfezione e la conseguente liberazione permanente
dello spirito. La pratica, oltre a purificare il karma precedente, dona coscienza
di questa possibile liberazione. Inoltre, secondo una diffusa credenza induista, i
santi uomini possono predire il momento della propria morte fisica. In molti casi è
anche vero che queste persone quando sentono di essere arrivate alla fine del
proprio percorso, intraprendono l'ultimo viaggio lasciandosi di fatto morire. Il
riferimento potrebbe anche essere questo, predire il momento della liberazione è
interpretabile come predire il momento in cui si sfuggirà al ciclo delle rinascite
oppure la morte del corpo fisico.

YSIII:24. maitry adisu balani

Grazie alla pratica lo yogin sviluppa grande benevolenza, e diviene empatico con
gli altri.

La chiarezza mentale della pratica, generata anche dal rispetto delle norme etiche
e morali dei primi due passi dell'ashtanga yoga di Patanjali, tra le quali era
appunto presente la benevolenza verso i deboli, porta ad identificarsi con gli
altri e ad avere benevolenza verso i più deboli, ovvero tutti gli uomini comuni. In
realtà nella traduzione abbiamo arricchito leggermente il discorso, il verso recita
semplicemente: i poteri (donano) amicizia verso gli altri.

YSIII:25. balesu hasti baladini

Incentrando la pratica sulla forza, si diventa forti come un elefante.


Come detto, la decisione di pubblicare una nuova edizione degli Yoga Sutra di
Patanjali era stata motivata anche da una traduzione del sutra 24 del III libro,
letta su Instagram che recitava così: Concentrandosi sulla forza dell'elefante o di
altri animali la si può assimilare. Il commento proseguiva: è il solito principio
emulativo, si assorbono le qualità dell'oggetto della meditazione. Immaginavamo
yogin del passato e del presente intenti a meditare visualizzando un elefante, con
lo scopo di acquisirne la forza. Ci strappava un sorriso. A nessun titolo si vuole
però indicare come sbagliata questa traduzione che, tralaltro è riportata da
moltissimi autori più illustri di chi scrive. Diremo che non è in linea con quanto
noi abbiamo capito fino a questo punto dell'opera di Patanjali e che quindi è molto
lontana dalla nostra interpretazione.

La pratica dello yoga richiede grande forza di volontà e a sua volta la alimenta,
ogni yogin ne è consapevole, nonché una certa forza fisica. Per gli indiani
l'elefante è simbolo della saggezza e della forza fisica, qualità rappresentate al
massimo grado dal Dio dalla testa di elefante: Ganesh. Molti yogin indiani sono
devoti di Ganesh, figlio di Shiva, proprio perché egli rappresenta le due doti più
ambite dai praticanti: forza e saggezza, grazie a queste doti Ganesh è il Dio che
rimuove gli ostacoli.

YSIII:26. pravrtty aloka nyasat suksma vyavahita viprakrsta jnanam

Incentrando la pratica sulla luce interiore si consegue la conoscenza di ciò che è


sottile, celato e remoto.

I sutra successivi sono dedicati agli effetti dello yoga sulle energie interiori e
sui punti nodali di tali energie, i chakra. Volgendo all'interno lo sguardo durante
la pratica miglioreremo la capacità di ascoltarci e di percepire le energie sottili
che permeano il corpo attraverso i canali, o nadi, e i centri energetici dei
chakra. Il prana, l'energia che tutto pervade, entra nel corpo grazie alla
respirazione e viene poi portato dal basso ventre verso la sommità del capo, da
alcuni canali detti nadi. Tutte le scuole di yoga tradizionali si basano sul fatto
che la pratica dello yoga favorisce questa circolazione del prana o energia
sottile. La coscienza della circolazione di questa energia è uno degli obiettivi
dello yoga . Su questi concetti, definiti con un termine molto appropriato
“anatomia sottile”, si basano da oltre tremila anni la medicina ayurvedica indiana,
ma anche, seppure con le dovute differenze, la medicina tradizionale cinese ed
orientale in senso lato.

YSIII:27. bhuva jnanam surye samyamat

Incentrando la pratica sull'energia maschile, surya, si migliora la comprensione


dell'universo fisico.

YSIII:28. candre taravyuha jnanam

Incentrando la pratica sull'energia femminile, chandra, si migliora la comprensione


del passare del tempo.

YSIII:29.dhruve tad gati jnanam


Incentrando la pratica sul passare del tempo, si comprende meglio il suo
funzionamento.

Le due nadi principali ai lati di shusumna, il canale energetico centrale, sono


ritenute, dallo schema ayurvedico classico, portatrici di due energie differenti ed
in qualche maniera opposte. Alla destra si trova pingala, che trasporta un'energia
di natura solare, maschile, attiva, calda, positiva. Incentrare la pratica
sull'energia maschile significa solitamente fare una pratica più attiva, ma anche
attuare altri aspetti più complessi che non approfondiremo in questa sede. Secondo
l'autore questa pratica favorisce la comprensione del corpo, del mondo fisico e
delle forze che lo pervadono. Il Sole e la Luna sono in questo caso chiaramente le
due tipologie di energia sottile interiore, che fanno riferimento anche alla
dualità universale indiana incentrata su Shiva (principio maschile) e Shakti
(principio femminile).

La nadi di sinistra, Ida, trasporta invece un'energia di natura femminile, lunare,


passiva, tiepida, caratteristica di una pratica che definiremo meno attiva e più
introspettiva. Questa pratica dona secondo Patanjali la conoscenza del passare del
tempo, in prima analisi durante la pratica stessa. Questo sutra viene spesso
tradotto: “concentrandosi sulla luna si ottiene la conoscenza delle stelle”.
Secondo chi scrive è chiaramente una metafora, e per conoscenza delle stelle si
intende lo scorrere del tempo, misurato all'epoca da calendari che si basavano sui
movimenti celesti. Rimanendo alla base di questo concetto, tutti noi abbiamo
sperimentato quanto sia difficile avere la percezione del tempo durante la
meditazione e questo sarebbe davvero un grandissimo risultato. Anche altri
commentatori dissentono con le traduzioni in cui i riferimenti astronomici sono
intesi in senso letterale. Tutti gli yogin conoscono la particolarissima percezione
del tempo che si ha durante la pratica. Questo è vero soprattutto all'inizio, con
l'esperienza si acquista migliore consapevolezza dello scorrere del tempo e dei
riferimenti da adottare per avere una misura del movimento assoluto in avanti che
il tempo compie per noi esseri terreni. Letteralmente il sutra 29 dice: “Stella
Polare movimenti conoscenza”, ma in coerenza con quanto detto per il sutra
precedente, si ritiene la Stella Polare il punto di riferimento per il movimento
delle stelle, l'astronomia antica indiana la riteneva immobile, e quindi punto
nodale per la misurazione dello scorrere del tempo . L'assenza di movimento
significa anche il non essere soggetti al passare del tempo, incarnare l'eternità,
un gradino interpretativo superiore potrebbe spingerci in questa direzione ovvero
come la pratica possa distaccarci dal tempo ordinario e metterci in contatto con il
tempo assoluto, l'eternità, con le ere che si succedono.

YSIII:30. nabhi cakra kayavyuha jnanam

Incentrando la pratica sull'energia dell'addome, si consegue la conoscenza del


proprio corpo.

Tutta l'energia del prana si accumula, secondo la concezione indiana classica,


nella zona tra il basso addome e la base della colonna vertebrale, qui risiede
kundalini, il serpente personificazione di questa forza, che la pratica ha il
compito di risvegliare. Il primo passo del suo risveglio è la presa di
consapevolezza del fluire del prana all'interno di tutto il corpo. Il nabhi chakra
citato nel sutra e tradotto come energia dell’addome, è in genere considerato
sinonimo e corrispondente a Manipura chackra, il terzo chakra situato tra ombelico
e stomaco. Il basso addome è inoltre il baricentro fisico del corpo, fulcro di
tutti i movimenti, il suo controllo dona sicuramente equilibrio e stabilità. Avendo
il preciso controllo del proprio addome si acquisisce la consapevolezza e il
controllo del respiro e di tutto il corpo, nessuno yogin potrà dissentire con
questa affermazione.

YSIII:31. kantha kupe ksutpipasa nivrttih

Incentrando la pratica sulla gola, si ottiene l'arresto delle sensazioni di fame e


di sete.

La gola è il centro del chakra visuddhi, anche la stimolazione di questo chakra ed


i suoi effetti sono ben documentati in varie tipologie di pratiche: pranayama,
asana, mudra, ecc. Banalmente, tutti i praticanti avranno sperimentato il drastico
cambiamento dell'appetito una volta intrapresa una pratica intensa e sistematica;
l'astensione dal bere durante la pratica viene inoltre raccomandata da numerose
opere tradizionali per l'influenza negativa che l'acqua avrebbe su alcune tipologie
di energie corporee. Il senso si ritene però più complessivo: i chakra controllano
le risposte della mente e incentrando la pratica su taluni centri è possibile
modificare le risposte del nostro corpo, anche agli stimoli più profondi e vitali,
come la fame e la sete. Il potere qui riportato è proprio il controllo della mente
e del corpo attraverso una pratica mirata verso alcuni centri energetici. La
pratica dello yoga ha un effetto che può essere indirizzato verso taluni centri
energetici, questi aspetti saranno trattati da autori successivi a Patanjali in
modo più approfondito e sistematico. Come sappiamo, l'opera di Patanjali non entra
nei dettagli, ma traccia delle linee guida.

YSIII:32. kurma nadyam sthairyam

Incentrando la pratica sull'energia che scorre nella colonna vertebrale, lo yogin


realizza l'assoluta immobilità.

L'immobilità è essenziale per portare a termine una buona meditazione e spesso la


scomodità della postura, la stanchezza o altri fattori portano ad effettuare dei
movimenti che fanno regredire la condizione mentale raggiunta. Allo stesso modo è
anche raccomandato da tutti i testi classici di mantenere la colonna vertebrale
distesa ed allungata mentre ci si siede in meditazione. Questo sutra sembra in
continuità con questa tradizione. Riassumendo: una buona pratica permette al prana
di scorrere lungo tutti i chackra situati a vari livelli lungo la colonna
vertebrale o nei suoi pressi, questa circolazione dell'energia porta il praticante
a sedersi in meditazione con la schiena ben eretta, la giusta respirazione e a
raggiungere la condizione di immobilità indispensabile alla meditazione stessa e al
passo successivo, il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto.

YSIII:33. murdha jyotisi siddha darsanam

Incentrando la pratica sull'energia al culmine della testa, si acquista la capacità


di entrare in contatto con la perfezione.

La parte terminale della testa è sede dell'ultimo chakra, sahasrara, il chakra dai
mille petali. Questo chakra si attiva al momento della nascita quando l'energia
vitale e lo spirito entrano nel corpo, al momento della loro dipartita e, secondo
alcune tradizioni, durante l'illuminazione. Patanjali ci sta dicendo che lo
scorrere dell'energia attraverso tutti i chakra, fino all'ultimo, è frutto di una
pratica molto evoluta, che arriva a padroneggiare l'ultimo passo dell'ashtanga yoga
ovvero il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto. Questo avviene
proprio grazie al dischiudersi del chakra alla sommità del capo che permette il
contatto con la perfezione dello spirito che tutto pervade. E' bene ricordare che,
l'autore, per fusione con lo spirito assoluto, intende una condizione fisica,
mentale e spirituale indotta dalla pratica, una pratica di qualità ottimale
condotta da un praticante particolarmente abile, focalizzato e realizzato. Termina
così, con questo ultimo passo, la disamina di Patanjali su prana e chakra.

YSIII:34. pratibhad va sarvam

Incentrando la pratica sull'intuizione, si comprende ogni cosa.

Ammetto di amare in modo particolare questo sutra e il successivo. Il termine


pratibhad è stato tradotto come "intuizione" perché è sicuramente la parola che più
si avvicina, seppure questo termine offra molte sfumature. Praibhad è l'intuizione
femminile contrapposta all'intelletto maschile, è anche un nome proprio di donna
traducibile come luce, intelligenza, ingenuità, splendore, come caratteristiche
femminili. Alcuni intendono il termine come il superamento stesso della
contrapposizione tra intelletto e intuizione. Questa interpretazione apre strade
interessanti. La pratica yoga può sviluppare questo aspetto di intuizione creativa,
in molti modi. Anni fa, parlando con alcuni yogin indiani di grande esperienza e
dedizione, mi dicevano che spesso la mattina svolgevano la loro pratica
abbandonandosi completamente, iniziando a gambe incrociate e concatenando ogni
movimento al successivo ed ogni fase della pratica alla successiva secondo
l'ispirazione inconscia del momento, in questo modo a volte giungevano ad uno
stadio finale di meditazione particolarmente profondo ed ispirato. Mi piace pensare
che Patanjali si riferisca a questo tipo di ispirazione, quella che riempe il cuore
e illumina la pratica personale. Una pratica di questo tipo può gettare una nuova
luce sulle nostre modalità di rapportarci allo yoga ma forse anche al mondo, dove
la logica non è contrapposta alla preghiera, la scienza non è contrapposta alla
poesia, dove mistica e razionalità, materialità e spiritualità si incontrano.
Stiamo divagando. Più semplicemente potremmo dire che saper leggere le proprie
intuizioni non è affatto semplice, ma la pratica può aiutare e le giuste intuizioni
corrisponderanno poi a verità. Alcuni si fideranno ciecamente di esse, altri meno,
altri riusciranno a superare il dualismo tra analisi compiuta dall'intelletto ed
intuizione.

YSIII:35. hrdaye citta-samvit

Incentrando la pratica sul cuore, si ottiene la consapevolezza della natura della


mente.

Il cuore corrisponde per Patanjali al chakra Anahata, situato al centro del petto,
che potremmo definire il cuore spirituale, associato con il bilanciamento della
personalità, la calma e la serenità, l'amore e la compassione verso gli altri. Ci
sono molti tipi di pratica che possono stimolare questo plesso energetico, esercizi
di respirazione, asana e meditazione, ma anche comportamenti sociali e verso noi
stessi. Questo tipo di pratica fa comprendere esattamente cosa sia la mente. Per il
termine mente (citta) qui l'autore usa esattamente lo stesso utilizzato nel primo
sutra quando ci diceva che lo scopo dello yoga è arrestare le oscillazioni della
mente. Quando si è in equilibrio e pervasi dall'amore si comprende che
l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri è sbagliata, che la mente non
è altro che un organo di senso come il naso o la lingua, l'organo di senso che
permette di pensare, ma oltre i pensieri c'è molto altro.

In una tradizione diversa da quella induista ma con origini comuni, nella


tradizione buddista, questo superamento del pensiero razionale è spesso
rappresentato come una meditazione su concetti contraddittori: in molte storie,
alla fine del percorso il maestro dice ad esempio al discepolo “vai e medita sul
suono di un applauso con una mano sola, poi tra un anno torna e dimmi cosa hai
capito”. Questo è il concetto di trascendere l'intelletto ed affidarsi allo spirito
o all'intuizione. Non casualmente il termine Anahat (il nome del chakra del cuore)
significa anche tintinnio prodotto tra due oggetti metallici, ma a volte è
utilizzato per indicare il mistico suono senza suono chiamato anche Ahum. Quando
tutti i suoni scompaiono sorge la vera natura dello spirito. Ci stiamo però
spingendo troppo oltre: riassumendo l'autore, in tre parole, dice: “hrdaye (cuore)
citta (mente) samvit (capire, consapevolezza)“, ovvero abbandonandosi al cuore,
nella pratica ma non solo, si pone nella giusta prospettiva la mente e i pensieri.
A ognuno la sua interpretazione finale. Credo che questo sutra parli con chiarezza
anche a un occidentale dei nostri giorni.

YSIII:36 sattva purusayoh atyanta samkirnayoh pratyayaviseso bhogah para artha va


sva arthasamyamat purussa jnanam

Le esperienze implicano percezioni nelle quali non si riesce a differenziare la


coscienza dal mondo sensoriale, sebbene essi siano perfettamente distinti tra loro.
Incentrando la pratica con perfetta disciplina sulla coscienza, si comprende la sua
vera natura.

YSIII:37 tatah pratibha sravana vedana adarsa asvada varta jayante

In questo modo anche udito, tatto, vista, gusto e olfatto possono aiutare la
capacità d'intuizione.

YSIII:38 te samadhav upasargah vyutthane siddhayah

I sensi sono utili allorché la mente è rivolta verso l'esterno, ma sono ostacoli
sul cammino del samadhi, il ricongiungimento tra spirito individuale e spirito
assoluto.

Questo sutra sembra in prima analisi molto speculativo e filosofico, semplicemente


perché fa riferimento in modo stretto a tutto l'universo già descritto nei capitoli
precedenti. Patanjali ha detto chiaramente che per raggiungere gli ultimi stadi
dello yoga e quindi arrivare alla contemplazione dello spirito assoluto, al
samadhi, bisogna distaccarsi dalle cose materiali, distaccarsi dai sentimenti e in
ultima analisi dai sensi. Il ritiro dai sensi è infatti un passo fondamentale
dell'ashtanga yoga. Grazie alla pratica possiamo diventare consapevoli di quali
input siano originati dal mondo materiale esterno e quali dal nostro mondo
interiore, dal mondo spirituale e dalle energie sottili. Questo è uno dei poteri
raggiungibili attraverso lo yoga. Patanjali chiarisce poi un aspetto importante del
suo pensiero che fino a questo punto non era forse emerso: ritiro dei sensi non
significa in prima istanza cessazione dei sensi o completo assopimento degli organi
preposti, ma rivolgere questi verso l'interno in modo che anche i sensi partecipino
all'intuizione dello spirito. Questo processo lo sperimentiamo spesso ad esempio
con il senso di calore che si percepisce provenire dal basso ventre, con il
formicolare della pelle, con l'udire suoni o con il presentarsi di immagini, o
molte altre sensazioni interiori che possono intervenire durante la nostra pratica
e riguardo le quali la letteratura classica è particolarmente ricca.

Come è stato però precedentemente detto con chiarezza, il ritiro dei sensi deve
essere superato con la meditazione e con la successiva fusione dello spirito.
YSIII:39 badnha karana saithilyat pracara-samvedanacca cittasya parasariravesah

Abbandonando le cause dell'attaccamento agli aspetti materiali e incanalando


correttamente l'energia, prana, è possibile scoprire un nuovo corpo.

Il ritiro dei sensi e la cessazione della schiavitù all'attaccamento al piacere e


alle momentanee soddisfazioni dei desideri, già analizzati nel secondo libro, ci
permettono di scoprire un nuovo modo di sentire il nostro corpo, percependo una
nuova corporeità. Questo è un dono prezioso e un concetto fondamentale: superando
l'attaccamento e abbandonando l'uso tradizionale dei sensi, non si svilisce il
corpo, ma se ne scopre una nuova funzionalità. Il corpo non è un'inutile o nociva
appendice, ma il tempio dell'anima, il veicolo del prana e lo strumento che ci fa
percepire lo spirito. Lo yoga di Patanjali conduce all'unione tra corpo, mente e
spirito, non è lo svilimento del corpo e della mente per esaltare lo spirito. Per
giungere a questa perfetta unione, certo, corpo e mente, con tutti gli aspetti che
li riguardano, vanno ricondotti al giusto indirizzo.

Per completezza segnaliamo che la traduzione più comune di questo sutra è:


”Cessando l'attaccamento al regno fisico e divenendo sensibili alle correnti
praniche, è possibile entrare nel corpo di un'altra persona”. Tralasciamo la
traduzione parola per parola a supporto della nostra interpretazione, diremo che
qualunque sia l'interpretazione del concetto di “entrare nel corpo di un'altro”:
sia come vera e propria possessione psicofisica soprannaturale, sia come
comunicazione a distanza, sia come pervasione da parte dello spirito del maestro
del corpo dell'allievo, e così via. Risparmieremo al lettore anche le varie
declinazioni e sfumature del concetto, questa traduzione è lontana da quello che
abbiamo capito fino a questo punto dell'opera di Patanjali e lontana dal senso dei
sutra immediatamente precedenti. Comunque la si ponga, la possessione ci sembra
un'arte più da fachiri che non da yogin, intendendo il termine “fachiri” con
l'accezione negativa data strumentalmente dai colonizzatori inglesi ad un certo
tipo di sadhu o baba che loro dipingevano come dediti ad arti oscure. Non sappiamo
se questa linea di pensiero abbia potuto influenzare le successive traduzioni in
inglese, ma il discorso è troppo lungo e complesso per essere affrontato in questa
sede.

YSIII:40 udana jayaat jala pankha kantakadisv asango 'tkrantisca

Padroneggiando il soffio vitale, o udana, il praticante è in grado di elevare il


corpo sopra il fango, l'acqua stagnante o le spine e risollevarsi.

YSIII:41. samana-jayaj-jvalanam

Padroneggiando il soffio del plesso solare, o samana, il praticante diviene


raggiante.

Il discorso di questi ultimi sutra sembra estremamente lineare e coerente.


L'autore sta spiegando quali doni o poteri può conseguire il nostro corpo, la
nostra mente e il nostro spirito, quando si padroneggi veramente a fondo la
pratica, tanto da dominare i vari tipi di prana e i cinque soffi vitali che
pervadono il corpo.

Udana vayu fluisce dalla base della gola alla sommità del capo, fluisce in tutte
le direzioni e pervade il corpo intero trasportando il prana in ogni cellula, con
il suo controllo il corpo secondo Patanjali nasce a nuova vita, una vita spirituale
ed elevata, sopra le miserie materiali e morali, risorge a nuova bellezza. Molti
traduttori intendono il sutra 40 come: “padroneggiando samana si conquista il
potere della levitazione”. Non aggiungiamo altro.

Samana vayu è invece un tipo di soffio vitale che oscilla nello spazio tra
l’ombelico e il diaframma, la cui sede a volte è fatta coincidere con il terzo
chakra, Manipura. Avendo risollevato a nuova vita il nostro corpo attraverso il
controllo e la gestione dell'energia vitale udana, successivamente, grazie al
controllo di samana, il nostro corpo diviene radioso, raggiante, emana forza e
bellezza. Tutti noi abbiamo presente il viso sorridente di un maestro dopo una
lunga pratica, lo stupendo volto rilassato di un monaco tibetano dopo la
meditazione, secondo noi Patanjali si riferisce a questo concetto, la pace
interiore e la gioia spirituale divengono percepibili anche all'esterno di chi sa
padroneggiare il plesso solare e la relativa circolazione del respiro e quindi
dell'energia.

YSIII:42 srotra akasayoh sambandha samyamat divyam srotram

Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra l'udito e l'etere, si


acquisisce un udito straordinario.

Da un punto di vista fisico, un suono è ascoltabile perché produce delle


oscillazioni nell'etere che tutto circonda. Nel vuoto nessun suono si propaga.
Traslando questo concetto, che serve a noi per capire, ma che Patanjali con tutta
probabilità ignorava, da un punto di vista interiore, capendo come i suoni si
propaghino al nostro interno, si acquisisce il potere di ascoltare l'energia che
tutto pervade. E' un concetto che in prima analisi sembra molto astratto, ma
nell'immaginario dell'autore non lo è. Già riguardo il sutra 37 avevamo avuto modo
di esporre cosa si intenda per suono senza suono e udito mistico. Semplificando
diciamo che attraverso i più alti livelli della pratica è possibile udire il
mistico suono senza suono ovvero la contemplazione dell'assoluto, dell'Ahum, quel
tipo sommo di meditazione dove anche tutti i sensi sono colmi della gioia dello
spirito e si contemplano immagini che non sono immagini ma il nostro stesso
spirito, così come si ascoltano suoni che non sono suoni. Questo è l'udito
straordinario. Alcuni maestri indiani riferiscono di poter ascoltare il rumore
prodotto dal circolare del prana all'interno del proprio corpo. Essendo il prana
strettamente legato al respiro, questo non ci sorprende più di tanto, seppure,
indagando maggiormente l'argomento, si capisce che non parlano esattamente del
rumore del respiro, ma proprio di ciò che il respiro veicola.

YSIII:43 kayakasayoh sambandha samyamat laghu tula samapattesca akasa gamanam

Incentrando la pratica sulla relazione che esiste tra il corpo e l'etere, e


incentrando la pratica sulla leggerezza, lo yogin è in grado di muoversi senza
peso.

Grazie alla pratica si sperimenta la relazione tra il corpo e lo spazio, questo


probabilmente è vero ad un livello più scontato ed elementare nelle asana e meno
evidente e più complesso anche durante le fasi successive della pratica, dal
pranayama alla meditazione, eccetera.

Una pratica avanzata permette quindi di padroneggiare perfettamente i movimenti


del corpo nello spazio e la percezione del mondo che ci circonda. La leggerezza e
l'elevazione del corpo e dello spirito, sono i doni che ne conseguono. Il concetto
sembra piuttosto chiaro.

Alcuni interpretano questo sutra come la capacità di ottenere il potere di volare


e muoversi attraverso lo spazio, coerentemente con la propria traduzione del sutra
40 dove si raggiungeva la levitazione. Seppure si discorda in questa sede con
alcune linee interpretative, chi scrive, è inutile dirlo, ha il massimo rispetto
per gli illustrissimi autori che hanno a volte dedicato a Patanjali parte della
propria vita. I testi, ma anche le traduzioni e le interpretazioni degli stessi,
sono sempre frutto del contesto storico-culturale nel quale vengono prodotti e al
quale, per averne un'esatta comprensione, bisognerebbe ricondurli.

Gli ultimi dodici sutra che vedremo e chiudono il terzo libro, per alcuni
praticanti rivestono un senso particolare e gettano una nuova luce sull'essenza
profonda dello yoga. Non vogliamo dire che siano tutti di semplice e immediata
comprensione, ma soffermandosi alcuni istanti su taluni passaggi e rapportandoli
alla propria esperienza quotidiana di pratica, talvolta può iniziare un fruttuoso
processo di approfondimento. Questa almeno è la testimonianza raccolta da diversi
maestri.

YSIII:44.bahir akalpita vrttih maha videha tatah prakasa avarana ksayah

Entrando in contatto con lo stato di consapevolezza esistente all'esterno dei


pensieri, e che pertanto è inconcepibile razionalmente, si raggiunge la grande
conoscenza o mahavidya. Grazie ad essa cade il velo sul vero sè.

Grazie alla pratica dello yoga, in particolare durante gli ultimi stadi più
meditativi, abbiamo detto si sperimenta la consapevolezza dello spirito al proprio
interno, arrivando all'eliminazione delle oscillazioni della mente. In modo analogo
è possibile sperimentare anche consapevolezza dello spirito al di fuori di noi,
dello spirito che tutto pervade, ciò non avviene grazie alla mente o ai pensieri;
il testo ci dice che tale consapevolezza è inconcepibile razionalmente. Questa
rivelazione fa capire che la separazione attuata fino a questo punto nell'opera,
tra spirito individuale, spirito assoluto e spirito che tutto pervade, non ha senso
di esistere; anzi ha senso nella misura in cui diviene funzionale per arrivare a
comprendere che lo spirito è uno. Noi uomini siamo un'unica entità e siamo della
stessa essenza dello spirito. Yoga significa unione. Pausa. L'opera di Patanjali va
metabolizzata, a nostro giudizio, proprio mediante la pratica. Forse non arriveremo
mai ad una consapevolezza dello spirito che tutto pervade, interno ed esterno a
noi, come ce la sta delineando in questi passaggi l'autore, tra i massimi doni
dello yoga, ma qualche intuizione in questo senso potremmo averla colta o
ricercarla in futuro.

YSIII:45. sthula svarupa suksma anvaya arthavattva samyamat bhutajayah

Incentrando la pratica sugli aspetti della materia: grossolani, sottili,


intrinsechi e pervasivi, si ottiene la padronanza del proprio essere.

Siamo arrivati ai doni più profondi che la pratica dello yoga può regalare.
L'autore invita a concentrare la pratica sulla realtà fisica tangibile e su quella
intangibile nonché sugli aspetti nascosti e su quelli espliciti. Osservando al
nostro interno le caratteristiche del mondo fisico e quindi distinguendo
chiaramente da esso il mondo spirituale, otteniamo il controllo finale del nostro
essere. Il discorso riprende il concetto del sutra precedente: la conoscenza dello
spirito dentro di noi ed esterno a noi, anche in relazione al mondo materiale, ci
fa capire chi siamo. Questo sutra è intimamento connesso con il concetto di Dharma,
anche se non viene espressamente citato. In questo senso intenderemo gli aspetti
della materia e il mondo fisico, come il mondo in cui le cose sono ovvero come la
legge naturale. Per un approfondimento rimandiamo alla sterminata letteratura
buddista, induista, janista e sikh in merito.

YSIII:46. tato anima adi pradurbhavah kayasampat tad dharanabhighatsca

Da qui si conseguono le altre perfezioni, quali la perfezione del corpo e la


rimozione di tutti gli ostacoli.

47. rupa lavaṇya bala vajra samhananatvani kayasampat

Questa perfezione del corpo include bellezza, grazia, forza e fermezza.

Patanjali afferma che giunti a questo livello della pratica e raggiunte tutte le
precedenti capacità, si arriva alla perfetta integrazione dei cinque corpi
immaginati dalla tradizione ayurvedica, quindi di tutto l'essere, e si arriva ,
notate bene, alla rimozione degli ostacoli nella vita. Un essere illuminato
difficilmente incontra ostacoli sul suo cammino, li ha già risolti dentro di sé.
Siamo noi che creiamo i nostri stessi ostacoli: distaccàti dalle cose materiali e
dalle emozioni, nulla può ostacolare la perfetta felicità. La tradizione indiana
ritiene che i pensieri, ma più in generale il nostro modo di essere e di
raffrontarci con il mondo, possano influenzare profondamente gli avvenimenti,
persino, al limite, quando non direttamente correlati al nostro operato. Ovvero
pensieri positivi possono generare fatti positivi oppure pensare ad un fatto come
già accaduto, può concorrere a farlo realmente accadere. Il discorso potrebbe anche
essere inteso in questo senso.

Come dicevamo, la perfezione del corpo, kaya sampat, è in realtà la perfezione dei
cinque corpi ed il loro allineamento, così come immaginati dal pensiero classico
indiano. Essi sono: Annamayakosa, il corpo grossolano; Pranamayakosa, il corpo
energetico, Manomayakosa, il corpo mentale; Vijnanamayakosa, il corpo intellettuale
e Anandamayakosa, il corpo della beatitudine. Le qualità raggiutne dalla perfezione
di questi cinque corpi sembrano piuttosto chiare: bellezza, grazia, forza,
fermezza. Sono qualità da intendere estese a tutti e cinque i corpi, quindi quando
parliamo di bellezza, stiamo parlando di bellezza fisica, bellezza dell'energia che
pervade il corpo, bellezza dei pensieri e dei ragionamenti e infine bellezza
dell'illuminazione e della felicità raggiunta. La forza del fisico riflette la
forza della mente, raggiunta grazie all'energia che lo pervade e con la quale
raggiungiamo l'illuminazione. E così via.

YSIII:48. grahaṇa svarupa asmita avaya arthavattva samyamat indriya jayah

Incentrando la pratica sul potere cognitivo dei sensi, sulla loro vera natura, sul
loro rapporto con l'ego e con la vitalità, si ottiene la loro padronanza.

YSIII:49. tato mano javitvam vikarana bhavah pradhana jayash cha

Da qui segue la percezione istantanea, la liberazione dai sensi stessi e la


completa padronanza del mondo materiale.
YSIII:50. sattva purusha anyata khyatimatrasya sarva bhava adhishthatritvam sarva
jnatritvam cha

La padronanza dei sensi e l'onniscienza possono essere conseguiti solamente


comprendendo a pieno la differenza tra il mondo fisico e il vero sè.

Molti testi classici di yoga quando arrivano a descrivere i livelli più evoluti
della pratica e le condizioni che si raggiungono, ricorrono a una descrizione
fortemente metaforica, immaginifica, descrivendo coni di luce, l'intervento divino,
lo stato di estasi; Patanjali non lo fa. Patanjali cerca di descrivere ogni passo,
anzi ce lo descrive, in modo dettagliato, siamo noi che cerchiamo di interpretare
esattamente cosa voglia comunicarci. Egli ci ha descritto un viaggio attraverso il
risveglio dell'energia e lungo tutti e sette i chackra, compiuto grazie alla
pratica costante e intensa. Patanjali ha affermato nei sutra precedenti,
riassumendo, che conoscendo i sensi e la materia si raggiunge la perfezione del
corpo e dello spirito. Ora aggiunge un ulteriore tassello, ovvero che dobbiamo
approfondire e padroneggiare il potere cognitivo dei sensi. Abbiamo perso questo
potere sia verso l'esterno, verso la natura, che verso l'interno, verso la nostra
parte più intima, e, grazie alla pratica, dobbiamo risvegliarlo. Lo yoga, secondo
Patanjali, non serve a disconnetterci dai sensi, ma ad incanalare il loro potere
verso nuove strade, anche ampliandoli. Inizialmente ci ha detto che dobbiamo
rivolgerli all'interno, poi successivamente superare gli input fisici che da essi
provengono, ma alla fine possiamo goderne percependo grazie ad essi ciò che è
spirito. Riflettiamo per un momento cosa voglia dire veramente incentrare la
pratica sui sensi, tutti i sensi, ed utilizzarli per un tipo di conoscenza
spirituale. E' un concetto molto elevato che può effettivamente dare un nuovo
significato a tutta la pratica dello yoga. Per utilizzare una metafora, Ramkrishna
diceva che per capire il potere dei sensi possiamo pensare alla differenza che
passa tra toccare una tazza per portarla alla bocca, uso materiale dei sensi, e
toccare la mano della persona che amiamo per portarla alla bocca, significato
spirituale che deriva dai sensi. Questa immagine è molto evocativa e ci fa forse
intuire una scintilla di cosa accade quando i sensi incontrano i sentimenti e
trascendono la materia.

Capire il rapporto dei sensi, e dell'attaccamento al mondo materiale, con il


nostro ego, concorre a conoscere la loro vera natura. La parola utilizzata per
indicare l'ego è “asmita”, che indica propriamente l'ego inteso come l'io o
l'essere. I sensi non hanno ego, l'ego risiede nella mente, è questo il tema da
indagare grazie alla pratica: l'essere dei sensi che trascende l'ego. Spero di aver
reso il concetto in modo diretto e non filosofico.

Infine, i sensi vanno riscoperti cercando di capire in cosa concorrano alla nostra
vitalità, come percepiscano l'energia che ci tiene in vita, il prana, energia che
dobbiamo riscoprire nel mondo. Si chiude così il cerchio con quanto già detto nei
sutra precedenti riguardo allo yoga come disciplina per incanalare e risvegliare la
coscienza dell'energia pranica.

Questa è la via per la liberazione dai sensi in quanto porta alla comprensione
della distinzione che esiste tra la natura che ci circonda e il nostro intelletto
da una parte e il nostro io più profondo (purusa) ovvero la nostra consapevolezza e
lo spirito che tutto pervade dall'altra.

YSIII:51. tad vairagyad api dosa bija ksaye kaivalyam

Quando poi si è liberi dall'attaccamento a questi stessi poteri, si distrugge il


seme che ci imprigiona. A questo punto segue la liberazione, kaivaiya.

YSIII:52. sthany upam nimantrane sanga smaya akaranam punar anishta prasangat

Si dovrebbe evitare qualsiasi attaccamento o orgoglio nei confronti dei poteri


spirituali conseguiti, poiché questo porterebbe con sé la possibilità di risveglio
di attitudini negative.

Patanjali inizia ad introdurre il tema del libro successivo, l'ultimo, quello che
ha come argomento la liberazione, kaivaiya. Ci dice che non dobbiamo rimanere
attaccati e vincolati neanche alla pratica stessa. Come molte altre arti, anche
nello yoga, bisogna apprendere la tecnica, farla propria, dimenticarla e non
preoccuparsi più del risultato. Ad un livello molto quotidiano, questo concetto
significa anche non preoccuparsi di come appaiono le nostre asana; non preoccuparci
se oggi non sentiamo le stesse stupende sensazioni durante la meditazione; in poche
parole dobbiamo ignorare il risultato, perché la totalizzazione nella pratica
stessa è il risultato. Quando arriviamo a questo livello otteniamo i poteri dello
yoga perché la nostra gioia, la nostra illuminazione, non dipendono più da nulla.
Ad un livello più alto, possiamo aggiungere che è sicuramente molto difficile
abbandonare l'attaccamento verso il mondo materiale con le estenuanti tecniche
descritto nel secondo libro, ma è ancora più difficile abbandonare l'attaccamento
al mondo spirituale ed i poteri descritti nel presente capitolo. Quando si sia
dischiusa questa porta, abbandonarla è quasi impossibile, ma ciò conduce alla
liberazione finale. Le consapevolezze spirituali possono addirittura far
risvegliare sentimenti di immodestia, risvegliare il nostro ego giudicante. Questa
condizione, che tutti i maestri di yoga dovrebbero temere al massimo grado, può
ritrascinare il praticante nell'abisso. Un maestro indiano, considerato un santo,
diceva a me, che in quel momento ero l'ultimo degli uomini agli occhi di tutti i
presenti: “io sono il tuo maestro, ma tu sei il mio maestro, io ti trasmetto il
messaggio che tu mi permetti di vedere, grazie”, un discorso simile fa comprendere
quanto gli Indiani aborriscano i discorsi autoreferenziali, l'auto esaltazione per
la consapevolezza raggiunta, perché frutto del baratro dell'attaccamento quando non
addirittura al mondo materiale, a quello spirituale. Al contrario la perfezione
spirituale corrisponde alla massima umiltà, alla consapevolezza che nella
perfezione dell'universo siamo un granello e che provare orgoglio per aver visto un
poco oltre sarebbe ridicolo e ci rigetterebbe nell'attaccamento all’ego.

YSIII:53. ksana tat kramayoh samyamat vivekajam jnanam

Praticando nel momento presente si ottiene la conoscenza ultima della realtà.

Questo sutra è particolarmente chiaro per chi pratica yoga costantemente. Ogni
fuga della mente in avanti o indietro durante la pratica, vanifica la pratica
stessa. Ogni fuga verso sensazioni, percezioni o altro che abbiamo già provato è
negativa e ostacola la pratica. Allo stesso modo l'attesa di qualcosa si tramuta in
attaccamento. Qualcuno ha detto che l'atteggiamento dello yogin deve essere quello
di uno spettatore senza spettacolo e credo che renda molto bene l'idea [Questa
interpretazione viene data spesso al terzo sutra del primo libro, confronta YSI:3].
Patanjali ci ricorda che l'unico attimo che conta è quello presente, e si spinge un
pochino oltre: ci ricorda che questa riflessione è una delle chiavi della pratica e
porta alla vera conoscenza, jnana, che è la conoscenza ultima, la realizzazione che
lo spirito individuale coincide con lo spirito assoluto eterno, non nato ed
immortale. Contraendo sempre dippiù l'attimo presente, esso diviene l'unico attimo
eterno che era, è e sarà. Ciò avviene nel samadhi, la ricongiunzione dello spirito
individuale con lo spirito assoluto. Questa è l'ultima realtà, dopo c'è solo la
liberazione. Il concetto non è da poco se si pensa che per il Vedanta, l'Jnana Yoga
è uno dei quattro sentieri di base per raggiungere la salvezza (insieme a Bhakti
Yoga, Raja Yoga e Karma Yoga). Ma ci siamo spinti molto oltre.

YSIII:54. jati laksana desaih anyata anavacchedat tulyayoh tatah pratipattih

Da qui nasce la capacità di distinguere tra oggetti simili che non possono essere
differenziati da categorie, caratteristiche o posizione.

Avendo raggiunto la consapevolezza ultima, la conoscenza del tempo e del momento


presente, il praticante di yoga è in grado di cogliere la vera essenza del mondo.
Avendo compreso l'eternità si diviene capaci di conoscere le cose senza giudicarle
dall'esterno, ma dalla loro profonda essenza. E' quindi possibile conoscere le
persone per quello che sono realmente, immedesimarsi profondamente negli altri e
non tentare più di conoscerle da come esse appaiono o si comportano. Questo
concetto può essere esteso molto lontano.

YSIII:55. tarakam sarva visayam sarvatha visayam akramam ceti vivekajam jnanam

La conoscenza superiore nata da tale consapevolezza è trascendente e include la


cognizione di tutta la realtà contemporaneamente, in qualsiasi direzione, nel
passato, nel presente e nel futuro.

Questo ultimo gradino permette al praticante di fondersi con lo spirito universale


trascendente che tutto pervade ed assimilarne l'eternità. Comprendere l'eternità
sembrerebbe qui inteso equivalente a percepire l'eternità priva di dimensioni
spaziali e temporali e perdersi nell'estasi dell'illuminazione. Si è saliti in
questo momento sulla cima più alta, da cui è possibile vedere tutto il mondo che ci
circonda, materiale e spirituale.

YSIII:56. sattva purusayoh suddhisamye kaivalyam

Si consegue la liberazione allorché esiste una eguale purezza tra se stessi, ovvero
il purusha, e il mondo circostante, ovvero il sattva.

Gli occhi di colui che ha raggiunto la perfezione attraverso la pratica guardano


il mondo per la prima volta, tutto appare puro e trasparente, lui stesso ed il
mondo che lo circonda sono la medesima cosa.

Questi sono i doni che la pratica dello yoga, eseguita con intensità, costanza e
determinazione può regalare, fino ai massimi gradi. Da questo punto prenderà le
mosse il quarto libro il cui argomento sarà la liberazione.

Patanjali Yoga Sutra, Libro Quarto: la Liberazione [new]


aprile 12, 2018

di Marco Sebastiani

Il quarto e ultimo libro dei sutra di Patanjali è dedicato alla “liberazione” ed


è, secondo molti, il libro più importante. L'autore riprende infatti concetti già
espressi negli altri tre capitoli e li ribadisce alla luce di tutti i sutra
enunciati sino a questo punto. Non vogliamo arrivare a dire che siano i concetti
più importanti, ma sono quelli riguardo ai quali l'autore sente di dover ancora
puntualizzare qualcosa.
La liberazione che dà il titolo al IV capitolo è quella dello spirito, il concetto
ha vari punti di contatto con l'illuminazione buddista, pensiero con il quale
Patanjali ha molto in comune, se non altro da un punto di vista storico e
culturale. Entrambe le tradizioni si sviluppano intorno al 500 AC nel Nord del Sub-
Continente Indiano e raccolgono una tradizione comune molto antica. La liberazione
dai vincoli della vita mondana, dai desideri e dall'incessante vagare della mente è
però raggiunta, secondo Patanjali, mediante la pratica dello yoga e ai progressi
che questa consente, non con una presa di coscienza.

Nei sutra conclusivi, si entrerà ancora più in profondità su quali siano le


caratteristiche della mente e dello spirito che donano la libertà a colui che
pratica yoga e giunge al massimo livello. Liberazione dai desideri effimeri, dal
falso conoscere, la liberazione dalla sofferenza del vivere e dalle conseguenze
delle proprie azioni. Quando ogni azione è guidata dai principi dello yoga
illustrati nel secondo libro (non violenza ,verità , onestà, morigeratezza,
frugalità; purezza, appagamento, pratica intensa, studio di sè‚ abbandono allo
spirito assoluto); quando ogni azione non ha più nessuno scopo utilitaristico, né
di raggiungere il bene né di raggiungere il male; allora le azioni compiute non
hanno più conseguenze che possano toccare il nostro cuore in questa vita; si
raggiunge quindi la pace e la liberazione. Il percorso illustrato da Patanjali è
stato lungo, ma ora che è possibile osservarlo nella sua interezza, colpisce in
modo particolare l’organicità del pensiero.

Questo ultimo capitolo è in generale quello preferito dagli studiosi, dai


filosofi, ma anche dagli asceti, che qui trovano un’analisi delle grandi questioni
della vita. Alcuni maestri indiani che ho conosciuto, bramini che avevano dedicato
l’intera vita allo yoga, guardavano con sospetto e forse anche con disinteresse al
quarto libro, per motivi differenti. Taluni mi spiegavano che erano felici nella
loro pratica quotidiana, nell’unione della mente e del corpo e nell'estasi dello
spirito e che altro non gli interessava. La quotidianità dei riti dei bramini e la
visione del mondo induista, giocano forse un ruolo importante in questa scelta.
Altri ritenevano che gli argomenti riguardanti le massime sfere dello spirito, non
possano essere concettualizzati o, meno che mai, scritte, ma che siano solamente
nel proprio animo e che, anzi, concettualizzarle avrebbe nuociuto alla loro
esperienza perché avrebbe creato un sentiero non più completamente libero, ma
preordinato o comunque con delle aspettative di un certo tipo. Immagino che queste
stesse osservazioni potessero essere rivolte all’autore anche dai suoi
contemporanei, siamo quindi estremamente grati a Patanjali per aver formalizzato
qualcosa che i più forse avrebbero lasciato segreta, una scienza per iniziati, al
massimo da tramandare da maestro a discepolo.

L'approccio di questo capitolo è assimilabile ai grandi sistemi filosofici,


seppure con proprie caratteristiche uniche, tra cui quella forse più importante di
descrivere una scienza empirica, cioè non teorica, ma pratica. Tra gli otto passi
che compongono lo yoga, non è prevista nessuna attività speculativa, ma solamente
la pratica costante. Patanjali scrive per i maestri più che per i discepoli, per
chi deve perpetrare il messaggio e per questo motivo si dilunga in questioni
filosofiche, altrimenti estranee allo yoga. Patanjali ci dice che la pratica porta
gli yogin a sentire la perfetta unione tra mente, corpo e spirito, ma il percorso e
i risultati saranno soggettivi. Il percorso è precluso solamente a chi non prova (o
a chi è pigro, come era solito ripetere il maestro Pattabhi Jois). La grandezza e
unicità dello yoga consiste, secondo chi scrive, nell'iniziare non con grandi
proclami ma con piccoli passi, con un po' di allungamento a gambe incrociate.
“Inizia a praticare, tutto il resto seguirà” aggiungeva il grande guruji. Nessuno
può prevedere esattamente quale sarà il viaggio, né dove condurrà, ma, a chi
volesse, perseverando con tenacia e costanza in un’intensa pratica (tapah come
dice il nostro autore), potrebbe riservare grandi sorprese e offrire una fonte di
tranquilla gioia difficilmente eguagliabili; una ricerca appassionante che dura
tutta la vita. E non sono parole vuote. Scusate l'esternazione, forse fuori luogo,
ma a parlare è il mio amore per lo yoga. Ora lasciamo invece che a parlare sia
Patanjali.

Libro quarto: Kaivalya


Capitolo sulla Liberazione

YSIV:1. janma oshadhi mantra tapas samadhi jah siddhayah


I doni dello yoga sorgono tramite la nascita, le cure, i mantra, ovvero la
ripetizione di parole sacre, una intensa pratica e il samadhi, ovvero il
ricongiungimento con lo spirito universale.

Alla nascita possediamo già i doni che lo yoga permetterà di scoprire, ma li


ignoriamo. L’aspirazione a qualcosa di più alto ce li farà riscoprire. Queste
risorse non sono distribuite probabilmente in misura eguale a tutti gli uomini, ma
tutti possiamo riscoprirle. Le cure che permettono questo percorso sono le medicine
dello spirito, la parola utilizzata è proprio osadhim che indica le erbe degli
infusi ayurvedici, utilizzati come rimedi. Dobbiamo curare il nostro corpo, la
nostra mente e la nostra anima con le medicine indicate nei libri precedenti, con
gli otto passi dello yoga.
Già molte volte Patanjali aveva fatto riferimento all'importanza ed al potere dei
suoni per risvegliare lo spirito in noi, ma, per la prima volta, vengono indicati
espressamente i mantra come parte integrante della pratica.
Infine ribadisce quanto sin qui enunciato ovvero che sia indispensabile una
pratica intensa e aver completato tutto il percorso degli otto rami dello yoga che
portano al risveglio della parte di spirito assoluto presente in noi, per
conseguire i massimi benefici. Lo spirito assoluto risiede in noi dalla nascita e
lo yoga permette solamente di renderci conto della sua esistenza e di goderne.
Questo è sicuramente un concetto fondamentale per tutta l'opera.

Questo sutra viene spesso tradotto “i poteri sono conseguiti alla nascita oppure
con droghe o con i mantra o con la mortificazione fisica o con la concentrazione”,
anche in autorevoli testi, tra i quali quello di Swami Vivekananda. Contravvenendo
quanto sin qui fatto, riportiamo la sua versione originale, pubblicata: “The
Siddhis (powers) are attained by birth, chemical means, power of words,
mortification or concentration”. Senza entrare nel merito, ci sembra tutto molto
lontano da quanto sin qui professato dal nostro autore. Da dove compaiano ora le
droghe o le pratiche ascetiche nel discorso di Patanjali risulta oscuro, non se ne
è mai fatto cenno tra gli otto passi, né altrove, così come non riusciamo a
spiegarci il perché questi sei fattori siano per Vivekananda e tutta una cospicua
linea interpretativa, tra loro alternativi e non complementari. Come sempre
riportiamo le traduzioni di altri autori, qualora significativamente diverse e
diffuse, per rendere chiaro che esiste sempre una certo grado di interpretazione
per taluni sutra e che esistono ben avvalorate alternative, non per una polemica o
per denigrare il valore indiscusso di ben noti ricercatori. Per lo stesso motivo a
volte indichiamo perché si sia scelta una linea interpretativa, senza spingerci
nell'esegesi della critica del testo o nei meandri di tremila anni di filosofia del
pensiero indiano, da cui non usciremmo con le idee più chiare.

YSIV:2. jaty antara parinamah prakrity apurat


La trasformazione fisica genera l'evoluzione delle proprie potenzialità interiori.

Da solo questo sutra può bastare a farci ripensare tutte le nostre idee sullo
yoga. Riteniamo che il significato proposto possa parlare direttamente ad ogni
praticante e non ci dilungheremo nella sua spiegazione. Il risveglio dell'energia
kundalini è un processo sia fisico che spirituale e, in questa accezione, prima
fisico e poi spirituale, prima inteso temporalmente e non come importanza. La
fisiologia sottile, il viaggio del prana attraverso i sette chakra e
l'illuminazione che ne consegue alla fine del percorso, sono un processo che
riguarda il corpo, la mente e lo spirito. Le pratiche descritte dall'autore nel
secondo libro sono mirate di volta in volta ad aspetti che noi riconduciamo a
taluno di questi tre campi, ma in realtà “curano” una unica entità, cioè noi
stessi.

Mi fa sorridere come in occidente spesso maestri che si proclamano “spirituali”


sviliscano la pratica fisica in favore di quella più meditativa o interiore. Ma le
posizioni, le asana, non sono assolutamente avulse dai piani spirituali
dell'esistenza così come la meditazione non è slegata dal corpo fisico. Questo
atteggiamento è meno conosciuto in India dove, anzi, i discepoli cercano tracce
fisiche della santità, della saggezza o dell'esperienza del guru, altrimenti è
difficile che gli diano credito. Molte volte mi è capitato di sentire commenti
canzonatori, da parte di smaliziati osservatori indiani, nei confronti di sedicenti
sadhu (monaci rinunciatari), qualora fossero sovrappeso, oppure nervosi, oppure
avessero atteggiamenti molto inclini alle vicende del mondo, cellulare compreso. In
effetti si trattava spesso di questuanti travestiti in modo folkloristico, presenti
in gran numero soprattutto nelle grandi città. Ma non divaghiamo. Il saggio porta
per gli indiani il segno della sua santità anche nel corpo, non esiste una vera
separazione tra corpo e spirito.

YSIV:3. nimittam aprayojakam prakritinam varana bhedastu tatah ksetrikavat


Tuttavia le causa esterne non sono sufficienti a muovere le tendenze naturali
interne; si limitano a rimuovere gli ostacoli come avviene per l'irrigazione di un
campo: il contadino rimuove gli ostacoli e l'acqua scorre liberamente per suo
conto.

Anche in questo caso il concetto sembra chiaro. Patanjali, nel sutra precedente,
ha affermato che la pratica fisica ingenera le evoluzioni che portano al risveglio
dello spirito o ad accorgersi del proprio spirito che dir si voglia. Il corpo si
caratterizza come componente esterna, mentre lo spirito come componente interna. La
pratica fisica non genera le doti spirituali. La pratica fisica si limita a
rimuovere gli ostacoli che impediscono all'energia che tutto pervade di muoversi
all'interno di noi e trasformarci spiritualmente. Nella concezione ayurvedica i
flussi energetici spirituali e non che viaggiano dal basso ventre verso la sommità
della testa, attraverso i chakra, incontrano tre barriere o granthi, che devono
essere rimosse per conseguire un perfetto fluire.
Un altro modo di dire questo stesso concetto potrebbe essere che lo spirito è
presente in noi e le tecniche fisiche eliminano gli ostacoli ed i processi che ce
ne impediscono la percezione, come ad esempio le oscillazioni della mente. Il
discorso prosegue in questa direzione.

YSIV:4. nirmana chittany asmita matrat


Una mente mutevole è generata unicamente dall'identificazione con ciò che è
mutevole.

YSIV:5. pravritti bhede prayojakam chittam ekam anekesham


Mentre ciò che è mutevole può manifestarsi in molti modi, la mente mutevole ne è il
principio sottostante.
YSIV:6. tatra dhyanajam-anashayam.
Solamente dyana, la meditazione, permette di raggiungere la libertà dalle influenze
dei mutamenti della mente.

Patanjali esprime ora con parole diverse quanto già affermato nel IV sutra del I
libro, ovvero che lo yoga consiste nella cessazioni delle oscillazioni della mente
(YSI:2) e che quando ciò non si verifica la mante assume la forma delle
oscillazioni stesse (YSI:4). La mente sgombra e priva di oscillazioni è la forma
perfetta che permette di osservare la mente stessa e di farci capire che non
dobbiamo identificarci con i nostri pensieri: noi non siamo la nostra mente e
infatti possiamo osservarla dall'esterno. Questa condizione permette di
intravedere lo spirito che è presente in noi, perché è questo ciò che siamo. Anzi,
meglio, siamo l'integrazione perfetta di spirito, mente e corpo. Ma per nostra
stessa natura tendiamo a percepire solo la mente che rimbalza, muta di condizione e
oscilla senza sosta. L'uomo è il cervello che pensa e basta, questa visione molto
meccanica è sicuramente diffusa in Occidente. Lo yoga ci dimostra ogni giorno il
contrario. In particolare la meditazione, che sappiamo deve essere preparata con
opportune pratiche di asana, con esercizi di respirazione, avendo posto ordine
nella propria vita, eccetera. Il sommo momento di assenza di oscillazioni nella
mente è la meditazione o dyana. Per chi pratica quotidianamente questo passaggio
appare vero se non scontato. Patanjali non sta però svilendo la mente, la mente
alla sua origine è pura, ma va ricondotta alla giusta funzione, non dobbiamo
permetterle di prevaricare tutto il resto.
Quarto sutra del primo libro e quarto sutra del quarto libro esprimono lo stesso
concetto, secondo voi è un caso? Direi proprio di no, il percorso si è compiuto e
siamo ritornati al concetto originario, ma con tutta la consapevolezza della
conoscenza acquisita durante questo fantastico viaggio.

Patanjali riflette poi se siano i pensieri a far oscillare la mente o se sia la


mente a produrre pensieri che la perturbano, chiarendo che sia vero questo secondo
caso e cioè che la mente è il principio da cui nascono i pensieri, senza la quale
non ci sarebbero i pensieri. A noi contemporanei questo sembra piuttosto ovvio, ma
l'autore ci tiene a specificarlo, nulla deve essere lasciato al caso. Ai suoi tempi
esistevano anche tesi filosofiche che facevano provenire i pensieri da fonti
esterne all'essere stesso. Non indagheremo oltre.

YSIV:7. karma ashukla akrishnam yoginah trividham itaresham


L'azione, o karma, dello yogin non è pura né impura, mentre quella delle altre
persone è di tre tipi: pura, impura e mista.

YSIV:8. tatah tad-vipaka-anugnanam-eva-abhivyaktih vasananam


I tre tipi azioni, o karma, si manifestano allorché le circostanze si rivelano
favorevoli alla loro realizzazione.

YSIV:9. jati desha kala vyavahitanam-apy-antaryam snriti-sanskarayoh ekarupatvat


Poiché i ricordi e le impressioni sono una parte eterna dell'essere, la relazione
di causa ed effetto permane e non svanisce perfino allorché cessa di esistere la
modalità, lo spazio e il tempo in cui si sono compiuti.

YSIV:10. tasam-anaditvam chashisho nityatvat


E questo processo non ha inizio ne fine, in quanto il desiderio di vivere è eterno.

YSIV:11. hetu phala ashraya alambanaih sangrihitatvat esham abhave tad abhavah
Essendo le azioni e le conseguenze i principi del karma, legate insieme, in quanto
causa e effetto, gli effetti svaniscono allorché scompaiono le cause.

YSIV:12. atita anagatam svarupato 'sti adhvabhedad dharmanam


Passato e futuro esistono nel presente, tuttavia non sono sperimentati nel presente
in quanto sussistono su piani diversi.

YSIV:13. te vyakta suksmah guna atmanah


Siano essi manifesti o non manifesti, il passato, il presente e il futuro
partecipano della natura della realtà, ovvero dei guna: sono stabili, attivi o
inerti.

Questo lungo discorso sul karma può inizialmente spiazzarci, ma se riprendiamo il


filo del discorso dal principio appare molto più lineare. Le conseguenze delle
azioni su passato, presente e futuro, ovvero il karma, è stato un tema trattato in
tutti i capitoli precedenti degli yoga sutra. Nel primo libro Patanjali afferma che
lo spirito assoluto presente in noi stessi, è atemporale e non viene influenzato
dal karma (YSI:24). Nel secondo libro arriva a dichiarare che solamente le azioni
generate dalla sofferenza, azioni che bisogna abbandonare, hanno conseguenze sul
karma (YSII:12). Quindi nel terzo libro sentenzia che la pratica dello yoga
permette di avere chiarezza in merito a quali siano le vicende e le regole del
karma e che è possibile sfuggire al karma una volta raggiunto il sommo livello
della pratica. Ovvero a questo livello di illuminazione le azioni non hanno più
conseguenze karmiche, cessando anche la catena delle rinascite (YSIII:23). Avendo
chiaro questo percorso nel pensiero dell'autore appare naturale come ora si affermi
definitivamente che lo yogin illuminato, giunto alla vetta della sua pratica,
avendo conseguito i più alti lasciti dello spirito, si sottragga alla legge del
karma. Le sue azioni, in quanto sagge ed illuminate, in quanto compiute con
distacco dai risultati e senza scopo, non hanno conseguenze nel presente e nel
futuro, venendo a mancare la causa, viene a mancare l'effetto. Voi direte che la
causa è l'azione stessa e quindi non viene a mancare, giusta osservazione, ma
l'azione dello yogin è come se non fosse compiuta da lui stesso, egli è il mezzo
per un attore più alto, lo spirito assoluto. Esistono numerosi testi che dibattono
questo tema molto importante per il pensiero indiano, la Bagavat Gita tra gli
altri. Basti pensare che tutto il ciclo delle rinascite e la fortuna che tocca in
sorte nella vita, tutto dipende dal karma, ci sembra normale una simile attenzione
da parte di Patanjali. Se si parla di eliminazione della sofferenza dalla vita, non
è possibile non approfondire e sviscerare il tema del karma.
Il karma è trattato dall'autore in sutra con una numerazione geometricamente
simile nei diversi libri: I:24, II:12, III:24 , IV:12 (N.B. il 3° libro in alcuni
commentari ha un sutra in più o in meno). Il dodici è un numero carico di molti
significati, in tutte le culture, è il numero di Shiva, delle sue sacre
rappresentazioni (Jyotirlinga), il numero di anni che i Pandava trascorrono nella
foresta nel poema della Mahabarata, rappresenta un ciclo compiuto anche in
Occidente, come le fatiche di Ercole, le divinità sul monte Olimpo oppure gli
apostoli. La scelta non è chiaramente casuale, tutta l'opera di Patanjali ha delle
interconnessioni simboliche tra le numerazioni dei sutra, ma abbiamo riportato
queste evidenze solo nel momento in cui sono state particolarmente rilevanti, per
non annoiare il lettore. Questo fatto spiega anche il perché spesso alcuni concetti
chiaramente collegati con il libro precedente, siano trattati nel successivo,
oppure il motivo dietro al numero irregolare di sutra che compone ogni libro. La
numerazione è forzata per creare collegamenti tra i sutra nei diversi i libri e per
rappresentare significati simbolici.

Patanjali rammenta anche in cosa consiste il karma delle persone comuni, che possa
essere buono, cattivo o neutro, e che queste tre tipologie diano conseguenze di
pari entità, buone o cattive, in momenti separati nel tempo e nello spazio dalle
azioni, solo quando l'attimo è opportuno, ma in modo inesorabile, perchè il
desiderio di vivere è eterno e quindi il karma, dal quale dipende, è eterno.
Cessata la paura della morte, cessata la brama di vivere e di reincarnarsi,
essendosi ricongiunti col lo spirito assoluto, si sfugge al ciclo eterno e quindi
ci si sottrae al karma. Il presente è la sublimazione di passato e futuro, ma
questo non è vero per lo yogi, che agisce su di un piano differente, un piano
spirituale eterno.

I primi tredici sutra del quarto libro hanno espresso concetti veramente
significativi e Patanjali ha sigillato definitivamente la sua visione su due
aspetti fondamentali: il rapporto tra corpo, mente e spirito da una parte e
conseguenza delle proprie azioni nell'armonia del mondo, o karma, dall'altra. Il
seguito non sarà da meno.

YSIV:14. parinama ikatvat vastu tattvam


La qualità di ogni oggetto è data dall'unicità della sua reale composizione.

YSIV:15. vastusamye citta bhedat tayorvibhaktah panthah


Lo stesso oggetto è visto in modi diversi da menti diverse.

YSIV:16. na caika citta tantram cedvastu tad apramanakam tada kim syat
L'esistenza di un oggetto non dipende dalla percezione di un'unica mente.

YSIV:17. tad uparaga apeksitvat cittasya vastu jnatajnatam


Un oggetto è noto oppure è ignoto a seconda che la mente lo percepisca oppure no.

In questi quattro sutra Patanjali spiega cos’è la realtà e come noi ci mettiamo in
relazione con essa. Quando scrive “oggetto” o “cosa”, intende oggetto della nostra
attenzione e del nostro pensiero, in contrapposizione a soggetto, ovvero noi che li
osserviamo. Non necessariamente si tratta di oggetti fisici, ma anche di sentimenti
e spirito, per esempio. L'autore non sta parlando degli elementi della tavola
periodica né di atomi ed elettroni, ma come potrebbe d’altronde? Sembra strano ma
è questa l'interpretazione, tra gli altri, di Osho Rajneesh, nel suo bellissimo
“The alpha and the omega” in dieci volumi.

Il discorso di Patanjali è talmente lineare, chiaro e moderno che sembra scontato:

Ogni oggetto della nostra attenzione esiste indipendentemente da noi, cioè, anche
se noi non lo notassimo, starebbe lì. La sua esistenza dipende dal fatto di avere
una composizione reale, che prescinde dal contesto, e non dipende dal fatto che noi
la scopriamo. Allo stesso modo, potremmo ingannarci e ritenere reale una cosa che
non lo è e non esiste, ciò non la renderebbe reale. Il fatto che noi conosciamo o
non conosciamo un oggetto, lo rende semplicemente a noi noto o ignoto. Ognuno di
noi percepisce la realtà e le cose che la compongono in un modo differente,
prescindendo dai reali elementi costitutivi.
Le esperienze delle diverse persone, il loro carattere intimo, le loro menti,
possono offrire un significato completamente diverso per i medesimi oggetti di
indagine.

Patanjali prende fermamente le distanze da tutta la linea di pensiero che ritiene


la realtà, in ultima analisi, generazione o mero inganno della mente. Per assurdo,
il mondo esisterebbe anche se non vi fosse nessuno a osservarlo. L'interpretazione
della realtà da parte della mente è però soggettiva. Successivamente chiarirà che
la realtà oggettiva deve essere percepita andando oltre la mente, che inganna. La
realtà non è il sogno della nostra mente e quando meditiamo, escludendo la mente,
ne abbiamo la prova: quella è la realtà, priva di inganni. Che messaggio magnifico!

YSIV:18. sada jnatas citta vrttayas tat prabhoh purusasyaparinamitvat


Il vero se stessi, può osservare le oscillazioni della mente, perché esso è lo
spirito immutabile.

YSIV:19. na tat svabhasam drsyatvat


La mente non brilla di luce propria, dal momento che è essa stessa percepibile.
Esorterei il lettore a raccogliersi un momento elaborando il significato di queste
parole, in relazione alla pratica che ognuno di noi svolge: “il vero se stesso può
osservare le oscillazioni della mente, perché esso è spirito immutabile. La mente
non brilla di luce propria, dal momento che è essa stessa percepibile.”
Dopo un'ora e mezza di estenuante pratica, completa di ogni elemento, coerentemente
con quanto descritto da Patanjali nel secondo libro, dopo anni di esperienza
giornaliera, seduti a gambe incrociate, alla fine, banalmente, cosa percepiamo? Che
la mente può essere controllata e osservata come fosse una nostra mano. Chi osserva
la mente? Noi stessi, nella nostra parte più intima, il nostro spirito individuale,
drasthu o purusha che dir si voglia. L'autore aveva già dichiarato questo concetto
all'inizio dell'opera, ma in quel contesto poteva sembrare un'affermazione un po’
dogmatica perché non avevamo gli strumenti per afferrarne il significato e infatti,
dopo aver compiuto tutto il percorso, egli vi ritorna. Nel secondo e terzo sutra
del primo libro leggevamo: “Lo Yoga consiste nell'arresto delle oscillazioni della
mente, così acquisiamo la consapevolezza dello spirito”. Il concetto si spinge
oltre: Patanjali afferma che un praticante consapevole è in grado di osservare in
realtà la mente mentre oscilla, perché anche essa è una componente imprescindibile
del nostro spirito. Il vero se stessi si compone di spirito immutabile, mente e
corpo, differenti manifestazioni di un'unico essere. La vita ci porta a separare
queste entità, la pratica a riunirle.

YSIV:20. eka samaye cobhaya an avadharanam


E' impossibile per la mente conoscere simultaneamente il soggetto che percepisce e
l'oggetto che viene percepito.

YSIV:21. cittantara drsye buddhi buddheh atiprasangah smrti samkarasca


Se si desse per assunto che un secondo tipo di mente illumini la prima, si dovrebbe
anche assumere una cognizione della cognizione, all'infinito, e la confusione
sarebbe completa.

Quando la mente è impegnata, vediamo solo l'oggetto che la impegna. E' il medesimo
concetto espresso nel quarto sutra del primo libro: quando non si arrestano le
oscillazioni della mente, essa assume la forma delle oscillazioni stesse. Se penso
a cosa mangerò per cena o che ho freddo, tutta la mia mente sarà pervasa da quel
pensiero. Per la stessa ragione potremmo dire che è praticamente impossibile
formulare due pensieri evoluti in maniera esattamente contemporanea, perché la
mente è pervasa dall'uno o dall'altro, o meglio in quel momento essa è quel
pensiero. Ma che succede quando i pensieri si fermano? Quando le oscillazioni della
mente si arrestano? Percepiamo ciò che osserva e non ciò che viene osservato,
ovvero lo spirito che osserva la mente stessa, e ci accorgiamo che una è
manifestazione dell'altro.
Possiamo spingerci oltre e affermare che la mente e il nostro spirito sono
un'unico soggetto, la distinzione è puramente funzionale alla comprensione del
discorso e la parte “spirito” di questo unico soggetto si palesa quando si spengono
i pensieri.
Alcune scuole filosofiche contemporanee di Patanjali, per spiegare il fatto che la
mente potesse essere osservata e quindi superare l'impasse su chi fosse
l'osservatore, introducevano il concetto di una seconda mente che osserva la prima
ma, come giustamente fa notare il nostro autore, se entriamo nel circolo che la
prima mente osserva la seconda dovremmo assumere il concetto che la seconda è
osservata da una terza e così via, all'infinito, senza risolvere di fatto la
questione. Concordiamo con Patanjali, questa spiegazione confonde. Esiste poi
un'altra scuola che sostiene che la prima mente osserva la seconda e la seconda la
prima in un gioco schizofrenico di specchi, e anche questa risposta, più che
chiarire, rimanda soltanto la soluzione ultima del problema di chi sia il testimone
ultimo della realtà, problema cui Patanjali offre un ulteriore tassello nel
prossimo sutra.
YSIV:22. citer aprati samkramayah tad akara apattau svabuddhi sam vedanam
La conoscenza della propria natura, si consegue allorché la consapevolezza assume
quella stabilità per cui è immodificabile.

Come ormai siamo abituati, il senso dei sutra è spesso concatenato uno con il
successivo, come in questo caso, in cui il soggetto è il sutra precedente: la
percezione del proprio io, ovvero il fatto che noi siamo spirito, si riesce a
raggiungere quando si interrompono le oscillazioni della mente in modo stabile per
un periodo significativo, quindi in relazione alla pratica, quando non si salta più
da uno stadio all'altro, avanti e indietro. Il ritiro dei sensi precedeva la
concentrazione per poi arrivare alla meditazione e al samadhi, o ricongiungimento
con lo spirito assoluto. La conoscenza di essere in primo luogo spirito si consegue
quando si riesce a rimanere nella condizione di samadhi in modo protratto; questo
stato infatti, sembra suggerire Patanjali, può essere portato anche al di fuori
della pratica. Il soggetto testimone della realtà è uno ed è il nostro spirito.
Esso è autoconsistente, è come una candela che illumina la stanza, non dobbiamo
supporre l'esistenza di un'ulteriore luce per osservare la candela stessa. La luce
illumina anche se stessa. Svabuddhi sam vedanam: la coscienza più profonda è
immodificabile, è auto-illuminante. Ecco che siamo arrivati alla vera risposta,
senza rimandarla all'infinito.

YSIV:23. drastr drsy opa raktam cittam sarva artham


Allorché ciò che è mutevole nell'essere umano, la mente, è in grado di comprendere
il soggetto che conosce e l'oggetto conosciuto, essa comprende tutto.

YSIV:24. tad asankhyeya vasanabhih citram api parartham samhatya karitvat


La mente, anche se perturbata da innumerevoli desideri, ha un altro scopo, vale a
dire stabilire una connessione tra il mondo esterno e il vero sé.

Il significato ultimo di questo sutra è più semplice di quanto sembri. Nei sutra
precedenti erano stati illustrati due concetti di primaria importanza. In primo
luogo veniva esaminato come l'eliminazione delle oscillazioni della mente
permettesse di osservare la mente stessa e di comprendere che l'osservatore, il
soggetto che conosce, fosse lo spirito individuale. In un passaggio successivo
Patanjali rivelava che spirito e mente sfossero in realtà una unica entità che
insieme al corpo costituisce noi stessi, ovvero il soggetto che osserva la realtà.
In secondo luogo diceva che la realtà fosse oggettiva, ma che ogni differente
persona ne riceveva una impressione differente a causa della perturbazione della
mente. Quando cessano le oscillazioni della mente, riusciamo a vedere la realtà
nella sua vera forma, attraverso una intuizione dello spirito, come quando siamo
immersi in una meditazione profonda.
Ora si sommano questi due concetti, affermando che avendo portato calma ed
illuminazione nella mente, conosciamo realmente noi stessi e il nostro spirito, ma
anche il mondo che ci circonda.
La mente è un ponte tra noi stessi e il mondo, per usare la metafora di un grande
autore, e, quando posta nella giusta condizione, comprende ogni cosa. La realtà ha
due facce: il mondo interno a noi ed il mondo esterno a noi, lo yoga permette di
comprendere entrambe ed avvicinare il praticante alla liberazione dalla sofferenza
e dall'illusione.
La mente è un organo di senso, questo punto di vista è particolarmente importante,
come avevamo detto in precedenza. La pratica allena a comprendere come la mente si
possa muovere ed osservare alla stregua di una mano; ora Patanjali ritorna su
questo concetto affermando che la mente ha lo scopo di trasferirci informazioni dal
mondo esterno. Quando è perturbata e non ne abbiamo la giusta consapevolezza,
queste informazioni sono inganni, come i desideri inutili e sbagliati. Per tornare
alla metafora precedente delle mani, quando la mente è perturbata, si agisce come
chi al buio agiti inutilmente le mani davanti a sé, invece di procedere toccando ed
analizzando. Ma ristabilita la quiete le mani possono essere utilizzate in vece
degli occhi. La mente, ristabilita la quiete, può essere utilizzata come strumento
conoscitivo del vero sé, dello spirito. A questo punto la mente e lo spirito, ed il
corpo aggiungeremo noi, facendo riferimento a quanto affermato nei libri
precedenti, lavorano all'unisono, si ricongiungono, c'è unione, c'è armonia, c'è
yoga nel suo significato sanscrito di aggiogamento e unione. Il fine ultimo dello
yoga è vicino. La liberazione è vicina. In questo, il pensiero indiano e lo yoga
come sua alta manifestazione, si differenziano in modo fondamentale dai due punti
di vista principali dell'Occidente, sia da quello materialistico che da quello
cristiano. Da una parte per gli Induisti il corpo non è visto come la sede inutile
dello spirito, ma al contrario ne è la manifestazione e attraverso di esso
prendiamo consapevolezza dettagliata dello spirito stesso. Dal lato opposto, l'uomo
non è immaginato come la sola unione di carne, sangue e un cervello pensante, non
siamo perchè pensiamo, anzi proprio quando smettiamo di pensare cogliamo la nostra
essenza più alta e spirituale.

YSIV:25. visesa darsinah atmabhava bhavana ni vrttih


Colui che sperimenta questa visione unitaria, arresta i desideri riflessi in se
stesso.

YSIV:26. tada viveka ninnam kaivalya prag bharam chittam


Quindi il potere di discernere sarà rafforzato e la mente andrà verso la
liberazione.

La visione unitaria di oggetto e soggetto, come del mondo interno e di quello


esterno, permette la vera comprensione. Essendo la mente l'organo ultimo di
percezione della realtà, quando illuminata, restituisce la giusta comprensione del
mondo e la giusta comprensione di se stessi e dello spirito in noi. A questo punto
non ci possono essere desideri. I desideri sono frutto di una cattiva
interpretazione della realtà: immagino che un'azione o un evento possano avere
conseguenze positive nei miei confronti, non rendendomi conto che l'aspettativa e
l'epilogo, paradossalmente qualunque esso sia, positivo o negativo, potranno
portare esclusivamente sofferenza. L'ultimo desiderio è quello di vivere e la paura
della morte che ne consegue, la caduta dell'ultimo desiderio è la cessazione della
paura di morire, la caduta del Sè. Il discernimento, viveka, è la chiave per
cambiare i domini fisici e mentali, citta, in modo tale che conducano direttamente
alla via della liberazione, kaivalya.

YSIV:27. tach chhidreshu pratyaya antarani sanskarebhyah


La condizione raggiunta è perturbata dai preconcetti sorti grazie alla forza delle
impressioni precedenti.

YSIV:28. hanam esam klesavad uktam


Questi preconcetti possono essere eliminati come descritto in precedenza (ovvero
riconducendo la mente al giusto discernimento e abbandonando i desideri).

Inizialmente, anche il saggio illuminato è soggetto a possibili regressioni. Una


vita passata nel mondo dell'illusione, dell'attaccamento e dei desideri, ha
generato abitudini molto radicate. Per estirparle in via definitiva bisogna agire
come detto. Questa affermazione è un pochino ermetica lo ammettimo. Infatti tutte
le traduzioni offrono una interpretazione differente del termine uktam, “come
descritto in precedenza”, cercando giustamente di restituirne il significato
ultimo, di spiegare cosa si sia detto in precedenza. Secondo chi scrive il termine
si riferisce a due ambiti: in primo luogo a quanto detto nei sutra immediatamente
precedenti riguardo alla mente ed alla capacità di discernere il vero io e il vero
mondo reale, quindi, in buona sostanza, riconducendo la mente al giusto modo di
pensare ed il conseguente abbandono dei desideri. In secondo luogo si riferisce a
quanto detto in tutta l'opera precedente, a tutto il viaggio che costituisce lo
yoga di Patanjali, che ha portato il praticante fino a questo punto.

YSIV:29. prasamkhyane pyakusidasya sarvatha vivekakhyateh dharma meghas samadhih


Chi riesce ad essere distaccato anche dagli stati di consapevolezza più esaltanti,
discernendo sempre e in ogni circostanza, entra nello stato finale di integrazione
imperturbabile con lo spirito assoluto, ovvero dharma meghah samadhi.

Il distacco va esercitato anche verso la pratica, quindi non bisogna praticare


pensando all'ottenimento di un risultato. Questo concetto era già stato espresso da
Patanjali. L'ultimo passo della pratica è il non praticare, sembra una
contraddizione o un gioco per eruditi, ma non lo è. Ad un livello più basso,
potremmo aver sperimentato anche noi l’ ossessione verso la pratica, attaccamento e
desiderio verso, ad esempio, la nostra pratica quotidiana del mattino. Saremmo
stati male se non avessimo praticato. Questo è un tipico esempio di sofferenza
causata da un desiderio, sia pure elevato quanto vogliamo. Allo stesso modo
potremmo esserci sentiti insoddisfatti dopo una pratica nella quale non avessimo
sentito le stesse sensazioni in confronto con un’altra svolta in precedenza, più
esaltante. Questo ne è un altro esempio. Ad un livello più alto lo stato finale di
libertà della mente e dello spirito è mantenuto anche senza la pratica o, comunque,
con una pratica disinteressata dai risultati raggiunti. Si praticherà come costume
di vita, non per ottenere qualcosa in cambio. Si giunge quindi all'illuminazione,
quando i veli del mondo cadono nel ricongiungimento con lo spirito assoluto. Il
concetto di dharma meghah samadhi offre il fianco a varie interpretazioni, è
l'obiettivo più alto della pratica, non fa una grande differenza a nostro giudizio
tradurlo "unione spirituale con la legge cosmica", "dissoluzione delle impurità e
delle distorsioni", "contemplazione dell’essenza della virtù e della giustizia"
oppure, come abbiamo fatto, "integrazione imperturbabile con lo spirito assoluto",
che comunque ci sembra più in linea con il significato di samadhi portato avanti
sin qui nell'opera.

YSIV:30 tatah klesa karma nivrttih


Quindi segue la liberazione da ogni sofferenza e da ogni karma.

Ad un primo livello di interpretazione, quando ogni azione non ha più nessuno


scopo utilitaristico, né di raggiungere il bene, né di raggiungere il male, non ha
più nemmeno alcuna conseguenza che possa toccare il nostro cuore in questa vita; si
raggiunge quindi la pace e la liberazione. Non possiamo però ignorare che esista
anche un livello interpretativo più profondo in quanto sia i buddisti che gli
induisti ritengono che, semplificando un po’, questo ultimo gradino, la perfetta
illuminazione conseguente in ultima istanza l'abbandono definitivo dei desideri e
della paura della morte, collochi il soggetto al di fuori della legge del karma:
sono disinteressato al frutto delle mie azioni perché non agisco per desiderio,
sono illuminato e sono quindi al di fuori del ciclo delle reincarnazioni,
nell'ultimo traguardo per la felicità e la pace assoluti ed eterni. Questa è la
liberazione, una liberazione che avviene in primo luogo in terra ma che si propaga
nell’eternità.
[NB in talune opere i sutra 29 e 30 sono invertiti di numero]

YSIV:31. tada sarva avarana malapetasya jnanasya anantyat jneyamalpam


Una volta che tutti i veli e le imperfezioni che nascondono la verità sono stati
spazzati via, l'intuizione è sconfinata e poco resta ancora da conoscere.

YSIV:32. tatah krtarthanam parinama krama samaptir gunanam


Quindi comincia a crollare il flusso continuo della realtà, trasformata dalle
qualità fondamentali della natura, realizzandosi così la vera missione della
coscienza.
YSIV:33. ksana pratiyogi parinama aparanta nirgrahyah kramah
Infatti si può vedere che il flusso è in realtà una serie di eventi discreti,
ciascuno corrispondente al più piccolo istante di tempo, in cui una forma diventa
un'altra.

Lo yogi si pone fuori dal flusso del tempo. Il tempo è la trasformazione della
realtà naturale che ci circonda, una realtà che se non cambiasse, sarebbe immobile
e non avrebbe il concetto di tempo. Analogamente a quanto fatto dai filosofi greci,
in particolare da Zenone di Elea, suo contemporaneo storico, Patanjali osserva che
il tempo può essere scomposto in una successione di attimi immobili, di cui ha
prontezza colui che percepisce la vera realtà, potendo prolungare all’infinito un
singolo attimo. Il praticante illuminato ricongiungendosi con lo spirito assoluto
ferma il tempo e si pone nella stessa dimensione dello spirito, della divinità,
atemporale. Non dobbiamo dimenticare che il concetto di tempo è molto più esteso
per gli Induisti che per gli occidentali, la trasmigrazione delle anime e il loro
ritorno periodico nel mondo dilatano enormemente il confine temporale. Noi siamo
soliti ragionare in termini di una vita, o al massimo in termini di tempo storico,
tre o quattromila anni, contrapponendo questo all’eternità. Gli induisti ragionano
invece in termini di cicli molto più lunghi. Non vogliamo ripercorrere la
cosmologia indiana, ma basti pensare che sulla terra si susseguono quattro Yuga, o
ere, per un totale di circa quattro milioni di anni, che si ripetono a formare un
kalpa o giorno di Brahma, di circa quattro miliardi e mezzo di anni (come l’età
della Terra stimata dagli scienziati), al termine dei quali il mondo viene
distrutto da Shiva e ricreato da capo. Essere incarnati nel tempo del cambiamento,
per un’anima che ciclicamente ritorna nel mondo ha quindi conseguenze che hanno una
durata oltre quella che generalmente siamo abituati a considerare, la liberazione
che ne deriva acquisisce connotazioni particolari e avvicina il soggetto all’unico
spirito che tutto pervade, imperituro o, meglio, l’Imperituro di cui parla la Gita.
Shiva o la trinità Bramha, Shiva e Visnù o altre visioni secondo i molti rami
dell’Induismo.
Il fine della presa di coscienza è quello di far crollare il tempo e l’alternarsi
delle ere, ponendo il soggetto sul piano atemporale dello spirito assoluto.

YSIV:34. purusa artha sunyanam gunanam pratiprasavah kaivalyam svarupa pratistha va


citisaktiriti
La liberazione, kaivalya, compie quindi l'obiettivo del vero sé, o purusha: la
materia e la natura, cioè i guna, sono superati. Viene quindi rivelata la vera
sostanza dell'essere e la forza della conoscenza assoluta.

Lo spirito che abbiamo dentro di noi è della stessa sostanza dello spirito che
tutto pervade ed ha quindi già connaturato in sé il ricongiungimento finale. La
conoscenza assoluta regala la liberazione in questo ricongiungimento. L'uomo non fa
parte della natura, ma di chi l'ha creata. Il viaggio è giunto alla fine, non
stupisce di essere arrivati così in alto, l’autore ci aveva avvisato che le
esperienze sarebbero state oltre l’ordinario e gli obiettivi massimi e
totalizzanti.

Sutra significa letteralmente "filo". Speriamo di aver reso almeno il “filo” del
discorso, restituendo organicità all’opera, dal primo all’ultimo verso, con un
discorso coerente. Utilizzando una metafora di un’autore più illuminato di chi
scrive (Jaggi Vasudev) potremmo dire che ogni sutra è però come una formula.
Chiunque conosca l'alfabeto può scrivere "E = mc²". Ma dietro questa piccola
formula c'è un'enorme quantità di scienza che può essere compresa su vari livelli.
Ogni formula, ogni sutra, può restituire risultati sensibilmente diversi e la
grande bellezza degli Yoga Sutra è proprio questa, cambiando il contesto nel quale
vengono tradotti o analizzati il risultato cambia leggermente. E non pensiate che
un lavoro esegetico scrupoloso di comparazione sia quello che porta più lontano.
Forse proprio le versioni più incoerenti e criptiche che mi sono capitate tra le
mani, erano quelle che analizzavano l’evoluzione delle interpretazioni e traduzioni
dal sanscrito nel corso degli ultimi secoli. Spesso a seconda della scuola di
apparteneza dell’autore il significato viene forzato per essere coerente con tale
scuola e comparando e analizzando tutte queste versioni non aumenta la nostra
capacità di comprensione ultima. Analogamente anche chi abbia cercato di
ripercorrere filologicamente la storia dei principali termini sanscriti utilizzati
nell’opera ha spesso fallito poi nel ricondurre al significato originario,
d’insieme, finale. Chi afferma infine che il significato sia chiaro e univoco
spesso afferma anche che lui stesso sia il solo ad averlo afferrato. La nostra
posizione è molto distante da queste dichiarazioni e, come dicevamo, non
rivendichiamo di aver compreso il significato ultimo e assoluto di un’opera tanto
intima e profonda, ma almeno di esserci potuti creare una nostra interpretazione
onesta, perché non viziata da uno scopo pre-esistente o da un fine e fedele il più
possibile al significato stretto dei termini sanscriti, e, ci sembra, organicamente
coerente dall’inizio alla fine.

Ci piacerebbe però completare il discorso ricordando che Patanjali è considerato


da intere generazioni di praticanti, di guru, di sacerdoti, di luminari e di
filosofi, anche enormemente lontani nello spazio e nel tempo tra loro, uno dei più
grandi uomini che ha camminato su questo pianeta, per averci consegnato l’arte
della quale può essere considerato quantomeno il padre putativo, lo yoga.

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