Questo articolo vuole rispondere ad una domanda: gli Yoga Sutra di Patanjali
arrivano ancora al cuore dei praticanti di yoga? E ancora: Chi pratica yoga da
qualche tempo è interessato ad approfondire le radici spirituali antiche?
Mi è capitato di pormi queste domande trornando a leggere vari commentari e
trovandomi un po' perso. L'occasione è nata da una foto di una pagina del terzo
libro di Patanjali pubblicata su Instagram da un'amica, Patanjali è passato dalle
pergamene a Instagram! A parte questo però, il verso che mi ha colpito era III,25:
Concentrandosi sulla forza dell'elefante o di altri animali la si può assimilare.
Il commento proseguiva: è il solito principio emulativo, si assorbono le qualità
dell'oggetto della meditazione. Il libro terzo parla effettivamente dei poteri che
si acquisiscono con la pratica dello yoga. Con Patanjali abbiamo duemila anni di
stratificazione delle interpretazioni, per cui alcuni commentari hanno generato
filoni di interpretazioni e tradizioni che poi a loro volta si sono sedimentate.
Una traduzione come questa è ben documentata nell'esegesi di Patanjali, ma parla ai
moderni praticanti? Ricordavo un'interpretazione diversa, quindi ho iniziato a
ripercorrere i commentari, fino a rivedere il testo sanscrito. Sapete cosa dice il
verso 3,25?
balesu hasti baladini,
ovvero letterale: il potere, l'elefante, la forza.
Che può essere tradotto:
Esercitando la forza si diventa forti come gli elefanti.
Servono interpretazioni filosofiche? no. Cinque pagine di spiegazioni? Nemmeno,
tutti sappiamo che nella pratica dello yoga si esercita anche la forza, a vari
livelli (1).
Samādhi Pāda
Libro sul ricongiungimento
I:5 Le oscillazioni della mente sono di cinque tipi e possono essere facili o
difficili da arrestare.
I:6 Esse sono: retta conoscenza, falso sapere, immaginazione, sonno e memoria.
I due sutra precedenti non sono di facile interpretazione dal sanscrito e generano
traduzioni molto disparate(2). Ma, favorendo sempre un approccio semplice e
lineare, possiamo dire che la pratica e il distacco dalle cose del mondo (adottati
per acquietare le oscillazioni della mente) avvengono in una serie di passaggi
successivi:
1) ragionando sul percorso da fare e su come funziona (un po' come leggendo questo
articolo),
2) lasciandoci guidare dal nostro intuito (posso sentire intimamente che lo yoga
mi dia molto, lasciando perdere le ragioni per cui questo accade),
3) arrivando ad una profonda sensazione di benessere (che quindi non ha più
bisogno né di ragioni né di intuito, ma solo di essere sperimentata),
4) per giungere alla percezione stabile del proprio spirito interiore ed
5) infine all'abbandono dell proprio spirito nel ricongiungimento con lo spirito
che tutto pervade, come sarà approfondito in seguito.
Nessuno ci garantisce che arriveremo in fondo, non siamo tutti uguali, ma
Patanjali ci indica la strada.
Come dicevamo, non siamo tutti uguali e per qualcuno è più semplice placare le
oscillazioni della mente rispetto ad altri, ma è fondamentale praticare con
intensità e convinzione. L'intensità deve essere accompagnata da uno approccio
sincero e convinto. La via dello yoga come la intende Patanjali non è per i curiosi
o per gli eruditi che vogliono ampliare le proprie conoscenze, questi non
arriveranno a nulla. La via dello yoga è per chi ne fa una ragione di vita, sapendo
essere sincero e convinto, e tra questi, chi avrà maggiore volontà avrà risultati
migliori e più in fretta.
Ecco infine il premio, l'obiettivo, l'elezione per chi è arrivato alla fine del
sentiero: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito assoluto,
cioè prendere coscienza che il barlume intravisto all'inizio fa parte dello spirito
che tutto pervade, che era già in noi. Ciò che era in germe diviene infinito. Noi
abbiamo tradotto, in coerenza con l'interpretazione dei sutra precedenti, 'ishvara'
con 'spirito assoluto', minuscolo, ma, molti traducono, correttamente per il loro
discorso, 'ishvara' con Dio, anche in relazione alla Bagavad Gita. Poi però diventa
molto difficile fornire una definizione di Dio che rientri nei discorsi e nei
parametri di Patanjali. Soprattutto per noi occidentali il concetto di Dio (padre,
creatore) è qualcosa di molto differente da quello che Patanjali vuole dirci e
significare.
La scoperta e la contemplazione dello spirito assoluto ha ispirato tutti i guru in
tutti i tempi.
Coerentemente con quanto fatto fin'ora, abbiamo offerto una prima traduzione del
sutra 27 senza lasciare termini in sanscrito, in questo modo però il significato
rimane forse meno evidente. Lo spirito assoluto è la forza creatrice universale,
l'Om o il verbo che dir si voglia, il suono primigenio articolato che crea il
mondo. Pronunciando l'OM ci mettiamo in contatto con questa forza, sentiamo
risuonare in noi questo potere.
OM è l'inizio, la prima lettera dell'alfabeto sanscrito, ma forse per noi
occidentali il collegamento più evocativo per capire a quale forza si faccia
riferimento non è con Shiva Nataraja ma con il Vangelo secondo Matteo, 1,1: in
principio era il verbo, il verbo era presso Dio e il verbo era Dio. Ovvero quanto
detto anche dalla Genesi 1:3, Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. E' la parola, il
verbo, il suono primigenio creatore, che genera la realtà. In questa sede non si
vuole percorrere queste strade, ma semplicemente far comprendere la potenza, la
potenzialità e l'universalità di questi sutra.
Dopo essere arrivato a leggere fin qui, mi auguro che qualcuno possa cantare l'OM
all'inizio e alla fine della propria pratica con uno spirito rinnovato.
Questi primi 29 sutra del primo libro di Patanjali formano in qualche modo un
insieme omogeneo, nel prossimo articolo si analizzeranno i sutra dal 29 al 51
sempre dal samadhi pada ovvero dal primo libro che tratta il raggiungimento dello
spirito assoluto.
NOTE:
(1) La questione che si acquisice la forza dell'elefante meditando sull'elefante è
ricorrente in molti commentatori autorevoli. Non si vuole dire che sia sbagliata,
assolutamente, ma solo che oggi apprare fuori contesto. Torneremo sull'argomento a
proposito del III libro, ma il termine dhasana, interpretato da questa linea di
pensiero come oggetto (III:1 l'attenzione, dharana, consiste nel concentrasi su un
oggetto), può essere inteso anche come luogo e quindi in questo contesto come la
pratica stessa (l'attenzione [dharana] consiste nel concentrarsi sulla pratica).
La prima volta che ho letto gli ultimi sutra del primo libro di Patanjali, sono
rimasto sbalordito: sembrava parlare proprio a me. Ritrovare esperienze così
personali in uno scritto dell'India antichissima, mi ha sempre emozionato e
continua a farlo. Come già per la prima parte del primo libro, cercheremo di
fornire una traduzione immediatamente comprensibile, che sia sufficientemente
semplice ed evocativa dei concetti del testo, limitando i commenti ad un ausilio
per capire dove ci troviamo rispetto l'intera opera e a qualche ragguaglio di
contesto rispetto la filosofia del tempo, qualora ce ne sia bisogno. Patanjali
continua a descrivere cosa si intenda per ricongiungimento tra lo spirito
individuale e lo spirito universale (samadhi), aggiungendo maggiori dettagli sulle
modalità della pratica e sugli stati di coscienza e beatitudine che si verificano.
Nel secondo capitolo fornirà nel dettaglio gli strumenti, per ora ci stà indicando
la strada e spiegando cosa avverrà.
Ecco che Patanjali fornisce una prima ricetta per proseguire nella via dello yoga.
Ci ha detto: in cosa consiste lo yoga, ovvero nell'arresto delle oscillazioni della
mente e nel distacco dalle cose del mondo (in modo da poter ricongiungere lo
spirito individuale con lo spirito assoluto); ha esposto in cosa consiste lo
spirito assoluto; ci ha detto che serve una pratica intensa ; adesso inizia a
delineare in cosa consiste la pratica. Personalmente mi emoziona sentire parlare di
sentimenti di amicizia verso il prossimo e compassione, in uno scritto datato 500
anni prima di Cristo. La compassione verso gli ignoranti ed i deboli sarà
importante per interpretare nella giusta proporzione alcune affermazioni successive
molto dure.
In questi tre sutra Patanjali continua a dispensare riflessioni che ognuno di noi
può ritrovare nella propria pratica. L'arresto delle oscillazioni della mente
assomiglia allo stato che si verifica quando si è ancora svegli, ma si sta per
prendere sonno, quella situazione di sospensione nella quale possiamo essere
richiamati dalla mente verso i pensieri in qualsiasi momento, dal benchè minimo
rumore o distrazione, ma che può anche volgere al sonno. Osservare questo stato è
utile a capire come bisogna ritrovarsi nella meditazione.
Le interpretazioni esegetiche si dividono significativamente sul sutra 39, come a
dire il vero su quasi tutti i sutra. Noi abbiamo interpretato abhimata con il
significato di “come si desidera”, traducendo "Inoltre nel praticare come si
desidera". Una cospicua fazione interpreta questo termine come “amore o attrazione”
traducendo “Inoltre meditando/praticando l'amore”, ma onestamente sembra molto
distante dal resto dell'opera. Come sempre si riporta anche questa interpretazione
per offrire un confronto e per sottolineare che per loro stessa natura i sutra
necessitano di una qualche interpretazione.
Quindi attenzione: ognuno deve praticare come più gli piace, certo, sempre con
intensità e convinzione, ma gli ingredienti della ricetta che Patanjali rivelerà,
possono, anzi devono, essere mischiati a proprio piacimento, non esiste un modo
valido per tutti. Ci aveva già avvertiti che studiare se stessi è fondamentale,
altrimenti non è possibile capire come si deve praticare. Lo sappiamo, i grandi
maestri guidano ogni allievo verso la sua pratica personale e individuale e per
ognuno hanno un percorso differente.
Infine, ancora una volta viene ribadito che il nostro spirito individuale potrà
ricongiungersi con lo spirito universale, dominando ogni aspetto di noi stessi.
Gli effetti della pratica sono progressivi. In una prima fase le percezioni che
provengono dalla mente si confondono addirittura con le percezioni che arrivano dai
sensi, si confondono pensiero e input provenienti dai sensi. Successivamente si
riescono ad isolare questi due aspetti. Proseguendo ulteriormente nella via dello
yoga la mente è ancora vigile e le percezioni che provengono dalla sua esclusione,
ovvero che provengono dallo spirito, si mescolano con le percezioni che provengono
da essa stessa, ma sarà comunque un grande progresso, il risveglio dello spirito.
Nell'ultima fase lo spirito diverrà il veicolo della realtà.
Queste quattro fasi costituiscono il percorso del ricongiungimento tra spirito
individuale ed universale, il samadhi che da il titolo al primo libro dei sutra,
nel quale nella pratica interveniamo con la volontà. In quasi tutti i testi la
pratica o la meditazione in cui interviene la volontà viene chiamato letteralmente
“samadhi con seme”. L'espressione, di per se incomprensibile, diventa quasi un
codice tecnico, personalmente non mi piace, ma lo diciamo per offrire la
possibilità di raffronti.
In questo stato, che si raggiunge a questo livello del percorso, conquistiamo
l'immagine chiara di cosa sia lo spirito in noi. Per interpretate il termine
adhyhatma come spirito del Sè, possiamo rifarci alla Bhagavad Gita, 8,3: "L'entità
vivente indistruttibile e trascendente è chiamata Brahman, e la sua natura eterna è
chiamata adhyātma, lo spirito individuale".
Nel secondo libro Patanjali fornirà una descrizione della via e delle modalità che
costituiscono il percorso dello yoga.
Yoga Sutra: rimuovere le cause della sofferenza, Ia parte II° Libro [YS2:1-28]
luglio 04, 2017
Il secondo libro dei sutra di Patanjali è forse quello più dibattuto in quanto si
entra nel vivo della pratica dello yoga ovvero si affrontano gli strumenti che
condurranno il praticante sulla trada del ricongiungimento, trattato nel primo
libro. In particolare, nella prima parte del secondo libro, vengono gettate le basi
imprescindibili per affrontare poi l'elenco delle singole componenti della pratica
dello yoga. Patanjali affronta le domande che sono insite nell'uomo, in tutte le
epoche: le cause dell' infelicità, le conseguenze delle nostre azioni e il senso
del mondo ovvero quale è lo scopo della nostra vita. Non sono temi da poco. Staremo
particolarmente attenti a non dare interpretazioni preconcette, ma a fornire una
traduzione semplice e lineare, nel rispetto del testo sanscrito.
Il Krya Yoga o yoga dell'azione viene menzionato anche da Krishna nella Gita,
secondo alcuni storici ha origini antichissime, secondo gli induisti deriverebbe
addirittura dalle ere caratterizzate da una maggiore illuminazione spirituale. Già
ai tempi di Patanjali si riteneva che si fosse in un'era di materialismo e
oscurantismo, ma direi che la situazione è poi peggiorata. Vista la raffinatezza
filosofica raggiunta ed altri elementi, è certo che l'autore raccolga una
tradizione più antica. Teniamo a mente che pratica intensa, studio di sé e
abbandono allo spirito assoluto, citati nel primo sutra, sono gli ultimi tre
precetti dei cinque che costituiscono, come vedremo, il secondo passo dello yoga,
ovvero le regole morali verso se stessi. Apre così il capitolo sugli strumenti
dello yoga perché questi tre sono gli elementi basilari che dobbiamo trovare dentro
di noi.
Patanjali ricapitola quindi che senza una pratica disciplinata non c'è yoga,
questa pratica porta a studiare se stessi altrimenti è fine a se stessa e così si
ottiene lo scopo ultimo, il ricongiungimento spirituale con lo spirito assoluto.
Coerentemente al primo libro, Patanjali indica lo yoga dell'azione come una pratica
che ci fa scoprire la nostra parte spirituale assoluta, divina, ma anche il cui
scopo è alleviare l'infelicità durante il cammino.
5:II. Anitya asuci duhkha anatmasu nitya suci sukha atmakhyatir avidya
L'ignoranza è considerare eterno ciò che è caduco, puro ciò che è impuro, piacere
ciò che arreca dolore e confondere il proprio spirito individuale con ciò che non
lo è.
Quali sono quindi le cause di sofferenza che andremo a mitigare grazie allo yoga
sulla strada del ricongiungimento con lo spirito assoluto? L'ignoranza è la causa
di tutti i mali; anche il buddismo riprenderà questo concetto, avydia è il primo
dei tre veleni (ignoranza, attaccamento e odio). L'ignoranza non comporta solamente
la non conoscenza delle cose, rispetto alla quale non sarebbe semplicemente
possibile comprendere nulla, ma questo sarebbe comunque un male più tollerabile
rispetto ad interpretare il mondo in modo errato e contrario alla sua forma
corretta. Chi è ignorante rispetto allo spirito non si limita a non conoscere, ma
ha una sua conoscenza errata che ritiene vera. La sua vita diventa quindi misera,
più misera degli animali che si limitano a non comprendere. Il giudizio di
Patanjali sulle persone ignoranti appare qui spietato, sono persone che infliggono
sofferenza a se stessi e agli altri. II sutra I:33, l'affermazione che la via dello
yoga consiste anche nel mostrare compassione verso i deboli, mitiga forse in parte
questo giudizio.
Ignoranza è per l'autore non solamente conoscere nel significato di erudizione o
di apprendimento di qualcosa di codificato, come intendiamo spesso nel senso
comune, ma conoscere anche come sentire a livello spirituale. Ignoranza è non
avere nozione di come contemplare la propria parte spirituale o, ancora peggio,
identificarsi con i pensieri ed il corpo (indetificarsi con l'a-atman, il “non
spirito individuale”). Questo è un concetto fondamentale da cui si comprende
l'importanza della pratica, che conduce ad una conoscenza, che si estende su vari
gradi, per evitare una vita di miseria ed ignoranza.
Arriviamo quindi alle ultime due cause di infelicità: attaccamento e paura della
morte. Viene ribadita la necessità di abbandonare l'attaccamento alle cose del
mondo e quindi ai concetti di piacere e dolore, perché effimeri. Il piacere e la
sua ricerca generano aspettative e di conseguenza sofferenza. Infine la paura della
morte è per Patanjali la causa di infelicità più connaturata all'uomo, tanto che
può rifarsi viva in qualsiasi momento, anche dopo aver condotto una vita nella
pratica e nella saggezza. Seppure sia una forma di attaccamento, l'autore ritiene
importante comunque citarla, forse perché lo tocca da vicino. Oltre ad essere una
forma di attaccamento alle passioni della vita, è anche una forma di ego, l'unica
cosa che va a morire con la morte fisica è infatti l'ego, riflesso della nostra
mente, lo spirito è per Patanjali eterno, lo sappiamo.
Come dicevamo Patanjali sta procedendo dal macroscopico verso il particolare, nel
primo libro ha trattato il ricongiungimento (samadhi), ora ci parla della
meditazione (dyhana); come vedremo tra poco, questi sono gli ultimi due elementi
tra gli otto che costituiscono la pratica dello yoga.
L'infelicità causata da ignoranza, ego e attaccamento, può essere contrastata e
vinta con un processo particolare: riconducendo l'effetto alla causa originaria
(prati-pasav). E' un principio conosciuto ed applicato in molti ambiti, anche
quando la psicanalisi riporta il paziente alla propria infanzia, per superare i
traumi che hanno causato l'infelicità. Fino a che non si và alle radici, il
problema non può essere risolto. Andando a ritroso Patanjali afferma che la causa
prima di tutte le afflizioni è la mancanza di consapevolezza, l'ignoranza. E'
quindi necessario portare consapevolezza nella propria vita, essendo presenti in
ogni momento e consapevoli del proprio spirito. Per poter vedere la nostra parte
spirituale ci viene in soccorso la meditazione, componente finale della pratica
yoga, alla quale si arriva dopo aver praticato gli altri sei passi e che porta
all'ottavo e più importante, il ricongiungimento con lo spirito assoluto.
17:II. Deve essere interrotta l'identificazione tra colui che osserva e ciò che
viene osservato.
18:II. Ciò che viene osservato possiede le qualità della beatitudine e quindi può
dare la liberazione dalla sofferenza.
19:II. Ci sono quattro tipi di qualità in ciò che si osserva: il definito,
l'indefinito, il differenziato e l'indifferenziato.
22:II. Sebbene la cosa osservata non abbia importanza per la persona consapevole,
essa è importante per chi non ha ancora intrapreso il percorso di consapevolezza.
23:II. Per chi non ha intrapreso questo percorso, colui che osserva e ciò che
osserva si presentano insieme, in modo tale che sembrano indivisibili.
Solitamente questi primi 28 sutra vengono letti in modo precipitoso, perchè subito
dopo sappiamo esserci l'elenco dei passi dello yoga ovvero l'enunciazione
dell'Ashtanga Yoga, ma, se ci soffermiamo un attimo, possiamo capire quanta
saggezza ci sia in questa prima parte.
Yoga Sutra: otto passi, Yama e Nyama, IIa parte II° libro [YS2:29-45]
luglio 19, 2017
Questi sutra sono il cuore dell'opera di Patanjali. L'autore, dopo aver dato tutte
le definizioni indispensabili per delineare il campo nel quale sta operando,
fornisce la ricetta, passo per passo, per arrivare alla beatitudine. Sebbene
Patanjali indichi questi punti come passi successivi, non devono essere considerati
compartimenti avulsi gli uni dagli altri, ma essi formano un'unica pratica dello
yoga integrandosi tra loro. Sono successivi, ma integrati. E' stato spesso
affermato Patanjali abbia un approccio scientifico proprio perché prescrive un
percorso di azioni da compiere per arrivare all'illuminazione, alla cessazione
della sofferenza ed alla beatitudine. Non è vago, non dice che un bel momento
capirai, ma prescrive una ricetta, una via, uno stile di vita. Inevitabilmente, il
commento a ogni singolo aspetto che compone lo yoga, sarà più esteso di quanto
fatto per il resto dell'opera; Patanjali utilizza spesso un solo termine per
significare un concetto, che va necessariamente contestualizzato. Iniziamo quindi
con i le norme di comportamento, etiche ovvero yama e morali ovvero nyama. Fino a
questo momento inoltre non abbiamo mai lasciato termini in sanscrito nella
traduzione, per non appesantire il discorso e non rimandare a successive
definizioni; per gli otto passi dell'Ashtanga Yoga faremo un'eccezione in quanto
sono termini a cui tutti gli yogin si riferiscono comunemente e che sono diventati
veri e propri monumenti. Ogni singolo termine ha dato luogo a sterminate
disquisizioni, ma il filo del discorso è, in questa seconda parte del secondo
libro, piuttosto lineare. Ecco lo Yoga di Patanjali:
29:II. Yama niyama asana pranayama pratyahara dharana dhyana samadhayo ‘stavangani
Gli otto passi dello yoga sono:
> yama: osservanza di norme di comportamento etiche verso gli altri
> niyama: osservanza di norme di comportamento morali verso se stessi
> asana: le posizioni del corpo
> pranayama: il controllo della respirazione
> pratyahara: l'introspezione e il ritiro dei sensi,
> dharana: la capacità di concentrazione
> dhyana: la meditazione
> samadhi: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito universale
e la beatitudine che ne deriva.
Entra ora nel vivo la trattazione analitica di tutti e otto gli elementi
costitutivi dello yoga. Il percorso dello yoga è sicuramente un percorso di
crescita individuale interiore, l'obiettivo finale è dentro di noi, eppure il primo
gradino sono le norme “sociali”. Anche l'asceta non può vivere scollegato dalla
società che lo circonda, ma al contrario lo yogin deve influenzarla positivamente
ed agire nel sociale. Gli appassionati di questo messaggio troveranno nella
Baghavat Gita una lettura entusiasmante, in particolare nel commentario di Sri
Aurobindo, fermo sostenitore dello yoga delle opere.
Il secondo precetto delle regole etiche è Satya, termine sacro in tutto l'oriente
che significa “la Verità”, concetto che si spinge un po' oltre alla verità di
pensiero, parola ed azione, oltre al vivere senza menzogna ed essere se stessi.
Satya, Verità, è uno dei nomi di Visnù. Le quattro nobili verità sono il principio
chiave del Buddhismo, duḥkha-satya: verità del dolore; samudaya-satya: verità
dell'origine del dolore ; nirodha-satya: verità della cessazione del dolore; mārga-
satya: verità della via che porta alla cessazione del dolore. Se ne potrebbe
parlare a lungo, ma credo che il significato profondo risuoni nel cuore di ognuno
di noi. Un aspetto ampiamente dibattuto nelle scuole filosofiche orientali è se
bisogna dire o agire secondo verità qualora questo comporti sofferenza o violenza;
gli esempi possono essere moltissimi e nei miti orientali sono molto comuni. La
risposta in merito è pressochè unanime: non bisogna agire secondo verità, quando
questo agire comporti sofferenza o violenza. Cosa fare se la verità rischia di
ferire? Nell’antico poema epico del Mahabharata, si discute questo apparente
dilemma: «La verità dovrebbe essere detta solo se piacevole e con modi piacevoli;
la verità che ferisce non andrebbe detta. Tuttavia non si dovrebbe mai mentire per
compiacere qualcuno». Queste azioni o menzogne diciamo “a fin di bene” seppure
inevitabili possono avere delle conseguenze non positive (cattivo karma), ma
comunque migliori di quelle che si verificherebbero se dicessimo la verità. La non
violenza è il primo ineluttabile principio e tutti i precetti sono in ordine di
importanza, quindi bisogna trasgredire quello meno importante qualora comporti
l'infrazione di quello più importante. Questa è la regola generale.
Asteya, l'onestà, può avere varie sfumature: dal semplice non rubare al non
desiderare le cose degli altri, dal non essere avari ad abbandonare il concetto di
“mio”, eccetera. Brahma-charya o morigeratezza, comporta il non abbandonarsi alle
passioni, ma in realtà il termine composto significa letteralmente “condotta in
armonia con lo spirito assoluto”, quindi anche in questo caso il concetto va
leggermente oltre la continenza sessuale o alimentare, di cui però costituiscono
l'inizio. Aparigraha, quinto e ultimo precetto etico, è il non-possesso ovvero il
possedere solo l'indispensabile. Ai monaci buddisti è concesso di possedere la
veste da indossare e la ciotola con la quale ricevere le offerte e sfamarsi. In
questo caso il necessario è ridotto "all'osso", ma ho conosciuto monaci, anche in
vista, che avevano nella stanza l'impianto Hi-Fi e questo non li rendeva
sicuramente dei trasgressori, ma il concetto alla base del precetto è anche che nel
tempo cambiano le necessità e che comunque ci sono delle priorità che devono avere
la precedenza rispetto al possesso, ad esempio legate ai primi quattro yama più
importanti rispetto a aparigraha.
Patanjali sembra aggiungere a margine: “non cercate scuse invocando principi sopra
di voi”. Come dicevamo, l'infrazione può essere giustificata esclusivamente dal
rispetto di uno dei principi più elevati, di cui la non violenza è quello più
elevato di tutti, che non può essere mai infranto. Non è possibile trovare
giustificazioni dell'infrazione legate ai tempi, ovvero affermare che oggigiorno
ormai è anacronistico rispettare una certa prescrizione o che la società si è
evoluta percui rubare è diventata la prassi oppure addurre una giustificazione
legata al luogo in cui ci si trova, addossando agli usi e costumi di un certo paese
le nostre infrazioni. Quindi non possiamo appellarci nemmeno alle circostanze
contingenti , lo scoppio di una guerra o una catastrofe, oppure, molto importante,
al ruolo che si occupa nella società (l'autore scrive “jati”, termine che fa
riferimento alle caste, le caste a nostro giudizio esistono in ogni tempo e in ogni
luogo). Se siamo militari non siamo legittimati a fare violenza o uccidere a meno
che non scongiuri violenze più grandi, così come è esecrabile in ogni caso svolgere
compiti che comportano sofferenza evitabili a uomini o animali. Per questo motivo
determinati mestieri, come il conciatore, in India sono svolti quasi esclusivamente
da persone che hanno altri valori di riferimento, musulmani o fuori casta.
Yama e niyama sono dieci regole generali, la tentazione di fare un raffronto con i
dieci comandamenti biblici potrebbe essere forte, ma, seppure alcuni punti siano
simili, siamo in un campo completamente diverso, le dieci regole di Patanjali
mirano alla crescita interiore, non sono proibizioni, sono passi progressivi in un
percorso.
La purezza a cui rimanda il primo precetto che dobbiamo rispettare verso noi
stessi, sauca, è la purezza di corpo, mente e spirito generata dal percorso
attraverso i sette chakra ed al conseguente fluire dell'energia, coerentemente con
l'interpretazione che avevamo fornito nei sutra precedenti (YS 2:27). Questa
purezza si raggiunge con la pratica di tutti gli otto passi dello yoga. Quindi, in
questa chiave, il più importante precetto morale è di praticare. Senza pratica non
c'e' yoga. Il termine può rimandare anche ad una purezza meno elevata, intesa come
igiene personale e dei luoghi di pratica, in questo contesto di massimi sistemi
sembra fuori argomento un tale riferimento, ma in India molti maestri citano il
concetto di sauca in rapporto all'igene. In realtà questo è coerente con lo schema
dei cinque corpi, da quello fisico a quello spirituale, propri del pensiero Indiano
ed ayurvedico, cui sauca si riferisce. E' una purezza complessiva quella che ne
risulta.
La disciplina o tapah, è, come abbiamo visto uno dei principi chiave della
pratica, ovvero l'intensità. Letteralmente significa calore, il calore che brucia
le impurità del corpo e della mente. Nel Rig Veda acquisirà il significato di
austerità. Allo stesso modo sia lo studio di se stessi che l'abbandono allo spirito
superiore o isvara sono concetti sui quali Patanjali già si è espresso. Come
sappiamo la pratica deve essere adattata alle esigenze personali e consiste in un
intenso e metodico esercizio lungo la via degli otto passi. In alcuni casi, proprio
quando l'obiettivo finale di ricongiungimento con lo spirito superiore sembra
precluso, al massimo dell'impegno, può essere necessario abbandonarsi.
Vengono ora elencati gli effetti della pratica dei principi di yama e nyiama.
Questo passaggio può essere inteso con un duplice significato. Il primo è che
essendo noi stessi solidi nella qualità della non violenza indurremmo gli altri a
non essere violenti. Il secondo è che se tutti praticassero la non violenza nessuno
sarebbe ostile contro il prossimo perché verrebbe meno il motivo del contendere.
Entrambe le interpretazioni mi sembrano coerenti, accettabili e partecipi dello
stesso disegno che Patanjali sta tracciando tra procetti verso se stessi e verso la
società.
Questo sutra è spesso invece tradotto con una terza sfumatura ovvero che la sola
presenza dello yogin saldo in aimsha è sufficiente a disinnescare i conflitti,
semanticamente correttissimo, ma, a giudizio di chi scrive, leggermente limitante.
Il significato proposto è, crediamo, più generale e di senso comune.
36:II.Satya-pratisthayam kriya-phalasrayatvam
La solidità di satya, la verità, farà conseguire i frutti dell'azione senza agire.
Colui che è illuminato dalla verità riesce a trasmetterla agli altri rendendo
inutile qualsiasi azione. La verità è il fine ultimo. Quando la verità illumina
tutte le persone il fine è già raggiunto, non c'e' bisogno di ulteriori azioni.
Analogamente a quanto detto relativamente al sutra 35, non interpretiamo questo
sutra con la sfumatura che la sola presenza dello yogin basti a influenzare le
situazioni senza agire, infondendo la verità. Questa interpretazione porta poi come
estremizzazione ad affermare che la sola presenza del guru, del maestro, sia
sufficiente ad illuminare i discepoli. Patanjali non crediamo voglia dire questo, e
tale principio seppure esalti il ruolo del guru, limiterebbe il senso della
pratica, in contrasto con quanto sin qui esposto.
L'onestà è in realtà essa stessa una ricchezza, percui una volta raggiunta
un'onestà senza tentennamenti o la comunione con le persone con le quali viviamo,
saremo già ricchi. Allo stesso modo l'energia non si consegue soltanto bruciando,
trasformando altre energie, ma anche risparmiando queste.
41:II. Sattva-suddhi-saumanasyaikagryendriya-jayatma-darsana-yogyatvani
La purezza genera felicità, potere di concentrazione, controllo dei sensi, e
capacità di realizzare il Sé.
43:II. Kayendriya-siddhir-asuddhi-ksayat-tapasah
Tapah, la disciplina, elimina le impurità e porta la perfezione del corpo e dei
sensi.
44:II. Svadhyayad-ista-devata-samprayogah
Svadhyaya, lo studio di se stessi‚ porta a percepire la propria parte spirituale
individuale.
45:II. Samadhi-siddhir-isvara-pranidhanat
Isvara, l'abbandono allo spirito superemo, porta all'unione dello spirito
individuale con lo spirito superemo.
Patanjali elenca ora i frutti delle cinque osservanze delle norme morali verso se
stessi. La pratica, il cui scopo è la purificazione, porterà al distacco dalle cose
del mondo e la possibilità di accedere alle successive qualità. Il ragionamento è
motlo lineare.
La pratica porta alla purificazione, si superano cioè gli elementi grossolani del
proprio essere, si acquisisce sottigliezza, raffinatezza, si diviene “il tempio
dell'essere surpemo” a cui ci si ricongiunge. Alcuni osservano giustamente che
l'atteggiamento di Patanjali non è moralistico, egli non afferma di non nuocere al
prossimo e di rispettare gli altri precetti perché esiste una legge superiore, ma
solamente con lo scopo di purificare se stessi e trascendere il proprio spirito. La
punizione è una vita infelice in questo mondo e cattive conseguenze delle nostre
azioni.
Avendo regolato le norme di comportamento verso noi stessi e verso gli altri,
possiamo giungere all'obiettivo finale dello yoga ovvero il samadhi, il
ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito superemo. Se questi
fossero visti unicamente come passi successivi, non avremmo necessità di aggiungere
altri passi alla nostra pratica. Come abbiamo detto più volte, sono passi
successivi, ma si influenzano l'un l'altro favorendo il raggiungimento degli
obiettivi. Le successive pratiche concorreranno al conseguimento di yama e niyama.
E' stato dibattuto se gli spiriti illuminati potrebbero non avere necessità della
pratica costituita dai successivi passi sulla via dell'ashtanga yoga, ma la
questione non ci sembra di particolare interesse.
Nel prossimo articolo tratteremo il tema che forse più interessa i praticanti
moderni, le posizioni o asana, gli esercizi di respirazione e la meditazione.
Yoga Sutra: Asana, Pranayama, Pratyahara, IIIa parte II° libro [YS2:29-55]
luglio 28, 2017
Rullo di tamburi... ecco che Patanjali arriva a parlarci delle asana (posizioni),
della respirazione e della meditazione. Secondo molti questa è la parte più
avvincente e poetica dell'intera opera. Questi aspetti specifici della pratica
saranno ripresi dalle opere classiche successive, come ad esempio l' Hatha-Yoga
Pradipika, la Gheranda Samhita e la Shiva Samhita, datate intorno al 1400 DC,
approfonditi e trattati in modo più analitico. Poco dopo la redazione dell'Hatha-
Yoga Pradipika si creeranno due scuole principali di yoga, il Raja Yoga,
focalizzato in modo uniforme su tutti gli otto passi dei sutra di Patanjali e
l'Hata Yoga, incentrato maggiormente su asana, pranayama e meditazione. Oggi giorno
nel mondo, India compresa, l'impostazione dell'Hata Yoga è predominante. Stiamo
parlando comunque di sfumature, tutte le scuole di yoga del presente e del passato
raccomandano che si faccia ordine nella propria vita per dedicarsi alla pratica
delle asana o alla meditazione, semplicemente perchè, come sanno tutti i
praticanti, una vita caotica e sregolata rende estremamente difficile già solamente
sedere a gambe incrociate. A volte iniziare la pratica può però rappresentare uno
stimolo per cominciare anche il processo di revisione del proprio comportamento.
Come sempre i passi del percorso sono successivi, ma integrati e collegati.
"Pratica e tutto il resto seguirà", la famosa frase del maestro Pattabhi Jois, è da
interpretarsi secondo noi in questa direzione.
Un'osservazione che muovono spesso i sostenitori del Raja Yoga è quella che
Patanjali non avrebbe dedicato molto spazio alle asana o almeno ne dedicherebbe
meno rispetto l'importanza attribuita ad esse dagli "eretici" fautori dell'Hata
Yoga. "Patanjali non cita nemmeno una posizione!" rincarano. Per bilanciare il
discorso, basti ricordare che, secondo il mito, lo yoga è stato ideato da Shiva,
dopo una meditazione di migliaia di anni e carpito da Matsyendra, il signore dei
pesci, per donarlo agli uomini, quando il Dio lo stava insegnando a sua moglie
Parvati. Lo yoga ideato da Shiva consta di otto milioni e mezzo di asana, o un po'
meno a seconda delle versioni. Il mito vuole chiaramente dirci che le posizioni
dello yoga sono tutte le posizioni che il corpo può assumere. Questo concetto unito
a quanto affermato in precedenza da Patanjali, cioè che la pratica deve essere
personale e secondo il modo che piace di più allo yogin, ci fa capire che un elenco
di posizioni avrebbe poco senso all'interno di questa opera.
Sappiamo dalla precedente esposizione del concetto di tapah, che la pratica deve
essere intensa, ma a completamento del quadro di insieme, si aggiunge ora che le
asana devono mirare a diventare solide e comode. Nei sutra 46 e 47, in sei parole,
c'è un'opera intera, l'autore ha composto due sutra perfetti:
Patanjali non è un ginnasta, avendo spiegato l'unione tra mente, corpo e spirito,
indica come la grazia del corpo permetta di raggiungere la grazia della mente con
cui iniziare a intravedere la grazia dello spirito. Passo dopo passo sempre più in
profondità dentro noi stessi, sempre più verso l'alto, verso percezioni sottili ed
elevate. Le asana non devono indurre sofferenza al corpo, ma essere stabili e
confortevoli, non si parla di contorsioni o di forzare il fisico, ma di una zona di
confort. Di contro, Patanjali afferma che stabilità e semplicità di esecuzione si
realizzano abbandonando lo sforzo verso uno scopo, prayatna, quindi
presumibilmente, precedentemente l'intensità richiesta era dovuta in parte ad uno
sforzo e ad uno scopo, che però si deve mirare ad abbandonare e a trascendere.
Sukham è la forza che nasce dalla stabilità. Cercando una sintesi potremmo dire che
la pratica deve andare verso l'intensità nella stabilità e mai verso la tensione.
Secondo questo precetto si avrà un'evoluzione naturale verso posizioni che portano
il corpo ad una maggiore intensità qualora si raggiunga una mancanza di intensità
nelle stesse, ma mirando sempre ad una stabile e forte esecuzione. E' anche chiaro
che in questa ottica, non esistono due persone che eseguiranno la stessa posizione
allo stesso modo e che solamente noi stessi possiamo capire la giusta intensità.
La stabilità e semplicità di esecuzione si realizza anche unendosi con ciò che non
ha confini, unendosi con l'infinito, cioè quando si raggiunge uno stato di quiete
meditativa durante la pratica fisica. Il concetto è molto bello. Come realizzare
questo aspetto è chiaramente del tutto soggettivo, per alcuni si verificherà con
una danza del corpo e del respiro, per altri con l'immobilità nell'equilibrio e
nella flessibilità, per altri anche solo sedendosi a gambe incrociate, non esiste
una ricetta valida per tutti, ognuno dovrà trovare le sue posizioni e la sua
pratica. La pratica fisica influenza la mente e lo spirito e a sua volta è da loro
influenzata. L'abbandono e la quiete meditativa non si possono forzare, potrò
ricercarle, facendo una serie di operazioni che so' portarmi in quella direzione,
ma il viaggio è sempre unico, irripetibile e mai scontato. Credo che questo sia uno
dei motivi per il quale moti di noi amano lo yoga. Qualcuno porta come esempio il
sonno: non è possibile decidere di addormentarsi, ma liberando la mente,
sdraiandosi e spegnendo la luce, con una buona dose di stanchezza, generalmente si
riesce, ma spesso, ossessionandoci con il pensiero di dormire, otteniamo l'effetto
opposto. Per la pratica è la stessa cosa, lasciamola accadere contemplando
l'infinito. La mente è allenata a porre limiti, Patanjali suggerisce il percorso
inverso, farla andare verso ciò che non ha limiti.
Le asana portano alla beatitudine generata dal superamento delle sensazioni e dei
sentimenti, alla libertà che solo chi pratica ha sperimentato. Grazie alle asana si
giunge ad un benessere assoluto oltre gli aspetti fisici o mentali, oltre le coppie
di opposti, il caldo e il freddo o il piacevole e spiacevole, oltre i concetti di
bene e male, rilasciando ogni sforzo e percependo l'infinito. Questo è il concetto
che il Buddha Siddharta, che visse dopo Patanjali, indicherà come la via di mezzo,
majhim nikaya. Il viaggio solitamente inizia dal corpo e pervade la mente e lo
spirito, ma la distinzione è fittizia e il percorso soggettivo. Le posture fisiche
sono il mezzo per giungere al distacco dalle cose materiali e capire che abbiamo in
noi qualcosa di molto grande e molto elevato. Gli Yoga Sutra sono una perla di cui
tutti gli yogin devono essere grati.
50. bahya abhyantara stambha vettir dea kala saokhyabhi parideo dirgha sukemai
Inspirare, espirare e sospendere per alcuni attimi il respiro tra l'uno e l'altro,
è un gesto meccanico, portare consapevolezza su questo atto è già un passo
importante. Lavorare sull'espansione ed il potenziamento del respiro è un punto
cruciale dello yoga di Patanjali, ma di qualsiasi scuola di yoga. Il pranayama, gli
esercizi di respirazione, o, meglio, gli esercizi di controllo dell'energia,
portano a prolungare sempre dippiù le varie fasi della respirazione, rendendo
lungo, flebile e uniforme ogni respiro. Molte opere successive indicheranno una
serie di tecniche di condizionamento del respiro da molto semplici a molto
complicate, ma come ormai abbiamo visto, a Patanjali non interessano i dettagli
tecnici, lui indica la strada anche ai maestri, loro sapranno come seguirla e
condividerla.
Yoga Sutra: i doni dello yoga, prima parte III libro [YS2:29-55]
agosto 11, 2017
Il terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali tratta dei risultati che si conseguono
con la pratica dello yoga, intesi anche come obiettivi finali e livelli più alti
della pratica stessa. Personalmente è un libro che ritengo di grande ispirazione.
L'argomento a questo livello diventa piuttosto elevato e sotto alcuni aspetti anche
più comlplesso. Il terzo libro tira un po' le fila di quanto detto finora e
probabilmente per questo motivo si evidenzia in modo particolare la coerenza del
discorso e le interpretazione fornite sino a questo punto. L'idea di pubblicare una
nuova traduzione dei sutra sullo yoga è nata proprio dalla lettura di molte
traduzioni del terzo libro che interpretavano questi passi come il conseguimento di
"superpoteri", come l'invisibilità o la telepatia, raggiunti mediante la
meditazione su questa o quella cosa. Vedremo che interpretazioni alternative non
solo sono possibili, ma forse più coerenti con quanto enunciato sin qui
dall'autore, pur rimanendo fedeli al significato letterale.
Ma veniamo ora al testo, Patnjali alla fine del secondo libro, stava enunciando
gli ultimi due passi degli otto che costituiscono il suo Ashtanga Yoga
(Ashta=otto, anga= passi), ovvero la concentrazione e la meditazione, il discorso
riprende da questo punto senza soluzione di continuità introducendo poi anche
l'ultimo passo, il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito
assoluto, questi ultimi sono gli strumenti più elevati di tutta la pratica.
Arrivati quindi a percorrere tutti e gli ottto passi della via dello yoga e in
particolare grazie alla perfetta integrazione degli ultimi tre, giunti al samadhi,
si giunge alla massima consapevolezza spirituale, obiettivo finale dello yoga.
Questo stato finale ha comunque a sua volta dei gradini e dei livelli. Il samadhi
può essere intuito, sperimentato per brevi momenti oppure in modo stabile e
sistematico. Nulla si compie d’improvviso, ma tutto è invece risultato di un
processo lungo e costante.
Dicevamo che non ci piaceva la divisione tra aspetti fisici ovvero i primi cinque
passi e aspetti spirituali, ovvero gli ultimi tre gradini, perché induce una
separazione che non è propria dell'autore. Patanjali afferma tuttavia che dharana,
dhyana e samadhi siano aspetti della pratica che portano lo yogin ad una maggiore
introspezione rispetto ai passaggi precedenti, questo è un dato di fatto. Le norme
di comportamento, ma soprattutto asana, respirazione e ritiro dei sensi, comportano
l'uso dei sensi e del pensiero che invece in questi altri passi tenderemo
gradualmente a superare. Preso contatto cosciente con “l'nteriorità” e i flussi di
energia, il praticante può dedicarsi all’uso dei mezzi soggettivi e intimi. Come
spesso accade ritengo che questi passaggi appaiano più chiari a chi pratica yoga
rispetto a chi si occupa dei sutra da un punto di vista puramente filosofico.
Patanjali ritorna poi a ribadire quanto già accennato alla fine del primo libro
ovvero che esistono due tipi di ricongiungimento con lo spirito universale,
samadhi, uno meno elevato che si raggiunge grazie all'intervento della volontà,
perché perseguito e ricercato, ed uno più elevato, che si consegue senza
l'intervento della volontà, involontariamente. Questo stadio rappresenta la massima
introspezione possibile in cui si riesce ad osservare la propria parte divina o
meglio ci si fonde con la divinità presente in se stessi. Soggetto contemplante
ovvero me stesso e oggetto contemplato, ovvero ciò che sento, ciò che emerge
dall'esclusione della mente, lo spirito, diventano una cosa sola.
I sutra tra 9 e 12 sono tra i più controversi di tutta l'opera, non annoieremo il
lettore con una panoramica delle interpretazioni. Operando qualche semplificazione
diremo che l'oggetto di cui si sta parlando è l'evoluzione delle fasi di controllo
della mente, della consapevolezza e dello spirito. Particolarmente difficile è la
transizione dalla concentrazione alla meditazione ovvero l'acquietazione definitiva
delle oscillazioni della mente, definizione dello yoga stesso secondo quanto
affermato nell'apertura dell'opera: yoga citta vritti nirodha, lo yoga consiste
nella cessazione delle oscillazioni della mente. Il passaggio tra concentrazione
e meditazione è difficile e cruciale nella pratica. Chi pratica lo sa bene ed è il
motivo per il quale è generalmente necessario prepare questo passaggio con intensi
asana e pranayama. Patanjali suggerisce che riusciremo a sperimentarlo
sistematicamente e a portare avanti la meditazione per un periodo sufficientemente
lungo e costante, senza essere richiamati indietro dalla concentrazione su alcun
aspetto o elemento, grazie ancora una volta all'esercizio di una pratica costante.
Questo esercizio eviterà che si interrompa la meditazione per tornare nuovamente ad
uno stato di concentrazione e quindi di attenzione su qualcosa.
Vogliamo richiamare l'attenzione sul passaggio tra consapevolezza e integrazione
definitiva e stabile tra corpo, mente e spirito. E' necessario secondo l'autore
prendere consapevolezza di questi tre aspetti, ma nello stato meditativo si
trascende questa separazione che capiremo solamente ora essere fittizia, seppure
funzionale.
Si entra quindi nel vivo della trattazione dei risultati che la via dello yoga
permette di ottenere, come indicato dal titolo stesso del presente capitolo. Il
raggiungimento dello stato finale della pratica, permette di conoscere la vera
essenza del mondo e di vedere sotto una nuova luce la realtà, di approcciarsi in
modo differente con il mondo. Oltre al mondo materiale, si comprendono anche gli
aspetti spirituali e le leggi che regolano il tutto.
Le esperienze che deriveranno dall'osservazione dipenderanno sicuramente dal
livello raggiunto nella pratica, perché, anche a questo sommo gradino, esistono
livelli più o meno alti. Aggiungeremo che non ci saranno due persone che
percepiranno le medesime esperienze, perché strettamente personali e individuali.
Patanjali, con buona pace di chi definisce il suo approccio come scientifico o la
sua opera come laica, è chiaramente immerso nel pensiero induista del suo tempo e
non potrebbe essere altrimenti. Ogni autore è sempre figlio del suo tempo e la sua
opera va inquadrata nel suo periodo storico. Per tutti gli induisti, da sempre, un
chiaro sintomo di elevazione spirituale è avere cognizione delle proprie vite
precedenti. Secondo questo pensiero, l'uomo comune non ha percezione della
trasmigrazione e dell'evoluzione che la propria anima ha compiuto in altri esseri,
mentre l'uomo illuminato ricorda qualcosa delle vite precedenti. Sono molti i casi
in cui si porta a dimostrazione della santità di una persona, il suo ricordare
aneddoti o oggetti delle vite precedenti. Andando indietro nel tempo i ricordi sono
sempre più flebili e l'ultima vita trascorsa prima dell'ultima reincarnazione è
quella di cui si può conoscere meglio alcuni dettagli.
Un bramino indiano considerato molto saggio mi disse una volta di diffidare sempre
di coloro i quali pretendono di dare indicazioni agli altri sulle loro vite
precedenti, egli era considerato un Santo e per sua stessa ammissione era in grado
di ricordare poco delle sue vite precedenti e ancora meno del passato e del futuro
delle altre persone, se non in rarissimi casi. La conoscenza del passato era
inoltre per lui equivalente a quella del futuro considerando ininterrotto il flusso
temporale al di fuori del velo dell'ignoranza, conoscere le vite precedenti era
secondo lui difficile come predirre il futuro. Ma questo discorso ci spingerebbe
troppo lontano.
21. kaya rupa samyamat tad grahya sakti stambhe caksuh prakasa asamprayoge
‘ntardhanam
Praticando con attenzione alla forma che il corpo assume ed alla forza, scompaiono
quindi i difetti che l'occhio vede alla luce.
kāya = corpo,
rūpa = forma,
saṁyamāt = la pratica,
tat = quindi,
grāhya = percepibili,
śakti = forza,
arhtaḥ = difetti,
cakṣuḥ = occhio,
prakāśa = luce,
asaṁprayoge = sotto,
antardhānam = scomparire.
Non vogliamo in alcun modo proporre la nostra interpretazione come quella vera e
giusta, ma semplicemente dire quello che noi abbiamo capito. Saremmo ben contenti
di ricevere commenti in merito. Secondo noi si sta parlando di posizioni e pratica
fisica incentrata sulla forza fisica e mentale. Secondo chi scrive si sta ponendo
l'attenzione sulle asana e ai benefici che esse portano al corpo fisico, soggetto a
sofferenze non meno di quello spirituale. Grazie ad una pratica incentrata sul
corpo quindi i difetti fisici, visibili all'occhio (ovvero non quelli dell'animo),
dice Patanjali, scompaiono. Allo stesso modo scompaiono anche i problemi legati
agli altri sensi, come ad esempio dolori o i sintomi dei mali calssici identificati
dell'ayurveda, bocca amara, vista annebbiata, ronzii etc.
La chiarezza mentale della pratica, generata anche dal rispetto delle norme etiche
e morali dei primi due passi dell'ashtanga yoga di Patanjali, tra le quali era
appunto presente la benevolenza verso i deboli, porta ad identificarsi con gli
altri e ad avere benevolenza verso i più deboli, ovvero tutti gli uomini comuni. In
realtà nella traduzione abbiamo arricchito leggermente il discorso, il verso recita
semplicemente: i poteri (donano) amicizia verso gli altri.
Come detto, la decisione di pubblicare gli Yoga Sutra di Patanjali era stata presa
anche per una traduzione del sutra 24 del III libro, letta su Instagram che
recitava così: Concentrandosi sulla forza dell'elefante o di altri animali la si
può assimilare. Il commento proseguiva: è il solito principio emulativo, si
assorbono le qualità dell'oggetto della meditazione. Immaginavamo yogin del passato
e del presente intenti a meditare visualizzando un elefante, con lo scopo di
acquisirne la forza. Ci strappava un sorriso. A nessun titolo si vuole però
indicare come sbagliata questa traduzione che, tralaltro è riportata da moltissimi
autori più illustri di chi scrive. Diremo che non è in linea con quanto abbiamo
capito noi dell'opera di Patanjali fino a questo punto e che quindi è molto lontana
dalla nostra interpretazione.
La pratica dello yoga richiede grande forza di volontà e a sua volta la alimenta,
ogni yogin ne è consapevole, nonché una certa forza fisica. Per gli indiani
l'elefante è simbolo della saggezza e della forza fisica, qualità rappresentate al
massimo grado dal Dio dalla testa di elefante: Ganesh. Molti yogin indiani sono
devoti di Ganesh, figlio di Shiva, proprio perché egli rappresenta le due doti più
ambite dai praticanti: forza e saggezza, grazie a queste doti Ganesh è il Dio che
rimuove gli ostacoli.
La seconda parte del terzo libro continuerà a trattare i poteri che si ottengono
grazie allo yoga.
Yoga Sutra: i poteri del prana, IIa parte del III° libro [YS:26-43]
settembre 19, 2017
La seconda parte del terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali prosegue nel
viaggio attraverso i poteri che si possono conseguire grazie ad una completa ed
intensa pratica di tutti e otto i passi fondamentali descritti nei capitoli
precedenti. Come abbiamo visto, la nostra linea di traduzione mira in primo luogo
ad essere coerente attraverso tutti i sutra dei quattro libri che compongono
l'opera, obiettivo già di per sé non scontato. In secondo luogo intendiamo lo yoga
oggetto della trattazione di Patanjali come un'attività prettamente esperenziale,
legata alla pratica e non un'attività filosofica, speculativa, teorica o
religiosa. In particolare, come più volte affermato, crediamo che gli obiettivi
indicati dall'autore siano strettamente legati alla pratica e non di natura
sovrannaturale. Gli obiettivi della pratica non sono superpoteri, ma doti fisiche,
mentali e soprattutto spirituali. In quest'ottica l'opera ci appare una grandissima
fonte di ispirazione, molto attuale, un dono per tutti gli yogin. Infine,
procederemo sempre dapprima con l'interpretazione più semplice e scontata per poi
muoverci verso i significati più elaborati. Patanjali offre inizialmente una
panoramica sui doni che l'ascolto dell'energia e del suo concentrarsi nei punti
nodali, i famosi chakra, può portare a chi pratica yoga.
La parte terminale della testa è sede dell'ultimo chakra, sahasrara, il chakra dai
mille petali. Questo chakra si attiva al momento della nascita quando l'energia
vitale e lo spirito entrano nel corpo, al momento della loro dipartita e, secondo
alcune tradizioni, durante l'illuminazione. Patanjali ci sta dicendo che lo
scorrere dell'energia attraverso tutti i chakra, fino all'ultimo, è frutto di una
pratica molto evoluta, che arriva a padroneggiare l'ultimo passo dell'ashtanga yoga
ovvero il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto. Questo avviene
proprio grazie al dischiudersi del chakra alla sommità del capo che permette il
contatto con la perfezione dello spirito che tutto pervade. E' bene ricordare che,
l'autore, per fusione con lo spirito assoluto, intende una condizione fisica,
mentale e spirituale indotta dalla pratica, una pratica di qualità ottimale
condotta da un praticante particolarmente abile, focalizzato e realizzato.
Il cuore corrisponde per Patanjali al chakra Anahata, situato al centro del petto,
che potremmo definire il cuore spirituale, associato con il bilanciamento della
personalità, la calma e la serenità, l'amore e la compassione verso gli altri. Ci
sono molti tipi di pratica che possono stimolare questo plesso energetico, esercizi
di respirazione, asana e meditazione, ma anche comportamenti sociali e verso noi
stessi. Questo tipo di pratica fa comprendere esattamente cosa sia la mente. Per il
termine mente (citta) qui l'autore usa esattamente lo stesso utilizzato nel primo
sutra quando ci diceva che lo scopo dello yoga è arrestare le oscillazioni della
mente. Quando si è in equilibrio e pervasi dall'amore si comprende che
l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri è sbagliata, che la mente non
è altro che un organo di senso come il naso o la lingua, l'organo di senso che
permette di pensare, ma oltre i pensieri c'è molto altro.
In una tradizione diversa da quella induista ma con origini comuni, nella
tradizione buddista, questo superamento del pensiero razionale è spesso
rappresentato come una meditazione su concetti contraddittori: in molte storie,
alla fine del percorso il maestro dice ad esempio al discepolo “vai e medita sul
suono di un applauso con una mano sola, poi tra un anno torna e dimmi cosa hai
capito”. Questo è il concetto di trascendere l'intelletto ed affidarsi allo spirito
o all'intuizione. Non casualmente il termine Anahat (il nome del chakra del cuore)
significa anche tintinnio prodotto tra due oggetti metallici, ma a volte è
utilizzato per indicare il mistico suono senza suono chiamato anche Ahum. Quando
tutti i suoni scompaiono sorge la vera natura dello spirito. Ci stiamo però
spingendo molto oltre, riassumendo l'autore, in tre parole, dice: “hrdaye (cuore)
citta (mente) samvit (capire, consapevolezza)“, ovvero abbandonandosi al cuore,
nella pratica ma non solo, si pone nella giusta prospettiva la mente ed i pensieri.
A ognuno la sua interpretazione finale. Credo che questo sutra parli con chiarezza
anche ad un occidentale dei nostri giorni.
41. samana-jayaj-jvalanam
Padroneggiando il soffio del plesso solare, o samana, il praticante diviene
raggiante.
Negli ultimi sutra del terzo libro, come vedremo presto, si compieranno tutti i
doni provenienti dalla pratica illuminata dell'ashtanga yoga di Patanjali, per
arrivare poi al quarto libro il cui tema sarà Kaivalya, la liberazione.
Yoga Sutra: la perfetta conoscenza, IIIa parte del III° libro [YS:44-52]
ottobre 09, 2017
Gli ultimi sutra del III libro di Patanjali cercano una risposta alle domande
ancestrali dell'uomo: chi siamo, qual'è il senso della vita, cosa è la realtà che
ci circonda. La pratica dello yoga, secondo l'autore, getta chiarezza su questi
aspetti, una volta arrivata alla sua massima vetta. Questi sono i doni finali che
si possono conseguire, prima della grande liberazione finale, quando non sarà più
necessaria nemmeno alcuna pratica. Abbiamo voluto isolare questi dodici sutra
perché per alcuni praticanti rivestono un senso particolare e gettano una nuova
luce sull'essenza profonda dello yoga. Non vogliamo dire che siano tutti di
semplice e immediata comprensione, ma soffermandosi alcuni istanti su taluni
passaggi e rapportandoli alla propria esperienza quotidiana di pratica, talvolta
può iniziare un fruttuoso processo di approfondimento. Questa almeno è la
testimonianza raccolta da diversi maestri.
Grazie alla pratica dello yoga, in particolare durante gli ultimi stadi più
meditativi, abbiamo detto si sperimenta la consapevolezza dello spirito al proprio
interno, arrivando all'eliminazione delle oscillazioni della mente. In modo analogo
è possibile sperimentare anche consapevolezza dello spirito al di fuori di noi,
dello spirito che tutto pervade, ciò non avviene grazie alla mente o ai pensieri;
il testo ci dice che tale consapevolezza è inconcepibile razionalmente. Questa
rivelazione fa capire che la separazione attuata fino a questo punto nell'opera,
tra spirito individuale, spirito assoluto e spirito che tutto pervade, non ha senso
di esistere; anzi ha senso nella misura in cui diviene funzionale per arrivare a
comprendere che lo spirito è uno. Noi uomini siamo un'unica entità e siamo della
stessa essenza dello spirito. Yoga significa unione. Pausa. L'opera di Patanjali va
metabolizzata, a nostro giudizio, proprio mediante la pratica. Forse non arriveremo
mai ad una consapevolezza dello spirito che tutto pervade, interno ed esterno a
noi, come ce la sta delineando in questi passaggi l'autore, tra i massimi doni
dello yoga, ma qualche intuizione in questo senso potremmo averla colta o
ricercarla in futuro.
Siamo arrivati ai doni più profondi che la pratica dello yoga può regalare.
L'autore invita a concentrare la pratica sulla realtà fisica tangibile e su quella
intangibile nonché sugli aspetti nascosti e su quelli espliciti. Osservando al
nostro interno le caratteristiche del mondo fisico e quindi distinguendo
chiaramente da esso il mondo spirituale, otteniamo il controllo finale del nostro
essere. Il discorso riprende il concetto del sutra precedente: la conoscenza dello
spirito dentro di noi ed esterno a noi, anche in relazione al mondo materiale, ci
fa capire chi siamo. Questo sutra è intimamento connesso con il concetto di Dharma,
anche se non viene espressamente citato. In questo senso intenderemo gli aspetti
della materia e il mondo fisico, come il mondo in cui le cose sono ovvero come la
legge naturale. Per un approfondimento rimandiamo alla sterminata letteratura
buddista, induista, janista e sikh in merito.
Patanjali afferma che giunti a questo livello della pratica e raggiunte tutte le
precedenti capacità, si arriva alla perfetta integrazione dei cinque corpi
immaginati dalla tradizione ayurvedica, quindi di tutto l'essere, e si arriva ,
udite bene, alla rimozione degli ostacoli nella vita. Un essere illuminato
difficilmente incontra ostacoli sul suo cammino, li ha già risolti dentro di sé.
Siamo noi che creiamo i nostri stessi ostacoli: distaccàti dalle cose materiali e
dalle emozioni, nulla può ostacolare la perfetta felicità. La tradizione indiana
ritiene che i pensieri, ma più in generale il nostro modo di essere e di
raffrontarci con il mondo, possano influenzare profondamente gli avvenimenti,
persino, al limite, quando non direttamente correlati al nostro operato, il
discorso potrebbe anche essere inteso in questo senso.
Come dicevamo, la perfezione del corpo, kaya sampat, è in realtà la perfezione dei
cinque corpi ed il loro allineamento, così come immaginati dal pensiero classico
indiano. Essi sono: Annamayakosa, il corpo grossolano; Pranamayakosa, il corpo
energetico, Manomayakosa, il corpo mentale; Vijnanamayakosa, il corpo intellettuale
e Anandamayakosa, il corpo della beatitudine. Le qualità raggiutne dalla
perfezione di questi cinque corpi sembrano piuttosto chiare: bellezza, grazia,
forza, fermezza. Sono qualità da intendere estese a tutti e cinque i corpi, quindi
quando parliamo di bellezza, stiamo parlando di bellezza fisica, bellezza
dell'energia che lo pervade, bellezza dei pensieri e dei ragionamenti e infine
bellezza dell'illuminazione e della felicità raggiunta. La forza del fisico
riflette la forza della mente, raggiunta grazie all'energia che lo pervade e con la
quale raggiungiamo l'illuminazione. E così via.
Molti testi classici di yoga quando arrivano a descrivere i livelli più evoluti
della pratica e le condizioni che si raggiungono, ricorrono a una descrizione
fortemente metaforica, immaginifica, descrivendo coni di luce, l'intervento divino,
lo stato di estasi; Patanjali non lo fa. Patanjali cerca di descrivere ogni passo,
anzi ce lo descrive, siamo noi che cerchiamo di interpretare esattamente cosa
voglia comunicarci. Egli ci ha descritto un viaggio attraverso il risveglio
dell'energia e lungo tutti e sette i chackra, compiuto grazie alla pratica
costante e intensa.
Questa è la via per la liberazione dai sensi in quanto porta alla comprensione
della distinzione che esiste tra la natura che ci circonda e il nostro intelletto
da una parte e il nostro io più profondo (purusa) ovvero la nostra consapevolezza e
lo spirito che tutto pervade dall'altra.
Patanjali inizia ad introdurre il tema del libro successivo, l'ultimo, quello che
ha come argomento la liberazione, kaivaiya. Ci dice che non dobbiamo rimanere
attaccati e vincolati neanche alla pratica stessa. Come molte altre arti, anche
nello yoga, bisogna apprendere la tecnica, farla propria, dimenticarla e non
preoccuparsi più del risultato. Ad un livello molto quotidiano, questo concetto
significa anche non preoccuparsi di come appaiono le nostre asana; non preoccuparci
se oggi non sentiamo le stesse stupende sensazioni durante la meditazione; in poche
parole dobbiamo ignorare il risultato, perché la totalizzazione nella pratica
stessa è il risultato. Quando arriviamo a questo livello otteniamo i poteri dello
yoga perché la nostra gioia, la nostra illuminazione non dipende più da nulla. Ad
un livello più alto, possiamo aggiungere che è sicuramente molto difficile
abbandonare l'attaccamento verso il mondo materiale, con le estenuanti tecniche
descritto nel secondo libro, ma è ancora più difficile abbandonare l'attaccamento
al mondo spirituale ed i poteri descritti nel presente capitolo. Quando si sia
dischiusa questa porta, abbandonarla è quasi impossibile, ma ciò conduce alla
liberazione finale. Le consapevolezze spirituali possono addirittura far
risvegliare sentimenti di immodestia, risvegliare il nostro ego giudicatore. Questa
condizione, che tutti i maestri di yoga dovrebbero temere al massimo grado, può
ritrascinare il praticante nell'abisso. Un maestro indiano, considerato un santo,
diceva a me, che in quel momento ero l'ultimo degli uomini agli occhi di tutti i
presenti: “io sono il tuo maestro, ma tu sei il mio maestro, io ti trasmetto il
messaggio che tu mi permetti di vedere, grazie”, un discorso simile fa comprendere
quanto gli Indiani aborriscano i discorsi autoreferenziali, l'auto esaltazione per
la consapevolezza raggiunta, perché frutto del baratro dell'attaccamento quando non
addirittura al mondo materiale, a quello spirituale. Al contrario la perfezione
spirituale corrisponde alla massima umiltà, alla consapevolezza che nella
perfezione dell'universo siamo un granello e che provare orgoglio per aver visto un
poco oltre sarebbe ridicolo e ci rigetterebbe nell'abisso.
Questo sutra è particolarmente chiaro per chi pratica yoga costantemente. Ogni
fuga della mente in avanti o indietro durante la pratica, vanifica la pratica
stessa. Ogni fuga verso sensazioni, percezioni o altro che abbiamo già provato è
negativa e ostacola la pratica. Allo stesso modo l'attesa di qualcosa si tramuta in
attaccamento. Qualcuno ha detto che l'atteggiamento dello yogin deve essere quello
di uno spettatore senza spettacolo e credo che renda molto bene l'idea [Questa
interpretazione viene data spesso al terzo sutra del primo libro YSI:3 NdR].
Patanjali ci ricorda che l'unico attimo che conta è quello presente, ma va un
pochino oltre, ci ricorda che questa riflessione è una delle chiavi della pratica e
porta alla vera conoscenza, jnana, che è la conoscenza ultima, la realizzazione che
lo spirito individuale coincide con lo spirito assoluto eterno, non nato ed
immortale. Contraendo sempre dippiù l'attimo presente, esso diviene l'unico attimo
eterno che era, è e sarà. Ciò avviene nel samadhi, la ricongiunzione dello spirito
individuale con lo spirito assoluto. Questa è l'ultima realtà, dopo c'è solo la
liberazione. Il concetto non è da poco se si pensa che per il Vedanta, l'Jnana Yoga
è uno dei quattro sentieri di base per raggiungere la salvezza (insieme a Bhakti
Yoga, Raja Yoga e Karma Yoga). Ma ci siamo spinti molto oltre.
55. tarakam sarva visayam sarvatha visayam akramam ceti vivekajam jnanam
Il maestro Baba Sri Ananda diceva che il quarto libro dei sutra di Patanjali non
può essere commentato, può solamente essere letto e interiorizzato, da ognuno a
modo suo. Faremo un'eccezione ed affiancheremo un breve commento alla traduzione
del quarto ed ultimo capitolo degli Yoga Sutra di Patanjali.
Questo sutra viene spesso tradotto “i poteri sono conseguiti alla nascita oppure
con mezzi chimici (droghe) o con i mantra o con la mortificazione fisica o con la
concentrazione”, anche in autorevoli testi, tra i quali quello di Swami
Vivekananda. Contravvenendo quanto sin qui fatto, riportiamo la sua versione
originale, pubblicata: “The Siddhis (powers) are attained by birth, chemical
means, power of words, mortification or concentration”. Senza entrare nel merito,
ci sembra tutto molto lontano da quanto sin qui professato dall'autore, da dove
compaiano ora le droghe o le pratiche ascetiche nel discorso di Patanjali risulta
oscuro, dato che non se ne è fatto cenno tra gli otto passi né altrove, così come
il perché questi sei fattori siano tra loro alternativi e non complementari. Come
sempre riportiamo le traduzioni di altri autori, qualora significativamente
diverse e diffuse, per rendere chiaro che esiste sempre una certa interpretazioni
per taluni sutra e che esistono ben avvalorate alternative, non per una polemica o
per denigrare il valore indiscusso di ben noti commentatori. Per lo stesso motivo a
volte indichiamo perché si è scelta una linea interpretativa, senza spingerci
nell'esegesi della critica del testo o nei meandri di tremila anni di filosofia del
pensiero Indiano, da cui non usciremmo con le idee più chiare.
Anche in questo caso il concetto sembra chiaro. Patanjali, nel sutra precedente,
ha affermato che la pratica fisica ingenera le evoluzioni che portano al risveglio
dello spirito o ad accorgersi del proprio spirito che dir si voglia. Ora chiarisce
che però la pratica fisica non genera le doti spirituali. La pratica fisica si
limita a rimuovere gli ostacoli che impediscono all'energia che tutto pervade di
muoversi all'interno di noi e trasformarci spiritualmente. Un altro modo di dire
questo stesso concetto potrebbe essere che lo spirito è presente in noi e le
tecniche fisiche eliminano i processi che ce ne impediscono la percezione, come ad
esempio le oscillazioni della mente. Ed infatti il discorso prosegue in questa
direzione.
Patanjali esprime ora con parole diverse quanto già affermato nel IV sutra del I
libro, ovvero che lo yoga consiste nella cessazioni delle oscillazioni della mente
(YSI:2) e che quando ciò non si verifica la mante assume la forma delle
oscillazioni stesse (YSI:4). La mente sgombra e priva di oscillazioni è la forma
perfetta che permette di osservare la mente stessa e di farci capire che non
dobbiamo identificarci con i nostri pensieri: noi non siamo la nostra mente e
infatti possiamo osservarla dall'esterno. Questa condizione permette di intravedere
lo spirito che è presente in noi, perché è questo ciò che siamo. Anzi, meglio,
siamo l'integrazione perfetta di spirito, mente e corpo. Ma per nostra stessa
natura tendiamo a percepire solo la mente che rimbalza, muta di condizione e
oscilla senza sosta. L'uomo è il cervello che pensa e basta, questa visione molto
meccanica è sicuramente diffusa in Occidente. Lo yoga ci dimostra ogni giorno il
contrario. In particolare la meditazione, che sappiamo deve essere preparata con
opportune pratiche di asana, con esercizi di respirazione, avendo posto ordine
nella propria vita, eccetera. Il sommo momento di assenza di oscillazioni nella
mente è la meditazione o dyana. Per chi pratica quotidianamente questo passaggio
appare vero se non scontato.
Quarto sutra del primo libro e quarto sutra del quarto libro esprimono lo stesso
concetto, secondo voi è un caso? Direi proprio di no, il percorso si è compiuto e
siamo ritornati al concetto originario, ma con tutta la consapevolezza della
conoscenza acquisita durante questo fantastico viaggio.
YSIIII:11. hetu-phala-ashraya-alambanaih-sangrihitatvat-esham-abhave-tad-abhavah
Essendo le conseguenze e le azioni, i principi del karma, legate insieme, in quanto
causa e effetto, gli effetti svaniscono allorché scompaiono le cause.
Patanjali rammenta anche in cosa consiste il karma delle persone comuni, che possa
essere buono, cattivo o neutro, e che queste tre tipologie diano conseguenze di
pari entità (buone o cattive) in momenti separati dal tempo e dallo spazio, solo
quando l'attimo è opportuno, ma in modo inesorabile perchè il desiderio di vivere è
eterno e quindi il karma, dal quale dipende, è eterno. Cessata la paura della
morte, cessata la brama di vivere e di reincarnarsi, essendosi ricongiunti col lo
spirito assoluto, si sfugge al ciclo eterno e quindi ci si sottrae al karma. Il
presente è la sublimazione di passato e futuro, ma questo non è vero per lo yogi,
che agisce su di un piano differente, un piano spirituale eterno.
I primi tredici sutra del quarto libro hanno espresso concetti veramente
significativi e Patanjali ha sigillato definitivamente la sua visione su due
aspetti fondamentali: il rapporto tra corpo, mente e spirito da una parte e
conseguenza delle proprie azioni nell'armonia del mondo, o karma, dall'altra. Anche
il proseguo di questo quarto libro non sarà da meno.
L'ultima parte del quarto libro degli Yoga Sutra di Patanjali, conclusivo
dell'opera, costituisce la summa del suo pensiero e forse la parte più bella e
importante dell’intero testo. Si è detta la stessa cosa per ogni capitolo e gruppo
di sutra, è vero, ma il genio di Patanjali e la bellezza dello yoga da lui
descritto continuano a emozionarci ancora, dopo la non trascurabile cifra di tre
millenni trascorsi. Si può osservare che l'uomo è uno e da quando è venuto al mondo
si è interrogato su chi fosse, sul perché esistesse e su quale fosse il significato
di tutto questo. L'uomo è per eccellenza colui che attribuisce significato al mondo
circostante: dall'arte al linguaggio, dalla filosofia alla religione, ma proprio
per questo tende a sfuggirgli il significato ultimo e ha quindi cercato infinite
strade che lo potessero restituire. L'approccio di questo capitolo è assimilabile
ai grandi sistemi filosofici, seppure con proprie caratteristiche uniche, tra cui
quella forse più importante di descrivere una scienza empirica, cioè non teorica,
ma pratica. Tra gli otto passi che compongono lo yoga, non è prevista nessuna
attività speculativa, ma solamente la pratica costante. Patanjali scrive per i
maestri più che per i discepoli, per chi deve perpetrare il messaggio e per questo
motivo si dilunga in questioni filosofiche, altrimenti estranee allo yoga.
Patanjali ci dice che la pratica porta gli yogin a sentire la perfetta unione tra
mente, corpo e spirito, ma il percorso e i risultati saranno soggettivi. Il
percorso è precluso solamente a chi non prova (o a chi è pigro, come era solito
ripetere Pattabhi Jois). La grandezza e unicità dello yoga consiste, secondo chi
scrive, nell'iniziare non con grandi proclami ma con piccoli passi, con un po' di
allungamento muscolare a terra. “Inizia a praticare, tutto il resto seguirà”
aggiungeva il grande guruji. Nessuno può prevedere esattamente quale sarà il
viaggio, né dove condurrà, ma a chi volesse, con tenacia e costanza, perseverare in
un’intensa pratica (tapah come dice il nostro autore), esso potrebbe riservare
grandi sorprese e offrire una fonte di tranquilla gioia difficilmente eguagliabile,
una ricerca appassionante che dura tutta la vita. E non sono parole vuote. Scusate
l'esternazione, forse fuori luogo, ma a parlare è il mio amore per lo yoga. Ora
lasciamo invece che a parlare sia Patanjali.
YSIIII:16. na caika citta tantram cedvastu tad apramaṇakam tada kim syat
L'esistenza di un oggetto non dipende dalla percezione di un'unica mente.
In questi quattro sutra Patanjali spiega cos’è la realtà e come noi ci mettiamo in
relazione con essa. Quando scrive “oggetto” o “cosa”, intende oggetto della nostra
attenzione e del nostro pensiero, in contrapposizione a soggetto, ovvero noi che li
osserviamo. Non necessariamente si tratta di oggetti fisici, ma anche di sentimenti
e spirito, per esempio. L'autore non sta parlando degli elementi della tavola
periodica né di atomi ed elettroni (è questa l'interpretazione di Osho), ma come
potrebbe?
Ogni cosa su cui poniamo l’attenzione esiste indipendentemente da noi, cioè, anche
se noi non la notassimo, starebbe lì. La sua esistenza dipende dal fatto di avere
una composizione reale che prescinde dal contesto e non dal fatto che noi la
scopriamo e, allo stesso modo, potremmo ingannarci e ritenere reale una cosa che
non lo è e non esiste. Il fatto che noi conosciamo o non conosciamo un oggetto, lo
rende semplicemente a noi noto o ignoto. Ognuno di noi percepisce la realtà e le
cose che la compongono in un modo differente, prescindendo dai reali elementi
costitutivi.
Le esperienze di diverse persone, il loro carattere intimo, la loro mente, possono
offrire un significato completamente diverso per i medesimi oggetti.
E' difficile rendere con parole altrettanto semplici questo concetto in realtà
molto lineare:
quando la mente è impegnata, vediamo solo l'oggetto che la impegna. E' il medesimo
concetto espresso nel quarto sutra del primo libro: quando non si arrestano le
oscillazioni della mente, essa assume la forma delle oscillazioni stesse. Se penso
a cosa mangerò per cena o che ho freddo, tutta la mia mente sarà pervasa da quel
pensiero. Per la stessa ragione potremmo dire che è praticamente impossibile
formulare due pensieri evoluti in maniera esattamente contemporanea, perché la
mente è pervasa dall'uno o dall'altro, o meglio in quel momento essa è quel
pensiero. Ma che succede quando i pensieri si fermano? Quando le oscillazioni della
mente si arrestano? Percepiamo ciò che osserva e non ciò che viene osservato,
ovvero lo spirito che osserva la mente stessa, e ci accorgiamo che una è
manifestazione dell'altro.
Possiamo spingerci oltre e affermare che la mente e il nostro spirito sono un'unico
soggetto, la distinzione è puramente funzionale alla comprensione del discorso e la
parte “spirito” di questo unico soggetto si palesa quando si spengono i pensieri.
YSIIII:22. citer aprati samkramayah tad akara apattau svabuddhi sam vedanam
La conoscenza della propria natura, si consegue allorché la consapevolezza assume
quella stabilità per cui è immodificabile.
Come ormai siamo abituati, il senso dei sutra è spesso concatenato uno con il
successivo, come in questo caso, in cui il soggetto è il sutra precedente: la
percezione del proprio io, ovvero il fatto che noi siamo spirito, si riesce a
raggiungere quando si interrompono le oscillazioni della mente in modo stabile per
un periodo significativo, quindi in relazione alla pratica, quando non si salta più
da uno stadio all'altro. Il ritiro dei sensi precedeva la concentrazione per poi
arrivare alla meditazione e al samadhi, o ricongiungimento con lo spirito assoluto.
La conoscenza di essere in primo luogo spirito si consegue quando si riesce a
rimanere nella condizione di samadhi in modo protratto; questo stato infatti,
sembra suggerire Patanjali, può essere portato anche al di fuori della pratica. Il
soggetto testimone della realtà è uno ed è il nostro spirito. Esso è
autoconsistente, è come una candela che illumina la stanza, non dobbiamo supporre
l'esistenza di un'ulteriore luce per osservare la candela stessa. La luce illumina
anche se stessa. Svabuddhi sam vedanam: la coscienza più profonda è immodificabile,
è auto-illuminante. Ecco che siamo arrivati alla vera risposta, senza rimandarla
all'infinito.
di Marco Sebastiani
Gli ultimi dieci Sutra dell'opera di Patanjali raccontano come il corpo , la mente
e lo spirito raggiungano la liberazione grazie allo yoga. Liberazione dai desideri
effimeri, dal falso conoscere, la liberazione dalla sofferenza del vivere e dalle
conseguenze delle proprie azioni. Quando ogni azione è guidata dai principi dello
yoga illustrati nel secondo libro (non violenza ,verità , onestà, morigeratezza,
frugalità; purezza, appagamento, pratica intensa, studio di sè‚ abbandono allo
spirito assoluto); quando ogni azione non ha più nessuno scopo utilitaristico, né
di raggiungere il bene né di raggiungere il male; allora le azioni compiute non
hanno più conseguenze che possano toccare il nostro cuore in questa vita; si
raggiunge quindi la pace e la liberazione. Il percorso illustrato da Patanjali è
stato lungo, ma ora che è possibile osservarlo nella sua interezza, colpisce in
modo particolare l’organicità del pensiero. Egli ha descritto lo yoga compiendo un
percorso non lineare, ma molto efficace: ha iniziato nel primo libro definendo il
termine stesso di yoga, come la cessazione delle oscillazioni della mente e il
perché dell’importanza di questa condizione per il ricongiungimento con lo spirito
assoluto. Ha poi proseguito indicando passo per passo il sentiero da compiere. Il
secondo libro è senza dubbio la parte fondamentale dell’opera, il manuale per come
arrivare all’illuminazione, alla consapevolezza, alla felicità o alla liberazione
che dir si voglia. E' il manuale dello yoga. Il secondo libro è la luce che indica
la strada da seguire. Nel terzo capitolo Patanjali ha spiegato dove porta questa
pratica, quali sono gli effetti di tutti questi sforzi fisici e mentali, gli
effetti di questa pratica metodica e intensa. Infine l’autore ci mostra il quadro
d'insieme o, meglio, ci spiega che la pratica non deve diventare fine a se stessa,
ma all’ultimo va ababndonato anche l’attaccamento alla pratica e ai bellissimi doni
che questa regala, in favore di una totale liberazione da ciò che è terreno e
materiale, in favore di una pace completa ed assoluta. Questo ultimo capitolo è in
generale quello preferito dagli studiosi, dai filosofi, ma anche dagli asceti, che
qui trovano un’analisi delle grandi questioni della vita. Alcuni maestri indiani
che ho conosciuto, bramini che avevano dedicato l’intera vita allo yoga, guardavano
con sospetto e forse anche con disinteresse al quarto libro, per motivi differenti.
Taluni mi spiegavano che erano felici nella loro pratica quotidiana, nell’unione
della mente e del corpo e nell'estasi dello spirito e che altro non gli
interessava. La quotidianità dei riti dei bramini e la visione del mondo induista,
giocano forse un ruolo importante in questa scelta. Altri ritenevano che gli
argomenti riguardanti le massime sfere dello spirito, non possano essere
concettualizzati o, meno che mai, scritte, ma che siano solamente nel proprio animo
e che, anzi, concettualizzarle avrebbe nuociuto alla loro esperienza perché avrebbe
creato un sentiero non più completamente libero, ma preordinato o comunque con
delle aspettative di un certo tipo. Immagino che queste stesse osservazioni
potessero essere rivolte all’autore anche dai suoi contemporanei, siamo quindi
estremamente grati a Patanjali per aver formalizzato qualcosa che i più forse
avrebbero lasciato segreta, una scienza per iniziati, al massimo da tramandare da
maestro a discepolo.
Il significato ultimo di questo sutra è più semplice di quanto sembri. Nei sutra
precedenti erano stati illustrati due concetti di primaria importanza. In primo
luogo veniva esaminato come l'eliminazione delle oscillazioni della mente
permettesse di osservare la mente stessa e di comprendere che l'osservatore, il
soggetto che conosce, fosse lo spirito individuale. In un passaggio successivo
Patanjali rivelava che spirito e mente sfossero in realtà una unica entità che
insieme al corpo costituisce noi stessi, ovvero il soggetto che osserva la realtà.
In secondo luogo diceva che realtà fosse oggettiva, ma che ogni differente persona
ne riceveva una impressione differente a causa della perturbazione della mente.
Quando cessano le oscillazioni della mente, riusciamo a vedere la realtà nella sua
vera forma, attraverso una intuizione dello spirito, come quando siamo immersi in
una meditazione profonda.
Ora si sommano questi due concetti, affermando che avendo portato calma ed
illuminazione nella mente, conosciamo realmente noi stessi e il nostro spirito, ma
anche il mondo che ci circonda.
La mente è un ponte tra noi stessi e il mondo, per usare la metafora di un grande
autore, e quando posta nella giusta condizione, comprende ogni cosa. La realtà ha
due facce: il mondo interno a noi ed il mondo esterno a noi, lo yoga permette di
comprendere entrambe ed avvicinare il praticante alla liberazione dalla sofferenza
e dall'illusione.
La mente è un organo di senso, questo punto di vista è particolarmente importante,
come avevamo detto in precedenza. La pratica allena a comprendere come la mente si
possa muovere ed osservare alla stregua di una mano; ora Patanjali ritorna su
questo concetto affermando che la mente ha lo scopo di trasferirci informazioni dal
mondo esterno. Quando è perturbata e non ne abbiamo la giusta consapevolezza,
queste informazioni sono inganni, come i desideri inutili e sbagliati. Per tornare
alla metafora precedente delle mani, quando la mente è perturbata, si agisce come
chi al buio agiti inutilmente le mani davanti a sé, invece di procedere toccando ed
analizzando. Ma ristabilita la quiete le mani possono essere utilizzate in vece
degli occhi. La mente, ristabilita la quiete, può essere utilizzata come strumento
conoscitivo del vero sé, dello spirito. A questo punto la mente e lo spirito, ed il
corpo aggiungeremo noi facendo riferimento a quanto affermato nei libri precedenti,
lavorano all'unisono, si ricongiungono, c'è unione, c'è armonia, c'è yoga nel suo
significato sanscrito di aggiogamento e unione. Il fine ultimo dello yoga è vicino.
La liberazione è vicina. In questo, il pensiero indiano e lo yoga come sua alta
manifestazione, si differenziano in modo fondamentale dai due punti di vista
principali dell'Occidente, quello materialistico e quello religioso. Da una parte
il corpo non è visto come la sede inutile dello spirito, ma al contrario ne è la
manifestazione e attraverso di esso prendiamo consapevolezza dettagliata dello
spirito stesso. Dal lato opposto, l'uomo non è immaginato come la sola unione di
carne, sangue e un cervello pensante, non siamo ciò che pensiamo, anzi proprio
quando smettiamo di pensare cogliamo la nostra essenza più alta e spirituale.
Lo yogi si pone fuori dal flusso del tempo. Il tempo è la trasformazione della
realtà naturale che ci circonda, una realtà che se non cambiasse, sarebbe immobile
e non avrebbe il concetto di tempo. Analogamente a quanto fatto dai filosofi greci,
in particolare da Zenone di Elea, suo contemporaneo storico, Patanjali osserva che
il tempo può essere scomposto in una successione di attimi immobili, di cui ha
prontezza colui che percepisce la vera realtà, potendo prolungare all’infinito un
singolo attimo. Il praticante illuminato ricongiungendosi con lo spirito assoluto
ferma il tempo e si pone nella stessa dimensione dello spirito, atemporale. Il
concetto di tempo è inoltre molto esteso e importante per gli Induisti. Noi siamo
soliti ragionare in termini di una vita, o al massimo in termini di tempo storico,
tre o quattromila anni, contrapponendo questo all’eternità. Gli induisti ragionano
invece in termini di cicli molto più lunghi. Non vogliamo ripercorrere la
cosmologia indiana, ma basti pensare che sulla terra si susseguono quattro Yuga, o
ere, per un totale di circa quattro milioni di anni, che si ripetono a formare un
kalpa o giorno di Brahma, di circa quattro miliardi e mezzo di anni (come l’età
della terra stimata dagli scienziati), al termine dei quali il mondo viene
distrutto da Shiva e ricreato da capo. Essere incarnati nel tempo del cambiamento,
per un’anima che ciclicamente ritorna nel mondo ha quindi conseguenze che hanno una
durata oltre quella che generalmente siamo abituati a considerare, la liberazione
che ne deriva acquisice connotati particolari e avvicina il soggetto all’unico
spirito che tutto pervade, imperituro o, meglio, l’Imperituro di cui parla la Gita.
Shiva o la trinità Bramha, Shiva e Visnù o altre visioni secondo i molti rami
dell’Induismo.
Il fine della presa di coscienza è quello di far crollare il tempo e l’alternarsi
delle ere, ponendo il soggetto sul piano atemporale dello spirito assoluto.
Lo spirito che abbiamo dentro di noi è della stessa sostanza dello spirito che
tutto pervade ed ha quindi già connaturato in sé il ricongiungimento finale. La
conoscenza assoluta regala la liberazione in questo ricongiungimento. L'uomo non fa
parte della natura, ma di chi l'ha creata.
Il viaggio è giunto alla fine, non stupisce di essere arrivati così in alto,
l’autore ci aveva avvisato che le esperienze sarebbero state oltre l’ordinario e
gli obiettivi massimi e totalizzanti.
Sutra significa letteralmente "filo". Speriamo di aver reso almeno il “filo” del
discorso, restituendo organicità all’opera, dal primo all’ultimo verso, con un
discorso coerente. Utilizzando una metafora di un’autore più illuminato di chi
scrive (Jaggi Vasudev) potremmo dire che ogni sutra è però come una formula.
Chiunque conosca l'alfabeto può scrivere "E = mc²". Ma dietro questa piccola
formula c'è un'enorme quantità di scienza che può essere compresa su vari livelli.
Ogni formula, ogni sutra, può restituire risultati sensibilmente diversi e la
grande bellezza degli Yoga Sutra è proprio questa, cambiando il contesto nel quale
vengono tradotti o analizzati il risultato cambia leggermente. E non pensiate che
un lavoro esegetico scrupoloso di comparazione sia quello che porta più lontano.
Forse proprio le versioni più incoerenti e criptiche che mi sono capitate tra le
mani, erano quelle che analizzavano l’evoluzione delle interpretazioni e traduzioni
dal sanscrito nel corso degli ultimi secoli. Spesso a seconda della scuola di
apparteneza dell’autore il significato viene forzato per essere coerente con tale
scuola e comparando e analizzando tutte queste versioni non aumenta la nostra
capacità di comprensione ultima. Analogamente anche chi abbia cercato di
ripercorrere filologicamente la storia dei principali termini sanscriti utilizzati
nell’opera ha spesso fallito poi nel ricondurre al significato originario,
d’insieme, finale. Chi afferma infine che il significato sia chiaro e univoco
spesso afferma anche che lui stesso sia il solo ad averlo afferrato. La nostra
posizione è molto distante da queste dichiarazioni e, come dicevamo, non
rivendichiamo di aver compreso il significato ultimo e assoluto di un’opera tanto
intima e profonda, ma almeno di esserci potuti creare una nostra interpretazione
onesta, perché non viziata da uno scopo pre-esistente o da un fine e fedele il più
possibile al significato stretto dei termini sanscriti, e, ci sembra, organicamente
coerente dall’inizio alla fine.
di Marco Sebastiani
Questa nuova edizione dell’opera di Patanjali vuole rispondere ad una domanda: gli
Yoga Sutra arrivano ancora al cuore dei praticanti? E ancora: Chi pratica yoga è
interessato ad approfondire le radici spirituali antiche? E’ quindi possibile
tradurre gli yoga sutra di Patanjali in modo che non solo siano immediatamente
comprensibili ma che arrivino al cuore dei praticanti? Non lo so. Ma, qualora fosse
possibile, chi pratica yoga sarebbe ancora interessato? Il commento sarà ridotto al
minimo e volto solamente a dare una visione d'insieme per chi non conosca già
l'opera oppure il contesto di riferimento. La traduzione sarà il più semplice e
lineare possibile. Ripercorrendo infatti i vari filoni interpretativi delle varie
scuole, mi sono reso conto che si oscilla tra interpretazioni molto vivide, ma che
spesso hanno un significato distante dalla moderna pratica dello yoga, e traduzioni
molto tecniche in cui il senso ultimo è rimandato a pagine e pagine di commentari.
Lasciare molti termini in sanscrito è pratica diffusa, ma appesantisce molto la
lettura, con una catena interminabile di definizioni. Inoltre il significato di
tali termini è a volte dato per scontato, ma analizzando con cura, ogni autore ne
ha in realtà una propria visione personale.
Chi afferma infine che il significato degli Yoga Sutra sia chiaro e univoco spesso
afferma anche che lui stesso sia il solo ad averlo afferrato. La mia posizione è
molto distante da queste dichiarazioni e, come dicevo, non rivendico di aver
compreso il significato ultimo e assoluto di un’opera tanto intima e profonda, ma
almeno di aver potuto creare una interpretazione onesta, perché non viziata da uno
scopo preesistente o da un fine, e fedele il più possibile al significato letterale
dei termini sanscriti, e, ci sembra, organicamente coerente dall’inizio alla fine.
Dovendo trattare ogni singolo aspetto dello yoga, era possibile scegliere vari
percorsi alternativi. Gli Yoga Sutra hanno sicuramente il dono di essere molto
concisi, in meno di duecento sutra viene affrontata ogni aspetto della natura dello
yoga. Non necessariamente questo stesso percorso è raccomandabile a chi si accosta
inizialmente allo yoga, anzi. Molti illuminati maestri consigliano infatti di
iniziare proprio dall’esercizio fisico per poi approfondire in maniera spontanea
ogni altro aspetto della pratica ed arrivare a comprendere il senso di tutto
questo, nonché sperimentare i doni che ne conseguono. Dovendo però affrontare un
discorso necessariamente speculativo, l’autore ha preferito gettare le basi delle
definizioni che verranno utilizzate in seguito e definire lo scopo ultimo dello
yoga. Patanjali procede in questo primo libro dall’universale verso il particolare,
l’incipit è quindi molto elevato, viene data la definizione di yoga, il massimo
livello raggiungibile con la pratica, viene definito il fine ultimo della pratica.
Viene anche illustrato il perché sia necessario un certo tipo di pratica. Alcune
affermazioni che in prima istanza sembrano leggermente dogmatiche, sono chiarite e
approfondite nel seguito dell’opera.
Samadhi Pada
Capitolo sul ricongiungimento
YSI:6. pramana viparyaya vikalpa nidra smrtayah Esse sono: retta conoscenza, falso
sapere, immaginazione, sonno e memoria.
YSI:10. abhava pratyaya alambana tamo vrttir nidra Il sonno è l'oscillazione della
mente fondata sull'assenza di ogni contenuto.
Come dicevamo, il discorso inizia con un tono piuttosto elevato e con uno stile
molto conciso. In sei sutra l’autore riassume tutte le possibili definizioni di
oscillazioni della mente. Inizialmente potremmo chiederci, cosa ci distrae durante
la pratica? Ciò che ci distrae sono esattamente le oscillazioni della mente, cioè
il divagare incontrollato del pensiero, riconducibile a cinque categorie. La mente
divaga verso pensieri su cose che abbiamo conosciuto o studiato, verso impegni e
affari. Scappa verso nostre fantasticherie o congetture. Può altresì capitare, di
addormentarci durante la meditazione, anche questo è un tipo di oscillazione della
mente, di perdita del focus su quello che si sta facendo. In modo analogo può
capitare di correre dietro ai nostri ricordi durante le asana. Patanjali non parla
in verità solamente di cosa ci distrae dalla pratica, ma applicando questo
principio alla nostra pratica è più facile estenderlo alla vita di tutti i giorni e
a concetti un po' più elevati, legati al nostro essere nel mondo e alla percezione
che abbiamo della realtà. Quando la mente oscilla, diviene padrona del nostro
essere e ci restituisce una visione della realtà alterata, erronea, guidata, ad
esempio, da passioni e desideri. Ma stiamo anticipando ciò che verrà trattato in
seguito.
I due sutra precedenti non sono di facile interpretazione dal sanscrito e generano
traduzioni molto disparate. Ma, favorendo sempre un approccio semplice e lineare,
possiamo dire che la pratica e il distacco dalle cose del mondo, adottati per
acquietare le oscillazioni della mente, avvengono in una serie di passaggi
successivi:
1) ragionando sul percorso da fare e su come si articola, come per esempio
leggendo questo articolo; per intraprendere un percorso, ci sarà sempre un momento
zero in cui prendere coscientemente questa decisione;
2) successivamente lasciandosi guidare dall’intuito è possibile, ad esempio,
sentire intimamente che lo yoga ci da molto, tralasciando le ragioni per cui ciò
accade;
3) poi arrivando a una profonda sensazione di benessere, che quindi non ha più
bisogno né di ragioni né di intuito, ma solo di essere sperimentata;
4) questo percorso porta poi alla percezione stabile del proprio spirito
interiore;
5) infine, il praticante sarà condotto all'abbandono del proprio spirito nel
ricongiungimento con lo spirito che tutto pervade, dalle percezioni più profonde,
come sarà approfondito in seguito.
Nessuno ci garantisce che arriveremo in fondo, non siamo tutti uguali, ma
Patanjali ci indica la strada.
Come dicevamo, non siamo tutti uguali e per qualcuno è più semplice placare le
oscillazioni della mente rispetto ad altri. E’ davvero molto difficile incontrare
persone che vivono in modo spontaneo oltre gli aspetti materiali della vita, ma
comunque l’autore ci dice che per questa tipologia di persone la via dello yoga
sarà molto più semplice, in discesa come si suol dire. Per noi tutti invece sarà
fondamentale praticare con intensità e convinzione. L'intensità deve essere
accompagnata da un approccio sincero e convinto. La via dello yoga, come la intende
Patanjali, non è per i curiosi o per gli eruditi che vogliono ampliare le proprie
conoscenze, questi non arriveranno a nulla. La via dello yoga è per chi ne fa una
ragione di vita, sapendo essere sincero e convinto, e tra questi, chi avrà maggiore
volontà avrà risultati migliori e più rapidamente. L’autore non ha un approccio per
così dire “morbido” alla pratica, non dice di fare solo quello che riesce, che poco
è meglio di niente, dice di praticare il più possibile, con tenacia, intensità e
dedizione quotidiane. Ora che siamo entrati nel vivo della trattazione possiamo
aggiungere una ulteriore sfumatura alla traduzione del primo sutra, in origine reso
con “Ora illustreremo la disciplina dello yoga”. Una traduzione più elaborata, ma
meno lineare, potrebbe essere “La disciplina dello yoga, ora!”. Nel senso che non
bisogna rimandare, attendere, tergiversare, ma applicarsi da questo momento, in
modo totalizzante. L'autore sembra dire: “i sutra leggili anche in un secondo
momento, ora pratica!” Ho sentito questa interpretazione da un maestro indiano e mi
ha fatto sorridere, mi è piaciuta molto. L’idea che Patanjali inizi l’opera
incoraggiando alla pratica e non a leggere i sutra è piuttosto affascinante e
divertente.
Ecco infine il premio, l'obiettivo, l'elezione per chi è arrivato alla fine del
sentiero: il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito assoluto,
cioè prendere coscienza che il barlume intravisto all'inizio dentro di sé fa parte
dello spirito che tutto pervade, che era già in noi. Ciò che era in germe diviene
infinito. Abbiamo tradotto, in coerenza con l'interpretazione dei sutra precedenti,
'ishvara' con 'spirito assoluto', minuscolo, ma, molti traducono, correttamente per
il loro discorso, 'ishvara' con Dio, anche in relazione all’uso di questo termine
nel testo classico della Bagavad Gita. Poi però diventa molto difficile fornire una
definizione di Dio che rientri nei discorsi e nei parametri di Patanjali.
Soprattutto per noi occidentali il concetto di Dio (padre, creatore) è qualcosa di
molto differente da quello che Patanjali vuole dirci e significare.
La scoperta e la contemplazione dello spirito assoluto ha ispirato tutti i guru in
tutti i tempi. Vedremo in seguito che questo approccio viene chiamato dai filosofi
“non-dualista” ovvero Dio è in noi ed è della nostra sostanza e deve essere
riscoperto.
Coerentemente con quanto fatto fin'ora, abbiamo offerto una prima traduzione del
sutra 27 senza lasciare termini in sanscrito, in questo modo però il significato
rimane forse meno evidente. Lo spirito assoluto è la forza creatrice universale,
l'OM o il verbo che dir si voglia, il suono articolato primigenio che crea il
mondo. Pronunciando l'OM ci mettiamo in contatto con questa forza, sentiamo
risuonare in noi questo potere.
OM è l'inizio, la prima lettera dell'alfabeto sanscrito, ma forse per molti
occidentali il collegamento più evocativo per capire a quale forza si faccia
riferimento non è con Shiva Nataraja ma con il Vangelo secondo Giovanni, 1,1: in
principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Ovvero quanto
detto anche dalla Genesi 1:3, Dio disse: «Sia luce!» E luce fu. E' la parola, il
verbo, il suono primigenio creatore, che genera la realtà. In questa sede non si
vuole percorrere queste strade, ma semplicemente far comprendere la potenza, la
potenzialità e l'universalità di questi sutra.
OM è anche la parola creatrice intesa come vibrazione o forza pulsante che pervade
l’universo. I moderni induisti creano un collegamento tra l’OM e la radiazione di
fondo che gli scienziati studiano, eco del Big Bang. Quando si canta l’OM, la
sillaba si compone di tre suoni: A, che viene fatto risuanare nell’addome, U, che
sale e vibra nel petto e M, nasale, muta e con la bocca chiusa, che arriva a
vibrare nella testa. Queste vibrazioni mettono in relazione con la vibrazione che
tutto pervade di cui si parlava, che quasi duemila anni dopo Patanjali i seguaci
del Tantra chiameranno spanda.
Cantare l'OM all'inizio e alla fine della propria pratica, cosi’ come si aprono e
si chiudono i versi che compongono i Veda, ha un significato più profondo di quanto
a volte si sospetti.
La prima volta che ho letto questi sutra del primo libro di Patanjali, sono
rimasto sbalordito: sembrava parlare proprio a me. Ritrovare esperienze così
personali in uno scritto dell'India antichissima, mi ha sempre emozionato e
continua a farlo. Patanjali continua a descrivere cosa si intenda per
ricongiungimento tra lo spirito individuale e lo spirito universale (samadhi),
aggiungendo maggiori dettagli sulle modalità della pratica e sugli stati di
coscienza e beatitudine che si verificano. L'autore sembra elencare esattamente
tutti i motivi per i quali si salta un giorno di pratica o cosa accade nei giorni
in cui manca l'intensità raccomandata. E' incredibile l'attualità di queste parole.
Gli infortuni sono al primo posto, inflitti durante la pratica o meno, così come
l'attenzione allo stato di salute generale. L'attenzione al proprio corpo, alla
propria condizione è fondamentale, senza una buona salute è impossibile praticare.
Al secondo posto viene l’apatia, ovvero la mancanza di stimoli, il non trovare
motivi sufficienti. Al terzo posto l’indecisione, ovvero la mancanza di
determinazione, il non sapere cosa fare e come orientarsi nella vita. Quindi,
solamente al quarto, la negligenza, ovvero non fare qualcosa pur sapendo che questo
andrà a nostro detrimento, ma non curarsi delle conseguenze. Di seguito la
pigrizia, cioè l’indulgere nel troppo riposo. Viene ribadito quanto già affermato,
ovvero che lo yoga è solo per chi ha valide motivazioni e ne fa un abito di vita. I
desideri mondani, ovvero la socializzazione di bassa levatura, seguono a breve
distanza, così come tutte le ragioni di attaccamento verso i risultati della
propria pratica. E' normale che la corretta pratica faccia progredire
costantemente, ma non dobbiamo trarre conclusioni affrettate o ossessionarci con i
progressi raggiunti. Il vero praticante di yoga, seppure distaccato dai risultati
della pratica, soffre e vacilla davanti agli ostacoli ai suoi progressi. Sembra
apparentemente una contraddizione, ma ad una più attenta analisi non lo è. E'
importante progredire, rendersi conto del progresso, ma non si deve fare del
miglioramento lo scopo della pratica. Di contro, una pratica senza avere percezione
di progressi è inutile, concetto che nei tempi moderni si tende molto a sfumare.
Accettarsi ed accettare la propria pratica, qualunque essa sia, anche svogliata o
inconcludente, sembra diventato l’unico traguardo. La soluzione, vedremo, sarà
invece solamente una: praticare con intensità secondo il metodo dell’ashtanga yoga,
ovvero con otto strumenti precisi, attraverso otto gradini. L’assenza di pratica o
la pratica scorretta, sono per Patanjali causa di sofferenza, di oscillazioni della
mente.
Ecco che Patanjali fornisce una prima ricetta per proseguire nella via dello yoga.
Ci ha detto: in cosa consiste lo yoga, ovvero nell'arresto delle oscillazioni della
mente e nel distacco dalle cose del mondo, in modo da poter ricongiungere lo
spirito individuale con lo spirito assoluto; ha esposto in cosa consiste lo spirito
assoluto; ci ha detto che serve una pratica intensa; adesso inizia a delineare in
cosa consiste la pratica. Personalmente mi emoziona sentire parlare di sentimenti
di amicizia verso il prossimo e compassione, in uno scritto risalente a 2500 anni
fa. La compassione verso gli ignoranti ed i deboli sarà importante per interpretare
nella giusta proporzione alcune affermazioni successive molto dure nei confronti
delle persone di bassa levatura. Distacco non significa alienarsi dal mondo,
chiudersi dentro una grotta, ma al distacco egli aggiunge l’amicizia verso il
prossimo.
In questi tre sutra Patanjali continua a dispensare riflessioni che ognuno di noi
può ritrovare nella propria pratica. L'arresto delle oscillazioni della mente
assomiglia allo stato che si verifica quando si è ancora svegli, ma si sta per
prendere sonno, quella situazione di sospensione nella quale possiamo essere
richiamati dalla mente verso i pensieri in qualsiasi momento, dal benché minimo
rumore o distrazione, ma che può anche volgere al sonno. Osservare questo stato è
utile a capire la condizione mentale propria della meditazione. Le interpretazioni
esegetiche si dividono significativamente sul sutra 39, come, a dire il vero, su
quasi tutti i sutra di questa sezione. Noi abbiamo interpretato abhimata con il
significato di “come si desidera”, traducendo: "Inoltre nel praticare come più si
addice a se stessi". Un cospicuo gruppo interpreta questo termine come “amore" o
"attrazione” traducendo: “Inoltre meditando/praticando l'amore”, ma questa
interpretazione sembra molto distante dal resto dell'opera. Come sempre la si
riporta per offrire un confronto e per sottolineare che per loro stessa natura i
sutra necessitano di una qualche interpretazione. Quindi attenzione: ognuno deve
praticare come più gli piace e si addice alle proprie caratteristiche, certo,
sempre con intensità e convinzione, ma gli ingredienti della ricetta che Patanjali
rivelerà, possono, anzi devono, essere mescolati a proprio piacimento, non esiste
un modo valido per tutti. Ci aveva già avvertiti che studiare se stessi è
fondamentale, altrimenti non è possibile capire come si deve praticare. Qualcuno
dovrà sfinirsi con la pratica fisica, altri dovranno rimanere immobili nella
respirazione molto a lungo, per alcuni sarà l’impegno morale ad avere la
predominanza, eccetera, eccetera, ad ognuno il suo. Lo sappiamo, i grandi maestri
guidano ogni allievo verso la sua pratica personale e individuale e per ognuno
hanno un percorso differente. Infine, ancora una volta, viene ribadito che, con la
giusta pratica, il nostro spirito individuale potrà ricongiungersi con lo spirito
universale, dominando ogni aspetto del sé.
Gli effetti della pratica sono progressivi. In una prima fase le percezioni che
provengono dalla mente si confondono addirittura con le percezioni che arrivano dai
sensi, si confondono pensiero e input provenienti dai sensi. Successivamente si
riescono ad isolare questi due aspetti. Proseguendo ulteriormente nella via dello
yoga la mente è ancora vigile e le percezioni che provengono dalla sua esclusione,
ovvero che provengono dallo spirito, si mescolano con le percezioni che provengono
da essa stessa, ma sarà comunque un grande progresso, il risveglio dello spirito.
Nell'ultima fase la mente verrà esclusa e lo spirito diverrà il veicolo della
realtà. Queste quattro fasi costituiscono il percorso del ricongiungimento tra
spirito individuale ed universale, il samadhi che da il titolo al primo libro dei
sutra. Per mettere in atto queste quattro fasi della pratica, interveniamo con la
nostra volontà. In quasi tutti i testi la pratica o la meditazione in cui
interviene la volontà vengono chiamate letteralmente “samadhi con seme”.
L'espressione, di per se incomprensibile, diventa quasi un codice tecnico:
personalmente non mi piace, e preferisco tradurla con “ricongiungimento allo
spirito universale con l’intervento della volontà”. Come sempre si offre una
finestra sulle traduzioni alternative molto diffuse per offrire la possibilità di
raffronti. In questo stato, che si raggiunge a questo livello del percorso,
conquistiamo l'immagine chiara di cosa sia lo spirito in noi. Per interpretare il
termine adhyhatma come spirito del Sè, possiamo rifarci alla Bhagavad Gita, 8:3
"L'entità vivente indistruttibile e trascendente è chiamata Brahman, e la sua
natura eterna è chiamata adhyātma, lo spirito individuale".
Gli effetti della pratica sulla mente e lo spirito proseguono in una nuova serie
di fasi che possono essere raggruppate come ricongiungimento tra spirito
individuale ed universale nel quale non c'è intervento della volontà, questa fase
viene chiamata in quasi tutti i testi “samadhi senza seme”. Patanjali si riferisce
ora agli stati più alti di illuminazione. Non è semplicissimo capire esattamente a
quali fasi della pratica si faccia riferimento. Cercando di cogliere l'essenza del
discorso, potremmo dire che subentra alla fine del percorso un livello di
consapevolezza nel quale il ricongiungimento dello spirito individuale con lo
spirito universale durante la pratica e durante la vita, non avverrà più con il
nostro intervento volontario, ma spontaneamente. Un maestro mi disse una volta che,
i primi tempi in cui riusciva a raggiungere il samadhi, lui aveva necessità di ore
ed ore di pratica, poi, dopo molti anni, gli succedeva un meccanismo simile a
quando ci distraiamo, si ritrovava in uno stato di estasi senza sapere come, se non
rendendosene conto quando rientrava in se stesso. Credo Patanjali si riferisca ad
un meccanismo di questo tipo.
Fiumi d'inchiostro sono stati spesi interrogandosi se il pensiero di Patanjali sia
dualistico o non dualistico, ovvero se la divinità o lo spirito assoluto pervada il
mondo e le persone oppure se sia un'entità differente. Generalmente prevale
l'interpretazione dualistica, contrapponendo lo yoga di Patanjali all'Hata yoga
tantrico che sarebbe invece puramente non dualistico. Non siamo d'accordo con
questa visione. Patanjali indica chiaramente che lo spirito individuale sia della
stessa sostanza dello spirito universale al quale infatti si ricongiunge. Il
pensiero dualistico a cui siamo abituati è quello cristiano, per il quale uomo e
Dio padre e creatore sono unità esattamente distinte e l'uomo al massimo della sua
evoluzione può aspirare solamente a contemplare Dio. Il pensiero di Patanjali è
molto lontano da questo tipo di dualismo e sarà poi ripreso, quasi due millenni
dopo, dal pensiero Tantrico e mosso ancora più avanti sulla via del non dualismo.
Per i testi tantrici non c'e' necessità neanche di una purificazione in quanto lo
spirito assoluto è già presente nell'uomo così come deve essere. Parlerei di
evoluzione storica del contesto tra il raja yoga di Patanjali e l'hata yoga
tantrico e non di contrapposizione. Questa contrapposizione è sorta in realtà tra i
sostenitori delle due scuole nell'India moderna, scuole che sostengono la maggior
importanza della pratica individuale (hata yoga) rispetto agli aspetti sociali e
religiosi (raja yoga), ma le sfumature sono molte, stiamo semplificando. Nel
secondo libro Patanjali fornirà una descrizione della via e delle modalità che
costituiscono il percorso dello yoga.
Il secondo libro dei sutra di Patanjali è forse quello più dibattuto, in quanto si
entra nel vivo della pratica dello yoga ovvero si affrontano gli strumenti che
condurranno il praticante sulla strada del ricongiungimento, trattato nel primo
libro. In particolare, nella prima parte del secondo libro, vengono gettate le basi
imprescindibili per affrontare poi la trattazione delle singole componenti della
pratica dello yoga. Patanjali affronta le domande che sono insite nell'uomo, in
tutte le epoche: le cause dell' infelicità, le conseguenze delle nostre azioni e il
senso del mondo ovvero quale è lo scopo della nostra vita. Non sono temi da poco.
Staremo particolarmente attenti a non dare interpretazioni preconcette. Giungiamo
poi alla formulazione dell’ashtanga yoga, ovvero lo yoga degli otto passi. Otto
gradini successivi, ma permeati tra loro, che compongono la pratica giornaliera.
Regole di comportamento, pratica fisica, meditazione, fino ai livelli più elevati.
Il secondo libro degli Yoga Sutra di Patanjali è un viaggio meraviglioso nello yoga
della tradizione più antica.
Patanjali Yoga Sutra, Libro Secondo
Sadhana Pada
Capitolo sugli strumenti
Il Krya Yoga della Gita e di Patanjali non deve essere confuso con lo stile di
yoga del maestro Yogananda, vissuto ad inizio 900, e della tradizione alla quale
egli si ispira. Egli divenne famoso per la sua predicazione negli Stati Uniti e per
il racconto dei propri e altrui innumerevoli miracoli pubblicato nel libro
“Biografia di uno yogi”. Egli chiamò così il suo stile di pratica in onore a queste
due tradizioni antiche, ma il suo pensiero è lontano da queste.
Nel primo sutra sono definiti i mezzi da impiegare sulla via dello yoga. Nel
secondo sutra è definito lo scopo dello yoga. Lo yoga sappiamo consiste nella
cessazione delle oscillazioni della mente, ottenuta con i mezzi di cui dicevamo e
il cui obiettivo è l’eliminazione dell’infelicità e la scoperta e l’elevazione del
proprio spirito. Ma cosa è l’infelicità? Da cosa è prodotta?
YSII:3. Avidya asmita ragadvesa abhinivesah klesah
L'infelicità è prodotta da: ignoranza, egoismo, attaccamento, odio e paura della
morte.
YSII:5. Anitya asuci duhkha anatmasu nitya suci sukha atmakhyatir avidya
L'ignoranza è considerare eterno ciò che è caduco, puro ciò che è impuro, piacere
ciò che arreca dolore e confondere il proprio spirito individuale con ciò che non
lo è.
Quali sono quindi le cause di sofferenza che andremo a mitigare grazie allo yoga,
sulla strada del ricongiungimento con lo spirito assoluto? L'ignoranza è la causa
di tutti i mali. Le cause di infelicità qui elencate sono molto simili ai tre
veleni del buddismo: ignoranza ovvero avydia, attaccamento e odio. Qui Patanjali
aggiunge egoismo, ovvero asmita, e paura della morte. Questi aspetti saranno
dettagliati nei prossimi sutra.
L'ignoranza non comporta solamente la non conoscenza delle cose, rispetto alla
quale non si possiedono semplicemente gli strumenti o le nozioni, questo sarebbe
comunque un male più tollerabile rispetto ad interpretare il mondo in modo errato e
contrario alla sua forma corretta. Chi è ignorante rispetto allo spirito non si
limita a non conoscere, ma ha una sua conoscenza errata che ritiene vera. La sua
vita diventa quindi misera, più misera degli animali che si limitano a non
comprendere. Il giudizio di Patanjali sulle persone ignoranti appare qui spietato,
sono persone che infliggono sofferenza a se stessi e agli altri. II sutra I:33,
l'affermazione che la via dello yoga consiste anche nel mostrare compassione verso
i deboli, mitiga forse in parte questo giudizio.
Ignoranza è per l'autore non solo “non conoscere”, nel significato di mancare di
erudizione o di apprendimento in qualcosa di codificato, come intendiamo spesso nel
senso comune, ma “non conoscere” anche come “non sentire” a livello spirituale.
Ignoranza è non avere nozione di come contemplare la propria parte spirituale o,
ancora peggio, identificarsi con i pensieri ed il corpo (indetificarsi con l'a-
atman, il “non spirito individuale”). Questo è un concetto fondamentale per
Patanjali da cui si comprende l'importanza della pratica, che conduce ad una
conoscenza, che si estende su vari gradi, per evitare una vita di miseria ed
ignoranza.
Arriviamo quindi alle ultime due cause di infelicità: attaccamento e paura della
morte. Viene ribadita la necessità di abbandonare l'attaccamento alle cose del
mondo e quindi ai concetti di piacere e dolore, perché effimeri. Il piacere e la
sua ricerca generano aspettative e di conseguenza sofferenza. Paradossalmente
ricerca del piacere e paura del dolore hanno la stessa natura, sono fughe nel
futuro per ritrovare qualcosa del passato, che ci impediscono di vivere il
presente.
Infine la paura della morte è per Patanjali la causa di infelicità più connaturata
all'uomo, tanto che può rifarsi viva in qualsiasi momento, anche dopo aver condotto
una vita nella pratica e nella saggezza. Seppure sia una forma di attaccamento,
l'autore ritiene importante comunque citarla, forse perché lo tocca da vicino.
Oltre ad essere una forma di attaccamento alle passioni della vita, è anche una
forma di ego, l'unica cosa che va a morire con la morte fisica è infatti l'ego,
riflesso della nostra mente, lo spirito è per Patanjali eterno, lo sappiamo.
Come dicevamo Patanjali sta procedendo dal macroscopico verso il particolare, nel
primo libro ha trattato il ricongiungimento (samadhi), ora ci parla della
meditazione (dyhana); come vedremo tra poco, questi sono rispettivamente ultimo e
penultimo elemento tra gli otto che costituiscono la pratica dello yoga.
L'infelicità causata da ignoranza, ego e attaccamento, può essere contrastata e
vinta con un processo particolare: riconducendo l'effetto alla causa originaria
(prati-pasav). E' un principio conosciuto ed applicato in molti ambiti, anche
quando la psicanalisi riporta il paziente alla propria infanzia, per superare i
traumi che hanno causato l'infelicità. Fino a che non si va alle radici, il
problema non può essere risolto. Andando a ritroso Patanjali afferma che la causa
prima di tutte le afflizioni è la mancanza di consapevolezza, l'ignoranza. E'
quindi necessario portare consapevolezza nella propria vita, essendo presenti in
ogni momento e consapevoli del proprio spirito. Per poter vedere la nostra parte
spirituale viene in soccorso la meditazione, componente finale della pratica yoga,
alla quale si arriva dopo aver praticato gli altri sei passi, la parte di rispetto
delle regole etiche, quella più fisica, o meglio esteriore, costituita da posizioni
e respirazione, quella maggiormente interiore di cui fa parte la meditazione stessa
e conduce il praticante all'ottavo e più importante passo, il ricongiungimento con
lo spirito assoluto. Ma non anticipiamo i temi della seconda parte del capitolo
presente.
YSII:15. Parinama tapa samskara duhkha ir guna vrtti virodhacca duhkham eva sarvam
vivekinah
La persona consapevole sa che l'infelicità è causata dai mutamenti e dai conflitti
generati dalle cinque cause della sofferenza.
YSII:18. Prakasa kriya sthiti silam bhutendriya atmakam bhoga apavarga artham
drsyam
Ciò che viene osservato possiede le qualità della beatitudine e quindi può dare la
liberazione dalla sofferenza.
Fin dai commentari più antichi gli studiosi hanno cercato di interpretare quali
fossero le sette regioni che conducono al potere di conoscere, all'illuminazione.
Dai commentatori antichissimi come Vyasa, il rishi veggente, fino ai giorni nostri
ognuno ha dato una propria spiegazione. Vyasa ad esempio ha enumerato questi sette
passi secondo una sua visione molto particolare. Ammettiamo che il passaggio sia
ermetico e lasci dei sottintesi, ma l'interpretazione più lineare inerente alla
pratica dello yoga, secondo chi scrive, è quella che fa riferire le sette regioni
alla purificazione dei sette chakra ovvero alla tradizione ayurvedica, oggi ben
conosciuta. Secondo questa visione alcune impurità e alcuni blocchi non permettono
all'energia di scorrere dal primo centro energetico del corpo, alla base della
spina dorsale, fino al settimo centro energetico alla sommità della testa, quando
l’energia individuale si ricongiunge con l'energia che tutto pervade. Questo
significato sembra anche rafforzato dal sutra successivo: lo yoga serve ad
eliminare le impurità, che bloccano il fluire dell’energia e una volta fatto questo
lo spirito e l’energia non hanno più confini. Rimandiamo questa tematica alla
sterminata letteratura sui chakra e la cosiddetta anatomia sottile, qui sarà
sufficiente constatare che per Patanjali le pratiche dello yoga, gli otto passi
descritti nel prossimo sutra, permettono la liberazione dei centri energetici e
l'illuminazione spirituale, in linea con tutta la tradizione successiva dell'Hata
Yoga e del risveglio di Kundalini.
Solitamente questi primi 28 sutra vengono letti in modo precipitoso, perchè subito
dopo inizia l'elenco dei passi dello yoga ovvero l'enunciazione dell'Ashtanga Yoga,
ma, se ci soffermiamo un attimo, possiamo capire quanta saggezza ci sia in questa
prima parte, seppure, innegabilmente, i successivi sutra siano il cuore dell'opera
di Patanjali.
Inevitabilmente, il commento a ogni singolo aspetto che compone lo yoga, sarà più
esteso di quanto fatto per il resto dell'opera; Patanjali utilizza spesso un solo
termine per significare un concetto, che va necessariamente contestualizzato. Fino
a questo momento inoltre non abbiamo mai lasciato termini in sanscrito nella
traduzione, per non appesantire il discorso e non rimandare a successive
definizioni; per gli otto passi dell'Ashtanga Yoga faremo un'eccezione in quanto
sono termini a cui tutti gli yogin si riferiscono comunemente e che sono diventati
veri e propri monumenti. Ogni singolo termine ha dato luogo a sterminate
disquisizioni, ma il filo del discorso è, in questa seconda parte del secondo
libro, piuttosto lineare.
Entra ora nel vivo la trattazione analitica di tutti e otto gli elementi
costitutivi dello yoga. Iniziamo quindi con le norme di comportamento, etiche
ovvero yama e morali ovvero nyama. Il percorso dello yoga è sicuramente un
percorso di crescita individuale interiore, l'obiettivo finale è dentro di noi,
eppure il primo gradino sono le norme “sociali”, esterne a noi. Anche l'asceta non
può vivere scollegato dalla società che lo circonda, al contrario lo yogin deve
influenzarla positivamente ed agire nel sociale. Gli appassionati di questo
messaggio troveranno nella Baghavat Gita una lettura entusiasmante, in particolare
nel commentario di Sri Aurobindo, fermo sostenitore dello yoga delle opere.
Il secondo precetto delle regole etiche è Satya, termine sacro in tutto l'oriente,
che significa “la Verità”, concetto che si spinge un po' oltre alla verità di
pensiero, parola ed azione, oltre al vivere senza menzogna ed essere se stessi.
Satya, Verità, è uno dei nomi di Visnù. Le quattro nobili verità sono il principio
chiave del Buddhismo, duhkha-satya: verità del dolore; samudaya-satya: verità
dell'origine del dolore ; nirodha-satya: verità della cessazione del dolore; marga-
satya: verità della via che porta alla cessazione del dolore. Se ne potrebbe
parlare a lungo, ma credo che il significato profondo risuoni nel cuore di ognuno
di noi.
Il termine asteya, onestà, può avere varie sfumature: dal semplice non rubare al
non desiderare le cose degli altri, dal non essere avari ad abbandonare il concetto
di “mio”, eccetera. Brahma-charya o morigeratezza, comporta il non abbandonarsi
alle passioni, ma in realtà il termine composto significa letteralmente “condotta
in armonia con lo spirito assoluto”, quindi anche in questo caso il concetto va
leggermente oltre la continenza sessuale o alimentare, di cui però costituisce
l'inizio. Aparigraha, quinto e ultimo precetto etico, è il non-possesso ovvero il
possedere solo l'indispensabile. Ai monaci buddisti è concesso di possedere la
veste da indossare e la ciotola con la quale ricevere le offerte e sfamarsi. In
questo caso il necessario è ridotto "all'osso", ma ho conosciuto monaci, anche in
vista, che avevano nella stanza l'impianto Hi-Fi e questo non li rendeva
sicuramente dei trasgressori, ma il concetto alla base del precetto è anche che nel
tempo cambiano le necessità e che comunque ci sono delle priorità che devono avere
la precedenza rispetto al possesso, ad esempio legate ai primi quattro yama più
importanti rispetto ad aparigraha.
Patanjali sembra aggiungere a margine: “non cercate scuse invocando principi sopra
di voi”. Come dicevamo, l'infrazione può essere giustificata esclusivamente dal
rispetto di uno dei principi più elevati, di cui la non violenza è quello più
elevato di tutti, che non può essere mai infranto. Non è possibile trovare
giustificazioni all'infrazione invocando “i tempi correnti”, ovvero affermare che
oggigiorno ormai è anacronistico rispettare una certa prescrizione o che la società
si è evoluta percui rubare è diventata la prassi oppure addurre una giustificazione
legata al luogo in cui ci si trova, addossando agli usi e costumi di un certo paese
le nostre infrazioni. Quindi non possiamo appellarci nemmeno alle circostanze
contingenti, lo scoppio di una guerra o una catastrofe, oppure, molto importante,
al ruolo che si occupa nella società. Patanjali indica questo concetto con termine
“jati”, che fa riferimento alle caste, ovvero non è possibile giustificare la
cattiva condotta adducendo come scusa la propria casta o condizione sociale, le
caste a nostro giudizio esistono in ogni tempo e in ogni luogo. Banalizzando essere
poveri non giustifica rubare, avere fame non giustifica mangiare carne, eccetera.
Se siamo militari non siamo legittimati a fare violenza o uccidere a meno che il
nostro operato non scongiuri violenze più grandi, non si deve eseguire
incondizionatamente gli ordini, ma valutare i motivi delle azioni. Allo stesso modo
è esecrabile, in ogni caso, svolgere compiti che comportano sofferenze evitabili a
uomini o animali. Per questo motivo determinati mestieri, come il conciatore, in
India sono svolti quasi esclusivamente da persone che hanno altri valori di
riferimento, musulmani o persone fuori casta oppure che si sono rassegnate ad una
vita grama, intoccabili.
La purezza a cui rimanda il primo precetto che dobbiamo rispettare verso noi
stessi, sauca, è la purezza di corpo, mente e spirito generata dal percorso
attraverso i sette chakra ed al conseguente fluire dell'energia, coerentemente con
l'interpretazione che avevamo fornito nei sutra precedenti (YSII:27). Questa
purezza si raggiunge con la pratica di tutti gli otto passi dello yoga. Quindi, in
questa chiave, il più importante precetto morale è di praticare. Senza pratica non
c'e' yoga. Il termine può rimandare anche ad una purezza meno elevata, intesa come
igiene personale e dei luoghi di pratica, in questo contesto di massimi sistemi
sembra fuori argomento un tale riferimento, ma in India molti maestri citano il
concetto di sauca in rapporto all'igene. In realtà questo è coerente con lo schema
dei cinque corpi, da quello fisico a quello spirituale, propri del pensiero Indiano
ed ayurvedico, cui sauca si riferisce. E' una purezza complessiva quella che ne
risulta.
La disciplina o tapah, è, come abbiamo visto uno dei principi chiave della
pratica, ovvero l'intensità. Letteralmente significa calore, il calore che brucia
le impurità del corpo e della mente. Nel Rig Veda acquisirà il significato di
austerità. Allo stesso modo sia lo studio di se stessi che l'abbandono allo spirito
superiore o isvara sono concetti sui quali Patanjali già si è espresso. Come
sappiamo la pratica deve essere adattata alle esigenze personali e consiste in un
intenso e metodico esercizio lungo la via degli otto passi. In alcuni casi, proprio
quando l'obiettivo finale di ricongiungimento con lo spirito superiore sembra
precluso, al massimo dell'impegno, può essere necessario abbandonarsi.
Vengono ora elencati gli effetti della pratica dei principi di yama e nyiama.
Questo passaggio può essere inteso con un duplice significato. Il primo è che
essendo noi stessi solidi nella qualità della non violenza indurremmo gli altri a
non essere violenti. Il secondo è che se tutti praticassero la non violenza nessuno
sarebbe ostile contro il prossimo perché verrebbe meno il motivo del contendere.
Entrambe le interpretazioni mi sembrano coerenti, accettabili e partecipi dello
stesso disegno che Patanjali sta tracciando tra precetti verso se stessi e verso la
società.
Questo sutra è spesso invece tradotto con una terza sfumatura ovvero che la sola
presenza dello yogin saldo in aimsha è sufficiente a disinnescare i conflitti,
semanticamente correttissimo, ma, a giudizio di chi scrive, leggermente limitante.
Il significato proposto è, crediamo, più generale e di senso comune.
YSII:36.Satya-pratisthayam kriya-phalasrayatvam
La solidità di satya, la verità, farà conseguire i frutti dell'azione senza agire.
Colui che è illuminato dalla verità riesce a trasmetterla agli altri rendendo
inutile qualsiasi azione. La verità è il fine ultimo. Quando la verità illumina
tutte le persone il fine è già raggiunto, non c'e' bisogno di ulteriori azioni.
Analogamente a quanto detto relativamente al verso precedente, non interpretiamo
questo sutra con la sfumatura che la sola presenza dello yogin basti a influenzare
le situazioni senza agire, infondendo la verità. Questa interpretazione porta poi
come estremizzazione ad affermare che la sola presenza del guru, del maestro, sia
sufficiente ad illuminare i discepoli. Patanjali non crediamo voglia dire questo, e
tale principio seppure esalti il ruolo del guru, limiterebbe il senso della
pratica, in contrasto con quanto sin qui esposto.
L'onestà è in realtà essa stessa una ricchezza, percui una volta raggiunta
un'onestà senza tentennamenti o la comunione con le persone con le quali viviamo,
saremo già ricchi. Allo stesso modo l'energia non si consegue soltanto bruciando,
trasformando altre energie, ma anche risparmiando queste.
YSII:44. Svadhyayad-ista-devata-samprayogah
Svadhyaya, lo studio di se stessi‚ porta a percepire la propria parte spirituale
individuale.
Patanjali elenca ora i frutti delle cinque osservanze delle norme morali verso se
stessi. La pratica, il cui scopo è la purificazione, porterà al distacco dalle cose
del mondo e la possibilità di accedere alle successive qualità. Il ragionamento è
motlo lineare.
La pratica porta alla purificazione, si superano cioè gli elementi grossolani del
proprio essere, si acquisisce sottigliezza, raffinatezza, si diviene “il tempio
dell'essere surpemo” a cui ci si ricongiunge. Alcuni osservano giustamente che
l'atteggiamento di Patanjali non è moralistico, egli non afferma di non nuocere al
prossimo e di rispettare gli altri precetti perché esiste una legge superiore, ma
solamente con lo scopo di purificare se stessi e trascendere il proprio spirito. La
punizione è una vita infelice in questo mondo e le cattive conseguenze delle nostre
azioni.
Avendo regolato le norme di comportamento verso noi stessi e verso gli altri,
possiamo giungere all'obiettivo finale dello yoga ovvero il samadhi, il
ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito superemo. Se questi
fossero visti unicamente come passi successivi, non avremmo necessità di aggiungere
altri passi alla nostra pratica. Come abbiamo detto più volte, sono passi
successivi, ma si influenzano l'un l'altro favorendo il raggiungimento degli
obiettivi. Le successive pratiche concorreranno al conseguimento di yama e niyama.
E' stato dibattuto se gli spiriti illuminati potrebbero non avere necessità della
pratica costituita dai successivi passi sulla via dell'ashtanga yoga, ma la
questione non ci sembra di particolare interesse.
Rullo di tamburi... ecco che Patanjali arriva a parlarci delle asana (posizioni),
della respirazione e della meditazione. Secondo molti questa è la parte più
avvincente e poetica dell'intera opera. Questi aspetti specifici della pratica
saranno ripresi dalle opere classiche successive, come ad esempio l' Hatha-Yoga
Pradipika, la Gheranda Samhita e la Shiva Samhita, datate intorno al 1400 DC,
approfonditi e trattati in modo più analitico. Poco dopo la redazione dell'Hatha-
Yoga Pradipika si creeranno due scuole principali di yoga, il Raja Yoga,
focalizzato in modo uniforme su tutti gli otto passi dei sutra di Patanjali e
l'Hata Yoga, incentrato maggiormente su asana, pranayama e meditazione. Oggi giorno
nel mondo, India compresa, l'impostazione dell'Hata Yoga è predominante. Stiamo
parlando comunque di sfumature, tutte le scuole di yoga del presente e del passato
raccomandano che si faccia ordine nella propria vita per dedicarsi alla pratica
delle asana o alla meditazione, semplicemente perché, come sanno tutti i
praticanti, una vita caotica e sregolata rende estremamente difficile già solamente
sedere a gambe incrociate. A volte iniziare la pratica può però rappresentare uno
stimolo per cominciare anche il processo di revisione del proprio comportamento.
Come sempre i passi del percorso sono successivi, ma integrati e collegati.
"Pratica e tutto il resto seguirà", la famosa frase del maestro Pattabhi Jois, è da
interpretarsi secondo me in questa direzione.
Sappiamo dalla precedente esposizione del concetto di tapah, che la pratica deve
essere intensa, ma a completamento del quadro d’insieme, si aggiunge ora che le
asana devono mirare a diventare solide e comode. Patanjali non è un ginnasta,
avendo spiegato l'unione tra mente, corpo e spirito, indica come la grazia del
corpo permetta di raggiungere la grazia della mente con cui iniziare a intravedere
la grazia dello spirito. Passo dopo passo sempre più in profondità dentro noi
stessi, sempre più verso l'alto, verso percezioni sottili ed elevate. Le asana non
devono indurre sofferenza al corpo, ma essere stabili e confortevoli, non si parla
di contorsioni o di forzare il fisico, ma di una zona di confort. Di contro,
Patanjali afferma che stabilità e semplicità di esecuzione si realizzano
abbandonando lo sforzo verso uno scopo, prayatna, quindi presumibilmente,
precedentemente l'intensità richiesta era dovuta in parte ad uno sforzo e ad uno
scopo, che però si deve mirare ad abbandonare e a trascendere. Sukham è la forza
che nasce dalla stabilità. Cercando una sintesi potremmo dire che la pratica deve
andare verso l'intensità nella stabilità e mai verso la tensione. Secondo questo
precetto si avrà un'evoluzione naturale verso posizioni che portano il corpo ad una
maggiore intensità qualora si raggiunga una mancanza di intensità nelle stesse, ma
mirando sempre ad una stabile e forte esecuzione. E' anche chiaro che in questa
ottica, non esistono due persone che eseguiranno la stessa posizione allo stesso
modo e che solamente noi stessi possiamo capire la giusta intensità.
Le asana portano alla beatitudine generata dal superamento delle sensazioni e dei
sentimenti, alla libertà che solo chi pratica ha sperimentato. Grazie alle asana si
giunge ad un benessere assoluto oltre gli aspetti fisici o mentali, oltre le coppie
di opposti, il caldo e il freddo o il piacevole e spiacevole, oltre i concetti di
bene e male, rilasciando ogni sforzo e percependo l'infinito. Questo è il concetto
che il Buddha Siddharta, che visse dopo Patanjali, indicherà come la via di mezzo,
majhim nikaya. Il viaggio solitamente inizia dal corpo e pervade la mente e lo
spirito, ma la distinzione è fittizia e il percorso soggettivo. Le posture fisiche
sono il mezzo per giungere al distacco dalle cose materiali e capire che abbiamo in
noi qualcosa di molto grande e molto elevato. Gli Yoga Sutra sono una perla di cui
tutti gli yogin devono essere grati.
Un'osservazione che muovono spesso i sostenitori del Raja Yoga è quella che
Patanjali non avrebbe dedicato molto spazio alle asana o almeno ne dedicherebbe
meno rispetto l'importanza attribuita ad esse dagli "eretici" fautori dell'Hata
Yoga. "Patanjali non cita nemmeno una posizione!" rincarano. Per bilanciare il
discorso, basti ricordare che, secondo il mito, lo yoga è stato ideato da Shiva,
dopo una meditazione di migliaia di anni e carpito da Matsyendra, il signore dei
pesci, per donarlo agli uomini, quando il Dio lo stava insegnando a sua moglie
Parvati. Lo yoga ideato da Shiva consta di otto milioni e mezzo di asana, o un po'
meno a seconda delle versioni. Il mito vuole chiaramente dirci che le posizioni
dello yoga sono tutte le posizioni che il corpo può assumere. Questo concetto unito
a quanto affermato in precedenza da Patanjali, cioè che la pratica deve essere
personale e secondo il modo che piace di più allo yogin, ci fa capire che un elenco
di posizioni avrebbe poco senso all'interno di questa opera.
YSII:50. bahya abhyantara stambha vettir dea kala saokhyabhi parideo dirgha sukemai
Quando si osserva attentamente la durata e la frequenza di inspirazione,
espirazione o ritenzione, i respiri diventano sempre più prolungati e sottili.
YSII:51. bahya abhyantara visayaksepi caturthah
A questo punto si trascendono inspirazione, espirazione e ritenzione in una quarta
tipologia di respirazione.
Inspirare, espirare e sospendere per alcuni attimi il respiro tra l'uno e l'altro,
è un gesto meccanico, portare consapevolezza su questo atto è già un passo
importante. Lavorare sull'espansione ed il potenziamento del respiro è un punto
cruciale dello yoga di Patanjali, ma di qualsiasi scuola di yoga. Il pranayama, gli
esercizi di respirazione, o, meglio, gli esercizi di controllo dell'energia,
portano a prolungare sempre dippiù le varie fasi della respirazione, rendendo
lungo, flebile e uniforme ogni respiro. Molte opere successive indicheranno una
serie di tecniche di condizionamento del respiro da molto semplici a molto
complicate, ma come ormai abbiamo visto, a Patanjali non interessano i dettagli
tecnici, lui indica la strada anche ai maestri, loro sapranno come seguirla e
condividerla.
Ora la pratica dello yoga si sposta completamente all'interno di ognuno di noi. E'
una semplificazione e in realtà il confine non esiste, ma questa semplificazione
può aiutare a comprendere questo ulteriore passaggio. Con l'illuminazione dovuta
all'eliminazione del velo che offusca la percezione della realtà, è divenuto
possibile contemplare la nostra parte spirituale, il nostro spirito individuale e
su di esso spostare la nostra concentrazione. A questo punto siamo completamente
assorbiti verso il nostro interno, i sensi e ciò che è esteriore sono tagliati
fuori. Pratyahara, che abbiamo sempre tradotto con il ritiro dei sensi, è
interpretabile, in modo molto letterale, anche come "il ritorno alla sorgente", il
ritorno verso lo spirito assoluto da cui il nostro spirito individuale proviene, di
cui Patanjali ha trattato approfonditamente nel primo capitolo, si è preferita la
prima traduzione perchè di più immediata comprensione. Questo è l'inizio del
viaggio interiore dello spirito individuale verso lo spirito assoluto, che
terminerà con il samadhi ovvero il ricongiungimento dei due. Le persone o i santi
uomini che stanno sedute a gambe incrociate per ore, per giorni, per anni, sono
immerse in questo viaggio che inizia con il rivolgimento verso l'interno e il
distacco dai sensi. Meglio ancora, che inizia comportandosi con regolatezza,
praticando le asana e uniformando il respiro alla vibrazione dell'universo per poi
giungere dentro ognuno di noi. In realtà non c'è più contrapposizione tra interno
ed esterno, ogni cosa è al suo posto e si prosegue il cammino con quello che per
semplicità espositiva potremo considerare come una fase successiva, approfondita da
Patanjali nella prima parte del terzo libro.
di Marco Sebastiani
Il terzo libro degli Yoga Sutra di Patanjali tratta dei risultati che si conseguono
con la pratica dello yoga, intesi anche come obiettivi finali e livelli più alti
della pratica stessa. Personalmente è un libro che ritengo di grande ispirazione.
Il terzo libro tira le fila di quanto detto finora e probabilmente per questo
motivo evidenzia in modo particolare la coerenza del discorso e le interpretazioni
applicate sino a questo punto. L'idea di pubblicare una nuova traduzione degli Yoga
Sutra è nata proprio dalla lettura di molte versioni del terzo libro che
interpretavano questi passi come il conseguimento di "superpoteri", come
l'invisibilità o la telepatia, raggiunti mediante la meditazione su questo o quel
punto focale. Vedremo che approcci alternativi non sono solo possibili, ma sono
forse più coerenti con quanto enunciato sin qui dall'autore.
Una completa ed intensa pratica di tutti e otto i passi fondamentali descritti nei
capitoli precedenti permette di raggiungere alcuni traguardi. Intendiamo lo yoga
oggetto della trattazione di Patanjali come un'attività prettamente esperenziale,
legata alla pratica e non un'attività filosofica, speculativa, teorica o religiosa.
In particolare, crediamo che gli obiettivi indicati dall'autore siano strettamente
legati alla pratica e non di natura sovrannaturale. Gli obiettivi della pratica non
sono superpoteri, ma doti fisiche, mentali e soprattutto spirituali. In
quest'ottica l'opera ci appare una grandissima fonte di ispirazione, molto attuale,
un dono per tutti gli yogin.
Gli ultimi sutra del III libro di Patanjali cercano inoltre una risposta alle
domande ancestrali dell'uomo: chi siamo, qual'è il senso della vita, cosa è la
realtà che ci circonda. La pratica dello yoga, secondo l'autore, fa chiarezza su
questi aspetti, una volta arrivata alla sua massima vetta. Questi sono i doni
finali che si possono conseguire, prima della grande liberazione finale, argomento
del quarto libro, quando non sarà più necessaria nemmeno alcuna pratica.
Ma veniamo ora al testo. Patnjali, alla fine del secondo libro, stava enunciando
gli ultimi due passi degli otto che costituiscono il suo Ashtanga Yoga
(Ashta=otto, anga= passi), ovvero la concentrazione e la meditazione. Il discorso
riprende da questo punto senza soluzione di continuità, introducendo poi anche
l'ultimo passo, il ricongiungimento dello spirito individuale con lo spirito
assoluto, questi ultimi tre gradini essendo gli strumenti più elevati di tutta la
pratica.
Vibhuti Pada
Capitolo sui doni
Questi tre passi sulla via dello yoga, dharana, dhyana e samadhi, hanno conseguenze
interiori più profonde se paragonati ai cinque che li precedono.
Arrivati quindi a percorrere tutti e gli ottto passi della via dello yoga e in
particolare grazie alla perfetta integrazione degli ultimi tre, giunti al samadhi,
si giunge alla massima consapevolezza spirituale, obiettivo finale dello yoga.
Questo stato finale ha comunque a sua volta dei gradini e dei livelli. Il samadhi
può essere intuito, sperimentato per brevi momenti oppure in modo stabile e
sistematico. Nulla si compie d’improvviso, ma tutto è invece risultato di un
processo lungo e costante.
Dicevamo che non convicne la divisione tra aspetti fisici ovvero i primi cinque
passi e aspetti spirituali, ovvero gli ultimi tre gradini, perché induce una
separazione che non è propria dell'autore. Patanjali afferma tuttavia che dharana,
dhyana e samadhi sono aspetti della pratica che portano lo yogin a una maggiore
introspezione rispetto ai passaggi precedenti, questo è un dato di fatto. Le norme
di comportamento, ma soprattutto asana, respirazione e introspezione, comportano
l'uso dei sensi e del pensiero che invece successivamente tenderemo gradualmente a
superare. Preso contatto cosciente con “l'nteriorità” e i flussi di energia, il
praticante può dedicarsi all’uso dei mezzi soggettivi e intimi. Come spesso accade
ritengo che questi passaggi appaiano più chiari a chi pratica yoga rispetto a chi
si occupa dei sutra da un punto di vista puramente filosofico.
Patanjali ritorna poi a ribadire quanto già accennato alla fine del primo libro,
ovvero che esistono due tipi di ricongiungimento con lo spirito universale, o
samadhi, uno meno elevato che si raggiunge grazie all'intervento della volontà,
perché perseguito e ricercato, ed uno più elevato, che si consegue senza
l'intervento della volontà, involontariamente. Questo ultimo stadio rappresenta la
massima introspezione possibile nella quali si riesce ad osservare la propria parte
divina o meglio ci si fonde con la divinità presente in se stessi. Soggetto
contemplante ovvero me stesso e oggetto contemplato, ovvero ciò che sento, ciò che
emerge dall'esclusione della mente, lo spirito, diventano una cosa sola.
I sutra tra 9 e 12 sono tra i più controversi di tutta l'opera, non annoieremo il
lettore con una panoramica delle interpretazioni. Operando qualche semplificazione
diremo che l'oggetto di cui si sta parlando è l'evoluzione delle fasi di controllo
della mente, della consapevolezza e dello spirito. Particolarmente difficile è la
transizione dalla concentrazione alla meditazione ovvero l'acquietazione definitiva
delle oscillazioni della mente, definizione dello yoga stesso secondo quanto
affermato nell'apertura dell'opera: yoga citta vritti nirodha, lo yoga consiste
nella cessazione delle oscillazioni della mente. Il passaggio tra concentrazione e
meditazione è difficile e cruciale nella pratica. Chi pratica lo sa bene ed è il
motivo per il quale è generalmente necessario prepare questo passaggio con intensi
asana e pranayama. Patanjali suggerisce che riusciremo a sperimentarlo
sistematicamente e a portare avanti la meditazione per un periodo sufficientemente
lungo e costante, senza essere richiamati indietro dalla concentrazione su alcun
aspetto o elemento, grazie ancora una volta all'esercizio di una pratica costante.
Questo esercizio eviterà che si interrompa la meditazione per tornare nuovamente ad
uno stato di concentrazione e quindi di attenzione su qualcosa.
Vengono comprese tutte le cose, siano esse latenti, attive o non manifeste.
Si entra quindi nel vivo della trattazione dei risultati che la via dello yoga
permette di ottenere, come indicato dal titolo stesso del presente capitolo. Il
raggiungimento dello stato finale della pratica, permette di conoscere la vera
essenza del mondo e di vedere sotto una nuova luce la realtà, di approcciarsi in
modo differente a ciò che ci circonda. Oltre al mondo materiale, si comprendono
anche gli aspetti spirituali e le leggi che li regolano.
La pratica porta alla comprensione delle parole di tutti gli uomini, del loro
significato e della loro essenza spirituale.
E' possibile interpretare questo sutra anche in un altro senso, più religioso, nel
senso che diventa possibile comprendere il Verbo, il suono primigenio ed il suo
significato. Non convince però questa interpretazione perché il termine usato per
parola è sabda e non ad esempio om, ananat o simili. Si riporta questa
interpretazione perché per alcuni autori è fondamentale per capire addirittura
tutta l'opera di Patanjali, o meglio forse, del significato che a questa loro
vogliono attribuire.
Patanjali, con buona pace di chi definisce il suo approccio come scientifico o la
sua opera come laica, è chiaramente immerso nel pensiero induista del suo tempo e
non potrebbe essere altrimenti. Ogni autore è sempre figlio del suo tempo e la sua
opera va inquadrata nel suo periodo storico. Per tutti gli induisti, da sempre, un
chiaro sintomo di elevazione spirituale è avere cognizione delle proprie vite
precedenti. Secondo questo pensiero, l'uomo comune non ha percezione della
trasmigrazione e dell'evoluzione che la propria anima ha compiuto in altri esseri,
mentre l'uomo illuminato ricorda qualcosa delle vite precedenti. Sono molti i casi
in cui si porta a dimostrazione della santità di una persona, il suo ricordare
aneddoti o oggetti delle vite precedenti. Andando indietro nel tempo i ricordi sono
sempre più flebili e l'ultima vita trascorsa prima dell'ultima reincarnazione è
quella di cui si può conoscere meglio i dettagli.
Un bramino indiano considerato molto saggio mi disse una volta di diffidare sempre
di coloro i quali pretendono di dare indicazioni agli altri sulle loro vite
precedenti. Egli era considerato un Santo e per sua stessa ammissione era in grado
di ricordare poco delle sue vite precedenti e ancora meno del passato e del futuro
delle altre persone, se non in rarissimi casi. La conoscenza del passato era
inoltre per lui equivalente a quella del futuro considerando ininterrotto il flusso
temporale al di fuori del velo dell'ignoranza, conoscere le vite precedenti era
secondo lui difficile come predirre il futuro. Ma questo discorso ci spingerebbe
troppo lontano.
La pratica di cui stiamo parlando non porta a leggere i pensieri nella mente
altrui, in quanto quello non è un oggetto che può essere percepito direttamente.
YSIII:21. kaya rupa samyamat tad grahya sakti stambhe caksuh prakasa asamprayoge
‘ntardhanam
Praticando con attenzione alla forma che il corpo assume ed alla forza, scompaiono
quindi i difetti che l'occhio vede alla luce.
kāya = corpo,
rūpa = forma,
saṁyamāt = la pratica,
tat = quindi,
grāhya = percepibili,
śakti = forza,
arhtaḥ = difetti,
cakṣuḥ = occhio,
prakāśa = luce,
asaṁprayoge = sotto,
antardhānam = scomparire.
Non vogliamo in alcun modo proporre la nostra interpretazione come quella vera e
giusta, ma semplicemente esporre quello che noi abbiamo capito. Saremmo ben
contenti di ricevere commenti in merito. Secondo noi si sta parlando di posizioni e
pratica fisica incentrata sulla forza fisica e mentale. Secondo chi scrive si sta
ponendo l'attenzione sulle asana, sui benefici che esse portano al corpo fisico,
soggetto a sofferenze non meno di quello spirituale. Grazie ad una pratica
incentrata sul corpo quindi i difetti fisici, visibili all'occhio (ovvero non
quelli dell'animo), dice Patanjali, scompaiono. Allo stesso modo scompaiono anche i
problemi legati agli altri sensi, come ad esempio i dolori o i sintomi dei mali
calssici identificati dell'ayurveda, bocca amara, vista annebbiata, ronzii ecc.
La pratica permette di avere chiarezza del karma, delle conseguenze delle nostre
azioni, presenti e future, e diviene possibile, percependo anche altri segni,
predire il momento della liberazione dello spirito.
Grazie alla pratica lo yogin sviluppa grande benevolenza, e diviene empatico con
gli altri.
La chiarezza mentale della pratica, generata anche dal rispetto delle norme etiche
e morali dei primi due passi dell'ashtanga yoga di Patanjali, tra le quali era
appunto presente la benevolenza verso i deboli, porta ad identificarsi con gli
altri e ad avere benevolenza verso i più deboli, ovvero tutti gli uomini comuni. In
realtà nella traduzione abbiamo arricchito leggermente il discorso, il verso recita
semplicemente: i poteri (donano) amicizia verso gli altri.
La pratica dello yoga richiede grande forza di volontà e a sua volta la alimenta,
ogni yogin ne è consapevole, nonché una certa forza fisica. Per gli indiani
l'elefante è simbolo della saggezza e della forza fisica, qualità rappresentate al
massimo grado dal Dio dalla testa di elefante: Ganesh. Molti yogin indiani sono
devoti di Ganesh, figlio di Shiva, proprio perché egli rappresenta le due doti più
ambite dai praticanti: forza e saggezza, grazie a queste doti Ganesh è il Dio che
rimuove gli ostacoli.
I sutra successivi sono dedicati agli effetti dello yoga sulle energie interiori e
sui punti nodali di tali energie, i chakra. Volgendo all'interno lo sguardo durante
la pratica miglioreremo la capacità di ascoltarci e di percepire le energie sottili
che permeano il corpo attraverso i canali, o nadi, e i centri energetici dei
chakra. Il prana, l'energia che tutto pervade, entra nel corpo grazie alla
respirazione e viene poi portato dal basso ventre verso la sommità del capo, da
alcuni canali detti nadi. Tutte le scuole di yoga tradizionali si basano sul fatto
che la pratica dello yoga favorisce questa circolazione del prana o energia
sottile. La coscienza della circolazione di questa energia è uno degli obiettivi
dello yoga . Su questi concetti, definiti con un termine molto appropriato
“anatomia sottile”, si basano da oltre tremila anni la medicina ayurvedica indiana,
ma anche, seppure con le dovute differenze, la medicina tradizionale cinese ed
orientale in senso lato.
La parte terminale della testa è sede dell'ultimo chakra, sahasrara, il chakra dai
mille petali. Questo chakra si attiva al momento della nascita quando l'energia
vitale e lo spirito entrano nel corpo, al momento della loro dipartita e, secondo
alcune tradizioni, durante l'illuminazione. Patanjali ci sta dicendo che lo
scorrere dell'energia attraverso tutti i chakra, fino all'ultimo, è frutto di una
pratica molto evoluta, che arriva a padroneggiare l'ultimo passo dell'ashtanga yoga
ovvero il samadhi o ricongiungimento con lo spirito assoluto. Questo avviene
proprio grazie al dischiudersi del chakra alla sommità del capo che permette il
contatto con la perfezione dello spirito che tutto pervade. E' bene ricordare che,
l'autore, per fusione con lo spirito assoluto, intende una condizione fisica,
mentale e spirituale indotta dalla pratica, una pratica di qualità ottimale
condotta da un praticante particolarmente abile, focalizzato e realizzato. Termina
così, con questo ultimo passo, la disamina di Patanjali su prana e chakra.
Il cuore corrisponde per Patanjali al chakra Anahata, situato al centro del petto,
che potremmo definire il cuore spirituale, associato con il bilanciamento della
personalità, la calma e la serenità, l'amore e la compassione verso gli altri. Ci
sono molti tipi di pratica che possono stimolare questo plesso energetico, esercizi
di respirazione, asana e meditazione, ma anche comportamenti sociali e verso noi
stessi. Questo tipo di pratica fa comprendere esattamente cosa sia la mente. Per il
termine mente (citta) qui l'autore usa esattamente lo stesso utilizzato nel primo
sutra quando ci diceva che lo scopo dello yoga è arrestare le oscillazioni della
mente. Quando si è in equilibrio e pervasi dall'amore si comprende che
l'identificazione tra noi stessi e i nostri pensieri è sbagliata, che la mente non
è altro che un organo di senso come il naso o la lingua, l'organo di senso che
permette di pensare, ma oltre i pensieri c'è molto altro.
In questo modo anche udito, tatto, vista, gusto e olfatto possono aiutare la
capacità d'intuizione.
I sensi sono utili allorché la mente è rivolta verso l'esterno, ma sono ostacoli
sul cammino del samadhi, il ricongiungimento tra spirito individuale e spirito
assoluto.
Come è stato però precedentemente detto con chiarezza, il ritiro dei sensi deve
essere superato con la meditazione e con la successiva fusione dello spirito.
YSIII:39 badnha karana saithilyat pracara-samvedanacca cittasya parasariravesah
YSIII:41. samana-jayaj-jvalanam
Udana vayu fluisce dalla base della gola alla sommità del capo, fluisce in tutte
le direzioni e pervade il corpo intero trasportando il prana in ogni cellula, con
il suo controllo il corpo secondo Patanjali nasce a nuova vita, una vita spirituale
ed elevata, sopra le miserie materiali e morali, risorge a nuova bellezza. Molti
traduttori intendono il sutra 40 come: “padroneggiando samana si conquista il
potere della levitazione”. Non aggiungiamo altro.
Samana vayu è invece un tipo di soffio vitale che oscilla nello spazio tra
l’ombelico e il diaframma, la cui sede a volte è fatta coincidere con il terzo
chakra, Manipura. Avendo risollevato a nuova vita il nostro corpo attraverso il
controllo e la gestione dell'energia vitale udana, successivamente, grazie al
controllo di samana, il nostro corpo diviene radioso, raggiante, emana forza e
bellezza. Tutti noi abbiamo presente il viso sorridente di un maestro dopo una
lunga pratica, lo stupendo volto rilassato di un monaco tibetano dopo la
meditazione, secondo noi Patanjali si riferisce a questo concetto, la pace
interiore e la gioia spirituale divengono percepibili anche all'esterno di chi sa
padroneggiare il plesso solare e la relativa circolazione del respiro e quindi
dell'energia.
Gli ultimi dodici sutra che vedremo e chiudono il terzo libro, per alcuni
praticanti rivestono un senso particolare e gettano una nuova luce sull'essenza
profonda dello yoga. Non vogliamo dire che siano tutti di semplice e immediata
comprensione, ma soffermandosi alcuni istanti su taluni passaggi e rapportandoli
alla propria esperienza quotidiana di pratica, talvolta può iniziare un fruttuoso
processo di approfondimento. Questa almeno è la testimonianza raccolta da diversi
maestri.
Grazie alla pratica dello yoga, in particolare durante gli ultimi stadi più
meditativi, abbiamo detto si sperimenta la consapevolezza dello spirito al proprio
interno, arrivando all'eliminazione delle oscillazioni della mente. In modo analogo
è possibile sperimentare anche consapevolezza dello spirito al di fuori di noi,
dello spirito che tutto pervade, ciò non avviene grazie alla mente o ai pensieri;
il testo ci dice che tale consapevolezza è inconcepibile razionalmente. Questa
rivelazione fa capire che la separazione attuata fino a questo punto nell'opera,
tra spirito individuale, spirito assoluto e spirito che tutto pervade, non ha senso
di esistere; anzi ha senso nella misura in cui diviene funzionale per arrivare a
comprendere che lo spirito è uno. Noi uomini siamo un'unica entità e siamo della
stessa essenza dello spirito. Yoga significa unione. Pausa. L'opera di Patanjali va
metabolizzata, a nostro giudizio, proprio mediante la pratica. Forse non arriveremo
mai ad una consapevolezza dello spirito che tutto pervade, interno ed esterno a
noi, come ce la sta delineando in questi passaggi l'autore, tra i massimi doni
dello yoga, ma qualche intuizione in questo senso potremmo averla colta o
ricercarla in futuro.
Siamo arrivati ai doni più profondi che la pratica dello yoga può regalare.
L'autore invita a concentrare la pratica sulla realtà fisica tangibile e su quella
intangibile nonché sugli aspetti nascosti e su quelli espliciti. Osservando al
nostro interno le caratteristiche del mondo fisico e quindi distinguendo
chiaramente da esso il mondo spirituale, otteniamo il controllo finale del nostro
essere. Il discorso riprende il concetto del sutra precedente: la conoscenza dello
spirito dentro di noi ed esterno a noi, anche in relazione al mondo materiale, ci
fa capire chi siamo. Questo sutra è intimamento connesso con il concetto di Dharma,
anche se non viene espressamente citato. In questo senso intenderemo gli aspetti
della materia e il mondo fisico, come il mondo in cui le cose sono ovvero come la
legge naturale. Per un approfondimento rimandiamo alla sterminata letteratura
buddista, induista, janista e sikh in merito.
Patanjali afferma che giunti a questo livello della pratica e raggiunte tutte le
precedenti capacità, si arriva alla perfetta integrazione dei cinque corpi
immaginati dalla tradizione ayurvedica, quindi di tutto l'essere, e si arriva ,
notate bene, alla rimozione degli ostacoli nella vita. Un essere illuminato
difficilmente incontra ostacoli sul suo cammino, li ha già risolti dentro di sé.
Siamo noi che creiamo i nostri stessi ostacoli: distaccàti dalle cose materiali e
dalle emozioni, nulla può ostacolare la perfetta felicità. La tradizione indiana
ritiene che i pensieri, ma più in generale il nostro modo di essere e di
raffrontarci con il mondo, possano influenzare profondamente gli avvenimenti,
persino, al limite, quando non direttamente correlati al nostro operato. Ovvero
pensieri positivi possono generare fatti positivi oppure pensare ad un fatto come
già accaduto, può concorrere a farlo realmente accadere. Il discorso potrebbe anche
essere inteso in questo senso.
Come dicevamo, la perfezione del corpo, kaya sampat, è in realtà la perfezione dei
cinque corpi ed il loro allineamento, così come immaginati dal pensiero classico
indiano. Essi sono: Annamayakosa, il corpo grossolano; Pranamayakosa, il corpo
energetico, Manomayakosa, il corpo mentale; Vijnanamayakosa, il corpo intellettuale
e Anandamayakosa, il corpo della beatitudine. Le qualità raggiutne dalla perfezione
di questi cinque corpi sembrano piuttosto chiare: bellezza, grazia, forza,
fermezza. Sono qualità da intendere estese a tutti e cinque i corpi, quindi quando
parliamo di bellezza, stiamo parlando di bellezza fisica, bellezza dell'energia che
pervade il corpo, bellezza dei pensieri e dei ragionamenti e infine bellezza
dell'illuminazione e della felicità raggiunta. La forza del fisico riflette la
forza della mente, raggiunta grazie all'energia che lo pervade e con la quale
raggiungiamo l'illuminazione. E così via.
Incentrando la pratica sul potere cognitivo dei sensi, sulla loro vera natura, sul
loro rapporto con l'ego e con la vitalità, si ottiene la loro padronanza.
Molti testi classici di yoga quando arrivano a descrivere i livelli più evoluti
della pratica e le condizioni che si raggiungono, ricorrono a una descrizione
fortemente metaforica, immaginifica, descrivendo coni di luce, l'intervento divino,
lo stato di estasi; Patanjali non lo fa. Patanjali cerca di descrivere ogni passo,
anzi ce lo descrive, in modo dettagliato, siamo noi che cerchiamo di interpretare
esattamente cosa voglia comunicarci. Egli ci ha descritto un viaggio attraverso il
risveglio dell'energia e lungo tutti e sette i chackra, compiuto grazie alla
pratica costante e intensa. Patanjali ha affermato nei sutra precedenti,
riassumendo, che conoscendo i sensi e la materia si raggiunge la perfezione del
corpo e dello spirito. Ora aggiunge un ulteriore tassello, ovvero che dobbiamo
approfondire e padroneggiare il potere cognitivo dei sensi. Abbiamo perso questo
potere sia verso l'esterno, verso la natura, che verso l'interno, verso la nostra
parte più intima, e, grazie alla pratica, dobbiamo risvegliarlo. Lo yoga, secondo
Patanjali, non serve a disconnetterci dai sensi, ma ad incanalare il loro potere
verso nuove strade, anche ampliandoli. Inizialmente ci ha detto che dobbiamo
rivolgerli all'interno, poi successivamente superare gli input fisici che da essi
provengono, ma alla fine possiamo goderne percependo grazie ad essi ciò che è
spirito. Riflettiamo per un momento cosa voglia dire veramente incentrare la
pratica sui sensi, tutti i sensi, ed utilizzarli per un tipo di conoscenza
spirituale. E' un concetto molto elevato che può effettivamente dare un nuovo
significato a tutta la pratica dello yoga. Per utilizzare una metafora, Ramkrishna
diceva che per capire il potere dei sensi possiamo pensare alla differenza che
passa tra toccare una tazza per portarla alla bocca, uso materiale dei sensi, e
toccare la mano della persona che amiamo per portarla alla bocca, significato
spirituale che deriva dai sensi. Questa immagine è molto evocativa e ci fa forse
intuire una scintilla di cosa accade quando i sensi incontrano i sentimenti e
trascendono la materia.
Infine, i sensi vanno riscoperti cercando di capire in cosa concorrano alla nostra
vitalità, come percepiscano l'energia che ci tiene in vita, il prana, energia che
dobbiamo riscoprire nel mondo. Si chiude così il cerchio con quanto già detto nei
sutra precedenti riguardo allo yoga come disciplina per incanalare e risvegliare la
coscienza dell'energia pranica.
Questa è la via per la liberazione dai sensi in quanto porta alla comprensione
della distinzione che esiste tra la natura che ci circonda e il nostro intelletto
da una parte e il nostro io più profondo (purusa) ovvero la nostra consapevolezza e
lo spirito che tutto pervade dall'altra.
YSIII:52. sthany upam nimantrane sanga smaya akaranam punar anishta prasangat
Patanjali inizia ad introdurre il tema del libro successivo, l'ultimo, quello che
ha come argomento la liberazione, kaivaiya. Ci dice che non dobbiamo rimanere
attaccati e vincolati neanche alla pratica stessa. Come molte altre arti, anche
nello yoga, bisogna apprendere la tecnica, farla propria, dimenticarla e non
preoccuparsi più del risultato. Ad un livello molto quotidiano, questo concetto
significa anche non preoccuparsi di come appaiono le nostre asana; non preoccuparci
se oggi non sentiamo le stesse stupende sensazioni durante la meditazione; in poche
parole dobbiamo ignorare il risultato, perché la totalizzazione nella pratica
stessa è il risultato. Quando arriviamo a questo livello otteniamo i poteri dello
yoga perché la nostra gioia, la nostra illuminazione, non dipendono più da nulla.
Ad un livello più alto, possiamo aggiungere che è sicuramente molto difficile
abbandonare l'attaccamento verso il mondo materiale con le estenuanti tecniche
descritto nel secondo libro, ma è ancora più difficile abbandonare l'attaccamento
al mondo spirituale ed i poteri descritti nel presente capitolo. Quando si sia
dischiusa questa porta, abbandonarla è quasi impossibile, ma ciò conduce alla
liberazione finale. Le consapevolezze spirituali possono addirittura far
risvegliare sentimenti di immodestia, risvegliare il nostro ego giudicante. Questa
condizione, che tutti i maestri di yoga dovrebbero temere al massimo grado, può
ritrascinare il praticante nell'abisso. Un maestro indiano, considerato un santo,
diceva a me, che in quel momento ero l'ultimo degli uomini agli occhi di tutti i
presenti: “io sono il tuo maestro, ma tu sei il mio maestro, io ti trasmetto il
messaggio che tu mi permetti di vedere, grazie”, un discorso simile fa comprendere
quanto gli Indiani aborriscano i discorsi autoreferenziali, l'auto esaltazione per
la consapevolezza raggiunta, perché frutto del baratro dell'attaccamento quando non
addirittura al mondo materiale, a quello spirituale. Al contrario la perfezione
spirituale corrisponde alla massima umiltà, alla consapevolezza che nella
perfezione dell'universo siamo un granello e che provare orgoglio per aver visto un
poco oltre sarebbe ridicolo e ci rigetterebbe nell'attaccamento all’ego.
Questo sutra è particolarmente chiaro per chi pratica yoga costantemente. Ogni
fuga della mente in avanti o indietro durante la pratica, vanifica la pratica
stessa. Ogni fuga verso sensazioni, percezioni o altro che abbiamo già provato è
negativa e ostacola la pratica. Allo stesso modo l'attesa di qualcosa si tramuta in
attaccamento. Qualcuno ha detto che l'atteggiamento dello yogin deve essere quello
di uno spettatore senza spettacolo e credo che renda molto bene l'idea [Questa
interpretazione viene data spesso al terzo sutra del primo libro, confronta YSI:3].
Patanjali ci ricorda che l'unico attimo che conta è quello presente, e si spinge un
pochino oltre: ci ricorda che questa riflessione è una delle chiavi della pratica e
porta alla vera conoscenza, jnana, che è la conoscenza ultima, la realizzazione che
lo spirito individuale coincide con lo spirito assoluto eterno, non nato ed
immortale. Contraendo sempre dippiù l'attimo presente, esso diviene l'unico attimo
eterno che era, è e sarà. Ciò avviene nel samadhi, la ricongiunzione dello spirito
individuale con lo spirito assoluto. Questa è l'ultima realtà, dopo c'è solo la
liberazione. Il concetto non è da poco se si pensa che per il Vedanta, l'Jnana Yoga
è uno dei quattro sentieri di base per raggiungere la salvezza (insieme a Bhakti
Yoga, Raja Yoga e Karma Yoga). Ma ci siamo spinti molto oltre.
Da qui nasce la capacità di distinguere tra oggetti simili che non possono essere
differenziati da categorie, caratteristiche o posizione.
YSIII:55. tarakam sarva visayam sarvatha visayam akramam ceti vivekajam jnanam
Si consegue la liberazione allorché esiste una eguale purezza tra se stessi, ovvero
il purusha, e il mondo circostante, ovvero il sattva.
Questi sono i doni che la pratica dello yoga, eseguita con intensità, costanza e
determinazione può regalare, fino ai massimi gradi. Da questo punto prenderà le
mosse il quarto libro il cui argomento sarà la liberazione.
di Marco Sebastiani
Questo sutra viene spesso tradotto “i poteri sono conseguiti alla nascita oppure
con droghe o con i mantra o con la mortificazione fisica o con la concentrazione”,
anche in autorevoli testi, tra i quali quello di Swami Vivekananda. Contravvenendo
quanto sin qui fatto, riportiamo la sua versione originale, pubblicata: “The
Siddhis (powers) are attained by birth, chemical means, power of words,
mortification or concentration”. Senza entrare nel merito, ci sembra tutto molto
lontano da quanto sin qui professato dal nostro autore. Da dove compaiano ora le
droghe o le pratiche ascetiche nel discorso di Patanjali risulta oscuro, non se ne
è mai fatto cenno tra gli otto passi, né altrove, così come non riusciamo a
spiegarci il perché questi sei fattori siano per Vivekananda e tutta una cospicua
linea interpretativa, tra loro alternativi e non complementari. Come sempre
riportiamo le traduzioni di altri autori, qualora significativamente diverse e
diffuse, per rendere chiaro che esiste sempre una certo grado di interpretazione
per taluni sutra e che esistono ben avvalorate alternative, non per una polemica o
per denigrare il valore indiscusso di ben noti ricercatori. Per lo stesso motivo a
volte indichiamo perché si sia scelta una linea interpretativa, senza spingerci
nell'esegesi della critica del testo o nei meandri di tremila anni di filosofia del
pensiero indiano, da cui non usciremmo con le idee più chiare.
Da solo questo sutra può bastare a farci ripensare tutte le nostre idee sullo
yoga. Riteniamo che il significato proposto possa parlare direttamente ad ogni
praticante e non ci dilungheremo nella sua spiegazione. Il risveglio dell'energia
kundalini è un processo sia fisico che spirituale e, in questa accezione, prima
fisico e poi spirituale, prima inteso temporalmente e non come importanza. La
fisiologia sottile, il viaggio del prana attraverso i sette chakra e
l'illuminazione che ne consegue alla fine del percorso, sono un processo che
riguarda il corpo, la mente e lo spirito. Le pratiche descritte dall'autore nel
secondo libro sono mirate di volta in volta ad aspetti che noi riconduciamo a
taluno di questi tre campi, ma in realtà “curano” una unica entità, cioè noi
stessi.
Anche in questo caso il concetto sembra chiaro. Patanjali, nel sutra precedente,
ha affermato che la pratica fisica ingenera le evoluzioni che portano al risveglio
dello spirito o ad accorgersi del proprio spirito che dir si voglia. Il corpo si
caratterizza come componente esterna, mentre lo spirito come componente interna. La
pratica fisica non genera le doti spirituali. La pratica fisica si limita a
rimuovere gli ostacoli che impediscono all'energia che tutto pervade di muoversi
all'interno di noi e trasformarci spiritualmente. Nella concezione ayurvedica i
flussi energetici spirituali e non che viaggiano dal basso ventre verso la sommità
della testa, attraverso i chakra, incontrano tre barriere o granthi, che devono
essere rimosse per conseguire un perfetto fluire.
Un altro modo di dire questo stesso concetto potrebbe essere che lo spirito è
presente in noi e le tecniche fisiche eliminano gli ostacoli ed i processi che ce
ne impediscono la percezione, come ad esempio le oscillazioni della mente. Il
discorso prosegue in questa direzione.
Patanjali esprime ora con parole diverse quanto già affermato nel IV sutra del I
libro, ovvero che lo yoga consiste nella cessazioni delle oscillazioni della mente
(YSI:2) e che quando ciò non si verifica la mante assume la forma delle
oscillazioni stesse (YSI:4). La mente sgombra e priva di oscillazioni è la forma
perfetta che permette di osservare la mente stessa e di farci capire che non
dobbiamo identificarci con i nostri pensieri: noi non siamo la nostra mente e
infatti possiamo osservarla dall'esterno. Questa condizione permette di
intravedere lo spirito che è presente in noi, perché è questo ciò che siamo. Anzi,
meglio, siamo l'integrazione perfetta di spirito, mente e corpo. Ma per nostra
stessa natura tendiamo a percepire solo la mente che rimbalza, muta di condizione e
oscilla senza sosta. L'uomo è il cervello che pensa e basta, questa visione molto
meccanica è sicuramente diffusa in Occidente. Lo yoga ci dimostra ogni giorno il
contrario. In particolare la meditazione, che sappiamo deve essere preparata con
opportune pratiche di asana, con esercizi di respirazione, avendo posto ordine
nella propria vita, eccetera. Il sommo momento di assenza di oscillazioni nella
mente è la meditazione o dyana. Per chi pratica quotidianamente questo passaggio
appare vero se non scontato. Patanjali non sta però svilendo la mente, la mente
alla sua origine è pura, ma va ricondotta alla giusta funzione, non dobbiamo
permetterle di prevaricare tutto il resto.
Quarto sutra del primo libro e quarto sutra del quarto libro esprimono lo stesso
concetto, secondo voi è un caso? Direi proprio di no, il percorso si è compiuto e
siamo ritornati al concetto originario, ma con tutta la consapevolezza della
conoscenza acquisita durante questo fantastico viaggio.
YSIV:11. hetu phala ashraya alambanaih sangrihitatvat esham abhave tad abhavah
Essendo le azioni e le conseguenze i principi del karma, legate insieme, in quanto
causa e effetto, gli effetti svaniscono allorché scompaiono le cause.
Patanjali rammenta anche in cosa consiste il karma delle persone comuni, che possa
essere buono, cattivo o neutro, e che queste tre tipologie diano conseguenze di
pari entità, buone o cattive, in momenti separati nel tempo e nello spazio dalle
azioni, solo quando l'attimo è opportuno, ma in modo inesorabile, perchè il
desiderio di vivere è eterno e quindi il karma, dal quale dipende, è eterno.
Cessata la paura della morte, cessata la brama di vivere e di reincarnarsi,
essendosi ricongiunti col lo spirito assoluto, si sfugge al ciclo eterno e quindi
ci si sottrae al karma. Il presente è la sublimazione di passato e futuro, ma
questo non è vero per lo yogi, che agisce su di un piano differente, un piano
spirituale eterno.
I primi tredici sutra del quarto libro hanno espresso concetti veramente
significativi e Patanjali ha sigillato definitivamente la sua visione su due
aspetti fondamentali: il rapporto tra corpo, mente e spirito da una parte e
conseguenza delle proprie azioni nell'armonia del mondo, o karma, dall'altra. Il
seguito non sarà da meno.
YSIV:16. na caika citta tantram cedvastu tad apramanakam tada kim syat
L'esistenza di un oggetto non dipende dalla percezione di un'unica mente.
In questi quattro sutra Patanjali spiega cos’è la realtà e come noi ci mettiamo in
relazione con essa. Quando scrive “oggetto” o “cosa”, intende oggetto della nostra
attenzione e del nostro pensiero, in contrapposizione a soggetto, ovvero noi che li
osserviamo. Non necessariamente si tratta di oggetti fisici, ma anche di sentimenti
e spirito, per esempio. L'autore non sta parlando degli elementi della tavola
periodica né di atomi ed elettroni, ma come potrebbe d’altronde? Sembra strano ma
è questa l'interpretazione, tra gli altri, di Osho Rajneesh, nel suo bellissimo
“The alpha and the omega” in dieci volumi.
Ogni oggetto della nostra attenzione esiste indipendentemente da noi, cioè, anche
se noi non lo notassimo, starebbe lì. La sua esistenza dipende dal fatto di avere
una composizione reale, che prescinde dal contesto, e non dipende dal fatto che noi
la scopriamo. Allo stesso modo, potremmo ingannarci e ritenere reale una cosa che
non lo è e non esiste, ciò non la renderebbe reale. Il fatto che noi conosciamo o
non conosciamo un oggetto, lo rende semplicemente a noi noto o ignoto. Ognuno di
noi percepisce la realtà e le cose che la compongono in un modo differente,
prescindendo dai reali elementi costitutivi.
Le esperienze delle diverse persone, il loro carattere intimo, le loro menti,
possono offrire un significato completamente diverso per i medesimi oggetti di
indagine.
Quando la mente è impegnata, vediamo solo l'oggetto che la impegna. E' il medesimo
concetto espresso nel quarto sutra del primo libro: quando non si arrestano le
oscillazioni della mente, essa assume la forma delle oscillazioni stesse. Se penso
a cosa mangerò per cena o che ho freddo, tutta la mia mente sarà pervasa da quel
pensiero. Per la stessa ragione potremmo dire che è praticamente impossibile
formulare due pensieri evoluti in maniera esattamente contemporanea, perché la
mente è pervasa dall'uno o dall'altro, o meglio in quel momento essa è quel
pensiero. Ma che succede quando i pensieri si fermano? Quando le oscillazioni della
mente si arrestano? Percepiamo ciò che osserva e non ciò che viene osservato,
ovvero lo spirito che osserva la mente stessa, e ci accorgiamo che una è
manifestazione dell'altro.
Possiamo spingerci oltre e affermare che la mente e il nostro spirito sono
un'unico soggetto, la distinzione è puramente funzionale alla comprensione del
discorso e la parte “spirito” di questo unico soggetto si palesa quando si spengono
i pensieri.
Alcune scuole filosofiche contemporanee di Patanjali, per spiegare il fatto che la
mente potesse essere osservata e quindi superare l'impasse su chi fosse
l'osservatore, introducevano il concetto di una seconda mente che osserva la prima
ma, come giustamente fa notare il nostro autore, se entriamo nel circolo che la
prima mente osserva la seconda dovremmo assumere il concetto che la seconda è
osservata da una terza e così via, all'infinito, senza risolvere di fatto la
questione. Concordiamo con Patanjali, questa spiegazione confonde. Esiste poi
un'altra scuola che sostiene che la prima mente osserva la seconda e la seconda la
prima in un gioco schizofrenico di specchi, e anche questa risposta, più che
chiarire, rimanda soltanto la soluzione ultima del problema di chi sia il testimone
ultimo della realtà, problema cui Patanjali offre un ulteriore tassello nel
prossimo sutra.
YSIV:22. citer aprati samkramayah tad akara apattau svabuddhi sam vedanam
La conoscenza della propria natura, si consegue allorché la consapevolezza assume
quella stabilità per cui è immodificabile.
Come ormai siamo abituati, il senso dei sutra è spesso concatenato uno con il
successivo, come in questo caso, in cui il soggetto è il sutra precedente: la
percezione del proprio io, ovvero il fatto che noi siamo spirito, si riesce a
raggiungere quando si interrompono le oscillazioni della mente in modo stabile per
un periodo significativo, quindi in relazione alla pratica, quando non si salta più
da uno stadio all'altro, avanti e indietro. Il ritiro dei sensi precedeva la
concentrazione per poi arrivare alla meditazione e al samadhi, o ricongiungimento
con lo spirito assoluto. La conoscenza di essere in primo luogo spirito si consegue
quando si riesce a rimanere nella condizione di samadhi in modo protratto; questo
stato infatti, sembra suggerire Patanjali, può essere portato anche al di fuori
della pratica. Il soggetto testimone della realtà è uno ed è il nostro spirito.
Esso è autoconsistente, è come una candela che illumina la stanza, non dobbiamo
supporre l'esistenza di un'ulteriore luce per osservare la candela stessa. La luce
illumina anche se stessa. Svabuddhi sam vedanam: la coscienza più profonda è
immodificabile, è auto-illuminante. Ecco che siamo arrivati alla vera risposta,
senza rimandarla all'infinito.
Il significato ultimo di questo sutra è più semplice di quanto sembri. Nei sutra
precedenti erano stati illustrati due concetti di primaria importanza. In primo
luogo veniva esaminato come l'eliminazione delle oscillazioni della mente
permettesse di osservare la mente stessa e di comprendere che l'osservatore, il
soggetto che conosce, fosse lo spirito individuale. In un passaggio successivo
Patanjali rivelava che spirito e mente sfossero in realtà una unica entità che
insieme al corpo costituisce noi stessi, ovvero il soggetto che osserva la realtà.
In secondo luogo diceva che la realtà fosse oggettiva, ma che ogni differente
persona ne riceveva una impressione differente a causa della perturbazione della
mente. Quando cessano le oscillazioni della mente, riusciamo a vedere la realtà
nella sua vera forma, attraverso una intuizione dello spirito, come quando siamo
immersi in una meditazione profonda.
Ora si sommano questi due concetti, affermando che avendo portato calma ed
illuminazione nella mente, conosciamo realmente noi stessi e il nostro spirito, ma
anche il mondo che ci circonda.
La mente è un ponte tra noi stessi e il mondo, per usare la metafora di un grande
autore, e, quando posta nella giusta condizione, comprende ogni cosa. La realtà ha
due facce: il mondo interno a noi ed il mondo esterno a noi, lo yoga permette di
comprendere entrambe ed avvicinare il praticante alla liberazione dalla sofferenza
e dall'illusione.
La mente è un organo di senso, questo punto di vista è particolarmente importante,
come avevamo detto in precedenza. La pratica allena a comprendere come la mente si
possa muovere ed osservare alla stregua di una mano; ora Patanjali ritorna su
questo concetto affermando che la mente ha lo scopo di trasferirci informazioni dal
mondo esterno. Quando è perturbata e non ne abbiamo la giusta consapevolezza,
queste informazioni sono inganni, come i desideri inutili e sbagliati. Per tornare
alla metafora precedente delle mani, quando la mente è perturbata, si agisce come
chi al buio agiti inutilmente le mani davanti a sé, invece di procedere toccando ed
analizzando. Ma ristabilita la quiete le mani possono essere utilizzate in vece
degli occhi. La mente, ristabilita la quiete, può essere utilizzata come strumento
conoscitivo del vero sé, dello spirito. A questo punto la mente e lo spirito, ed il
corpo aggiungeremo noi, facendo riferimento a quanto affermato nei libri
precedenti, lavorano all'unisono, si ricongiungono, c'è unione, c'è armonia, c'è
yoga nel suo significato sanscrito di aggiogamento e unione. Il fine ultimo dello
yoga è vicino. La liberazione è vicina. In questo, il pensiero indiano e lo yoga
come sua alta manifestazione, si differenziano in modo fondamentale dai due punti
di vista principali dell'Occidente, sia da quello materialistico che da quello
cristiano. Da una parte per gli Induisti il corpo non è visto come la sede inutile
dello spirito, ma al contrario ne è la manifestazione e attraverso di esso
prendiamo consapevolezza dettagliata dello spirito stesso. Dal lato opposto, l'uomo
non è immaginato come la sola unione di carne, sangue e un cervello pensante, non
siamo perchè pensiamo, anzi proprio quando smettiamo di pensare cogliamo la nostra
essenza più alta e spirituale.
Lo yogi si pone fuori dal flusso del tempo. Il tempo è la trasformazione della
realtà naturale che ci circonda, una realtà che se non cambiasse, sarebbe immobile
e non avrebbe il concetto di tempo. Analogamente a quanto fatto dai filosofi greci,
in particolare da Zenone di Elea, suo contemporaneo storico, Patanjali osserva che
il tempo può essere scomposto in una successione di attimi immobili, di cui ha
prontezza colui che percepisce la vera realtà, potendo prolungare all’infinito un
singolo attimo. Il praticante illuminato ricongiungendosi con lo spirito assoluto
ferma il tempo e si pone nella stessa dimensione dello spirito, della divinità,
atemporale. Non dobbiamo dimenticare che il concetto di tempo è molto più esteso
per gli Induisti che per gli occidentali, la trasmigrazione delle anime e il loro
ritorno periodico nel mondo dilatano enormemente il confine temporale. Noi siamo
soliti ragionare in termini di una vita, o al massimo in termini di tempo storico,
tre o quattromila anni, contrapponendo questo all’eternità. Gli induisti ragionano
invece in termini di cicli molto più lunghi. Non vogliamo ripercorrere la
cosmologia indiana, ma basti pensare che sulla terra si susseguono quattro Yuga, o
ere, per un totale di circa quattro milioni di anni, che si ripetono a formare un
kalpa o giorno di Brahma, di circa quattro miliardi e mezzo di anni (come l’età
della Terra stimata dagli scienziati), al termine dei quali il mondo viene
distrutto da Shiva e ricreato da capo. Essere incarnati nel tempo del cambiamento,
per un’anima che ciclicamente ritorna nel mondo ha quindi conseguenze che hanno una
durata oltre quella che generalmente siamo abituati a considerare, la liberazione
che ne deriva acquisisce connotazioni particolari e avvicina il soggetto all’unico
spirito che tutto pervade, imperituro o, meglio, l’Imperituro di cui parla la Gita.
Shiva o la trinità Bramha, Shiva e Visnù o altre visioni secondo i molti rami
dell’Induismo.
Il fine della presa di coscienza è quello di far crollare il tempo e l’alternarsi
delle ere, ponendo il soggetto sul piano atemporale dello spirito assoluto.
Lo spirito che abbiamo dentro di noi è della stessa sostanza dello spirito che
tutto pervade ed ha quindi già connaturato in sé il ricongiungimento finale. La
conoscenza assoluta regala la liberazione in questo ricongiungimento. L'uomo non fa
parte della natura, ma di chi l'ha creata. Il viaggio è giunto alla fine, non
stupisce di essere arrivati così in alto, l’autore ci aveva avvisato che le
esperienze sarebbero state oltre l’ordinario e gli obiettivi massimi e
totalizzanti.
Sutra significa letteralmente "filo". Speriamo di aver reso almeno il “filo” del
discorso, restituendo organicità all’opera, dal primo all’ultimo verso, con un
discorso coerente. Utilizzando una metafora di un’autore più illuminato di chi
scrive (Jaggi Vasudev) potremmo dire che ogni sutra è però come una formula.
Chiunque conosca l'alfabeto può scrivere "E = mc²". Ma dietro questa piccola
formula c'è un'enorme quantità di scienza che può essere compresa su vari livelli.
Ogni formula, ogni sutra, può restituire risultati sensibilmente diversi e la
grande bellezza degli Yoga Sutra è proprio questa, cambiando il contesto nel quale
vengono tradotti o analizzati il risultato cambia leggermente. E non pensiate che
un lavoro esegetico scrupoloso di comparazione sia quello che porta più lontano.
Forse proprio le versioni più incoerenti e criptiche che mi sono capitate tra le
mani, erano quelle che analizzavano l’evoluzione delle interpretazioni e traduzioni
dal sanscrito nel corso degli ultimi secoli. Spesso a seconda della scuola di
apparteneza dell’autore il significato viene forzato per essere coerente con tale
scuola e comparando e analizzando tutte queste versioni non aumenta la nostra
capacità di comprensione ultima. Analogamente anche chi abbia cercato di
ripercorrere filologicamente la storia dei principali termini sanscriti utilizzati
nell’opera ha spesso fallito poi nel ricondurre al significato originario,
d’insieme, finale. Chi afferma infine che il significato sia chiaro e univoco
spesso afferma anche che lui stesso sia il solo ad averlo afferrato. La nostra
posizione è molto distante da queste dichiarazioni e, come dicevamo, non
rivendichiamo di aver compreso il significato ultimo e assoluto di un’opera tanto
intima e profonda, ma almeno di esserci potuti creare una nostra interpretazione
onesta, perché non viziata da uno scopo pre-esistente o da un fine e fedele il più
possibile al significato stretto dei termini sanscriti, e, ci sembra, organicamente
coerente dall’inizio alla fine.