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Vittorino Andreoli PRINCIPIA “Avvenire 20.08.

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(29) Le derive della ragione

«La dottrina che Nietzsche chiama "dionisiaca", giunge ad affermare che l’uomo non deve
rispettare le leggi imposte, ma deve seguire quella che chiama, con termine goethiano, la "dottrina
del superuomo", una morale secondo natura. L’ideale è una costituzione oligarchica della società:
sono necessari il divario tra le classi, la guerra e l’imperialismo.Nella società futura, il filosofo
sorgerà solo in collegamento con la casta dominante che abbia il governo della terra».

1 Il comunismo critico, nato nel 1848 con il «Manifesto», alla fine del secolo era già morto
colpito dalle critiche ai suoi capisaldi
2 Il fenomeno politico principale nella storia europea di fine ’800 è costituito dai risorgimenti
nazionali tra cui quello italiano e germanico
3 Al principio per il quale i diritti della collettività debbano prevalere su quelli del singolo, si
contrappone il pensiero anarchico
4 Nietzsche indica in Socrate l’iniziatore della decadenza della filosofia, ed esalta i presocratici
come i veri pensatori dell’Occidente

Il comunismo critico, nato ufficialmente con il Manifesto del partito comunista del 1848, alla fine
dell'Ottocento era già morto, colpito da pesanti critiche in tutti i suoi capisaldi. Si era rivelato una
concezione che, pur rivendicando scientificità, col suo vagheggiare il ritorno a uno stato di natura
senza conflitti, approdava invece ad un ingenuo e non certo nuovo utopismo.
Ma, al di là delle critiche alla dottrina, sul piano teorico emergono reazioni che si propongono di
affermare principi radicalmente opposti.
Se il comunismo non aveva patria, si pongono i fondamenti per i nazionalismi; se il comunismo
aveva al centro la condizione degli uomini raccolti in un'unica classe, ecco scaturire quasi per
reazione le anarchie; e se ancora il comunismo si presentava come visione razionale (legata
filosoficamente a Hegel), sul finire dell'Ottocento si assiste a un'esplosione di correnti
irrazionalistiche.
Cogliere questo clima è importante per il percorso che stiamo compiendo.
Proprio alla fine del XIX secolo vediamo entrare in crisi i principi faticosamente affermati e
difesi nei secoli precedenti, e proprio nell'epoca del positivismo sembra venir meno ogni
certezza, con l'emergere di concezioni in acceso conflitto tra loro.
Un secolo che finisce appunto con l'irrazionalismo, cioè con la negazione del principio di
razionalità e quindi della possibilità stessa di fondare leggi in grado di interpretare la storia e i
bisogni dell'uomo. Ma cominciamo con i nazionalismi.

PRINCIPIO DI NAZIONALITÀ
Il fenomeno politico più caratteristico della storia europea del XIX secolo è dato dai risorgimenti
nazionali, tra cui quello italiano e quello germanico. Un movimento così importante non poteva non
avere riflessi nella dottrina e sul piano dei principi.
Il principio di nazionalità fu elaborato dalla Scuola italiana del diritto internazionale. Programma
della scuola è considerata la prolusione di Pasquale Sebastiano Mancini La nazionalità come
fondamento del diritto delle genti (1850). Per Mancini lo Stato è «l'ordinamento giuridico della
Nazione» e la nazione «una società naturale di uomini, di unità di territorio, di origine, di costumi e
di lingua conformati a comunanza di vita e di coscienza sociale».
I fattori della nazionalità sono molteplici e possono essere raggruppati in naturali (territorio, razza,
lingua), storici (tradizioni, costumi, religione, leggi), psicologici (coscienza nazionale).
1
Alle idee di Mancini si accostò Terenzio Mamiani in Dell'ottima congregazione umana e del
principio di nazionalità (Appendice all'opera D'un nuovo diritto europeo, Torino 1861). Per
Mamiani l'elemento essenziale della nazione consiste nella «coscienza di una morale unità».
Appartiene allo stesso indirizzo l'opera di Luigi Palma Del principio di nazionalità nella moderna
società europea (Milano 1867).
Queste idee erano certo bene accolte da Giuseppe Mazzini (per il quale la nazione però è
soltanto il primo gradino di un progetto che mira all'umanità intera) e da tutti i protagonisti
del Risorgimento italiano.
Il principio di nazionalità è difeso dal Manzoni nei famosi versi dell'ode Marzo 1821, ma ebbe
oppositori come il principe Klemens Metternich, che definì la nazionalità un'astrazione. Egli
affermava che «il mondo vuol essere governato da fatti, secondo giustizia e non da frasi e da teorie»
(Lettera allo zar Alessandro, 15 dicembre 1820). In altra parte lo statista austriaco, ancor più
duramente, scriveva: «La mia frase che l'Italia è un'espressione geografica, la quale ha tanto
esasperato Palmerston, è diventata popolare; ma lo stesso si può dire della Germania» (Lettera a
Anton Prokesch, 19 gennaio 1849). E, certo, ridurre una nazione a una semplice espressione
geografica annullava tutti i contenuti specifici che i nazionalismi indicavano come strutture portanti
per costituire un'entità nazionale, e metteva fortemente in dubbio la «individualità dei popoli»,
come la definiva Vincenzo Gioberti. Mancini sosteneva poi che se la nazione è una società naturale,
lo Stato è invece un ente artificioso e arbitrario.
Sulla base di questi contributi, il principio di nazionalità, per la scuola italiana, diventa un corpus
stabilito.
Da parte dei francesi si aggiunge e si sottolinea che la nazionalità è un divenire, opera dello
sviluppo storico grazie al concorso di molti fattori, alcuni dei quali spirituali, non
esaurientemente definibili. Uno di questi è il vincolo politico che fonde popoli diversi.
Così Galli, Romani, Burgundi, Franchi... si amalgamarono formando la nazionalità francese, e
ancor prima l'Impero romano ha costituito un'unità di tanti popoli diversi.
Benjamin Disraeli ha detto assai bene che la nazione è «un'opera d'arte creata con l'aiuto del tempo»
e che non si può pretendere un principio di diritto (legato alla nazione e non allo Stato) fondato su
un elemento così indefinibile e soggetto a trasformazione.
Se si vuole trovare un italiano antesignano del nazionalismo, dovremmo soffermare la nostra
attenzione su Vittorio Alfieri, primo esaltatore dell'odio nazionale. «Gli odi di una nazione contro
l'altra essendo stati per sempre, né altro potendo essere che il necessario frutto di danni
vicendevolmente ricevuti o temuti, non possono essere perciò né ingiusti né vili. Parte anzi
preziosissima del retaggio paterno, questi odi soltanto hanno operato qui veri prodigi politici che
nelle istorie poi tanto si ammirano. Né mi estenderò qui in prove tediose e inutili. Parlano
l'esperienza e i fatti» (Misogallo, «Prosa prima»).
Manzoni non ha difficoltà a rispondere: «Una proposizione perversa e assurda», e commenta
ironicamente: «Che importa al mondo dei prodigi politici?... Che importa la falsa e sterile
ammirazione di una posterità arida?» (Osservazioni sulla morale cattolica, parte II, cap. VI, «Degli
odi nazionali»).
Una deformazione del nazionalismo è il razzismo. Razzisti furono più o meno tutti i popoli antichi;
certamente tratti razzisti si trovano in Johann Ficthe e in Gioberti. Ma vero fondatore del razzismo è
il conte Joseph Arthur de Gobineu con il suo Essai sur l'inégalité des races humaines (4 voll., 1853-
1855). E il mito del XX secolo del teorico nazista Alfred Rosenberg contiene il vangelo filosofico
del razzismo, ma qui ci collochiamo già nel campo della prassi e della storia e non più in quello
della sola ideologia.

ANARCHISMO
Al principio che i diritti della collettività debbano prevalere su quelli dell'individualità reagisce la
corrente che invece afferma i diritti del singolo rispetto a quelli dell'intera società.

2
Il padre dell'anarchia è Max Stirner (pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt), discepolo di Bruno
Bauer e rappresentante estremo della sinistra hegeliana.
Nel libro «L'unico e la sua proprietà» (1845, trad. it. Torino 1902) Stirner combatte ogni ideologia
umanitaria giudicandola fondata su una vuota universalità. Rivendica i diritti dell'individuo,
giungendo a un solipsismo e a un egoismo assoluto.
Max Nordau seguì queste idee. Fondamentalmente anarchico è anche l'individualismo estremo di
Henrik Ibsen. Quanto a Lev Tolstoj, egli giunse all'anarchia sulla base dell'interpretazione del
«nolite iudicare» del Vangelo di Matteo, ma i suoi riferimenti sono più letterari che politici.
Prevalentemente politico è invece il pensiero di Pierre-Joseph Proudhon, quello di Pëtr A.
Kropotkin («La scienza moderna e l'anarchia», Milano 1913) e di Michail A. Bakunin (grande
avversario sia di Mazzini, sia di Marx).
Occorre ricordare anche Georges Palante, sociologo, che combatté la teoria dell'anima collettiva e
quella delle forme di società. Difese l'individuo quale realtà unica, mentre il gruppo altro non è se
non «un néant fluide, une lâcheté inconsistente» (un nulla fluido, una vigliaccheria inconsistente).
Tra individuo e società v'è contrasto assoluto e insanabile: l'educazione, la morale, il diritto («tout
droit est un droit de classe» [tutto il diritto è un diritto di classe]) non sono che sovrapposizioni
della collettività per soffocare l'individuo (Les antinomies entre l'individu et la societé, Paris 1913).
Egli sostiene che il contrasto è tra individui e società, e non necessariamente tra individuo e Stato, e
giunge a vedere nell'autorità e nel funzionamento dello Stato un aiuto a cui sarebbe ricorso
l'individuo per difendersi dalle sopraffazioni del corpo sociale (Précis de sociologie, Paris 1901).
Insomma, è nella società che è da cercare la radice dell'oppressione individuale: «Proudhon a raison
de dire que l'Etat n'est tyrannique que parce que la société est tyrannique» [Proudhon ha ragione a
sostenere che lo Stato non è tirannico perché è la società a esserlo] (La sensibilité individualiste,
Paris 1909, p. 118).
Un atteggiamento comune ai diversi autori che hanno difeso l'individualismo può essere forse
individuato nell'opposizione al concetto stesso di politica.
E ancora una volta si notano nello stesso periodo contrapposizioni estreme: assolutismo totalitario e
individualismo sfrenato, solidarismo e solitarismo, movimenti di massa o anarchia. Come se
dominasse il gioco del rovesciamento. E non ci può essere migliore premessa all'irrazionalismo con
cui si conclude l'Ottocento.

NIETZSCHE
Friedrich Nietzsche e Georges Sorel, pur da posizioni diverse - il primo formatosi agli studi di
filologia universitaria, il secondo un eclettico autodidatta -, si oppongono radicalmente alle
posizioni fondate sulla razionalità. Entrambi, percorrendo a ritroso la storia alla ricerca del «difetto»
originario, trovarono la radice in Socrate, il pre-corruttore.
Nietzsche, già ne La filosofia nell'epoca tragica dei Greci (1870-1873) aveva indicato Socrate come
iniziatore della decadenza della filosofia, esaltando i naturalisti presocratici come i soli veri
pensatori dell'Occidente. In La nascita della tragedia (1872) il contrasto tra intellettualismo e
volontarismo era stato formulato come opposizione tra l'elemento apollineo e dionisiaco, le due
tendenze dell'anima greca.
Il pensiero fondamentale di Nietzsche risuonò con accenti di profondo pessimismo in «Così parlò
Zarathustra» (1883-1885), dove il filosofo sviluppa il pensiero dell'eterno ritorno. Tutto diviene e
ritorna incessantemente, rimanendo identico pur nel continuo fluire. Non v'è uno scopo, poiché se il
mondo dovesse averne uno, questo sarebbe già stato raggiunto e allora né la capacità di essere né
quella di divenire sarebbero più possibili. Se una situazione di equilibrio non è mai stata raggiunta,
significa che non è possibile conseguirla. Il mondo è solo continua trasformazione: racchiuso dal
Nulla come dal suo limite, evita intenzionalmente una meta solo imponendo per decreto alle cose la
facoltà di rinnovarsi eternamente, ossia di «imporre a una forza finita la miracolosa capacità di una
infinita nuova configurazione». Il solo mezzo per sopportare questa concezione è una
«trasmutazione di tutti i valori».

3
Per poter reggere il pensiero dell'eterno ritorno, è necessario riconoscere e accettare il
pensiero che non una volontà di conservazione costituisce l'essenza del mondo, bensì una
volontà di potenza. (Opere, vol X, «Der Wille zur Macht» [La volontà di potenza]).
Ciò comporta una liberazione dalla morale, intesa nelle declinazioni buddhista e cristiana: la morale
che protegge i deboli ed esalta il martirio, che si fonda sulla promessa di una vita futura. Significa al
positivo l'accettazione della lotta come regola di vita, della selezione come trionfo del più forte; non
già la selezione darwiniana legata alla falsa idea di progresso, ma la selezione come vittoria di chi
sa spietatamente prevalere. «Io voglio insegnare il pensiero che darà a molti il diritto di sopprimersi:
il gran pensiero della selezione.»

Questa dottrina, che Nietzsche ha chiamato dionisiaca (e che in un passo ben noto ha contrapposto a
quel che è per lui il «cristianesimo di Paolo», con Dioniso da una parte e il Crocifisso dall'altra),
giunge ad affermare che l'uomo non è tenuto a rispettare le leggi imposte dalla massa dei deboli, ma
a seguire quella che Nietzsche chiama, con termine goethiano, la dottrina del superuomo, e cioè una
morale secondo natura.
La volontà di potenza determina la concezione politica di Nietzsche. Le collettività sono state
inventate per far ciò che gli individui non osano, mascherando ciò che il singolo, coscienza ingenua,
non vorrebbe confessare neppure a se stesso. Le collettività creano una «virtù da armento», mentre
l'individuo, rituffato nell'innocenza del divenire, deve ritornare sopra l'armento.
Nietzsche rifiuta il dogma dell'eguaglianza, che giudica contro natura; rifiuta quello della
libertà, poiché l'individuo «è un frammento di fato» e l'«amor fati» è il motto del superuomo;
rifiuta il pacifismo, poiché la vita è continua aggressione e conquista.
Liberare dagli scopi l'assoluta necessità e innocenza del divenire, restituire all'uomo, reso cattivo
dalla falsa morale, la «gaia» scienza, vuol dire riconoscere che una vera vita sociale dev'essere
basata sulla lotta degli individui, nella quale i deboli soccombono e sono distrutti.
Una società gerarchica, ma in cui la gerarchia e il rango sono determinati dalla potenza, costituisce
così la società naturale il cui avvento Nietzsche predice: «che io mi trovi spinto a ristabilir la
gerarchia nell'epoca del suffragio universale, cioè nell'epoca in cui ciascuno ha diritto di sedere a
giudice di tutto e di tutti».
L'ideale nietzschiano è una costituzione oligarchica della società: necessari sono sia il divario tra le
classi, sia la fondazione di una oligarchia sopra i popoli. Necessaria è la guerra come «ordinatrice di
potenza», sia in ciascun popolo sia tra i popoli; l'imperialismo è necessario agli Stati poiché
l'accrescimento è principio essenziale in ogni creatura vivente. «Un giorno gli operai vivranno come
oggi i borghesi; ma al di sopra di quelli ci sarà la casta superiore che si distinguerà per la sua
mancanza di bisogni; dunque sarà più povera e più semplice ma possiederà la potenza».
Nella società futura il filosofo nuovo - cioè il filosofo legislatore - potrà sorgere solo in
collegamento con una casta dominante che abbia il governo della terra. Tempo sarebbe che si
tentasse un'educazione nuova e antidemocratica tale da imporre nella società una «forma mentis»
militarista: come soldati dovrebbero imparare a sentire gli operai, come soldati devono imparare a
sentire «i signori della terra», i superuomini.
La visione degli uomini nuovi ha sempre strappato a Nietzsche espressioni entusiastiche: «noi
alcionici», «noi spiriti liberati», «gli uomini postumi, io per esempio»; ma egli non s'è nascosto il
carattere irrazionale della sua dottrina, quando, quasi presagendo lo spaventoso conflitto che
avrebbe lacerato il mondo nel '900, ha parlato dei «Barbari del XX secolo», «Barbari che giungono
dall'alto come Prometeo».
L'irrazionalismo di Nietzsche ricorda quello di Eraclito, ed eraclitea è anche l'idea dell'uomo
superiore, che, solitario, scettico, non comunica con gli altri. E Nietzsche-Dioniso riecheggia: «Già
da dieci anni nessun rumore più mi raggiunge: il mio è un paese senza pioggia. Si deve conservare
molta umanità per non perire nell'aridità».

4
Georges Sorel parte invece dal marxismo e da qui apprende la critica alla filosofia borghese,
ma la allarga fino a Cartesio e a Socrate, conducendo dunque una critica radicale al
razionalismo e all'ordine delle «belle maniere».
Per Sorel la vita consiste nella violenza, in quanto è irrazionale. La lotta è nell'essenza stessa della
vita e le sue radici sono nell'istinto: ogni giustificazione che si tenti di elaborare è puro mito. Queste
idee le espone nelle Réflexions sur la violence (Paris 1908) in cui descrive la lotta di classe come un
contrasto che non dovrà mai essere sopito. Ciò lo porta a formulare un programma politico
antimarxista: quello del sindacalismo.
Naturalmente egli rifiuta l'idea di un traguardo sociale armonioso: ogni progresso nel senso di una
composizione degli squilibri economici e politici è solo utopia (Les illusions du progrès, Paris
1908).

SCHMITT E SPENGLER.
Su un altro versante si è insistito sul concetto di politica come rapporto di forze indipendente dalla
morale.
Per Carl Schmitt la distinzione politica fondamentale è quella tra amico e nemico, dove il termine
nemico viene spogliato di ogni valenza etica (Der Begriff des Politischen, Hamburg 1927). Schmitt
traduce «nemico» con i termini di «hostis» e di «pólemos» anziché con quello di «inimicus», e alla
luce di questa distinzione nota che nel Vangelo v'è il precetto «Diligite inimicos vestros» e non già
«hostes vestros» (Mt 5,43; Lc 6,27).
Capovolge anche l'affermazione di Agostino secondo cui tutti i combattimenti, fin quelli delle belve
e del mitico padre di tutti i briganti, Caco, hanno per meta il ripristino di uno stato di equilibrio e
armonia, cioè la pace (De Civitate Dei XIX, 12-13).
La condizione naturale dell'uomo resta la guerra, mentre la pace è uno stato transitorio. Come
afferma Spengler, la pace è «la prosecuzione della guerra con altri mezzi» («Jahre der
Entscheidung», München [s.d.], p. 24).
Per qust'ultimo autore la politica non è spiegabile se non ammettendo l'esistenza di un male
radicale, un peccato originale che grava sull'uomo. «Tutte le genuine dottrine politiche
presuppongono, con Machiavelli e con Hobbes, che l'uomo è cattivo, cioè creatura problematica,
nettamente pericolosa e dinamica».

EPICRISI
Al termine di questo pellegrinaggio attraverso il pensiero che si è occupato del viver insieme, e
quindi in comunità, dell'uomo, il bilancio è pervaso di pessimismo e di scetticismo. Si ha
l'impressione di un continuo fare e disfare, di un costruire, distruggere e ricostruire senza posa,
senza che mai si giunga ad un esito, se non definitivo, almeno dotato di una certa consistenza. Resta
una desolata impressione di sperpero, se non di vanità.
Ritorna alla mente la scoraggiante impressione di Friedrich Engels quando risolse la proposizione
del reale in quella per cui «tutto ciò che esiste è degno di perire».
Ma anche Hegel si rese conto di ciò quando parlò della storia come di una «enorme immolazione di
contenuto spirituale» e del lato negativo del cangiamento che ci infonde tristezza quando
consideriamo che «la formazione più ricca, la vita più bella trovano nella storia la propria fine e che
noi ci aggiriamo tra le macerie di ciò che fu eccellente un tempo» (Die Vernunft in der Geschichte,
in Lezioni di filosofia della storia; vedi anche Lezioni di storia della filosofia, vol. I). Insomma, si
rimane scoraggiati per l'inadeguatezza delle forze che sembrano ordinare e orientare l'uomo e le
società, mentre si constata lo stato di crisi e il vagare inquieto tra incertezze ed errori, che ripetono
errori già commessi in precedenza, come se fosse impossibile imparare alcunché dal passato, da ciò
che non si è vissuto direttamente. Si fa strada il pensiero, persino irritante, che se progresso vi è, è
più nel senso di un lievitare dei problemi che non di un loro avviarsi a soluzione; quasi un
compiacimento nel moltiplicarsi delle difficoltà, anziché il rammarico per la difficoltà a intravedere
esiti positivi.

5
E si giunge alla disperazione, se si considera che ogni teoria proposta come risolutiva, ha
evidenziato in seguito difetti e insufficienze, finendo in qualche caso col produrre dei veri e
propri disastri storici.
E forse occorre salvarsi nella vita intesa come movimento, come cambiamento continuo: bisogna
mutare senza sosta per rimanere identici. Solo cambiando incessantemente, senza regole nella
convivenza, si esiste. La perfetta e immutabile «Civitas Dei» non è di quaggiù, e l'aspirazione
ingenua a un ordine di convivenza perfetto che non debba più esser cambiato non è - quando non sia
aspirazione a un ordine di vita diverso e superiore - che stanchezza, un triste e desolato, anche se
dissimulato, «amor mortis».

MA IL VIAGGIO CONTINUA
Abbiamo individuato il momento storico, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, in cui si
manifesta in modo evidente la crisi dei principi. Qui ha avuto inizio la decadenza che oggi ha
raggiunto manifestazioni clamorose, fino a indurci a credere di aver raggiunto il gradino più basso
di una discesa lunga quasi un secolo.
A questo punto è opportuno venire all'oggi, negli anni in cui tale crisi sembra, sempre guardando ai
principi, farsi talora pura distruttività, fino a trasmetterci l'impressione di un uomo che ormai vaga
smarrito sulla Terra, senza progetti da elaborare o direzioni da prendere: uno smemorato che non
ricorda nemmeno il proprio nome e la cui vita è priva di qualsiasi senso.
Da qui in avanti cercheremo di tracciare uno schema dei principi, analizzandone la condizione.
Prima però è opportuno riflettere sulla crisi, termine che abbiamo usato attribuendogli un significato
preciso ancorché negativo, per la privazione dell'elemento positivo presente in origine ma ora
smarrito.
Il termine crisi è stato caricato di un significato drammatico, quasi esprimesse un'anticipazione della
fine.
Nel nostro percorso abbiamo assecondato questo orientamento: individuata la crisi della
società attuale in quei prolegomeni di fine '800, siamo passati sul campo di battaglia a
«contare i morti» che, trattandosi di principi, provvederemo a sottoporre ad «autopsia».
Dopo la riflessione ulteriore sul termine crisi ci avvieremo lungo la terza fase del nostro viaggio, la
sua pars construens, poiché adesso vogliamo, tenendo conto dell'esperienza fatta e delle riflessioni
che le tappe precedenti hanno promosso, disegnare una tavola di principi che interpretino il nostro
tempo e i bisogni dell'uomo di oggi, che certamente è quello vecchio, ma anche il risultato del tutto
nuovo e attuale di quanto la società e la tecnologia, hanno indotto. Parleremo, quindi, dei principi
che occorre ritrovare o affermare ex novo se si vuole che l'uomo mantenga un volto umano e che
l'umanità non sia ridotta ad una maschera di belva.

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