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Vittorino Andreoli PRINCIPIA “Avvenire” 28.05.

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(17) Il Diritto tra Roma e Gerusalemme

1 I giuristi romani non furono grandi nelle astrazioni teoriche, ma nella trasfusione di esse
nella pratica del diritto positivo
2 Anche la religione romana appare un culto esteriore,da interpretarsi secondo precise e
chiare norme contrattuali
3 Nella concezione ebraica della giustizia è sottintesa l’idea che una cosa è giusta o ingiusta
perché Dio l’ha ordinata o vietata
4 Vi domina anche la concezione della remunerazione collettiva, anche la comunità è
responsabile della colpa di un suo membro

All’interno del periodo che va dalla conquista della Grecia al crollo del mondo antico, il pensiero
filosofico dominante nel campo del diritto e della politica è quello stoico. Un pensiero che si
concentra sulla socialità dell’uomo, e che è assai bene espresso da Lucio Anneo Seneca di Cordova.
Fino ad allora, la dottrina della socialità in genere era stata intesa nel senso di una bontà "naturale",
ma Seneca la considera in maniera ben diversa. Ne I benefici egli respinge l’atteggiamento dei
moralisti che sempre tuonano contro la corruzione dei loro tempi per esaltare il passato: «Anche i
nostri padri se ne lagnavano... e i nostri figli se ne dorranno a loro volta... Eppure le cose rimangono
sempre entro gli stessi limiti... ma la sola cosa che si possa sempre ripetere dell’uomo è che egli è
cattivo e che lo fu e, lo dico a malincuore, che lo sarà sempre» (I benefici I, 10, 1-3).
Nell’Ira è detto che l’esistenza somiglia a una scuola di gladiatori: «Ci si vive in compagnia e ci si
batte» (L’ira II, 31, 1-6). Non si tratta di una semplice immagine: infatti altrove si dice che «il male
più tenace è la guerra mossa dall’uomo all’uomo» (Lettere 103, 1; 107, 7; L’ira II, 7 e 9).
Ma allora come si può parlare di socialità?
La socialità è naturale: un concetto che non va inteso nel senso che l’uomo sia posto dalla natura
nella condizione ideale di condurre vita gregaria quanto piuttosto osservando come la natura spinga
gli uomini a vivere insieme per ovviare agli inconvenienti della lotta. «Homo sociale animal
[koinonikòn zôon] et in commune genitus unum deum et unam omnium domum spectat» [L’uomo
in quanto animale sociale e generato per la vita associata guarda alla casa comune di tutti e ha
aperto la sua coscienza agli dèi] (I benefici VII, 1, 7).
Ne deriva una prima conseguenza: che cioè la socialità affonda le sue radici nel dovere morale
della solidarietà. «Noi – spiega Seneca – siamo nati per vivere in comune; la nostra società è
simile a una volta, e cadrebbe se le sue diverse parti non si sorreggessero a vicenda» (Lettere
95, 53).
E ancora: «La reciprocità dei doveri garantisce la sicurezza individuale. La sicurezza della nostra
esistenza... riposa sul commercio dei benefici. Isolati che diverremmo noi? L’uomo non ha altra
arma che la sua debolezza... nudo e debole egli ha la sua forza nella società. La natura gli ha dato
due cose che dall’essere più debole ne han fatto l’essere più forte: la ragione e la società...
Distruggete la società e sarà spezzato l’unico sostegno della vita negli individui: l’unità del genere
umano» (I benefici IV, 18, 1-4).
Un’altra conseguenza della socialità naturale è l’implicito utilitarismo della dottrina di Seneca: in
questo senso vanno intese talune sue espressioni divenute celebri: l’«homo mansuetus homini»,
l’«homo homini deus», l’«homo res sacra homini» [ l’uomo è mansueto per l’altro uomo, l’uomo è
un dio per l’altro uomo, l’uomo è una cosa sacra per l’uomo].
Dalle premesse stoiche deriva la concezione di legge di natura, che in Seneca è legge razionale,
sempre identica. È una legge insita e immanente, dotata di una sua razionalità intrinseca che la

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rende immutabile, a differenza di Aristotele, secondo il quale la legge di natura era variabile nel
tempo.
È questo anche il pensiero di Marco Tullio Cicerone, che poi passerà stabilmente nel diritto romano.
«Est quidem vera lex recta ratio naturae congruens, diffusa in omnis, constans, sempiterna... sed et
omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit» [Vi è certo una vera
legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna... ma come unica, eterna
governerà tutti i popoli e in ogni tempo] (La repubblica III, 22, 33; frammento cit. da Cecilio
Firmiano Lattanzio, Istituzioni divine VI, 8, 6-9). La legge di natura diviene legge morale: dato il
suo carattere divino e universalmente valido, è infatti imperativo etico prestarle obbedienza.
Musonio Rufo – filosofo che Giustino annovera per la sua vita esemplare tra i cristiani
inconsapevoli – sostituisce al concetto di semplice ingiustizia quello di peccato come deviazione
dalla giustizia.
Seneca riconosce la necessità di un’autorità che garantisca la società, e vede nell’imperatore
l’incarnazione ideale di essa. Egli elabora la dottrina di un dispotismo illuminato con espressioni
che hanno quasi un sapore mistico. Tali affermazioni possono meravigliare se si pensa che
l’imperatore cui Seneca fa riferimento è Nerone, ma occorre tener presente che Seneca scrisse La
clemenza (in cui è contenuto questo principio) nel periodo aureo del quinquennio in cui l’imperatore
era guidato dallo stesso filosofo: «L’imperatore è colui che tutti sentono non tanto sopra di loro
quanto per loro... Come l’intero corpo serve all’anima... così tutta intera questa massa di popolo,
sviluppata intorno all’anima di uno solo, è retta dallo spirito di lui... Egli è difatti il vincolo per cui
lo Stato è unito. L’anima dello Stato sei tu, o Cesare; esso è il tuo corpo» (La clemenza III, 1, 3 - 2,
3). Sembra qui risuonare qualche reminescenza del «corpus mysticum» della dottrina paolina (1
Corinzi 10, 17).
Viene anche energicamente sostenuta la necessità della disciplina: «Il popolo romano sarà
lontano dalla rovina finché saprà tollerare i freni; ove li spezzi o, se caduti per qualche
sinistro evento, non sopporti che gli siano rimessi, questo vasto impero perderà la sua unità e
si dissolverà» (La clemenza III, 2, 2).
E ancora: «Roma cesserà di dominare il mondo il giorno in cui cesserà di ubbidire» (L’ira II, 15).
La dottrina del dispotismo illuminato prevede un sovrano che governa per il bene dei sudditi. Costui
deve ricordare che «non rempublicam suam esse, sed is reipublicae» [la repubblica non è del
sovrano, bensì egli è della repubblica] (La clemenza I, 19).
Se a questa dottrina è possibile accostare autorevoli pensatori come Cornelio Tacito, Plinio il
vecchio e Marco Aurelio, molti altri viceversa se ne distaccano con proposte che suonano critiche
nei confronti dell’impero e persino verso ogni organizzazione dello Stato, come nel caso dei cinici.
Plotino trova nell’organizzazione della «res publica» una mancanza di vincoli spirituali e auspica
uno Stato dei saggi (Platonopoli), mentre Porfirio e Giamblico si riferiscono a una sorta di
comunismo.
Si tratta dunque di atteggiamenti diversi, e talvolta persino in contrasto, ma davanti ai quali è bene
delineare schematicamente una tendenza che si fa dominante: quella dell’«intima philosophia» del
pensiero romano.

Intima philosophia» come ratio juris


L’originalità dev’essere ricercata nel diritto che fu per Roma ciò che la filosofia fu per i greci e la
religione per i popoli orientali. È una filosofia racchiusa nelle istituzioni e quindi espressa nella vita
anziché in scuole ristrette.
Così Cicerone nelle Leggi parla di una «ratio juris» [razionalità del diritto] che nasce «ex intima
philosophia» [dal profondo della filosofia]. Una concezione che si esprime nell’aforisma «summum
jus, summa iniuria» [perfetta giustizia, perfetta ingiustizia], mentre Celso definisce il diritto «ars
boni et aequi» [l’arte del bene e del giusto]. Va detto che, anche se il diritto romano è simile a un
enorme castello o a una fortezza, tuttavia non è facile trovarvi profonde radici o solide fondamenta.

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Lo spirito della giurisprudenza romana – più analitico che sintetico, piuttosto pratico che teorico –
non poteva giungere a una definizione del diritto.
Scrive Giorgio Del Vecchio: «I giuristi romani... non furono grandi nelle astrazioni teoriche...
ma nella trasfusione di esse nella pratica del diritto positivo... soddisfacendo sempre con una
congeniale accortezza alle esigenze logiche e ai bisogni mutevoli della realtà» (Filosofia del
diritto, Roma 1939, p. 42).
Torna qui alla mente l’affermazione di Paolo, secondo il quale «non omne quod licet honestum est»
[non tutto quanto è lecito è anche onesto], affermazione sufficiente a mettere in crisi la relazione tra
pratica e pensiero teorico.

Religione romana come ratio juris


Del resto la religione romana – almeno a prima vista – appare come un culto esteriore concepito
nella forma di un contratto preciso e chiaro da interpretarsi secondo le norme rigorose del diritto. Si
tratta di associare determinate pratiche religiose agli atti della vita, secondo una formalizzazione che
pone la regola di una richiesta e di una conseguente risposta. È impressionante il numero di dèi,
spiriti e genî che gli uomini devono venerare. Petronio Arbitro fa dire a una donna della Campania:
«Il nostro paese è così popolato di divinità che è più facile incontrarvi un dio che un uomo»
(Satirycon 17, 5).
Per i romani è inconcepibile un dio ozioso, che non produca qualcosa di utile. La religione
romana è dunque in stretto rapporto con la vita e con le esigenze degli uomini. Per questo la
religione è azione (non certo meditazione), e diventa pertanto pura esteriorità formale.
Nei romani la volontà conta certo più della riflessione, e l’agire ha bisogno di una sua liturgia che è
forma e apparenza. Ciò non va però considerato come un limite alla libertà ma come modalità per
realizzarla. A questo senso pratico è ispirato il rapporto tra uomo e dio, o meglio, tra uomini e dèi,
poiché anche questi ultimi devono agire se non vogliono essere messi a riposo, cristallizzati e
dimenticati. Parlare di dèi non significa escludere l’uomo, ma produrre un’alleanza.
Non c’è più l’atmosfera che domina in Omero, in Pindaro o Eschilo, a parere dei quali gli
avvenimenti umani dipendono dagli dèi e a dirigere tutte le vicende umane è una potenza superiore
e divina. Siamo lontani da Erodoto di Alicarnasso, il padre degli studi storici, che parla di potenza
divina anche come provvidenza (prónoia tôn theôn). Per Polibio la storia è invece pragmatica, e
dunque lontana da regole astratte o dal volere degli dèi. Egli esclude la possibilità dei miracoli e
concepisce la religione come istituzione che ha il compito, meramente sociale, di mantenere il volgo
incolto ossequiente alla legge morale: detto altrimenti, la considera al pari di una semplice
superstizione. In breve, Polibio avverte con forza il fascino del pragmatismo e, tutt’al più, di un
certo mistero che s’incontra quando si cerca di comprendere mutamenti storici che non trovano
cause sufficienti. È ciò che egli definisce «Týche» – per noi oggi «l’irrazionale» –, quel quid che
Cornelio Tacito definisce «un qualche cosa che si fa gioco delle cose umane» (Annali III, 18, 4). E
che si presenta con forza per spiegare la corruzione e la decadenza dell’impero: vale a dire la sua
fine.

Pensiero ebraico
Il riferimento che succede all’età romana è quello del Cristianesimo. Ma ci pare che prima di
occuparcene sia necessario un accenno alla concezione del diritto e della politica nel pensiero
ebraico, non foss’altro perché questa è la radice della rivoluzione cristiana nella percezione della
storia e dell’avventura umana e perché il Nuovo Testamento è legato a quello Antico, cui si
riferiscono i richiami seguenti che non vogliono essere più che semplici suggestioni.
Innanzitutto l’ebraismo ammette patti tra Dio e l’uomo. Nel Pentateuco se ne ricordano ben sette:
1. il momento in cui Dio promette a Noè di non mandar più il diluvio; e come segno di questo patto
fa apparire l’arcobaleno (Genesi 6, 18, 9, 8-17);
2. quando promette ad Abramo di dargli la terra posta tra l’Egitto e l’Eufrate (Genesi 15, 18);

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3. quando ancora promette ad Abramo (è una rinnovazione) di concedergli la terra di Canaan e una
discendenza moltiplicata: segno di questo patto è la circoncisione (Genesi 17, 1-14);
4. con Isacco, ed è una ripetizione del precedente patto (Genesi 17, 21; 26, 3);
5. con Giacobbe, anche questo un patto identico agli altri (Genesi 35, 11-12);
6. la grande alleanza tra Dio e Israele stabilita per il tramite di Mosè sul monte Oreb (il Sinai), con
la quale Israel e viene proclamato «la porzione eletta tra tutti i popoli»: un patto consacrato con il
libro e con il sangue dell’Alleanza (Esodo 19, 5-6; 24, 7-8);
7. infine, la rinnovazione del patto precedente fatta nella terra di Moab (Deuteronomio 29, 1-28). A
questo patto ci si riferisce poi quasi continuamente negli altri libri della Bibbia.
Il carattere teocratico dello Stato ebraico è chiaramente affermato là dove Dio dice agli ebrei:
«Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo 19, 6). Si nota che mentre sono
stabiliti i doveri del re verso Dio (Deuteronomio 17, 14-20), nulla si dice di quelli del re nei
confronti del popolo e viceversa, né delle relazioni tra autorità regia e potere sacerdotale. Quanto
all’elezione del re, essa è così regolata: «Costituirai colui che il Signore Dio tuo avrà eletto nel
numero dei tuoi fratelli» (Deuteronomio 17, 14-15).
L’organizzazione politica passa attraverso quella familiare ed è realizzata dai capi delle varie
famiglie componenti le tribù. Notevoli sono i diritti del primogenito, che esercita una specie di
principato sui suoi fratelli e su tutta la famiglia, riceve una benedizione speciale dal padre, è
sacerdote della famiglia ed eredita il doppio degli altri fratelli. L’investitura avviene attraverso una
benedizione e l’imposizione delle mani: «Sii il signore dei tuoi fratelli» (Genesi 27, 29). Successiva
è l’istituzione dei giudici del popolo, che stanno accanto ai sacerdoti per istruire ed emettere
sentenze allo scopo di dirimere le contese.
Le disposizioni sulle istituzioni giuridiche, contenute in modo particolare nel Levitico e nel
Deuteronomio, furono confrontate più volte con quelle del Codice babilonese di Hammurabi (c.
2050 a.C.), anteriore alle leggi mosaiche di almeno mille anni: si tratta del codice scoperto a Susa
nel 1901 da Jacques de Morgan, decifrato e interpretato l’anno seguente da Vincent Scheil, nel
quale domina il concetto di colpa e di purificazione legale, che manifesta il carattere meccanico
dell’impurità.
Una disposizione (Levitico 19, 18) riguarda l’amore nei confronti del prossimo fino a
considerarlo fratello. Ma l’amore vero e proprio è limitato all’amico: prossimo è l’israelita, o
tutt’al più il forestiero che dimora in terra d’Israele ed è associato agli israeliti.
Non erano invece considerati "prossimo" i gojim, gli stranieri veri e propri, nei confronti dei quali
(né più né meno che presso i greci) è raccomandata la guerra religiosa di sterminio (herem), cioè un
precetto di odio (Esodo 17, 14-16; Numeri 25, 17-18; Deuteronomio 23, 3-6; 25, 17-19).
Particolarmente esplicito in alcuni passi è tale precetto: «Sterminerai tutti i popoli che il Signore
Dio tuo sta per consegnare a te. Il tuo occhio non li compianga» (Deuteronomio 7, 16).
Interessanti sono le disposizioni sul Giubileo. Ogni cinquantesimo anno tutti gli schiavi ebrei
riacquistano la libertà e tutti i beni immobili tornano ai primitivi padroni. La ragione di tale norma
era stata chiaramente enunciata nell’atto della stipulazione dell’Alleanza: «Mea est enim omnis
terra» [mia è infatti tutta la terra] (Esodo 19, 5). Oppure: «Terra quoque non veniet in perpetuum,
quia mea est, et vos advenae et coloni mei estis » [Le terre non si potranno vendere per sempre,
perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini] (Levitico 25, 23): quel che
si vende non è la proprietà del terreno ma il suo uso, ossia un certo numero di raccolti.
Nel diritto penale domina poi la legge del contrappasso (la giustizia dell’età minoica dei greci, la
legge del taglione delle XII tavole romane), esposta per la prima volta nel Genesi: «Quicumque
effuderit humanum sanguinem, per hominem fundetur sanguis illius» [Chi sparge il sangue
dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso] (Genesi 9, 6), norma poi ripetuta nella celebre
formula «occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede» (Esodo 21, 24;
Levitico 24, 19-20).
Questo principio non si estende al diritto civile, né in quello penale quanto ai casi di omicidio
casuale, ossia involontario, per il quale è stabilito un luogo d’asilo (Esodo 21,13). Si tratta di

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un’attenuazione di quanto è contenuto nel codice babilonese, dove il principio del taglione è portato
alle estreme conseguenze: se una cosa mal costruita crolla e uccide il padrone o il figlio del
padrone, si deve uccidere l’architetto o suo figlio; se la figlia di un uomo libero è percossa e muore,
si ucciderà la figlia dell’aggressore (art. 210, 29-30).
Nella concezione ebraica della giustizia è sottintesa l’idea che una cosa è giusta o ingiusta perché
Dio l’ha ordinata o vietata. Vi domina anche l’altra concezione: la remunerazione collettiva, per la
quale tutta la collettività è responsabile della colpa di un singolo suo membro. «Io, il Signore, sono
il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta
generazione, per coloro che mi odiano» (Esodo 20, 5; 34, 7).
Ma questa durezza trova non poca comprensione: Dio infatti «dimostra il suo favore fino a mille
generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi» (Esodo 20, 6).
Al Dio geloso segue la figura del Dio dalla giustizia perfetta. Il principio della remunerazione
collettiva vale infatti per la giustizia divina ma non per quella umana, la quale deve fondarsi
sul principio della responsabilità personale.
«Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una
colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato» (Deuteronomio 24, 16).
Nei Proverbi di Salomone è riaffermata una concezione teocratica persino ingenua: il re è sempre
buono e misericordioso, ama i giusti e odia gli empi (anche se si ammette che possa esservi un
principe cattivo o indegno). Vi si sottolinea che «la giustizia fa onore a una nazione, ma il peccato
segna il declino dei popoli» (Proverbi 14, 34).
Non è facile individuare una linea ben definita, soprattutto se si esaminano i passi al di fuori del
contesto anche storico in cui sono nati i libri che costituiscono la Bibbia. Essi si presentano infatti di
difficile interpretazione, a meno di non aver dedicato molte energie all’esegesi biblica.
Nell’Ecclesiaste (il Qoelet) la prospettiva sembra cambiare, anche se forse è solo questione di
linguaggio. Qui si ritrova l’invito a obbedire al re e l’esaltazione della vita in comune, che culmina
nel celebre «Vae soli» [Guai a chi è solo] (Ecclesiaste 4, 9-12). Manca invece la serena fiducia nella
giustizia del mondo: l’autore, anzi, afferma che in esso dominano l’empietà e l’ingiustizia, e non
rimane altro che rifugiarsi nell’accettazione degli imperscrutabili disegni divini. «Non essere troppo
scrupoloso né saggio oltremisura [noli esse nimis iustus]. Perché vuoi rovinarti?» (7, 16).
Si ritrova il problema della giustizia in Giobbe, nei Salmi e nei Libri profetici. Amos predice la
caduta di Israele per colpa dei suoi figli e introduce l’idea nuova che per le colpe dei singoli debba
sciogliersi il legame tra Dio e Israele, cioè l’antico patto di Mosè.
Ma più tardi una nuova Alleanza viene annunciata: il popolo di Israele diventerà luce delle genti e
farà sì che sia cantata la lode del Signore «fino all’estremità della terra» (Isaia 42, 10). Non ci sarà
un segno come accadde nei patti precedenti: «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro
cuore. Allora sarò il loro Dio, ed essi il mio popolo» (Geremia 31, 33).
La nuova Alleanza sarà stabile e durerà quanto le leggi di natura. Nei tempi nuovi i figli non
saranno più puniti per le colpe dei padri, ma ciascuno pagherà per le sue colpe: «Ognuno
morirà per la sua propria iniquità» (Geremia 31, 30).
È l’idea esplicitamente affermata da Ezechiele: «Se uno è giusto e osserva il diritto e la giustizia...
egli è giusto ed egli vivrà, parola del Signore Dio», mentre il figlio giusto di un padre iniquo «non
morirà per l’iniquità di suo padre, ma certo vivrà», poiché «colui che ha peccato deve morire»
(Ezechiele 18, 5-17.20).
Anche nei Salmi spira una riposante fiducia che le azioni umane dipendano dalla nostra volontà e
che dalla bontà o dalla malvagità derivino il premio o la punizione, entrambi terreni. Nel Siracide si
legge che «la pienezza della Sapienza è temere il Signore» (I, 1, 14): essa sazia l’uomo di frutti,
riempirà tutta la sua casa dei propri prodotti e le sue dispense dei propri tesori (1, 15). Il premio,
insomma, è già di questa terra.
Ma ecco irrompere i dubbi dell’Ecclesiaste nel vedere che «Justus perit in justitia sua, et empius
multo vivit tempora in malitia sua» [Il giusto muore nella sua giustizia, e l’empio vive a lungo nella

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propria malizia] (7, 16) e che sotto il sole «in loco iudicii ibi impietas, et in loco iustitiae ibi
iniquitas» [al posto del diritto c’è l’iniquità, e al posto della giustizia c’è l’empietà] (3, 16).
I profeti lanciano poi le loro invettive contro i ricchi, chiamano beati i poveri, diventano la
coscienza critica del loro tempo e dei propri concittadini, evidenziando i soprusi della ricchezza. Si
sentono risuonare il grido di Isaia – «I più poveri gioiranno nel Santo d’Israele» (Isaia 29, 19) – e
quello del Salmo: «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri io sorgerò» (Salmi 12, 6).
Il problema della giustizia compare anche in un intero libro, quello di Giobbe, nel quale Dio stesso
appare ingiusto e persecutore. Varie soluzioni sono proposte al riguardo dagli autori dei libri
profetici.
1. Il giudizio di Dio è impenetrabile all’uomo: è la tesi dei libri di Giobbe e Isaia, dove l’uomo che
s’interroga se Dio sia giusto o meno viene paragonato all’argilla che vuol giudicare l’opera del
vasaio (Isaia 29, 16; Geremia 18, 6; Ecclesiaste 8, 16-17).
2. L’uomo non è mai giusto davanti a Dio ma sempre colpevole. È il celebre versetto del Salmo:
«Tutti hanno traviato, tutti sono corrotti – non est qui faciat bonum, non est usque ad unum [più nes
suno fa il bene, neppure uno]» (Salmi 14, 3). Solo la gratuità della bontà di Dio può compensare
questa realtà: «Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati» (Isaia
43, 25).
3. Le tribolazioni hanno sull’uomo un effetto salutare, come la correzione per il fanciullo. È la
concezione che affiora nelle Lamentazioni di Geremia: «È bene per l’uomo portare il giogo fin dalla
giovinezza... Porga a chi lo percuote la sua guancia, si sazi di umiliazioni» (Lamentazioni 3, 27.30;
cfr. anche Deuteronomio 8, 2-5).
4. La felicità dei cattivi è transitoria e finisce in male.
5. Il singolo può essere chiamato a espiare da innocente per le colpe della collettività: così egli
riscatta con la sua sofferenza la punizione che altrimenti ricadrebbe su tutti. È il pensiero di Isaia:
«Uomo dei dolori che ben conosce il patire... si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i
nostri dolori... Egli è stato schiacciato per le nostre iniquità... Il castigo che ci dà salvezza si è
abbattuto su di lui» (Isaia 53, 3-5).
Sono i versetti in cui è preconizzato l’avvento del Messia e che ricordano, in modo singolare, il
ritratto del giusto vituperato e colpito tratteggiato da Platone nella Repubblica.
Con questi richiami all’età romana e alla cultura ebraica eccoci dunque giunti a porre gli
antecedenti al problema del diritto e dello Stato nel Cristianesimo.

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