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Vittorino Andreoli PRINCIPIA “Avvenire” 23.04.

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(12) Gli scienziati a caccia del segreto della vita

1 Il dato storico incontrovertibile è stato il grande successo dell’evoluzionismo, il quale arriva


come un’onda lunga fino a oggi
2 Una concezione entrata profondamente nella nostra cultura e che si riscontra in ogni ambito
scientifico e di ricerca
3 Darwin ha il merito di introdurre il concetto di continuità, ma la sua forza evolutiva è
soltanto un cieco meccanismo
4 Nell’evoluzionismo non mancano le degenerazioni, nel passaggio da una specie indipendente
a una parassita: veri casi di «involuzione»

Dobbiamo tornare all’argomento della scienza, dopo l’escursione di domenica scorsa sulla visione
del mondo quale ci proviene dalle arti e in particolare dalla pittura. Dobbiamo cioè riprendere il
tragitto principale, per inerpicarci ora in un altro dominio della ricerca e del sapere, sempre di
grandissimo fascino: la biologia.
Etimologicamente "biologia" significa studio della vita, nel senso specifico di interesse per il
mondo animato, e dunque per tutto ciò che consideriamo vitale non solo rispetto alla mancanza di
vita, ossia la morte, ma anche rispetto alle caratteristiche che appartengono a questo stadio
dell’essere, assai diverso per esempio da quello di cui si occupa la fisica.
Pure la biologia però, pur distinta da fisica e matematica, segue i paradigmi delle altre scienze: le
une sono state definite scienze dure, anzi la matematica è stata in più chiamata scienza esatta,
mentre l’altra – la biologia – si è trovata inclusa tra quelle soft (morbide), pur dentro ad un progetto
generale che prevedeva un accorciamento della distanza tra le varie discipline, attraverso
l’assimilazione trasversale delle caratteristiche tipiche dell’esattezza e della precisione.
Dal canto suo, la biologia registra dapprima uno sviluppo straordinario di scoperte e di innovazioni
applicative sul corpo umano, e dunque in campo medico, entrando successivamente in una fase di
declino.
Le certezze consolidate si incrinano, i risultati vissuti in precedenza come una vittoria entrano in
crisi, il loro significato si fa più problematico, il loro senso dubbio.
Si giunge così, anche sul versante della biologia, ad una condizione in cui nell’insieme, al di là
del singolo dato, la conoscenza si fa piena di dubbi, e soprattutto rivela il dissolvimento
dell’impianto di fondo, rassicurante e creduto definitivo.
Si arriva cioè a quel passaggio, collocabile tra fine Ottocento e Novecento, in cui anche la biologia
mostra di non saper dare una risposta ai grandi temi della vita.
Ma per valutare a modo questa caduta, occorre prendere le mosse dal punto più alto toccato dalla
ricerca in tale ambito, insomma dal suo apogeo, che si colloca anche qui nel Seicento, e poi nel
Settecento: secoli ricchi di scoperte prodigiose sia in anatomia (cellule, vasi capillari, valvole nelle
vene) sia in fisiologia (circolazione del sangue, fenomeni respiratori e fermentativi).

RIPRODUZIONE
In quei secoli, al di sopra delle singole e "piccole" questioni, se ne poneva una di carattere generale,
riguardante la riproduzione, la quale assunse via via il profilo di questione capitale, fino a diventare
il problema biologico per eccellenza.
Una prima corrente, quella degli epigenisti, sosteneva che gli organismi sorgono ex novo dalla
materia informe a opera di un "potere" che ha la virtù di plasmarla (cioè lo sviluppo è dovuto
ad un influsso stimolante dell’ambiente).

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I seguaci di questo indirizzo – Georges Louis Buffon, Pierre Louis Maupertuis, John T. Needham,
Georges Cuvier – si rifacevano ad Aristotele, trovando nell’epigenesi una prova dell’ammissibilità
della generazione spontanea.
L’altra corrente, quella dei preformisti (Jan Swammerdam, Marcello Malpighi, Albrecht von Haller)
legava lo sviluppo embrionale al dispiegamento di un precursore in miniatura o in germe. Per
costoro, nulla di nuovo si crea, ma da un organismo preformato si sviluppa il nuovo essere vivente:
gli individui, che nascono l’uno dall’altro sono come incapsulati l’uno nell’altro, proprio come tante
scatole sempre più piccole, o tante matrioske.
È questa la teoria che il filosofo Malebranche chiamava dell’«emboîtement» [inscatolamento], poi
sviluppata da Charles Bonnet, il quale era convinto di avere effettivamente "visto" una nuova
generazione formarsi nel corpo d’una cimice e poi uscirne.
I preformisti si suddividevano a loro volta in due schiere: alcuni ritenevano che la preformazione
avesse origine nel germe paterno, in quanto l’uovo femminile svolgeva una funzione unicamente di
recipiente e fornitore della sostanza nutritiva. Costoro fondavano la loro teoria sulla scoperta, ad
opera di Anton Van Leeuwenhoek, degli spermatozoi; essi tuttavia erano fino a un certo punto
legati ancora all’antica concezione della superiorità maschile, idea espressa nell’antichità in forma
piuttosto stravagante da Aristotele. Tale era, ad esempio, la posizione di Nicolaus Hartsoeker.
I cosiddetti ovisti (Swammerdam, Antonio Vallisnieri, Lazzaro Spallanzani, Karl Ernst von Baer)
pensavano invece che sede della preformazione fosse l’uovo, mentre l’elemento paterno svolgeva
unicamente una funzione di stimolo. Per questi "femministi" era capitale la scoperta di Reinier de
Graaf circa l’importanza dell’ovaia e quindi dei follicoli, considerati il punto di partenza della
procreazione.
Non deve sfuggire l’aspetto filosofico di questa importante questione.
Gli epigenisti, così come ammettevano la generazione spontanea, consideravano anche la vita alla
stregua di una vis organizzatrice interiore, un «nisus formativus» [sforzo o slancio formativo],
quella che Buffon chiamava la «moule intérieure» [matrice o stampo interiore]; erano insomma
chiaramente dei vitalisti.
I preformisti invece erano evoluzionisti, e negavano sia la nascita dell’organico
dall’inorganico (un miracolo continuo) sia l’intervento di forze di natura speciale (le "forze
plastiche" di cui parlava, per rifiutarle, Spallanzani).
La diatriba non poteva non coinvolgere le teorie filosofiche. Leibniz, che nella Monadologia
esponeva la dottrina delle monadi-entelechie, era dunque un sostenitore del preformismo. Ma nel
1759, con la sua Theoria generationis, Kaspar Friedrich Wolff liquidava definitivamente il
preformismo: l’origine del vivente era da ricercarsi proprio nella creazione di forme dall’informe. E
con questo si pensava di tornare alla teoria di Aristotele e tutto sembrava dunque incanalarsi verso
la generazione spontanea e il vitalismo.

LA QUE STIONE SISTEMATICA


Altro grande tema che appassionava i biologi era la questione sistematica, il bisogno cioè di dare un
ordine all’interno di specie animali e vegetali.
Con il grande naturalista svedese Carl von Linné (meglio noto come Linneo) e il suo Sistema
Naturae (1735), si fonda la sistematica generale delle piante e trionfa il sistema esclusivamente
classificatorio, mentre totalmente assente appare il tentativo di dare un’interpretazione dei fenomeni
vitali. Nell’opera Classes plantarum (1738), egli distingueva dal metodo artificiale quello naturale:
fondato non già su di un solo carattere, bensì su un complesso di organi vegetativi e riproduttivi,
espressione di una naturale affinità. Nei Fragmenta methodi naturalis (1737), un vero gioiello, egli
aveva tentato di caratterizzare la sua opera come la fondazione – e quindi definizione – del concetto
di specie. La quale è concepita da Linneo come entità sistematica naturale, fissa e immutabile, pur
se è possibile riconoscere affinità tra le singole specie, riunite in gruppi sempre più vasti (generi,
famiglie, ordini), ognuno con caratteri propri non convertibili, che inquadrano il mondo vegetale e
animale in una serie di gradi. Anche se si ammetteva che vi potessero essere tra gli individui piccole

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variazioni, cioè uno scostarsi dal modello sotto l’influenza di cause occasionali («varietates
laevissimas non curat botanicus» [di piccole variazioni non si occupa il botanico], perché – si
diceva – «plus vel minus non mutat speciem» [il più o meno non muta la specie] (Philosophia
Botanica, 1751, n. 100).
Tutto ciò era concepito come un tentativo di interpretare il piano costitutivo dell’universo secondo il
disegno e la volontà del Creatore: «Species sunt quot diversas formas ab initio produxit infinitum
Ens» [Le specie sono esattamente le forme differenti che l’Ente infinito ha prodotto all’inizio] (in
Classes plantarum, 1738).
Ma già nel Settecento, a Linneo e alla sua numerosa scuola si era opposto Georges Louis
Leclerc de Buffon che, nella monumentale Historie générale et particulière, combatte il
concetto di specie e di classe sostenendo invece il principio della continuità.
Per Buffon esistono soltanto gli individui, mentre le classi sono artifici empirici: sotterfugi pratici
utili per inquadrare i fatti, ma che non devono essere considerati oggettivamente esistenti, se non si
vuole confondere la nomenclatura con la natura. «Non esistono realmente in natura che gli
individui, e i generi; gli ordini, le classi esistono solo nella nostra immaginazione» (Histoire
naturelle, I, p. 38).
La natura è mobile e si modifica continuamente attraverso infinite piccole variazioni e pertanto il
metodo migliore per conoscerla è – dice Buffon nell’opera Les époques de la nature (1778) – quello
storico, che ci porta a «frugare anche per la storia naturale entro gli archivi del mondo». Così, alla
definizione di classe sostituisce il metodo della descrizione. Al ricorso a Dio dei seguaci di Linneo,
Buffon tendeva a contrapporre una concezione naturalistica, che fu poi svolta audacemente da Jean-
Baptiste Robinet.
Nel De la nature (1761) e nel De l’animalité (Considérations philosophiques de la gradation
naturelle des formes d’être, 1767-1768), Robinet insisteva sul principio dell’unità e della continuità
della natura, la quale si snoda, in una scala di esseri, dal regno animale a quello umano. Sono
all’incirca le medesime idee che troviamo in Charles Bonnet (Considérations sur les corps
organisés, 1762), il quale parla anch’egli di una scala continua in cui si passa insensibilmente dai
più semplici ai più complessi.
Ecco così delineata la linea dei sistematici e quella dei descrittori. I descrittori sono degli
sperimentalisti, mentre i nomenclatori sono piuttosto dei teorici che sostenevano la tesi
creazionista. E quindi da una parte stava Aristotele, dall’altra gli innovatori con il loro
sperimentalismo.
Un clima insomma molto simile a quello in cui – e siamo nel campo della fisica – si erano
confrontati alcuni famosi uomini di Chiesa e Galileo, con la bolla di condanna di Urbano VIII.
La lotta tra coloro che uniscono e quelli che dividono divenne un problema di mentalità e di
ideologie.
Linneo, nella dodicesima edizione del Sistema naturae (1767), ammette senz’altro che siano state
create in principio tante piante diverse quanti sono gli ordini naturali; queste si mescolano attraverso
la generazione, fino a produrre tante piante quanti sono i generi; e finalmente la natura, mescolando
tutte queste forme, ne ha fatto le specie esistenti. Pur in una rigidezza primitiva, si introduce un
limitato trasformismo.
D’altro canto Buffon, senza alterare l’unità del piano generale, riconosce le specie, che sembrano
rivelare le somiglianze fra esseri di tipi classificati come diversi; quasi che l’Essere Supremo non
abbia voluto impiegare che un’idea e poi «la varier en même temps de toutes les manières possibles,
au fin que l’homme put admirer également et la magnificence de l’exécution et la simplicité de
dessein» [variarla nel medesimo istante in tutte le maniere possibili, allo scopo che l’uomo possa
ammirare sia la magnificenza della esecuzione, sia la semplicità dell’idea e dell’intenzione].
Questa disputa, a guardar bene, non è altro che una riproposizione della vecchia questione
filosofica degli universali, tipica questione metafisica della scolastica che già era stata
avanzata nella Grecia antica circa la definizione delle malattie tra le scuole di Cnido e di Coo.

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La prima attenta alla definizione e alla descrizione della malattia, concepita come forma astratta
della degenerazione patologica; la seconda, invece, empiricamente volta a considerare i malati, cioè
i singoli individui, e la loro specifica e irriducibile originalità. E che nel sottofondo ci fosse un
riferimento filosofico per quanto vicino o lontano – e lontano al punto da spingersi fino ai greci – lo
si capì quando si prospettò la trasformazione della disputa tra sistematici e descrittori in quella tra
fissisti e trasformisti.
Augustin de Saint-Hilaire e Cuvier furono, all’Accademia di Francia nel 1830, i campioni di questi
due opposti indirizzi, in una lotta che suscitò l’interesse dell’Europa, e in Germania l’entusiasmo in
particolare di Goethe. La si lesse come una lotta romantica, un’altra battaglia di Ernani (così era
stato definito a suo tempo lo scontro tra classici e romantici). E il richiamo non sembri strano,
poiché i trasformisti impersonavano la rivolta contro le idee classiche di ordine rigido e di regole
immutabili, e anch’essi si battevano per l’esistenza di leggi storiche nella natura, come i romantici
facevano nel campo dell’arte.
I seguaci di Saint-Hilaire furono però costretti al silenzio per l’opposizione delle gerarchie
ecclesiastiche: si parlò non di trasformismo ma di catastrofismo.

EVOLUZIONISMO
Ma fu una vittoria di Pirro, perché sul nome di Charles Darwin si suscitò presto un gran clamore,
collegato ad una parola destinata ad un grande futuro: l’evoluzionismo. Occorre tuttavia fare una
precisazione: anche se questo termine viene legato allo scienziato inglese come fosse uscito dalla
sua inventiva, al pari di Minerva dalla testa di Giove, in realtà la parola era già presente, nella forma
intuitiva di evoluzione cosmica, nel taoismo e nel buddhismo, come pure in molti presocratici, negli
gnostici, e in particolare, con differente collocazione storica, in san Gregorio Magno e in
sant’Agostino, nell’interpretazione allegorica dei sei giorni del Genesi.
L’evoluzione è dovuta, secondo questi due padri della Chiesa, alla sola attività delle potenze, o
cause seconde, che Dio ha dato al mondo creandolo, senza che vi sia bisogno di alcun intervento
speciale né per la comparsa della vita dalla materia inorganica, né per la formazione delle specie
che sono state create da Dio solo «potentialiter». Insomma. Dio non ha prodotto le specie singole e
le individualità, ma ha firmato il progetto che poi le potenzialità naturali hanno realizzato.
L’evoluzionismo infine era presente in Cartesio, nella forma di ipotesi euristica, per spiegare
l’universo così quale oggi appare (Discorso sul Metodo, parte V).
Nel Settecento era stato esposto nella forma di ipotesi cosmologica, tendente a mostrare che la
fabbrica stessa della Terra implica la continuazione del processo di causazione naturale (Leibniz
nella sua Protogaea, 1693, Buffon nella Théorie de la Terre) e infine da Kant (Storia naturale
universale e teoria del cielo, 1755) e da Laplace (Esposizione del sistema del mondo, 1796) nei
termini esposti dalla celebre teoria della nebulosa come origine del sistema solare.
Così è per il trasformismo, che ha antecedenti straordinari: basterebbe citare il torbido e audace
Giulio Cesare Vanini, il quale non solo ammetteva la generazione spontanea, nell’osservare la
mutazione d’una specie in un’altra, ma si spingeva a credere in una derivazione diretta dell’uomo
dalla scimmia (De Admirandis Naturae Reginae Deaeque Mortalium Arcanis. Parigi, 1616; cfr.
Lucile del capitolo sugli «Esprits forts» nei Caratteri di Jean de La Bruyère). Ancora più audace fu
l’anatomista Pietro Moscati, il quale nel 1770, in un discorso letto nel teatro anatomico di Pavia,
aveva affacciato una tesi trasformista di carattere pre-darwiniana (Delle corporee differenze
essenziali che passano tra la struttura de’ bruti e l’umana).
C’è sempre da meravigliarsi per come, in certi frangenti, si tagli corto e si finisca col legare
una data idea ad un preciso personaggio con cui poi la si identificherà e la si propaganderà,
senza ricordare precedenti e predecessori, in una vera e propria sommarietà che finisce per
sfociare nel mito.
Nella fattispecie il mito di Darwin, che in questo caso – bisognerebbe avere il coraggio di
affermarlo – è un po’ anche frutto del potere coloniale inglese del tempo, che finì per imporsi anche

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in campo culturale. Operazione, questa, che fa ingiustamente scomparire dalla scena del sapere tanti
pensatori e studiosi che pure vi avevano contribuito.
Per questo voglio ricordare qui persino Kant, che nella sua Antropologia dal punto di vista
pragmatico (1798) formulava chiaramente ed esplicitamente l’ipotesi di una possibile origine
animale dell’uomo. «Noi non sappiamo» diceva «come la Natura abbia raggiunto tale sviluppo, e da
quali cause essa fosse aiutata», ma possiamo supporre che ciò che forse avvenne in passato possa
avvenire in futuro e che l’orangutan e lo scimpanzè possano «sviluppare gli organi che servono a
comunicare, toccare, parlare, secondo la struttura articolata di un essere umano, con un organo
centrale per l’uso della ragione, e gradatamente perfezionarsi alla scuola di istituzioni sociali» (cit.
in William Wallace, Kant, Edinburgh 1882, p. 115).
Nell’Arca di Noè, padre Athanasius Kircher, gesuita, sostiene che Dio creò direttamente solo poche
«species primigeniae» che poi «vel natura loci et climatum, coelorumque influxu aut promiscua
differentium specierum copula... in infinitam animalium multitudinem et varietatem excreverunt» [o
per le caratteristiche naturali del luogo e il suo clima, o per l’influsso dei cieli o per unioni
promiscue tra differenti specie… hanno portato ad una moltitudine infinita di animali e di varietà].
Benôit de Maillet fu il primo studioso che abbia operato un serio tentativo di applicare la dottrina
dell’evoluzione al mondo vivente. «Da alcune "semences" di origine planetaria si sarebbero
generate le specie marine da cui, per trasformazione, le aeree e le terrestri, compreso l’uomo: tutto
ciò per modificazioni brusche sotto l’influenza dell’ambiente» (Telliamed, ou entretiens d’un
philosophe indien avec un missionaire francais sur la diminution de la mer, la formation de la
terre, l’origine de l’homme. 1748). Benché combattuta dai teologi e derisa da Voltaire, l’idea del
Maillet ebbe fortuna.
Insomma, potremmo perderci nella citazione dei prolegomeni all’evoluzionismo ottocentesco. La
differenza interessante semmai è tra prolegomeni probabilmente speculativi e Darwin, che offre
certamente materiale ricco e fecondo.
In altre parole, si getta qui l’idea di una plasticità, di un movimento che venne poi
interpretato o alla maniera di Saint-Hilaire, come azione dell’ambiente, o alla maniera di
Lamarck, secondo un’immanente teleologia.
Ma chi contò veramente fu Charles Darwin, da quando pubblicò nel 1859 On the Origin of Species
by Means of Natural Selection, seguita nel 1871 dall’altra opera The Descend of Man.
Basti almeno affermare che l’età in cui esce il libro di Darwin è impregnata dell’idea di evoluzione.
Sarebbe sufficiente ricordare – per le scienze – i Principles of Geology di Charles Lyell, con cui si
introducono in geologia il concetto di tempo e quello di un lento e graduale sviluppo della vita della
terra; cioè il riconoscimento di un corso evolutivo nei fenomeni geologici.

PRINCIPIO DIRETTIVO
Insomma, con questi antecedenti e con lo speciale contributo di Darwin, entra nella biologia un
punto di vista storico fondamentale, la scoperta cioè di un principio direttivo che può collegare in
una visione unitaria una folla di fenomeni biologici, principio in cui si deve riconoscere almeno,
dice Jean Rostand, un valore pragmatico poiché «le transformisme est, de l’aveu de tous les bons
esprits, la seule manière rationelle d’évoquer le passé de la vie» [il trasformismo rappresenta, per
ammissione di tutti i sapienti, la sola maniera razionale d’evocare il passato della vita] (La nouvelle
Biologie, Paris 1937, p. 85).
Darwin introduce nella biologia il concetto di continuità, che è poi all’origine della arborizzazione
delle specie.
Ma la forza evolutiva, per Darwin, è soltanto un cieco meccanismo, dove i selezionati non sono
necessariamente i migliori, né i più forti o intelligenti o abili, ma coloro che hanno caratteri
per imporsi sui deboli e eliminarli.
Se è vero che l’evoluzionismo va dalle specie più semplici e indifferenziate a quelle più complesse
e differenziate, è anche vero che non mancano talora le degenerazioni, nel passaggio – ad esempio –

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da una specie indipendente a una parassita: in questi casi si dovrebbe semmai parlare di
involuzione.
Il dato storico incontrovertibile è stato il grande successo dell’evoluzionismo, il quale arriva fino al
tempo presente in cui si afferma che non si può essere biologi senza essere ad un tempo
evoluzionisti: e di fatto questa concezione è entrata nella nostra cultura e la si reperisce in ciascuno,
indipendentemente dall’appartenenza scientifica: dalla botanica alla zoologia.
Wilhelm Roux trasferì il principio della lotta per la sopravvivenza dagli individui alle cellule
organiche; August Weismann lo trasportò all’interno del germe, svolgendo l’idea di una selezione
germinale. Ernst Haeckel si sforzò di completare la dottrina trasformista, formulando un piano
generale in base al quale il punto di partenza era dato da presunti esseri unicellulari: le «merule», o
presunte protocellule per gli esseri unicellulari; e le «gastrule», o sacchi stomatici primitivi, per gli
esseri pluricellulari.

CONCEZIONE MECCANICA
Di Darwin rimane la sua teoria generale, mentre le teorie particolari sono in gran parte abbandonate.
Già nel 1922, a dirlo fu sir William Bateson («Discorso alla Società americana per il progresso delle
scienze», in Science, 20, 1, 1922).
In ogni modo, l’evoluzionismo rappresenta un punto di grande forza nella biologia come scienza, e
quindi per la solida impostazione di una concezione meccanica della vita, e dunque di una certezza
di leggi che regolamentano non solo il mondo fisico ma anche quello più complesso degli organismi
viventi. Anche gli alberi genealogici sono spinti da un meccanicismo scientifico.
Ma quello fin qui tracciato è il percorso inevitabile da farsi nello studio e nella concezione della vita
come qualche cosa di meccanico, di cui si sono svelate molte delle leggi che la governano. Tuttavia,
dopo la pars costruens, ci siamo abituati ad affrontare quella destruens. Alla prossima, quindi.

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