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Vittorino Andreoli PRINCIPIA “Avvenire” 26.02.

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Occorre a questo punto del nostro viaggio fare una pausa, poiché abbiamo incontrato un "mostro"
non certo atteso: l’incertezza che caratterizza le conclusioni della scienza e il dubbio persino che la
scienza possa indagare il mondo. Cosa sia il "reale" dovrà dunque rappresentare il tema delle
prossime tappe, anche perché domina ancora nella nostra cultura l’idea che la scienza sia l’unica
capace di dare risposte vere, mentre le altre letture appartengono ad una sorta di infanzia del
pensiero.

1- Se prima preoccupava il determinismo adesso è l’indeterminismo della scienza ad essere


diventato un problema
2- Si avverte come un senso di impotenza: la ragione va verso la conoscenza del mondo
esterno in un’atmosfera crepuscolare
3- Ritorna l’interrogativo su cosa mai sia il reale, quella "stoffa" concettuale di cui sono fatte
tutte le nostre costruzioni mentali
4- Si può faticare all’infinito per cercare di uscire da questa impasse, ma nel migliore dei casi
si giunge al mistero

(5) Scienza, realtà e mistero

UN MOSTRO A DUE TESTE.


A questo punto del nostro viaggio dentro i princìpi della scienza, occorre fare una pausa, giacché
abbiamo incontrato un "mostro" che certo atteso non era: l’incertezza cioè che caratterizza ormai le
conclusioni della scienza, fino al dubbio sulle capacità stesse della scienza di indagare il mondo. E
ciò, nonostante che nei suoi precedenti propositi essa intendesse spiegarlo in maniera definitiva. Di
fatto, la scienza riesce a proiettare del mondo solo un’immagine deformata dai limiti dei nostri
sensi.
Se questa è la situazione, la scienza a che cosa si riduce, e quale vantaggio può accampare sulle
altre modalità di lettura del mondo, come la filosofia o la religione? Ebbene, che cosa sia il "reale",
cosa sia la "natura", rappresenta il tema da affrontare nelle prossime tappe, anche perché tuttora
domina nella nostra cultura l’idea che la scienza sia l’unica disciplina capace di dare risposte vere,
mentre le altre letture appartengono ad una sorta di infanzia del pensiero umano. Culture cioè non
razionali, che chiamiamo primitive, e che collochiamo al gradino di partenza di un percorso che una
civiltà fondata sulla scienza ha ben superato.
Dicevamo che è emerso in maniera chiara (dagli articoli precedenti) che non si può più parlare di
mondo, ma piuttosto di «immagine sensibile del mondo», immagine che in ogni caso coincide con
una sua costruzione arbitraria. Dicevamo inoltre che non si può più parlare di causalità e
determinismo, perché semmai il mondo è retto da un principio di indeterminazione e da sequenze
imprevedibili. Infine, che non è più possibile parlare di prevedibilità, poiché l’imprecisione non può
che portare all’imprevedibile.
Ma allora ricadiamo nell’ambito della fede, in un «rationabile obsequium», come avrebbe
detto san Paolo, ossia in un enigma rispetto al quale ritorna il desiderio di pensare a una
causalità misteriosa che sappiamo solamente immaginare, non certo provare nei termini della
sperimentabilità.
Niente verità scientifica dunque, e niente più determinismo: Bernhard Bavink (cfr. Ergebnisse und
Probleme der Naturwissenschaft, Leipzig 1933, p. 202) afferma che chi voglia oggi continuare a
dare credito al determinismo si rende schiavo in realtà di un dogmatismo ingiustificato.
Aggiungendo che per conoscere come il mondo sia in realtà, e non già come si possa o si voglia
rappresentarselo, si dovrà usare l’ontologia e non già la scienza.

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Ritorna così prepotentemente la filosofia, con la sua insopprimibile difesa della libertà a fronte del
determinismo fatale. Ma la libertà non è né una cieca spontaneità, né un «liberum arbitrium
indifferentiae», essa ha bisogno di leggi, per cui la caduta dei princìpi in casa della scienza finisce
per colpire anche la filosofia.
Viene in mente Gottfried Leibniz e una sua affermazione, nella quale risuona un sentimento di
angoscia: «Nessun fatto può essere vero o esistente, né alcuna proposizione essere veritiera, se non
c’è una ragione sufficiente per la quale sia così e non altrimenti, quantunque il più delle volte queste
ragioni non possano esserci note» (Monadologia, n. 32). In altre parole, si sente la paura di un
indeterminato che porterebbe come conseguenza l’anarchia: nel pensiero e dentro il mondo. E
dunque, se il determinismo toglieva la libertà riducendo l’uomo ad un congegno meccanico,
l’indeterminismo rende l’uomo ancor più in balia del caso. E nel caso non si dà certo libertà.
Prima preoccupava il determinismo della scienza, adesso invece è l’indeterminismo ad allarmare.
Una questione per risolvere la qual è impossibile persino tornare a Immanuel Kant, e alle sue
categorie, magari pensando che non siano né immutabili né in numero fisso, come invece credeva il
filosofo di Königsberg. Impossibile tuttavia tornare lì, perché Kant riteneva che la causalità è a
priori indipendente dalla nostra esperienza, e sosteneva inoltre che: «rinunciando a questa causalità,
cade anche l’oggettivabilità».
Il che è di fatto avvenuto nella fisica atomica, dove abbiamo imparato «che il processo di
osservazione è una violenta manomissione dell’oggetto osservato» (Pascual Jordan, La fisica
nel secolo XX, cit., pp. 101 e 123).
Ma allora, a cosa serve la scienza? Se non è lo studio della materia, dal momento che sfugge a ogni
analisi, se non è ricerca della causalità, se non si può dire che il suo proprio fine sia quello di
stabilire le leggi e i princìpi della natura, che cos’è e a cosa serve, la scienza?

LA SCIENZA COME CREATRICE DI OGGETTI.


La risposta che si fa via via sempre più insistente è, a prima vista, quanto meno strana: si giunge a
sostenere infatti che la scienza addirittura crea gli oggetti. Un’affermazione che può apparire priva
di significato o addirittura paradossale, come se dal momento che la scienza non riesce più a capire
il mondo, poiché le sfugge l’oggetto stesso della sua indagine (la realtà), essa allora si inventa ciò
che poi studia, fino a convincersi che questa sia la realtà. Pur con le distanze necessarie, viene in
mente il bambino che, mentre gioca, inventa un suo mondo proprio, il mondo del come se appunto,
al punto che un bambolotto diventa ai suoi occhi una persona, un compagno di giochi fittizio. Non
ha coscienza, il bambino, o dimentica che tra un bambolotto e una persona umana resta pur sempre
una differenza enorme, al di là delle apparenze.
Dicevamo che la scienza "crea" gli oggetti, dove il termine creazione sta per invenzione o
illusione, poiché la scienza considera realtà ciò che separa e individua attraverso i limiti dei
sensi e degli strumenti di indagine. Ma per capire ancor più specificamente questa "creazione
di oggetti" è necessario ripercorrere una vicenda che comincia nell’800, dall’«action» di
Maurice Blondel.
Questi parte dalla sensazione, la quale sta all’origine dell’esperienza di ciascuno. E osserva «da un
lato ciò che provo [in una esperienza appunto] ha da essere tutto mio, dall’altro ciò che provo deve
parermi del tutto estraneo a me ed estraneo alla mia azione». Insomma, se la sensazione è del
soggetto deve trattarsi di qualcosa che lo riguarda in maniera esclusiva, d’altra parte ciò che egli
esperimenta deve essere per forza fuori di lui. Al di là di ciò che percepisce (sento «qualcosa»),
s’impone fuori di lui «l’essere del dato sensibile», quel qualcosa che appunto c’è e che lui infatti
sente.
Da questa sorta di ambiguità tra il sentire e il fatto che si sente qualcosa che è, scaturisce la scienza,
la quale si propone di passare appunto dal sensibile al reale. (L’Azione, trad. it. Firenze 1921, p. 81).
Come a dire che, se la scienza vuol capire la realtà, essa deve occuparsi di ciò che sente e correlarlo
a ciò che c’è, per conoscere com’è veramente. Questo significa passare dal sensibile al reale. Ma è
possibile una simile operazione da parte della scienza?

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Il realismo scientifico è, secondo Blondel, provvisorio, poiché le sensazioni sono fallaci, e
pertanto i reali che la scienza vi deduce rimangono «finzioni», rivelando il loro carattere
convenzionale e quindi pragmatico. Con ciò, conclude, la scienza stessa con il suo instabile
realismo ci spinge al di là di sé e ci avvicina al trascendente.
Henri Bergson faceva in aggiunta notare, come a rendere ancora più illusorio lo scopo della scienza,
che la realtà è un flusso continuo, un continuo fuggevole mutare, mentre gli oggetti che crediamo di
individuare e di studiare sono sì stabili, ma come creazione dell’intelletto: per fini pratici e perché
sia possibile una scienza. In altre parole, i bisogni della scienza, e le sue esigenze, finiscono di
dominare sul problema stesso del che cosa sia la realtà.
È chiaro che la scienza non potrebbe costituirsi e mantenersi ove non ammettesse l’esistenza di un
mondo esterno, e ove il mondo esterno all’uomo non fosse costituito di oggetti o cose delineabili e
precisamente identificabili. La fisica classica, per citare un esempio, si fondava su: continuità,
causalità, e oggettivabilità. Ma, come s’è visto, con la fisica quantistica si è dovuto ammettere la
discontinuità, la non-causalità. E se cadono continuità e causalità cade anche l’oggettività.
Da un lato dunque, il bisogno per la scienza di un’oggettività, dall’altro la negazione di una realtà
oggettiva (vera) perché non precisamente definibile, conducono alla consapevolezza che lo
scienziato opera una «costruzione non vera per sé, non razionalmente indispensabile, ma vera e
indispensabile per il fisico [lo scienziato]». In altre parole, non è vera la realtà-creduta, ma essa è
fondamentale per la scienza che ha come presupposto, come bisogno, l’oggettività.
Ecco in scena ora Emile Meyerson, che spiega come si giunga a inventare gli oggetti stabili: un
altro passo nella sequenza della costruzione di oggetti. Dice: il procedimento descrittivo che l’uomo
segue, facendo riferimento continuamente alla coscienza, riduce i fenomeni che mutano in
permanenze, e in base al principio di identità di colui che percepisce "unifica" gli oggetti sensibili e
li stabilizza. Poiché è l’uomo che osserva il mutevole della realtà, riferisce il flusso di ciò che scorre
davanti a lui stesso, alla percezione della propria individualità fissa, e così tende a trasformare il
mutevole, a ordinarlo e a separarlo, ma tutto ciò non può essere che relativo.
Insomma, il processo che porta a credere in una realtà oggettiva, serve per salvare la scienza.
Un vero coup de teatre a guardare bene: siamo entrati per assistere alla lettura del mondo da
parte della scienza e ci troviamo di fronte ad un mondo che è inventato per giustificare il
lavoro e le esigenze della scienza.
Con il rischio che se questo processo dovesse riuscire in senso assoluto, la realtà tenderebbe a
semplificarsi fino a dissolversi, sostituita da un nuovo mondo uniforme, grigio, avviato al nulla. E
ciò proprio perché il lavoro dello scienziato è in un certo senso quello di semplificare, di ridurre il
mutevole a delle costanti. Insomma, egli finirebbe per creare un mondo talmente semplificato e
lontano da ciò che è, da apparire come qualcosa di piatto e persino banale.
Viene in mente una pagina di Giovanni Papini, in Gog (1931), intitolata «Visita ad Einstein». «Per
natura, dice lo scienziato, io sono nemico della dualità... la mia mente ha uno scopo supremo:
sopprimere le differenze. Ciò facendo sono fedele allo spirito della scienza che, fin dal tempo dei
greci, ha sempre mirato all’unità». E vi si finge che egli enumeri tutta una serie di conquiste della
scienza che sono consistite in riduzioni all’unità. Ridotte tutte le scienze alla fisica, questa è ridotta,
a sua volta, a una sola formula, sintesi ultima del pensiero umano, ossia al: «Qualcosa si
muove».Ecco allora chiarito il senso di quella "creazione di oggetti" che si diceva, strumentale alla
scienza, e chiarito il pericolo che comporta.
In sintesi: sia l’esperienza comune sia la scienza partono da dati sensibili, che sono esperiti nel
rapporto tra noi e il mondo fuori di noi. Data la fluidità del mondo, la sua dinamica e varietà,
i dati vengono sostituiti dalle cose, cioè dagli aspetti più stabili e duraturi, ottenuti attraverso
l’astrazione.
Il processo di semplificazione e di falsificazione continua: alle cose dell’esperienza comune
succedono le cose stabili e da queste vengono le cose scientifiche. Lavorando su di esse, per
ulteriori astrazioni, si sale fino ai puri enti di ragione, come gli atomi, l’etere che pur inconsistenti e
inafferrabili finiscono per costituire l’esperienza sensibile.

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Eddington, con una bellissima immagine, dice che lo scienziato è come un pescatore che abbia reti
con maglie di diversa grandezza: a seconda delle reti che impiega egli trarrà alla superficie solo
pesci di una determinata dimensione. Allora un osservatore potrà credere che nel mare vi siano
unicamente pesci di una certa forma e grandezza, mentre in realtà egli cattura solo quelli perché
utilizza una certa rete e non un’altra. Erroneamente le costruzioni scientifiche vengono prese come
oggetti e come leggi, e l’intera descrizione scientifica del mondo è una evoluzione di astrazioni
prodotte dalla mente. «La mente è la prima cosa e la più diretta che esista nella nostra esperienza:
tutto il resto non è che lontana congettura» afferma Eddington. Quando si crede che la scienza
scopra un ordine in natura, essa scopre invece se stessa, e pertanto si potrebbe ripetere con Henry
W. Longfellow che «l’orma sulla sabbia del tempo è la nostra». E ancora in un altro passo:
«Attraverso il mondo fisico scorre un contenuto sconosciuto che deve realmente essere la stoffa
della nostra coscienza. Noi abbiamo trovato che dove la coerenza ha progredito di più, la mente non
ha fatto altro che riacquistare dalla natura ciò che la mente ha messo nella natura» (The nature of
physical world, Cambridge 1929).
Appare evidente che si profila qui un mentalismo, secondo il quale la mente diventa il vero
attore e forse l’unico protagonista della scienza. Anche Whitehead ritiene che la scienza crei
oggetti e che questi nascano dai rapporti tra mente e natura (cfr. The concept of nature,
Cambridge 1920, p. 30), dalle relazioni che mettono insieme mente e natura in una
combinazione che è originale e che si situa nell’esperienza terrena dell’uomo.
Ma un uomo inserito in un ambiente è diverso da un altro in un ambiente dai caratteri sociali
contrapposti. La genesi degli oggetti scientifici non è dunque obiettiva e il suo carattere arbitrario è
fuori discussione: «è semplicemente il divenire o la crescita di un nuovo modo di sentire il resto del
mondo» (ibidem).
Aumentare la conoscenza del mondo significa in realtà apprendere qualcosa di più sui princìpi
d’ordine che mettiamo noi stessi nel mondo. Alla natura vengono attribuiti meriti che appartengono
soltanto a noi: il profumo della rosa, il canto dell’usignolo, lo splendore del sole...
I poeti sbagliano, afferma Eddington, dovrebbero rivolgere le loro liriche a se stessi, sotto forma di
odi o di compiacimento per l’eccellenza della mente umana. La natura è una cosa monotona, senza
suono né profumo né colore: non è che l’incessante affrettarsi della materia.
Il problema si sposta allora dentro la mente, e quindi si riprendono termini come coscienza, volontà,
emozione, sentimento, compresa la domanda su quale sia il senso della mente.
In queste conclusioni c’è l’idealismo e persino la fenomenologia di Edmund Husserl.
Meyerson sostiene che la scienza deve passare dal bisogno di misurare e quantizzare, a quello di
capire l’essere, il perché del misurare, e afferma che l’ontologia (letteralmente la conoscenza
dell’essere ) non è un presupposto, ma una conseguenza del procedimento scientifico. Ed eccoci
tornare ancora alla filosofia (cfr. De l’explication dans les sciences, Paris 1921). Ispirandosi a
Meyerson, Paul Valéry ha detto che «lo spirito umano è assurdo per quello che cerca, è
meraviglioso per quello che trova» (in Variétés, Paris 1924-1944).
Non posso nascondere che questa serrata serie di considerazioni finisce per rattristarmi, poiché
avverto un limite insuperabile dentro la scienza e nello stesso tempo la voglia di uno strumento per
capire il mondo. Sento la voglia altrettanto insopprimibile di cercare.

LA SCIENZA UTILE ALL’AZIONE.


Per come si presentava alla fine dell’Ottocento, la scienza era dunque nella sua essenza «creazione
di oggetti». E certo non rappresentava più la più alta forma di conoscenza e la più sicura via alla
verità, poiché era essa stessa a creare la «res», ossia la cosa che poi indagava.
Si comincia a vederla cioè come una dea minore, come qualcosa di utile all’azione dell’uomo, e non
più dunque a capire la realtà, e a scoprire quei segreti della natura che poi si tramutano in verità
definitive. Un sapere organizzato in vista dell’azione. Auguste Comte lo dice chiaramente: «La
scienza conduce alla previsione, la previsione all’azione».

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Un autore che meglio d’ogni altro ha messo in evidenza il carattere concreto della scienza è stato
Benedetto Croce. Egli nega persino che sia un sapere vero e proprio: la scienza ha un carattere
meramente pratico in cui le forme concettuali sono solo apparenti, pseudo-concetti, indispensabili
non per conoscere la realtà, bensì per misurare e calcolare ciò che già si conosce; creazioni
arbitrarie, sia pure secondo certe regole ed entro certi limiti. La scienza, conclude Croce, è una
manipolazione operata dall’attività degli scienziati. Anche quando questi ultimi affermano di
giungere a concetti universali, di fatto non fanno altro che generalizzare rispetto a fenomeni che
sono mutabili e immediati.
Se la scienza non è «contemplatio rerum» bensì soltanto «inventus fructus», e se la verità è
una o non è (come dice san Tommaso), la scienza è l’opposto della verità: qualcosa di
pragmatico. Ed ecco un nuovo binomio: scienza-pragmatismo. Il pragmatismo si fonda
sull’azione, sui risultati dell’azione e si situa dentro il relativismo.
William James nei suoi Saggi pragmatisti sostiene che non esiste dottrina o principio che possa per
sé dirsi vero o falso, ma ne esistono che possono essere utili e in base a questo, e solo a questo,
devono essere considerati veri. Rendono la vita più bella, più ricca e per questo e solo per questi
effetti devono essere accettati.
Ma un simile fondamento è fragile e malsicuro poiché è soggettivo, esclusivamente psicologico, e si
sottrae a ogni valutazione oggettiva. Nella Volontà di credere (1897), James aggiunge che ogni
dimensione soggettiva si fonda sulla fede, in una convinzione personale che porta ad accettare o
rifiutare l’esperienza e un’idea.
Se nulla si dimostra, allora ogni convinzione si fonderà sul crederla importante e utile. Ma una cosa
utile per uno può essere dannosa per l’altro. Persino Dio ne sarebbe un esempio: vi sono uomini
come Lucrezio che hanno trovato l’idea di Dio tutt’altro che capace di rendere bella e serena la vita:
anzi, l’hanno giudicata causa di oppressione e d’incubi: «Tantum religio potuit suadere malorum!».
Vi sono, e vi sono stati, uomini per cui l’idea di immortalità è parsa più fonte di tormento e di
angoscia che di gioia e di serenità. E un verso di Pindaro, nella seconda Pitica, recita testualmente:
«Anima mia, non desiderare cose immortali ma poniti a opere che ti sia dato compiere».
Insomma, in questo tentativo di salvare la scienza, la si colloca al servizio del pragmatismo, e il
pragmatismo serve a migliorare il vivere.
Un altro tentativo di salvare scienza e i suoi principi è stato rivolto all’esperimento.
«L’esperimento è una parte essenziale dei nostri mezzi per distinguere tra costruzioni
scientifiche che sono conoscenze e costruzioni che sono semplici sforzi dell’immaginazione»
(John Macmurray, The boundaries of science, London 1939).
Ma anche in questo modo non si risolve la questione dell’esistenza di un mondo esterno, e la
scienza continua a rimanere incapace di farlo.
Max Planck dice: non resta altro che introdurre nella scienza «un’ipotesi metafisica». È il «passo
salvatore» che, mentre grava la scienza di un elemento irrazionale, ne rende possibile l’esistenza,
che ha la radice nella fede. Anche in fisica, dice Planck, non si è beati senza fede, ed «è questa fede
sicura che indica la via all’impulso creatore, alla fantasia» (La conoscenza del mondo fisico, cit., pp.
110, 226, 292). E continua: «Anche la severa ricerca scientifica non può progredire senza il libero
gioco della fantasia. Chi non sa almeno qualche volta pensare cose contrarie alla rigida legge
causale non arricchirà mai la scienza di una nuova idea» (ibidem, pp. 11 sg.).
La considerazione dell’importanza che hanno nella costruzione scientifica le ipotesi di lavoro, le
analogie, le intuizioni, i modelli meccanici, ha fatto dire che la scienza non è che un immaginifico
(Antonio Garbasso).
Comunque la si voglia vedere, si avverte il senso di impotenza che pervade ora la scienza e la
fragilità di ciò che propone. La ragione ha una dimensione certo più modesta di come la vedevano
san Tommaso e Hegel: è una ragione che va verso la conoscenza del reale – la sua meta – in
un’atmosfera crepuscolare. E si ritorna all’interrogativo sulla realtà, a cosa mai sia il reale. Si
ritorna a quella che Albert Einstein ha pittorescamente chiamato la «piovra di riferimento», ossia
quella «stoffa» di cui sono fatte le nostre costruzioni.

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La relatività, soprattutto negli anni della crisi, tra Ottocento e Novecento, rappresentava la forma
più elevata dell’avanzamento della scienza, non fosse altro che per il significato dirompente e per
una nuova visione del mondo fisico che presentava e che fino ad allora non era nemmeno pensabile.
E quindi era inevitabile che ci si interrogasse sul valore filosofico di quella teoria. Chiedersi se quei
risultati della fisica non contenessero tanta filosofia.
Herbert Wildon Carr (cfr. The general principle of relativity in its philosophical and historical
aspect, London 1920) vide in Einstein colui che aveva introdotto il soggettivismo dalla filosofia e
dalla psicologia nella scienza positiva, mentre altri, come Adriano Tilgher, vedevano in lui chi
aveva trasferito in campo scientifico l’idealismo della filosofia. «Fino ad Einstein la fisica e la
matematica prescindevano in modo assoluto dalla considerazione del rapporto tra spirito conoscente
e oggetti conosciuti». Ma proprio su Einstein altri hanno dissentito rispetto a questa visione,
mettendo in forte dubbio che fosse un relativista, non solo per le dieci equazioni gravitazionali e le
nove costanti nell’universo (qualcosa di fisso dunque), ma anche perché il principio per cui non si
può misurare un fenomeno senza tenere conto dell’influenza degli altri fenomeni, di fatto può darci
la chiave che ci permette di conoscere la natura meglio di quanto non fosse possibile nella fisica
classica.
Insomma, la relatività non distrugge la cosa esteriore allo spirito dell’uomo, ma dimostra che
è possibile, anche se misteriosamente, entrarvi in contatto. Un tentativo di lettura disperato
per impedire che, «negando la cosa fuori di me», resti soltanto la soluzione idealistica.
Se non si pone la natura materiale come fondamento, si deve porre il pensiero eterno, cioè Dio
(Giovanni Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze 1938, pp. 4-5).
Si può faticare «ad infinitum» per uscire dall’«impasse», ma nel migliore dei casi si giunge al
mistero. Lo spiritualismo, in un certo senso, è legato alla scienza, sembra un paradosso, ma con la
caduta delle certezze della scienza diventa accettabile (cfr. Alberto V. Geremicca, Spiritualità della
natura, Bari 1939).
È una crisi potremmo dire assoluta, inevitabile. È questa l’impressione che si ha, ancor più forte, nel
tempo presente come se qui finisse anche una civiltà, come se non ci fossero forze per ripartire, per
mettere mano con pazienza ad un mondo e all’uomo che lo percepisce e che tenta di spiegarlo. Le
motivazioni cadono e crolla persino la voglia di capire il mondo. Si instilla un minimalismo
esistenziale che non ha alcuna proposta se non quella di vivere: basta soltanto vivere.

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