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Vittorino Andreoli PRINCIPIA “Avvenire 16.04.

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(11) Il mondo salvato dai colori

1 L’astrazione, in pittura, è la conseguenza di una grande inquietudine che travaglia l’uomo,


del suo bisogno di sacralità
2 L’angoscia si sostituisce alla contemplazione, l’ossessione alla purezza. E’ l’abisso dell’essere
contro l’“utilitarismo ignorante”
3 La forma pare togliere creatività, come se tendesse a ingabbiarla, a incarcerarla, a darle dei
limiti che le sensazioni pure non hanno
4 La realtà non sembra più riproducibile, bisogna dimenticarla per poterla rifare. E il modo
migliore è tornare ai colori

Sento veramente il bisogno di una sosta o qualcosa di analogo, giacché – seguendo la metafora del
viaggio – è come se ci fossimo portati al di là delle colonne d’Ercole, le quali rappresentavano per
gli antichi il limite della conoscenza e dunque il mistero, come anche l’ignoto, sempre irto di
pericoli. Abbiamo rilevato la caduta del principio di causalità, come della dimensione spazio-tempo
e del concetto di legge, cadute che hanno veramente inferto un colpo mortale alla scienza, almeno
quand’è intesa come via di conoscenza certa.
Giunti a questo punto il mondo ci apparirà più insicuro, tanto che avvertiamo forse intorno a noi un
senso di fragilità, di precarietà del sapere. Personalmente ho voglia di lasciare – almeno per un po’
– gli scienziati, andando a guardare il mondo per come appare ad altri osservatori. Uomini che forse
hanno risentito del destino della scienza, che una volta si ergeva sicuro e tetragono nei confronti di
altre discipline per contrasto definite "deboli": è il caso dell’arte. E poiché è scomparsa una visione
del mondo (intendo dire, il mondo com’è), mi sento attratto dalla pittura che il mondo cerca di
rappresentare e di mostrare (cioè il mondo come mi appare).

DAL REALISMO ALL’ASTRATTISMO.


Per la verità, dopo aver constatato il massacro del mondo oggettivo, sorgerebbe la voglia di
ritrovare il realismo e buttarsi a descriverlo. Ma si scopre che proprio nel periodo tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, quando il crollo dei princìpi della scienza diventa evidente
anche nella pittura, si è passati dal realismo all’astrattismo. Una transizione che è possibile seguire
attraverso movimenti pittorici intermedi: anzitutto l’impressionismo in Francia, che nasce intorno al
1886, e in seguito l’espressionismo tedesco e austriaco, che prende corpo intorno al 1910. Ma il
passaggio dal realismo all’astrattismo può essere seguito anche nell’opera di singoli pittori che
hanno visitato entrambi questi dominî, talora abbandonando il realismo per l’astrattismo salvo poi
ritornare al realismo e più tardi ancora fare nuovamente rotta verso la rappresentazione astratta.
Robert Delaunay scrive: «Verso il 1912-1913 ho avuto l’idea d’una pittura che si limitasse
tecnicamente al colore, ai contrasti di colore, che si sviluppasse nel tempo ma si percepisse
simultaneamente, di colpo. Ho usato il termine scientifico di Michel Eugène Chevreul: i contrasti
simultanei. Ho giocato con i colori come si potrebbe fare in musica attraverso la fuga di frasi
colorate... Il colore agisce in questo caso in funzione del contrasto». Alla fine della prima guerra
mondiale Delaunay ritorna alla figurazione e dipinge ritratti – famoso quello di Philippe Soupault
davanti alla Tour Eiffel –, poi negli anni Trenta passa nuovamente all’astratto.
Siamo in un periodo storico in cui s’incontrano addirittura difficoltà nel separare il concreto
dall’astratto. Ci si accorge che è possibile percepire forme precise nell’informale, come anche
definire realizzazioni astratte delle immagini fotografiche, parte di realtà precisamente
definibili.

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Si scopre che esiste un mondo dell’invisibile che, attraverso i sistemi tecnici dell’ingrandimento e
quindi grazie alla possibilità di portarlo alla percezione dei sensi, si presenta astratto: come se quella
astrazione non fosse altro che la sua concretezza.
La realtà diventa insomma difficilmente definibile anche solo concettualmente. I vissuti e i giochi
percettivi del singolo possono cogliere in un oggetto concreto particolari che, estrapolati dal
contesto – così come avviene quando si concentra una forte attenzione su un particolare – appaiono
del tutto al di fuori della realtà, frutto di pura invenzione fantastica.

ALLA SCUOLA DELL’ASTRATTISMO.


Nella storia della pittura l’astrattismo si presenta come movimento in un preciso momento storico,
facendosi tendenza e persino scuola. Nasce infatti agli inizi del Novecento grazie all’apporto di
Vasilij Kandinskij, Kazimir S. Malevic e Piet Mondrian che gli conferiscono anche veste teorica,
sia pure ciascuno in maniera distinta. Si tratta certamente di un periodo in cui affiora una domanda
di spiritualità, come sempre quando l’uomo entra in una crisi profonda. Forse il filosofo che meglio
esprime un simile stato d’animo è Arthur Schopenhauer: è a lui che questi artisti fanno riferimento.
È indubbio che l’astrattismo diventi il linguaggio pittorico che meglio permette di esprimere un
pensiero metafisico o un sentimento. In una parola, esso consente di esprimere l’interiorità al
cospetto del mondo concreto rappresentato nella sua fisicità, sia pure deformata per conferirle un
senso totalmente "altro" in relazione al senso comune e al suo uso più tradizionale.
L’astrattismo si nutre del sapere delle psicologie e di quell’inconscio di cui già si parla nella
seconda metà dell’Ottocento, ben prima dunque che Freud lo esplori con molta attenzione
attribuendogli anche la funzione di motore del comportamento (persino di quello che si voleva
ridurre a pura razionalità).
È a questo punto che inizia a profilarsi un mondo nascosto e persino misterioso, un mondo che
ci domina e che la pittura finisce per voler indagare e conoscere usando il colore senza i
confini di un corpo o i limiti della forma geometrica, gotica o persino romantica.
Con Schopenhauer si attinge al «mysterium tremendum» che trasmette angoscia, mentre ci si
allontana dalla certezza di una classicità che si vuole rifondare sulle teorie del mondo antico. In
pittura l’astrazione è la conseguenza di una grande inquietudine che travaglia l’uomo, ma anche del
suo bisogno di sacralità, dei temi della religione e dell’ineffabile che sfuggono alla ragione.
Nel suo primo libro – Della spiritualità nell’arte (1912) – Kandinskij scrive: «Queste sensazioni di
colore sulla tavolozza si convertono in esperienze spirituali... Ho provato via via più forte il
sentimento che nell’arte le cose non dipendano dal "formale" ma da un sentire interiore (il
contenuto) che delimita il campo del formale». È così che nel 1910 Kandinskij scopre l’arte astratta,
a 44 anni, dipingendo la sua prima opera in questa chiave figurativa. Si tratta di un acquerello,
tecnica che gli permette la più grande libertà e la maggiore velocità di esecuzione, con la possibilità
di ritrovare l’invisibile nella sua produzione artistica (Alain Bonfand, L’art abstrait, Paris 1994,
p.15).
È da allora che lo spirituale si attacca all’astrattismo. Nel caso di Kandinskij indubbiamente lo
spirituale e la sua ricerca si fanno addirittura ossessivi. Si aggiungano le esperienze della prima
guerra mondiale, l’incertezza dell’esistenza, il senso dell’irreale, il profilo della morte, della sua
assurdità, del mistero... La pittura fa riferimento a un linguaggio che non si esprime più all’interno
di linee ordinate – comunque entro il limite della forma, che nell’astrattismo viene a perdersi –, fino
a chiamarsi più tardi "informale". Qui giunti occorre citare Kazimir Malevic: «Nel 1913 – scrive –,
nel mio sforzo disperato di liberare l’arte dai pesi inutili dell’obiettività, mi sono rifugiato nella
forma del quadrato. Esposi un’icona formata da un quadrato nero su campo bianco, la critica
sospirò e con essa tutta la società: «Tutto ciò che abbiamo amato è morto... Non resta che un
quadrato nero su fondo bianco.... Io stesso ero colmo di angoscia nel momento in cui ho lasciato "il
mondo della volontà di rappresentazione" dove avevo vissuto e creato, e in cui avevo creduto».
L’angoscia si sostituisce alla contemplazione, l’ossessione alla purezza. Malevic parla di
desiderio di dipingere l’abisso dell’essere contrapposto all’"utilitarismo ignorante". Egli

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sembra scoprire il fascino del mondo senza oggetto, fascino che è allo stesso tempo attrazione
e paura.
Nei suoi dipinti si crea un gioco di definizione delle nuove opere che sono sempre all’insegna della
mancanza, dell’oggetto assente: Testa senza viso, Viso senza viso.
Una storia per certi aspetti analoga è quella di Piet Mondrian, che fino al 1911 dipinge paesaggi,
fiori, nature morte. In seguito però l’artista si propone di portare in pittura la teosofia: egli sogna di
ricreare il mondo ordinandolo in verticale e in orizzontale e togliendo agli oggetti il loro senso
convenzionale – ogni senso possibile – per riportare tutto all’informale, che ha bisogno di un Dio. Il
suo mondo è senza vita e senza morte, al di fuori del tempo, mentre la pittura si pone come limite
dell’uomo, condizione primordiale. Una "fase zero" da cui ripartire. E qui, nella mancanza di
corporeità, il mondo diventa colore. Mondrian stesso diventa qualcosa d’altro rispetto al pittore che
era stato, cambiando persino nome: da Mondriaan a Mondrian.
L’assenza di elementi pittorici diventa il contenuto dell’astrattismo, come se ci si limitasse
all’interiorità delle cose, all’invisibile del visibile, alla presenza di Dio entro l’uomo, allo spirituale
come anima del materiale. È una rappresentazione del mondo nel momento in cui nasce, poco prima
di perdere il proprio indistinto e di diventare infinito, il nulla che tuttavia contiene le cose. Così
descritto, il mondo è soprattutto colore.

IL SIGNIFICATO DEL COLORE


Il colore ha sempre colpito la fantasia dell’uomo, e non solo del pittore ma di chi semplicemente si
sofferma a contemplare il mondo come insieme di colori. Da questa invasione che il colore opera
nei confronti di ogni uomo, egli stesso fatto di colore e dentro una natura colorata, sono nati sistemi
e considerazioni che hanno cercato di dare un ordine a un mondo che sembra inafferrabile e fatto
solo di fascino. Di qui sono sgorgate anche allegorie e un simbolismo riguardo al colore cui sono
stati conferiti attributi e sensi specifici.
Nel Medioevo il colore, usato nelle "botteghe d’arte" secondo schemi rigidi e ben precisi, fu
caricato di significati affettivi: l’uno esprimeva l’odio, l’altro l’amore: «Il giallo disegnava l’ostilità.
Enrico di Würtenberg passa davanti al duca di Borgogna con tutto il suo seguito vestito di giallo e
"fut le duc adverty que c’estoit contre luy" [fu il duca avvertito che era contro di lui]» (in Johan
Huizinga, Autunno del Medioevo, Firenze 1942, p. 383). L’azzurro e il verde sono colori associati
all’amore. In particolare l’azzurro diventa il colore della stoltezza e il verde del giovane amore
pieno di speranza: «Il te fouldra de vert vesti. C’est la livrée des amoureux» [Dovrai vestirti di
verde. È la livrea degli innamorati] (J. Huizinga, op. cit., p. 381).
Ma al di là delle regole medievali, alcuni pittori si caratterizzano per il colore dominante da loro
impiegato: sono celebri i gialli di Vincent Van Gogh, gli angeli rosa (o rossi) di Vincenzo Bellini,
l’oro che ha dominato la pittura del Trecento senese... La raccolta sistematica delle dominanze
pittoriche non permette di concludere l’analisi ricavando regole sufficientemente precise: forse si
può dire che ogni caso, ogni pittore, costituisca un’eccezione, una storia a sé. Basterebbe pensare ai
significati del bianco e del nero: il nero è colore della morte, ma è anche presente nelle feste di
matrimonio che sanno di unione e di nascita dell’amore. Viceversa il bianco, che generalmente
indica la purezza, è molte volte il colore della morte, del bianco lino in cui si avvolge il morto,
oppure della pazzia, che non è altro se non «imago mortis». E anche i luoghi di morte – gli ospizi e
gli ospedali – sono bianchi proprio nel rispetto della morte.
Sembra dunque possibile tutto come pure il suo contrario. Indagare questa simbologia
coloristica è affascinante, ma lascia alla fine un’acuta delusione in chi cerca con caparbietà
regole che superino i confini della cultura d’un periodo di tempo ben determinato.
A rendere ancora più difficile la categorizzazione del colore e della sua scelta si deve aggiungere
che esso non va limitato alla sua identità di base ma dev’essere letto nella infinita gamma di
intensità, di variazioni, di toni, ciascuno dei quali cambia nell’accostamento con un altro o con altri
colori. È come se si volesse parlare delle consonanti e delle vocali di una lingua ben sapendo che la
loro combinazione potrebbe riempire un’infinita biblioteca di diversità e persino di capolavori.

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Nella pittura astratta i colori non sono nient’altro che vocali e consonanti di una composizione le cui
variazioni finiscono ancora per stupire senza che si avverta alcun sintomo di stanchezza, segno che
l’astrattismo pittorico è ancora quanto mai vivo.

IRROMPONO GLI IMPRESSIONISTI.


Il movimento degli impressionisti ha svolto un ruolo fondamentale nel distaccare la pittura dal
realismo, ponendosi in questo processo come una tappa intermedia. I pittori impressionisti si erano
proposti di raccontare l’interiorità e dunque le emozioni che un oggetto o la natura producevano in
loro. Un simile intento costituiva dunque lo stimolo per esprimere un mondo interiore fatto di
emozioni e di sentimenti: il mondo interno dell’uomo modifica quanto appare, anzi, forgia la natura
e le attribuisce la sua vera identità che è lontanissima da ogni criterio di oggettività. Il pittore
impressionista trova la fonte della propria arte dentro di sé e qui scopre una tavolozza nuova, poiché
i colori appartengono ai sentimenti e non alle cose. Nell’impressionismo dapprima si riconosce la
realtà in una deformazione, che è l’abito dei sentimenti. In seguito questa scompare, e rimangono i
colori ordinati in modo da suscitare le emozioni ma anche il dolore, il lamento, l’angoscia.
L’impressionismo è la rappresentazione pittorica dell’inconscio. Non a caso i pittori che fanno parte
di questo movimento si riferiscono ai sogni, a un mondo che ha dimensioni all’apparenza naturali e
che invece sta tutto dentro la testa e nella memoria dei sentimenti. La realtà sfuma per lasciare sulla
tela solo le emozioni che ha prodotto, un vissuto peculiare e unico proprio di quello specifico
momento, di quel preciso tramonto o della luce di quel laghetto coperto delle ninfee di Claude
Monet. Ecco: non le ninfee della botanica ma quelle di Monet, di quel momento particolare, poiché
l’artista le ha dipinte molte volte osservando lo stesso lago e sempre sono risultate diverse.
Come nella musica esistono i suoni e la loro combinazione infinita e imprevedibile, analogamente i
colori possono ordinarsi in figure umane, oppure perdere ogni configurazione liberandosi da una
sola forma per poterle contenere tutte. Come il monaco – "monos" – è solo ma per potersi legare a
tutti.
La macchia è forma anche se non ricorda alcuna delle forme oggettuali del mondo o delle
convenzioni. È un puro nulla, come i suoni che si avvertono e occupano la mente di chi li ascolta
disperdendosi poi nell’aria e lasciando solo il silenzio, vale a dire la loro assenza. Nella sua
espressione contemporanea il racconto musicale si allontana dalla sinfonia con i suoi tempi e le sue
regole. Anche la sinfonia si dissipa e perde forma, ma soltanto per acquistarne un’altra che al
confronto appare informale e che in realtà inventa una forma propria.
Certo, la musica è sfuggente, eterea come un’opera astratta, che nasce per consumarsi e lasciarci poi
in preda a emozioni, alla considerazione di quanto una "macchia" di colore riesca non solo ad
attivare l’"élan vital" (lo slancio vitale) ma persino a coinvolgerci, a commuoverci. In fondo il
colore è il componente di ogni forma, come il suono è l’alfabeto di ogni sinfonia, da quelle di
Beethoven alle opere di Berio, "tirate" da ogni parte con il rischio che i suoni si rompano.
Un argomento a supporto di questo accostamento tra suoni e colore, tra musica e pittura, lo fornirà
Maurice Ravel nel 1922 quando, facendo riferimento a un’esposizione di opere di Kandinskij alla
Juryfreie avvenuta lo stesso anno, trascriverà per orchestra la celebre composizione pianistica di
Modest P. Musorgskij Quadri di una esposizione.
Il mistero di un suono può riportarci al Genesi oppure dare sonorità a un corpo che si muove in uno
spazio infinito. Così è anche per il colore, che si mescola in insiemi sempre nuovi e infiniti. Suoni e
colori sono come le lettere di un alfabeto che nel loro mescolarsi contengono tutta la poesia
composta e quella che si declamerà nel futuro.
Il colore che non ha forma e si muove come fosse liquido permette insomma ogni creazione,
mentre i mattoni consentono solo alcune realizzazioni. La forma toglie creatività, come se
tendesse a ingabbiare, a incarcerare, a imporre limiti che il suono puro e i colori non hanno.
A partire dall’inizio del Novecento la musica si distacca dallo schema sinfonico e si risolve persino
nella dodecafonia infrangendo gli schemi sinfonici, analogamente a quando il Rinascimento – che
era giunto al vertice con Michelangelo e Raffaello – aveva rotto ogni schema evolvendosi dapprima

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nel Manierismo e poi nel Barocco, quasi fosse alla ricerca di nuove esperienze che si opponessero a
regole già in grado di portare ad altezze insuperabili la composizione scultorea o pittorica. In tal
modo il suono si libera completamente e permette una incredibile plasticità che contiene una
illimitata potenzialità di espressione e di creatività. Non c’è alcun dubbio che questo è il senso
dell’astrattismo.

L'AVVENTURA DELL’ARTE.
L’astrattismo fu certamente un linguaggio ricchissimo nel periodo che lo vide nascere grazie a
esperienze di rottura con la pittura realista, come il cubismo e il surrealismo, che si realizzano
mediante irrigidimenti di forme che poi si rompono e perdono i propri contorni. Ecco emergere
l’informale e l’astratto, rispetto a una corporeità del mondo e degli oggetti che sembrava ormai
priva di quei messaggi significativi attesi sempre dall’arte.
È un’arte che rompe e porta l’uomo di fronte a nuovi mondi o ad aspetti inediti del mondo. Si tratta
di un’avventura che avviene su una tela e che ricorda il creatore capace, dal nulla – e dunque
dall’informe – di generare gli oggetti, dalle stelle all’uomo, e poi forse di ritornare ancora al nulla:
al nulla dell’apocalisse che tuttavia rimane colore, nuvola, residuo informe dentro il quale sono
contenute tutte le forme possibili, e persino un nuovo mondo. Accade esattamente così anche nella
musica, con quelle note che senza essere possono diventare tutto. È l’espressione del bisogno di
tornare a una potenzialità estrema quando ciò che è già stato fatto è divenuto incomprensibile.
Tutto questo accade nel momento in cui i fondamenti del mondo cadono e la scienza ci dice che non
è possibile conoscere, o lo si può fare solo "pressappoco". Allora meglio scappare dal mondo,
oppure rifarlo: anzi, meglio farne molti, ritornare all’alfabeto stesso di una composizione
dell’universo. A un Nuovo mondo. Quello vecchio è da cancellare, bombardato da una guerra che
dissemina morti e macerie, troppo malato e orrendo perché lo si possa salvare.
L’espressionismo mostra questo mondo così com’è, senza finzioni. Gustav Klimt e Richard Gerstl
lo rendono mostruoso. L’astrattismo lo cancella, lo riduce a semplice colore, lo dimentica e tenta di
rifarlo rimescolando le tinte nella stessa maniera con cui il Creatore nel Genesi manipolava senza
un ordine la terra, il fango, per darvi una qualche consistenza. Ma è un mondo da cancellare, poiché
aveva in sé ormai solo voglia di guerra e di distruzione; sembrava vivere solo allo scopo di
distruggere con la furia cieca delle armi, di coltivare odio, di annientare la cultura del nemico, di
ordinare la vita per eliminarla, riducendola alla sua sola bestialità, alla sua più vergognosa
degradazione.
Questo mondo non è più riproducibile: meglio l’informale, che è insieme speranza e materia
di una nuova genesi, del desiderio del nuovo e persino del bello ritrovato e reinventato. Non si
può contemplare questo mondo: bisogna dimenticarlo, per poterlo rifare.
E la maniera migliore è tornare ai colori. poiché in fondo il mondo nella sua apparenza è colore e
nient’altro che colore. Allora lo si combina daccapo: è di qui che forse nascerà un nuovo mondo.
Tutto questo non è diverso dal bisogno di rifare l’uomo trovando i princìpi che lo devono spingere
al rispetto dell’altro e dei limiti, al bisogno di legami che mettano fine una volta per tutte a questa
libertà sfrenata. In due parole, parliamo delle nuove regole per vivere senza ammazzarsi, per
campare senza commettere omicidi o senza eliminarsi.

COME UN BAMBINO
Il pittore astratto è come un bambino. Non ha bisogno di nulla se non della ingenuità di un piccolo,
della sua purezza rispetto agli uomini dotati di sapere e di tecnologia, che hanno mercanteggiato e
massacrato il mondo. Il bambino non sa nulla del mondo, non conosce nemmeno il nome delle cose:
ma con una matita in mano e un foglio davanti traccia segni che parlano di desiderio e di volontà di
costruire un mondo adatto ai suoi bisogni e alla sua voglia di vivere. Forse sarà un mondo di favole,
dal momento che quello concreto è fatto di campi di concentramento, magari invisibili, e di
ingiustizie che si accaniscono persino contro i più giovani.

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Come un bambino con un pennello e alcuni colori, l’artista passa il tempo a riempire tavole,
fotografie di un mondo che non c’è ma che sarebbe bello sostituisse quello che si impone e ci
abbrutisce. Il pittore è come un bambino che ancora non comprende il senso delle parole e del
mondo, il significato del suo esserci dentro. Egli gioca con questi colori e poi guarda lui stesso
meravigliato quanto viene fissato su una tela colorata, che ora ride ora piange.
Questo bambino dà vita a uno sperimentalismo spontaneo, un gioco che comincia senza sapere dove
condurrà e cosa rappresenterà. Il pittore rimane esterrefatto, come un bambino di fronte al miracolo
di un caleidoscopio che cambia sempre tinte ma è fatto di pochi frammenti di vetro colorato.
Guardando verso il cielo attraverso la lente, egli scopre che è pieno di stelle, forse simili ma tutte
perfettamente riconoscibili e nell’insieme capaci di creare un firmamento in cui sembra risuonare
l’Alleluia del Messia di Händel.
L’artista è proprio come un bambino: un bambino che getta sul pavimento barattoli colorati, che
soffia in una cannuccia per produrre bollicine che vagano leggere e poi scoppiano. È come un
bambino che si attacca al seno rigonfio di latte della madre e si nutre e lo tocca, all’infinito, senza
sapere perché e senza che il tempo lo induca a fare altro. Si può trascorrere una vita intera
accarezzando il seno materno, o vivendo tra i colori davanti a tele bianche che si popolano di vita e
di speranza.
L’artista non sa nulla del mondo e lo esplora tra bisogni e speranza, tra meraviglia e dolore,
proprio come fa un bambino. E come un bambino dipende da tutti, ma agisce come fosse
autonomo e unico. Non conosce ancora nemici, e si pensa onnipotente per un mondo fatto di
colore e di stupore.
Il bambino è una metafora dell’astrattismo visto appunto come una forma aperta e in movimento,
capace di contenere tutte le forme possibili. Il piccolo rappresenta una vita ancora in divenire, che si
muove e che cambia come un’ameba mai stabile. Il bambino è informe, anche se contiene tutte le
forme possibili e le più definite delle età che seguiranno.
La forma racchiude lo spazio mentre l’informale è aperto, e dunque non delimita mai: diventa forma
sempre aperta. Una forma libera, si potrebbe dire, nella interpretazione e nello sviluppo. Proprio
come un bambino può prendere forme diverse, ma se resta bambino non ne assume mai alcuna. A
questo proposito si dovrebbe ripensare alla simbologia di forme chiuse, come il cerchio o il
quadrato, riempite di simboli della perfezione e della vita, della stabilità e della sicurezza. Entrambe
queste forme, in verità, mancano della plasticità, della libertà di non diventare mai una forma
aperta. La forma della creatività è e resta la macchia informe, quella che disegna un bambino.
L’astrattismo diventa non forma ma energia: un fluire in ogni direzione possibile, in tutti i sensi, un
vagare senza limite e pertanto senza forma. È un mondo che sa di primitivo ma anche di
onnipotenza. Le forme sono uno sviluppo della rappresentazione, ma un limite alla creatività. Si
può vagare nell’indistinto, tra suoni mai avvertiti prima e immagini che nemmeno si saprebbero
pensare da svegli. Un vero mondo inesistente, che nessuno prima aveva espresso. Tirando le somme
s’intuisce che il mondo della creazione non c’è, anche se esiste dal momento in cui lo abbiamo
rappresentato.

LE SENSAZIONI PURE
Talvolta nel gioco delle visioni che ciascuno di noi può sperimentare a occhi chiusi, stringendo forte
le palpebre o facendo pressione con le dita sui bulbi oculari, si possono scorgere immagini capaci di
richiamare molte opere del cosiddetto informale. La situazione appare ancora più sfumata se si
passa dalla vista all’udito: a garantirne il funzionamento sono vibrazioni dell’aria su membrane che
vengono poi trasformate in esperienza mentale. Si tratta di suoni allucinatori o illusori poiché è
come se esistessero per il singolo, ma non lasciando traccia è come se non avessero "corpo".
Ci sono poi le sinfonie della notte, quelle dei sogni che possono persino ammaliare e che nessuno ha
mai composto se non colui che sogna, e che magari ignora anche la scala musicale nella sua
elementarità.

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È, questo, il mondo delle visioni, pura suggestione, visioni «sine materia». L’informale non è un
vuoto ma semplicemente qualcosa che può assumere molti significati e svariate forme, proprio
come un pugno di creta che nella manipolazione successiva può assumere forme mutevoli. Inoltre,
va detto che l’informale contiene tutte le forme possibili: le nuvole ad esempio sono informi, ma
finiscono per lasciare intravedere persino un vecchio con la barba bianca nel gesto di creare il
mondo: il Padreterno. Anche le macchie di umidità su una superficie bianca riescono a dipingere un
mondo intero: formale, ma pieno di possibilità di proiezione. Il caso più eclatante a questo proposito
sono le macchie del test di personalità di Hermann Rorschach: macchie informi in cui ogni persona
intravede figure precise, oggetti o animali, in funzione della propria personalità e della patologia di
ciascuno. Basterebbe citare il giallo degli epilettici, secondo Franziska Minkowska, o il rosso
collegato alla violenza, o ancora il bianco alla soavità, che però – come si è detto – in periodi storici
differenti è diventato il colore della follia e persino della morte.
Su queste coordinate si situa la figura del pittore come uomo che sperimenta legandosi al mondo e
che compone opere testimoni di quell’attimo: un attimo che poi muore, e forse porta a morte anche
il prodotto legato solo all’attimo ma ridotto fuori di esso a realtà inerte, senza vita. L’arte si coniuga
solo con il momento in cui essa nasce e muore. Seguendo questo approccio, non avrebbe pertanto
senso la museologia che non mostrerebbe altro se non prodotti del passato, corpi rivissuti e
totalmente altri rispetto alla loro origine. È l’arte che muore, che si consuma nell’attimo in cui si
cancella. L’arte effimera.

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