1 Dottrine anarchiche vere e proprie non si incontrano prima dell’800; nel ’500,
tuttavia, se ne possono rilevare alcune tendenze
2 Questo è l’ideale di Rabelais nell’Abbazia di Thélème descritta nel «Gargantua»
che si regge in base alla legge: «Fa’ ciò che vuoi»
3 Il pacifismo influenza anche artisti come Albrecht Dürer nella famosa stampa «Il
Cavaliere, la Morte e il Diavolo» del 1513
4 Il fondatore della pedagogia moderna, Comenius, immagina un’enciclopedia del
sapere sorretta da un linguaggio universale
Di Vittorino Andreoli
RINASCIMENTO MINORE
Di ogni epoca si può dire che esistano una storia "forte", capace di conferirle
lustro e originalità, e una "minore" ma altrettanto significativa per lo sviluppo
delle idee, e anche per tracciare un percorso quale quello che stiamo seguendo: un
percorso i cui temi centrali sono il diritto e la politica, ovvero, in termini più
semplici, le modalità attraverso le quali le persone riescono a vivere insieme,
sulla base di regole e di princìpi cui tutti s’ispirano. Per il Rinascimento il
nome di Machiavelli occupa un posto significativo. A lui ci siamo dedicati domenica
scorsa. Ma vi sono anche movimenti che, seppur di minore rilievo, devono essere
ricordati per offrire di un tema tutto rinascimentale qual è il diritto un quadro
meglio definito. Quando pensiamo al Rinascimento le prime immagini che si
presentano alla nostra mente sono quelle di Firenze e Roma, luoghi in cui l’arte
italiana ha raggiunto vette insuperabili.
Ma subito dopo i grandi genî – Leonardo e Michelangelo, tanto per ricordare due
protagonisti assoluti – ecco imporsi una straordinaria schiera di personaggi
"minori" che ha dell’incredibile se si pensa all’altezza delle loro opere e a come
siano fioriti in un così breve arco di tempo.
I COMUNISMI.
Le masse diseredate che si coloravano di un comunismo mistico nel basso Medioevo
continuano a diffondersi anche nel Rinascimento, acquisendo maggiore coscienza di
sé e trovando spesso formulazioni esplicite. La prova più alta di questo «comunismo
popolare» coincise in Germania con la Guerra dei contadini (1524-1525) dalla quale
scaturì la dichiarazione dei diritti in 12 articoli (1524): «Quello che è comune è
puro: il mio e il tuo sono impuri»; e ancora: «Da principio Dio ha creato tutte le
cose comuni pure e libere», sicché secondo giustizia i cristiani non dovrebbero
possedere nulla di proprio rispetto ad altri cristiani, «affinché ci fosse
eguaglianza e tutto fosse comune, e spettasse a tutti in egual misura».
La rivolta dei contadini finì in una sanguinosa repressione anche perché Lutero,
cui le masse guardavano, si schierò contro di loro temendo che, qualora avesse
perso l’appoggio dei prìncipi, la sua Riforma sarebbe fallita.
Il profeta dei poveri, Thomas Münzer, chiamò alla rivolta il popolo della Turingia
per realizzare un sistema egualitario e anarchico basato sull’interpretazione lette
rale del Vangelo, convinto che se un popolo non è libero neppure è cristiano.
Sconfitto e sottoposto a tortura, Münzer dirà che il suo obiettivo era quello di
realizzare «la comunità assoluta dei beni. Ciascuno doveva ricevere secondo i suoi
bisogni». Il disegno di Münzer fu ripreso dagli anabattisti, che si riunivano in
comunità isolate da tutti. «Noi abbiamo rinunciato al mondo – scrive Ulrich von
Hutter (uno dei profeti di tale movimento, insieme a Nikolaus Stork e a Scherding)
–. I nostri beni saranno comuni, noi formeremo una sola comunità rigenerata, una
sola fraternità nuova e divina». Il movimento tuttavia si trasformò ben presto in
una violenta dittatura della plebe, culminando nella grottesca incoronazione «come
re di Sion» di Jan Bockhold, capo della comunità anabattista di Münzer, con il nome
di Giovanni da Leida. È spietatamente concreta una frase dello stesso Münzer: «Non
bastano alcuni versetti del Vangelo per nutrire il popolo. Il popolo ha fame e vuol
mangiare».
Il PAUPERISMO.
Il fenomeno del pauperismo generò rivolte finite nel sangue, risolvendosi così
nella cronaca più drammatica, ma produsse anche ricche elaborazioni teoriche. La
prima di queste esperienze è l’Utopia (De optimo reipublicae status deque nova
insula Utopia, 1516-1517) di Tommaso Moro (Thomas More, canonizzato nel 1931 e
proclamato da Giovanni Paolo II nel 2000 patrono dei governanti e dei politici).
L’opera è nota per la descrizione del comunismo dei beni, per quell’ingenuità
propria di tutti gli utopisti che considerano la natura come una "cosa buona"
(concetto che mi sembra fuori dello stesso cristianesimo poiché ignora il peccato
originale), estranea alla realtà politica nella quale, come sosteneva Niccolò
Machiavelli, occorre presupporre che gli uomini siano malvagi. Il futuro
cancelliere d’Inghilterra, però, non manca di realismo e dice: «Pur considerando
dunque tutte le repubbliche, che ora fioriscono... non veggo altro che una congiura
di ricchi, la quale tra tta dei propri comodi...» (L’Utopia, Milano , pp. 93 sgg.),
una definizione di Stato che potrebbe essere fatta propria persino da uno scrittore
marxista. L’«Utopia» di Tommaso Moro persegue la separazione dei poteri: i
magistrati hanno un potere strettamente esecutivo, mentre quello legislativo spetta
a un’assemblea eletta a suffragio universale. Moro ricorre anche al principio
dell’equilibrio delle potenze in politica internazionale. Un comunismo persino più
radicale, che riguarda anche le donne, si può trovare nella Città del Sole
(«Civitas Solis») di Tommaso Campanella, opera concepita intorno al 1599 ma
pubblicata solo nel 1623.
Campanella pone il suo Stato ideale nell’isola di Ceylon (Taprobane) e immagina che
esso sia retto da magistrati elettivi. A capo dello Stato vi è un Metafisico (il
Sole) al quale sono soggetti tre magistrati, che corrispondono alle tre primalità
della metafisica campanelliana.
Si tratta di Pon, che rappresenta la potenza e presiede alla guerra, Sin, che è
sapienza e presiede agli studi, e Mor, che è amore e governa la generazione e
l’educazione. Anche Campanella presume che l’uomo sia naturalmente buono e che non
abbia bisogno di freni: basta che sia assente la proprietà privata. Egli presuppone
inoltre un grande amore per la patria, sufficiente a spingere gli uomini a
lavorare. E proprio al lavoro pone una particolare attenzione: «Napoli è popolata
di 70.000 persone, e solo dieci o quindicimila lavorando prettamente [in modo
schietto] e vengono distrutte dalla fatica, il rimanente è rovinato dall’ozio,
dalla pigrizia».
Vi sono anche altre utopie. Penso anzitutto a quella di Francesco Bacone (Francis
Bacon) con
L'IRENISMO.
L’inusitata violenza delle lotte nei primi anni del XVI secolo, e soprattutto
l’impressione profonda destata dalla sanguinosa battaglia di Ravenna (1512) durante
la guerra della Lega santa che oppose francesi e spagnoli, generarono un movimento
a favore della pace attraverso il quale gli umanisti tentarono di convincere i
prìncipi degli inestimabili benefici derivanti da uno stato di concordia. Le opere
di Erasmo da Rotterdam tracciano un quadro eloquente degli orrori e soprattutto
della inutilità della guerra. Egli sostiene decisamente le teorie dell’amico
Tommaso Moro soprattutto nell’Elogio della follia («Enchomium moriae», 1511).
Questo genere di "pacifismo" influenza anche artisti come Albrecht Dürer ne «Il
Cavaliere, la Morte e il Diavolo» (1513), un clima che sembra influire sui prìncipi
che sottoscrivono trattati, per quanto ipocriti essi possano essere.
Nell’alleanza perpetua tra Francesco I di Francia, Papa Leone X (con tutta la Casa
dei Medici), Firenze e il duca d’Urbino (13 ottobre 1515) è detto: «Promittimus una
cum christianissimo rege dare operam, ut fiat pax universalis inter eosdem
principes christianos» [«Promettiamo assieme al re cristianissimo di adoperarci
affinché si realizzi una pace universale tra i prìncipi cristiani»]. Nel trattato
di Barcellona tra l’imperatore Carlo V e Papa Clemente VII (20 giugno 1529) si
legge: «Contrahentes ipsi ad pacem universalem tendent» [«I medesimi contraenti
tendono alla pace universale»]. Di un analogo sapore irenistico è anche il pensiero
di Campanella. La sua idea d’una fratellanza universale dei popoli e della con
seguente abolizione di tutte le guerre basata – così come l’obbligo del lavoro per
tutti – sul sacrificio dell’amor proprio a vantaggio dell’amor comune è il filo
conduttore del pensiero politico del Monarchia Messiae (1633): «Il secolo d’oro
rinascerebbe se il mondo fosse retto da un solo uomo, nello stesso tempo re e
sacerdote, senza superiori; e se esistesse una sola religione, la vera, l’unica
religione che s’indirizza a Dio. I mali che affliggono il mondo provengono dalla
guerra, dalla peste, dalla fame, da un’opinione contraria alla religione esistente.
Questi mali disparirebbero. Non vi sarebbe più eresia, non vi sarebbe più guerra».
Come realmente Campanella pensasse di giungere a questa condizione del mondo non è
esplicitato, e forse nemmeno è da pretendere che lo fosse, visto che il clima in
cui egli opera è al confine tra realtà e utopia.
Nella Monarchia Messiae Campanella parla di una monarchia universale del papato da
istituirsi attraverso una purificazione delle dottrine e dei costumi del clero. Il
riferimento è teocratico ma non già come accadeva in età medievale, poiché qui a
prevalere è un tipo di religione "naturale". Accanto a questi si hanno anche
programmi meno utopici, con progetti che contemplano l’azione: è il caso di Amos
Comenius (Jan Amos Komenský), fondatore della pedagogia moderna, che immagina di
elaborare un programma "pansofico", cioè un’enciclopedia del sapere sorretta da una
lingua universale che, oltre a finalità scientifiche, sia anche parte di un
programma irenistico di rigenerazione cristiana. Tale programma dovrà essere
attuato attraverso un’associazione di tutti i dotti, germe a sua volta di una
società delle nazioni. Queste idee sono esposte nel poema Il labirinto del mondo e
il paradiso del cuore, pubblicato nel 1631.
L'ANARCHIA.
Dottrine anarchiche vere e proprie non si incontrano, a rigore, prima del 1800. Nel
Cinquecento, tuttavia, se ne possono già rilevare alcune tendenze. Esse si
caratterizzano pe r il loro forte sentimento di non-soggezione, e dunque di
anarchismo. Due su tutte: un atteggiamento individualistico che si sostituisce
all’idea classica dell’uomo come civis, cioè come membro attivo della comunità
politica ; e l’idea che non esista la politicità dell’uomo, e quindi la naturalità
dello Stato (pensiero, questo, proprio degli epicurei e degli stoici), almeno di
uno Stato di natura libero da leggi e obblighi, una specie di Stato primitivo cui
sarebbe bene ritornare. È questo ad esempio l’ideale di François Rabelais nella sua
«Abbazia di Thélème» descritta nel Gargantua, che si regge in base a una sola e
semplicissima legge: «Fa’ ciò che vuoi». Ma si possono riconoscere componenti
definibili come anarchiche anche in due opere italiane. Nel De reipublicae
dignitate (Cremona 1556) Marco Girolamo Vida riproduce un dialogo svoltosi a Trento
durante il Concilio nel 1554. Uno degli interlocutori, il poeta Marc’Antonio
Flaminio, avanza una vivace critica della vita civile, tanto vivace e con una così
evidente aspirazione a una libera vita di anarchia da suscitare l’aspra protesta di
un altro interlocutore, il Priullo, che giunge fino a lanciare una larvata accusa
di eresia. È solo un episodio all’interno di un dialogo a difesa della legittimità
della repubblica. Esso però lascia intravedere la possibilità di vivere in un modo
totalmente diverso, quasi si trattasse di un sogno, al quale però viene data voce.
L’altra opera in questione è Della perfezione della vita politica (1579) firmata
dal veneziano Paolo Paruta. Anche i dialoghi del Paruta s’immaginano avvenuti
durante il Concilio di Trento. Uno degli interlocutori, il giovane Molino,
esponendo idee contrarie allo Stato, dice espressamente che è questa l’opinione
esposta da quasi tutti i professori dell’Università di Padova e dai loro giovani
discepoli. A fomentare queste idee devono aver contribuito anche le dottrine
ascetiche e contemplative (e quindi mistiche) che dovevano trovare un certo
alimento nell ’ambiente del Concilio.
LIBERTÀ RELIGIOSA.
Già nel Basso Medioevo idee simili avevano trovato manifestazioni in opere anonime
e in favole, più che nella dottrina. Basti ricordare la «Storia dei tre anelli»
(opera inclusa nelle Cento novelle antiche, nel Novellino e ne L’avventuroso
ciciliano, ma divenuta popolare con il Decameron), che fu usata proprio per indurre
alla tolleranza. Siamo nella terza novella della prima giornata. Il Saladino
«avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo
tesoro, e, per alcuno accidente sopravvenutogli, bisognandoli una buona quantità di
denari [...], gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il
quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui avere da poterlo servire,
quando volesse». Lo fece chiamare, lo ricevette familiarmente e gli pose il
seguente quesito: «Quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica, o la
saracina o la cristiana?». L’ebreo, uomo saggio, capì che il Saladino cercava di
metterlo nella condizione di doverlo accusare, e allora gli raccontò una
novelletta.
Un uomo grande e molto ricco possedeva un anello preziosissimo che aveva ricevuto
dal padre e che egli trasmetteva al figlio, suo successore, avendolo chiamato a
questo ruolo e quindi rendendolo proprio erede.
TOLLERANZA.
Nel Rinascimento l’idea di tolleranza appare congiunta con quella di religione
naturale, scoperta dalla ragione, e di religioni che poi si avvicinano a essa. Nel
Cenacolo Fiorentino un esempio è la burlesca confessione di Astaroth nel Morgante
(canto XXV, stanze CCXXXI sgg.), opera di Luigi Pulci.
Difensori di una certa visione di libertà della coscienza – in contrasto con l’idea
che ne aveva la Chiesa, e in aperta polemica con taluni suoi punti fermi – furono i
due senesi Lelio Sozzini (o Socini) e del nipote Fausto
EPICRISI. Sono veramente felice di aver dedicato un certo spazio agli autori
"minori" del Rinascimento e di aver richiamato l’attenzione su di loro rispetto ai
cosiddetti "grandi", non solo perché non amo la storia che si riferisce unicamente
agli eroi ma anche perché sono convinto che proprio attraverso i nomi meno
frequentemente citati si colgano di un periodo storico alcuni aspetti che
altrimenti andrebbero perduti. Vale insomma il principio della "microstoria", oggi
ormai persino istituzionalizzata, grazie alla quale è possibile definire un nuovo
modo di vedere il passato, specie in temi così vasti come il diritto e la
concezione dello Stato. Sono convinto che quando si parla dei princìpi che animano
la gestione della "polis", come stiamo facendo in questi nostri appuntamenti
domenicali, quello degli autori minori e dell’opinione popolare diventi un punto di
osservazione importante. Occupandosi di un periodo come il Rinascimento – che di
solito riviviamo tra nomi celebri, grandi opere e illustri personaggi di governo
come i Medici a Firenze – questo approccio diventa particolarmente stimolante. E
per me anche gratificante.