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Dottrine politiche nel Medioevo

«Il vero pensiero medioevale sorge con il cosiddetto "rinascimento carolingio".


Negli anni del suo impero Carlo Magno aveva sempre mirato ad imporsi sulla Chiesa,
tentando persino di dare vita a una politica iconoclasta. Ma quando sul trono salì
Ludovico il Pio la situazione si rovesciò, e la Chiesa iniziò ad esercitare una
pesante influenza sullo Stato, soprattutto con Papa Niccolò I. Fu allora che si
scrissero i doveri sommi del principe cristiano: la regalità a servizio
dell’autorità spirituale»

Il potere deriva da Dio e il sovrano è considerato un suo rappresentante. Le leggi


devono tenere conto delle due «istituzioni» Tommaso pensa che compito dello Stato
non sia solo la tutela dei beni materiali, ma lo sviluppo
sia delle virtù che della cultura La legge naturale è immutabile, sempiterna,
eguale presso tutte le genti e tutti i tempi, anche se con espressioni variabili
nel tempo
La «societas» deve avere un vertice e questo non può che essere la Chiesa,
interprete della volontà divina con il Pontefice

Di Vittorino Andreoli

Nel periodo che precede il XIII secolo, noto anche come Alto Medioevo, il pensiero
che domina nel campo delle istituzioni – e dunque il pensiero politico di
riferimento – è quello di Agostino, con la sua concezione pessimistica nei
confronti dello Stato: egli ritiene infatti che questo debba essere subordinato
alla Chiesa, dando luogo ad un tentativo di contenere attraverso le norme del
"reggimento" cristiano il potere concesso al sovrano dalla legislazione romana: una
specie di guarentigia di un potere sacro sul dispotismo dei sovrani.
Isidoro di Siviglia (circa 570-636) nelle sue Etimologiae discute il concetto di
diritto e di legge rifacendosi a Paolo e al suo pensiero così come è esposto nella
Lettera ai Romani, informata dal concetto di legge positiva divina accanto a quella
naturale (1, 25; 2, 14-16), dalla critica della legge in relazione al concetto di
spiritualità (3, 21-22; 5, 13-21) e dall’idea della liberazione dalla schiavitù
della legge come conseguenza della grazia (7, 4-25).
Il pensiero medioevale vero e proprio sorge tuttavia con il cosiddetto
"rinascimento carolingio". Durante il suo impero Carlo Magno (742-814) aveva sempre
mirato a imporsi sulla Chiesa, tentando persino di dare vita a una politica
iconoclasta. Ma quando sul trono salì Ludovico il Pio la situazione si rovesciò, e
la Chiesa iniziò a esercitare una pesante influenza sullo Stato, soprattutto con
Papa Niccolò I. Fu allora che si scrissero i doveri del principe cristiano.

Ad esempio Incmaro, arcivescovo di Reims, sostenne che la regalità è una forza al


servizio e alle dipendenze dell’autorità spirituale, posizione che si esplicitò
mentre si assisteva alla decadenza della monarchia.

Ma sul finire del IX secolo torna in auge la tendenza opposta, tanto che nel
Libellus de potestate imperatoria in Urbe Roma di un ignoto italiano si vagheggia
il ritorno al dominio universale dei Cesari e la subordinazione del Pontefice al
potere imperiale. Anche se non in maniera così radicale, u n certo spirito laico
nella società ecclesiastica è stato poi notato in Raterio, il grande vescovo di
Verona. Nel Praeloquiorum libri sex espone (libri III e IV) i doveri del re verso
il vescovo, e nella Phrenesis espone la dottrina dell’autorità regia.
Queste brevi citazioni servono a calarci in un periodo nel quale si oscilla con un
moto pendolare dal primato dello Stato a quello della Chiesa, con soluzioni e
movimenti che variano a seconda del potere contingente esercitato da ciascuno in un
determinato momento storico. Le opere che vengono scritte sull’argomento sono
sempre "pro domo Ecclesiae" oppure a vantaggio dell’imperatore. Non abbiamo qui i
mezzi per soffermarci su un contesto storico denso di insidie come anche di
suggestioni: si pensi alla lotta per le investiture ma soprattutto al fiorire dei
monasteri, che diventano anche esempi di governo con le loro continue riforme, a
partire da quella benedettina di cui fu caposaldo il grande monastero di Cluny in
Borgogna (910), uno dei più attivi centri di studio dell’epoca, capace di
diffondere l’ideale dell’educazione monastica di tutto il clero come necessaria per
la riforma della Chiesa. Fu a Cluny, nella seconda metà del IX secolo, che vennero
redatte le Decretali pseudo-isodoriane (attribuite cioè a un tale Isidoro
Mercator), in cui si cerca di dimostrare la superiorità della Chiesa.
Nell’ambiente monastico prende forma anche il pensiero di Bernardo di Chiaravalle
(1090-1153), grande mistico – straordinari i suoi sermoni sulla Madonna – ma anche
teorico delle milizie messe in campo per la difesa del Santo Sepolcro (si tratta
dei Templari, di cui scrive la regola): «Excercendus est nunc uterque gladius in
passione Domini... per quem ante nisi per vos?» [Si devono ora usare entrambe le
spade in difesa della passione del Signore... e chi prima deve farlo se non voi?]
(Lettera 256 ad Dominum Papam Eugenium). Bernardo sostiene dunque il diritto di
ricorrere anche alla spada temporale in aggiunta a quella sp irituale (cfr Lc
22,38): il tempo per usarla – egli dice – è infatti giunto, e pertanto esorta il
Papa a farvi affidamento.
Esiste una letteratura sconfinata, sia curialistica che regalistica e antipapale.
In quest’epoca nascono centri di studi come la scuola di Chartres, incentrata sulla
cultura del diritto e sulla filosofia, che influenzeranno il pensiero del tempo
fino a dar vita ad autentici rinascimenti ante litteram.

Solo per fare un esempio, è il caso di Giovanni di Salisbury (1115 ca.-1180),


vescovo a Chartres, che con il Policratico realizzò forse il primo vero trattato
politico di tutto il Medioevo.

In esso afferma che il principe è schiavo della legge, padrona di tutte le cose. Si
tratta di una legge di natura, che nasconde la volontà del Creatore, oltre alla
quale c’è però anche la legge divina che il principe deve sempre tenere presente, e
di cui è interprete il sacerdote. Il principe è dunque assoggettato al sacerdote,
con l’effetto di sottomettere il potere temporale a quello spirituale. Da ciò nasce
la legittimità della resistenza nei confronti del principe stesso ove questi agisca
contro la legge divina. Per la prima volta si teorizza anche la legittimità del
tirannicidio persino nel caso venga consumato con l’inganno, qualora ciò si renda
necessario.
Strana società, quella del XII secolo: oscilla tra l’intellettualismo di Abelardo e
l’edonismo raffinato delle corti, dei trovatori della Provenza e del ciclo bretone
della Tavola Rotonda. È anche l’epoca nella quale si afferma l’individualismo, come
ancora in Abelardo, ma anche il profetismo, che appare nel fenomeno delle Crociate
e nella percezione della miseria in cui versa il proletariato.
In questo clima nascono un’infinità di sette: i catari e gli albigesi, ma anche i
gioachimiti, seguaci dell’abate calabrese Gioacchino da Celico (1130-1202),
fondatore del convento di Fiore. Gioacchino nell’Introductorius in Evangelium
aeternum vede il rinnovamento dell’umanità non nella disciplina e steriore, ma in
una palingenesi universale di tutto il mondo sociale e politico. Il dogma
trinitario rappresenta in simbolo e in riassunto tutto il cammino dell’uomo
nell’amore e nell’umanità del Vangelo: all’età del Padre, caratterizzata
dall’asservimento dell’uomo nell’Antico Testamento, succede quella del Figlio, con
la servitù filiale del Nuovo. A questa succederà l’età dello Spirito Santo, quella
della libertà, l’età del "Novissimo Evangelio", il Vangelo eterno. In questa
interpretazione gioachimita dell’Apocalisse s’intravede probabilmente per la prima
volta la storia dell’umanità come un progresso verso mete sempre più alte.

IL SECOLO XIII. Il secolo XIII rappresenta certamente l’apogeo dell’Alto Medioevo.


Vi nascono infatti le grandi cattedrali di pietra ma anche quelle del pensiero. C’è
una ripresa dell’ortodossia e una sua decisa difesa: ecco la Crociata contro gli
albigesi (1208); il IV Concilio Lateranense (1215), quello che condannò le dottrine
ereticali e regolò la procedura del tribunale dell’Inquisizione; e l’approvazione
degli Ordini mendicanti, domenicani e francescani in primis.
Una grande influenza ebbe in questo periodo la riscoperta di Aristotele, tradotto
dall’arabo a cura del collegio dei traduttori di Toledo. In questo nuovo clima si
delineano alcuni paradigmi culturali portanti per il tema del diritto e della
costituzione degli Stati che stiamo esplorando, e in particolare per il loro
rapporto con la Chiesa e la sua autorità. Mi sembra di poterli riassumere nei punti
che seguono.
1. Lo Stato medioevale è teocratico.
Il potere deriva da Dio e il sovrano è considerato un suo rappresentante. Le leggi
devono tenere conto delle due istituzioni: «Duo sunt principia jurisdictionum,
scilicet sacerdotium et imperium» [Due sono i princìpi della legge, quello
sacerdotale e quello politico] come afferma Alberico da Rosate (Dictionarium iuris
I, 108, n. 1). La "legalis sapientia" è costituita insieme dal diritto civile e da
quello canonico ( utrumque jus), ovvero dal "Corpus juris canonici", il cui nucleo
è formato dal trattato del monaco bolognese Graziano (Decretum Gratiani, 1141-50)
integrato dalle successive decretali pontificie. La dottrina dei due poteri è così
accettata, mentre resta da discutere semmai quale debba essere la loro
combinazione.
2. La corrente curialistica in Papa Innocenzo III.

Questo Pontefice è la figura che domina la politica del secolo, per diciott’anni
(1198-1216) è il vero dominus dell’impero e di gran parte dell’Europa ed è
certamente il maggiore sostenitore della teocrazia medievale.

Nel IV Concilio Lateranense viene affermato dogmaticamente che la Chiesa è una


comunità visibile con un doppio potere: «Potestas spiritualis et potestas
temporalis» [Potere spirituale e potere temporale]. Qui ritorna e viene
sottolineata l’incoronazione di Carlo Magno in San Pietro la notte di Natale
dell’800 a opera di Leone III con cui – dice Innocenzo III – si trasferisce
l’impero dai bizantini, che se ne sono resi indegni, a un popolo fedele alla
religione: è la teoria della «translatio imperii», della traslazione dell’impero.

Si deve notare, tuttavia, come più tardi Innocenzo IV abbandoni ogni rivendicazione
politica, sia di donazioni principesche sia di nuovi trasferimenti imperiali, per
fondare le prerogative del Pontefice solo sul diritto divino.

3. Federico II e la corrente regalistica.


L’imperatore Federico II era il pupillo di Papa Innocenzo III. Quando nel 1220
Onorio III lo incoronò imperatore in San Pietro il giovane principe degli
Hohenstaufen dovette piegarsi ad alcune rinunce: promettere l’abolizione di ogni
legge che recasse danno alla Chiesa, confermare le immunità ecclesiastiche,
garantire di rispettare le leggi contro gli eretici (Constitutio in basilica S.
Petri, Leg. sectio, IV t. II n.85, pag. 106). Ben presto, però, egli cercò di
scuotere il giogo pontificio e, come sovrano del Regno di Sicilia, manifestò le sue
tendenze assolutistiche. Nelle Costitu zioni augustali (Constitutiones regni
utriusque Siciliae) formulate al Parlamento di Melfi nel 1231 sono chiaramente
formulate le rivendicazioni delle prerogative imperiali. La superiorità
dell’imperatore appare fondata su due titoli: il diritto di successione degli
antichi Cesari e il principio religioso dell’autorità per delega divina. Si cerca
di fondare così un nuovo sistema teocratico-regio.
Con la morte di Federico II nel 1250 e la politica esclusivamente tedesca del nuovo
imperatore Rodolfo d’Absburgo (personaggio del quale rimane soltanto un’ombra e un
nome) svanisce l’impero e gli ecclesiastici riprendono ad affermare la dottrina
della superiorità della Chiesa.
4. I teorici ecclesiastici e san Tommaso.
Tommaso dei conti d’Aquino (1225-1274) è il maggior filosofo del Medioevo. Il suo
pensiero sulla politica e l’etica è raccolto nella Summa Theologiae (1267-1273) e
nel trattato De regimine principum (1265-1267) dedicato al re di Cipro, testo del
quale la prima e la seconda parte sono opera dell’Aquinate mentre il resto è da
attribuire al discepolo Tolomeo da Lucca. La sua visione dello Stato è una sintesi
della concezione razionalistica di Aristotele e di quella trascendente di Agostino.
Di Aristotele san Tommaso riprende la dottrina della condizione del ben vivere.
Come il grande pensatore dell’antichità, Tommaso pensa che compito dello Stato non
sia solo la tutela dei beni materiali e la garanzia della sicurezza contro i nemici
ma anche lo sviluppo delle virtù e, in generale, della cultura. D’altro canto
l’immanentismo aristotelico viene abbandonato in quanto il compimento del destino
umano è nella vita ultraterrena, ed è qui che viene preso come guida Agostino.
L’uomo è animale sociale «quia homo est naturaliter animal sociabile» [poiché
l’uomo è per natura un animale socievole] (Summa Theologiae, Prima Secundae, q. 95,
art. 4), ossia: «Homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod in societate vivat»
[L’uomo ha una naturale inclinazione a vivere in società] (S. Th. I-II, Q. 94, a.2,
c.). L’organizzazione politica, dunque, è una necessità e la socialità trova la sua
realizzazione perfetta nello Stato, ossia nella Civitas, vale a dire la comunione
politica intesa aristotelicamente come società perfetta: «Perfecta enim communitas
civitas est ut dicitur» [Lo Stato invece è una società perfetta] (Summa Theologiae,
Prima Secundae, q. 90, art. 3 conclusio).
A differenza di Agostino, Tommaso concepisce lo Stato come prodotto naturale,
necessario alle soddisfazioni dei bisogni umani e che, fondato sulla natura
socievole dell’uomo, sussisterebbe anche indipendentemente dal peccato.

Insomma, l’Aquinate attribuisce allo Stato compiti più vasti rispetto a quelli di
sola sicurezza che gli attribuiva Agostino. In Tommaso c’è una concezione dell’uomo
e del mondo terreno assai meno pessimistica. Egli compie infatti una distinzione
tra «potestas» – potere in astratto – e «dominium» – potere in concreto –, e ciò fa
sì che accetti la dottrina contrattualistica nella forma limitata di un «pactum
subiectionis» [patto di sottomissione]. Tommaso ha un grande rispetto della dignità
umana, anche se riconosce il limite della sua libertà sottoposta al potere del
sovrano. A limitare l’onnipotenza dello Stato resta dunque solo la Chiesa.

Per Tommaso la politica è una scienza speculativa e normativa il cui scopo è


«ultimum et perfectum bonum in rebus humanis» [il bene ultimo e perfetto delle cose
umane]. La sua teoria del diritto si fonda sul concetto di Stato. Il Dottore
Angelico afferma lapidariamente: «Impositio ordinis est ipsa respublica»
[L’imposizione dell’ordine è lo stesso Stato]. L’ordine imposto è appunto la lex.
Nelle Leggi Tommaso tratta questo argomento in maniera acuta e straordinaria. La
legge – afferma – comporta quattro elementi: che sia indirizzata a un fine; che il
fine sia il bene di una comunità; che a sostegno della legge vi sia una «vis
coactiva» che costituisce la «ratio factiva legis»; che vi sia st ata promulgazione
«ex quattuor praedictis potest colligi definitio legis, quae nihil est aliud quam
quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, et ab eo qui curam communitatis habet
promulgata» [in base ai quattro punti esaminati si può sintetizzare la definizione
della legge, la quale non è altro che un comando della ragione ordinato al bene
comune, promulgato da chi è incaricato di una collettività] (Summa Theologiae,
Prima Secundae, q. 90, art. 4). Importante è la «rationis ordinatio», cioè la
capacità di disporre armonicamente secondo ragione. Tommaso distingue quattro tipi
di legge: la «lex aeterna», la «ratio gubernativa totius universi» [la ragione che
governa tutto l’universo] che esiste nella mente divina e non è in sé ordinata ad
alcun fine, poiché il fine del governo di Dio è Dio stesso; la «lex naturalis» che
deriva «ex natura rerum» [dalla natura stessa delle cose], quasi lume della ragione
naturale propagato dal lume divino «secundum quam bonum et malum discernuntur» [sul
cui fondamento si distingue il bene dal male]; la «lex humana», inventata
dall’uomo; e infine la «lex divina positiva», cioè la legge rivelata contenuta
nell’Antico Testamento, mediante la quale l’uomo è ordinato e infallibilmente
diretto al suo fine soprannaturale, la beatitudine eterna. Diritto eterno naturale
e umano derivano l’uno dall’altro, quasi come fossero nel flusso di una cascata.

Per Tommaso esiste una legge umana che ha un suo valore non invalidato dal peccato.
Esiste quindi anche una giustizia umana, seppure semplice riflesso dell’ordine
eterno e divino.

Tale legge è una partecipazione della creatura razionale a quella legge eterna che
è l’espressione della ragione divina nel mondo. Anche qui s’intravede il risalto
conferito alla forza della ragione, che per Tommaso è una forza in un certo senso
comune alla ragione stessa di Dio, poiché la ragione non può che essere una, anche
se con vari livelli di comprensione. Quanto alla legge naturale, essa contiene
molti precetti che però possono ridursi a uno soltanto: «Quod bonum persequendum,
et malum vitandum esse decernitur» [distinguere il bene da perseguire e il male da
evitare], al princìpio cioè del «bonum est faciendum» [il bene va compiuto]. Dalla
dottrina di san Tommaso sappiamo che ciò che è buono ci riconduce a ciò che è vero,
e quest’ultimo a sua volta ci riporta sino a quell’ente che per essere primitivo e
generale è intelligibile per sé e non attraverso qualcosa di diverso: un concetto
che nella espressione latina suona «quodcumque sit cognoscibile et verum, in
quantum ens, verum ipsum cum ente converti necesse est, sicut et bonum» (Summa
Theologiae, Prima, q. XVI, art. 3 concl.). La legge naturale è immutabile,
sempiterna, eguale presso tutte le genti e tutti i tempi (in questo Tommaso è
d’accordo con Cicerone), anche se contenuto ed espressione sono variabili nel
tempo.

L'analisi sulle leggi è sviluppata nel dettaglio, dovendoci mantenere entro i


limiti di una rigorosa sintesi finiremmo per perderci. Non si può tuttavia
tralasciare un accenno alla distinzione tra diritto e morale. Anche Tommaso
considera infatti la morale come una forma di giustizia, e ne ha quindi una
concezione legalista. La distinzione è nella forma di due tipi di precetti: i
«praecepta moralia», che sono i dettami della legge naturale, e i «praecepta
judicialia», propri della giustizia umana. Per quanto riguarda invece la giustizia
che va osservata tra gli uomini, i precetti morali hanno la «vis obliganda» e
quelli giudiziali servono per ordinare gli uomini gli uni nei confronti degli
altri. C’è differenza, quindi, e non separazione. Perciò, pur riconoscendo la
distinzione tra «bonum» oppure «honestum» – riferiti alla morale – e «justum» – che
si rapporta al diritto –, vi è tra questi qualcosa di comune: l’essere entrambi
precetti per la vita attiva, applicazioni della ragione e atti di giustizia.
Quanto alle forme di governo, per Tommaso – astrattamente – ogni regime che abbia
un a veste politica è buono: migliore sarebbe quello monarchico, perché simile al
regno di Dio, se non fosse però il più facile a corrompersi in tirannide. Occorre
dunque sostituirlo con un regime misto in cui il potere monarchico sia temperato da
elementi aristocratici e democratici.

Nel «De regimine principum» viene detto che chiamare i sudditi alla partecipazione
del potere è saggio poiché così i cittadini considerano il governo come qualcosa di
proprio e vi sono maggiori garanzie contro il pericolo dell’assolutismo (I, 4).

Questo comporta la presenza di consiglieri eletti dal popolo. La legge umana è e


deve essere necessariamente imperfetta, a differenza di quella divina. Malgrado
questa sua condizione, a essa va riconosciuto rispetto e sottomissione. Ma cosa
accadrebbe se la legge dovesse diventare tirannica? Sorgono così due problemi: la
resistenza al principe ingiusto e la liceità del tirannicidio. Fatta una netta
distinzione tra tiranno «ex titulo» – colui cioè che ha usurpato il potere e non ha
alcun titolo per occuparlo – e tiranno «per esercitio» – che copre un potere
legittimo ma lo esercita male – Tommaso afferma che nel primo caso sia possibile
resistere fino a uccidere il tiranno, mentre nel secondo è bene che non si resista
al tiranno d’esercizio poiché questi è convinto che un governo cattivo sia quasi
sempre meritato dal popolo. È quindi necessario sopportarlo come fosse una
espiazione dei peccati. Contro il tiranno d’esercizio non c’è altro rimedio che la
preghiera a Dio, con un’unica eccezione: quella in cui le leggi del tiranno vadano
contro quelle divine. In tal caso l’obbedienza non è lecita, e ai sudditi sarà
allora consentito di uccidere il tiranno.
Per quanto riguarda il rapporto tra Stato e Chiesa, la «civitas societas» deve
avere un vertice e uno solo, e tale vertice per Tommaso non può che essere la
Chiesa, interprete della legge divina, attraverso il suo capo, il Pontefice. Solo
così si può ottenere quell’«unitas ordinis» che è condizione di pace per il genere
umano. Del resto il fine dell’uomo è ultraterreno, a esso devono essere subordinati
tutti i fini temporali e mondani. Tommaso non si limita a ipotizzare un potere solo
indiretto, come Innocenzo III. In questa visione i prìncipi non sono che vassalli
del Papa. È così che l’Aquinate fonda la dottrina della teocrazia diretta.
5. I problemi economici.
Uscendo dall’economia feudale, assai chiusa, il secolo del quale ci stiamo
occupando – il XIII – mostra un’attività economica più libera e vivace soprattutto
in Italia, con il rifiorire dell’agricoltura e dei commerci. I politici per la
prima volta devono occuparsi anche di attività economica. Non a caso, secondo
alcuni storici, questo secolo vede affacciarsi la prima espressione del
capitalismo.
Il problema si mostra subito attraverso il principio di subordinare il bene
individuale a quello comune, e così l’economia e la politica alla morale.

Per Tommaso l’arte più onesta è l’agricoltura, mentre l’attività del mercante
presenta pericoli cui l’uomo difficilmente può sfuggire. Si tratta di una
professione che va accettata solo quando tende a procurare vantaggi proporzionati
ai bisogni.

Ovvero, «sollicitudo eius qui corporali labore panem acquirit, non est superflua
sed moderata» [L’affanno di chi si guadagna il pane con un lavoro corporale non è
superfluo ma moderato].
Per avere la dimensione del problema si deve fare riferimento al giusto prezzo, e
quindi al limite dell’usura sul prestito d’interesse. Tommaso afferma che ogni bene
ha un duplice valore: l’«usus proprius», il valore d’uso determinato dalla domanda
(ossia dal bisogno che un individuo ha della cosa), e l’«usus communis», il valore
di scambio che dipende dalla rarità dell’offerta, cioè dalla carenza della cosa
(Tommaso, Comment. In Aristot polit. L I lect.7). Affinché il prezzo sia giusto,
ossia venga rispettata la proporzionalità, l’«indigentia» considerata non deve
essere quella di un determinato individuo in un certo momento, bensì l’«indigentia
communis». Per misurarla serve la moneta, che indica la «communis aestimatio» della
proporzionalità.
I padri e i Concili della Chiesa condannarono ogni forma di prestito a interesse,
da essi definito senz’altro come usura. Sulla base del detto evangelico «mutuum
date nihil inde sperantes» [prestate senza sperarne nulla] (Luca 6, 35) fu
stabilito il principio secondo il quale «nummus non parit nummum» [il denaro non
produce denaro]. E l’usura fu condannata senza eccezioni né mezze misure. In verità
si finì per ammettere che una certa somma in vista del «damnum emergens et lucrum
cessans» [danno emergente e lucro cessante] fosse possibile: «Mutuum accipit
recompensationem damni... hoc enim non est vendere usum pecuniae sed damnum vitare»
[il prestito merita la ricompensa al danno... poiché non è un vendere l’uso del
denaro, ma evitare il danno che deriva dal darlo].

La fase del declino. Dobbiamo però già lasciare questo meraviglioso XIII secolo e
anticipare il declino del Medioevo, nel XIV e XV secolo. È questa l’età che si è
soliti considerare di decadenza della scolastica e alla quale Johan Huizinga ha
dedicato un libro fondamentale, Autunno del Medioevo.
Si ripete l’alternarsi tra epoche in cui si pensa di aver raggiunto la definitiva
chiarezza e aver dato uno statuto perenne o quantomeno stabile alla dottrina del
diritto e ai criteri per governare la terra tenendo conto che l’uomo è destinato ad
andare in Cielo, e altre in cui viceversa crolla tutto ed entra in crisi il
sistema. Lo scenario sembra quello di Sisifo: portare la pietra sul colle e poi
assistere al suo rotolamento, e quindi di nuovo spingerla a fatica in salita, per
una nuova caduta.
Se con la scienza il periodo della crescita è stato lungo e continuo per almeno tre
secoli (dal XVI alla fine del XIX), per i princìpi necessari a dare ordine al
vivere comune dell’uomo, dal microgruppo fino alla società più ampia, questo
alternarsi di costruzione e distruz ione appare regolato da periodi più brevi.
Il meraviglioso sistema di Tommaso si avvia alla crisi proprio mentre raggiunge una
chiarezza che pareva essere destinata a renderlo eterno.

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