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Di Vittorino Andreoli
Nel periodo che precede il XIII secolo, noto anche come Alto Medioevo, il pensiero
che domina nel campo delle istituzioni – e dunque il pensiero politico di
riferimento – è quello di Agostino, con la sua concezione pessimistica nei
confronti dello Stato: egli ritiene infatti che questo debba essere subordinato
alla Chiesa, dando luogo ad un tentativo di contenere attraverso le norme del
"reggimento" cristiano il potere concesso al sovrano dalla legislazione romana: una
specie di guarentigia di un potere sacro sul dispotismo dei sovrani.
Isidoro di Siviglia (circa 570-636) nelle sue Etimologiae discute il concetto di
diritto e di legge rifacendosi a Paolo e al suo pensiero così come è esposto nella
Lettera ai Romani, informata dal concetto di legge positiva divina accanto a quella
naturale (1, 25; 2, 14-16), dalla critica della legge in relazione al concetto di
spiritualità (3, 21-22; 5, 13-21) e dall’idea della liberazione dalla schiavitù
della legge come conseguenza della grazia (7, 4-25).
Il pensiero medioevale vero e proprio sorge tuttavia con il cosiddetto
"rinascimento carolingio". Durante il suo impero Carlo Magno (742-814) aveva sempre
mirato a imporsi sulla Chiesa, tentando persino di dare vita a una politica
iconoclasta. Ma quando sul trono salì Ludovico il Pio la situazione si rovesciò, e
la Chiesa iniziò a esercitare una pesante influenza sullo Stato, soprattutto con
Papa Niccolò I. Fu allora che si scrissero i doveri del principe cristiano.
Ma sul finire del IX secolo torna in auge la tendenza opposta, tanto che nel
Libellus de potestate imperatoria in Urbe Roma di un ignoto italiano si vagheggia
il ritorno al dominio universale dei Cesari e la subordinazione del Pontefice al
potere imperiale. Anche se non in maniera così radicale, u n certo spirito laico
nella società ecclesiastica è stato poi notato in Raterio, il grande vescovo di
Verona. Nel Praeloquiorum libri sex espone (libri III e IV) i doveri del re verso
il vescovo, e nella Phrenesis espone la dottrina dell’autorità regia.
Queste brevi citazioni servono a calarci in un periodo nel quale si oscilla con un
moto pendolare dal primato dello Stato a quello della Chiesa, con soluzioni e
movimenti che variano a seconda del potere contingente esercitato da ciascuno in un
determinato momento storico. Le opere che vengono scritte sull’argomento sono
sempre "pro domo Ecclesiae" oppure a vantaggio dell’imperatore. Non abbiamo qui i
mezzi per soffermarci su un contesto storico denso di insidie come anche di
suggestioni: si pensi alla lotta per le investiture ma soprattutto al fiorire dei
monasteri, che diventano anche esempi di governo con le loro continue riforme, a
partire da quella benedettina di cui fu caposaldo il grande monastero di Cluny in
Borgogna (910), uno dei più attivi centri di studio dell’epoca, capace di
diffondere l’ideale dell’educazione monastica di tutto il clero come necessaria per
la riforma della Chiesa. Fu a Cluny, nella seconda metà del IX secolo, che vennero
redatte le Decretali pseudo-isodoriane (attribuite cioè a un tale Isidoro
Mercator), in cui si cerca di dimostrare la superiorità della Chiesa.
Nell’ambiente monastico prende forma anche il pensiero di Bernardo di Chiaravalle
(1090-1153), grande mistico – straordinari i suoi sermoni sulla Madonna – ma anche
teorico delle milizie messe in campo per la difesa del Santo Sepolcro (si tratta
dei Templari, di cui scrive la regola): «Excercendus est nunc uterque gladius in
passione Domini... per quem ante nisi per vos?» [Si devono ora usare entrambe le
spade in difesa della passione del Signore... e chi prima deve farlo se non voi?]
(Lettera 256 ad Dominum Papam Eugenium). Bernardo sostiene dunque il diritto di
ricorrere anche alla spada temporale in aggiunta a quella sp irituale (cfr Lc
22,38): il tempo per usarla – egli dice – è infatti giunto, e pertanto esorta il
Papa a farvi affidamento.
Esiste una letteratura sconfinata, sia curialistica che regalistica e antipapale.
In quest’epoca nascono centri di studi come la scuola di Chartres, incentrata sulla
cultura del diritto e sulla filosofia, che influenzeranno il pensiero del tempo
fino a dar vita ad autentici rinascimenti ante litteram.
In esso afferma che il principe è schiavo della legge, padrona di tutte le cose. Si
tratta di una legge di natura, che nasconde la volontà del Creatore, oltre alla
quale c’è però anche la legge divina che il principe deve sempre tenere presente, e
di cui è interprete il sacerdote. Il principe è dunque assoggettato al sacerdote,
con l’effetto di sottomettere il potere temporale a quello spirituale. Da ciò nasce
la legittimità della resistenza nei confronti del principe stesso ove questi agisca
contro la legge divina. Per la prima volta si teorizza anche la legittimità del
tirannicidio persino nel caso venga consumato con l’inganno, qualora ciò si renda
necessario.
Strana società, quella del XII secolo: oscilla tra l’intellettualismo di Abelardo e
l’edonismo raffinato delle corti, dei trovatori della Provenza e del ciclo bretone
della Tavola Rotonda. È anche l’epoca nella quale si afferma l’individualismo, come
ancora in Abelardo, ma anche il profetismo, che appare nel fenomeno delle Crociate
e nella percezione della miseria in cui versa il proletariato.
In questo clima nascono un’infinità di sette: i catari e gli albigesi, ma anche i
gioachimiti, seguaci dell’abate calabrese Gioacchino da Celico (1130-1202),
fondatore del convento di Fiore. Gioacchino nell’Introductorius in Evangelium
aeternum vede il rinnovamento dell’umanità non nella disciplina e steriore, ma in
una palingenesi universale di tutto il mondo sociale e politico. Il dogma
trinitario rappresenta in simbolo e in riassunto tutto il cammino dell’uomo
nell’amore e nell’umanità del Vangelo: all’età del Padre, caratterizzata
dall’asservimento dell’uomo nell’Antico Testamento, succede quella del Figlio, con
la servitù filiale del Nuovo. A questa succederà l’età dello Spirito Santo, quella
della libertà, l’età del "Novissimo Evangelio", il Vangelo eterno. In questa
interpretazione gioachimita dell’Apocalisse s’intravede probabilmente per la prima
volta la storia dell’umanità come un progresso verso mete sempre più alte.
Questo Pontefice è la figura che domina la politica del secolo, per diciott’anni
(1198-1216) è il vero dominus dell’impero e di gran parte dell’Europa ed è
certamente il maggiore sostenitore della teocrazia medievale.
Si deve notare, tuttavia, come più tardi Innocenzo IV abbandoni ogni rivendicazione
politica, sia di donazioni principesche sia di nuovi trasferimenti imperiali, per
fondare le prerogative del Pontefice solo sul diritto divino.
Insomma, l’Aquinate attribuisce allo Stato compiti più vasti rispetto a quelli di
sola sicurezza che gli attribuiva Agostino. In Tommaso c’è una concezione dell’uomo
e del mondo terreno assai meno pessimistica. Egli compie infatti una distinzione
tra «potestas» – potere in astratto – e «dominium» – potere in concreto –, e ciò fa
sì che accetti la dottrina contrattualistica nella forma limitata di un «pactum
subiectionis» [patto di sottomissione]. Tommaso ha un grande rispetto della dignità
umana, anche se riconosce il limite della sua libertà sottoposta al potere del
sovrano. A limitare l’onnipotenza dello Stato resta dunque solo la Chiesa.
Per Tommaso esiste una legge umana che ha un suo valore non invalidato dal peccato.
Esiste quindi anche una giustizia umana, seppure semplice riflesso dell’ordine
eterno e divino.
Tale legge è una partecipazione della creatura razionale a quella legge eterna che
è l’espressione della ragione divina nel mondo. Anche qui s’intravede il risalto
conferito alla forza della ragione, che per Tommaso è una forza in un certo senso
comune alla ragione stessa di Dio, poiché la ragione non può che essere una, anche
se con vari livelli di comprensione. Quanto alla legge naturale, essa contiene
molti precetti che però possono ridursi a uno soltanto: «Quod bonum persequendum,
et malum vitandum esse decernitur» [distinguere il bene da perseguire e il male da
evitare], al princìpio cioè del «bonum est faciendum» [il bene va compiuto]. Dalla
dottrina di san Tommaso sappiamo che ciò che è buono ci riconduce a ciò che è vero,
e quest’ultimo a sua volta ci riporta sino a quell’ente che per essere primitivo e
generale è intelligibile per sé e non attraverso qualcosa di diverso: un concetto
che nella espressione latina suona «quodcumque sit cognoscibile et verum, in
quantum ens, verum ipsum cum ente converti necesse est, sicut et bonum» (Summa
Theologiae, Prima, q. XVI, art. 3 concl.). La legge naturale è immutabile,
sempiterna, eguale presso tutte le genti e tutti i tempi (in questo Tommaso è
d’accordo con Cicerone), anche se contenuto ed espressione sono variabili nel
tempo.
Nel «De regimine principum» viene detto che chiamare i sudditi alla partecipazione
del potere è saggio poiché così i cittadini considerano il governo come qualcosa di
proprio e vi sono maggiori garanzie contro il pericolo dell’assolutismo (I, 4).
Per Tommaso l’arte più onesta è l’agricoltura, mentre l’attività del mercante
presenta pericoli cui l’uomo difficilmente può sfuggire. Si tratta di una
professione che va accettata solo quando tende a procurare vantaggi proporzionati
ai bisogni.
Ovvero, «sollicitudo eius qui corporali labore panem acquirit, non est superflua
sed moderata» [L’affanno di chi si guadagna il pane con un lavoro corporale non è
superfluo ma moderato].
Per avere la dimensione del problema si deve fare riferimento al giusto prezzo, e
quindi al limite dell’usura sul prestito d’interesse. Tommaso afferma che ogni bene
ha un duplice valore: l’«usus proprius», il valore d’uso determinato dalla domanda
(ossia dal bisogno che un individuo ha della cosa), e l’«usus communis», il valore
di scambio che dipende dalla rarità dell’offerta, cioè dalla carenza della cosa
(Tommaso, Comment. In Aristot polit. L I lect.7). Affinché il prezzo sia giusto,
ossia venga rispettata la proporzionalità, l’«indigentia» considerata non deve
essere quella di un determinato individuo in un certo momento, bensì l’«indigentia
communis». Per misurarla serve la moneta, che indica la «communis aestimatio» della
proporzionalità.
I padri e i Concili della Chiesa condannarono ogni forma di prestito a interesse,
da essi definito senz’altro come usura. Sulla base del detto evangelico «mutuum
date nihil inde sperantes» [prestate senza sperarne nulla] (Luca 6, 35) fu
stabilito il principio secondo il quale «nummus non parit nummum» [il denaro non
produce denaro]. E l’usura fu condannata senza eccezioni né mezze misure. In verità
si finì per ammettere che una certa somma in vista del «damnum emergens et lucrum
cessans» [danno emergente e lucro cessante] fosse possibile: «Mutuum accipit
recompensationem damni... hoc enim non est vendere usum pecuniae sed damnum vitare»
[il prestito merita la ricompensa al danno... poiché non è un vendere l’uso del
denaro, ma evitare il danno che deriva dal darlo].
La fase del declino. Dobbiamo però già lasciare questo meraviglioso XIII secolo e
anticipare il declino del Medioevo, nel XIV e XV secolo. È questa l’età che si è
soliti considerare di decadenza della scolastica e alla quale Johan Huizinga ha
dedicato un libro fondamentale, Autunno del Medioevo.
Si ripete l’alternarsi tra epoche in cui si pensa di aver raggiunto la definitiva
chiarezza e aver dato uno statuto perenne o quantomeno stabile alla dottrina del
diritto e ai criteri per governare la terra tenendo conto che l’uomo è destinato ad
andare in Cielo, e altre in cui viceversa crolla tutto ed entra in crisi il
sistema. Lo scenario sembra quello di Sisifo: portare la pietra sul colle e poi
assistere al suo rotolamento, e quindi di nuovo spingerla a fatica in salita, per
una nuova caduta.
Se con la scienza il periodo della crescita è stato lungo e continuo per almeno tre
secoli (dal XVI alla fine del XIX), per i princìpi necessari a dare ordine al
vivere comune dell’uomo, dal microgruppo fino alla società più ampia, questo
alternarsi di costruzione e distruz ione appare regolato da periodi più brevi.
Il meraviglioso sistema di Tommaso si avvia alla crisi proprio mentre raggiunge una
chiarezza che pareva essere destinata a renderlo eterno.