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Vittorino Andreoli “Avvenire” 26.03.

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(8) Requiem per il principio di causalità

1.Cartesio era stato spinto a meditare sul problema della conoscenza anche dalla difficoltà di
distinguere il sogno dalla veglia.
2. Per Ernst Mach la nozione del tempo assoluto newtoniano come «corso eterno e stabile», era
poco più che un’astrazione.
3. Le teorie intorno al mondo subatomico, la teoria dei quanti e la meccanica ondulatoria, hanno
distrutto la fiducia nella causalità.
4. Anche per Bertrand Russell il linguaggio di causa ed effetto non rappresenta nulla di veramente
riscontrabile nel mondo fisico.

Tra i principi della scienza, quello di causalità gode certo di una posizione speciale, non solo perché
è fondamento della logica e quindi del pensiero scientifico, ma per il fatto che la lettura della realtà
secondo la cultura occidentale è possibile solo ordinando in sequenze i fenomeni, facendo sì che
uno preceda in maniera precisa il successivo in una relazione per cui il primo è causa del secondo.
Diventa perciò utile guardare al destino di questo principio, nell’ipotesi che anch’esso sia passato da
una fase di grandezza ad una di crisi, con perdita di dominio e persino di senso.

I PRINCIPI DI CAUSALITÀ
È più corretto parlare di principi – anziché principio – di causalità. Nel III secolo a.C. Aristotele,
scrivendo il primo libro della Metafisica, distingue quattro tipi di causa per spiegare la realtà. Vi
sono anzitutto le cause "intrinseche" che si riferiscono al "quod est" [ciò che è] e quindi che
caratterizzano intrinsecamente una cosa, la sua essenza, e ciò che la distingue da ogni altra: si tratta
delle cause che secondo Aristotele interessano la filosofia, e più propriamente l’ontologia, e dunque
che riguardano la questione dell’essere della realtà nel loro principio stesso. Quindi ci sono le cause
"estrinseche", più proprie dell’osservazione positiva, che si riferiscono al "quomodo" [la maniera],
ai fenomeni e quindi alle modalità con cui si presentano e appaiono. "Estrinseche" poiché si legano
ad un quid esterno rispetto alla loro essenza, e al loro esistere, anche se è in grado di condizionarle.
Cause che si evidenziano attraverso l’osservazione e persino l’esperimento. Vi è poi la causa
"efficiente" [id a quo: questo proviene da quello] che mette in relazione la causa con il suo effetto,
una relazione precisa, adeguata, proporzionata e prima di tutto in sequenza temporale. È questa la
causa a cui guarda in maniera specifica la scienza.
E da ultimo c’è la causa "finale" [id cuius gratia: questo in virtù di quello] che dà ragione del
perché di quel fenomeno e di quella realtà, e permette di scoprirne il senso: la spiegazione
completa della natura si raggiunge solo attraverso le cause finali – dice Aristotele – che si
trovano in una posizione di predominanza rispetto a tutte le altre.
Come si nota, sono molti i principi di causalità e occorre sempre precisare a quale si fa riferimento.
Noi ci occuperemo in particolare della causa efficiente, che è quella che interessa particolarmente le
scienze, anche se prima occorre aggiungere qualche altra caratteristica di questo impianto
aristotelico che durerà a lungo nella diatriba filosofica e scientifica. Una prima caratteristica
riguarda la distinzione tra materia e forma.
CAUSE PER MATERIA E FORMA
Le cause intrinseche sono di due tipi, giacché riguardano la materia e la forma che nell’insieme
costituiscono la natura. Un dualismo netto che trova riferimento nella distinzione tra materia e
anima (sia pure nelle tre specificazioni di vegetativa, animale e spirituale). È dunque evidente che la
comprensione del mondo deve dare ragione sia della materia sia dell’anima. Il dualismo dura a
lungo e giunge oltre il mondo greco per inserirsi nel cristianesimo e fino al Rinascimento, quando

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Bernardino Telesio con il De rerum natura iuxta propria princìpia trova la causa dei fenomeni
naturali nella natura stessa, asserendo un rigoroso monismo in cui sono inseparabili la materia e le
sue forze dinamiche. Ogni fenomeno dunque è una "materia in moto" che racchiude in sé, nella sua
stessa natura, la causa. Anche lo spiritus è materia o facoltà della materia. Giordano Bruno, nel
dialogo De la causa princìpio et uno, aggiunge che la materia non riceve, ma piuttosto produce essa
stessa le forme, le «manda dal suo seno», perché ha in se stessa «la fonte delle forme». Dopo tante
distinzioni il Bruno chiude il suo dialogo con un inno al «principio unico» dell’universo «uno,
infinito e immobile», in cui forma e materia, atto e potenza, si uniscono. Ma questi sono
semplicemente accenni ad una diatriba ben più lunga e complessa, che è interna alla filosofia, dove
hanno collocazione i pensatori che abbiamo richiamato. Un accenno lo merita la causa finale che è
propria della teologia, e che non ha cessato dopo Aristotele di essere discussa. Basterebbe riferirsi al
problema della vita umana e di quando essa inizi: se nel momento in cui si incontrano le due cellule
(concepimento) oppure in uno stadio successivo della moltiplicazione cellulare. Le due posizioni si
reggono sul fatto che alcuni applicano la causa finale (la vita c’è fin dal concepimento), gli altri
invece si appellano alla causa efficiente (la vita c’è soltanto ad un certo grado di sviluppo quando si
intraveda e dunque si constati una struttura).

CAUSA FINALE
Aristotele attribuisce la posizione di dominio alla causa finale: se si vuole comprendere veramente il
mondo, e anche quello della scienza, meglio indagare la sua finalità: individuato il fine, si
comprendono le altre sequenze causali, poiché sono "informate" dal fine, sono mosse secondo la
direzione del fine. Aristotele l’aveva definita come una determinazione che non procede da quanto è
avvenuto in precedenza, ma da ciò che si deve raggiungere: dal fine o dallo scopo. E ciò appare
come un’inversione del rapporto causale che le scienze generalmente presuppongono: il rapporto
"prius-posterior" della causa efficiente. E’ questo il principio della teleologia. Ma anche in questo
caso domina storicamente l’opposizione. Bacone sostiene l’inutilità delle cause finali, Galileo e
Cartesio ne respingono l’uso nelle ricerche scientifiche anche se, come già Leonardo, le rimandano
allo studio dei teologi. Scrive Leonardo: «O speculatore delle cose non ti laudare di conoscere le
cose, che ordinariamente per sé medesima la natura, per sua ordine, naturalmente conduce; ma
rallegrati di conoscere il fine di quelle cose, che sono disegnate dalla mente tua» (Prose, a cura di
G. Negri, Torino 1928, p. 173). E Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
mostra che «è temerità voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio», quasi
che tutto dovesse essere fatto per noi e fosse «vano e superfluo tutto quello dell’universo che non
serve per noi», quando «nel maturar quel grappolo d’uva, anzi pur quel granello solo, vi si applica
che più efficacemente applicar non vi si potrebbe quando il termine di tutti i suoi affari fosse la sola
maturazione di quel grano» (Giornata III). Da parte sua Cartesio proclama che «non ci fermeremo
neppure a esaminare i fini che Dio s’è proposto nel creare il mondo, e respingeremo interamente
dalla nostra filosofia la ricerca delle cause finali; perché non dobbiamo presumere tanto da noi
stessi da credere che Dio abbia voluto che noi facessimo parte del suo consiglio...» (Principia
philosophiae [1644], I, 28).
Fino a questo punto si riconosce la causa finale ma semplicemente si afferma che non appartiene
alla scienza, ai suoi scopi.
Un colpo deciso, questa volta per negare la causa finale, lo sferrerà Spinoza, il "perfectissimus
atheistas". È un pregiudizio, una fantasia, anzi una "superstizione", egli dice, quella per cui
gli uomini suppongono che, come fanno loro stessi, così tutte le cose della natura agiscano per
un fine.
E aggiunge che non si deve essere così ciechi da non vedere che mentre con il teleologismo si pensa
di glorificare Dio e la Natura, in realtà li si diffama. Infatti li si rende responsabili di tutti gli
svantaggi che, accanto ai vantaggi, essi elargirebbero agli uomini. E continua sostenendo la
mostruosità per cui la finalità considera «come effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa; e inoltre
quel che per natura è anteriore lo si fa posteriore» (Ethica, Pars I, Appendix). In questa guerra alla

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causalità finale, che questa volta incomincia già nel Seicento, la voce che cerca di mediare e
condurre a un armistizio è Emmanuel Kant, ma per farlo la definisce in maniera nuova: il senso
nuovo della causa finale è quello di un tutto che determina le sue parti, istituendo un’azione
reciproca tra queste. Noi pensiamo il particolare come contenuto nel generale, afferma, e pertanto
occorre un principio che non può essere ricavato dall’esperienza. È il principio "dell’intelletto
legislatore" per il quale le leggi particolari, empiriche, devono essere considerate secondo una tale
unità «come se fossero state parimenti istituite da un intelletto... per rendere possibile un sistema
dell’esperienza ... come se ci fosse un intelletto che contenga il principio che dia unità al molteplice
delle leggi empiriche di essa» (Critica del giudizio, Introduzione, IV e IX).
Si afferma la subordinazione delle parti al concetto di un tutto: come si può capire un
particolare, il fenomeno di cui si occupa la scienza, se non dentro l’insieme, il mondo? E come
è possibile cogliere l’insieme se non nel suo senso e quindi nel suo scopo che si riverserà in
ogni particolare?
Il teleologismo risponde all’esigenza del nostro spirito legislatore ed è concepito quale necessario
completamento della serie di osservazioni che possiamo fare spontaneamente o secondo la
metodologia della scienza. I fenomeni acquistano concretezza e plausibilità se sono posti, come
mezzi che si adattano a un fine, in una connessione tale che li colleghi e unifichi. In questa visione
il finalismo è il determinismo causale visto nella sua sistematicità e unità concettuale: «La finalità è
la determinazione di un risultato per mezzo della totalità dei fenomeni, che possono esercitare su di
esso un’azione causale» (O. Hamelin, Essai sur les éléments principaux de la représentation, Paris,
1925, pp. 351 sg.). Ora passiamo alla causa efficiente poiché ci permette di entrare dentro la
scienza, essendo tra i principi di causalità quello più specifico. Ma – lo ripetiamo – si tratta di una
delle cause, una delle modalità attraverso cui indagare i fenomeni, non la sola: non la causa, ma una
delle cause.

CAUSA EFFICIENTE
Vi sono due modi di concepire la causa efficiente e il rapporto causa-effetto. Si può vedere il
problema infatti da un punto di vista empirico, identificando la causa come quel legame tra due
fatti, A e B, che dato il primo si produce necessariamente il secondo. È questa la maniera che gli
scienziati hanno inteso: scoprire il "quomodo" [la maniera di essere] senza preoccuparsi del "quia"
[perché essere]. Ma si può anche vedere la questione da un punto di vista razionalistico,
considerando la causalità come espressione del principio di identità realizzatosi nell’unità della
natura. Quindi la relazione causa-effetto diventa strutturale, non solo sequenziale [è così perché non
può essere che così]. Per valutare meglio cosa si intenda per causa efficiente secondo il punto di
vista empirico, riferiamo la definizione di John Stuart Mill: causa è «l’antecedente o l’insieme di
antecedenti di cui il fenomeno chiamato effetto è invariabilmente e incondizionatamente la
conseguenza» (Logica, III, cap. 5 e Esame della filosofia di sir William Hamilton, XVI, 355). Posta
così la questione, risulta che il concetto di causa è un concetto di relazione e che il relazionare è
tipico del pensiero, anzi sussiste solo nel pensiero, dunque la causa non ha sussistenza nella realtà.
Si aggiunge anche che non ha senso parlare di causa se non avendo realmente presente allo stesso
tempo l’effetto: la causa da sola non si rappresenterebbe.
Possiamo segnalare poi che, nella storia di questo concetto, la scienza da una parte ha tentato
di difenderlo, mentre la filosofia, in alcuni periodi almeno, lo ha combattuto. Nel Medioevo,
per esempio, gli occasionalisti volevano sottrarre Dio dal legame di causalità e finirono per
negare anche la connessione causale tra i fenomeni.
Duns Scoto afferma che tutto ciò che Dio ha fatto dipende soltanto da un libero atto della sua
volontà, sicché non si può mai dedurre dalla natura dell’effetto come necessità quello della causa
poiché questa, se Dio avesse voluto, si sarebbe potuta manifestare benissimo con un effetto diverso
da quello in cui effettivamente si è manifestata. La conseguenza di questo volontarismo è che, senza
negare del tutto il valore delle prove "a posteriori" dell’esistenza di Dio (tra cui quella della
causalità: se c’è il mondo occorre un Dio che lo spieghi, un motore che lo muova), Duns Scoto

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tende a sminuirne l’importanza, riducendole a semplici argomenti di probabilità e di credibilità,
mentre accentua invece l’importanza e il valore della prova ontologica che è "a priori". Guglielmo
di Occam, criticando la prova dell’esistenza di Dio come Motore (per cui il mosso deve essere
mosso da un altro), finisce per impugnare la stessa legge di causalità. Insomma, il principio di
causalità non ha valore universale e necessario. Solo la successione è scientificamente constatata, e
niente ci autorizza a porre qualche cosa che vada al di là della pura e semplice successione: la
necessità del succedersi dei fenomeni non è in alcun modo giustificata. È solo dall’esperienza che
sappiamo che B segue A: «L’effetto è totalmente diverso dalla causa e per conseguenza non si trova
in essa»; inoltre non nasce una relazione di necessità che possa valere anche per l’avvenire. La
ripetizione di casi simili non può da sola far sorgere un’idea originale, diversa da quella che si trova
in ciascun caso particolare. L’esperienza non ci mostra mai il "potere" del fatto A su B: noi non
siamo mai capaci, neppure in un singolo caso, di scoprire qualche "potere", bensì constatiamo
soltanto che l’una cosa segue l’altra. È una "determinazione della mente" che esiste nella mente e
non negli oggetti (David Hume, An Enquiry concerning human Understanding [1748], p. II, sezz. I
e VII). Kant infatti affermava: «Tutto ciò che accade presuppone qualche cosa da cui deriva». Come
a dire, che sappiamo soltanto che la causalità è uno schema obbligato per leggere la realtà, in
sequenza di causa ed effetto a loro volta causa di effetti a cascata successivi. Ma tutto questo rimane
privo di senso se manca una cornice generale che inquadri non solo quel frammento di realtà che la
scienza ha studiato e ridotto a sequenze, ma il mondo intero, la realtà tutta nel suo significato: ed
ecco ritornare il bisogno di una causa finale. Le cause efficienti devono essere completate da quella
superiore della causalità finale. Alla concatenazione meccanica che la coscienza riconosce, ma che
non basta ad affermare l’ordine e l’unità armonica di tutto il reale, deve sovrapporsi la risposta al
perché dei fenomeni e del mondo (temi della filosofia e della teologia).

NELLE SOCIETÀ NON OCCIDENTALI


Oltre a queste considerazioni, è utile riferirsi ad un aspetto antropologico e chiedersi se veramente il
principio di causalità che è alla base stessa della ragione e quindi del pensiero logico razionale, sia
applicato in tutte le società e dunque si imponga come strumento di analisi e di comprensione del
mondo in generale, universalmente.
Nell’Ottocento, l’estensione del concetto di universalità ha assunto una dimensione
verificabile, poiché con l’etnografia e l’attenzione nei confronti delle cosiddette popolazioni
primitive esso poteva essere verificato studiando le diverse culture, comprese quelle lontane
dalla civiltà occidentale, fondata certamente sulla logica.
In altre parole, è diventato possibile sapere se la mentalità del primitivo lavora veramente seguendo
il nesso causale. Secondo Lucien Lévy-Bruhl, il pensiero logico, e quindi costitutivo delle realtà in
serie secondo un rapporto causa-effetto, non è presente nella mente del primitivo, nella quale si
trova invece la concezione magico-mitica, per cui ogni evento cosmico è un miracolo e un segno
del libero intervento di una forza sopra-naturale. Per il primitivo cioè, manca nel mondo una
causalità, e tutto si lega alla libertà che l’etnologo francese chiama «impermeabilità
dell’esperienza». Insomma, dalla magia alla scienza, dalla mentalità prelogica a quella logica si
frappone un salto, un vero e proprio salto, non una continuità (Les fonctions mentales, Paris 1910,
pp. 451 sg.). La scienza è un colpo di Stato che si impone sopra l’esperienza sensibile. È necessario
ammettere un funzionamento differenziato della mente del primitivo in cui non domina certo l’idea
di un universo determinato causalmente. Ciò non deve far credere che il primitivo non si serva di
osservazioni sequenziali, come quando avvelena la punta di una freccia per cacciare un animale,
mostrando di tenere conto di un effetto derivante da un’azione (Léon Brunschvicg, L’expérience
humaine et la causalité physique, Paris 1921, e Les âges de l’intelligence, Paris 1924).

PRINCIPIO DI CAUSALITÀ E SOGNO


È possibile usare un’altra argomentazione contro l’universalità della causalità: lo studio dei sogni.
Cartesio era stato spinto a meditare sul problema della conoscenza anche dalle illusioni scaturenti

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dai sogni e dalla difficoltà di distinguere il sogno dalla veglia. Poiché tutto ciò che è in noi proviene
da Dio, e non possiamo avere alcuna altra certezza dell’esistenza del mondo se non attraverso Dio,
ciò di cui ho coscienza è vero, dunque anche quanto deriva dal sogno. Non è infatti sufficiente dire
«che i nostri ragionamenti non sono mai così evidenti e completi nel sogno come durante la veglia»,
mentre d’altra parte «quand’anche io dormissi, tutto ciò che si presenta al mio spirito con evidenza
è assolutamente vero» (Meditationes de prima philosophia e Discorso sul metodo, p. IV, fine).
È così difficile distinguere la vita reale dal sogno che più tardi Blaise Pascal si chiede se la vita
reale non sia tutta un’illusione, e nota che solo la maggior continuità distingue la vita reale dal
sogno. «La vie est un songe un peu moins inconstant» [la vita è un sogno un po’ meno
incostante] (Pensées, ed. Chevalier, 380).
Senza la fede, si potrebbe ben pensare all’opera di un «demon méchant» (un démone malvagio) e
che tutto quanto si crede di vedere è illusione. «Vida es sueño» aveva detto Pedro Calderón de la
Barca e nei versi del Macbeth Shakespeare aveva ripetuto che la vita era sogno e inganno. Ma anche
i sogni diventano oggetto di studio da parte della scienza e si stabilisce così un nuovo campo di
indagine: la onirologia che elenca molti studiosi come Sante De Sanctis che nel 1899 pubblica a
Torino il primo vero e proprio trattato: I sogni: studi clinici e psicologici di una alienista (cfr. anche
«Il sogno. Struttura e dinamica» in Rivista di antropologia Vol. XX, 1916). Ma tutti sono destinati a
essere dimenticati dopo l’opera di Sigmund Freud, pubblicata nel 1900, che rimarrà fondamentale
nella storia della cultura occidentale: Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni). Insomma, i
sogni non sono anarchia incomprensibile, e l’individuazione di uno stimolo fisico che può attivare
una seriazione di immagini o più ancora la concezione freudiana di un linguaggio dell’inconscio
non servono a salvare il principio di causalità, ma a metterlo ulteriormente in crisi. E ciò, non solo
perché nei sogni si può ribaltare l’ordine temporale e causale, ma perché l’inconscio è una struttura
della psiche umana che manca proprio della relazione spazio-temporale e quindi di quella sequenza
"prius-posterior" che è alla base della causalità. E il pensiero primitivo rileva la vita dell’inconscio
attraverso associazioni che sono legate dal ritmo, persino da assonanze, ma non certo dalla causa
efficiente. Semmai i sogni servono a sottolineare la relatività della nozione di tempo, poiché è
indubbio che la percezione del tempo nel sogno persiste però con un andamento del tutto particolare
e irreale, non cronologico, ma, appunto, psichico. Tuttavia il tempo è condizione necessaria alla
sequenza causale. Del resto nello stesso periodo, intorno al 1880, Ernst Mach aveva criticato la
nozione del tempo assoluto newtoniano come «un corso eterno e stabile», notando che il tempo è
relativo in quanto è un decorso misurabile solo attraverso criteri arbitrari.
«Non siamo per nulla in grado di misurare nel tempo le variazioni delle cose. Il tempo è
piuttosto un’astrazione, a cui giungiamo attraverso la variazione delle cose; non siamo rivolti
a nessuna misura determinata di tempo, poiché tutte dipendono una dall’altra». È una
anticipazione della relatività di Einstein.
Per questi, infatti, non solo non esiste tempo assoluto, ma anche il corso del tempo, cioè la
grandezza di una differenza temporale, non è necessariamente uguale per tutti gli osservatori. Se
vivessimo in un universo in cui ci è dato di trasferirci con immense velocità da una parte all’altra
del cosmo, si potrebbero realizzare situazioni temporali quasi incredibili. Poiché il corso del tempo
secondo il principio di relatività speciale dipende dal movimento dell’osservatore e dalla distanza di
questo dall’oggetto osservato, non si può a rigore escludere che quel che a noi, secondo il punto di
vista tradizionale, sembra il decorso naturale del tempo e il solo possibile, possa in determinate
circostanze mutare, quasi avere un rovesciamento: in tal caso, quella che noi chiamiamo la causa
potrebbe apparire l’effetto e viceversa.
Il significato più profondo della teoria della relatività va al di là del semplice concetto di
inversione dell’ordine temporale, fino a eliminare il concetto di causa come "prius" temporale
e infine la stessa nozione di causa. Il "prius" e il "posterior" sono relativi.
Non si può escludere dunque che le spiegazioni causali, che noi siamo portati a dare degli eventi del
mondo fisico, dipendano soltanto dalla nostra particolare collocazione nell’universo. Nell’ipotesi
del tempo a rovescio, che potrebbe verificarsi in determinate circostanze, tutte le nostre spiegazioni

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della causalità verrebbero profondamente alterate. Il mondo fisico si trasformerebbe in un caos
indescrivibile e incomprensibile, ma la retrocessione del tempo renderebbe comprensibili e
prevedibili eventi che nel nostro mondo non lo sono affatto. Se lasciamo andare una matita tenuta
sospesa verticalmente su di un tavolo essa cade, ma non possiamo predire in quale direzione. Invece
in un mondo dall’ordine temporale rovesciato, le matite giacenti sul tavolo si solleverebbero
acquistando una posizione finale ben determinata e prevedibile. Ciò porta a concludere che
l’immagine che del mondo fisico noi ci facciamo attraverso la scienza non sia che una riproduzione
più o meno difettosa, e che quindi potrà un giorno essere abbandonata per un’altra che sembrerà
allora più adatta: non certo in termini assoluti quanto per una variazione delle condizioni in cui ci
potremmo trovare da osservatori. Insomma, il mondo potrebbe apparirci come un sogno o più
precisamente come nel sogno, senza il rispetto della causalità e della sequenza temporale che
implica. Sono avvicinamenti di campo persino temerari e appare addirittura paradossale unire sogno
e fisica.

SOGNO E FISICA DELLE PARTICELLE


Ma vogliamo continuare in questa strana associazione secondo cui il principio di causalità non solo
viene spodestato, ma persino negato, o addirittura invertito fino ad affermare che l’effetto genera la
causa. A fare simile affermazioni non è un matto, ma grandi fisici. C. E. M. Broad, in Il problema
della causalità, formula un argomento "ipotetico" fondato sulla velocità della luce. «Supponiamo –
egli dice – un osservatore su di una cometa che si allontani dalla Terra con una velocità uguale a
quella della luce: se egli potesse vedere attraverso un enorme telescopio i fatti terreni, questi gli
apparirebbero come immobili: non vedrebbe alcun succedersi di eventi, non rapporti di cause ed
effetti, non storia. Supponiamo ora che la velocità della cometa aumenti ancora: il nostro
osservatore vedrebbe il mondo scorrere "à rebours", a ritroso. La partenza di Napoleone per
Sant’Elena precederebbe Waterloo. Gli orrori del Terrore verrebbero prima degli anni di miseria
delle plebi contadine francesi. Se egli si calasse nei panni dello storico, potrebbe dire che gli eccessi
della plebe furono la causa della punizione cui furono costretti i governanti. Le cause, insomma,
diverrebbero per questo osservatore effetti, e viceversa: tutto l’ordine della causalità sarebbe
rovesciato». Insomma la direzione della causalità, e si potrebbe dire la causalità stessa, è relativa al
punto e alla condizione in cui si trova l’osservatore. Già nel 1897 Kurt Lasswitz, in un suo romanzo
(Su due pianeti), aveva immaginato qualcosa di simile. Consideriamo ora insieme la velocità della
luce e il meccanismo fisiologico della percezione. Se io osservo il cielo notturno nella direzione in
cui mi si dice che si trovi Sirio, vedo una macchia gialla che, in base al principio di causalità, dico
essere la stella che cercavo: quella che ha prodotto sulla mia retina l’effetto che mi fa dire d’aver
"visto" Sirio. Ma le onde che proprio in questo istante hanno colpito il mio occhio sono partite
migliaia e migliaia di anni or sono: la stella di cui mi permettono di rendermi conto è in realtà
quella che esisteva moltissimo tempo fa e che può anche non esistere più. Che cosa diremo, allora?
Che noi "vediamo" ciò che magari non esiste più? Sarebbe un evidente assurdo. In realtà ciò che
vedo è solo una macchia gialla, il resto non è che "deduzione" cui può anche non corrispondere
alcuna realtà. Insomma, tutte queste considerazioni mettono in crisi sia la universalità di questa
categoria, sia persino la causalità come "prima" e "dopo", come sequenza di una causa che produce
sempre un solo effetto.

ATTACCO DECISIVO CONTRO LA CASUALITÀ


Tutto questo, che pure appare stringente, non è ancora l’attacco decisivo contro la causalità, che si
radica nelle teorie fisiche dei quanti e in quelle già adombrate delle relatività. Le teorie intorno al
mondo subatomico, la teoria dei quanti e la meccanica ondulatoria, hanno distrutto la fiducia nella
causalità, intesa come sequenza fissata per cui ad una azione corrisponde un effetto e uno soltanto,
per sostituirvi il concetto di un indeterminismo che domina nel mondo corpuscolare e che si
nasconde ai nostri grossolani sensi del mondo macroscopico soltanto perché mascherato nel
carattere statico delle leggi. La scoperta e lo studio del fotone e dei quanti hanno portato alle

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relazioni di Heisenberg, che dimostrano l’impossibilità di prevedere insieme la posizione e la
velocità d’un corpuscolo. Se la causalità si riconosce dalla prevedibilità bisogna dire che il
comportamento dei corpuscoli è in linea di massima imprevedibile, tranne che in qualche caso
assolutamente eccezionale.
Planck conclude così: «I danni che ha fatto all’antico determinismo la nuova meccanica
sembrano troppo gravi perché possano facilmente venire riparati. È più prudente attenersi a
questa constatazione: attualmente la fisica dei fenomeni in cui intervengono i quanti non è più
conforme al determinismo» (L’indeterminismo nella nuova meccanica, pp. 222-227).
Insomma, il principio di causalità non si applica al mondo subatomico, mentre su quello
macroscopico ciò si verifica solo statisticamente, e quindi attraverso l’imprecisione di un
procedimento approssimato. Sembra il "requiem" sconcertante per questo principio, fondamento del
castello scientifico, ma non siamo ancora alla fase apocalittica. Questa si determina quando la teoria
della relatività mette in dubbio non solo l’applicabilità del concetto, ma la stessa sua legittimità:
insomma è semplicemente un errore. Bertrand Russell, nel suo ABC della relatività (1925), afferma
scultoreo che «il linguaggio della causa e dell’effetto" sarà una comoda abbreviazione per gli
scienziati, ma "non rappresenta nulla che sia veramente riscontrabile nel mondo fisico». Il crollo di
questo paradigma, pilastro del sapere e della stessa conoscenza, ha il sapore di una caduta degli dèi.
Scrive Max Planck: «In nessun caso è possibile prevedere con esattezza un evento fisico. È questa
una scomoda, ma inevitabile, verità». E «…con ciò lo scopo della ricerca fisica... viene ricacciato
indietro...». Una vera "tragedia", si potrebbe dire, per le certezze dell’uomo che non si agganciano
più nemmeno alla scienza.

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