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Vittorino Andreoli “Avvenire” 02.04.

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(9) L’eterno enigma Spazio-Tempo

1 Sant’Agostino ha sviluppato una vera dottrina del tempo, mentre il pensiero precedente si
era limitato a riferimenti non sistematici
2 Per Kant spazio e tempo sono enti mentali che usiamo per leggere la realtà, che imponiamo
al mondo esterno fenomenico
3 Per Einstein le due dimensioni sono come fuse. La loro separazione è dovuta all’analisi e alla
prospettiva dell’osservatore
4 In questo salto la fede nella visione di Newton e in quella di Euclide è definitivamente caduta

Il problema dello spazio e del tempo copre tutta la storia del pensiero occidentale. Si tratta di
riferimenti obbligati per la ragione – che procede per sequenze – e per la realtà, per la materia,
definibile come un quid che occupa uno spazio. Spazio, dunque, che è contenitore del mondo.
Dopo aver assistito alla fine del principio di causalità, occorre adesso prepararci a un’altra
esecuzione scientifica: quella del tempo e dello spazio, con la scomparsa di una nuova certezza. Ma
è bene farlo come nei romanzi gialli, partendo cioè dal momento in cui tutto appare tranquillo e
anche la vita della futura vittima, del designato, si svolge dentro il fasto e la grandezza.

NELL’ANTICHITÀ CLASSICA.
Si cominciò a discutere di tempo e spazio nella scuola eleatica, attiva intorno al V secolo a.C. Tale
scuola aveva posto la propria attenzione sull’ente (ciò che è e non può non essere), e dunque sulla
questione legata all’esistenza delle cose e al loro significato. Un tema, questo, che si incrociò subito
con quello del tempo e dello spazio. Per Parmenide infatti l’ente è immobile e fisso, mentre per
Zenone, colpito dalla molteplicità delle cose, esso si lega al tempo e allo spazio: i due parametri
cioè entro i quali è contenuto il mutamento e si manifestano la qualità e la quantità delle cose. Si
pose allora anche la questione del vuoto, e lo spazio vuoto divenne l’espressione del puro non-
essere.
La scuola eleatica esercitò grande influenza anche su Platone, il quale legò il divenire e il
cambiamento all’aspetto irrazionale del mondo, ritenendo invece fisso e costituito dalle idee il piano
razionale ed eterno. Al mondo delle cose si contrappone dunque nel suo pensiero quello delle idee
eterne: l’iperuranio.
Questo mondo – dice Platone – è geometrico. Una concezione che si chiarisce meglio in
Euclide, secondo il quale lo spazio è concepito come estensione perfettamente vuota, continua
e del tutto indifferente ai fenomeni, infinita e omogenea, tridimensionale.
È da qui, insomma, che parte la grande discussione in cui spazio e tempo diventano connessi al
mondo e all’esistenza e ne costituiscono riferimenti essenziali.
Aristotele lega lo spazio alle cose, pur senza che lo spazio sia una cosa. Non c’è uno spazio che sia
altro dagli oggetti materiali che contiene. Il luogo è connesso ai corpi come attributo, ma non si
identifica con questi. Diversamente si dovrebbe ammettere l’assurdo di un luogo che si muova con
il corpo che lo occupa. Aristotele afferma che lo spazio è «il limite immobile di un corpo che lo
contiene». Se lo spazio è estensione, allora il tempo è successione, cioè mutamento. Per Aristotele
«il tempo non è altro che il numero [mezzo per misurare la sequenza e la successione] del moto
secondo un prima e un dopo» (Nat. Auscul., IV, 11, 5).

AGOSTINO E IL TEMPO

1
Platone preannuncia il pensiero cristiano, facendo del tempo una realtà generata: «Perché dei giorni
e delle notti e dei mesi e degli anni, che non erano prima che il cielo fosse generato, allora con il
costituirsi di esso egli produsse le generazioni» (Timeo, 37).
È sant’Agostino a sviluppare poi una vera dottrina del tempo, a fronte di un pensiero precedente che
si era limitato a offrirne riferimenti sparsi e non sistematici. La sua dottrina, esposta nell’XI libro
delle Confessioni, ha avuto e continua ad avere un’influenza non trascurabile. Partito dal dubbio
manicheo sull’interpretazione dell’«in principio» del Genesi (perché – si chiedevano i manichei –
Dio ha "aspettato" a creare il mondo, che quindi non è ab aeterno?) Agostino ritiene sia necessario
distinguere l’eternità, che è «sempre ferma e immanente», rispetto al tempo, che è mutazione e
movimento. Il tempo, che non è mai fermo, consta di molti istanti transitori e così trapassa e
trascorre intorno a noi. Nell’eternità invece non c’è nulla che passi, tutto è presente, stabile: è da
questo presente che sempre traggono il loro essere il passato e il futuro del tempo.
Ma cos’è il tempo? Qual è la sua natura? «Se nessuno me lo domanda, lo so: se voglio
spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più» (XIV, 17). In realtà Agostino lo scruta con una
profondità straordinaria.
Innanzitutto il tempo si misura nel suo trascorrere, e appunto per questo è movimento: una
caratteristica propria, intrinseca – potremmo dire – di tutti i corpi, e non solo di quelli celesti.
Infatti, anche se i corpi stessero fermi il tempo scorrerebbe ugualmente. Dunque i corpi si muovono
nel tempo. Quando un corpo si muove si dice che la durata del suo moto si misura con il tempo.
Altro quindi è il moto del corpo, altro è «ciò con cui ne misuriamo la durata»: quest’ultimo è il
tempo (XXIV, 31). Se si analizza cosa sia ciò con cui si misura, si conclude che «il tempo null’altro
è che estensione» (XXVI, 33; XXIII, 30), misurata nell’anima stessa: «Gli è in te, anima mia, ch’io
misuro il tempo... L’impressione che le cose fanno in te nel passare, e in te rimane quando sono
passate, è questa ch’io misuro nel presente, non le cose passate in modo da introdurvele» (XXVII,
36). E ancora: «Così, la mia fanciullezza non esiste più se non in un tempo passato, che non esiste
più; ma, quando la rievoco e ne parlo, io ne vedo l’immagine nel presente, perché essa è ancora
nella mia memoria» (XVIII, 13).
Sono addirittura sbalorditive, tanto sono belle, le osservazioni che Agostino offre. Non c’è passato o
futuro "lungo": lungo, piuttosto, è il ricordo, così come lunga è l’attesa. Tutto ciò accade nella
memoria, in quella «reggia immensa», in quel «ventre dell’anima», in quella «immensa sinuosità
dell’anima..., piena delle immagini di tante e tanto grandi cose», i cui misteri Agostino indaga nel X
libro delle Confessioni, a partire dal VII capitolo. Come non c’è tempo senza mobilità e mutabilità,
così non c’è tempo senza creazione. Ne consegue che nell’eternità non c’è mutazione, e dunque non
c’è tempo.
Cade così il dubbio manicheo: come chiedersi cosa faceva Dio prima della creazione, se non c’era
un "prima"? Fuori dal tempo non c’è che l’eterno, un presente che non ha un prima né un poi, tutto
egualmente spiegato innanzi al Creatore, e non già perché Egli sia fornito di una scienza e
prescienza così vaste da conoscere tutto il passato e il futuro allo stesso modo in cui noi alcune cose
passate le ricordiamo e alcune future le prevediamo. Questa mente, questa che pur «è un’anima
meravigliosa e stupenda da mettere i brividi», sarebbe ancora lontana dal modo nel quale Dio
conosce il passato e il futuro, che è assai più mirabile e misterioso (XI, XXXI, 41). Egli infatti «è
immutabilmente eterno ... in una presenza stabile ed eterna» (De Civitate Dei, XI, 21).
Ci si fermerebbe indefinitamente nel pensiero di Agostino sul tempo, perché si rimane come
imprigionati (e affascinati) tra la sponda del comprensibile e quella dell’ineffabile, che pure appare
essenziale. Il mio compito non è però di soffermarmi sulla dottrina agostiniana del tempo, per la
quale – tra l’altro – rimanderei a studiosi ben più impegnati su questo pensatore. Vorrei piuttosto
dare uno sguardo panoramico sulle considerazioni relative a tempo e spazio, per giungere a quel
periodo tra fine Ottocento e inizio Novecento quando entrano in crisi la certezza e i princìpi su cui
si erano fondati per secoli il pensiero e la scienza: è il periodo nel quale ha inizio quella caduta dei
princìpi che oggi sembra esprimersi in una civiltà quantomeno confusa e in un uomo alla deriva.

2
TRA CARTESIO E NEWTON
Non c’è dubbio che si debba giungere al XVII secolo per incontrare un’analisi di questo problema
che possa assurgere alle altezze del pensiero di Agostino, anche se a questo punto del nostro
percorso occorre uscire dall’alveo della metafisica.
Cartesio non ammette l’esistenza di uno «spazio assoluto» distinto e separato da ogni oggetto: «noi
possiamo dire che una stessa cosa nel medesimo tempo muta di luogo e non cambia affatto… e se
noi pensiamo che non sarà possibile incontrare in tutto l’universo un punto che sia veramente
immobile… potremmo concludere che non esiste cosa al mondo che sia ferma e immobile, se non
in quanto noi la fermiamo nella nostra mente ...» (Principia philosophiae, II, 13).
Newton postulò invece uno spazio assoluto e oggettivo, immobile nei confronti dei corpi che vi si
muovono. Allo stesso modo, la necessità di distinguere tra simultaneità e successione lo condusse a
postulare un tempo assoluto, vero e matematico, che «considerato in sé e nella sua natura, senza
relazione a nulla di estraneo, fluisce egualmente» (Princìpi matematici della filosofia naturale, trad.
it., Roma 1925, p. 40). Nello spazio oggettivo le cose hanno un loro posto determinato, così come
accade nel tempo per gli avvenimenti che si susseguono, in modo che le mutue relazioni sono
stabilite in maniera obiettiva indipendentemente da ogni altra condizione. I rapporti sono assoluti e
si fondano sulla immobilità dello spazio e sulla costanza del tempo. Spazio e tempo Newton li
concepì come attributi divini, come «sensoria Dei».
Dalle due opposte vedute di Cartesio e di Newton nacque una delle più celebri polemiche
scientifiche del XVIII secolo, quella tra Leibniz e Samuel Clarke, seguace di Newton. All’idea
di uno spazio assoluto, attributo di Dio, Leibniz muove molte acute critiche.
Se ogni qualità è attributo di qualche sostanza, di quale sostanza si dovrà dire sia attributo lo spazio
vuoto e limitato? Di Dio, come dice Newton? Ma allora come si potrà sostenere che sia adeguato a
Dio – indivisibile – lo spazio infinitamente divisibile?
Se lo spazio sarà ritenuto come una «realtà assoluta» anziché una «proprietà», si dovrà pensare che
Dio non possa distruggerlo ma neppure modificarlo, ciò che equivarrebbe ad ammettere «una
infinità di cose estese fuori da Dio». Leibniz, in sostanza, nega l’assolutezza oggettiva dello spazio
e del tempo, pur avvertendo il pericolo di relativizzarli.

LA SOLUZIONE DI KANT
Per Kant spazio e tempo sono reali in quanto enti mentali che usiamo per leggere la realtà. In questa
"formidabile" soluzione, spazio e tempo tornano a essere qualcosa di oggettivo, di una oggettività
che è del pensiero, e da esso è imposta al mondo fenomenico esterno: l’oggettività che la Mente
legislatrice impone alla Natura attraverso le sue forme sempre identiche.
La scoperta di quella che, in un bisticcio di parole, potrebbe chiamarsi l’"oggettività soggettiva"
(una dimensione oggettiva, dentro ciascuno di noi), cioè della "sintesi a priori", è una delle grandi
tappe del pensiero umano, paragonabile alla scoperta socratica del concetto. Vi è in ciò qualche
cosa di definitivo, tanto da far sembrare che non fosse più possibile tornare all’impostazione pre-
kantiana del problema dello spazio e del tempo.
Per Kant spazio e tempo sono anzitutto forme dell’intuizione pura. Intuizioni e concetti sono
gli elementi della conoscenza. Sono puri, e non empirici, anche se adatti a comprendere gli
oggetti: sono dunque ordinatori delle sensazioni.
Spazio e tempo sono cioè due «fonti di conoscenza» perché «forme pure di ogni intuizione
sensibile», sicché «se togliessimo di mezzo il nostro soggetto, o anche semplicemente la
costituzione soggettiva dei sensi in generale, tutta la costituzione, tutti i rapporti – spaziali e
temporali – degli oggetti, anzi, persino lo spazio e il tempo svanirebbero, né come fenomeni
possono esistere in se stessi, ma soltanto in noi» (ibid., Estetica trascendentale).
Insomma, lo spazio e il tempo sarebbero preformati dentro la nostra mente e servirebbero a
comprendere il mondo. Dunque sarebbero forme che accolgono come contenuti gli oggetti, senza le
quali gli oggetti stessi rimarrebbero privi di ogni significato. Quanto alla natura dello spazio, il
riferimento era sempre stato allo spazio euclideo (la somma degli angoli interni di un triangolo è

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uguale a due angoli retti), almeno finché non si cominciò a intravedere la possibilità di geometrie
non euclidee. A supporla per primo fu padre Giovanni Saccheri sul finire del Settecento, anche se il
tema si svilupperà nell’Ottocento grazie a Carl Friedrich Gauss, Bernhard Riemann e Nikolaj I.
Lobatcevskij.
Anche Kant aveva considerato questa possibilità, pur pensando che solo una geometria dovesse
essere oggettiva: quella euclidea, che appartiene alla nostra intuizione dello spazio. Astrattamente
parlando, le forme della spazialità sono diverse «giacché noi non possiamo giudicare delle
intuizioni di altri esseri pensanti, se esse siano o no legate alle stesse condizioni che limitano la
nostra intuizione» (Critica della ragion pura, trad. it. di Gentile e Lombardo Radice, p. 70).

DIMENSIONI DELLA PSICHE?


Dopo Kant si dovette aspettare almeno un secolo per riaprire il problema e cominciare a vedere la
caduta della costruzione di uno spazio assoluto. Successe quando ci si accorse che, se l’osservatore
è immerso egli stesso nello spazio, allora vuol dire che ne condivide la struttura e non può
controllarla. Secondo quella che si è soliti definire l’ipotesi di Delboeuf-Helmholtz-Poincaré, infatti,
«se le dimensioni del mondo diventassero mille volte più grandi, non ce ne accorgeremmo… se
aumentassero di dimensione gli oggetti, anche il nostro corpo aumenterebbe in proporzione». Non
ci renderemmo neppure conto se lo spazio da euclideo diventasse curvo, poiché anche i nostri
strumenti di misurazione si incurverebbero e non avremmo modo di accorgercene.
Poincaré, a questo punto, fa una osservazione che anticipa Einstein: «Meglio sarebbe ammettere che
lo spazio è relativo». Un’affermazione che combaciava con gli studi di Ernst Mach, il quale aveva
dimostrato che ogni concetto di moto è relativo e che non ha valore l’antica distinzione tra
movimenti rettilinei e movimenti di rotazione. Ecco tornare il relativo, con l’aggiunta di una nuova
dimensione critica legata a quella psicologia che nell’Ottocento assume una presenza più
sostanziale. C’è lo spazio dei geometri, puro, o metrico. C’è lo spazio dei matematici, obiettivo ma
non reale. Ci sono anche gli spazi delle rappresentazioni psicologiche, reali ma non omogenei né
qualitativamente indifferenti. Lo spazio, in altri termini, è relativo alle percezioni: cambia cioè a
seconda del fatto che sia ricostruito con la vista o con il tatto. Dunque non è omogeneo, e di volta in
volta ci appare diverso. Lo si può notare nei primitivi: il loro spazio reale è infatti pieno di qualità
(Lucien Lévy-Bruhl, La mentalité primitive, 1932). Lo spazio – diremmo oggi – è vissuto con
modalità e qualità che dipendono dal singolo, dalle sue esperienze percettive e dalle risposte
emotive che egli esprime.
Discorso analogo vale per il tempo. Vi è difatti un tempo obiettivo – o matematico – che è
omogeneo, indefinitamente divisibile in parti identiche, che scorre in modo continuo e uniforme,
senza principio né fine. È il tempo newtoniano. Ma accanto a esso sussiste il tempo psicologico,
quello che sperimentiamo in noi stessi, nello scorrere della nostra vita interiore, quel tempo-
coscienza, quel sentimento del tempo che Simmel sostiene sia lo «stato fondamentale dell’anima»
(Grundschicht der Seele). Ora, questo tempo vissuto, che è il sentimento soggettivo di un
perdurare, non è affatto identico in tutti: varia per ogni soggetto, e in ognuno a seconda di
circostanze e stati d’animo. Non a caso si parla di ore lunghe e ore brevi, di anni che sono fuggiti
rapidi e di anni che non trascorrono mai. Ci sono tanti tempi psicologici, con tanti ritmi, e persino
un tempo che muta con l’età.
Tutte queste sensazioni soggettive si collegano alle affermazioni (certo più sostanziali) fatte da
Mach, che intorno al 1880 aveva dimostrato come il concetto di tempo fosse relativo: perché mai
alcune sequenze temporali dovrebbero essere considerate più vere di altre? L’oscillare di un
pendolo è forse più vero di una respirazione affannata?

BERGSON E EISTEIN.
Era questo il quadro della situazione mentre lo studente Bergson p preparava la sua tesi su spazio e
tempo, entità che egli anzitutto contrappose: mentre la natura si fonda sullo spazio, la filosofia si
basa sull’intuizione pura del tempo («Il est donné immediate de la coscience», «è il dato immediato

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della coscienza»). Bergson introdusse poi la dimensione «de la durée», vale a dire il sentimento
soggettivo «della durata» che nega la dimensione obiettiva, e anzi stabilisce che i fenomeni psichici
abbiano una loro intensità variabile che li rappresenta con differenze di qualità. Si tratta cioè di
rappresentazioni psicologiche o di fenomeni psichici elementari, che sono alla base della
conoscenza e persino (su questo Bergson insiste molto) della percezione della libertà. Il suo Essai
(Saggio sui dati immediati della coscienza) ebbe un enorme successo e riaccese l’interesse
sull’argomento. Era il 1889. Nel 1908 davanti all’assemblea dei naturalisti e medici tedeschi riuniti
a congresso a Colonia il matematico Hermann Minkowski prospettava con parole solenni quella
che, a suo giudizio, sarebbe stata la concezione futura della fisica: «D’ora in poi spazio per sé e
tempo per sé devono precipitare nel regno delle tenebre, e solo una specie di unione dei due può
avere esistenza autonoma... un mondo in sé» (in Raum und Zeit, 1908, e in Nuovo Cimento, serie V,
vol. XVIII, anno 1909, p. 333). Di tale suggerimento s’impadronì subito Einstein (che già tre anni
prima aveva esposto i princìpi di quella che venne definita "relatività ristretta") per svolgere il suo
concetto del reale inteso come un continuum in cui spazio e tempo sono fusi e che ha la sua
rappresentazione tecnica in un sistema a quattro dimensioni (cfr. Kopff, I fondamenti della
relatività einsteniana, Milano 1923). Nell’esperienza fisica reale, spazio e tempo non esistono mai
separatamente: la loro distinzione è dovuta esclusivamente all’analisi astratta e dipende dalla
prospettiva dell’osservatore. La decomposizione in rapporti spaziali e temporali può essere
realizzata in modi differenti secondo il punto di vista di chi osserva, ma non c’è alcuna ragione
perché una tale divisione sia ammessa in natura.
Inutile dire che la relatività di Einstein parve avere punti di contatto con la teoria di Bergson. L’una
e l’altra fondevano spazio e tempo, così come entrambe negavano lo spazio euclideo e il tempo
newtoniano, andando insieme contro gli insegnamenti di Kant. Secondo Einstein, bisogna
distinguere tra spazio vuoto e spazio riempito di materia, quello cioè che costituisce l’universo
fisico. Il primo è euclideo, mentre non lo è il secondo (che è poi lo spazio reale) in quanto le
proprietà geometriche vi sono condizionate dalla materia che può incurvare lo spazio rendendolo
non euclideo. Nella pratica la differenza non è grande, tanto che sarà possibile cavarsela affermando
che il nostro è un mondo "quasi-euclideo" (Sulla teoria speciale e generale della relatività, trad. it.
Bologna 1921, pp. 101 sg.).
Assai più sconvolgenti sono le affermazioni relative al tempo. Per Newton c’è una metrica
temporale assoluta in cui le relazioni di successione e contemporaneità hanno un valore obiettivo e
non variano al variare della posizione dell’osservatore.
Einstein sostiene invece l’esistenza di una metrica tutta diversa, in cui due avvenimenti
simultanei rispetto a un osservatore possono essere successivi rispetto a un altro la cui
distanza spaziale e il cui stato di moto o di quiete siano diversi da quelli del primo.
Ciò che è contemporaneo per un osservatore può non esserlo per un altro. Per decidere se due
intervalli di tempo sono eguali, cioè se due avvenimenti hanno luogo contemporaneamente,
dobbiamo già sapere come si misura il tempo. Ma stabilire l’unità di tempo presuppone la capacità
di decidere se due grandezze sono uguali. Non vi è qui un circolo vizioso?
In realtà non si può stabilire obiettivamente una contemporaneità tra due avvenimenti che si
verificano in luoghi diversi dello spazio. Ma allora manca una misura oggettiva del tempo, e di
conseguenza ciascuno dei tempi singoli che ogni osservatore può stabilire avrà un eguale valore. Si
giunge così a conclusioni paradossali, la più nota delle quali è che l’età scorra in maniera differente
per uomini che rimangano sulla terra rispetto ad altri che volino su un aereo a enorme velocità. Ma,
al di là degli aneddoti, la conclusione più importante è che possiamo conoscere solo i tempi relativi
e mai il tempo assoluto della fisica classica.
Si deve aggiungere che le misure temporali non sono indipendenti da quelle dello spazio, né –
viceversa – quelle spaziali dalle misure temporali: tutte le grandezze sono spazio-temporali.
Insomma, spazio e tempo dipendono l’uno dall’altro. Siamo così passati dal tempo assoluto a un
tempo che non è mai lo stesso. In questo salto la fede nel tempo newtoniano e nello spazio di

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Euclide è definitivamente caduta, e lo stesso Kant ha perso la sua grande autorevolezza, anche se si
è cauti nel metterlo in soffitta.

UNA RICERCA DISPERATA


L’attacco alla dottrina delle forme a priori universali e necessarie è ormai cominciato, un’altra
certezza si frantuma. Tutto ciò non è soltanto un gioco in casa di filosofi e fisici ma anche nel
mondo dell’agire e nel comportamento di ciascun uomo che, pur non discutendo di filosofia e delle
sue difficili questioni, tuttavia non può che respirare l’una e le altre.
Voglio concludere questa tappa del nostro viaggio citando un grande poeta, il cantore del
sentimento del tempo: Giuseppe Ungaretti.

Ti odo nel fluire della mente
Approfondire lontananze
Emula sofferente dell’eterno

Madre velenosa degli evi


...
Quando m’avrai domato: dimmi:
Nella malinconia dei vivi
Volerà a lungo la mia ombra?
Sì da invocare desolato:
Figlia indiscreta della noia
Memoria. Memoria incessante
Le nuvole della tua polvere
Non c’è vento che se le porti via?
(Canto primo,1932)

Ritorna in questi versi la dimensione dell’eterno, un principio la cui caduta ha effetti che non si
limitano alle scienze particolari e all’interno di una filosofia che sembra appassionare solo pensatori
per lo più incomprensibili e bizzarri. Le conseguenze di questa dissoluzione si ripercuotono infatti
sull’esistenza di ciascuno, sul quotidiano, su quella dimensione del sapere che non è "raffinata" né è
prerogativa dei soli addetti ai lavori, ma che si avverte all’opera dentro il senso della società in cui
viviamo, con i suoi riferimenti aperti o impliciti. Anche il sapere colto trapassa nella vita della
gente, di ciascuno di noi. Possiamo non essere in grado di capirne i contenuti, ma ne respiriamo gli
effetti. Mentre scompare il senso del tempo e dell’eterno, il poeta lo ricerca ancora e lo riveste della
sua poesia. Quella poesia che ricrea ciò che la scienza ha negato, mentre la fede trova ciò che la
ricerca scientifica non individua e finanche nega. Senza ormai più certezze, si riscopre che queste
stesse certezze sono un bisogno, una necessità. E allora?

Io non so ove i gabbiani abbiano nido


Ove trovino pace.
Io sono come loro
In perpetuo volo
La vita la sfioro come essi l’acque ad acciuffare il cibo.
Ma forse come anch’essi amo la quiete,
la grande quiete marina
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
(Vincenzo Cardarelli)

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