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Vittorino Andreoli PRINCIPIA “Avvenire” 12.03.

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Questo è il filo rosso che stiamo seguendo: valutare la crisi non tanto delle scienze in generale,
quanto delle singole discipline, con il duplice impegno di mostrare da una parte la loro attuale
debolezza, dall’altra il loro ricorrente rifarsi alla filosofia, quando non direttamente alla
trascendenza. Questo benché prima del ’900 esse si ergessero a capisaldi della civiltà occidentale e
della conoscenza umana, in un atteggiamento di sostanziale autosufficienza.

1 La crisi della matematica è il crollo delle colonne che annunciano il "muoia Sansone e tutti i
filistei".
2 Resta il bisogno di sapere e l’impressione, dopo aver visto tante cose, di non aver ancora
trovato ciò che si cerca.
3 Mi sento come chi ha visitato una vasta area archeologica, una grandezza passata ridotta
adesso a macerie.
4 Ma il viaggio è appena incominciato, sulla scia di quei princìpi che cercheremo di trovare
dentro ciascuno di noi.

(7) Matematica, la crisi di una grande signora


Con «Grandezza e miseria della Fisica» (Avvenire, 19 febbraio) abbiamo già presentato l’anatomia
di uno dei capitoli fondamentali delle scienze, dette anche scienze "dure". E sulla scorta della crisi
di quei principi su cui si era retta per tre secoli la fisica (dal Seicento alla fine dell’Ottocento),
abbiamo mostrato l’impossibilità di definire ora il concetto di natura: vuoi nella sua consistenza,
vuoi nella sua mutevolezza.
Con questa puntata passiamo ad una scienza nobilissima, la matematica, non solo per scoprirla, ma
soprattutto per mostrare il suo profondo mutamento, la sua grande crisi.
È chiaro ormai il percorso che stiamo seguendo: valutare la crisi non tanto delle scienze in generale,
quanto delle singole discipline in particolare, con il duplice impegno di mostrare da una parte
l’attuale debolezza insita nelle scienze medesime, per cogliere dall’altra il loro ricorrente rifarsi alla
filosofia, quando non addirittura alla trascendenza. Benché prima del Novecento esse si ergessero
come capisaldi della civiltà occidentale e della nostra conoscenza sull’uomo.

LA MATEMATICA.
Anche se è molto usata, la parola "matematica" viene applicata per lo più in maniera errata o quanto
meno non precisa. Bisogna infatti identificare anzitutto la matematica generale che comprende
anche i numeri, campo specifico dell’aritmetica, e che finisce per essere un sistema ordinatore delle
nostre sensazioni, utile a quantizzare gli oggetti. Comprende inoltre la geometria, la quale si avvale
invece di figure (punti, rette e piani) e delle loro proprietà: un sistema utile per studiare lo spazio e
per misurarlo. Pure in questo caso il riferimento va al mondo percepito, che si vuole rappresentare
riportandolo su modelli geometrici.
Ma soprattutto è «una specifica attività scientifica rivolta a contemplare in astratto le proprietà dei
numeri e delle figure…senza preoccuparsi in alcun modo se trovassero conferma nei fatti empirici»
(Luigi Amerio e Ludovico Geymonat, Matematica, Est, Milano, vol. VIII, 1963).
Se ci si limita a quest’ultima funzione, si parla di matematica pura, di qualche cosa cioè di
completamente astratto, che si avvicina più alla fantasia – proprietà dell’immaginazione – che
non al reale. Almeno questa tipicità fonda la grande matematica, quella – appunto – "pura":
a voler sottolineare che non ha nulla a che fare con le cose, con gli oggetti, e che pertanto la si
deve distinguere dalla matematica "applicata" che si mette al servizio di qualcosa.
La matematica pura è veramente una disciplina strana, non foss’altro perché non si pone nemmeno
il problema di essere utile, e a che cosa.

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Abbiamo detto che la matematica si basa sull’astrazione. Ebbene, i gradi di astrazione sono diversi.
Che due più due faccia quattro è da tutti accettato e «si applica ad ogni cosa: ai sapori, ai suoni, alle
mele ed agli angeli, alle idee della mente e alle ossa del corpo. La natura delle cose è perfettamente
indifferente: di tutte le cose è vero che due più due fanno quattro». (A.N. Whitehead, Introduzione
alla matematica, ed it., Firenze, 1951, pag. 7).
Già questo è un livello di astrazione poiché, pur riferendosi a qualcosa che si conta, l’affermazione
è totalmente indipendente dalle cose.
Ebbene, la matematica pura giunge a distaccarsi persino da qualcosa che si può anche solo contare,
fino a occuparsi di concetti che non hanno bisogno di aver riferimenti concreti: l’astrazione può – in
altre parole – diventare la più lontana possibile dalla realtà, e il matematico così immagina mondi
che sembrano andare persino all’opposto di quello esperito.
È chiaro che una scienza tanto astratta non possa essere molto significativa per le circostanze della
vita umana. J. Swift, nel descrivere Gulliver a Laputa, nell’isola volante, parla dei matematici come
di sciocchi e inetti sognatori. Messi sullo stesso piano di quel tale che da otto anni cerca di estrarre
raggi di sole dai cetrioli o di quell’altro che vuol fare polvere da sparo col ghiaccio. Il sarto di
Gulliver prende le misure col quadrante e altri strumenti, per poi confezionargli un abito fuori
misura e inadatto. Ecco la inutilità delle scienze e della matematica. (cfr. Jonathan Swift, I viaggi di
Gulliver, 1726 )
Eppure vi è qualche cosa che la rende affascinante, come la constatazione che sovente le realtà
esterne al mondo di cui parlano i matematici, attraverso le relazioni astratte che dovrebbero
regolarle, finiscono per corrispondere a situazioni che si scoprono in seguito. Come a dire che si
tratta di anticipazioni, non di stranezze, anzi persino di "profezie" scientifiche.
La matematica pone a questo proposito un problema di grande portata, quello
dell’isomorfismo tra mondo e pensiero, come se la nostra mente (che poi è espressione
dinamica del cervello, fatto di carne) avesse – in qualunque modo si esprima – l’impronta che
la lega indissolubilmente col mondo. E di conseguenza mostrasse che ciò che pensa, per
quanto strano, è compatibile con il mondo in cui l’uomo vive.
Per l’isomorfismo, insomma, il pensiero e i suoi concetti per quanto astratti, sono sempre parte della
descrizione dei mondi a cui la mente partecipa, e di cui porta lo stigma. E in questa luce la
matematica finisce per essere una maniera differente (con propri criteri e procedure logiche) per
parlare sempre del nostro mondo e in particolare di quello che potremmo semplicemente non
conoscere e che per questo ci sembra incomprensibile o strano, se non inutile.

LA MATEMATICA NEL SUO FULGORE.


È antica convinzione che la matematica sia la forma più perfetta del sapere umano in quanto
realizzazione compiuta della logica. Basti citare, fra i tanti, il passo di una lettera di Galileo a
Fortunio Liceti, nella quale lo scienziato asserisce con serena sicurezza di aver imparato ad
argomentare «sì da saper evitare le fallacie sofistiche colli innumerabili progressi matematici puri,
non mai fallaci».
Sullo stesso argomento, Leibniz ha affermato in modo perentorio che «senza le matematiche non si
penetra nel profondo della filosofia», benché si affretti ad aggiungere che «senza la filosofia non si
penetra affatto al profondo delle matematiche». Teoria, questa, che non ebbe seri oppositori per
almeno tre secoli.
Dominava, cioè, la convinzione che la matematica avrebbe potuto dimostrare tutti i concetti,
ogni proposizione intuitiva ed evidente. Tutto sarebbe stato dimostrato o definito, anche le
idee più elementari e le proposizioni più semplici. In seguito, però, ci si rese conto che non si
può fuggire dai concetti primi e fondamentali, i quali devono essere accettati senza pretendere
di definirli.
La stessa dimostrazione si fa deducendo una proposizione da altre già conosciute e dimostrate,
finché alla fine si arriva ai princìpi da accettare senza dimostrazione: agli assiomi o ai postulati.

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L’assioma è ogni affermazione, ogni proposizione evidente di per sé, che non ammette pertanto
discussione. È il caso di una intuizione di evidenza immediata. Così il postulato sottolinea la
funzione da "mettere alla base": quello più noto è il quinto postulato di Euclide, che recita: «Per
ogni punto del piano si può condurre una retta e una soltanto parallela a una retta data non passante
per il punto».
Assiomi e postulati erano talmente accettati che all’inizio di ogni trattazione si dovevano dichiarare
esplicitamente: erano i concetti assunti senza dimostrazione. Tutti gli altri avrebbero dovuto essere
definiti in maniera precisa, deducendoli in modo che, fatta eccezione per la dichiarazione iniziale,
nessun elemento illogico si sarebbe dovuto introdurre nella dimostrazione matematica (a esprimere
bene questa posizione è, agli inizi del XIX secolo, Joseph Gergonne).
Ma proprio quando sembrava che le difficoltà fossero state del tutto superate, si aprì per le
matematiche un periodo critico.

LA MATEMATICA DELLA CRISI.


Negli stessi anni in cui la questione dei postulati pareva risolta, il sorgere delle geometrie non
euclidee rese quella questione nuovamente critica, scuotendo l’antica fede nell’intuizione e
nell’evidenza.
Carl F. Gauss s’era ben presto accorto delle conseguenze rivoluzionarie cui portavano gli studi
intorno al tanto discusso, e già citato, quinto postulato di Euclide. In una lettera a Wolfgang Bolay
del 1799, egli dice: «La via da me presa conduce non tanto alla meta destinata [che era quella del
«vindicare Eucliden ab omni naevo» secondo l’espressione del gesuita e matematico padre
Giovanni Girolamo Saccheri], quanto a mettere in dubbio la sua verità e la verità della geometria».
In altre parole, si cominciò a prendere atto che anche quei concetti, che per la loro apparente
semplicità sembravano una garanzia inattaccabile contro ogni dubbio, in realtà erano alquanto
complessi e richiedevano una dimostrazione.
Un altro significativo esempio si lega al concetto stesso di numero. Scrive Gottlob Frege a questo
proposito: «È veramente uno scandalo che la scienza sia tuttora all’oscuro sull’essenza del numero.
Sarebbe forse ammissibile il non possedere ancora nessuna definizione universalmente accettata di
esso, quando però ci si trovasse d’accordo almeno sulla sostanza. Ma anche su ciò, se il numero sia
un gruppo effettivo di enti oppure soltanto un segno della mano dell’uomo tracciato sulla lavagna,
se esso formi qualcosa di mentale, sicché la psicologia debba studiarne l’origine, oppure sia una
costruzione puramente logica; se costituisca una nostra creazione e possa quindi scomparire, o al
contrario sia qualcosa di eterno, anche su tutto ciò la coerenza non ha finora deciso nulla… Non
forma tutto ciò vero scandalo?» (cit. in Friedrich Waismann, Introduzione al pensiero matematico,
trad. it. Torino 1934, pp. 149 sg.).
Ma a entrare in crisi è anche, per Julius Dedekind, il concetto – apparentemente chiaro ed evidente
– di "continuo". «Dividiamo tutti i punti della retta in due classi, di modo che ogni punto della
prima si trovi alla sinistra di ogni punto della seconda: esisterà allora uno e un solo punto che
determina questa spartizione». Dedekind commenta: «Qualche lettore potrà rimanere stupito che
proprio una proposizione così banale possa rivelarci il segreto del concetto di continuità. Io però
sono ben contento che tutti lo trovino tanto intuitivo…, dato che né io né altri potremo mai trovarci
in grado di dimostrarlo» (in F. Waismann, op. cit., pp. 265 sg.).
Le difficoltà cui va incontro la matematica, come si nota, sono molte, e bisogna aggiungerne
almeno altre due. Quella riguardante l’induzione, il "ragionamento a cascata", come lo
definiva Henri Poincaré, e quella sulla esistenza degli enti matematici: si tratta di pure
convenzioni o di realtà logiche insopprimibili?
Alla luce di queste difficoltà e dell’impossibilità di dimostrare i concetti basilari delle costruzioni
matematiche, si entrò nella discussione intorno alla natura (ai fondamenti) della matematica, a
cominciare proprio dalla convinzione di Kant, che aveva considerato tutti i giudizi matematici come
sintetici a priori. Giudizi dunque che fanno parte della struttura mentale e che non sono derivati
dalla osservazione.

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Il disaccordo si fece subito labirintico. Poincaré, seguito da Felix Klein, disse distanziandosi da
Kant che solo l’aritmetica era veramente sintetica a priori e la geometria aveva invece origine
convenzionale, mentre Frege e Dedekind la pensavano in maniera opposta: la geometria era
sintetica a priori, l’aritmetica era invece analitica, sviluppata mediante la deduzione da princìpi
convenzionali.
La questione dei fondamenti, e dunque del valore della matematica, veniva così posta nella forma di
una serie di incertezze e di dubbi dai quali questa scienza, che era sempre stata considerata la
scienza della certezza per antonomasia, sembrava dovesse essere immune.

QUATTRO INDIRIZZI.
Tenendo conto delle varie e divergenti maniere di concepire la matematica, si possono
schematicamente distinguere quattro indirizzi.
1) I sostenitori del carattere intuizionistico. Per costoro le matematiche attingono la ricchezza
del loro contenuto dall’intuizione, elementa extralogica; mentre dalle relazioni formali della
logica deriva il loro rigore. La peculiarità della matematica consisterebbe nella costruzione
del proprio oggetto, che non è un ente di ragione, cioè un concetto, ma una rappresentazione o
immagine mentale non sensoriale.
Si tratterebbe cioè di immagini combinate tra loro secondo le regole della logica formale.
Non possono essere immagini sensoriali poiché altrimenti la matematica avrebbe una origine
empirica; non possono nemmeno essere idee platonicamente intese, poiché si collocherebbe la
matematica all’interno dell’antica metafisica. Si è costretti allora a ripiegare sulla vecchia "idea di
intuizione" come di un apprendere immediato (e non in forma discorsiva) dell’intelletto (nous) che
si contrappone a quello mediato o discorsivo della ragione (diànoia).
Contro gli intuizionisti Leibniz, in uno scritto del 1702, a proposito dei numeri immaginari, dice: «I
numeri immaginari sono un artificio sottile e meraviglioso dello spirito divino, quasi un anfibio tra
l’essere e il non essere». Il Lubsen, un secolo dopo, definiva il calcolo differenziale «un operare
mistico con quantità infinitamente piccole, un soffio, un nulla… lo spirito di una grandezza svanita»
(in F. Waismann, op. cit., pp. 25 e 12).
Berkeley, spirito penetrante e nemico di ogni misticismo, giunse a definire i matematici «nihil
arians», gente che si occupa del nulla, e nell’opera «The Analyst» (1734) si scaglia contro i concetti
della matematica del suo tempo, ad esempio quello di infinitesimo o di grandezza infinitamente
piccola, e contro il calcolo infinitesimale che altro non sarebbe che un «sistema di errori
compensati».
La nota affermazione che «un numero infinitamente grande di grandezze infinitamente piccole dà
una quantità finita» è una specie di oltraggio alla logica.
Altrettanto oltraggiosa appare la definizione euclidea di punto come «ciò che non ha parti»: vera e
propria "pietra di scandalo" per il senso straordinariamente oscuro che contiene. Aggiunge
giustamente Waismann: «Un dolore, per esempio, non ha parti; e dunque è un punto?» (op. cit., p.
111).
Evidentemente l’intuizione è un fondamento insufficiente per la scienza matematica.
2) Molti matematici hanno sostenuto che tale scienza ha origine e natura empirica. I concetti
matematici non sono, per autori come il Parsch, che generalizzazioni di qualità riscontrate
nelle cose; la dimostrazione non è che una specie di esperimento mentale. Di conseguenza, ciò
che è empirico è contingente, può dunque essere o non essere, e il contingente non può
rientrare in una dimostrazione generale e universale.
Il bisogno di mantenere la matematica tra le scienze sperimentali serve a evitare il pericolo di
trasformare questa scienza in «semplici giochi dello spirito».
Ma se si lega la matematica a empiriche rappresentazioni sensoriali, non si viene con ciò a far sì che
la matematica condivida l’incertezza e l’imprecisione dell’esperienza? Perderebbe, inoltre, anche il
carattere di disciplina che trascende l’esperienza, e allora «Si potrà dire che lo stimolo a costruirla è

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venuto dall’esperienza in quanto pratica del contare e del misurare» (C.E.M. Joad, Introduzione alla
filosofia, trad. it. 1942, p. 128).
3) Per molti matematici la loro scienza si lega e continua a legarsi alla concezione classica: la
matematica come logica. Questo indirizzo è rappresentato soprattutto dalla "Scuola logica" di
Frege, che nacque dall’esigenza di concepire la matematica come "autonoma", cioè come
disciplina che trova in se stessa i presupposti, senza dovere appellarsi all’esperienza o
all’intuizione.
La tesi secondo cui la matematica è un ramo della logica (tesi sostenuta da Kant) racchiude due
affermazioni: a) i concetti matematici possono essere ricondotti, per mezzo di definizioni, a puri
concetti logici; b) gli assiomi possono essere ricondotti, per mezzo di dimostrazioni, a pure
proposizioni logiche. Ma contemporaneamente incorriamo in due difficoltà: la logica è costitutiva
del reale, oltre che scienza del pensiero? E da che cosa la logica trae la sua validità? Forse
dall’essere descrizione d’un mondo ideale di forme pure, non create, non esistenti pertanto, bensì
contemplate dallo spirito umano? Oppure dobbiamo intendere la logica (come si fece spesso nel
Medio Evo) come un semplice organon: strumento di per sé vuoto, ma con cui si costruiscono le
scienze concrete? In tal caso, la matematica stessa finirebbe per avere un carattere astratto, e
mancherebbe di contenuto. Se l’opinione di Frege dovesse essere vera, che altro sarebbe la
matematica se non un gran sistema di tautologie?
Quando David Hilbert afferma che nella matematica si deve prescindere da ogni questione di
significato e che l’ente matematico si lega a una visione immediata di segni (signicismo), egli fa
della matematica una cosa del tutto vuota, priva di ogni senso.
4) Per evitare questo assurdo, si è costituita una corrente di pensiero che ha considerato la
matematica assolutamente convenzionale e quindi arbitraria. La scelta delle proposizioni
primitive non è determinata dall’evidenza (empirica o intuitiva) ma dall’arbitrio, cioè dalla
facoltà di costruire gli enti matematici "come meglio ci piace".
Compito della matematica non è già quello di descrivere fatti che si presentino all’intuizione,
all’esperienza o a quant’altro si voglia, bensì di creare concetti.
Già Dedekind nell’Ottocento aveva detto che la matematica è «una libera creazione dello Spirito
umano», e il Luitzen E. J. Brouwer ha in seguito affermato che si tratta di «un agire spirituale» che
non può essere compresso in un ordine chiuso di formule.
Viene in mente Giambattista Vico, il quale formulò un pensiero assai vicino a questa visione e lo
sintetizzò in una frase scultorea: «Geometriam demonstramus quia facimus». Questa interpretazione
del senso della matematica ridotta a pura convenzione, ridotta a segni, finisce per essere addirittura
superastratta, fatta di puri segni, più vuota ancora e più formale di quanto non fosse la vecchia
logica, e quindi ancora meno capace di spiegare la realtà.
Waismann sostiene che è errato pensare che la matematica sia fondata «su qualche gruppo di verità
assolute ed eterne», di fatto «è un puro e semplice calcolo che proviene esclusivamente da alcune
convenzioni, calcolo sospeso sul vuoto come il sistema dei nostri sogni, fondato sul nulla» (op. cit.,
p. 168). E Bertrand Russell è anche più esplicito: dopo aver attribuito alla matematica la bellezza
fredda e austera della scultura «che non fa appello a nessuna parte della nostra materia più debole»,
e aver detto che essa può piacere a coloro che «amano la perfezione più che la vita», Russell
prosegue dicendo che la matematica pura consiste di asserzioni dipendenti l’una dall’altra, e così
conclude: «Non è essenziale discutere se la prima asserzione è realmente vera, e non è nemmeno
essenziale dire che cos’è il qualche cosa per cui si suppone ch’essa sia vera».
Naturalmente con tali premesse diviene del tutto seria la paradossale definizione che della
matematica ci dà Russell: qualcosa «in cui non sappiamo mai di che cosa parliamo, né se quanto
diciamo è vero» (Mistero e logica, trad. it. pp. 75 sg., 111).
All’interno di questa molteplicità di ipotesi, e dunque dentro il dubbio, appare evidente che la
matematica non può conservare ancora quella posizione predominante tra le scienze che
aveva avuto sino alla fine dell’Ottocento. Sembra impossibile che un jeu de l’esprit possa
davvero costituire il più alto gradino del sapere scientifico.

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È indubbio, di conseguenza, che tra fine Ottocento e inizio del Novecento, quando questa nuova
"anatomia" della matematica si manifesta in tutta la sua evidenza, la civiltà su cui aveva giocato
quel ruolo sovrano del sapere debba risentirne. Ne consegue che debbano andare in crisi, se non
cadere nel ridicolo, espressioni come "Dio geometra", o "l’architetto dell’universo è un matematico
puro". Se la matematica è una costruzione convenzionale, e se l’universo è matematico, dobbiamo
allora concludere che la creazione è arbitraria?
Termina, insomma, il grande mito galileiano di una natura scritta in caratteri matematici e anche
quello della corrispondenza tra mondo fisico e matematica.

MOMENTO DRAMMATICO.
Ma il momento più drammatico della crisi profonda della matematica, a livello persino di identità, è
segnato dall’opera di Kurt Gödel, in particolare dal suo famoso teorema del 1931.
Questi dimostrò che non era affatto vero quanto sostenuto da Hilbert, e cioè che ogni problema
matematico fosse risolvibile in senso positivo o negativo, ma diede il primo esempio di una
proposizione indimostrabile. E in senso più generale dimostrò la indimostrabilità di certe
proposizioni matematiche. Da ciò ne consegue che «nessun sistema formale, che si supponga non
contraddittorio, può contenere in sé la dimostrazione della propria non contraddittorietà».
Insomma, il teorema di Gödel stabilisce l’impossibilità di garantire la non contraddittorietà della
matematica restando all’interno della matematica stessa. Sembra un paradosso, ma la forza della
matematica che doveva consistere nella sua capacità di dimostrare ogni affermazione logicamente,
giunge ora a dimostrare semplicemente la propria incapacità a dimostrare. Un’atmosfera da
tragedia, con Gödel nel ruolo di Euripide.
Occorre aggiungere che Gödel è convinto (e la convinzione non dipende dalla dimostrazione,
appartiene semmai al credo) che la matematica si occupi di enti non localizzati nel tempo e nello
spazio, tali tuttavia da dover essere considerati esistenti, e dotati di esistenza autonoma.
E sullo sfondo ritorna anche con forza il pensiero di Platone.

EPICRISI.
Dovreste avvertire a questo punto del viaggio una sensazione di distruzione (se appartenete ai
tragici) o almeno un’atmosfera satirica (se amate la commedia e i colpi di scena, la stessa dei viaggi
di Gulliver). In ogni caso si profila lo strano destino dell’uomo che crede di poter capire il mondo e
d’un tratto si accorge trattarsi di una pura illusione. La crisi della matematica ha il senso del crollo
di quelle colonne che annunciano il "muoia Sansone e tutti i Filistei".
Una sensazione che dovrebbe metterci come attorno al fuoco di un caminetto acceso, la sera, per
riposarsi dal viaggio e meditare sul bisogno di sapere e sulla impressione, dopo aver visto tante
cose, di non aver ancora trovato ciò che si cerca. Io mi sento come chi ha visitato una vasta area
archeologica, ha immaginato una grandezza passata ridotta adesso a sole macerie. Forse questo è
semplicemente l’uomo. Ma il viaggio è appena incominciato. E siamo sulla scia dei princìpi, quei
principi che alla fine cercheremo di trovare dentro ciascuno di noi.

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