Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
06
1 Per Kant essendo universali le forme della mente, universale è anche l’ordinamento che ne
deriva, da cui la costanza dei rapporti
2 Diderot si era chiesto se fosse possibile scaldare un forno riempiendolo di palle di neve. È
solo «improbabile» rispondono i moderni
3 Per Mach la scienza non ci conduce ad alcuna reale conoscenza di quelle essenze che si
concepiscono come vere
4 La sola evidenza circa l’esistenza di un mondo esterno, nota ancora Russell, ci è data dallo
stimolo di alcune cellule cerebrali
Dopo aver attentamente valutato i limiti del principio di causalità e della dimensione spazio-
temporale, focalizzeremo ora l’attenzione su un altro pilastro della conoscenza scientifica: il
concetto di legge. L’obiettivo è quello di metterne in evidenza la condizione di crisi in cui
anch’esso oggi si trova. Non perché ciò ci piaccia, ma perché rendersi conto della situazione è
l’unico modo che razionalmente abbiamo per poter poi agire. È del tutto chiaro peraltro che questi
riferimenti: di causalità, legge, spazio, tempo… continuano a figurare presenti non solo nel nostro
linguaggio comune, ma anche in quello scientifico, dove seguitano ad avere un loro significato.
L’effetto serra è causa del riscaldamento della terra e – per esempio – dello scioglimento dei ghiacci
polari; la distruzione delle foreste in Amazzonia è la causa della desertificazione di quella regione
del Brasile e, se nel tempo questo processo non si fermerà, molte popolazioni e specie animali
scompariranno. Così esiste pure una legge secondo la quale in una società che emargina i deboli,
questi saranno sempre più deboli e dimenticati.
Sarà utile ricordare allora che noi stiamo indagando sulla malattia dei princìpi all’interno della
scienza, di un sapere cioè che si era posto come via per conoscere la verità, e dunque per giungere a
conclusioni definitive, senza alcun margine di dubbio. Di conseguenza, ci chiediamo se simili
affermazioni siano o no ancora sostenibili, ed eventualmente quali siano i limiti.
Non ci accontentiamo, nella nostra disanima, di constatazioni che seguono il semplice buon
senso, imponendosi piuttosto un’analisi storica per considerare quanto il sapere umano debba
fondarsi sulla scienza, rifuggendo da ogni altra via di conoscenza.
Se la scienza infatti è conclusiva, ciò che è al di fuori di essa non potrebbe avere che un ruolo
gregario. In questo processo di verifica del sapere, inteso come premessa per giungere ad affermare
o negare i fondamenti, sarà importante poter concludere in modo esatto se la scienza abbia un ruolo
di verità, anzi contenga verità. Che questa idea sia effettivamente esistita, lo abbiamo già rilevato a
partire dal Seicento, essendo poi essa continuata fino alla fine dell’Ottocento, ossia nel periodo
classico, nel quale a valere erano proprio il principio di causalità, la dimensione spazio-temporale e
il concetto di legge: capisaldi che derivavano dall’uso della ragione e dalla lettura del libro della
Natura. È questa la verifica che noi facciamo, e su questa base andiamo a delineare il grado di
dissolvimento che tali affermazioni, un tempo indubitabili, hanno raggiunto dalla fine
dell’Ottocento in poi, un periodo che giunge fino a noi, e che ci trova in balia di princìpi così
precari da poter affermare che il solo principio rilevabile è di non aver princìpi. Bisogna inoltre
1
mettersi, se già non si è, nell’atteggiamento di chi ha intrapreso un viaggio, per cui ogni tappa (ogni
puntata) deve tenere conto della precedente, per trovare il filo che unifica l’intero percorso.
2
teoria del fattore genetico o legge di Mendel. L’interpretazione probabilistica è diventata una
concezione fondamentale anche nel campo della fisica e della microfisica, giungendo a
un’interpretazione meramente probabilistica del secondo principio della termodinamica, o principio
della degradazione dell’energia di Carnot.
Si imponeva cioè una dimensione, quella secondo cui accadesse pure ciò che non solo non è una
regola, ma è addirittura un caso limite, ossia con scarsa o scarsissima probabilità.
Nel Settecento, Denis Diderot si era chiesto se fosse possibile scaldare un forno riempiendolo di
palle di neve e più tardi si domandò se non fosse possibile che l’acqua e il vino si separino
naturalmente, se si potesse ottenere del ghiaccio mettendo una casseruola d’acqua a scaldare sul
fuoco, così che sotto una fiamma viva l’acqua si raffreddi fino a formare il ghiaccio.
Per quanto possa apparire strano, gli scienziati moderni rispondono che effettivamente non vi è
alcuna impossibilità fisica assoluta per questi processi inversi, essendo essi solo estremamente
improbabili: come se tutte le case di Parigi, dice il fisico Marcel Boll, dovessero prender fuoco
isolatamente e accidentalmente nello stesso momento. Simili ipotesi paradossali, benché
infinitamente improbabili, non si possono tuttavia dichiarare impossibili.
Anche il primo principio della termodinamica, quello della conservazione dell’energia, o
dell’equivalenza tra moto e calore, nel quale Wilhelm Ostwald credeva di aver trovato «la roccia
salda in mezzo alla generale rovina delle leggi naturali» fondandovi il suo «monismo energetico»,
appare oggi a molti fisici valido solamente dal punto di vista probabilistico.
Insomma, si giunse all’idea che tutte le leggi della natura siano statistiche e che a esse si deve
applicare quella stessa concezione che la statistica ha usato nello studio degli eventi umani.
Ma una verità statistica non ci porta alla conoscenza del vero, dice Ernst Wagemann, e aggiunge:
«La statistica ci mette spesso davanti allo spettacolo meraviglioso di una concentrazione di processi
che sembra accordare la libertà individuale con la coazione collettiva, per cui gli avvenimenti
individuali risultano da determinazioni proprie, ma la loro riunione a migliaia o a milioni non dà
nessi caotici, bensì figure chiare e precise. Un destino collettivo sembra levarsi al di sopra di quello
individuale: apparentemente incurante delle vie prese dal singolo, esso forma il tutto: come
l’arcobaleno che brilla nella gamma dei suoi sfolgoranti colori ed è composto da miriadi di
goccioline di pioggia» (Narrenspiegel der Statistik, Hamburg 1935, pp. 222 seg.).
Ma allora, se si considerano le leggi di natura come espressioni mediane, si finisce con l’affermare
che mentre il comportamento dei singoli fenomeni non è determinabile, le masse statistiche a partire
da una certa grandezza rivelano una struttura che si ripete in altri complessi statistici. Non visibile
nelle singole unità, né nei piccoli gruppi, la legge dei grandi numeri sembra introdurre il
determinismo causale in una forma assai strana: un determinismo che, attraverso l’apparente libertà
dei singoli, vincola misteriosamente gli insiemi.
È una causalità debole nei confronti dei singoli, che si fa – ma non si sa come – rigida nei confronti
delle masse statistiche. Come si spiega? In questo caso, seguendo James Thomson, si può dire che
ogni legge scientifica «è una politica e non un dogma». Cioè, siano lontani dalla verità intesa come
una conclusione sicura, indubitabile della legge.
3
Tenendo presente che la causa è un concetto antropomorfico, che presuppone un perché e che
mira a spiegare i fenomeni: è al "perché" che si deve rinunciare, considerando le leggi come
fatti che si devono solo constatare e non giustificare.
Le leggi dei fatti naturali, dice Giovanni Gentile, «non sono altro che fatti essi stessi»; la legge di
natura è, «e non ci rimane che constatarlo, essendo vano cercarne un perché», che se mai dovrebbe
essere chiesto a Dio; infatti «la legge non può essere pensata, né effettivamente si pensa, separata
dal fatto di cui è legge» (Teoria dello Spirito, pp. 97 e 173).
Se la legge di natura è un fatto, è chiaro ch’essa deve essere constatata e non spiegata. In tal modo
cade una distinzione altrimenti inevitabile tra due generi di princìpi: quelli di cui si può dare una
ragione (come quelli della termodinamica) e quelli che essendo "fatti" si possono solo verificare:
come il principio della direttissima o del percorso più rapido. Parlando di questo principio, Max
Planck osserva: è come se la luce possedesse una certa intelligenza e, «perseguendo il lodevole
intento di giungere nel più breve tempo alla meta prefissatasi, non avesse tempo di provare
realmente le diverse vie possibili, ma dovesse decidersi senz’altro per la via migliore».
Ma non si può seriamente parlare di istinto o di intelligenza della natura (l’antico assioma della
naturae simplicitas), mentre d’altra parte lo stesso Planck riconosce che nella ricerca fisica non si
può sempre seguire la via più semplice, quando talvolta occorre lasciarsi guidare dalla fantasia e
persino che «è spesso indispensabile saper pensare indipendentemente dalla legge causale» (La
conoscenza del mondo fisico, cit., p. 101).
Un altro principio di questo genere è il principio di Pauli o di esclusione, secondo il quale due
individualità costituenti un corpo fisico non possono mai avere la stessa energia e lo stesso stato di
movimento, sicché si può affermare che – nel mondo microscopico come in quello macroscopico –
manca completamente l’identità. In senso più generale, per quanto grande sia il numero degli stessi
oggetti della stessa specie che si possono adunare, non si troveranno mai in realtà oggetti identici. Il
pensiero corre subito al «principio degli indiscernibili» di Leibniz: «Non ci sono due individui
indiscernibili». Raccontava: «un gentiluomo intelligente, amico mio, parlando con me in presenza
di Sua Altezza l’Elettrice nel giardino di Herrenhausen, credeva possibile trovare due foglie intera
mente simili. Sua Altezza lo sfidò a trovarle, ed egli corse a lungo invano per cercarle. Osservando
con il microscopio due gocce d’acqua o di latte, si troverà che sono discernibili» (Polemica con S.
Clarke, 1715-16, Quarto scritto, Réplique au troisième écrit anglois).
È questo il principio in base al quale Charles Robert Richet pensa di poter sostenere che, poiché
l’inconsueto esiste, bisogna ammettere che ogni ipotesi è possibile (articolo in Scientia 1, I, 1934).
E su questo stesso assunto scrittori come il belga M.-C. Schuyten o il francese Jacques Delevsky
(L’inégalité naturelle et la vie sociale, in «Mois», agosto 1938; e poi Nature et historie, in «Revue
de synthèse», VI, 1933) hanno creduto di poter fondare le loro apologie della disuguaglianza
sociale, come se morale sociologica o politica potessero desumere le loro norme da qualche legge
fisica.
Il problema che questi richiami pongono in essere riguarda ancora il fondamento della
scienza su cui si era pensato di poter costruire il grande monumento della verità e delle
certezze del mondo.
Un mondo che diventava comprensibile attraverso princìpi fondanti, e attraverso leggi che non solo
mostravano come si muoveva la macchina ma anche come avrebbe continuato a funzionare.
A partire invece da quel periodo definito ormai come quello della messa in discussione della
scienza, vien da notare che a poco a poco si produce – nel sapere che era stato eretto a fondamento
della stessa civiltà occidentale – una crisi che, a distanza di un secolo, sembra non aver lasciato in
piedi alcuna certezza mentre il mondo procede ormai come se fra un momento e l’altro dovesse o
potesse fermarsi, abbandonando l’uomo senza princìpi ordinatori e senza leggi rassicuranti.
4
solo delle leggi, ma della condizione previa per cui le leggi esistono. Se infatti il reale non esiste o è
un ignoto, cade il realismo e non ha nemmeno senso ipotizzare delle regole che normino il reale.
Insomma, non solo le leggi non si adattano alla realtà, ma persino il positivismo fisico, con la sua
concezione della scienza quale mera descrizione (e spiegazione, e giustificazione) dei processi cessa
di reggersi.
Ernst Mach ha meglio di ogni altro contribuito a diffondere l’idea che la scienza in tutti i suoi rami,
meccanica compresa, non offre – in ultima istanza – che descrizioni, e non ci conduce ad alcuna
reale conoscenza di quelle essenze che si concepiscono di solito come "vere".
Si afferma così la concezione che se la scienza è utile, è innegabile però che essa è insufficiente. E
ciò perché essa ha a che fare con degli elementi irrazionali che resistono a ogni tentativo di
cancellazione, e che ne costituiscono persino il punto di partenza. Il pensiero scientifico parte
necessariamente da uno irrazionale e conduce a un altro irrazionale: lascia così un inesplicabile che
gli fugge sempre innanzi, trascinando dietro di sé un altro tentativo di spiegazione.
Sono questi i paradossi che Emile Meyerson ha – da par suo – denunciato in Identité et realité
(1908), affermando che non spetta alla scienza giungere a una spiegazione vera delle cose.
Egli sostiene che la conoscenza deve essere ontologica, e che quindi una conoscenza veramente
esplicativa va oltre la spiegazione della scienza. Ciò lo porta a riconoscere la legittimità della
filosofia accanto alla scienza.
E se questo completamento del lavoro di conoscenza non è possibile, allora, come sostengono i
neopositivisti Hans Reichenbach o Moritz Schlick, si deve abbandonare ogni idea di "verità" per
restare su un terreno di rigoroso empirismo. Tuttavia, si deve osservare che il mero fenomenismo
porta direttamente allo scetticismo. Planck nella sua Conoscenza del mondo fisico afferma che
«l’empirismo scettico, a stretto rigore di logica, è inattaccabile nelle sue premesse e nelle sue
conseguenze, ma coltivato in cultura pura conduce inevitabilmente a un vicolo cieco: il solipsismo»
(p. 39).
5
Non occorre tuttavia una lunga meditazione per accorgersi quanto fragile sia l’autoevidenza e allo
stesso tempo quanto precario sia fondare una posizione forte sul “semplice” problema di cosa sia la
realtà, senza la quale nulla che voglia fissarne leggi e princìpi appare solido e degno di rispetto.
IL MENTALISMO.
Ma se il realismo entra in crisi, si coglie bene che la porta è aperta all’idealismo, anzi all’idealismo
soggettivistico di George Berkeley (mentalism). E qui, certo, siamo lontani dalla scienza, a meno di
non fare una scienza soggettiva, ma allora ci si avvicina allo psicologismo, al sensismo.
Bertrand Russell, in La nostra conoscenza del mondo esterno e i metodi scientifici (1914),
sosteneva che la «cosa» non esiste realmente, bensì è una costruzione logica, così com’è del resto il
«soggetto», finzione logica analoga al «punto» della matematica: entrambi i termini sono annullati
in un «realismo neutro» in cui mente e oggetti sono parte d’una stessa sostanza, la mind-stuff, roba-
mentale.
Charlie D. Broad, fondatore della cosiddetta «project theory», nel libro Lo spirito e il suo posto
nella natura (1925), afferma che l’esistenza di oggetti deve esser ammessa come un atto di fede che
è ragionevole compiere. La maggior permanenza ed evidenza di alcune idee o dati, come l’essere
comune a molti osservatori, come la spazialità in cui i dati ci appaiono, non sono di per sé prove
dell’esistenza di cose esterne, ma rendono la credenza un assai rationabile obsequium, un ossequio
ragionevole.
Ma se questo è il nuovo realismo, si capisce che è assai debole. Quel che ne esce tuttavia è ancora
più debole.
George G. Moore è finito nel positivismo logico. L’affermazione secondo la quale gli oggetti fisici
esistono è vera, dice Moore, ma anziché cercare di stabilire che cosa questi oggetti siano, noi
dobbiamo analizzare il significato della nostra dichiarazione, riferendoci ai dati – esistenti o
possibili – del senso umano.
Lo scopo, insomma, non è di comprendere la natura dell’universo, ma di analizzare e rendere
chiaro e comprensibile il significato delle proposizioni che usiamo: per chiarire cosa
significhino le nostre parole quando sono usate in modo significativo.
Analogamente Ludwig Wittgenstein, prestigioso esponente del Circolo di Vienna (Wiener Schule),
afferma che «lo scopo della filosofia è la chiarificazione logica delle idee».
A questo proposito, C. E. M. Joad riferisce ironicamente del filosofo cinese che, recatosi nel 1930 a
Cambridge per apprendere da Moore la sua filosofia, alla fine osservava di aver imparato ben poco
nei riguardi della natura dell’universo, ma in compenso moltissimo sull’uso corretto della lingua
inglese (op. cit., p. 240).
La sola evidenza circa l’esistenza di un mondo esterno, nota ancora Russell, ci è data da certe
sensazioni che sono il risultato di una corrente nervosa, la quale stimola alcune cellule cerebrali. Le
correnti nervose sono a loro volta provocate da stimoli fisici, ma noi non abbiamo alcuna prova che
gli effetti sulla cellula cerebrale siano uguali o simili agli stimoli originali, poiché «ciò che
possiamo direttamente osservare del mondo fisico accade dentro le nostre teste ed è fatto di eventi
mortali».
Insomma, anche questo realismo disperato rimanda più al mito che alla realtà.