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Il Mulino - Rivisteweb

Giulia Calligaro
”Andar per uccelli”, un trattato sulla seduzione
(doi: 10.1419/22966)

Strumenti critici (ISSN 0039-2618)


Fascicolo 3, settembre 2006

Ente di afferenza:
Università di Siena (unisi)

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Giulia Calligaro

«Andar per uccelli», un trattato sulla seduzione

…E aspetti, tremando, che vengano amici


a trovarti, e vengono magari ogni tanto;
tu ti metti in disparte pallido e freddo
come una statua di sale…
Ti lasciano piuttosto scontenti
e tornati in città dicono a figli e parenti
che sei fortunato, che sì
il padrone hai forse trovato da mettergli in mano
le dimissioni dal tuo essere umano,
e ciò che adesso sei diventato
loro non sanno, ché non ascolti,
né parli, ché tutto l’essere esprimi
nello stringersi dei pochi tuoi denti.

Un vero trattato sulla seduzione il bellissimo Andar per uccelli


di Amedeo Giacomini, ripubblicato di recente1 da Santi Quaran-
ta, in «dittico», ovvero raccogliendo i precedenti L’arte di andar
per uccelli con vischio (Scheiwiller, 1969) e L’arte di andar per uccel-
li con reti (ibidem, 1990). E anzi, quanto più si distanzia dal tempo
in cui fu pensato e scritto, tanto più guadagna in forza letteraria
proprio per l’allontanamento di quella «realtà antropologica –
come scrive Gian Mario Villalta nella nota al testo – e ancor prima
biologica e alimentare» di cui si tratta e che contiene pur sempre
una singolare biografia delle radici dell’autore. Tra le novità della
riedizione c’è la terna di citazioni in epigrafe. La prima tratta dalla
dotta Arcadia di Sannazaro che, per quanto assecondi proprio la
materia dell’uccellagione, fa inevitabilmente anche un occhiolino
alla buona dose di consapevolezza letteraria che guida la penna
del poeta di Varmo, richiamando direttamente la scena finale del
testo in cui l’autore, diversamente da quanto avviene nel primo

1
Questo articolo è apparso su «Il Gazzettino» il 26 settembre 2000, in seguito alla
riedizione del libro.

STRUMENTI CRITICI / a. XXI, n. 3, settembre 2006


Giulia Calligaro

trattato, si annuncia dietro a un tavolino a scrivere memorie, o


meglio cianfrogne, di un’epoca ormai remota, e non tra frasche («e
dove sono più le frasche?» dirà) a mettere in pratica i sottili segre-
ti dell’arte appena divulgata. La seconda, tratta dal leopardiano
Elogio degli uccelli, recita così: «Sono gli uccelli naturalmente le
più liete creature del mondo», con la parvenza che inauguri un
viatico ad un mondo parallelo, in cui ciascuna cosa è se stessa e
anche altro, come poi accade tradizionalmente anche in ogni ar-
cadia pastorale. Infine, l’aggancio al realismo è data dal proverbio
friulano «O ce vitis a spelâ vuitis»2, come a dire che qui, sotto
tanta letteratura, c’è comunque un duro dato di verità quotidiana.
E infatti potremmo interpretare questi ingredienti come diverse
chiavi offerte al lettore per entrare a vari livelli nel doppio «tratta-
tello», come lo definisce l’autore. E sempre a sceglierne una sola
si sbaglierebbe e si assaggerebbe solo parte del grande banchetto
giacominiano, come successe agli ecologisti che nel ’69 si solleva-
rono in sommossa contro una supposta apologia del bracconiere,
non capendo che gli obiettivi, anche polemici, dell’autore erano
ben più profondi, pur essendo Giacomini in proprio un grande
«uccellatore».
E proprio a guardare oltre il confine biografico si potrebbe dire
che Giacomini compia nella prosa la stessa operazione che farà poi
nella poesia dialettale: che si immerga completamente nel mondo
friulano piuttosto per prenderne le distanze che per cedere ad un
qualunque idillismo nostalgico, puntando il dito nelle macchie
che il buon friulano vorrebbe cancellare, per fare vanto e urlo di
una realtà sopita e addomesticata anche dal mito pasoliniano del
buon selvaggio locale. E se il bintar è il tipo friulano giacominiano
contro questo mito, l’arte dell’aucupio è un’altra verità di quel
mondo, trattata con mano raffinatissima per innalzare al quadrato
la provocazione.
Ma non si dimentichi mai che qui contemporaneamente è tut-
to falso e tutto vero: i saperi, analitici, precisissimi, provengono
dall’esperienza personale di Amedeo Giacomini, come persona-
lissima è l’esperienza che l’autore fa del mondo friulano, ma gli

2
«O che vite a pelare vuitte», dove vuitta è nome dialettale (altitalico e friulano, nella
spiegazione dello stesso Giacomini) e onomatopeico della pispola.

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Un trattato sulla seduzione

uni e l’altra vengono poi sbattuti in faccia a quello stesso mondo


in forma letteratissima e divertita.
Le fonti che potremmo rinvenire per questo trattato guardano
indietro alla grande tradizione italiana, di cui assume anche lessico
e sintassi, ottenendo un ulteriore effetto di distanziamento e quasi
di posa estetica.
I nomi da snocciolare sarebbero moltissimi. A cominciare da
quell’Ars venatoria scritta ancora dal sovrano svevo Federico II
nella corte siciliana ove nacque la prima poesia volgare italiana. E
dal Duecento, ma la cosa è ancora più antica, Giacomini si porta
anche dietro l’allegorismo che legge negli animali caratteristiche
umane, per cui nell’Andar per uccelli ad ogni alato si fanno corri-
spondere un carattere ed una personalità, spesso – e si badi bene
– una personalità femminea.
Una seconda tappa ispirativa si rintraccia nel rinato genere
trattatistico rinascimentale, e in particolare nello stile dilemma-
tico di Machiavelli. Anche l’arte dell’aucupio (e ricordiamo che
Machiavelli sulla stessa scia del Principe aveva anche scritto L’arte
della guerra), come la strategia che deve tenere il principe, si basa
sulla natura preconosciuta delle proprie prede, e da qui deriva un
pragmatismo che precede il moralismo, insomma il classico fine
che giustifica i mezzi. Ma la citazione dell’autore del Principe entra
anche più nel dettaglio, a partire dalla divisione del trattatello in
capitoletti riassunti in un titolo che gira sempre per via di relativa
(ad esempio il primo «Comincia il trattatello chiamato l’Arte di
andar per uccelli con vischio nel quale si contengono molte notizie
del migliore dei mondi che l’autore abbia conosciuto nella vita
sua»), come avveniva nel Principe, nonché dalla sintassi articolata
tutta in premesse e conseguenze (se si fa questo, segue necessaria-
mente questo: «Se l’uccellatore si sarà attenuto a questa regola non
avrà che da aspettare», dove il futuro ha funzione prescrittiva).
Ma la parola bella, l’amore per il dettaglio, la poesia, infine, che
continuamente si annida tra le righe scientifiche (sempre nel sen-
so rinascimentale e machiavellico) dell’arte giacominiana conce-
de anche un avvicinamento con il trattato barocco (si pensi ad
esempio alla prosa di Daniello Bartoli) e con quel gusto analogico
secentesco che tocca il suo apice nella digressione sul canto del-
l’usignolo nell’Adone di Marino, tutto articolato sulla dilatazione
per similitudine, come accade talvolta nel testo di Giacomini nei

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Giulia Calligaro

virtuosi incipit di capitolo (si veda il caso della parussa gestito sul-
l’iterazione a tre tempi di verbi e aggettivi), anche se va ben distin-
ta la prosa funzionale del nostro poeta da quella fatta di mirabilia
dei barocchi, per i quali la forma disperde il contenuto, cosa che
qui non avviene mai.
Innegabile è ancora, infine, una parentela pariniana, sia per
l’aspetto didascalico della scrittura sia per il ricorso frequente alla
perifrasi, stilema tipico di certo togato e lezioso Settecento (un
caso su tutti sono le giacominiane atritiche muffe).
A tutto ciò si aggiungano varie citazioni griffate che speziano
qua e là il testo.
Piluccando, queste sono alcune delle scelte lessicali che si tro-
vano nel Nostro a testimonianza del suo volgersi al versante let-
terario: verzura, guatare, e addirittura graveolente, solingo, noiare,
talvolta anche con la complicità sintattica dell’aggettivo (e che ag-
gettivo!) anteposto al nome: frettoloso passo, insettesca puntura.
A queste fanno da contrappeso, ma solo in parte (anche qui c’è
verità e compiacimento insieme), i termini tecnici: vermella, panie,
filaina, vergonare, giustamente spiegati nelle chiose e nei glossari
che seguono ogni capitolo.
E molti, a voler continuare su questa strada, sarebbero ancora i
richiami formali letterati che si potrebbero citare, ma a conclusio-
ne del prolungato ragionare si accende una luce: «Se nel popolo,
questo, c’è chi l’arte di amare non conosce costui legga i miei versi,
e infine, edotto, ami». Sono queste le parole con cui si esprimeva
Ovidio principiando la sua Ars (!) amandi. E Giacomini all’ini-
zio del secondo trattato così risponde: «Già mi è capitato in altra
sede, lettor mio, di renderti edotto circa le gioie e le amarezze a
cui va incontro il virtuoso dell’arte nostra». Anche in Ovidio lo sti-
le prescrittivo si svolgeva con successive ricette appese ad ipotesi
(«Se ti sarà negato un percorso sicuro, tu lasciati cadere per dove
il tetto è aperto»), consigliando di farsi amabile tra le amanti: «Se
lei ride, a tua volta ridi anche tu e se piange non scordare di pian-
gere». E Giacomini: «L’uccellatore ha da farsi egli medesimo uc-
cello», «Solo chi saprà questo e molt’altro potrà peritarsi nell’arte
nobile dell’uccellare». E Ovidio: «Allontanatevi voi pigri! Non si
affidino queste insegne a chi ha paura». Non solo: Ovidio scrive in
contrappunto con la morale augustea, così come Giacomini lo fa
con quella stereotipa friulana, e il discorso potrebbe andare più a

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Un trattato sulla seduzione

fondo, considerando anche il partito preso erotico e seduttivo con


cui Giacomini guardava il mondo. Ma per ora giungiamo a termi-
ne ritornando all’inizio del lungo filo di parole: e se fosse, questo
di Giacomini, un gran trattato sulla seduzione?

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