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SCUOLA, CARATTERE E SKILLS

Introduzione

Negli ultimi anni ha preso sempre più importanza lo sviluppo cognitivo del bambino; sicuramente bisogna
investire su questo versante (puntando al miglioramento delle capacità di attenzione e di comprensione
delle informazioni), cercando, tuttavia, di evitare uno squilibrio a discapito degli aspetti non-cognitivi.
Bisogna dunque considerare lo sviluppo cognitivo all’interno di una prospettiva più ampia: bisogna tener
conto delle Character Skills, ovvero un insieme interrelato di qualità descritte come non cognitive in quanto
connesse all’area emotiva e sociale della personalità. L’area scolastica è uno spazio privilegiato per
l’esercizio di queste abilità che devono essere “coltivate” fin dall’infanzia. Bisogna tener conto di 4 criticità
che si incontrano nella promozione delle c.s.:

• Il bambino rischia di diventare recettore di un carattere pre-confezionato (ricevendo parametri già


determinati dall’adulto) e non suo creatore. La scuola asseconda così un processo di adattamento e
non di definizione di sé.
• Se il carattere del bambino viene posto al centro del percorso formativo e gli viene data troppa
enfasi, si rischia che l’individuo diventi protagonista assoluto. La scuola asseconda così un processo
di tipo individualistico e non di individuazione di sé tramite il confronto con l’altro.
• Si rischia di incentivare skills che non tengono conto delle differenze ed esigenze di ognuno; la
scuola asseconda così un processo di normalizzazione e non di promozione dell’originalità.
• Si rischia di incentivare skills articolate ma suddivise le une dalle altre: si fornisce un’immagine
frammentaria del bambino, che perde il senso di sé come unità organica. La scuola asseconda così
un processo di frammentazione e non di unitarietà.

Il vero problema è la definizione di character skills, poliedriche ma sfuggenti. Spesso infatti le proposte sono
contraddittorie e poco efficaci. È allora necessario cominciare con la definizione di carattere per riuscire a
compensare la piega prettamente cognitiva che sta prendendo l’apprendimento. Nel libro si cerca dunque
di trovare un’efficace definizione di carattere nel pensiero di Hannah Arendt. Il fine è quello di delineare un
profilo di carattere da promuovere nella scuola per consentire un pieno sviluppo di queste skills.

1. IL CARATTERE

1.1 Il carattere e la presentazione di sé


1.1.1 L’autopresentazione

Hannah Arendt fa più volte riferimento al concetto di carattere; è ciò che rende umano l’uomo: la sintesi di
anima, carattere e individualità, è l’unica in grado di tutelare l’uomo nella sua dignità ed originalità. Il
carattere è ponte tra anima e mondo esterno. In questa maniera ci presentiamo al mondo. In “La vita della
mente” dice che quando, ad esempio, mostriamo collera, non è la collera pura che proviamo all’interno, ma
una riflessione che sfocia in una “rappresentazione” di questa (farei collegamento a Platone). Quindi
quando manifestiamo un’emozione prima riflettiamo su noi stessi e poi la rendiamo manifesta attraverso
modi e contenuti grazie ai quali ogni uomo si distingue. Ogni uomo può dunque decidere chi essere.

Il carattere è quindi “l’aggregato di certe qualità identificabili, riunite in un insieme comprensibile ed


identificabile con sicurezza, impresse, per così dire su un substrato immutabile di doti e difetti peculiari alla
struttura di un’anima e di un corpo”. Queste “qualità identificabili” sono espressione di una scelta
deliberata con la quale ci giochiamo il nostro apparire e il nostro ruolo nel mondo. Il carattere emerge
attraverso i modi con i quali ci auto-presentiamo al mondo. L’auto-presentazione è diversa dall’auto-
esibizione; la prima avviene grazie alla consapevolezza di sé ed è scelta attiva dell’individuo; la seconda,
invece, è spontanea ed istintuale: esposizione di sé per un illimitato bisogno di autocompiacimento.
Ci si può auto-presentare “fino ad un certo punto”: da un lato non ci si può deformare per diventare
qualsiasi cosa, dall’altro non ci si può conformare per piacere a tutti. L’apparire può avvenire solo nel senso
di trans-formarsi, lavorare ad una sempre migliore definizione di chi si vuol essere.

Il rapporto autopresentazione-carattere si sintetizza nell’esempio dell’uomo coraggioso: lui percepisce la


paura come tutti gli altri, ma non è ciò che lui ha deciso di mostrare; rappresenta così chi vuole essere e
come si vuole far riconoscere dagli altri.

1.1.2 L’enduring

Nel pensiero Arendtiano il primo segno distintivo del carattere è rappresentato dalla deliberazione, mentre
il secondo è la durata: l’auto-presentazione del carattere deve essere continuativa.

Proprio la durata conferisce al carattere due ulteriori tratti: la coerenza e la resistenza.

Carattere e A-P devono essere durevoli sia in senso diacronico che sincronico.

Diacronico: carattere come “presenza che dura in mezzo alla transitorietà mutevole del mondo”; perciò
viene legato alla coerenza, ossia “continuità dell’io sono”.

Sincronico: il carattere deve raccogliere le qualità che lo definiscono all’interno di un’unità. Non è somma,
né unione, ma l’intero: è durevole perché manifesta una consistenza, una compattezza.,

Anche se l’essere durevole è un tratto distintivo proprio del carattere, al contempo è un tratto da
conquistare: è esito mai scontato di una “competizione conflittuale” con se stesso. Per decidere chi vuole
mostrare di essere prima deve combattere contro altre alternative.

“Endure”, questa è la parola centrale che definisce la resistenza del carattere alle spinte e alle provocazioni
che mettono alla prova la sua coerenza. Nasce da una teoria di John Stuart Mill come “I may endure” e
viene ripreso e trasformato dalla Arendt come “enduring I”. L’idea di endure dinamizza la permanenza e
compattezza e pone l’Io nella dinamica di una durata non scontata perché problematica e contraddittoria.

1.1.3 La condotta

Il carattere grazie all’endure è creato, non costruito né determinato. Nasce a partire da temperamento,
ambiente e condizioni già date a priori e poi rinasce come possibilità di prendere parte all’esistenza agendo
in modo imprevedibile ed unico. Questo rapporto inscindibile tra carattere e azione sottolinea le
implicazioni tra carattere e condotta: costituiscono un unico insieme unitario composto da motivi e azioni,
da volontà e fatti. John Dewey in questo contesto pone l’attenzione sull’abitudine, modo durevole di
rispondere a ciò che accade che definisce la condotta stessa.

Il concetto di condotta è connesso all’auto-presentazione poiché è un processo di scelta che avviene tra le
molteplici possibilità di condotta che il mondo offre. Se fosse imposta si costringerebbe la popolazione a
seguire comandamenti morali di volta in volta vigenti in una certa epoca.

La condotta può essere conosciuta e compresa attraverso:

• Azione: agire inedito e libero. H. fa riferimento ad Agostino: “Uomo che si distingue per la capacità
agentiva di incominciare attraverso scelte deliberate, dimostrando originalità e coerenza”;
condotta come traduzione operativa della concezione che la persona ha del proprio carattere.
• Significazione/riflessione: capacità di riflettere sul proprio carattere. Ciò rende la condotta libera
perché manifestazione di un impegno sentito. Senza libertà il carattere non esiste (è impossibile
delineare il carattere di uno schiavo finchè non ottiene la libertà.
• Educabilità: riconoscere un accadimento come condotta equivale a riconoscere che è un qualcosa
che ha dovuto essere appreso. L’educabilità dà la possibilità alla condotta di cambiare in quanto
influenzata dall’apprendimento. Da ciò viene l’insoddisfazione, vedere la propria condotta come
sempre superabile, una tensione verso la perfezione.

1.2 Il carattere e il pensiero


1.2.1 La ribellione

Azione e riflessione rendono la condotta consapevole, l’educabilità perfettibile.

Affinchè la condotta sia consapevole e perfettibile, la persona deve necessariamente pensare se stessa
sottoponendo ad esame il proprio carattere. La Arendt sostiene che una vita senza pensare è possibile, ma
non è una vita totalmente viva. Il pensiero disgela (ovvero mette in discussione credenze ed assiomi) e disfa
(li distrugge nichilisticamente per poi rigenerarli) periodicamente carattere e condotta. In questo modo l’Io
rimane durevole, ma non sempre uguale a se stesso: non si è mai arrivati, si deve tendere sempre alla
perfezione. L’uomo che disfa e disgela è un uomo che si interroga sul mondo in cui vive. È un’interrogazione
che apre il carattere e la condotta ad una sfida “ribelle”. Il ribelle non è colui che contesta e contrasta, ma è
colui che pensa con la propria testa, che non si fa sopraffare dal consenso della maggioranza. Nel contesto
ribellione il carattere arendtiano resiste ed incide, non si lascia sopraffare, ma decide per la propria vita.

1.2.2 L’effetto collaterale

Nessuno che ha imparato a pensare tornerà ad obbedire come faceva prima a causa dell’abitudine. Il pensare
traduce in atto il diverbio interno tra volere e non volere: entra in gioco la coscienza. Il pensare dà parola alla
coscienza attraverso il commercio silenzioso all’interno del quale l’uomo rende conto a se stesso della propria
condotta. Essere coscienti significa “tornare a casa per sottoporre le cose all’esame della riflessione”. Nel
pensiero arendtiano l’essere coscienti e il pensare sono un effetto collaterale. La coscienza è un effetto
collaterale poiché pone molti ostacoli ed è una sorta di tribunale che giudica le azioni. Esaminare se stesso
può portare senso di insoddisfazione, inadeguatezza e, a causa dei molti ostacoli sollevati, può risultare
fastidioso; è proprio, però, questo effetto collaterale che permette al carattere di esistere. La mancanza di
carattere è infatti un fenomeno di grande problematicità. Una situazione tale si verifica nel momento in cui
l’auto-presentazione non è frutto di riflessione, ma viene indotta ed imposta (etero-presentazione). Un
esempio è il periodo nazista: o ti adegui a queste norme o ci saranno ripercussioni. Problematico è anche
quando l’individuo accetta regole senza porsi domande: annulla il rischio, ma anche la ribellione diventando
uno tra tanti e perdendo la sua identità. È il concetto di Thoughtlessness: l’individuo plasma se stesso
conformandosi e non opponendo resistenza. Questo fenomeno diventa addirittura pericoloso per la
sopravvivenza dell’uomo; Hannah parla dei generali nazisti: avevano mai avuto crisi di fronte all’uccisione di
milioni di persone o eseguivano ordini e basta? L’esperienza nazista deve far riflettere sul rischio dell’effetto
collaterale.

1.2.3 L’ipocrisia

Dato che l’auto-presentazione gioca sempre sul “rivelare” e “celare”, c’è il rischio che ciò che appare sia solo
parvenza. Infatti nell’ipocrisia l’auto-presentazione non avviene sul piano della coerenza e della credibilità,
ma nei modi dell’incoerenza e dell’occasionalità. L’ipocrita è colui che non ha la forza, l’intenzione o
l’interesse di agire in armonia con un determinato comportamento; è colui che, sebbene si compiaccia della
virtù che mostra, non agisce in maniera durevole. Questa non è assenza di carattere, ma fallimento di questo;
la condotta è sì scelta, ma non rispecchia il carattere: si parla di pseudo-presentazione. Si parla di menzogna,
ovvero la più putrida piaga del genere umano. Prima di tutto l’individuo mente a se stesso, è un autoinganno.
Sono tre le menzogne:

• Menzogna che riguarda il proprio modo di essere: mi definisco coraggioso, ma non lo sono.
• Menzogna sul mio agire: simulo un comportamento da coraggioso.
• Conseguenze della menzogna: inganno dissimulato in quanto dannoso per gli altri.
L’ipocrita distrugge il rapporto di fiducia che si instaura prima con sé e poi con gli altri: viene meno il rapporto
promettere-credere. L’ipocrita simula un perfezionamento di sé. L’ipocrisia non è solo una mancanza di un
uomo, ma la lacerazione di un mondo.

1.3 Il carattere e la libertà


1.3.1 Il cominciamento

L’effetto collaterale del pensiero che scompagina la coscienza non rende il carattere ricombinato, ma iniziato.
Se fosse ricombinato sarebbe ricostituzione di parti precostituite. Si farebbe riferimento al liberum arbitrium
aristotelico: sono libero, ma entro il limite dell’arbitrio. Se così fosse non ne deriverebbe nulla di nuovo; deve
essere iniziato poiché deve essere manifestazione dell’uomo che può dare inizio a qualcosa di nuovo. Questa
capacità viene definita facoltà di cominciamento ed è strettamente legata con l’idea della natalità. Il carattere
umano si definisce pienamente nella natalità. L’auto-presentazione deve essere un nuovo inizio. Il carattere
deve essere pensato come qualcosa di nuovo e di imprevedibile; ciò che intraprende è nuovo sia in senso
assoluto (non preceduto da nulla che lo definisca in modo deterministico) che relativo (cosa nuova in mondo
vecchio). Quindi il carattere, nella pienezza della sua libertà, è pensato ed iniziato affinchè sia il mio carattere
mai-prima-esistito e portatore-del-nuovo nel mondo. L’uomo è così condannato ad essere libero, in ragione
dell’essere nato. La libertà per il carattere è una condanna per due motivi:

• Deve necessariamente essere libero


• Mette l’uomo in una posizione di ambiguità: illimitatezza del potere di iniziare vs le limitazioni della
sua possibile realizzazione

La natalità infligge all’uomo quello che la Naussbaum definirebbe flourishing, la libertà di fiorire, ovvero
venire al mondo, e prosperare, ovvero fiorire pienamente ed imprevedibilmente. Nascono così due
probelmatiche:

• Com’è possibile fiorire partendo da semi dati e diventare quel fiore da essi concepito, ma non
determinato?
• Come si contrasta il senso di vuoto? Come ci si mantiene saldi dopo aver iniziato?: la catena
causale si interrompe con l’iniziatore, a cui non resta nulla a cui tenersi saldo.

1.3.2 La fondazione

L’agire è la risposta che l’uomo dà all’ambivalenza della natalità. Agire ci inserisce nel mondo; significa
prendere l’iniziativa. Agendo l’uomo si presenta al mondo, si rivela. Questa rivelazione, però, al contrario
dell’auto-presentazione, non può essere celata, è implicita in tutto ciò che l’individuo fa. Rivelazione ed auto-
presentazione si uniscono: spontaneità e scelta deliberata. La rivelazione non rende l’azione casuale, ma
diventa occasione di rinascita: è una spontaneità che rimette l’uomo al mondo nella sua nudità, lo espone ai
rischi tipici dell’iniziativa personale. L’uomo ha, dunque, il dono della libertà e dell’azione con i quali fondare
la propria realtà. La Arendt porta gli esempi degli Ebrei in Egitto e di Enea che fugge: momenti negativi che
diventano liberazione positiva dal sistema pregresso in favore della nascita di qualcosa di nuovo. Si crea uno
iato, una frattura fra vecchio mondo e nuova sequenza di azione; la libertà crea, dunque, questo iato: iniziare
(libertà da) e agire (libertà di). Al nuovo serve un punto di appoggio da cui partire: la fondazione, autorità
educativa che permette di liberarsi e conferisce durevolezza al nuovo agire.

Spontaneità, fondazione ed autorità sono la triangolazione che restituisce senso alla natalità e alle libertà a
cui il carattere è condannato. Al carattere serve un punto di origine, un punto di partenza da cui nascere, che
non è un assioma, ma una radice, che nutre e feconda. Il carattere non è determinato, ma nemmeno fortuito:
è tutto legato, a partire dall’origine fino all’imprevedibilità attraverso cui si rende manifesto al mondo. In che
senso è tutto legato? Il carattere è sì spontaneo, ma ha una storicità: nel nuovo si ritrovano frammenti del
vecchio, che sono rimasti per la preziosità del loro significato. È una novità ripetuta: carattere come
ripetizione dell’irripetibile. Perciò il carattere da fondare è un carattere in relazione con l’alterità, ovvero in
relazione con i fondatori, con le trame e i personaggi di quella stessa storia: serve una base originaria di tipo
relazionale. La Arendt vede gli adulti come radice di ogni nuova generazione: educano i figli ad intraprendere
cose nuove, a rinnovare il mondo; educano alla fondazione.

1.3.3 Il giudizio

Il carattere è condannato dalla libertà: ogni essere umano quando nasce deve tracciare faticosamente la via
del cammino. Passato e futuro condannano l’uomo ad essere rinnovamento per il presente. Qualsiasi
individuo è costretto fin dalla nascita ad essere libero, che gli piaccia o no. L’unico modo per uscire da tale
situazione è il giudizio, ovvero “manifestazione del vento del pensiero”, che dissolve e riesamina di nuovo le
regole accettate. Grazie al giudizio la persona può trascendere la propria natura e le condizioni di vita che le
sono state assegnate grazie al suo potere di riflettere sul passato e sul futuro. La capacità di giudicare si
realizza tramite l’attitudine a discernere, che permette di comprendere i particolari delle situazioni vissute,
li identifica e distingue.

Se la natalità è il punto di origine e la fondazione è il punto d’appoggio, l’attitudine a discernere è il perno


attorno al quale si definisce il carattere: la capacità di distinguere il bello dal brutto, il bene dal male…

Il giudizio si “libera” nel momento in cui il carattere diventa condotta, ovvero quando il pensiero diventa
azione: ciò serve a scongiurare l’espansione del male. Il giudizio diventa snodo necessario. Il carattere può
così diventare condotta grazie all’incrocio di tre direttrici:

• Originalità, coerenza e credibilità


• Libertà, libertà-da e liberta-di
• I caratteri della bontà e della bellezza: libertà-per un agire volto al bene

Il giudizio è il fulcro del carattere e costruisce attorno a sé un criterio di valutazione. La persona impara ad
essere giudice di se stessa; impara dunque ad essere nuda e, di conseguenza, a riconoscere la sua piena
umanità.

2. IL “GIUDIZIO DEL GUSTO”

2.1 Il senso della discriminazione


2.1.1 La soggettività

Il giudizio non nasce già formato, ma cresce con la persona. In realtà prende forma, perché se si sviluppasse
seguirebbe fasi evolutive prestabilite; è una facoltà che per compiersi deve essere educata, la sua formazione
però non è assolutamente scontata. Innanzitutto necessita di essere risvegliata già dall’infanzia grazie
all’aiuto di un adulto; il suo compito però non si esaurisce qui. Il giudizio deve essere orientato verso una
direzione, condizione necessaria per una permanenza durevole e significativa. Occorre avviare una riflessione
a partire da quella base su cui il giudizio si struttura: il gusto, veicolo della facoltà spirituale del giudizio. Il
discorso della Arendt ruota attorno il filosofo Kant, che scrive la “Critica del giudizio” e che ritiene il gusto il
senso attraverso il quale discrimina il giusto e lo sbagliato. Kant studia il giudizio per rispondere alla domanda
“cos’è l’uomo?”: la questione concerne l’uomo “sociale” per la sua capacità di fondare una comunità politica
grazie al giudizio. Perché il gusto è il senso prediletto? Perché più degli altri sensi percepisce il “mi piace”/”non
mi piace”: è un senso soggettivo, che non può essere manovrato artificialmente; la coercizione esterna
diventa una violenza.

2.1.2 Il mi-piace

Perché il gusto sì e l’olfatto no? La Arendt non dà spiegazioni precise; probabilmente è perché l’odore ti
“entra dentro” meno, il cibo diventa parte integrante di te, entra fisicamente e ti nutre. Grazie al gusto
nascono due sentimenti contrastanti: mi-piace/non-mi-piace, che diventano, nella vita di tutti i giorni, mi-
sta-bene/non-mi-sta-bene. Il “mi-sta-bene” entra in noi come un fulmine, senza il bisogno di nessuna
intercessione: è immediato. Kant diceva “gusto e facoltà del giudizio sono la stessa cosa”: ha ragione.

Nel gusto è la persona a prevalere sull’oggetto: mi piacciono le ostriche? Sì, sto bene nel gustarle, mi-
appartengono. Ma può accadere che le ostriche non mi siano mai piaciute, ma quella volta sì. Allora può
anche essere la particolarità dell’oggetto ad avere la meglio sull’individuo. Il giudizio si occupa proprio di
questo rapporto particolare/universale. Il gusto dà inizio al giudizio che non si adegua e non si nasconde
all’ombra di regole universali, ma che discrimina la situazione particolare in base a ciò che bene/bello.

Alla base dei totalitarismi potrebbero esserci problemi di gusto. Il rischio è la cristallizzazione; tornando alle
ostriche, se ad un individuo a cui non piacciono venissero fatte ingenti pressioni dall’esterno si correrebbe il
rischio che la persona adatti i suoi gusti per conformarli alle pressioni. La cristallizzazione può anche avvenire
a causa dell’individuo stesso: la riluttanza si blocca al primo assaggio e io in nessun’altra occasione riprovo a
mangiarle. Un individuo che, causa pressioni, è costretto a svalutare il suo gusto non è più in grado di capire
ciò che gli piace e cosa no.

Bisogna educare il gusto fin dall’infanzia

2.1.3 Il disgusto

La dimensione critica è fondamentale per il gusto. Da un lato la critica pone al vaglio il gusto, lo decostruisce
e ricostruisce, dall’altro il gusto è fondamentale per la critica. “Krinein” significa “discriminare, distinguere”.
Il gusto per evitare di avere solo la funzione di enumerare la realtà e quindi per operare anche una prima
valutazione deve conoscere ciò che è “difettoso” e ciò che invece è da seguire. Per questa capacità di
comprendere bene-seguo/male-evito il gusto è veicolo principale del giudizio. Se il bene-seguo significa “mi-
piace” e “mi-appartiene” allora il male-evito significa “non-mi-appartiene”; il “no-mi-piace”, nella sua
massima espressione, equivale al disgusto. Questa idea parte da Kant ed è ciò che permette all’individuo di
porsi contro a ciò che è disgustoso. Il disgusto ha la funzione di campanello di allarme che opera una prima
valutazione istintiva, ovvero senza essere vincolata dalle norme del giudizio; la prima impressione può poi
essere confermata o rigettata da quest’ultimo. Questo è ciò che manca per evitare la nascita di totalitarismi:
l’idea del mi piace-seguo/non mi piace-ripudio. Il risultato è il “non prendere posizione/allinearsi al
comportamento imposto”

2.2 Il senso dell’immaginazione


2.3 Il giudicare da sé

Talvolta accade che alcuni fatti sono nuovi: le regole di giudizio devono essere ridefinite partendo dal punto
di origine del giudizio. Nasce così la facoltà di giudicare-da-sé, ovvero la capacità del giudizio di produrre essa
stessa principi sulla base dei quali giudicare. Essendo il giudicare sottoprodotto del pensare, di conseguenza
il giudicare-da-sé è sottoprodotto del pensare-da-sé. Un uomo che pensa-da-sé è fulcro del proprio modo di
pensare e, quindi, di giudicare. Il gusto serve a rendere il giudizio un giudizio-da-sé: distinguere tra bene e
male porta la persona al centro del giudicare e la fa diventare autrice delle proprie regole di condotta. Il gusto
opera solo ad un primo livello di valutazione, ma depura il giudizio da 4 aspetti insidiosi:

• Scetticismo: inteso come la convinzione che la verità non esiste; o scelgo una dottrina dogmatica
qualsiasi o non mi pongo neanche il problema.
• Dogmatismo: non posso sempre rifarmi a dogmi dato che il gusto è soggettivo e particolare.

(bisogna fare in modo di sviluppare la propria capacità critica con il fine di lasciarsi alle spalle queste
alternative)
• Oggettività: l’oggetto valutato non può essere esaustivamente analizzabile e riproducibile (es. non
riesco a percepire l’odore di una rosa o un gusto quando non ci sono). Ciò a causa della non
oggettività del gusto
• Utilitarismo: il mi-piace non può essere usato solo a scopo utilitaristico. La persona può affermare un
mi-piace non autentico, ma non potrà negare a se stessa il disgusto o il piacere provato.

Quello del gusto è un lavoro importante, ma non ancora abbastanza approfondito affinchè il giudizio possa
tendere al giudicare-da-sé. Il giudizio deve partire da condizioni soggettive personali e poi deve liberarsene;
questo processo permette di “discutere” rendendole comunicabili all’altro. Questo crea un ponte tra gli
uomini, che discutendo, trovano tra loro punti di contatto su cose che piacciono o non. Discutendo l’uomo
svela una parte di se stesso.

2.2.2 La rappresentazione

La Arendt fa entrare sulla scena del giudizio due facoltà: l’immaginazione e il senso comune. L’immaginazione
giudica oggetti che sono stati rimossi; l’oggetto rimosso dai sensi esterni viene accolto da quelli interni. C’è
poi un secondo momento nel quale la cosa viene giudicata. L’immaginazione, la facultas imaginandi, viene
definita “facoltà della rappresentazione”, ovvero facoltà riproduttiva. Grazie a questa capacità il gusto
diventa comunicabile e viene sottoposto ad un ulteriore vaglio critico: quello intersoggettivo. Il parere
soggettivo viene rivisto attraverso gli occhi degli altri che si possono trovare nella mia situazione; i punti di
vista sono quindi comparabili. Ciò permette di avere una visione totale e rende gli altri “presenti”. I giudizi
possibili vengono discussi e messi a confronto. Il confronto permette lo sviluppo di un pensiero ampio, perciò
bisogna educarlo a “recarsi in visita ai giudizi altrui”. Diventa un intreccio tra sentimento e riflessione per
contribuire alla possibilità di uno spazio di comprensione all’interno della differenza. Il “recarsi in visita” non
significa cercare solo di capire come l’altro si sente, ma anche provare ad immaginare come gli altri
agirebbero nelle altre circostanze.

2.2.3 L’approvazione

L’immaginazione è quindi capacità di rappresentazione dell’oggetto assente, allo stesso tempo, di pensarlo
in modo critico e di comprendere i possibili punti di vista altrui.

Dopo la prima valutazione del gusto, c’è un momento di approvazione (o no) da parte del giudizio;
l’immaginazione rende comunicabile l’esperienza soggettiva del gusto, integrando i punti di vista degli altri,
confermandola/ disconfermandola: questa è una seconda valutazione. Ciò che mi piace alla prima
valutazione è piacevole, non bello. La seconda valutazione non si pone più su un piano soggettivo, ma a livello
di ciò che è intersoggettivamente giusto e fa riferimento al concetto di giustizia, una questione di valutazione
che rispetti il valore e la dignità delle parti in gioco: non può essere parziale e non può essere interessata.
Questo perché deve esserci uno spazio di distanziamento tra colui che giudica e l’oggetto giudicato (dal quale
non si viene più toccati direttamente). Il disinteresse non è sinonimo di indifferenza o irrilevanza, ma
disinteresse di interessi utilitaristici. L’immaginazione conferisce allora al giudizio la capacità di porre a
distanza ciò che è troppo vicino in modo da comprenderlo senza pregiudizi, ma, al contempo, di colmare
l’abisso che ci separa da ciò che è troppo lontano. Bisogna raggiungere l’imparzialità, osservatorio dal quale
formulare giudizi; significa riuscire a contenere nella propria mente tutta l’umanità, tutti i punti di vista
possibili. Questo significa prendere parte al mondo e allo stesso tempo provare “amore attivo” nei suoi
confronti.

2.4 Il senso comune

2.3.1 Il Sensus Communis

La sola facoltà dell’immaginazione, però, non è ancora sufficiente per portare a compimento la
comunicabilità del gusto; questa infatti serve a ricostruire la totalità dei punti di vista: qual è il senso
necessario per scegliere quali voci ascoltare all’interno della totalità? Il senso comune. È un senso extra che
ci inserisce in una comunità e che viene richiamato nell’ambito relativo alla condotta. La pazzia è intesa come
mancanza di questo senso, condotta umana incapace di vedere i giudizi altrui. Il senso comune è un tassello
fondamentale per raggiungere la comunicabilità del gusto. La comunicabilità è il criterio per decidere in
materia di gusto e giudizio e il Sensus Communis è il metro, la misura in riferimento al quale viene valutata
la decisione (senso della misura globalmente accettato?); è il canone del giudizio accettato dalla società. In
base a questo la persona perfeziona la propria approvazione/disapprovazione nei confronti del
piacere/dispiacere. Il s.c. decise in base a tre massime:

• Pensare da sé
• Mettersi col pensiero al posto di ogni altro
• Coerenza, essere d’accordo con se stesso.

2.3.2 Il mondo e gli altri

La Arendt dice che si può comunque decidere senza il bisogno della maggioranza: non bisogna fondare giudizi
sulla base di clichè comunemente accettati: si rischia il totalitarismo.

Il Senso Comune è una dimensione della quale bisogna essere consapevoli, il canone del giudizio che ci spinge
ad approvare o disapprovare piaceri e dispiaceri; bisogna però sempre tener conto della propria coerenza.
Deve inoltre essere riguardoso nei confronti di tutte le persone che potrebbero coinvolte dalla questione. Il
s.c. permette di limitare se stesso per tutelare l’altro. Ci inserisce nel mondo e lo rende possibile. Permette
inoltre di evitare che qualcuno abbia desiderio/sentimento di onnipotenza: devi sottoporre ogni tuo giudizio
ad una “discussione” pubblica. Il giudizio si pone a contrasto e a contenimento dell’individualismo del
pensiero.

2.3.3 La validità

Sensus Communis e immaginazione rendono il giudizio comunicabile, radicato nel senso comunitario. È il
giudizio stesso a fare appello al s.c., a richiamarlo e sollecitarlo nella persona: proprio questo appello
conferisce al giudizio la sua particolare validità, che non può essere basata né su ragionamenti logici né su
evidenze empiriche. Per parlare di validità bisogna parlare di schema, ovvero archetipo che abbiamo in
memoria a cui facciamo riferimento nel momento in cui percepiamo il particolare (Platone e Kant). L’idea di
schema richiama quella di esempio, che sta al giudizio come lo schema alla conoscenza. Gli esempi sono “le
dande del giudizio”, ovvero le carrozzine che lo guidano nel compito di pensare il particolare. Il vero problema
del giudizio è il dover combinare generale e particolare. Per fare ció ha bisogno di un canone, che gli viene
fornito da un tertium comparationis che funge da ponte tra particolare/generale. Questo non rappresenta
né il caso singolo né l’idea astratta, ma racchiude il senso comune e il migliore degli esempi possibile
nell’ambito considerato. Ad esempio posso pensare ad un tavolo ritenendolo il migliore possibile e
assumendolo ad esempio ideale di ciò che i tavoli dovrebbero essere in realtà: diventa un tavolo esemplare.
Un esempio relativo al carattere può essere Achille, coraggioso per antonomasia, o Gesù, buono più di tutti
(da ricordare il genere letterario degli exempla: raccolte di racconti riportanti comportamenti esemplari da
seguire). Questi esempi conferiscono validità al giudizio perché:

• Lo rendono autorevole in termini di credibilità e valore: sono espressione di valori che tutti gli uomini
hanno
• Lo contestualizzano all’intento di un tempo e di uno spazio
• Lo rendono intersoggettivo: gli esempi sono comunicabili e discutibili

Dunque il giudizio si compie in quanto intersoggettivo: “Non si può mangiare un pranzo senza compagnia”;
è una compagnia che permette all’uomo il dialogo. L’esempio, contestualizzato, autorevole e intersoggettivo,
diventa luogo di incontro di discussione, popolato da diversi punti di vista (personalmente lo vedo un po’
come l’αγορά greca: luogo di incontro, discussione e dialogo). L’obiettivo è perfezionare un giudizio che possa
attirare attorno a sé una concordanza; questa diventa poi consenso, ovvero l’obiettivo ultimo del senso
arendtiano: l’azione in concerto, agire assieme per operare un cambiamento; “Se l’uomo vuole ottenere
qualcosa deve muoversi e agire in concerto”. Questo “rendere il giudizio comunicabile” è fondamentale, è
stadio necessario per la creazione del proprio gusto personale. Ci permette di metterci alla ricerca e di
scegliere compagni che ci accompagnino lungo il nostro percorso. Non sono accettabili le persone che
rimangono indifferenti nei confronti della compagnia da crearsi: è sintomo di incapacità di scelta dei propri
esempi e di mancanza di gusto e giudizio.

3. LINEE PROGETTUALI NELLA SCUOLA

3.1 Per quali bambini

3.1 L’unicità umana

Il carattere costituisce il segno dell’individualità, particolare segno che appartiene ad un particolare uomo e
il suo irripetibile punto di vista. Il carattere è segno che va conquistato attraverso l’acquisizione del giudizio.
Il giudicare deve essere attivato dal gusto. Il giudizio fa vivere all’uomo una seconda nascita mettendolo
nuovamente a nudo davanti a se stesso, facendogli comprendere la sua unicità. Quindi la nudità per l’uomo
è sia la condizione che possiede più di tutte (dato che la conosce fin dalla nascita), sia quella più dura da
ottenere. Questa nudità deve essere identificabile in quanto essenza della propria originalità. Non è un invito
alla trasparenza: è quella che porta dentro al carattere il problema del giudizio. L’uomo è prima chiamato a
scegliere chi voler mostrare di essere e poi a resistere ai cambi repentini della vita in favore di un carattere
durevole. “Saper essere nudo”, esserlo orgogliosamente è l’unica strada da percorrere per la creazione di
uno spazio di vita in cui trovino posto autenticità e rispetto.

3.1.2 La New Generation

Il mettersi a nudo deve essere educato attraverso un percorso che insegni a decidere chi essere e come
presentarsi. Il carattere risuona attraverso la condotta rendendola identificabile, ma sempre ulteriormente
definibile.

L’infanzia risulta essere il periodo privilegiato per la formazione del carattere. Dato che i bambini portano nel
mondo una novità, bisogna seguirli ed educarli per non privarli della loro occasione di intraprendere qualcosa
di nuovo. I genitori devono introdurre i figli nel mondo. Questo processo richiama anche le scuole che hanno
il diritto di preparare i bambini ad assolvere il loro futuro dovere di cittadini.

3.1.3 La cittadinanza attiva

Un’educazione del carattere che promuove le capacità di essere un cittadino nuovo si definisce cittadinanza
attiva. Il cittadino è colui che partecipa alla vita politico-sociale comune, capace di intervenire nelle scelte
politiche. C’è un legame inscindibile tra scuola e democrazia. La scuola è lo spazio che permette al bambino
di mettere alla prova le proprie capacità di partecipazione, interazione e corresponsabilità. Bisogna dotare i
giovani di abitudini intelligenti per poterli mettere in condizione di poter far fronte ai problemi in direzione
della democrazia.

L’insegnante mostra il mondo al bambino e ne educa il carattere e la condotta. Sono molto precoci le prime
esperienze del bambino attraverso le quali prova la sua capacità di celare\mostrare se stesso. La scuola inizia
il bambino al giudizio. Il nuovo individuo deve comprendere la propria unicità, decidere come auto-
presentarsi e assumersi le proprie responsabilità in un mondo comune che non può esistere se non grazie al
giudizio “nuovo”. Per educare il bambino alla nudità, alla novità e alla cittadinanza bisogna progettare alcune
linee d’intervento; sono tre le principali linee progettuali (ogni capacità si presenta come sintesi di tre diverse
skills):

• Capacità di gustare (abilità di dare inizio, di setacciare e del discutere conviviale): rappresenta
l’azione che ricostruisce la scena a partire dalla quale la capacità può essere promossa
• Capacità di valutare (abilità di giustificare, affermare il valore e di fare lo scarto): esprime il core della
capacità stessa.
• Capacità di intervenire nel mondo (abilità di mettere radici, di darsi il limite e di amare): definisce la
direzione verso la quale la capacità può assumere senso in relazione ad un'educazione del carattere.

3.2 Promuovere la capacità di gustare


3.2.1 L'abilità di dare inizio

È la prima linea progettuale posta alla base di un'educazione che faccia leva sul giudizio. La prima skill da cui
è composto è il “dare inizio”. Fare del gusto lo spazio privilegiato per la formazione del carattere implica un
coinvolgimento pieno e diretto del bambino nell'azione: agisce per conoscere se stesso. In relazione con il
gusto l’azione viene intesa in particolare come iniziativa: il dar inizio a qualcosa di nuovo e originale. La
capacità di gustare parte da ciò che il bambino percepisce che gli appartiene. Il gustare coinvolge il bambino
poiché suscita in lui una risposta immediata, istitutiva e non evitabile. Anche per il bambino il gusto diventa
veicolo per la creazione di un giudizio personale. Soprattutto durante l'infanzia l'idea di gusto può essere
affiancata ad una questione alimentare, ma non deve essere connessa solo a quella; anzi può essere
esercitata in qualsiasi campo di esperienza all'interno del quale il bambino sperimenta la sua abilità di dare
inizio a ciò che interessa e coinvolge. Il dare-inizio può declinarsi a tre livelli d'intensità:

• D-I in autonomia
• D-I per creare insieme ad altri
• Discutere e riflettere di qualcosa che non ho personalmente ideato, ma che è implicato con il
mio interesse personale

L’adulto viene chiamato in causa per la sua capacità di promuovere la spontanea iniziativa del
bambino. Anche la scuola spesso prepara vere e proprie esperienze di iniziativa volte a promuovere
lo sperimentare liberamente e quindi di “gustare” in modo personale. Al fine di esercitare il giudizio
bisogna partire da azioni che il bambino stesso ha intrapreso o alle quali ha contribuito.

3.2.2 L'abilità di setacciare

Il gusto si pone come intermediario tra il “dare inizio” e il “setacciare”: la prima crea lo spazio in cui gustare
è possibile, la seconda esprime il core del gusto stesso. Il giudizio è guidato dal gusto: il senso del discernere;
viene anche utilizzato il termine “cernere”, ovvero “passare a setaccio”. In questa accezione non significa
solo “distinguere”, ma “separare”, “scegliere tra prospettive diverse”. Quindi il gusto divide queste due abilità
in due momenti diversi: il primo in cui disgiunge e l'altro in cui esamina. Al primo è legata la “roules of the
thumb”, la regola del pollice. È sicuramente un metodo valutativo molto approssimativo, ma è comunque
frutto di una reazione immediata. L'insegnante deve allora spingere i bambini a dare un responso di questo
tipo su attività, cose, persone: è il primo segno dell'avvio del giudizio. Educare alla capacità di gustare
permette di raggiungere il secondo livello, l'esaminare.

3.2.3 L'abilità del discutere conviviale

L'abilità di discernere deve essere portata al di fuori della soggettività, senno rischia di portare al “culto della
persona”, ovvero all esaltazione delle caratteristiche personali del singolo. Il bambino oltre a “dare inizio” e
“setacciare” deve “discutere”: il mi-piace/non-mi-piace viene raffinato passandolo al vaglio del gruppo. Il
gusto porta a compimento il discernimento nella dimensione della convivialità. L'abilità di discutere non è
innata; il bambino apprende tramite l'osservazione di modelli, ovvero adulti, coetanei, esperti, programmi di
intrattenimento, giochi. I modelli possono anche essere negativi e il dialogo può venire appreso sotto forma
di denigrazione e prepotenza. La scuola allora può farsi promotrice per l'educazione di tale abilità. La forma
di dialogo preferibile è quella del διαλεγεσθαι, ovvero del procedere per interrogazioni e risposte, camminare
attraverso le parole. Lo scambio non deve avere come obiettivo la denigrazione dell'altro, ma allo stesso
tempo non deve avere la paura maniacale di “non offendere”. Il dialogo è comunque rischioso, in quanto
ognuno esterna il proprio pensiero personale; possono emergere problemi dati da incomprensioni o
arroganza, che possono essere comunque occasioni costruttive per l'esperienza del bambino. L'insegnante
deve posarsi come modello in questo contesto e deve diventare insetto, torpedine e levatrice (Socrate) nei
confronti del bambino. Questo modo di dire “socratico” permette di indagare tre differenti aspetti del
discutere:

• Per educare a discutere l'insegnante inizialmente deve essere insetto e pungolare il bambino, per
avere un riscontro pollice su/pollice giù
• Dve essere torpedine, paralizzare il bambino e fare sorgere dubbi volti ad animare la riflessione. Ciò
permette al bambino di sostare nel proprio pensiero e affrontare la propria esperienza con stadium,
con una “sosta”: il bambino si ferma a pesare il suo punto di vista per poi ripensarlo nei panni
dell'altro. L'obiettivo è confermare o trasformare il proprio punto di vista la luce dei dubbi emersi
• L'insegnante deve essere levatrice, ostetrica, che aiuti il bambino a partorire il suo pensiero

Dunque il gusto discusso permette la nascita del giudizio. “Educare al gusto è uno dei modi per nutrire il sé”.
Ad un livello successivo il bambino sarà anche in grado, non solo di considerare i punti di vista dei presenti,
ma anche quelli dei non prenderti che potrebbero aver parte nella questione esaminata. Il lavoro di
ricomposizione dei punti di vista non serve a disorientare il bambino, ma a rendere evidenti le connessioni, i
legami e le differenze. L'insetto, la torpedine e la levatrice possono entrare nel bambino a tale unto da
diventare parte della sua individualità.

3.3 Promuoverela capacità di valutare


3.3.1 L'abilità di render conto

Può nascere se la capacità di gustare è ormai consolidata. La prima skill da cui è formata è l'abilità di render
conto, ovvero la capacità di motivare e render conto dei fattori a supporto della propria approvazione o
disapprovazione: sono giustificazioni. La giustificazione non deve essere imposta, ma deve essere costruita.
Non è un ragionamento prettamente razionale, ma viene supportato dall'esperienza. I fattori sulla base dei
quali prende avvio una valutazione non sono criteri di verifica, ma sono più canoni di valutazione; quesi sono
soggettivi, incerti e situazionali. Educare alla skill del rendere conto significa innanzitutto accompagnare il
bambino attraverso esperienze di definizione dei canoni. Quando si parla di canoni bisogna tenere in onto il
fatto che sonno differenti per tutti: se do un metro a due persone diverse, misurando, otterranno la stessa
misura, ma messi difronte ad un quadro avranno punti di vista diversi.

Educare a questa skill implica anche l'accompagnare attraverso esperienze di:

• Pertinenza: coerenza tra la cosa valutata, i canoni di approvazione e il carattere del bambino;
cercando coerenza con se stesso rende giusto il proprio approvare/disapprovare
• Validità: senso che la decisione assume in riferimento alla propria esistenza. La decisione si rende
giusta alla luce di ciò.
3.3.2 L'abilità di assegnare valore

Questa skill può essere compresa solo se si dividono i due piani che costituiscono la valutazione. Il primo
enumera la realtà, la descrive rimanendo oggettivi. La seconda invece assegna un valore alla realtà stessa:
pone cosi a confronto la realtà con ciò che essa dovrebbe essere. Esprimendo un valore non si valuta solo
l'oggetto, ma anche se stessi; infatti come il sapore è in realtà “come quella persona percepisce quel sapore”,
così la valutazione mostra l'individualità del soggetto: in un certo senso diventa auto-presentazione di sé. L
bambino prima di valutare deve domandarsi: “Mi piaccio? Mi approvo nel momento in cui assegno quel
valore a quell'oggetto?”. L'insegnante deve guidare il bambino attraverso esperienze di dialogo del sé con se
stesso. Porre la riflessione sul valore del proprio carattere nel cuore della capacità valutativa non è un invito
all'accentuazione del narcisismo del bambino; in quel caso il bambino finirebbe per assegnare valori solo
perché l'oggetto lo fa sentire “bello” o “buono”. Non si parla di auto-compiacimento, ma di responsabilità:
valutare significa poderare sul piano sentimentale (gusto), intellettuale (riflessione) ed etico. Il piano etico
lavora alla profondità della valutazione stessa e richiama ad un impegno di responsabilità rispetto al valore
che si vuole assegnare. Il bambino non assegna valori con superficialità senza domandarsi prima se il valore
lo potrebbe portare ad un conflitto con la propria coscienza. In questo caso il bambino non potrebbe porsi
nudo di fronte a se stesso in quanto non tollererebbe la visione.

3.3.3 L'abilità di fare lo scarto

Grazie all'assegnazione del valore il bambino diventa consapevole della propria individualità, capisce che la
valutazione non è un momento, ma un processo, che diventa esperienza significativa grazie alla direzione,
che dà ordine ed orientamento al processo valutativo stesso. Nel percorso educativo la direzione può essere
definita abilità di “fare uno scarto”, ovvero operare uno spostamento rispetto a ciò ci si aspetta e a ciò che è
convenzionale. L'abilità di discernere deve solo essere una fase del processo educativo: non deve essere solo
enumerazione della realtà ma anche cogliere questa rispetto a come potrebbe essere e diventare; può quindi
dare inizio ad un percorso di trasformazione. Va oltre il discernere, guarda a ciò che potrebbe essere ancora
fatto. Questa abilità di operare uno scarto rispetto alla realtà apre per l'insegnate alla possibilità di andare
oltre all’accettabile. Un’educazione del carattere che abbia come leva il giudizio deve uscire dalla logica
dell’accettabile, che valuta solo seguendo i criteri dell'adeguato e dell'inadeguato. Quindi l’accettabile è
rappresentato da tutto ciò che sta entro i limiti della sufficienza e pone ai bambini traguardi poco sfidanti.

All'interno del panorama scolastico è condivisa l'importanza dell’accettazione incondizionata del bambino: è
sì riconoscimento del valore inviolabile di qualsiasi bambino, ma allo stesso tempo non deve essere
accettazione di qualsiasi manifestazione del bambino e neanche una iperrealistica valorizzazione delle sue
capacità. Fondamentale in questo contesto è l’esemplare, ovvero il già citato ponte tra generale e particolare.
L’esemplarità non deve essere intesa come condizione irraggiungibile ed ideale, ma un esempio di come
opera lo scarto e di dove può portare. Crea un “tra”, uno spazio tra l'esempio e il bambino. Achille viene
preso da esempio non per mostrare quanta distanza c'è tra l’individuo e il mitico eroe, ma per permettere
alla persona di auto-riflettere, provare a scoprire e dare forma a quello spazio. Il compito dell'insegnante è
dunque quello di creare uno spazio di relazione all'interno del quale il bambino possa ascoltare, toccare,
odorare testimonianze. Offrire una testimonianza significa presentare racconti di esemplarità al quale egli
possa avvicinarsi attraverso uno dei canali sensoriali. L'insegnante deve anche promuovere spazi di riflessione
critica all'interno dei quali il bambino deve rileggere la testimonianza a partita dal proprio gusto.

3.4 Promuovere la capacità di “intervenire nel mondo”


3.4.1 L’abilità di mettere radici

La capacità di intervenire può svilupparsi solo se la capacita di gustare e di valutazione sono attive. Deve però
compiersi perché il giudizio posa attuarsi in una presa di posizione nel mondo. La prima skill della capacità di
intervenire è l'abilità di mettere radici, che ricostruisce la scena da cui la capacità stessa può attuarsi.

Questa skill per realizzarsi ha bisogno della testimonianza esemplare; questo perché la testimonianza non è
altro che memoria, più o meno lontana di un'esperienza vissuta e porta nel presente qualcosa di gli accaduto.
Non è un ricordare celebrativo, ma trasformativo, che mette il presente in moto su due fronti:

• Ritrovare radici e motivazioni che fondino e nutrano il nostro modo di agire


• Scoprire radici nuove che il bambino non conosce
Tutto ciò non porta il bambino a guardare alle testimonianze come come irreali ed irripetibili, ma lo spinge
non solo ad un'azione che sia fatta bene, ma che sia anche buona (posso avere un piano per svaligiare una
banca fatto bene, ma non è moralmente accettabile).

È importante che il bambino sia accompagnato a sviluppare l'abilità di mettere radici, poiché queste non son
un possesso che si riceve per eredità. Certo, il bambino appartiene ad una società, una famiglia, un mondo.
Tuttavia il mettere radici significa ripensare e valutare il significato dell'appartenenza stessa. Affinché venga
percepita il bambino deve essere spinto a conoscersi più a fondo; la conoscenza può avvenire a quattro
diversi livelli: il suo personale racconto di vita, la storia entro la quale è cresciuto, la tradizione alla quale
appartiene, il quantum di umanità che è comune. L’insegnante deve accompagnare l’alunno attraverso
esperienze di messa a fuoco di sé, in modo che si possa vedere in relazione del micro e del macro contesto
di appartenenza. Ciò non deve portare il bambino ad una visione egocentrica, un mondo in cui io agisco e gli
altri sono sfondo. L'insegnante deve evitare che capiti ciò. Grazie all'abilità di mettere radici si sviluppa la
logica della visione panoramica: il bambino vive all'interno del mondo, capisce che non ci sono protagonisti
assoluti, ma solo persone che condividono il medesimo sfondo; il bambino imparerà così ad osservare il
mondo in tutta la sua profondità. La messa a fuoco porta il bambino da una visione egoistica (visione piano-
sfondo) ad una panoramica. Questo processo lavora su quattro diversi piani (quelli già citati prima) che
devono essere affrontati a partire dal particolare ad arrivare al generale, dal soggettivo all’intersoggettivo.
Importante è la condivisione, che permette al bambino di radicare se stesso nel mondo comune e di
accogliere dentro sé il senso umano. Da ciò nasce il desiderio della scuola di educare i bambini al bene
radicale, pensabile dal fatto che esistano bambini capaci di giudicare possibile e preferibile un'azione che
affermi loro stessi senza violare l'altro. Per fare ciò la scuola deve fare una rivoluzione e portare il bambino
al centro di se stesso, perché impari a costruire la propria esistenza.

Cosa succede se un uomo è senza radici? Gli uomini pattinerebbero sulla superficie e sarebbero sballottati a
destra e manca.

3.4.2 L'abilità di darsi un limite

La capacità di intervenire deve essere arginata, affinché non diventi lesiva per il mondo. Il darsi un limite si
ritrova nell'esperienza del disgusto, ovvero un limite il bambino considera invalicabile. Il disgusto viene
provocato da ciò che il nostro corpo non tollera e dunque viene richiamato a tutela di quel limite: oltre c'è
l'intollerabile. I sogna inoltre lavorare sui fattori ideazionali del disgusto, che possono condizionarlo: divento
indegno e contaminato tramite l'ingestione di una sostanza che reputo ripugnante. Quindi se da un lato i
crimini nazisti sono considerati dimostrazione di un limite non valicabile, dall’altro questa percezione
potrebbe essere contaminata dalle proprie pre-concezioni negative in merito. Il disgusto ha, quindi,
potenzialità e rischi. Si deve optare per una lavoro educativo che ponga il bambino a confronto con i suoi
disgusti. L'insegnante deve sollecitare questo confronto, che è un processo che può essere promosso
attraverso le esperienze di “delicatezza di gusto” con l'obiettivo di porre il bambino davanti al disgusto per
conoscerlo meglio ed imparare a discernerlo. Questo percorso permette di lavorare su due diversi aspetti:

• La finezza: il bambino raffina e ridefinisce con aggio e precisione i propri disgusti, ovvero affina la
sensibilità gustativa
• La tenerezza: insegna al bambino ad esprimere, in maniera rispettosa, ciò che sente come
intollerabile. Non serve per minimizzare o negare il disgusto, ma a renderlo comprensibile agli altri.

3.4.3 L'abilità di agire amando

L’agire amando implica una presa di posizione sulla direzione verso la quale il bambino interviene nel mondo.
Interviene perché per affermare se stesso per esprimere la propria unicità. In questo modo interviene nel
mondo nella direzione dell'amare; innanzitutto ama se stesso e la propria unicità. Amarsi non è il punto di
partenza, ma l'orizzonte verso il quale si tende. L'esperienza dell’amarsi per compiersi deve prima essere
stata provata: prima di amarsi bisogna essere stati amati da chi mi ha fatto nascere e crescere. Per
raggiungere il suo obiettivo l’individuo deve:

• Riconoscersi per quello che è


• Approvare questa sua unicità
• Voler esistere portando nel mondo la propria originalità

L'insegnante deve dunque allestire un percorso dal gusto al giudizio, un’”esperienza di nudità”. Ciò non deve
portare ad un estremo auto-compiacimento, dato che l’amarsi non significa prendere in considerazione solo
i lati positivi. Infatti è importante, in questo contesto, apprezzare anche le fragilità e gli aspetti problematici.
Non è dunque esaltazione delle qualità. Il bambino dopo aver imparato ad amarsi ha la forza necessaria per
dar vita ad una nuova forma di amore: agire amando il mondo. Comincia ad amare il mondo per ciò che
contiene e vuole che possa esistere. Ciò porta a tre nuovi aspetti per il bambino:

• Riconosce il mondo per quello che è


• Scopre gli spazi in cui questo nasconde la propria umanità
• Interviene con forza per far esistere il mondo in tutta la sua umanità

L'insegnante in questo caso deve allestire un percorso che sia un’”esperienza di concertazione”, ovvero per
tre al bambino di agire con la pluralità. L'individuo può anche lavorare in solitudine, ma si rende simile ad
una bestia. Nasce quindi una ricerca di una dimensione comune sulla cui base concertare un accordo per
l'azione. Per questo motivo ogni esperienza sarà per il bambino occasione di corteggiamento dell'altro. Non
si parla di seduzione, ma di esprimersi in modo convincente al fine di lavorare alla costruzione di un possibile
accordo comune. Ha il compito di porre la pluralità a confronto (scomponendo e ricomponendo i punti di
vista) affinché si reda amabile agli occhi della collettività.

L'insegnante per insegnare al bambino l’agire amando e amandosi deve spingerlo a mettere a disposizione
la propria unicità. Facendo ciò il bambino può gettare le prime basi per il futuro e aspirare ad auto-
perpetuarsi, ovvero fare in modo che il proprio carattere e la propria individualità lascino una scia dietro di
loro.

Conclusione
Una scuola per l'educazione del gusto
Di fronte al rischio di una deviazione cognitiva dell'apprendimento, la scuola deve ripensare il proprio
compito educativo. Questa riflessione potrebbe partire dall'idea di carattere come atto di giudizio. Il percorso
allora deve far attenzione affinché il percorso di promozione delle capacità dei bambini sia adeguatamente
sostenuto e seguito. L'idea che ora come ora avanza è che il percorso può essere realizzato attraverso
l'educazione al gusto. Questa via ha 4 potenzialità:

• Promozione di un carattere perplesso: sospettoso del mondo e irresoluto rispetto al proprio agire
personale. È preparato fin da subito a ricercare, scoprire e decidere le ragioni he rendono la condotta
buona. I bambini allora contribuiscono attivamente alla costruzione del loro carattere. La scuola
diventa luogo dove si imparano i canoni sula base dei quali lavorare alla definizione del carattere.
• Promozione di un carattere radicato: è pronto fin da subito a strutturare le fondamenta sulle quali la
condotta si origina e nelle quali trova le sue motivazioni. I bambini lavorano radici profonde, in modo
che il loro agire possa acquisire maggiore durevolezza, e significative, in modo che le motivazioni e
le origine del loro agire possano essere comprese e messe in discussione. La scuola diventa
esperienza di dialogo profondo con se stessi e di discussione con gli altri.
• Promozione di un carattere unitario: è fin da subito preparato a ricomporre in un’ unitarietà coesa i
diversi aspetti del carattere. Il bambino sceglie quei comportamenti che vuole far propri sulla base
della bontà e della coerenza. La scuola diventa esperienza significativa di valutazione soggettiva e
inter-soggettiva di sé
• Promozione di un carattere giusto: è fin da subito pronto ad intervenire nel mondo secondo giustizia.
I bambini lavorano ad un chiarimento sia delle intenzioni sulle quali si basa la loro azione , sia delle
conseguenze che potrebbe avere. La scuola rappresenta riconoscimento e messa alla prova di
quell'unicità grazie alla quale il bambino contribuisce all’umanità.

Così facendo la scuola evita di focalizzarsi prevalentemente su traguardi cognitivi. Ogni character skill lavora
nella direzione di promuovere una comune possibilità: la possibilità che i bambini siano capaci di esistere sia
nella pienezza della novità che rappresentano, sia nella profondità di giudizio che esercitano e che permette
loro di custodire, come due anime mescolate, l'integrità di sé e la dignità del mondo.

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