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1951 - 1997

La straordinaria
esperienza di Franco
Cirillo

Un cammino in
solitudine lungo 46
anni
Marialuisa Bigiaretti

• “Bisogna preparare gli


insegnanti, non
scaraventarli in classe
appena finiti gli studi. E poi
vanno pagati meglio per
permettere loro
l’autoaggiornamento e per
esercitare con più dignità
questo mestiere altamente
difficile”.
1951

• Nel luglio del 1951 conseguii il diploma di


abilitazione magistrale e di colpo fui lasciato solo
nel burrascoso mare magnum dell’insegnamento.
• In quello stesso anno fui inserito nella graduatoria
per incarichi e supplenze e, ahimé!, fui chiamato a
supplire nella classe di un anziano maestro, noto
per la sua severità.
• Sulla scrivania trovai un piccolo asse di legno, la
bacchetta. Serviva al maestro a “richiamare”
l’attenzione degli alunni distratti e/o riottosi.
• In quel tempo spesso erano gli stessi genitori a
portare al maestro quello strumento, perché
raddrizzasse la condotta e la schiena dei loro figli.
• Altri tempi!
Libri e quaderni di un
tempo passato
Sussidi didattici
La mia prima supplenza
• Maledissi il momento in cui avevo deciso di fare il maestro.
• Non sapevo da dove cominciare.
• Alle magistrali nessuno dei miei insegnanti mi aveva messo in
condizione di affrontare una classe di alunni scatenati.
• Gli alunni con i supplenti assumono comportamenti
irriguardosi e liberatori, per loro. Finalmente trovano il modo di
fare tutto quello che con il maestro titolare non si possono
permettere.
• La classe si ribella. Qualcuno tra i rivoltosi ti viene a
consigliare di usare quello strumento che si trova sulla
scrivania.
I banchi per l’ascolto e
per tenere in ordine la
classe
Cosa avevo imparato in quegli anni che avrebbero
dovuto formarmi come maestro di scuola elementare
al cosiddetto Istituto Magistrale?

• Praticamente nulla.
• Ricordo alcune presenze in classi elementari dove
insegnanti di ruolo ci facevano assistere a qualche
momento delle cosiddette lezioni frontali.
• Due in particolare: una maestra che con un’arancia
cercava di far capire ai suoi alunni i movimenti della
terra, infilzandola con uno di quei ferri buoni per fare
maglie;
• un maestro che parlando del fegato lo definiva il
“cenciaiuolo” del nostro corpo. Una bella metafora che
probabilmente diceva molto poco ai suoi alunni, che
sicuramente non conoscevano il senso di quella parola.
• Era un significante a cui non corrispondeva un
significato certo.
• Questi sono termini della linguistica che a scuola non ci
avevano insegnato e che io scoprii contattando
formatori (che mi dovetti pagare) per fare meglio il
mestiere dell’educare.
Il tirocinio all’istituto
Magistrale

• Le mie esperienze nelle classi


erano precedute da brevi,
arrangiate lezioni di didattica
del nostro accompagnatore,
che, da quanto ricordo, non
venivano mai supportate dal
docente di pedagogia. Questi
si limitava a fare solo storia
della filosofia secondo l’odiato
manuale del professore E.
Paolo Lamanna.
Nessuno mi insegnò il
mestiere dell’educare

• In quegli anni vigevano


ancora i programmi del
1945. I programmi della
democrazia (1945).
• Preparati da una
commissione nominata
nel luglio ’44, si
contraddistinguono per il
loro carattere innovativo
ed esprimono la grande
tensione morale e
culturale che li anima fin
dalle prime parole che
indicano quale compito
primario della scuola
quello di contribuire alla
<<rinascita della vita
nazionale>>. I
programmi prevedono
un insegnamento di tipo
concreto che mette i
bambini in grado di
apprendere
operativamente.
1952

• Riesco ad avere
un incarico di
scuola carceraria
alla Casa di
Rieducazione di
Nisida.
• Di mattino
insegnavo ad una
classe di bambini
dell’obbligo; di
pomeriggio avevo
un corso di scuola
popolare, così si
chiamavano
allora, per i
ragazzi più grandi,
che erano usciti
dall’obbligo per
età.
I ragazzi di Nisida

• Secondo i programmi vigenti avrei


dovuto realizzare un insegnamento
di tipo concreto in modo da mettere
in grado i bambini di apprendere
operativamente.
• A Nisida avevo alla porta l’agente
di custodia per la difesa della mia
incolumità. I ragazzi provenivano
da vite violente; avevano subito
sopraffazioni indescrivibili.
• Erano abituati a vedere nell’altro un
nemico da tenere a bada.
Che potevo fare per
loro?
• Realizzai l’unica scuola che potevo proporre,
considerata la mia formazione.
• Imposi la scuola che ricordavo. Quella della mia
infanzia:
• Dettati
• Lettura ad alta voce di uno, mentre gli altri dovevano
portare il “segno” e continuare a chiamata;
• Operazioni di aritmetica sulla carta;
• Tabelline a memoria;
• Lezioni su argomenti lontani anni luce dal loro vissuto.
• Insomma una scuola che li annoiava profondamente,
per la quale non mostravano nessun interesse e che
non portava alle loro disgraziate vite nessuna
gratificazione.
• Di tanto in tanto rifiutavano quelle costrizioni, reagivano
scompostamente e scoppiavano anche litigi tra loro.
• L’intervento dell’agente di custodia, che minacciava
punizioni, anche corporali, li riportava all’ordine.
Quella scuola sbagliata

• Era una scuola che mi lasciava


l’amaro in bocca. Sentivo che non
era la risposta giusta alle loro
esigenze conoscitive e formative.
• Ma non sapevo come aggiustare il
tiro, cosa offrire di meglio in quella
circostanza.
• Per quella scuola sbagliata mi
davano 17.000 lire al mese per la
popolare del pomeriggio e 2.000
lire per ogni alunno promosso, alla
fine dell’anno scolastico, per la
scuola carceraria che si svolgeva
nelle ore della mattinata.
Dal 1952 al 1954

• Per due anni ogni mattina partivo


da Bagnoli con un camion dell’
Istituto, coperto da un tendone e
attrezzato con panche, alla volta di
Nisida. A
mezzogiorno andavo a pranzo alla
mensa dell’Accademia
Aeronautica, con cui c’era una
convenzione della direzione della
Casa di Rieducazione. Alla fine del
corso popolare, lo stesso camion ci
portava a Bagnoli, presso la
stazione della Cumana. E ritornavo
a casa stanco e insoddisfatto.
Il servizio militare di
leva
• Nel novembre del 1954 lasciai
quella scuola che mi aveva
messo profondamente in crisi e
vissi per diciotto mesi tra
caserma ed esercitazioni
militari. Nel 1956, l’anno delle
grandi nevicate anche sulle
città del Sud, tornai di nuovo a
Nisida, per pochi mesi, fino alla
fine di quell’anno scolastico.
La mia esperienza
nell’AIMC
• L’associazione dei Maestri Cattolici era, e
ancora lo è, un’importante
organizzazione professionale.
• Negli anni Cinquanta uomini politici
raccoglievano consenso tra gli iscritti di
questo ente. L’on. Maria Badaloni, della
democrazia cristiana, era la presidente
nazionale. Agli ambienti AIMC di Napoli
era collegata l’on. Vittoria Titomanlio,
anch’essa della DC.
• Questo ente, come tanti altri del resto,
avevano assegnati un certo numero di
corsi di scuola popolare serale dai
provveditorati, sui quali venivano
nominati iscritti indicati dalle rispettive
associazioni.
• Per due anni ebbi la nomina nei corsi
popolari serali assegnati all’AIMC
provinciale di Napoli.
Partecipazione ad
iniziative AIMC
• Ebbi modo in quegli anni di
partecipare a convegni e potei
entrare in contatto con esperti di
problemi della scuola, che allora si
ispirava alle indicazioni dei
programmi del 1955.
• Quei programmi tra l’altro
affermavano: “L’insegnamento
religioso sia considerato come
fondamento e coronamento di tutta
l’opera educativa”.
• Un punto del programma questo,
che non riuscii mai ad accettare.
1958/59
Viene bandito un concorso
magistrale
• La mia preparazione al concorso dette inizio ad un processo
di chiarificazioni che influenzarono profondamente il mio modo
di pensare la scuola.
• Scoprii l’attivismo pedagogico di John Dewey; studiai un suo
testo “Scuola e società”; seguii il commento ai programmi del
1955 di uno studioso, che, lo scoprii in seguito, durante il
fascismo aveva scritto “La didattica del razzismo” ovvero
come insegnare ai bambini che la nostra era una razza eletta,
superiore;
• Imparai ad amare G. Verga, H. C. Andersen, M. Twain;
• Nella storia della pedagogia, che a scuola non avevamo mai
studiato, scoprii che il fine dell’educazione è nella persona,
nella sua realizzazione, nello sviluppo e nella valorizzazione
dei suoi talenti naturali.
• Non avevo mai capito, all’Istituto magistrale, che per secoli gli
uomini avevano posto all’esterno il fine dell’educazione: un
modello di uomo preconfezionato da raggiungere.
• Imparai che allora l’educazione era come un “letto di Procuste”
e che poi, pensatori geniali rivoluzionarono il vecchio concetto
di fine dell’educazione, operando quella che fu definita “una
rivoluzione copernicana” nella storia della formazione
dell’uomo.
• Un pensiero commosso e grato lo devo rivolgere, a questo
punto, all’isp. Carmine Russo, che mi fece capire quanto una
scuola inadeguata non mi aveva mai offerto nella mia
formazione magistrale.
1959

• Vinsi il concorso magistrale e mi fu assegnata una


sede dove mi sembrò di continuare l’esperienza
che avevo fatto alla Casa di Rieducazione di
Nisida.
• Mi affidarono due classi, una prima e una
seconda, di circa quaranta alunni, nel Collegio “S.
Giuseppe Artigiano” di Arco Felice a Pozzuoli.
• La Casa era diretta dalle suore Corsaro. I bambini
provenivano da Napoli e dalla provincia e anche
loro erano vittime di esperienze dolorosissime:
genitori detenuti, povertà, degradazione umana,
erano le cause che li avevano portati al Collegio.
• Di uno degli alunni non si sapeva niente. Aveva
quattro anni quando fu trovato solo e piangente in
un cinema di Napoli. Agenti della polizia lo
affidarono, per disposizione prefettizia, alla
direttrice del collegio.
Il primo anno al collegio

• Il primo anno fu durissimo. Riuscii


ad ottenere solo la separazione
delle classi e lavorai in ognuna per
due ore e mezza, per complessive
cinque ore giornaliere.
Improvvisamente, per un prolasso
di una corda vocale, rimasi senza
voce. Il medico mi allontanò dalla
scuola e mi costrinse a stare senza
parlare per un mese. Alla ripresa
delle attività ebbi assicurazioni
dalla dirigente che l’anno
successivo avrei avuto solo la
classe seconda.
Attività per una libera
espressione
1960/61

• Avevo finalmente una classe sola, una


seconda, di una trentina di alunni. Avevo
riflettuto a lungo su cosa fare con i miei alunni.
Non potevo seguire gli schemi già adottati, che
si rifacevano alla scuola della mia memoria.
Dovevo offrire loro il modo di vivere la scuola
come un luogo di gratificazione e di formazione.
Mi andavo convincendo che il punto di partenza
dell’ apprendimento doveva essere il loro
vissuto, nel quale la scuola doveva portare
ordine e consapevolezza. E allora ebbi due
idee perché essi potessero raccontare le loro
storie personali e potessero esprimere con il
colore certi loro sentimenti:
1. un quaderno libero, che chiamammo “lo
specchio”, in cui si poteva scrivere quando si
voleva: ricordi, sogni, pensieri, storie inventate,
fatti osservati, discorsi ascoltati;
2. La pratica della pittura: mi procurai per loro
tutto il materiale occorrente perché potessero
pittare dei “quadri”.
Il quaderno libero
“L’aria brillava di silenzio”

• Molti furono presi dal piacere di raccontare. Alla


fine di ogni settimana mi portavo i quaderni a
casa e li leggevo soltanto. Non mi passò mai per
la testa l’idea di correggere gli errori. Però mi
appuntavo quelli più frequenti per organizzare
interventi specifici diretti a correggerli.
• Sul quaderno ad ognuno scrivevo dei miei
pensieri, una “lettera”, come risposta a certi loro
problemi, quando lo ritenevo necessario.
• E così imparai a conoscerli: le loro case, i luoghi
dei loro giochi, i loro desideri, le loro piccole
passioni, le loro famiglie, i quartieri di
provenienza.
• Spesso si esprimevano con pensieri originali,
personali.
• Una mattina, uno dei miei alunni, rimase colpito
dalla luce, dal silenzio di una strada che stava
percorrendo. Nel quaderno scrisse: “Stamattina,
mentre andavamo in chiesa, l’aria brillava di
silenzio”.
La pittura

• Mi procurai fogli per il disegno utilizzati su una sola


facciata. Nell’archivio di una scuola superiore ce ne
erano grandi quantità da buttare. Caricai pacchi enormi
sulla mia auto e li portai al collegio. Si poteva pittare
sull’altra facciata.
• Comprai i colori fondamentali in polvere e imparammo
a scioglierli in vasetti di vetro con acqua e gomma
arabica. Su quadrati di compensato, dono di una
segheria, si versava con cucchiaini che stavano in tutti i
vasetti, i colori che si desiderava usare.
• In quei momenti, ordinati, silenziosi, la nostra aula
sembrava un laboratorio del medioevo.
• Realizzarono pitture bellissime. Nel tempo di Pasqua,
mi ricordo, le crocifissioni, per le forme e i colori, erano
di una efficacia espressiva indimenticabile.
• Alla fine della pittura i vasi di vetro erano chiusi con i
tappi; i quadri, quando i colori si asciugavano, venivano
incollati con il vinavil su semplici telai, costruiti da noi
con quattro listarelle di legno. E così erano pronti per
una mostra, che ebbe luogo alla fine di ogni anno
scolastico.
L’aggiornamento
• In quegli anni l’aggiornamento
professionale non era un problema delle
scuole. Non si faceva. Ricordo un
incontro con esperti mandati dal
Ministero in un teatro, dove riunirono
insegnanti di tutta l’Area Flegrea. Non so
quanto stemmo a sentire quelle… alte
comunicazioni. In quell’occasione potei
incontrare e ascoltare uno degli Agazzi.
Non ricordo il nome. Tuttavia non credo
che quell’evento abbia migliorato il mio
modo di fare scuola.
• Chi mi aprì nuovi orizzonti fu Guido Petter
con le “Conversazioni psicologiche con
gli insegnanti”, testo che comprai con i
miei soldi e che lessi con grandissimo
interesse.
Guido Petter

• Mi chiarì le idee sul concetto di motivazione che


è alla base di ogni processo conoscitivo; mi
insegnò che c’è motivazione quando
nell’individuo “è presente una certa forza che lo
induce a svolgere una particolare attività”.
• Un’altra scoperta fu per me importante:
l’atteggiamento di quiete intellettuale che
caratterizza il bambino di fronte alla realtà che lo
circonda. Egli di solito non si pone problemi. Vive
la sua vita con gli altri, tante cose accadono nella
natura e tra gli uomini, ma raramente si chiede il
perché di quegli accadimenti.
• Mi convinsi allora che la scuola aveva due
compiti fondamentali:
1. fare in modo che il bambino raccontasse la sua
vita, il suo vissuto;
2. mettere in crisi con domande, ponendo problemi,
quella quiete intellettuale che il bambino mostra
di avere nel rapporto con il suo mondo.
Gli altri insegnamenti

• Il quaderno libero mi raccontava le


loro esperienze; la pittura le loro
emozioni. Per tutto il resto: la storia
e la geografia, le scienze, la
matematica, la lingua italiana,
sentivo che dovevo sostenerle con
motivazioni positive che scoprivo
sempre nella loro vita. Li incalzavo
con domande, con problemi che li
mettevano in “crisi”.
• Già allora intuivo, lo capii meglio in
seguito, che le discipline erano
strumenti conoscitivi, utili ad
interpretare la realtà. Da vari punti
di vista.
Da un collegio
a un Villaggio
• Un anno cambiammo sede. Si
concluse l’esperienza del
“Villaggio del Fanciullo” di
Pozzuoli e nella sua struttura ci
trasferimmo tutti: suore, ragazzi e
maestri da “S. Giuseppe
Artigiano”.
• Là perfezionai la mia esperienza
con la pubblicazione di testi
raccolti in un fascicolo che
raccontavano la nostra storia. Lo
stampavamo periodicamente, con
un vecchio ciclostile a mano, che
ci regalò un notaio.
La stampa
• Fu un’esperienza che contribuì in modo notevole alla
crescita dei ragazzi, alla loro formazione.
• Bisognava scegliere il testo da pubblicare, tra i più
pregnanti che raccontavano la nostra vita o che
trattavano argomenti da noi scelti;
• Insieme dovevamo renderlo chiaro, corretto dal punto
di vista della lingua;
• occorreva scriverlo sulle matrici del ciclostile e
illustrarlo con immagini appropriate. Dovemmo
imparare ad usare una “penna” che terminava con una
punta metallica arrotondata (lo stilo).
• A questo punto si montava la matrice sul ciclostile e si
stampava.
• In questo compito finale era impegnato un gruppo di
alunni, che cambiava ad ogni testo nuovo secondo un
turno programmato:
• nel gruppo c’era chi riforniva di carta il ciclostile per la
stampa;
• chi girava la manovella;
• chi raccoglieva i fogli stampati;
• chi stendeva l’inchiostro sul rullo che faceva ruotare la
matrice.
• Realizzavo con quella pratica una prima forma di
cooperazione che col tempo influenzò profondamente il
mio modo di fare scuola.
1962/1977

• In questi anni la scuola italiana trasformò profondamente la sua


fisionomia.
• Per accedere alla Scuola Media Unica (dall’anno scolastico 1962/63)
non era più necessario l’esame di ammissione; per la formazione di
base erano sufficienti gli otto anni di scuola obbligatoria previsti dalla
Costituzione;
• la contestazione del 1968 mette in crisi le nostre certezze pedagogiche
e didattiche. In quel tempo Mario Lodi, Bruno Ciari, Fiorenzo Alfieri,
ispirandosi alla Pedagogia Popolare di C. Freinet, realizzano una
scuola dove il bambino è protagonista:
riflette, discute, matura proprie valutazioni, esprime liberi giudizi,
avanza concrete proposte di lavoro.
• I Decreti delegati (Legge 30 luglio 1973, n. 477) istituiscono gli Organi
Collegiali e prevedono nuove norme di stato giuridico, tra cui l’obbligo
della laurea anche per i maestri;
• vengono soppresse le scuole speciali e le classi differenziali, con
l’inserimento degli alunni con handicap nella scuola di tutti;
• la legge 517/1977 dispone per tutti i docenti l’impegno della
programmazione; stabilisce nuove modalità di valutazione. Il bambino,
con le sue personali caratteristiche e le sue reali esigenze sulle quali
misurare il lavoro didattico, viene prima del programma ministeriale, al
quale, precedentemente, tutti dovevano adeguarsi. La programmazione
mira, invece, a valorizzare le differenti capacità, individualizzando, per
quanto possibile, i percorsi di apprendimento.
Fine della mia esperienza
al “Villaggio del Fanciullo”
• Nel 1974 mi trasferii da questo
plesso scolastico alla conclusione
del ciclo. Io e i miei alunni
andammo via insieme. La mia
nuova sede fu la scuola “De
Amicis” di via Terracciano, a
Pozzuoli. Un vecchio edificio con
una quindicina di aule ampie, dal
soffitto altissimo; il pavimento e le
pareti non formavano un angolo
retto: erano congiunti da una
mattonella lunga e di forma curva,
che consentiva il passaggio dello
straccio per la pulizia. Soluzioni
previste dalle vecchie norme di
igiene scolastica.
• Non ne vidi più aule cosiffatte.
Alla scuola “De Amicis”

• In quegli anni c’era il maestro unico; c’erano i


doppi turni:
8.30/12.30 – 13.00/17.00.
• Durante l’anno le classi cambiavano più volte il
turno, secondo un calendario programmato. Io e
mia moglie, già di ruolo in quella scuola, ci
facemmo assegnare la stessa aula.
• Avevamo esperienze simili. Avevamo conosciuto
il MCE (Movimento di Cooperazione Educativa),
avevamo letto gli stessi libri: Freinet, Ciari, Lodi, la
rivista e i testi del MCE; avevamo incontrato a
Napoli rappresentanti del MCE e con loro vissuto
momenti di formazione.
• Decidemmo di avviare un’esperienza di
cooperazione educativa con le nostre classi.
• Comunicammo la nostra intenzione alla Direzione
e al Collegio dei docenti. Non avemmo
opposizioni.
L’aula

• Ci furono assegnati gruppi di ventiquattro alunni,


maschi e femmine. Sistemammo i banchetti
monoposto per gruppi di quattro lungo le pareti
dell’aula, in modo da ricavare al centro uno spazio
per le “assemblee” e per i momenti di libera
espressione, di racconto del proprio vissuto.
• La scrivania fu accostata alla parete e divenne un
piano di lavoro. Organizzammo l’angolo della
stampa intorno alla cassettiera della tipografia
“Freinet” e al limografo, che all’inizio usammo al
posto del ciclostile del notaio. Lo avremmo
recuperato in seguito.
• Tutto il materiale della pittura venne posto in un
altro angolo.
• In una grossa cesta da fruttivendolo
raccogliemmo pezzi di stoffa colorata, dono di un
tappezziere amico.
• Nell’armadietto di classe sistemammo un buon
numero di libri che recuperammo dalla biblioteca
della scuola.
La pianta della nostra aula
come la disegnammo
• Sul pavimento
c’erano mattonelle
quadrate. Le
contammo tutte.
Mettemmo il piano
dei banchi sul
pavimento e
contammo il
numero delle
mattonelle che
copriva. Su un
foglio quadrettato
di quaderno, della
stessa forma
dell’aula e con lo
stesso numero
delle mattonelle
del pavimento,
disegnammo i
banchi e la
scrivania
esattamente al
loro posto.
La prima assemblea con i
genitori

• I genitori erano di casa nella scuola


dopo i decreti delegati del 1973 e
l’elezione degli Organi Collegiali. Ci
incontrammo con i genitori delle
due classi e, io e Anna, illustrammo
loro il nostro progetto educativo.
• Comunicammo che avevamo
intenzione di organizzare la classe
come una cooperativa: gli alunni, i
loro genitori e gli insegnanti ne
sarebbero stati i principali soci.
Le caratteristiche del
nostro progetto
cooperativo

• Indicammo i pilastri fondamentali della nostra


attività didattica:
• Il testo libero
• la messa a punto del testo scelto per la stampa;
• la stampa del giornalino;
• la classe come centro di ricerca;
• la corrispondenza scolastica;
• l’autogestione della cooperativa e la cassa di
classe;
• gli incarichi dei gruppi per la gestione della
classe;
• i piani personalizzati per l’apprendimento delle
tecniche di base della lingua e dell’aritmetica.
Il testo libero

• Il testo libero, il racconto del proprio


vissuto, fu indicato come il punto di
partenza delle nostre attività
quotidiane.
• Ogni giorno sarebbe stato scelto il
testo “più interessante”.
• A questo punto erano previsti due
sviluppi delle attività:
• La stampa sul giornalino del testo
scelto;
• L’avvio di una ricerca per “capire”,
quando il testo poneva un
problema.
Cosa intendevamo
pubblicare
sul giornalino
• Storie inventate
• Riscritture di storie lette
• Poesie
• Conte e filastrocche in dialetto
• Lettere della corrispondenza scolastica.
Altre lettere.
• Sogni
• Ricordi
• Esperienze e riflessioni
• Risultati e scoperte di una ricerca
• documenti
La messa a punto del testo
scelto per la stampa

• Il testo da pubblicare veniva


copiato sulla vecchia lavagna o
su una lavagna a fogli (che ci
costruì in seguito il papà di
un’alunna: Lucia) e là facevamo
tutte le correzioni per renderlo il
più chiaro possibile.
• La messa a punto, pertanto,
offriva due opportunità formative
importanti:
1. affinava le competenze
ortografiche, grammaticali e di
stile della classe;
2. faceva sentire tutti compartecipi
di quella scrittura.
Il limografo
• Il rullo stende inchiostro
sulla tela.
Un sistema semplice per
stampare
Il limografo
• Due piccoli telai di legno rettangolari,
costruiti con listarelle di legno,
incernierati su un lato corto, più grandi di
un foglio A4. Uno dei rettangoli deve
essere coperto da un foglio di formica,
l’altro da un pezzo di tela. Formica e tela
devono coprire esattamente i due
rettangoli e combaciare.
• Per stampare si poggia un foglio bianco
sulla formica, su di esso si adagia la
matrice dalla parte dell’incisione, si
chiude il telaio, si versa inchiostro per
ciclostile sulla tela e si passa un rullo per
stenderlo e farlo passare attraverso la
tela e le incisioni della matrice.
• Sul foglio poggiato sulla formica si vedrà
la stampa del testo; sulla tela resterà
attaccata la matrice, pronta a stampare
altri fogli.
Il complessino tipografico
Freinet
• Lo indicammo tra i sussidi didattici da
acquistare. Neanche in questo caso a
scuola ci furono opposizioni. La maggior
parte dei colleghi erano soddisfatti delle
loro tradizionali tecniche didattiche. Non
amavano avventurarsi in esperienze
nuove, né desideravano utilizzare sussidi
diversi da quelli che adottavano da
sempre. Il libro di lettura, il sussidiario e
qualche cartina geografica erano gli
strumenti fondamentali della loro azione
didattica.
• La cassettiera con tutti i caratteri di
piombo, la pesante piastra con il rullo, su
cui si componevano le parole dei testi,
arrivò in classe.
• La curiosità dei ragazzi fu enorme.
Vollero subito imparare a stampare con
quel sistema nuovo.
Uno gruppo al lavoro.
Quattro alunni impegnati.
1. Composizione del testo
scelto e corretto con i
caratteri di piombo;
2. sistemazione e bloccaggio
dei caratteri sulla piastra;
3. un alunno inchiostra i
caratteri con un rullo;
4. un altro mette un foglio sui
caratteri inchiostrati;
5. un terzo fa passare il rullo
sul foglio;
6. un quarto ritira il foglio
stampato e lo mette da
parte ad asciugare.
Tutti gli alunni avranno un
foglio stampato. In una
cartellina formeranno, a
poco a poco, un originale
libro di lettura.
I primi testi

• Erano semplicissimi. A volte


costituiti da una parola che
sintetizzava un’esperienza. La
composizione e la stampa
attivarono quel processo
naturale di apprendimento
della scrittura e della lettura,
che in altri casi può risultare
astratto, noioso e privo di
motivazione. Noi partivamo da
nostre esperienze e volevamo
comunicarle agli altri.
I cartelloni

• I testi stampati venivano riprodotti in


grande su cartelloni, completati dal
disegno dell’evento, ed esposti sulle
pareti dell’aula. Erano i nostri punti di
riferimento: per la scomposizione delle
parole in lettere, per la ricerca di altre
parole che cominciavano con la stessa
lettera. Gli esercizi di riconoscimento di
lettere e parole erano tantissimi, vari. Le
parole stampate, composte per un
processo di ricerca tra i vari caratteri di
piombo, venivano conservate in buste e
tirate fuori, durante le esercitazioni, per
una loro rilettura, rintracciandole nei
cartelloni di riferimento.
Una delle prime storie inventate
e stampate. Il primo libro

• “Il volo dei cartelloni”


• Era inverno. In aula era accesa una stufa.
Sulla stufa i cartelloni appesi alla parete
si agitavano.
• “Chi muove i cartelloni?”, si chiesero tutti.
• Fu l’inizio della prima ricerca scientifica.
Furono formulate delle ipotesi e verificate
con “esperimenti”.
• Scoprimmo che il calore della stufa
faceva muovere l’aria e questa, salendo
in alto, agitava i cartelloni.
• Qualcuno disse ridendo: “I cartelloni se
ne volano via. Scappano dalla scuola!”.
• E inventammo una storia.
Il volo dei cartelloni

• La stufa con un soffio forte liberò


i cartelloni.
• Volarono via dall’aula per la
finestra.
• Dal cielo videro la scuola piccola,
le case piccole, gli alberi, i
bambini.
• Incontrarono il sole.
• - Ciao, sole. Vieni con noi.
• - Non posso. Devo riscaldare il
mondo. Tornate in aula. I bambini
da voi imparano presto.
• I cartelloni tornarono in aula e si
misero al loro posto.

• Altri finali pensati…


1. Non tornarono in aula. Se ne
andarono in giro per il mondo.
2. Non tornarono in aula, ma dei
bambini li catturarono con le
corde.
Il punto di partenza
della nostra vita a scuola

• Si partiva da NOI, dal nostro mondo più vicino.


• Su un’intera parete dell’aula schierammo le foto di
tutti i ragazzi. Sotto ogni foto disegnammo una
colonna, su grandi fogli imballaggio, dentro cui
registrammo tante informazioni. Queste erano
indicate a sinistra, all’inizio di righe, che
incrociandosi con le linee delle colonne
formavano tante caselle in cui si scrivevano i dati:
data e luogo di nascita dell’alunno, del padre,
della mamma; numero dei figli; mestiere del padre
e della mamma; numero dei nonni, luogo e data di
nascita dei nonni, numero dei figli dei nonni,
mestiere dei nonni. E altri dati.
• Sulle colonne si leggeva quanto riguardava il
singolo alunno; sulle righe era possibile fare
confronti di dati.
• L’osservazione dei dati ci consentiva la
costruzione di grafici e la stesura di relazioni, che
venivano pubblicate sul giornalino.
• Il primo titolo del giornalino fu “NOI”.
Esempio di grafico
pubblicato sul giornalino
• Questo
grafico
registra il
luogo della
nascita di
ogni alunno.
• In casa:
11
• In clinica:
8
• In ospedale:
5
• Seguivano le
riflessioni
degli alunni.
Il tabellone del tempo

• Sulla lavagna a fogli, all’inizio di ogni


settimana, veniva disegnata una tabella a
doppia entrata. Nella parte superiore
erano indicati i giorni di scuola della
settimana; a sinistra, tre simboli
disegnati:
• Nuvole per indicare cielo nuvoloso;
• Nuvole e sole per indicare cielo
variabile;
• Sole per indicare cielo sereno.
• Si potevano fare osservazioni sui cieli
della settimana e su quelli del mese.
• Si costruivano semplici grafici, si
scrivevano relazioni.
• Il tutto era pubblicato sul giornalino.
Il cielo osservato in
quattro mesi
• Nei mesi di
ottobre,novembre,
dicembre e gennaio
abbiamo visto più
cieli nuvolosi e misti
che sereni.
• La terra sta girando
ancora in quegli
spazi dove fa freddo.
• Osservammo tutti
insieme e
pubblicammo su
“NOI”.
La nostra cassa sociale
• La scuola in quel tempo disponeva di
scarsi fondi per il materiale di facile
consumo. A noi necessitavano risme di
carta per la stampa, inchiostro tipografico
e per ciclostile, matrici, colori in polvere,
pennelli, ed altro. Nella prima assemblea
con i genitori ponemmo la questione di
una piccola raccolta di fondi, “una tassa”,
la chiamammo, che i soci della
cooperativa /classe dovevano versare
ogni lunedì. Dei movimenti della cassa
avremmo dato conto sul giornalino.
• I genitori furono d’accordo e noi, i
docenti, discutemmo con i ragazzi del
problema. I ragazzi versavano in cassa
100 lire ogni lunedì; il maestro 1000 lire
insieme a tante altre spese che non
venivano registrate. Con la tassa
riuscimmo a fare quasi tutte le spese
necessarie.
I conti della nostra
cassa
• Oggi abbiamo fatto i conti
della nostra cassa.
• Abbiamo:
• 18 monete da L 100
• 39 monete da L 50
• 26 monete da L 10
• 5 monete da L 500
• 2 biglietti da L 1000
• Abbiamo fatto i conti sul
nostro calcolatore e
abbiamo scoperto che in
cassa ci sono:
• 8 mille lire
• 5 cento lire
• 10 lire
• (dal giornalino “NOI”, n. 28
del 29 gennaio 1976)
Resoconto dopo alcune
spese
• Ieri avevamo in cassa L 8.510
• 8 mille lire
• 5 cento lire
• 10 lire
• Oggi abbiamo tolto dal tabellone della cassa i
soldi spesi per i francobolli e per lo sviluppo delle
foto:
• 1 mille lire
• 3 cento lire (mille e trecento lire)
• Ora in cassa ci sono:
• 7 mille lire
• 2 cento lire
• 10 lire
• L 7.210 (settemila duecento e dieci lire)
• (dal giornalino “NOI”, n. 28, del 30 gennaio 1976)
I nostri calcoli
• Erano vivi: nascevano da situazioni
di vita scolastica.
• Il calcolo aritmetico era una pratica,
una tecnica, che bisognava saper
eseguire per risolvere i nostri
problemi pratici.
• Le esercitazioni nel calcolo scritto e
orale, necessarie, non erano
sentite come esercitazioni astratte,
ma come preparazione alla vita di
ogni giorno.
• A tutti sarebbe toccato il compito
della gestione della cassa. In quel
caso era fondamentale quella
specifica competenza aritmetica.
Gli incarichi dei gruppi per la
gestione della classe
• La classe era divisa in gruppi di quattro alunni; ogni gruppo aveva un
incarico che durava il tempo di una settimana. Il lunedì si cambiava tipo
di incarico.
• C’era
• il gruppo della cassa, che gestiva anche il “negozio”,
• il gruppo della stampa,
• quello che curava la pulizia e l’ordine delle nostre cose,
• quello che prestava e ritirava i libri della nostra biblioteca,
• il gruppo del tempo meteorologico,
• quello che registrava gli assenti in un quaderno e che segnava la data
alla lavagna.
• Quest’ultimo gruppo girava faccia al muro la foto degli assenti e li
elencava nell’apposito quaderno.
• Alla fine della settimana ogni gruppo faceva una breve relazione di
consegna alla classe e al gruppo di turno che succedeva.
• Il “negozio” era un’esperienza di compravendita che procurava piccoli
guadagni alla cassa della classe.
• Durante l’intervallo si vendevano a prezzi convenienti biscotti e
merendine di buona qualità, scelti da noi, che compravamo all’ingrosso
investendo parte del capitale sociale. In questo eravamo sostenuti dai
genitori. Spesso erano loro che compravano la merce.
• Anche il “NEGOZIO” finiva per essere un’esperienza di calcolo vivo e
formativo. I ragazzi vivevano nelle loro vita di classe/cooperativa il
senso concreto del concetto di SPESA, GUADAGNO, RICAVO.
La corrispondenza
scolastica

• La nostra classe entrò in corrispondenza con una classe di Roma, che


si trovava in una scuola statale della Borgata del Trullo. La scuola
“Collodi”..
• Quest’abbinamento fortunato fu effettuato per caso dal
MCE(Movimento di Cooperazione Educativa) al quale da alcuni anni mi
ero iscritto. Avevo anche frequentato corsi di aggiornamento a Napoli.
Là ero entrato in contatto con maestri che, come me, si ispiravano alla
pedagogia popolare di C. Freinet e alla scuola di B. Ciari, di M. Lodi, di
F. Alfieri, di F. Tonucci. Ci incontravamo alla Facoltà di Fisica
(Università Federico II) e ci comunicavamo le nostre esperienze,
sostenendoci così l’un l’altro, e socializzando le soluzioni che
riuscivamo a trovare ai problemi che ci poneva la nostra insolita vita a
scuola.
• La classe della Borgata del Trullo aveva come insegnante Marialuisa
Bigiaretti, un mito nel MCE. Gianni Rodari in quella Borgata e con gli
alunni della Bigiaretti, aveva scritto una dei suoi più famosi racconti: “LA
TORTA IN CIELO”.
• I nostri alunni si scrivevano lettere che spedivamo tramite posta
scolastica. Partivano in grosse buste con il timbro della scuola e la
spedizione, pertanto, era gratuita. Il tempo che ci impiegava la posta
era lunghissimo. Quando arrivavano i plichi, dopo attese estenuanti, era
una festa per tutti noi.
• Quell’anno raggiunsi la Borgata del Trullo a Roma. Potei toccare con
mano la dimensione fantastica, unica, originale, della scuola della
Bigiaretti. Tutta il plesso scolastico era tappezzato di pitture murali,
eseguite su grandi fogli dai ragazzi del Trullo di Marialuisa. Erano di
una bellezza indimenticabile. Tutta l’esperienza di quella maestra era di
un livello altissimo, straordinario.
Dalla Scuola “Collodi”
Borgata del Trullo
Roma
Da Pozzuoli a Roma
1975 – classe seconda
• Cara Monica,
• ti piacciono i gatti? E ti piacciono i
cani? E ti piacciono i colombi? Ti
piace avere un colombo maschio e
uno femmina così fanno le uova e
così fanno altri figli e si sposano e
fanno ancora i figli e va sempre
così? Io lo tenevo un colombo. È
scappato, poveretto. Ogni mattina
andavo a comprare il mangime.
• Ciao
• Adele
Da Roma a Pozzuoli
1975 – classe seconda
• Caro Lello,
• noi stiamo leggendo una bella
leggenda che parla di Apollo e
Giove e Pan. Apollo decide di fare
una gara, per vedere chi suonava
meglio e chiamano il re Mida a fare
il giudice. Pan aveva cantato una
bella canzone, ma Apollo aveva
cantato meglio. Re Mida non aveva
capito e allora ha detto che era più
bella la canzone di Pan. Apollo gli
ha fatto crescere le orecchie di
asino.
• Ciao
• Serena
I piani personalizzati per
l’apprendimento delle tecniche di
base della lingua e dell’aritmetica.

• Le esercitazioni in aritmetica e in lingua sono


fondamentali per l’apprendimento di certe
tecniche di base. Da Conegliano Veneto, dove il
MCE aveva un deposito di sussidi didattici, mi feci
spedire, a spese mie, gli schedari autocorrettivi di
aritmetica, di ortografia e di grammatica. Sulla
base delle mie osservazioni, delle registrazioni
degli errori più ricorrenti e di certe debolezze
evidenziate nel calcolo, si potevano concordare
con i ragazzi semplici piani di attività di
rafforzamento.
• Si individuavano delle schede su cui bisognava
lavorare, il risultato del compito eseguito veniva
confrontato sulla scheda autocorrettiva dove si
trovavano gli esercizi già svolti. Si lavorava senza
ansia. Ogni ragazzo sapeva da solo se aveva
lavorato bene o se doveva ripetere gli esercizi.
• Alla fine di questa esercitazione bisognava
eseguire delle prove di verifica. Solo in questo
caso era necessario sottoporre il risultato
all’attenzione del maestro.
La lettura
• Tutto poteva essere letto e tutti potevano leggere se
avevano qualcosa da farci ascoltare: articoli di giornali
(Batyr, l’elefante che parlava, la strage dei colombi di
Siena, il rapimento di Moro, il terremoto del Friuli, la
rapina nel Banco di Napoli… ) storie inventate, parti dei
libri della biblioteca.
• E poi c’erano le letture del maestro. Leggevo tutto
quello che amavo:
• “Le fiabe italiane” di I. Calvino,
• Rikki Tikki Tavi di Rudyard Kipling:
• “Questa è la storia della grande guerra che Rikki Tikki
Tavi combatté da solo, nella stanza da bagno del
grande ...”.
• Questo racconto li avvinceva. La lotta della mangusta
contro Nag e Nagaina era per loro un evento epico
appassionante.
• Un anno ai ragazzi del Collegio lessi “il vecchio e il
mare” di E. Hemingway, la lotta di Santiago contro i
pescecani che gli divorano l’enorme splendido pesce
che aveva vinto nelle acque della corrente del Golfo, a
Cuba.
• … «Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe
profonde alla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del
cancro della pelle provocato dai riflessi del sole sul
mare tropicale e le mani avevano cicatrici profonde,
che gli erano venute trattenendo con le lenze i pesci
pesanti»…
La nostra storia
e il mondo intorno a noi
• Ci interessava capire la nostra
storia e quello che ci accadeva
intorno.
• La storia di tutti.
• I bambini si devono fare perché
deve continuare la vita. Per fare i
figli ci vuole una coppia: un
maschio e una femmina che si
piacciono, che si vogliono bene,
che si amano. Ma questo non
basta. La coppia deve avere un
lavoro e una casa.
• Stavamo nella pancia di
mamma.
• Quando un bambino sta nella
pancia, si gira e si muove
nell’acqua. Un bambino nella
pancia non respira come noi, ma
riceve l’ossigeno dal sangue
della sua mamma. La madre
respira, il sangue piglia
l’ossigeno e lo porta per tutto il
suo corpo e lo porta pure al
bambino attraverso il cordone
ombelicale. Il bambino nella
pancia della mamma sta sicuro
nel caldo.
Il latte

• Appena il bambino nasce,


vuole subito il caldo della
mamma e poi vuole il latte.
Egli non può mangiare
roba dura perché non tiene
i denti. Quando vuole
succhiare dal petto della
mamma piange. La
mamma se ne accorge
subito che vuole il latte. Il
bambino quando succhia
al caldo del corpo della
mamma, sulle labbra sente
un solletico assai
piacevole, sente il battito
del cuore e l’odore della
mamma. La mamma lo
accarezza, il bambino
succhia il latte e sa che è
la sua mamma.
• (Scritto da tutta la classe)
Una ninna nanna in
dialetto
• E nonna nonna nunnarella
• ‘o lupo s’ha mangiat’ ‘a pucurella
• Ué pucurella mia comme faciste
• Quanno ‘mmocca a lu lupo te veriste?
• ‘mmocca a lu lupo e ‘mmocca a lu lione
• Addurmema a sta ninna pe’ doie ore
• Doie ore sole
• Doie ore sante
• Adduormema sta ninna ch’è na santa.
• E nonna nonna
• Mo vene ‘o mammone
• Mo vene chistu viecchio ‘mbriacone
• E ‘mbriacone mio
• ‘mbriac’ ‘a ggente
• ‘mbriacame sta ninna
• Ch’è ‘nnucente.
• (Ricordata dalla nonna di Roberta)
Scoperte
dopo “la storia di tutti”

• Il bambino impara a
camminare a 12 mesi
circa;
• A quell’età non sanno
parlare bene. Con una
parola si fanno capire:
• “pane” significa: voglio il
pane;
• “bua”: mi sono fatto male.
• Nessuno insegna ai
bambini a parlare:
imparano da soli.
Ascoltando, odorando,
guardando, toccando,
assaggiando,
muovendosi, facendo
gesti.
TuttiNoi
Ricordi dei genitori
• Eravamo curiosi di
conoscere com’era stata
la vita della loro infanzia.
Mamma Dora raccontò
che era nata a Parigi
perché il padre era
emigrato in quel paese
per fare fortuna. Un
brutto giorno scoppiò la
guerra. I francesi li
costrinsero a tornare in
Italia. Dal treno videro
nelle stazioni soldati
armati. Arrivati in Italia
trovarono che ci voleva
una tessera per
comprare il pane.
• Allora mamma Dora
aveva sei anni.
I ricordi di nonna
Nunzia
• Nonna Nunzia nacque a Pozzuoli
nel 1898.
• A 6 anni lavorava in campagna con il
padre.
• A 15 anni si fidanzò in casa con un
sellaio di nome Felice.
• Si sposò alla fine della prima guerra
mondiale, quando nonno Felice
tornò dalla guerra.
• Ai suoi figli dette il suo latte fino a
due, tre anni. Dopo mangiavano
tutto quello che si cucinava in casa.
Allora una fetta di carne costava 6
soldi. Il pane lo faceva lei in casa e
sapeva preparare pure il lievito. Il
fornaio andava per le case a
prendere l’impasto cresciuto e lo
portava a cuocere nel forno a legna.
• Allora non c’era la radio. Un uomo
spingeva un pianino per le vie del
paese e faceva sentire la musica
delle canzoni di quel tempo.
• Vendeva pure le parole delle
canzoni.
• Nonna Nunzia da piccola vedeva il
teatro dei pupi. Quando si fece più
grande andava a vedere i film muti.
Certe volte li facevano vedere nella
piazza del nostro paese.
Ancora nonna Nunzia
• Lavava i panni in un
recipiente di terracotta (‘o
cufanaturo) con un
sapone molle e scuro e i
panni li strofinava sopra
una tavoletta di legno.
Per fare bianco il bucato
usava o la cenere del
focolare o la liscivia. Non
aveva acqua in casa:
gliela prendevano alle
fontane pubbliche i
ragazzi che lavoravano
nella bottega del marito.
• In casa non c’era la luce
elettrica. Di sera
accendevano o le
candele o il lume a
petrolio o quello a olio.
• Allora non si vedeva la
televisione né si sentiva
la radio. Le ragazze
ricamavano la biancheria
del corredo e parlavano
con i genitori e con i
fratelli alla luce delle
lampade a petrolio.
I lampioni

• La sera per la via ci


stavano i lampioni a
petrolio che illuminavano.
Ad accenderli veniva un
uomo con uno scalino:
saliva per mettere il
petrolio nei lampioni.
• Per la via non passavano
le macchine, ma i carretti
tirati da due cavalli. In quel
tempo si incominciavano a
costruire le prime
macchine della FIAT.
• Pozzuoli al tempo di nonna
Nunzia era allagato nella
zona del porto. Le persone
camminavano su
passerelle di legno ai lati
delle vie.
• Abbiamo visto nelle
fotografie del tempo degli
uomini che potevano
portare una barca fino alla
piazza della chiesa di S.
Maria.
Certi mestieri
che oggi non si fanno più

• ‘A capera: una donna che


andava per le case ad
aggiustare i capelli alle
femmine.
• ‘O molafuorbice: affilava
coltelli e forbici. Girava per le
vie del paese.
• ‘O piattaro: aggiustava i
piatti rotti. Li aggiustava così:
prendeva il piatto rotto e
faceva dei buchi(con un
trapano) lungo la spaccatura.
Nei buchi infilava del ferro
filato e poi stringeva con le
tenaglie. Tra i due pezzi del
piatto, poi, metteva del
cemento.
• ‘O ‘mbrellaro: aggiustava gli
ombrelli.
• ‘O ‘mpagliasegge:
aggiustava le sedie e le
impagliava: ricopriva il sedile
di fili di paglia intrecciata.
Nonna Nunzia ricorda

• Alla spiaggia era uno scandalo vedere le


donne abbracciate con l’uomo. Dovevano fare il
bagno divisi: le donne da una parte e i maschi
dall’altra. Le femmine avevano un costume
formato da un pantalone che arrivava alle gambe
e un grosso camicione. I maschi indossavano
pantaloncini alla coscia e canottiera.
• In Italia non c’era la Repubblica come oggi:
c’era il RE.
• A scuola andavanp pochissime persone. Il
marito di nonna Nunzia non sapeva scrivere. Al
fronte si faceva scrivere le lettere dai suoi
compagni.
• Le guerre - Il marito di nonna Nunzia, nonno
Felice, fece la guerra di Abissinia e la prima
guerra mondiale.
• Le medicine e i medici - Allora non
c’era la MUTUA. I medici e le medicine bisognava
pagarli.
Un “quadro” del tempo
delle mamme e dei papà
• Dai ricordi di mamma Dora e
di papà Nino abbiamo capito
che circa quaranta anni fa:
• Era il tempo della radio
• Del cinema parlato
• Dell’automobile
• Dell’aeroplano
• Dei fascisti e dei nazisti
• Della seconda guerra
mondiale
• Era il tempo dei partigiani
• Degli americani in Italia
• Della pennicellina
• Era il tempo della fine dei
RE in Italia e della nascita
della Repubblica
• Era il tempo della BOMBA
ATOMICA
Un “quadro” del tempo
dei nonni
• Dai ricordi di Nonna nunzia
abbiamo capito che circa settanta
anni fa:
• Era il tempo dei carretti e dei cavalli
• Delle lampade a olio
• Dei lampioni a petrolio
• Delle case senza acqua, senza
bagno
• Era il tempo del pianino che
vendeva le canzoni
• Era il tempo del teatro dei pupi
• Del cinema muto
• Delle prime automobili
• Era il tempo dei RE
• Allora si pagavano medici e
medicine
• Non c’era lavoro per tutti. Migliaia di
italiani più poveri andavano via
lontano a cercare lavoro
• Era il tempo della guerra di
Abissinia e della prima guerra
mondiale.
Un “quadro” del nostro
tempo
• E facemmo un confronto
con “OGGI”:
• È il tempo della TV
• Dei missili
• Dei viaggi nello spazio e
sulla luna
• È il tempo dei cervelli
elettronici
• Degli aerei supersonici
• Dei trapianti
• È il tempo dei jeans
• Dei detersivi e delle
lavatrici
• Dei supermercati
• Ma è anche il tempo dei
rapimenti
• Del mare inquinato
• Della bomba H
Il mondo cambia
• Tutto cambia
• Il mondo cambia tutto
• Cambiano tutte le cose
• Che prima stavano
• E ora non ci stanno più
• Cambiano i saponi
• I vestiti
• I bagni
• E tutto ciò che sta nel
mondo oggi
• È diverso da prima
• Quello di prima oggi è antico
• Il mondo di oggi
• Un giorno
• Anche questo
• Sarà antico
• (un testo libero di Adele)
I quadri di civiltà

• Partivamo sempre da NOI, dal più vicino, nel rispetto però


della metodologia della ricerca storica.
• All’inizio lavorammo sulla memoria e sui testimoni, per
passare poi alle fonti scritte, ai documenti da leggere, da
studiare.
• E su questi (documenti storici scritti, quadri, disegni di oggetti
d’epoca, libri… ) costruimmo un grande quadro murale, sulla
falsariga di quello che si riferiva alla vita dei ragazzi, dove,
nelle colonne rappresentammo le varie epoche della storia
(dalla preistoria ai nostri giorni); sulle righe indicammo gli
aspetti fondamentali della vita umana: il cibo, i vestiti, le case,
il culto dei morti, le armi, il lavoro, la religione, l’arte, i grandi
monumenti.
• L’osservazione del tabellone favoriva riflessioni sulla natura
dell’uomo e sui suoi cambiamenti nello scorrere del tempo.
• Le scoperte che facevamo, osservando sul tabellone il
PROGRESSO dell’uomo, le pubblicavamo sul giornalino, che
intanto aveva cambiato il titolo della testata. Non era più NOI,
ma NOI E VOI, decidemmo di intitolarlo.
• Lo sguardo dal nostro mondo si allargava agli altri, a tutti quelli
che vivevano intorno a noi e con noi.
Dalla pianta della classe
alla mappa del nostro
quartiere
• Dalla piantina della classe, che
costruimmo contando le mattonelle del
pavimento, cominciò a nascere nei
ragazzi una prima idea di rapporto: la
mattonella (20X20 cm) poteva essere
rappresentata con il quadretto del
quaderno (della stessa forma) che
misurava 1X1 cm.
• A questo punto decidemmo di misurare
la scuola e lo spazio esterno per
rappresentarla in una mappa. In questo
periodo conoscevamo le misure di
lunghezza e avevamo tra i sussidi una
ruota metrica che aveva la
circonferenza lunga un metro. Tenuta
per un manico, girava per terra come
una ruota di bicicletta. Ogni giro
completo valeva un metro. Misurammo
ogni lato della scuola e del cortile e poi
riportammo il tutto sui quadretti dei
quadernoni.
• Sulle mappe municipali rintracciammo il
nostro quartiere e riuscimmo a calcolare
la misura reale dei palazzi e delle vie
rappresentate, in base alla scala
indicata.
• Dopo questa esperienza la scala delle
carte geografiche fu compresa
abbastanza agevolmente. E anche la
necessità di orientarla sui punti
cardinali.
I fenomeni della natura

• Ogni fenomeno osservato, fin


dalla prima classe, diventava un
“indovinello” da risolvere. I
ragazzi venivano stimolati con
domande, invitati a fare delle
“ipotesi”. Proprio questo termine
usavamo, ed anche “verifichiamo”
e “esperimento”.
• Questo successe quando
scoprirono che l’aria calda della
stufa muoveva i cartelloni;
• quando notarono che i pesci
vivono nell’acqua e gli animali e
le piante sulla terra, e che tutti gli
esseri viventi hanno bisogno di
ossigeno;
• quando videro cadere le foglie dei
gelsi nel nostro cortile;
• quando collegammo questo
fenomeno al sole e scrivemmo,
dopo aver ragionato e letto nei
libri:
• “La terra gira intorno al sole come
una nave spaziale. Ci vuole un
anno per un giro completo.
Quando la terra passa per il posto
del freddo, gli alberi fanno cadere
le foglie”.
• In seguito scoprimmo che il
cambio delle stagioni dipendeva
dall’asse terrestre.
La luce si propaga in
linea retta
La forza di gravità
Il calore
La nostra macchina: il
corpo
Le piantine
L’allevamento delle
drosofile
• E seminammo fagioli, lenticchie,
grano: lasciandoli al buio, alla
luce, innaffiandoli con l’acqua,
lasciandoli senza acqua e nelle
foglie cadute e marcite.
• Facemmo tante scoperte e
capimmo come un seme può
naturalmente germogliare.
• Allevammo drosofile (i moscerini
dell’uva).
• Potemmo osservare il loro ciclo
vitale in un vasetto di vetro:
dall’accoppiamento, alla larva,
alla pupa che si incollava al
vetro, alla nascita dell’insetto.
• Ne catturavamo qualcuno e li
imprigionavamo con un velo e
un elastico, messi sulla bocca di
un vasetto, che conteneva
dell’uva schiacciata.
• Dopo pochi giorni si
moltiplicavano in modo
sorprendente.
• Tutte le scoperte e le
osservazioni le pubblicavamo su
“NOI”.
La tavola pitagorica
in 36 coppie
• Anche in aritmetica si procedeva con proposte
stimolanti e divertenti, laddove era possibile. Sulla
tavola pitagorica realizzammo un intervento di
semplificazione che ridusse le coppie da memorizzare
al numero di 36.
• Costruimmo una tabella e nelle caselle scrivemmo tutte
le possibili coppie che si possono comporre con i primi
undici numeri (0 – 10). In un’altra tabella scrivemmo i
prodotti delle coppie.
• Scoprimmo che ci sono numeri quadrati e numeri
rettangolari, se vengono schierate le unità da
moltiplicare.
• I numeri quadrati hanno fattori uguali, quelli rettangolari
diversi.
• Scoprimmo che i numeri quadrati si trovavano lungo
una diagonale che andava dallo 0 a 100. Questa
diagonale era asse di simmetria della tabella.
• La simmetria l’avevamo osservata anche con i colori. Si
piegava un foglio di forma regolare in due parti uguali,
si versavano gocce di colore su una parte del foglio e
poi si facevano combaciare le due parti sul colore. Si
potevano osservare belle macchie colorate,
simmetriche rispetto all’asse, alla piega del foglio.
• In seguito costruimmo figure geometriche simmetriche.
Lavorando sull’asse di
simmetria
• Alla stessa distanza dall’asse trovammo caselle in cui c’erano
coppie di numeri uguali, ma disposte in ordine diverso. Sulla
seconda tabella osservammo che il risultato della
moltiplicazione era lo stesso.
• Scoprimmo la proprietà commutativa e decidemmo di
prendere in considerazione una sola delle coppie.
• Sulla riga e sulla colonna dello zero osservammo che il
risultato era sempre zero.
• Scoprimmo che quando un fattore è zero il risultato e zero.
Non prendemmo in considerazione nessuna di queste coppie.
• La stessa cosa facemmo sulla riga e sulla colonna dell’1.
Scoprimmo che se in una coppia uno dei fattori è l’unità, il
risultato della moltiplicazione è l’altro fattore.
• Sulla colonna e sulla riga del 10 scoprimmo che il risultato
era sempre l’altro fattore seguito da uno zero.
• Tenuto conto di tutto questo, registrammo le coppie da
memorizzare:
• Erano solo 36.
• Le scrivemmo su dei cartoncini, sull’altra faccia scrivemmo il
risultato della moltiplicazione e giocammo. I campioni erano
quelli che dalla coppia arrivavano al risultato e dal risultato
erano capaci di ritornare alla coppia.
• I ragazzi si cimentarono in gare appassionanti e senza noia
memorizzarono la famosa tavola pitagorica.
La classe come centro
di ricerca
• I gruppi assolvevano ai loro compiti nella prima
parte della giornata (Assenti, tempo, cassa,
pulizia, libri da ritirare o prestare).
• Poi la classe ascoltava comunicazioni individuali
(testi liberi scritti, racconti orali, brevi letture
interessanti).
• Da queste iniziavano riflessioni, conversazioni e
ricerche, che venivano subito organizzate.
• Tutti i pareri sul tema indicato venivano registrati
su foglietti (recuperati in una tipografia amica) e
costituivano materiale per la stampa del
giornalino.
• Oppure, se non c’erano comunicazioni, si
continuava una ricerca già avviata.
• A metà mattinata era previsto un breve intervallo.
In questo tempo si apriva il negozio e si potevano
fare piccoli acquisti.
• La seconda parte della giornata era dedicata alla
stampa, ai piani individuali di rafforzamento, allo
sviluppo di storie inventate.
• Questi due ultimi impegni avevano quasi sempre
un seguito a casa.
Sulle storie inventate

• Scrive John Dewey in Come pensiamo:


• “Le storie immaginarie raccontate dai fanciulli
possiedono tutti i gradi della coerenza interna: alcune
sono sconnesse, altre articolate. Allorché sono
connesse, esse simulano il pensiero riflessivo; e in
verità di solito si verificano nelle menti dotate di
capacità logiche. Queste costruzioni fantastiche
precedono spesso un pensiero di tipo più
rigorosamente coerente e gli preparano la strada”.
• E aggiunge:
• “Il pensiero deve essere riservato al nuovo, al precario,
al problematico. Di qui il senso di costrizione mentale e
di perdita di tempo che i fanciulli provano quando si
chiede loro di riflettere su cose familiari”.

• E Gianni Rodari scrive Nella grammatica della fantasia:


• “Nemica del pensiero è la noia. Ma se invitiamo i
bambini a pensare che cosa succederebbe se la
Sicilia perdesse i bottoni, sono pronto a
scommettere tutti i miei bottoni che non si
annoieranno”.
Ancora sulle storie di
fantasia
• “Oggi gli adulti si preoccupano molto che i bambini
siano competenti ed efficienti, che sappiano usare il
computer e conoscano le lingue straniere, e
dimenticano invece quanto sia importante la fantasia.
• La fantasia ci aiuta a vivere.
• In futuro l’identità personale sarà sempre meno legata
alla professione, poche persone potranno dire di sé:
sono un ragioniere, un medico.
• Per molti il lavoro sarà un’attività marginale,
provvisoria, mutevole.
• Diviene, perciò, necessario trovare altri interessi, altri
luoghi di incontro, altri rapporti.
• In poche parole: inventarsi una vita”.

• Silvia Vegetti Finzi
• Da “I bambini sono cambiati”,
• Ed. Mondadori
Oltre 400 giornalini in 4
anni
e alcuni “libri”
• Queste riflessioni, da me condivise,
mi convinsero a favorire la pratica
dell’invenzione di storie.
• In questo processo creativo, con
stimolazioni adeguate e
provocatorie, si è portati a vedere
al di là della realtà che ci circonda e
a costruire, spesso in termini
fantastici, una dimensione
straordinaria della nostra vita. E
tutto questo giocare a riprogettare i
termini della nostra realtà ha una
innegabile funzione cognitiva.
Oggetti che parlano
• La pentola e la caffettiera
• Un giorno nella cucina di una
signora si misero a parlare una
pentola ed una caffettiera.
• Disse la pentola, mentre stava
sul fuoco a cuocere la pasta:
• - Tu fai il caffè e fai male a
tante persone. Io faccio
mangiare la gente.
• - Non è vero niente perché alle
persone grandi piace il caffé! –
gridò la caffettiera offesa e
arrabbiata.
• Disse la pentola:
• - Non è vero! Alle persone
piace più il mangiare.
• - Va bene. Hai vinto tu. Ciao!
• E non la volle più ascoltare.
• (storia scritta da Lucia e
corretta insieme)
Dallo studio della Terra
Quasi un mito
• C’era una volta un gigante di fuoco
che si chiamava Magmar. Questo
gigante non voleva far nascere la
vita sulla Terra e se la stringeva
nelle sue braccia di fuoco.
• La Terra chiedeva aiuto:
• - Magmar mi brucia. Aiuto! Arr,
vieni!
• Arr era un altro gigante tutto di aria.
Sentì la voce della Terra, chiamò
tutte le goccioline d’acqua dello
spazio e le raggruppò in una
nuvola immensa che mandò contro
Magmar.
• Il gigante di fuoco, però, respinse
l’acqua che cadeva dalle nuvole e
la trasformò in vapore.
• Arr non si arrendeva mai:
ricostruiva sempre la stessa
immensa nuvola e la scagliava
contro Magmar.
• Sulla Terra piovve per milioni di
anni. Finalmente vinse l’acqua.
• Magmar rimase imprigionato
dentro la Terra e dalla pioggia si
formarono i mari, i fiumi e i laghi.
• Dall’acqua venne la vita delle
piante, degli animali, dell’uomo.
• (dai testi di Dario, Lucia e delle
Aquile)
• Noi e Franco
Da una notizia curiosa

• Su un giornale
leggemmo che
in Russia un
elefante aveva
parlato.
Inventammo
una storia. “In
giro per un
mondo
fantastico con
Batyr, un
elefante che
sapeva parlare”
.
Con l’elefante
Batyr
• Cammina
cammina,
arrivammo
nel paese
dove
fabbricavano
le parole.
• Tanta gente
veniva da
tutti paesi a
comprare le
parole.
Nel Paese delle parole

• Le case
avevano la
forma delle
lettere.
Le fabbriche

• La gente
andava a
lavorare
nella
fabbrica e
costruiva le
lettere.
Un computer gigante

• Saldava le
lettere e
formava tutte
le parole del
mondo. Dei
camion
portavano le
parole fresche
fresche sulle
bancarelle dei
mercati.
Venne un soldato
• E comprò:
• Guerra
• Carro armato
• Fucile
• Mitraglia
• Divisa
• Cannone
• Pugnale
• Pistola
• Missile
• Bomba
atomica!!
Batyr

• Prese il
soldato e
lo buttò
nel mare.
Tanti coriandoli

• I bambini
tagliarono le
parole del
soldato e
fecero tanti
coriandoli che
Batyr soffiò in
aria.
Con i soldi della cassa

• Comprarono
le parole per
farsi capire
negli altri
paesi e tutte
le parole più
giuste per
scrivere la
loro storia. E
partirono.
• Cammina
cammina…
La storia di Batyr
continua
• Nel paese TUTTOBELLO
Nel paese delle paure

• Il fantasma
• Da una
casa nera
uscì un
fantasma.
• Cacciò le
unghie e
urlò:
• -
Aaaaaaah!
Nel paese della Befana

• Una mattina la Befana


si svegliò e fece
colazione. Mentre
beveva il latte e
mangiava i biscotti, la
sua scopa magica
disse:
• - Ti sei dimenticata
che devi andare a
portare i doni ai
bambini della Terra?
• - Ah, l’avevo proprio
dimenticato!
• Prese il sacco, saltò
sulla scopa e partì.
• Passando attraverso
le stelle si diresse
verso la Terra…

• (Marcella, Simona,
Carmen e tutti noi)
Nel paese a metà

• Le case erano mezze, la gente era tutta


mezza. Cucinavano nelle cucine mezze,
mangiavano nei mezzi piatti, si lavavano
nei lavandini mezzi. Avevano mezzo
letto, mezze sedie, mezzo tavolo, mezza
televisione, mezza radio, mezzo
termosifone, mezzi quadri sulle pareti.
• I bambini erano tutti mezzi, giocavano
con mezzo pallone, andavano in una
scuola tutta mezza, imparavano tutto a
metà.
• Anche i grandi erano mezzi: avevano
mezzo cuore, mezzo cervello, mezzo
naso e facevano mezzo starnuto.
• Siccome avevano un solo piede,
usavano sempre le mongolfiere: salivano
su, scendevano giù.
• Andavano a lavoro nelle mezze
fabbriche, facevano la spesa nei mezzi
mercati, andavano a spasso nel mezzo
cielo.
• Il cielo di quel paese era sempre pieno di
mezzi palloni colorati…
• (TuttiNoi)
“Un bambino che voleva prendere la
luna”

C’era una volta un bambino che voleva


prendere la luna, ma non ce la faceva.
Allora prese una scala e salì. Ma siccome
vide che ci voleva molto tempo, scese,
andò a casa e prese una valigia, dentro
mise: due panini, un fazzoletto perché
sudava, una mela e il coltello.
Ritornò sulla scala e salì.
Saliva saliva. A un certo punto si stancò,
si fermò e si mangiò un panino. Poi teneva
sonno e pensò:
- Io dormo e poi la prendo domani mattina
alle 4.
Allora così fece e si mise a dormire.
Quando si fecero le quattro non si svegliò
e così non potette prendere la luna. La
luna se ne era andata e siccome la scala
stava appoggiata vicino alla luna, il
bambino quando si svegliò, la trovò a terra
e disse:
- Uh, la luna se ne è andata perché io la
volevo prendere.
Quando andò a casa raccontò il fatto alla
mamma.
La mamma disse:
- Quanto sei sciocco! Vuoi prendere la
luna che non si può prendere.

Adele
L’errore

• Con questa storia trovammo una


soluzione nostra al problema del
tempo lunghissimo che si impiega
nei viaggi tra le galassie.
• “Una notte dei robot, che avevano
viaggiato per mille e mille anni nello
spazio, scesero sulla Terra con una
delle loro navicelle spaziali.
• Dovevano mettere nella pancia di
un terrestre un uovo che avevano
portato con loro, per far nascere un
bambino col corpo come il nostro,
ma con l’intelligenza degli esseri del
loro mondo.
• I robot forse non sapevano che il
maschio da noi non può avere figli.
O forse nel loro mondo il maschio e
la femmina facevano i figli.
• Certo è che fecero una cosa assai
strana.
• Presero un marito, se lo portarono
sulla loro navicella spaziale, lo
operarono e nella pancia gli misero
un uovo.
• Dopo lo riportarono a casa sua.
• Quando si svegliò non si ricordò
di niente e non si accorse di
niente…
• (Tutti Noi)
Nel paese della gente
di vetro
• Questa è la più bella metafora che
immaginammo sul comportamento
della gente pavida, di quelli che hanno
paura dei cambiamenti.

• “In un paese viveva la gente di


vetro.
• Per la via camminava piano piano e
nessuno si toccava con l’altro per
paura di rompersi, e di morirre.
• In quel paese, però, la gente non
era nata così. Era stato un Mago a
farla diventare di vetro per leggere i
pensieri nelle loro teste e per
comandarli…
• Quando finalmente riuscirono a
togliersi la corazza di vetro… salirono
sulla montagna dove stava il castello
del Mago. Era fuggito. Era andato in
altri paesi per far diventare altra gente
di vetro….
• La gente liberata partì alla ricerca
del Mago… Quella gente è sempre in
giro per il mondo. Forse arriveranno
anche nella nostra città, se tra di noi ci
sono uomini di vetro”.
• (Adele, Amalia, Lello, Sergio e Tutti
Noi)
Riscrivemmo storie che
avevamo letto

• “Cecino e il
bue”
Il lupo ha
divorato la
carne della
carcassa di un
cavallo rubato
nelle stalle del
re. Insieme alla
carne ha
ingoiato Cecino
che grida nella
pancia del lupo.
• - Ho dell’aria
nella pancia –
pensò il lupo. E
allora lo buttò
fuori dal suo
corpo.
• (Da “Fiabe
Italiane” di I.
Calvino).
Scrivemmo tante
“poesie”
Cielo che cammini sempre
E vedi un angelo che vola
Io vorrei volare come l’angelo
Oooh! Oooh!
Io voglio volare
In cielo!
Enza

Tic tic
Piove
Piove sul mio tetto
Cade la neve
Il sole si nasconde
Le nuvole coprono il cielo
Il cielo si fa scuro
E io sto qua
Che faccio il baccalà.
Lucia

Una stella pensa:


- Vorrei essere un aquilone.
Andrei a giocare
Con i bambini.
Adele
E tante altre storie

• Durante i primi quattro anni di questa


scuola entusiasmante pubblicammo circa
400 giornalini. Durante il quinto anno
interrompemmo la pubblicazione del
giornalino e ci dedicammo alla scrittura di
un lungo racconto: “Qui Rione Terra…
Rispondete!”
• Di questo racconto scrisse su “PAESE
SERA” la giornalista Nora Puntillo;
l’architetto Aldo Loris Rossi, vincitore del
concorso per la ristrutturazione Rione
Terra, volle incontrare la classe per
raccontare loro la storia del Rione e far
sapere cosa sarebbe divenuto, dopo i
lavori di restauro, l’antico Castro di
Pozzuoli.
Qui Rione Terra…
Rispondete!

• È il racconto di una protesta. Tutta la classe con


il maestro si mettono in contatto con gli alieni
con un lancio di palloncini. Gli alieni, Fhill e
Thoill, si collegano ai ragazzi e li aiutano nella
loro protesta.
• La classe si arrocca nel Rione Terra e i ragazzi
chiedono il rispetto dei loro fondamentali diritti.
Hanno scoperto che il mondo che li circonda è
ostile, minaccioso, degradato. Gli uccelli, loro
amici, lanciano volantini sulla città.
• I genitori, le autorità, inutilmente cercano di
“liberarli”.
• Gli alieni hanno messo a difesa dei ragazzi una
insuperabile barriera di energia.
• Tutti gli animali del paese, con i quali i ragazzi
riescono a comunicare da quando hanno
incontrato gli alieni, si uniscono alla protesta.
• Gli uccelli bombardano genitori e autorità con i
loro escrementi.
• Quando al comune decidono di scendere
dall’alto sul Rione con gli elicotteri
dell’aeronautica, i ragazzi fuggono con una
macchina volante degli alieni.
• A questo punto, Cinzia, un personaggio della
storia, si sveglia. Tutto l’accaduto è stato un
sogno.
• Lo racconta a scuola.
• Decidono di scrivere il libro.
Il racconto fu pubblicato
nel 2000
• In quell’anno gli autori
avevano 32 anni.
Grazie alla
sponsorizzazione
della COPIN di Lucio
Cosenza, un
illuminato imprenditore
di Pozzuoli, ebbero la
sorpresa di veder
pubblicato il loro
racconto dalla casa
editrice “L’isola dei
ragazzi” di Napoli.
• Il giorno della
presentazione rividi
buona parte di quella
classe. Fu un
momento di profonda
commozione.
La fine di un’esperienza
indimenticabile
• La nostra scuola/cooperativa fu
sfasciata dal bradisismo.
• Nel 1983 migliaia di scosse di terremoto
sconvolsero e atterrirono tutto il nostro
paese.
• Si temeva un’eruzione vulcanica come
quella del 1538, quando in una notte si
formò il Monte Nuovo.
• L e autorità evacuarono tutto il centro
antico di Pozzuoli. Una gran parte della
popolazione fu dirottata e sistemata alla
meglio nella zona di Castelvolturno.
Tutti i bambini in età scolastica furono
raccolti in locali disponibili situati in un
quartiere chiamato “Fontana blu”, nel
Villaggio Coppola.
• Sostenuti dagli enti locali, i docenti e i
dirigenti delle scuole chiuse a Pozzuoli
realizzarono in breve tempo, con un
impegno straordinario ed encomiabile,
quella che fu definita “la scuola
dell’emergenza”.
• Tutti i docenti avevano perduto le
rispettive classi. Si riprese a fare scuola
con gruppi di alunni nuovi che si
trovavano in quella zona.
• Quando, nel 1985, tornammo a
Pozzuoli, non trovammo più la nostra
vecchia scuola: l’avevano abbattuta. Ci
fu assegnato un edificio di nuova
costruzione a Monterusciello, nella zona
dei 600 alloggi.
1985

• • i Programmi didattici del 1985 e le relative disposizioni


applicative ed organizzative hanno provocato… la più
sconvolgente mutazione della condizione professionale del
maestro elementare: distribuzione delle competenze, accordo
e corresponsabilità nella programmazione, scelta condivisa di
metodo e di didattica, collegialità di valutazione e confronto
con i colleghi, non solo con genitori e superiori. È stata la fine
del tradizionale maestro tuttologo, ma anche del responsabile
unico della classe. Si affermava il concetto rivoluzionario di
lavoro collegiale. Per molti maestri non più giovani la
conversione professionale è stata un’autentica sofferenza:
bisognava operare rinunce dolorose, abbandonare certezze
da tempo collaudate, abdicare al ruolo di unico riferimento per
alunni e genitori. Si doveva, con i programmi del 1985,
assegnare le classi a più docenti, passare dai fondamentali
contenuti nozionistici e strumentali (leggere, scrivere, far di
conto) alle molteplici competenze, alle acquisizioni critiche,
alla maturazione di una propria metodologia di apprendimento
per le diverse discipline. È stato necessario scegliere
abbinamenti e relative specializzazioni, evitando tuttavia il
paventato rischio di secondarizzazione della scuola primaria.
(Elio Reinotti - http://www.scuole.vda.it/Ecole/73/24.htm)
Dal 1985 al 1997

Legge 5 giugno 1990, n.148


• Gli insegnanti sono utilizzati secondo
moduli organizzativi costituiti da tre
insegnanti su due classi nell'ambito del
plesso di titolarità o di plessi diversi del
circolo; qualora ciò non sia possibile sono
utilizzati nel plesso di titolarità secondo
moduli costituiti da quattro insegnanti su
tre classi, in modo da assicurare in ogni
scuola l'orario di attività didattica di cui
all'articolo 7.
• L'orario delle attività didattiche nella
scuola elementare ha la durata di 27 ore
settimanali elevabili fino ad un massimo
di 30 ore in relazione a quanto previsto
dal comma 7.
Un tentativo di riprendere
la scuola interrotta
• Gli anni Novanta portarono la L 148.
• L’applicazione di questa legge fu preceduta da
una sperimentazione che permetteva a due
insegnanti titolari di lavorare sulle loro due classi
parallele, con una divisione dei compiti e degli
ambiti disciplinari.
• L’orario rimase di quattro ore giornaliere su sei
giorni; all’inizio della terza ora gli insegnanti si
scambiavano le classi.
• Fu fatto il tentativo di continuare la scuola
interrotta dal bradisismo. Riuscimmo soltanto a
coinvolgere maggiormente le famiglie, le quali
divennero le dirette responsabili della gestione
della cassa cooperativa.
• All’inizio dell’anno si tassarono; il fondo cassa fu
affidato ad una tesoriera, eletta dai genitori, alla
quale le classi si rivolgevano per gli acquisti che
necessitavano per tutte le attività.
• Periodicamente i genitori si riunivano per
consuntivi spese e approvazione di un bilancio
preventivo.
Intanto come vivevo
questa scuola dei moduli?

• Innanzitutto avevo l’impressione di non riuscire a gestire il tempo


scuola. Non avevo avuto questa impressione nell’esperienza
precedente.
• Il tempo non bastava più.
• Improvvisamente bussavano alla porta per il passaggio all’altra classe.
• Mi pareva di ricordare che prima “tutto era più semplice, prevedibile,
controllabile. I ritmi della vita, della scuola… scorrevano lenti, ripetitivi,
con rituali consolidati”;

• E l’alunno in questo sconvolgimento portato dal vento di una riforma


imposta, quali riflessioni mi faceva fare?
• Il bambino nel tempo cambia. Certamente non era più lo stesso di una
volta. Viveva un tempo molto più complesso:
• profondamente condizionato dall’influenza della televisione e dei media
in generale;
• trascinato in esperienze extrascolastiche che spesso gli avvelenano la
vita, volute “per il suo bene” dai genitori: l’inglese, la musica, la danza,
la palestra, ecc.;
• a scuola è passato dall’insegnante unico a più insegnanti che mettono
“a dura prova le sue capacità di accettazione, adattamento,
sintonizzazione alle diverse lunghezze d’onda”.
E i docenti?

• Bisognava evitare il paventato rischio di


secondarizzazione della scuola primaria,
ci veniva sottolineato dalle cosiddette
fonti autorevoli.
• E intanto in quel tempo, fine anni Ottanta
primi anni Novanta, il mercato della
formazione offriva pacchetti ben
confezionati per l’insegnamento della
lingua, per l’area logico-matematica e per
l’area antropologica. Proposte pareva
favorissero quel paventato rischio di
secondarizzazione.
• Centinaia di docenti si pagavano i corsi di
A. Zoi, di M. Palazzolo, di I. Fiorin. Questi
esperti costituivano un gruppo di ricerca
avanzata nel campo della didattica
disciplinare, sostenuto da una importante
casa editrice.
Gli ultimi dieci anni

• Per gli ultimi dieci anni della mia carriera curai nelle
classi del mio modulo l’ambito logico-matematico, che
comprendeva anche l’insegnamento della scienza e la
formazione musicale.
• Non potei ripetere l’esperienza che ho raccontato
all’inizio di questa mia comunicazione. Tuttavia feci
sempre il possibile per rendere la mia scuola
interessante, divertente. Gli argomenti relativi alle
discipline del mio ambito li presentavo sempre in
termini problematici, come indovinelli da risolvere. Alle
soluzioni si arrivava partendo dalla manipolazione di
materiali anche strutturati ( i numeri colorati, i blocchi
logici, il multibase);
• i fenomeni scientifici li affrontavamo secondo la
procedura del metodo galileano: osservazione, ipotesi,
verifica di questa attraverso l’esperimento, scoperta
della legge.
• Per la musica facemmo esperienza di ascolto di
composizioni di grande suggestione e pratica del flauto
dolce. Nella lettura delle note scoprimmo i legami
profondi che esistono tra matematica e scrittura della
partitura.
1997
• Quando arrivò quest’anno avevo sessantaquattro anni.
Completavo l’ultimo ciclo della mia storia di maestro.
• Dal diploma erano passati con una velocità
impressionante 47 anni.
• Una vita intera di studio solitario, affannoso, alla ricerca
continua di soluzioni ai problemi del fare scuola;
• un procedere faticoso per tâtonnement, come diceva C.
Freinet: un procedere per tentativi.
• Spesso si sbagliava con i ragazzi, ma poi si tentava di
nuovo, nuove vie.
• E quando riuscivi a farli avanzare con gioia sul
cammino della conoscenza, si provava una
soddisfazione intima, profonda, che ti ripagava di tutti i
sacrifici che ti aveva chiesto l’insegnamento.
• Ero partito da solo, me ne andavo solo. Un saluto dei
colleghi e completamente ignorato dal nostro datore di
lavoro.
• Ho aperto questo racconto con un pensiero di
Marialuisa Bigiaretti. Voglio chiudere con le stesse
parole.
• “Bisogna preparare gli insegnanti, non scaraventarli in classe
appena finiti gli studi. E poi vanno pagati meglio per
permettere loro l’autoaggiornamento e per esercitare con più
dignità questo mestiere altamente difficile”.

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