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La

creazione del presente


Osho

LA CREAZIONE DEL
PRESENTE






TITOLO ORIGINALE
The Perfect Master, Volume I

VERSIONE ITALIANA A CURA DI
Swami Anand Videha

TRADUZIONE DALL’INGLESE
Laura Baietto

REDAZIONE
Ma Anand Tea Pecunia

Foto di copertina per gentile concessione della
OSHO INTERNATIONAL FOUNDATION
© 1978 OSHO INTERNATIONAL
FOUNDATION, Svizzera
www.osho.com/copyrights

© 2012 News Services Corporation, Arona
(Novara) per l’edizione italiana
© 2013 De Agostini Libri S.p.A., Novara
Prima edizione ebook, agosto 2013
www.deagostini.it
Redazione: corso della Vittoria 91 - 28100
Novara

ISBN: 978-88-418-9677-8

OSHO è un marchio registrato di proprietà della
Osho International Foundation usato su licenza
www.osho.com/trademarks

Questi testi sono la trascrizione di una serie di
discorsi spontanei di Osho, tenuti di fronte a un
pubblico di ascoltatori. Tutti i discorsi di Osho
sono pubblicati come libri, o sono disponibili nel
formato audio originale. Per un elenco completo,
consultare la Online OSHO Library su
osho.com/library. Diversi video, alcuni anche
con i sottotitoli in italiano, sono trasmessi su
osho.com/webcasting e visibili anche su:
goo.gl/PqKaY.


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questo volume può essere riprodotta,
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cinema, radio, televisione, senza autorizzazione
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seguito di specifica autorizzazione rilasciata da
CLEARedi, Corso di Porta Romana n. 108,
Milano 20122, e-mailinfo@clearedi.org e sito
webwww.clearedi.org

Edizione elettronica realizzata da Gag srl
SOMMARIO




Prefazione

1. Il maestro arriva quando il
discepolo è pronto
2. Un’esperienza di rinascita
3. La danza del “sì”
4. Nulla è eterno, eccetto il
cambiamento!
5. La libertà è la verità
6. Solo l’innocenza può avere
successo
7. Tornare alla fonte
8. Lascia che accada... qualunque
cosa sia
9. Danzare il mistero
10. Il coraggio di partecipare

Profilo dell’Autore
Per approfondire




Lo stadio umano è un ponte fra
l’animale e il buddha. Ricordalo
bene: l’uomo è un ponte! Non
costruire la tua casa sul ponte,
perché non è quella la sua funzione:
il ponte è fatto per essere
attraversato! Non fermarti al livello
umano, altrimenti continuerai a
vivere nell’ansia e nell’angoscia;
non è uno stato in cui vivere e
stabilirsi, bensì una condizione di
passaggio che va attraversata; è una
scala, e non si può restare fermi
sulla scala: è solo un collegamento
fra un piano e l’altro.
L’animale esiste e in un certo
qual modo è appagato; nella sua
condizione, infatti, non esistono
ansia, paura, morte, ambizione,
nostalgia, ma solo calma e quiete.
Tuttavia è inconsapevole e
incosciente. Anche il buddha è
appagato, si sente completamente in
pace; è a casa, è arrivato: il suo
viaggio è finito e non c’è più nessun
luogo da raggiungere – si è
realizzato. Fra questi due stadi si
trova l’uomo, che è per metà
animale e per metà buddha; la
tensione nasce proprio da questo:
una parte di lui vorrebbe tornare
indietro, e l’altra andare avanti.

Tornare indietro non è possibile,
perciò non sprecare il tuo tempo
pensando che potresti anche
regredire allo stadio animale e
vivere in modo animalesco,
seguendo il motto “Mangia, bevi e
divertiti”. Un essere umano non può
farlo, perché sente il bisogno di
ponderare e di riflettere; non puoi
permetterti di non pensare, e
comunque sarebbe molto rischioso,
perché ti bloccheresti e diventeresti
una pozza d’acqua stagnante. Puoi
conservare la tua freschezza e la tua
vitalità solo se continui a fluire fino
a raggiungere l’oceano: e per
oceano intendo la buddhità, lo stato
di consapevolezza dei buddha.
L’uomo deve diventare un
buddha.

Osho
PREFAZIONE
Innamorarsi dell’esistenza




Per tentativi, inciampando, nel buio
ormai prodotto dall’impossibilità di
acquisire punti di riferimento da un
passato in dissoluzione; davvero a
tentoni e grazie a errori spesso
assurdi, dovuti all’impossibilità di
prevedere le conseguenze, il nostro
viaggio di esseri umani è una
ricerca.
Di cosa, però? Osservando
l’insieme delle nostre pulsioni, e
andando un po’ più in profondità o
un pochino al di sopra del regno
della materia – cose, oggetti, beni,
proprietà – ci si rende conto che la
somma delle nostre aspirazioni è la
ricerca dell’intimità.
Viviamo mossi e animati da un
protendersi verso qualcosa o
qualcuno che ci renda completi in
noi stessi: intimità con la madre,
appena venuti al mondo; intimità
con la casa in cui abitiamo, con i
genitori e i parenti; sentirsi intimi
con un amico, un amante… è un
continuo protendersi verso un
ulteriore essere intimi che echeggia
un’indicibile voglia di essere a casa
nell’esistenza.
Tutto è proteso in quell’anelito
che spesso consuma la vita: ci si
consolida nei possessi, per dare
sostanza e solidità – creare un
piccolo regno tutto nostro – in cui
vivere quell’intimità;
nell’abnegazione per un figlio si
cerca di estendere il nostro esistere
nel futuro; incarnando un ideale, un
progetto di vita o un’ideologia si
tenta di darle concretezza e
significato nel mondo.
E quando il disincanto rivela un
abbaglio, quando la realtà dell’altro
– o degli altri – non collima più con
quell’intimo bisogno primario che ci
ha fatto muovere e agire, quando
tutto crolla – o sembra crollare – ci
si rialza e si riprova, in altri modi e
con altre forme.
È in quegli istanti disperati che
può accadere qualcosa, un lampo di
intuizione che spinge a cercare
altrove – non nello stesso mondo,
non nello stesso modo –, che porta
ad aprirsi a una dimensione diversa
della vita e, in un certo senso, a
connettersi più intimamente con se
stessi.
Spesso, infatti, il tracollo è tale e
tanto, il dolore per qualcosa che
finisce o viene distrutto è così forte
che, per elaborarlo e assorbirlo,
occorre scendere un po’ di più
dentro di sé. E al tempo stesso è
necessario salire un pochino al di
sopra rispetto alla propria idea o
visione del mondo; insomma,
occorre superare, trascendere ciò che
si ritiene essere la realtà.
Per stare nel territorio oggi più
vissuto e dunque più fragile, tutto
questo accade sempre di più nel
mondo delle relazioni, dove è facile
che un amore – un certo tipo
d’amore – finisca, a volte prima
ancora di essere nato. Per rimettersi
in gioco, a un certo punto diventa
vitale aprirsi a una diversa
percezione dell’energia vivente cui
diamo il nome di amore e che
sicuramente include la sessualità, ma
non è solo quello; include anche il
bisogno di essere amati e di amare,
oltre alla passione, ma non è solo
quello; include l’appartenenza,
ovvero i rapporti familiari, di clan e
di gruppo, ma non è solo quello;
include l’amicizia, l’ospitalità e la
condivisione, ma non è solo quello;
include la dedizione e la
compassione, ma non è solo quello.
Nel nostro viaggio alla ricerca,
via via che ci si ritrova a scendere
dentro di sé e a elevarsi al di sopra
del proprio vissuto, passo dopo
passo qualcosa di diverso dal
bisogno e dal desiderio – dal volere
e dal pretendere – prende forma
dentro di noi; ed è possibile che a un
certo punto si profili anche
all’esterno, nelle fattezze di un volto
nuovo che rispecchia una nuova
prospettiva: qualcuno capace di
dischiudere una dimensione
assolutamente aliena alle comuni
logiche della vita, qualcuno che
incarna una diversa intimità fa la sua
comparsa.
Intimità con il divino, intimità con
l’esistenza, intimità con il Reale,
amore incondizionato, estasi, sono
alcune delle definizioni date a quella
dimensione che richiama a qualcosa
di sé – a una pienezza – altrimenti
irrealizzabile, assolutamente
inconcepibile. Qualcosa che nel
regno della materia non ha
corrispondenti, e anche nella sfera
degli affetti trova solo un’ignota eco
lontana: una sensazione “larvale”
che vagamente permette di
concepire la realtà di un bruco, ma
che impedisce addirittura di sognare
la possibilità di diventare una
farfalla.
Eppure, quando l’insieme delle
comuni coordinate non regge più il
tessuto della nostra esistenza,
quando si ha la sensazione di non
avere più nulla da perdere, è
possibile far tesoro delle esperienze
vissute – anche solo per non ripetere
gli stessi errori – e offrire a se stessi
una diversa opportunità esistenziale.
Facilmente, grazie a questa intima
decisione, è possibile che nella
nostra vita compaia la figura di un
Maestro. Qualcuno che è riuscito a
compiere il balzo da una forma di
vita all’altra, da una dimensione
all’altra; dalle multiformi realtà che
ciascuno di noi disegna al Reale in
cui il nostro vero destino può
compiersi.
Perdersi nel descrivere cosa sia e
cosa possa essere il viaggio della
vita, da lì in poi, è assurdo e
soprattutto inutile: è un’avventura
nella quale si può decidere di
incamminarsi, oppure è meglio
lasciar perdere: a tempo debito è
qualcosa che accade.
D’altra parte, se questo libro ti è
capitato in mano, significa che
qualcosa sta per accadere nella tua
vita, o forse è già accaduto; vuol
dire che in te qualcosa sta spingendo
verso l’inevitabile metamorfosi cui
ogni essere umano è comunque
chiamato.
Osho è infatti abilissimo a
costellare quell’ignoto, permettendo
a qualsiasi “signor nessuno” di
affacciarsi su qualcosa che è, per sua
stessa natura, indicibile,
inesplicabile, indefinibile. Non
localizzabile in base a schemi e
parametri, logiche e interessi
abituali.
In ogni suo libro quella magia
accade con facilità: ci si ritrova a
occhi aperti, dopo aver camminato
per pagine e pagine lungo sentieri
che allontanano da ciò in cui si crede
e che si vuole, per spaziare da una
vetta incontaminata nell’immensa
distesa del proprio essere.
Finalmente liberi dalle invisibili
maschere che di fatto velano la
realtà, non più incatenati a stereotipi
e pregiudizi che portano a percepire
solo ciò che viene filtrato dalla
mente, lontani – se non remoti –
rispetto alle ideologie e alle
appartenenze che ottundono e
istupidiscono, all’improvviso il
mistero sembra rivelarsi a se stesso e
ci ricorda che solo vivendo con
pienezza e totalità potremo mai
svelarlo a noi stessi.
Ma perché quella magia diventi
poi principio di realtà, occorre
prendersi davvero cura di sé, in
modo da coltivare interiormente una
sempre maggior intimità con se
stessi. È lì, infatti, il punto di svolta:
lì – da qualche parte nella
percezione di sé – esiste la soglia
che porta a fiorire alla fragranza
dell’universo.
Non è una scoperta recente: da
sempre esistono tradizioni del Vero
che suggeriscono tecniche e metodi
per coltivare il proprio essere, in
modo da coglierne la natura
essenziale. Recente è invece
l’avviarsi della scienza nel trovare
risposte al di là dei meccanicismi
ipotizzati finora, che hanno portato a
credere di avere chiarezze e
spiegazioni rispetto a ciò che siamo,
laddove ancora non se ne hanno. Ed
è interessante notare come in molti
ambiti scientifici, in cui si studiano
nuove teorie della coscienza, si
ritiene importante – se non
fondamentale – eliminare a monte la
separazione tra mondo mentale e
mondo esterno per arrivare a una
comprensione dei processi cognitivi,
neurali e fisiologici che
accompagnano l’esperienza
fenomenica. Ovvero, per
comprendere come mai sentiamo
“qualcosa”, e l’avvertiamo come
dotato di qualità specifiche.
La ricerca del Vero avvicina alle
risposte dall’interno, ovvero
educando a un’intimità con se stessi,
il vivente e l’esistenza. E finora sono
stati due i sentieri più conosciuti e
percorsi da quanti si sono trovati a
scegliere di inoltrarsi nel mistero
della vita.
Uno è la meditazione, percorso
che porta a un dissolversi della
mente – vuoi per sforzi progressivi,
come nello Yoga; vuoi per shock
improvvisi, come nello Zen –, l’altro
può essere chiamato “la via del
cuore”, che suggerisce un processo
in cui si coglie la pura essenza
divina con un lento e inesorabile
scioglimento del cuore.
In questo testo Osho diventa un
Sufi e apre dunque alla via del
cuore, caratteristica di questa
tradizione del Vero.
Di nuovo, è inutile perdere tempo
a descrivere di cosa si tratta, a
trovare definizioni che permettano
alla mente di non perdere il
controllo e di impossessarsi anche di
questa apertura, traducendola in un
innocuo sapere, impossessandosi
così anche di questa libertà, per
meglio imporre il suo dominio.
Ricordiamoci: al cuor non si
comanda! E men che meno è
possibile farlo quando s’innamora
dell’esistenza. Lasciamo dunque che
qualcosa accada: impossibile dire
che cosa, e quando, e dove. E
soprattutto con chi, o attraverso chi!
L’insolito, l’inaspettato ci attende
in queste pagine… buona avventura!

Swami Anand Videha
Capitolo 1

IL MAESTRO ARRIVA
QUANDO IL DISCEPOLO
È PRONTO




Un uomo decise di cercare il
maestro perfetto.
Lesse molti libri, fece visita a
un’infinità di saggi, li ascoltò,
discusse con loro e si esercitò, ma
finiva sempre per ritrovarsi pieno di
dubbi e di insicurezze.
Dopo vent’anni incontrò un uomo
le cui parole e le cui azioni
corrispondevano perfettamente alla
sua idea di persona totalmente
realizzata. Il pellegrino non perse
tempo e disse: «Tu mi sembri
proprio un maestro perfetto: se è
così, il mio viaggio è giunto al
termine!».
«In effetti» rispose il maestro
«puoi chiamarmi in quel modo».
«Allora, ti prego, accettami come
tuo discepolo!» implorò l’uomo.
«Questo non posso farlo» rispose
il saggio «perché, per quanto tu
desideri un maestro perfetto, lui, dal
canto suo, può accettare solo un
discepolo perfetto!».


Il maestro arriva solo quando il
discepolo è pronto, e mai prima: non
può essere diversamente e non può
accadere in nessun altro momento
della vita. Solo quando il discepolo
sarà pronto e maturo gli apparirà il
maestro: prima deve imparare a
vedere e ad ascoltare, e deve creare
nel suo cuore la capacità di sentire.
Se sei cieco, come può apparirti il
sole? Anche se lo facesse, non te ne
accorgeresti!
Se non sei capace di vedere, al
mondo non esisterà alcuna bellezza;
i fiori sbocceranno, ma non per te, le
stelle riempiranno il cielo di uno
splendore immenso, ma tu non le
vedrai… Al mondo non esiste
nessuna bellezza se non puoi
vederla! Se nel tuo cuore non c’è
amore, non troverai mai la persona
amata: bisogna soddisfare il
prerequisito di fondo, perché solo
l’amore può trovare l’amato, solo gli
occhi possono cogliere la bellezza, e
solo le orecchie sanno ascoltare
musiche e melodie…
Purtroppo ci sono davvero tante
persone – e sono la maggioranza –
che si ostinano a cercare qualcosa
che sta fuori da loro, senza aver
creato una ricettività corrispondente
dentro di sé. Ho incontrato molti
ricercatori che cercavano un
maestro, ma erano totalmente
inconsapevoli del fatto che il
discepolo fosse del tutto assente: e
se il discepolo non esiste, come può
trovare un maestro?
Il maestro non è un semplice
fenomeno oggettivo che si trova
fuori da te: prima di tutto dev’essere
una realtà presente nel tuo cuore!
Essere un discepolo richiede una
preparazione, implica una sete, un
desiderio ardente e una grande
passione per la verità. Ma
nonostante l’assenza di tutte queste
cose, le persone si mettono alla
ricerca di un maestro – e non
stupisce certo che non lo trovino!
Non lo troveranno mai, e anche se
ne incontreranno parecchi,
continueranno a non accorgersene.
Come puoi vedere il maestro se
non ti rendi vulnerabile? Come puoi
incontrarne uno se non sai nemmeno
cosa voglia dire essere un discepolo?
Il punto di partenza della ricerca
consiste nell’essere un discepolo! Il
vero ricercatore non si preoccupa del
maestro, non si chiede dove sia:
l’unica cosa che gli interessa è
creare il discepolo dentro di sé,
come diventare un allievo, come
essere aperto alla realtà, e come
agire partendo da uno stato di
innocenza e non in base a un
qualche sapere.
Se vivi basandoti sul sapere,
incontrerai molti insegnanti, ma non
troverai mai nessun maestro. Se sai
già una cosa o pensi di saperla, ti
imbatterai solo in altri eruditi, in
altra gente che sostiene di saperne
più di te: incontrerai soltanto le
persone che puoi incontrare, ossia
altri individui come te. Un uomo che
si muove basandosi sui saperi che ha
accumulato incontrerà molti
insegnanti e imparerà molte cose –
ma non troverà mai un maestro.
Per incontrare un maestro, devi
essere un bambino, devi essere del
tutto innocente e non possedere
alcun sapere; la tua mente deve
essere vuota e colma di passione per
la verità, ma non deve contenere
alcuna convinzione in proposito:
questa è la condizione adatta al vero
apprendimento – e a quel punto non
è necessario andare da nessuna
parte, perché sarà il maestro a venire
da te!
Qui con me ci sono molti
sannyasin – molti ricercatori del
Vero – che non sono arrivati in
seguito alle loro ricerche, ma che ho
trovato io; sono giunti grazie a me e
non grazie a se stessi, e questo è il
vero modo per arrivare qui. Se vieni
da me di tua iniziativa, significa che
non sei arrivato affatto: continui a
restare dove sei, ostinato, gonfio di
ego – sei così pieno di te che non
resta alcuno spazio perché io possa
entrare nel tuo cuore!
Essere capace di imparare è uno
dei requisiti di fondo di un
ricercatore, e quando dico
“imparare” intendo che si dovrebbe
sempre agire partendo da uno stato
di innocenza. Non dovresti portarti
dietro convinzioni preesistenti,
perché ti impediranno di apprendere:
se infatti incontri qualcosa che le
contraddice, sarai costretto a
rifiutarlo, e se nulla le mette in crisi,
non imparerai niente, ma rafforzerai
semplicemente il tuo vecchio
pregiudizio.
Se una cosa si accorda alle tue
convinzioni, non provoca alcun
apprendimento, ma si limita a
rafforzare la tua vecchia mente, e il
maestro non può fare questo: al
contrario, deve distruggere tutto ciò
che è vecchio per far posto al nuovo,
deve portarti via tutto ciò che hai
sempre tenuto con te – deve fare
spazio dentro di te! Se ti aggrappi a
convinzioni, pregiudizi, idee e
filosofie, non riuscirai mai a
incontrare un maestro, perché il suo
compito consiste nel distruggere
ogni genere di filosofia: è interessato
solo alla realtà, non alla
speculazione.

Proprio l’altro giorno stavo
leggendo quest’affermazione di
Burke: «Molta gente ammette che le
patate sono molto importanti;
tuttavia, i discorsi sulle patate non
sono popolari quanto le patate
stesse. Qualsiasi speculazione sulle
patatine non è semplicemente in
grado di sostituire la cosa in sé:
ebbene, lo stesso accade con la
religione».

Quest’affermazione mi piace: il
maestro si interessa alle patate vere,
non alle filosofie sulle patate! Se sei
pieno di convinzioni, è impossibile
che tu arrivi davvero al maestro,
perché le tue idee si frapporranno fra
te e lui come una barriera. Bisogna
arrivare da lui completamente aperti,
disponibili, senza sapere nulla…
Tutto questo dovrebbe essere
scontato, perché se possiedi già un
sapere, vuol dire che non sei
disponibile: sono le tue stesse idee a
sbarrarti la strada.
Diventa un discepolo e non
preoccuparti del maestro: quando
sarai pronto, arriverà. A volte si
manifesta in forme strane, ma
accade sempre! Quando una persona
è matura, il divino la raggiunge in
molti modi, e il maestro è l’ultima
incarnazione con cui il divino si
manifesta al discepolo: dopo di lui
non esiste più alcuna forma. È
l’ultima esperienza dotata di un
corpo: poi c’è l’etereo – il divino
privo di forma. Il maestro è l’ultima
manifestazione del divino simile a
te, che vive come te, che puoi
toccare e con cui puoi dialogare,
perché parla la tua stessa lingua: al
di là di lui c’è l’incorporeo, c’è il
silenzio – completo, assoluto,
vergine…
Il maestro sta esattamente fra il
mondo e il divino. Se sei davvero
stanco del mondo, della sua routine
e del suo tran tran, non iniziare a
cercare un maestro, trova piuttosto il
modo di diventare un discepolo:
comincia a liberarti dal peso dei
pregiudizi e dei dogmi, e dimentica
tutto quello che sai…

Nell’accogliere un discepolo,
Ramana Maharshi era solito dirgli:
«Se vuoi stare con me devi
disimparare; se non lo fai, io non ho
nulla da darti: sei già fin troppo
pieno!».

Conosci questa famosa storia Zen?
Un professore di filosofia andò a
far visita a un grande maestro e gli
chiese di dio, del karma, della teoria
della reincarnazione e di molte altre
cose: fece domande, domande su
domande!
Il maestro rispose: «Sei stanco, il
viaggio è stato lungo e vedo che,
nell’arrampicarti fin quassù in un
pomeriggio d’estate così caldo, ti sei
coperto di sudore; dev’essere stato
davvero faticoso! Fermati, non c’è
alcuna fretta, queste domande
possono aspettare ancora un po’;
lascia che ti prepari una tazza di tè, e
– chissà – magari mentre la bevi
potresti anche trovare le risposte!».
Al che il professore restò un po’
perplesso e iniziò a domandarsi se
fosse davvero valsa la pena di venire
da questo pazzoide: «Com’è
possibile» pensò «trovare una
riposta alle mie domande bevendo
semplicemente una tazza di tè?». Ma
ormai non c’era modo di andarsene
e aveva proprio bisogno di riposarsi
un momento: «Il tè non può
comunque farmi alcun male,»
rifletté «perciò, perché non berlo
prima di darsela a gambe da questo
posto?».
Il maestro portò la teiera e iniziò a
versare il tè nella tazza; continuò
finché fu colma e la bevanda
traboccò nel piattino, che ben presto
si riempì anch’esso.
«Fermati!» intervenne il
professore. «Cosa stai facendo? Il tè
finirà per traboccare sul pavimento:
nella tazza non ne entra più
nemmeno una goccia! Sei forse
pazzo?».
Il maestro scoppiò a ridere di
cuore ed esclamò: «Allora è vero
che sei intelligente! Ti rendi
perfettamente conto che, se non c’è
più spazio, non si può continuare a
versare altro tè nella tazza: e nella
tua testa c’è ancora posto? Io vorrei
versarci tutto ciò che sono, ma c’è
ancora spazio dentro di te? La tua
mente non è forse già piena zeppa,
non contiene già fin troppe cose?».
«Questa è la mia risposta»
continuò il maestro. «Torna un’altra
volta, ma prima svuota la tua mente
e vieni da me quando avrai
raggiunto uno stato di non sapere.
Hai accumulato troppe nozioni;
riesco a sentire tutto il rumore che si
agita dentro di te: torna da me
quando ci sarà un po’ più di silenzio!
Oggi non sei venuto qui per
imparare, ma per discutere».

Il sapere non è interessato ad
apprendere: vuole discutere di
continuo e si sente umiliato
dall’imparare. Per questo
l’apprendimento si fa sempre più
difficile: più vai avanti negli anni e
più diminuiscono le possibilità di
imparare qualcosa. I bambini
riescono a farlo perché non hanno
ego e assimilano molto in fretta, ma
se ti trovi a dover apprendere le
stesse cose a trentacinque, a
quaranta o a cinquant’anni, diventa
molto difficile, talvolta quasi
impossibile.
Cosa ne è stato della tua
intelligenza? Con cinquant’anni di
esperienza alle spalle dovrebbe
essere più potente di prima, invece
non è così: durante il cammino hai
accumulato una montagna di
spazzatura e il tuo intelletto non
riesce più a funzionare liberamente:
è oppresso da un carico eccessivo –
e si tratta solo di un mucchio di
sciocchezze! All’idea di imparare
qualcosa ti senti umiliato; non riesci
a chinare il capo, a dire: «Non so», e
il discepolo è proprio colui che dice:
«Non so: insegnami! Sono pronto a
imparare; sono venuto a te senza
alcuna convinzione, senza portare
con me alcuna conoscenza; sono
vuoto: riempimi!».
La vera ricerca consiste nel
diventare un discepolo,
nell’imparare a svuotare la coppa del
tuo io, in modo che, se incontri un
essere straripante di divinità, possa
riempirti e colmare il tuo cuore fino
all’orlo. La gente invece tenta di
trovare un maestro senza cercare la
condizione del discepolo, ed è così
che si perde.
In questo caso ti imbatterai in
moltissime persone, continuando a
sentirti insoddisfatto, e la radice di
questa insoddisfazione non è esterna
a te; proviene dalla tua mente,
perché continui a portarti appresso le
tue convinzioni.

L’altro giorno stavo leggendo di
Levi Yitzchok, un meraviglioso
mistico chassidico. Era così colmo
di essenza divina, di canti e di danze
celestiali, che quando era in stato di
devozione o di preghiera impazziva:
si dice che emanasse la danza del
divino nella sua essenza più totale e
selvaggia. Entrava nella devozione
con un tale abbandono che i fedeli
intimoriti istintivamente gli
facevano spazio; se lui stava
pregando in un tempio, la gente
scappava a rifugiarsi nelle proprie
case, perché il suo modo di pregare
era molto selvaggio: gesticolava,
gridava e danzava, balzando da un
angolo all’altro, spintonando e
travolgendo qualsiasi cosa si
trovasse sulla sua traiettoria. Nella
sua percezione la gente cessava di
esistere: mentre pregava, lui stesso
non esisteva più!
Ebbene, chi andava da lui con una
qualche convinzione riguardo a
come dovrebbe essere un maestro,
pensava fosse un pazzo. Se sei
convinto che un maestro dovrebbe
starsene semplicemente seduto come
un buddha sotto un albero della
Bodhi, e poi ti ritrovi davanti questo
folle, che scaraventa in aria ogni
cosa, corre a destra e a manca,
spaventa i fedeli e li mette in fuga
perché non sanno cos’altro potrebbe
fare… Eppure quest’uomo era un
maestro perfetto!

Il divino si manifesta sotto molte
vesti: a volte prende le sembianze di
un buddha e altre volte quelle di
Krishna, di Mahavira o di
Maometto. Assume una gran varietà
di forme sempre nuove, ma le tue
convinzioni si fondano sempre su
una di quelle già note: se sei nato in
una famiglia buddhista, come puoi
pensare che questo mistico
chassidico pazzo possa essere un
buddha? È impossibile!
Se ti affidi a una convinzione, ti
troverai in difficoltà. Se un
discepolo di questo folle maestro – e
ce n’erano molti – avesse incontrato
il Buddha, l’avrebbe rinnegato e non
sarebbe stato soddisfatto, perché si
sarebbe chiesto: «Perché non danza?
Come mai non urla? Se ne sta
semplicemente seduto sotto un
albero della Bodhi: che razza di
maestro è mai questo?».

Purtroppo continuiamo a trascinarci
dietro pregiudizi radicati
profondamente dentro di noi. E
ricorda che queste convinzioni
possono sembrarti molto razionali.
Solo l’altro giorno, Anadi ha fatto
una domanda: «Osho» ha esordito
«adesso non posso più fidarmi di
te!». Cosa gli è successo? Perché
mai non può più fidarsi di me?
È accaduta una cosa molto
semplice: ho raccontato che a
Bodhgaya esiste ancora lo stesso
albero sotto il quale il Buddha si è
illuminato, e ho affermato che porta
ancora in sé la vibrazione
dell’essenza del Buddha e di quella
meravigliosa mattina in cui l’uomo
scomparve e al suo posto apparve il
divino.
Anadi allora ha citato un libro di
storia in cui è scritto che
quell’albero è stato tagliato e
distrutto da un re hindu, e che il
tempio è stato trasformato in un
santuario brahmano: com’è possibile
quindi che quello stesso albero esista
ancora? Se i libri di storia hanno
ragione, io devo per forza avere
torto! E se contraddico ciò che è
scritto nei libri, come può Anadi
fidarsi di me?
Non perdere fiducia così
facilmente e non avere tutta questa
fretta! Quando dico una cosa,
aspetta, approfondisci la ricerca, e
alla fine ne scoprirai il significato: ti
basta leggere un libro di storia
perché la tua fiducia venga distrutta?
Ribadisco che si tratta dello stesso
albero, ma ti dico anche che i libri di
storia hanno ragione! Il tempio è
stato trasformato in un santuario
hindu e l’albero è stato distrutto…
Ma prima che ciò accadesse,
l’imperatore Ashoka ne aveva
inviato un ramo a Ceylon perché vi
fosse piantato, così il medesimo
albero ha continuato a crescere su
quell’isola, e quando il santuario è
stato nuovamente trasformato in un
tempio buddhista, un ramo di quella
stessa pianta fu portato indietro e
ripiantato. Esiste quindi una
continuità, e si tratta dello stesso
albero.
Secondo il Buddha, inoltre,
persino un’unica pianta non rimane
mai la stessa per due istanti
consecutivi, perché cambia e si
trasforma di continuo. Il tuo corpo
muta senza sosta e fra sette anni sarà
del tutto nuovo: quello vecchio
sparirà e al suo posto ce ne sarà uno
interamente rinnovato. Ma anche se
non resterà neppure una sola cellula
del tuo antico corpo, esiste una
continuità: sarà ancora lo stesso
perché c’è continuità. L’albero della
Bodhi di Bodhgaya è quindi lo
stesso albero sia nel senso inteso dal
buddhismo che in quello scientifico.
E comunque non avere fretta: se
perdi la fiducia così rapidamente e
con tanta facilità, vuol dire che non
vale poi un granché. Non si tratta di
vera fiducia, perché nel profondo i
tuoi pregiudizi continuano a esistere,
e aspetti solo l’occasione buona per
poter manifestare i tuoi dubbi. Per te
la diffidenza è più importante della
fiducia: ti fidi malgrado te stesso,
ma la tua tendenza naturale è
fondata sul dubbio e sulla sfiducia.
Quando riesci a confutare qualcosa
ti senti molto appagato, mentre
quando non puoi farlo, ti senti
soffocare: grazie al dubbio, infatti, il
tuo ego torna ad acquistare un ruolo
di preminenza, mentre la fiducia lo
costringe al suicidio!

Quella che sto per commentare è
una bellissima parabola e i Sufi sono
stati i più grandi maestri di
quest’arte: con questi racconti
riescono a dire cose che sarebbe
impossibile esprimere in parole, e
hanno creato le parabole più belle
che esistano. Assapora questa storia
con calma, perché è breve, ma
possiede un significato molto
profondo.
La parabola è un modo per dire
una cosa in maniera indiretta. La
verità non può essere affermata in
modo esplicito perché sarebbe
troppo violento, troppo aggressivo,
troppo maschile; si può esprimere
solo in modo estremamente obliquo:
vi si può alludere, la si può lasciar
intendere… Non puoi essere
convinto dalla verità, puoi solo
esserne persuaso! E il maestro non ti
convince mai della verità, ma ti ci
conduce con la seduzione.
Le parabole sono molto
affascinanti e possono anche colpire
all’improvviso persone che non
erano affatto alla ricerca della verità,
rendendola d’un tratto accessibile.
Le storie inoltre piacciono alla gente
e tendono a fissarsi nella coscienza:
è difficile dimenticarle e molto
facile ricordarle, perché riescono a
trovare il modo di raggiungere il
centro più profondo del tuo essere.
Per questo i Sufi hanno sempre
usato le parabole: il loro mondo è
del tutto diverso da quello dello Zen,
del Tao, dello Yoga o del Tantra.
Ebbene, oggi ti do il benvenuto nel
mondo dei Sufi, che è più artistico,
più poetico, più estetico e
infinitamente più sottile…

Un uomo decise di cercare il
maestro perfetto…

Ebbene, “decidere” una cosa simile
è sbagliato, perché la decisione
deriva dalle esperienze passate; una
persona non può decidere di cercare
il maestro perfetto, può soltanto
rendersi disponibile in modo
passivo. Cercare, decidere, sono vie
attive, mentre bisogna assumere un
atteggiamento più femminile, senza
avere troppa fretta: occorre
semplicemente diventare più attenti
e più vigili, più presenti rispetto a
ciò che si sta cercando di fare.
Hai mai conosciuto un maestro?
Ne hai mai fatto esperienza? Tutto
ciò che hai sentito in proposito è
solo conoscenza presa in prestito:
non sei certo che sia vero, né puoi
esserlo! Come fai a decidere? Come
puoi cercare un maestro? Quale
potrà mai essere il tuo metro di
giudizio? Come potrai valutare se si
tratta di un maestro perfetto? Sei
forse capace di giudicare e capire se
un maestro è perfetto? Se così fosse,
allora saresti superiore e ti troveresti
già a un livello ancora più alto di
quello del maestro! Se ti siedi in
cattedra a emettere giudizi, non puoi
essere un discepolo umile e passivo,
e il maestro accade soltanto se sei
passivo, umile e semplice.

Un uomo decise di cercare il
maestro perfetto.

E perché proprio il maestro perfetto?
L’ego cerca sempre la perfezione: se
sei interessato al denaro, il tuo ego
vuole che diventi l’uomo più ricco e
più perfetto del mondo; se invece
cerchi la morale, vuoi diventare il
santo più puro che esista… L’ego ha
un desiderio molto profondo di
perfezione: tutti gli egoisti sono
perfezionisti, e tutti i perfezionisti
sono nevrotici, perché l’idea di
perfezione fa impazzire gli uomini.
Una persona umile conosce
l’imperfezione, accetta di non essere
perfetta e non chiede mai
l’impossibile: è piuttosto l’ego a
pretenderlo sempre, e finisce sempre
per fallire, sentendosi frustrato,
tradito e ingannato, per poi
ricominciare a chiedere la stessa
cosa.
Perché mai avresti bisogno di un
maestro perfetto? Stai dando per
scontato di essere una persona così
straordinaria che un maestro meno
che perfetto non sarebbe sufficiente
e non sarebbe in grado di
soddisfarti: non sarebbe alla tua
altezza, perché tu sei talmente
eccezionale che hai bisogno di un
maestro perfetto! Un maestro
normale non basterebbe: ci vuole un
essere davvero straordinario – solo
un individuo simile può destare il
tuo interesse!
E la cosa paradossale è che la
straordinarietà si trova solo in
situazioni molto ordinarie; lo
straordinario non esiste mai in
quanto tale, perché tutte le pretese di
essere eccezionale sono sciocche e
stupide. Un uomo vero e autentico
non pensa affatto di essere superiore
a qualcun altro in nessun modo,
perché vive in un mondo in cui non
esistono paragoni, e l’idea stessa di
cercare il maestro perfetto si fonda
su un paragone.

Un uomo decise di cercare il
maestro perfetto. Lesse molti libri…

Com’è possibile trovare un maestro
leggendo dei libri? In questo modo
sarai sempre più sommerso da mille
saperi e ciò rappresenterà una
barriera. Eppure accade proprio
questo: la gente inizia a pensare a
dio, alla verità o alla bellezza e
inizia a leggere libri su questi
argomenti, perché crede che in
questo modo riuscirà a raggiungerli.

Mi viene in mente Rabindranath
Tagore, un grande poeta indiano, che
pensava di continuo alla bellezza,
domandandosi cosa fosse. Essendo
un poeta, era naturale che si
interessasse a quest’argomento, per
cui la sua mente era costantemente
occupata a meditare sulla bellezza.
In una serata di luna piena si trovava
sulla sua barca; era una notte
davvero magnifica: in cielo
splendeva la luna, tutto era avvolto
dal silenzio del fiume e della foresta,
e lui era solo sulla sua imbarcazione;
di tanto in tanto si poteva udire il
canto di un uccello – era l’unico
suono percepibile – e poi il silenzio
diventava ancora più profondo di
prima.
Tagore era intento a riflettere su
cosa fosse la bellezza studiando
alcune antiche scritture; nella sua
cabina brillava solo un minuscolo
lumicino e lui era stanco e frustrato,
perché in quei vecchi testi non era
riuscito a trovare nulla di concreto,
ma solo parole, parole e ancora
parole… Ma quando, nel pieno della
notte spense con un soffio la
candela, non poté credere ai suoi
occhi! All’improvviso, non appena
la fiamma si spense, il bagliore della
luna invase la cabina filtrando dalle
finestre e dalla porta, e lui fu
proiettato in un altro mondo! Si
precipitò fuori, fu inondato dal
silenzio della notte e vide la luna, il
suo riflesso argenteo sul fiume, la
foresta scura e profonda
tutt’intorno… questa era la bellezza!
L’aveva cercata in un libro,
quando lo stava aspettando appena
fuori dalla porta, ma la minuscola
luce giallognola della candela gli
aveva impedito di cogliere lo
splendore della notte: era così
immerso e così occupato dai pensieri
suggeritigli dal suo vecchio libro,
che si era scordato del tutto che
c’era la luna piena.
Gettò il libro nel fiume e quella fu
l’ultima volta in cui pensò alla
bellezza. «Pensarci non serve a
nulla!» si disse. «La bellezza è
semplicemente lì, e noi dobbiamo
renderci vulnerabili a essa.
Dobbiamo spegnere la candela, la
minuscola fiammella dell’ego, per
far entrare il divino, e permettere
alla bellezza di penetrare dentro di
noi!».

Invece accade questo: quando ti
metti in testa di trovare il maestro
perfetto, cominci a cercare
informazioni nei libri, ma questi
finiscono per confonderti, perché
ciascuno racconta una storia diversa.
Se leggi un testo giainista,
descriverà semplicemente le qualità
di Mahavira e ti dirà che un maestro
perfetto deve essere come lui: ma
non è così, perché quelle sono solo
le caratteristiche di un particolare
maestro, ossia di Mahavira! Se
consulti i testi buddhisti, anch’essi
descriveranno i tratti di un maestro
perfetto, ma anche in questo caso
sarai tratto in inganno, perché sono
solo le qualità di quella particolare
manifestazione di maestro
rappresentata dal Buddha, e così
via…
Se ti lasci intrappolare da una
descrizione trovata nei libri, la tua
ricerca sarà condannata al fallimento
fin dal primo momento. In ragione
del tuo pregiudizio aprioristico, ti
metterai a cercare il Buddha, e lui
non potrà mai ripetersi, oppure
cercherai Zarathustra, e di
Zarathustra ce n’è stato uno soltanto,
o ancora ti aspetterai di trovare un
Lao-tzu, e anche lui è un caso unico.
Ogni cosa accade soltanto una volta
e non può ripetersi: il divino non si
ripete mai, perché la sua creatività è
infinita!
Inoltre, la lettura di testi
buddhisti, confuciani o taoisti finirà
per confonderti ulteriormente,
perché descrivono tutti cose diverse.
Può darsi che tu sia una persona così
abile, intelligente e intellettualmente
dotata da riuscire a mettere insieme
tutte le caratteristiche descritte in
quei libri, ma comunque non
troverai mai il maestro perfetto.
Ti farai un’idea del tutto assurda:
è come mettere insieme un pezzo
preso da un carro per buoi e uno di
una Rolls-Royce, oppure unire le
parti di una bicicletta ad altre
provenienti da vari motori…
Otterresti uno strano oggetto
incapace di funzionare e, per quanto
lento, anche un carretto trainato da
buoi è meglio di quell’accozzaglia,
perché quantomeno serve a
qualcosa: è in grado di trasportarti e
di aiutarti a raggiungere una
destinazione; la mostruosità che hai
creato invece è del tutto inutile…
Eppure accade proprio questo!
La gente che legge libri e testi
sacri a profusione piano piano si
costruisce un’idea di maestro
perfetto che è soltanto la
combinazione di diverse
caratteristiche prese qua e là,
provenienti da diverse fonti. Ma è
impossibile trovare un maestro fatto
in quel modo, perché un uomo
simile non è mai esistito e non
esisterà mai: stai cercando un
miraggio e non riuscirai mai a
trovarlo!
Magari ti capiterà di incontrare
molti maestri, ma a causa della tua
idea continuerai a rifiutarli, perché
mancheranno sempre di questa o
quest’altra caratteristica. Il motivo
per cui non riesci a trovarne uno è
legato alla tua idea e non al fatto che
non ce ne siano: ce ne sono sempre!
Il mondo è sempre pieno di maestri,
e ricorda che il divino non è affatto
tirchio!
Gli ebrei dicono che possono
esistere solo trentasei maestri alla
volta: solo trentasei? Davvero dio è
così taccagno? E perché mai proprio
trentasei? Eppure, se paragonato ad
altre religioni, l’ebraismo risulta
addirittura generoso! Secondo i
giainisti, nel corso dell’intera
creazione – dall’inizio alla fine dei
tempi – ci sono solo ventiquattro
maestri perfetti: in un’era che dura
milioni e milioni di anni ne esistono
solo ventiquattro? Vuol dire che per
milioni di anni non sarà presente
nemmeno un singolo maestro! Gli
hindu, poi, sono anche più spilorci,
perché affermano che ce ne sono
solo dieci, e i cristiani sono persino
peggio, perché dicono che dio ha un
solo figlio, Gesù, ed è l’unico
maestro perfetto che esista…
ebbene, come farai allora a trovarne
uno?
Io ti dico che il divino è generoso:
non ci sono limiti, non esiste un
numero finito di maestri!
Continuano a manifestarsi, solo che
la gente è cieca e sorda, e sapere che
ti trovi in questa condizione fa
davvero male, ferisce
profondamente! È questo il motivo
per cui tutte quelle teorie riscuotono
successo. Ricordalo sempre: il fatto
che esista solo un numero finito di
maestri – uno, dieci o ventiquattro –
rappresenta una grande consolazione
per te, perché significa che, se non
sei riuscito a trovare il maestro
perfetto, non puoi farci nulla. Non
sei tu il responsabile, visto che un
maestro accade solo una volta ogni
tanto, e in questo momento non
esiste, perciò non è colpa tua se non
l’hai trovato: se mai la responsabilità
sarà del divino, ma non tua! In
questo modo ti senti sollevato.
Io invece ti dico che il maestro
perfetto è sempre disponibile,
proprio come lo sono le rose o i fiori
di loto, come il sole sorge ogni
mattina e come brillano sempre
milioni di stelle: devi soltanto aprire
gli occhi e smettere di essere cieco.
Ma la situazione che viviamo è
davvero sconfortante. Ho letto una
storia che parla proprio della tua
condizione…

Una donna aveva appena partorito
un bambino ma non l’aveva ancora
visto, e quando chiese al medico di
portarglielo, lui si rifiutò.
«Ho paura che non sia affatto una
buona idea che lei lo veda adesso»
disse il dottore. Ma poiché la donna
continuava a insistere, cominciò a
spiegarle le ragioni del proprio
rifiuto.
«Vede signora» continuò «per un
caso davvero sfortunato, suo figlio è
nato con una malformazione, e
credo sia meglio che lei si riprenda
del tutto dal parto prima di vedere il
bambino».
«Mi dica dottore! Devo sapere ciò
che è accaduto! Devo assolutamente
vedere mio figlio!» lo supplicò la
donna.
Il medico, pensando di
risparmiarle la vista del bambino,
tentò allora di spiegare alla madre la
natura della deformità del bimbo:
«Sarò sincero» disse «suo figlio non
ha le gambe».
La donna rimase senza fiato, ma
poi cercando di riprendersi dal
colpo, si ricompose e chiese
nuovamente di vedere il bambino.
«Signora» riprese il medico «nel
tentativo di risparmiarle la nuda
verità, non le ho detto tutto… suo
figlio non ha né gambe né braccia».
«Dottore!» esclamò la donna. «Mi
porti mio figlio: sarà senza gambe e
senza braccia, ma io devo vederlo!».
«Capisco» continuò il medico
«avrei dovuto essere più brutale: suo
figlio non ha nemmeno il busto!».
«Gli mancano gambe, braccia e
busto?» singhiozzò la donna. «Me lo
porti! Avrà ancora più bisogno di
me!».
Il medico finalmente si convinse e
le portò il neonato. Appena lo vide
la donna ebbe un sussulto: avvolto
in un panno, c’era un orecchio lungo
trenta centimetri. Lo prese, si mise a
cullarlo e cercò di consolarlo
dicendogli: «Andrà tutto bene,
tesoro, vedrai che in qualche modo
ce la faremo…».
«Signora» la interruppe il medico
«sta sprecando fiato: il bambino è
sordo!».

Questa è la condizione in cui si trova
l’umanità. Siete sordi, ciechi e senza
cuore… ma accettare questa
situazione fa male: riconoscerla e
prenderne coscienza è doloroso,
perciò continuiamo a cercare
spiegazioni per evitare di vedere la
verità su noi stessi.
Il discepolo non riesce a trovare il
maestro perché non è pronto, ma
continua ad affermare che non
esiste!

Quand’ero uno studente
universitario, il giorno della festa
dell’illuminazione del Buddha, il
vicerettore, in tono appassionato e
denso di emozione, disse: «Se io
fossi vissuto al tempo del Buddha,
avrei rinunciato al mondo, mi sarei
seduto ai suoi piedi e l’avrei seguito
come un’ombra!».
Conoscevo bene quell’uomo ed
era davvero inconcepibile
immaginarlo nei panni di un seguace
del Buddha, così non potei evitare di
alzarmi in piedi e dire: «Per favore,
ritiri ciò che ha appena detto, perché
so perfettamente che lei è l’ultimo
uomo al mondo che sarebbe potuto
diventare un seguace del Buddha!
Inoltre, crede forse che al giorno
d’oggi non esistano dei buddha? È
mai andato a trovare Ramana
Maharshi?».
«No…» fu costretto a rispondere.
«Eppure lui era vivo!» continuai.
«Fino a pochi anni fa era ancora
vivo, ed era un suo
contemporaneo!» Al tempo in cui
avvenne quest’episodio, intorno al
1955, il vicerettore era un vecchio di
settant’anni, e Ramana Maharshi era
morto nel 1951, solo pochi anni
prima.
«Era un suo contemporaneo»
ripresi «e Arunachala non è poi così
distante; ai tempi del Buddha
avrebbe dovuto viaggiare anni per
raggiungerlo, ma Ramana Maharshi
stava solo a un’ora di volo da qui. Ci
è forse andato? Oppure è mai andato
a trovare Krishnamurti? Lui è ancora
vivo! Eppure parla con tanta
emozione e tanta passione! Chi sta
cercando di prendere in giro?».
Il vicerettore era un brav’uomo e
comprese quello che intendevo dire:
i suoi occhi si riempirono di lacrime
e ritirò ciò che aveva detto. Più tardi
mi fece chiamare e mi disse:
«Ascolta, se avevi qualcosa da
dirmi, saresti potuto venire a
parlarmi in privato!».
«E perché mai in privato?»
risposi. «La sua affermazione è
avvenuta in pubblico, e anche la mia
rettifica doveva quindi essere
pubblica. Si guardi bene dal fare
simili dichiarazioni in futuro, perché
io sarò ancora qui per due o tre
anni!».
«E ci rifletta su» continuai «lei
era vivo anche ai tempi del
Buddha!».
Il vicerettore restò sbigottito e mi
chiese: «E come fai a saperlo?».
«Lo so!» risposi. «Mi guardi negli
occhi: lei era presente anche ai
tempi del Buddha, ma non è mai
andato da lui! Eppure oggi ne parla
con tanta emozione: sta
imbrogliando gli altri, ma la cosa più
importante è che sta ingannando
anche se stesso!».

La gente continua a pensare che i
maestri siano esistiti solo in passato
e che oggi non se ne trovino più.
Ebbene, ai tempi del Buddha
accadeva la stessa cosa: ci sono
molte testimonianze di persone che
andavano da lui a chiedergli se fosse
il maestro perfetto, o che si
presentavano a Gesù domandandogli
se fosse il messia che stavano
aspettando.
Avevano il messia sotto gli occhi,
proprio di fronte a loro, eppure gli
chiedevano: «Sei tu il messia?». E se
rispondeva di no, la gente ne era
felice; mentre se diceva di sì, restava
sconvolta. Gesù rispose di sì e per
questo le persone si risentirono:
«Questo impostore!» pensavano.
«Questo figlio di un falegname, il
figlio di Giuseppe, crede di essere il
messia? Lo conosciamo fin da
quand’era bambino, l’abbiamo visto
giocare per le strade del villaggio, e
adesso all’improvviso è diventato il
messia!».
Le persone hanno sempre fatto
questo genere di domande; ai tempi
del Buddha dicevano: «In passato,
all’epoca delle Upanishad e dei
Veda, esistevano maestri perfetti, ma
ora, in questi tempi terribili, sono
scomparsi!». Anche adesso la gente
dice le stesse cose, e continuerà a
ripetere questo ragionamento in
eterno: in realtà non vuole vedere!

Un uomo decise di cercare il
maestro perfetto.
Lesse molti libri, fece visita a
un’infinità di saggi, li ascoltò,
discusse con loro e si esercitò, ma
finiva sempre per ritrovarsi pieno di
dubbi e di insicurezze.

Puoi leggere, discutere e usare la
logica quanto vuoi, ma finché non
proverai l’esperienza del maestro,
non ti servirà a nulla e continuerai a
essere pieno di insicurezze: solo
l’esperienza riesce a fugare i dubbi.
Ma come si fa a sperimentare il
maestro perfetto? Come prima cosa
devi soddisfare il requisito di fondo
e diventare un discepolo. E qual è la
qualità essenziale di un discepolo? È
la capacità di preghiera! La capacità
di aspettare, di essere perfettamente
vuoto, di abbandonarsi, di essere
aperto e ricettivo: questa è la
preghiera. Se sei capace di pregare,
sai tutto ciò che c’è da sapere, e non
incontrerai solo il maestro perfetto,
ma il divino stesso!
Medita su queste parole di Rainer
Maria Rilke:

Non posso dirti chi devi pregare. La
preghiera si irradia dal nostro
essere che prende fuoco
all’improvviso, è una direzione che
si estende all’infinito senza uno
scopo, una compagna crudele delle
nostre speranze che attraversa
l’universo senza giungere ad alcuna
meta.
Oh, questa mattina, ho avuto la
certezza di essere così distante da
quelle persone avide, che prima di
pregare domandano se dio esiste!
Che differenza farebbe se dio
avesse cessato di esistere o non
fosse ancora nato? Il divino è creato
dalla mia preghiera, che
innalzandosi al cielo, è una forza
creatrice assoluta!
E se il divino che si proietta fuori
da se stesso non è per nulla
durevole, meglio ancora!
Continueremo a ricrearlo
all’infinito, impedendogli di
logorarsi nel corso dell’eternità!

Sono le preghiere a creare il divino,
sono loro che creano il maestro
perfetto! La preghiera crea, realizza,
rivela… Ti prepara alla rivelazione!
Non si dovrebbe cercare un
maestro: bisogna semplicemente
imparare a pregare… e il maestro
arriverà! Verrà di sua iniziativa,
oppure ti chiamerà a sé, dovunque tu
ti trovi e, quando vieni chiamato, il
viaggio è del tutto diverso: possiede
una qualità e un’intensità differenti.
Non hai la sensazione di andare dal
maestro, bensì quella di essere
chiamato, e sai che non hai alcuna
possibilità di sottrarti: il suo
richiamo è irresistibile e ne vieni
attratto come da un immenso
magnete. Sei impotente, eppure sei
entusiasta, perché ti ha scelto! E
arrivi a lui danzando: ti senti così
fortunato a essere stato scelto…
Ovunque tu sia, limitati a
prepararti; non fare domande, non
dirti: «Se non esiste un maestro
perfetto, a che scopo allora
prepararsi a essere un discepolo
perfetto?». Non preoccuparti, il
maestro esiste sempre!
Questo è il significato delle
bellissime parole di Rilke: La
preghiera si irradia dal nostro
essere che prende fuoco
all’improvviso, è una direzione che
si estende all’infinito senza uno
scopo…
All’inizio non sai dov’è diretta la
tua preghiera: non può avere alcuna
direzione, alcuna meta… Come puoi
pregare il divino? Non lo conosci ed
è per questo che stai pregando!
Vorresti sapere cos’è, ma non lo sai,
per questo ci metti tutto il tuo cuore,
che palpita in attesa che
l’inconoscibile si impossessi di te:
questa è fede, questa è fiducia!

La mente scettica invece vuole
prima avere la certezza che il divino
esiste, solo allora si metterà a
pregare. Rilke ha ragione: Oh,
questa mattina, ho avuto la certezza
di essere così distante da quelle
persone avide, che prima di pregare
domandano se dio esiste!
Se dici: «Pregherò dio, soltanto se
esiste», non lo farai mai, perché se
non preghi non avrai mai la certezza
della sua esistenza: stai
subordinando la preghiera a una
condizione impossibile, che non si
realizzerà mai! Devi pregare, senza
domandarti se il divino esiste o no;
per ora è irrilevante: adesso limitati
a rendere possibile la preghiera!
La preghiera è un canto
dell’anima dedicato
all’inconoscibile – che forse esiste o
forse no, ma non è questo il punto:
l’importante è metterci tutto il
proprio cuore, il che è già di per sé
una gioia. Che dio esista o no è
irrilevante: la preghiera è la cosa
principale, e quando diventa la cosa
essenziale, ti rivela il divino – ti apre
gli occhi e crea il divino!
All’improvviso il mondo intero si
accende e il tuo essere prende fuoco:
quando il tuo cuore è infiammato,
improvvisamente vedi il mondo
intero illuminato dal divino,
dall’inconoscibile, dal mistero…

Che differenza farebbe se dio avesse
cessato di esistere o non fosse
ancora nato?
Questo è un pensiero davvero
bello, ed è l’atteggiamento che
dovrebbe avere una persona davvero
religiosa!

Il divino è creato dalla mia
preghiera…
La preghiera si trasforma nel
grembo che dà vita al divino, e
questo è precisamente l’approccio
dei Sufi. Rilke riprende quasi alla
lettera il cuore del sufismo, ma gli
amanti, i poeti e i mistici hanno
sempre sperimentato questa verità…

Che differenza farebbe se dio avesse
cessato di esistere o non fosse
ancora nato? Il divino è creato dalla
mia preghiera, che innalzandosi al
cielo, è una forza creatrice assoluta!
E se il divino che si proietta fuori da
se stesso non è per nulla durevole,
meglio ancora! Continueremo a
ricrearlo all’infinito, impedendogli
di logorarsi nel corso dell’eternità!
Continueremo a pregare e a creare
il divino… In effetti non si tratta di
una creazione, bensì di una
rivelazione, ma alla persona che
prega, a cui il divino si rivela per la
prima volta, appare come una
creazione – come se fosse stata la
preghiera a crearlo! In realtà è una
rivelazione: la spessa cortina di
oscurità che ti vela gli occhi viene
dissolta, il tuo cuore inizia a pulsare
come vorrebbe la sua natura, e
finalmente entri in sintonia con il
Tutto… All’improvviso il divino è
presente! Ma prima di lui, ti apparirà
il maestro, che è il legame fra te e
l’inconoscibile.
Come prima cosa, dunque, la
preghiera ti rivelerà il maestro: è il
primo passo, ma è metà del
cammino – fanne ancora uno, e il
tuo viaggio sarà completo!

La preghiera è ingenua: aspetta
qualcuno che non arriva mai, chiama
qualcosa che non c’è – o che
quantomeno in questo momento non
esiste.
«Se esiste un dio che ama gli
uomini, che parli adesso!» afferma il
poeta Seneca nella sua tragedia
Tieste. L’anima in preghiera dice:
«Ti sto parlando! Dico a te! Ci sei?
Dammi un piccolo segno, basterà
una sola parola, un gesto… Dove
sei?». Gridi queste parole al cielo
per mille volte, senza ottenere
risposta: la tua preghiera si perde nel
nulla… ma anche se si dissolve nel
vuoto, se non riceve risposta, se
dall’altra sponda non giunge alcuna
voce, continua comunque a
trasformarti.
I suoi effetti sono chiaramente
visibili, perché anche se non
modifica la realtà esterna, continua a
trasformare te: diventi sempre più
delicato, sempre più femminile, e un
giorno, quando ti sarai sciolto del
tutto, quando non avrai più una
forma solida e corporea, quando
sarai diventato un fluire, arriverà la
risposta – e non giungerà dall’altra
riva, ma dal cuore più profondo del
tuo essere, perché quella, in realtà, è
l’altra sponda!
Ma prima che ciò accada,
incontrerai il ponte che collega
questa sponda all’altra, che unisce
questo e quello: il maestro!

In realtà, cercare un maestro perfetto
è molto stupido, perché essere un
maestro vuol dire essere perfetti: è
come ripetere la stessa parola due
volte. Non esistono maestri
imperfetti e maestri perfetti: un
maestro è perfetto! Se non ti appare
come tale, significa che non
risponde alla tua idea di perfezione,
e lui non soddisfa mai l’aspettativa
ideale di nessuno: vive
semplicemente la sua vita, ma lo fa
nella perfezione.
Ricorda che, quando uso la parola
“perfezione”, le attribuisco sempre il
senso di completezza, e non il
significato che le dai tu. È un
problema che si presenta di
continuo: quando dico “perfetto”, tu
inizi a pensare: «Avrà questa o
quest’altra caratteristica… e non si
arrabbierà mai». Invece sono esistiti
maestri che si infuriavano
terribilmente… Ma anche quando un
maestro si arrabbia, lo fa in modo
perfetto.
Persino Ramana Maharshi, che
era un saggio così silenzioso, a volte
si arrabbiava, e quando accadeva
diventava davvero furioso, perché la
sua era rabbia pura.

Un giorno arrivò da lui uno studioso
che cominciò a porre quesiti
sciocchi e Ramana lo ascoltò. Le
domande erano molto lunghe e
l’uomo le sosteneva infarcendole di
citazioni tratte dalle sacre scritture.
Il maestro continuava a dirgli: «Per
favore, medita! L’unica cosa che
devi fare è chiedere a te stesso: “Chi
sono io?”. Nessun’altra domanda è
importante!», ma l’uomo non lo
ascoltava e continuava a parlare
senza sosta.
I discepoli non poterono crederci:
all’improvviso Ramana prese il suo
bastone e si scagliò contro lo
studioso, che si spaventò a tal punto
da fuggire dalla stanza; Ramana
allora lo inseguì fino ai confini
dell’ashram e poi tornò indietro
ridendo. I suoi discepoli non
potevano credere ai loro occhi e gli
chiesero: «Possibile che tu sia
davvero arrabbiato?».
«Certo, ma osservate la
perfezione di questa rabbia!» rispose
lui.

Se credi che un maestro non
dovrebbe mai arrabbiarsi,
incontrerai parecchie difficoltà,
come pure se pensi che non
dovrebbe mai sembrare preoccupato.
Krishnamurti, per esempio, spesso
appariva molto inquieto, tuttavia non
si preoccupava per se stesso, ma per
te! Continuava a ripetere una cosa e
la gente non capiva, persistendo
nella propria ignoranza: per forza si
arrabbiava, e anche molto – fino ad
arrivare quasi a sbattere la testa
contro il muro!

Un uomo venne da me e mi disse:
«Pensavo che Krishnamurti fosse
come un buddha, ma oggi sono
andato ad ascoltare un suo discorso
e si è infuriato senza alcuna
ragione!».
«Raccontami tutta la storia» gli
dissi.
«Stava parlando del fatto che non
c’è bisogno di nessun metodo, di
nessuna meditazione» cominciò «e
diceva che bisogna abbandonare
tutte le vie, le meditazioni e i
sentieri, quando una donna molto
anziana si è alzata in piedi e gli ha
chiesto: “Come si fa?” e a quel
punto lui si è infuriato!».
«La conosco» dissi io «perché è
venuta anche da me, e posso capirlo
perfettamente: provo tutta la
simpatia del mondo per
Krishnamurti! Quella donna segue i
suoi discorsi da quasi cinquant’anni;
fa parte del suo pubblico più
affezionato e sta sempre seduta in un
angolo: va a sentirlo ogni volta che
Krishnamurti viene a Bombay e lui
deve proprio essersi stancato.
Domanda sempre: “Come si fa?” e
lui continua a ripetere che non esiste
nessun “come”, perché porsi questo
problema implica un metodo.
Quando affermiamo che non esiste
nessun metodo, intendiamo dire che
non c’è alcun “come”: o ti illumini
in questo preciso istante, o non ti
illumini – spetta a te la decisione –
ma non esiste nessun “come”. Puoi
decidere di esistere o di non esistere,
ma non chiedere come fare: non c’è
alcun “come”! O apri gli occhi e
cominci a vedere, oppure li tieni
chiusi e continui a sognare, ma non
domandare come si fa!».
«Krishnamurti» ripresi «l’ha
ripetuto di continuo per
cinquant’anni, e quella donna ha
continuato a insistere. Ogni volta si
alza in piedi e chiede: “In che
modo? Come si fa?”. È naturale che
si sia infuriato! Ma la sua rabbia non
è uguale a quella che puoi provare
tu: si tratta infatti della sua risposta,
della sua compassione, e possiede
una qualità differente, perché lui è
compassionevole, colmo d’amore e
desidera aiutarti, ma quando vede
che continui a girare in tondo, per
scuoterti, si arrabbia in modo
assoluto».

Secondo l’idea di perfezione che hai
in testa, il maestro perfetto dovrebbe
essere simile a questo o a quest’altro
saggio… invece lui non assomiglia
proprio a nessun altro: è
semplicemente se stesso! Solo una
cosa è assolutamente certa: è sempre
totale! Qualsiasi cosa faccia, la fa in
modo completo, in lui non c’è nulla
di parziale o incompiuto: se è
arrabbiato, lo è in modo totale, se
ama, ama in modo totale… La sua
unica qualità è questa totalità, ed è
questo che intendo con “perfezione”.
Tutti i maestri sono perfetti, per
cui non ha senso cercare un maestro
perfetto: giorno dopo giorno
trasformati invece in un discepolo,
perché quello è il punto di partenza
per il tuo viaggio!

Lesse molti libri, fece visita a
un’infinità di saggi, li ascoltò,
discusse con loro e si esercitò, ma
finiva sempre per ritrovarsi pieno di
dubbi e di insicurezze.
Dopo vent’anni incontrò un uomo
le cui parole e le cui azioni
corrispondevano perfettamente alla
sua idea di persona totalmente
realizzata.

Quest’uomo si è portato dietro la
stessa idea per vent’anni! Stava
cercando una fotocopia: aveva già
stabilito come doveva essere un
maestro perfetto e tutto ciò di cui
aveva bisogno era trovare qualcuno
che corrispondesse alla sua idea. E
nota bene che secondo lui è l’altra
persona che deve adattarsi alla sua
idea: questo è ego – puro ego! Non è
umiltà, non è il cammino del
discepolo, non è la strada di un
uomo umile – non è la via del vero
ricercatore.
Quest’uomo agisce in base a una
convinzione che ha già stabilito
essere giusta: ma com’è possibile
che una tua idea sia corretta? Se le
tue conclusioni fossero giuste, tu
stesso saresti un maestro perfetto e
non ci sarebbe più bisogno di
cercarne un altro!

Dopo vent’anni incontrò un uomo le
cui parole e le cui azioni
corrispondevano perfettamente alla
sua idea di persona totalmente
realizzata.

Dev’essere stata una vera
coincidenza!

Il pellegrino non perse tempo e
disse: «Tu mi sembri proprio un
maestro perfetto: se è così, il mio
viaggio è giunto al termine!».

Ma, vedi, c’è ancora quel “se”…
Poiché quest’uomo, nella sua
ignoranza, è già giunto a una
conclusione, come può avere
davvero fiducia? Se incontra una
persona che non corrisponde alla sua
idea, vuol dire che non è un maestro,
e se invece, per mera coincidenza, si
imbatte in un uomo che soddisfa le
sue convinzioni, si insinua nella sua
mente un dubbio terribile: la sua
idea può essere giusta, ma può anche
essere sbagliata… da qui nasce quel
“se”.
Per questo dice: «Tu mi sembri
proprio un maestro perfetto: se è
così, il mio viaggio è giunto al
termine!».

«In effetti» rispose il maestro «puoi
chiamarmi in quel modo».

Per un maestro queste sono solo
parole: che tu lo chiami buddha,
illuminato, Cristo, messia, maestro
perfetto… sono soltanto nomi. Non
descrivono ciò che è veramente:
sono semplici etichette. La gente
magari ne ha bisogno, ma il maestro
no: lui è ormai giunto a casa, dove
tutte le parole hanno perso ogni
significato; ha raggiunto quel
silenzio in cui non esistono discorsi
– il silenzio privo di suoni.
Per questo il maestro dice: «Puoi
chiamarmi in quel modo». Non
afferma di essere o no un maestro
perfetto, dice semplicemente: «Sì, in
effetti la gente usa quella parola per
descrivermi».

«Allora, ti prego, accettami come
tuo discepolo!».

Ma quell’uomo non si è mai
preparato minimamente a diventare
un discepolo e ora, all’improvviso,
vuole essere accettato come tale…

«Questo non posso farlo» rispose il
saggio «perché, per quanto tu
desideri un maestro perfetto, lui, dal
canto suo, può accettare solo un
discepolo perfetto!».

Vent’anni di ricerca sprecati, finiti
nella spazzatura! Il maestro ha
ragione e sta dicendo: «Cosa credi?
Se cerchi un maestro perfetto, è
normale che anche lui desideri un
discepolo perfetto! Perciò, datti da
fare e diventa prima perfetto: corri a
trasformarti in un discepolo!».
La gente crede che per diventare
un discepolo non ci voglia nulla,
invece è necessaria una grande
disciplina. Le due parole
“discepolo” e “disciplina” hanno lo
stesso significato: la loro radice
comune vuol dire “capacità di
imparare”.
L’uomo di questa storia è
incapace di apprendere e ha passato
vent’anni agendo sulla base delle
sue convinzioni prestabilite, senza
imparare nulla. Nel corso di questi
vent’anni si è imbattuto in molti
maestri, ma ha dato più importanza
alle proprie idee che a loro: invece
di prendere in considerazione la
realtà degli esseri perfetti che ha
incontrato, è rimasto intrappolato nel
proprio ego.
E adesso dice: «Visto che
corrispondi alle mie idee, penso che
tu sia il maestro perfetto – non
perché tu lo sia veramente, ma solo
perché trovi riscontro nelle mie
idee!». Ma chi ti credi di essere? E
com’è possibile che le tue idee siano
determinanti? Come fanno a essere
decisive? Da dove le hai prese: dai
libri, dalle discussioni, dai dibattiti?
Sono tutte cose prese in prestito e,
nella tua ignoranza, hai raccattato
ogni genere di sciocchezze!
In realtà quando leggi un libro
non comprendi nulla di ciò che c’è
scritto: capisci solo ciò che la tua
ignoranza è in grado di intendere.
Come puoi comprendere il Corano?
Per farlo avresti bisogno del cuore di
Maometto, così come per capire la
Gita dovresti possedere la
consapevolezza di Krishna!

Vorrei raccontarti qualche
barzelletta…

«Mamma!» dice il piccolo Jimmy.
«Voglio andare a vivere con Carol,
la bambina della porta accanto!».
«Ma avete tutti e due solo sei
anni» risponde sorridendo la
mamma «dove andreste a vivere?».
«Nella sua camera da letto!»
ribatte Jimmy.
«E di cosa vivrete? Non avete
denaro… Cosa farete quando
arriveranno dei bambini?» chiede la
mamma.
«Be’» dice Jimmy tutto serio
«finora ce la siamo cavata… e se lei
si mette a deporre uova, io le
calpesterò!».

L’ignoranza dell’uomo di questo
racconto Sufi è quasi pari a quella di
questo bambino. Che idea puoi mai
avere della perfezione, di un maestro
o del divino? Le tue idee saranno per
forza infantili, e continuerai a
comprendere solo ciò che sei in
grado di capire.
Le parole inoltre sono sempre
vaghe e di per sé non vogliono dire
nulla: sei tu che proietti su di loro un
certo significato. Ogni parola è un
semplice vuoto che viene riempito
con il significato che le attribuisci.

Due hippy stanno arrancando a
tentoni fra le paludi della Louisiana.
Quando uno dei due riesce a risalire
sulla terraferma, l’altro gli dice:
«Amico, un alligatore mi ha appena
addentato una gamba!».
«Quale?» chiede il primo.
«Non lo so» risponde il suo
compagno. «Non riesco a
distinguere un alligatore da un
altro!».

Le parole non corrispondono a nulla
di reale: dipende tutto dal significato
che attribuisci loro.

Un medico venne chiamato a
visitare una signora che conduceva
una vita molto mondana. Quando il
dottore le chiese come si sentiva, lei
spiegò: «Ultimamente non ho
dormito molto: ieri sera, dopo il
teatro, abbiamo cenato al Carlton,
poi siamo andati a bere qualcosa, e
ora sento proprio che ho lo stomaco
in disordine!».
«Una cosa è certa:» disse il
medico «dovrà tirare un po’ la
cinghia!».
«Oh, che bello dottore!» esclamò
la donna. «Quale, quella blu o quella
rossa?».

O ancora...

Un irlandese che si trova in visita
negli Stati Uniti riflette sulle strane
abitudini degli americani:
«Prendono un bicchiere di ginger ale
e ci aggiungono prima del whisky
per renderlo più forte e quindi
dell’acqua per renderlo più leggerlo;
ci mettono il limone per renderlo più
aspro e poi lo zucchero per
addolcirlo… Infine alzano il
bicchiere e dicono: “Alla tua!” e poi
se lo bevono da soli!».

Quando osservi una cosa o leggi
delle parole, vi attribuisci un
significato, ma si tratta sempre del
tuo significato – e non potrebbe
essere altrimenti. Perciò, puoi
leggere tutti i libri che vuoi e
accumulare un sacco di spazzatura,
ma il significato sarà sempre quello
che gli dai tu: puoi anche citare la
Bibbia, in realtà stai semplicemente
citando te stesso.
È accaduto per secoli e secoli:
quando un testo sacro viene tradotto
in un’altra lingua, subisce molti
cambiamenti. Così è avvenuto con la
Bibbia, perché i discorsi che Gesù
fece in aramaico sono stati tradotti
prima in ebraico, poi in greco e
quindi in inglese: ci sono stati così
tanti passaggi, che la loro fragranza
originale è andata del tutto perduta.
Non è più la stessa cosa, non è
possibile, perché ciascuno degli
innumerevoli interpreti e traduttori
che vi ha messo mano ha attribuito a
quelle parole il proprio significato.
Per esempio, nel versetto 8,24 del
Vangelo di Giovanni si legge: «Se
non crederete che io sono il Cristo,
morirete nei vostri peccati…». Ma la
parola “Cristo” non è affatto
presente nel manoscritto originale! I
primi traduttori rimasero perplessi di
fronte all’assenza di un oggetto, e
dando semplicemente per scontato
che mancasse una parola, hanno
corretto la frase: «Se non crederete
che io sono» – perché questa era
l’espressione originale: «Se non
crederete che io sono…»!
Loro invece l’hanno modificata,
perché sembrava incompleta: «Chi
sei tu, per dire soltanto “io sono”?
Così la frase sembra incompiuta!»
hanno pensato, per cui ora si legge:
«Se non crederete che io sono il
Cristo – che io sono dio…».
In questo modo si è persa la
bellezza e il profondo significato
dell’originale, e ancora oggi nella
Bibbia si legge: «Io sono il Cristo».
Ma Gesù ha detto semplicemente:
«Io sono!» e quel “sono” è la qualità
stessa dell’esistenza: non stava
dicendo: «Io sono dio», perché una
simile affermazione implica
l’accettazione di una dualità fra “io”
e “dio”, e in questo caso “sono”
diventa soltanto un ponte fra queste
due polarità. Quando Gesù ha detto:
«Io sono», intendeva semplicemente
che lo puoi chiamare “dio” oppure
“io”, ma si tratta della stessa cosa:
sono semplicemente due modi
diversi di esprimere la stessa realtà.
E questa è un’affermazione
migliore e di gran lunga superiore
rispetto al «tu sei quello» presente
nelle Upanishad, che invece dà per
scontata una dualità. Nel negarla,
finisce infatti per accettarla.
Dicendo: «Tu sei quello», la dualità
viene accolta, mentre quando Gesù
dice «io sono» fa un’affermazione di
livello più elevato.
Quando Mosè incontrò dio in
cima alla montagna, gli chiese: «La
gente mi chiederà di te: cosa posso
dire?».
«Dì semplicemente loro» gli
rispose dio «che io sono colui che
sono!».
Sono parole strane, ma che hanno
un significato profondo.
Gesù parlava muovendo dalla sua
consapevolezza e la riversava in
tutto ciò che diceva, ma quando i
suoi discorsi giungono a te, ti
arrivano soltanto parole vuote,
perché il suo spirito si è perso per
strada. Per cui riempi quelle frasi
con la tua voce e la tua personalità, e
affermi che le hai lette nella Bibbia,
nel Corano o nei Veda, in realtà stai
semplicemente leggendo te stesso.
Tutte le scritture funzionano da
specchio: quello che vedi riflesso è
semplicemente il tuo volto… E
ricorda che se una scimmia si guarda
allo specchio, non vedrà di certo un
angelo!

Nonostante quell’uomo abbia letto,
ascoltato, discusso e fatto pratica, il
suo dubbio rimane. In vent’anni di
ricerca ha incontrato molti saggi, ma
nessuno di loro è riuscito a
soddisfarlo: non gli sarebbe bastato
nemmeno incontrare dio in persona!
E forse, chissà, potrebbe averlo
incontrato davvero, perché il divino
si presenta sotto molte forme…Si
tramanda una storia su un grande
mistico musulmano che viveva in
una moschea. Aveva un seguace
hindu che era un brahmano e
cucinava per lui: pur vivendo a otto
chilometri di distanza, gli portava il
cibo alla moschea e restava seduto lì
ad aspettare finché il maestro non
mangiava.
Quel mistico era un uomo
davvero bizzarro: a volte mangiava
al mattino, a volte al pomeriggio, a
volte alla sera e talvolta persino di
notte, e il discepolo restava ad
aspettare digiuno, finché il maestro
non aveva consumato il suo cibo. A
volte capitava quindi che restasse
affamato per tutto il giorno, e
quando rientrava a casa era così
stanco che pensava: «E chi ha voglia
di mettersi a preparare altro cibo…
lo farò domani!», così si
addormentava a pancia vuota.
Un giorno il maestro gli disse:
«Ascolta, non c’è bisogno che tu
faccia un viaggio così lungo: posso
venire io da te, perciò domani cucina
come sei solito fare, e io verrò a casa
tua. È davvero troppo caldo per fare
tutta questa strada, e a volte finisci
per aspettare tutto il giorno… D’ora
in poi faremo in modo diverso: tu
tieniti pronto, sarò io a venire da te».
Il giorno seguente il discepolo
preparò pietanze deliziose, perché il
maestro sarebbe venuto da lui per la
prima volta, ed era molto
emozionato: il maestro a casa sua!
Questa sì che era una grazia! Decorò
tutta la casa, sparse fiori sul sentiero
d’ingresso… ma, tranne un cane,
non si fece vivo nessuno.
Quel cane era affamato e dovette
cacciarlo e ricacciarlo fuori più
volte, perché continuava a tornare
tentando di rubare il cibo. Aveva
visto molti cani in vita sua, ma
questo era proprio strano:
nonostante le botte che gli dava,
continuava a tornare. Quando il
discepolo gliele suonò di santa
ragione, notò che il cane aveva le
lacrime agli occhi, poi scomparve.
Il brahmano attese fino a sera, poi
pensò: «Quest’uomo è pazzo –
dev’essersi dimenticato!». Così
prese il cibo, raggiunse la moschea e
vide che il maestro stava
piangendo… le stesse lacrime del
cane! Davvero stupito, gli chiese:
«Perché piangi?».
«E perché non dovrei?» rispose il
maestro. «Mi hai picchiato talmente
forte!».
«Di cosa stai parlando?» chiese il
discepolo. «Come posso averti
picchiato? Inoltre, non sei mai
venuto a casa mia come avevi
promesso!».
«Certo che sono venuto» rispose
il maestro «e non solo una volta: ho
fatto almeno una dozzina di
tentativi!».
A quel punto il discepolo si
ricordò del cane che aveva tentato di
entrare in casa proprio dodici volte!
«Devi imparare a vedere ciò che
non ha forma!» riprese il maestro.
«Non essere così attaccato alle
forme esteriori: perché dovresti
pensare a me soltanto sotto questa
veste, con questo corpo? Perché non
riesci a scorgermi anche sotto
spoglie diverse?».

Ecco perché ho detto che forse
questo grande ricercatore ha
incontrato il divino… In effetti,
com’è possibile non farlo? Chiunque
incontri, ti imbatti sempre in lui! Ma
le aspettative di quell’uomo erano
così grandi, che persino il divino
non riusciva a soddisfarle! Così è
rimasto vuoto, pieno di dubbi e
privo di fiducia, e ha continuato a
cercare. E quando finalmente si è
imbattuto in una persona che
corrispondeva alle sue idee, è nato
un altro problema…

Per questo il maestro gli risponde di
no: «Questo non posso farlo – gli
dice – non posso accettarti come
discepolo, perché, per quanto tu
desideri un maestro perfetto, lui, dal
canto suo, può accettare solo un
discepolo perfetto!».
Ciò che il maestro intende è
questo: «Se avessi passato questi
vent’anni a prepararti per essere un
discepolo, mi avresti trovato molto
prima: in verità, mi hai incontrato
molte volte, ma non te ne sei
accorto, e anche questa volta hai
commesso lo stesso errore».

L’approccio dei Sufi su come
incontrare un maestro ed entrare in
comunione con lui consiste
semplicemente nel diventare un
discepolo. Non cercare il maestro:
cerca di essere un discepolo! E
lascia che te lo ripeta: il maestro
arriva quando il discepolo è pronto!
Capitolo 2

UN’ESPERIENZA DI
RINASCITA




La prima domanda:
Osho, ieri hai detto che per
diventare un discepolo bisogna
immergersi nella preghiera, ma cosa
significa esattamente pregare?

La seconda domanda:
Osho, ogni volta che mi siedo e
cerco di mettere per iscritto una
domanda da farti, la risposta arriva
ancor prima che abbia finito di
scrivere. Eppure continuo a sentire
il desiderio di domandarti qualcosa
e di ricevere una risposta: cos’è
questo desiderio?
P.S. Conosco già la risposta…

La terza domanda:
Osho, il fatto che sono diventato un
sannyasin, un ricercatore del Vero,
ha creato grande scompiglio nella
mia comunità. Anche se non sono
mai stato tanto felice e tanto in
estasi come adesso, la gente pensa
che sia impazzito: puoi parlare di
questo fenomeno?

La quarta domanda:
Osho, mia moglie è molto refrattaria
all’uso della ragione e definisce
ogni ragionamento
“razionalizzazione”. Cosa significa
ragionare? E cos’è la
razionalizzazione?
Osho, ieri hai detto che per
diventare un discepolo bisogna
immergersi nella preghiera, ma cosa
significa esattamente pregare?

La preghiera è un’esperienza di
risurrezione, una rinascita, la
creazione di una nuova visione, di
una nuova dimensione, di un modo
diverso di vedere le cose e di un
nuovo modo di essere. Non è una
cosa che fai, ma qualcosa che
diventi: è uno stato dell’essere, e non
ha nulla a che vedere con le parole
che si mormorano all’interno dei
templi, delle moschee o delle chiese.
Si tratta di un dialogo silenzioso con
l’esistenza; questo vuol dire essere
in sintonia con la totalità, con il
cosmo: pregare significa entrare in
armonia con il Tutto!
È un’esperienza così straordinaria
che è impossibile descriverla con
esattezza: è inesprimibile e qualsiasi
definizione le sta stretta. Ogni
descrizione si limita a metterne in
luce qualche aspetto, a mostrarne un
piccolo frammento, ma gran parte
della sua vera essenza resta
inespressa.
La preghiera è un’esperienza così
sconfinata che contiene delle
contraddizioni: chi afferma che è
silenzio ha assolutamente ragione;
ma ha ragione anche chi sostiene
che è dialogo, perché la preghiera è
un dialogo che avviene in silenzio. A
prima vista silenzio e dialogo
possono sembrare contraddittori: in
un caso si parla e nell’altro si
ascolta, con il dialogo comunichi,
mentre in silenzio sei semplicemente
presente, senza bisogno di dire nulla.
Cosa si può mai dire al divino?
Conosce già qualsiasi cosa tu possa
dirgli! Puoi glorificarlo, puoi
celebrarlo, ma anche il tuo inchinarti
a lui, la celebrazione, la gioia, la
gratitudine e la riconoscenza sono
comunque dei modi di esprimerti:
stai cercando di dire qualcosa senza
usare parole, perché il tuo cuore
sente un forte desiderio di
comunicare, anche se il linguaggio è
uno strumento troppo limitato.
Pur accadendo in silenzio, quindi,
la preghiera è un dialogo: si tratta di
una forma di comunicazione in cui ti
rivolgi all’intera esistenza, che
diventa il tuo “tu”, il tuo amato.
Tuttavia, nella preghiera non esiste
né un “tu” né un “io”, perché
scompaiono entrambi, combinandosi
in una sola unità, in un tutto
organico: il tuo io sparisce proprio
come le gocce di rugiada si perdono
nell’oceano… Ma se fra te e
l’esistenza non esiste più alcuna
separazione, come può esserci un
dialogo?
Sono vere entrambe le definizioni.
Chi sostiene che la preghiera è un
dialogo – come i cristiani, gli ebrei o
gli hindu – ha ragione, ma sta
parlando solo di un frammento di
quell’esperienza straordinaria. I
buddhisti affermano che non c’è
alcun dialogo e i giainisti spiegano
che la sua assenza è dovuta al fatto
che nella preghiera non esiste né un
“tu” né un “io”, ma solo un silenzio
assoluto – e anche loro hanno
ragione!
Perciò è davvero difficile definire
con precisione che cosa sia la
preghiera, perché è qualcosa che
deve restare vago e incomprensibile:
puoi averne soltanto un barlume,
puoi percepirne qualche bagliore,
ma non è possibile cogliere la sua
essenza per intero, perché non può
essere ridotta a una semplice
definizione.
La religione non è in grado di
fornire definizioni come la scienza,
che sa sempre dare una risposta
esatta alle tue domande. Se chiedi
alla scienza cos’è l’acqua, ti
risponde: «H2O» – semplicissimo!
Niente rimane escluso da questa
definizione: è del tutto esaustiva,
perché l’acqua è un oggetto che può
essere analizzato.
La preghiera invece è soggettiva e
non si può analizzare. Non puoi
mostrare a nessuno la tua preghiera,
e se qualcuno insiste nel sostenere
che non esiste, non puoi provare il
contrario. È come l’amore… Non è
come l’acqua, ma piuttosto come
l’amore, ed è questo che intende
Gesù quando afferma che dio è
amore, perché sono entrambi
indefinibili.
Ricorda sempre che esistono cose
che stanno a un livello inferiore
rispetto a te e altre che stanno a un
livello superiore: puoi essere preciso
solo sulle prime, ma non sulle
seconde, perché sono più grandi di
te. Quando la preghiera accade, non
significa che si trova dentro di te,
ma piuttosto che tu sei dentro di lei,
perché ti sovrasta e il tuo essere sta
semplicemente vibrando all’interno
di quella pienezza, di quella
dimensione sconfinata.
Tuttavia, specialmente dal XIX
secolo in poi, ci è stato insegnato a
definire con esattezza qualsiasi cosa,
e questo desiderio costante di
precisione ha distrutto molte delle
esperienze più belle e preziose della
vita. Se non riesci a descrivere
esattamente una cosa, la tua mente
cerca di negarla: non potendo
definire con precisione il divino,
afferma che non esiste; non sapendo
spiegare cos’è l’amore, dice che è
solo un sogno, e non essendo in
grado di esprimere appieno la
bellezza, sostiene che è una fantasia
inesistente. Ma allora cosa rimane?
Se non esiste più nulla di divino, il
mondo viene privato della bellezza,
dell’amore, del bene, e perde ogni
significato. Non significa che
l’esistenza in sé non abbia più alcun
senso, ma piuttosto che il tuo folle
desiderio di precisione l’ha svuotata
di ogni significato.
Il significato è un fenomeno
delicato… È come il profumo di un
fiore: non puoi afferrarlo con le
mani, eppure c’è – che tu possa
toccarlo o no, che tu riesca a
metterlo in una cassaforte oppure
no, continua comunque a esistere.
Come puoi definire la musica? Se
ci provi, la distruggi, perché si
trasforma in una combinazione di
suoni e niente più: diventa una serie
di rumori combinati in modo da non
sembrare più mero baccano, e si
riduce così a un semplice effetto
sonoro rilassante. Pensi forse che la
musica sia solo questo? In verità è
molto più di una serie di note, molto
più di un insieme di accordi…
Puoi continuare all’infinito a porti
questo genere di domande… Cos’è
la poesia? Una semplice sequenza di
versi? Certo che no! È qualcosa che
accade all’interno di una particolare
combinazione di parole, ma è molto
più del loro mero susseguirsi: non è
né la grammatica, né il linguaggio,
bensì qualcosa di trascendente. La
poesia viene provocata dalle parole,
ma queste sono semplicemente
l’occasione che le permette di
accadere.
E per la musica è esattamente la
stessa cosa: gli strumenti, le note e i
suoni sono semplicemente un mezzo
che fa accadere quel silenzio capace
di creare la musica. Quest’ultima
nasce nello spazio fra due suoni,
così come la poesia sta nel vuoto fra
due parole: bisogna quindi imparare
a leggere gli intervalli e le pause,
perché ciò che è veramente
importante non si trova mai nei
singoli versi, ma nello spazio fra le
righe.

Malgrado tutto questo, è possibile
dire alcune cose sulla preghiera, ma
non saranno mai del tutto precise;
non riuscirò quindi a rispondere alla
tua domanda in modo esaustivo,
perché me lo impedisce la natura
stessa della preghiera – e cercare di
andare contro la sua natura sarebbe
un sacrilegio!
La prima cosa che posso dirti è
che la preghiera consiste in un
sentimento di riconoscenza e di
immensa gratitudine. Sei circondato
da un mondo meraviglioso, pieno di
alberi, fiumi, montagne e stelle, e il
tuo essere palpita, colmo di vita,
all’interno di questa straordinaria
bellezza. Ebbene, questa preziosa
opportunità non è frutto dei tuoi
meriti, bensì un dono, e la preghiera
è la gratitudine per il dono della vita.
Il solo respirare, il semplice aprire
gli occhi e poter vedere tutto questo
verde è una gioia così immensa!
Ascoltare il cinguettio degli uccelli,
udire il suono dell’acqua che scorre,
sentire il silenzio della notte,
assaporare la morbidezza vellutata
dell’oscurità oppure ammirare l’alba
e il tramonto… non sono cose che ci
siamo guadagnati: tutte queste
esperienze sono doni per i quali non
abbiamo mai neppure ringraziato!
Che dio esista o no è irrilevante,
ma la gratitudine è un dovere
imprescindibile. La gente pensa che
ringrazierà il divino quando sarà
certa della sua esistenza, mentre io ti
dico l’esatto contrario: lo troverai
solo se inizierai a ringraziarlo! Non
c’è altro modo: lo incontrerai solo
quando comincerai a provare
riconoscenza, perché il divino
accade solo all’interno di questa
dimensione di gratitudine.
Proprio come non è possibile
guardare con le orecchie o sentire
con gli occhi, perché solo gli occhi
sanno vedere e solo le orecchie sono
capaci di ascoltare, senza gratitudine
non riuscirai mai a percepire il
divino e a farne esperienza. La
riconoscenza, così come la
preghiera, è il senso che ti permette
di raggiungere il divino.

La seconda cosa che posso dirti è
che la preghiera è uno stile di vita.
Non si tratta semplicemente di un
rituale che si compie la mattina
presto; infatti, se diventa un’azione
liturgica, perde ogni significato.
Svolgere un rito non fa di te un
uomo religioso: ti trasforma in un
hindu o in un musulmano, ma non in
un mistico. La preghiera dev’essere
assolutamente informale e deve
nascere dal cuore, non da un rituale!
Quando diventa un’attività che
svolgi la mattina perché ti senti
obbligato a farlo o perché così ti è
stato insegnato, si trasforma in un
dovere. Se non reciti le preghiere, ti
senti un po’ in colpa, ma non riesci a
provare alcuna gioia nel farlo, per
cui continui a pregare solo per
evitare di sentirti colpevole e per
liberarti dai rimorsi: ma questa non è
preghiera!
Cosa intendo quando affermo che
la preghiera è uno stile di vita? Un
uomo religioso è in preghiera
ventiquattr’ore su ventiquattro!
Quando dorme, il suo sonno è una
sorta di preghiera, perché si lascia
andare al riposo come se si
rilassasse fra le braccia del divino, e
al risveglio si trova immerso nel suo
grembo: apre gli occhi, e la prima
sensazione che si affaccia nel suo
cuore e nel suo essere è la
riconoscenza – la gratitudine
assoluta! Si nutre e si disseta
attraverso il divino, cammina fra le
sue braccia, lo respira e vive
immerso nella sua essenza… Tutta
la sua giornata è una preghiera
ininterrotta, che continua ad
accompagnarlo come una musica di
sottofondo e prosegue senza sosta
qualsiasi cosa stia facendo.
Non ti sto dicendo che dovresti
ripetere di continuo il nome di Rama
o di Allah: non si tratta di
salmodiare qualche parola! Recitare
incessantemente: «Rama, Rama,
Rama…» creerà soltanto
un’interferenza che disturberà la tua
vita quotidiana: non riuscirai più a
guidare l’automobile perché la tua
mente sarà scissa, e non sarai più in
grado di svolgere alcuna attività in
modo totale.
Perciò ti dico che non devi
ripetere proprio nulla; la preghiera
non ha niente a che vedere con la
recitazione di qualche parola ad alta
voce: è soltanto una sensazione, una
presenza… È come quando una
madre dorme accanto al suo bimbo:
tuoni e i fulmini non riescono a
svegliarla neppure nella stagione
delle piogge, ma se suo figlio sente
un minimo disagio e inizia a
piangere, si sveglia all’istante,
perché anche nel sonno, una parte di
lei continua a ricordarsi del
bambino. Con la preghiera succede
la stessa cosa: che ti trovi al mercato
o al lavoro, nel profondo del tuo
essere, continui a inchinarti al
divino, perché la preghiera e la
gratitudine proseguono ininterrotte;
talvolta, quando si crea un momento
di silenzio, affiorano in superficie,
altrimenti continuano in sottofondo.
La preghiera è uno stile di vita.
Non è un mezzo per appropriarsi di
qualcosa, bensì un modo per
chiedere: non esige nulla, non anela
a una vita fondata sul potere e sul
possesso, ma chiede che le si
permetta di esistere. Chiedere è il
contrario di pretendere: implica un
rischio e significa affidarsi al
silenzio e all’incertezza
dell’esistenza.
La preghiera non pretende mai.
Pregando non possiamo pretendere
nulla, perché non abbiamo alcun
diritto da rivendicare, ma possiamo
chiedere, proprio come fa un
bambino quando domanda qualcosa
alla mamma: non ha alcuna pretesa,
perché è indifeso e del tutto
dipendente, perciò si limita a
chiedere e, quando ha fame, si mette
semplicemente a piangere. E così è
la preghiera: è come l’impotenza di
un bambino!
Noi siamo minuscoli e l’esistenza
è davvero infinita… la nostra vita
dura appena qualche istante, mentre
l’esistenza c’è da sempre e
proseguirà in eterno: siamo soltanto
una piccola onda nell’oceano…
Non possiamo pretendere, ma ci è
consentito chiedere, e possiamo
farlo perché non siamo qualcosa di
separato, non siamo estranei
all’esistenza: le apparteniamo, ne
facciamo parte, siamo una sua
creazione, e se esistiamo è perché
l’ha voluto lei. Perciò possiamo
chiedere, ma senza alcuna pretesa:
se la nostra domanda viene
soddisfatta saremo grati
all’esistenza, ma se non accade, le
siamo ugualmente riconoscenti.
Ricordalo sempre, perché questa è la
bellezza della preghiera!
Naturalmente, se la nostra
richiesta viene esaudita, ne siamo
felici, ma siamo comunque
riconoscenti anche se ciò non
succede. E perché mai proviamo
gratitudine anche se la nostra
domanda non viene accolta? Perché
chi conosce la preghiera, chi la vive
davvero, sa anche che a volte
chiediamo cose che non sono adatte
a noi, e l’esistenza lo sa benissimo.
Se domandiamo qualcosa di cui
abbiamo bisogno, la nostra richiesta
verrà esaudita; se invece chiediamo
una cosa di cui non abbiamo
necessità, ci verrà negata.
Mi hanno raccontato questa
storia:

Una bambina piangeva mentre
guardava sconsolata i frammenti
della sua bambola rotta, e disse a
suo fratello: «Pregherò dio che
rimetta insieme questi pezzi!».
«E ti aspetti che dio esaudisca la
tua preghiera?» chiese il fratello.
«Vedrai che dio mi risponderà!»
sentenziò la bambina.
Due ore dopo il fratello tornò da
lei e le chiese: «Allora, dio ti ha
risposto?».
«Sì» disse la bambina «mi ha
risposto di no!».

La preghiera è questo: puoi
chiedere, ma non puoi pretendere.
Se il divino dice di no, va benissimo,
perché la decisione ultima spetta
solo a lui, mentre la pretesa implica
una decisione già presa: di fatto vuoi
che il divino soddisfi la tua volontà!
Chiedere, invece, significa
semplicemente dire: «Ti sottopongo
il mio desiderio, ma segui il tuo
volere – venga il tuo regno e sia
fatta la tua volontà!». Queste sono
state le ultime parole pronunciate da
Gesù sulla croce – e la preghiera è
proprio questo!

Il grande poeta Huub Oosterhuis ha
detto: «Nessuno può pregare senza
usare le parole, perché nessun essere
umano vive al di fuori dal
linguaggio: tutto è un dialogo!».

Lo vedi? Il Buddha afferma invece
che la preghiera è silenzio, ed
entrambe le posizioni sono corrette!
Anche Oosterhuis ha ragione; da
un certo punto di vista quello che
dice è vero: nessuno può pregare
senza usare le parole, perché non si
può vivere al di fuori del linguaggio.
Quest’ultimo rappresenta per noi ciò
che l’acqua è per il pesce: è il nostro
oceano. Perciò Oosterhuis ha
ragione, ed essendo un poeta,
conosce molto bene il significato del
linguaggio; solo i poeti ne
comprendono appieno il valore: gli
esperti di grammatica e i linguisti
non riescono a farlo, perché ne
vedono solo il corpo esteriore,
mentre il poeta ne conosce il cuore,
l’anima, lo spirito e la dimensione
invisibile. Oosterhuis dunque ha
ragione: nessuno vive al di fuori del
linguaggio, perché tutto è un
dialogo.
La preghiera è un dialogo in cui
una parte parla con il Tutto, in cui
un frammento comunica con
l’universo intero, e tu dovrai
apprendere quest’arte! Non ti è mai
venuta voglia di parlare con gli
alberi, pur sapendo perfettamente
che non ti risponderanno? Non ti sei
mai fermato davanti a un cespuglio
di rose a salutare un bocciolo?
Magari non l’hai mai fatto ad alta
voce perché ti sembrava assurdo, ma
non ne hai mai sentito il desiderio?
Non hai mai pensato di parlare con
le stelle? Se non hai mai desiderato
farlo, vuol dire che hai perso la
capacità di sentire! Non ti è mai
capitato di provare un brivido
d’amore e di passione accarezzando
una roccia e assaporandone la
meravigliosa consistenza? Non hai
mai sentito di voler parlare a tutte le
cose invisibili che ti circondano?
Questa è preghiera, questo è
dialogo!
Bisogna prendere coraggio:
proprio così, dobbiamo essere
davvero coraggiosi, perché solo in
questo modo la preghiera può
accadere. È molto facile andare in
chiesa a pregare, perché la gente ci è
abituata e nessuno ti darà del pazzo;
anzi, tutti penseranno che sei molto
religioso, che sei una brava persona,
un buon cristiano, un cattolico
modello o un perfetto hindu, e ti
rispetteranno per questo, se invece ti
metti a parlare con un albero…
Vedrai! Parlare con una croce – con
un pezzo di legno inanimato –
all’interno di una chiesa va bene, ma
non è permesso parlare con un
albero vivo! E se non si può
dialogare con un albero, com’è mai
possibile parlare a una croce?
Comincia a dialogare con
l’esistenza, con la natura. Sii un po’
folle, e ogni tanto prova a evadere
dalla prigione del cosiddetto
buonsenso, perché ti sta facendo
diventare pazzo! Nel mondo, ogni
giorno, migliaia di persone
impazziscono, altrettante si
suicidano, e milioni di esseri umani
continuano a condurre una vita
scialba e monotona senza alcun
motivo – e tutto questo per una sola
ragione: non hanno mai pregato!
Non sono mai riusciti a parlare
all’esistenza e non sono mai stati
capaci di mettere a nudo il proprio
cuore.
Sai perché nel mondo moderno la
psicanalisi è diventata così
importante? Perché la gente non sa
più pregare! Gli psicanalisti stanno
soppiantando i preti per un solo
motivo: un tempo le persone
mettevano a nudo il proprio cuore
con la natura, ma ora non ne sono
più capaci, perciò vanno da un
analista, che per giunta devono
pagare!
Lo psicanalista sta ad ascoltarti
mentre metti a nudo il tuo cuore, ma
è del tutto inutile: potresti fare la
stessa cosa seduto nel tuo giardino, e
ti accorgeresti che gli alberi sono
molto meglio degli analisti, perché
sanno ascoltare con maggior
attenzione e con più concentrazione.
Parla alle rocce! Puoi dire loro
qualsiasi cosa senza che si
offendano e, se metti a nudo il tuo
cuore, le tue tensioni e le tue
preoccupazioni spariranno.
In passato la vita degli esseri
umani era priva di ansie e di
inquietudini, perché tutti erano
capaci di pregare. Era una cosa
naturale: la gente parlava alle
montagne, ai fiumi, al sole, alla
luna… che sono semplicemente i
molteplici volti del divino, le sue
manifestazioni, le sue espressioni
vive, vibranti, pulsanti e
assolutamente presenti!
Quando ti dico di cominciare a
parlare con la natura, ti sto dando la
prima lezione di preghiera. Le
chiese sono opera dell’uomo, per cui
evita qualsiasi costruzione umana,
perché porta in sé tutte le nevrosi
dell’umanità: non è forse meglio
rivolgersi a ciò che è opera del
divino? Se vuoi entrare in contatto
con lui, concentrati su qualcosa che
sia opera sua, in cui tu possa
riconoscere la sua mano!
Le chiese, i templi e i gurudwara
dei sikh sono costruzioni umane, e
in quei luoghi troverai soltanto
l’uomo, con la sua politica e tutta la
sua idiozia; gli alberi e le stelle,
invece, non sono così stupidi, perciò
rivolgiti a loro, apri loro il tuo cuore
– inizia a dialogare con la natura! E
vedrai che un giorno accadrà un
miracolo… all’improvviso ti
risponderanno: allora comprenderai
cos’è la preghiera e capirai cosa
intendeva Oosterhuis affermando
che si tratta di un dialogo.
Proprio così, un giorno gli alberi
ti risponderanno: devi soltanto avere
la pazienza di aspettare abbastanza a
lungo e convincerli che stai davvero
parlando con loro, tutto qui! Ci
vuole solo un po’ di tempo, perché
l’umanità è stata così distruttiva nei
confronti degli alberi che sono stati
costretti a chiudersi; fai capire loro
che non sei un pazzo scatenato, che
non hai intenzioni violente o
aggressive, che ti avvicini a loro con
affetto e con grande amore, e che
desideri entrare in contatto con il
divino, perché il creatore si può
percepire solo attraverso le sue
stesse opere! Quello sarà l’inizio del
tuo viaggio…
All’inizio, dunque, la preghiera
deve essere un dialogo. «Ma un
dialogo con chi?» ti chiederai. La
mia risposta è: con la natura, perché
in questo modo diventa accessibile
anche a un ateo. Per ora non c’è
bisogno di chiamare in campo il
divino, comincia grazie al dialogo
con la natura, che è l’ABC della
preghiera, e poi, piano piano,
attraverso di lei raggiungi il silenzio.
Siediti davanti a un cespuglio di rose
ed entra in un silenzio straordinario:
fra te e quei fiori non esiste più
alcuna parola, ma solo un silenzio
palpitante, un’onda infinita di quiete
assoluta…
Attraverso il dialogo conoscerai il
modo in cui il divino si manifesta
nella natura, e attraverso il silenzio
ne percepirai la forma non
manifesta: con il dialogo incontrerai
il divino come creazione, mentre
con il silenzio lo conoscerai nella
veste di creatore.
Il Buddha quindi ha ragione,
perché sta parlando della vetta
suprema della preghiera, che però
diventa accessibile solo se prima ne
sperimenti la versione più
immediata: solo attraverso la sua
forma più accessibile si può
raggiungere il vertice estremo della
preghiera!

Gli antichi ebrei avevano una parola
– maranatha – che vuol dire: “Vieni
signore, vieni!”. Ebbene, si tratta di
una vera preghiera, perché significa:
«Sono pronto, il mio cuore è aperto
a te, ti sto aspettando! Vieni signore,
vieni!». Trasmette il senso di una
grande attesa, con tutte le porte e le
finestre spalancate, in modo che la
brezza del divino penetri dentro di te
e i suoi raggi possano raggiungere il
centro più profondo del tuo essere,
inondandolo con la sua luce: «Vieni
signore, vieni!».
C’è anche un’altra parola ebraica
– hosanna – che vuol dire: «Vieni e
liberaci! Liberaci dalla nostra
ignoranza, liberaci dalla nostra
finitezza, dai nostri limiti, dalla
prigione che abbiamo costruito
intorno a noi. Vieni e donaci la
libertà, vieni a liberarci!». Il nome
stesso di Gesù Cristo, che in origine
era Jehoshua, significa “colui che
libera”: Jehoshua e hosanna sono
infatti due parole che derivano dalla
stessa radice ebraica, e stanno in
relazione fra loro come la risposta a
una domanda, il soddisfacimento di
una speranza o l’esaudirsi di una
preghiera.
Se ti rivolgi al divino con una
passione davvero intensa, ti
risponderà. Gesù è la risposta alle
preghiere di molta gente, come pure
il Buddha, Mahavira, Maometto o
Nanak: tutti loro sono risposte!
Considerali come risposte date a
tutte le persone che hanno pregato.
L’altro giorno ti ho detto che il
maestro arriva solo quando il
discepolo è pronto – non c’è altro
modo. Quando il cuore del discepolo
è davvero pronto, perché si è aperto,
si è reso vulnerabile e ha
abbandonato la sua armatura,
all’improvviso appare il maestro:
ebbene, il discepolo è la domanda e
il maestro la risposta! La preghiera è
il ponte fra la ricerca e il suo punto
d’arrivo, fra la domanda e la
risposta, fra il discepolo e il maestro,
fra colui che ricerca e la cosa
ricercata, fra l’immediato e la realtà
ultima, fra il desiderio e
l’appagamento.
La preghiera nasce dalla nostra
esperienza dell’amore, dal modo in
cui ci rivolgiamo agli altri. Non ti è
mai capitato di percepire la
differenza? Spesso usiamo le stesse
parole, ma la loro qualità è diversa:
il “tu”, con cui ti rivolgi a qualcuno
che ti è indifferente, non conterrà
alcuna preghiera, ma se con quel
“tu” ti rivolgi alla donna o all’uomo
che ami, anche se la parola è sempre
la stessa, assume una qualità diversa,
perché in questo caso contiene
preghiera, è piena d’amore ed è
vibrante, fluida, vitale... Il “tu” che
usi al mercato, invece, è privo di
vita.
La preghiera è nata gradualmente
dall’esperienza dell’amore. Quando
ti innamori provi una tale gioia che,
se sei abbastanza intelligente e
consapevole, ti domandi: «Se amare
una persona produce una gioia
simile, che felicità potrò mai provare
se mi innamoro dell’universo
intero?». La via della preghiera è
stata lastricata dall’amore!
Quando due persone sono
innamorate, si rivolgono preghiere a
vicenda. Osserva il modo in cui due
amanti si guardano, perché quello
sguardo possiede qualcosa di sacro:
magari dura solo un momento e poi
si perde, ma in quell’istante si
accende la fiamma della preghiera, e
per un attimo si può cogliere la
presenza di quell’ospite speciale che
proviene dal trascendente. Quando
due persone si amano, si rivolgono
preghiere a vicenda: lo si vede dal
modo in cui usano l’una con l’altra
quel “tu” pronto a tutto, pieno di
rispetto, trepidante, da come
pronunciano quel “tu” colmo di
speranza, di aspettativa, di intensità,
con voce trepidante e carezzevole…
È molto probabile che la
preghiera rivolta al divino sia nata
dal modo in cui le persone si parlano
quando sono innamorate: di sicuro è
così che, a poco a poco, la coscienza
umana ha realizzato che quando ci
rivolgiamo all’esistenza usando quel
“tu” pronto a tutto, pieno di amore
infinito, di speranza e di
trepidazione; quando cerchiamo,
imploriamo e chiediamo con le
lacrime agli occhi, colmi di speranza
e del tutto impotenti, quando
riusciamo a dire quel “tu”
all’esistenza, significa che stiamo
pregando. Questo è l’inizio della
preghiera, e quando giungerà il
momento in cui anche l’“io” e il “tu”
svaniranno, avrai raggiunto la sua
vetta più alta, il suo culmine
supremo.

Nell’antichità la preghiera era un
dato di fatto, tant’è che nessuna
sacra scrittura si è mai domandata
cosa fosse. Nei Veda o nel Corano
nessuno chiede mai cosa significa
pregare, perché era un’azione così
scontata che per la gente era
assolutamente ovvio… e se una cosa
è palese, a nessuno viene in mente di
domandare cosa sia. Adesso invece
le persone chiedono cos’è la
preghiera, cos’è l’amore, perché
queste esperienze sono scomparse
dalle loro vite e sono diventate delle
domande.
Se fai un passo indietro, agli
albori della consapevolezza umana,
nessuno si chiedeva cosa fosse il
divino, chi fosse o se esistesse,
perché era quasi come se vivesse
sulla Terra insieme agli uomini. E in
effetti era proprio così: era così
chiaramente visibile, che nessuno si
poneva quel genere di domanda.
Pensaci: qualcuno si è mai
domandato cos’è il sole o cos’è la
luce? Ovviamente no. Ma immagina
che un giorno all’improvviso
l’umanità intera diventi cieca: se
capitasse davvero raramente di
imbattersi in una persona in grado di
vedere, la gente le chiederebbe:
«Cos’è il sole? Cos’è la luce?». La
semplice esistenza della domanda è
prova della terribile situazione di
miseria in cui siamo caduti.
La Bibbia non dice niente della
preghiera, perché a quel tempo era
un’esperienza talmente diffusa che
non c’era bisogno di spenderci
nemmeno una parola, al punto che è
difficile trovare un termine ebraico
per tradurre “pregare” o “preghiera”:
a seconda di come una persona si
sentiva, invocava il divino, gioiva,
rideva, piangeva, imprecava o
implorava; ma non esisteva alcun
termine specifico per indicare la
preghiera.
L’uomo ha perso molte facoltà e
una delle più importanti è quella di
pregare, perché solo attraverso la
preghiera possiamo gettare un ponte
fra il nostro minuscolo io e l’infinito
– l’Assoluto.

Mi chiedi cos’è la preghiera. Non
posso darti una definizione precisa,
posso solo offrirti qualche
suggerimento, qualche accenno,
qualche indicazione, ma riuscirai a
comprendere cosa sia realmente solo
attraverso la tua esperienza diretta.
Si dice che gli esseri umani si
possano dividere in tre gruppi: quelli
che fanno accadere le cose, quelli
che le osservano succedere, e quelli
che si chiedono cosa sia avvenuto.
Per favore, fai in modo di
appartenere al primo gruppo! Entra
nella preghiera, perché è l’unico
modo per comprendere cosa sia.
Se vuoi sapere cos’è l’amore,
ama! Prova ad assaporarne
l’esperienza! Come puoi spiegare a
qualcuno cos’è il vino e che effetti
ha, se quella persona non l’ha mai
assaggiato? Se non si è mai
ubriacata, non potrai mai descriverle
quell’esperienza: tutto ciò che puoi
fare è invitarla a bere un bicchiere di
vino, lasciando che si senta perduta,
che si dimentichi del mondo e che si
abbandoni ai turbini dell’ebbrezza…
solo così potrà capire di cosa si
tratta.
La preghiera è un’ebbrezza:
significa inebriarsi del divino… Ma
solo chi è inebriato sa cosa sia di
preciso, e anche coloro che lo sanno
non riescono a esprimerlo in parole.
Lascia che si trasformi in
un’esperienza! Non dobbiamo
limitarci a discuterne, ma
immergerci al suo interno – in
questo preciso istante! Se ti senti
colmo di gratitudine, verrai
circondato da un silenzio sconfinato
e da una benedizione immensa…
Puoi sperimentare la riconoscenza
per tutto ciò che la totalità ti ha
donato in questo preciso istante,
proprio adesso!
Se sei una persona religiosa, puoi
pensare al Tutto in termini di divino;
se invece non lo sei, non c’è bisogno
di usare quella parola. Dimenticala,
perché non ha alcuna importanza:
chiamalo semplicemente “il Tutto” e
senti cosa significa per te, quanto ti
ha dato e quanto continua a offrirti.
Eppure non l’hai mai ringraziato!
Ma anche se sei stato così ingrato,
l’esistenza ha continuato a elargirti i
suoi doni, perché la sua capacità di
condividere e di donare è
incondizionata!
Nel momento stesso in cui nel tuo
cuore nascerà la gratitudine – e può
succedere in questo preciso istante –
accadrà la preghiera. Dentro di te
nulla si muove, tutto è perfettamente
immobile, ma all’improvviso senti il
bisogno di inchinarti a una forza
sconosciuta e misteriosa:
quell’inchinarsi è preghiera!


Osho, ogni volta che mi siedo e
cerco di mettere per iscritto una
domanda da farti, la risposta arriva
ancor prima che abbia finito di
scrivere. Eppure continuo a sentire
il desiderio di domandarti qualcosa
e di ricevere una risposta: cos’è
questo desiderio?
P.S. Conosco già la risposta…

Anahata, le risposte non servono a
niente: per questo continui a sentire
il desiderio di chiedere. Quando
sorge una domanda, se sei paziente e
aspetti in silenzio, è inevitabile che
arrivi anche la risposta: in effetti si
trova proprio davanti a te, ed è per
questo che è nata la domanda. La
risposta esiste ancor prima che
dentro di te sorga la domanda, ed è
nascosta al suo interno, perciò la
troverai se ti immergi in profondità
nella domanda, perché quest’ultima
non è altro che il suo involucro
esterno. Se resti in attesa abbastanza
a lungo, e in perfetto silenzio,
troverai sempre la risposta, ma non
servirà a nulla: per questo continui a
sentire il desiderio di chiedere.
Bisogna trascendere sia le
domande sia le risposte, perché ogni
risposta creerà a sua volta nuove
domande: quando rispondi a una
domanda, se ne producono altre
dieci… e avanti di questo passo.
Anche se continuassi a inseguirle in
eterno, non arriverai mai da nessuna
parte. Il desiderio di chiedere si
dissolverà solo ed esclusivamente
quando tutte le domande – e quindi
anche tutte le risposte – saranno
scomparse.
Il tuo postscriptum mi ha fatto
tornare in mente una famosa storia
Sufi.

Un mistico Sufi, che stava andando
alla Mecca per compiere l’haj, il suo
pellegrinaggio, decise di fare tappa
in una piccola città. Ancor prima che
vi giungesse, si diffuse la notizia che
stava per arrivare un grande maestro
e tutta la cittadinanza si radunò per
accoglierlo. Anche se si trattava di
un mistico molto silenzioso, la
popolazione lo pregò e lo implorò di
tenere un discorso: «Abbiamo atteso
per mesi» disse la gente «e ora che
sei arrivato, non possiamo lasciarti
ripartire senza aver ascoltato
qualche tua parola!».
Il maestro era riluttante e disse
che non aveva nulla da dire, ma i
cittadini non lo ascoltarono e
continuarono a insistere, per cui
aggiunse: «Quel che so non si può
esprimere con le parole!». Ma anche
allora non gli diedero retta.
Anzi, più il maestro era restio e
più, ovviamente, il loro interesse
cresceva, così gli dissero:
«Resteremo qui seduti senza
mangiare, completamente a digiuno,
finché non accetterai di rivelarci il
tuo messaggio, perché è successo
davvero di rado che una persona
così illuminata passasse da questo
villaggio: non possiamo lasciarti
andare via così!».
Il maestro fu quindi costretto ad
acconsentire e si avviò verso la
moschea, dove si era radunata
l’intera cittadinanza. Tutti
trepidavano al pensiero di scoprire
ciò che avrebbe detto, perché
sapevano molto bene che prima di
allora non aveva mai parlato in
nessun villaggio: aveva viaggiato
molto a lungo, percorrendo migliaia
di chilometri, e molta gente gli
aveva fatto domande, ma era sempre
rimasto in silenzio. Gli abitanti di
quella città erano quindi al settimo
cielo: era un vero privilegio che il
maestro avesse accettato di parlare
proprio a loro!
Quando il mistico giunse dinanzi
alla platea, domandò: «Sapete cosa
sto per dirvi?».
E tutti risposero: «Certo che no,
come potremmo saperlo? Non
abbiamo idea di cosa ci dirai!».
Al che il maestro replicò: «Non
posso tenere un discorso di fronte a
un pubblico talmente ignorante da
non sapere neppure di cosa
parlerò!».
Tutti restarono davvero
sconcertati e il maestro se ne andò,
ma questo infiammò ancor di più il
desiderio dei presenti. Pensarono
che la risposta che gli avevano dato
non fosse quella giusta. «Certo» si
dissero «il maestro ha ragione, come
può parlare a un pubblico così
ignorante?». Così lo rincorsero e lo
riportarono indietro, dicendogli:
«Ripeti la tua domanda: ti abbiamo
risposto in modo sbagliato, ma per
favore torna sul palco e concedici
un’altra possibilità!».
Il maestro ritornò quindi di fronte
alla platea e chiese: «Sapete cosa sto
per dirvi?».
«Sì» risposero «sappiamo ciò che
stai per dirci!».
Al che il maestro disse: «Allora
abbiamo finito: se lo sapete già, che
bisogno c’è che ve lo dica? Questa è
una città davvero illuminata!».
Il maestro se ne andò nuovamente
e la gente restò ancor più sconcertata
di prima. Tutti si misero a discutere
fra loro, perché a quel punto l’intera
città era ossessionata da una sola
domanda: «Cosa fare?» si chiedeva
la gente. «E domani mattina il
maestro se ne andrà! Dobbiamo
trovare il modo di farlo parlare!».
Dopo averne discusso fino allo
sfinimento, riuscirono a escogitare
un modo per risolvere il problema,
così andarono a svegliarlo nel cuore
della notte e gli dissero: «Siamo
venuti a dirti che ci dispiace, perché
la nostra risposta era sbagliata: vieni
a chiedercelo di nuovo!».
Il maestro tornò quindi alla
moschea e chiese nuovamente:
«Sapete cosa sto per dirvi?».
Questa volta metà della gente
rispose di no e l’altra metà disse di
sì. Era l’unico sistema possibile: in
questo modo come avrebbe potuto
sfuggire?
Ma il maestro si mise a ridere e
replicò: «In questo caso quelli di voi
che lo sanno già possono raccontarlo
a quelli che non lo sanno: che
bisogno avete di me? Discutetene,
parlatene semplicemente fra voi: io
non servo proprio a nulla!».

In effetti, se ti immergi
profondamente nelle tue domande,
non sentirai più il bisogno di
chiedere a nessuno. Tutte le
domande diventano inutili, perché
qualsiasi risposta io possa darti si
trova già dentro di te: io la rendo
solo visibile, l’aiuto a emergere.
Non ho alcuna risposta
preconfezionata, non ho nessun
catechismo, e le mie risposte non
sono prefissate e immutabili.
Tu mi fai una domanda e io la
osservo: provo a fare ciò che avresti
dovuto fare tu e cerco la risposta
all’interno della tua domanda, per
potertela indicare.
Il lavoro di un maestro consiste
nel mostrarti le tue risposte! Può
offrirti maggior chiarezza, ma non
può darti alcuna risposta! Non è uno
studioso o un professore che ti
fornisce spiegazioni: si limita a
portare dentro di te lucidità, visione
e capacità di osservare.
E se anche tu ti trovi qui con me,
proprio come Anahata… Lui ha
ascoltato i miei suggerimenti e la
sua visione sta diventando sempre
più chiara e nitida, perciò quando
dentro di lui nasce una domanda,
compare immediatamente anche la
risposta. Questo è molto bello, e
dovrebbe essere così per tutti, così
potrei risparmiarmi la fatica!
Ricorda però che il problema non
sta nel rispondere alle domande;
occorre qualcos’altro, e solo quel
“qualcosa in più” sarà la manna in
grado di saziare la tua fame, di
soddisfarti e di placare la tua sete. Si
tratta di quella trasmissione, di quel
passaggio di energia dal maestro al
discepolo, che è come una fiamma
che si propaga balzando dalla
candela accesa a quella spenta. Non
si tratta né di domande né di
risposte, perché non è un fenomeno
verbale o intellettuale, bensì
esistenziale!
È necessario che la fiamma si
trasmetta da me a te, in modo che
anche tu possa accenderti e prendere
fuoco, dissipando così l’oscurità che
avvolge il tuo essere interiore. Il
buio genera ogni tipo di domande,
ma se affinerai la tua intelligenza e
diverrai un po’ più lucido, sveglio e
consapevole, troverai tutte le
risposte.
Ricorda tuttavia che ogni
domanda genera nuove domande;
questo è un processo che si ripete
all’infinito, fino alla nausea… e
anche se proseguisse in eterno, non
riuscirà a trasformarti: per tale
motivo, caro Anahata, continui a
sentire questo desiderio.


Osho, il fatto che sono diventato un
sannyasin, un ricercatore del Vero,
ha creato grande scompiglio nella
mia comunità. Anche se non sono
mai stato tanto felice e tanto in
estasi come adesso, la gente pensa
che sia impazzito: puoi parlare di
questo fenomeno?

Hanno ragione! Sei diventato pazzo.
Quelle persone hanno un’idea
particolare di salute mentale, in base
alla quale non possono certo dire
che tu sia sano di mente, perché se
lo fossi, significherebbe che i pazzi
sono loro. In base alla loro
convinzione, soltanto una delle due
parti può essere sana: o tu o loro – e
nessuno è disposto a dichiararsi
matto da solo!
Lo dicevano anche di Gesù: «Tu
sei pazzo!» gli ripetevano, e lo
stesso hanno fatto con Socrate;
anche di me dicono la stessa cosa, e
daranno del pazzo anche a te. In
verità ciò che dicono non ha nulla a
che vedere con te: stanno solo
affermando che la tua presenza li
disturba, perché la tua semplice
esistenza li spinge a dubitare della
propria salute mentale.
E naturalmente questo loro
dubbio tende a farsi piuttosto
persistente, perché tu sei gioioso,
felice e in continua celebrazione,
mentre loro sono infelici. La salute
mentale dovrebbe dare gioia alla
gente, ma nel caso di queste persone
non è così, perciò sono diventate
sospettose e piene di dubbi.
Incontrare un individuo davvero
gioioso le spinge a mettere in dubbio
tutto il loro stile di vita: «Ci sarà
qualcosa di sbagliato?» si chiedono.
E ovviamente per difendere il loro
modo di vivere devono affermare
che sei tu a sbagliare: si tratta del
loro sistema di difesa, non
arrabbiarti, cerca semplicemente di
comprendere il loro problema.
Il punto è che la tua presenza
mette in crisi il loro intero stile di
vita, perciò ti daranno del pazzo, e
se diverrà troppo difficile sopportare
il confronto con te, ti uccideranno,
come hanno fatto con Gesù e come è
accaduto nel corso dei secoli con
migliaia di mistici. E io sto cercando
con tutte le mie forze di trasformarti
in un mistico!
Questo sannyas non è un
fenomeno ordinario, ma un balzo
quantico nei misteri della vita! E
ovviamente io ti offro una visione
radicalmente diversa, per cui la
gente si sentirà costretta a reagire e
sarà molto dura con te.
Mi viene in mente un vecchio
racconto su un professore
universitario di nome A2.

A2 viveva nel Paese Piatto, dove
tutto aveva soltanto le due
dimensioni di altezza e larghezza;
nulla possedeva una profondità e se
una persona si girava di profilo non
la vedevi più. La gente viveva in
case piatte, mangiava cibi piatti,
beveva bibite piatte, aveva pensieri
piatti e viveva vite piatte.
A2 insegnava matematica
avanzata all’università e una sera
diede una festa per alcuni suoi
amici. Al piano di sopra il suo
figlioletto Pentagono, che era
davvero molto precoce, stava
cercando di dormire e, girandosi e
rigirandosi nel letto, iniziò a
sognare. Fece un sogno che nessuno
aveva mai fatto prima:
all’improvviso, oltre alle due
dimensioni dell’altezza e della
larghezza, ogni cosa acquistò la
dimensione della profondità!
Gli alberi, le case, e soprattutto le
ragazze sembravano incredibilmente
differenti! Lui stesso si sentiva
diverso e la vita acquistava una
vasta gamma di possibilità
sconosciute, perché questa nuova
dimensione influiva su ciò che la
gente pensava e faceva. Poi, di
colpo, così bruscamente com’era
iniziato, il sogno terminò.
Pentagono non poteva certo
tenere per sé una storia simile, e
così, saltando giù dal letto, scese a
piedi nudi al piano di sotto, e si
ritrovò con il pigiama stropicciato
nel bel mezzo della festa di suo
padre, dove si mise a raccontare per
filo e per segno il sogno su una
dimensione della vita di cui nessuno
aveva mai sentito parlare. Si sforzò
di spiegare cosa fosse e che
sensazione procurasse la profondità:
la gente non sarebbe più stata
costretta a vivere una misera vita
piatta, fatta di semplici pensieri
piatti, ma avrebbe potuto affondare
le proprie radici in questa nuova
dimensione.
A2 non sapeva come nascondere
il proprio imbarazzo, non riuscì a far
tacere Pentagono, e la festa si
concluse in una gran baraonda. Più
tardi cercò di far ragionare suo
figlio, che però si incaponì
continuando a sostenere che nella
vita esisteva una terza dimensione.
La mattina seguente il ragazzino
raccontò la cosa a chiunque lo stesse
a sentire, e tutti iniziarono a pensare
che il bambino avesse perso il
contatto con la realtà, per cui, a
tutela della sua salute e della
propria, lo rinchiusero.

La gente vive in un mondo piatto e
ha perso il senso della profondità,
che è precisamente la dimensione
del divino! Io ti sto insegnando
proprio questo, ma quando inizi a
vivere nella profondità, finisci per
trovarti continuamente nei guai a
causa delle altre persone. Dentro di
te proverai una sensazione di gioia
assoluta e di immensa felicità mai
sentita in precedenza; la tua vita
diventerà ogni istante più ricca, e
raggiungerai una comprensione delle
cose mai conosciuta prima. La tua
intera esistenza si trasformerà in
un’esperienza psichedelica: gli
alberi saranno più verdi e le rose più
profumate, finalmente riuscirai a
cantare insieme agli uccelli, e ti
accorgerai per la prima volta del
mondo meraviglioso in cui fino a
questo momento hai vissuto a occhi
chiusi. La tua vita diverrà una danza
e all’interno del tuo essere esploderà
un meraviglioso canto!
Ma dall’esterno ti giungeranno gli
strilli della massa e i giudizi della
folla. La gente dirà che sei
impazzito, che sei diventato matto,
perché non è questo il modo di
comportarsi! Non è permesso
danzare e cantare con un simile
abbandono! Non si può amare e
vivere con una tale pienezza, perché
infrange le regole del gioco: bisogna
essere tristi, mesti e immusoniti. E
soprattutto i santi non possono
danzare, cantare ed essere gioiosi:
devono essere privi di vita!
Diventando un sannyasin hai
abbracciato una nuova visione che
verrà costantemente ostacolata da un
mondo che non la condivide e non
riesce a sostenerla. Le persone non ti
appoggeranno e ti scontrerai con
loro di continuo, perciò impara una
cosa: quando sei in mezzo alla gente
non essere troppo gioioso, tieni la
felicità dentro di te e non cercare di
parlare della dimensione della
profondità, a meno che qualcuno
non desideri davvero ascoltarti.
Fingi di essere infelice, fai la faccia
triste e comportati come un santo
privo di vita; evita la folla, e quando
ti viene voglia di danzare, fallo da
solo.
Ciò che ti sto insegnando non è
una novità. I Sufi hanno sempre
ripetuto che se vuoi pregare devi
farlo in solitudine: nessuno deve
sentirti, nessuno deve esserne a
conoscenza, neppure tua moglie!
Alzati nel cuore della notte e, colmo
di gioia e di estasi, inchinati al
divino, ma non lasciare che la tua
donna lo scopra, perché il mattino
seguente lo racconterà ai vicini, la
voce inizierà a spargersi e verrà
ingigantita in mille modi… e a quel
punto ti troverai nei guai!
La vita di questa gente è molto
triste, terribilmente nevrotica, per
niente sana ed è patologica, perciò
quando una persona ritrova la salute,
deve stare molto attenta.

Tanto tempo fa, uno dei miei amici
impazzì: è una storia davvero
vecchia, che risale a prima della
divisione fra India e Pakistan.
Ebbene, il mio amico venne
catturato dalla polizia e rinchiuso in
un manicomio a Lahore, dove
rimase per nove mesi. Dopo circa sei
mesi, per puro caso ritrovò la salute.
Trovò una latta di fenolo e, poiché
era pazzo, la bevve: probabilmente
proveniva dai bagni… deve averla
trovata lì e, da matto qual era, se la
scolò.
Naturalmente gli provocò una
gran nausea e trascorse quindici
giorni con la diarrea e il vomito, ma
tutto quel buttar fuori finì per curare
la sua follia: molto probabilmente
funzionò come una catarsi e lo aiutò
a espellere tutti i veleni che aveva in
corpo. Quindici giorni dopo, quando
il vomito e la diarrea scomparvero e
tornò a stare bene, era perfettamente
sano, e fu allora che cominciarono i
guai…
Aveva vissuto per sei mesi
insieme a milleduecento altri pazzi
e, siccome era matto anche lui, non
c’era stato alcun problema: ma ora
era sano, ed era costretto a convivere
con milleduecento dementi…
immagina come si doveva sentire!
Uno gli strattonava una gamba,
l’altro cercava di sederglisi addosso
– e lui era perfettamente sano!
Avevano fatto le stesse cose per sei
mesi, ma poiché era pazzo anche lui,
non era stato un problema: tutti quei
comportamenti erano accettati e,
anzi, in quella circostanza, erano
considerati completamente normali.
Il mio amico si rivolse al
soprintendente e gli disse: «La
situazione si è fatta davvero
difficile: ora io sono sano…», ma
l’uomo non gli diede retta e rispose:
«Dicono tutti la stessa cosa: i pazzi
sostengono sempre di essere
tormentati senza motivo – e questo li
rende forse sani?».
Tutti i folli sono convinti di essere
le persone più sane del mondo: gli
psicologi affermano infatti che il
giorno in cui uno di loro penserà di
essere matto, vorrà dire che sarà
guarito, perché chi è pazzo non
pensa mai di esserlo.
Quindi nessuno diede ascolto al
mio amico, e lui mi raccontò che
quei tre mesi furono un tale inferno
che arrivò a pregare dio di farlo
impazzire di nuovo: l’unico modo
per riuscire vivere con i matti, anche
solo per tre mesi, è essere pazzi!

Anche tu sei costretto a vivere in
una realtà distorta, perché sei
circondato da un mondo piatto,
superficiale, privo di gioia e di
profondità. La vita della gente è
insignificante, perché vive per il
denaro, per il potere e per il
prestigio, che sono tutte cose senza
importanza e alla resa dei conti non
valgono niente. Al momento della
morte tutto il denaro, il potere e il
prestigio spariranno, e tu verrai
gettato nella spazzatura; nessuno si
ricorderà più di te, e non farà alcuna
differenza anche se sei stato un
primo ministro o un presidente. Puoi
anche essere l’uomo più ricco del
mondo, ma la morte è molto
democratica: tratta allo stesso modo
sia i ricchi che i mendicanti, e
distrugge ogni cosa, senza eccezioni.
La gente vive in un mondo piatto,
perciò quando cominci a immergerti
nella dimensione della profondità,
devi stare attento, altrimenti ti
troverai nei guai con il mondo
esterno. La tua gioia interiore
crescerà e via via che ciò accadrà,
aumenterà proporzionalmente anche
il conflitto con la gente, per cui, a
meno che quel conflitto non ti
piaccia, comportati come se non ti
fosse successo nulla e condividi la
tua gioia soltanto con le persone in
grado di comprendere.
Questo è il motivo per cui il
satsang ha un valore immenso: puoi
condividere la tua gioia con altri
sannyasin e loro capiranno, saranno
felici per te; gioiranno della tua
gioia e si accorgeranno di ciò che ti
è accaduto. Ma non cercare di
condividere con chi non comprende,
a meno che non ti piaccia farlo: se ti
piace, allora va benissimo.

Un giorno un uomo religioso fu
informato dell’esistenza della città
malefica di Sodoma. Poiché era un
santo, vi si recò pieno d’amore e di
compassione per i suoi abitanti e,
rendendosi conto di tutta la
malvagità che lo circondava, iniziò a
predicare e a protestare
quotidianamente.
Dopo molti anni di questa vita, un
amico gli chiese: «Perché continui a
darti tanta pena? Non sei riuscito a
cambiare nemmeno un po’ questa
gente!».
Il santo rispose: «In questa città
folle e piena di malvagità devo per
forza uscire ogni giorno a
manifestare, a predicare e a
protestare – non tanto perché queste
persone diventino come me, ma
perché io non diventi come loro!».

Tutto ciò che puoi fare – l’unica
cosa davvero importante – è non
diventare come loro! Usa qualunque
mezzo per evitarlo, prendi ogni
precauzione e, se senti un forte
desiderio di condividere con persone
che non comprendono, allora fallo
sapendo bene che ti tratteranno
come hanno sempre fatto con la
gente come te. Devi esserne
consapevole, e non lamentarti se
inizieranno a lapidarti, perché si
tratta di una tua scelta! Non
reclamare se ti metteranno in croce,
perché è una cosa che hai scelto
volontariamente.

Un contadino stava passando con il
suo carro davanti a un manicomio
quando uno dei reclusi gli gridò:
«Cosa trasporti sul tuo carretto?».
«Un carico di letame di cavallo»
rispose il contadino.
«E cosa ci fai con quel letame?»
chiese il pazzo.
«Lo spalmo sulle fragole!» disse
l’uomo.
Al che il pazzo gli urlò: «Roba da
matti! Sei tu che dovresti stare qua
dentro: noi sulle fragole mettiamo
zucchero e panna!».

Considera sempre chi è la persona
con cui stai parlando… altrimenti ti
caccerai nei guai!


Osho, mia moglie è molto refrattaria
all’uso della ragione e definisce
ogni ragionamento
“razionalizzazione”. Cosa significa
ragionare? E cos’è la
razionalizzazione?

Posso comprendere il tuo problema.
La ragione è una qualità maschile,
mentre l’emozione è femminile, ed è
da qui che nasce la difficoltà di
comunicazione fra uomini e donne,
fra mariti e mogli. Si urlano addosso
di continuo, ma il messaggio non
raggiunge mai l’altra persona,
perché il suo modo di comprendere
le cose è totalmente diverso.
In verità provano interesse l’uno
per l’altra proprio perché le loro
modalità sono così differenti: sono
due estremi diametralmente opposti
e si attraggono a vicenda come il
polo positivo e negativo
dell’elettricità; ma poiché sono
antitetici, la comunicazione diventa
molto difficile, quasi impossibile.
L’uomo parla sempre usando la
testa, mentre la donna parte dal
cuore, e si tratta di due linguaggi del
tutto diversi. È come se tu parlassi
cinese e io tedesco: fra di noi non
potrebbe esserci alcuna
comunicazione. Prova a domandarlo
ad Hari Das: lui è tedesco, mentre la
sua ragazza, Geeta, è giapponese…
Ma è così per tutti! Tutti gli Hari
Das e tutte le Geeta parlano lingue
diverse!

Nel bel mezzo di un litigio fra
coniugi il marito disse: «Non
litighiamo, mia cara, cerchiamo di
discutere della cosa in modo
ragionevole».
«No!» rispose la moglie
furibonda. «Ogni volta che
discutiamo in modo ragionevole, io
finisco sempre per avere la
peggio!».

La donna può affrontare una
discussione in modo razionale e
sensato solo se è disposta ad avere la
peggio. E tutte le donne sanno
benissimo che non riusciranno a
spuntarla in questo modo: ne
usciranno sconfitte, perché la mente
maschile è molto più esperta in fatto
di ragionamento. Perciò, invece di
usare la logica, preferiscono mettersi
a piangere, e così sei tu a essere
sconfitto: ami la tua compagna e, se
è in lacrime, che senso ha discutere
con lei? Così le dici: «Va bene, hai
ragione tu!». Le donne hanno capito
che il metodo delle lacrime funziona
molto meglio, perché il punto non è
chi ha ragione, ma chi riesce a
spuntarla.
Se davvero tu e la tua compagna
volete riuscire a comunicare, l’unico
modo per farlo è che entrambi
diventiate più meditativi,
abbandonando sia la ragione sia
l’emozione. La meditazione non
coincide infatti né con l’una né con
l’altra: significa superare e
trascendere quella polarità! È
qualcosa di trascendente che ti
conduce al di là del ragionamento e
dell’emotività, e non proviene né
dalla mente né dal cuore. La
meditazione è l’unica possibilità che
uomo e donna hanno per entrare in
comunione e comunicare – non
esiste altro modo.
La donna sostiene che il tuo
ragionare è una razionalizzazione, e
cosa fai tu quando lei diventa
emotiva? Naturalmente affermi che
si tratta di sentimentalismo! Sono
entrambe parole che contengono una
condanna: parlare di
razionalizzazione e chiamare
sentimentalismo le emozioni
femminili significa dare un giudizio
negativo. Poiché vi basate su due
sistemi di pensiero differenti,
entrambi sentite di essere nel giusto,
in verità nessuno dei due ha torto o
ragione, perché qualsiasi pensiero è
sempre sbagliato: la condizione
corretta è uno stato di non pensiero,
di non emozione.
Ebbene, se un uomo e una donna
si amano in modo davvero profondo,
nasce la comunione, perché in
quell’amore è presente la
meditazione!
D’altra parte, quel genere d’amore
va e viene, perché non sei ancora
capace di rimanere costantemente in
quello spazio; per cui la luna di
miele finisce molto presto. Quando
ti innamori di una donna, tutto va a
gonfie vele e vi trovate
perfettamente d’accordo: non litigate
mai e siete così disponibili, così
pieni di compassione e così
comprensivi l’uno verso l’altra! Ma
non appena termina la luna di miele,
cominciate a litigare per ogni
stupidaggine… E sono pretesti così
sciocchi che quando ti trovi a
parlarne ti senti in imbarazzo.
È una cosa che mi succede tutti i
giorni: arriva una coppia che sta
litigando ed è sul punto di separarsi,
e io chiedo quale sia il problema. Al
che l’uomo dice alla donna:
«Spiegaglielo tu!» e lei ribatte: «No,
raccontaglielo tu!».
Il punto è che entrambi si sentono
imbarazzati, perché il problema è
insignificante e banale. Si tratta di
una cosa da nulla, magari il litigio è
iniziato perché la donna voleva
indossare un certo abito e, siccome
al suo compagno non piaceva quel
colore, le ha detto: «Se ti vesti in
quel modo, non intendo presentarmi
alla festa al tuo fianco!».
Che litigio assurdo! Entrambi
sono degli sciocchi, ma un’inezia
simile è capace di scatenare una lite
tremenda: tutti e due cominciano a
tirare in ballo questioni molto più
rilevanti, mettendo in luce di colpo
tutte le loro differenze, e finiscono
per ritrovarsi ai ferri corti. Poiché
hanno fatto di un sassolino una
montagna, continuano a giudicarsi a
vicenda: «Hai torto! Tutti i tuoi
ragionamenti sono solo
razionalizzazioni» dice lei. E bada
che non ti sto dicendo che tutti i tuoi
ragionamenti sono corretti: il
novantacinque per cento delle volte
si tratta effettivamente di
razionalizzazioni. E non ti sto
dicendo che tutte le emozioni della
donna siano emotività: il
novantacinque per cento delle volte
si tratta di sentimentalismi. E non ti
dico neppure che tutte le emozioni
della donna sono reali: nel
novantacinque per cento dei casi
sono proprio sentimentalismi. Ma la
mente – sia quella maschile sia
quella femminile – è davvero
ingannevole, infida e molto astuta!

Un uomo di cinquant’anni aveva
sposato una donna di trenta, e quel
matrimonio aveva suscitato un gran
numero di pettegolezzi nella loro
cerchia di conoscenti.
Un giorno qualcuno chiese al
novello sposo della grande
differenza di età, e lui rispose: «Non
è affatto male. Quando lei mi guarda
si sente più vecchia di dieci anni e
quando io la guardo sento di avere
dieci anni in meno: che c’è di male?
In questo modo abbiamo tutti e due
quarant’anni!».

La razionalizzazione è proprio
questo: è un modo per nascondersi
la verità. Si tratta di un metodo
molto astuto e davvero scaltro che
puoi applicare a qualsiasi
argomento, fingendo che si tratti di
un ragionamento. Ma non lo è,
perché il ragionamento dev’essere
condotto in modo obiettivo e senza
pregiudizi.

Un giorno arrivò da me un uomo che
aveva scritto molti libri e dirigeva
un dipartimento universitario in cui
si conducevano ricerche nel campo
della parapsicologia e della
paranormalità. Venne da me e mi
disse: «Sto cercando di dimostrare
che la reincarnazione è una verità
scientifica».
«Finché non riesci a provarla» gli
risposi «non affermare una cosa
simile, altrimenti diventa un
pregiudizio: significa che hai già
accettato l’idea che si tratti di una
verità scientifica e ora devi solo
dimostrarlo. Questo non è un
procedimento scientifico e
oggettivo, non è un atteggiamento
razionale! Accetti questa teoria,
perché in fondo sei rimasto un
hindu: se fossi musulmano staresti
cercando di dimostrare
scientificamente che non esiste
alcuna reincarnazione!».
«E nemmeno quel musulmano
sarebbe uno scienziato!» continuai.
«Dato che non ci crede, cercherebbe
semplicemente di provare la sua
convinzione con l’aiuto della
scienza. Questa è una
razionalizzazione! Un uomo che si
serve della sola ragione non
possiede alcuna convinzione, nessun
preconcetto, nessuna idea a priori!
Intraprende semplicemente la sua
indagine senza giudizi e senza
conclusioni precostituite, e il
risultato dipenderà dalla sua ricerca:
sarà solo quella a decidere! Se
dentro di te esiste anche solo il
minimo desiderio di provare
qualcosa, magari potrai anche
riuscire a dimostrare la tua tesi, ma
ogni pretesa di scientificità andrà
distrutta: non si tratterà più di un
prodotto della ragione, bensì di una
razionalizzazione!».

Lo stesso accade con le emozioni.
L’emozione è qualcosa di puro,
mentre il sentimentalismo è un
inganno: significa che hai imparato a
servirti di un trucco. La donna sa
bene che, se si mette a piangere,
riuscirà ad avere la meglio; a volte
non ci riesce, perché non è così
semplice manipolare il pianto, ma
cerca ugualmente di provocarlo,
fingendo e recitando. E lacrime
simili sono fasulle: anche se
sgorgano dagli occhi, sono false,
perché non sono spontanee ma sono
state provocate!
Il sentimentalismo è un’emozione
fabbricata, contraffatta, creata con
l’inganno. La ragione va bene, ma la
razionalizzazione è una semplice
manipolazione, proprio come il
sentimentalismo è una
contraffazione dell’emozione. Se sei
un uomo razionale, se lo sei
veramente, diverrai uno scienziato; e
se sei davvero emotivo, diverrai un
poeta: sono entrambe cose molto
belle… ma comunque la
comunicazione fra uomo e donna
rimarrà difficilissima.
Sarà certo un piccolo passo
avanti, perché il dialogo fra
sentimentalismo e razionalizzazione
è davvero impossibile, mentre quello
fra ragione ed emozione diventa un
po’ più facile. Nasceranno
comunque delle difficoltà, ma
saranno presenti la compassione e lo
sforzo di comprendersi a vicenda.
Avvalendosi della ragione, l’uomo
razionale cercherà di comprendere il
punto di vista della donna, e lei dal
canto suo cercherà di cogliere –
naturalmente in modo emotivo – il
punto di vista del suo compagno: in
ogni caso ci sarà compassione.
Il primo passo consiste
nell’abbandonare ogni
razionalizzazione e ogni
sentimentalismo, e con il secondo
bisogna lasciarsi alle spalle anche la
ragione e l’emozione: in questo
modo si crea lo stato dell’estasi,
della meditazione e della
comunione.
E quella comunione è preghiera!
In quello stato di comunione, nel tuo
“tu” non ci sono più un uomo o una
donna, bensì il divino!
Capitolo 3

LA DANZA DEL “SÌ”






Un ricercatore girovago incontrò un
derviscio in una locanda e gli disse:
«Sono stato in mille regioni diverse,
ho ascoltato gli insegnamenti di
molti mentori e ho imparato a capire
quando un insegnante è privo di
spiritualità. Non sono ancora
capace di riconoscere un vero
maestro, né so come trovarlo, ma ho
compiuto metà del lavoro, ed è pur
sempre meglio di niente!».
Il derviscio, stracciandosi le vesti
per la disperazione, rispose: «Sei
proprio un infelice! Diventare un
esperto di ciò che è inutile è come
essere capace di distinguere le mele
marce senza aver imparato a
riconoscere quelle sane!
Ma corri un rischio anche
peggiore: fai attenzione a non
diventare come il medico di questa
storia:
Per mettere alla prova le capacità
di un medico, un re mandò diverse
persone sane a farsi visitare da lui.
A ognuna di loro il medico
prescrisse una medicina, e quando il
re lo convocò, accusandolo della
sua disonestà, quel vampiro rispose:
“Vostra maestà! È così tanto tempo
che vedo solo gente sofferente, che
ho cominciato a credere che tutti
siano malati, e ho confuso la
brillantezza di un occhio in piena
salute con un segno di febbre!”».


L’esistenza ha una logica dialettica,
perché si fonda su coppie di opposti:
uomo e donna, ying e yang, vita e
morte, giorno e notte… Ma la
polarità fondamentale, presente in
tutti gli opposti, è quella fra positivo
e negativo, che non possono esistere
separatamente perché dipendono
l’uno dall’altro e, pur essendo
opposti, in realtà non lo sono.
Comprendere questa verità
significa avere in mano una chiave
molto potente: due polarità opposte
sono anche complementari, perché
non possono esistere l’una in
assenza dell’altra. Il loro opposto le
nega ma allo stesso tempo le nutre, e
l’intera esistenza procede, si muove
e fluisce grazie a queste due rive
opposte: nessun fiume può scorrere
in assenza di due sponde!
Ogni cosa è divisa in coppie di
opposti che si attraggono e si
respingono a vicenda, come l’uomo
e la donna: sono attirati l’uno
dall’altra e al tempo stesso si
respingono, desiderano avvicinarsi
ma oppongono resistenza, si amano
e si odiano – e tutto nello stesso
momento. È impossibile separarli,
non si può scindere l’amore
dall’odio, perché il positivo e il
negativo non possono essere
disgiunti: al massimo puoi
enfatizzare uno dei due aspetti,
niente di più.
Proprio l’altro giorno Yoga
Chinmaya mi ha domandato:
«Perché l’uomo ha due occhi, due
orecchie, due polmoni, due reni, due
mani, due piedi – perché sempre
due?». Il motivo risiede proprio in
questa logica dialettica: uno dei reni
è maschile e l’altro è femminile, così
come la tua mente possiede un
emisfero maschile e uno femminile.
Senza questa polarità non potresti
esistere, il tuo corpo si
dissolverebbe: fra le due polarità
esiste una costante opposizione e
una continua attrazione.
Una delle più grandi scoperte
della psicologia moderna è che
nessuno di noi è unicamente
maschile o femminile: ogni uomo
contiene al suo interno una donna e
ogni donna porta dentro di sé un
uomo.
Questa polarità è imprescindibile!
Anche la mente è divisa in due parti:
l’emisfero sinistro è maschile, quello
destro è femminile.
Ti sto dicendo tutto questo per
riuscire a spiegarti come possa
esistere il binomio composto dal
sufismo e dallo Zen, che sono
appunto due polarità opposte. Lo
Zen è il sentiero della via negativa
ed è essenzialmente maschile: è la
strada dell’intelligenza, della
meditazione e della consapevolezza.
Il sufismo invece è il sentiero della
via positiva, che è femminile, ed è la
strada dell’amore e
dell’affermazione.
I buddhisti si muovono per
negazioni: «Questa non è la verità,
quest’altra nemmeno… Neti neti, né
questo né quello», dice Sosan:
continua a negare, a sottrarre; e
quando avrai eliminato tutto, ciò che
rimane e non può più essere negato è
la verità.
Il sufismo invece si fonda sulla
via positiva: non negare, non dire
mai “no”, dì sempre “sì”! Nella
ricerca non usare il metodo
negativo: muoviti sempre in modo
assolutamente positivo! Non pensare
a ciò che è sbagliato ma a ciò che è
giusto, non concentrarti sulla
malattia ma sulla salute, non
guardare le spine ma le rose, non
considerare la bruttezza e l’infelicità
ma la bellezza e la gioia!
Esistono entrambe le vie, ma non
puoi percorrerle
contemporaneamente: se ci provi,
diventerai pazzo! In effetti, quando
una persona impazzisce succede
proprio questo: inizia a usare
entrambe le sue polarità che
continuano a negarsi a vicenda,
paralizzando la sua intelligenza.
Bisogna percorrere soltanto una
delle due vie, l’altra rimarrà presente
solo come un’ombra, sotto forma di
aspetto complementare.
Se applichi il “no” dello Zen,
piano piano tutto ciò che è inutile
viene eliminato alla radice, ma ciò
che ha un vero significato resta,
perché non può essere annullato. Ciò
che è veramente importante rimane:
è impossibile annientarlo, perché è
indistruttibile! Dunque, non ci sono
problemi: coloro che seguono la via
dello Zen conseguono il Vero:
ottengono la salute, eliminando le
malattie, questa è la via dello Zen.
I Sufi dicono l’esatto contrario:
procedi sulla via positiva, nella
salute, nel “sì”, e piano piano
raggiungerai la stessa meta. In un
certo senso la via dei Sufi è più
gioiosa, più musicale, perché fluisce
attraverso i picchi e le valli
dell’amore.
Lo Zen invece avanza per terre
deserte… Anche quella via possiede
una sua bellezza: il silenzio, la
vastità sconfinata, la purezza
dell’aria… Certo, anche lì c’è
bellezza! Se ami il deserto, non
preoccuparti, perché c’è molta gente
che è riuscita a raggiungere
l’Assoluto per questa via; se invece
non fa per te, non è necessario che ti
torturi costringendoti ad attraversare
immense distese di sabbia, perché
esistono anche sentieri verdeggianti,
e i Sufi si muovono proprio
attraverso vallate verdi!
Quello che ti dirò ti sembrerà un
po’ strano, ma è così che funziona la
mente: il sufismo ha avuto origine
nel deserto, mentre lo Zen è nato in
una valle coperta di verde. Forse è
andata così perché le persone che
vivono in una regione desertica non
possono scegliere la via dello Zen:
vivono già immerse in questo
paesaggio spoglio e ne sono stufe;
tutt’intorno a loro c’è solo
un’immensa distesa di sabbia,
perciò, se scegliessero il deserto
anche a livello interiore, la polarità
andrebbe perduta. Poiché all’esterno
sono circondate da una terra arida,
all’interno del loro cuore hanno
crea- to una valle verde fatta
d’amore e di positività, realizzando
così un equilibrio che favorisce il
processo dialettico.
I Sufi parlano d’amore,
raccontano di un paradiso fatto di
giardini verdi, e si rivolgono al
divino chiamandolo “mio amato”.
Parlano del vino – che è il loro
simbolo – e di ebbrezza: sono
inebriati, ebbri del divino! Si
abbandonano alla danza e al canto, e
vivono in uno spazio di festa e di
celebrazione. È perfettamente
logico: sono stufi del deserto e lo
bilanciano con un rigoglioso
giardino interiore.
Il buddhismo è nato all’ombra
dell’Himalaya, sulle rive del Gange,
in una delle terre più fertili e più
belle del mondo. Il paesaggio
esteriore è meraviglioso e
lussureggiante, e sognare altro verde
anche nello spazio interiore sarebbe
risultato monotono: creare valli e
fiumi sarebbe stato noioso, perciò il
Buddha ha immaginato lo spazio
interiore sotto forma di vuoto, di
nulla, di deserto, con il suo silenzio
e la sua purezza assoluta – senza
danze né canti.
Non è possibile immaginare il
Buddha immerso nella danza,
mentre sarebbe impensabile
immaginare Rumi che non danza!
Se c’è una cosa che
contraddistingue Rumi, è proprio la
danza! Raggiunse il suo primo
samadhi danzando ininterrottamente
per trentasei ore; danzò senza mai
fermarsi, creò intorno a sé un campo
di estasi tale, che chiunque si
avvicinava per vedere cosa gli stava
accadendo, iniziava a danzare con
lui, e quando raggiunse il picco del
samadhi c’erano migliaia di persone
immerse nella danza insieme a lui. È
così che si è realizzato: è crollato a
terra per quattro ore nell’ebbrezza
più totale, proprio come un ubriaco,
e quando ha ria-perto gli occhi,
aveva visto il trascendente e l’aveva
portato con sé.
Il Buddha invece raggiunse la
vetta del suo samadhi seduto in
silenzio senza fare nulla, così
perfettamente immobile che avresti
potuto scambiarlo per una statua di
marmo! Non è una coincidenza che
le prime statue esistenti furono
proprio quelle del Buddha: in
seguito ne vennero scolpite molte
altre, ma la statuaria iniziò proprio
con i suoi ritratti, perché era
talmente simile a una statua! Nel suo
silenzio perfetto, seduto sotto
l’albero della Bodhi, doveva proprio
sembrare un pezzo di marmo:
freddo, bianco, immobile… e il
marmo bianco divenne infatti un
simbolo del Buddha.
Al contrario, è impossibile creare
una statua di Rumi, perché non stava
mai nella stessa posizione per due
istanti consecutivi; raffigurarlo sotto
forma di statua, sarebbe come
scolpire una fontana o un salice nel
bel mezzo di una bufera di vento: è
impensabile!
Il Buddha è nato e vissuto in
Nepal, all’ombra delle montagne
senza tempo dell’Himalaya,
immerso nella loro bellezza
sconfinata; anche qui si può vedere
all’opera una polarità: circondato
dall’incanto dell’Himalaya, il
Buddha ha creato il deserto interiore
e la via della negazione assoluta;
mentre Rumi, che invece visse nel
deserto, in mezzo a una distesa
infinita di sabbia, ha creato dentro di
sé un piccolo parco, un paradiso, un
giardino protetto. La parola firdaus,
“paradiso”, significa proprio
“giardino recintato”, “oasi”.
I Sufi mettono l’accento sul polo
positivo, e io ti parlo sia dello Zen
che del sufismo: tocca a te scegliere.
Ma non devi farlo solo con la testa:
alla tua scelta deve partecipare la
totalità del tuo essere. Sperimentali
entrambi: prova sia la danza Sufi
che la Vipassana e scegli quella più
adatta a te… Quando qualcosa ti si
addice, te ne accorgi facilmente e
non è necessario chiedere consiglio
a nessuno, perché ti calza a pennello
e ti rendi immediatamente conto che
siete fatti l’uno per l’altra:
all’improvviso tutto si sintonizza
alla perfezione, creando un’armonia
meravigliosa.
Non decidere con la testa, perché
potresti prendere la direzione
sbagliata: lascia che sia il tuo intero
essere a decidere, e sperimenta tutte
le possibilità! Per questo cerco di
metterti a disposizione tutti gli
approcci possibili, così che tu possa
scegliere ciò che ti si addice
maggiormente: quello sarà il tuo
sentiero!
Inoltre, non imporre mai e poi mai
il tuo cammino a un’altra persona,
perché potrebbe non essere la via
adatta a lei. Condividi la tua gioia,
ma non cercare mai di convertire
qualcuno imponendogli i tuoi
princìpi; metti a disposizione la tua
esperienza, ma non diventare mai un
missionario, perché la sola parola è
“sporca”, evoca cose terribili… Apri
il tuo cuore all’altro e, se vuole
seguirlo, lascialo libero di scegliere;
ma non cercare mai, per nessuna
ragione, di convertirlo alla tua
dottrina. La tua esperienza e la tua
capacità di condividere sono cose
meravigliose, perché nascono dal
tuo amore e dalla tua compassione;
ma i tuoi princìpi, la tua dottrina e il
tuo sentiero sono pericolosi, perché
potrebbero non essere adatti
all’altro.
E quando parlo dell’“altro” non
mi riferisco a uno sconosciuto:
potrebbe trattarsi di tuo figlio, di tua
moglie, di tuo marito o di tuo
fratello, perché quell’altro
comprende tutti gli altri – incluso il
bambino che hai portato in grembo
per nove mesi! Anche se è sangue
del tuo sangue e ha vissuto dentro di
te per tutta la gravidanza, possiede
comunque una vita propria; è venuto
al mondo grazie a te, ma non è
uguale a te: ha la sua individualità e
deve fiorire a modo suo! Mettigli a
disposizione tutto ciò che hai
sperimentato, sia le cose positive sia
quelle negative; offri a tuo figlio
tutta la tua vita, ma non indottrinarlo
mai, non cercare di trasformarlo in
un cristiano, in un hindu o in un
musulmano: aiutalo a seguire la sua
natura. Nessuno può sapere che fiori
potranno sbocciare dentro di lui!
Aiutalo semplicemente a crescere e
a diventare forte: questo è amore!
Cercare di indottrinare qualcuno
non è affatto un’azione che nasce
dall’amore, bensì dall’odio: significa
che hai paura, che sei possessivo,
ambizioso, egoista, che vuoi
dominare l’altro servendoti della tua
dottrina, e che vuoi uccidere il suo
spirito. Anche se magari pensi di
essergli d’aiuto, in realtà non lo sei
affatto: al contrario, stai minando la
sua crescita, lo stai azzoppando,
storpiando, e non riuscirà mai a
perdonarti.
I figli non riescono mai a
perdonare i genitori, perché questi
ultimi li hanno indottrinati e hanno
imposto loro le proprie scelte. Si
tratta di una forma di violenza, e
anche della peggior specie, perché
ferisce la loro consapevolezza!
Interferendo con la loro libertà hai
violato la più fondamentale delle
leggi della vita, perché la forma di
libertà più grande che esiste è quella
di poter crescere avvicinandosi al
divino, e ciascuno deve farlo
seguendo la propria strada.
La rosa emana il suo particolare
profumo e così pure la calendula;
quest’ultima non deve diventare una
rosa, né potrebbe farlo: deve
sbocciare a modo suo e offrire la sua
essenza più autentica! Solo l’offerta
che proviene dal tuo centro più
profondo ed è radicata nell’essenza
più intima del tuo essere potrà essere
accettata!
Perciò sperimenta sia lo Zen che
il sufismo; non c’è alcuna fretta:
continua a stare in ascolto – coltiva
il tuo sentire – e un giorno,
all’improvviso, tutto entrerà in
sintonia, creando un’armonia
perfetta – e ti si aprirà la visione.

Ora la storia:

Un ricercatore girovago incontrò un
derviscio in una locanda e gli disse:
«Sono stato in mille regioni diverse,
ho ascoltato gli insegnamenti di
molti mentori e ho imparato a capire
quando un insegnante è privo di
spiritualità. Non sono ancora
capace di riconoscere un vero
maestro, né so come trovarlo, ma ho
compiuto metà del lavoro ed è pur
sempre meglio di niente!».

Quell’uomo doveva essere
profondamente radicato nella
negatività, nella negazione: sarebbe
potuto diventare con molta facilità
un seguace del Buddha, ma non un
Sufi. Aveva una mente incline alla
filosofia e il suo sistema di pensiero
era fondato sul dubbio e sullo
scetticismo, ma questa non è la via
dei Sufi.
Bisogna comprendere a fondo
ogni parola di questa storia, perché
le storie Sufi non sono semplici
racconti, bensì parabole: non si può
cambiare nemmeno una virgola,
altrimenti comprometti l’intera
trama, il sapore complessivo e tutto
il significato del racconto.
Le storie Sufi sono strutturate in
modo da veicolare significati
molteplici, e possono essere lette a
livelli diversi…

Un ricercatore girovago…

Un ricercatore è sempre un
vagabondo: chi desidera davvero
trovare la verità non se ne va in giro
ma si ferma con un maestro, mentre
il girovago è curioso, ingordo, e
vuole sapere quante più cose
possibile, perciò non riesce a restare
accanto a un solo maestro.
E a meno di non provare un
grande amore per il tuo maestro e di
vivere in profonda intimità accanto a
lui, non riuscirai a mettere radici:
continuerai a essere come un sasso
che rotola senza sosta, sul quale non
cresce mai il muschio. Puoi
continuare a vagabondare in eterno,
ma tutto quel girovagare non ti
arricchirà: tutt’altro, più ti muoverai
e più finirai per impoverirti, perché
perderai tempo e sprecherai la tua
vita.
Questa non è la via del satsang! Il
sufismo confida moltissimo
nell’intimità con il maestro: se
continui a trapiantare un albero da
un luogo all’altro, lo ucciderai;
come potrà mai mettere radici?
Perché accada è necessario lasciarlo
nello stesso terreno abbastanza a
lungo; se si tratta di una pianta
stagionale va bene, perché si
sviluppa nel giro di qualche
settimana e poi muore; se invece è
un cedro del Libano, che vive
migliaia di anni e cresce alto fino a
toccare il cielo e a sussurrare alle
nuvole, trapiantarlo di continuo sarà
dannoso e finirà per ucciderlo: è un
assassinio!
L’anima non è una pianta
stagionale, ma un cedro del Libano,
e il maestro è un terreno in cui devi
affondare le tue radici: devi fare in
modo che si spingano in profondità
all’interno del suo essere, perché
solo questo riuscirà a nutrirti –
questo è il satsang!
Se continui a vagabondare,
probabilmente raccoglierai un gran
numero di informazioni e
accumulerai molta cultura, ma
rimarrai ignorante come il primo
giorno, anzi forse persino di più,
perché diverrai anche pieno di ego:
penserai di sapere, invece non saprai
nulla! Ti porterai dietro un bagaglio
inutile e ti sentirai sempre più
pesante, sempre più ingolfato:
questa non è una crescita vera. La
vera crescita è del tutto diversa e ha
bisogno di tempo, di attesa, di
pazienza, d’amore, di intimità e di
fiducia!
Partecipare al satsang significa
avvicinarsi a una nuova nascita,
entrare nel silenzio, imparare ad
ascoltarlo, dimenticando le parole e
trascendendole; vuol dire non fare
assolutamente nulla e sprofondare
nell’interiorità, in uno spazio molto
più profondo di qualsiasi forma
d’espressione: questo è il satsang!
E il sufismo confida nel satsang:
fa affidamento sull’intimità con il
maestro! Nel cuore della notte,
avvolti dal silenzio, i discepoli
rimangono seduti al suo fianco,
anche se lui magari pronuncia
appena due o tre parole o tace del
tutto; seduti accanto a lui,
percepiscono e assorbono la sua
presenza, divenendo parte del suo
campo energetico: e respirando e
pulsando con lui, piano piano il loro
ego scompare. Il discepolo non
distingue mai il momento preciso in
cui ciò accade, perché non compie
alcuno sforzo evidente per
dissolvere il proprio io: sparisce da
solo, proprio come la neve si
scioglie al sorgere del sole!
Quando arrivi dal maestro, il sole
comincia a sorgere; non c’è bisogno
di fare grandi cose o di compiere
grandi sforzi: sarà sufficiente la sua
presenza magica. Tutto ciò di cui il
discepolo ha bisogno è lasciarsi
andare con profonda fiducia!

Un ricercatore girovago…

Quest’uomo doveva essere un
soggetto molto curioso e alla ricerca
di cose superflue, perciò ha
continuato a vagabondare e a
bussare a tutte le porte come un
mendicante… Una persona simile
non matura mai coraggio e pazienza
sufficienti per fermarsi in un posto,
rimane quindi priva di radici.

Un ricercatore girovago incontrò un
derviscio in una locanda…

Un derviscio è una persona inebriata
dal divino: si vede dal modo in cui
cammina e dai suoi occhi arrossati
dal nettare dell’esistenza. Ci sono
mille indizi che mostrano come il
suo essere non si esaurisca nel
corpo: certo, è presente all’interno di
quest’ultimo, ma si trova anche da
qualche altra parte; non è solo un
corpo, ma qualcosa di più, perché è
molto più della somma di corpo e
mente. Nel suo essere si percepisce
la presenza viva del trascendente, e
per coloro che sono capaci di
vederla si tratta di una realtà quasi
tangibile e chiaramente visibile!
Puoi sentire l’energia che danza
intorno a lui, e poiché è un essere
fiorito, puoi riuscire a cogliere il
profumo, la delicatezza e la dolcezza
che lo circondano.
Il tratto peculiare del derviscio è
l’ebbrezza, ed è una cosa che non
osserverai mai in un maestro Zen!
La sua qualità distintiva è di
tutt’altra specie, perché si è
realizzato attraverso la via negativa:
non sarà mai inebriato, ma
perfettamente vigile e consapevole.
Il maestro Zen sarà piuttosto come
una spada affilatissima, pronta a
tagliarti in due con un solo colpo,
perché la sua consapevolezza lo
rende estremamente acuto e
tagliente.
Il maestro Sufi è inebriato, è
dolce, e ti inonda d’amore! Quello
Zen, per via della sua
consapevolezza e del suo essere
illuminato, sarà capace di grande
compassione, ma non di
amorevolezza; il maestro Sufi
invece è colmo d’amore, perché
quello è il suo dio! Per lo Zen, non
esiste alcun dio, ma solo un nulla
assoluto, mentre per il maestro Sufi
esiste solo il divino: lo respira, se ne
nutre, se ne disseta, vive immerso al
suo interno come un pesce
nell’oceano. Come può rimanere
sobrio? Si vede dal modo in cui
cammina e in cui siede che è
completamente inebriato dal divino!
Non è un caso che il vino sia
diventato una delle metafore centrali
del sufismo. In Occidente il maestro
Sufi Omar Khayyam è stato
completamente frainteso, perché i
suoi traduttori – in particolare
Edward Fitzgerald – hanno
interpretato le sue parole in modo
letterale, quando invece si tratta di
metafore che non vanno intese alla
lettera! Quando parla della donna, in
realtà intende il divino, perché i Sufi
vi si riferiscono usando il femminile
e non il maschile.
Anche gli hindu talvolta guardano
al divino in termini femminili, ma
nel loro caso assume sempre la
valenza della “madre”, mentre i Sufi
intendono proprio la donna amata.
Se la donna a cui ti rivolgi è tua
madre, la relazione che crei con lei è
fondata più sul rispetto che
sull’amore: nei confronti di tua
madre sei pieno di riverenza, non
d’amore, mentre con la tua amata la
relazione diventa del tutto diversa…
I Sufi sono gli unici al mondo che
hanno osato chiamare dio “mio
amato”!
Inoltre, quando parlano del vino,
stanno parlando dell’amore divino
che – se glielo permetti e se sei
pronto a ricevere quel dono – fluisce
all’interno del tuo essere. Se entri in
uno stato di reale abbandono,
accadrà per certo, senz’ombra di
dubbio; se non succede, significa
semplicemente che le tue porte sono
chiuse.
Vivendo con un maestro,
imparerai ad aprire le tue porte: non
si tratta di acquisire un qualche
sapere, piuttosto occorre apprendere
un nuovo modo di essere – più
aperto, meno chiuso.

Un ricercatore girovago incontrò un
derviscio in una locanda…

Anche la parola “locanda”, che
indica una casa in cui ci si riposa, è
molto significativa, perché un
individuo che sente l’ebbrezza del
divino è finalmente a casa e può
riposarsi: è l’unico al mondo a
sapere cosa sia la vera quiete!
Nel 1905 Albert Einstein dichiarò
che nulla si trova in perfetta quiete,
e da allora, in effetti, la quiete non
s’è più vista! Einstein ha ragione,
perché nel mondo esteriore non
esiste quiete; tutto è sempre in
movimento, comprese le cose che
sembrano immobili: persino i muri
di casa tua sono in moto perenne e
in continuo subbuglio. Tutto è in
costante mutamento! Nulla rimane
fisso e sempre uguale, nemmeno la
catena dell’Himalaya! Anche quella
cambia senza sosta, trasformandosi
di continuo ma, poiché le nostre vite
sono molto brevi, non ce ne
accorgiamo. Gli scienziati affermano
che se fosse possibile condensare
tutta la storia delle montagne
dell’Himalaya in ventiquattr’ore, ci
accorgeremmo che sono molto
simili alle onde fluttuanti
nell’oceano: paragonato alla durata
della nostra vita, il loro
cambiamento è molto lento, ma è
pur sempre presente, e c’è stato
addirittura un tempo in cui
l’Himalaya non esisteva affatto!
Forse ti sorprenderà scoprire che
le cime dell’Himalaya sono le più
giovani del mondo: sono ancora
adolescenti, stanno ancora
crescendo! Si sollevano di appena
qualche centimetro all’anno, ma la
trasformazione è incessante.
Ogni cosa cresce verso l’alto o
sprofonda verso il basso, ma il
cambiamento è l’unica vera
costante. Per ciò che riguarda il
mondo esterno Einstein ha ragione,
ma dell’interiorità non sa nulla: se
ne avesse avuta qualche conoscenza,
non avrebbe mai detto che la quiete
assoluta non esiste, perché esiste
eccome! Non si trova all’esterno,
bensì nell’essenza, nel centro più
profondo del tuo essere: lo so per
certo, perché io mi trovo in quella
dimensione, e la puoi raggiungere
anche tu!
Un individuo può essere
veramente appagato solo se riesce a
trovare dentro di sé la perfetta quiete
interiore: la puoi chiamare anima,
divino, nirvana o in qualsiasi altro
modo; comunque esiste un luogo,
nel punto più profondo e
nell’essenza più intima del tuo
essere, in cui tutto è perfettamente
immobile come al centro di un
ciclone… la quiete esiste!
Queste storie Sufi sono
metaforiche: affermando che il
derviscio si riposa nella locanda,
mentre il ricercatore è un girovago;
il racconto ti sta dicendo che il
vagabondo è ancora alla ricerca,
mentre il derviscio è arrivato. È un
siddha e si è realizzato; non ha più
bisogno di andare in nessun altro
posto, perché è giunto a
destinazione: finalmente è a casa!

Un ricercatore girovago incontrò un
derviscio in una locanda e gli disse:
«Sono stato in mille regioni diverse,
ho ascoltato gli insegnamenti di
molti mentori…».

Ricorda che un maestro è più che
sufficiente e mille mentori non sono
mai abbastanza!
I mentori sono semplici docenti,
precettori, mentre un maestro è ben
diverso da un insegnante: non è né
un mentore, né un precettore; ha
piuttosto la funzione di creare una
sorta di contagio, perché il suo non è
un insegnamento, bensì una
trasmissione! Non ti inculca delle
nozioni, crea semplicemente intorno
a te un campo d’energia che ti
circonda, e, quando ti trovi immerso
in quello spazio energetico, dal
profondo del tuo essere qualcosa
inizia a rispondere.
Si tratta di un’intuizione: il
maestro confida nell’intuito, ti
insegna quest’arte e fa affidamento
sulla sua forza. Crea una situazione
in cui qualcosa di te che prima non
riusciva a funzionare comincia a
farlo: tutto qui! Non ti dà nulla,
agisce semplicemente da
catalizzatore, offrendoti solo cose
che erano già tue fin dal principio: tu
non ne sei più consapevole, te le sei
dimenticate; il maestro te le ricorda,
risvegliando dentro di te qualcosa
che si era assopito. Scava un pozzo
nel tuo essere, ma l’acqua che vi
trovi è tua; lui non fa altro che
frantumare e disintegrare i massi che
la bloccano, ma ciò che affiora è tuo,
ed è la tua essenza più autentica! Il
maestro ti restituisce semplicemente
il tuo vero essere!

Il ricercatore dice al derviscio:
«Sono stato in mille regioni
diverse, ho ascoltato gli
insegnamenti di molti mentori…».

Proprio come un mendicante con la
sua ciotola delle offerte, quest’uomo
ha continuato a bussare a una porta
dopo l’altra, bramando e cercando la
verità. Ha accumulato molto sapere,
ha appreso molte dottrine e ha
acquisito un gran numero di sacre
scritture, ed è diventato davvero
esperto nell’arte della filosofia.

Dice infatti:
«Ho ascoltato gli insegnamenti di
molti mentori e ho imparato a capire
quando un insegnante è privo di
spiritualità…».

E l’unica cosa che ha imparato è la
diffidenza! Tutto ciò che ha appreso
è uno stile di pensiero che funziona
per negazioni. Dal punto di vista dei
Sufi, questo è del tutto inutile: ha
capito come distinguere un uomo
che non è realmente spirituale, ha
imparato a riconoscere la malattia,
ha affinato il senso critico… ed è
diventato diffidente!
Le persone molto erudite
diventano scettiche, e non è questa
la strada per raggiungere il divino.
Per trovarlo bisogna essere
amorevoli, mentre lo scetticismo
nasce dall’odio, dall’antagonismo, e
fa parte del tuo essere distruttivo.
Ebbene, quest’uomo ha viaggiato,
ha vagabondato, ha ascoltato e
imparato molte cose, e l’unico
risultato che ha ottenuto è la
capacità di capire se un maestro non
è realmente spirituale: che ricchezza
è mai questa? Eppure le cose stanno
proprio così.
A meno che tu non stia accanto a
un maestro abbastanza a lungo,
imparerai solo la negatività.
Quest’ultima si trova sulla
superficie, mentre la positività sta al
centro delle cose; gli aspetti negativi
possono riguardare soltanto la realtà
esteriore perché sono privi di valore,
mentre ciò che è davvero prezioso è
la parte positiva! Ma se vai da un
maestro e ascolti solo ciò che dice,
senza considerare ciò che è, non
riuscirai mai a coglierne gli aspetti
positivi.
È proprio ciò che è accaduto a
quest’uomo, ed è una disgrazia che
capita a molta gente.

«Sono stato in mille regioni diverse,
ho ascoltato gli insegnamenti di
molti mentori e ho imparato a capire
quando un insegnante è privo di
spiritualità. Non sono ancora
capace di riconoscere un vero
maestro, né so come trovarlo, ma ho
compiuto metà del lavoro, ed è pur
sempre meglio di niente!».

Il girovago sta cercando di
consolarsi. Mi viene in mente una
famosa affermazione di Nietzsche:
era un pazzo, ma a volte i pazzi
dicono cose davvero belle, perché
colgono un bagliore di verità.
Ebbene, Nietzsche disse che è
meglio non sapere assolutamente
niente piuttosto che essere convinti
di una cosa soltanto a metà – è
meglio non conoscere nulla che
avere una conoscenza parziale, è
meglio non avere alcuna
conoscenza, che averne dei
frammenti. E perché mai la
completa ignoranza sarebbe meglio
di una conoscenza parziale?
Secondo la logica comune sapere
qualcosa è sempre meglio di niente,
ma non è così!
Accumulare saperi inutili
produrrà in te un’enorme tristezza,
una gran disperazione e una
sensazione di inutilità; conoscere gli
aspetti negativi delle cose ti
inaridirà, sottraendoti tutta l’energia
e la linfa vitale: ti congelerai,
diverrai freddo, incapace d’amare,
perderai ogni speranza; e cadrai
nella disperazione e nell’angoscia. A
molta gente è accaduto proprio
questo!
Sigmund Freud, per esempio,
coglieva solo gli aspetti negativi: pur
conoscendo bene i
malfunzionamenti della mente
umana, non è mai stato consapevole
del suo potenziale positivo, perché si
concentrava solo sulla parte
negativa.
È diventato un grande esperto di
tutte le malattie della mente, delle
sue anomalie, delle sue perversioni,
delle sue patologie, delle sue
nevrosi, delle sue psicosi e via di
questo passo, ma ha scordato del
tutto che sono esistiti anche i
buddha! Infatti, più prendeva
confidenza con gli aspetti anormali,
perversi, malati e degeneri, più
cominciò a dubitare dell’esistenza
dei buddha, iniziando a sospettare
persino di Gesù!
Gli psicanalisti sono arrivati
addirittura a scrivere libri e trattati
con l’intento di dimostrare che Gesù
era un nevrotico; non si sono mai
concentrati molto sul Buddha ma, se
lo facessero, direbbero lo stesso di
lui: forse nel suo caso userebbero
qualche altra parola, per esempio
“represso”. Se si occupassero di
Ramakrishna, lo definirebbero un
isterico, e lo stesso accadrebbe a
Maometto: gli darebbero del
nevrotico, del pazzo…
Perché mai Gesù sarebbe stato
nevrotico? Perché parlava con dio!
Era un nevrotico perché udiva voci
provenienti dal cielo, perché era
capace di percepire qualcosa di
invisibile che solo lui riusciva a
vedere; non possiamo credergli
perché non era in grado di
dimostrare ciò che sentiva: doveva
per forza essere pazzo!
Considera le implicazioni delle
affermazioni di Freud: sostiene che
la salute mentale è impossibile ed è
anche sospetta! Bisogna diffidare di
una persona sana, integra e in
contatto col divino, e in più la si
deve addirittura condannare; in
questo caso cosa rimane? Così
l’umanità intera è costretta a vivere
nella disperazione e senza alcuna
prospettiva, e Freud sostiene proprio
questo: il genere umano non ha
alcuna speranza; al massimo si può
rassegnare, ma non potrà mai essere
felice. Infatti, lui stesso non ha mai
provato alcuna gioia: si è
semplicemente limitato a sopportare
la vita.
Sotto molti aspetti Freud stesso
era un nevrotico: era terribilmente
spaventato dalla morte e aveva
molte fobie. Era una persona piena
di rabbia, al punto che, quando
veniva preso da un impeto di collera,
cadeva a terra privo di sensi; aveva
così paura della morte che il solo
nominarla lo faceva tremare; ed era
così ambizioso e così immerso nei
giochi politici, che aveva sempre
paura che qualcuno stesse
cospirando contro di lui.
Era paranoico e i suoi sospetti
sono stati la rovina di molti suoi
allievi, perché non riusciva a
sopportare che qualcuno si
avvicinasse a lui in termini di
intelligenza e di conoscenze. Voleva
intorno a sé solo persone succubi, e
ogni volta che si presentavano
allievi intelligenti – come Jung,
Adler e molti altri – non avevano
altra scelta che fuggire. Freud non
era una fonte di nutrimento, bensì
una presenza velenosa… Eppure
quest’uomo ha continuato a dare
giudizi sul Buddha, su Lao-tzu, su
Zarathustra, su Gesù, su
Maometto… vale a dire sulle poche
persone davvero sane!
Prova a pensarci: l’esistenza della
malattia è la prova che anche la
salute è possibile – quantomeno
possibile! Se c’è l’oscurità, significa
che c’è anche la luce; se esiste la
morte, vuol dire che è possibile la
vita! Infatti, come potrebbe esistere
la morte senza la vita? Se la salute
non esistesse, come potresti stabilire
che una persona è malata? Se al
mondo non esistessero i buddha,
come faresti a distinguere la follia?
In quel caso tutti sarebbero pazzi –
magari affetti da follie differenti, ma
pur sempre pazzi!
Freud è diventato un vero esperto
di aspetti negativi – uno specialista
di malattie e di patologie – e la sua
esperienza naturalmente l’ha
condotto a negare l’esistenza dei
buddha, perché non ne ha mai
incontrato uno. Infatti, non è così
che è possibile imbattersi in un
buddha: nessuno di loro sarebbe mai
andato a farsi psicanalizzare da
Freud!
Quell’uomo ha passato
quarant’anni ad analizzare gente
malata, che soffriva di mille forme
di proiezioni della mente e di mille
fobie; ha trascorso tutto quel tempo
a osservare e ad ascoltare i sogni, le
ossessioni e le paure della gente,
venendo in contatto solo con
persone dissociate, schizofreniche e
isteriche, e in un certo modo aveva
quindi ragione quando affermava di
non aver mai incontrato un solo
individuo sano! Freud non ha mai
visto una persona davvero sana: ha
osservato migliaia di esseri umani –
e quarant’anni non sono certo pochi
–, ma ha dimenticato che un buddha
non è certo il tipo di persona che va
a sdraiarsi sul suo lettino a
raccontargli i propri sogni… perché
in verità non ha nessun sogno!

Tempo fa qualcuno ha
accompagnato da me un sensitivo
molto conosciuto. Aveva una
capacità incredibile di leggere i
pensieri della gente: bastava che ti
sedessi di fronte a lui per qualche
istante, e lui si concentrava in
silenzio e iniziava a descriverti i
pensieri che si agitavano nella tua
mente.
Qualcuno l’aveva portato da me
perché mi leggesse il pensiero, e io
gli dissi: «Va bene, leggi pure!».
Dopo una mezz’ora il sensitivo
aprì gli occhi ed esclamò: «Ma nella
tua mente non c’è nulla – come
posso fare?».
«Come!» replicai stupito. «Non
hai trovato niente da leggere?».

Un buddha non possiede né sogni né
pensieri: poiché il suo ego non
esiste, come potrebbe avere paura di
qualcosa? Neppure la morte lo
spaventa, né gli crea alcun
interrogativo: in termini di ego è già
morto, e adesso vive immerso
nell’immortalità, nell’eternità e
nell’assenza di tempo.
Perché mai un buddha dovrebbe
andare fino a Vienna? Non ne ha
ragione; infatti, prima o poi, Freud
stesso sarà costretto ad andare da
lui! Io sono circondato da
psicanalisti che hanno sentito il
bisogno di venire qui perché si sono
ritrovati privi di ogni prospettiva.
Ascoltando giorno dopo giorno le
sofferenze della gente, hanno perso
ogni speranza, e solo un buddha può
restituire loro la fiducia e aiutarli a
ritrovare la gioia; hanno vissuto
troppo a lungo immersi
nell’angoscia: sapevi che fra gli
psicanalisti si verifica un numero di
suicidi maggiore – quasi doppio –
che in qualsiasi altra professione? E
hanno anche quasi il doppio delle
probabilità di diventare pazzi; non
dovrebbe essere così: gli psicanalisti
non dovrebbero suicidarsi o
impazzire, invece accade più spesso
che in altri ambienti.
Ma li capisco e provo grande
compassione per loro, perché la loro
vita lavorativa è una continua e
perenne agonia: osservare le anime
ferite della gente e tutto il marciume
che ne fuoriesce significa vivere in
una sorta di inferno!

Mi hanno raccontato questa
barzelletta:
Uno psicanalista muore e, pur
avendo un biglietto per il paradiso,
si dirige verso l’inferno.
Il diavolo, davvero sorpreso, gli
chiede: «Ma perché sei venuto qui
se hai un biglietto per il paradiso?».
«Sono uno psicanalista» risponde
l’uomo «e devo abituarmi piano
piano: andare subito in paradiso
sarebbe troppo e non riuscirei a
crederci! Lascia che trascorra
qualche giorno all’inferno, in modo
che possa abituarmi a una realtà
migliore di quella che ho conosciuto
finora!».

Gli psicanalisti vivono in una
situazione di gran lunga peggiore
dell’inferno, ovviamente non
riescono più a vedere gli aspetti sani
dell’esistenza. Ma all’orizzonte si
intravedono segnali positivi e si
stanno sviluppando scuole
psicologiche con impostazioni
differenti. Assagioli ha messo in
crisi gli assunti di Freud: le correnti
olistiche e umanistiche della
psicologia stanno infatti
distruggendo ciò che la psicanalisi
freudiana ha costruito, ed è un buon
segno!
Ma se continui a collezionare
cultura, senza radicarti sempre più in
profondità nell’essere, finirai per
identificarti con la rabbia e con
l’angoscia stessa!

L’uomo disse:
«Ho imparato a capire quando un
insegnante è privo di spiritualità.
Non sono ancora capace di
riconoscere un vero maestro, né so
come trovarlo, ma ho compiuto metà
del lavoro, ed è pur sempre meglio
di niente!».

Non è così! Diventare sempre più
abile a riconoscere la negatività, a
mettere in dubbio e a cogliere
l’aspetto negativo delle cose, essere
sempre più esperto e più scaltro nel
vedere le spine non ti aiuterà in
alcun modo a conoscere i fiori! Puoi
sapere tutto quello che vuoi sulle
spine, ma non ti sarà di nessun aiuto
nella conoscenza dei fiori, anzi, più
cose sai e più inizierai a dubitarne,
finendo per credere che i loro
boccioli siano solo frutto
dell’immaginazione!
Freud sostiene proprio questo:
poiché crede che non ci sia proprio
niente da raggiungere, secondo lui il
Buddha ha semplicemente
immaginato di conseguire
l’illuminazione, Krishna era vittima
di fantasie e Gesù parlava con dio e
con gli angeli perché soffriva di
allucinazioni!
Io sono in grado di comprendere
come questo possa accadere; se
riesci a farlo anche tu, ti sarà di
grandissimo d’aiuto.

Lulu Zezas, la regina
dell’allevamento del bestiame e del
petrolio del Wyoming, ha raccontato
la storia del proprietario di un ranch
che si lamentava sempre di avere gli
stivali troppo stretti.
«Perché non te li fai allargare?»
gli suggerì Lulu.
«Niente da fare,» rispose
l’allevatore «questi stivali sono
troppo stretti ed è così che
continueranno a essere! Ogni giorno,
quando mi alzo, devo radunare tutte
le bestie che sono scappate durante
la notte, riparare tutte le recinzioni
che hanno distrutto, e fare attenzione
che il mio ranch non venga spazzato
via dal vento e sommerso dalla
polvere; infine devo passare tutta la
serata ad ascoltare mia moglie che
mi assilla perché vuole trasferirsi in
città: sfilarmi questi stivali stretti,
quando mi preparo per andare a
letto, è l’unico vero piacere della
mia giornata!».

Un individuo negativo vive
rinchiuso in una prigione e l’unico
piacere che gli resta è riuscire, di
tanto in tanto, a dimenticarsi di tutto;
così si toglie gli stivali troppo stretti
ubriacandosi o abbandonandosi ai
vortici del sesso, nel tentativo di
smarrire se stesso e di alleviare
quella sensazione di compressione:
l’unico piacere della sua vita è
riuscire a dimenticarsi di se stesso!
È davvero una cosa stupida,
perché esistono modi molto più
efficaci per dimenticarsi del proprio
ego per sempre. Il sufismo ne è un
esempio: puoi immergerti nel divino
per l’eternità! Non c’è bisogno di
nessuna droga, perché la migliore di
tutte è il divino stesso; e il sufismo è
in grado di fornirtela! Una volta che
l’ego sarà del tutto scomparso, non
esisteranno più paure, angosce,
sofferenze o vite d’inferno.

È così che Ramana Maharshi ha
sperimentato l’apertura improvvisa
delle porte della consapevolezza
suprema, in cui l’identità
dell’individuo è quasi del tutto
annichilita.
Quando morì un membro della
sua famiglia, il giovane Ramana,
spinto più dalla curiosità che dal
senso di perdita che quel lutto
comportava, decise di esplorare in
prima persona l’esperienza della
morte. Si tolse tutti i vestiti, si sdraiò
sul pavimento della sua stanza e, con
straordinaria intensità, immaginò
che il suo corpo fosse morto. Chiuse
gli occhi, creando uno stato di sonno
profondo e all’improvviso ebbe la
visione, perfettamente completa e
senza tempo, della consapevolezza
originaria che giace al centro del
nostro essere – della coscienza
ultima che è la fonte dell’esistenza
stessa. E quando riaprì gli occhi era
un uomo totalmente diverso.
Cos’è successo? Quando morì
quella persona, quel suo parente,
Ramana aveva solo diciassette anni
e non era uno studente modello o
chissà cos’altro; non possedeva
qualità eccezionali, eccetto una: la
capacità di dormire in modo così
profondo che era quasi impossibile
svegliarlo, tanto che la sua famiglia
non ne poteva più di dover urlare e
strattonarlo per tirarlo giù dal letto…
A volte accadeva anche durante il
giorno: gli capitava di addormentarsi
a scuola, e gli altri bambini
dovevano riportarlo a casa. Era la
sua unica dote speciale: mentre i
suoi amici giocavano, lui cadeva a
terra addormentato, e anche se lo
pungolavano e lo prendevano a calci
e pugni, rimaneva del tutto assente,
così erano costretti a riportarlo a
casa.
Possedeva quest’unica capacità
eccezionale, ma si tratta di una
qualità straordinariamente
importante, perché il sonno
profondo è molto simile al samadhi:
è precisamente la sua soglia!

Anch’io possedevo questa
caratteristica distintiva. Quando ero
all’università in pratica era diventato
un problema, perché mi capitava di
addormentarmi di colpo. I miei
insegnanti andavano su tutte le furie;
infatti, quale professore accetta di
buon grado che una persona si
addormenti durante le sue lezioni?
Io poi studiavo filosofia e in classe
non c’era mai molta gente, perché è
una specializzazione che scelgono in
pochi: nel mio corso di laurea
c’erano solo tre studenti, perciò mi
addormentavo proprio sotto gli
occhi dell’insegnante, che veniva a
scuotermi per svegliarmi.
A volte, se gli altri due erano
assenti, accadeva che fossi l’unico
allievo e, vedendo che c’ero solo io,
il professore diceva: «Finiamola! La
lezione è sospesa! Vai a casa, e io
farò altrettanto, così potrò riposarmi
anch’io: che senso ha rimanere qui,
se tu dormi?».

Il sonno profondo è la soglia del
samadhi: per questo Ramana ha
potuto sperimentare quella visione.
Di fronte alla morte di una persona,
ad appena diciassette anni, pensò:
«Cos’è la morte? Proviamo a
sperimentarla!». Così si tolse gli
abiti, simulò la morte e cadde sul
pavimento. Aveva visto che il suo
parente era crollato a terra, perciò
fece lo stesso, chiuse gli occhi e
iniziò a pensare: «Sto morendo, sto
morendo, sto morendo…». In effetti
morì, perché il suo ego scomparve!
E non appena l’ego si fu dileguato,
apparve il divino – la
consapevolezza originaria!
Quando si risvegliò non era più la
stessa persona; lasciò
immediatamente la sua casa, senza
dire una parola a nessuno, ma non si
trattò di una rinuncia: se ne andò
semplicemente perché restare non
aveva alcun senso. Non fu un segno
di protesta contro il mondo, o roba
del genere: semplicemente rimanere
lì non aveva più senso, perciò uscì e
non tornò mai più.
Sua madre lo cercò per anni e,
finalmente, dieci anni dopo, lo
ritrovò in una grotta sulla montagna
di Arunachala, ma ormai era un
uomo del tutto diverso.
«Perché non mi hai detto nulla?»
gli chiese.
«Non ci ho neppure pensato!» le
rispose lui. «In verità non ho più
alcun pensiero, sto semplicemente
seduto qui, e i giorni passano, ma
non arriva nessun pensiero. Sono
contento che tu sia venuta! Rimani a
vivere con me…».

La consapevolezza originaria,
totalmente priva di pensieri, è il
divino! Questo è il vino di cui
parlano i Sufi, e quando l’avrai
assaporato, non avrai più bisogno di
nient’altro per dimenticare te stesso,
perché il tuo ego non esisterà più, e
non avrai più nulla da dimenticare!

Il derviscio, stracciandosi le vesti
per la disperazione, rispose: «Sei
proprio un infelice! Diventare un
esperto di ciò che è inutile è come
essere capace di distinguere le mele
marce senza aver imparato a
riconoscere quelle sane!».

Stracciarsi le vesti per la
disperazione è un’espressione tipica
dei Sufi, ed è una cosa che fanno
davvero: amano l’umanità con una
tale passione che quando ti vedono
intrappolato inutilmente in una
qualche forma d’infelicità, si
preoccupano a tal punto e si
prendono così a cuore la tua
situazione che si stracciano le vesti
per la disperazione.

Il derviscio, stracciandosi le vesti
per la disperazione, rispose: «Sei
proprio un infelice!».

Così nasce l’infelicità: è creata dal
dubbio, dalla negatività, dalla
sfiducia! Queste sono le radici di
ogni infelicità, di qualsiasi miseria!

«Diventare un esperto di ciò che è
inutile è come essere capace di
distinguere le mele marce senza aver
imparato a riconoscere quelle
sane!».

Proprio l’altra sera ho letto ciò che
ha scritto un filosofo:
«Ero solito domandarmi perché
una mela marcia posta in un cesto di
mele sane le faccia marcire, mentre
se metti una mela sana in mezzo a
quelle marce non le fa tornare sane.
Mi sono anche chiesto perché la
mera presenza di un uomo affetto
dal vaiolo, lasciato libero di
muoversi all’interno di un gruppo di
persone sane, fa ammalare parecchie
di loro, mentre la sola presenza di un
uomo in piena salute, che cammina
in un ospedale gremito di malati,
non provoca alcuna guarigione.
In altre parole, mi sono
domandato perché dio – sempre che
esista e sia buono – ha creato un
universo in cui il benessere e la
salute sembrano del tutto inutili,
mentre il marciume e la malattia
sono contagiose.
Ma un giorno ho smesso di pormi
domande e ho esaminato una
cosiddetta mela sana: e mi sono
accorto che non era affatto sana!
Certo, il fruttivendolo mi avrebbe
dato torto, perché non avrebbe
riscontrato alcun difetto in quella
mela, e avrebbe potuto persino
denunciarmi per calunnie, se avessi
continuato a spargere la voce che le
sue mele non erano perfette!
Ma se mi avesse domandato delle
prove, sarei stato in grado di
fornirgliele: gli avrei detto di
osservare il gambo della mela, e
proprio lì, nel punto più vitale e
cruciale di tutti, avrebbe trovato la
ferita mortale a cui mi riferivo, e si
sarebbe accorto che quella mela era
stata strappata dal suo ramo
originario, finendo per ritrovarsi
irrimediabilmente separata dalla sua
fonte di vita.
Con questa scoperta ho imparato
una delle lezioni più veritiere sui
fatti della vita, ossia che qualsiasi
cosa – frutto, verdura o essere
umano che sia – se strappata dalla
sua fonte vitale originaria, non
riuscirà mai a ritrovare la salute!».

Tutti gli esseri umani sono malati,
perché sono separati dalla loro
sorgente di vita e, a meno che non ti
ricongiunga di nuovo alla tua fonte
vitale, non riuscirai mai a guarire.
La salute, la completezza, la
beatitudine si trovano soltanto nel
divino: solo la sua presenza è capace
di guarirti! Ma il genere umano si è
dimenticato del tutto della sua
esistenza e ha cominciato a vivere
senza di lui, come un albero che,
scordandosi delle proprie radici,
viva esclusivamente attraverso i
rami: per forza si ammala e muore!
Per questo l’umanità intera è
malata. Nel 99,9% virgola nove per
cento dei casi Freud e i suoi colleghi
hanno ragione ad affermare che la
gente è malata, perché è sconnessa
dalla sua sorgente vitale; ma quel
restante zero virgola uno per cento è
la speranza! Esistono persone
connesse con l’esistenza!
Vorrei dire a quel filosofo che
esistono individui la cui salute è
contagiosa: quando un buddha si
muove, la sua semplice presenza è in
grado di guarire le persone!
Questo è il significato dei
miracoli con cui Gesù guariva i
ciechi che immediatamente
ricominciavano a vedere, i sordi che
all’improvviso riprendevano a
sentire e i paralitici che d’un tratto
riuscivano a camminare. Si tratta di
parabole che non si riferiscono a
persone paralizzate sul piano fisico,
quanto piuttosto alla paralisi
spirituale.
La semplice presenza di un uomo
radicato nel divino è capace di
guarire e di far ritrovare la salute
spirituale alle persone che hanno la
fortuna di poter vivere accanto a lui:
le ferite della loro anima
scompaiono, le loro radici
ricominciano a crescere, e non
appena ritrovano la loro sorgente di
vita e la loro linfa vitale, tornano a
ricoprirsi di foglie verdi e
riprendono a fiorire. L’acqua
ricomincia a zampillare dalla fonte,
e accade la celebrazione!
Ebbene, la celebrazione del
sufismo è precisamente questa!

Il derviscio disse:
«Ma corri un rischio anche
peggiore: fai attenzione a non
diventare come il medico di questa
storia...
Per mettere alla prova le capacità
di un medico, un re mandò diverse
persone sane a farsi visitare da lui.
A ognuna di loro il medico
prescrisse una medicina, e quando il
re lo convocò, accusandolo della
sua disonestà, quel vampiro rispose:
“Vostra maestà! È così tanto tempo
che vedo solo gente sofferente, che
ho cominciato a credere che tutti
siano malati, e ho confuso la
brillantezza di un occhio in piena
salute con un segno di febbre!”».

Quando Ramakrishna entra in stato
d’incoscienza è segno di grande
salute, ma gli psicologi direbbero
che è caduto vittima di un attacco di
isteria: in effetti, dall’esterno il suo
stato di incoscienza e la crisi isterica
possono sembrare simili, ma
dall’interno non lo sono affatto.
Ramakrishna è passato dallo stato
di coscienza minuscola e limitata a
quello della consapevolezza
originaria; non è più presente in
quanto “io”, in quanto individuo, ma
lo è in quanto sorgente e meta
ultima: è presente sotto forma di
esistenza stessa ed è tutt’uno con la
Totalità. Quando invece una persona
ha una crisi isterica, perde la
coscienza che normalmente
possiede, senza però raggiungere
uno stato di consapevolezza diverso,
ma dall’esterno sembra che si tratti
della stessa esperienza.
Se paragoni il sonno del Buddha a
quello di una persona qualsiasi, che
differenza riuscirai a percepire
dall’esterno? Sembrerà che stiano
facendo la stessa cosa, ma non è
così! La persona che dorme accanto
al Buddha è immersa nei sogni,
mentre la consapevolezza del
Buddha è più viva che mai tanto di
giorno, quanto di notte, eppure
dall’esterno sembra che stia
dormendo.
Cosa c’è di diverso fra la morte di
una qualsiasi persona e quella di un
buddha? La differenza è interiore ed
è percepibile solo dall’interno!
Finché tu stesso non diverrai un
buddha, non riuscirai mai a
coglierla: come puoi infatti
comprendere la condizione interiore
di un buddha, se non raggiungi
anche tu quello stesso livello di
consapevolezza? È l’unico modo per
poter guardare dall’interno.
Con la morte del Buddha non
muore nulla. Dentro di lui non c’è
alcun attaccamento alla vita e
nessuna preoccupazione; scivola
semplicemente via dal corpo,
proprio come quando tu ti cambi
d’abito… pensi forse di morire ogni
volta che ti svesti? Nello stesso
modo il Buddha si libera degli abiti
vecchi, esce dalla gabbia del corpo e
la sua anima è finalmente libera di
librarsi per il cosmo intero. Morendo
raggiunge l’estasi e la beatitudine
più completa, perché la sua morte
non è una fine, bensì una rinascita!
Sta andando verso una forma di
esistenza molto più grande di quella
precedente: sta passando dalla vita
che tutti conosciamo a un tipo di
esistenza superiore.
Quando muori tu, invece, passi
dalla vita alla non vita: dall’esterno
può sembrare la stessa cosa, ma
dall’interno non lo è affatto!

Questa storia è davvero bella:
«Per mettere alla prova le capacità
di un medico, un re mandò diverse
persone sane a farsi visitare da lui».

Questo re doveva essere davvero
bizzarro… ma in Oriente questo è il
metodo che si segue quando si vuole
esprimere un giudizio: il vero
medico non è un esperto di malattie,
è piuttosto una persona che conosce
la salute!
Anche i ciarlatani sanno
riconoscere la malattia, perché non è
poi un fenomeno così straordinario:
si tratta di una realtà che investe solo
la superficie, e chiunque può
imparare a conoscerla. La salute
invece è qualcosa di molto più
profondo e molto meno facile da
osservare: solo un medico davvero
saggio sa cos’è realmente.
Sapevi che nell’antica Cina era
consuetudine pagare un medico per
mantenere le persone in salute, e non
per curare una malattia? Proprio
come succede al giorno d’oggi, la
gente aveva il proprio medico di
fiducia, che però veniva pagato solo
se il suo paziente non si ammalava:
ogni anno le persone retribuivano il
proprio medico per non essersi
ammalate. Al contrario, oggi
paghiamo i medici perché ci curino
quando siamo malati: si tratta di una
prospettiva del tutto differente – e la
consuetudine cinese era di gran
lunga superiore.
La nostra concezione, inoltre, è
pericolosa; infatti, se un medico
viene pagato per curarti quando stai
male, significa che ottiene un
tornaconto dalla tua malattia: se il
tuo stare male diventa per lui una
fonte di guadagno, desidererà infatti
certamente che ti ammali per poterti
curare. Il metodo cinese è di gran
lunga superiore, perché il medico
dovrebbe aver interesse a mantenerti
in salute invece di guadagnare dalla
tua malattia: in questo modo farà il
possibile perché tu non ti ammali,
altrimenti non lo pagherai. Secondo
quest’ottica, il medico è tenuto a
curarti gratuitamente, perché è una
sua responsabilità: se ti sei
ammalato è colpa sua! Cos’ha fatto
durante tutto l’anno, invece di
compiere il suo dovere?
Soprattutto in passato, i cinesi
sono sempre stati uno dei popoli più
sani del mondo, e prima o poi le
cose torneranno a funzionare in
questo modo. In Unione Sovietica,
per esempio, si è pensato di istituire
delle regole per far sì che i medici
siano pagati solo se i loro pazienti
rimangono sani, in modo che
guadagnino solo dalla salute.

«Per mettere alla prova le capacità
di un medico, un re mandò diverse
persone sane a farsi visitare da lui».

È come se un buddha venisse
mandato a farsi curare da Freud: gli
prescriverebbe esattamente le cure
che dà agli altri, tirerebbe in ballo la
repressione, la paranoia e chissà
cos’altro – e commetterebbe un
errore, perché non ha alcuna
coscienza di ciò che sta facendo.
Solo il confronto con un buddha
potrebbe mandare in crisi le
convinzioni di Freud: se fosse in
grado di dichiarare sano un buddha,
dimostrerebbe di sapere qualcosa
sulla salute, ma come puoi
riconoscere un buddha se non hai
raggiunto tu stesso quello stato di
consapevolezza?

«A ognuna di loro il medico
prescrisse una medicina…».

Se vai dal medico, troverà per forza
qualcosa che non va. Fai un
esperimento: prova ad andare dal
dottore quando ti senti perfettamente
sano, e vedrai che riuscirà a farti
sentire estremamente malato; troverà
mille cose che non funzionano,
perché è nel suo interesse – ma si
tratta di un inganno!

«A ognuna di loro il medico
prescrisse una medicina, e quando il
re lo convocò, accusandolo della
sua disonestà, quel vampiro rispose:
“Vostra maestà! È così tanto tempo
che vedo solo gente sofferente, che
ho cominciato a credere che tutti
siano malati, e ho confuso la
brillantezza di un occhio in piena
salute con un segno di febbre!”».

Succede tutti i giorni. Quando arriva
un estraneo mentre voi state
danzando, osservandovi pensa:
«Questa gente è impazzita! Cosa sta
succedendo?».
Per questo è molto raro trovare un
giornalista comprensivo: è davvero
molto difficile, perché, fermandosi
qui solo due o tre giorni, e vedendo
intorno a sé cose che non ha mai
osservato in nessun altro luogo,
comincia a preoccuparsi, perché i
suoi pregiudizi gli dicono che solo i
pazzi fanno cose del genere… com’è
possibile che gente sana si comporti
in questo modo? Ai suoi occhi,
questo posto è una gabbia di matti!
Alla vista di persone così felici, non
riesce a crederci, perché per lui la
felicità è impossibile. Dovete per
forza essere sotto l’effetto di una
qualche forma di ipnosi: qualcuno
deve avervi plagiato! Per questo vi
sentite così felici, ma si tratta
soltanto di un’allucinazione: siete
tutti vittime di un’illusione!
Per quel giornalista queste sono
conclusioni logiche, perché quand’è
arrivato aveva già un preconcetto, e
la gente è piena di pregiudizi
sedimentati gli uni sugli altri. Questa
è la ragione per cui è così difficile
condurla a comprendere: gli
individui come me e il loro lavoro
sono sempre stati fraintesi.

Per questo il medico dice: «Vostra
maestà! È così tanto tempo che vedo
solo gente sofferente, che ho
cominciato a credere che tutti siano
malati, e ho confuso la brillantezza
di un occhio in piena salute con un
segno di febbre!».

Il derviscio sta dicendo al
ricercatore: «Sei caduto nella prima
trappola, che è quella della
negatività, ma ora corri un rischio
anche maggiore: fa’ attenzione a non
diventare come questo medico! Dici
di saper riconoscere una persona non
spirituale, e sostieni che questo sia il
primo passo. Ebbene, il secondo
passo sarà la logica conclusione di
quest’affermazione: piano piano, a
forza di pensare che tutti non sono
spirituali, ti formerai la naturale
convinzione che non esistano
persone davvero religiose, che gli
individui spirituali siano falsi e
fasulli, e che siano tutti imbroglioni,
ipocriti e ciarlatani!
Se giungerai a questa conclusione,
sarai spacciato, perché avrai ucciso
la speranza! Quando dici che
nessuno è spirituale, stai infatti
negando anche a te stesso la
possibilità di diventare un essere
religioso; se affermi che non è mai
esistito alcun buddha, comprometti
il tuo stesso futuro – se sostieni che
al mondo non sono mai esistiti i
fiori, come potrai fiorire tu stesso?
Questo è il rischio ancora maggiore
che stai correndo!».

Il derviscio ha ragione. Di questa
storia devi ricordare due
insegnamenti. Il primo è: sii
positivo! Invece di andare a cercare
le persone che non sono spirituali,
mettiti alla ricerca di quelle che lo
sono! Guarda le rose invece delle
spine! Non osservare l’oscurità ma
le stelle! Non concentrarti sulle
malattie, ma focalizzati sulla salute!
Se ti muovi sempre in modo
positivo, è possibile che, fra cento
persone, tu riesca a incontrare
proprio quell’individuo unico,
quell’oasi nel deserto!
Il secondo insegnamento è che
quell’oasi trasformerà la tua vita:
quello è il tuo maestro! E rimanendo
al suo fianco, anche tu diverrai
un’oasi.
Il sufismo è il sentiero della via
positiva. Lo Zen trascende la mente
attraverso la negazione, mentre i
Sufi la superano seguendo la via
della positività: entrambi riescono
ad andare oltre la mente, a
trascenderla, ed entrambi
raggiungono quindi lo stesso
obiettivo. Ma – lascia che te lo
ripeta – lo Zen lo fa attraversando il
deserto, mentre i Sufi si muovono
nell’oscurità e nell’ombra,
percorrono però valli verdi e coperte
di fiori.
Scegli tu quale cammino è meglio
per te, ma non farlo con la testa:
resta in ascolto e percepisci la
vibrazione di entrambe le vie, e
quando sentirai nascere dentro di te
una musica interiore, vorrà dire che
quella è la tua strada! Hai trovato la
tua chiave!
Capitolo 4

NULLA È ETERNO,
ECCETTO IL
CAMBIAMENTO!




La prima domanda:
Osho, nel contesto del discorso che
stai facendo in un dato momento, ciò
che dici sembra sempre giusto; a
volte però si trasforma in una
contraddizione: con una particolare
affermazione spingi chi ti ascolta in
una direzione, ma allo stesso tempo,
dalla porta sul retro, ti dirigi dalla
parte opposta. È una specie di
spirale, e l’ascoltatore stenta ad
accorgersi di ciò che accade. Non è
forse un modo per ingannarlo, così
che si renda conto che la vera
risposta sta al di là delle tue parole?

La seconda domanda:
Osho, a volte le tue parole mi
spingono a immaginare di vivere
come Zorba il Greco, seguendo il
motto «Mangia, bevi e divertiti»,
pieno di vigore e di passione, e
penso che questa sia la strada
giusta; altre volte invece ho la
sensazione che tu mi stia
suggerendo di sedere in silenzio,
perfettamente immobile e attento,
come un monaco. Ma allora
dovremmo ispirarci a Zorba o ai
monaci? E com’è possibile fondere
questi due modelli? È chiaro che tu
sei riuscito a integrare le loro
contraddizioni, ma noi come
possiamo essere allo stesso tempo
degli zorba, mossi dalla passione e
dal desiderio, e dei buddha,
perfettamente freddi, calmi e
distaccati?

La terza domanda:
Osho,
né oasi, né deserto,
né monti, né valli,
né estate, né inverno,
né pioggia, né neve,
né sì, né no!
Né Sufi, né Zen,
né Tantra, né mantra,
né corona, né croce,
né vittoria, né sconfitta!
Tutto è in te.
Ogni sì e ogni no
sono presenti all’infinito e in eterno
dentro il tuo essere!

La quarta domanda:
Osho, perché i mistici parlano una
lingua tutta loro?

La quinta domanda:
Osho, perché sono così comprensivo
verso gli altri e così duro con me
stesso?

La sesta domanda:
Osho, qual è l’arma segreta dei
preti? Come sono riusciti a sfruttare
l’umanità per così tanto tempo?
Osho, nel contesto del discorso che
stai facendo in un dato momento, ciò
che dici sembra sempre giusto; a
volte però si trasforma in una
contraddizione: con una particolare
affermazione spingi chi ti ascolta in
una direzione, ma allo stesso tempo,
dalla porta sul retro, ti dirigi dalla
parte opposta. È una specie di
spirale, e l’ascoltatore stenta ad
accorgersi di ciò che accade. Non è
forse un modo per ingannarlo, così
che si renda conto che la vera
risposta sta al di là delle tue parole?

Qualsiasi affermazione appartiene al
momento, nessuna dichiarazione
può essere valida in eterno, e chi
sostiene che le proprie affermazioni
abbiano un valore assoluto sta
semplicemente mentendo e non sa di
cosa parla.
Ogni istante contiene soltanto la
verità di quell’attimo, quindi ciò che
dico in un certo istante appartiene
solo a quel momento – è un fiore
effimero: se piove, dico che sta
piovendo, ma forse più tardi
smetterà, le nuvole si disperderanno
e uscirà il sole…
Certo, in un momento diverso le
mie affermazioni possono anche
essere contraddette, ma sarebbero
vere contraddizioni solo se avessero
avuto la pretesa di essere verità
eterne.
Io non voglio offrirti alcun
dogma! Un dogma è
un’affermazione che pretende di
essere vera in eterno, mentre io ti
offro solo fiori del momento,
evitando di fornirti sistemi di
pensiero validi per sempre, veri in
eterno: in passato è accaduto proprio
questo e l’umanità ha già sofferto a
sufficienza per questa ragione.
Le parole del Buddha erano la sua
risposta al momento in cui ha
vissuto, così come le affermazioni di
Maometto rispondevano alle
necessità della vita in cui si è
imbattuto: non possono essere vere
per sempre e, se dovessero esserlo,
la vita sarebbe perfettamente
immobile e priva di cambiamento.
Per questo le persone che credono
nei dogmi diventano statiche: non
sono più fiumi che scorrono e la loro
vita perde fluidità. Questa gente è
congelata: cristiani, hindu,
musulmani, buddhisti sono tutti
impietriti e hanno perso di vista tutto
ciò che muta costantemente.
Nulla è eterno, eccetto il
cambiamento!
Se avessi voluto creare un dogma,
non mi contraddirei mai, e tu ne
saresti felice, perché avresti
qualcosa a cui aggrapparti; ma
questo vorrebbe dire che sei venuto
qui per accrescere la tua cultura e
non per illuminarti! Io, invece, non
intendo instillarti delle conoscenze,
ma risvegliarti! Non posso
permettere che ti aggrappi a nessuna
affermazione: per questo mi
contraddico, e cerco di farlo il più
possibile rapidamente, in modo che
tu non abbia il tempo di attaccarti a
nulla; voglio portarti via tutte le
conoscenze che hai, in modo che tu
rimanga solo, nel vuoto più
completo, più puro e più vergine.
Per questo ogni mio momento
esiste solo nel presente, e non
pretende di essere nulla di più; ogni
mia affermazione appartiene solo a
questo istante: assaporala!
Gioiscine, nello stesso modo in cui
puoi gioire della rosa che è sbocciata
questa mattina: respira a pieni
polmoni la sua fragranza, canta e
danza insieme a lei e celebra la sua
esistenza. Sei fortunato: ti è stato
permesso di veder sbocciare questo
fiore, ma non sperare di poterlo
conservare per sempre; infatti, a
meno che non si tratti di un fiore di
plastica, non potrà durare per
sempre! Solo ciò che è falso e
artificiale può essere eterno.
La realtà è in continua
trasformazione e fluisce proprio
come un fiume. Non so cosa dirò
domani, né ricordo ciò che ho detto
ieri; non mi preoccupo
minimamente né del passato, né del
futuro, perché per me questo istante
è tutto ciò che esiste: non c’è altro…
sono del tutto sconnesso dal passato
e non faccio piani per il futuro –
quando arriverà, si vedrà. E ciò che
ti sto dicendo in questo momento
non mi obbliga in alcun modo a
continuare a ripetere la stessa cosa
in eterno; non sono affatto tenuto a
riconfermare di continuo il mio
passato: ciò che è accaduto ieri è
storia vecchia, e così pure le
affermazioni che ho fatto.
Comprendo comunque il tuo
problema. Ti chiedi: «In cosa devo
credere, allora? Come posso fidarmi
delle tue parole?». Ma chi ti dice che
devi credere in qualcosa? Non
credere, gioisci! Riesci a cogliere la
differenza? L’accento è spostato su
un punto diverso: non ti sto dicendo
di credere in qualcosa!
Ovviamente, se ti dicessi di
credere in qualcosa, dovrei
continuare a insistere senza sosta
sullo stesso punto, ripetendolo fino
alla nausea: e diverrebbe una specie
di ipnosi! Quando qualcosa ti viene
ripetuto di continuo, finisce per
ipnotizzarti, e io non sono qui per
questo; il mio scopo è precisamente
l’opposto: sono qui per liberarti
dall’ipnosi prodotta non solo dalle
affermazioni che io ho fatto in
passato, ma anche da quelle di tutte
le persone illuminate esistite fino a
oggi.
Il mio compito è cancellare le tue
conoscenze e le tue convinzioni,
distruggendo tutto ciò a cui puoi
aggrapparti: deve restare soltanto il
nulla assoluto…
Uno dei miei sannyasin ha avuto
un’ottima idea, ha definito il mio
sentiero “via confusiva”: è proprio
così! Ha assolutamente ragione,
perché la mia via non è né negativa
né positiva: è precisamente una via
confusiva! E se riesci a diventare
così confuso da abbandonare ogni
convinzione, da quella confusione
nascerà la chiarezza!
Quand’è che ti senti confuso?
Quando succede di preciso? Diventi
sospettoso quando viene attaccata
una delle tue convinzioni, e ti
domandi: «In cosa devo credere,
adesso?». Ogni volta che ti viene un
dubbio… ma com’è possibile avere
dubbi se non esiste più alcuna
convinzione?
Un uomo che non possiede
convinzioni, non ha nemmeno
dubbi, perché non esiste nulla di cui
dubitare: distruggendo le tue
credenze, elimino quindi la
possibilità stessa del dubbio. Capisci
qual è il punto? Il dubbio è l’ombra
prodotta da una convinzione; a
prima vista sembrerebbe vero il
contrario, ma non è così, perché solo
chi crede in qualcosa può dubitare:
se credi in dio, puoi avere dei dubbi;
ma se non ci credi, da dove
potrebbero mai nascere? Come può
sorgere un dubbio? Una persona
senza alcun tipo di convinzione sarà
anche del tutto priva di dubbi:
questa è chiarezza!
Il dubbio nasce quando dico
qualcosa che contraddice le tue
credenze: come fare a scegliere? Hai
investito così tanto nelle tue
convinzioni, hai vissuto così a lungo
facendo affidamento su di loro, e ora
d’un tratto vengono messe in
dubbio! La cosa ti sconvolge e ti
spaventa.
E poiché ogni giorno dico cose
contraddittorie, devi avere un gran
coraggio per starmi ad ascoltare;
occorre un cuore enorme per
contenere tutte le mie
contraddizioni; è necessario un
amore profondo per comprendermi,
e bisogna che tu sia spinto da un
intenso desiderio e da una passione
fortissima per la conoscenza, che ti
portino a dire: «Costi quel che costi,
riuscirò a comprendere! Se è
necessario distruggere ogni
convinzione, abbandonare ogni
sistema di pensiero e gettare nel
fuoco tutte le religioni, sono pronto
a farlo! Ma arriverò a
comprendere!».
Quando in te sorgerà un desiderio
così intenso, mi incontrerai, e allora
riuscirai a cogliere il senso delle mie
contraddizioni! Io non sono altro che
un espediente per creare una
situazione particolare, perché non
permetterò mai alla mia gente di
credere in qualcosa – neppure in me!
E cosa resta quando tutte le
credenze sono svanite? Diventi
semplicemente uno specchio che
riflette tutti gli umori e i diversi stati
d’animo della vita: arriva l’estate e
tu sei l’estate, arriva l’inverno e
diventi l’inverno, di giorno rifletti la
luce e di notte l’oscurità… Questo è
ciò che io chiamo totalità, e vivere
nella totalità significa vivere nel
divino!
Tutti i miei discorsi non sono un
tentativo di indottrinamento – non lo
sono affatto, perché hanno un
obiettivo del tutto diverso; ma la tua
domanda nasce proprio da questo!
Se vai ad ascoltare qualcun altro, ti
proporrà una sua filosofia e cercherà
di spiegartela, mentre io non ti
spiego nulla, perché non ho alcun
credo e sono totalmente contrario
alla filosofia. Il compito di un prete
è illustrarti una certa verità
dogmatica in cui crede, con la
speranza di convertirti, mentre io
non desidero affatto questo: io sono
qui per distruggerti!
Perciò ricorda che tutte le
affermazioni appartengono al
momento: sono tutti fiori
momentanei. All’arrivo della
primavera sbocciano moltissimi
fiori… ma quando finisce non vai
certo a dire alla natura: «Sei davvero
molto contraddittoria. Dove sono
finiti i fiori? Come puoi continuare a
contraddirti in questo modo?».
Il Tao è contraddittorio, ed è
necessario che lo sia, perché così è
la dialettica della vita! Eppure non
vai a lamentarti dalla natura; se un
cuculo smette all’improvviso di
cantare, senza una ragione, non vai a
dirgli: «Perché hai smesso? È un
comportamento contraddittorio! Il
tuo canto è così bello e adesso stai in
silenzio? O canti oppure taci: sii
coerente!». Non ti passa neppure per
la testa di fare una cosa simile.
Nella stagione delle piogge gli
alberi si ricoprono di verde, mentre
in quella secca le foglie scompaiono
e i rami si ergono verso il cielo
spogli, nudi e rinsecchiti… ma non
vai certo a dire agli alberi: «Come
osate essere così contraddittori!».
Ebbene, io sono parte di questo
Tao: non sono un filosofo; dunque,
tutte le mie affermazioni
appartengono al momento e valgono
solo per il presente. Ricordalo! Non
è necessario credere in ciò che dico:
assaporalo, gustalo! Finché il fiore è
presente, assorbine la bellezza,
perché presto non ci sarà più:
celebra la sua essenza, prima che
scompaia!
Celebra la mia presenza! Invece
di credere in me, celebrami! Questa
è la differenza – l’accento diverso:
fai sì che la mia presenza diventi per
te un’occasione di festa, non una
prigione! Non deve diventare
qualcosa che definisce la tua mente,
non deve riempirti di idee, ma di
danze e di canti!
Se vuoi conservare un ricordo di
me, non mi ricordare come un
filosofo o come un prete: per favore,
non farlo mai, perché per me queste
parole sono insulti. Ricordami come
un poeta! Non ti verrà mai in mente
di lamentarti con un poeta per le sue
contraddizioni, perché lo comprendi;
non ha l’obbligo di essere coerente,
e può comporre mille poemi su tutti
gli stati d’animo: se è triste, scriverà
una poesia triste e se è felice i suoi
versi saranno pieni di gioia, ma non
andrai a lamentarti con lui…
La mia essenza è molto più simile
a quella di un poeta, e se vuoi sentire
davvero la mia presenza, dovrai
imparare la via della poesia.
Secondo me l’arte è la più grande
religione che esista: è la religione
del futuro… La bellezza per me è
una forma di preghiera!

La seconda cosa da ricordare è che
per me gli opposti non esistono. Ciò
che può apparire contraddittorio ai
tuoi occhi per me non lo è; per me
non esiste alcuna contraddizione
perché ogni contrapposizione non è
altro che una complementarietà. Non
c’è modo di entrare davvero in
contraddizione!
La notte non contraddice il
giorno: concede semplicemente un
po’ di riposo all’energia diurna, in
modo che possa rinascere la mattina
successiva. Senza la notte, non
potrebbe sorgere un nuovo giorno,
perché quest’ultimo può esistere e
riacquistare vitalità solo grazie alla
notte; come la notte scaturisce dal
giorno, la morte nasce dalla vita, ed
è proprio grazie alla morte che la
vita può ricrearsi all’infinito. Questi
binomi non sono coppie di nemici:
sono amici, sono compagni che
prendono parte allo stesso gioco –
sono complementari!
Perciò, se il tuo desiderio di
comprendermi è accompagnato da
un amore profondo, ti accorgerai che
le mie contraddizioni ti sembrano
tali solo perché la tua capacità di
comprensione è ancora limitata;
quando si farà più ampia e avrai
cominciato ad avvicinarti a uno
stadio un po’ più elevato di
consapevolezza, queste
contraddizioni non ti appariranno
più come polarità contrastanti, bensì
come aspetti complementari, che
renderanno molto più ricca qualsiasi
cosa io dica, potenziandosi l’uno
con l’altro.
Considerare esclusivamente lo
Zen produce un tipo di ricchezza
particolare, e adottare il solo punto
di vista dei Sufi ne comporta un
altro; ma se unisci i Sufi allo Zen, la
ricchezza che ottieni è immensa,
perché ammonta a ben più della
somma delle due vie: è come se lo
Zen venisse moltiplicato dal sufismo
– acquista multidimensionalità!
Per questo quando parlo continuo
ad affacciarmi a finestre differenti:
qualche volta mi metto a quella che
si apre verso Est, e parlo
dell’Oriente, del sole che sorge e del
mattino; altre volte invece mi
affaccio alla finestra rivolta a
Occidente e parlo della sera, del
tramonto e della sua bellezza.
Continuo a cambiare direzione
perché ci sono molte porte che
conducono al divino!
Gesù ha detto che nella casa del
suo dio ci sono molte dimore… Ci
sono milioni di possibilità, perché
l’esistenza è infinita e non c’è modo
di esaurirla, ma prendere atto di tutte
le potenzialità ti renderà di sicuro
immensamente più ricco.
Per me dunque non esistono
opposti, ma soltanto aspetti
complementari.

La terza cosa da ricordare è che non
esiste alcuna risposta, né reale né
immaginaria. Io non ti offro nessuna
risposta in quanto tale, ti do invece
la possibilità di intuire i misteri della
vita: non ti fornisco risposte, ma
visioni che si aprono sui misteri
dell’esistenza! Se le mie parole
riescono a instillare in te il senso del
mistero, vuol dire che ho raggiunto
il mio obiettivo; se invece per te si
traducono in una risposta, significa
che ho fallito.
Non considerare le mie risposte
come tali, perché io non sono un
insegnante e non ho alcuna risposta
da darti: ciò che posso offrirti è il
senso del mistero e del miracoloso!
Ma capisco che sia difficile,
perché io uso una lingua e tu
un’altra. E quando parlo di lingue
non mi riferisco all’inglese, al
tedesco o al francese… Intendo dire
che il mio linguaggio proviene dal
mio essere, e il tuo scaturisce dal tuo
essere; all’apparenza può anche
sembrare che parliamo la stessa
lingua, ma a un livello profondo ciò
che ti sto dicendo è quasi
impossibile da rendere e tradurre
con il tuo linguaggio.
E allora perché non smetto del
tutto di tenere discorsi? Sono
semplicemente pazzo e non riesco a
resistere: escono a fiotti! Non c’è
modo di evitarlo: devo parlare,
proprio come una nuvola carica di
pioggia deve sfociare in un
temporale – che poi tu riesca ad
assorbire quella pioggia o no è
irrilevante. Alcune rocce non
riescono a trattenere l’acqua, mentre
certi tipi di terreno l’assorbono del
tutto e si ricoprono di vegetazione
lussureggiante, ma non è scontato! È
una cosa imprevedibile; può
accadere oppure no: dipende da
quanto mi permetti di penetrare nel
tuo cuore.
Mi hanno raccontato una storia
molto interessante...

Diversi anni fa in Francia ebbe
luogo un convegno davvero
straordinario in cui alcuni filosofi
molto famosi, inglesi e americani,
furono invitati a confrontarsi con le
loro controparti continentali, con
l’obiettivo di scambiarsi idee,
condividere esperienze e sondare i
limiti delle possibilità di
comunicazione fra le due
prospettive. Gli incontri, le
conferenze e i discorsi avvennero in
un’atmosfera di grande cordialità;
senza dubbio furono gettate le
fondamenta di numerose amicizie e
vennero consumate quantità
ragguardevoli di vino, ma, a quanto
pare, sul piano filosofico non si
verificò alcuna comunicazione.
Gabriel Marcel, per esempio,
cercò di illustrare le sue idee su dio,
sulla grazia e sulla trascendenza, ma
incontrò la resistenza del pubblico e
degli altri filosofi, che continuavano
a intervenire con osservazioni del
tipo: «Cosa intendi dire?»,
«Sicuramente non intendevi
affermare questo…», «Com’è
possibile che… ?», «Non è vero
che… ?» e via di questo passo.
Dopo un po’ Marcel cominciò a
non poterne più e l’intera platea
manifestava forti segni di
irrequietezza; alla fine qualcuno gli
chiese di spiegare semplicemente
ciò che intendeva dire, e poiché era
proprio ciò che aveva cercato di fare
fin dall’inizio, lui si limitò a
rispondere: «Forse non è possibile
spiegarlo a parole, ma se avessi un
pianoforte, potrei suonarvelo!».
E dal momento che nella sala non
c’era nessuno strumento,
comunicare risultò impossibile.

Anche se fosse stato disponibile un
pianoforte, dubito comunque che
sarebbe stato possibile comunicare,
perché c’era sempre la possibilità
che gli ascoltatori non
comprendessero il linguaggio della
musica.
E nel nostro caso sta accadendo
proprio la stessa cosa! Quello che
sto tentando di comunicarti non è
qualcosa che mi è stato detto a
parole, bensì una sorta di musica che
ho ascoltato: è il suono creato
dall’acqua che scorre, dal vento che
soffia fra i pini, dal canto degli
uccelli, dal silenzio della notte, dalla
danza dei raggi di sole! È diffusa
ovunque, ma si tratta di una musica:
se non sei in grado di comprenderla,
non riuscirai a capire ciò che dico, e
continuerai a fraintendermi.

Mi chiedi se non sia un modo per
ingannare chi mi ascolta.
Se sei venuto qui con l’intento di
acquisire qualche convinzione, ti
sentirai certamente ingannato,
perché oltre a non riuscire ad
accumulare alcun sapere, qualunque
convinzione tu possedessi in passato
comincerà a sfuggirti di mano. Se
sei venuto qui per accrescere la tua
cultura, ti sentirai imbrogliato,
perché quando lascerai questo posto
non sarà certo aumentata, ma
piuttosto diminuita: tuo malgrado,
avrai meno convinzioni e avrai
perduto qualcosa, perché qui
derubiamo la gente delle sue
conoscenze!
Perciò potresti avere
l’impressione che si tratti di una
forma di inganno: ciò che affermo ti
sembra perfettamente chiaro e
corretto, ma un attimo dopo mi
contraddico; e le cose che dico per
smentire la prima affermazione
sembrano ancora una volta
assolutamente giuste, salvo poi
essere di nuovo contraddette!
E tu resterai qui solo qualche
giorno: pensa agli altri… pensa a
tutte le persone che mi hanno
ascoltato quotidianamente per anni!
In pratica hanno smesso di starmi a
sentire, ma si è creata una forma di
comunicazione diversa, che è quasi
una comunione: non si preoccupano
più di ciò che dico, non sono più
interessate agli aspetti verbali,
perché hanno perso
quell’entusiasmo per le parole che
avevano all’inizio – l’ho distrutto!
Mi sono contraddetto così tante
volte, che ormai sono consapevoli
del fatto che non bisogna
aggrapparsi a nulla, perché domani
comunque lo distruggerò: che senso
avrebbe, quindi? Basta attendere
fino a domani! Piano piano queste
persone hanno appreso la bellezza
dell’assenza di attaccamento, e
lentamente hanno imparato a non
permettere che le mie parole
interferiscano con la comunicazione
diretta, con la comunione… Le loro
energie hanno iniziato a fluire
insieme a me, e questo può accadere
solo se le parole perdono importanza
e il loro posto viene occupato da
qualcosa di molto più grande.
Per questo ho sempre parlato così
tanto: non lo faccio per comunicare
con te servendomi delle parole, ma
per distruggere il loro stesso
significato. Probabilmente ti
sorprenderà scoprire che parlo così
tanto perché voglio sottrarre ogni
importanza alla lingua parlata: via
via che mi ascolti il significato delle
parole inizia lentamente a sparire, e
con il suo dissolversi nasce una
connessione esistenziale… La vera
iniziazione accade quando cominci a
sentire la mia musica, quando entri
in sintonia con la mia presenza e
inizi a respirare insieme a me. È una
cosa che accade… a qualcuno è
successo!

Vasumati mi ha scritto: «Durante i
tuoi discorsi, negli ultimi giorni, è
successo qualcosa e sta accadendo
anche oggi… Appena inizi a parlare,
il mio corpo si stende a terra e inizia
a succedere una cosa straordinaria:
la tua voce mi accarezza e distende i
miei muscoli, uno per uno,
cullandomi dolcemente e
spingendomi fra le braccia del tuo
silenzio, finché divento come
un’alga che fluttua immersa nelle
onde del tuo oceano infinito.
Oh, Osho! Il mio cuore si strugge
per te, palpita e respira insieme a te.
È possibile che mi sia innamorata di
te, che sia del tutto incantata
dall’intensità, dal calore e dalla
fragranza della tua presenza?
Quando sono vicino a te, ogni
domanda semplicemente si dissolve,
e oltre al battito del mio cuore, alla
pioggia e alla tua voce, non esiste
più nient’altro!».

Certo, Vasumati, è così che succede.
Quando le parole cominciano a
sparire, il loro posto viene occupato
da qualcosa di molto più profondo e
più intenso: la comunione –
l’incontro del maestro e del
discepolo non sotto forma di menti,
ma come due presenze che si
fondono e si perdono l’una dentro
l’altra, che si dissolvono l’una
nell’altra.
Accade nel momento in cui il
discepolo e il maestro cessano di
essere due entità separate e
diventano un tutt’uno. Ebbene,
proprio quell’unione è il senso
dell’essere un discepolo! Quando si
crea quell’unità significa che hai
conosciuto davvero il maestro, hai
assaporato il suo nettare, hai
assorbito la sua essenza – e
finalmente sei a casa!


Osho, a volte le tue parole mi
spingono a immaginare di vivere
come Zorba il Greco, seguendo il
motto «Mangia, bevi e divertiti»,
pieno di vigore e di passione, e
penso che questa sia la strada
giusta; altre volte invece ho la
sensazione che tu mi stia
suggerendo di sedere in silenzio,
perfettamente immobile e attento,
come un monaco. Ma allora
dovremmo ispirarci a Zorba o ai
monaci? E com’è possibile fondere
questi due modelli? È chiaro che tu
sei riuscito a integrare le loro
contraddizioni, ma noi come
possiamo essere allo stesso tempo
degli zorba, mossi dalla passione e
dal desiderio, e dei buddha,
perfettamente freddi, calmi e
distaccati?

La trasformazione di Zorba in un
buddha è la sintesi suprema, e io non
sto cercando di creare Zorba il
Greco, ma precisamente Zorba il
Buddha!
Zorba possiede una sua bellezza,
ma gli manca qualcosa: domina la
sfera terrena, ma non riesce a
raggiungere il cielo; affonda le
radici nella terra, come un cedro
gigante, ma gli mancano le ali; non
può volare libero nell’aria, perché ha
le radici, ma non possiede ali!
«Mangia, bevi e divertiti» di per
sé è un ottimo motto e non c’è nulla
di male nel seguirlo, ma non è
sufficiente, e molto presto ti
stancherai, perché non si può far
baldoria di continuo: ben presto la
monotonia finirà per trasformare la
giostra dell’allegria in quella
dell’infelicità, perché è qualcosa di
ripetitivo. Solo una mente
decisamente mediocre può
accontentarsi, perché se possiedi un
po’ di intelligenza, prima o poi ti
accorgerai dell’assoluta futilità di
tutto questo: per quanto tempo puoi
continuare a mangiare, bere e
divertirti? Presto o tardi finirai per
domandarti che senso abbia; ti
chiederai per quale motivo lo fai,
perché è impossibile eludere a lungo
questi interrogativi; e se sei davvero
intelligente, questa domanda non ti
darà mai tregua, e continuerà a
pressare e a martellare il tuo cuore
perché trovi la risposta: «Perché?
Rispondimi!» gli ripeterà fino allo
sfinimento.
E ricorda che non è la gente
povera e affamata a sentirsi
insoddisfatta della vita! Non può
sentirsi frustrata, perché non ha
neppure iniziato a vivere: come fa a
provare frustrazione? I poveri
continuano a sperare: conservano
sempre la speranza, e sognano
continuamente che accada qualcosa,
che si presenti qualche occasione –
se non oggi magari domani o
dopodomani, se non in questa vita
forse nella prossima…
Cosa pensi? Chi sono le persone
che hanno dipinto il paradiso come
un nightclub per playboy? Chi credi
che siano? È gente povera e
affamata che ha sprecato la propria
vita, e proietta quindi i suoi desideri
nel paradiso! Chi sono le persone
che lo immaginano come un luogo
in cui scorrono fiumi di vino? È
gente che sicuramente ha perso la
propria occasione sulla Terra, e
immagina che in paradiso esistano i
kalpavriksha, ovvero alberi capaci di
soddisfare i tuoi desideri: non devi
far altro che sederti all’ombra della
loro chioma, esprimere un desiderio
e subito si avvererà. Fra il momento
in cui lo formuli e la sua
realizzazione non passa neanche un
attimo, neppure un battito di ciglia:
si realizza all’istante, in un
battibaleno!
Ebbene chi è questa gente? Sono
persone affamate che non sono
riuscite a vivere la loro vita! Come
fanno a sentirsi frustrate
dall’esistenza? Non l’hanno mai
sperimentata, ed è solo attraverso
l’esperienza che si può comprendere
l’assoluta futilità di ogni cosa – solo
gli zorba sono in grado di coglierne
la profonda inutilità.
Il Buddha stesso è stato uno
zorba. Aveva a disposizione le
donne più belle del suo Paese,
perché suo padre le aveva radunate
tutte alla sua corte; viveva nei
palazzi più eleganti – ne aveva uno
diverso per ogni stagione – e poteva
concedersi qualsiasi lusso, o
quantomeno tutti quelli che
esistevano a quel tempo. Viveva
proprio come Zorba il Greco, perciò
all’età di soli ventinove anni iniziò a
sentirsi terribilmente frustrato. Era
un uomo davvero intelligente; se
fosse stata una persona mediocre
avrebbe continuato a vivere in quel
modo, invece molto presto si rese
conto che quella era una vita
ripetitiva, monotona: ogni giorno
mangiava, faceva l’amore con una
donna… e ne aveva sempre una
diversa! Per quanto tempo sarebbe
proseguita questa routine? Ben
presto si stancò.
L’esperienza della vita è molto
amara; solo nell’immaginazione ci
appare dolce, ma nei fatti è davvero
dura, perciò il Buddha fuggì dal
palazzo abbandonando tutto: donne,
ricchezze, lusso…
Io dunque non sono contrario a
Zorba il Greco, perché è il
fondamento stesso di Zorba il
Buddha, che nasce proprio da
quell’esperienza! Sono del tutto
favorevole a questo mondo, perché
so bene che l’altro mondo può
nascere solo se hai sperimentato
questo: perciò non ti dico di evitarlo
e di diventare un monaco.
Il monaco è una persona che ha
cercato di contrastare il mondo di
Zorba semplicemente fuggendo, ed è
un codardo, perché ha fatto una
scelta frettolosa e guidata
dall’ignoranza. Non è un individuo
completo, ma una persona immatura
e avida: brama l’altro mondo e vuole
raggiungerlo troppo in fretta, quando
non è ancora arrivata la stagione
giusta e lui non è ancora pronto.
Vivi in questo mondo, perché ti
donerà pienezza, maturità e
integrità! Le sfide a cui ti sottoporrà
ti renderanno centrato, consapevole:
e proprio questa consapevolezza
diverrà la scala che ti condurrà dal
mondo di Zorba a quello del
Buddha.
Ma lascia che ti ripeta ancora che
solo gli zorba possono diventare dei
buddha – e il Buddha non si è mai
fatto monaco!
Il monaco è una persona che non
è mai stata uno zorba e si è lasciata
ammaliare dalle parole dei buddha; è
un imitatore, un individuo falso,
finto, che imita i veri mistici: che si
tratti di un cristiano, di un buddhista
o di un giainista non fa differenza,
perché imita semplicemente i
buddha.
Per abbandonare la vita mondana,
il monaco deve combatterla; la sua
non è una scelta serena, perché il
suo intero essere si sente
costantemente attratto da questa vita,
e deve quindi continuare a lottare,
finendo per diventare una persona
scissa: metà di lui è attirata da
questo mondo e l’altra metà brama il
possesso dell’altro. È un individuo
lacerato ed è fondamentalmente uno
schizofrenico, una persona
dissociata, divisa fra il desiderio di
elevarsi verso il cielo e quello di
sprofondare verso i piaceri terreni: il
fascino della vita mondana continua
ad attrarlo, divenendo tanto più
forte, quanto più quel desiderio
viene represso, e poiché non ha
sperimentato il mondo inferiore, non
riesce ad accedere a quello
superiore.
Solo sperimentando il livello
inferiore potrai raggiungere quello
superiore: potrai meritarne l’accesso
solo se avrai vissuto fino in fondo
tutta l’angoscia e l’estasi della vita
terrena. Prima che un loto possa
diventare un fiore, deve passare
attraverso il fango: quel fango è il
mondo! Il monaco invece ha cercato
di eluderlo, e non diventerà mai un
loto, perché è come se un seme
avesse paura di cadere in mezzo al
fango; è come se pensasse, gonfio di
ego: «Io sono il seme di un fior di
loto! Non posso imbrattarmi di
fango!». Ma così rimarrà un seme
che non sboccerà mai: se vuole
diventare uno splendido fior di loto,
deve cadere nella melma e
sperimentare questa contraddizione,
perché se non si prova a vivere
immersi nel fango, non c’è modo di
trascendere.

Tu dici: A volte le tue parole mi
spingono a immaginare di vivere
come Zorba il Greco, seguendo il
motto «Mangia, bevi e divertiti»,
pieno di vigore e di passione, e
penso che questa sia la strada
giusta; altre volte invece ho la
sensazione che tu mi stia
suggerendo di sedere in silenzio,
perfettamente immobile e attento,
come un monaco.
Ti stai sbagliando: io sono
l’ultima persona al mondo che
vorrebbe trasformarti in un monaco,
altrimenti perché mai tutti i monaci
e le suore del mondo sarebbero così
ostili nei miei confronti?
Vorrei che ti radicassi nella Terra
e sono perfettamente d’accordo con
Nietzsche quando afferma: «Vi
supplico, fratelli, restate fedeli alla
Terra e non credete a chi vi
abbindola con la speranza di un altro
mondo!». Impara la tua prima
lezione sulla fiducia fidandoti della
Terra, perché in questo momento
questa è la tua casa!
Non desiderare fortemente l’altro
mondo: vivi in questo, e fallo con
intensità e passione! Vivilo con
totalità, con tutto il tuo essere, e
grazie a questa immensa fiducia, a
questa vita ricca di passione, di
amore e di gioia, diventerai capace
di trascendere.
L’altro mondo è nascosto dentro
questo! Il Buddha è addormentato
all’interno di Zorba, e dev’essere
risvegliato! E nessuno può svegliarti
se non la vita stessa.
Io sono qui per aiutarti a essere
totale dovunque tu vada e in
qualunque spazio ti trovi: vivilo fino
in fondo, perché solo vivendo una
cosa con totalità è possibile
trascenderla!
Diventa prima uno zorba, un fiore
terreno, e così facendo acquisterai la
capacità di trasformarti in un buddha
– in un fiore dell’altro mondo! Il
trascendente non si trova fuori da
questo mondo, né ti chiede di
combatterlo: è semplicemente
nascosto al suo interno. Questo
mondo è soltanto la manifestazione
dell’altro, mentre l’altro è la parte
non manifesta di questo.


Osho,
né oasi, né deserto,
né monti, né valli,
né estate, né inverno,
né pioggia, né neve,
né sì, né no!
Né Sufi, né Zen,
né Tantra, né mantra,
né corona, né croce,
né vittoria, né sconfitta!
Tutto è in te.
Ogni sì e ogni no
sono presenti all’infinito e in eterno
dentro il tuo essere!

Questa è la via per comprendere la
mia essenza: io non sono né Sufi né
Zen, né maschile né femminile, né
positivo né negativo… e sono qui
per aiutarti a trascendere tutte le
polarità! Per questo parlo delle
contrapposizioni, in modo che tu
possa comprenderle e diventare
consapevole della loro esistenza,
senza venirne intrappolato.
Ti parlo del sufismo e dello Zen,
in modo che un giorno tu riesca a
trascenderli entrambi: devi riuscire
ad andare al di là di tutti i punti di
vista e lasciarti alle spalle tutti i
principi, i dogmi, le vie, i metodi e
le tecniche! Stare con me vuol dire
trovarsi sulla strada della
trascendenza…
Io non sono né un credente né un
ateo, né un hindu né un musulmano:
sono semplicemente una
consapevolezza, piena d’amore, e
puoi diventarlo anche tu. Infatti,
puoi raggiungere qualsiasi cosa
abbia raggiunto io, perché ovunque
ti trovi, ci sono passato anch’io, e ho
sperimentato la tua stessa angoscia,
la tua stessa sofferenza, le tue stesse
dicotomie – i tuoi stessi problemi!
Ero proprio come te: per questo ti
dico che anche tu puoi diventare
esattamente come me.
Stare accanto a un maestro
significa trovarsi con un uomo che
un tempo era proprio come te,
perché solo un individuo che si è
trovato nella tua stessa condizione è
in grado di aiutarti. Un maestro
disceso dall’alto dei cieli non
sarebbe di grande aiuto, perché non
conoscerebbe la condizione umana;
se dio stesso scendesse sulla Terra e
iniziasse a camminare in mezzo a
voi, non sarebbe di alcun aiuto: per
questo non ci ha mai provato – o
forse ha tentato, ma ha fallito, perciò
ha lasciato perdere.
Dio non potrebbe entrare in
comunione con te, perché non è mai
stato un essere umano e non conosce
la tua condizione; non saprebbe
quali sono le tue sofferenze, e non
proverebbe né compassione né
comprensione per te: è sempre stato
unicamente dove vorresti trovarti tu!
La distanza sarebbe enorme: anche
se dio ti capitasse davanti, la
distanza fra te e lui sarebbe
insormontabile.
Per questo il maestro è così
importante: è una persona che era
proprio come te, che è partita dallo
stesso punto in cui ti trovi tu, si è
messa in cammino ed è andata
avanti, perciò sa bene quali
sofferenze si incontrano durante il
viaggio e conosce l’intera storia
degli esseri umani. Comprende la
tua condizione: da qui nasce la sua
compassione! E può aiutarti, perché
è ancora nel corpo: tiene ancora un
piede nel mondo, mentre con l’altro
ha già raggiunto il divino, e può
quindi diventare un ponte. Il maestro
è precisamente questo: un ponte fra
te e il divino!
Questa è la via per comprendere
la mia essenza. E non lasciare che
questa comprensione si limiti alla
mente: fai in modo che vibri in ogni
cellula e in ogni fibra del tuo
essere… Lascia che si fonda con il
battito del tuo cuore e che diventi il
tuo stesso respiro.


Osho, perché i mistici parlano una
lingua tutta loro?

I mistici vogliono dirti qualcosa,
vogliono condividere con te una
realtà che non hai mai neppure
sognato. Perciò devono spingere il
tuo linguaggio fino alle sue
potenzialità più estreme: devono
renderlo talmente ricco e capace di
cogliere sinuosità e sfumature così
sottili da poterti offrire un’idea di
qualcosa che nella tua lingua non
esiste. Per questo i mistici usano il
linguaggio in un modo molto
singolare, e ciascuno di loro sceglie
una modalità diversa.
I Sufi hanno usato le parabole e il
loro messaggio è interamente
racchiuso all’interno delle loro
storie. Le favole possiedono una
bellezza particolare: persino i
bambini possono comprenderle!
Riescono a raggiungere anche le
persone che si trovano al livello di
consapevolezza più basso: chi non è
in grado di cogliere verità
appartenenti a un livello superiore
riuscirà comunque a comprendere
una parabola; la sua comprensione
sarà commisurata alle sue capacità,
ma se mediti su questi racconti… e
queste storie vanno meditate! Non si
tratta di racconti da leggere una
volta e poi dimenticare, perché
nascondono significati molto
profondi, e bisogna continuare a
scavare senza sosta al loro interno:
se mediti, a poco a poco
affioreranno aspetti e prospettive
sempre nuovi. Via via che la tua
capacità di comprendere, la tua
fiducia, la tua consapevolezza e la
tua meditazione si sviluppano, il
loro significato diventa sempre più
profondo.
I Sufi, dunque, parlano per mezzo
di parabole; hanno fatto questa
scelta perché al mondo ci sono così
tante persone che stanno vivendo
stadi e momenti diversi della loro
esistenza che è necessario parlare
una lingua accessibile a tutti. La
parabola possiede proprio la
capacità straordinaria di poter essere
intesa da chiunque, in un’infinità di
modi diversi, perché è assolutamente
priva di limiti! Riesce a divertire
persino le persone che non la
capiscono, e se oggi la trovano
divertente, domani magari
riusciranno a comprenderla!
Mahavira ha scelto un metodo
completamente diverso e non ha
parlato affatto. Ha abbandonato del
tutto il linguaggio e ha fatto del
silenzio la sua lingua: stava
semplicemente seduto insieme ai
suoi discepoli… Questa strada è più
difficile e non è accessibile a tutti:
funziona solo per le persone che si
trovano già a un livello di
consapevolezza superiore. Si dice
che il primo sermone di Mahavira –
che avvenne ovviamente in perfetto
silenzio – sia stato compreso solo
dagli dei; si tratta di un modo per
dire che nessuno riuscì a
comprenderlo: ci vollero anni perché
qualche raro essere umano riuscisse
a farlo.
Ti sei mai domandato perché il
giainismo è la religione con il minor
numero di seguaci che esiste? La
ragione è proprio questa: Mahavira
non ha scelto un linguaggio che
potesse essere compreso su piani
diversi da molte persone.
Era un vero cultore della
matematica – e dietro quella
matematica si nasconde la ragione.
Poiché avrebbe voluto essere
assolutamente preciso, non ha potuto
usare le parabole, perché per loro
stessa natura sono indefinite. Per
poter consentire così tante letture, le
parabole devono per forza essere
vaghe – non hanno alcun significato
specifico e allo stesso tempo ne
hanno moltissimi! Devono essere
come una sorta di cilindro magico
da cui puoi estrarre qualsiasi
significato desideri; in questo modo,
verranno sicuramente comprese da
molta gente: milioni di persone
riusciranno a leggerle – persino i
bambini – e a tutti accadrà qualcosa.
Mahavira invece era molto
matematico e proprio per questo
rimase in silenzio: sapeva bene che
qualsiasi parola avesse usato, non
sarebbe riuscita a esprimere con
precisione ciò che sentiva dentro di
sé, perciò preferì non dire nulla. Il
silenzio divenne quindi il suo
linguaggio, e solo poche anime
molto evolute riuscirono a
comprenderlo.
Lo Zen ha adottato un metodo
ancora diverso; non ha usato né le
parabole né il silenzio, ma ha scelto
i koan, enigmi e rompicapo che la
mente umana non riesce a risolvere:
si tratta del modo tipico dello Zen di
distruggere la mente, ma ci vogliono
anni.
Quando leggi nei libri Zen che un
discepolo, colpito dal maestro, si
illumina all’istante, non lasciarti
ingannare, perché non conosci tutta
la storia: quel discepolo ha passato
ventisei anni a meditare! Nel
racconto questa parte è stata omessa,
ma ci sono voluti ben ventisei anni
per conquistarsi l’onore di quel
colpo in testa dal maestro: non è
certo un metodo adatto a chiunque!
Non pensare che sia sufficiente
presentarsi da un maestro Zen
perché ti dia semplicemente una
botta in testa facendoti illuminare:
non ti colpirà affatto! Sarà molto
gentile e ti dirà: «Che immenso
piacere averla qui, signore! La sua
presenza mi rallegra».
Non ti aspettare che ti dia
semplicemente una bastonata,
perché è una cosa che va meritata e
ci vogliono anni per ricevere quella
bacchettata. Può arrivare solo
all’ultimo momento utile: quando la
distanza fra te e la verità è ridotta a
un velo sottilissimo, allora basta un
colpetto per infrangere quella
barriera, e il pulcino può finalmente
uscire dall’uovo… Ma prima deve
aver avuto il tempo di maturare al
suo interno: se rompi il guscio prima
che sia maturo, ucciderai il pulcino e
non sarai di nessun aiuto!
Anche lo Zen possiede quindi il
suo metodo particolare e, pur
essendo davvero folle, è
immensamente potente.

Mi chiedi perché i mistici parlano un
linguaggio tutto loro: sono costretti a
farlo, perché ognuno di loro deve
creare un modo di esprimersi che
rispecchi la sua conoscenza, le sue
capacità, il suo passato e le sue
esperienze. Gesù parla come il figlio
di un falegname, mentre il Buddha si
esprime come farebbe un imperatore
perché quella è la loro storia:
quando parli sei costretto a basarti
sulle tue esperienze passate.
Il Buddha non può parlare come
Gesù: i termini che usa saranno per
forza diversi, perché non è mai stato
nella foresta e non ha mai abbattuto
alberi o tagliato legna; non ha mai
trasportato i tronchi nella bottega di
suo padre, né conosce il profumo del
legno appena tagliato, e non può
quindi adottare quel linguaggio. Non
può raccontare parabole che parlino
di pastori e di pecorelle smarrite,
perché non ha alcuna esperienza di
questo genere di cose: solo Gesù
poteva servirsi di quelle metafore.
Il Buddha parla come un re e usa
il gergo di corte e il linguaggio della
filosofia; non parla la lingua della
gente comune, perché non è mai
stato una persona qualsiasi: come
potrebbe quindi esprimersi in quel
modo?
Ogni mistico, dunque, è costretto
a usare il proprio linguaggio, e
ricorda che in ogni caso la lingua
parlata è sempre imprecisa: parlando
la gente gira intorno all’argomento,
interrompe, cambia discorso,
fraintende, non capisce, omette certi
aspetti… Le parole possono lenire o
ferire, possono creare e seminare
confusione: sono un’arma molto
pericolosa, perché possono essere
usate per mettere a nudo una
persona o per tagliarle la gola,
perciò bisogna stare davvero molto
attenti a come le si usa.
Molti mistici hanno deciso di
rimanere in silenzio, e tutti quelli
che hanno scelto di parlare non
hanno comunque mai smesso di
mettere in guardia dalle parole,
anche se erano persone molto
intelligenti, eloquenti e abili nell’uso
del linguaggio…
Per noi, che siamo pieni di idee,
ma non comprendiamo nulla, le
parole del Buddha sono complesse e
incomprensibili. «Tu sei quello!» è
un’affermazione vasta come un
oceano: è impossibile camminare sul
mare o costruirci sopra qualcosa, e
una frase simile ti scivola fra le mani
proprio come l’acqua!
«Se incontri il Buddha sulla tua
strada, uccidilo!»: ecco un’altra
affermazione grande come una
montagna – è impenetrabile al tuo
sguardo e non puoi sapere cosa
nasconde. Non hai idea di cosa
significhino queste frasi, né riesci a
comprendere a cosa si riferiscano.

Proprio qualche giorno fa ho
ricevuto una lettera dall’America.
Chi mi scriveva doveva aver letto in
uno dei miei libri la frase: «Se
incontri il Buddha sulla tua strada,
uccidilo!» ed era davvero furioso.
Quell’uomo non deve certo essere
un gran buddhista, perché si è
infuriato e irritato al punto da
scrivermi una lettera piena di rabbia.
«Chi credi di essere» mi ha scritto
«per dirci di uccidere il Buddha?
Come puoi dire una frase così
sacrilega? Uccidere il Buddha? Il
Buddha va venerato, non ucciso! È il
più grande uomo che sia mai
apparso sulla Terra! Cosa intendi
quando affermi: “Se incontri il
Buddha sulla tua strada,
uccidilo!”?».

Quell’uomo era davvero furioso e
posso capire la sua rabbia, perché
non è in grado di comprendere il
Buddha, né di cogliere il senso di
queste affermazioni straordinarie.
Per di più non si tratta certo di una
frase che ho inventato io: la gente
che pratica lo Zen la ripete da
sempre – o quantomeno l’ha fatto
per più di duemila anni –, ma
probabilmente quell’uomo non ne è
al corrente, e deve aver pensato che
io fossi un nemico del Buddha. Ma
il Buddha è morto: se io fossi un suo
nemico, come potrei dirti di
ucciderlo?
Queste affermazioni sono come
montagne dalle cime altissime:
proprio come l’Everest, sono molto
difficili da scalare, e ci sono buone
probabilità di non riuscire mai a
comprenderle appieno. Questo
americano non le capiva: non ne era
proprio in grado, perché
probabilmente ha ricevuto
un’educazione cristiana, e si è
interessato al buddhismo solo in
seguito.
Il problema è proprio questo:
nessun cristiano direbbe mai: «Se
incontri Gesù sulla tua strada,
uccidilo!», perché non è il suo modo
di esprimersi. Lo riterrebbe
sacrilego, e in effetti è proprio
questo che quell’uomo ha scritto
nella sua lettera: «È un sacrilegio!
Devi essere un ateo o una persona
priva di religione! Devi essere
Satana per dire di uccidere il
Buddha!». È certamente cresciuto in
un ambiente cattolico, perciò parla
un’altra lingua e non comprende le
espressioni dello Zen.
Questa frase non dice nulla di
negativo sul Buddha: al contrario
racchiude il suo intero messaggio! Il
Buddha sarebbe perfettamente
d’accordo con questa affermazione,
ed è proprio ciò che ha detto quando
ha abbandonato il mondo. Queste
furono precisamente le sue ultime
parole; disse al suo discepolo
Ananda, che continuava a piangere e
non si dava pace: «Non disperarti e
smetti di versare lacrime per me! In
verità io sono stato un ostacolo per
te, e ora questa barriera sta per
sparire: adesso sei libero, e riuscirai
a illuminarti più facilmente. Sii una
luce per te stesso!».
Ananda aveva vissuto accanto al
Buddha per quarant’anni, senza
riuscire a illuminarsi; ma non
appena il maestro se ne andò,
conseguì l’illuminazione nel giro di
ventiquattr’ore! Che cosa era
successo? Si era aggrappato all’idea
del Buddha e quell’attaccamento era
diventato un ostacolo.

La stessa cosa è accaduta anche a
Ramakrishna. Quando ancora era un
seguace di Kalì – la dea madre – si
imbatté in Totapuri, un individuo
davvero bizzarro. È veramente raro
incontrare un uomo del genere: era
come Bodhidharma – un essere
davvero molto strano… Era solito
andarsene in giro del tutto nudo,
libero da ogni regola e da ogni
norma etica o morale; era un
paramahansa, un jivanmukta, e
viveva assolutamente libero: la
libertà era la sua qualità distintiva.
Vagando nei pressi del Gange,
giunse al tempio di Kalì di
Dakshineswar, ed è qui che
Ramakrishna lo incontrò e si
interessò a lui: non aveva mai visto
una simile libertà, accompagnata da
tanta grazia e da una tale bellezza!
Così gli domandò aiuto.
Totapuri guardò Ramakrishna e
disse: «Certo, ti aiuterò, ma a una
condizione: devi distruggere questa
dea madre!».
Ramakrishna rabbrividì e prese a
tremare e a sudare: «Cosa stai
dicendo?» esclamò. «Come posso
distruggere la dea? È mia madre ed è
lei che finora mi ha sempre aiutato!
Per me è tutto: è la mia anima, il
mio essere più intimo… Ne
morirei!».
Totapuri rispose: «Allora muori,
ma uccidi questa madre! Se davvero
desideri la libertà, devi distruggere
tutti i legami e gli attaccamenti – e
questa è la tua debolezza. Non sei
attaccato né a tua moglie, né al
denaro, né al mondo, perciò i tuoi
problemi non sono questi; tutto il
tuo attaccamento è concentrato su
questa madre, su quest’idea della
dea madre. Lo so, ti fa sentire bene,
ma continua a tenerti lontano dalla
verità».
Ramakrishna era solito sedersi a
meditare di fronte a Totapuri; ma nel
momento stesso in cui chiudeva gli
occhi, gli appariva la madre in tutta
la sua gloria: per cui cominciava a
dondolarsi, gli si riempivano gli
occhi di lacrime, e si dimenticava
del tutto di Totapuri e della sua
libertà. Quest’ultimo allora lo
scrollava e gli diceva: «Sei di nuovo
caduto vittima di un’illusione: non è
altro che un sogno! Perché non
prendi una spada e non la fai a
pezzi? Distruggila!».
Tutto questo si ripeté
innumerevoli volte, ma
Ramakrishna proprio non ci
riusciva… Altro che farla a pezzi:
piuttosto si dimenticava di Totapuri
e di ciò che gli aveva suggerito di
fare! All’interno del proprio cuore
vedeva il volto della madre, che era
così bello, così vivido, così
splendente… Non si trattava di
un’esperienza qualsiasi, bensì della
visione suprema! Era la visione della
forma assoluta, del divino come
forma essenziale, oltre al quale c’è
solo l’assenza di forma…
Un giorno Totapuri si stufò e
disse: «Bene, oggi parto. Provaci
ancora una volta, prima che me ne
vada: ho portato questa scheggia di
vetro».
«E a cosa serve?» chiese
Ramakrishna.
«Quando vedrò che cominci a
piangere, a dondolarti e a
sovreccitarti,» spiegò Totapuri «con
questa scheggia ti farò un taglio sul
terzo occhio, e quando inizierà a
sanguinare, la conficcherò ancora
più a fondo, in modo da richiamare
la tua attenzione sulla mia presenza!
Così ti ricorderai di prendere la
spada e tagliare in due la tua dea
madre!».
«E dove troverò la spada?» chiese
ancora Ramakrishna.
«Dove hai preso quest’idea della
madre?» rispose Totapuri. «Cercala
nello stesso posto, perché è tutto
frutto dell’immaginazione!».
Quel giorno Ramakrishna fece
dunque un nuovo tentativo e
Totapuri gli conficcò la scheggia di
vetro nel terzo occhio; quando iniziò
a sanguinare, la spinse ancora più a
fondo, e in un singolo istante di
consapevolezza, Ramakrishna prese
una spada e tagliò in due la madre,
che finalmente scomparve,
aprendogli le porte dell’assenza di
forma.
Rimase in samadhi per sei giorni
interi, e quando finalmente ne
emerse, le prime parole che
mormorò furono: «L’ultima barriera
è caduta, e ti sono infinitamente
grato, maestro Totapuri – ti sono
davvero immensamente grato!
L’ultimo ostacolo è scomparso!».

Questo è ciò che sia io che i maestri
Zen intendiamo quando diciamo:
«Se incontri il Buddha sulla tua
strada, uccidilo!». E infatti ti dico
anche: «Se mi incontri sulla tua
strada, uccidimi!», perché può
essere che incontrerai me invece del
Buddha.
L’espressione “sulla tua strada”
significa che, quando inizi a
spostarti dal livello della forma a
quello dell’assenza di forma, il tuo
maestro rappresenterà l’ultima
barriera: sei così attaccato a lui, lo
ami così profondamente, e ti ha
aiutato a raggiungere degli stati di
tale estasi e delizia, che farlo a pezzi
ti sembra un gesto di vera
ingratitudine… ma non è così!
Questo è il modo di esprimersi
proprio dello Zen, ma i cristiani,
così come i giainisti, gli hindu e i
musulmani ne sarebbero offesi,
perché secondo loro non è questo il
modo di parlare dei propri maestri.
Sebbene i mistici abbiano scelto
modi diversi di esprimersi, se
osservi in profondità, il loro
messaggio non è poi così differente:
il contenitore può anche variare, ma
il contenuto è sempre lo stesso!
Ciascuno di loro deve scegliere il
proprio linguaggio e il metodo che i
loro discepoli comprenderanno
meglio.

Un professore di psicologia fece un
esperimento per dimostrare una tesi
a cui stava lavorando, e ingaggiò un
taglialegna perché colpisse un ceppo
di legno con la parte posteriore di
un’ascia. L’uomo fu informato che
sarebbe stato pagato il doppio del
suo normale compenso, e ci provò
per mezza giornata, ma alla fine
abbandonò l’impresa esclamando:
«Devo veder volare le schegge!».

Se obblighi un taglialegna a usare il
rovescio dell’ascia, perderà presto
entusiasmo, perché deve veder
volare le schegge: sono loro che
mantengono viva la sua passione,
che lo spingono a proseguire, e che
fanno sì che la sua energia continui a
fluire! Quello è il suo linguaggio, e
riuscirà a lavorare solo parlando
quella lingua: è la sua noosfera, e
senza di essa non riesce a vivere.
Ciascun mistico deve quindi
esprimersi tenendo conto della
propria individualità e dei discepoli
che ha intorno, perché ogni maestro
attrae un certo genere di persone.
Non vedi? Intorno a me si sono
raccolti individui di un certo tipo: e
sono la gente del futuro! In questo
luogo non troverai certo persone
convenzionali: è impossibile!
Accanto a me non ci sono puritani,
moralisti o ipocriti, perché questo
non è un posto adatto a loro, e io
non sono il maestro che fa per loro!

Un orientalista francese si recò a far
visita a George Gurdjieff: andò da
lui una sola volta… Si chiamava
René Guénon e viveva a Parigi;
Gurdjieff risiedeva lì vicino, ad
appena qualche chilometro di
distanza da Parigi, ma
quell’orientalista ci andò una volta
sola e si trattenne appena mezz’ora,
quindi tornò a casa e iniziò a
criticarlo – Guénon ha passato la
vita a parlar male di Gurdjieff!
Diceva alla gente: «Evitatelo come
la peste! Lasciatelo perdere, perché
è la peggior disgrazia che esista
sulla faccia della Terra!».
Cos’era accaduto? Guénon era un
moralista, un gran puritano, e ciò
che vide nella mezz’ora che
trascorse da Gurdjieff era una realtà
profondamente diversa da quella che
conosceva.
Gurdjieff costringeva persone
astemie a bere quanto più possibile:
faceva parte del suo sistema, perché
un uomo completamente ubriaco
diventa assolutamente veritiero e
spontaneo. Non è certo il massimo,
ma le cose stanno così… La gente è
diventata così falsa che, per vedere il
suo vero volto, devi attendere che
sia completamente ubriaca; solo
allora lascia cadere la maschera,
perché è così alterata da non riuscire
più a reggerla: tutto inizia a
traballare e finalmente vengono in
superficie le caratteristiche reali
delle persone.
Ogni discepolo doveva quindi
sottoporsi a quella tortura – infatti,
per chi è praticamente astemio, ed è
sempre stato contrario agli alcolici, è
davvero un calvario! Pensa solo a
cosa sarebbe accaduto se Morarji
Desai fosse capitato in quel luogo!
Gurdjieff costringeva la gente a
bere finché stramazzava a terra,
balbettava frasi prive di senso,
gridava, strillava e urlava improperi:
era semplicemente il suo modo di
osservarla. Sedeva in silenzio a
guardarti e ad ascoltarti, e una volta
compresa la tua realtà, non c’erano
più ostacoli e iniziava il lavoro – ma
lo stato di cose in cui ti trovi si
rivela solo quando sei ubriaco,
altrimenti continui a nasconderti
dietro la tua maschera fasulla.
Guénon, che era un moralista,
osservò tutto questo e rimase
sbigottito, perché non riusciva a
comprenderlo!

A volte arrivano da me persone
molto conformiste, che poi scappano
e non tornano mai più. Quello che
ho creato è un genere di Comune
diverso, e solo l’Uomo Nuovo che
sta per nascere riesce a
comprendermi – solo lui può
riuscirci! L’uomo del passato non ne
è capace: per questo uso il
linguaggio del futuro! E come sai,
ognuno deve usare il proprio modo
di esprimersi.
A questo proposito mi hanno
raccontato una storia davvero
divertente...

Se un avvocato volesse dare
un’arancia a qualcuno, sarebbe
portato a dire: «Cedo alla vostra
persona, singolarmente e
disgiuntamente, il possesso,
completo di ogni interesse,
vantaggio, titolo o pretesa legale, di
questa arancia e di ogni sua parte di
buccia, membrana, succo, polpa e
seme, ivi incluso ogni diritto di
disporne e trarne vantaggio, con
piena facoltà di mordere, tagliare,
succhiare o mangiare in qualsivoglia
maniera detta arancia, nonché di
cederla unitamente o disgiuntamente
dalle sue parti di buccia, membrana,
succo, polpa e seme, in deroga a
qualsiasi disposizione, atto o
istrumento presente o futuro, di
qualsivoglia tenore o natura».

Quest’uomo sta semplicemente
dando un’arancia a qualcuno!
Eppure questo è il modo in cui
parlano gli avvocati – questo è il
linguaggio giuridico.

Due barboni sono seduti sotto un
albero e il primo, che è sdraiato su
una panchina all’ombra, dice: «Ho
appena sognato di avere un lavoro!».
«In effetti hai proprio l’aria
stanca!» risponde l’altro.

Esistono innumerevoli linguaggi, e
anche i mistici si presentano sotto
un’infinità di forme e di tipologie:
naturalmente, quindi, ognuno di loro
deve usare il linguaggio che conosce
e la lingua che desidera che la gente
impari a comprendere. Il loro modo
di esprimersi deve inoltre
rispecchiare le loro esperienze:
Kabir usò un certo linguaggio,
Krishna un altro, e Nanak un altro
ancora perché erano persone diverse
– appartenenti a epoche, ambienti e
aree culturali differenti – e si
rivolgevano a tipologie diverse di
persone, ciascuna con le proprie
potenzialità.


Osho, perché sono così comprensivo
verso gli altri e così duro con me
stesso?

Lascia che ti racconti una storia:

Un giovane carrettiere, esasperato, si
lamentò con un predicatore dicendo:
«Non so più dove sbattere la testa
con questi cavalli! Non mangiano
nient’altro che hamburger e patatine
fritte: sono già talmente magri, che
temo non dureranno più molto…».
«Lascia che ti faccia una
domanda» rispose il predicatore
«preghi tutti i giorni?».
«Ecco… veramente… no, non
abitualmente» balbettò il carrettiere.
«Ti lavi sempre le mani prima di
mangiare?» domandò ancora il
predicatore.
«No» rispose il carrettiere «non
sempre».
«E chiedi la benedizione di dio
prima di ogni pasto?» continuò il
missionario.
«No!» rispose seccato il
carrettiere.
«Allora è chiaro!» sentenziò il
predicatore. «Ciò che ti accade è
ineluttabilmente connesso con la
legge divina della compensazione:
poiché mangi come un cavallo, i tuoi
cavalli mangiano come esseri
umani!».

Mi chiedi perché sei così
comprensivo con gli altri e così duro
con te stesso – si tratta della legge
della compensazione: se sei
comprensivo con gli altri, sarai per
forza duro con te stesso! In realtà
vorresti essere duro con il tuo
prossimo, ma continui a nascondere
e reprimere questo desiderio che
dunque si accumula dentro di te: non
riesci a essere duro con gli altri
perché ti è stato insegnato a non
farlo, e dove rovesci quindi tutta la
tua spazzatura? Sei rimasto solo
tu… È quasi sempre così: le persone
gentili con gli altri sono dure con se
stesse – sono costrette a esserlo!
Di norma esistono solo due
tipologie di individui: gli omicidi e i
suicidi. Gli omicidi sono le persone
pericolose per gli altri – e sono
davvero molto pericolose, perché
possono arrivare a uccidere! Chi
invece non rappresenta un pericolo
per gli altri tende a essere pericoloso
per se stesso, e infatti può addirittura
suicidarsi.
In realtà non è necessario
collocarsi all’interno di una di
queste due categorie: puoi benissimo
trascenderle, ed è proprio ciò che ti
sto insegnando! Non c’è alcun
bisogno di decidere a priori di essere
duro o gentile con gli altri: devi
semplicemente essere consapevole!
Non si tratta di stabilire
l’atteggiamento da adottare con il
prossimo, bensì di divenire cosciente
del proprio essere: in questo modo,
il primo risultato che otterrai sarà di
diventare gentile verso te stesso! Il
primo sussulto della coscienza di sé
consiste infatti nell’essere gentili
con se stessi – il primo guizzo di
consapevolezza è proprio l’amore di
sé!
Questa cosa ti sorprenderà, perché
ti hanno sempre insegnato che amare
se stessi è una forma di egoismo, ma
non è così! Al contrario è la base di
ogni amore verso gli altri; l’amore di
sé è il fondamento di qualsiasi forma
d’amore verso tua moglie, verso i
tuoi figli, verso il tuo dio, perché se
non ami te stesso non sarai capace di
amare nessun altro!
Gesù ha detto di amare il tuo
prossimo come te stesso, ma se
mediti su queste parole, ti accorgerai
che l’amore per te stesso viene
prima! La gente ha cominciato ad
amare gli altri e si è dimenticata di
non saper amare se stessa. Perciò ti
ritrovi ad amare il tuo prossimo
anche se ti accorgi che non è poi
così amorevole; eppure devi amarlo
ugualmente, perché così ti è stato
insegnato: ti hanno detto che così
vogliono le buone maniere, la civiltà
e la cultura, e che in questo modo
otterrai il rispetto degli altri…
Amando il tuo prossimo, finisci
quindi per odiare te stesso, perché
entra in azione la legge della
compensazione.
Inoltre, come puoi amare un’altra
persona, se odi te stesso? Puoi solo
fingere, puoi mostrarle una facciata
dalle sembianze amorevoli, ma nel
profondo vorresti ucciderla: nel tuo
io più profondo sei pieno di odio!
Questa è la condizione in cui si
trova l’umanità.

Il mio approccio è del tutto
differente: sii consapevole! E il
primo guizzo di consapevolezza sarà
proprio l’amore per te stesso: ti
amerai, perché tu sei la persona più
vicina a te stesso! E l’amore può
iniziare solo da lì, proprio come
accade quando, gettando un sasso in
un lago perfettamente immobile, le
prime increspature iniziano a crearsi
intorno al punto in cui è caduta la
pietra, per poi propagarsi verso la
riva, continuando ad allargarsi
sempre di più…
Ama te stesso! E per far questo
devi per forza essere molto
consapevole; solo un individuo
simile può amare se stesso, perché
solo una persona consapevole è
conscia del fatto che nel profondo
del suo essere non si trova il suo io,
bensì il divino!
Come fai ad amare te stesso? Non
sai chi c’è dentro di te; non hai mai
avuto neppure un assaggio, neppure
un bagliore di ciò che c’è veramente
dentro di te: è tutto immerso nel
buio…
Inoltre, ti hanno insegnato che sei
un essere ignobile e privo di valore;
ti hanno ripetuto senza sosta di
migliorare te stesso e di diventare
questo e quest’altro… Nessuno ti ha
mai detto di accettarti così come sei!
Ti hanno sempre insegnato a
rifiutare ciò che sei: per questo ti odi
e sei diventato così duro con te
stesso. L’odio è duro, e anche se
continui a pensare di essere dolce e
gentile con gli altri, sappi che quella
dolcezza e quella gentilezza sono
solo ipocrisie! Non sono reali: non
possono esserlo!
La vera gentilezza nei confronti
degli altri può nascere soltanto dalla
gentilezza verso te stesso: inizia da
lì! Dimentica tutto ciò che ti hanno
detto, perché le tue priorità sono
assolutamente capovolte; non
pensare che gli altri siano più
importanti di te, perché nessuno lo è:
la persona più importante del mondo
sei tu – tu sei il centro del mondo!
E bada che non ti sto dicendo di
essere egoista; sto semplicemente
affermando una verità: ognuno di
noi è il centro del mondo e
dell’universo intero. Devi per forza
essere il centro, perché dentro di te è
presente il divino! E non sto dicendo
che gli altri non lo sono: ogni
individuo è un centro, ma come puoi
comprendere l’importanza degli
altri, se non comprendi la tua?
Ama te stesso, e da quell’amore
nascerà un profondo amore per gli
altri, perché anche loro sono proprio
come te!


Osho, qual è l’arma segreta dei
preti? Come sono riusciti a sfruttare
l’umanità per così tanto tempo?

È molto semplice: per spiegartelo, ti
racconterò qualche storiella.

Due studenti di musica stanno
discutendo dei loro lavori part-time,
e uno dice: «Di sera lavoro
all’opera: tengo in mano una lancia
per un atto intero».
«Ma come fai a stare sveglio fino
a quell’ora?» chiede il suo
compagno.
«Semplice!» risponde il primo
studente. «Anche l’uomo che sta
dietro di me impugna una lancia!».

La seconda storia:
Una mattina il predicatore Pitts si
mise a descrivere i terrori
dell’inferno alla sua congregazione.
«Fratelli e sorelle!» cominciò.
«Alcuni di voi hanno avuto modo di
osservare il ferro fuso che cola fuori
da una fornace, giusto? Sibila,
sfrigola ed è talmente incandescente
da diventare quasi bianco: ebbene,
nel luogo di cui parlo, usano quel
materiale come gelato!».

Il reverendo Walker stava tenendo
un sermone di fronte alla sua
congregazione: gesticolando con
grande enfasi, stava pontificando
sulla perversione dei rapporti
sessuali. Dopo una tirata di venti
minuti su quanto il sesso fosse
peccaminoso, si erse in tutta la sua
altezza, si sporse dal pulpito e tuonò:
«Fratelli e sorelle, se fra di voi ci
sono persone che hanno commesso
adulterio, che la lingua possa
incollawsi all’intewno del vostwo
palato!».

Ebbene, se terrorizzi la gente, finirai
per aver paura anche tu! La cosa
funziona in entrambi i sensi, perciò
il prete non si limita a spaventare te:
anche lui è terrorizzato e trema di
paura!
L’arma segreta dei preti è sempre
stata la paura: se semini il terrore, le
persone, atterrite, saranno subito
pronte a trasformarsi in schiavi e
saranno quindi disposte a fare
qualsiasi cosa!

Io voglio invece che tu sia
assolutamente libero da ogni paura!
Non hai nulla da temere: questa
esistenza ti appartiene, e non esiste
alcun inferno, a meno che tu non
decida di costruirne uno! In questo
caso sono affari tuoi: se desideri
crearne uno, ci riuscirai di sicuro,
ma in caso contrario, sappi che non
c’è alcun inferno! Esiste solo un
immenso paradiso, e non si tratta di
un luogo in cui arriverai solo alla
fine, quando raggiungerai dio; tutta
la strada che conduce al divino è il
paradiso: ogni istante è
assolutamente paradisiaco – l’intero
viaggio è un paradiso!
Il paradiso è semplicemente un
modo di guardare le cose, e lo stesso
vale per l’inferno. Ma in passato i
preti hanno sfruttato l’arma segreta
della paura, a cui hanno abbinato
l’avidità, che è l’altra faccia della
stessa medaglia: da un lato c’è la
paura, e dall’altro l’avidità. I preti le
hanno usate entrambe, ma una
persona davvero religiosa è del tutto
libera dalla loro tirannia.
E se ti liberi della paura e
dell’avidità, sarai libero anche da
tutte le forme di sfruttamento che
sono esistite nel corso dei secoli. Per
questo la religione non è stata di
alcun aiuto per l’umanità: non è
stata una benedizione, ma una
condanna! Trasformala in una
benedizione e abbandona la paura e
l’avidità! Vivi con gioia – vivi
questo preciso istante in modo
assolutamente paradisiaco!
Vivi… ama… esisti… e
dimentica tutte le paure! Non c’è
ragione di aver paura:
quest’esistenza non ci è ostile,
perché ne siamo parte; è nostra
amica… ci ha creati lei stessa –
come potrebbe essere una nemica?
Non c’è nessuno seduto nell’alto
dei cieli a tenere il conto dei tuoi
peccati, pronto a punirti! Non
bisogna temere l’esistenza! E se sei
impaurito, non riuscirai mai a
provare amore, perché la paura
uccide ogni capacità d’amare.
In tutte le lingue del mondo è
presente un’espressione come “timor
di dio” – ed è davvero
raccapricciante: abbandona queste
parole e non usarle mai! Lascia che
questa religione sia la religione
dell’amore – ama l’esistenza!
Vedrai che in questo modo
diverrai immune alle trappole e alla
morsa dei preti; e non avrai liberato
solo te stesso, ma anche il prete!
Anche lui sta soffrendo insieme a te:
continuando a parlarti senza sosta
dell’inferno e del paradiso, ha finito
per convincersene, e lui stesso si è
trasformato in una vittima insieme a
te. È diventato un incubo per tutti…
Questo è ciò che intendo quando
auspico per il mondo una nuova
consapevolezza religiosa, libera
dalla paura e dall’avidità! Tutta la
nostra energia va riversata nella
celebrazione…
Capitolo 5

LA LIBERTA E LA
VERITA




Alcune persone appartenenti a
religioni diverse fecero visita a un
maestro Sufi e gli dissero:
«Accettaci come tuoi discepoli,
perché ci siamo accorti che le nostre
religioni sono ormai prive di
qualsiasi verità, e siamo certi che
quella che insegni tu sia l’unica
vera via».
Il maestro rispose: «Non avete
mai sentito la storia del khan dei
mongoli Halaku e di come invase la
Siria? Lasciate che ve la racconti.

Il visir del califfo Mustazim di
Baghdad, di nome Ahmad, invitò i
mongoli a invadere i domini del suo
signore, e dopo che Halaku ebbe
vinto la battaglia per Baghdad, il
visir gli andò incontro per reclamare
la propria ricompensa.
“Sei venuto per la tua
ricompensa?” chiese Halaku.
“Sì!” rispose Ahmad.
“Hai tradito il tuo padrone per
me” osservò Halaku “e ora ti
aspetti che io creda che mi sarai
fedele?” e ordinò che Ahmad
venisse impiccato.

Prima di chiedere a qualcuno di
accettarvi, domandatevi se lo
desiderate solo perché non avete
seguito la via indicata dal vostro
maestro; se appurate che non è così,
allora tornate pure a chiedere di
diventare miei discepoli».


Il problema principale degli esseri
umani non è l’ignoranza ma il
sapere! Quest’ultimo non è mai
davvero originale: è sempre preso a
prestito, eppure la gente riesce a
convincersi di possedere chissà
quale conoscenza, ingannando tanto
gli altri quanto se stessa.
Il sapere è la forza più fuorviante
che esista al mondo; rende le
persone astute, ipocrite ed egoiste;
conferisce loro l’illusione di
conoscere, di sapere cos’è la verità e
qual è “la vera via”– e proprio per
questo continuano a lasciarsela
sfuggire.
La gente si imbatte spesso nella
verità, ma non riesce a vederla,
perché i suoi occhi sono ostruiti dal
sapere, che la rende cieca. Una
persona colta è accecata: è astuta e
istruita, ma non intelligente.
Astuzia e cultura a prima vista
possono essere scambiate per
intelligenza, ma si tratta soltanto di
un’apparenza: non lasciarti mai
ingannare dall’aspetto esteriore,
perché proprio lì è radicata la
confusione di fondo dell’essere
umano – nella sua cultura, nella sua
astuzia e nel suo sapere.
Per riuscire a diventare un
discepolo, devi disimparare tutto
quello che sai; non puoi riuscirci se
possiedi già una cultura, perché sarà
proprio quella a impedirtelo: se sei
convinto di essere già in possesso
della conoscenza, come puoi
abbandonarti?
Il sapere non si arrende mai: solo
l’innocenza è in grado di generare
quell’incredibile balzo quantico. Il
lasciarsi andare può scaturire
soltanto dall’innocenza, perché è da
lì che nascono la fiducia, la fede e
ogni vera religiosità.
Ho sentito un simpatico
aneddoto...

Un grande maestro chassidico di
nome Zusiya, fu mandato in esilio in
Germania, e giunse in una città di
ebrei riformati. Osservando il suo
comportamento, gli abitanti lo
derisero credendo fosse pazzo;
quando giunse alla sinagoga, alcuni
di loro lo presero in giro, e i
bambini, vedendo che i loro genitori
lo schernivano, pensarono che fosse
matto e iniziarono a strattonarlo
tirandolo per la cintura.
Il maestro fece loro cenno di
avvicinarsi e disse: «Miei cari
bambini, venite a sedervi qui intorno
a me e vi dirò una cosa».
Questi, pensando che avrebbe
svelato loro qualche trucco, gli si
radunarono intorno, e Zusiya disse:
«Cari bambini, guardatemi bene,
senza distogliere lo sguardo!».
Convinti che avrebbe mostrato
loro qualcosa, i ragazzini iniziarono
a fissarlo, e lui li guardò dritti negli
occhi uno per uno, dopodiché disse
loro di tornare a casa.
Una volta a casa, all’ora di
pranzo, tutti si rifiutarono di
mangiare: uno dichiarò che era
proibito cibarsi di carne; un altro
chiese come fosse possibile nutrirsi
di carne immonda… e, in un modo o
nell’altro, tutti rifiutarono di
mangiare, sostenendo che cibi e
pietanze erano impuri.
Più tardi – come di solito accade
fra donne – una madre raccontò a
un’altra che all’improvviso suo
figlio, tornando dalla casa di
preghiera, si era rifiutato di
mangiare, sostenendo che qualsiasi
cosa gli venisse offerta era impura.
La vicina di casa le riferì che anche
suo figlio aveva rifiutato il cibo: si
era messo a strillare che le pietanze
erano infette e che in quella casa non
era possibile pregare, perché lei non
si copriva il capo. Arrivò poi una
terza vicina, che raccontò le stesse
cose a proposito di suo figlio…
L’intera città era sbalordita! In
breve tempo ciascuno si rese conto
che i propri figli non erano gli unici
a essere diventati improvvisamente
così devoti; cominciò a circolare la
voce che lo straniero che avevano
deriso e preso per pazzo era in realtà
un santo e, guardando negli occhi i
bambini, aveva riversato dentro di
loro una parte del suo essere. I
genitori iniziarono a temere di
averlo offeso, e andarono quindi a
chiedergli perdono.
Zusiya scoppiò a ridere e li
perdonò tutti; avrebbe voluto
guardare negli occhi anche gli
adulti… ma se la diedero a gambe in
un baleno!

Di cosa parla questo splendido
aneddoto? Poiché i bambini erano
innocenti, non hanno esitato a
guardare negli occhi quello strano
maestro, e sono quindi entrati in
connessione con lui; per un attimo si
sono persi nella sua vastità, e per un
istante la sua essenza ha iniziato a
fluire dentro di loro: c’è stato un
incontro, una fusione, una
comunione! Durante quei pochi
attimi in cui il maestro li ha
semplicemente guardati negli occhi,
si è riversato dentro di loro un
frammento della sua essenza – della
sua purezza, della sua santità… Una
parte dell’essere del maestro è
penetrata negli occhi di quei
bambini, che non sono più stati gli
stessi – la loro visione è stata
trasformata!
Gli adulti invece sono fuggiti,
perché hanno avuto paura di
guardare negli occhi il maestro.
Cosa temevano? Poiché erano astuti,
colti e sapienti, devono aver
pensato: «Si tratta certamente di una
sorta d’ipnosi, o di qualcosa del
genere… Quest’uomo dev’essere
una specie di mago!». Sicuramente
nelle loro menti si sono affollate
mille scuse: «Non siamo ancora
pronti!». Avranno pensato: «Non
possiamo intraprendere un viaggio
in terre così lontane! Non è ancora il
momento, bisogna lasciar passare
ancora un po’ di tempo: dobbiamo
ancora fare mille cose! Più avanti,
forse…».
Quelle persone non erano
innocenti e anche la loro richiesta di
perdono non nasceva dall’amore e
dalla comprensione, bensì
dall’astuzia: temevano che, se
davvero quell’uomo era così insolito
e così potente, avrebbe potuto far
loro del male. Per questo hanno
deciso di scusarsi: non l’hanno fatto
per umiltà o perché avevano
compreso, ma per paura.
I bambini, invece, sono
semplicemente entrati in sintonia
con il maestro!

Gesù aveva ragione quando disse:
«Se non diventerete come bambini,
non entrerete nel regno dei cieli!».
Si trovava al mercato, una folla si
era raccolta intorno a lui, e un uomo
– un rabbino – gli chiese: «Parli così
tanto del regno dei cieli, ma chi
potrà entrarvi? Chi ne sarà capace,
chi sarà abbastanza puro, virtuoso e
santo da riuscire ad accedervi? Che
qualità devono possedere le persone
cui sarà consentito entrare?».
Gesù si guardò intorno. Il rabbino
era sicuro che avrebbe risposto: «Le
persone come te!», e lo stesso
pensava un ricco cittadino, molto
caritatevole, che aveva fatto una
consistente donazione alla sinagoga.
Era presente anche un altro
individuo, che aveva messo in
pratica tutti gli insegnamenti ricevuti
nel corso degli anni: aveva eseguito
ogni rituale, aveva recitato tutte le
preghiere e osservato tutte le norme
e i comandamenti, ed era un uomo
davvero virtuoso, che veniva
considerato un santo. Anche lui
quindi pensò: «Di certo sta cercando
me, e ora dirà: “Gli uomini come
te!”».
Ma le aspettative di tutta questa
gente furono deluse; Gesù infatti si
guardò intorno e il suo sguardo si
posò su un bambino piccolo che
stava in piedi fra la folla; lo prese in
braccio, lo mostrò al pubblico e
disse: «Potranno entrare nel regno
dei cieli le persone che sono come
questo bambino!».

L’innocenza è capace di entrare in
sintonia con il divino, mentre il
sapere è come una nota stonata: è
come la grande muraglia cinese,
come un’armatura, una
fortificazione che ti tiene lontano dal
mistero. Eppure accade proprio
questo: le persone colte cominciano
a cercare la verità, ma danno per
scontato di sapere già cosa sia, e
pensano che basti cercarla;
ritengono di essere in grado di
riconoscerla perché credono di
conoscere già le sue caratteristiche,
ma non è così!
Finché non arrivi a sperimentare
la verità, non c’è modo di sapere
cosa sia; non esistono scritture che
la descrivano, e nessuno potrà mai
donartela. Il maestro non ti offre mai
la conoscenza della verità, ma si
limita semplicemente a renderti
accessibile la sua; riuscirai a
conoscerla solo se hai abbastanza
coraggio, se sei innocente, aperto,
pronto a spiccare il salto e morire fra
le braccia del maestro – e non si
tratterà di un sapere, ma di
un’esperienza! La verità si presenta
sempre sotto forma di esperienza: è
sempre una realtà esistenziale!
Ricorda che le tue conoscenze
sono barriere. Chi ha eseguito tutti i
rituali pensa di possedere chissà
quale sapere e di essere un grande
yogin; crede di essere capace di
conoscere la verità perché ha
osservato alla lettera tutte le regole
dello Yoga, ma non è così! I rituali
non ti preparano alla verità; le
persone che fanno affidamento sui
rituali sono stupide, perché li
seguono in modo inconsapevole;
continueranno a escogitare metodi e
forme diverse per eseguirli, ma non
cambieranno mai.
Mi hanno raccontato questa
storia:

Un cliente dall’aria davvero triste
andò al bar e ordinò sei whisky; il
barista gli versò sei bicchieri e
l’uomo disse: «Adesso, per favore, li
allinei di fronte a me!».
Il cliente pagò, disse al barista di
tenere il resto, e trangugiò il
contenuto del primo bicchiere della
fila, facendo poi la stessa cosa con il
terzo e il quinto; quindi salutò e se
ne andò.
«Mi scusi!» disse il barista. «Ci
sono ancora tre bicchieri che non ha
neppure toccato!».
«Lo so» rispose l’uomo «ma il
dottore mi ha detto che un bicchiere
ogni tanto non mi avrebbe fatto
male».

Si riesce sempre a trovare una
scappatoia: chi confida nei rituali è
sempre molto scaltro!

Un politico, che era stato convinto
ad accompagnare un amico in una
battuta di caccia all’orso, aveva
nascosto il suo nervosismo
mostrandosi coraggioso, anche se la
prima notte trascorsa al campo non
era riuscito a chiudere occhio.
I due uomini si misero in marcia
all’alba, facendosi largo fra la
vegetazione a colpi di falce, e dopo
aver camminato per un breve tratto,
si imbatterono in alcune orme
fresche, che il cacciatore entusiasta
identificò come le impronte di un
orso enorme.
«Senti cosa dovremmo fare!»
esclamò il politico con tono
brillante. «Tu vai avanti per vedere
dove si è diretto l’orso, e io torno
indietro a vedere da dove veniva!».

Ricorda che gli esseri umani sono
così astuti e hanno una mente
talmente politica, che riescono
sempre a trovare una scappatoia per
eludere ogni rituale, ogni regola e
ogni disciplina. Inoltre, non ne
vengono toccati in alcun modo:
possono continuare a eseguire un
rituale senza esserne minimamente
trasformati! Per questo il mondo è
pieno di gente che non cambia mai,
pur recandosi regolarmente nelle
sinagoghe, nelle chiese, nei templi,
nelle moschee o nei gurudwara dei
sikh.
Pur essendoci milioni di persone
che pregano, l’esistenza sembra
essere del tutto priva di devozione:
sembra che la sua fragranza sia
scomparsa dalla faccia della Terra…
non c’è che odio e ancora più odio!
Non esiste neppure una goccia
d’amore! Com’è possibile che ogni
giorno milioni di persone continuino
a pregare, senza che fiorisca
nemmeno un po’ d’amore? Le
preghiere di tutta questa gente non
creano alcuna compassione! Ci
dev’essere qualcosa di
profondamente sbagliato, deve
esserci un errore alla radice…
Le preghiere di queste persone
sono false: pregano perché sono
obbligate a farlo; è una specie di
dovere a cui devono adempiere, ma
non ci mettono il cuore! Un uomo
astuto cerca sempre di evitare di
mettere il proprio cuore in ciò che
fa: fa semplicemente finta, ripete
gesti del tutto vuoti, ed è così scaltro
da riuscire sempre a trovare una
scappatoia per svicolare.

Il vero problema dell’umanità non è
l’ignoranza, ma il sapere.
L’ignoranza non ti rende mai astuto!
Chi è davvero pronto a diventare
un discepolo deve abbandonare
un’unica cosa: il suo sapere! Devi
tornare a essere ignorante, e se
ritrovi questa condizione in modo
consapevole, l’ignoranza diventa
luminosa! Tutto sta nella
consapevolezza: se possiedi molti
saperi, ma sei inconsapevole, la tua
conoscenza resta buia, tetra e morta;
se invece diventi consapevolmente
ignorante, anche la tua ignoranza
sarà illuminata, brillante e piena di
luce.
E ricorda che se osservi la tua vita
in modo consapevole, dovrai per
forza ritornare a essere ignorante,
perché il sapere in quanto tale è
impossibile: l’esistenza continua a
essere un mistero e non c’è modo di
demistificarla! Il sapere invece tenta
di fare proprio questo: cerca di
demistificare l’esistenza e di
distruggere il mistero, in modo che
tutto sia chiaro e abbia una
spiegazione.
Tutti gli sforzi del sapere sono tesi
a bandire il mistero dall’esistenza,
ma non può essere cancellato,
perché rappresenta la sua natura
ultima: il mistero non è una qualità
accidentale, bensì il cuore stesso
della vita! L’esistenza è mistero:
queste due parole sono sinonimi.
Dunque, l’uomo colto non può
distruggere il mistero della vita:
chiude semplicemente gli occhi,
oscurandoli con una spessa coltre di
cultura, e crede di sapere, mentre
non sa nulla! Potrà sembrarti strano
e forse anche paradossale, ma è
proprio così: le persone colte non
sanno nulla, mentre chi è
consapevole di essere ignorante, ha
mosso il primo passo sulla via della
vera conoscenza – tutto sta nella
consapevolezza!
Si è fatta una gran confusione:
l’essenza della condizione di
discepolo è l’ignoranza –
l’ignoranza consapevole! Ma la
gente vive in modo incosciente e
procede a tentoni; si rivolge ai
maestri senza una briciola di
consapevolezza, nella totale
incoscienza; pur restando accanto a
loro, è profondamente addormentata,
e prima o poi si stufa perché non
succede nulla: finché rimani
inconsapevole, non può accadere
nulla, perché non riesci a connetterti
con il maestro. Se continui a essere
astuto e colto, anche se stai accanto
a un maestro non succederà nulla: è
il sapere stesso a impedirtelo!
Prima o poi queste persone
decidono che il maestro che stanno
seguendo non è quello giusto, senza
domandarsi affatto se siano riuscite
a diventare veri discepoli. Eppure
quella dovrebbe essere la domanda
fondamentale! Che un maestro sia
giusto o no non è affar tuo: come
potresti comunque accorgertene, se
non hai idea di cosa sia! Non sei
ancora neppure diventato un
discepolo! Non hai ancora fatto
nemmeno il primo passo, eppure
pensi già all’ultimo, esprimendo
opinioni e giudizi in merito: faresti
meglio a stare zitto!
Devi concentrarti sempre e
soltanto su un unico pensiero, e non
smettere mai di chiederti: «Sono un
buon discepolo? Sono pronto a
imparare? Ho abbandonato il mio
sapere? Il mio cuore è davvero
aperto? Sto cercando di diventare
più consapevole di ciò che faccio?
La mia preghiera è cosciente?
Quando siedo accanto al maestro,
sono consapevole, attento e vigile?
Quando assisto a un suo discorso, lo
ascolto davvero, o mi limito a udirne
le parole?».
Udire e ascoltare sono due cose
molto diverse; udire è facile: tutti ne
sono capaci – chiunque abbia le
orecchie è in grado di farlo.
L’ascolto invece è un fenomeno più
raro: accade quando alle orecchie si
unisce il cuore. Quando ti limiti a
udire, la tua mente resta occupata
dai pensieri, continua a turbinare e
ad agitarsi, ed è piena di rumori, di
idee, di pregiudizi… Certo, in
mezzo a quel caos puoi riuscire a
udire, ma non è possibile ascoltare:
per farlo c’è bisogno di silenzio;
dentro di te non ci devono essere
ombre e non si deve agitare alcun
pensiero – l’ascolto accade solo nel
silenzio assoluto!
Il discepolo deve continuare a
domandarsi senza sosta: «Sono
davvero un discepolo? Sono riuscito
a diventare un discepolo?». Se resti
cosciente di questo aspetto, nella
vita incontrerai molti maestri; ma se
non ne sei consapevole, ti ritroverai
a mani vuote anche se ti imbatti in
un buddha.

Hank stava canticchiando e
fischiettando mentre cavalcava nella
prateria, quando all’improvviso il
suo cavallo si impennò, fermandosi
di scatto di fronte a un serpente
enorme. Il cowboy estrasse la pistola
e stava per sparare all’animale,
quando il serpente gridò: «Non
sparare! Se mi risparmi, posso
esaudire tre desideri a tua scelta!».
«Va bene» rispose Hank,
pensando di non aver nulla da
perdere. «Il mio primo desiderio è
avere il viso affascinante di Paul
Newman; come seconda cosa
desidero un corpo pieno di muscoli
come Muhammad Ali, e infine
voglio diventare dotato come questo
mio cavallo!».
«D’accordo!» rispose il serpente.
«Domani, al tuo risveglio, tutti e tre
i tuoi desideri saranno esauditi».
La mattina dopo, appena sveglio,
Hank corse a guardarsi allo
specchio: aveva senza dubbio il
volto di Paul Newman, e si accorse
con immenso piacere che le sue
braccia e le sue spalle erano
muscolose come quelle di
Muhammad Ali. Poi, volgendo con
trepidazione lo sguardo verso il
basso, lanciò un urlo da far raggelare
il sangue: «Oddio!» balbettò. «Ho
scordato che ieri stavo montando
Nellie!».

L’umanità è incosciente,
inconsapevole… Anche se stai
accanto a un buddha, non ti accadrà
nulla, perché la tua
inconsapevolezza sarà simile a una
montagna. Le vibrazioni di un
buddha sono delicatissime, e non
possono penetrare nella montagna
della tua incoscienza; riusciranno a
raggiungere il tuo essere solo se sei
consapevole, perché non sono
violente o aggressive, ma
impalpabili: non si metteranno
neppure a bussare alla tua porta, per
costringerti a farle entrare! Le
vibrazioni di un buddha non
possono usare la violenza; sono
assolutamente silenziose, e riuscirai
a percepire la loro presenza solo se
sei in perfetto silenzio, perché si
muovono senza fare alcun rumore,
come petali che cadono leggeri
verso terra… proprio così.
È molto facile decidere che il tuo
maestro è sbagliato, perché questo ti
consente di restare esattamente
come sei: che ci puoi fare? È il
maestro che non va! E così cominci
a passare da un maestro all’altro
nella speranza… Ma tu resti lo
stesso di sempre!
Se hai fatto fiasco con un maestro,
accadrà lo stesso con tutti gli altri:
passando da un maestro all’altro ti
abituerai infatti sempre di più a
girare a vuoto, e ci farai il callo! Stai
semplicemente imparando a fare
buchi nell’acqua: se fallisci con un
maestro, diverrà più facile far fiasco
anche con il secondo, e con il terzo
sarà più semplice ancora!
Continuando a cambiare, piano
piano diverrai un tale esperto di
fallimenti, che quasi di sicuro alla
fine non troverai mai più un
maestro.
Questa è la ragione per cui la
gente non riesce a trovare un
maestro: non è perché non ce ne
siano! L’esistenza è estremamente
ricca e ti offre sempre infinite
possibilità di crescita: i maestri non
mancano mai! Non esiste un’epoca,
un Paese o un ambiente in cui non
esistano: per quanto il periodo possa
essere oscuro, ce ne sono sempre!
Anzi, più i tempi sono bui, più è
facile che compaiano dei maestri.
Krishna ha detto: «Arriverò
quando l’oscurità avrà invaso ogni
cosa e la religione sarà distrutta: lo
faccio sempre».

I periodi più bui e infelici sono
dunque quelli che offrono maggiori
opportunità di fioritura per i maestri:
i medici si moltiplicano quando la
gente è malata! La natura ricrea
continuamente il proprio equilibrio e
risponde sempre ai tuoi bisogni.
Prova a pensarci: quando una
donna resta incinta, tutto il suo
corpo inizia a prepararsi per la
gravidanza e, al momento del parto,
i suoi seni cominciano
all’improvviso a produrre latte in
abbondanza. Anche se il bambino
non è ancora nato, si sta già
preparando il suo nutrimento, perché
la natura risponde a tutti i bisogni,
persino a quelli di un bambino che
non ha ancora chiesto nulla, né
sarebbe in grado di farlo. Ancor
prima che il neonato venga al
mondo, la natura si è preoccupata
del suo sostentamento: ha preparato
il cibo prima che arrivi la fame e
l’acqua prima che arrivi la sete.
Allo stesso modo, prima che
compaia il discepolo, è già presente
il maestro; se sei un discepolo,
dunque, troverai per forza un
maestro: è sempre stato così. Se non
riesci a trovarlo, ripensaci, medita, e
domandati se sei davvero un
discepolo: ti accorgerai che non
riesci a diventarlo perché sei troppo
pieno di false conoscenze!
Il discepolo è un individuo pronto
a imparare – e una persona piena di
conoscenze non è capace di farlo: è
pronta a insegnare, ma non a
imparare!
Sei davvero un discepolo? Il
discepolo è una persona pronta ad
arrendersi, a piegarsi, a chinare il
capo: tu sei pronto a morire? Sei
pronto a rischiare tutto ciò che hai?
Nessuno sembra mai pronto a
morire…
In realtà la gente si rivolge ai
maestri per vivere in eterno, non per
morire; tutti gli esseri umani
desiderano diventare immortali,
vorrebbero scoprire l’elisir della vita
eterna, la formula magica capace di
sconfiggere la morte: ebbene, tutto
questo è possibile! Ma prima
bisogna soddisfare una condizione:
solo chi è pronto a morire riuscirà a
raggiungere la vita eterna!
Lascia che ti racconti un
aneddoto: è una storia vera, davvero
molto significativa.

In un monastero tibetano, un
monaco ritenuto morto venne
sepolto in una cripta. Dopo un po’
riprese conoscenza e la sua mente fu
invasa dall’orrore e dal conflitto: la
cripta veniva aperta solo alla morte
di un confratello ed era impossibile
gridare o bussare tanto forte da farsi
sentire. Cosa poteva mai fare questo
sfortunato? Doveva attendere di
morire di fame e di sete circondato
dai cadaveri dei suoi confratelli?
Cominciò a pregare – ma la
preghiera non era forse un modo per
implorare il divino di far morire uno
dei suoi compagni in piena salute?
La cripta infatti sarebbe stata aperta
soltanto se fosse morto qualche altro
membro del monastero: l’unica
possibilità di essere liberato era che
qualcuno morisse immediatamente.
Anche se tormentato da quelle
terribili agonie fisiche e mentali –
puoi ben immaginarti la situazione –
il nostro caro monaco riuscì a
resistere e a restare vivo. Si tenne in
vita nutrendosi degli insetti che si
infilavano nella cripta attraverso
fessure minuscole, e si dissetò
leccando dalle pareti le gocce di
umidità, ossia bevendo putride
acque di scolo.
Parecchi anni dopo, alla morte di
un monaco, i confratelli riaprirono la
cripta e ritrovarono quel
pover’uomo: era avvolto nei
mantelli che aveva trovato nelle
bare, e la sua barba bianca era ormai
lunga fino a terra; era diventato
completamente cieco, ma era ancora
vivo ed era riuscito a pregare e a
mantenere viva la speranza. Fu
portato fuori e visse almeno altri
dieci anni.

Gli esseri umani si aggrappano alla
vita – anche quando diventa peggio
della morte. Pensa a quest’uomo:
mangiava insetti, viveva circondato
da cadaveri… immagina la puzza!
Pensa a quella cripta: circondato da
centinaia di morti, quel monaco
leccava le gocce di umidità dalle
pareti e pregava, nell’attesa che
qualcuno morisse; trascorrendo anni
e anni nel buio, divenne addirittura
cieco, ma non perse la speranza di
continuare a vivere. Il desiderio, la
brama di vivere arriva fino a questo
punto!
Per stare accanto a un maestro,
bisogna essere pronti a morire – non
fisicamente, ma metaforicamente!
Eppure la sola idea della morte è
sufficiente a far scappare la gente.
Per entrare in contatto con un
maestro, devi lentamente sparire,
devi svanire metaforicamente: il tuo
ego deve morire!
Gesù ha detto: «Finché non
rinascerai…», ma come puoi
rinascere, se prima non muori? La
rinascita dev’essere preceduta dalla
morte – e da una morte ben più
profonda di quella fisica, perché la
morte del corpo non è poi così
significativa… Infatti, rinasci quasi
subito; nel giro di qualche istante,
dopo la morte fisica, il tuo essere
entra in un altro grembo, da qualche
altra parte; non appena lasci un
corpo, ne acquisti subito un altro,
senza alcuna soluzione di continuità.
La morte che si sperimenta alla
presenza di un maestro, invece, è la
vera morte, il vero suicidio; l’ego
scompare per sempre: questo è il
significato dell’abbandono, ma non
è facile! Un discepolo appena
arrivato che va a inchinarsi davanti
al maestro compie un gesto fasullo:
anche se dichiara di essere alla sua
mercé, si tratta solo di parole vane…

Dopo un’ora di lezione sul dovere di
difendere il re e la patria, e di
mettere il bene degli altri davanti al
proprio, il capitano del corpo di
addestramento puntò il dito verso
una delle reclute e disse: «Tu! Sì,
dico proprio a te! Perché un soldato
dovrebbe essere pronto a morire per
il proprio Paese?».
Il ragazzo si grattò il capo per un
attimo, poi sorrise e rispose: «In
effetti, ha ragione, signore: perché
mai dovrebbe fare una cosa
simile?».

Il solo pensiero della morte
terrorizza… Non ridere delle
persone che sono scappate di fronte
a Zusiya, perché lui era la morte. Il
maestro è la morte – questo dicono
le antiche scritture: «Il maestro è
come la morte!».
Quella gente è fuggita, mentre i
bambini, che erano innocenti, non
hanno avuto alcuna paura, perché
non sapevano cosa vuol dire
guardare negli occhi un maestro.
Le persone evitano di guardare il
maestro negli occhi e di avvicinarsi
troppo a lui, perché significa
dileguarsi, sparire, e non essere mai
più gli stessi. Ricordalo sempre…

Passiamo alla storia:

Alcune persone appartenenti a
religioni diverse fecero visita a un
maestro Sufi e gli dissero:
«Accettaci come tuoi discepoli,
perché ci siamo accorti che le nostre
religioni sono ormai prive di
qualsiasi verità, e siamo certi che
quella che insegni tu sia l’unica
vera via».

Analizziamo una per una tutte le
frasi significative:

Alcune persone appartenenti a
religioni diverse fecero visita a un
maestro Sufi.

Il compito di un insegnante, di un
maestro Sufi, non è annientare la tua
religione, ma realizzarla; se
distrugge qualcosa, significa che non
si trattava di religione – per questo
ha potuto farlo. Se si fosse trattato di
vera religione, l’avrebbe
sicuramente nutrita e valorizzata,
perché non è contrario ad alcuna via:
tutte le strade appartengono al
divino! Se il maestro incontra
qualcuno che sta seguendo un certo
cammino, gli dà tutto il suo
sostegno: non ti spinge ad
abbandonare la via che stai
seguendo, ma piuttosto la potenzia!
Il maestro Sufi non è un
missionario, e non gli importa di
convertire la gente da una religione
all’altra: gli interessa che le persone
passino dalla non religione alla
religione, e non dal cristianesimo
all’islam, dall’islam al buddhismo o
dal buddhismo all’induismo. Ai Sufi
non interessa cambiare l’identità,
l’aspetto esteriore della gente,
perché non fa poi tanta differenza.
Mi è capitato di vedere molti hindu
che sono diventati cristiani restando
assolutamente uguali: in realtà non
cambia nulla, perché il loro
condizionamento lo impedisce.
Tempo fa abitavo con un amico il
cui padre si convertì al
cristianesimo, ma la famiglia
continuò comunque a considerarsi
brahmana, e non poteva quindi avere
contatti con gli intoccabili: sono
brahmani cristiani, ma restano pur
sempre brahmani, e tutto prosegue
come prima.
Ho visto anche cristiani che sono
diventati hindu, e non fa alcuna
differenza…

Mi hanno raccontato questo
aneddoto su Mulla Nasruddin.
Era diventato ateo in età molto
avanzata, e un giorno, mentre stava
cercando di convertire qualcuno
all’ateismo, esclamò con gran
veemenza: «Non esiste alcun dio! E
Maometto è il suo unico profeta!».

È molto difficile che cambi
qualcosa: puoi anche diventare ateo,
ma se sei stato musulmano, nel
profondo continuerai a esserlo –
Maometto è l’unico profeta!

Un altro ateo, in punto di morte,
esclamò: «Grazie a dio, non esiste
alcun dio!».

È davvero molto arduo liberarsi dal
proprio condizionamento… A un
maestro Sufi non importa cambiare
le tue pratiche rituali; gli interessa
piuttosto potenziare sempre di più le
tue qualità religiose: non è una
questione di forma, ma di qualità!
Che tu vada alla moschea o al
tempio non fa alcuna differenza;
l’unica cosa importante è pregare –
dove lo fai è irrilevante.
Ricorda sempre che, per i Sufi, il
luogo in cui preghi non ha alcuna
importanza: ciò che conta davvero è
la preghiera! Non importa di fronte a
chi ti inchini: l’importante è
inchinarsi! A chi ti abbandoni non fa
differenza, ma il fatto che ti sia
abbandonato ha un valore immenso!
La cosa davvero importante e
rilevante è il tuo lasciarti andare:
l’oggetto a cui ti arrendi è soltanto
una scusa. Puoi abbandonarti a un
certo maestro, a un altro o a un altro
ancora – non fa alcuna differenza,
ma se ti sei abbandonato, significa
che hai iniziato a muoverti verso il
divino! Qualsiasi maestro andrà
bene, perché è solo una scusa: perciò
arrenditi a qualsiasi cosa desideri, a
chiunque tu voglia, e scegli pure
qualunque luogo ti sembri adatto a
farlo.
I Sufi ti aiutano ad abbandonarti e
a pregare – e non importa se lo fai in
arabo, in sanscrito o in ebraico: quel
che conta davvero è ciò che dici
quando preghi.
Mi hanno raccontato questa
storiella:

Un bimbo di cinque anni, di nome
Matt, cacciò un sonoro fischio nel
bel mezzo del sermone del
predicatore, e la nonna cominciò a
sgridarlo: «Come ti è venuto in
mente di fare una cosa simile?» gli
chiese.
«A lungo ho pregato dio che mi
insegnasse a fischiare» spiegò Matt
«e questa mattina finalmente l’ha
fatto!».

La preghiera di un bambino non può
che essere infantile: cosa potrà mai
chiedere? Domanda a dio di
insegnargli a fischiare… Ma se
osservi le preghiere delle persone e
le richieste che fanno, ti accorgerai
che sono tutte infantili.
Qualcuno prega di ottenere più
denaro… ed è precisamente come
chiedere di imparare a fischiare, in
modo che tutti possano ammirare
quanto i tuoi fischi siano sonori,
taglienti e più potenti di quelli di
chiunque altro; la funzione del
denaro è proprio questa: serve a
renderti capace di fischiare. Altre
persone pregano di diventare
presidente o primo ministro, e anche
in questo caso è come chiedere di
poter fischiare così forte da essere
uditi da tutto il Paese, dal mondo
intero.
Tutti pregano per soddisfare il
proprio ego, per diventare superiori
o più importanti, perché sono in
competizione con gli altri e
desiderano sconfiggerli. Ma come
puoi pregare se la tua mente è
occupata dalla competizione e
dall’invidia? Come puoi pregare se
il tuo cuore non è pieno d’amore?
La vera preghiera non chiede
nulla: è un ringraziamento!
Ringrazia semplicemente l’esistenza
per tutto ciò che ha già donato,
senza alcuna lamentela.
Il maestro Sufi ti offre il suo aiuto
per ciò che concerne la religione
essenziale, che è soltanto una:
induismo, cristianesimo, giainismo,
buddhismo, ebraismo sono soltanto
forme, pratiche rituali diverse – sono
linguaggi differenti, ma il messaggio
è uno solo!

Alcune persone appartenenti a
religioni diverse fecero visita a un
maestro Sufi e gli dissero:
«Accettaci come tuoi discepoli,
perché ci siamo accorti che le nostre
religioni sono ormai prive di
qualsiasi verità…».

In precedenza quella gente aveva
seguito qualche altro maestro…
Quando ti rivolgi a un maestro Sufi,
non ti accetterà così facilmente;
infatti, in passato sei stato seguace di
qualcun altro; e cos’hai combinato?
Se hai fallito con il tuo primo
maestro, succederà anche con
questo: a cosa serve cambiare? Può
darsi che per qualche giorno ti
sembrerà di vivere una sorta di
nuova luna di miele, di essere
all’inizio di un nuovo amore; ma se
la tua vecchia storia è finita, prima o
poi finirà anche questa. Magari
riuscirà a regalarti qualche brivido e
un po’ di eccitazione; forse
ricomincerai a sognare e a sperare,
ma non accadrà nulla – non a livello
essenziale, perché continuerai a
ripetere gli stessi errori che hai
commesso con i tuoi vecchi maestri.
Non succederà nulla finché non
cambi, finché non capisci che manca
qualcosa a te, non al maestro!
Finché non ti assumerai la
responsabilità dei tuoi fallimenti,
non serve a nulla essere accettato
come discepolo, e i Sufi non ti
vorranno; se invece si presenta un
discepolo che ha fatto tutto ciò che
poteva, le loro porte saranno
spalancate.

Vorrei ricordarti che Gautama il
Buddha andò da molti maestri
durante la sua ricerca – ed è così che
dovrebbe essere un discepolo! Si
arrese a molti maestri e lo fece in
modo totale, senza riserve. Seguiva
con totalità qualunque indicazione
gli desse il maestro con cui si
trovava in quel momento.
Si narra che, alla fine, tutti i
maestri gli dicessero: «Mi dispiace,
ma in realtà nemmeno io ho
conseguito l’illuminazione: faccio
solo finta, e tu hai messo a nudo il
mio imbroglio. Non posso
continuare a ingannarti: non so
assolutamente nulla! Il mio inganno
funziona perché la gente che viene
da me non segue le mie indicazioni
– non succede mai! Per questo non
sono mai stato scoperto; tu sei la
prima persona che ha messo in
pratica tutte le mie istruzioni, e ora
sono davvero dispiaciuto: scusami!
Perdonami!».
I suoi maestri gli dissero proprio
questo; in realtà non erano veri
maestri, ma la sincerità e l’onestà
del Buddha riuscirono a far provare
rimorso persino a questi
imbroglioni: lavorava così
duramente… e a volte le cose che gli
chiedevano erano davvero stupide.
Per esempio, una volta uno di loro
– un cosiddetto maestro – gli disse
di ridurre gradualmente la sua
alimentazione fino a un solo chicco
di riso. E lui fece proprio così:
divenne pelle e ossa, i suoi muscoli
scomparvero e si ridusse a uno
scheletro. Il maestro deve aver
pensato che non fosse un problema,
perché pur avendo consigliato la
stessa cosa a molta gente, nessuno
l’aveva mai fatto davvero:
quest’uomo invece era così sincero,
così assolutamente devoto, così
fiducioso… Di fronte alla vera
fiducia, anche chi se ne approfitta
non riesce più a farlo.
Si dice che quel maestro si sia
inchinato ai piedi del Buddha,
dicendogli: «Perdonami, ti prego
perdonami! Ho peccato nei tuoi
confronti e agli occhi del divino: ho
commesso un vero crimine! Non ho
mai pensato che qualcuno avrebbe
seguito i miei consigli; ho sempre
fatto richieste così strane, nella
certezza che nessuno le avrebbe mai
messe in pratica. Se nessuno fa ciò
che dici, il tuo inganno non può
essere scoperto!».
Ecco perché i tuoi cosiddetti
maestri ti chiedono l’impossibile: ti
diranno di reprimere i tuoi impulsi
sessuali e di non pensare mai a una
bella donna, neppure in sogno.
Come prima cosa ti dicono di
reprimere il desiderio sessuale; ma
se lo reprimi, i tuoi sogni ne saranno
pieni, e loro affermano che persino
sognare il sesso è un peccato, perché
ti impedirà di raggiungere il divino.
Se segui il loro consiglio, ti troverai
quindi in difficoltà, ma in realtà non
lo fa mai nessuno! Dato che non
seguono quelle indicazioni, i loro
seguaci si sentono in colpa per non
aver ascoltato il maestro, e mossi dal
senso di colpa si prostrano ai suoi
piedi e continuano a seguirlo.
Il Buddha passò da un maestro
all’altro; per sei anni girò tutto il
Paese, e ogni volta era talmente
sincero che ciascun maestro finiva
per dirgli: «Per favore, perdonami!
Continua la tua ricerca da qualche
altra parte». Continuò a cercare, e si
rivolse a numerosi maestri, ma non
li abbandonò mai prima che gli
dicessero: «È ora che tu te ne vada;
la situazione si è fatta insostenibile:
continui a seguire tutte le mie
indicazioni e non accade nulla,
perché i miei consigli sono pura
invenzione, sono solo congetture…
Io stesso non ho realizzato nulla!».
Così si comporta un vero
discepolo! E se un maestro Sufi si
trova di fronte un individuo simile,
gli darà il benvenuto, lo accetterà
con tutto il suo cuore e lo accoglierà
nel suo più intimo abbraccio!

Ma le persone della nostra storia non
erano così; dissero infatti al maestro:
«Accettaci come tuoi discepoli,
perché ci siamo accorti che le nostre
religioni sono ormai prive di
qualsiasi verità…».

Ma come puoi accorgertene? Sei
talmente cieco! Come puoi
accorgerti che la tua religione è
priva di verità? Questa affermazione
è un prodotto dell’ego. Un vero
ricercatore direbbe piuttosto: «Forse
la verità esiste, ma non riesco a
vederla perché sono cieco: aiutami
ad aprire gli occhi, aiutami a
vederla!».
Un vero ricercatore penserebbe:
«Il problema non sta nel fatto che le
religioni siano prive di verità: sono
io che non sono stato capace di
vederla – è sicuramente un mio
errore!». Si assumerebbe ogni
responsabilità, perché riversarla su
qualcun altro è un vecchio trucco
dell’ego. Fai molta attenzione,
perché l’ego non vuole mai
assumersi alcuna responsabilità;
preferisce continuare a lamentarsi
degli altri: se non riesci a realizzarti,
vuol dire che da qualche parte c’è un
errore… ma di certo non può essere
un tuo errore!
Continua a perseverare con
sincerità in qualsiasi cosa tu stia
facendo, e se alla fine ti accorgi che
non è successo nulla, pur avendo
fatto con assoluta totalità tutto ciò
che era umanamente possibile, allora
è arrivato il momento di spostarti
altrove.
I maestri Sufi accettano solo chi
decide di cambiare strada su queste
basi.

Le persone della storia invece stanno
dicendo: «Accettaci come tuoi
discepoli, perché ci siamo accorti
che le nostre religioni sono ormai
prive di qualsiasi verità, e siamo
certi…».

Solo gli sciocchi possono credere di
possedere certezze su misteri simili!
Le persone sagge avranno delle
esitazioni; la gente intelligente non
sarà così sicura… Non è possibile –
come fai a essere certo di una cosa
del genere?

Quelle persone affermano: «… e
siamo certi che quella che insegni tu
sia l’unica vera via».

Chissà a quanti altri maestri hanno
detto la stessa cosa…

Mulla Nasruddin si era innamorato
di una donna e in una notte di luna
piena, mentre erano seduti sulla
spiaggia, le disse: «Sei la donna più
bella del mondo: non è mai esistita,
né mai esisterà una donna così
bella!».
La sua amante ne fu estasiata e il
suo ego si gonfiò a dismisura;
quando Nasruddin la guardò era
come trasformata, e le disse:
«Scusami, mi dispiace. Lascia che ti
ricordi che ho detto la stessa cosa a
molte altre donne prima d’ora, e non
posso prometterti che non lo farò
più; non sei l’unica a cui ho fatto un
complimento del genere – lo faccio
con tutte: è il mio comportamento
abituale».

Le persone che stanno dicendo al
maestro: «Tu sei l’unica vera via»,
hanno certamente detto la stessa
cosa anche ad altri, perciò le loro
parole non hanno alcun valore, alcun
significato: sono trite e ritrite! Ciò
che intendono veramente è: «Siamo
così intelligenti da riuscire a vedere
dove si trova la verità, e da saper
distinguere le persone autentiche e i
maestri davvero perfetti; siamo
talmente intelligenti da essere certi
che tu sia l’unica vera via».
Le loro parole non si riferiscono
né al maestro, né alla verità, né alla
via giusta: stanno semplicemente
affermando, in modo indiretto, di
essere così intelligenti da
comprendere la vera essenza di quel
maestro Sufi.
Ma non puoi ingannare un
maestro, perché riesce a vedere al di
là di qualsiasi cosa tu dica.
Incontrare un maestro è come
trovarsi di fronte a uno specchio: è
impossibile comprarlo con una
mazzetta, perché non possiede alcun
ego – non c’è modo di lusingarlo!
Ebbene, quelle persone pensavano
di fargli un enorme complimento: è
quasi come dire a una donna che è la
più bella del mondo – dire a un
insegnante di religione: «Sei l’unica
vera via» è quasi la stessa cosa. È
ciò a cui anelano tutti i cosiddetti
maestri: non vedono l’ora che
qualcuno dica loro quelle parole!
Perciò, se quello fosse stato un falso
maestro, avrebbe apprezzato molto
quel complimento e avrebbe detto
agli altri suoi discepoli: «Guardate!
Questa è la gente che stavo
aspettando! Queste sono persone che
mi capiscono!».
Ma un vero maestro è privo di
ego; il suo io si è dissolto – i Sufi
chiamano questo fenomeno fana –
ed è del tutto scomparso. In realtà, la
vera essenza del maestro è
un’assenza, un vuoto che riflette i
suoi discepoli: non c’è modo di
lusingare il suo ego, semplicemente
perché non esiste!

Il maestro rispose: «Non avete mai
sentito la storia del khan dei
mongoli Halaku e di come invase la
Siria? Lasciate che ve la racconti:
Il visir del califfo Mustazim di
Baghdad, di nome Ahmad, invitò i
mongoli a invadere i domini del suo
signore, e dopo che Halaku ebbe
vinto la battaglia per Baghdad, il
visir gli andò incontro per reclamare
la propria ricompensa.
“Sei venuto per la tua
ricompensa?” chiese Halaku.
“Sì!” rispose Ahmad.
“Hai tradito il tuo padrone per
me” osservò Halaku “e ora ti
aspetti che io creda che mi sarai
fedele?” e ordinò che Ahmad
venisse impiccato.

È davvero strano raccontare una
storia simile a una persona che ti ha
appena detto che sei un vero maestro
e che la tua è l’unica vera via! Ma
un maestro ha il dovere di dire la
verità pura e semplice; ha il compito
di essere assolutamente onesto, e
non può permettersi di essere
cortese. Se la verità è scomoda, che
lo sia; se ferisce, pazienza – ma il
maestro deve dire le cose come
stanno!
Quel maestro Sufi sta dicendo:
«Avete tradito il vostro vecchio
maestro e siete venuti da me: come
posso fidarmi di voi? Come posso
essere sicuro che non tradirete anche
me? Non avete seguito le indicazioni
dei vostri maestri, perché vedo che
vi trascinate dietro una montagna di
spazzatura; se aveste seguito
qualsiasi maestro, vi sareste liberati
di questo peso, e invece posso
osservare chiaramente tutto il
ciarpame della vostra conoscenza.
Se aveste seguito davvero un
maestro, la prima cosa da fare
sarebbe stata abbandonare ogni
sapere; invece vi trascinate dietro
una montagna di false conoscenze,
in base alle quali credete di poter
giudicare ciò che è vero e ciò che
non lo è, quale religione occorre
seguire e quale evitare, quale
sentiero è giusto o sbagliato. Ma è
così solo in base alle vostre
conoscenze – e sono delle tali
stronzate!
Come posso credere che abbiate
seguito un maestro e che siate stati
discepoli di qualcuno? Una cosa è
certa: non siete mai stati veri
discepoli! Che si trattasse di veri
maestri o no non è affar vostro;
l’unica cosa certa – e questa sì che
vi riguarda – è che non siete mai
diventati discepoli, e farete lo stesso
con me. Come posso accettarvi?
Perché mai dovrei farlo? Solo
perché possiate tradire anche me?».
Ti racconterò una storia Sufi:

Un uomo era così innamorato di una
donna che era pronto a fare qualsiasi
cosa. Quella donna chiedeva cose
sempre più esorbitanti, e alla fine gli
disse: «C’è un’ultima condizione da
soddisfare, dopodiché sarò tua. Sei
troppo attaccato a tua madre e, se
non la uccidi, e non mi porti in dono
il suo cuore su un vassoio, non
posso concedermi a te: questa è la
mia ultima richiesta!».
Quell’uomo aveva soddisfatto
davvero molte condizioni, così corse
a casa, uccise la madre e le strappò il
cuore. Mentre stava tornando
indietro, andava così di fretta ed era
talmente accecato dalla passione,
che inciampò; il vassoio cadde
fracassandosi, e con lui anche il
cuore si ruppe in mille pezzi, ma da
tutti quei frammenti si levò un’unica
voce: «Figliolo, fai più attenzione a
dove metti i piedi!».
L’uomo si mise a raccogliere i
frantumi: non aveva proprio alcuna
voglia di stare ad ascoltarli, per cui
li raccolse e si precipitò dalla sua
amata, per offrirle il cuore della
madre.
La donna lo guardò esterrefatta e
disse: «Questo è davvero troppo! Se
sei addirittura capace di uccidere tua
madre, non posso fidarmi di te!
Potresti uccidere anche me per
un’altra donna: sei un uomo davvero
pericoloso! Fuori da casa mia – e
non farti mai più rivedere! La nostra
relazione è finita: se avessi detto di
no, sarei stata tua, ma hai fallito!».

Si tratta della stessa storia: ha lo
stesso sapore, lo stesso significato e
lo stesso messaggio della storia Sufi
che sto commentando. Se sei capace
di tradire e condannare i tuoi vecchi
maestri con tanta facilità, come può
il maestro Sufi fidarsi di te? Farai di
certo la stessa cosa con lui!
Capisci qual è il punto? Se è così
facile convertire al cristianesimo un
hindu, significa che il missionario
cristiano sta semplicemente
ingannando se stesso: com’è
possibile, infatti, che quell’uomo
diventi un buon cristiano, se non era
un vero hindu ed è stato addirittura
capace di tradire la sua fede? Fra un
finto cristiano e un finto hindu non
c’è alcuna differenza! Una
differenza esiste solo tra un vero
cristiano e un vero hindu.
La verità è una sola, e la strada è
unica: non appartiene a nessuno –
non è proprietà di nessuno! Non
esiste un mio sentiero, un sentiero
del Buddha, uno di Krishna e uno di
Zarathustra: esiste semplicemente
una via. Il Buddha, Zarathustra e
Lao-tzu hanno tutti percorso quella
strada, ma ne esiste soltanto una –
non ci sono vie differenti! Molte
persone camminano su quel sentiero,
ma è soltanto uno, ed è così ampio
che forse quegli individui non si
incontreranno neppure!

Le parole del maestro Sufi sono
molto importanti e vanno comprese
a fondo: «Avete tradito i vostri
maestri» dice «e siete capaci di
tradire anche me, perciò non voglio
avere nulla a che fare con gente
come voi: andatevene!».
E poi racconta questa storia:

Il visir del califfo Mustazim di
Baghdad, di nome Ahmad, invitò i
mongoli a invadere i domini del suo
signore…

Quell’uomo ha tradito il suo padrone
e adesso vuol essere ricompensato!
Halaku Khan ha fatto la cosa giusta
– questa è la sua ricompensa: … e
ordinò che venisse impiccato.

Halaku Khan avrà pensato: «Non ci
si può assolutamente fidare di
quest’uomo: ha tradito il suo
padrone, che ha riposto la sua
fiducia in lui per chissà quanti anni!
Come si fa a fidarsi di lui? Non
posso lasciarlo andare, è pericoloso:
potrebbe fare la stessa cosa con me,
e sarebbe persino più facile, perché
io sono uno straniero. Non è stato
sincero nemmeno con il suo
padrone, che non era certo un
forestiero: il califfo gli ha concesso
di avvicinarsi così tanto da
permettergli di tradirlo e di aiutarmi
a distruggerlo! E adesso quest’uomo
vorrebbe una ricompensa? Ma è un
traditore!».

Il Sufi prosegue affermando: «Prima
di chiedere a qualcuno di accettarvi,
domandatevi se lo desiderate solo
perché non avete seguito la via
indicata dal vostro maestro; se
appurate che non è così, allora
tornate pure a chiedere di diventare
miei discepoli».

Non dice che non accetterà queste
persone, ma pone una semplice
condizione, chiedendo loro: «Avete
seguito le indicazioni del vostro
vecchio maestro? Avete fatto ciò che
vi ha detto? Avete, in qualche modo,
messo in pratica i suoi consigli? Se
l’avete fatto, se davvero è così, se
siete assolutamente certi di averci
provato senza successo, di non aver
ottenuto nulla pur avendo fatto tutto
il possibile, di averci messo tutti voi
stessi, senza riserve, senza cercare di
usare astuzie e sotterfugi, se siete
certi di non essere stati semplici
spettatori ma di essere entrati in
contatto con l’essenza del maestro,
se siete davvero sicuri di tutto
questo, e siete soddisfatti di voi in
quanto discepoli, allora tornate da
me e vi accetterò».
Questa è una cosa davvero
importante: ai giorni nostri accade
molto spesso che le persone
continuino a passare da un maestro
all’altro, bussando a tutte le porte,
come detriti trasportati dalla
corrente; ma non bussano mai
abbastanza a lungo, perciò la porta
non si apre mai. La gente non ha
pazienza, e non fa nulla: si limita
semplicemente a correre di qua e di
là – come se qualcun altro potesse
darle la verità.
La verità non può essere donata,
non può essere trasferita da una
persona all’altra: bisogna
guadagnarsela; devi fare in modo
che cresca dentro di te, deve nascere
dal tuo essere e devi diventare il suo
grembo! È una cosa viva, e devi
quindi riempirla con la tua energia
vitale, devi rinvigorirla con il tuo
essere – devi crearla! Il divino non è
qualcuno che se ne sta seduto da
qualche parte in attesa che tu lo
scopra: dev’essere creato!
Chi cerca il divino pensando che
sia nascosto da qualche parte, e sia
possibile scoprirlo mettendosi
semplicemente alla sua ricerca, sta
sprecando tempo, perché non basta
cercarlo: bisogna anche crearlo! Il
divino è continuamente ricreato da
ogni cuore in preghiera: è una tua
creazione, eppure la gente continua
a pensare che sia una sorta di merce
da acquistare.

Un re giunse da Mahavira; era un
sovrano davvero molto noto a quel
tempo; si chiamava Prasenajit, e
stava andando a far visita a molti
maestri: era stato dal Buddha, da
Ajita Kesakambali, da Prabuddha
Katyayana, da Makkhali Gosala, da
Sanjay Velatthiputta e da molti altri.
Quando infine giunse da Mahavira
gli chiese: «Dammi ciò che chiami
meditazione – vendimelo, Mahavira!
Sono pronto a pagare qualsiasi
prezzo per averlo!».
Tutto ciò che sanno fare gli
uomini di mondo è comprare le
cose, perché pensano che tutto possa
essere acquistato: se si innamorano
di una donna, la comprano – e in
questo modo la perdono, perché
l’amore non si può acquistare. Puoi
comprare il corpo, ma non l’anima:
l’amore va guadagnato – devi
diventare degno di lui!
Ebbene, quest’uomo si presentò
da Mahavira per fargli questa
richiesta sciocca; il maestro
probabilmente scoppiò a ridere, e
poi gli disse: «Ascolta, perché ti sei
preso il disturbo di fare tanta strada
e di attraversare la foresta? Nella tua
capitale vive un uomo molto povero
che è un mio discepolo, e sarebbe
molto felice di venderti la sua
meditazione; è talmente povero: vai
da lui! Io non ho bisogno di ciò che
puoi darmi, perciò non ho alcuna
voglia di venderti la mia
realizzazione; prova a comprarla da
un povero: magari lui sarà disposto a
vendertela».
Naturalmente era uno scherzo, ma
Prasenajit salì sul suo carro in tutta
fretta, e si recò alla capanna di quel
poveraccio. Era una baracca
talmente malridotta che il re pensò:
«Quest’uomo me la venderà di
certo! Sarà disposto a vendere
persino se stesso, figuriamoci la
meditazione!».
Il discepolo uscì dalla capanna ed
era davvero molto povero; in pratica
era nudo, ma estremamente
affascinante e colmo di grazia: si
vedeva chiaramente che dal suo
essere emanava una luce
straordinaria. Prasenajit allora
pensò: «Mahavira ha proprio
ragione: quest’uomo si è realizzato!
Guarda che volto luminoso!».
Quindi gli disse: «Dimmi
semplicemente ciò che vuoi: sono
venuto per comprare la tua
meditazione – il tuo samadhi – e in
cambio sono pronto a darti qualsiasi
cosa tu voglia!».
L’uomo esitò, perché non sapeva
come rispondere a un re, e
quest’ultimo ovviamente pensò:
«Forse non sa decidersi sul
prezzo!».
«Non ti preoccupare» lo rassicurò
quindi «puoi chiedere qualunque
cifra!».
«Ma non è una questione di
prezzo…» rispose l’uomo.
«Non ti fare alcun problema»
continuò Prasenajit «posso darti
anche tutto il mio regno, perché
quando decido di comprare una
cosa, vado sempre fino in fondo.
Dimmi semplicemente ciò che
vuoi!»
«Mi dispiace dovervelo dire»
iniziò l’uomo «e non vorrei dirvi di
no, maestà; ma ciò che mi state
chiedendo è assurdo. Non posso
vendervelo, perché non è un oggetto.
Non si tratta di un bene materiale,
ma di qualcosa che mi è accaduto.
Mahavira deve essersi preso gioco di
voi: tornate dal maestro! Vi ha
mandato qui solo perché vi rendeste
conto che, anche se siete disposto a
cedere il vostro regno a un
mendicante, lui non può vendervi la
sua meditazione o il suo samadhi.
Non c’è modo di acquistarlo, perché
è inestimabile, e non ha niente a che
vedere con una merce!».

Eppure la gente continua a credere
che il divino, il samadhi,
l’illuminazione siano merci: «Devi
darcele!» continua a ripetere… Ma
non funziona così! Sei tu che devi
diventare queste cose: devi
trasformarti – e ciò può avvenire
solo con il tuo impegno personale. Il
maestro può mostrarti la via, ma sei
tu che devi percorrerla!

Il maestro Sufi dice: «Prima di
chiedere a qualcuno di accettarvi,
domandatevi se lo desiderate solo
perché non avete seguito la via
indicata dal vostro maestro…».

Forse hai fallito, ma non sei disposto
ad ammettere di non essere un vero
discepolo.
Non sei riuscito a diventare un
discepolo, eppure sei convinto di
non aver incontrato il maestro
giusto; invece di dire: «Non ho
seguito la via che mi ha indicato!»,
affermi che il sentiero è sbagliato e
privo di verità.

«Se appurate che non è così…».

Il maestro sta dicendo che puoi
rivolgerti a lui solo se hai fatto tutto
ciò che potevi, se non ti è davvero
possibile fare di più, e nonostante
questo non ti è accaduto nulla – ma
devi essere certo che sia proprio
così.
Questa è una cosa che ogni
discepolo, ogni ricercatore deve
comprendere. Ti trovi qui accanto a
me, ma se non riesci a entrare nello
spazio che ti rendo accessibile,
prima o poi inizierai a pensare:
«Non sta accadendo nulla: cosa ci
faccio qui? Dovrei provare a bussare
a un’altra porta; dovrei andare a
elemosinare gli insegnamenti di
qualche altro maestro: forse farei
meglio ad andare a imparare da
qualche altra parte!».
Eppure quello spazio è accessibile
– la porta è aperta! Sei tu che rifiuti
di entrare e rimani fuori ad
aspettare: continui a fingere in mille
modi che ti stai muovendo, in realtà
non ti sposti affatto.
Puoi entrare in quello spazio solo
se il tuo stare accanto a me è
davvero totale: se anche solo una
minuscola parte di te non è con me,
è impossibile varcare quella soglia;
devi muoverti come un tutto
assolutamente integro e organico:
non puoi lasciar fuori la mano
sinistra – nessuna parte di te può
rimanere esclusa! Dovrai entrare in
modo totale: solo così riuscirai a
muoverti. Ricordalo bene: non è
possibile entrare in quello spazio in
modo parziale!
Le persone che stanno accanto a
me con totalità hanno iniziato a
muoversi, e ci riuscirà chiunque
decida di fare altrettanto. Ma molta
altra gente mi seguirà solo
parzialmente, ci metterà solo un
pezzetto di sé, cercando di decidere
se vale la pena di correre il rischio,
continuando ad aspettare e
soppesando la cosa. Se stai facendo i
tuoi conti, non sei un discepolo; e
non lo sei neppure se stai cercando
di capire – perché non si tratta di
“capire”. È una cosa talmente
immensa che non puoi capirla; è
così enorme che non puoi
soppesarla; è qualcosa di molto più
grande di te, che non puoi tenere in
pugno: devi essere pronto a sparire,
a svanire… devi morire – solo così
potrai rinascere!
Il discepolo deve diventare come
la fenice, il famoso uccello
mitologico: deve dissolversi nel
fuoco e rinascere dalle ceneri!
Solo chi è pronto a farlo, chi è in
grado di correre il rischio ed è
abbastanza coraggioso riuscirà a
realizzarsi, mentre gli altri
inizieranno a pensare: «Forse questa
non è la porta giusta; forse non è la
via giusta; forse non è il maestro
giusto… Dovrei provare ad andare
in qualche altro posto: perché sto
sprecando il mio tempo qui?». E
ovunque andrai, succederà la stessa
cosa: andrai avanti così, vita dopo
vita, continuando a vagare da un
luogo all’altro, senza arrivare mai da
nessuna parte.
È ciò che hai fatto nelle tue
esistenze passate, perché non sei
nato dal nulla in questa vita: nessuno
di noi è un essere nuovo di zecca!
Ogni essere umano ha una storia
antichissima: esisti da sempre e sei
stato qui fin dall’inizio dei tempi. So
che fra la mia gente ci sono persone
che sono state accanto al Buddha,
altre sono state con Rumi, e altre
ancora hanno seguito Gesù: ma tutte
hanno fallito. Non si tratta di
un’avventura completamente nuova;
non è la prima volta che ti trovi
accanto a un maestro: è successo
molte altre volte, ma hai sempre
fallito, condannando il maestro
invece di mettere in discussione te
stesso.
Le persone calcolatrici sono
sempre disposte a sentir parlare della
verità, purché si tratti di un discorso
astratto; il problema nasce quando si
comincia a entrare nei dettagli,
quando sono costrette a fare
qualcosa, e la verità diventa una
realtà tangibile.
Una famosa affermazione di
Wittgenstein recita: «Non
preoccuparti del significato delle
parole: preoccupati di come
usarle!». Allo stesso modo, migliaia
di anni prima, Lao-tzu disse: «Il
significato risiede nell’uso: l’uso è il
vero significato! Se cerchi il
significato di una cosa, non riesci a
vederlo; se cerchi di ascoltarlo, non
riesci a sentirlo… se però la usi,
diventa inesauribile!».
Il maestro deve fornirti una
disciplina, non una dottrina: la
dottrina è qualcosa di astratto che
concerne il divino, mentre la
disciplina riguarda te, non il divino!
Il compito del maestro non è
filosofeggiare, visto che abbiamo già
molta più filosofia di quanto sia
necessario: ce n’è già fin troppa… Il
maestro deve aiutarti a camminare!
Stai zoppicando e lui è qui per
guarirti, per curare la tua malattia, la
tua cecità, la tua paralisi: è un
medico, non un filosofo!
Eppure le persone sono sempre
disponibili a sentir parlare di realtà
astratte, perché non toccano mai la
loro vita da vicino…
Mi hanno raccontato questa storia,
che proviene dal cuore della Cina:

Nella chiesetta di un remoto
villaggio, la gente andò a lamentarsi
con il pastore perché la moglie del
diacono rubava le galline ai vicini.
«Deve fare qualcosa!» gli dissero.
«Va bene» ripose il pastore «lo
farò».
Quella domenica, durante la
predica, parlò del comandamento
che ordina di non rubare, e alla fine
della funzione il diacono andò a
complimentarsi con lui per
l’eccellente sermone.
Nel giro di tre o quattro giorni,
però, la gente tornò a lamentarsi: «Il
sermone non è servito a niente!
Quella donna continua a rubare!».
Così la domenica seguente il
pastore entrò più nello specifico,
dicendo: «Non bisogna rubare i beni
dei propri vicini!».
Al termine della messa, il diacono
andò a stringergli la mano
esclamando: «Questo sermone è
ancora meglio dell’altro! Fate
davvero bene a parlare di fatti ben
precisi!».
Ma nel corso della settimana
successiva, la gente si lagnò
nuovamente del fatto che non era
servito a nulla e che quella donna
continuava a rubare.
A quel punto il pastore prese il
coraggio a due mani e dichiarò:
«Non bisogna rubare le galline ai
vicini!».
Questa volta il diacono gli disse:
«Vi do un consiglio: non dovreste
scendere in dettagli troppo specifici
quando parlate dal pulpito!».

Quando si comincia a entrare nei
dettagli, parlando dei fatti concreti
della tua vita, smetti di ascoltare. Se
si discute di argomenti astratti, come
il paradiso, dio, il nirvana, sei
tutt’orecchi, perché non ti toccano
davvero; si tratta solo di filosofie
affascinanti, e non hai nulla da
perdere: al massimo accumulerai un
altro po’ di cultura… Ma quando si
comincia a parlare di non rubare le
galline ai vicini, la cosa ti tocca
davvero, per cui ti metti sulla
difensiva e smetti di ascoltare.
Ricorda che il maestro non deve
instillarti verità astratte, ma darti
indicazioni che possano essere
messe in pratica concretamente, in
modo che diventino uno stile di vita.
Per trasformare il proprio stile di
vita occorre un gran coraggio,
enormi sforzi e moltissima
disciplina; se non riesci a farlo, non
incolpare la strada che stai
seguendo, perché in realtà non l’hai
mai intrapresa davvero.

Al salone dell’automobile, un uomo
si avvicinò al venditore che lavorava
allo stand della Rolls-Royce e gli
chiese di indicargli la strada per il
bagno. Poiché il percorso era un po’
complicato, il venditore lasciò la sua
postazione per accompagnare
quell’uomo fino alla porta dei
servizi.
Nel ringraziarlo, l’uomo gli
domandò come mai si fosse dato
tutta quella pena, e il venditore
rispose: «Perché questa è stata la
prima domanda sincera che mi sia
stata fatta in tutta la giornata!».

Se desideri davvero stare accanto a
un maestro, dovrai diventare una
domanda sincera; non devi essere
mosso dalla curiosità filosofica, ma
da un’esigenza che sia questione di
vita o di morte – da un bisogno di
ricerca che riuscirà a trasformarti e
che diverrà la tua metamorfosi.
Se volessi, potresti volare fino al
cielo, invece ti nascondi all’interno
del tuo bozzolo. Quel bozzolo
dev’essere distrutto – e fa male! È
doloroso perché sei convinto che
quegli strati di bambagia siano la tua
difesa, la tua protezione: credi che
siano la tua casa, quando in realtà
sono le sbarre della tua prigione!
Il compito del maestro è
distruggere quelle sbarre per liberare
il prigioniero; purtroppo però il
prigioniero si è identificato a tal
punto con la sua cella, che si è
messo addirittura a decorarla…
Forse ha persino appeso al muro
l’immagine del maestro; magari lo
venera anche, ma sempre
dall’interno della sua cella – non lo
ascolta quando gli dice che bisogna
spezzare le sbarre della prigione…
Ma se non distruggi la tua prigione,
se non collabori con il maestro nella
sua opera di distruzione, non sarai
mai libero!
Essere libero è l’unico modo che
hai per conoscere la verità: la libertà
è la verità.
La libertà è il divino, il nirvana!
Capitolo 6

SOLO L’INNOCENZA
PUÒ AVERE SUCCESSO




La prima domanda:
Osho, che relazione c’è fra il mondo
dell’esperienza interiore e la realtà
esterna?

La seconda domanda:
Osho, mi sono innamorato della
moglie di un mio amico, il quale a
sua volta si è innamorato di mia
moglie – non è un po’ strano?

La terza domanda:
Osho, la religione ebraica, come lo
Zen, è esclusivamente basata su ciò
che è privo di forma, e vieta di
venerare qualsiasi cosa ne possegga
una. Tuttavia, nel corso degli ultimi
otto anni che ho trascorso in India,
ho preso le distanze da quest’idea, e
mi sono profondamente innamorata
non soltanto della tua forma, ma
anche della religione hindu, della
moltitudine delle sue figure
mitologiche e delle loro storie –
parlo di Rama, Krishna, Shiva… Mi
piace decorare la mia stanza con le
tue fotografie e con le immagini di
tutte queste creature, immergendomi
nella sensazione di essere
circondata da un mondo mitologico
di divinità hindu – anche se a livello
intellettuale so bene che si tratta
solo di un’illusione.
Amo anche le forme che in India
assumono gli alberi, il cielo, la
natura e persino le persone, sia nel
loro complesso che come individui.
Qui in India, in quest’immensa e
palpitante danza di gioia, mi sento
viva come non mi è mai accaduto
quando stavo in Occidente.
La mia mente è consapevole della
verità del concetto di assenza di
forma e dell’idea di “uccidere il
Buddha”, ma il mio cuore è
completamente immerso nell’amore
e nell’adorazione della forma. Ho
persino smesso di desiderare
l’illuminazione, e in questa vita
preferirei continuare ad amare il
Buddha piuttosto che diventare
come lui. Significa forse che mi sono
bloccata da qualche parte, e avrei
bisogno che tu diventassi il mio
Totapuri per conficcarmi una
scheggia in mezzo alla fronte,
oppure posso continuare a vivere in
questo mio mondo fatto di estasi
palpitante?

La quarta domanda:
Osho, per favore, dimmi: ci siamo
forse già incontrati in una vita
passata?

La quinta domanda:
Osho, perché gli psicoterapeuti sono
chiamati strizzacervelli?

La sesta domanda:
Osho, i problemi esistono davvero, o
sono solo scherzi della mente? La
consapevolezza fa sparire i problemi
o è invece possibile che induca a
reprimerli? Quando mi sento un po’
più centrata e consapevole del
solito, non percepisco più alcun
problema, ma quando perdo la
centratura, i vecchi problemi
tornano a galla, e sembrano persino
più grandi di prima: si tratta forse
di una forma di repressione?

La settima domanda:
Osho, qual è il senso di ogni cosa?
Osho, che relazione c’è fra il mondo
dell’esperienza interiore e la realtà
esterna?

Non esistono due realtà distinte:
qualsiasi dualismo è solo una
razionalizzazione. La realtà è unica:
è la mente che la suddivide in alto e
basso, buono e cattivo, interno ed
esterno, paradiso e inferno… Queste
antitesi sono costruzioni della
mente, ma la realtà rimane indivisa:
è un tutt’uno! Non si può stabilire
dove inizia il dentro o il fuori; non è
possibile tracciare una linea di
demarcazione, perché l’interno è al
tempo stesso esterno, e viceversa:
sono una cosa sola, assolutamente –
e rendersi conto di questo significa
liberarsi da ogni forma di scissione e
di schizofrenia.
Ai fini dell’attività intellettuale,
creare queste divisioni può essere
utile: suddividere in categorie aiuta
infatti a capire le cose, ma per
comprendere davvero la realtà,
bisogna abbandonare tutte le
distinzioni e i concetti creati dalla
mente, perché sono limitanti. Poiché
è impossibile definire ciò che non ha
limiti, per riuscire a identificare un
oggetto, si devono per forza creare
confini; bisogna necessariamente
dividere e separare la realtà in
porzioni distinte, perché solo le parti
possono essere definite. Ma il Tutto
è indefinibile, e nel momento stesso
in cui lo suddividi in parti, cessa di
essere reale – la totalità resta sempre
un Tutto!
Ascolta queste parole di Lao-tzu:

Il grande Tao fluisce ovunque,
tanto a destra, quanto a sinistra.
Tutte le cose esistono affidandosi a
lui,
che non le abbandona mai.
La sua opera si compie
senza chiedere nulla in cambio.
Ama e nutre tutte le cose,
ma non ne diventa il padrone.

Il Tao continua a fluire
ininterrottamente – è sempre
accessibile sia da destra che da
sinistra, sia per il santo che per il
peccatore. Si riversa su tutte le cose,
senza fare distinzioni fra alto e
basso, o fra chi è stato accettato e
prescelto, e chi è stato rifiutato e
condannato.

Il grande Tao fluisce ovunque…
Non conosce confini, e si muove
senza sosta da una polarità all’altra:
da maschile a femminile, da yin a
yang… lo yin diventa
continuamente yang, e lo yang si
tramuta costantemente in yin.
In certi momenti… non ti è mai
capitato di sperimentarlo su te
stesso? Anche se sei un uomo, a
volte non lo sei affatto e ti senti
femminile, e se invece sei una
donna, talvolta assumi qualità
maschili. Il Tao fluisce senza sosta:
nulla può arrestarlo! In ogni
coscienza maschile ci sono istanti di
femminilità, così come all’interno di
ogni coscienza femminile sono
presenti momenti maschili: il
maschile e il femminile sono una
cosa sola, indivisa – sono due facce
della stessa medaglia.

Il grande Tao fluisce ovunque,
tanto a destra, quanto a sinistra.
Tutte le cose esistono affidandosi a
lui…

È come un oceano invisibile di
energia, di consapevolezza, di
beatitudine – è satcitananda; il Tao
è verità, consapevolezza ed estasi,
ma anche queste tre parole non sono
tre cose distinte.
L’idea della trinità del
cristianesimo è affascinante, ma non
esistono tre diverse divinità: ce n’è
una soltanto, che assume tre aspetti
diversi. L’idea della trimurti hindu è
ancora più bella: un dio con tre
volti… e in effetti il divino possiede
tanti volti quanti sono gli esseri
umani.
Divino significa totalità – e dove
lo collocheresti, dunque: nella realtà
esterna o in quella interna? Quando
sei innamorato, la persona amata
diventa parte della tua realtà
interiore: ma allora è ancora
possibile affermare che si trova
all’esterno rispetto a te? E tu sei
davvero un’entità che risiede fuori
da lei? Tutte queste categorie
obsolete iniziano a dileguarsi,
perché il bello dell’amore consiste
proprio nel renderti consapevole
dell’unità invisibile di tutte le cose!

La sua opera si compie
senza chiedere nulla in cambio.

L’esistenza – il Tao – agisce in modo
silenzioso… e non chiede nulla in
cambio!

Ama e nutre tutte le cose – senza
alcuna distinzione –, ma non ne
diventa il padrone.
Un’altra qualità straordinaria del
Tao – del divino nella sua forma più
autentica – è che non è mai
autoritario. Quando il tuo dio
diventa dispotico, significa che il tuo
ego è penetrato dentro di lui e l’ha
distorto; molte false divinità sono
nate proprio in questo modo: la tua
mente le ha corrotte, e introducendo
nel concetto di divino tutte le tue
assurdità, ne hai inquinato l’idea
stessa.

Ama e nutre tutte le cose,
ma non ne diventa il padrone.

Il Tao è assolutamente disponibile,
ma mai coercitivo: i taoisti, infatti,
non parlano mai di obbedienza, ma
solo di essere in armonia con il Tao.
L’interno e l’esterno sono in
sintonia, in perfetta armonia, come
due note che appartengono alla
stessa melodia, come due strumenti
della stessa orchestra – in sintonia
assoluta: la via del Tao consiste
nell’essere in armonia.
Quando ci si risveglia al Reale,
non si realizza tanto che non
bisognerebbe ribellarsi al Tao o
all’esistenza, quanto piuttosto che
semplicemente non è possibile!
Nonostante ciò che continui a
credere, non puoi fare in altro modo:
anche se pensi a te stesso come a un
individuo, non lo sei, perché non sei
separato dal Tutto; si tratta soltanto
di una tua idea, di una tua
convinzione personale, che però non
corrisponde ad alcuna realtà, e ti
renderà quindi infelice.
La convinzione che esistano una
realtà interna e una esterna ha
causato molta infelicità agli esseri
umani, perché, a seguito di
quest’assunto, la gente ha iniziato ad
abbandonare la parte esteriore: così
è nata l’idea della rinuncia, che ti
spinge a rifiutare l’esterno per
identificarti con l’interno – ma
com’è possibile fare una cosa
simile?
La mela che si trova sull’albero è
una realtà esterna – se però la
mangi, diventa interna, perché si
trasforma nel tuo sangue, nelle tue
ossa, nel tuo midollo: e qual è il
momento in cui diventa parte di te?
In che modo accade questa
trasformazione? Un giorno, inoltre,
morirai, e tutto ciò che era dentro di
te diverrà nuovamente esterno:
ritornerà a far parte della Terra,
andando a nutrire i meli, che
produrranno altre mele…
Inspirando, l’aria entra dentro di
te, ma poi devi espirare: e qual è il
momento in cui il respiro diventa
una realtà interna? Osserva ciò che
accade – il Buddha dice proprio
questo: osserva il tuo respiro, e
diventa cosciente dell’istante in cui
l’aria entra dentro di te e del
momento in cui esce di nuovo. Se
osservi semplicemente il tuo respiro,
tutte le distinzioni spariranno,
perché ti accorgerai che si tratta di
un unico movimento circolare, in cui
l’interno diventa esterno e viceversa.
Se riesci a osservare questa
trasformazione nel tuo ciclo di
respirazione, avrai risolto un
problema enorme, e si dissolverà
una grande dicotomia: non sarai più
un corpo o un’anima – a quel punto
smetterai di usare queste parole,
perché sono infantili. Saranno
magari anche utili, ma sono prive di
realtà e di verità: sono
semplicemente termini pratici,
funzionali.

Mi domandi che relazione c’è fra il
mondo dell’esperienza interiore e la
realtà esterna: non c’è alcuna
relazione, perché non sono due cose
distinte – sono un tutt’uno!
Questa domanda diventa molto
spesso un grande problema, ma è
intrinsecamente sbagliata, e lo sono
quindi anche tutte le risposte che
sono state date: se cominci con una
domanda sbagliata, infatti, giungerai
sempre a conclusioni errate.
Da almeno cinquemila anni gli
esseri umani si scervellano sul
problema del nesso fra corpo e
mente, chiedendosi che relazione ci
sia fra loro. Ebbene, in primo luogo
hai creato una distinzione che è di
per sé falsa; non c’è alcun corpo
separato dalla mente: esiste solo il
corpomente, che è un’entità unica!
La mente è solo un modo di
guardare il corpo, e allo stesso modo
il corpo è un modo di vedere la
mente: si tratta della stessa realtà
osservata da punti di vista differenti.
Non sono due oggetti distinti, ma se
sei convinto che siano due realtà
separate, diverrà inevitabile porsi il
problema della loro relazione.
Osserva, per esempio, un
fenomeno molto semplice: pensa di
alzare una mano – come fai a
produrre questo movimento
semplicissimo? Sollevare una mano
è davvero una cosa da nulla, ma
come funziona? I filosofi si sono
scervellati senza mai riuscire a
trovare una risposta, e non hanno
mai saputo dare una spiegazione
proprio a causa della dicotomia fra
esterno e interno: il pensiero si trova
infatti nella tua mente, ma a
sollevarsi è una parte del tuo corpo –
e come può il corpo seguire un
ordine della mente? La mente è
invisibile, immateriale, mentre il
corpo è concreto e tangibile: come
può la materia seguire la mente?
Che legame c’è fra loro? In che
modo un’idea mentale può tradursi
nel linguaggio del corpo? Che
corrispondenza c’è fra le due cose?
Ebbene, dal mio punto di vista, è il
problema stesso a essere sbagliato,
perché dentro di te non esistono due
entità separate: sono un tutt’uno! Ed
ecco che il problema scompare!

Mi domandi che relazione c’è fra il
mondo dell’esperienza interiore e la
realtà esterna: ebbene, non ci sono
due realtà distinte; non esistono una
realtà interna e una esterna, e non
c’è quindi alcuna relazione, perché
sono una cosa sola.
Come fanno due amanti a
relazionarsi tra loro? Se si amano
davvero, non entrano in relazione,
sono semplicemente una cosa sola:
grazie all’amore, scoprono l’unità.
Se non si amano, costruiscono un
rapporto; ma in quel caso non si crea
poi una grande relazione: si tratta
piuttosto di un conflitto – diventa
più una specie di lotta che un essere
insieme.
Quando invece accade l’amore,
diventa subito chiaro che non esiste
alcuna divisione, e i due amanti
cominciano a vivere in armonia. E
quella sintonia non viene imposta
dall’esterno, si crea spontaneamente,
senza sforzo, senza bisogno di
coltivarla, senza alcuna condizione;
semplicemente accade… così, come
gli alberi crescono, gli uccelli
volano, e i fiori fioriscono… proprio
così: è una cosa naturale!
L’interno e l’esterno sono in
assoluta armonia, e fra loro non
esiste alcuna divisione; è stato
l’uomo a creare la distinzione,
producendo così innumerevoli
preoccupazioni. Lascia cadere
questa divisione e non
preoccupartene più.
Abbandonando le dualità, si
diventa religiosi! Non pensare a te
stesso come se fossi separato dal
mondo! Per questo i maestri Zen
affermano che il mondo è il nirvana,
e che non esiste nessun’altra
illuminazione. Per questa ragione
l’altro giorno ti ho parlato di Zorba
il Buddha: Zorba è estroverso,
mentre il Buddha è introverso;
Zorba non ha idea di chi sia, mentre
il Buddha ha rinunciato al mondo
per potersi concentrare interamente
su questa domanda; tutta la sua
consapevolezza è diretta verso
l’interno; a Zorba invece piacciono
le donne, il vino, la danza e il canto,
perché tutta la sua energia è diretta
verso l’esterno.
Dal mio punto di vista, il maestro
perfetto è privo di divisioni e il suo
essere fluisce in tutte le direzioni, sia
verso l’interno che verso l’esterno;
in questo modo non esistono più
problemi: tutto è un unico fluire. E
partecipare di quest’unico fluire
significa conoscere il divino!


Osho, mi sono innamorato della
moglie di un mio amico, il quale a
sua volta si è innamorato di mia
moglie – non è un po’ strano?

Certo, è strano, ma la vita intera lo
è: accadono cose davvero bizzarre…
Comprendo il tuo problema.
Nessun marito crede mai che
qualcun altro possa innamorarsi di
sua moglie – ma naturalmente lui
può innamorarsi della moglie di un
altro senza il minimo problema…
Eppure gli pare impossibile che
qualcuno si innamori di sua moglie,
quando lui è così stufo di lei: non
riesce più a trovarla bella e vede
chiaramente tutti i suoi difetti!

Un uomo tornò a casa e trovò sua
moglie a letto con il suo socio.
Quest’ultimo era davvero
terrorizzato, perché pensava che
sarebbe scoppiata una tragedia, ma
l’uomo gli si avvicinò, gli mise una
mano sulla spalla e gli disse: «Vieni
con me nell’altra stanza: voglio dirti
due parole!».
Il socio iniziò a tremare e pensò:
«La situazione comincia a farsi
pericolosa: vorrà prendermi a botte,
o chissà che altro…».
L’uomo lo condusse nella stanza
accanto, chiuse la porta e disse:
«Spiegami un po’ una cosa: io sono
obbligato a far l’amore con lei, ma
tu perché lo fai? Cosa ti è successo:
sei forse impazzito?».

Comprendo il tuo problema: com’è
possibile che qualcuno si innamori
di tua moglie?
Lascia che ti racconti un altro
aneddoto:

Una mattina due uomini stavano
giocando a golf, ma non riuscivano a
procedere in fretta quanto avrebbero
voluto, perché due donne stavano
occupando la buca davanti a loro, ed
erano davvero molto lente.
Alla fine, esasperato, uno dei due
si diresse verso le donne, per
chiedere loro di smettere di perdere
tempo in pettegolezzi e di giocare a
golf, oppure di spostarsi in modo da
lasciar libera la buca.
Arrivato a una trentina di metri, si
fermò di colpo, si voltò e tornò di
corsa dal suo amico.
«È meglio che ci vada tu» disse
«perché una è mia moglie e l’altra è
la mia amante!».
Così il secondo uomo si
incamminò verso le donne, ma
giunto a una cinquantina di metri da
loro, anche lui si voltò e si mise a
correre nella direzione opposta.
Tornato dal suo amico, esclamò:
«Il mondo è davvero piccolo!».


Osho, la religione ebraica, come lo
Zen, è esclusivamente basata su ciò
che è privo di forma, e vieta di
venerare qualsiasi cosa ne possegga
una. Tuttavia, nel corso degli ultimi
otto anni che ho trascorso in India,
ho preso le distanze da quest’idea, e
mi sono profondamente innamorata
non soltanto della tua forma, ma
anche della religione hindu, della
moltitudine delle sue figure
mitologiche e delle loro storie –
parlo di Rama, Krishna, Shiva… Mi
piace decorare la mia stanza con le
tue fotografie e con le immagini di
tutte queste creature, immergendomi
nella sensazione di essere
circondata da un mondo mitologico
di divinità hindu – anche se a livello
intellettuale so bene che si tratta
solo di un’illusione.
Amo anche le forme che in India
assumono gli alberi, il cielo, la
natura e persino le persone, sia nel
loro complesso che come individui.
Qui in India, in quest’immensa e
palpitante danza di gioia, mi sento
viva come non mi è mai accaduto
quando stavo in Occidente.
La mia mente è consapevole della
verità del concetto di assenza di
forma e dell’idea di “uccidere il
Buddha”, ma il mio cuore è
completamente immerso nell’amore
e nell’adorazione della forma. Ho
persino smesso di desiderare
l’illuminazione, e in questa vita
preferirei continuare ad amare il
Buddha piuttosto che diventare
come lui. Significa forse che mi sono
bloccata da qualche parte, e avrei
bisogno che tu diventassi il mio
Totapuri per conficcarmi una
scheggia in mezzo alla fronte,
oppure posso continuare a vivere in
questo mio mondo fatto di estasi
palpitante?

Ananda Prem, la concezione del
divino come assenza di forma
dell’ebraismo e quella dello Zen non
sono la stessa cosa. Lo Zen non
possiede alcuna concezione del
divino: com’è possibile, infatti,
avere un’idea di qualcosa che è
privo di forma? Sarebbe assurdo,
perché nel momento stesso in cui è
presente un’idea, significa che hai
creato una forma! Per questo lo Zen
non parla mai del divino, e il
Buddha non ne fa mai parola: gli è
stato chiesto di parlarne un’infinità
di volte, ma è sempre rimasto muto
come un pesce, senza dire
assolutamente nulla.
Cosa vuoi dire quando parli di un
dio senza forma? Cosa intendi per
“privo di forma”? Se provi a
meditare sull’assenza di forma del
divino, scoprirai con sorpresa che o
abbandoni l’idea di dio, come hanno
fatto il Buddha e lo Zen, oppure
sarai costretta a creare una qualche
forma. I casi sono due: o mantieni
l’assenza di forma, e allora devi
abbandonare dio, oppure mantieni
dio e lasci cadere l’assenza di forma.
Perciò ricorda che lo Zen non
possiede alcuna idea di dio. Ciò che
è senza forma non può essere
chiamato dio, perché nel momento
stesso in cui lo chiami per nome, gli
attribuisci una certa forma, ne
stravolgi la natura e lo distruggi – e
non è più privo di forma. Sul divino
privo di forma non si può dire
assolutamente nulla, nemmeno che è
privo di forma, perché
significherebbe profanarlo – ed è un
sacrilegio! Non puoi definirlo in
alcun modo, e non puoi neanche
affermare che è indefinibile, perché
si tratta già di una definizione; gli
hai comunque attribuito una qualità:
anche solo affermando che di lui
non si può dire nulla, hai comunque
detto qualcosa.
A questo proposito il Buddha è
molto coerente e lo Zen è molto
chiaro, ma non si può dire altrettanto
dell’ebraismo: certo, è contrario ad
attribuire una forma al divino, ma
questa ostilità è talmente forte, che
finisce semplicemente per mostrare
quanto quella religione sia
ossessionata dall’idea della forma. E
poiché l’islam deriva dal giudaismo,
anche i musulmani posseggono
questa stessa ossessione.
L’ebraismo è ossessionato
dall’idea che nei templi non debba
essere presente alcuna statua di dio;
e i musulmani sono andati ancora
oltre, ordinando di distruggere
qualsiasi statua, in modo da liberare
la gente dall’idea che dio possegga
una forma… Come se fosse
possibile liberare qualcuno dall’idea
che dio abbia una forma: le forme
esistono nella mente delle persone,
non nei templi! Non risiedono nelle
statue, ma nelle visualizzazioni di
dio prodotte dall’intelletto.
Perché mai l’ebraismo non
dovrebbe permettere di venerare
alcuna forma? Lo sforzo stesso di
negare qualsiasi forma dimostra
quanto in realtà gli ebrei vi siano
attaccati, e non ha nulla a che vedere
con l’assenza di forma! Può trattarsi
di un atteggiamento contrario alla
forma, ma non riguarda l’assenza di
forma.

Per lo Zen il divino è davvero privo
di forma. Ed è per questo che Prem
ha detto: La religione ebraica, come
lo Zen, è esclusivamente basata su
ciò che è privo di forma, e vieta di
venerare qualsiasi cosa ne possegga
una.
Ma se il divino è privo di forma,
chi sei tu per stabilire ciò che è
lecito o vietato? L’idea stessa di
“permettere” distrugge la libertà, e
l’ebraismo ha impedito alla gente di
essere libera. Non è un caso che tutti
i rivoluzionari abbiano origini
ebraiche: si tratta di una ribellione!
Come mai, da Gesù a Freud, tutti i
rivoluzionari provengono dal mondo
giudaico? Nessun’altra religione ne
ha prodotti così tanti, perché nessun
altro credo è così restrittivo.
In una religione davvero libera
non c’è spazio per i rivoluzionari:
perché l’induismo o il buddhismo
non ne hanno prodotti mai?
Semplicemente perché quelle
religioni concedono alla gente una
libertà così completa, che la
rivoluzione non avrebbe alcun
senso! Se Gesù fosse nato in India,
nessuno l’avrebbe mai ritenuto un
ribelle: la gente l’avrebbe lasciato in
pace; non ci sarebbe stato alcun
problema, perché nessuno ha il
diritto di permettere o di vietare
alcunché – ognuno è libero di
scegliere ciò che vuole!
Gesù ha assunto tutta questa
rilevanza proprio perché gli ebrei
avevano sempre vietato qualsiasi
forma: per i cristiani – per milioni di
persone – lui è quindi diventato la
forma assunta da dio, e in seguito
questo fenomeno è accaduto molte
altre volte. Perché mai Marx,
Einstein e Freud hanno tutti origini
ebraiche?
Quella religione è davvero molto
restrittiva… non possiede la
fragranza dello Zen! E quando parlo
del giudaismo, escludo i maestri
chassidici, che in effetti hanno lo
stesso aroma soave dello Zen –
infatti, gli ebrei non accettano
nemmeno loro, perché li
considerano ribelli.
Quando una religione è troppo
interessata a permettere e vietare,
diventa ritualistica, noiosa, morta –
formale! Capisci qual è il punto? Gli
ebrei parlano dell’assenza di forma
di dio, quando tutta la loro religione
è diventata puramente formale! È
tutta fondata sul ritualismo, senza la
minima preoccupazione per
l’interiorità o il cuore: si è
semplicemente trasformata in un
formalismo sociale.
Mi hanno raccontato questa
storia:

Una coppia si stava registrando in
un piccolo albergo del Vermont e
l’impiegato ebreo della reception
chiese di vedere la licenza
matrimoniale. L’uomo sventolò una
licenza di pesca davanti agli occhi
piuttosto miopi dell’impiegato, e la
lasciò sul bancone.
Dopo che la coppia fu salita in
camera, l’impiegato esaminò più
attentamente la licenza e si precipitò
verso la stanza; bussando
violentemente alla porta, gridò: «Se
non l’avete ancora fatto, fermatevi
subito! Questa non è la licenza
giusta per farlo!».

Chi ha il diritto di darti il permesso?
Chi può concederti la licenza di fare
qualcosa? Se esiste qualche
possibilità di conoscere il divino,
può accadere soltanto nella più
assoluta libertà!

Dici che, venendo in India, hai preso
le distanze da quella convinzione…
Distaccarti da quell’idea è una
cosa positiva, perché non si trattava
di una tua esperienza, ma appunto di
un’idea; adesso però hai fatto tua
un’altra convinzione, che è l’esatto
opposto della prima.
Nel corso dei secoli è successo
molto spesso agli ebrei: per ribellarsi
a qualcosa, abbracciano l’idea
opposta – il suo esatto contrario.
Succede sempre così: reagendo, si
finisce per raggiungere l’altro
estremo. Ebbene Prem sta dicendo
che ha preso le distanze da
quell’idea, e magari è anche la
verità; ma si è spostata verso la
posizione diametralmente opposta, e
adesso è circondata da ogni genere
di divinità: Rama, Krishna, Shiva…
In India esistono milioni di dèi – si
dice addirittura che ci siano più
divinità che esseri umani!
Ho conosciuto persone che
passano l’intera giornata a venerare
gli dèi…

Tempo fa abitavo con un uomo che
nel suo piccolo tempio privato aveva
almeno trecento statuette: trecento
figure di ogni sorta di divinità
maschili e femminili! Iniziava le
pratiche di devozione alle quattro
del mattino, perché doveva prendersi
cura di ben trecento dèi!
Metà della giornata se ne andava
così; aveva così tanta fretta, che non
poteva soffermarsi a venerarne uno
soltanto, perché sapeva che ce
n’erano ancora altri
duecentonovantanove, e doveva
affrettarsi per riuscire a riverirli tutti.
Doveva stare molto attento,
altrimenti qualcuno di loro avrebbe
potuto arrabbiarsi – era molto
importante essere sicuri di prestare
la stessa attenzione a ciascuna di
quelle trecento divinità gelose!
Quell’uomo stava impazzendo, e
gli dissi: «Diventerai pazzo: trecento
dèi sono davvero troppi!».

Prem sta dicendo che adesso si sente
estatica… Certo, sei entusiasta
perché sei passata all’estremo
opposto, e questo ti fa sentire libera;
ma non si tratta di vera libertà,
perché presto questa sensazione
andrà perduta e ti stancherai: a quel
punto, è possibile che la mente
tornerà a spostarsi di nuovo verso
l’idea opposta. Ricorda, invece, che
la verità sta esattamente a metà
strada: si trova proprio nel punto di
mezzo fra i due estremi!
Sul tempio di Delfi, nell’antica
Grecia, c’erano due iscrizioni: una è
molto nota, mentre l’altra è poco
conosciuta – e dev’esserci una
ragione se la seconda non è
diventata così famosa… La prima
dice: «Conosci te stesso!», mentre la
seconda recita: «Non eccedere
mai!», ma anche se erano una
accanto all’altra, e possedevano la
stessa importanza, la stessa pienezza
e lo stesso potenziale, la seconda
non è famosa quanto la prima…
Una persona può conoscere se
stessa solo se evita gli eccessi e si
mantiene su una posizione mediana,
altrimenti finisce per cadere vittima
di uno dei due estremi. E tu, Prem,
partendo dall’idea di un dio privo di
forma, stai cadendo vittima
dell’illusione che possegga una
miriade di forme, mentre il vero
punto d’arrivo, la tua casa, si trova
esattamente a metà, dove gli dèi
scompaiono, al di là della forma e
dell’assenza di forma – nel silenzio
assoluto.

Prem ha detto inoltre: Ho persino
smesso di desiderare
l’illuminazione, e in questa vita
preferirei continuare ad amare il
Buddha piuttosto che diventare
come lui…
Leggendo la tua domanda, Prem,
ho cominciato a preoccuparmi per il
Buddha: certo riverserai su di lui il
tuo amore, ma che ne sarà del
Buddha? Il fatto che lo ami farà
parte del tuo modo di amare, con
tutti i suoi veleni; il tuo amore infatti
non è affatto tale, perché il vero
amore nasce solo dalla luce –
comincia a fluire solo dopo
l’illuminazione: prima di quel
momento è soltanto un’illusione
priva di verità. Puoi anche
continuare ad amare il Buddha, ma
non ne conoscerai mai l’essenza:
come puoi amarlo davvero? Il tuo
amore sarà semplicemente una
specie di illusione, di allucinazione.
In passato hai amato altre
persone, e ora stai proiettando sul
Buddha quella stessa energia
illusoria. Se fosse vivo, te lo
impedirebbe e cercherebbe di
distruggerla in tutti i modi, perché ti
considererebbe intrappolata in un
miraggio, in un sogno. Può darsi che
ti faccia sentire bene, ma si tratta
comunque di un sogno: prima o poi
ti sveglierai e ti accorgerai di aver
sprecato la tua vita.
Certo, provi entusiasmo, ma non
si tratta di estasi; non confondere
l’eccitazione con l’estasi:
all’apparenza sono simili – e nella
vita i pericoli peggiori nascono
sempre dalle cose che si
somigliano… L’eccitazione può
sembrare simile all’estasi, ma non è
la stessa cosa. L’estasi non possiede
alcuna eccitazione: è una condizione
molto tranquilla – è silenzio totale,
vuoto assoluto… È l’illuminazione!

Dici che hai persino smesso di
desiderare l’illuminazione…
In un certo senso questa è una
cosa positiva, perché quando non
provi più desiderio per
l’illuminazione, diventa più facile
che accada. Ma dalle tue parole
sembra piuttosto che ti stia
aggrappando a qualcosa, e che tu
abbia paura: da ciò che dici non
traspare solo un’assenza di
desiderio, bensì un rifiuto. Hai paura
dell’illuminazione; temi che,
diventando consapevole fino a quel
punto, tutti i tuoi amori illusori
dovranno sparire; le mille figure di
divinità mitologiche di cui ti sei
circondata appariranno sciocche, e
sarai costretta a gettarle a mare:
dovrai per forza liberartene, perché
stanno occupando spazio
inutilmente.
Finché non diventi un buddha,
non puoi amare il Buddha; e l’estasi
– l’illuminazione – significa
precisamente questo: trasformarsi in
un buddha!

Prem, tu non hai raggiunto l’estasi!
Può darsi che tu sia immersa in
un’eccitazione palpitante, e che ti
stia godendo questo viaggio, ma
quanto durerà? Questi dèi di cui ti
sei circondata non sono altro che tue
proiezioni: li hai creati tu! Puoi
anche riversare la tua energia su
Rama, e lui in effetti prenderà vita –
ma si tratta della tua energia.
Perché invece non trasformi te
stessa in un fiume colmo di vita?
Che senso ha riversare la tua energia
su Rama per renderlo vivo? Perché
andare così lontano?

Mi chiedi inoltre: Significa forse che
mi sono bloccata da qualche parte, e
avrei bisogno che tu diventassi il
mio Totapuri per conficcarmi una
scheggia in mezzo alla fronte?
Io non sono come Totapuri:
Ramakrishna era troppo attaccato
alla forma e Totapuri era troppo
attaccato all’assenza di forma – io
invece non ho alcun attaccamento!
Per me entrambi gli estremi sono la
stessa cosa: aggrapparsi alla forma o
all’assenza di forma non fa alcuna
differenza. Non ti offro un dio privo
di forma, né sto cercando di
sostituire la forma con l’assenza di
forma: voglio piuttosto che
abbandoni sia l’una che l’altra, e che
inizi semplicemente a esistere…
libera da ogni illusione – perché la
libertà consiste proprio in quel
semplice esistere!
Medita su questi versi di Jack
Kerouac:

Non c’è una strada da smarrire.
Se ci fosse,
quando il sole si riflette sullo
stagno,
e io mi dirigo a Occidente e tu a
Oriente,
chi di noi due seguirebbe il vero
sole?
Chi di noi avrebbe preso in prestito
la sua vera essenza?
Poiché nessuno dei due riflessi è
reale,
non c’è un’unica vera via:
è il sole che crea l’illusione
di una strada moltiplicata per due,
e per milioni di volte.
Non esiste nessuna via, dunque:
nessun buddha,
nessun dharma, nessuna idea,
ma una sola estasi,
ed essere saggi
significa solo sapere
che nessuna via è quella vera,
ma è comunque una via.

Una sola estasi!
L’estasi non ha nulla a che vedere
con la forma o l’assenza di forma, e
non ha niente a che fare con il
giudaismo, l’induismo o il
buddhismo. Esiste una sola estasi:
ma cos’è? È l’unica verità che ti
insegno, ma in cosa consiste?
Significa essere assolutamente
silenziosi, immobili, senza andare da
nessuna parte, senza desiderare
nulla, senza sognare niente – né
divinità maschili né femminili, né
forme né assenza di forme – senza
alcun pensiero…
Pensare alla forma o all’assenza
di forma è la stessa cosa! Non riesci
a stare in perfetto silenzio come uno
specchio? Non c’è nemmeno un
riflesso; lo specchio è del tutto
vuoto: questa è la sola estasi!
Quell’unica estasi è il divino; ha il
sapore dell’esistenza! Il divino non è
né una persona dotata di forma, né
un’assenza di forma: è
semplicemente il sapore che senti
sulla punta della lingua in quel
momento, in quell’attimo di
beatitudine, di esperienza del Tao, in
quell’istante in cui tutto si ferma – il
tempo, il mondo, ogni cosa!

Io non sono come Totapuri: lui era
ossessionato dall’assenza di forma,
altrimenti perché mai avrebbe
dovuto conficcare una scheggia in
mezzo alla fronte di Ramakrishna?
Io non l’avrei fatto. E perché mai
avrei dovuto? Non mi interessa
minimamente costringerti a passare
da una posizione all’altra, o da una
filosofia all’altra; sono soltanto
punti di vista, e io cerco in ogni
modo di liberarti da tutti i punti di
vista: sia da quello di Ramakrishna,
che da quello di Totapuri.

Sai cos’è successo dopo? È la stessa
cosa che temo potrebbe succedere
anche a te, Prem.
Dopo quei sei giorni di estasi,
Ramakrishna ha esclamato: «È
caduta l’ultima barriera!» – e poi ha
passato almeno altri dieci anni
continuando a venerare Kalì!
Quand’è morto, se n’è andato
pronunciando il nome della dea:
«Lode a te Kalì! Lode a te!». Nel
giorno e nell’istante esatto in cui è
morto, aveva abbandonato l’assenza
di forma ed era ritornato alla forma.
Cos’era accaduto? Per qualche
tempo è rimasto affascinato
dall’eccitazione dell’assenza di
forma, ma poi si è stufato ed è
tornato all’estremo opposto.

Evita gli eccessi; rifuggi gli estremi,
e resta nel mezzo, perché la porta si
trova esattamente a metà strada: in
relazione al tempo, significa che non
si trova né nel passato né nel futuro,
ma solo nel presente, esattamente
nel mezzo. Rispetto alla forma e
all’assenza di forma, vuol dire che la
soglia non si trova né nell’una né
nell’altra, bensì a metà fra i due
estremi: né questo né quello – neti
neti – esattamente a metà…
Né spirito né corpo: non diventare
né spiritualista né materialista; non ti
concentrare né sulla realtà esterna né
su quella interna, ma stai
esattamente a metà!
Continua a concentrarti sul punto
di mezzo, rilassati senza fretta nel
centro; lascia che gli estremi si
dissolvano: ed eccoti arrivata a casa!


Osho, per favore, dimmi: ci siamo
forse già incontrati in una vita
passata?

Chidvilas, non ci siamo neppure
incontrati in questa! Di cosa stai
parlando – in una vita passata?
Certo, io c’ero e c’eri anche tu, ma
ancora non è avvenuto alcun
incontro! Io continuo a cercare di
incontrarti, ma tu continui a fuggire:
sei molto abile, scaltro, istruito, e lo
sai bene! E pur di evitare
quest’incontro, ti metti a pensare
alle vite passate.
Chiedimi piuttosto perché non ci
siamo incontrati in questa vita! Che
importanza ha se ci siamo incrociati
in una vita passata o no? Non
possiamo certo tornare indietro; non
è possibile cambiare le cose: ormai è
andata! La mente però funziona
così: cerca di fuggire dal presente,
spingendosi nel passato o nel futuro,
ma si tratta solo di trucchetti e
strategie mentali per salvare se
stessa. Perché mai dovresti
interessarti a una vita passata?
Ormai è finita, conclusa: non c’è
più! Non possiede più alcuna
esistenza, alcun valore – e anche se
ci fossimo incontrati, non avrebbe
alcuna rilevanza.
La sola cosa importante è che tu e
io ora siamo qui, e l’incontro non sta
avvenendo: se accadesse, ti
illumineresti! Fai in modo che
questa sia l’unica cosa determinante:
il giorno in cui ti illuminerai, vorrà
dire che l’incontro è accaduto; in
caso contrario, che senso ha
chiedersi se ci siamo incontrati nelle
vite passate?
E so bene che sei consapevole di
questo, perché hai fatto anche
un’altra domanda che lo dimostra…

Ecco l’altra richiesta di Chidvilas:
Vorrei tanto ripetere quella
splendida cerimonia di iniziazione
in cui ho preso il sannyas! Sto forse
perdendo ciò che ho ricevuto
quando mi hai consentito di entrare
nel tuo regno? Per favore parlami di
questa sensazione e di cosa significa
mancare l’obiettivo.

Dunque sei cosciente del fatto che
stai mancando l’obiettivo! Una
nuova cerimonia di iniziazione non
ti aiuterà, e nessuna cerimonia
servirà a nulla: non è questione di
cerimonie, ma di rischio! Devi
riuscire a diventare abbastanza
coraggioso da incontrarmi, da
guardarmi in faccia, da affrontare la
realtà che ti sto offrendo! Invece
continui a fuggire, scappando a
destra e a sinistra.
La tua mente, inoltre, è piena di
cultura, per cui riesci sempre a
trovare scuse, spiegazioni e
razionalizzazioni: per questo
l’incontro non sta accadendo.
E questa curiosità di scoprire se ci
siamo incontrati in una vita passata è
solo un altro espediente escogitato
dal tuo sapere. Se ti rispondo di sì, il
tuo ego ne sarà rafforzato: inizierai a
credere di essere davvero speciale,
perché è ciò che desideri. Perciò non
ti rivelerò se ci siamo incontrati in
passato, anche se fosse accaduto;
tutto ciò che ti dico è: incontrami
adesso! È possibile, infatti, che per
me non ci sia un’altra vita, e potresti
quindi non incontrarmi più; potrebbe
non esserci un’altra possibilità:
perciò non lasciarti sfuggire questa!
E ricorda che ripetere la
cerimonia di iniziazione non
servirebbe a nulla, perché non deve
limitarsi a essere un rituale, bensì
diventare un’esperienza esistenziale!
Sei già stato iniziato come
sannyasin, ma neanche questo è
servito: prendere semplicemente il
sannyas non significa diventare un
vero sannyasin. È solo un passaggio
preliminare: aiuta, ti conduce un po’
più vicino al punto d’arrivo, ti rende
un po’ più aperto, un po’ più
fiducioso, ma la cosa non si
esaurisce qui!
La vera iniziazione accadrà il
giorno in cui abbandonerai la tua
mente e guarderai nei miei occhi
senza più alcuna convinzione, senza
alcun sapere – del tutto innocente!
Ricordi la storia di Zusiya e dei
bambini che l’hanno guardato negli
occhi? Ebbene, il giorno in cui
guarderai nei miei occhi con la
stessa innocenza di un bambino,
senza un passato né un futuro, mi
incontrerai veramente.
E quell’incontro ti trasformerà
completamente! Sto aspettando che
succeda; ci sto lavorando; sto
cercando di accerchiarti, ma finora
non è accaduto per causa tua, perché
continui a scappare.
Smetti di fuggire!


Osho, perché gli psicoterapeuti sono
chiamati strizzacervelli?

Perché è precisamente ciò che sono.
Quella parola descrive esattamente
ciò che fanno gli psicoterapeuti:
strizzano le persone, riducendole da
individui a pazienti – il loro lavoro
consiste proprio nel comprimere il
tuo essere.
Quando vai da uno
psicoterapeuta, ci vai in qualità di
persona, con una tua dignità, e loro
ti riducono immediatamente a
un’etichetta: sei uno schizofrenico,
un paranoico, un nevrotico… Vieni
ridotto all’istante a una di queste
categorie; non sei più una persona
con la propria dignità, perché ti
hanno etichettato: sei stato
identificato con una malattia e devi
essere curato.
Riducendoti a un paziente, lo
psicoterapeuta è diventato molto più
grande: più ti comprime in un essere
minuscolo, e più lui si sente
gigantesco.
È un vecchio trucco, sono
cambiati solo i nomi: in passato si
trattava del prete e oggi dello
psicoterapeuta. Un tempo era il prete
a rimpicciolirti, cercando di
instillare dentro di te il senso di
colpa, di farti sentire in qualche
modo sbagliato, di convincerti che
dovevi cambiare: «Così come sei
non sei accettabile» ti diceva «e puoi
solo finire all’inferno».
I preti si sforzavano di ridurti a un
criminale, a un peccatore, creando in
te una specie di senso di colpa; ora
quello stesso compito è stato assunto
dagli psicoterapeuti, che sono
semplicemente i preti del mondo
moderno. Ti comprimono senza
valorizzarti in alcun modo: non
conferiscono luce al tuo essere e non
ti offrono alcun rispetto di te stesso,
cercano al contrario di farti sentire
inutile.
Per questo io e la mia gente
stiamo cercando di creare un nuovo
tipo di terapia, che non ti riduca a un
malato, ma ti valorizzi e ti aiuti a
espanderti. Il compito di questo
nuovo genere di terapista non è
etichettarti con una malattia, bensì
aiutarti a comprendere che non sei
affatto malato! Chi dice che sei
malato? Ti trascini dietro
convinzioni sbagliate su te stesso:
chi ti ha detto che sei inutile? Non è
vero: hai un valore immenso! Tutti i
miei sforzi sono concentrati
nell’aiutarti a sviluppare il tuo
essere.
Gli psicoterapeuti, i preti e i
cosiddetti guru hanno fatto tutti la
stessa cosa, continuando a reprimere
la gente: l’hanno rimpicciolita,
riducendo gli esseri umani a vermi
ripugnanti che strisciano sulla terra,
terrorizzati dalla sola idea di
guardarsi allo specchio! Hanno
instillato nelle persone la paura di
guardare all’interno del proprio
essere, convincendole che vi
troveranno solo cose del tutto
sbagliate – orrende ferite
purulente…
Noi invece ci stiamo sforzando di
creare un tipo di terapia
completamente diverso, che rispetti
il vero significato di questa parola.
Il termine terapia significa “ciò
che guarisce”: e qual è la cosa
capace di guarire? L’amore! La
nostra terapia è l’amore; non esiste
nessun altro metodo: nessuna
psicanalisi, nessuna psicologia
analitica… Solo l’amore può
guarirti! Una delle funzioni
dell’amore è proprio quella di
guarire, perché espande la tua
consapevolezza, permettendoti di
arrivare sempre più in alto e di
toccare le stelle. Ti insegna il
rispetto di te stesso e ti fa sentire che
sei necessario all’esistenza, perché
senza di te si perderebbe qualcosa, e
la tua assenza creerebbe un vuoto
incolmabile.
Sei necessario! Quest’esistenza
non sarebbe la stessa senza di te:
non sei soltanto un fenomeno
accidentale, bensì qualcosa di
essenziale!
Lascia che ti ricordi ancora una
volta la storia di Zusiya.

Zusiya è uno di quei maestri
meravigliosi… Si potrebbe definire
un maestro perfetto! Un giorno fu
sorpreso a pregare nella sinagoga. Ti
chiederai perché ho usato la parola
“sorpreso”: perché la gente si sentì
davvero oltraggiata dalla sua
preghiera!
Stava dicendo al divino:
«Ascoltami, io ho bisogno di te,
perciò tu hai bisogno di me; senza di
te non sarei nulla, perciò ti dico che,
senza di me, anche tu non saresti
nulla: io sono ciò che sono grazie a
te, e tu sei quello che sei grazie a
me!».
La gente fu molto offesa da
queste parole: «Cosa stai dicendo
Zusiya?» gli chiese. «Sei forse
impazzito?».

Non era impazzito: questo è l’unico
modo di dialogare con il divino; non
si tratta affatto di ego! È
semplicemente la verità: il filo
d’erba più minuscolo ha lo stesso
valore di qualunque stella, perché
nell’esistenza non esiste alcuna
gerarchia! Nessuno sta più in alto o
più in basso degli altri: siamo tutti
uniti in una totalità perfettamente
organica.
Questa è la vera terapia. E quando
la terapia è realmente tale, non è
altro che amore, e ti aiuterà a
riacquistare la fiducia in te stesso,
consentendoti di fiorire!
La radice della parola “buddha” è
la stessa di bodha e in passato la si
usava per indicare l’aprirsi di un
bocciolo; proviene quindi dal mondo
delle botanica – è stata presa da lì. In
origine il termine bodha indicava
l’azione di un bocciolo che si
schiude e diventa un fiore; in seguito
è stata usata in senso metaforico:
quando un essere si apre, sboccia, e
con una sorta di danza, rilascia
nell’aria fragranza e colore, diventa
un buddha – si è aperto!
La vera terapia non ti comprime,
ma ti apre e ti mette a disposizione
tutto ciò che ti appartiene: ti
restituisce il tuo tesoro perduto! Ma
per quanto riguarda la psicoterapia
moderna, la gente ha ragione a
chiamare gli psicoterapeuti
strizzacervelli, perché è proprio ciò
che sono.
La cosa bizzarra è che sono malati
tanto quanto la gente che cercano di
curare, a volte persino di più: non ho
mai incontrato uno psicoterapeuta
che non soffrisse di un qualche
disturbo mentale! Probabilmente il
suo interesse per i problemi
psicologici degli altri nasce proprio
dal bisogno di evitare i propri, in
modo da poter fingere di essere
superiore; ma così facendo, diventa
ogni giorno più malato.
Mi hanno raccontato questa
barzelletta:

Un attore del cinema confessa al suo
psichiatra: «Sono attratto dagli
uomini invece che dalle donne!».
«Allora, bellezza, sei venuto nel
posto giusto!» risponde lo psichiatra.

Gli psicoterapeuti soffrono degli
stessi problemi per i quali
pretendono di aiutare gli altri!
La psicoterapia è una delle cose
più fasulle che siano state create dal
mondo contemporaneo, ed è davvero
necessario creare una terapia con un
orientamento del tutto diverso!
Le persone non si trovano in
difficoltà perché in loro c’è qualcosa
di sbagliato, ma perché crescono in
situazioni distorte: quando nasce,
ogni individuo è perfettamente sano
e normale, ma viene al mondo in
una società nevrotica, con genitori,
insegnanti, preti e politici nevrotici,
che si avventano sul bambino,
cercando di manipolarlo e finendo
per farlo impazzire.
Non siamo ancora riusciti a
sviluppare una forma di educazione
corretta; questa scienza è ancora
molto rudimentale e primitiva:
siamo passati dai carri trainati dai
buoi ai jet, ma per quanto riguarda il
modo di allevare i bambini, siamo
più primitivi che mai! In questo
campo non c’è stata alcuna
evoluzione; i genitori continuano a
riversare le loro nevrosi sui figli, che
pur essendo vittime innocenti, a loro
volta non avranno nulla da donare ai
propri bambini: finiranno quindi per
trasmettere loro le proprie malattie,
perché non possiedono altro. Non è
la gente a essere nevrotica, ma
l’ambiente in cui vive!
Inoltre, limitarsi ad analizzare le
nevrosi delle persone non vuol dire
trasformarle; al massimo può
aiutarle ad adattarsi un po’ meglio
alla situazione, spingendole a
pensare che la vita sia fatta così:
Freud afferma proprio che
l’esistenza non è in grado di offrire
alcun piacere, e non si può far altro
che sopportarla.
Sottoponendosi alla psicanalisi,
prima o poi ci si convince che la vita
è fatta di assurdità, di spazzatura, e
di un susseguirsi di desideri
nevrotici – non esiste altro! In
questo modo si finisce per
accontentarsi, si perde la speranza e
ci si abitua: che senso ha, infatti,
infuriarsi contro tutto questo? Non
serve a niente, perché la gioia non
esiste – la psicanalisi è davvero
pessimista!
È veramente bizzarro che la gente
ritenga il Buddha un pessimista! Lo
pensano persino Freud e gli altri
disfattisti come lui. È davvero molto
strano, perché il Buddha non è
affatto pessimista e non lo sono
neppure Shankara e Rumi. Anche se
affermano che la vita è piena di
infelicità, questi individui non sono
pessimisti: lo dicono solo per
renderti consapevole che non
dovrebbe essere così, che non è
necessario che tu sia infelice!
Continuano a ripetere che la vita è
piena di infelicità, perché in realtà
può diventare pura estasi: ti
spronano semplicemente a prendere
in mano la tua esistenza e a
trasformarla in beatitudine – ma non
sono pessimisti!
Freud è un pessimista! Gli
psicoterapeuti sono pessimisti,
perché hanno accettato che la vita
possa portare solo infelicità, e che
bisogna in qualche modo prendere
atto di questa situazione e
sopportarla. Cercano di insegnare
alla gente a fare i conti con questa
realtà, ma non è certo una gran
prospettiva: dovresti forse limitarti
ad accettare tutto questo, in attesa
che arrivi la morte?
Non è così: la vita può essere una
danza, un canto! Una vera terapia
non può limitarsi ad aiutarti a venire
a patti con il rimpianto: deve
piuttosto spronarti a diventare più
vivo, a godere della ricchezza
dell’esistenza, a conseguire la
condizione di satcitananda –
raggiungendo la beatitudine eterna!
Solo in questo caso è davvero una
terapia: ma a questo punto non si
tratta più di una costrizione, bensì di
un’espansione!
La parola ebraica che è alla radice
del termine “paradiso” significa
proprio espansione. Quando Gesù
afferma che il regno dei cieli si trova
dentro di te, ti sta metaforicamente
dicendo che il paradiso consiste
nell’espanderti, nell’estendere il tuo
essere fino ai limiti estremi
dell’esistenza.
La vera terapia avrà un colore,
una forma e un sapore del tutto
diversi, per questo l’argomento mi
interessa tanto: in tutta l’India non
c’è uomo più interessato di me alla
terapia! Non esiste nessun altro
ashram in cui si pratichi la terapia,
ma a me sta così a cuore perché so
bene quanto male sta facendo alla
gente, e quanto l’abbia spinta in uno
spazio di pessimismo.
Inoltre, la terapia è la religione
dell’uomo moderno; continuare a
parlare della Bibbia, del Corano e
dei Veda è obsoleto, non serve a
nulla e non ha alcun senso: bisogna
usare una lingua che si adatti alla
situazione e ai problemi che la gente
si trova ad affrontare nella propria
vita!
La terapia è una delle realtà che
devono essere cambiate e
trasformate, in modo che diventi una
forza guaritrice, capace di condurre
le persone a una condizione di
maggior integrità e beatitudine.


Osho, i problemi esistono davvero, o
sono solo scherzi della mente? La
consapevolezza fa sparire i problemi
o è invece possibile che induca a
reprimerli? Quando mi sento un po’
più centrata e consapevole del
solito, non percepisco più alcun
problema, ma quando perdo la
centratura, i vecchi problemi
tornano a galla, e sembrano persino
più grandi di prima: si tratta forse
di una forma di repressione?

Ratna, tutti i problemi nascono
dall’inconsapevolezza: è lei a crearli
– ed è l’unico vero problema, in
realtà. Per questo, se diventi vigile e
consapevole, i problemi
scompaiono: non si tratta di
repressione! Ricorda che se reprimi i
tuoi problemi, non diverrai mai
consapevole, perché chi li reprime
ha paura della consapevolezza. Nel
momento stesso in cui una persona
che ha represso i suoi problemi
diventa consapevole, questi vengono
a galla, perché la consapevolezza li
porta alla luce.
È come se stessi nascondendo la
spazzatura all’interno della tua casa:
avrai paura di farvi entrare la luce,
perché a quel punto saresti costretta
a guardare tutto il marciume che vi
hai nascosto – non puoi
assolutamente permettere che venga
illuminata!

Tempo fa trascorsi alcuni giorni in
un villaggio dove c’era un fiume
davvero sporco – in realtà era un
rigagnolo che non si può nemmeno
definire fiume… Non c’era
nessun’altra fonte, né un modo
alternativo per procurarsi dell’acqua,
e poiché venne a trovarmi un ospite,
ero molto perplesso sul da farsi:
come potevo portarlo a lavarsi in un
fiume così sporco?
Ci andammo quindi alle quattro
del mattino; ci divertimmo e ci
mettemmo a parlare della bellezza,
perché con la luna il ruscello
sembrava davvero splendido; al mio
ospite piacque a tal punto che mi
disse: «Non sono mai stato in un
posto così bello!».
«Ne sono contento» gli risposi
«ma non venirci mai di giorno».
«Perché?» mi chiese lui.
«Semplicemente non venirci» gli
ripetei.
Naturalmente al mattino corse di
nuovo al fiume, e quanto tornò mi
disse: «È un posto così sporco!».
Eppure sembrava talmente bello!

Se reprimi i tuoi problemi, avrai
paura di diventare consapevole; per
questo milioni di persone sono
terrorizzate dalla consapevolezza:
portando la luce dentro di te, ti
costringe infatti a guardare in faccia
scorpioni, serpenti e lupi… e questo
fa molta paura. La gente continua a
rimanere nell’oscurità, così almeno
può fingere che non esista alcun
problema.
La consapevolezza porterà a galla
tutto ciò che è stato represso, ma
non reprime mai nulla: al contrario,
libera dalle repressioni!
Tuttavia, l’esperienza di cui parla
Ratna è vera; quando diventi
consapevole, i problemi
scompaiono, e naturalmente ti
domandi se la consapevolezza non li
abbia repressi: com’è possibile che
siano spariti all’improvviso? Inoltre,
quando la consapevolezza se ne va,
quando perdi la centratura e non sei
più così cosciente, i problemi
rispuntano fuori – e sono più grandi
che mai! La naturale conclusione
consiste quindi nel pensare che la
consapevolezza li abbia repressi, ma
non è così!
Le difficoltà si creano quando non
sei consapevole: l’inconsapevolezza
possiede infatti un proprio
linguaggio, che è appunto quello dei
problemi. È come quando ti muovi a
tentoni nel buio: cade una cosa,
inciampi in un’altra… ma si tratta di
ostacoli creati dall’oscurità; se
arrivasse la luce, smetteresti di
inciampare nel tavolo, niente
cadrebbe più a terra, e riusciresti a
muoverti in modo più agile – perché
saresti in grado di vedere! Cercare di
girare per la casa al buio, invece,
produce molti incidenti: di notte
capita infatti di non riuscire più a
trovare la porta o di non sapere più
dove sono gli oggetti.
Vivere nel buio crea molte
difficoltà, perché l’oscurità e
l’inconsapevolezza comprendono
solo il linguaggio dei problemi, ma
non sono capaci di trovare alcuna
soluzione. E se anche te ne viene
offerta una, nella tua
inconsapevolezza la trasformerai in
un problema! Accade di continuo: io
ti dico una cosa e tu capisci qualcosa
di totalmente diverso, perché la tua
capacità di comprendere dipende dal
tuo punto di vista.

Durante le sue vacanze estive, una
zitella che faceva l’insegnante andò
in visita alla riserva di Yosemite, e
vedendo un imponente guerriero
pellerossa appoggiato a un albero, fu
incuriosita dalla sua vita sessuale.
«Come fa un uomo grande e
grosso come te» gli chiese «a
sentirsi sessualmente soddisfatto
quassù, dove non c’è nemmeno
l’ombra di una giovane squaw?».
L’indiano la guardò sbalordito, e
poi disse: «Vedi mucca?».
«Certo!» rispose la donna. «Non
vorrai dire che…?».
«Sì» disse il guerriero. «Io fare
amore con mucca; e vedi cavallo?».
«Sì» rispose con orrore la zitella
«certo che lo vedo…».
«Io fare amore con cavallo!»
continuò il pellerossa.
«Oh perdinci!» esclamò la donna
sconvolta.
«No linci» grugnì tristemente
l’indiano «io non fare amore con
lince: corre troppo veloce!».

L’inconsapevolezza capisce le cose a
modo suo! Per questo i buddha
vengono sempre fraintesi; è il loro
naturale destino, ed è inevitabile che
sia così: è molto difficile
comprendere un buddha, mentre
fraintenderlo è davvero facile –
viene naturale…
Comprendere un buddha richiede
grande consapevolezza da parte tua,
perché vive in un mondo in cui le
difficoltà non esistono, in cui ci sono
soluzioni a bizzeffe, ma neanche
l’ombra di un problema! In quello
spazio è presente ogni risposta e non
esiste nemmeno una domanda…
mentre tu vivi in un mondo pieno di
domande, ma senza alcuna risposta:
vivete in due luoghi talmente
distanti, che è come se abitaste su
due pianeti diversi!
Dal suo pianeta, il Buddha
continua a gridare, ma le parole che
giungono a te sono del tutto distorte;
inoltre, riesci sempre a trovare un
espediente per razionalizzare ciò che
hai capito, e talvolta ti metti sulla
difensiva, diventando davvero
polemico.

William era seduto al banco dei
testimoni; aveva già risposto in
modo pacato a tutte le domande
dell’avvocato dell’accusa, e a quel
punto era la volta del giudice.
«L’imputato si aspetta davvero
che questa corte creda a questa
storia» esordì il giudice «secondo la
quale l’alambicco perfettamente
assemblato, trovato nella sua
proprietà, non era usato allo scopo di
produrre whisky in modo illecito?».
«Proprio così, vostro onore!»
rispose William. «L’ho comprato
perché era una novità, un oggetto
curioso: né oggi, né ieri ho mai
pensato di metterlo in funzione per
produrre whisky!».
«Queste sono solo fesserie!»
strillò il magistrato. «Per ciò che
riguarda questa corte, il possesso
dell’attrezzatura è sufficiente a
provare la vostra colpa!».
«In questo caso, vostro onore»
ribatté William «suppongo che
dovreste accusarmi anche di aver
stuprato vostra figlia!».
«Cosa?» tuonò il giudice. «Avete
anche violentato mia figlia?».
«No, signore» rispose William.
«Ma ieri è stata a casa mia – e io
certamente possiedo l’attrezzatura
necessaria!».

La mente è molto scaltra e astuta;
riesce a scovare argomentazioni
davvero ingegnose, arrivando a
costruire prove e congetture che ti
danno l’impressione di aver capito
correttamente.
Ma la domanda di Ratna ha
un’importanza immensa per
chiunque si trovi qui, perché questo
è un luogo in cui si viene per
diventare sempre più consapevoli:
l’atmosfera che si respira qui deve
diventare la consapevolezza!

I problemi esistono davvero? – ha
chiesto Ratna.
Esistono solo se sei inconsapevole
– in questo caso sono reali. Se c’è
inconsapevolezza, i problemi
esistono, proprio come, quando
dormi, esistono i sogni – ma sono
reali? Certo, mentre dormi sono
assolutamente veri, ma nel momento
in cui ti svegli, ti rendi conto che
non esistono e che erano solo
un’illusione: facevano parte di
quella dimensione in cui la tua
consapevolezza era addormentata.
Allo stesso modo, i problemi
esistono quando non sei centrato e
non sei sveglio; ma se trovi la tua
centratura, se sei allerta e attento, e
se diventi un testimone,
semplicemente svaniscono –
scompaiono nel vuoto!

I problemi sono solo scherzi della
mente?
Ma certo che lo sono, si tratta
sempre di scherzi della mente –
perché la parola “mente” non è altro
che un sinonimo di
inconsapevolezza.

La consapevolezza fa sparire i
problemi o è invece possibile che
induca a reprimerli?
Dipende da te… un minimo
pericolo esiste: se ti imponi la
consapevolezza con la forza,
potrebbe diventare una fonte di
repressione, se invece lasci che sia
lei a impadronirsi di te, non sarà
affatto così! Quando ti eserciti a
essere consapevole in modo
testardo, si produce una sorta di
volontà che reprime i tuoi problemi,
perché la volontà è sempre
repressiva: è la fonte di ogni
repressione – ovunque ci sia
volontà, ci sarà anche repressione.
La tua consapevolezza, dunque,
non deve nascere dalla forza di
volontà, ma dalla comprensione:
deve accadere in modo rilassato,
deve essere una specie di stato di
abbandono – non deve essere
forzata. Questa è una delle cose più
importanti da comprendere: se ti
sforzi di diventare consapevole, la
tua volontà produrrà una
repressione.
Ti faccio un esempio: se senti
nascere la collera, ti sforzi di
diventarne consapevole in modo
testardo, caparbio, violento,
aggressivo, energico – usando la
volontà. Grazie a quello sforzo, la
collera regredirà e tornerà nel
serbatoio del tuo inconscio; si
sposterà nei sotterranei del tuo
essere, e lì rimarrà in attesa. E
quando smetterai di sforzarti… Lo
sforzo, infatti, non può proseguire in
eterno perché stanca: puoi sforzarti
di imporre la tua volontà per un
momento, per qualche minuto, per
qualche ora, per qualche giorno, ma
prima o poi avrai bisogno di
prenderti una pausa, perché tutto
quell’impegno ti stancherà. Ebbene,
nel momento stesso in cui ti
riposerai, la collera tornerà a galla
con una forza ancora maggiore,
perché reprimendola l’hai compressa
– e quando una qualsiasi energia
viene sottoposta a una pressione, la
sua potenza cresce e diventa ancora
più concentrata. Perciò, non appena
il tuo sforzo e la tua forza di volontà
vengono meno, allentando la
pressione sul coperchio, la collera
repressa esplode sotto forma di
rabbia violenta.
Alla gente che cerca di controllare
le proprie emozioni accade proprio
questo: può anche riuscire a
reprimere la collera, ma sta solo
creando rabbia! La collera è
temporanea, mentre la rabbia è
cronica: non c’è bisogno di
preoccuparsi della collera, perché va
e viene come una sorta di brezza; la
rabbia invece è pericolosa, perché
diventa parte di te, si va a
sedimentare alla base del tuo essere,
e resta lì per sempre.
Non conosci persone che sono
sempre arrabbiate? Magari non lo
dimostrano, ma lo sono sempre:
qualunque cosa facciano, la fanno
con rabbia – una rabbia che scorre
costantemente sotto la superficie,
come una corrente che si muove
sottoterra. È diventata sotterranea,
ma influisce sul loro modo di amare,
sul loro modo di vivere l’amicizia e
sul loro stesso volto: diventano
repellenti, brutte, anche se magari
nascondono la loro ira e non
sembrano affatto arrabbiate.
Di solito le persone che vanno in
collera per delle sciocchezze sono
buone, e non si arrabbiano mai; ci si
può fidare di loro: non arriveranno
mai né a commettere omicidi, né a
suicidarsi, perché non riusciranno
mai ad accumulare una rabbia
sufficiente. Quando si crea un po’ di
veleno, lo buttano semplicemente
fuori, rimanendo sempre fresche e
sane; ci sono situazioni che le fanno
andare in collera, ma non la
immagazzinano, non la accumulano:
non ne fanno incetta.
Al contrario, la cosiddetta brava
gente, le persone rispettabili, i
santi… sono individui davvero
pericolosi, perché continuano ad
accumulare rabbia, e un giorno
esploderà: e se non succede,
significa che la rabbia è diventata il
loro stile di vita, trasformandosi in
una malattia cronica.
Non cercare mai di ottenere la
consapevolezza con la forza di
volontà! Affidati a questo criterio:
qualsiasi cosa venga prodotta dalla
forza di volontà è sbagliata.
Come puoi, dunque, creare la
consapevolezza? Con la
comprensione! Quando senti
arrivare la rabbia, cerca di
comprendere perché si è formata,
senza condannarti e senza cercare
giustificazioni; non esprimere alcun
giudizio, ma limitati a osservare ciò
che accade, restando assolutamente
neutrale. È come osservare una
nuvola che si muove nel cielo: nel
tuo spazio interiore sta arrivando
una nuvola di rabbia – guardala!
Cerca di capire cos’è: osservala a
fondo e cerca di comprenderla. Ti
accorgerai che si tratta di una
catena: la nuvola di rabbia
scompare, ma guardando in
profondità dentro di essa, scoprirai
qualcos’altro – magari provi rabbia,
perché il tuo ego è ferito. Ora
osserva quella nuvola di ego, che è
una realtà più sottile: continua a
guardarla, immergiti nelle sue
profondità…
Nessuno è mai riuscito a trovare
qualcosa all’interno dell’ego, perciò,
se ti addentri nei suoi abissi, non
troverai nulla – e se non c’è nulla,
significa che non esiste più.
All’improvviso si creerà una gran
luce prodotta dalla comprensione,
dall’osservazione profonda e
dall’essere testimone – senza sforzo,
senza forza di volontà, senza
convinzioni che ti spingono a
pensare che le cose debbano andare
in un modo o nell’altro… Lascia che
il tuo essere testimone sia
perfettamente neutro, e nascerà la
consapevolezza! E questo essere
consapevole possiede un tale
splendore e una tale benedizione che
riuscirà a guarirti.
Se raggiungi una consapevolezza
simile, non te ne stancherai mai: dal
momento che non ti è stata imposta
con la forza, non avrai mai bisogno
di prenderti una pausa!
Prova a pensarci: dopo sei giorni,
il dio dei cristiani e degli ebrei si è
stancato, e il settimo giorno è stato
costretto a riposarsi. In Oriente,
invece, è inimmaginabile che dio
possa stancarsi: ti sei mai
domandato perché? Sembra quasi
una cattiveria: gli dei orientali
continuano a lavorare
ininterrottamente, senza prendersi
mai una pausa! Perché in Oriente
dio non va mai in vacanza?
In realtà l’idea stessa di vacanza –
negli uffici, nelle scuole e nelle
università – è arrivata in Oriente
dall’Occidente, altrimenti il
problema non si sarebbe mai posto,
perché la vita è sempre stata
guardata da una prospettiva diversa:
non era considerata un lavoro, bensì
un gioco!
Il dio degli ebrei, invece, deve
essersi sentito davvero stanco: sei
giorni di fatica e di lavoro così duro,
coronati da un simile insuccesso!
Doveva proprio essere esausto…
L’ultima cosa che ha fatto è stata
creare l’uomo, dopodiché non ha più
creato assolutamente nulla: questo
indica chiaramente cosa dev’essergli
successo! Si era talmente stufato
della sua stessa creazione, che dopo
l’uomo si è fermato, dicendo:
«Quando è troppo, è troppo!».
La creazione del dio orientale
invece è un continuum: si tratta di
un gioco – lila. La consapevolezza
può accadere soltanto così: lascia
che diventi un gioco! Rilassati, non
fare alcuno sforzo, e in questo modo
potrà diventare una condizione
continua, sarà sempre presente e non
andrà mai persa.

Ho la sensazione che Ratna si stia
sforzando troppo, per questo dice:
Quando mi sento un po’ più centrata
e consapevole del solito, non
percepisco più alcun problema, ma
quando perdo la centratura, i vecchi
problemi tornano a galla, e
sembrano persino più grandi di
prima: si tratta forse di una forma
di repressione?
Probabilmente c’è un po’ di
repressione, perché altrimenti quei
problemi non si ripresenterebbero.
Se osservi un problema davvero a
fondo, in modo rilassato, sparisce
per sempre – perché la rabbia è
sempre la stessa: se l’hai osservata
in una determinata situazione,
infatti, l’hai compresa una volta per
tutte! Semplicemente scompare: ti
sei liberato di lei, e puoi
riappropriarti di tutta l’energia che
stava impiegando; allo stesso modo
puoi rientrare in possesso delle
energie che erano imprigionate
dall’avidità…
All’improvviso ti ritrovi con
un’immensa riserva di energia, e
puoi finalmente danzare, traboccante
di felicità! Allora la vita non si
limita più a essere qualcosa che devi
sopportare, ma diventa pura gioia e
si trasforma in celebrazione!
Se la tua consapevolezza non è
del tutto priva di volontà, significa
che stai reprimendo e la repressione
può essere davvero infida; in questo
caso, non appena la consapevolezza
cesserà, ciò che è stato represso
tornerà sempre in superficie: si
ripresenterà in una forma ancora più
grave e con un intento vendicativo,
per prendersi la sua rivincita!
Ratna, non cercare in alcun modo
di creare la consapevolezza con la
forza; lascia che cresca liberamente;
sii più rilassata, più calma, più
tranquilla, più disposta ad accettare
qualsiasi cosa. Bisogna accettare
tutto: sia il bene che il male, sia il
successo che il fallimento, sia
l’amore che l’odio – si deve
accettare qualunque cosa!
In quell’accettazione, accade il
rilassamento, e la consapevolezza
non è altro che la fragranza di questo
abbandonarsi all’esistenza – il fiore
prodotto dal lasciarsi andare!
A quel punto i problemi
scompaiono, per non tornare mai
più.


Osho, qual è il senso di ogni cosa?

Non lo so, e credo che nessuno lo
sappia o l’abbia mai saputo: né il
Buddha, né Cristo, né Krishna,
nessuno… Ed è molto bello che
nessuno lo sappia, perché se
qualcuno lo scoprisse, tutta la gioia
andrebbe perduta.
È un mistero – un mistero
infinito! Non c’è modo di
demistificarlo; non c’è modo di
sapere cosa sia: nessuna conoscenza
potrà mai scoprirlo.
Solo l’innocenza può avere
successo, perché è capace di dire:
«Non so!».
Capitolo 7

TORNARE ALLA FONTE






Si narra che un giorno un derviscio
fermò un re per strada.
Il re disse: «Come osi tu, che sei
un uomo senza importanza,
interrompere il cammino di un
sovrano?».
«Come puoi essere un re» rispose
il derviscio «se non sei neppure
capace di riempire il mio kashkul –
la ciotola dell’elemosina?».
Allungò la sua ciotola e il re
ordinò che fosse riempita d’oro, ma
non appena fu colma di monete,
queste scomparvero, e la ciotola fu
di nuovo vuota.
Furono portati uno dopo l’altro
numerosi sacchi pieni d’oro, e
quella ciotola straordinaria
continuò a divorare monete.
«Basta!» ordinò il re. «Questo
imbroglione sta dando fondo al mio
tesoro!».
«Dal tuo punto di vista sto dando
fondo al tuo tesoro» rispose il
derviscio «ma agli occhi degli altri,
sto semplicemente mostrando la
verità!».
«E quale sarebbe questa verità?»
chiese il re.
«La verità è che la ciotola
rappresenta i desideri degli esseri
umani,» rispose il derviscio «mentre
l’oro è ciò che viene loro donato: la
capacità di un uomo di divorare ciò
che riceve, senza esserne
minimamente trasformato, non ha
fine! Come vedi, la ciotola si è
mangiata quasi tutte le tue
ricchezze, ma continua a essere solo
un guscio vuoto di cocco di mare, e
non è stata minimamente intaccata
dalla natura dell’oro».
«Se provi a entrare tu stesso nella
ciotola» continuò il derviscio
«divorerà anche te. Com’è possibile,
dunque, che un re si consideri una
persona importante?».

L’uomo è sempre in divenire, perché
non è un essere, bensì un processo di
trasformazione: per questo prova
tanta infelicità, tanta ansia e tanta
angoscia. Gli animali, gli alberi e le
montagne sono esseri compiuti, così
come il divino, ma per gli esseri
umani non è così: l’uomo è un
continuo tentativo di essere!
Gli alberi non stanno cercando di
diventare alberi: semplicemente lo
sono; anche il divino non deve
sforzarsi di diventare divino, perché
è una cosa sola con l’essenza
assoluta. L’uomo, invece, si trova
esattamente a metà strada, e
naturalmente è teso, dilaniato e
lacerato, perché una parte di sé
vorrebbe diventare un tutt’uno con il
regno animale, mentre l’altra
vorrebbe volare fino al cielo e
fondersi con il divino: così resta
intrappolato in questa specie di tiro
alla fune.
Walt Whitman ha detto: «In
diversi momenti della mia vita ho
sentito il desiderio di tornare a
essere come gli animali, che sono
del tutto liberi dal desiderio,
dall’angoscia, dalla competizione e
dall’ambizione».
Se guardi negli occhi una mucca,
un cane o un gatto, vi scorgerai solo
quiete e silenzio, come se questo
istante fosse tutto ciò che esiste; se
invece provi a guardare nella mente
di un essere umano, troverai un
pazzo – e non uno soltanto, ma una
folla, un intero manicomio pieno di
matti, che gridano, desiderano,
chiedono e domandano senza
sosta… I loro desideri, inoltre, sono
contraddittori: se ne esaudisci uno,
diventa inevitabilmente impossibile
soddisfarne un altro; e se per caso
riesci a esaudire anche il secondo, si
crea subito un nuovo problema…
È impossibile soddisfare un essere
umano! Fra le parti che compongono
il suo essere non esiste
comunicazione: una mano vuole fare
una cosa e l’altra la vuole
distruggere; una parte di te continua
a bramare un passato perduto,
mentre l’altra si danna per
raggiungere il futuro: come puoi star
bene con te stesso? Come puoi
sentirti a casa?
Per farti un’idea di quello che
succede nella tua mente, ascolta
questo racconto che stavo leggendo
proprio l’altra sera: è tratto da
un’opera di Ionesco intitolata La
cantatrice calva.

Due coppie – gli Smith e i Martin –
sono sedute in una stanza a
chiacchierare, senza che avvenga
alcuna reale comunicazione; appesa
al muro c’è anche una pendola
bizzarra, che batte le ore a casaccio
e non indica nulla.
A un certo punto della commedia,
i quattro personaggi, in preda alla
furia, iniziano a urlarsi insulti a
vicenda: «Cacatua, cacatua,
cacatua… Che cacao, che cacao, che
cacao… Che cascate di cacao, che
cascate di cacao, che cascate di
cacao…».
Quando i Martin iniziano a
sonnecchiare per la noia, la
domestica si rivolge al pubblico
dicendo: «Elisabeth non è Elisabeth,
e Donald non è Donald. Lui crede
invano di essere Donald, e lei si
illude di essere Elisabeth: ma chi è il
vero Donald, e chi è la vera
Elisabeth? A chi interessa
prolungare questa confusione?».

In quest’opera Ionesco parla della
perdita del senso di sé e della
comunicazione – perché
l’impossibilità di comunicare
coincide proprio con lo smarrimento
dell’identità.
Hai provato a osservare ciò che
succede dentro di te? Fra i diversi
frammenti del tuo essere non esiste
alcuna comunicazione – per non
parlare poi della comunione… non
si riesce nemmeno a comunicare!
Non sei un’entità unica, bensì una
moltitudine, e ciò è dovuto alla
molteplicità dei tuoi desideri: vuoi
diventare troppe cose!
Quando desideri diventare
qualcosa, smarrisci innanzitutto la
tua essenza, e il tuo essere si perde
fra le nuvole di quel “diventare”.
Nel momento in cui cominci a
pensare in termini di “voler
diventare”, non sei più consapevole
di ciò che sei, mentre quando
abbandoni quell’idea, l’energia
ritorna a fluire verso la tua essenza:
Gesù lo chiama “conversione” – che
significa appunto “tornare alla
fonte” – Patanjali lo definisce
pratyahara – ritorno a te stesso – e
Mahavira lo chiama pratikraman –
ritornare al proprio essere.
Siamo tutti impazienti e abbiamo
una gran fretta di raggiungere
qualcosa che sta nel futuro: corriamo
tanto perché la vita è breve e il
tempo vola… e continuiamo quindi
ad affrettarci – ma per arrivare
dove? L’unico traguardo a cui
giungiamo è la nostra tomba, e non
riusciamo mai a realizzare nulla,
perché tutti quei desideri sono per
loro stessa natura irrealizzabili!
Cerca di comprendere la natura
del desiderio, perché è lì che risiede
ogni inganno, ogni miraggio e ogni
illusione: se comprendi cos’è il
desiderio, diventi un buddha; se
riesci a vederne la futilità, il
desiderio non avrà più alcun valore
per te, e quella dimensione
semplicemente sparirà.
Ma diventare consapevole del
fatto che nessun desiderio si realizza
mai, che la sua stessa natura non lo
consente, perché è intrinsecamente
irrealizzabile, non significa che devi
rinunciarvi! Chi vi rinuncia, non ha
compreso: le persone che hanno
compreso, non rinunciano, perché
non c’è nulla a cui rinunciare! Il
desiderio semplicemente non ha più
importanza e ti scivola dalle mani –
ma non sei tu che rinunci: diventa
solo del tutto irrilevante, e grazie a
quella comprensione, te ne liberi.
L’intero lavoro di un sannyasin, di
un ricercatore del Vero consiste nel
comprendere la natura del desiderio:
qual è la sua natura? Innanzitutto
brama sempre qualcosa che non è
presente; se provi a guardarlo e a
meditarci sopra, scoprirai che la
natura intrinseca del desiderio
consiste nel volere ciò che non c’è –
e come può, dunque, essere
appagato? Non appena ottieni ciò
che volevi, il tuo desiderio si sposta
altrove!
Vedi una bella casa e inizi a
desiderarla: muori dalla voglia di
averla, la sogni, per anni lavori
duramente per comprartela, e un
giorno diventa tua; ma a quel punto
scopri con sorpresa che, nel
momento stesso in cui la possiedi,
non la desideri più! La tua brama si
è già spostata altrove, perché il
desiderio non sta mai nel presente;
può esistere solo nel futuro: il suo
terreno di coltura, il suo ambiente è
il futuro! Il presente non fa per lui:
lo uccide e lo fa sparire all’istante.
Perciò quando la casa è finalmente
tua e ci vai ad abitare,
all’improvviso ti domandi stupito
dove siano tutti gli splendidi sogni
che coltivavi su di essa: la casa è
ormai tua, ma dove sono finiti quei
sogni? Sono volati via!

Il poeta inglese Byron era
innamorato di una donna. Ebbe
molte amanti: si dice che siano state
una sessantina – e non è neanche
vissuto poi tanto a lungo! Ebbene, a
ciascuna di loro diceva: «Senza di te
non posso vivere!». Anche se
magari non ne era cosciente, perché
era una brava persona, stava
ingannando quelle donne;
probabilmente non ne era
consapevole e non lo faceva
apposta, ma accadeva: ogni volta
che iniziava a desiderare una donna,
il mondo intero spariva e lei
diventava il suo unico obiettivo.
Era un uomo affascinante, pieno
di talento, un vero genio, e le donne
sono sempre sensibili al fascino di
chi possiede doti e qualità
eccezionali; per loro la bellezza
fisica non è mai tanto importante
quanto le qualità interiori – e Byron
ne aveva a bizzeffe: possedeva un
tocco magico e un magnetismo tali,
per cui era davvero facile che una
donna si innamorasse di lui. Ma
l’amore di Byron durava appena
qualche giorno, al massimo qualche
settimana, poi lui passava a un’altra.
Un giorno si innamorò di una
donna davvero insistente: «Se non
mi sposi,» gli disse «non mi
interessa avere una relazione con te.
Dici di essere pronto a morire per
me, ma io non voglio che tu muoia
per me: voglio semplicemente che
mi sposi!».
Il matrimonio era una richiesta
molto più impegnativa: morire è
facile – è così poetico, così
romantico – mentre vivere con una
donna e sposarla è così banale, così
poco sentimentale, così
tremendamente insulso… Byron
continuò a cercare di svicolare e di
eludere la domanda, ma quella
donna era molto scaltra; le avevano
raccontato molte storie su di lui,
avvertendola che andava sempre a
finire così: «Nel giro di qualche
giorno o di qualche settimana» le
avevano detto «il suo interesse
semplicemente svanirà, e comincerà
a guardarti come se non ti avesse
mai conosciuta – come se non
esistessi neppure!».
Più quella donna ignorava Byron,
e più lui ne era infatuato, perché
questa è la natura del desiderio. Più
la donna appariva irraggiungibile, e
più lui impazziva per lei; più lei
creava impedimenti, e più lui era
determinato a conquistarla: era
pronto a fare qualsiasi cosa –
persino a sposarla! E così si
sposarono.
Il giorno del matrimonio… Byron
e sua moglie stavano scendendo la
scalinata della cattedrale, le
campane stavano suonando, gli
ospiti erano ancora in chiesa e si
accingevano a uscire, e Byron
teneva per mano la donna che per
mesi aveva sognato e gli aveva tolto
il sonno: non era più riuscito a
pensare ad altro, e per quei pochi
mesi era stata tutta la sua vita… Ma
all’improvviso vide passare un’altra
donna, e per un attimo si dimenticò
di quella che aveva appena sposato,
lasciando andare la sua mano.
La moglie, notando che lui non
riusciva a togliere gli occhi di dosso
alla sconosciuta, si accorse di ciò
che stava accadendo e gli chiese:
«Cosa stai facendo?».
«Mi dispiace» rispose Byron «ma
devo essere sincero con te: quando
ho visto quella donna, tutte le mie
energie sono state catturate da lei, e
mi sono del tutto scordato di te. Non
ho lasciato andare la tua mano in
modo consapevole, ma in
quell’istante tu hai smesso di
esistere; so che ero pazzo di te, ma
nel momento in cui ci siamo sposati,
qualcosa è scomparso: quella che mi
pareva un’oasi ha smesso di esserlo
e tu sei diventata una donna
qualsiasi».

Se fai attenzione, ti accorgerai che
accade di continuo: ti struggi per
qualcosa… finalmente un giorno la
ottieni, ma tutta la gioia stava
nell’attesa, nel sognare e nel
fantasticare, e quando hai in mano
quello che volevi, sparisce. Il
desiderio, infatti, non può vivere nel
presente, non può proiettarsi su un
oggetto accessibile, che è già tuo,
ma soltanto sulla sua assenza.
Ciò che possiedi non è mai
oggetto di desiderio: e come
potrebbe? L’oggetto del desiderio è
ciò che non hai: se mai arriverai a
possedere quella cosa, nel momento
stesso in cui diverrà tua, cesserai di
desiderarla. Questa è l’intrinseca
natura del desiderio, ed è per questo
che continua a guidarti,
conducendoti… in nessun posto! È
un circolo vizioso, e tu continui a
muoverti e ad agitarti… Molto
rumore per nulla – ecco cos’è il
desiderio: una favola raccontata da
un idiota, piena di furia e di
confusione, e assolutamente priva di
significato!
Eppure è lì che gli esseri umani
sono imprigionati! L’uomo non è
intrappolato dal mondo: non
rinunciare al mondo, perché non
c’entra nulla; migliaia di persone vi
hanno rinunciato senza comprendere
la natura del desiderio – e infatti non
sono affatto cambiate!
Possono anche andare
sull’Himalaya, chiudersi in un
monastero – cattolico, hindu,
cristiano o musulmano – oppure
spingersi fino in Tibet, ma non
accadrà assolutamente nulla, perché
in realtà sono incappate di nuovo nel
gioco del desiderio! Adesso queste
persone non desiderano più le cose
del mondo, bensì quelle dell’altro
mondo – dio, il paradiso, il regno dei
cieli, il nirvana, l’illuminazione… –
ma continuano a desiderare! Il
problema è il desiderio, non ciò che
desideri: l’oggetto è irrilevante! Il
desiderio può proiettarsi su qualsiasi
cosa: denaro, potere, prestigio,
rispettabilità e persino il divino e
l’illuminazione – un oggetto vale
l’altro.
Se non comprendi la natura del
desiderio, continuerai
semplicemente a indirizzarlo su
oggetti diversi, ma seguiterà a
esistere, e tu resterai intrappolato
nella sua morsa. Si tratta di una
condizione di grande
inconsapevolezza: continui a
pensare che siano gli oggetti a
renderti infelice, quando in realtà
stai soffrendo a causa del desiderio.
Le persone pensano che la loro
infelicità sia dovuta alle proprie
mogli, ai propri mariti, ai propri
figli, alla società, agli altri, ma non è
vero! Non è affatto così: l’unica
cosa che ti sta facendo soffrire è il
desiderio!
Devi risalire alla causa che sta
alla radice della tua infelicità e
comprenderne l’origine. L’accento
del mio discorso cade infatti sulla
comprensione: non ti sto dicendo di
fare qualcosa al riguardo, non ti sto
ordinando di non desiderare – niente
affatto! Sono l’ultima persona al
mondo che ti direbbe mai una cosa
simile.
Ciò che ti dico è del tutto diverso:
guarda il tuo desiderio, medita su di
esso, immergiti nei suoi abissi,
osservalo quanto più possibile in
profondità, e penetra al suo interno
strato dopo strato, fino al suo nucleo
centrale. Questo addentrarsi nei suoi
meandri crea una rinuncia che non è
frutto di una tua azione, bensì un
dono; poiché nasce dalla
comprensione, non c’è bisogno di
sforzarsi perché avvenga, né c’è
bisogno di allenarsi – e la sua
semplice comparsa sarà una forza
trasformatrice che produrrà in te una
metamorfosi.
D’ora in poi affidati sempre a
questo criterio: ciò che è prodotto da
una tua azione resta sempre
superficiale – come puoi, infatti, dar
vita a qualcosa di profondo, se tu sei
superficiale? I tuoi sforzi non
serviranno a nulla: finora le tue
azioni hanno causato la tua rovina,
ed è ora di finirla! Sposta l’accento:
non si tratta di fare qualcosa!
Il sannyas, la ricerca del Vero cui
ti invito, non ha nulla a che vedere
con il fare: si tratta piuttosto di
essere testimone, ed è una questione
di consapevolezza, di comprensione
e di osservazione: sii dunque
testimone del desiderio!
Al di sotto della sfera umana non
esistono desideri; ci sono i bisogni,
che sono soltanto temporanei: se la
tigre è affamata, va in cerca di una
preda; ma quando non ha fame, non
ha alcun desiderio.

Un giorno una tigre e una lepre
entrarono in un ristorante. La tigre
chiese una Coca-Cola, e il cameriere
domandò alla lepre: «Lei cosa
desidera? E perché il suo amico ha
ordinato solo una Coca-Cola: non ha
fame?».
«Che domanda sarebbe questa?»
risponde la lepre. «Se avesse fame,
crede forse che io sarei qui? Sarei
diventata la sua colazione già da un
bel pezzo! Certo che non ha fame:
per questo sono qui con lei!».

Una tigre mangia quando ha fame,
in caso contrario non accumula
scorte di cibo: non pensa mai al
futuro, perché per lei il domani non
esiste. All’arrivo della primavera gli
alberi fioriscono, ma non si
preparano, non si costruiscono
fantasie e non coltivano grandi
desideri di fioritura; non fanno le
prove, non si esercitano e non fanno
yoga: quando arriva la primavera
fioriscono in modo semplice e
spontaneo, ma la fioritura non è
frutto di un desiderio.
La bellezza e l’immenso silenzio
della natura nascono proprio dal
fatto che al suo interno non esiste
alcun desiderio; non c’è e non può
esserci, perché per crearlo è
necessario un minimo di
consapevolezza – altrimenti come
puoi pensare al domani, preoccuparti
della morte, vagheggiare l’altro
mondo o pianificare il futuro?
Per farlo, occorre un minimo di
consapevolezza, che però resta
limitata; infatti, sono esistiti dei
buddha totalmente consapevoli,
anche in questo caso il desiderio
scompare: come gli alberi, le rocce e
i fiumi, anche un buddha vive in
modo spontaneo, ma naturalmente
c’è un’enorme differenza; al
contrario dell’albero, lui è
consapevole! Fra di loro esiste però
anche una grande somiglianza,
perché entrambi sono
completamente nel momento: il
buddha vive nel presente perché è
del tutto consapevole, mentre
l’albero lo fa perché è totalmente
inconsapevole. La cosa che hanno in
comune è che entrambi sono privi di
dualità e sono interessati da un unico
fenomeno: il buddha è pura e
semplice consapevolezza –
chinmatram –, consapevolezza allo
stato puro, senza alcuna dualità.
L’albero, invece, è inconsapevole;
possiede solo ed esclusivamente
inconsapevolezza – achinmatram –
del tutto pura e priva di dualità.
Quando compare la dualità, si
crea tensione, perché il dualismo
produce una sorta di tiro alla fune –
e l’essere umano è duplice: una
parte di lui è diventata consapevole,
ma la maggior parte è ancora
incosciente. L’uomo è come un
iceberg: solo un decimo del suo
essere – la punta dell’iceberg – è
consapevole, mentre gli altri nove
decimi sono sommersi dall’acqua e
dall’inconsapevolezza; è inevitabile,
quindi, che queste due parti entrino
in conflitto, creando una guerra
civile.
All’interno degli individui è in
corso una perenne lotta interiore: la
parte consapevole dice di fare una
cosa e quella inconsapevole vuole
farne un’altra. Sono due entità del
tutto diverse, che non riescono a
comprendersi e non sono
minimamente in grado di
comunicare: una dice una cosa e
l’altra l’esatto contrario – fra di loro
non è mai esistita alcuna
comunicazione.
A causa di questa spaccatura, gli
esseri umani sono perennemente
confusi e del tutto inconsapevoli di
chi sono; se danno ascolto alla loro
parte consapevole, sono un certo
tipo di persona, ma se seguono
quella inconsapevole diventano del
tutto diversi: per questo sono così
scissi! L’uomo ha diviso il proprio
essere in due parti, non solo a livello
psicologico, ma anche dal punto di
vista fisico e biologico: è convinto
che la metà superiore del suo corpo
sia più importante, e attribuisce a
quella sottostante un’inferiorità non
solo fisica, ma anche morale.
Identificandoti con la parte alta
del corpo, ti distacchi da quella
inferiore, che consideri animale e
soffochi costantemente; queste
repressioni hanno creato una specie
di Grande Muraglia, che ti
impedisce di essere un’entità
completa – e se il tuo essere non è
integro, la pace diventa impossibile.
Gli animali sono in pace; vivono
nella quiete più assoluta, così come
il Buddha: ma l’uomo? L’uomo è
sempre infelice, e a volte, come dice
Whitman, preferisce scegliere di
diventare un animale. Per questo è
così attratto dagli stupefacenti,
perché ti aiutano a scordarti per un
istante della tua consapevolezza e a
sentirti di nuovo integro; non ha
importanza se si tratta di alcol o di
droghe moderne: ti danno comunque
un senso di sollievo e di liberazione
da questa vita di tensione. Ti rilassi,
ti calmi; all’improvviso sei di nuovo
un essere completo, e la vita non
sembra più una lotta continua, il cui
unico esito è il fallimento.
Quando sei ubriaco, sei di nuovo
capace di danzare, di cantare e di
amare; la competizione e la politica
scompaiono: ma per quanto tempo
puoi rimanere in uno stato di
alterazione indotto da sostanze
inebrianti? Prima o poi devi uscirne,
perché non è una condizione che
può diventare permanente – e
quando ritorni al tuo stato normale,
quelle preoccupazioni e quelle ansie
saranno là ad attenderti e ti
assaliranno senza darti tregua.
Si crea quindi un circolo vizioso:
quando non riesci più a sopportare
l’angoscia, ti abbandoni a uno stato
di incoscienza indotto da una droga,
ma quando ritorni in te, le tue ansie
sono ancora lì – e nel frattempo sono
cresciute. Mentre eri profondamente
immerso nel tuo stato di coma, si
sono ingrandite e moltiplicate –
perché non si fermano certo ad
aspettarti! E quando ritorni in te
sono lì ad attendere che ti occupi di
loro.
L’essere umano desidera
costantemente regredire allo stato
animale, ma non può farlo:
nonostante tutti i suoi sforzi, al
massimo può riuscirci per qualche
istante. Eppure la regressione
sembra sempre più facile, perché si
tratta di una discesa: l’altro modo
per essere felice, infatti, è diventare
un buddha, ma si tratta di un
cammino in salita – e per riuscirci
devi continuare a crescere e a
sviluppare la tua consapevolezza.
Ma ricorda che questa è l’unica vera
forma di crescita! L’unico modo per
crescere è aumentare il tuo livello di
coscienza, trasformare il continente
inesplorato che porti dentro di te in
una luce perenne, e colmare tutto il
tuo essere con la fiamma della
consapevolezza – questo significa
crescere!
Prova semplicemente a osservare
la tua vita: quanto ne sei
consapevole? Scoprirai con sorpresa
che la parte di cui sei cosciente è
insignificante, quasi pari a zero. La
tua consapevolezza è molto fragile:
non arriva nemmeno al di là della
superficie! Per farla sparire basta un
nonnulla: se qualcuno ti insulta,
impazzisci, folle di rabbia, e se
qualcuno ti loda diventi tutto tronfio
e il tuo ego si gonfia a dismisura.
Per ferirti, è sufficiente che
mentre cammini per strada due
persone si mettano a ridere – e
magari non ce l’hanno nemmeno
con te! Esistono milioni di ragioni
per ridere: non sei certo l’unica
persona a cui ridere dietro! Si
dicono qualcosa sottovoce e tu inizi
a pensare che stiano sparlando di te:
altrimenti perché mai dovrebbero
bisbigliare? Perché non parlano ad
alta voce? Così vieni invaso dal
sospetto ed entri in ansia… E che ne
è della tua consapevolezza?

Rena era andata in municipio a
denunciare la nascita del sesto figlio.
«Ma signora» disse l’impiegato
«questo è il sesto figlio che ha dallo
stesso uomo! Perché non lo sposa?».
«Sta scherzando?» rispose Rena.
«Quel figlio di puttana non mi piace
neppure!».

E allora – ti chiederai – perché
continua a far l’amore con lui? Ma
non vale nemmeno la pena di porsi
la domanda, perché la gente
continua a fare mille cose senza
conoscerne né la ragione né lo
scopo: le fa semplicemente perché
non ha nient’altro da fare e per
tenersi occupata.

Un uomo chiese all’amico che stava
per sposarsi: «Perché ti sposi? Hai
conosciuto questa donna solo due o
tre giorni fa! Ti sei innamorato o
che?».
«Niente del genere!» rispose
l’amico. «Stavamo ballando in un
locale, e non sapendo cosa dirle, le
ho chiesto di sposarmi».

Può darsi che questa storia ti faccia
ridere, ma prova a pensare alle
domande che hai fatto tu: nascevano
dalla tua consapevolezza, o
semplicemente non sapevi cos’altro
dire? Perché bisogna pur dire
qualcosa! Pensaci: quando parli con
un amico, con tua moglie o con tuo
marito, hai veramente qualcosa da
dire o lo fai solo perché bisogna dire
qualcosa? Il silenzio è così
imbarazzante… E visto che bisogna
parlare in continuazione, ciò che dici
finisce per creare complicazioni: se
smettessi di parlare così tanto, il
99% dei tuoi problemi sparirebbe!
Mi hanno raccontato questa
storia:

Un cacciatore si addentrò nella
giungla e trovò un teschio. Era
davvero esausto, così si sedette
semplicemente sotto un albero
accanto a quel cranio, e dal
momento che non aveva altro da
fare e non c’era nessun altro con cui
parlare, così, senza motivo, gli disse:
«Ciao!».
Ma con sua grande sorpresa il
teschio rispose: «Ciao!».
Il cacciatore era davvero
scioccato: «Ma come?!» chiese.
«Puoi parlare?».
«Certo!» rispose il cranio.
«Cosa ti ha portato a trovarti in
questa situazione?» domandò allora
il cacciatore.
«Le chiacchiere…» rispose il
teschio. «Il troppo parlare!».
L’uomo si spaventò e fuggì di
corsa da quel luogo: non poteva
credere a ciò che era successo!
Poiché si trattava di un fenomeno
davvero miracoloso, andò dritto dal
re e gli disse: «Maestà, ho visto una
cosa incredibile! Ho sentito con le
mie orecchie un teschio che parlava!
Siccome non avevo di meglio da
fare e non c’era nessun altro, gli ho
detto: “Ciao” e, in modo del tutto
inatteso, quel cranio che giaceva
semplicemente a terra accanto a un
albero, ha risposto al mio saluto!».
Il poveretto stava ancora
tremando: «Poi gli ho fatto una
domanda» continuò «e mi ha
risposto! Mi ha detto di sì: quel
teschio è davvero capace di
parlare!».
«Stai scherzando!» esclamò il re.
«No» confermò il cacciatore «ve
lo giuro, maestà!».
«D’accordo» disse il re. «Verrò a
vedere con i miei occhi!».
Seguito da tutta la corte, si recò
sul posto e naturalmente trovò il
teschio; il cacciatore si avvicinò e
disse: «Ciao!». Non ricevendo
risposta, ripeté il saluto a voce più
alta, ma il cranio rimase muto. «Che
cosa ti è successo?» domandò allora
il cacciatore, ma ancora una volta
non ottenne risposta.
«Lo sapevo!» esclamò il re. «O
sei un pazzo, o hai intenzione di
raggirarmi». Poi rivolto ai suoi,
ordinò: «Tagliate la testa a
quest’uomo!».
Il cacciatore venne decapitato
all’istante; la sua testa fu lasciata a
terra, e il re tornò a palazzo. Dopo
che la corte se ne fu andata, il
teschio disse: «Ciao!».
«Che razza di stupido!» esclamò
il cranio del cacciatore. «Perché
prima non hai risposto?».
«Cosa ti ha portato a trovarti in
questa situazione?» gli domandò il
teschio.
«Il troppo parlare…» fu costretto
a rispondere il cranio mozzato del
cacciatore.

Se smettessi di parlare tanto, il 99%
dei tuoi problemi sparirebbe: ma
cos’altro si può fare? La vita è così
vuota! In qualche modo bisogna
riempirla, metterci una toppa,
imbottirla, in modo da farla
sembrare piena. E i desideri ti
riempiono moltissimo, ti tengono in
movimento e ti danno la sensazione
che accada o stia per accadere
qualche cosa; mantengono viva la
speranza e ti spingono ad andare
avanti, altrimenti come potresti
farlo? Come riusciresti a vivere?
Ma quei desideri sono tutti
inconsapevoli: non sai da dove
provengano, come facciano a
impossessarsi di te e che origine
abbiano!

Louis Armstrong fu portato in
tribunale dalla moglie perché non le
pagava l’assegno di mantenimento.
«Giovanotto» disse il giudice
«sua moglie sostiene che avete
dodici figli e lei non partecipa al
loro sostentamento: perché mai un
uomo che non mantiene la sua
famiglia ha voluto così tanti figli?».
«Vostro onore, quando ho quella
sensazione – when I get that feeling»
canticchiò Armstrong «mi sembra di
poter sostenere il mondo intero!».

Ma da dove arriva questa
sensazione? Proviene da un qualche
recesso del tuo essere più profondo,
il quale tuttavia è immerso
nell’oscurità e, brancolando nel
buio, non sei mai riuscito a
identificarne l’origine. L’unica
soluzione, la sola chiave per uscire
dall’infelicità prodotta
dall’inconsapevolezza e da tutti i
problemi da lei provocati, è
diventare più cosciente!
Cosa intendo quando ti dico di
diventare più consapevole? Rendi le
tue azioni non automatiche!
Ricordalo bene: elimina le abitudini
automatiche! Quando cammini, ti
muovi in modo meccanico, perché
non hai bisogno di essere
consapevole per riuscire a farlo,
mentre invece dovresti portare la
consapevolezza su te stesso e
camminare in modo cosciente.
Il Buddha ha detto: «Quando ti
alzi in piedi, alzati in modo
consapevole; quando ti siedi, siediti
in modo consapevole; quando dici
qualcosa, fallo con molta
consapevolezza; quando ascolti,
ascolta in modo consapevole;
quando mangi, mangia in modo
consapevole!».
Un giorno gli accadde questo:

Il Buddha non era ancora illuminato,
ma si stava avvicinando sempre di
più al risveglio; probabilmente il
novantanove per cento del suo
essere era ormai immerso nella luce,
e solo l’uno per cento restava al
buio: era sul punto di realizzarsi, e
questo incidente accadde appena
qualche giorno prima della sua
illuminazione.
Stava camminando insieme ad
altri cinque discepoli, quando una
mosca si posò sulla sua fronte:
mosso dall’abitudine inconscia, la
scacciò sventolando la mano, e la
mosca volò via, ma il Buddha si
fermò di colpo in mezzo alla strada,
e i cinque discepoli rimasero a
osservare ciò che accadde. La mosca
ormai non c’era più, ma il Buddha,
lentamente e in modo molto
consapevole, sollevò di nuovo la
mano e la scacciò – anche se non
c’era!
I discepoli, perplessi, gli chiesero:
«Cosa stai facendo? La mosca se n’è
andata! È volata via quando hai
agitato la mano la prima volta:
perché l’hai scacciata di nuovo?».
«La prima volta l’ho fatto in
modo inconsapevole» rispose il
Buddha «ho agito in modo
meccanico, come un automa, ora sto
rimediando. Il fatto che la mosca
non ci sia più è irrilevante – adesso
sto facendo ciò che avrei dovuto:
sollevo la mano lentamente, in modo
cosciente, con grande
consapevolezza e attenzione. La mia
mente non si trova altrove, ma è del
tutto concentrata su questo semplice
gesto: sollevo la mano e poi la agito
con grande compassione per la
mosca. Quando è arrivata la prima
volta, stavo camminando, mi stavo
guardando intorno, ed è entrata in
funzione la parte automatica del mio
corpo, ma io non ero presente alla
mia azione!».

Quando impari a fare qualcosa,
accade proprio questo. Se stai
imparando a guidare, all’inizio devi
essere molto allerta, devi prestare
attenzione a molte cose: al volante,
all’acceleratore, ai freni, alla
frizione, alla gente sulla strada…
devi essere cosciente di tutte queste
cose. Piano piano, quando ormai
avrai imparato a guidare, non dovrai
più pensare a nulla, perché tutte le
tue azioni saranno diventate
automatiche; a quel punto puoi
cantare, fumare una sigaretta,
ascoltare la radio, chiacchierare con
il tuo amico – puoi fare qualunque
cosa, perché ormai la parte di te che
sta guidando non ha più bisogno
della tua attenzione, che quindi è
libera di dirigersi altrove.
Nella vita questo meccanismo è
necessario, altrimenti non riusciresti
a fare un gran numero di cose:
qualsiasi cosa tu apprenda, viene
quindi trasferita sempre alla parte
automatica, così sarà il robot a
compiere quell’azione, lasciandoti
libero di imparare qualcos’altro.
Nella vita quotidiana va benissimo,
ma piano piano l’automa che è in te
diventa sempre più grande, mentre
la tua minuscola consapevolezza
rimane microscopica.
Il lavoro che bisogna fare su se
stessi consiste nel riprendere in
mano ciò che era stato affidato al
robot, rendendo i processi non
automatici. Ti sorprenderà scoprire
quanta consapevolezza viene
rilasciata quando sottrai
automatismo a un’azione: prova a
camminare in modo consapevole per
una mezz’ora, e rimarrai stupito da
quanta quiete, quanta pace e quanta
serenità sentirai – e tutto questo
apparirà sul tuo volto.
Restando semplicemente seduto
sulla tua sedia, osserva come,
respirando, l’aria entra ed esce in
silenzio dal tuo corpo: sei cosciente
di quando entra dentro di te, la
guardi entrare, la osservi e segui
ogni suo passaggio; tocca le narici,
l’interno del naso; poi si muove e
viene in contatto con la gola; si
sposta ancora, penetra in profondità
nei polmoni, e senti che il ventre si
dilata. Poi, per un attimo tutto si
ferma, non c’è alcun movimento,
quindi il viaggio riprende: il tuo
addome si svuota e, per uscire, l’aria
ripercorre la strada di prima;
fuoriesce dalle narici… si crea
un’altra pausa e comincia un nuovo
respiro.
Ciò che scoprirai osservando un
processo così semplice ti
sorprenderà: è sufficiente osservare
il tuo respiro per un’ora per creare
un silenzio e una consapevolezza
che non hai mai provato prima
d’ora. E questo fa la differenza – è il
particolare che fa la differenza e
lentamente trasforma tutta la tua
vita! Ora sarai in grado di cambiare
il tuo modo di fare qualunque cosa:
mangiare, camminare, respirare –
persino fare l’amore può diventare
un’esperienza molto cosciente.
A quel punto la consapevolezza
comincerà a riversarsi dentro di te
da ogni dove; piano piano mutano
gli equilibri: la tua parte
consapevole supera quella
inconsapevole, e inizi ad avvicinarti
al divino, spostandoti sempre più
lontano dal regno animale. Quando
un individuo è davvero consapevole,
tutti i desideri svaniscono nel nulla,
come gocce di rugiada che
evaporano al sorgere del sole del
mattino.
I desideri non devono essere
abbandonati, bensì sfruttati
anch’essi per accrescere la
consapevolezza!

Passiamo ora a questa famosa storia
Sufi – una delle gemme più preziose
di quella tradizione:

Si narra che un giorno un derviscio
fermò un re per strada.
Il re disse: «Come osi tu, che sei
un uomo senza importanza,
interrompere il cammino di un
sovrano?».

Analizziamo tutti i passaggi
importanti: Si narra che un giorno
un derviscio…

Il derviscio è una persona che si è
realizzata e ha raggiunto la sua
dimora; è un individuo che ha
completato il suo viaggio e ha
chiuso il cerchio: non desidera più
nulla e si trova in uno stato di non-
desiderio. Questa condizione è uno
spazio di beatitudine, di
satcitananda, che è la dimensione
dell’estasi e della consapevolezza
del Vero: il derviscio rappresenta
quindi il più alto livello di crescita.

Si narra che un giorno un derviscio
fermò un re per strada…

Il derviscio ha l’aspetto di un
mendicante, quando in verità è un
re; il re invece ha un aspetto regale,
mentre è soltanto un mendicante. Il
derviscio non possiede niente, ma ha
tutto; in quel suo non possedere
nulla, ha acquisito la capacità di
avere ogni cosa: liberandosi di ogni
desiderio, il suo essere si è colmato
di essenza divina, e non ha più
bisogno di chiedere nulla, perché
non si può concepire niente di più
grande.
Il derviscio vive come un
mendicante, ma si tratta solo di
un’apparenza esteriore; se riesci a
guardare dentro di lui, se i tuoi occhi
sono capaci di vedere e se possiedi
un po’ di consapevolezza, vi troverai
un essere luminoso, al cui interno
scoprirai tutta la grandiosità del
divino e tutto lo splendore
dell’esistenza: è l’uomo più ricco
che esista!
Swami Rama si definiva un
imperatore e quando andò in
America la gente non riusciva a
capire cosa intendesse. In Oriente lo
comprendiamo, perché si tratta
ormai di una verità accertata:
migliaia di anni di esperienza hanno
ripetutamente dimostrato che solo
gli individui come il Buddha sono
veri imperatori, mentre i cosiddetti
imperatori sono soltanto mendicanti,
che cercano in qualche modo di
nascondere la loro vacuità interiore.
Monarchi, presidenti e primi
ministri sono persone che soffrono
di un complesso di inferiorità: per
questo fanno tanto baccano per
dimostrare agli altri di essere
“qualcuno” anziché semplici nullità.
Un uomo che cerca di dimostrare di
essere “qualcuno” in realtà dà
semplicemente prova che nel
profondo è terrorizzato da quanto è
insignificante. Diventando il
presidente di un Paese, crede sia
possibile dimostrare – quantomeno
agli sciocchi – di essere qualcuno, e
guardando negli occhi tutti quegli
imbecilli riesce infatti a crederci lui
stesso: «Se così tante persone
pensano che sono importante» si
dice «devo esserlo di sicuro: com’è
possibile che tutta questa gente si
sbagli?». Inganna gli altri, e
contemporaneamente viene a sua
volta ingannato: si tratta soltanto di
una forma di autoinganno – e gli
orientali lo sanno benissimo.
L’Oriente ha infatti conosciuto i
veri imperatori, ma anche una lunga
serie di mendicanti. Ti sorprenderà
sapere che gli orientali non sono mai
stati interessati a scrivere la storia
degli imperatori, dei primi ministri e
di tutti gli altri nevrotici di quel
genere: il loro interesse è piuttosto
rivolto alle persone come il Buddha,
Rama o Krishna.
L’Occidente continua a stupirsi
moltissimo del fatto che la storia
non ci interessi, quando in realtà ci
siamo preoccupati di scrivere la vera
storia, che riguarda l’evoluzione
della consapevolezza umana. La
vera storia non ha niente a che
vedere con il denaro o con il potere
politico, ma si concentra
esclusivamente su quegli individui
che hanno portato in questo mondo
luce, religione, beatitudine e
consapevolezza, permettendo agli
esseri umani di fare un passo avanti
nel loro cammino di crescita.
Perciò quando Swami Rama andò
in America, la gente rimase
ovviamente molto perplessa, perché,
pur essendo un mendicante, si
definiva un imperatore; così
cominciarono a chiedergli: «Perché
dici di essere un imperatore, se non
possiedi nulla?».
Lui scoppiava a ridere e diceva:
«Proprio per questo! Perché non
possiedo nulla e non ho bisogno di
niente! Sono un imperatore perché
ho tutto ciò di cui ho bisogno! I
vostri imperatori non sono
veramente tali, perché non avranno
mai tutto ciò che desiderano, e i loro
desideri seguiteranno a moltiplicarsi.
Continueranno a vivere come
mendicanti e finiranno per morire
allo stesso modo».
Se provi a guardare nel cuore dei
ricchi, ti renderai conto che sono da
compatire, e sono più miseri di
qualsiasi povero: nel cuore di un
povero può capitare di scoprire una
gemma luminosa, ma è davvero
molto raro trovarla in quello di un
ricco, perché per arricchirsi bisogna
vendere la propria anima. Per
diventare primo ministro o
presidente è necessario distruggere il
proprio essere e scendere a
compromessi, adattandosi alle
richieste della maggioranza, ossia
della parte più becera dell’umanità;
è possibile guidare questa gente solo
assecondandola: perciò i tuoi grandi
leader sono semplicemente persone
che seguono le masse e le folle.

Si narra che un giorno un derviscio
fermò un re per strada…

Perché per strada? Perché il re è in
perenne movimento: è sempre alla
ricerca di qualcos’altro, vuole
sempre di più – è sempre per strada,
sempre impegnato in qualche
viaggio, perché ci sono così tante
cose ancora da conquistare!

Quando Alessandro Magno venne in
India, Diogene gli chiese… Diogene
era un uomo davvero insolito; se ne
andava in giro nudo, come
Mahavira, nella più completa
beatitudine… e chiese ad
Alessandro: «Dove stai andando?».
«A conquistare il mondo intero!»
rispose Alessandro.
«E poi?» continuò Diogene.
«Dopo cosa farai?».
Alessandro rimase un po’
perplesso, perché nessuno gli aveva
mai domandato cosa avrebbe fatto
dopo; ma alla fine, con una scrollata
di spalle, rispose: «Poi mi
riposerò!».
Diogene scoppiò a ridere, con
quella risata folle di cui sono capaci
solo gli illuminati, e Alessandro,
imbarazzato, gli chiese: «Perché
ridi?».
«Rido» spiegò Diogene «perché
io sto riposando in questo preciso
momento!».
Era l’alba, e lui era nudo, sdraiato
sulla riva di un fiume: l’aria era
fresca, il sole stava sorgendo e gli
uccelli cantavano, in un’atmosfera di
totale beatitudine. «Sei proprio uno
sciocco!» disse. «Io mi riposo, e tu
invece lo farai solo quando avrai
conquistato il mondo: ma che senso
ha? Se io posso riposare senza
bisogno di conquistare il mondo,
perché non puoi farlo anche tu?
Forza, vieni a sdraiarti al mio
fianco! L’argine è grande; non c’è
problema: c’è spazio per entrambi
senza bisogno di entrare in
competizione!».
Alessandro rimase praticamente
ipnotizzato da quell’uomo e disse:
«Hai ragione! Nessuno ha mai osato
dirmi cose simili. Capisco ciò che
intendi, ma adesso non posso
proprio fermarmi, perché sono nel
bel mezzo del viaggio – sono per
strada, e devo prima conquistare e
sistemare ogni cosa, poi tornerò
qui».
«Vai pure» riprese Diogene «ma
ricorda che questa strada non ha
fine, e non riuscirai mai a tornare
indietro».
La strada non finisce mai: chi mai
è riuscito a percorrerla tutta?
Arriverà prima la morte! Infatti andò
proprio così, e Alessandro non riuscì
mai a tornare indietro, perché nel
frattempo morì: non fece mai ritorno
al suo Paese, morì a metà strada.
In punto di morte, l’unica cosa a
cui riuscì a pensare fu Diogene:
immagina quanto si dev’essere
sentito povero in quel momento, e
quanto invece Diogene deve essergli
apparso ricco! Si dev’essere sentito
un vero morto di fame, che continua
a mendicare senza sosta…
assolutamente invano, e adesso stava
morendo!
Fu proprio ricordandosi di
Diogene che disse ai suoi generali:
«Quando porterete il mio corpo al
cimitero, lasciate che, durante la
processione, le mie mani sporgano
fuori della bara!».
«Perché?» domandarono i
generali. «Non abbiamo mai sentito
parlare di una tradizione del
genere!».
«In questo modo» spiegò
Alessandro «tutti potranno vedere
che Diogene aveva ragione, e
sapranno che sono morto a mani
vuote: lasciate che la gente veda le
mie mani! Tutta la mia vita è stata
vana e sto morendo a mani vuote,
senza aver ottenuto assolutamente
nulla!».

I re sono sempre per strada…

Si narra che un giorno un derviscio
fermò un re per strada.
Il re disse: «Come osi tu, che sei
un uomo senza importanza,
interrompere il cammino di un
sovrano?».

È davvero difficile distinguere gli
uomini importanti da quelli che non
lo sono: è necessaria una grande
intuizione per riuscire a cogliere
questa differenza. Gli individui che
all’apparenza sembrano importanti,
in realtà non lo sono affatto –
fingono soltanto – mentre quelli che
non sembrano importanti in realtà lo
sono: le apparenze ingannano…

«Come puoi essere un re» rispose il
derviscio «se non sei neppure
capace di riempire il mio kashkul –
la ciotola dell’elemosina?».

Il maestro Sufi sta creando una
situazione paradossale: doveva
essere capace di una compassione
immensa, e stava quindi creando
una situazione bizzarra, davvero
insolita.
«E tu saresti un sovrano?» sta
dicendo. «Ti ritieni un uomo
importante? Se lo sei, allora prova a
fare una cosa semplicissima: ecco,
ho qui con me la mia ciotola
dell’elemosina – il mio kashkul. Sei
capace di riempirla?».
E il re deve essersi messo a ridere,
pensando: «Quest’uomo è pazzo!
Crede forse che non riesca a
riempire una ciotola così piccola?».

Allungò la sua ciotola e il re ordinò
che fosse riempita d’oro, ma non
appena fu colma di monete, queste
scomparvero, e la ciotola fu di
nuovo vuota.
Furono portati uno dopo l’altro
numerosi sacchi pieni d’oro, e
quella ciotola straordinaria
continuò a divorare monete.
«Basta!» ordinò il re. «Questo
imbroglione sta dando fondo al mio
tesoro!»

Il re continuava a non capire quale
fosse il punto: in effetti è molto
difficile riuscirci, e il maestro lo
stava mettendo di fronte alla verità.
Il maestro si è presentato al
discepolo, creando una situazione
che persino un cieco saprebbe
vedere, persino un sordo potrebbe
udire, e persino un uomo senza
cuore sarebbe in grado di sentire.
Purtroppo la gente è testarda, e
continua a ostinarsi nella propria
idiozia, impuntandosi su ideologie,
credenze e pregiudizi.

«Basta!» ordinò il re. «Questo
imbroglione sta dando fondo al mio
tesoro!».

Il maestro gli appare come un
imbroglione alla ricerca del suo
tesoro; in realtà sta cercando lui: non
è certo interessato alle sue
ricchezze! Un maestro è sempre alla
ricerca del discepolo, ma a volte non
te ne accorgi perché si possono
verificare situazioni in cui la tua
mente interpreta la cosa in modo
errato.
Il re conosce solo ed
esclusivamente il denaro;
comprende un’unica lingua: quella
del denaro, ed è quindi sicuro che
quell’uomo voglia imbrogliarlo.
L’unica cosa a cui riesce a pensare è
un sotterfugio: «Quella ciotola
dell’elemosina dev’essere truccata!»
si dice. «In realtà non può essere
riempita e quest’uomo finirà per dar
fondo a tutto il mio tesoro! Mi ha
colto in fallo, mi ha provocato e
adesso mi sta imbrogliando!».

«Dal tuo punto di vista sto dando
fondo al tuo tesoro» dice il derviscio
«perché non sei capace di andare
oltre. I tuoi occhi sono concentrati
soltanto sul denaro: non riesci a
pensare ad altro e traduci qualsiasi
cosa in termini di ricchezze – come
se fosse tutto ciò che esiste. Ma la
vita è molto più di questo: il denaro
non significa nulla!».

«Dal tuo punto di vista sto dando
fondo al tuo tesoro» rispose il
derviscio «ma agli occhi degli altri,
sto semplicemente mostrando la
verità!».

Chi sono gli altri? Il derviscio
doveva essere circondato dai suoi
discepoli: aveva creato questa
situazione non soltanto per il re, ma
anche per i discepoli, a cui voleva
dimostrare una verità.
Ma quale verità stava illustrando?

«E quale sarebbe questa verità?»
chiese il re.
«La verità è che la ciotola
rappresenta i desideri degli esseri
umani…».

La ciotola è la mente – la testa dà
forma a quella ciotola: rappresenta
la mente degli esseri umani e la loro
brama costante di diventare questo o
quest’altro, di guadagnare, di trarre
un profitto… Rappresenta l’avidità e
lo sforzo continuo di essere diversi
da ciò che si è, di diventare qualcun
altro e di essere da qualche altra
parte, di essere più potenti e di
possedere di più: tutta questa folle
voracità è rappresentata dalla
ciotola.

«La verità è che la ciotola
rappresenta i desideri degli esseri
umani, mentre l’oro è ciò che viene
loro donato…».

E l’esistenza ti ha dato molto più di
ciò che ti è davvero necessario,
molto più di quanto meriti: il divino
ha continuato a ricoprirti e a
colmarti di doni che non ti sei
guadagnato. Eppure, guarda quanto
sono riconoscenti gli esseri umani!

Non siamo nemmeno capaci di
ringraziare semplicemente
l’esistenza: continuiamo a
lamentarci del divino e a chiedere
sempre di più.
Ogni tua preghiera non è che un
modo per chiedere di più; ti è mai
capitato di pregare senza chiedere
nulla, né direttamente né
indirettamente?

Una giovane donna sentì un mistico
che diceva: «Al divino non bisogna
domandare nulla per se stessi: chiedi
solo cose per gli altri, e le tue
preghiere verranno ascoltate! Fa’ in
modo che le tue richieste nascano
dalla compassione!».
Pur essendo giovane, quella
donna era molto preoccupata… In
realtà era andata dal mistico solo
perché la aiutasse a concludere un
buon matrimonio: il tempo stava
passando e lei voleva un marito,
perché probabilmente era una
persona insignificante, ordinaria,
povera o chissà che altro. Ma il
mistico stava dicendo che le
preghiere vengono esaudite solo se
non chiedi nulla per te stesso, e la
donna si domandò quindi che senso
avesse pregare.
Ma alla fine trovò una
scappatoia… andò al tempio a
pregare, e disse: «Ti prego signore,
concedi a mia madre un bel
genero!».

In modo diretto o indiretto, quando
preghi chiedi sempre qualcosa – e le
domande inquinano la preghiera, la
uccidono e le tarpano le ali,
impedendole di raggiungere il
divino: solo le preghiere del tutto
disinteressate sono abbastanza
leggere per librarsi in volo fino a
raggiungere la pienezza
dell’esistenza.

«La verità è che la ciotola
rappresenta i desideri degli esseri
umani» rispose il derviscio «mentre
l’oro è ciò che viene loro donato: la
capacità di un uomo di divorare ciò
che riceve, senza esserne
minimamente trasformato, non ha
fine…».

L’uomo continua a divorare ogni
cosa; anche se lo ricopri
continuamente di doni, più gli dai e
più aumentano le sue pretese, senza
che la sua frustrazione si riduca. La
distanza fra gli esseri umani e i loro
desideri resta sempre invariata: è
una delle costanti immutabili di
questo mondo.
La distanza che ti separa
dall’orizzonte è sempre la stessa;
puoi camminare quanto vuoi, e non
fa differenza che tu vada a piedi o
cerchi di accorciare i tempi
prendendo un aereo: l’orizzonte
rimane là, continua a trovarsi laggiù
– non è mai dove sei tu. Più ti muovi
verso l’orizzonte, più lui continua a
retrocedere, senza che tu riesca mai
ad avvicinarti.
E non si può certo dire che agli
esseri umani non sia stato dato
nulla! Pensa soltanto a tutta la
bellezza, alla benedizione
dell’esistenza, al silenzio, alla gioia
e alla celebrazione che hai intorno!
Hai mai ringraziato l’esistenza per
una rosa? Se non l’hai mai fatto,
quando pensi di farlo? L’hai mai
ringraziata per le gocce di rugiada
che, come perle, al sorgere del sole,
scivolano in silenzio sulle foglie? A
volte, quando i raggi di luce le
attraversano, creano intorno a sé
piccoli arcobaleni: ti sei mai accorto
di questa bellezza, di questa poesia,
di questa celebrazione continua
dell’esistenza? Quando ti deciderai a
ringraziarla? Cosa stai aspettando?
Te ne sei scordato? Hai dimenticato
come inchinarti pieno di gratitudine?
Le persone che comprendono
tutto questo, ringraziano e
glorificano sempre l’esistenza,
anche nei momenti in cui
sembrerebbe impossibile.
Lascia che ti racconti ancora di
Zusiya, quel mistico che correva,
saltava e danzava nella sinagoga, in
un modo così folle e selvaggio da far
fuggire i presenti, perché buttava i
tavoli a gambe all’aria; travolgeva
qualunque cosa si mettesse fra lui e
la sua estasi, perché danzava con un
tale abbandono che si scordava di
tutti: si dimenticava persino di se
stesso – in quei momenti esisteva
solo il divino!

Sai cosa fece Zusiya quando morì
suo figlio – il suo unico figlio che
aveva amato tanto intensamente? Si
mise a danzare! Danzò per tutta la
strada che conduceva al cimitero;
con gli occhi pieni di lacrime di
gioia, disse al divino: «Guarda! Mi
hai donato un’anima così splendida
e pura, e io te la sto restituendo
luminosa e incontaminata come
quando me l’hai data! Non è stata
minimamente intaccata! Lo vedi? Ti
sto restituendo il tuo dono, e sono
felice – sono immensamente grato
per i pochi giorni che mi hai
concesso di trascorrere insieme a
questo bambino: adesso,
probabilmente, è ora che ritorni a
casa!».

Se hai la capacità di vederlo, ogni
cosa diventa motivo di celebrazione;
se invece non riesci a farlo, tutto è
motivo di lamentela.

«La verità è che la ciotola
rappresenta i desideri degli esseri
umani» rispose il derviscio «mentre
l’oro è ciò che viene loro donato: la
capacità di un uomo di divorare ciò
che riceve, senza esserne
minimamente trasformato, non ha
fine…».

Nonostante tu venga costantemente
ricoperto di doni, non cambi mai e
rimani lo stesso di sempre: divori
ogni cosa, ma nulla riesce a
trasformarti!

«Come vedi, la ciotola si è mangiata
quasi tutte le tue ricchezze, ma
continua a essere solo un guscio
vuoto di cocco di mare, e non è stata
minimamente intaccata dalla natura
dell’oro».

Ricorda sempre che, se inizi a
provare gratitudine, verrai
trasformato! Il tuo essere inizierà a
tramutarsi da metallo comune in oro
– l’alchimia consiste proprio in
questo, ed è precisamente l’essenza
del sannyas. Il sannyas è alchimia
allo stato più puro; è la nuova
alchimia: la scienza di trasformare
ciò che è comune in qualcosa di più
grande – e il mezzo che ti consente
di farlo è la gratitudine.
Sii grato! Se cerchi dei motivi per
essere grato, ne troverai infiniti! Per
danzare e cantare, basta il sole che
sorge la mattina: è una ragione più
che sufficiente, perché in quel sole
rinasce l’esistenza! E puoi cantare e
danzare di sera quando il sole
tramonta, perché presto giungerà la
notte, con la sua meravigliosa
oscurità e tutte le sue stelle: fra poco
sarai avvolto dal mistero, dalla
magia del buio, dalla frescura, dal
silenzio e dalla musica infinita
dell’oscurità!
Continua semplicemente a cercare
ragioni per celebrare, e diverrai una
persona religiosa! Lentamente, ogni
istante di profonda gratitudine che
senti intimamente ti trasformerà: i
desideri non ti trasformano mai –
soltanto la gratitudine può riuscirci!
E infatti sono due cose
diametralmente opposte; il desiderio
strilla: «Dammi di più! Mi sto
lamentando, perché esigo di più!».
La gratitudine al contrario dice: «Mi
hai già dato molto più di quanto io
abbia mai meritato, e ti ringrazio: ti
sono grato!». Capisci qual è il
punto? Mentre il desiderio chiede:
«Dammi di più!», la gratitudine
dice: «Mi hai già dato così tanto!
Non ho bisogno d’altro: i tuoi doni
mi basteranno per l’eternità!».
Il desiderio ti proietta nel futuro,
mentre la gratitudine ti aiuta a
fermarti, mantenendoti nel presente.
La gratitudine è meditazione:
significa stare nel quieora, in
perfetto silenzio… e in questo modo
ti si aprono le porte del Tutto! Nel
tuo essere sbocceranno migliaia di
fiori di loto, e quella fragranza ti
trasformerà: colmerà la tua ciotola
dell’elemosina e diverrai un
imperatore, smettendo finalmente di
essere un mendicante.
Io voglio offrirti proprio questo,
ma se continui a desiderare, non mi
sarà possibile! Questo dono ti può
essere offerto solo se smetti di
desiderare: se continui a chiederlo, ti
sfuggirà – ma se smetti di
pretenderlo e inizi a celebrarlo, è già
tuo!

«Se provi a entrare tu stesso nella
ciotola» continuò il derviscio
«divorerà anche te. Com’è possibile,
dunque, che un re si consideri una
persona importante?».

Certo, le cose stanno proprio così:
questo “di più”, questo costante
desiderio, questa ossessione di
possedere sempre di più divora tutto
ciò che continui a raccogliere, e
finirà per divorare anche te. La
morte è precisamente questo:
significa essere divorati dal proprio
desiderio, mangiati vivi dalla propria
mente affamata! La morte è proprio
questo: prima o poi entrerai tu stesso
nella ciotola – che è semplicemente
la tua tomba.

Il derviscio ha ragione: «Se provi a
entrare tu stesso nella ciotola,
divorerà anche te. Com’è possibile,
dunque, che un re si consideri una
persona importante?».

«Che sciocchezze sono queste?» ti
sta dicendo. «Pensi forse di essere
una persona importante? Non riesci
neppure a riempire questa minuscola
ciotola dell’elemosina, e credi di
essere un re? Dimentica totalmente
una simile idiozia! Il tuo regno non
vale niente; non è neppure capace di
riempire la ciotola dell’elemosina di
un mendicante: che valore vuoi che
abbia? E se provi a entrarci tu
stesso, sparirai, perché vali meno di
quella ciotola! Affermare di essere
importante è pura idiozia, perché
non lo sei affatto!».
Un uomo può acquistare qualche
importanza solo se smette di
desiderare: nel momento in cui
smetti di desiderare, diventi te stesso
– e all’improvviso ti risvegli al tuo
essere più intimo!
Voglio raccontarti una parabola
molto antica e famosa:

Un giorno dieci uomini guadarono
un fiume pericoloso e impetuoso;
raggiunta l’altra riva, si contarono,
per assicurarsi che tutti fossero sani
e salvi, ma ognuno di loro riusciva a
contare solo nove persone. Sentendo
che stavano piangendo la perdita di
un compagno, un passante si mise a
contarli e si accorse che erano in
dieci; chiese dunque a ciascuno di
loro di contare di nuovo tutti i
superstiti, e ognuno arrivò solo fino
a nove. Al che lo straniero, toccando
il petto dell’uomo che stava
contando, disse: «Il decimo sei tu!».

Il compito di un maestro è di
metterti una mano sul cuore,
dicendoti: «Tu sei il decimo!».
Continui a cercare ovunque, tranne
che nel tuo essere! Se ti limiti a
contare tutti gli altri, arrivi solo fino
a nove: ne manca sempre uno, e
continui a cercarlo in eterno senza
trovarlo, perché quella persona sei
tu!
Nel momento in cui un individuo
trova se stesso, diventa un
imperatore!

Allo stesso modo Arthur Stanley
Eddington, che era un grande
scienziato, disse: «Sulla soglia
dell’ignoto è stata trovata una strana
impronta, e per spiegare la sua
origine, abbiamo ideato una sfilza di
teorie davvero complesse. Alla fine
siamo riusciti a ricostruire il profilo
delle creature a cui appartiene
l’impronta, e – sorpresa! – siamo
proprio noi!».

Tu sei il decimo! Se riesci a
impadronirti di questa semplice
chiave, l’imperatore sei tu – e tutti i
tesori e i misteri dell’esistenza sono
a tua disposizione!
Tutti si dannano per capire dove
sia il decimo… quando è dentro di
te! Ciò che si cerca non sta fuori dal
proprio essere, bensì in colui che lo
cerca: il divino non si trova
all’esterno, ma all’interno del
ricercatore. Se continui a cercarlo,
non lo troverai: smetti di cercare!
Guarda dentro di te, e lo troverai
subito – sorpresa! L’impronta è la
tua!
Il decimo uomo manca alla
conta… e quella persona sei tu!
Capitolo 8

LASCIA CHE ACCADA...


QUALUNQUE COSA SIA




La prima domanda:
Osho, cosa intendi esattamente per
“ignoranza consapevole”? Significa
riconoscere che, in ultima analisi,
l’essere umano è fondamentalmente
ignorante o c’è di più?

La seconda domanda:
Osho,
ricordo
e lascio andare.
Dimentico
e lascio andare.
La mia storia d’amore con la vita
si fa sempre più profonda.
Non sono ancora privo di dubbi,
ma mi spingono a tuffarmi in avanti.
Con una danza imprevedibile,
lascio che tutto intorno a me
si dissolva nella musica…
Oh, Osho, ti ringrazio!

Ho una domanda sulle polarità:
maschile e femminile, Sufi e Zen… è
possibile che una persona riesca a
contenerle tutte dentro di sé?

La terza domanda:
Osho, che relazione c’è fra ansia e
desiderio? È più facile accorgersi
che una persona è schiava del
desiderio, piuttosto che in preda
all’ansia: infatti, quantomeno nella
nostra lingua, non esiste un verbo
riferito all’ansia. Desidero a causa
dell’ansia o sono in ansia per il
desiderio?

La quarta domanda:
Osho, non ti annoi mai? Perché non
lasci perdere l’ashram e non vai a
vivere nella foresta?
Osho, cosa intendi esattamente per
“ignoranza consapevole”? Significa
riconoscere che, in ultima analisi,
l’essere umano è fondamentalmente
ignorante o c’è di più?

L’ignoranza consapevole non ha
nulla a che vedere con l’ignoranza: è
lo stato di consapevolezza suprema,
come può trattarsi di ignoranza? È
conoscenza allo stato puro, ma
ovviamente non comporta alcun
sapere: per questo si chiama
ignoranza. Rappresenta invece il
conoscere, la conoscenza perfetta,
chiara, cristallina: è uno stato in cui
non si accumula nessun sapere, ma
si conosce ogni cosa.
L’ignoranza consapevole è
innocente e consapevole insieme. Se
l’innocenza rimane inconsapevole,
prima o poi finisce per essere
corrotta dal sapere: la mente
inconscia, infatti, corre sempre il
rischio di essere contaminata,
inquinata e sviata.
Consapevolezza significa essere
centrato, perfettamente vigile; non
c’è modo di venire distratto da una
simile condizione: resti nel tuo
conoscere, senza accumulare alcun
sapere. Il sapere riguarda sempre il
passato, mentre il conoscere è
sempre nel momento, concerne
sempre il presente; è come uno
specchio: riflette qualcosa solo se un
oggetto gli arriva di fronte, ma una
volta passato, torna a essere vuoto.
Questa è ignoranza consapevole:
non vuol dire che lo specchio non
rifletta nulla, ma che pur riflettendo
le immagini, a differenza di una
lastra fotografica, non le trattiene.
La lastra fotografica accumula
sapere, perché quando qualcosa
viene riflesso sulla sua superficie, ne
trattiene l’immagine e la fissa; lo
specchio, invece, non ne viene
intaccato, ma resta libero, aperto,
vulnerabile, disarmato e indifeso,
rimanendo sempre vergine. La
verginità è precisamente la
condizione in cui nulla può
contaminarti: semplicemente le cose
vanno e vengono.
Mi chiedi cosa intendo di preciso
con “ignoranza consapevole”: è
consapevolezza, conoscenza
consapevole. La chiamo ignoranza
perché non può rivendicare alcun
sapere – ecco il motivo: non è
possibile dire: «Io so».

Quando l’imperatore Wu chiese a
Bodhidharma: «Chi sei?», lui
rispose semplicemente: «Non so».
La sua era ignoranza consapevole,
ma Wu lo fraintese e pensò: «Che
senso ha? Se non sai nemmeno chi
sei, allora che differenza c’è fra me e
te? Anch’io non so chi sono!».

Wu è semplicemente ignorante,
mentre quella di Bodhidharma è
ignoranza consapevole: è la parola
“consapevolezza” a fare tutta la
differenza, e si tratta della differenza
più grande del mondo! Trasforma
interamente la natura dell’ignoranza,
che diventa luminosa: è lucente –
invece di essere zeppa di saperi, è
piena di luce!

Mi domandi se significa riconoscere
che, in ultima analisi, l’essere
umano è fondamentalmente
ignorante.
No, non è così: in quel caso non si
è! Come potresti essere, in ultima
analisi, fondamentalmente
ignorante? Per pensare di essere
bisogna aver già accumulato e
rivendicato un sapere: significa aver
già dichiarato al mondo: «Io sono!».
Le persone che hanno compreso
sanno che non è assolutamente così;
sanno che non sono io a esistere
bensì il divino, e che il loro essere è
arbitrario ed è pura fantasia: l’io
come entità autonoma non è mai
esistito! Non è che un’onda
nell’oceano: quando quell’onda si
alza, ergendosi fino al cielo, crede di
poter affermare «Io sono», ma nel
frattempo l’oceano ride
fragorosamente, perché sa benissimo
che quell’onda è impazzita, e presto
sparirà di nuovo nelle sue acque.
Anche nel momento in cui esiste,
l’onda non è mai qualcosa di distinto
dall’oceano: non può esserne
separata! Riesci forse a esistere,
anche per un singolo istante, senza
l’universo che ti circonda? Neanche
per un minuto!
E allora chi sei? Cosa sei?

Significa riconoscere che, in ultima
analisi, l’essere umano è
fondamentalmente ignorante?
No, non è così. Innanzitutto,
l’ignoranza consapevole sa
perfettamente che nessun essere
umano è: al suo interno c’è un
silenzio assoluto e in quel luogo non
c’è mai stato nessuno. L’hai sognato,
si è trattato soltanto di
un’allucinazione: tu non sei altro che
una costruzione prodotta dalla tua
mente sognatrice.
In secondo luogo, il termine
“ignoranza” non si riferisce al fatto
che una persona sia ignorante, ma
indica soltanto che la vita è
fondamentalmente misteriosa.
Perciò ricorda che l’accento non va
posto sulla parola ignoranza, perché
l’ego è molto scaltro e può
sopravvivere persino all’idea
dell’ignoranza: «In ultima analisi
sono fondamentalmente ignorante»
dice a se stesso «ma comunque
sono!».
Prima rivendicava la propria
esistenza attraverso il sapere: «Al
contrario di quella di chiunque
altro,» pensava «la mia cultura è
fondata». Ora invece afferma: «Non
esiste alcun vero sapere e io sono
ignorante, ma comunque sono!».
Dietro all’ignoranza continua quindi
a nascondersi l’ego: ha
semplicemente assunto un altro
volto, una nuova maschera, un
personaggio diverso, ma continua lo
stesso vecchio gioco di sempre,
usando semplicemente regole
diverse. È cambiata la forma, ma il
contenuto è identico; si tratta dello
stesso vecchio sogno, dello stesso
stupido miraggio: è sempre il
medesimo ego arbitrario che
rivendica se stesso in modo assoluto.
No, quando parlo di ignoranza,
non pongo mai l’accento sull’io,
bensì sul mistero assoluto
dell’esistenza. L’ignoranza è
assoluta perché l’esistenza non può
essere ridotta ad alcun sapere; è
irriducibile: è un mistero, e rimarrà
sempre tale! Non è possibile
demistificarla e, infatti, più cerchi di
farlo, più diventa imperscrutabile e
acquisisce nuove dimensioni di
mistero.
Pensaci: cinquemila anni di
evoluzione umana hanno mai aiutato
a demistificare in qualche modo
l’esistenza? In realtà è diventata
molto più misteriosa di quanto lo sia
mai stata prima. Cinquemila anni fa
esisteva un numero limitato di stelle,
perché di notte non è possibile
contarne a occhio nudo più di
tremila; in una notte buia, limpida e
stellata, si possono vedere al
massimo tremila stelle: l’occhio
umano non riesce a individuarne di
più. Ma quante sono le stelle? Oggi,
gli scienziati dicono di averne
contate tremila miliardi: prima ne
vedevamo solo tremila e adesso ci
sono tremila miliardi di stelle! E non
è finita, perché il conteggio è appena
cominciato!
L’esistenza prosegue all’infinito e
sembra proprio impossibile che da
qualche parte possa avere fine.
Quando il mistico dei tempi dei
Veda guardava il cielo, gli appariva
misterioso, ma ai tuoi occhi lo è
molto di più: quei mistici ti
invidieranno, in realtà tu non lo
guardi nemmeno!
Per migliaia di anni l’uomo è
stato convinto che la vita e
l’esistenza fossero fatte di materia,
mentre ora i fisici sostengono che la
materia non esiste e che tutto è
energia. Non sono stati capaci di
risolvere il mistero della materia,
che si è fatto molto più profondo, e
adesso non esiste più alcuna materia:
tutto è energia.
È cos’è l’energia? Anche solo
darne una definizione sta diventando
molto difficile, perché prima la si
definiva per contrasto rispetto alla
materia, ma adesso la materia non
esiste più: e allora come si può
definire l’energia? È diventato
impossibile, e resta quindi avvolta
nel suo mistero più puro: tutti gli
sforzi che sono stati fatti per
definirla, l’hanno resa ancora più
misteriosa!
Se ti addentri nel mondo della
fisica resterai sorpreso: al giorno
d’oggi nemmeno i mistici – con tutte
le loro divinità, i loro paradisi, le
anime e gli angeli – appaiono
altrettanto misteriosi! Il mondo della
fisica moderna è molto più
imperscrutabile, incomprensibile e
misterioso: pensa solo allo spazio
infinito…
Albert Einstein afferma che lo
spazio continua a espandersi: ma
all’interno di che cosa? Einstein dice
che non lo sappiamo ancora, ma una
cosa è sicura: è in continua
espansione.
L’esistenza si sta espandendo, ma
all’interno di cosa? È naturale che
sorga quell’interrogativo: al di là
dell’esistenza deve esistere uno
spazio di cui però non è possibile
parlare; a proibirlo è la definizione
stessa di esistenza, perché con
questo termine si intende tutto ciò
che esiste, spazio compreso: ogni
cosa! Allora come può espandersi?
E all’interno di che cosa, se include
tutto?
L’esistenza è talmente misteriosa!
È come se un giorno andassi al
mercato con il tuo essere in tasca:
ma è possibile tenere in tasca il
proprio essere? In effetti dovrebbe,
se l’esistenza può espandersi senza
che esista uno spazio nel quale possa
crescere! Tutto lo spazio è compreso
nella tasca, eppure continua a
espandersi all’interno di quella
stessa tasca. Sembra assurdo: i koan
Zen non sono niente a confronto!
Einstein dice che il mondo è
finito, e anche questo è un mistero:
se il mondo è finito, dovrebbe
esserci qualcosa che lo definisce,
dovrebbe esistere un confine! Se
affermi che è finito, dovrebbe
esserci un limite, ma perché questo
sia possibile, bisogna accettare che
al di là di quel limite ci sia
qualcos’altro, altrimenti è
impossibile tracciare un confine: per
stabilire una linea di demarcazione
devono per forza esistere due
oggetti!
Intorno alla tua casa può esserci
una recinzione, se esistono dei
vicini; ma se non ce ne sono, se oltre
il tuo recinto non esiste nulla, come
puoi costruire una staccionata, e
dove dovresti collocarla? Come puoi
decidere quale sia il punto giusto per
erigere un recinto, come puoi
stabilire che una parte ti appartiene,
se al di fuori non c’è nulla?
Eppure Einstein sostiene che le
cose stanno in questo modo: «Non
siamo in grado di spiegarlo» ha
scritto «ma è proprio così: il mondo
è finito, anche se non ha confini. Si
tratta di una finitezza priva di
confini!». È assurdo, davvero
illogico!
E non è finita qui: questa finitezza
senza confini ha una forma tonda,
perché tutto è rotondo; ma com’è
possibile che una cosa priva di limiti
sia tonda? Cosa le conferisce questa
forma?
Il mistero continua a infittirsi
giorno dopo giorno e Einstein è
arrivato soltanto alla soglia
dell’esistenza: è una cosa da pazzi!
Perciò quando parlo di ignoranza
consapevole, non mi riferisco al
fatto che sei ignorante: intendo che
la vita è così vasta e l’esistenza così
infinita, che è impossibile
scandagliarle – non si possono
misurare, perché sono realtà non
misurabili.

Cosa intendi esattamente per
“ignoranza consapevole”? Significa
riconoscere che, in ultima analisi,
l’essere umano è fondamentalmente
ignorante o c’è di più?

Se non ci fosse di più,
significherebbe che il mistero è
risolto: c’è e ci sarà sempre di più!
Qualsiasi cosa si possa dire non sarà
mai abbastanza: resterà sempre
qualcosa che non è stato detto.
E fai attenzione, perché non ti sto
dicendo che le cose inespresse, che
comunque riesci a comprendere a
livello interiore, sono sufficienti:
anche questo non è abbastanza!
Nulla è sufficiente: quando affermo
che l’esistenza è misteriosa, intendo
proprio che semplicemente non può
essere compresa.
Rendersi conto di questo aspetto
fa sentire umili: vedere questa verità
e lasciare che penetri nel tuo cuore ti
spinge a inchinarti! E inchinarsi di
fronte a questo mistero
imperscrutabile – non solo
sconosciuto ma anche inconoscibile
– è preghiera!


Osho,
ricordo
e lascio andare.
Dimentico
e lascio andare.
La mia storia d’amore con la vita
si fa sempre più profonda.
Non sono ancora privo di dubbi,
ma mi spingono a tuffarmi in avanti.
Con una danza imprevedibile,
lascio che tutto intorno a me
si dissolva nella musica…
Oh, Osho, ti ringrazio!

Ho una domanda sulle polarità:
maschile e femminile, Sufi e Zen… è
possibile che una persona riesca a
contenerle tutte dentro di sé?

Certo! Io racchiudo in me tutte le
polarità, e puoi farlo anche tu,
perché l’essere è davvero vasto, e
non è né maschile né femminile: lo
sono il tuo corpo e la tua psicologia,
ma non l’essere. L’essere è
semplicemente essenza.
Nel centro più profondo della tua
esistenza non c’è né un uomo né una
donna, perché la consapevolezza va
oltre qualsiasi polarità. Quando sei
testimone del tuo corpo, a seconda
che tu sia uomo o donna, l’oggetto
della tua osservazione sarà
rispettivamente un corpo maschile o
femminile, ma il testimone è
semplicemente testimone,
indipendentemente dal tuo sesso!
Che tu sia uomo o donna non fa
differenza, perché il testimone non è
né maschile né femminile; sta
semplicemente là, come un puro
osservatore: è consapevolezza,
coscienza pura, e questa
consapevolezza comprende tutto.
Quando diventi un testimone – un
buddha – ogni cosa viene compresa,
e le polarità non hanno più alcuna
importanza.
Il mondo non presenta soltanto
polarità; il significato dell’idea di
trinità del cristianesimo e del
concetto di trimurti degli hindu è
proprio questo: la realtà non è divisa
in due, bensì in tre. Il tre è
veramente essenziale: la dualità è un
fenomeno che interessa la superficie,
mentre il tre è una qualità del centro.
Il binomio maschile/femminile,
come quello Zen/Sufi, interessa il
livello superficiale, ma se procedi
verso il centro e se ti tuffi nelle
profondità del tuo essere,
raggiungendo il suo nucleo centrale,
tutte queste polarità scompaiono, e
si esiste semplicemente – in una
sorta di purezza, di esistenza pura.
Raggiungere questo livello è
possibile! Anzi, bisogna fare in
modo che accada, ed è proprio il
lavoro che ti spingo a fare. Durante
il cammino scegli pure la via dei
Sufi o dello Zen, ma una volta
raggiunto il centro, dimentica tutto
questo! Quando si raggiunge
l’obiettivo, bisogna dimenticare il
sentiero: tutte queste distinzioni
riguardano soltanto il cammino!
È possibile scegliere diverse
strade, e raggiungere la cima di una
montagna da molti lati; e quando si
percorrono sentieri diversi, sembra
che ci si muova in direzioni
differenti, a volte persino opposte:
un percorso è orientato a Nord,
l’altro a Sud… ma alla fine, una
volta raggiunta la cima, si arriva
sulla stessa vetta.
In cima alla vetta il Buddha è
Cristo, Cristo è Krishna, Krishna è
Maometto, Maometto è Zarathustra
e Zarathustra è Lao-tzu, perché sulla
cima ogni distinzione si dissolve.
Perciò per adesso scegli pure i Sufi o
lo Zen, ma quando sarai arrivato
sulla vetta, diventa Sufi/Zen; a quel
punto dimentica ogni polarità.
Durante il cammino, tuttavia,
bisogna per forza seguire un
sentiero, e vanno bene tutti, perché
conducono alla stessa destinazione:
qualsiasi porta va bene, perché si
aprono tutte sullo stesso tempio!

Mi dici:
Ricordo
e lascio andare.
Dimentico
e lascio andare.
La mia storia d’amore con la vita
si fa sempre più profonda.
Non sono ancora privo di dubbi…

Non ti preoccupare di questo, perché
è assolutamente normale avere
dubbi lungo il sentiero: se non ne
hai, significa che hai raggiunto la
cima, perché scompaiono soltanto
sulla vetta. I dubbi hanno uno scopo
ben preciso; infatti, ti spronano e ti
spingono a proseguire.
Non rappresentano
necessariamente un ostacolo:
dipende da te, da come li usi. In
effetti possono diventare un
impedimento: se a causa loro smetti
semplicemente di muoverti,
impuntandoti a non andare avanti
finché non li avrai eliminati, si
trasformano in macigni; se invece
dici: «Nonostante i miei dubbi
continuerò a camminare, perché è
l’unico modo per risolverli: finché
non avrò raggiunto un livello
superiore, non riuscirò a dissipare
alcun dubbio!», ti aiuteranno a
migliorare la tua visione,
spingendoti a raggiungere un punto
di vista più elevato.
Non puoi risolvere i tuoi dubbi
restando aggrappato alla posizione
in cui ti trovi, perché sono prodotti
da quella stessa condizione mentale:
se resti aggrappato a quello stato,
continueranno a esistere, diventando
ogni giorno più forti.
I tuoi dubbi non possono essere
sciolti grazie alla risposta di qualcun
altro, perché non sono filosofici ma
esistenziali, e si risolvono soltanto
con l’esperienza. Quando ti sposti
un po’ più in alto, scompaiono,
perché hai raggiunto una condizione
mentale diversa, nella quale non
possono più esistere: all’improvviso
spariscono, ed è come se non ci
fossero mai stati.
Anche se hai un dubbio, devi
continuare a muoverti: in realtà,
bisogna usarlo come uno stimolo a
proseguire. Perciò ascolta il tuo
dubbio e digli: «Va bene, mi
ricorderò di te, ma potrò risolverti
soltanto facendo un passo avanti nel
mio cammino di consapevolezza.
Devo diventare un po’ più vigile,
perché è stata proprio la mia scarsa
presenza consapevole a crearti; è
stata la mia inconsapevolezza a
produrti, a nutrirti e ad alimentarti:
la causa di tutto è il mio agire in
modo meccanico!».
Se cerchi di risolvere i tuoi dubbi
restando dove sei, inizierai a
raccogliere moltissime risposte
provenienti da innumerevoli fonti
diverse, e tutte queste nozioni ti
faranno sembrare colto, quando in
verità non sai nulla: anche se sarai
imbottito di informazioni, da
qualche parte il dubbio continuerà a
esistere. All’apparenza, potrai
magari fingere di sapere, ma nel
profondo sarai cosciente di non
sapere nulla, e questo logorerà il tuo
cuore. Puoi imparare le risposte a
memoria e cominciare a ripeterle
agli altri, ma la tua personale
esistenza e il tuo stile di vita
dimostreranno che non sai nulla.
La differenza fra le filosofie
orientali e quelle occidentali è
proprio questa: non bisognerebbe
nemmeno chiamarle allo stesso
modo, perché i loro approcci sono
radicalmente diversi, totalmente
discordanti e diametralmente
opposti.
Il filosofo occidentale si limita a
pensare, ma il suo stato di
consapevolezza non cambia mai,
perché continua a elucubrare
restando dove si trova. Pensa con
grande impegno, avvalendosi di una
logica ferrea; si sforza in tutti i modi
di risolvere il problema, e trova
numerose soluzioni, che però nella
vita personale non gli servono a
niente; e se non aiutano a vivere lui,
come possono essere utili a qualcun
altro?Il filosofo e pensatore inglese
David Hume, per esempio, è giunto
alle stesse identiche conclusioni di
Gautama il Buddha; se fosse vissuto
in Oriente, sarebbe diventato un
buddha, ma sfortunatamente si
trovava in Occidente, immerso nella
pesante noosfera occidentale.
È giunto a quelle stesse
conclusioni solo attraverso il
ragionamento logico, senza mutare
minimamente la propria
consapevolezza e, a differenza del
Buddha, non si è illuminato. Hume
ha continuato a trascinarsi sulla terra
allo stesso modo dei suoi antenati,
mentre il Buddha ha raggiunto uno
stato di estasi: ha avviato una nuova
tradizione viva ancora oggi – a
venticinque secoli di distanza – e ha
offerto a molte altre persone la
possibilità di fiorire. Invece Hume
cos’ha creato? Anche lui ha prodotto
grandi ragionamenti che proseguono
tuttora, e ancora oggi si scrivono
libri su di lui, ma si tratta soltanto di
discussioni che non sono mai state
capaci di trasformare un solo essere
umano.
L’ironia della cosa sta nel fatto
che le conclusioni a cui sono giunti
sono esattamente le stesse! Il
Buddha è arrivato a comprendere
che non esiste alcun sé: la sua
realizzazione è stata proprio questa.
Ha meditato, immergendosi sempre
più profondamente nel proprio
essere; ha cercato dentro se stesso,
in ogni nicchia e in ogni angolo,
senza riuscire a trovare nessuno, e
questa è stata la sua liberazione:
l’ego è scomparso, e insieme a lui è
sparita anche tutta l’infelicità e la
sofferenza.
Dal momento che non è stato
trovato alcun ego, anche tutti i
problemi che aveva causato si sono
dileguati; scomparsa la fonte, sono
spariti da soli anche i suoi
sottoprodotti. In assenza dell’ego si
è creato il silenzio – e quel silenzio è
beatitudine, estasi! Non avendo
trovato l’ego, tutto si è riempito di
luce e di splendore, e l’intera
esistenza è confluita all’interno del
Buddha: è diventato un vuoto capace
di contenere tutta l’esistenza! Lui
stesso si è trasformato e, grazie alla
sua intuizione, ci sono riuscite anche
migliaia di altre persone. Ma ricorda
che si è trattato di un’intuizione!
Cos’è accaduto invece a Hume?
Anche lui è giunto alla stessa
conclusione, ma non si è trattato di
un’intuizione, bensì di una
concezione: “intuizione” e
“concezione” sono due parole che
bisogna ricordare, perché sono
davvero molto importanti. Hume è
giunto alla stessa conclusione del
Buddha sotto forma di concezione:
si è concentrato, ha discusso,
argomentato, soppesato, pensato e
riflettuto sul problema,
considerandolo sotto ogni aspetto,
ma senza mai penetrare al suo
interno. Quantomeno in apparenza, è
giunto al medesimo punto, alla
stessa identica conclusione,
stabilendo che non esiste e non può
esistere alcun sé; tuttavia, questa
scoperta non ha segnato una
rivoluzione radicale nella sua vita: si
è semplicemente trattato di una tesi
affascinante per i suoi studi
filosofici, ma lui non è cambiato
affatto! Arrivato a questa
conclusione è rimasto la stessa
persona di prima e ha continuato a
comportarsi allo stesso modo.
Al contrario del Buddha, se
qualcuno l’avesse insultato, Hume si
sarebbe arrabbiato; la differenza è
proprio questa: pur sostenendo che
non esiste alcun sé, avrebbe
continuato ad arrabbiarsi e si
sarebbe scordato del tutto la sua
filosofia, perché non scaturiva da
un’intuizione. Avrebbe detto:
«Questa è una questione diversa:
quella è soltanto filosofia, ma, se mi
insulti, io mi offendo, e stai certo
che mi vendicherò, perché la tua
offesa merita una risposta!».
Quando il Buddha veniva
insultato, invece, si limitava a
sorridere, dicendo: «Arrivi un po’
tardi: avresti dovuto provare a
offendermi una decina d’anni fa, e
sarei stato al gioco molto volentieri.
Se mi avessi insultato dieci anni fa,
avrei reagito in modo folle, ma
adesso arrivi tardi; mi spiace per te,
perché ora non c’è nessuno che
possa reagire. Sento le tue parole,
ma mi attraversano senza toccarmi:
entrano da un orecchio ed escono
dall’altro, perché dentro di me non
c’è nessuno che vi si possa
aggrappare. Mi dispiace: provo
compassione per te!».
Questa è la differenza fra
l’approccio orientale e quello
occidentale: solo quest’ultimo può
essere chiamato a ragione filosofia,
vale a dire amore per la conoscenza
e per la sapienza. Per indicare
l’approccio orientale Hermann
Hesse ha inventato una parola che
mi piace molto, un termine del tutto
nuovo: l’ha chiamata filosia, ossia
amore per la visione. Sia significa
“vedere” ed è precisamente la
traduzione in termini orientali della
parola filosofia, vale a dire darshan,
“visione”: si tratta appunto di
un’intuizione, di una visione
interiore.
La filosofia occidentale consiste
nella ricerca del sapere, mentre la
filosofia orientale – o filosia – è la
ricerca del conoscere. Il sapere è un
vedere dall’esterno, mentre
conoscere significa vedere
dall’interno; nel primo caso si
accumulano informazioni, mentre
nel secondo non si raccoglie nulla: si
penetra semplicemente all’interno
per vedere cosa c’è, domandando:
«Chi sono io?». Non si tratta di
un’indagine oggettiva, bensì di una
ricerca soggettiva.

I dubbi continueranno a esistere e
spariranno solo ed esclusivamente
quando avrai raggiunto l’ultimo
gradino. Usali in modo creativo!
Devi trasformare ogni tuo dubbio in
uno stimolo, perché ti sta
semplicemente dicendo di fare un
passo avanti, di andare un po’ più in
là, di salire un po’ più in alto: «Non
sono soddisfatto» ti dice «perché ciò
che possiedi in questo momento non
è ancora sufficiente: devi andare un
po’ più in profondità!».
Non lasciarti fermare dal dubbio,
perché la sua funzione non è questa;
non metterti a discutere e a pensare,
perché in questo modo finirai per
diventare come Hume, e continuerai
a rimanere la stessa persona di
sempre.
Io sto cercando di creare dei
buddha, e finché non diventerai un
buddha, i dubbi continueranno a
esistere. Se anche riesci a risolverne
uno, rispunterà fuori da un’altra
parte: e si tratterà dello stesso
dubbio sotto sembianze diverse e
con una forma differente. Se lo
reprimi da una parte, tornerà fuori
dall’altra, facendoti impazzire, e non
ce n’è alcun bisogno! Prendi
semplicemente nota del dubbio,
ringrazialo e digli: «Va bene, farò un
passetto avanti, in modo da
risolverti».
Accade proprio così:

Un uomo era seduto su un albero,
mentre il suo amico era rimasto
sotto. L’uomo che si trovava
sull’albero stava raccogliendo della
frutta, mentre quello che si trovava
sotto aspettava e raccoglieva tutto
ciò che cadeva.
L’uomo sull’albero disse: «Vedo
che sta arrivando un carro trainato
da buoi». Trovandosi in alto, dalla
cima all’albero riusciva infatti a
vedere molto lontano.
L’uomo che stava sotto guardò
nella direzione indicata dal suo
amico e disse: «Ho i miei dubbi: io
non lo vedo. Non c’è nessun carro!
Di cosa stai parlando? Pensi forse di
potermi ingannare? Ho anch’io gli
occhi, non sono cieco, e non c’è
nessun carro in arrivo!».
Ma l’uomo che era sull’albero
insisté: «Sì, ti dico che sta
arrivando!».
Così iniziarono a discutere, ma
che utilità poteva avere quella
discussione? Com’era possibile che
l’uomo sull’albero riuscisse a
convincere quello che si trovava a
terra dell’arrivo del carro? Per
quanto le sue argomentazioni
fossero ingegnose, come poteva
dimostrare di avere ragione, quando
il suo amico non poteva vederlo?
E cosa fece allora? In un primo
momento si mise a discutere,
cercando di convincere in tutti i
modi il suo interlocutore: «Sta
arrivando» disse. «È dipinto di
rosso; i due buoi sono uno nero e
l’altro bianco». E continuò a
descrivere il carro nei minimi
dettagli, spiegando che era fatto in
questo e quest’altro modo: «L’uomo
che lo guida ha la barba» continuò…
ma tutto si rivelò inutile.
Allora si rese conto della verità:
«Come può vederlo?» pensò. «La
sua visione è limitata». Così chiamò
l’amico e gli disse: «Vieni quassù!
Sali sull’albero e ti mostrerò il
carro!».
Se l’uomo che stava a terra avesse
risposto: «Salirò solo se mi
convincerai che il carro esiste
davvero», non ci sarebbe stato
niente da fare; invece l’amico salì
sull’albero e vide il carro: il dubbio
venne finalmente risolto e non ci
furono altre discussioni. L’uomo che
prima stava sotto l’albero si scusò
dicendo: «Mi dispiace di essermi
messo a discutere inutilmente con te,
ma non era questione di
argomentazioni: il fatto è che da
quassù tu avevi una visuale
decisamente migliore!».

Questo è ciò che i buddha hanno
continuato a fare per secoli: «Dalla
nostra posizione, abbiamo una
visuale decisamente migliore» ti
dicono «e, da questo punto di vista
privilegiato, riusciamo a vedere ciò
che veramente è. Smetti di discutere
e avvicinati!».
Non significa che i buddha non
sappiano discutere: sono certamente
in grado di farlo e anche meglio di
te, ma è inutile! Potrebbero metterti
a tacere con le loro argomentazioni,
ma non possono convincerti;
sarebbero in grado di distruggere
tutti i tuoi ragionamenti, ma non
servirebbe a nulla, perché non
riusciresti comunque a vedere il
carro: il nocciolo della questione è
come riuscire a vederlo, perché ci
crederai solo se lo vedrai!
Forza, continua a salire
sull’albero! Io ti sto chiamando!
Posso vedere, ma tu non riesci
ancora a farlo. I dubbi
continueranno a esserci: lascia che ti
aiutino a salire più in fretta e più in
alto. Fai in modo che diventi una
necessità, che quei dubbi diventino
impellenti! Di per sé non c’è nulla di
sbagliato nell’avere dubbi, dipende
tutto dall’uso che ne fai: possono
trasformarsi in una benedizione!


Osho, che relazione c’è fra ansia e
desiderio? È più facile accorgersi
che una persona è schiava del
desiderio, piuttosto che in preda
all’ansia: infatti, quantomeno nella
nostra lingua, non esiste un verbo
riferito all’ansia. Desidero a causa
dell’ansia o sono in ansia per il
desiderio?

Il desiderio non è altro che un
tentativo di fuga dall’ansia. I
desideri non creano ansia, come si
crede comunemente: è l’ansia che
crea il desiderio! E l’uomo è
caratterizzato dall’ansia.
L’altro giorno ti ho detto che gli
animali non provano ansia, perché
non hanno bisogno di diventare
nulla: sono già qualcosa. Un cane è
un cane, una tigre è una tigre, questo
è quanto! La tigre non cerca di
diventare tigre, perché è una tigre: lo
è già, e la cosa non implica alcun
divenire.
Nel regno degli animali l’ansia
non esiste, così come non esiste nel
mondo dei buddha: sono arrivati,
sono realizzati, sono siddha – puri
esseri – e non hanno più alcun
obiettivo da raggiungere; non
devono più andare da nessuna parte,
il viaggio è terminato e sono arrivati
a casa.
Per questo gli occhi degli animali
sono simili a quelli di un buddha:
posseggono lo stesso silenzio, la
stessa innocenza, la stessa
profondità e la stessa purezza.
Eppure c’è anche una differenza
enorme: gli animali non hanno
consapevolezza, mentre i buddha
sono consapevoli!
Per questo gli occhi degli animali
sono innocenti ma non luminosi:
non conoscono l’ansia, ma neanche
la celebrazione; non sanno cos’è la
disperazione, ma nemmeno l’estasi.
Nello sguardo dei buddha, invece,
non troverai nessun’ansia, nessuna
sofferenza, nessun bisogno di
diventare questo o quest’altro: nei
loro occhi non scorgerai il desiderio
di diventare, ma solo il perenne
fluire dell’estasi – uno stato di pace,
di beatitudine e di benessere!
L’uomo si trova fra questi due
estremi, perché è metà animale e
metà buddha, ed è proprio qui, in
questa tensione, che risiede l’ansia.
Una parte di te vuole tornare a
essere animale, e cerca di riportarti
indietro: «Ritorna in questo stato!» ti
ripete. «È così bello, dove stai
andando?». L’altra parte, invece,
continua a proiettarti verso il futuro,
perché, indirettamente, sai bene che
il tuo destino è diventare un buddha;
il seme è presente, e continua a
ripeterti: «Trova il terreno giusto, il
suolo adatto, e ti trasformerai in un
buddha! Non tornare indietro: vai
avanti!».
Questo tiro alla fune produce
ansia, ed è molto importante
comprendere cosa indica questo
termine, perché “ansia” non è
soltanto una parola, ma lo stato
peculiare in cui si trova l’uomo, il
più cruciale dei suoi problemi, il
dilemma della condizione umana:
essere o non essere? Essere questo o
quello? Dove andare? L’uomo è
inchiodato a un bivio: si trova di
fronte tutte le possibilità, ma se ne
sceglie una, dovrà scartare le altre.
Questo ti fa paura, perché potresti
sbagliare: se scegli di andare a
destra – chissà? – magari il sentiero
giusto è quello che va a sinistra!
Inoltre, è pieno di gente –
negozianti, venditori ambulanti –
che continua a chiamarti,
ripetendoti: «Scegli la destra: questa
è la strada giusta!». Oppure: «Il
sentiero giusto è quello di sinistra!».
Ognuna di queste persone ti sprona a
seguire le sue orme, sostenendo che
è la sola direzione giusta: ti dice di
attenerti agli insegnamenti del
cristianesimo, dell’induismo o del
buddhismo, perché tutti gli altri si
sbagliano e, se prendi una strada
diversa, finirai all’inferno.
Così l’uomo si trova in uno stato
di paralisi; è fermo al crocevia, in
mezzo a tutte queste voci che lo
bloccano: che strada prendere? A chi
dare ascolto? Di chi fidarsi? Come
fare a essere certi di imboccare la
direzione giusta? E nascono sospetti
terribili, dubbi amletici e ansie
tremende…
Dentro di te, inoltre, c’è una voce
che, dal profondo, cerca di riportarti
indietro: «Meglio tornare a essere un
animale,» ti dice «meglio
abbandonarsi all’alcol e alle droghe,
meglio trasformarsi in un maniaco
sessuale, oppure diventare un
violento e un assassino!».
Perché nel mondo c’è così tanta
violenza? Perché il tuo passato
animale cerca continuamente di
riportarti indietro! La tua umanità è
solo un sottile strato superficiale; in
qualsiasi istante puoi tornare a
essere un lupo o una tigre,
mettendoti a sbranare gli altri: non ci
vuole nulla, potresti uccidere in
qualunque momento. Sei capace di
uccidere non solo il prossimo, ma
anche te stesso! Senti di continuo il
richiamo del suicidio e
dell’assassinio: la distruzione ti
attrae e ti affascina costantemente…
E poi ci sono i buddha… Di tanto
in tanto incontri un uomo che riesce
a stregarti, perché è capace di creare
intorno a sé una sorta di incanto:
possiede una magia tale che
all’improvviso il tuo futuro si
trasforma in presente! Quantomeno
in sua presenza, mentre il tuo essere
entra in risonanza con il suo,
dimentichi il tuo passato animale e
inizi a librarti nel cielo come gli
angeli. Proprio così, esistono anche
individui del genere!
Questa è l’ansia: dove andare?
Cosa fare? E qualsiasi cosa tu faccia,
continuerai a provare ansia: se
regredisci allo stadio animale, il
buddha che è in te continuerà a
ribellarsi. Se provi a seguire il
suggerimento della tua parte
animale, la parte di te che vuole
diventare un buddha ti farà sentire in
colpa. Persino il peggiore degli
assassini, prima di uccidere, prova
una fitta al cuore e sente nascere
dentro di sé un dolore terribile; è il
buddha in lui che sta cercando di
fermarlo: «Cosa stai facendo?» gli
dice. E che decida di ascoltarlo o no,
si pentirà comunque: passerà anni a
provare rimorso per ciò che ha fatto,
e che non avrebbe dovuto fare.
Prima di fare irruzione in casa di
qualcuno, il ladro viene
ripetutamente avvertito dal buddha
che si trova dentro di lui: «Non
farlo!» gli dice. «Sei ancora in
tempo a scappare!». Sia che
rimanga, sia che scelga di fuggire,
quel ladro si sentirà comunque in
colpa; se decide di lasciar perdere il
furto e di andarsene, una volta
tornato a casa, non riuscirà a
dormire, perché la sua parte animale
continuerà a dirgli: «Sei uno
stupido! Avevi a portata di mano
tutto quel denaro; nella casa non
c’era nessuno e tutto il vicinato
stava dormendo: non c’era alcuna
possibilità di essere scoperto! Sei
stato un vero idiota! Perché sei
scappato? Ma sei ancora in tempo:
provaci di nuovo!».
Se segui una parte, l’altra ti fa
sentire in colpa, e viceversa: questa
è l’ansia! E si tratta di un’ansia
prettamente esistenziale; non ci sono
persone che ne soffrono e altre che
non ne sono affette: niente affatto! È
un fenomeno esistenziale; tutti
nascono con quest’ansia, l’intera
umanità la conosce fin dalla nascita,
perché è connaturata alla condizione
umana: è la sfida a cui tutti sono
chiamati, il problema da risolvere,
l’ostacolo che bisogna superare.
Ci sono due modi per
trascenderlo. Il primo è il metodo
del mondo, che puoi chiamare
desiderio. Il desiderio è un modo per
nascondere quest’ansia; ti butti a
capofitto in una folle corsa al denaro
e sei talmente preso dal desiderio di
guadagnare sempre di più, che ti
dimentichi del tutto dell’ansia
esistenziale. Non hai più tempo di
pensare ai veri problemi e non ti
interessa più: accantoni tutte queste
preoccupazioni, per buttarti
semplicemente alla conquista del
denaro, con l’intento di accumularne
sempre di più – e più guadagni, più
nascono nuovi desideri. Ma questa
smania di denaro o di potere politico
non è che una fuga dalla tua ansia!
Per questo la gente è terrorizzata
all’idea di rimanere sola e di non
avere niente da fare; questo è il
motivo per cui le persone che vanno
in pensione diventano inquiete, si
sentono a disagio e finiscono per
morire in fretta. Si dice – e le
moderne ricerche psicologiche sono
riuscite a dimostrarlo – che un uomo
in pensione è destinato a morire
dieci anni prima di quanto
accadrebbe se continuasse a
lavorare. Come mai dovrebbe morire
dieci anni prima? Perché l’ansia che
ha continuato a reprimere grazie al
suo lavoro prende il sopravvento!
Prima era troppo occupato a
inseguire il denaro e il potere
politico, e non aveva tempo da
dedicarle, mentre ora ha tutto il
tempo del mondo, perché non ha più
niente da fare. Seduto sulla sua
poltrona, non gli resta che un’unica
occupazione: stare in ansia. Non ha
più nessun altro impegno e tutta
quell’ansia esistenziale, che ha
represso e negato per tutta la vita, si
prende la rivincita e finisce per
ucciderlo: così si ammala, gli viene
un infarto e rimane paralizzato. Ma
il motivo per cui aumentano le
possibilità che accada tutto questo
non è legato alle sue condizioni
fisiche, bensì al suo stato
psicologico.
Finché una persona ha successo e
i suoi desideri continuano a
proiettarla sempre più lontano nel
futuro, resta in salute: fino a quando
rimangono al potere, i politici
godono quasi sempre di ottima
salute, ma quando lo perdono,
invecchiano improvvisamente.
Finché una persona prosegue nella
sua incessante corsa al denaro,
continua a stare bene, ma quando
smette di avere successo e fa
fallimento, all’improvviso le
vengono letteralmente i capelli
bianchi, addirittura nel giro di una
sola notte!
Il desiderio è un modo per evitare
l’ansia, ma porta soltanto a eluderla:
non ha la capacità di distruggerla!
Inoltre, le ansie procurate dal
desiderio sono minuscole; ricordalo
sempre: si tratta solo di piccole
inquietudini che non hanno carattere
esistenziale. Quando sei impegnato a
guadagnare denaro, è naturale che
incontri diversi motivi di
apprensione: il mercato, le
quotazioni in borsa, i prezzi e cose
del genere… Hai investito così tanto
denaro: ci guadagnerai o ci perderai?
Ma si tratta soltanto di
preoccupazioni di poco conto; non
sono niente in confronto alla vera
ansia: sono semplici espedienti per
evitare la vera angoscia esistenziale.
Se ambisci al potere politico, è
ovvio che avrai mille motivi di ansia
e di preoccupazione; ma non sono
niente: sono semplici gingilli in
confronto all’ansia esistenziale!

Mi domandi che relazione c’è fra
ansia e desiderio.
Il desiderio è un modo per
dissimulare l’ansia: è un espediente,
una strategia. Al contrario, la
meditazione serve a rivelarla.
Per questo le persone non
riescono a stare sedute in silenzio
nemmeno per pochi minuti: se lo
fanno, infatti, l’ansia si
impadronisce della loro mente e
iniziano ad avere una gran paura.
Per questa ragione, anche quando
meditano, chiedono di continuo:
«Cosa dobbiamo fare? Possiamo
cantare un mantra?». Così sei a
posto, perché il mantra diventa il tuo
riparo; puoi recitare senza sosta:
«Rama, Rama, Rama…»,
continuando a ripeterlo all’infinito, e
questa cantilena terrà a bada la tua
ansia.
La vera meditazione è Zen: è
Vipassana! Non è altro che stare in
perfetto silenzio, senza fare nulla:
meditare davvero significa non fare
assolutamente niente e sedere
semplicemente in silenzio. Non
richiede alcuna tecnica e non
prevede assolutamente nessun
metodo; non ci sono mantra da
ripetere, preghiere da recitare o
nomi di divinità da invocare: stai
semplicemente seduto… ma, anche
se sembra così facile, è la cosa più
difficile del mondo!
Ti ripeto continuamente: «Siediti
in silenzio, senza fare nulla, la
primavera arriva e l’erba cresce da
sé…». E a te sembra facile: «Basta
che mi sieda» pensi «e arriverà la
primavera e l’erba inizierà a crescere
da sola». Ma sedere in silenzio senza
fare niente è l’attività più difficile e
più dura che esista: ed è la forma
suprema di meditazione!
Cos’è la meditazione? Significa
semplicemente lasciare che la tua
esistenza si manifesti così com’è,
senza nasconderla in nessun modo.
La meditazione trascendentale di
Maharishi Mahesh Yogi, dunque,
non è affatto una meditazione; non è
né trascendentale né meditativa: è
una semplice strategia per
imbrogliare la gente. E per
dissimulare la sua ansia, l’America
ha bisogno di gente del genere che la
inganni.
Inseguire il denaro ben presto
smetterà di funzionare come
copertura; infatti, oggi sono
disponibili soldi a volontà; la nostra
società è benestante e la gente ha
tutto ciò che desidera: cosa puoi
volere di più? Ecco allora che
l’ansia inizia a bussare alla tua porta,
dicendoti: «Va bene, ora possiedi un
garage che contiene due automobili:
cosa vuoi ancora? Lasciami entrare!
Adesso che hai una casa in
montagna, un’altra al mare e uno
splendido yacht, cosa vuoi di più?
Aprimi la porta! Hai continuato a
ripetermi di avere pazienza, di
aspettare che ti comprassi una casa
in montagna e un’altra sulla
spiaggia; “Lascia che mi compri
prima uno splendido yacht”, mi hai
detto. Adesso hai tutto ciò che
desideravi, perciò fammi entrare!
Non posso più aspettare!».
L’ansia sta bussando alle porte
dell’America! È inevitabile che si
presenti alla porta di una società
ricca: in un Paese povero non c’è
bisogno della meditazione
trascendentale! Per questo in India
nessuno dà retta a Maharishi
Mahesh Yogi: che bisogno c’è di
lui? La gente ha a disposizione
un’infinità di modi più semplici per
camuffare la propria ansia!
Quando invece tutti i desideri
sono soddisfatti, cosa resta da fare?
Bisogna escogitare qualcosa di
nuovo; si devono per forza aprire
porte che conducano in nuove
direzioni, fino ad arrivare addirittura
sulla luna! Nel gennaio 1985
un’impresa si è messa a vendere
biglietti per la luna – naturalmente
era una società giapponese – e la
gente li ha comprati! Hanno fatto il
tutto esaurito, e qualcuno ha
cominciato a rivenderli al mercato
nero!
Cosa ci resta da fare? Perché no,
andiamo sulla luna: quantomeno ci
sarà utile a dissimulare l’ansia! Se
andiamo sulla luna, potremo dirle:
«Aspetta, prima lascia che vada
sulla luna, poi mi occuperò di te.
Abbi ancora un po’ di pazienza!».
Oppure possiamo dedicarci alla
meditazione trascendentale,
ripetendo qualsiasi sciocchezza,
chiamandola “mantra”: se
continuiamo a recitare questa
cantilena, si trasformerà in una
coltre capace di nascondere l’ansia.
La vera meditazione non è una
tecnica: è un semplice rilassamento;
stare seduti in silenzio, lasciando
che accada… qualunque cosa sia!
Significa permettere che tutta l’ansia
venga in superficie, osservandola
incessantemente, senza fare niente
per trasformarla. La vera
meditazione è essere testimoni!
Quell’essere testimone renderà la
tua essenza di buddha sempre più
ricca! La nutrirà, e più la tua
buddhità sarà ricca, meno ansia ci
sarà: il giorno in cui sarà totale, tutta
l’ansia sarà scomparsa.

Che relazione c’è fra ansia e
desiderio? È più facile accorgersi
che una persona è schiava del
desiderio, piuttosto che in preda
all’ansia…

Certo, accorgersi che una persona è
schiava del desiderio ti sembra più
facile, perché è così anche per te.
L’ansia non è qualcosa che fai, ma
una condizione innata; non ha niente
a che vedere con ciò che stai
facendo: sei nato in preda all’ansia!
Per questo è così difficile vederla: e
questa è la prima ragione.
La seconda è che nonvuoi
guardarla, perché fa paura: senti che
rischieresti di impazzire, perciò è
meglio evitarla, e continui a
ricacciarla indietro, in modo da non
rischiare di incontrarla. Succede
ogni giorno…

Qualche anno fa ha preso il sannyas
un uomo molto affascinante, che in
passato era stato un truffatore. Dal
primo momento in cui l’ho guardato
negli occhi ha avuto paura di me:
«Che tipo di truffatore sei?» gli ho
domandato. «Adesso ti sistemo io!».
Gli ho consigliato di fare alcuni
gruppi, ma è scappato senza
nemmeno iniziarli: si è spaventato a
tal punto che per alcuni mesi non si
è più saputo nulla di lui.
Poi – visto che un truffatore resta
sempre un truffatore – ha mandato
qui il suo avvocato perché
controllasse cosa accade davvero in
questo posto, in modo da assicurarsi
che, se si fosse lasciato coinvolgere,
non avrebbe corso pericoli.
L’avvocato è arrivato e, dopo aver
osservato la mia gente, deve avergli
riferito che non c’era nulla da
temere e poteva tornare.
Quando si è ripresentato, gli ho
detto: «Sei un codardo, che
truffatore sei stato? E questa volta
non cercare di scappare!»; poi gli ho
suggerito di nuovo alcuni gruppi da
fare e anche questa volta è fuggito.
Adesso ho ricevuto una lettera da
Singapore in cui mi dice: «Osho,
mentre sono qui leggo i tuoi libri e
ascolto le registrazioni dei tuoi
discorsi. Mi sono spaventato così
tanto perché mi hai di nuovo dato
dei gruppi da fare, e questo mi
costringerà a mostrare tutta la
spazzatura che mi porto dentro,
mettendo a nudo il mio intero essere.
Dovrò essere nudo, vero e autentico
e questo mi spaventa. Ma verrò…
Sto leggendo, ascoltando e
raccogliendo il coraggio di tornare:
ma lo farò!».

Succede a molte persone: indico loro
alcuni gruppi da fare e, nel giro di
uno o due giorni, li abbandonano,
perché è troppo impegnativo. Cosa
temono? Hanno paura di esporsi: il
problema non sta tanto nel rivelarsi
agli altri, quanto nel mettersi a nudo
di fronte a se stessi, guardando ciò
che hanno nascosto per tutta la vita.
E quando si diventa consapevoli di
queste cose, non è più possibile
continuare a nasconderle.
Per questo, prima di dirti di
meditare, ti mando a fare la Primal e
l’Encounter. Ti suggerisco diversi
gruppi, in modo che, come prima
cosa, tu sia costretto a eliminare le
tue maschere e a rimanere nudo,
spiritualmente nudo. In questo modo
meditare diventa più facile, perché
non è altro che stare con te stesso
nella tua totalità.

Certo, capisco ciò che intendi;
vedere il desiderio è più semplice: È
più facile accorgersi che una
persona è schiava del desiderio,
piuttosto che in preda all’ansia.
Per vedere l’ansia ci vuole fegato
e ci riesce solo chi ha coraggio.

Infatti, quantomeno nella nostra
lingua, non esiste un verbo riferito
all’ansia…
Le nostre lingue sono false,
quanto lo siano noi, perché sono un
nostro prodotto e riflettono ciò che
siamo. Una lingua vera, infatti, non
dovrebbe contenere sostantivi, ma
soltanto verbi: per essere veramente
fedele all’esistenza, non dovrebbe
possedere alcun nome, ma
esclusivamente forme verbali.
Quando dici: «Questo è un
albero», stai dicendo qualcosa di
falso, perché un albero statico non
esiste da nessuna parte: è una realtà
viva, che sta crescendo ed è in
continua trasformazione! Nasce una
nuova foglia, ne cade una vecchia,
sboccia un nuovo germoglio… Nel
momento in cui dici: «Questo è un
albero», in realtà non è più lo stesso
albero: la tua affermazione è già
superata, perché nel frattempo è
diventato un albero diverso.
Cosa intendi quando dici:
«Questo è un fiume»? Il fiume
scorre, fluisce perennemente, e lo
stesso vale per un uomo o una
donna: sono tutti processi dinamici.
Nell’esistenza tutto è un verbo, ma
le nostre lingue sono false come lo
siamo noi; non potrebbe essere
altrimenti, perché sono precisamente
i nostri linguaggi.
Non c’è da stupirsi se i buddha
hanno sempre incontrato molte
difficoltà a spiegarti a parole la
verità: sono, infatti, costretti a usare
la tua lingua, che per sua natura è
profondamente contraria al Vero.
Perché usiamo così tanti sostantivi,
quando nessuno di loro è veritiero?
La vita in realtà è un vivere; non
esiste l’amore ma l’amare, e la
morte in verità è un morire… allora
perché usiamo tutti questi nomi?
Perché ci danno una sensazione di
controllo! A differenza dei verbi,
che ti trascendono, i sostantivi si
possono controllare: sono statici,
morti e puoi manipolarli. I verbi
invece sono vivi, ti scivolano fra le
dita e non puoi tenerli in pugno.
Sentiamo il bisogno di
trasformare l’amare in amore,
perché così è più semplice da
gestire. Prova semplicemente a
sentire la differenza fra un uomo che
dice a una donna: «Ti sto amando» e
uno che le dice: «Sento amore per
te»: dicendo che prova amore si
riferisce a qualcosa di statico, e
questo implica che l’amerà anche
domani. L’amore è un fenomeno
immobile: è qualcosa di sicuro, di
assoluto, che non contempla alcun
cambiamento.
Se invece un uomo dice: «Ti sto
amando», avrai paura perché amare
è un processo; magari questa mattina
accade, ma può darsi che questa sera
non succeda più: e allora? Quando
qualcuno ti dice di provare amore
per te, quel sostantivo è riferito a te,
mentre una persona che sta amando
non si riferisce necessariamente a te:
potrebbe amare anche qualcun altro!
E questo ti sembra pericoloso,
perché si tratta di una cosa che non
puoi controllare, non lo puoi
possedere.
I sostantivi si possono possedere,
accumulare e controllare, mentre è
impossibile possedere i verbi:
fluiscono costantemente… e ti
travalicano, andando al di là della
tua comprensione e restando incerti.
I nomi sono prevedibili, mentre i
verbi sono imprevedibili: sono come
una nuvola che cambia
continuamente forma.
Non si può fare affidamento sulla
forma di una nuvola: può accadere
che sembri un elefante – che assuma
la forma di quell’animale – però,
mentre chiami tuo figlio, e gli dici:
«Corri! Vieni fuori a vedere: in cielo
c’è un elefante!», in quei pochi
istanti che gli occorrono per uscire,
la nuvola ha già cambiato forma e
l’elefante si è dissolto. La nuvola,
infatti, non è un fenomeno
immutabile; a quel punto cosa dirai
al bambino? Penserà che sei un
bugiardo, perché non riuscirà a
vedere nessun elefante!
In effetti non c’era alcun elefante:
quella nuvola cangiante aveva
soltanto assunto la forma
dell’elefante! Un’altra volta
prenderà quella di un cavallo… è
impossibile da prevedere! Ciò che è
imprevedibile ci fa molta paura – e
la vita è imprevedibile, per cui
continuiamo a circondarci di
sostantivi, che ci danno sicurezza.
Le nostre lingue riflettono le
nostre menti, la nostra ignoranza, la
nostra inconsapevolezza, la nostra
stupidità, le nostre gelosie, le nostre
paure, le nostre ossessioni e le nostre
nevrosi: rappresentano tutto ciò che
siamo, perché sono un riflesso delle
nostre menti, un prodotto
intellettuale.
Per questo non esiste un verbo
riferito all’ansia: ci limitiamo a
parlarne come di un fenomeno
statico, in modo da poterla
etichettare. Così puoi definire le
cose, affermando che questa è ansia,
e quest’altro è amore… se però
osservi l’amore reale, ti accorgerai
che a volte si trasforma in odio! Il
vero amore può diventare odio, e
questo ti confonde, perciò gli dai
un’etichetta diversa: «Questo è
odio» ti dici «e quest’altro è amore».
In questo modo però trascuri il
legame che esiste fra loro! Non
consideri mai questo nesso: l’amore
si trasforma in odio e l’odio in
amore, gli amici possono diventare
nemici e viceversa… Ogni cosa si
trasforma in tutte le altre, perché
tutto è un’unica realtà: nulla è diviso
in compartimenti stagni!
La terra diventa albero… l’albero
diventa aria… Le cose continuano a
fondersi l’una nell’altra… L’aria che
respiri si trasforma in sangue…
Ogni cosa si trasforma in tutte le
altre cose: tutto è in relazione,
perché tutto fa parte di un unico
processo!
Se smetti di manipolare la vita, se
ti siedi in silenzio e ti limiti a
osservare, riuscirai finalmente a
vedere questa immensa bellezza,
questo straordinario processo
imprevedibile che è la vita, questo
dinamismo, questa completezza,
questa interdipendenza, questa
esistenza interconnessa in cui ogni
cosa si trasforma in tutte le altre: e
questo flusso di energia è il divino…


Osho, non ti annoi mai? Perché non
lasci perdere l’ashram e non vai a
vivere nella foresta?

Di cosa stai parlando? A quale
ashram ti riferisci? Io sto già
vivendo nella foresta! Queste
persone sono i miei alberi – e sono
aranci in piena fioritura! Dove puoi
trovare una giungla più selvaggia di
questa? Come posso annoiarmi,
quando sono circondato da tanta
gente meravigliosa e da tutta questa
celebrazione dell’esistenza?
Se ti annoi, significa
semplicemente che sei insensibile e
ottuso: devi infrangere la spessa
corazza che ti avvolge! Dove puoi
trovare, infatti, un’esistenza migliore
di questa? È la sola che esiste! È
l’esistenza perfetta e tutto è
precisamente come dovrebbe essere:
gli alberi sono verdi e le rose rosse –
tutto è esattamente come dev’essere!
Come puoi annoiarti?
La noia nasce dall’insensibilità;
non riesci a vedere i sottili
mutamenti che si verificano intorno
a te perché sei insensibile, e la vita ti
sembra quindi monotona: «Ogni
mattina sorge il sole» ti dici «ed è
sempre lo stesso sole: com’è
possibile non stufarsi?». Ma non è lo
stesso sole! Si trasforma
continuamente, perché è un fuoco –
e com’è possibile che una fiamma
rimanga sempre uguale? Se provi a
osservarla… ti accorgerai che muta
costantemente; le fiamme si
muovono di continuo, sono immerse
in un flusso costante, e il sole è
fuoco liquido: non è mai lo stesso!
Credendo che sia sempre uguale,
al mattino non guardi più il cielo, e
non ti accorgi che le nuvole sono
ogni giorno diverse: assumono
nuove forme, nuovi colori e
celebrano quotidianamente il sorgere
del sole. Gli uccelli, gli alberi e
l’intera esistenza si rinnovano ogni
momento, e sono sempre freschi,
come una goccia di rugiada al
mattino: ebbene, lo stesso vale per le
persone!
Ma tu sei ottuso, insensibile! Sei
convinto di aver vissuto con la
stessa donna per vent’anni! Hai
smesso di guardarla; sono anni che
non la guardi negli occhi e che non
la tocchi: hai dimenticato il profumo
del suo corpo, perciò tutto diventa
noioso e ti sembra che sia sempre la
stessa donna.
In realtà non si tratta veramente di
noia; è solo che sui tuoi occhi si è
depositata molta polvere, e quando
succede, la vita ti appare noiosa:
diventa pura forma e si trasforma in
un rituale, in qualcosa di vuoto.
Continui a fare le stesse cose e piano
piano cominci ad agire in modo
meccanico, come se fossi un
automa: così la vita diventa
monotona.
Ma io non ho mai visto due
momenti uguali! Ogni istante
possiede la sua bellezza, ogni attimo
accade solo una volta: se te lo lasci
sfuggire, è andato per sempre,
perché non si ripeterà mai più.
L’esistenza non è ripetitiva! Il
divino, infatti, è assolutamente
originale: non canta mai la stessa
canzone! Se ti sembra di ascoltare la
stessa musica, vuol dire che in te c’è
qualcosa di sbagliato.
Una volta è accaduto:

Una donna stava cantando: era il suo
compleanno. Era sera tardi, e lei era
davvero stonata, ma i suoi vicini in
qualche modo la sopportavano,
perché succedeva solo una volta
l’anno, in occasione del suo
compleanno. Si erano quindi abituati
a tollerare la sua voce, ma quella
sera continuava… non smetteva mai
e si stava facendo davvero tardi:
erano già le due di notte!
Un uomo che abitava proprio di
fronte a casa sua non riusciva a
dormire; le aveva provate tutte,
ricorrendo a ogni stratagemma; si
girò e si rigirò, fece meditazione
trascendentale… ma niente da fare:
quella donna lo stava facendo
impazzire. Così aprì la finestra e
urlò: «Signora, adesso è davvero ora
di finirla, altrimenti divento matto!».
La donna aprì la porta e disse: «Di
cosa sta parlando? Ho smesso di
cantare da almeno un’ora!».

Cos’era accaduto a quell’uomo? In
realtà era già pazzo: quella donna
aveva smesso di cantare un’ora
prima, ma lui continuava a
sentirla… Si trattava di qualcosa che
echeggiava nella sua mente: era
colpa del suo grammofono interiore!
Prova a farci attenzione. Quando
vedi una rosa, il tuo grammofono
interiore ti dice: «In passato l’hai già
vista, si tratta della stessa rosa. Non
ha niente di speciale: ho visto di
meglio!». Guardi la luna e quel
grammofono ti dice: «E allora? È
sempre la stessa luna che abbiamo
già visto moltissime volte!».
Ci sono milioni di persone che
non guardano mai il cielo: se un
giorno all’improvviso le stelle
sparissero, non se ne accorgerebbero
neppure. Ci metterebbero parecchi
giorni a scoprirlo: guarderebbero il
cielo solo dopo aver letto sui
giornali che tutte le stelle sono
semplicemente scomparse! A quel
punto ne sentirebbero la mancanza e
farebbero un gran clamore: «Che
disgrazia!» si direbbero. «E noi,
finché c’erano, non le abbiamo
degnate di uno sguardo per anni!».
È grazie al tuo grammofono
interiore, se sei annoiato! Dentro di
me non c’è uno strumento simile;
per me, ogni persona e ogni
momento sono sempre nuovi: non si
tratta di ripetizioni, ma di fenomeni
unici, che continuano a emozionarmi
e a estasiarmi!
La tua vita dev’essere diventata
un rituale completamente vuoto:
probabilmente ti muovi trascinandoti
fra gli eventi, senza comprenderne il
significato e senza sapere perché lo
fai. Quando torni a casa, baci tua
moglie perché ti senti obbligato a
farlo, ma non si tratta di un bacio
vero, non la stai baciando davvero e
non provi nessuna emozione: si
tratta solo di un’azione vuota; se
quindi ti senti stanco e annoiato,
posso comprenderlo.
Lentamente la vita diventa così
meccanica che perde ogni
significato: non ha più alcun senso e
si trasforma in un rituale monotono.
Vivere in questo modo significa
vivere senza religiosità. La mia
definizione di religione, infatti, è
vivere nella gioia, nell’estasi e
nell’entusiasmo per ogni attimo che
bussa alla tua porta: questo è vivere
in modo religioso!
La religione è semplicemente il
processo alchemico attraverso il
quale la tua insensibilità svanisce, e
diventi totalmente sensibile,
delicato, vulnerabile! Allora ogni
istante è il samadhi, il divino,
l’illuminazione!
Capitolo 9

DANZARE IL MISTERO




Un giorno il Nawab Muhammad
Khan, conosciuto come Jan-Fishan,
stava passeggiando per Delhi,
quando si imbatté in un gruppo di
persone che stavano litigando.
«Cosa sta succedendo?»
domandò a un passante.
«Vostra altezza sublime,» rispose
l’uomo «uno dei vostri discepoli sta
contestando il comportamento della
gente di questo quartiere».
Jan-Fishan si addentrò nella
calca e disse al suo discepolo:
«Spiegami le tue ragioni».
«Questa gente ha avuto un
comportamento ostile!» si difese lui.
«Non è vero!» esclamarono i
presenti. «Al contrario, stavamo
rendendogli onore per amor vostro».
«Cosa ti hanno detto?» domandò
allora il maestro.
«Mi hanno salutato dicendo:
“Ave, grande studioso!”» rispose il
discepolo «mentre stavo spiegando
loro che, spesso, l’ignoranza degli
studiosi è responsabile della
confusione e della disperazione
degli esseri umani».
Jan-Fishan Khan disse: «Molto
spesso la presunzione degli studiosi
è responsabile dell’infelicità umana
– e questo tumulto è stato provocato
proprio dalla tua presunzione nel
crederti diverso da uno studioso!
Non essere uno studioso è una
conquista e richiede distacco da
tutto ciò che è insignificante. È raro
che gli studiosi siano saggi: sono
semplicemente persone immobili,
imbottite di pensieri e di libri.
Questa gente stava cercando di
renderti onore. Se incontri persone
che pensano che il fango sia oro,
rispettalo, perché si tratta del loro
fango: non sei il loro insegnante!
Non ti rendi conto che
comportandoti in modo così
insensibile e ostinato, agisci
esattamente come uno studioso e
meriti pertanto di essere chiamato in
quel modo, anche se si tratta solo di
un titolo onorifico?
Stai in guardia, ragazzo mio!
Troppe persone commettono passi
falsi sulla strada della realizzazione
suprema, e potresti diventare uno
studioso!».

L’esistenza non è soltanto
enigmatica, inspiegabile e
sconosciuta, ma anche
inconoscibile: non c’è modo di
conoscerla, perché nessuno ne è
separato, e la conoscenza ha bisogno
di distacco. Puoi amare l’esistenza
perché le siamo intrinsecamente
uniti, e l’amore richiede unione, ma
non puoi conoscerla, perché la
conoscenza richiede separazione: e
non c’è modo di essere separati
dall’esistenza!
La conoscenza implica che chi
conosce sia separato dal suo oggetto,
e noi non siamo separati
dall’esistenza: ne siamo parte, è la
nostra essenza – come possiamo
conoscerla? La presunzione di
sapere è la più grande affermazione
egoica del mondo! Per questo la
gente colta non riesce mai a
comprendere l’esistenza; la
comprende solo chi ama: gli studiosi
non ci riescono mai.
Tuttavia, per essere una persona
che ama ci vuole coraggio, perché
bisogna dissolversi e sparire. La
cultura, invece, non richiede alcun
coraggio e diventa quindi il rifugio
dei codardi: tutti i vigliacchi
diventano studiosi! Visto che non
sono capaci di amare, l’unica cosa
che possono fare è tentare la strada
della conoscenza, ma poiché è di per
se stessa impossibile, tutto il sapere
che rivendicano è falso.
Qualsiasi conoscenza è falsa, del
tutto fasulla! Non contiene
nemmeno una briciola di verità: non
può essere vera! Solo l’amore è vero
– solo quello può contenere verità.
Capisci qual è il punto? La via
dell’amore è quella dell’unione,
mentre quella della conoscenza è la
strada della separazione: l’amore è
un matrimonio e la conoscenza un
divorzio… L’amore comprende,
mentre la conoscenza si limita a
fingere!
Ricordalo, perché la mente cerca
sempre di diventare colta, istruita:
raccoglie informazioni di continuo,
evitando però la trasformazione.
L’informazione è un mezzo per
evitare di trasformarsi; continui ad
accumulare nozioni… fino a
diventare un’enciclopedia vivente,
ma non cambi mai e rimani sempre
lo stesso, perché non è in questo
modo che il tuo essere può crescere:
non è così che si diventa saggi.
Un uomo colto non è mai saggio,
non può esserlo! Continua ad
ammassare spazzatura pensando che
sia preziosa, ma, sbagliando il primo
passo, compromette l’intero viaggio:
più pensa di sapere e meno sa; più
crede di avvicinarsi a conoscere la
verità, più se ne allontana!
L’esistenza semplicemente esiste,
e puoi riuscire a comprenderla solo
se anche tu ti trovi nel medesimo
stato di essenza. Ma non si tratta di
conoscenza: è una dimensione del
tutto diversa! Si tratta di un
conoscere, ma non ti sarà possibile
ridurlo a un sapere: riuscirai a
vederlo, ma non potrai descriverlo…
Il mistero dell’esistenza non verrà
demistificato dal tuo conoscere:
diventerà anzi ancora più profondo e
più ricco, e la vita acquisterà una
qualità più gioiosa!
Non puoi trasformare in un sapere
quel mistero, ma puoi danzarlo e
cantarlo; non potrà mai diventare
cultura, ma si trasformerà in estasi,
in gioia straordinaria: la vita può
essere incredibilmente orgasmica!
I Sufi raccomandano di evitare gli
studiosi e i pandit: stai alla larga da
loro, perché qualche volta è
successo che i peccatori si siano
realizzati, ma gli studiosi non ci
sono mai riusciti! Il peccato non è
un ostacolo grave quanto la cultura:
a ben vedere, il sapere rimane il
peccato supremo.

Vale davvero la pena ricordare
ancora una volta ciò che narra la
Bibbia: Adamo non è caduto in
disgrazia a causa di qualche peccato,
ma per aver mangiato il frutto
dell’albero della conoscenza.
Nel giardino dell’Eden c’erano
due alberi davvero speciali – quello
della conoscenza e quello della vita
– e l’interesse di Adamo è stato
catturato dall’albero della
conoscenza. Ai nostri occhi di lettori
sembra sciocco: perché non ha
mangiato i frutti dell’albero della
vita? Ma in realtà è ciò che fanno
tutti: nessuno vuole cibarsi
dell’albero della vita, perché per
mangiare quei frutti, bisogna prima
attraversare una sorta di morte.
Quando mangi il frutto dell’albero
della vita, il tuo essere così com’è
stato fino a quel momento muore,
perché è soltanto un fenomeno
passeggero: il tuo essere attuale è
transitorio! Morirai nel tempo per
rinascere nell’eternità, perché la vita
è precisamente questo: abbondanza
e vita eterna. Morirai come essere
minuscolo, come goccia d’acqua, e
riapparirai come oceano; ma per
poter risorgere sotto forma di
oceano, prima deve sparire la goccia
di rugiada.
Questo è ciò che fa paura, per
questo Adamo non si è mai
avvicinato all’albero della vita; e per
la stessa ragione non l’hai mai fatto
nemmeno tu! Questo è il motivo per
cui milioni di persone affollano
università e biblioteche, ma evitano
di andare da un maestro: il maestro –
il maestro perfetto – è un albero
della vita! Non è un insegnante:
l’insegnante è l’albero della
conoscenza, e il maestro è l’albero
della vita.
Un maestro non impartisce
conoscenze, ma rivela l’essere:
mette in subbuglio il tuo cuore
rendendolo più vivo, respira dentro
di te donandoti un ritmo nuovo, e
arriva a toccare il centro più
profondo del tuo essere, creandovi
una danza.
Sulle orme di Adamo, tutti hanno
evitato l’albero della vita: nel corso
dei secoli la gente ha seguito il suo
esempio… Purtroppo Adamo è
rimasto terribilmente affascinato
dall’albero della conoscenza, perché
il serpente l’aveva indotto in
tentazione, dicendo: «Se mangi il
frutto di quest’albero, diventerai
saggio quanto dio: tu stesso
diventerai simile a dio!».
La tentazione della conoscenza è
proprio questa: «Se continuo ad
aumentare il mio sapere,» ti dici
«crescerò sempre di più, fino a
diventare come dio!». Ma nessuno è
in grado di accedere al divino grazie
alla conoscenza: è possibile solo
attraverso l’essere. Quel serpente sta
ingannando anche te, e non è un
fenomeno esterno; è soltanto un
modo diverso di chiamare la tua
mente, che cerca di convincerti
usando argomentazioni
estremamente logiche: «Aumenta il
tuo sapere» ti dice «e così facendo
crescerà anche il tuo essere!».
Dopo aver mangiato il frutto
dell’albero della conoscenza,
Adamo ha perduto l’eternità ed è
rimasto intrappolato nella rete del
tempo: e questo implica la morte!
Dio, infatti, gli aveva detto: «Se
mangi il frutto dell’albero della
conoscenza, inizierai a morire e
perderai l’eternità: perderai la
qualità dell’immortalità e diventerai
mortale!».
Questa parabola è davvero
meravigliosa! La uso di continuo,
perché ha così tante sfumature…
Secondo me è la più bella di tutte:
ha una tale quantità di significati!
Se mangi il frutto dell’albero della
conoscenza diventerai mortale,
perché finirai per essere sempre più
prigioniero del tempo e della mente.
“Tempo” e “mente” sono sinonimi:
il tempo – quello psicologico, non
quello cronologico – è infatti creato
dalla mente. Più la tua mente si
riduce, meno sei cosciente del
tempo, e una volta raggiunta la
perfezione, sarai per sempre del
tutto inconsapevole della
dimensione temporale: a quel punto
tutto è eternità!

Una volta è venuto da me un
monaco buddhista; arrivava da una
regione molto lontana, di nome
Kalimpong, e aveva viaggiato molti
giorni per vedermi.
«Ho un’unica domanda da farti»
mi ha detto «e sono venuto fin qui
solo per questo».
«Qual è questa domanda?» gli ho
chiesto.
«Voglio sapere una sola cosa» ha
spiegato. «Dal momento in cui ti sei
illuminato, cos’è successo? Che
esperienze ti sono accadute dopo il
risveglio? Cosa ti è capitato? Hai
provato sensazioni nuove? Quali
nuove esperienze hai avuto dopo
l’illuminazione?».
«Non hai compreso il significato
della parola “illuminazione”!» gli ho
risposto. «Dopo la realizzazione non
accade nulla: qualsiasi avvenimento
cessa, scompare, e tu semplicemente
esisti!».
Il monaco era incredulo: «Non
posso crederci!» disse. «Deve essere
successo qualcosa! Sono passati
vent’anni… qualcosa deve per forza
essere avvenuto: com’è possibile
che non sia accaduto nulla?».
«Può darsi che questo ti
confonda» gli ho chiarito «ma lascia
che ti dica le cose come stanno:
prima dell’illuminazione non è mai
accaduto nulla, perché tutte le cose
che sono successe erano come scritte
sull’acqua. E non è accaduto niente
neanche dopo il risveglio, perché il
tempo è scomparso: la prima e
l’ultima cosa che è accaduta è stata
quindi l’illuminazione. Prima di quel
momento, tutto ciò che è successo
era privo di valore e ora non ha più
alcuna importanza: è stato come un
sogno. Quando ti risvegli, non
accade più nulla! Non significa che
il sole non sorga, che la notte non sia
piena di stelle e che i fiori smettano
di fiorire; tutto questo continua a
succedere, ma dentro di te non
accade nulla: c’è solo pace e
quiete».

Dopo l’illuminazione non è più
possibile scrivere alcuna biografia:
tutto è puro silenzio, perché ogni
cosa è eterna.
Gli eventi appartengono al tempo:
la mente crea la dimensione
temporale perché desidera
ardentemente che succedano delle
cose e vuole sentire emozioni.
Qualcosa deve accadere per forza,
altrimenti la mente si sente a
disagio: se non succedono cose
belle, si accontenta di quelle brutte
e, in mancanza della felicità, si
accontenta dell’infelicità, ma deve
esserci qualcosa che ti tenga
occupato. Se non succede nulla, ci si
sente persi: a quel punto che senso
ha esistere?
La mente continua quindi a creare
novità e a progettare nuovi eventi:
«Domani devo fare questo e
dopodomani quest’altro!» si dice.
Non riesce a stare senza che accada
nulla, perciò progetta eventi, e così
facendo, crea il tempo – il tempo
psicologico. Quando non si progetta
nulla, invece, il tempo scompare.
Il significato del racconto biblico
è proprio questo: il divino ha
ragione ad avvertire Adamo di non
mangiare il frutto dell’albero della
conoscenza, perché altrimenti
diventerà mortale, sarà costretto a
vivere nel tempo e verrà
contaminato. Il sapere avvelena: non
sarai più innocente e perderai la
fiducia, perché la conoscenza
produce il dubbio, e il dubbio è una
spina nel cuore che provoca dolore e
ferite.
Nonostante questo, Adamo ha
mangiato il frutto dell’albero della
conoscenza, e da quel momento tutti
gli Adamo hanno continuato a farlo
ogni giorno.
I Sufi dicono che dobbiamo
invertire l’intero processo; bisogna
espellere ciò che Adamo ha
mangiato, bisogna rigurgitarlo e
tornare a essere puri: non dobbiamo
permettere che quel veleno continui
a circolare nel nostro corpo. Con la
conoscenza se ne andrà il tempo, e
con il tempo la mente, perché sono
tutte realtà legate alla conoscenza: e
quando il sapere, la mente e il tempo
spariscono, sei tornato a casa!
Lascia che te lo ripeta: esistono
peccatori che si sono realizzati, ma
nessuno studioso ci è mai riuscito.
Ho sentito questa storia:

Durante la Seconda guerra
mondiale, il grande filosofo
americano George Santayana,
affermò: «Sto leggendo le
Upanishad… per togliermi il sapore
amaro dalla bocca».

Le Upanishad? Perché mai leggeva
le Upanishad per togliersi il sapore
amaro dalla bocca? Le Upanishad
non sono conoscenza: sono
professioni di pura gioia e di euforia,
sono esclamazioni di estasi,
affermazioni di mistici folli! Non è
possibile accumulare sapere
leggendo le Upanishad, perché non
discutono e non provano nulla: sono
semplici affermazioni. Anche Lao-
tzu, il Buddha, Plotino, Eckhart,
Rumi e al-Hillaj fanno lo stesso:
tutti i mistici hanno sempre fatto
così! Ciò che dicono non ha niente a
che fare con la conoscenza: è un
puro traboccare di gioia.
A differenza di quelle di Plotino,
le cose dette da Aristotele fanno
parte della conoscenza. Devi avere
molto chiara questa distinzione: le
parole di Gesù non sono dettate
dalla conoscenza bensì dalla sua
estasi. In verità non è lui a
pronunciarle, ma sono loro che si
manifestano attraverso di lui; è
l’esistenza che parla per suo tramite,
perché Gesù è posseduto dal divino.
Ciò che dice non fa parte della
conoscenza, sta semplicemente
affermando: «Sono arrivato a casa!».
È qualcosa che deve per forza essere
detto: è un’affermazione che deve
essere urlata dai tetti e gridata nel
bel mezzo del mercato, ma non si
tratta di conoscenza! E la differenza
è molto chiara.
Se provi a leggere le Upanishad,
te ne renderai conto facilmente,
perché non contengono discussioni,
sillogismi o dimostrazioni: il
veggente dice semplicemente tat-
tvam-asi – «Tu sei quello!» – tutto
qui! Non riporta alcun dibattito in
proposito, non cerca di spiegarlo e
non propone una filosofia: fa
semplicemente un’affermazione
nuda, pura e di una potenza
straordinaria.
Quando le Upanishad furono
tradotte per la prima volta in altre
lingue fu un vero problema per i
traduttori; queste persone offrivano
una raffica di affermazioni senza
produrre alcuna dimostrazione: che
filosofia era mai questa? E infatti
non si tratta di filosofia, ma di
religione!
La differenza fra filosofia e
religione è proprio questa: la
filosofia dimostra, discute, propone,
polemizza e argomenta, mentre la
religione si limita ad affermare,
dichiarando che il divino esiste,
senza offrire alcuna prova. Se provi
a chiedere a un mistico, ti dirà:
«Guarda nei miei occhi! Coraggio,
stringi la mia mano! Sentilo!». Ti
sembra forse un’argomentazione?
Non ha l’intento di convincere gli
scettici: guardando negli occhi del
mistico, non vedranno nulla! Quello
sguardo può convincere solo chi ha
fiducia: persuaderà solo un
discepolo!
Santayana era stanco di tutta la
cultura che l’Occidente stava
continuando a produrre a quei tempi;
vedeva chiaramente che era stato
proprio questo a causare una guerra
mondiale: il sapere, infatti, creando
separazione, fa crescere l’odio nel
mondo.
Dalla conoscenza non può nascere
l’amore, perché quest’ultimo è una
dimensione diametralmente opposta.
Santayana aveva quindi ragione a
leggere le Upanishad per togliersi
dalla bocca il sapore amaro e il
gusto acre della conoscenza – di
quella cultura assassina e di quel
sapere ignobile che avevano
scatenato una guerra atroce.
Mi hanno raccontato quest’altra
storia:

Quando Schopenhauer si imbatté per
la prima volta in una traduzione
delle Upanishad si mise
letteralmente a danzare: mentre quei
versi risuonavano dentro di lui,
prese a ballare nel suo giardino.
I suoi studenti rimasero un po’
perplessi e gli chiesero cosa stesse
succedendo, dicendogli: «Sei
diventato pazzo, per caso?».
«Questo è proprio quello che
stavo cercando!» rispose
Schopenhauer. «Questa non è
conoscenza, ma conoscere:
finalmente qualcosa di autentico!».
E in punto di morte disse: «Le
Upanishad sono state la
consolazione della mia vita, e
saranno il mio conforto nella
morte!».

Cos’è successo a Schopenhauer?
Qual è la bellezza delle Upanishad?
In cosa consiste il fascino del
sufismo, dello Zen e del
chassidismo? Il loro incanto nasce
dal fatto che non sono saperi;
comportano ovviamente un
immenso conoscere, ma
assolutamente nessuna conoscenza;
contengono magnifiche intuizioni,
ma non propongono alcuna filosofia
in cui credere: non ti renderanno più
colto, ma più innocente!
La religione è esistenziale, mentre
la filosofia è analitica. La
conoscenza deve essere analitica ma
non può essere esistenziale, mentre
il conoscere deve per forza essere
esistenziale e non può essere
analitico. Se vuoi davvero
conoscere, dimenticati
completamente dell’analisi,
altrimenti accumulerai moltissime
conoscenze, ma non diventerai mai
una persona saggia.
Se vuoi conoscere un fiore, non
dissezionarlo, altrimenti lo
distruggerai: stai semplicemente con
lui in assoluto silenzio, con il cuore
palpitante d’amore. Inala la sua
fragranza; danza intorno a lui,
mettiti a cantare o resta in silenzio;
suona la chitarra oppure il flauto:
questi sono modi per fare amicizia
con un fiore! Al suono del tuo flauto
inizierà a protendersi verso di te e ad
aprirsi, perché comprenderà… che è
arrivato un amico. Come riconosce
il canto del cuculo e la danza del
pavone, se gli canti una canzone, se
ti metti a suonare il flauto o danzi
intorno a lui, riconoscerà anche te,
perché questi sono tutti linguaggi
che comprende.
Ma comprende anche il silenzio:
la perfetta quiete delle stelle e della
terra. Prova a stare in silenzio
insieme a quel fiore, oppure permetti
alle tue lacrime di scorrere
liberamente, lasciale cadere su di lui
e ti accorgerai che sa comprendere
anche quel linguaggio, allo stesso
modo in cui entra in sintonia con la
pioggia e con le nuvole…
Comunque sia, non essere analitico
ma esistenziale, e quel fiore ti
svelerà i suoi segreti!
I segreti possono essere rivelati
solo agli amici e, se hai un
approccio analitico, diventi un
nemico. Quando uno scienziato si
avvicina a un fiore, lo fa con un
atteggiamento antagonistico,
egoista, ostinato, irremovibile e
caparbio, come se volesse
violentarlo, perché la scienza è una
forma di violenza nei confronti della
natura.
Sii un poeta, un pittore, un
musicista: queste sono modalità
esistenziali! E a poco a poco, il fiore
acquisterà fiducia in te:
«Quest’uomo non è pericoloso,»
dirà tra sé e sé «non è uno
scienziato; il suo obiettivo non è la
conoscenza e non mi farà del male,
perché è una persona che sa amare».
Così lascerà cadere tutte le difese, le
barriere e le corazze: all’improvviso
accadrà l’incontro e avverrà un
conoscere che non ha nulla a che
vedere con la conoscenza… È così
che si arriva a comprendere il
divino!
Ricorda sempre le parole
“analitico” ed “esistenziale” e non
essere mai analitico, perché quello è
il sentiero della conoscenza: sii
invece esistenziale, perché è la via
del conoscere! Conoscere significa
amare, e amare vuol dire pregare:
una cosa conduce all’altra.

È risaputo che, nell’antica Grecia,
Aristotele adottò il sillogismo come
metodo per spiegare ed esaminare la
validità di un ragionamento, tant’è
che quest’uomo è considerato il
padre della logica occidentale. Ma in
quello stesso periodo, quasi
simultaneamente, in India è vissuto
un altro individuo che ha lavorato
sulla stessa linea, muovendosi però
in una direzione del tutto differente,
caratterizzata da una qualità
totalmente diversa. Si chiamava
Aksapada Gotama ed è il fondatore
della logica indiana, ma la
differenza fra lui e Aristotele è
enorme; i loro sillogismi si
assomigliano molto: la loro logica –
com’è ovvio – è quasi la stessa, ma
la differenza consiste nei loro
obiettivi.
Lo stesso Aristotele ha affermato
che il suo scopo era spiegare ed
esaminare la validità di un
ragionamento; benché avesse
concepito forme di sillogismo molto
simili a quelle aristoteliche, Gotama
ha dichiarato, invece, all’inizio del
suo Nyaya Sutra, che il suo obiettivo
era aiutare l’essere umano a
raggiungere la felicità suprema, la
liberazione, moksha, l’estasi, il
samadhi. La differenza è lampante:
pur essendo necessario usare la
ragione, nel caso di Gotama, bisogna
farlo con piena consapevolezza, nel
solo e unico intento di favorire
l’estasi, la felicità suprema e la
liberazione assoluta.
La filosofia in se stessa non è un
fine bensì un mezzo: se risulta utile,
molto bene; ma se non lo è, lasciala
perdere, perché è soltanto
spazzatura. Usa la tua mente per
andare al di là della mente stessa e
lascia che dentro di te avvenga il
suicidio della filosofia! Il messaggio
della nostra storia Sufi è proprio
questo:

Un giorno il Nawab Muhammad
Khan, conosciuto come Jan-Fishan,
stava passeggiando per Delhi,
quando si imbatté in un gruppo di
persone che stavano litigando.
«Cosa sta succedendo?»
domandò a un passante.

I maestri Sufi credono nel potere
delle situazioni: nessuno ne è più
convinto di loro. L’approccio dei
Sufi si fonda sul fatto che è possibile
insegnare qualcosa ai discepoli
soltanto all’interno di una situazione
specifica e in un determinato
contesto, in assenza del quale
l’insegnamento andrà
completamente perduto.
Solo battendo il ferro finché è
caldo è possibile modellarlo per
dargli una forma: una volta
raffreddato, diventa impossibile.
Quando si crea una situazione, gli
eventi sono caldi – e i maestri Sufi
sono sempre alla ricerca di occasioni
adatte a offrire un insegnamento
particolare: possono volerci anni per
trovare la situazione giusta, ma i
Sufi non parlano mai e poi mai fuori
contesto.
Per accompagnarsi a un maestro
Sufi è quindi necessaria moltissima
pazienza, perché non dirà nulla
finché non si crea l’occasione giusta
e finché gli eventi non sono
sufficientemente caldi per poterli
modellare e dar loro una forma. Un
maestro simile può insegnarti
qualcosa solo in presenza di una
situazione adatta.
Mentre cammina, il maestro si
imbatte in un gruppo di persone…

«Cosa sta succedendo?» domandò a
un passante.
«Vostra altezza sublime» rispose
l’uomo «uno dei vostri discepoli sta
contestando il comportamento della
gente di questo quartiere».

Succede quasi sempre che le persone
colte diventino supponenti ed
egoiste, iniziando ad avere un
atteggiamento di superiorità morale;
non fanno altro che correggere gli
altri, cercando continuamente
qualcosa da condannare, in modo da
far sentire in colpa la gente: si tratta
di un modo per soddisfare il proprio
ego, ma non è indice di saggezza.
Un individuo davvero saggio non
fa mai sentire in colpa nessuno;
aiuta la gente ad abbandonare i
propri modelli sbagliati, senza farla
sentire in colpa: la sua è una vera
arte ed è la più sublime che esiste. Si
tratta di un’abilità molto sottile, e
non può essere altrimenti, perché
quando si cerca di cambiare una
persona, è molto facile farla sentire
in colpa: si crea infatti una
situazione molto delicata, perché si
va a toccare la sua sensibilità.
Inoltre, cercando di cambiare
qualcuno, è come se in qualche
modo dicessi a quella persona che
così com’è è sbagliata: e questa è
una cosa che bisogna assolutamente
evitare.
Gli esseri umani non sono
sbagliati: non lo sono mai. Dovrebbe
diventare un assunto fondamentale:
nel suo nucleo più profondo, ogni
individuo va sempre bene così
com’è! Anche se a livello
superficiale può commettere qualche
sbaglio, si tratta comunque di errori
temporanei, che non hanno grande
importanza, perché la sua natura
fondamentalmente buona – la sua
bontà intrinseca – è assoluta!
Quando una persona inizia a
sentirsi in colpa, significa che hai
inquinato la sua naturale bontà e
l’hai ferita profondamente. La vera
arte consiste dunque nel non ferire
mai la sua anima; per questo il vero
maestro è sempre indiretto: ha il
potere di cambiare e trasformare la
gente, ma lo fa sempre in modo
implicito. In questa maniera la
persona che viene cambiata e
trasformata non se ne accorge,
oppure se ne rende conto quando
ormai è trasformata, e a quel punto
prova solo gratitudine.
Il tocco del maestro è molto
leggero; non è mai offensivo,
aggressivo o violento; non contiene
mai condanna, bensì amore e
compassione; si fonda sul desiderio
di aiutare e di essere di sostegno, ma
non possiede mai l’intento – anche
minimo – di far sentire sbagliata una
persona.
Quando fai sentire sbagliato
qualcuno crei uno sbarramento nel
suo processo di trasformazione,
perché, pensando di essere sbagliata,
quella persona perde la speranza;
sentendosi in colpa, si chiude e
smette di essere aperta nei tuoi
confronti. Se una persona si sente
colpevole, si mette infatti sulla
difensiva e comincia a lottare, e se
viene fatta sentire continuamente in
colpa, finisce per accettare l’idea:
«Sono fatto così!» inizia a pensare.
«Se tutti dicono che sono sbagliato,
vuol dire che lo sono!». Per cui
persiste nel suo errore: «Se la gente
dice che sono sbagliato,» pensa
«allora lo sono, e non c’è modo di
cambiare, perciò che senso ha
preoccuparsene? Non mi resta che
essere come sono: è il mio destino!
Dio mi ha creato così; i miei genitori
mi hanno cresciuto così; la mia
società mi ha condizionato in questo
modo!». Troverà mille spiegazioni e
si rassegnerà… scordandosi ogni
possibilità di crescita.
Non condannare mai una persona
e non farla mai sentire in colpa,
perché è un vero crimine. Se ti
capita di incontrare un individuo che
sta facendo qualcosa di sbagliato,
cerca piuttosto di sollecitare la sua
naturale bontà: ricordagli il suo Tao,
il suo regno interiore e la sua natura
divina.
Come prima cosa rammentagli la
sua essenza divina e, grazie a quel
ricordo, riuscirà ad accorgersi
dell’errore che sta commettendo.
Non ci sarà bisogno che tu glielo
faccia notare; se ne accorgerà da
solo: porta semplicemente luce nel
suo essere!
Non dire mai a qualcuno che sta
mettendo il piede in fallo, che ha
rotto qualcosa e che è inciampato
nel tavolo facendolo cadere: non
dirgli mai nulla di simile! Porta alla
luce la sua essenza, metti in luce
l’essere umano che è dentro di lui, e
si accorgerà di ciò che ha fatto, ma
non suggerirgli mai che è sbagliato e
ha commesso un errore.

«Vostra altezza sublime» rispose
l’uomo «uno dei vostri discepoli sta
contestando il comportamento della
gente di questo quartiere».

È segno che si tratta di un discepolo
stupido, e quando dico “stupido”
non intendo privo di cultura: la
gente stupida, infatti, è capace di
accumulare montagne di sapere. Le
persone erudite sono sempre
stupide: diventare colte è il loro
modo di nascondere la propria
stupidità. Appendere ai muri
certificati e lauree le fa sentire bene,
ma a chi vuoi che importi dei
diplomi, delle borse di studio, dei
titoli e degli esami che hai
sostenuto? Hanno valore solo per gli
stupidi! Soltanto loro si interessano
a questo genere di cose, perché sono
il loro modo di dimostrare agli altri
di non essere stupidi – solo che
proprio cercando di provare che non
lo sono, in realtà stanno
semplicemente dichiarando al
mondo di esserlo!
Un uomo saggio non ha bisogno
di dimostrare nulla; la sua saggezza
è più che sufficiente ed è di per se
stessa una prova: è autoevidente, e
non c’è alcun bisogno di certificati,
lauree o titoli di studio.

Jan-Fishan si addentrò nella calca e
disse al suo discepolo: «Spiegami le
tue ragioni».

Questa è una situazione calda: il
discepolo, che naturalmente è
istruito e razionale, sta condannando
gli abitanti di quel luogo. Per
dimostrare loro che hanno torto e
che il loro comportamento è
sbagliato, è in grado di servirsi delle
scritture e di citare testi sacri – ed è
proprio ciò che sta facendo, quando
all’improvviso appare il maestro che
chiede: «Spiegami le tue ragioni!
Cosa stai combinando?».

Il discepolo disse: «Questa gente ha
avuto un comportamento ostile!».

Ebbene, se sei saggio, è impossibile
affermare una cosa del genere: a
meno che dentro di te non alberghi
un ego, non puoi sentire ostilità da
parte di un’altra persona. Se hai una
ferita al piede e qualcuno te la tocca,
senti male, ma il dolore non è
causato da quel tocco, bensì dalla
ferita! Se quella persona ti avesse
toccato in un altro punto, non avresti
sentito nulla: il dolore è causato
dalla ferita, non dalla mano altrui!
Ricorda bene questa cosa: ogni
volta che avverti ostilità da parte di
qualcuno, significa che il tuo ego è
davvero molto pronunciato, e quella
persona ha toccato la tua ferita,
mettendo il dito nel tuo ego. Per
questo ti sembra ostile, altrimenti la
questione non si porrebbe! Quella
persona è semplicemente se stessa:
come può esserti ostile? E anche se
lo fosse, sarebbe soltanto un
problema suo e non dovrebbe
interessarti.

La gente ha insultato il Buddha
un’infinità di volte: gli ha tirato
sassi, l’ha maltrattato… e lui si è
limitato a sorridere.
Una volta fu avvicinato da un
gruppo di persone davvero ostili e
lui disse: «Mi dispiace per voi,
perché siete sull’orlo di un attacco di
collera… molto probabilmente
sentite la rabbia ribollire dentro di
voi, e mi dispiace davvero: cosa
posso fare per aiutarvi a placare
quell’ira? Come posso contribuire a
calmare questa febbre dello
spirito?».
Non ha pronunciato nemmeno
una parola su se stesso, non li ha
accusati di essere ostili verso di lui,
né ha chiesto loro il motivo della
loro ostilità: ha evitato di dire
qualunque cosa si riferisse alla sua
persona, perché non era quello il
punto.
Qualcuno allora gli domandò:
«Come sarebbe? Noi ti siamo ostili e
a te dispiace per noi? Siamo tuoi
nemici: vogliamo distruggere
completamente sia te che la tua
dottrina… e a te dispiace per noi?».
«Certo» rispose il Buddha «può
anche darsi che da parte vostra ci sia
ostilità… Ma se, per esempio, si
getta nel fiume una torcia in fiamme,
resta accesa solo finché non tocca
l’acqua: nell’istante in cui viene a
contatto con il fiume, si raffredda e
si spegne. Io sono freddo, distaccato,
e se mi gettate addosso una torcia,
resta accesa solo finché rimane in
mano vostra, ma nel momento in cui
mi tocca si spegne e scompare. Non
sono ferito dalle vostre parole e non
potete farmi del male, perché chi
avrebbe provato dolore non c’è più:
quell’ego non esiste più!».
«L’ho cercato» continuò il
Buddha «ma non l’ho trovato:
dentro di me non c’è nessuno, perciò
come potete essere ostili nei miei
confronti? Come potete farlo, se io
non esisto?».

Il discepolo disse:
«Questa gente ha avuto un
comportamento ostile!»…
«Non è vero!» esclamarono i
presenti. «Al contrario, stavamo
rendendogli onore per amor vostro».
«Cosa ti hanno detto?» domandò
allora il maestro.
«Mi hanno salutato dicendo:
“Ave, grande studioso!”» rispose il
discepolo «mentre stavo spiegando
loro che, spesso, l’ignoranza degli
studiosi è responsabile della
confusione e della disperazione
degli esseri umani».

Il discepolo sta dicendo: «Mi hanno
salutato con un “Ave, grande
studioso” quando io stavo
condannando gli studiosi! Proprio
come hanno sempre fatto i Sufi,
stavo deplorando gli studiosi e la
cultura – e questa gente ingenua mi
ha detto: “Ave, grande studioso”! Si
tratta di un insulto bello e buono:
significa essere ostili nei miei
confronti! Io spiego che sono stati
gli studiosi a creare l’infelicità nel
mondo, e loro mi chiamano
studioso: bisogna pur correggere
questa gente!».

Jan-Fishan Khan disse: «Molto
spesso la presunzione degli studiosi
è responsabile dell’infelicità umana
– e questo tumulto è stato provocato
proprio dalla tua presunzione nel
crederti diverso da uno studioso!
Non essere uno studioso è una
conquista e richiede distacco da
tutto ciò che è insignificante. È raro
che gli studiosi siano saggi: sono
semplicemente persone immobili,
imbottite di pensieri e di libri».

Il maestro sta dicendo: «Queste
persone sono semplici, innocenti, e
non sanno cogliere le sottili
sfumature fra le parole. Non sono
state ostili verso di te: dal loro punto
di vista ti stavano onorando!
Salutandoti come un grande
studioso, stavano affermando che sei
una persona fuori dal comune,
perché dal loro punto di vista non
c’è nulla di male nell’essere un
uomo colto. E da dove ti viene,
inoltre, l’idea di aver trasceso la
condizione di studioso? Per pensare
di esserti elevato al di sopra degli
studiosi, ci vuole un ego ancora più
grande del loro!».
È molto difficile andare al di là
della conoscenza e smettere di
rivendicare un sapere. È l’ultimo
passo del cammino: nel momento in
cui una persona trascende la
conoscenza, si illumina, perché
nell’istante in cui abbandona il
sapere, fa ritorno nel giardino
dell’Eden.
La conoscenza non è un ponte, ma
una barriera; e nel momento in cui
scompare lo sbarramento, scopri
all’improvviso di essere sempre
stato a casa, di non aver mai lasciato
quel luogo e di non essere mai
andato da nessuna parte!
Ma ricorda sempre che
raggiungere quella condizione è un
risultato davvero enorme. Ti
domandi come mai? Perché di
norma l’essere umano è ignorante –
e l’ignoranza ti ferisce, perché la
interpreti come indice di inferiorità.

Fra i miei sannyasin c’è una ragazza
molto bella che si chiama Shanti.
Continua a scrivere domande come
questa: «Osho, mi sento inferiore,
perché so svolgere solo mansioni di
pulizia o di cucina; non sono capace
di essere una leader di gruppi
carismatica, non so fare nulla di
importante e non saprei essere una
brava redattrice: sono veramente
inferiore».
La povera Shanti sta soffrendo
inutilmente: il mio intero lavoro
consiste precisamente nella pulizia e
nella preparazione di cibo! Cos’altro
credi che stia facendo, Shanti? Sei
esattamente pari a me!
Eppure la tua mente continua a
partorire idee di questo genere:
«Sono solo capace di pulire e
cucinare; non sono né una leader di
gruppi carismatica, né una terapista,
né una redattrice, né una persona
importante che lavora negli uffici:
non sono nessuno!». Perciò continui
a chiedere cosa dovresti fare.

È la stessa domanda che
inizialmente fanno tutti i bambini:
«Cosa dovrei fare per diventare
importante, per diventare una
persona speciale in questo mondo?».
Ed esistono soltanto alcuni modi per
diventare speciale: puoi diventare
ricco e avere più denaro degli altri,
diventare più potente, ottenendo più
potere politico del resto della gente,
oppure accumulare più conoscenza
di chiunque altro. O ancora, se non
riesci a fare nient’altro, puoi
semplicemente rinunciare a tutto e
diventare un grande mahatma:
purché tu faccia qualcosa per essere
speciale!
Il complesso di inferiorità che ti
porti dentro continua a spingerti e a
manipolarti perché tu faccia
qualcosa che ti consenta di emergere
e ti renda eccezionale, in modo che
gli altri sappiano chi sei.
Puoi possedere denaro… non è
difficile: molta gente stupida è ricca.
Puoi acquisire un potere politico:
non è certo un problema, perché solo
gli stupidi sono capaci di diventare
politici potenti! Oppure puoi
accumulare sapere: ci sono così tanti
idioti pieni di lauree, di borse di
studio, di titoli e di notorietà – non è
per niente difficile! Ma nel profondo
continuerai a restare la stessa
persona di sempre, del tutto
immutata.
Non è questo il modo di
trasformare il tuo essere. Puoi
accumulare tutto il sapere del
mondo, ma come può aumentare la
tua capacità di conoscere? Gli altri
magari penseranno che sai
moltissime cose, ma, nel profondo,
tu saprai benissimo che si tratta solo
di memoria e che il tuo essere non è
affatto toccato da quel sapere.
Un giorno, forse, potrebbe venirti
un’altra idea, la migliore di tutte:
«Rinuncerò anche a tutta questa
conoscenza!» ti dirai. «Diventerò
una persona come Socrate, che sa
una cosa sola: di non sapere nulla!».
Ma nel profondo stai ancora
sperando che la gente pensi che sei
uguale a Socrate: solo che sei un
Socrate di plastica, artificiale,
artefatto! Non sei un vero Socrate:
essere davvero come lui è
un’enorme conquista! E come
accade? Non certo rinunciando al
sapere o dichiarando: «Ho
abbandonato la conoscenza, non
sono più uno studioso e per me lo
studio non ha alcun valore»! Non è
così che ci si arriva.
Il vero Socrate accade solo
quando, piano piano, arrivi a
comprendere l’inconoscibilità della
vita e dell’esistenza: quando
comprendi la totale impossibilità di
conoscere l’esistenza e la sua
essenza assoluta! E non c’è modo di
arrivarci attraverso la conoscenza,
perché sei immerso nell’esistenza: il
punto non è rinunciare al sapere, ma
innamorarsi della vita stessa!
Bruciare i tuoi libri è molto facile,
ma non serve a niente, perché anche
gettandoli al rogo, stai comunque
attribuendo loro troppo valore:
significa che per te sono ancora
importanti.
C’è un famoso dipinto che
raffigura un monaco Zen mentre
brucia i suoi libri. Se fossi stato
presente, gli avrei detto: «Perché li
bruci? Perché ti dai tutta questa
pena? Preservali! Potrai usarli se un
giorno non avrai altro modo per
scaldare l’acqua per il tè, ma perché
sprecare energia facendone un falò?
Se sarà necessario, un giorno potrai
usarli per cucinare, senza bisogno di
esibire il tuo gesto di fronte a un
pubblico, sulla piazza del mercato.
Questa è solo un’esibizione: stai di
nuovo coltivando la speranza che la
gente ti consideri un vero Socrate!».
Non è questo il modo di diventare
come lui; il vero Socrate non accade
scagliandosi contro i libri, ma
piuttosto penetrando più in
profondità nell’essere e
nell’esistenza – e a quel punto le
scritture saranno dimenticate! Di
tanto in tanto potrai darci
un’occhiata, perché contengono
affermazioni di antichi maestri e
frasi bellissime: grazie a loro non
diventerai certo un saggio, ma
possono diventare meravigliosi
testimoni del tuo conoscere.
Se vedendo il sole che sorge, inizi
a gioire e a danzare insieme a lui, di
certo, imbattendoti un giorno in
qualcuno dei versi assolutamente
meravigliosi che Kalidasa ha
composto sull’alba, resterai
sorpreso: penserai che ha detto
esattamente ciò che avresti voluto
dire tu! Non sei capace di farlo,
perché non possiedi le sue capacità
espressive… non tutti, infatti, sono
dei Kalidasa!
Ricorda sempre che ognuno di noi
può diventare un buddha, ma non
tutti possono diventare un Kalidasa,
un Mozart o un Beethoven. Tutti gli
esseri umani hanno il potenziale per
trasformarsi in un buddha, perché fa
parte della nostra natura, mentre
quelle artistiche sono qualità e
talenti particolari: esiste un solo
Kalidasa e nessun altro potrà mai
ricreare gli stessi canti che ha
composto lui! C’è un solo
Shakespeare e quell’uomo sapeva
combinare le parole in modo così
straordinario… nessuno riuscirà mai
più a fare lo stesso, perché era un
mago della parola, e tu invece
potresti non esserlo.
Non c’è niente di male nei testi
sacri: non possono farti diventare
saggio, ma una volta che lo diventi,
puoi gustarteli! Se ti immergi
semplicemente al loro interno,
dando un’occhiata qua e là, anche le
scritture diventano capaci di
produrre una gioia immensa, perché
all’improvviso ti accorgi che,
cinquemila anni fa, qualcuno ha
espresso la stessa intuizione che hai
sperimentato tu.
In questo modo non sei più in
collegamento con l’esistenza solo
attraverso lo spazio, ma anche
attraverso il tempo. Accade così un
nuovo tipo di espansione:
cinquemila anni fa qualcuno ha
scritto un canto nei Veda, e un
giorno, leggendolo, ti accorgi
all’improvviso che quella persona ti
ha tolto le parole di bocca! È come
se quei cinquemila anni fossero
scomparsi: fra te e quell’individuo
sconosciuto, del tutto anonimo, si è
creato un legame, un’amicizia, una
sorta di intimità… Non siete più due
persone separate: quell’uomo è
diventato un tuo contemporaneo,
perché ha visto le cose nello stesso
modo in cui le vedi tu, dicendo ciò
che vorresti dire tu, ma che non sei
capace di esprimere.
Esistono due dimensioni: la prima
è quella dello spazio – e attraverso
di essa io sono tuo contemporaneo.
Siamo contemporanei perché sei qui,
seduto insieme a me; ma, attraverso
il tempo io sono anche
contemporaneo del Buddha, di
Gesù, di Krishna, di Rumi, di al-
Hallaj e di mille altri… Anche loro,
come te, sono seduti di fronte a me:
sono quindi in contatto con te
attraverso lo spazio e con loro
attraverso il tempo.
Perciò quando ti racconto del
Buddha, di Maometto o di Lao-tzu,
non ti sto parlando di personaggi
storici, ma di miei contemporanei. E
la vita si arricchisce incredibilmente
quando puoi sorseggiare una tazza di
tè con il Buddha seduto da una parte
e Lao-tzu dall’altra: l’esistenza è
straordinariamente ricca!
Non ti sto dicendo di bruciare i
libri, perché hanno un loro valore,
ma sono preziosi solo per chi sa
penetrare all’interno della vita e
dell’esistenza: in questo caso puoi
anche immergerti nei libri, perché
diventano parte della vita, ma se non
riesci a entrare all’interno di un
albero – nella sua essenza – come
puoi penetrare nell’essenza di un
libro? È impossibile! L’albero è più
vivo di qualsiasi scrittura ed è tuo
contemporaneo nello spazio: puoi
persino abbracciarlo! Il libro invece
può diventare tuo contemporaneo
solo attraverso il tempo, e perché
accada, devi crescere ed espanderti:
il tuo essere deve diventare talmente
grande da far sparire al suo interno
sia il tempo che lo spazio. A quel
punto saranno tuoi contemporanei
non solo i buddha del passato, ma
anche quelli futuri; l’intera esistenza
sarà presente: culminerà e
convergerà in quel preciso istante!
Tutto ciò che è, che è stato e che
sarà convergerà nel quieora,
sprigionando una bellezza
straordinaria e una benedizione
incalcolabile e sconfinata.

Il maestro chiese: «Cosa ti hanno
detto? Perché hai la sensazione che
siano ostili nei tuoi confronti?».
«Mi hanno salutato dicendo:
“Ave, grande studioso!”» rispose il
discepolo «mentre stavo spiegando
loro che, spesso, l’ignoranza degli
studiosi è responsabile della
confusione e della disperazione
degli esseri umani».

Il discepolo stava spiegando queste
cose, ma lo faceva senza conoscerle:
aveva sentito queste parole da
qualche parte e le stava
semplicemente ripetendo in modo
meccanico, come un pappagallo.
I discepoli corrono sempre il
pericolo di diventare pappagalli e
bisogna fare di tutto per evitarlo. Ma
il rischio è grande, perché si
manifesta lentamente, infiltrandosi
nelle fibre del tuo essere, senza che
tu nemmeno te ne accorga. I
discepoli passano anni ad ascoltare
ininterrottamente, finché un giorno
cominciano a ripetere,
dimenticandosi interamente del fatto
che le parole che stanno ripetendo
non provengono da loro.
Non riportare mai pensieri che
non sono tuoi, perché finirai per
cacciarti nei guai! I tuoi discorsi
saranno pura forma: le tue parole
saranno del tutto superficiali e il tuo
intero essere le contraddirà. Dirai
una cosa facendone un’altra, perché
le tue azioni verranno da te, mentre
le tue parole saranno dettate da tutto
ciò che hai sentito; in questo modo
si forma una dicotomia che crea una
situazione così ridicola e palese, che
se ne accorgono tutti! Ogni volta che
ripeti qualcosa che non comprendi,
infatti, tutta la tua vita la contraddice
e la smentisce.
A questo proposito, ho letto un
aneddoto divertente:

Come dimostra questa storiella, è
risaputo che gli abitanti di Filadelfia
hanno sempre aspirato alla
perfezione.
Fenton, che si trovava in visita
nella “città dell’amore fraterno”,
decise di cenare nel ristorante più
esclusivo di Filadelfia.
«Cosa desiderate ordinare?»
chiese il cameriere.
«Prenderò il piatto con
l’hamburger» rispose Fenton, dopo
aver esaminato il menu.
Nel giro di qualche minuto il
cameriere tornò; scoperchiò una
casseruola che conteneva due
hamburger e tirò fuori dalla tasca un
paio di pinze d’argento, con le quali
trasferì le polpette nel piatto del
cliente.
«Non tocchiamo mai nulla con le
mani» spiegò, sorridendo, il
cameriere.
«Molto bene!» disse Fenton.
«La pulizia è il nostro motto,»
continuò il cameriere «e non
tocchiamo mai niente con le mani!».
«Splendido!» esclamò di nuovo
Fenton.
«Seguiamo una procedura
speciale» proseguì il cameriere
«anche quando andiamo in bagno: lo
vede questo cordino attaccato al mio
grembiule?».
«Sì, ho notato che tutti i camerieri
ne hanno uno: a cosa serve?» chiese
Fenton.
«Ebbene» riprese il cameriere,
adagiando con le sue pinze
d’argento una grossa patata nel
piatto di Fenton, «se devo andare in
bagno, mi slaccio semplicemente i
pantaloni e poi lo tiro fuori con
questo cordino: in questo modo
l’igiene viene rispettata!».
«Ma come diavolo fa a rimetterlo
dentro?» domandò allora Fenton.
«Non so come facciano gli altri»
rispose il cameriere serafico «ma io
uso queste pinze: non tocchiamo mai
niente con le mani!».

Questo è ciò che accade quando ti
limiti a ripetere come un pappagallo:
se hai semplicemente imparato una
regola formale che non fa parte del
tuo essere, tutto il tuo
comportamento la smentirà. A
livello superficiale te la caverai, ma
la vita possiede molteplici livelli:
non si può vivere limitandosi alla
superficie!
Il problema è che il discepolo si
trova ad ascoltare grandi verità: il
maestro, infatti, condivide
qualunque cosa abbia sperimentato –
e tu corri il rischio di diventare un
pappagallo. Ricordalo: ascolta e
impara, ma parla con gli altri solo ed
esclusivamente di ciò che hai
sperimentato per via diretta! Puoi
condividere soltanto la tua
esperienza, e quando accade è
bellissimo; se invece cerchi di
appropriarti di quella altrui, diventa
una cosa tremenda – e non importa
se usi le stesse identiche parole!

«Mi hanno salutato dicendo: “Ave,
grande studioso!”» rispose il
discepolo «mentre stavo spiegando
loro che, spesso, l’ignoranza degli
studiosi è responsabile della
confusione e della disperazione
degli esseri umani».

Puoi capire solo ciò che sei in grado
di comprendere in quel particolare
momento; la tua comprensione è
commisurata alle tue capacità,
mentre il maestro parla in base alla
sua visione: lui è come un oceano…
e tu hai solo una tazzina, che non è
in grado di contenere quella distesa
d’acqua sterminata! Per riuscire a
farlo, devi rompere la tazza: solo
allora il tuo essere potrà contenere
l’oceano, perché non può entrare in
quella minuscola coppa che è la tua
testa! Devi romperla, e quando non
avrai più una mente, riuscirai a
contenerlo.
Ma questo accadrà solo al
momento giusto… All’inizio, tutti
sono costretti ad ascoltare usando la
testa. E la mente continua a giocare
brutti scherzi: ascolti una cosa e ne
capisci un’altra…

Nelle prime ore del mattino, un
ubriaco passò davanti a una porta
sulla quale notò un cartello che
diceva: «Suonare il campanello per
il medico».
Seguì le istruzioni alla lettera e
venne ad aprire un uomo dall’aria
assonnata: «Cosa vuole?» chiese
all’ubriaco.
«Voglio sapere» rispose
quest’ultimo «come mai non sei
capace di suonare questo dannato
campanello da solo!».

Sulla porta c’era scritto: «Suonare il
campanello per il medico»… E
poiché quell’uomo era ubriaco, la
sua capacità di comprensione era
commisurata al suo stato di
ebbrezza; è rimasto quindi
sconcertato dal fatto che il medico
non fosse capace di suonare il
campanello da solo, e si è
domandato perché avesse bisogno di
qualcun altro…
La gente è praticamente ubriaca di
sapere, ebbra di ego, cieca! Se la
cava a stento, a malapena: è davvero
un miracolo che le persone riescano
a vivere fino a settant’anni – un vero
prodigio!

Una giovane coppia ci stava dando
sotto sulla panchina di un parco,
quando la ragazza disse: «Morris,
potresti toglierti gli occhiali per
favore? Mi stanno facendo male».
Lui se li sfilò in fretta e poi si
rimise all’opera.
Dopo un attimo la ragazza disse
di nuovo: «Morris, potresti rimetterti
gli occhiali? Stai baciando la
panchina!».

Per continuare a sopravvivere nella
tua routine quotidiana sono
sufficienti un paio di occhiali dalle
lenti sottili e una consapevolezza
minima, ma questo non è abbastanza
per entrare nel Reale! In questa
realtà dovrai prestare attenzione a
tutto il tuo essere; dovrai avere
migliaia di occhi e saranno
necessarie grande consapevolezza e
totale presenza.

Questo discepolo, dunque, aveva
sentito il maestro affermare che gli
studiosi sono la causa dell’infelicità
del mondo… Ed è proprio così!
Senza comprendere ciò che dicono,
hanno causato moltissima infelicità
agli esseri umani: hanno dato
consigli e contaminato la mente
della gente senza sapere di cosa
stavano parlando.

Jan-Fishan Khan disse: «Molto
spesso la presunzione degli studiosi
è responsabile dell’infelicità umana
– e questo tumulto è stato provocato
proprio dalla tua presunzione nel
crederti diverso da uno studioso!».

È così: «Dentro di te si sta formando
un’altra presunzione, che è più
sottile e ben più ingegnosa di quella
precedente. Alcuni individui si
considerano studiosi e illustri
intellettuali; tu invece credi di aver
rinunciato a questi desideri puerili e
sei convinto di non essere più uno
studioso, quando in realtà lo sei
ancora!».

«Non essere uno studioso è una
conquista e richiede distacco da
tutto ciò che è insignificante».

Per evitare di essere uno studioso, è
necessario distaccarsi da tutto ciò
che è futile. Per farlo bisogna essere
interessati soltanto al Reale, alla
realtà suprema: non si deve più
provare alcun interesse per le teorie,
ma solo per l’esperienza
esistenziale.
«Perché sprechi il tuo tempo?»
chiede il maestro al discepolo. «Chi
sei tu per insegnare qualcosa a
questa gente? Saranno anche
persone ignoranti, che non
posseggono tutte le tue conoscenze,
ma non volevano affatto offenderti:
pensavano che chiamare qualcuno
“grande studioso” fosse un modo per
rendergli onore! Se consideri le loro
intenzioni, ti accorgerai che erano
buone. Sono persone innocenti e le
stai mandando in confusione; non le
stai affatto aiutando a fare chiarezza:
stai creando in loro delle paure,
perché adesso non oseranno
nemmeno più pronunciare la parola
“studioso” e non sapranno più come
rendere onore a qualcuno. Tu
peraltro non hai raggiunto quel
risultato, perché trascendere la
condizione di studioso è la forma di
consapevolezza più alta che ci sia!».
Il primo stadio è quello
dell’ignoranza, il secondo quello
della conoscenza – e in un certo qual
modo queste due condizioni si
assomigliano. Il primo livello è
rappresentato dall’ignoranza
inconsapevole, il secondo dalla
conoscenza inconsapevole e il terzo
dall’ignoranza consapevole; si
ritorna così al primo stadio, ma sotto
una forma del tutto nuova:
chiudendo il cerchio, il saggio
ridiventa bambino, tuttavia lo fa in
modo completamente differente,
perché tornare a essere bambino in
modo consapevole vuol dire
rinascere!
Gesù ha detto: «Finché non
rinascerai, non ti sarà permesso
entrare nel regno dei cieli». Questa è
la rinascita: accade solo se ridiventi
bambino, se torni a essere ignorante,
con l’assoluta consapevolezza che
non c’è modo di sapere, che non
esiste niente e nessuno da
conoscere… In questo modo i tre
obiettivi della conoscenza
svaniscono nell’oblio e ti si rivela
l’essenza dell’esistenza – questa è la
più grande estasi e la più
straordinaria benedizione che esista!
Certo, in quello stato sono
presenti amore, danza e
celebrazione, ma non c’è traccia di
conoscenza: questa è la grande
conquista, e per raggiungerla
bisogna distaccarsi da tutto ciò che è
insignificante.

«Perché» sta dicendo il maestro «ti
preoccupi tanto di questa gente e di
ciò che dice? Come mai provi tutto
questo interesse per le parole e non
riesci a vedere la tua presunzione?
Non ti rendi conto che, insegnando a
queste persone che gli studiosi sono
la causa dell’infelicità, stai cercando
di affermare e di dichiarare
implicitamente che tu non sei uno
studioso? Invece lo sei, perché ciò
che dici non è frutto della tua
esperienza: l’hai sentito dire da me,
e ora stai ripetendo le mie parole
come un pappagallo! Molto
probabilmente stavi cercando
proprio un pubblico del genere:
queste persone sono le tue vittime!».
Ogni volta che entri in possesso di
un’informazione, inizi a cercare
qualcuno per poterla riversare nella
sua mente, altrimenti ti senti
irrequieto, perché vieni ignorato: fai
molta fatica a tenere per te ciò che
sai, così ti aggiri inosservato alla
ricerca di qualche ignaro. Per questo
è così difficile mantenere un
segreto! E quasi impossibile: diventa
pesante e, per scaricarti di quel peso,
senti il bisogno di rivelarlo.
È molto difficile tenersi dentro,
senza dirlo agli altri, ciò che si è
finalmente riuscito a capire… perciò
la gente si agita ed è sempre alla
ricerca di una vittima.

«È raro che gli studiosi siano saggi:
sono semplicemente persone
immobili, imbottite di pensieri e di
libri».

«E tu sei proprio così!» sta dicendo
il maestro. «Sei immobile: non sei
ancora riuscito a trasformarti. È
vero, hai raccolto una grande mole
di informazioni; sono talmente
numerose che non riesci più
nemmeno ad assimilarle, e quello
che stai facendo in questo momento
equivale a una forma di diarrea, che
stai scaricando su questa povera
gente. Non ha fatto nulla per
meritarselo: hai semplicemente
trovato una scusa, sostenendo che
queste persone ti hanno dimostrato
la loro ostilità chiamandoti “grande
studioso”, quando gli studiosi sono
la causa dell’infelicità del genere
umano».
Sei immobile perché la
conoscenza non trasforma mai
nessuno! Rimani sempre uguale: il
sapere continua infatti ad
accumularsi allo stesso livello e,
finché non raggiungi uno stadio
superiore e uno stato diverso di
consapevolezza, nulla cambierà.
Puoi avere accesso a tutti i libri del
mondo, ma resterai infelice proprio
come lo sei sempre stato!

«È raro che gli studiosi siano saggi:
sono semplicemente persone
immobili, imbottite di pensieri e di
libri» e diventano molto presuntuosi
ed egoisti!

Un uomo che era appena stato
promosso vicepresidente si era
vantato a tal punto con sua moglie
che alla fine lei sbottò: «Ci sono così
tanti vicepresidenti che te li tirano
dietro! Altrimenti perché mai il
supermercato dovrebbe avere
addirittura un vicepresidente
incaricato di gestire le prugne
secche?».
Il marito, furioso, telefonò al
supermercato nella speranza di poter
confutare ciò che sosteneva sua
moglie, e chiese di parlare con il
vicepresidente deputato alle prugne
secche.
«Quali intende?» chiese il
centralinista. «Quelle confezionate o
quelle sciolte?».

Presidenti, vicepresidenti, professori
e studiosi non fanno altro che
vantarsi di essere persone speciali;
sembra che abbiano scritto sulla
fronte: «Lo vedi chi sono? Non sono
un comune mortale!». Sono soltanto
palloni gonfiati, colmi di ego: basta
una puntura minuscola per farli
scoppiare!
Fai attenzione, perché l’ego segue
strade davvero tortuose e, se non sei
molto consapevole, continuerà a
ripresentarsi passando dalla porta sul
retro.

«Questa gente stava cercando di
renderti onore. Se incontri persone
che pensano che il fango sia oro,
rispettalo, perché si tratta del loro
fango…».

Questo dovrebbe essere
l’atteggiamento di un individuo
davvero umano: se queste persone
sono convinte che il loro fango sia
oro, perché interferire? Si tratta del
loro fango e lo rispettano pensando
che sia un materiale prezioso: lascia
che pensino ciò che vogliono, non
turbare inutilmente le loro
convinzioni!

Poi il maestro aggiunge: «Non sei il
loro insegnante!».

Nessun altro, eccetto il maestro, ha
il diritto di interferire. Come mai?
Perché se lo fa qualcun altro, creerà
solo confusione, senza riuscire poi a
ricomporre la situazione; non sarà
capace di ricreare una nuova
armonia: si limiterà a produrre
scompiglio nella condizione
precedente, senza avere la capacità
di creare qualcosa di nuovo.
Distruggerà semplicemente il
vecchio edificio… Può anche darsi
che fosse solo un rudere, ma la gente
ci viveva, mentre ora sarà costretta a
dormire a cielo aperto, esposta alla
pioggia e al sole cocente. Non
distruggere mai un edificio finché
non sei capace di costruirne uno
migliore!
Ricordalo sempre: se non sei in
grado di offrire alla gente la verità,
non portarle via le sue menzogne,
altrimenti finirà per ritrovarsi in uno
stato di sofferenza tale da rendere la
vita impossibile. Grazie alla
speranza offerta dalle loro illusioni,
queste persone finora riuscivano
quantomeno a vivere… Non
distruggere le convinzioni della
gente, se non puoi sostituirle con la
verità: non portare via le sue
credenze, se non sei in grado di
offrire fiducia! Sottrarre a qualcuno
la sua falsa moneta è ammesso solo
se sei capace di sostituirla con quella
autentica.
Creare scompiglio, mandare in
frantumi e distruggere è concesso
solo ai maestri – ai buddha –perché
sono capaci di creare: l’obiettivo,
infatti, non è la distruzione in sé,
bensì la creazione.

«Non ti rendi conto che
comportandoti in modo così
insensibile e ostinato, agisci
esattamente come uno studioso e
meriti pertanto di essere chiamato in
quel modo, anche se si tratta solo di
un titolo onorifico?».

Il maestro ha sfruttato la situazione
in modo splendido, dimostrando
senz’ombra di dubbio al discepolo
che si è comportato come uno
studioso e che non sa assolutamente
nulla. È solo un imbroglione, ma è
in grado di annientare le credenze di
quella gente innocente e di godere
della propria capacità distruttrice.
Però, anche argomentando e
mettendo a tacere quelle persone,
non riuscirà mai a convincerle,
perché nessuna discussione può
farlo: solo la presenza del maestro
può diventare una fonte di
convinzione – le argomentazioni
razionali non hanno speranze!

«Stai in guardia, ragazzo mio!
Troppe persone commettono passi
falsi sulla strada della realizzazione
suprema, e potresti diventare uno
studioso!».

Nel mondo dei Sufi lo studioso è la
cosa più sporca che esista… e se
durante il cammino ti perdi troppe
volte, corri il rischio di diventare
proprio uno studioso. Si dice che, se
un poeta fallisce, diventa un critico:
ebbene, in modo assolutamente
analogo, si può affermare che, se un
saggio non riesce a diventare
realmente tale, si trasforma in uno
studioso.

Anche a te dico lo stesso: «Stai in
guardia, ragazzo mio! Troppe
persone commettono passi falsi sulla
strada della realizzazione suprema,
e potresti diventare uno studioso!».

Diventare uno studioso – un pandit –
non rappresenta un successo, ma un
fallimento. È solo un modo per
consolarsi di non essere riuscito a
trovare il vero tesoro: tutto ciò che ti
rimane, adesso, è una montagna di
vecchi libri polverosi, che invece di
essere una liberazione, sono un peso.
I libri non possono liberarti: anzi,
loro stessi aspettano qualcuno che
sappia liberare la verità imprigionata
al proprio interno – come possono
liberarti? Solo la presenza di un
maestro è capace di liberare la verità
imprigionata nelle scritture, e io ho
deciso di commentare così tanti libri
proprio perché racchiudono molte
verità che devono essere liberate.
Un libro non è in grado di
liberarti: come potrebbe? Solo la
verità è capace di farlo – e se la
conosci, sarai in grado di liberare
anche quella racchiusa nei libri. Ma
ricorda che, diventando
semplicemente uno studioso, questo
non è possibile: può accadere solo se
diventi saggio.
E chi è un saggio? Un individuo
che è tornato a essere bambino – un
bambino che è diventato
consapevole della futilità della
conoscenza e che ha compreso la
suprema bellezza dell’ignoranza!
Capitolo 10

IL CORAGGIO DI
PARTECIPARE




La prima domanda:
Osho, cos’è esattamente l’uomo?

La seconda domanda:
Osho, da un po’ di tempo ascolto i
tuoi discorsi e riesco ad accettare
tutto ciò che dici su quel che è vero
e quel che non lo è. Nella mia mente
è rimasta una sola domanda: se la
mia illuminazione dipende solo ed
esclusivamente da me e dalla mia
relazione con la totalità, a che serve
arrendersi a un maestro umano?

La terza domanda:
Osho, perché ho così paura di farti
una domanda?

La quarta domanda:
Osho, cos’è l’esperienza mistica?
Osho, cos’è esattamente l’uomo?

L’uomo è un mero forse, una
possibilità, un potenziale, un
divenire, un’aspirazione. È qualcosa
che non esiste ancora e che deve
diventare: questa è al tempo stesso
l’agonia e l’estasi della condizione
umana!
Gli animali semplicemente
esistono e non hanno alcuna
possibilità di crescita: sono un
prodotto finito. Non hanno alcuna
possibilità di mettersi alla ricerca e
di scoprire modi diversi di essere,
per cui non possiedono alcuna
libertà: si trovano in una situazione
di assoluta schiavitù. Vivono e
muoiono senza esserne consapevoli:
sono, ma non sanno di essere.
L’uomo esiste, sa di essere, ma
non sa chi è. L’essere umano è un
processo costante; c’è sempre
qualcosa che sta succedendo o che è
sul punto di accadere: l’uomo è un
entusiasmo, un’avventura, un
pellegrinaggio!
Gli animali non possono fallire
nella realizzazione del loro destino,
è sempre predeterminato: il loro
destino è assoluto e non c’è modo di
cambiarlo, perché sono
preprogrammati. L’uomo invece non
ha un programma predefinito ed è
aperto a qualsiasi possibilità;
possono accadere mille cose, ed è
proprio questo che genera l’ansia:
essere questo o quello? Dirigersi a
Oriente o a Occidente? Vivere in un
modo o nell’altro? Cos’è giusto?
Cosa mi farà sentire appagato?
Gli esseri umani sono costretti a
scegliere in ogni istante e,
inevitabilmente, ogni volta che
prendono una decisione, iniziano a
tremare, perché è sempre possibile
che sia quella sbagliata. In effetti le
possibilità di errore sono ben più
numerose: di mille opzioni diverse,
una sola sarà quella giusta! Per
questo si creano ansie e apprensioni:
«Ce la farò?» ci si domanda.
«Riuscirò mai a essere me stesso
oppure continuerò a sforzarmi
inutilmente in eterno, finendo per
ritrovarmi frustrato e fallito?
Arriverò mai a conoscere
l’abbondanza dell’esistenza? Questa
vita sarà il fondamento di
un’esistenza futura migliore o tutto
finisce con la morte? Al termine del
viaggio mi aspetta solo la tomba o
c’è di più?».
L’uomo è un essere aperto: tutto è
possibile, ma nulla è certo. Gli
animali sono caratterizzati dalla
certezza e dalla definizione, mentre
l’uomo non possiede alcuna
determinazione. Perciò quando mi
chiedi cos’è esattamente l’uomo, stai
ponendo una domanda sbagliata:
l’essere umano non è nulla di
preciso! È solo un vago
struggimento, un sogno indefinito di
cose a venire, che possono accadere
o no. L’uomo è caratterizzato
dall’esitazione: ne è afflitto ogni
momento, perché ogni singolo passo
sbagliato può distruggere tutta la sua
vita.
A differenza degli animali,
l’uomo può perdere la sfida, ma
proprio per questo può anche
vincerla, perché le due cose
viaggiano in coppia. L’essere umano
è capace di crescere: anzi è crescita!
Quel mero forse ha la possibilità di
concretizzarsi; il potenziale può
trasformarsi in realtà; il seme può
diventare una fioritura; ciò che è
nascosto può divenire manifesto – a
quel punto si creerà uno splendore
straordinario e una benedizione
sconfinata.
E infine c’è il buddha che è, sa di
essere e sa anche chi è.

Esistono tre stadi di crescita: quello
dell’animale, quello dell’uomo e
quello del buddha.
Gli animali possiedono una sola
dimensione; sono, esistono e sono
totalmente inconsapevoli di esistere:
per questo non possono pensare alla
morte. Per loro, dunque, la morte
non è problematica: diventa un
problema solo se hai coscienza di
esistere – e questa consapevolezza
va di pari passo con la paura che un
giorno non sarai più, perché, se c’è
stato un tempo in cui non esistevi,
arriverà di nuovo il momento in cui
non esisterai più. La tua esistenza è
un fenomeno temporaneo; puoi
sparire in qualsiasi momento, perché
è destino che tu muoia, e solo
l’uomo è consapevole della morte.
Per questo gli esseri umani hanno
creato la religione: è la loro risposta
alla possibilità della morte, il loro
tentativo di avere la meglio su di lei.
Nessun animale è religioso, né
potrebbe esserlo, perché in assenza
della consapevolezza della morte, la
religione è impossibile. Ma prima di
diventare cosciente della morte, devi
diventare consapevole del tuo
essere: è un requisito fondamentale.
Poiché, dunque, l’uomo sa di
esistere, sviluppa anche la coscienza
e il timore che in qualsiasi momento
potrebbe non esistere più, perché il
tempo è breve… Per gli animali,
invece, il tempo non ha valore
esistenziale e di fatto non esiste:
vivono in un mondo senza tempo,
momento per momento, senza
pensare al passato o immaginare il
futuro.
L’uomo non è capace di vivere nel
presente: ricorda il passato, sentendo
una gran nostalgia per i tempi d’oro
che non ci sono più; inoltre pensa,
immagina e sogna il futuro, vale a
dire il momento in cui tutto sarà
come deve essere. Gli esseri umani
vivono quindi nel passato e nel
futuro, mentre gli animali stanno
esclusivamente nel presente, ma non
ne sono consapevoli né possono
esserlo: solo chi è cosciente del
passato e del futuro può infatti avere
coscienza del presente, perché
quest’ultimo è stretto fra il prima e il
dopo.
Gli animali non conoscono ansia;
non sono turbati dalla memoria e i
loro cuori non sono infiammati
dall’immaginazione; sono esseri
semplici, per i quali l’esistenza è
priva di complicazioni: quando
vivono, vivono, e quando muoiono,
muoiono. Sono innocenti, perché il
loro essere non è inquinato dal
tempo.
L’uomo, invece, vive immerso nel
tempo, è consapevole di esistere, ma
non sa chi è, e questo diventa un
problema enorme: «Chi sono?» è la
domanda fondamentale che
contraddistingue ogni essere umano.
Da questo quesito basilare nasce
ogni filosofia, ogni religione e ogni
forma d’arte e di poesia – sono modi
diversi di porre la stessa domanda,
modalità di risposta differenti, ma la
domanda resta una sola: «Chi
sono?».
Se provi a comprendere la vita
degli esseri umani, ti accorgerai che
questa domanda è onnipresente.
Proprio così, anche chi impazzisce
dietro al denaro in realtà sta
cercando di rispondere alla
domanda: «Chi sono?».
Accumulando ricchezze, crede di
riuscire a scoprire chi è, perché in
quel modo saprà di essere un uomo
ricco e questo gli conferirà una certa
identità. Chi insegue il potere
politico di fatto sta cercando di
rispondere alla stessa domanda:
diventando il primo ministro di un
Paese, potrà infatti affermare: «Sono
il primo ministro!».
Ma queste risposte sono
superficiali e non riusciranno a
soddisfarti veramente: possono
essere sufficienti per una persona
mediocre, ma non bastano a chi è
veramente intelligente. Anche se
riesci a diventare molto ricco, la tua
intelligenza continuerà a martellarti,
chiedendoti: «Chi sei? Certo,
possiedi molto denaro, ma chi sei
tu? Il tuo essere non coincide con il
tuo denaro: non puoi essere ciò che
possiedi! Chi è che possiede tutto
questo? Va bene, sei diventato il
primo ministro del tuo Paese, ma
quella è solo una funzione: non è il
tuo essere! Chi sei tu? Chi è quella
persona che ieri non aveva alcuna
carica politica, oggi è diventata
primo ministro e domani potrebbe
nuovamente non esserlo più? Essere
primo ministro è solo un episodio –
ma della vita di chi?».
La domanda continua a sussistere:
questi sforzi e questi tentativi
superficiali non bastano a dare una
risposta. Eppure l’essere umano è
essenzialmente portato a fare
proprio questo: diventa un marito,
un padre, una madre, questo e
quest’altro ancora… ma tutto ciò è
dettato dal bisogno di fondo di
costruirsi una qualche identità e di
poter affermare di essere una
moglie, un marito, un padre o una
madre.
Tuttavia anche in questo modo
non riuscirai comunque a rispondere
alla domanda: il tuo essere una
madre o un padre sono eventi
meramente accidentali, che
interessano solo la superficie senza
toccare il tuo centro più profondo.
Non si tratta di vere identità, bensì
di personalità fittizie: se tuo figlio
dovesse morire, chi saresti? Non
potresti più essere sua madre! Tuo
marito potrebbe andarsene e in quel
caso chi sarai? Non sarai più una
moglie.
Queste personalità sono
estremamente fragili e l’uomo
finisce per trovarsi costantemente in
crisi di identità: fa di tutto per
costruire una definizione di sé che
tuttavia continua a sfuggirgli di
mano. Solo le persone religiose sono
davvero in grado di porre quella
domanda collocandola sul piano
giusto.
I buddha esistono proprio come
gli animali e, proprio come gli esseri
umani, sanno di esistere; tuttavia
hanno a disposizione una terza
dimensione: sanno chi sono – sono
giunti a vedere il loro essere più
profondo. Non hanno cercato la
propria identità nel mondo esterno,
perché non è là che si può trovare:
come potrebbe risiedere fuori da te
stesso? Tu sei la tua realtà interiore,
la tua intima essenza, la tua
soggettività: come puoi conoscere
tutto questo attraverso gli oggetti?
Può darsi che tu abbia una bella
casa, ma si tratta di qualcosa di
esteriore; puoi possedere splendide
opere d’arte, dipinti, pezzi
d’antiquariato, ma sono tutti oggetti
esterni a te: non possono definirti,
non saranno mai in grado di
determinare il tuo essere. Se un
giorno nella tua casa scoppiasse un
incendio, andrà bruciata anche la tua
identità e tu rimarrai per strada a
chiederti: «Chi sono?».
Per questo le persone si suicidano:
se perdono il proprio denaro o fanno
bancarotta finiscono per suicidarsi.
Perché lo fanno? Com’è possibile? Il
denaro si può sempre
riguadagnare… Ma, se osservi a
fondo questi individui, ti accorgerai
che quelle ricchezze
rappresentavano la loro identità: per
molto tempo hanno creduto di essere
il loro denaro e, adesso che il loro
conto in banca è andato in fumo,
devono nuovamente affrontare il
problema di chi sono. Hanno
sprecato tutta la loro vita a costruire
quel conto in banca e adesso non
sono in grado di ricominciare da
capo: è troppo faticoso! Hanno
fallito completamente.
Fare bancarotta di fatto
rappresenta già un suicidio, perché
l’identità di quelle persone è svanita:
non sono più le stesse di prima,
hanno perso la faccia, e come
possono vivere senza una
reputazione? Se muore la donna che
hai sempre amato, arrivi a suicidarti
o a meditare di farlo perché lei era la
tua identità e, ora che sei rimasto
solo, ti senti vuoto: ricominciare dal
principio, assolutamente da zero, ti
sembra troppo difficile, per cui pensi
sia meglio farla finita e basta.

Questi, dunque, sono i tre livelli: il
primo è quello animale. E quando
parlo di stadio animale, includo
anche molti esseri umani: esistono,
ma non ne sono neppure coscienti,
perché vivono in maniera
meccanica. Ci sono poi molte
persone che appartengono al livello
umano e sanno di esistere, senza
però sapere chi sono; infine, qua e
là, si incontrano alcuni rari individui
che sanno chi sono e diventano
tridimensionali.
Lo stadio umano è un ponte fra
l’animale e il buddha. Ricordalo
bene: l’uomo è un ponte! Non
costruire la tua casa sul ponte,
perché non è quella la sua funzione:
il ponte è fatto per essere
attraversato! Non fermarti al livello
umano, altrimenti continuerai a
vivere nell’ansia e nell’angoscia;
non è uno stato in cui vivere e
stabilirsi, bensì una condizione di
passaggio che va attraversata; è una
scala, e non si può restare fermi
sulla scala: è solo un collegamento
fra un piano e l’altro.
L’animale esiste e in un certo qual
modo è appagato; nella sua
condizione, infatti, non esistono
ansia, paura, morte, ambizione,
nostalgia, ma solo calma e quiete.
Tuttavia è inconsapevole e
incosciente. Anche il buddha è
appagato, si sente completamente in
pace; è a casa, è arrivato: il suo
viaggio è finito e non c’è più nessun
luogo da raggiungere – si è
realizzato. Fra questi due stadi si
trova l’uomo, che è per metà
animale e per metà buddha; la
tensione nasce proprio da questo:
una parte di lui vorrebbe tornare
indietro, e l’altra andare avanti.
L’uomo è un essere scisso. Lascia
che te lo ripeta: non è ancora un
essere compiuto! Ha perduto la
modalità di esistenza animale e non
ha ancora raggiunto quella
successiva del buddha, per cui si
dibatte costantemente fra queste due
forme di esistenza – fra le due rive
del fiume.
Non si può tornare indietro,
perché l’esistenza non conosce il
movimento a ritroso; non è possibile
viaggiare indietro nel tempo; la
dimensione temporale, infatti,
possiede una sola direzione: il tempo
scorre solo in avanti! Tornare
indietro non è possibile, perciò non
sprecare il tuo tempo pensando che
potresti anche regredire allo stadio
animale e vivere in modo
animalesco, seguendo il motto
“Mangia, bevi e divertiti”. Un essere
umano non può farlo, perché sente il
bisogno di ponderare e di riflettere;
non puoi permetterti di non pensare,
e comunque sarebbe molto
rischioso, perché ti bloccheresti e
diventeresti una pozza d’acqua
stagnante. Puoi conservare la tua
freschezza e la tua vitalità solo se
continui a fluire fino a raggiungere
l’oceano: e per oceano intendo la
buddhità, lo stato di consapevolezza
dei buddha.
L’uomo deve diventare un
buddha. Crea dentro di te
quell’ardente aspirazione,
quell’anelito intenso di raggiungere
lo stato di consapevolezza suprema;
buttati alla sua ricerca appassionata,
impiegando tutta l’energia che
possiedi: lascia che il tuo essere
venga infiammato da quel moto
dell’anima… e riuscirai a diventare
un buddha! Il giorno in cui ci
riuscirai, sarai nuovamente diventato
un vero essere – un essere che
appartiene a uno stadio superiore, al
livello più alto, perché non c’è
niente di più elevato di questo.

Mi chiedi: Cos’è esattamente
l’uomo?
L’uomo in quanto tale non è
qualcosa di esatto, bensì un
fenomeno vago, impreciso e
nebuloso; non è nulla di definito
perché in realtà è una folla, un
insieme di molte persone: per questo
è nebuloso. Gli manca l’unità e non
ha un centro: la centratura emerge
infatti solo attraverso la
consapevolezza, e l’essere umano
vive invece come un ramo
trasportato dalla corrente. Per questo
dico che è un mero forse, un
paradosso sconcertante, un essere
assurdo: esiste, ma al tempo stesso
non esiste – è qualcosa che sta a
metà strada. È l’unico animale in
grado di ironizzare su di sé; nessun
altro ci riesce: solo l’uomo è in
grado di farlo, perché possiede la
capacità di diventare saggio.
Se non accresci la tua saggezza, ti
prenderai in giro da solo ed è
proprio ciò che la maggior parte
della gente sta facendo. Se ti
soffermi a osservare queste persone
in modo distaccato, ti sorprenderà
scoprire come vivono… in quale
caos, in che confusione, in quale
delirio! Come fanno a muoversi? In
effetti non si muovono affatto, ma si
limitano a correre sul posto.
Osservando gli esseri umani,
resterai davvero stupito, perché è
veramente difficile incontrare una
persona saggia: non ci sono che
idioti… dappertutto! Ma ricorda che
nessun altro animale è capace di
comportarsi da stupido: hai mai
visto un cane che agisce da stupido?
Certo che no! Dal momento che gli
animali non possono essere saggi,
non possono nemmeno essere
stupidi, perché le due possibilità
sono concomitanti.
Osserva te stesso: guarda la tua
stupidità e sii sempre cosciente di
ciò che stai facendo della tua vita,
perché è preziosa! È una ricchezza
davvero incommensurabile e
inestimabile, ma visto che l’hai
ricevuta in dono, non ne apprezzi il
valore; dal momento che si tratta di
una semplice benedizione del
divino, l’hai data per scontata: e
questo è stupido! Non darla per
scontata, perché è un’opportunità di
crescita!
Inoltre, di ciò che hai fatto della
tua vita dovrai rispondere al divino:
sei arrivato fin qui restando uguale a
come sei nato? O magari sei
addirittura peggiorato? Preoccupati
di questo, perché di questo devi
rispondere e, a meno che tu non
diventi un buddha, non riuscirai mai
farlo.
Essere un buddha, significa infatti
diventare divino: quella è la tua
potenzialità intrinseca! Finché non
diventi divino, non ti sentirai mai
soddisfatto; solo allora saprai che
cosa sei esattamente: per ora non sei
niente, non sei che un mero forse…


Osho, da un po’ di tempo ascolto i
tuoi discorsi e riesco ad accettare
tutto ciò che dici su quel che è vero
e quel che non lo è. Nella mia mente
è rimasta una sola domanda: se la
mia illuminazione dipende solo ed
esclusivamente da me e dalla mia
relazione con la totalità, a che serve
arrendersi a un maestro umano?

Il maestro non è umano; ha solo le
sembianze di un uomo, in realtà è un
varco aperto sulla totalità. Il bello di
essere un discepolo è che solo così si
riesce a vedere che il maestro non è
un semplice essere umano; i
visitatori curiosi o gli studiosi, che
sono venuti qui per racimolare un
po’ di cultura, non sono in grado di
accorgersene: ecco perché nasce
questa domanda.
Hai ragione, Kenneth: sei qui, ma
non sei ancora entrato in relazione
con me, non ti sei ancora impegnato,
non ti sei ancora fatto coinvolgere
da me. Sei uno spettatore, non un
partecipante, e i più grandi misteri
sono accessibili solo a chi ha il
coraggio di partecipare; non restare
uno spettatore, altrimenti io
continuerò a essere un semplice
essere umano: partecipa e ti
accorgerai che la tua visione subirà
una trasformazione! Sentirai che
dentro di te è cambiato qualcosa: io
sono sempre lo stesso, ma quando
diventi un discepolo, i tuoi occhi
sono capaci di vedere che il maestro
non è umano.
Se fosse umano, non sarebbe un
maestro, ma soltanto un insegnante;
agli occhi di uno studente io resto
solo un insegnante: come posso
essere accessibile nella mia totalità a
uno spettatore? Se non ti avvicini…
Cosa credi che significhi essere un
discepolo? Vuol dire semplicemente
avere il coraggio di avvicinarsi a
qualcuno che potrebbe significare la
tua morte – avere il fegato di
avvicinarsi a un fuoco che ti ridurrà
in cenere: solo allora avverrà la
rinascita!
Per gli ebrei che l’hanno
crocifisso, Gesù era un uomo
qualsiasi, ma per Luca, Tommaso o
Marco non era un semplice essere
umano: per i discepoli era Cristo, il
figlio di dio, mentre per gli spettatori
– per la folla – era il figlio del
falegname Giuseppe, il figlio di un
uomo qualunque e per giunta anche
molto ordinario. Quella gente non
vedeva la stessa persona! Ricorda
bene che, pur guardando lo stesso
individuo, i discepoli e la folla non
vedevano affatto la stessa persona:
la differenza stava nella loro
capacità di visione.
Agli occhi dei suoi discepoli, il
Buddha non era umano: per questo
lo chiamavano Bhagvan; ma per gli
spettatori esterni era un uomo come
qualunque altro. Il problema è che il
discepolo non può dar prova di ciò
che vede, perché questo genere di
cose va al di là delle dimostrazioni:
esistono, ma non è possibile
provarle.
Chi sosteneva che il Buddha fosse
un semplice essere umano, inoltre,
appariva molto più logico: «Aveva
fame, sentiva la sete, si ammalava»
diceva questa gente. «Tutto questo
dimostra la sua umanità! Che altra
prova ti serve? È invecchiato ed è
morto in seguito a un’intossicazione
alimentare: cosa vuoi di più? Com’è
possibile che un essere divino
muoia? Gli esseri umani sono
soggetti alla morte, ma il divino è
eterno: com’è possibile che si
ammali? Il Buddha invece si
ammalava: il suo medico personale
– Jivaka – doveva assisterlo di
continuo: una divinità ha forse
bisogno di un medico? Solo gli
esseri umani hanno bisogno dei
dottori!».
Quando fa caldo, il Buddha suda:
che altra prova ti serve? Se fa
freddo, rabbrividisce… Si possono
raccogliere mille altre prove per
dimostrare che era esattamente come
noi, ma che differenza fa? Il
discepolo avrà sempre la peggio, ma
tutte queste dimostrazioni lo faranno
ridere, perché sono solo un mucchio
di stupidaggini messe insieme dalla
gente; sono fatti del tutto irrilevanti,
perché il discepolo è arrivato così
vicino da riuscire a entrare in
contatto con l’anima del maestro; il
suo corpo è diventato irrilevante: è
soltanto un veicolo!
Se sono in macchina e si guasta
l’automobile, non significa che mi
sono rotto anch’io; lo sferragliare e i
rumori di ogni sorta che produce
quell’auto provengono
esclusivamente dalle sue
componenti meccaniche, e per il
corpo è la stessa cosa: è un semplice
veicolo. Ma esiste qualcosa di più
profondo, di più elevato del corpo: è
qualcosa che appartiene alla totalità,
una finestra che si è aperta sul Tutto.
Il maestro è un essere in armonia
con la totalità e amarlo significa
avvicinarsi al Tutto! Per te invece la
totalità è semplicemente una parola
che puoi afferrare solo a livello
intellettuale: a Kenneth è successo
proprio questo.

Da un po’ di tempo ascolto i tuoi
discorsi e riesco ad accettare tutto
ciò che dici su quel che è vero e quel
che non lo è.

Quella di cui parli è una
comprensione di tipo razionale. Devi
proprio essere una persona molto
intelligente per capire ciò che dico!
Io non uso parole difficili; mi
esprimo in modo semplice, con un
linguaggio alla portata di tutti; non
utilizzo né terminologie
specialistiche né gerghi tecnici, in
modo che tu possa comprendermi:
intendere ciò che dico, quindi, non è
un problema.
Capire ciò che dico è una cosa,
ma comprendermi è tutt’altra storia:
se ti limiti a capire ciò che dico, ti
fermerai alla superficie, perdendoti
l’essenziale, perché quest’ultimo
non può essere espresso a parole. Il
Tao di cui si può parlare non è il
vero Tao e il divino che si può
verbalizzare non è il vero divino: la
ricchezza essenziale della religione
resta sempre inesprimibile! Le mie
parole, quindi, non esauriscono chi
sono; non sono esaustive, rispetto a
ciò che sono.

Il Buddha stava attraversando una
foresta, era interamente ricoperta di
foglie secche che stavano cadendo;
gli alberi erano ormai spogli e il suo
discepolo Ananda gli chiese:
«Bhagvan, c’è una domanda che
continua a girarmi per la testa e non
riesco a resistere: devo proprio
fartela. La mia domanda è questa: ci
hai detto molte cose – rappresentano
tutto ciò che sai o sono soltanto una
parte?».
Il Buddha raccolse da terra alcune
foglie secche, le prese fra le mani e
disse: «Ananda, quante foglie ho in
mano?».
«Soltanto qualcuna» rispose
Ananda «non più di una dozzina».
«E quante foglie ci sono in questa
foresta?» continuò il Buddha.
«Milioni e milioni…» rispose
Ananda «è impossibile contarle!»
«La situazione è la stessa,
Ananda» spiegò il Buddha. «Ciò che
vi ho detto sono le foglie che ho in
mano e ciò che non vi ho detto sono
le foglie dell’intera foresta. Ma non
pensare che sia un taccagno e che
non voglia rivelarvi quelle cose; il
punto è che per loro stessa natura
non possono essere raccontate: è
impossibile esprimerle a parole».

Lo studente imparerà solo ciò che
gli viene detto, mentre il discepolo
apprenderà anche ciò che non è stato
detto e che non si può esprimere
attraverso il linguaggio; allo
studente arriveranno solo le parole e
diventerà colto, mentre il discepolo
coglierà l’essenza e inizierà a
conoscere, senza però accumulare
sapere.
La funzione della relazione fra
maestro e discepolo è proprio
questa: si tratta di una storia
d’amore, di una relazione intima, e
di un’intimità di gran lunga più
intensa rispetto a quella presente in
qualsiasi altra relazione amorosa.
Quando due persone si amano,
l’intensità è data dal desiderio
sessuale e dalla vicinanza fisica;
tuttavia presto scomparirà, non
durerà a lungo: è solo passeggera,
perché l’energia sessuale è
temporanea, come il corpo. Il
legame esistente fra un maestro e un
discepolo, invece, è una relazione
fra due anime che sono eterne: una
volta stabilita, dura per sempre!

Kenneth, tu mi dici: Da un po’ di
tempo ascolto i tuoi discorsi e riesco
ad accettare tutto ciò che dici su
quel che è vero e quel che non lo è.
Non è neppure questione di
“accettare”: il punto è annegare nel
mio essere! Accettando, continui a
rimanere te stesso, senza uscire dal
tuo ego. In cuor tuo pensi: «Sì,
anche il mio senso logico mi
conferma che dici una cosa giusta:
sono d’accordo». Questa è una sorta
di patto: tu rimani te stesso, io
rimango me stesso, e raggiungiamo
un’intesa. Sciogliersi nel mio essere,
invece, non ha nulla a che vedere
con un accordo: non è questione di
accettare o non accettare.
Ricorda: se ti limiti ad accettare
una cosa, significa che puoi
rifiutarla in qualsiasi momento,
perché non c’è alcuna garanzia che
anche domani dirò la stessa cosa:
oggi sei riuscito ad accettare le mie
parole, ma domani potresti non
essere in grado di farlo.
Per il discepolo accettare e non
accettare non ha alcun significato,
perché è annegato nel mio essere!
Perciò ascolterà con gioia qualsiasi
cosa io dica oggi, senza mai porsi il
problema di accettarlo o rifiutarlo; la
questione non si pone, perché fra me
e lui non esiste separazione: è come
se le mie parole fossero anche le
sue. Non è questione di essere
d’accordo con me, perché non c’è
nessuno con cui essere d’accordo; il
discepolo non annuisce in segno di
intesa, perché la sua testa è
scomparsa e non c’è più niente con
cui annuire: se, dunque, domani
dovessi dire il contrario di oggi, non
ci sarà alcun problema, perché non
c’è nessuno da rifiutare.
Ieri ho detto questo, oggi ho detto
quest’altro e domani dirò un’altra
cosa ancora: il discepolo è in
sintonia così totale con il mio essere,
che comprende sempre! Non si tratta
di accettazione, ma di una
comprensione straordinaria che non
conosce rifiuto: è fiducia! Fra il
maestro e il discepolo sboccia un
fiore che si chiama fiducia: ed è
proprio quella a condurti al divino –
alla totalità.

Nella mia mente è rimasta una sola
domanda…
Ma quella non è una sola
domanda! Sono migliaia di
domande: è un quesito in cui sono
racchiuse tutte le domande che
esistono.

Se la mia illuminazione dipende solo
ed esclusivamente da me e dalla mia
relazione con la totalità…
Certo, te lo ripeto continuamente:
la tua illuminazione dipende da te,
ma non dalla persona che sei oggi e
che sei in questo momento. Questa
tua personalità deve sparire e deve
nascere un’altra forma di esistenza;
questo tuo ego è una barriera e
l’illuminazione non può farvi
affidamento, altrimenti sarebbe già
accaduta: non può fidarsi di questo
“io” che ti porti dietro, non può
assolutamente confidare in questa
persona di nome Kenneth che dice:
«Io sono» – è una barriera, un
ostacolo.
Quando questo tuo ego morirà,
nascerà dentro di te un fenomeno di
tipo diverso, che non è più un “io”
ma una sorta di pura essenza.
Quando dici: «Io sono», quell’“io” è
falso: la parte vera è il “sono” – e
per distruggere quell’io e liberare il
tuo essere, avrai bisogno di un
maestro. Quell’essenza, quell’essere
indefinito, quella pura esistenza,
quella presenza, quell’innocenza –
quell’essenza assoluta – è la soglia
dell’illuminazione.
Quando ti deciderai ad
abbandonare il tuo ego? Stringe il
tuo essere in un cerchio così stretto
che non riesci neppure a concepire
cosa sarebbe la tua essenza senza di
lui, tant’è vero che ti domandi come
possa esistere senza l’ego. L’io ti
sembra più importante, mentre
l’essere ti appare solo come la sua
ombra, in realtà è l’esatto contrario:
l’ego è la parte falsa e l’essenza è
quella vera!
Quando ti arrendi a un maestro,
non abbandoni la tua essenza,
perché non può essere lasciata
andare: lasci cadere solo il tuo ego.
Il maestro porterà via molte cose che
credi siano tue, in realtà non lo sono:
ti sottrarrà solo le parti malate, e
quando ognuna di loro sarà
scomparsa, il tuo essere sarà invaso
dalla salute.
È vero, il maestro non può darti la
salute, perché ciò che ti viene dato
arriva dall’esterno e, come ti è stato
dato, può anche esserti sottratto: se
una cosa ti viene donata, infatti,
significa che qualcuno può rubartela,
puoi dimenticartela da qualche parte
e perderne traccia. Una cosa che ti
viene data non è così importante…
Il maestro non ti dà mai la verità;
si limita a portarti via le tue
menzogne, e quando tutti i massi
delle falsità saranno stati rimossi, la
verità inizierà a fluire dentro di te,
segnando l’inizio della tua
primavera interiore – e non c’è
bisogno che qualcuno te la dia!
Ma chi si prenderà il tuo ego? Chi
berrà quel veleno? Avrai bisogno di
qualcuno che abbia raggiunto la
consapevolezza della propria
immortalità: solo lui sarà in grado di
assorbire tutti i tuoi veleni.

Ti sarà sicuramente capitato di
vedere qualche immagine di Shiva:
ebbene, alla base di queste
raffigurazioni c’è uno splendido
mito. Se hai guardato con attenzione
la sua immagine, avrai notato che la
gola di Shiva è blu, e la storia che ne
spiega la ragione è davvero bella.
I deva – ossia gli dèi – e gli asura
– che sono gli antidèi – stavano
scuotendo l’oceano alla ricerca della
quintessenza, ma non è possibile
raggiungerla in modo diretto, perché
è nascosta in profondità. La prima
cosa che trovarono, dunque, non fu
la quintessenza bensì un veleno: e
chi poteva bere quel veleno? L’ha
bevuto Shiva: per questo la sua gola
è blu. Solo lui era in grado di farlo,
perché si può bere il veleno della
morte solo se si è coscienti di essere
immortali.

Quando il discepolo arriva dal
maestro, porta con sé tutti i veleni
che inconsciamente ha continuato ad
alimentare – e l’ego è il veleno più
pericoloso che esista! Prima che ti
possa essere rivelata l’immortalità,
bisogna eliminare i tuoi veleni: ma
chi potrà assorbirli? Solo qualcuno
che sia diventato immortale!

Il maestro assorbe tutti i veleni
presenti nell’organismo del
discepolo: a poco a poco li porterà
via tutti, e un giorno, quando
saranno completamente eliminati, ti
apparirà il tuo essere immortale, in
tutta la sua gloria!

Tu dici: Nella mia mente è rimasta
una sola domanda: se la mia
illuminazione dipende solo ed
esclusivamente da me…
Certo dipende da te, ma non dalla
persona che sei in questo momento:
il tuo ego è falso e deve sparire!
Quando sarà scomparso, si paleserà
il tuo vero essere.

Se la mia illuminazione dipende…
dalla mia relazione con la totalità, a
che serve arrendersi a un maestro
umano?
È verissimo: non serve altro
all’infuori della tua relazione con la
totalità – ma, per come sei adesso, le
resisterai e la combatterai, perché
non sei ancora in grado di
relazionarti con lei! Il tuo ego deve
sparire: soltanto allora si creerà
quella relazione.
Il maestro è necessario solo per
portare via tutto ciò che circonda
inutilmente il tuo essere – ogni
ostacolo, ogni barriera – e
sottraendoti tutto ciò che non è reale,
ti donerà la tua vera essenza.
Quando ti arrendi a un maestro,
abbandoni soltanto tutto ciò che è
falso, perché non hai altro! Se fossi
già in possesso della verità, non ci
sarebbe alcun bisogno di arrendersi
a un maestro, ma se l’avessi già
trovata, non saresti qui.
Cosa ci fai qui? Perché mai stai
ascoltando i miei discorsi? Per quale
motivo? Se dipende tutto da te e
dalla tua relazione con la totalità…
perché ascoltare le mie parole? Tutte
queste domande provengono da un
ego molto ben radicato, che sta
cercando di razionalizzare.
E l’ego è davvero astuto! Quando
sente un’affermazione del genere,
dice: «Ecco, vedi? Dipende da me,
perciò non c’è alcun bisogno di
arrendersi!». Quando sente dire che
è solo questione di essere in
relazione con la totalità, pensa:
«Assolutamente vero! Quindi non è
necessario arrendersi!».
Io non traggo il minimo profitto
dalla tua resa; e, in fondo, cosa
possiedi mai di così prezioso da
lasciarmi? Solo malattie e veleni!
Non hai alcuna ricchezza a cui
rinunciare! Soltanto infelicità,
frustrazione, disperazione e ansia:
cosa puoi mai lasciarmi? Eppure la
gente si aggrappa persino alla
propria infelicità, pensando che si
tratti di chissà quale tesoro…
Guardati dalle astuzie dell’ego! E
ricorda che quando ti arrendi a un
maestro, abbandoni solo ciò che è
falso. In quella resa, il maestro è
soltanto una scusa: se riesci ad
arrenderti direttamente alla totalità,
benissimo, arrenditi pure a lei! Ma
dove la troverai? In che luogo? I tuoi
occhi non sono capaci di vederla e
non è possibile incontrarla
direttamente: ci arriverai solo in
modo indiretto.
Se ti innamori di una donna,
abbandonati a lei, perché
rappresenta una manifestazione della
totalità: il suo aspetto femminile. Se
provi amore per un amico, lasciati
andare a quell’amicizia, perché è
semplicemente un’altra forma, un
altro lato della totalità – un’altra
finestra che si apre. Se ami la
musica, abbandonati a lei! Non
fissarti sulla parola “totalità”, non
dire: «Perché dovrei abbandonarmi
alla musica? Mi arrenderò solo alla
totalità. Perché dovrei arrendermi
all’amore? Lo farò solo quando
incontrerò la totalità. Perché dovrei
abbandonarmi alla bellezza? Meglio
abbandonarsi alla totalità!».
Dove pensi di trovare la totalità?
Si manifesta sotto milioni di
forme… La bellezza dell’alba, il
silenzio della notte, gli occhi
amorevoli di un amico, il calore
della mano di una donna sono tutte
espressioni della totalità! Si rende
disponibile attraverso queste forme:
sono semplicemente modalità
attraverso le quali tenta di
avvicinarsi a te!
Il maestro è il modo più chiaro
con cui la totalità cerca di
raggiungerti: rappresenta la modalità
consapevole di avvicinamento,
mentre la tua donna e i tuoi amici
sono modalità inconsapevoli. Un
maestro, infatti, partecipa in maniera
consapevole della totalità: per
questo motivo è insostituibile.
Gesù ha ragione quando dice: «Io
sono la via: se non passi attraverso
di me, non raggiungerai dio!». Non
sta parlando soltanto a nome di se
stesso: è il maestro che è in lui a
parlare – e quando un maestro parla,
lo fa in nome di tutti i maestri,
passati, presenti e futuri.


Osho, perché ho così paura di farti
una domanda?

Ce l’hanno tutti, perché fare una
domanda significa presentarmi la tua
testa – e non si sa mai cosa potrei
farne: potrei colpirla, tagliarla,
giocarci a pallone… chissà! È
naturale avere paura. Una cosa però
è certa: qualsiasi cosa ne farò sarà
qualcosa di radicale! Avere timore,
quindi, non è strano, ma chiedi
comunque, perché è il motivo per
cui sia tu che io ci troviamo qui.
Se senti nascere una domanda,
non aver paura di farla; se la cosa ti
terrorizza davvero tanto, puoi fare
come fanno in tanti e porre la
domanda a nome di un’altra
persona, così me la prenderò con lei
e tu potrai divertirti!
Comunque chiedi, altrimenti la
domanda continuerà a persistere e
potrebbe trattarsi di una cosa
importante; potrebbe riguardare
qualcosa di veramente cruciale e
trasformarti… La risposta può
tradursi in una nuova visione,
perciò, malgrado la paura, continua
a chiedere, finché le domande non
scompariranno insieme a chi le
pone.
Ma avere paura è naturale. Mi
hanno raccontato questa storia:

Un uomo andò dal medico,
lamentando di avere una tosse
incontrollabile e il dottore gli
prescrisse un flacone di olio di
ricino: «Vada a casa,» gli disse
«beva l’intero flacone, e torni da me
domani».
Il giorno dopo, quando il paziente
si ripresentò, il medico gli chiese:
«Ha preso l’olio di ricino?».
«Sì» rispose l’uomo.
«E ha ancora la tosse?» continuò
il dottore.
«Sì, purtroppo continuo a tossire»
rispose il paziente.
Il medico gli prescrisse un altro
flacone di olio di ricino, dicendogli:
«Lo prenda e torni domani».
Il giorno dopo il paziente si
ripresentò e il dottore gli domandò
nuovamente: «Tossisce ancora?».
«Sì, purtroppo continuo a tossire
regolarmente» rispose il
pover’uomo.
Il medico gli prescrisse ancora
una volta un flacone di olio di
ricino, ordinandogli di berlo la sera
stessa e tornare di nuovo al mattino.
L’indomani, il dottore guardò quel
povero disgraziato e chiese: «Anche
oggi ha la tosse?».
«No,» rispose tremando il
paziente «non tossisco più: ho paura
di farlo!».

Tu continui a fare domande e io
continuerò a ordinarti di bere flaconi
di olio di ricino: prima o poi, un bel
giorno, avrai paura di tossire, ossia
di fare una domanda.
Il tuo organismo deve essere
ripulito e la tua domanda non
dovrebbe nascere dalla semplice
curiosità. Ricordalo: non fare mai
domande che nascano dalla
curiosità, perché non hanno alcun
significato. Se invece la tua
domanda rappresenta qualcosa di
importante, se ne va della tua
esistenza, se ha a che vedere con il
tuo stile di vita e le tue abitudini
meccaniche e automatiche, e se
riguarda un dubbio che, una volta
risolto, ti renderà più presente, allora
chiedi! Non fare domande
metafisiche perché non riusciranno a
cambiarti: poni solo domande di
carattere psicologico, perché solo
quelle saranno in grado di
trasformarti.

Bertrand Russell ha detto: «Esistono
tre diversi modi possibili per
affrontare la vita: uno è il conflitto
con la natura, il secondo è il
conflitto con gli altri esseri umani e
il terzo è il conflitto con se stessi».
Il primo ha rappresentato la via
intrapresa dalla filosofia, dalla
scienza, dal pensiero e dalla
riflessione occidentale. La mente
dell’Occidente si è manifestata
combattendo la natura: la questione
fondamentale su cui si è concentrata,
infatti, è stata proprio il modo di
trasformarla. Sebbene gli occidentali
non siano riusciti a farlo, l’hanno
distrutta, sconvolgendo i suoi ritmi e
l’intero ecosistema; hanno sovvertito
la sua armonia, e ora sembra essere
troppo tardi per tornare indietro,
perché la Terra sta morendo.
Pare che l’unica soluzione sia che
l’uomo inizi a spostarsi di pianeta in
pianeta; fra un centinaio di anni sarà
infatti impossibile vivere sulla Terra,
perché si sta praticamente
trasformando in un cadavere: a
causa dell’approccio che impone di
conquistare la natura, la scienza ha
sottoposto la Terra a violenze
incredibili e l’ha ferita in profondità,
bloccandola e paralizzandola.
Dimenticando qualsiasi altra cosa,
gli esseri umani si sono lasciati
completamente assorbire da
un’unica preoccupazione: come
conquistare la natura?
La mente cinese si è mossa in una
direzione diversa, preoccupandosi
esclusivamente di come organizzare
la convivenza degli esseri umani; il
suo unico obiettivo è stato di
carattere sociale: dal momento che
l’uomo è un animale sociale, come
si possono stabilire regole morali
migliori? In che modo è possibile
mettere a punto un sistema sociale
più soddisfacente? Come creare una
società migliore, una cultura
superiore e una civiltà più avanzata?
La mentalità cinese non è entrata
in conflitto con la natura che, anzi,
apprezza e ama; per i cinesi ha un
valore estetico: riescono a goderne
senza sentire il bisogno di
conquistarla e a celebrarla senza
bisogno di combatterla.
La mente cinese ha sempre mirato
in primo luogo a rendere l’uomo più
umano; i suoi sforzi si sono
concentrati su come distruggere
l’odio, la collera, la rabbia, i
comportamenti animali, gli
atteggiamenti bestiali e la violenza
fra gli uomini, tant’è vero che la
Cina ha creato una delle culture più
civilizzate che siano mai esistite.
La mente indiana ha imboccato la
terza via: come trasformare se
stessi? L’Occidente ha dato vita alla
scienza, la Cina a una società
migliore e l’India alla scienza
suprema della psicologia, vale a dire
alla scienza dell’anima. La
psicologia in effetti è precisamente
questo; quella occidentale, infatti,
non dovrebbe neppure chiamarsi
“psicologia”, perché non ha niente a
che vedere con l’anima: al contrario,
si limita a osservare il
comportamento umano dall’esterno,
considerando l’uomo alla stregua di
qualsiasi altro oggetto, riducendone
la dignità e trasformandolo in una
macchina.
Per la psicologia occidentale non
è importante domandarsi cosa ci sia
all’interno dell’uomo: tutto ciò che
conta sono le sue azioni, il modo in
cui funziona – il suo
comportamento. Per la coscienza
indiana, invece, la questione di
fondo è sempre stata come
conquistare se stessi, come far
crescere la propria consapevolezza
fino alle vette più alte – come
diventare un buddha!
Questi sono stati, dunque, i tre
approcci predominanti.

Non fare mai una domanda che non
riguardi davvero la tua crescita
spirituale, perché il mio unico
intento è aiutarti a diventare più
consapevole! Non fare domande
stupide: e talvolta anche le persone
intelligenti chiedono cose stupide…

Proprio l’altra sera stavo leggendo
un antico libro scritto da un filosofo
indiano di nome Kumarila. Criticò il
Buddha sotto diversi aspetti, ma una
delle cose che ha detto è talmente
ridicola… non potevo credere che
un uomo intelligente come lui abbia
potuto sollevare una questione del
genere!
Si dice – e ovviamente sono stati i
suoi discepoli a dirlo – che il
Buddha fosse onnisciente, il che non
vuol dire che fosse una sorta di
Enciclopedia Britannica: significa
semplicemente che sapeva tutto ciò
che vale la pena conoscere. Il
termine “onnisciente” si riferisce al
fatto che conosceva tutto ciò che è
utile alla crescita della
consapevolezza. E cos’ha fatto
Kumarila? Ha affermato: «Non è
vero che il Buddha conosce ogni
cosa perché non sa quanti insetti ci
sono a questo mondo!».
Questo brahmano, questo
Kumarila, deve proprio essere stato
uno stupido per sostenere che il
Buddha non è onnisciente perché
non sa quanti insetti esistono al
mondo!
A volte succede: anche se a uno
sguardo superficiale un individuo
sembra intelligente, brillante e
dotato di acuto senso logico, nel
profondo rimane comunque uno
stupido. Che domanda è mai questa?
È assurdo anche solo concepirla!

Non porre mai quesiti che non siano
importanti per la tua crescita
spirituale, e ogni volta che senti
nascere una domanda che concerne
il tuo cammino interiore, metti da
parte tutte le paure, perché devi
assolutamente farla, anche se la mia
risposta ti distrugge e se ti prendo a
bastonate sulla testa! A volte lo
faccio: cerco di insegnarti a suon di
botte in testa… Tengo sempre a
portata di mano un martello
invisibile e ogni volta che mi
imbatto in una testa che vale la pena
di fracassare, la rompo sul serio! Ma
un giorno sarai grato del fatto che
qualcuno ti abbia spaccato la testa,
annientando tutte le sciocchezze che
danno forma al tuo ego.
Perciò, qualunque sia l’origine
della tua paura, devi chiedere; è
l’unico modo per avvicinarti a me:
ogni domanda che riesca a trovare
una risposta ti porta più vicino!
Non sto dicendo che devi
comunque fare una domanda anche
se non hai nulla da chiedere; in
questo caso il problema non si pone:
se non senti il bisogno di chiedere,
non fare domande! Accade anche
questo.
La gente è fatta in modo tale che
vive sempre concentrata sugli
estremi; alcune persone mi scrivono:
«Ci sono così tante persone che ti
fanno domande e io non te ne ho
mai fatta nemmeno una: sto forse
commettendo un errore?». Se non
hai nessuna domanda da fare, non
c’è alcun bisogno di chiedere
qualcosa, se invece hai una
domanda, deve essere posta, a
qualsiasi costo!


Osho, cos’è l’esperienza mistica?

In primo luogo, l’esperienza mistica
non è affatto un’esperienza: si
chiama “esperienza mistica” perché
dobbiamo darle un nome, ma non ha
nulla a che vedere con l’esperienza.
L’esperienza concerne sempre una
cosa esterna a te, come quando, per
esempio, guardi le nuvole o un
lampo nel cielo; puoi persino vedere
le stesse cose dentro di te: chiudi gli
occhi e vedi la luce che hai dentro.
Ma anche in questo caso continua a
trattarsi di un fenomeno esteriore,
perché chi vede resta sempre esterno
a ciò che vede, l’osservatore resta
fuori da ciò che osserva, colui che fa
esperienza rimane al di fuori di ciò
che sperimenta.
L’esperienza mistica, invece, non
è qualcosa di esterno a te: si tratta di
un tipo di esperienza davvero
speciale, unico. E in cosa consiste la
sua unicità? Sta nel fatto che colui
che fa l’esperienza e ciò di cui fa
esperienza diventano una cosa sola;
chi conosce e l’oggetto del suo
conoscere diventano un tutt’uno e
fra di loro non esiste alcuna
divisione: non è come vedere
qualcosa, ma piuttosto essere ciò che
vedi!
Non è possibile fare esperienza
del divino in quanto oggetto; lo puoi
sperimentare solo nella forma del
tuo essere più intimo: «Ana’l haq»
esclama Mansur al-Hillaj, «Sono il
divino!» dicono i Sufi. «Aham
brahmasmi!» – sono il Tutto! – si
legge nelle Upanishad.
Non si tratta di un’esperienza;
ogni esperienza si è dissolta e non ce
n’è più traccia; è presente soltanto
pura consapevolezza, e in quella
coscienza assoluta nasce una
modalità di comprensione in cui chi
conosce e l’oggetto del conoscere
non sono più due cose distinte.
L’esperienza mistica coinvolge la
tua totalità; non risiede né nella
testa, né nel cuore, né nel corpo, né
nella mente e non si limita neppure
all’anima, ma pulsa in tutto il tuo
essere e oltre, palpitando con la tua
totalità.
Mi hanno raccontato quest’antica
parabola.

Un giorno, tre santi molto famosi e
molto noti passarono in mezzo a una
foresta; avevano tutti lavorato molto
duramente, imponendosi con molta
determinazione una disciplina di
vita, ed erano dei grandi ricercatori.
Il primo era un bhakti yogin, ossia
un seguace della via della
devozione, dell’amore e della
preghiera; il secondo era un jnana
yogin, vale a dire un adepto del
sentiero della conoscenza, della
saggezza, dell’intelligenza e della
consapevolezza, e il terzo era un
karma yogin, vale a dire un seguace
della via dell’azione, del servizio e
dell’impegno.
Avevano fatto tutto ciò che era
umanamente possibile, ma non
erano ancora riusciti a sperimentare
il divino; ormai stavano
invecchiando e iniziavano anche a
sentirsi un po’ frustrati, perché il
tempo correva, la meta sembrava più
lontana che mai, e una profonda
tristezza stava iniziando a
impadronirsi di loro. Ma quel giorno
accadde un miracolo!
All’improvviso iniziò a piovere e
furono costretti a rifugiarsi
velocemente in un piccolo tempio.
Quella costruzione era davvero
minuscola: consisteva di quattro
semplici colonne sormontate da un
tetto, con i quattro lati aperti. La
pioggia e il vento erano talmente
forti, che quelle raffiche portavano
l’acqua all’interno; era bagnato
quasi ovunque, perciò i tre santi
furono costretti a rimanere in piedi
al centro della costruzione, proprio
intorno allo shivalinga –
evidentemente si trattava di un
tempio di Shiva. Più la pioggia si
riversava all’interno del tempio, più
dovevano stringersi l’uno all’altro.
Arrivarono a essere così vicini da
toccarsi e, all’improvviso, quando si
toccarono, si resero conto di non
essere più in tre bensì in quattro:
rimasero sorpresi, sbigottiti da
quella quarta presenza…
Quell’entità era così forte che si
chiesero a vicenda cosa stessero
percependo, e tutti e tre dissero che
avvertivano una strana presenza.
Piano piano la presenza divenne
chiara e radiante: guardarla era
un’estasi sublime! Poiché era
lampante che non si trattava d’altri
che del divino, tutti e tre caddero in
ginocchio e gli domandarono:
«Perché? Abbiamo lavorato per tutta
la vita e non siamo mai riusciti
nemmeno a intravederti: cos’è
accaduto oggi? Perché
all’improvviso sei arrivato?».
Il divino scoppiò a ridere e
rispose: «Perché siete qui tutti e tre
insieme: toccandovi siete diventati
una totalità e io sono accessibile
solo a chi è totale. Adesso non siete
più semplici frammenti; fino a
questo momento ciascuno di voi era
solo una parte: uno lavorava con il
cuore, l’altro con la mente e l’altro
ancora con il corpo. Eravate solo
brandelli e nessun frammento può
riuscire a raggiungermi! Divento
disponibile solo quando una persona
riesce a essere totale: e in questo
momento le vostre energie si sono
incontrate e fuse insieme».
«Vi ho sempre seguito» continuò
il divino «ma sono rimasto
invisibile, perché l’occhio riesce a
vedermi solo quando diventa totale.
Ora potete toccarmi! Potete
finalmente avermi! L’unica ragione
per cui non ci siete riusciti per così
tanto tempo è che siete stati
irremovibili e testardi: avete
continuato ad aggrapparvi a un
frammento, mentre il divino è una
totalità!».

Questo è il messaggio che voglio
trasmetterti: l’esperienza mistica è
un’esperienza totale, che coinvolge
tutto – corpo, mente e anima – senza
escludere nulla. Nella tua vita,
dunque, non rifiutare nulla: lascia
che tutto venga assorbito. Per questo
uso l’espressione “dal sesso alla
superconsapevolezza”, perché
bisogna assorbire ogni cosa, senza
rifiutare niente: chi rifiuta qualcosa
rifiuta l’esistenza stessa – perché il
divino è totalità.
Accetta tutto, apprezza ogni cosa
e gioiscine; lascia che la tua vita si
trasformi in un’unica totalità
perfettamente integra! E una volta
diventato un’unità organica,
giungerai a quell’esperienza
orgasmica e oceanica chiamata
“esperienza mistica”! Non si tratta di
un’esperienza, perché tu stesso
diventi quell’oceano orgasmico: la
tua esperienza non è qualcosa di
distinto.
Non si tratta di vedere il divino,
ma di diventarlo! La liberazione non
accade a te: sei tu che diventi
liberazione! Non puoi tenere fra le
mani il nirvana, perché tu sei il
nirvana! L’illuminazione non è
qualcosa che accade dentro di te: il
tuo essere diventa l’illuminazione!
Per questo, anche se la chiamiamo
“esperienza spirituale”, non
dovrebbe essere definita esperienza;
esistono esperienze sessuali,
esperienze estetiche, ma non
esperienze spirituali. Ci sono molti
tipi di esperienza, ma quelle
mistiche e spirituali non fanno parte
di questa categoria: si tratta di una
realtà completamente diversa,
assolutamente unica – è una
categoria a sé stante.
La cosa fondamentale da
ricordare è che in tutte le nostre
esperienze il soggetto che conosce
rimane separato dall’oggetto, mentre
nell’esperienza mistica – spirituale –
chi conosce e l’oggetto del
conoscere si dissolvono l’uno
nell’altro. La sua bellezza, la sua
benedizione, la sua libertà consiste
proprio in questo…
PROFILO
DELL’AUTORE




«Io non ho nessuna biografia. E
qualsiasi cosa sia considerata una
biografia è del tutto priva di senso.
In che giorno sono nato, in che
Paese sono nato, non importa. Ciò
che importa è cosa sono ora,
esattamente qui». Osho

Integrità, potenza intuitiva, geniale
estro poetico, senso dell’umorismo
sono alcuni degli ingredienti che
danno alla proposta esistenziale di
Osho una prospettiva universale.
Non si tratta però di un sistema di
pensiero o di un’ideologia che
rinnovi la propria idea del mondo,
quanto piuttosto dell’abilità di dare
voce al silenzio, l’unico linguaggio
in grado di esprimere il richiamo –
ovvero il messaggio ancestrale –
racchiuso in ogni essere umano.
Ciò che ci anima è infatti ben
oltre i bisogni, i desideri e le
aspirazioni che colorano il nostro
mondo e Osho riesce a dare forma
tangibile a che cosa è il mondo,
allorché ci si apre alla vita
riconoscendo di esserne l’essenza
più intima.
È dunque nella comprensione di
quel “qualcosa” che noi siamo, al di
là delle apparenze e delle
rappresentazioni, l’unica possibilità
di capire chi sia Osho e quale sia
stato il senso del suo aver vissuto in
questo mondo; ma soprattutto la sua
indiscutibile presenza, oggi più di
ieri, nel turbine dei mutamenti che
siamo chiamati a vivere.
Significativa, in quest’ottica,
l’epigrafe da lui dettata come
memento:

Osho
Mai nato, mai morto
Ha solo visitato questo pianeta Terra
Dall’11 dicembre 1931 al 19
gennaio 1990

A Pune, in India, resta fiorente il
Resort di Meditazione da lui stesso
voluto per offrire un laboratorio di
crescita e un habitat nel quale sia
possibile sperimentare la propria
essenza e lasciar vibrare la propria
scintilla di vita. Un’esperienza in
grado di dare vita a un Uomo
Nuovo: un nuovo essere capace di
vivere, amare e ridere. Qualità
fondanti per uno spirito libero che
possa vivere in armonia con se
stesso, gli altri e soprattutto
l’ambiente che lo accoglie.
A migliaia da ogni parte del
mondo, le persone visitano e
soggiornano in questo habitat, per
immergersi in un contesto di salute
globale che rende evidente il senso
di un nuovo stile di vita fondato
sulla pace e la quiete interiore.

Per approfondimenti si veda:
Una vertigine chiamata vita,
Mondadori.
Bagliori di un’infanzia dorata,
Edizioni Mediterranee.
www.biography.osho.com
PER APPROFONDIRE




Forse questo libro ha ravvivato un
desiderio ardente, quell’eco del
cosmo che in effetti non si potrà mai
spegnere nella semplice lettura; anzi,
le parole potrebbero aver toccato
una corda che ora continuerà a
risuonare al di là e al di sopra delle
tante voci che generano la cacofonia
del mondo.
Quel moto spontaneo può solo
essere alimentato: tornare a
soffocarlo o ignorarlo non servirà;
infatti, in quel sottile richiamo è
racchiuso il nostro destino.
È una ricerca dell’unione –
ovvero dell’unità con l’esistenza –
che è consigliabile nutrire, per non
trovarsi poi impreparati allorché
comunque verrà l’istante in cui si
dovrà dire addio ai sogni, alle
speranze, alle aspettative e a tutto
ciò che abbiamo fatto e vissuto,
ignorando noi stessi, il nostro essere,
il Reale racchiuso in noi, come seme
dell’universale.
Meglio dunque partecipare
all’invito di Osho ed essere attori
consapevoli del proprio esistere,
creando passo dopo passo i
presupposti per un risveglio che aiuti
a vivere e non essere al mondo
soltanto per sopravvivere.
In quest’ottica, le tecniche attive
ideate da questo incredibile Maestro
di Realtà si rivelano strumenti
preziosi per ripulire da stress,
tensioni e repressioni che velano,
oscurano e distorcono lo specchio
della nostra coscienza.
Consapevole del particolare
equilibrio psicofisico dell’uomo di
oggi, Osho infatti ha ideato tecniche
di Meditazione Attiva – Osho Active
MeditationsTM – che si addicono a
qualsiasi tipologia di persona,
facilitando e accelerando il processo
di armonizzazione cui tutti siamo
chiamati, se davvero vogliamo dare
a noi stessi un valore e un
significato, nonché un futuro.
Molti trovano più facile
sperimentare le Meditazioni Attive
di Osho e le altre tecniche di
risveglio con la guida di persone che
già si sono inoltrate lungo questo
sentiero, lavorando con questo
Maestro di Vita. Per corrispondere a
questa esigenza, in Italia si stanno
organizzando con sempre maggior
frequenza eventi e campi di
meditazione in cui è possibile fare
esperienze dirette della propria
dimensione interiore. Per
informazioni contattare:
Zen Promotion
Casella Postale 1521049 Tradate
(Varese)
Tel. & Fax: 0331.841.952
info@oshoexperience.it –
oshoexperience.it

Per un’esperienza di immersione in
un habitat meditativo in grado di
aiutare ad attivare un processo di
risveglio in ciascuna delle
dimensioni in cui, consapevolmente
o inconsapevolmente, comunque
viviamo, è consigliabile
intraprendere un viaggio a Pune e
visitare il Resort Internazionale di
Meditazione che ispira l’insieme
delle attività proposte alla visione di
Osho di un Uomo Nuovo la cui vita
si fonda sull’armonia con se stessi,
la gioia di vivere, l’amore per gli
altri e l’ambiente che sostiene il
nostro essere al mondo. Qui è anche
possibile sperimentare alcune
“terapie meditative” rivoluzionarie,
messe a punto da Osho per scuoterci
e liberarci da comportamenti e
abitudini che si oppongono a un
libero fluire della nostra energia
vitale: “Mystic Rose”, “No-mind” e
“Born Again” – descritte in un libro
introduttivo: Meditazione: la soglia
interiore.
Tutti i programmi della Osho
Multiversity, che opera all’interno
del Meditation Resort, si fondano
sulla visione di Osho, tesa a dare
vita a un essere umano in grado sia
di partecipare creativamente alla vita
di tutti i giorni, sia di rilassarsi nel
silenzio e nella meditazione.
Impagabile è la possibilità di
meditare insieme a migliaia di altri
ricercatori provenienti da tutto il
mondo in un’atmosfera che Osho ha
descritto come «un campo di energia
del tutto particolare in cui il buddha
presente dentro di te può giungere a
completa maturazione e fiorire».
Un’esperienza di meditazione,
vissuta all’interno di un ambiente in
cui la priorità è dare forma a un
equilibrio tra il Centro dell’Essere e
la sfera del mondo e dell’azione, può
cristallizzare qualcosa di veramente
prezioso, soprattutto se sostenuta
dalla presenza di altri ricercatori,
riunitisi con la stessa intenzione.
Infatti Osho ha anche chiarito che:
«Da solo non puoi elevarti più di
tanto. Da solo, sei semplicemente
solo: hai ogni sorta di limite.
Quando sei insieme a molti altri
ricercatori, entri in contatto con
un’energia sconfinata. Allora
iniziano ad accadere molte cose che
in solitudine non potranno mai
accadere». Per informazioni
contattare:
Osho International Meditation
Resort
17 Koregaon Park, Pune 411001
(MS), India
e-mail: resortinfo@osho.net
Trovi i nuovi programmi e le
diverse proposte di soggiorno su:
osho.com/livingin

Sono più di duecento le opere di
Osho tradotte in italiano. Per una
carrellata del catalogo completo, per
le schede di presentazione e gli
estratti, visita: oshoba.it
Per maggiori informazioni, o per
ordinare le musiche che scandiscono
le diverse fasi delle Meditazioni
Attive, è possibile scrivere a:
Associazione Oshoba
Casella Postale 15
21049 Tradate (Varese)
Tel. & Fax: 0331.810.042

Quanti fossero interessati ad
approfondire la lettura di questo
sottile Maestro di Realtà possono
rivolgersi qui per ricevere un
catalogo generale delle opere
tradotte in italiano o pubblicate in
inglese, e qualsiasi informazione su
libri, DVD, Mp3 su cui sono
digitalizzati centinaia di discorsi di
Osho.
In effetti, tutti i discorsi di Osho
vanno al di là della semplice lettura
dei libri nei quali sono trascritti. Si
tratta di un’esperienza molto
particolare: l’ascoltatore si può
immergere con incredibile facilità in
uno stato di “presenza attenta, priva
di qualsiasi sforzo” che in realtà è
l’essenza della meditazione.
Per avvicinare a questa
opportunità anche coloro che non
sanno l’inglese, esistono discorsi di
Osho con doppiaggio e sottotitoli: a
un primo ascolto in italiano (o a una
prima lettura) che permette di
placare il bisogno della mente di
capire, se ne può far seguire un altro
in cui ci si immerge nelle parole
come fossero una musica, o suoni
naturali… ben presto ci si ritroverà
in una sottile dimensione al di là
delle parole stesse, dove è il silenzio
a trasmettere i veri significati e a
risvegliare in noi “qualcosa” di
indubitabile: la nostra radice
nell’esistenza.
Su YouTube, è possibile trovare
una nutrita selezione di video
sottotitolati. Per la playlist italiana,
digitare: http://goo.gl/PqKaY

Per informazioni, per conoscere
meglio la visione di Osho e il suo
lavoro, per qualsiasi aggiornamento
in tempo reale o novità, consultare:
osho.com

Questo sito multilingue, con una
sezione anche in italiano, include un
tour virtuale del Resort di
Meditazione di Pune, il calendario
dei corsi, l’elenco dei centri di Osho
in tutto il mondo e decine di pagine
con selezioni dei suoi discorsi sulle
tematiche di maggior attualità.
Inoltre, nella sezione library è
possibile consultare gratuitamente
più di trecento raccolte di discorsi di
Osho in inglese.
Registrandosi, si può ricevere una
newsletter (anche in italiano) che
aggiorna sulle novità del Meditation
Resort e del “mondo di Osho”.

Per una visione di insieme delle
realtà online connesse alla visione di
Osho, visita: osho.com/tuttosho

Per un’informazione continuativa
del lavoro di Osho, o per conoscere
gli indirizzi aggiornati e i
programmi dei Centri di
Meditazione o degli Istituti che
operano in Italia, è consigliabile
abbonarsi all’Osho Times, un
mensile interamente dedicato
all’Esperienza della meditazione.
Per ricevere una copia omaggio,
scrivere all’Associazione Oshoba.

Le attività di meditazione e di
ricerca ispirate all’insegnamento di
Osho si svolgono anche a:
Osho Miasto
53012 Chiusdino (SI)
Tel. 0577.960.124 – Fax
0577.960.213
oshomiasto@oshomiasto.it –
oshomiasto.it

Qui ha sede un Istituto per la
Meditazione e la Crescita Spirituale,
ispirato alla visione di Osho.
Aperto da marzo a gennaio,
l’Istituto offre un programma di
meditazioni giornaliere, gruppi di
crescita e altre attività, tutte mirate
allo sviluppo della consapevolezza.
Miasto è anche una Comune dove
vivono una trentina di persone unite
dall’amore per il Maestro e dalla
passione per la ricerca.
Per ricevere il programma
annuale delle attività si può scrivere
o telefonare.

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