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DIRITTO PRIVATO
I DIRITTI REALI
I DIRITTI DI CREDITO
I CONTRATTI IN GENERALE
1. Nozione ...................................................................................................................................................96
2. Classificazione dei contratti .................................................................................................................97
I SINGOLI CONTRATTI
RESPONSABILITÁ EXTRACONTRATTUALE
I RAPPORTI DI FAMIGLIA
LA PUBBLICITÁ IMMOBILIARE
1. La trascrizione .....................................................................................................................................169
1.1.La funzione dichiarativa ..........................................................................................................169
1.2.La funzione di continuità della trascrizione ..........................................................................169
1.3.La funzione prenotativa ............................................................................................................169
NOZIONI PRELIMINARI
L’ordinamento giuridico
L’ordinamento giuridico è un insieme di regole le quali sistemano i conflitti che potrebbero sorgere
in una collettività organizzata; si tratta quindi di regole di condotta che mirano ad organizzare un
gruppo di persone.
La necessità che una collettività presenti un ordinamento giuridico, quindi un diritto (in senso
oggettivo) al fine di disciplinare i comportamenti dei singoli consociati e i rapporti che potrebbero
costituirsi tra loro, nasce proprio dalla natura dell’ uomo di collaborare con gli altri così da poter
soddisfare i suoi bisogni e, anche , quelli della collettività.
Si noti bene che solo i gruppi di persone organizzati possiamo definirli come una collettività. Per
definirla organizzata è necessario che :
a) Il gruppo di persone a cui ci si riferisce sia disciplinato da regole di condotta che indicano ad
ogni membro il comportamento da osservare per una convivenza ordinata e pacifica;
b) Siano presenti degli organi e delle istituzioni che stabiliscano le regole di condotta. Ogni
organo ha particolari compiti affidatili in base a regole di struttura o di competenza o
organizzative;
c) Le regole devono essere realmente osservate da tutti i consociati (PRINCIPIO DI
EFFETTIVITÁ, che indica il limite entro il quale si può ancora affermare che un
ordinamento disciplini una collettività).
Le regole di condotta , sino ad ora citate, sono più propriamente dette norme giuridiche : la
giuridicità è data dalla sua presenza in un ordinamento giuridico; ciò la rende dotata di “autorità” ,
quindi vincolante nei confronti dei consociati.
Si definisce la norma giuridica come un enunciato prescrittivo , stabilito da un legislatore, che
formula un’ipotesi di fatto alla quale si ricollega una conseguenza giuridica (esempio: Art. 2043
Cod.civ, al verificarsi di un fatto doloso o colposo la norma ricollega una conseguenza giuridica che
è quella del risarcimento del danno). Possiamo quindi individuare in una norma ben due parti
distinte:
1. REGOLA: ordini rivolti ai consociati, ovvero la descrizione di un ipotetico fatto. Tale
descrizione è conosciuta nell’ambito della giurisprudenza , come fattispecie.
Si parlerà di fattispecie astratta quando si vorrà indicare il fatto descritto nella norma; e di
fattispecie concreta il complesso dei fatti che realmente si verificano. Per poter applicare le
conseguenze giuridiche indicate nella norma è necessario che la fattispecie astratta
corrisponda al fatto concreto, tale compito di “ricerca” della disposizione da applicare spetta
ad un giudice.
Possiamo ancora distinguere la fattispecie in semplice e complessa: si dirà semplice la
fattispecie composta da un solo fatto, viceversa si dirà complessa quella costituita da più
fatti. Nell’ultimo caso gli effetti non si verificheranno se non quando si saranno verificati
tutti i fatti giuridici.
Infine se la fattispecie è composta da una serie di fatti giuridici che si verificano
progressivamente si parla di fattispecie a formazione progressiva e produce degli effetti
preliminari prima che si verifichino tutti (esempio : un contratto con condizione sospensiva,
gli effetti del contratto si verificano solo quando la serie di fatti si è verificata. Dal momento
della stipulazione alla verifica dell’evento, il soggetto è titolare di un’aspettativa; riceve ,
quindi una tutela da nostro ordinamento).
IMPORTANTE: non bisogna mai confondere la norma giuridica con la norma morale: la prima
indica la regola di condotta vincolante per tutti i consociati, la seconda obbliga a rispettarla solo
l’individuo che si riconosce in quanto la norma esprime.
Altra distinzione va fatta tra legge e norma: la legge è un atto normativo elaborato da precisi organi
che contiene le norme giuridiche (esempio: il codice civile ).
Si definiscono fonti di produzione delle norme giuridiche gli atti o i fatti che producono , o sono
idonei a produrre, diritto. Per atti si intende quella fonte che si manifesta con l’attività di un organo
che ha il compito di emanare delle leggi; ma le norme possono anche sorgere da fatti (esempio: la
consuetudine).
Si distinguono da questi le fonti di cognizione delle norme, ovvero i documenti e le pubblicazioni
ufficiali dai quali si può prendere conoscenza della norma.
Poiché in un ordinamento esistono più fonti generatrici è necessario individuare dei principi capaci
di identificare quale norma prevale se più fonti stabiliscono regole contrastanti. Nel nostro
ordinamento prevale il PRINCIPIO GERARCHICO: una “regola” che identifica quale norma
applicare in caso di contrasto. All’ interno di tale principio valgono:
PRINCIPIO CRONOLOGICO: le leggi più recenti prevalgono su quelle antecedenti;
PRINCIPIO DELLA COMPETENZA: che a sua volta si distingue in
a. Competenza per materia ai sensi dell’ articolo
117 della costituzione. Lo Stato ha competenza solo
in alcune materie, indicate al comma 2. Le altre sono
di competenza delle regioni.
b. Competenza per territorio. Le leggi regionali
saranno applicate solo nell’ambito del territorio della
regioni.
Ritornando alla classificazione delle fonti, troviamo una prima classificazione risalente al 1942 ed
indicata nell’ articolo 1 delle Preleggi. Con la nascita della Repubblica e con la conseguente entrata
in vigore della Costituzione (1948), le fonti delle norme giuridiche sono così disposte :
1. Costituzione e leggi di rango costituzionale. La Costituzione è la legge fondamentale della
Repubblica italiana. Essa stabilisce la disciplina degli atti normativi, regolando la
formazione delle leggi; e quella riguardante il funzionamento degli organi istituzionali. Le
disposizioni costituzionali si integrano con gli articoli 1 e 2 delle Preleggi anche se hanno
perso la loro funzione di norma fondamentale.
Le leggi di revisione della costituzione, aventi lo stesso valore gerarchico di questa, sono
emanate secondo una procedura più complessa delle leggi ordinarie.
La nostra costituzione è RIGIDA poiché nessuna legge ordinaria può modificarla o entrare
in contrasto con essa, pena la dichiarazione di incostituzionalità. È stata a tal proposito
istituito un organo “ Corte Costituzionale” che ha, proprio, il compito di controllare che le
leggi ordinarie siano conformi alla Costituzione. Tale controllo può avvenire solo per via
“incidentale” ( ovvero è il giudice a rivolgersi alla Corte costituzionale in quanto durante
una sentenza si è accorto che una legge non è conforme alla Costituzione).
La nostra Costituzione è APERTA, ovvero conforme alle norme di diritto internazionale
(Art.10 Cost.).
Tutte le leggi costituzionali possono essere revisionate tranne la forma di Repubblica dello
Stato italiano (Art. 139 Cost.).
2. Leggi ordinarie e leggi regionali. Le leggi ordinarie sono approvate dal parlamento con
una particolare procedura (Art. 70 Cost.). Le leggi possono modificare o abrogare una
qualsiasi altra norma non avente valore di legge, mentre per modificarla o abrogarla è
necessaria una legge successiva o un referendum.
Nella gerarchia delle fonti, le leggi ordinarie sono equiparate alle leggi regionali ed ai
provvedimenti emanati dal Governo, ovvero:
Decreto legislativo: emanato secondo i limiti di una legge-delega del Parlamento. Se
i limiti non sono rispettati il decreto è dichiarato incostituzionale.
Decreto legge: emanato in caso straordinario di necessità e urgenza. Il decreto deve
essere convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni, pena la sua efficacia.
Per applicazione di una legge si intende la concreta realizzazione di quanto dettato da una legge nella
collettività. Presupposto fondamentale è che la legge faccia parte dell’ordinamento di quella collettività.
È compito di particolari organi e istituzioni curare l’applicazione delle norme di diritto pubblico ( quelle di
diritto privato non sono imposte in modo autoritario). Qualora sia violato il diritto di un soggetto tanto da
rendere indispensabile l’intervento del giudice, sarà compito di quest’ultimo applicare la legge; in altri casi
subentra il carattere preventivo dell’ordinamento giuridico: la conoscenza della legge da parte del cittadino
fa si che questo non la violi al fine di non incorrere in una sanzione.
Non è pero sempre facile comprendere cosa una norma, o meglio il suo legislatore voglia dire. Ha questo
compito l’attività interpretativa, ovvero l’attività volta a comprendere il significato precettivo delle norme
(attribuire un senso alla regola contenuta nel testo normativo). Ovviamente una norma può ammettere più
interpretazioni in base al caso da risolvere e, essa non può completarsi ricercando il significato nel solo testo
normativo bensì, è necessario attingere anche a fonti extra-testuali. Infatti all’ articolo 12 delle Preleggi, il
legislatore ha chiarito che dopo aver attribuito alle parole il loro “significato proprio” è necessario che
l’interprete comprenda anche l’intenzione del legislatore.
Ricordiamo che le leggi non definiscono casi precisi ma, classi di rapporti più in generale : è compito
dell’interprete comprendere, difronte a fattispecie concrete, quale di quelle astratte meglio disciplina il fatto
accaduto; ma difficilmente una sola norma disciplina un singolo caso, quindi è necessario ricorrere,
frequentemente, a combinazione di più disposizioni ( INTERPRETAZIONE SISTEMATICA). Spesso,
inoltre, è necessario utilizzare tecniche di estensione o integrazione, sino ad arrivare all’ analogia (della quale
si parlerà successivamente)per disciplinare una fattispecie concreta.
Un’ interpretazione svolta con lo scopo di comprendere il significato letterale della norma si distingue in :
A. INTERPRETAZIONE DICHIARATIVA. L’interprete attribuisce alla norma un significato intuitivo
e immediato ( coincidono, secondo l’interprete, il significato proprio e l’intenzione del legislatore).
B. INTERPRETAZIONE CORRETTIVA. L’interprete attribuisce alla norma un significato diverso da
quello proprio. Possiamo parlare di interpretazione correttiva ESTENSIVA quando si allarga il
significato della norma; di interpretazione correttiva RESTRITTIVA quando lo si restringe.
Possiamo, ancora, distinguere l’attività interpretativa in base al soggetto che la svolge; a tal proposito
avremo:
INTERPRETAZIONE GIUDIZIALE. L’interprete coincide con il giudice durante l’esercizio della
sua attività. I provvedimenti che scaturiscono dall’attività interpretativa giudiziale sono vincolanti
solo nei confronti delle parti in giudizio, anche se spesso vengono utilizzati per disciplinare casi
analoghi. Ciascun giudice può attribuire una sua interpretazione, anche se in contrasto con la Corte
di Cassazione.
INTERPRETAZIONE DOTTRINALE. L’interprete coincide con gli studiosi del diritto ( si pensi a
Torrente, Perlingieri, ecc.), i cultori che raccolgono i materiali utili ad individuare il significato di
una norma. Si tratta di un’attività che richiede analisi piuttosto lunghe ma di fondamentale
importanza nell’attività degli avvocati.
INTERPRETAZIONE AUTENTICA. L’interprete, in questo caso, è lo stesso legislatore che ha
emanato la norma. Egli emana delle norme interpretative a carattere vincolante che chiariscono il
significato della prima norma emanata. Le norme interpretative , come già detto, sono retroattive
poiché chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente; da questa è
necessario distinguere la norma novativa che sarà applicata solo per i fatti avvenuti in seguito alla
sua entrata in vigore.
Per poter individuare l’ “intenzione del legislatore” , o meglio lo scopo che la disposizione persegue, (
INTERPRETAZIONE TELEOLOGICA) l’interprete può utilizzare più criteri che si possono riassumere
così:
È pur vero che la legge cerca di disciplinare tutti i casi che potrebbero presentarsi; ciò però è impossibile in
quanto il legislatore non conosce tutti i mutamenti che si verificheranno in una collettività.
Potrebbe , quindi, capitare che il giudice, svolgendo la sua attività, si trovasse dinanzi a fattispecie concrete
non disciplinate dall’ordinamento giuridico. In questi casi la legge, o meglio l’articolo 12 delle preleggi al
comma 2, stabilisce che il giudice dovrà ricorrere all’ analogia legis solo nel caso in cui non sia riuscito a
risolvere un caso nemmeno interpretando estensivamente una norma.
Per analogia legis si intende l’applicazione di una norma non scritta desunta da un’altra avente fattispecie
astratta simile ad un caso concreto non regolato. Per simile si intende che i due casi abbiano elementi in
comune fra i quali di fondamentale importanza è la giustificazione del come il giudice intende disciplinare il
caso.
Ci sono casi, però, che restano irrisolti nonostante l’uso dell’analogia legis. L’articolo 12 delle preleggi, a tal
proposito, impone che sia utilizzata l’analogia iuris ovvero bisognerà fare ricorso ai principi generali
dell’ordinamento dello Stato. L’analogia non va applicata alle leggi penali e alle leggi eccezionali. Nelle
ultime, nel caso in cui non sia disciplinato un caso, saranno applicate le normali discipline.
L’ATTIVITÁ GIURIDICA
E LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI
Sino ad ora si è sempre parlato di fattispecie concrete e fattispecie astratte: nel momento in cui queste
presenteranno eguali caratteristiche si potrà parlare di fattispecie giuridica. È definita giuridica perché da
questa possono scaturire degli effetti giuridici.
Gli effetti giuridici possono consistere nella costituzione, modificazione o estinzione di una situazione
giuridica. Per poter definire quest’ultima è necessario riprendere il concetto di ordinamento giuridico: un
insieme di regole che sistemano gli interessi di una collettività, quindi regolano i possibili conflitti tra i
consociati ( si ricordino i suoi caratteri: preventivo e risolutivo). Per poter svolgere questo suo compito, il
diritto ha riconosciuto la prevalenza di un interesse sugli altri e, tutela la posizione che ricopre il titolare di
questo interesse dagli altri soggetti che potrebbero lederlo.
Si dirà quindi, che la situazione giuridica soggettiva è la posizione di prevalenza ( situazione giuridica
attiva) o soccombenza ( situazione giuridica passiva ) che il diritto riconosce ai soggetti nell’ambito della sua
attività di prevenzione dei conflitti.
Il rapporto che nasce tra il soggetto titolare di una situazione giuridica attiva e il titolare di una situazione
giuridica passiva si chiama rapporto giuridico. In questo ambito i soggetti prendono nome di parti; il terzo
è colui che è estraneo al rapporto giuridico che si costituisce fra altri due soggetti.
Si parlerà, quindi di rapporto giuridico quando un soggetto acquisterà un diritto soggettivo. Le modalità di
acquisto di un diritto possiamo distinguerle in :
A titolo originario. Un soggetto acquista il diritto senza che si crei un rapporto con il precedente
titolare o perché questi non esisteva proprio, res nullius (Art. 923 Cod. civ; esempio la proprietà
degli animali oggetto di caccia o pesca), o perché l’acquisto non dipende da una trasmissione, res
derelictae ( esempio: l’usucapione ex art.1158 Cod.civ).
A titolo derivativo. Un soggetto acquista un diritto entrando in rapporto giuridico con il precedente
titolare. Il passaggio del diritto è definito successione: colui che acquista il diritto sarà detto
successore o avente causa; colui che lo cede è detto autore o dante causa.
L’ acquisto a titolo derivativo lo si può distinguere:
Acquisto a titolo derivativo traslativo: il nuovo titolare acquista lo stesso diritto del
precedente titolare;
Acquisto a titolo derivativo costitutivo: il diritto acquistato, in questo caso, è un diritto
nuovo rispetto a quello del precedente titolare dal quale, tuttavia, esso deriva. Quest’ultimo
conserva la titolarità del diritto originario ma, è svuotato della facoltà corrispondente al
nuovo diritto costituito a favore del nuovo titolare (esempio: usufrutto , il vecchio titolare
resta nudo proprietario dell’immobile ossia titolare di un diritto di proprietà svuotato della
facoltà di godimento dell’immobile che è stata attribuita all’usufruttuario).
Questa categoria di acquisto è governata da due regole fondamentali:
Nemo plus iuris: in virtù della quale nessuno può trasferire un diritto più ampio rispetto a
quello di cui è già titolare e quindi un diritto di cui non è titolare, anche se l’acquisto avviene
in buona fede.
Resoluto iure dantis: tutte le vicende che incidono sul dante causa si riverberano su quelle
dell’avente causa, ovvero venuto meno il diritto del dante causa viene meno anche quello
dell’avente causa.
Nonostante siano regole fondamentali per il nostro ordinamento, queste subiscono molteplici
deroghe poste dal legislatore al fine di garantire un’adeguata tutela all’affidamento del terzo in
buona fede come per il trasferimento dei beni mobili non registrati per i quali vale il principio “
possesso vale titolo” se l’acquisto è avvenuto in buona fede (Art. 1153 Cod. civ. deroga al
principio nemo plus iuris); i beni immobili, regolati da una disciplina diversa secondo la quale il
trasferimento deve necessariamente essere stipulato per iscritto ( Art. 1159 Cod. civ.) e trascritti
nei registri immobiliari ( art. 2643 Cod. civ.); per via della trascrizione, non può valere il principio
“possesso vale titolo” bensì quanto stabilisce l’art. 2644 Cod. civ, ovvero nel caso in cui
l’immobile sia venduto a due soggetti differenti, vale il diritto di colui che trascrive per primo il
contratto (deroga al principio nemo plus iuris). Anche il principio resoluto iure dantis è sottoposto
a delle deroghe come l’usucapione, venduto un bene immobile di cui un soggetto non è
proprietario, decorsi 10 anni dalla trascrizione del contratto, il nuovo acquirente ne diventa
proprietario (Art. 1159 Cod. civ.).
Un soggetto, titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva, al fine di soddisfare i suoi
interessi necessita di un determinato bene.
I beni sono tutte le cose che possono essere oggetto di diritto (Art. 810 Cod. civ.) ovvero le cose
suscettibili di appropriazione e di utilizzo nonché le cose che hanno un valore. Possiamo, dopo aver
dato una definizione generale di cosa è un bene in campo giuridico, procedere con la classificazione
dei beni in base a loro caratteristiche.
Beni materiali : i beni caratterizzati da una loro corporeità che gli permette di essere
suscettibile ai sensi ( vista e tatto in particolare). Secondo il Codice Civile all’ art. 814, sono
beni materiali anche le energie che hanno un valore economico.
Beni immateriali: ovvero i beni che non sono suscettibili ai sensi quali i sistemi finanziari, i
dati personali, le opere di ingegno e gli oggetti di proprietà dell’azienda.
o Beni immobili: definiti, ai sensi dell’ art. 812 Cod. civ. comma 1, come i beni che formano
un corpo unico con il suolo naturalmente o artificialmente (per natura) ed altri che lo
diventano per disposizione di legge (destinazione) come i bagni, i mulini, edifici
galleggianti ancorati alla riva. [ DEFINIZIONE POSITIVA].
o Beni mobili: considerati, dall’ art. 812 Cod. civ. comma 3, tutti i beni non definiti immobili
comprese le energie. [DEFINIZIONE RESIDUALE].
All’interno della categoria dei beni mobili è necessaria una seconda distinzione:
1. beni mobili registrati: tutti i beni soggetti ad iscrizione nei pubblici registri ( Esempio:
automobili, aerei ecc.) sottoposti ad una particolare disciplina questo perché potrebbero
provocare dei danni non solo al proprietario del bene ma anche ai terzi(Art. 815 Cod.
civ.).
2. beni mobili non registrati.
Queste categorie di beni, come si vedrà, sono assoggettati da differenti discipline. Il
legislatore che ha posto questa linea di demarcazione fra beni mobili e beni immobili ha
sicuramente utilizzato delle logiche che prima di tutto riguardano il loro diverso valore
economico e la rilevanza che possiedono i beni immobili per quanto concerne l’ambiente (
l’impatto ambientale non incide solo sulla posizione dei soggetti proprietari dei beni
immobili ma su quella di chiunque ).
Recentemente è stata considerata anche un’altra categoria di beni: i cosiddetti prodotti finanziari.
La legge ha in questo senso posto una particolare tutela per gli investitori così da garantire un buon
funzionamento del mercato dei capitali. Sono considerati prodotti finanziari tutti gli strumenti
finanziari esclusi i depositi bancari e postali. Secondo la legge, chiunque intenda effettuare
un’offerta al pubblico di prodotti finanziari deve fornire a questi un prospetto informativo scritto in
forma analizzabile e comprensibile.
Universalità di fatto: (Art. 816 Cod. civ.) l’insieme di beni mobili appartenenti ad un
unico soggetto (profilo soggettivo) ed aventi una destinazione unitaria (profilo
oggettivo) (esempio: libri di una biblioteca).I singoli beni possono essere anche
considerati singolarmente, ed essere così oggetti di separati atti e rapporti giuridici (
comma 2) ma, detti beni se considerati unitariamente perdono il maggior valore
economico che la legge riconosce alle universalità. In particolare, un bene mobile se
considerato come singolo è soggetto ad una disciplina del tutto differente rispetto a
quella che il legislatore ha previsto per le universalità. Di fatti, per le universalità non
può essere applicato l’art.1153 Cod. civ .(possesso vale titolo, si tutela il terzo in buona
fede che acquista un bene da un soggetto non proprietario di quel bene), come per altro
stabilisce l’articolo 1156 Cod. civ., ed hanno una particolare disciplina dell’usucapione
(Art. 1160 Cod. civ.) infatti si acquista la proprietà di una universalità di beni mobili
dopo il possesso continuato per 20 anni, ma se si acquista il diritto di proprietà delle
universalità, in buona fede, da un soggetto che non è il vero titolare, l’usucapione avrà
durata di 10 anni. È inoltre applicabile, alle universalità la tutela possessoria, ai sensi
dell’ art.1170 ( azione di manutenzione), il che non avviene per i singoli beni mobili.
L’azione di manutenzione è una particolare azione applicabile ai beni immobili e alle
universalità e consiste nella possibilità del titolare di far cessare eventuali molestie sul
suo bene.
Universalità di diritto: il complesso non solo di beni mobili ma anche di rapporti
giuridici facenti capo tutti ad una stessa persona, anche non a titolo di proprietà
considerati come bene unitario dalla legge. A queste viene dedicata un’ autonoma
disciplina. ( esempio: l’eredità composta non soltanto da beni mobili e immobili ma
anche da diritti ed obblighi, crediti e debiti. Nonostante la sua composizione l’eredità è
oggetto di una sola disciplina. Le differenze fra la prima specie e questa sono
sicuramente il profilo soggettivo ( nelle universalità di diritto il soggetto può anche non
essere proprietario dei beni) e il profilo oggettivo ( nelle universalità di diritto i beni e i
rapporti che la compongono non hanno una stessa destinazione).
Un’ altra categoria di beni che è sottoposta a disciplina diversa è quella delle pertinenza (Art. 817
Cod. civ.): beni posti dal loro proprietario a servizio o ad ornamento di un’altra, senza costituirne
parte integrante e senza che questa sia indispensabile per la sua esistenza ( esempio: appartamento e
box auto). Si ha quindi un bene, che sia mobile o immobile, avente carattere accessorio rispetto ad
un altro che, invece, ha una posizione principale. Affinché sussista un rapporto pertinenziale è
necessario che entrambi i beni siano di proprietà di un unico proprietario.
La caratteristica di un rapporto pertinenziale è che, in ipotesi di trasferimento del bene principale ,
salvo diversa disposizione, si trasferirà anche la pertinenza( Art. 818 Cod. civ. comma 1). È
importante sottolineare , inoltre, che il bene che forma la pertinenza può anche essere oggetto di atti
e di rapporti giuridici che non comprendono il bene principale (Art. 818 Cod. civ comma 2).
La destinazione di un bene come pertinenza di un altro può incidere sulla condizione giuridica
di terzi che hanno acquistato diritti o sulla cosa principale o solo sulla pertinenza: la legge
Continuiamo di seguito a classificare i beni in base a precisi criteri e ad illustrare cosa in particolare
la legge tutela:
Consumabilità:
Beni consumabili : sono beni che possono recare utilità all’uomo solamente se questi li
utilizza. Sono quindi beni che possono essere utilizzati una sola volta e sono anche detti ad
utilità semplice.
Beni inconsumabili : sono i beni suscettibili di più utilizzazioni senza che questi si
distruggano. Ferma restando la loro deteriorabilità. I beni inconsumabili sono anche
chiamati beni ad utilità permanente.
Il perché il legislatore ha evidenziato la differenza tra beni consumabili e non, va ricercata
nella pratica: anche in questo caso ci sono istituti che possono essere applicati ai primi e
non ai secondi o viceversa.
In questa categoria la legge esprime una diversa tutela in ipotesi di concessione a terzi del
bene in godimento; infatti se si tratta di un bene consumabile, che soddisfa il bisogno solo
se il terzo utilizza quella cosa, al termine del periodo di godimento non potrà restituire il
bene ceduto. Ai sensi dell’articolo 995 Cod. civ. ( usufrutto di cose consumabili),
l’utilizzatore dovrà pagare il valore del bene secondo una stima, in mancanza di questa si
dovrà pagare la cosa in base al valore che ha il bene in quel momento o ripagarlo con lo
stesso bene. Ovviamente trattandosi di beni inconsumabili al termine del godimento si
dovrà restituire lo stesso bene.
Fungibilità:
Beni fungibili: sono i beni che appartengono ad un determinato genere; possono essere
sostituiti anche con altri beni poiché non è importante ricevere quel determinato bene ma
ricevere la giusta quantità idonea a soddisfare l’interesse del titolare del titolo.
Beni infungibili : sono i beni individuati per la loro specifica identità (esempio:
un’opera d’arte, un immobile).
Anche questi sono sottoposti ad una disciplina parzialmente diversa in ipotesi di prestito
del bene: qualora si tratti di beni infungibili, dopo il prestito dovrà essere restituita la
stessa cosa (esempio: il comodato, art. 1803 Cod. civ); Al termine del prestito di beni
fungibili, si dovrà restituire un bene della stessa specie e qualità ( esempio: il mutuo, Art.
1813 Cod. civ).
Indicazione:
Beni generici: i beni indicati solo con il riferimento al genere di appartenenza.
Beni specifici: i beni individuati in concreto quindi, diversi dagli altri dello stesso
genere.
Ci sono poi beni che vengono definiti come beni fruttiferi in quanto hanno la caratteristica di
produrre altri beni, che la legge classifica come frutti.
I frutti possono essere distinti in:
Frutti naturali: sono i beni prodotti da altri beni indipendentemente se vi ha concorso o no
l’opera dell’uomo. I frutti naturali non sono autonomi rispetto al bene fruttifero ( i cosiddetti
beni pendenti) e vengono considerati beni futuri (Art. 820 Cod. civ. comma 2), possono
quindi essere oggetto di rapporti obbligatori. Quando il frutto sarà materialmente separato
dal bene fruttifero, acquisterà una sua individualità e può essere oggetto di un diritto di
proprietà: ai sensi dell’ art. 821 Cod. civ., la proprietà spetta al proprietario del bene
fruttifero che potrà, dopo la separazione, trasferirlo a terzi.
Frutti civili: sono i beni che derivano indirettamente da un bene fruttifero come
corrispettivo del godimento del bene da parte di terzi (esempio: il canone di locazione, o
l’interesse di un mutuo). Il corrispettivo sostituisce, quindi l’utilità che il proprietario
avrebbe potuto ricavare dalla cosa.
Come già accennato, gli effetti giuridici si producono ogni qual volta che, al verificarsi di eventi, si
assiste ad una costituzione, modificazione o estinzione di una situazione giuridica attiva o passiva.
Un evento naturale produce effetti giuridici se la fattispecie concreta corrisponde con quella astratta,
in questi casi possiamo parlare di fattispecie giuridica, la quale costituisce la causa della produzione
degli effetti giuridici.
Nel momento in cui si configura una fattispecie giuridica, si costituisce una nuova situazione
giuridica (quindi un rapporto giuridico). Detto ciò distinguiamo la fattispecie giuridica nei seguenti
modi:
In base alle loro caratteristiche, gli atti giuridici possono essere classificati:
1. Profilo economico:
a. A titolo oneroso: un soggetto acquista un diritto dietro un sacrificio
economico-giuridico.
b. A titolo gratuito: un soggetto acquisisce un diritto senza alcun sacrificio economico
(esempio: la donazione).
Il codice non fornisce nessuna definizione di onerosità e gratuità però disciplina i due atti
diversamente, infatti si ha una disciplina meno intensa per gli atti a titolo gratuito.
2. Piano soggettivo:
a. Unilaterali: l’atto perfezionato con la volontà di un solo soggetto ( esempio: il testamento).
b. Plurilaterali: l’atto concluso da almeno 3 parti. Ogni parte è portatrice di un proprio
interesse. Se le parti sono due si chiama atto bilaterale.
c. Collegiale: la volontà di perfezionare l’atto è di un solo organo pluripersonale di una
persona giuridica o di una collettività organizzata ( esempio: assemblea dei soci di una
società).
d. Complesso: l’atto che consta della volontà di più parti ma tutte aventi uno stesso fine. Tali
volontà si fondono sino a formarne una sola.
3. In relazione alla funzione:
a. Mortis causa (a causa di morte): si tratta di un atto che al fine di produrre degli effetti,
presuppone la morte di un soggetto (esempio: il testamento).
b. Inter vivos ( tra vivi): un atto che produce effetti durante la vita delle parti.
A seconda se questi atti si riferiscono a interessi economici si giunge a definire patrimoniali i primi
( interesse economico) e apatrimoniali i secondi ( non hanno un interesse economico) . Gli atti
patrimoniali tendono ad uno spostamento di diritti patrimoniali e possiamo distinguerli in atti di
disposizione quelli caratterizzati dalla diminuzione del patrimonio di un soggetto, atti di
obbligazione quelli che danno luogo alla nascita di un’obbligazione.
Ci sono infine degli atti che si propongono di eliminare le controversie sorte in una determinata
situazione, questi sono chiamati atti di accertamento.
Nella vita di un diritto soggettivo non assistiamo solamente alla fase della sua costituzione o del suo
acquisto bensì potremmo assistere anche ad una fase estintiva, ovvero quando viene meno il diritto
di un soggetto.
Sino ad ora si è parlato dei diritti soggettivi sul piano sostanziale ovvero, si è riconosciuta la
posizione di idoneità, di un soggetto, di soddisfare dei suoi determinati interessi. Tale posizione gli
è assicurata dal nostro ordinamento giuridico : nel momento in cui si instaura un rapporto giuridico
il diritto troverà la sua realizzazione solo nel caso in cui le due parti si comportino diligentemente
(in maniera conforme all’ordinamento giuridico). Purtroppo però non sempre, nell’ ambito di un
rapporto giuridico, le parti rispettano quanto dettato dalla legge e, quando si verrà a costituire un
contenzioso il titolare della situazione giuridica soggettiva attiva, nonché titolare del diritto
soggettivo, dovrà farlo valere. Il nostro ordinamento vieta al soggetto titolare del diritto di farsi
giustizia autonomamente (Art.24 Cost.) bensì potrà far ricorso all’attività giurisdizionale
(Art.2907 Cod. civ.) al fine di ottenere l’attuazione del diritto, leso da altri soggetti. Fanno
eccezione i casi in cui il codice consente alcune forme di autotutela, un esempio è la legittima
difesa.
L’attività giurisdizionale si pronuncia su domanda di parte ovvero sarà un soggetto titolare di un
diritto ad esercitare il suo diritto di agire in giudizio ( o diritto di azione) proponendo la domanda
giudiziale. Questa introduce il processo e, il giudice chiamato a pronunciarsi solo nell’ambito di ciò
che gli viene espressamente richiesto, dovrà emettere una sentenza che, quindi, non dovrà
riguardare circostanze fuori dalla domanda (divieto di ultra-petizione). In alcuni casi , tuttavia, la
legge ammette che una volta iniziato il giudizio, il giudice può rilevare d’ufficio solo determinate
circostanza senza avere un’apposita domanda ( esempio: un contratto nullo, Art. ex 1421 Cod. civ.)
Colui che esercita l’azione e quindi propone la domanda giudiziale è detto attore perché , appunto
agisce; colui contro il quale è proposta l’azione è detto convenuto.
L’azione con la quale viene aperto il giudizio può mirare ad ottenere diversi risultati, in particolare
a seconda di cosa tratti possiamo distinguerle in:
1. Azione di cognizione: questa introduce un processo di cognizione durante il quale il
giudice, al quale è stata sottoposta la fattispecie concreta , dovrà individuare la norma
applicabile e pronunci una sentenza. Le sentenze pronunciate durante un processo di
cognizione possono essere:
Sentenza di mero accertamento: con tale provvedimento il giudice si accerta
dell’esistenza e della spettanza di un diritto e rimuove l’incertezza che ha dato luogo
alla controversia.
Sentenza di condanna: con questa il giudice emana un comando rivolto alla parte
soccombente di tenere una determinata condotta che lo stesso giudice riconosce come
dovuta.
Sentenza costitutiva (Art. 2908 Cod. civ.): la sentenza in questi casi non si limita ad
accertare la situazione giuridica preesistente, ma modifica o estingue la situazione
vigente sino a quel momento o ne costituisce un nuovo rapporto.
2. Azione di esecuzione: con questa si introduce un processo di esecuzione che ha la finalità
di realizzare coattivamente il comando contenuto nella domanda. Tale processo si avvia nel
momento in cui la parte soccombente non dà seguito a quanto stabilito dalla domanda
nonostante la richiesta del giudice tramite una sentenza. Non a caso, infatti l’azione di
esecuzione presuppone la presenza di un titolo esecutivo, quali ad esempio un atto notarle o
una sentenza, ovvero un titolo dal quale risulti in modo certo il comportamento di cui si
deve chiedere la realizzazione coatta. Tale comportamento, a seguito di un processo
esecutivo, sarà ottenuto con un ulteriore provvedimento giudiziale che può disporre:
Una volta ottenuta una sentenza di primo grado, al fine di assicurare la piena giustizia della
sentenza alle parti è concesso di promuovere il riesame del caso mediante ordinari mezzi di
impugnazione (la parte soccombente può promuovere giudizio di appello).
Il riesame va fatto entro dei termini di decadenza decorsi i quali la sentenza costituisce un “res
iudicata” cioè passa in giudicato ( Art. 2909 Cod. civ.). La cosa giudicata può essere:
Formale: la sentenza non può più essere impugnata.
Sostanziale: non soltanto la sentenza non può più essere impugnata ma il diritto, di cui si era
richiesta tutela , non potrà più formare oggetto di discussione o di riesame in processi futuri.
In ogni caso la cosa giudicata fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa.
L’esito di un giudizio può dipendere dall’accoglimento di una delle versioni contrapposte che
vengono fornite dalle parti. Spetta al giudice scegliere quale delle due versioni far prevalere in base
alle prove che questi presentano nell’ ambito di un processo.
Le prove sono degli strumenti che le parti possono utilizzare per dimostrare la verità di un fatto,
giuridicamente rilevante, durante un processo. Il nostro ordinamento prevede che , in un processo
civile, valga il principio dispositivo ovvero saranno le parti ad allegare alla domanda le prove di
quanto accaduto, al giudice spetterà il compito di valutare i mezzi di prova forniti ( a tal proposito si
ricorda che il giudice , secondo gli altri principi processuali, non può decidere al di fuori dei limiti
della domanda e in assenza di istanza di parte: Art 2907 Cod. civ.).
Valutare dei mezzi di prova significa controllare se questi siano:
Ammissibili: conformi alla legge;
Rilevanti: hanno ad oggetto fatti che possono influenzare la decisione della lite;
Una circostanza si dirà provata quando i mezzi di prova abbiano convinto il giudice che una
versione dei fatti sia più convincete rispetto all’ altra e che questa ben si concilia con il materiale
probatorio; il giudice dovrà motivare la sua scelta (principio del libero apprezzamento della prova).
Ai sensi dell’articolo 2697 Cod. civ., quando un giudice è chiamato a regolare un fatto sfornito di
prove, sarà applicato l’onere della prova: la parte che intende far valere il suo diritto in giudizio
dovrà provare quanto sostiene, la controparte che intende eccepire l’inefficacia di tali fatti dovrà
dimostrare, anch’essa , su cosa l’eccezione si fonda. Se questa è considerata la regola generale, è
possibile che la legge (Art. 2727 Cod. civ. e seguenti) o le parti ( Art. 2698 Cod. civ.) deroghino a
questa.
Le prove possono distinguersi in due specie:
a. Prova precostituita (o documentale): si tratta di mezzi di prova già esistenti prima del
giudizio come ad esempio un atto pubblico, una scrittura privata ecc.
b. Prova costituenda (o non documentale) : si tratta di una prova che si costituirà nel corso del
giudizio come avviene per la confessione, la prova testimoniale, il giuramento, la
presunzione.
e) IL GIURAMENTO. È un mezzo di prova che può essere richiesto dalle parti o d’ufficio
nel corso di un giudizio civile. A seconda di chi lo richiede possiamo distinguere:
- Giuramento decisorio (Art. 2736 Cod. civ.): una parte deferisce alla controparte
giuramento ( ovvero una parte invita la controparte a prestare giuramento) avente ad
oggetto circostanze che abbiano valore decisorio. Il giuramento ha piena efficacia
probatoria, pertanto da questo il giudice farà dipendere l’esito del giudizio. Quando una
parte decide di utilizzare come mezzo di prova il giuramento, chiede al giudice di
invitare la controparte a giurare che il fatto oggetto della contestazione è realmente
avvenuto (nel momento in cui si dichiara il falso, si aprirà un processo penale con
conseguente risarcimento del danno:). La parte a cui è stato chiesto di giurare, quella che
prima si è chiamata controparte, può a sua volta riferire il giuramento all’ altra parte
Le situazioni giuridiche soggettive, sia attive che passive, fanno capo a quelli che vengono definiti
soggetti del diritto. I soggetti di diritto possiamo distinguerli in:
- Persona fisica: qualsiasi uomo cittadino italiano ma anche straniero;
- Persone giuridiche : organizzazioni dotate di soggettività giuridica e che quindi possono
essere titolari delle situazioni giuridiche soggettive.
La loro capacità di essere titolari di situazioni soggettive attive e passive è detta: capacità
giuridica.
Persone fisiche
Le persone fisiche sono tutti gli uomini, cittadini italiani o stranieri che sono definite soggetti del
diritto in quando hanno la capacità di essere titolari di situazioni giuridiche attive o passive
(capacità giuridica).
CAPACITÁ GIURIDICA
La persona fisica acquista la capacità giuridica al momento della nascita (Art. 1 comma 1 Cod.
civ.) e non può essere privato di questa per nessun motivo (Art. 22 Cost1.);e la perde con la morte.
Si ha la nascita quando si acquisisce la piena indipendenza dal corpo materno anche se non si ha
vitalità ovvero acquisisce la capacità giuridica anche il neonato morto subito dopo la nascita. Entro
dieci giorni dalla nascita è necessario dichiararla all’ufficiale dello Stato civile per la formazione
dell’ atto di nascita, conservato nei registri dello Stato civile di ciascun comune. Si ha morte
quando si ha la cessazione di tutte le funzioni dell’ encefalo; entro 24 ore dal decesso bisogna
dichiararlo all’ufficiale dello Stato civile per la formazione dell’ atto di morte. Con la morte tutte le
situazioni giuridiche facenti capo al soggetto defunto, a seconda dei casi, si estinguono o vengono
trasmesse ai suoi eredi.
Ci sono dei casi però, previsti dalla legge, in cui si deroga al principio secondo il quale la capacità
giuridica si acquista al momento della nascita poiché riconosce la possibilità di attribuire dei diritti
anche a favore di chi ancora non è nato, i cd. nascituri (Art. 1 Cod. civ.). Ovviamente, i diritti che
la legge riconosce ai nascituri sono subordinati alla nascita, cioè il nascituro diventerà titolare di
diritti solo quando nascerà. Le uniche ipotesi previste dalla legge, nelle quali è possibile diventare
titolari di diritti sono la successione ereditaria e la donazione. In entrambi il casi il nascituro può
essere sia concepito che non, ma in quest’ultimo caso dovrà essere il futuro figlio di una persona
vivente nel momento in cui si apre il testamento (Art. 462 comma 3 Cod. civ.) o della donazione
(Art. 784 Cod. civ.).
Successione ereditaria: l’art. 462 Cod. civ. al comma 1 attribuisce al nascituro concepito la
capacità di succedere per causa di morte sia per legge che per testamento. Si intende
concepito un nascituro che nascerà entro 300 giorni dalla morte del defunto (Art. 642
comma 2 Cod. civ.: presunzione relativa poiché ammette la prova contraria).
I nascituri non concepiti, ovvero quelli che non nasceranno entro 300 giorni dalla morte del
defunto, possono ricevere solo per testamento se indicati espressamente in questo e se, come
anticipato, saranno futuri figli di una persona vivente nel momento in cui si apre la
successione (Art. 642 comma 3 Cod. civ.).
Donazione: possono ricevere per donazione si i nascituri concepiti che quelli non concepiti
(Art. 784 Cod. civ.), in quest’ultimo caso, come già detto, la donazione deve essere fatta a
favore di un futuro figlio di una persona vivente. Ai sensi dell’ articolo 784 comma 2 e 320
Cod. civ., accetteranno la donazione i genitori dei figli nascituri. Poiché questi eventi sono
subordinati alla nascita, il donante dovrà di amministrare i beni sino alla nascita (Art.784
comma 3 Cod. civ.): se la donazione è a favore di un nascituro concepito i frutti maturati
Per taluni rapporti, non è sufficiente la nascita bensì è necessaria la presenza di alcuni presupposti
che quindi vanno a limitare la capacità giuridica; tutte queste ipotesi riguardano la cosiddetta
incapacità speciale. L’incapacità speciale può presentarsi come:
Incapacità speciale assoluta: al soggetto sono preclusi determinati tipi di rapporti giuridici.
Esempi di questa incapacità sono quelli descritti agli articoli 84 comma 2 Cod. civ. in
ambito del matrimonio: un soggetto può contrarre matrimonio solo aver raggiunto la
maggiore età. Tuttavia ci sono dei casi eccezionali in cui il tribunale autorizza un minore di
16 a sposarsi. Altri esempi sono quelli all’articolo 250 Cod. civ. (aggiornato) in ambito di
riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio (cd. Figlio naturale); una volta
riconosciuto si instaurano tutti quei rapporti di dovere e potere tra genitori e figli che oggi
chiamiamo responsabilità genitoriale.
Incapacità speciale relativa: al soggetto è precluso un determinato rapporto ma solo con
riferimento a determinate persone o in determinate circostante. Un esempio è il notaio che
non può essere destinatario di disposizioni testamentarie con riferimento al testamento che è
stato da lui ricevuto (Art. 597 Cod. civ.).
CAPACITÁ D’AGIRE
La capacità di agire è la capacità della persona fisica di compiere autonomamente e personalmente
atti di amministrazione dei propri interessi, ovvero la capacità di compiere atti giuridicamente
rilevanti. La capacità di agire si acquista con la maggiore età ovvero con il compimento del
diciottesimo anno di età (Art. 2 Cod. civ.).
Esistono però delle ipotesi nelle quali un soggetto non è capace di gestire in prima persona le
situazioni giuridiche di cui è titolare, in questi casi la legge ha stabilito degli istituti che hanno
proprio il compito di proteggere il soggetto incapace di agire da eventuali rischi derivanti da atti da
lui compiuti che incidono negativamente su i suoi interessi.
L’incapacità giuridica può distinguersi in:
INCAPACITÁ DI AGIRE TOTALE, il soggetto non può compiere alcun atto.
a) Minore età. Come già anticipato ,la capacità di agire si acquista nel momento in cui un
soggetto compie i diciotto anni, prima della maggiore età questo è considerato incapace
totale di agire. Gli atti riguardanti l’amministrazione del patrimonio del minore spettano ai
suoi genitori. Come è noto, infatti, sui genitori ricade la cosiddetta responsabilità
genitoriale (definizione che ha sostituito quella di potestà con la riforma del 2013): ai sensi
dell’ art. 316 Cod. civ. entrambi i genitori hanno dei poteri- doveri nei confronti dei loro
figli e dovranno esercitarla sia sul piano non patrimoniale che su quello patrimoniale
tenendo conto delle capacità delle inclinazioni naturali e ispirazioni del minore. In sintesi i
genitori hanno il dovere di educare ed istruire il proprio figlio, e hanno il potere di
rappresentanza e di amministrazione dei beni del figlio ovvero hanno il compito di gestire il
patrimonio del figlio e di rappresentarlo in tutti gli atti civili (Art. 320 Cod. civ.). In sintesi,
il minore è un soggetto totalmente incapace di agire e pertanto sono i suoi genitori che per
suo nome e per suo conto compiono degli atti giuridici: in particolare disgiuntamente gli
atti di ordinaria amministrazione, congiuntamente gli atti di straordinaria amministrazione
per i quali ultimi è richiesta l’autorizzazione del giudice previa nullità dell’ atto (Art. 320
Cod. civ.). Se sorge un conflitto di interessi patrimoniali fra il minore e i suoi genitori (si
pensi alla donazione dove i genitori che vogliono donare un bene al proprio figlio sono i
donanti e dovrebbero in nome e per conto del minore rappresentare il donatario) il giudice
tutelare nomina ai figli un curatore speciale (Art. 320 ultimo comma Cod. civ.). il curatore
speciale è nominato anche nei casi in cui i genitori non possono o non vogliono compiere
b) Interdizione. Ai sensi dell’ art. 414 Cod. civ. un soggetto maggiorenne o minore
emancipato , completamente privo della capacità, di agire è dichiarato interdetto quando
ricorrono i presupposti seguenti:
Infermità di mente: il soggetto è affetto da una malattia che non gli consente di
esprimere le sue volontà liberamente e consapevolmente.
Abitualità dell’infermità : l’infermità non deve presentarsi in via transitoria. È
necessario sottolineare che per infermità non si intende una malattia irreversibile o
incurabile nemmeno una malattia che privi continuamente il soggetto della capacità
di intendere e volere.
Incapacità del soggetto di provvedere ai propri interessi: un soggetto è
interdetto solo quando la sua infermità mentale incida sulla sua capacità di gestire i
suoi affari ( per interessi non si intendono solo quelli di natura economica ma anche
quelli extrapatrimoniali).
Necessità di assicurare protezione al soggetto: Si potrà interdire un soggetto solo
quando gli altri strumenti di protezione di un incapace (inabilitazione,
amministrazione di sostegno) non sono sufficienti a garantire la sua protezione.
Un soggetto minorenne può essere interdetto durante l’ultimo anno della sua
minore età, nonostante l’interdizione inizia produrre effetto dal giorno in cui
raggiunge la maggiore età.
L’incapacità di un soggetto deve essere accertata mediante apposito procedimento
contezioso promosso dai soggetti di cui all’ art.417 Cod. civ., ovvero dallo stesso
interdicendo, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto
INCAPACITÁ PARZIALE: Hanno un’ incapacità parziale di agire i soggetti che possono
compiere gli atti giuridici di ordinaria amministrazione autonomamente senza, cioè, la
rappresentanza e talvolta anche senza l’assistenza di un altro soggetto. Allorquando si tratti
di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione sarà richiesta la rappresentanza (funzione
sostitutiva) o l’assistenza (funzione complementare) di un soggetto a ciò deputato.
a) Emancipazione. Il minore di età , come è già noto, non può contrarre matrimonio (Art.
84 comma 1 Cod. civ.); tuttavia esiste la possibilità per gravi motivi che un minore di 16
anni compiuti possa, previa autorizzazione del tribunale, contrarre matrimonio (Art. 84
comma 2 Cod. civ.). Con le nozze il minore acquisterà automaticamente l’emancipazione
e si sottrarrà alla disciplina della minore età (Art. 390 Cod. civ.). La condizione giuridica
dell’emancipato prevede che:
Il minore emancipato sarà coadiuvato da un curatore: nel caso in cui il suo coniuge
sarà maggiorenne sarà lui stesso (Art 392 comma 1 Cod. civ.) , in caso contrario,
ovvero entrambi i coniugi sono minorenni, il giudice tutelare dovrà nominare un
curatore, preferibilmente tra i genitori (Art 392 comma 2 Cod. civ.).
Sino ad ora si è parlato di incapacità di agire, relativa ed assoluta nei termini di un’incapacità
legale: il minore di età ,l’interdizione, l’ inabilitazione , l’emancipazione ,l’amministrazione di
sostegno importano del soggetto una incapacità che è rilevata solo ed esclusivamente dal fatto che
questi si trovi in quella determinata condizione, e non dal suo essere concretamente incapace di
intendere e di volere nel momento in cui questo compie un atto negoziale. Da questa è necessario
distinguere l’ incapacità naturale.
Persona giuridica
Le persone giuridiche sono delle organizzazioni riconosciute come soggetto di diritto perché
risultano dotate della soggettività giuridica.
Possiamo, quindi, poi distinguere queste organizzazioni tra:
- Organizzazioni dotate di personalità giuridica;
- Organizzazioni dotate di soggettività giuridica.
SOGGETTIVITÁ GIURIDICA
La soggettività giuridica riguarda le organizzazioni composte da persone (es. le associazioni) o da
mezzi (es. le fondazioni) aventi tutti un determinato scopo da perseguire; per ciò l’ordinamento
giuridico le riconosce come soggetti aventi diritti e obblighi diversi e autonomi rispetto a quelli
delle persone che la compongono (quindi diversi dai diritti degli associati di un’associazione), o in
assenza di questi, rispetto a quelli dei suoi costituenti ( quindi diversi dai diritti di un fondatore di
una fondazione). In sintesi un’ organizzazione avente soggettività giuridica è dotata della capacità
giuridica: sono titolari di un patrimonio composto da diritti ed obblighi che necessita di essere
amministrato da organi a ciò deputati. Gli organi, non hanno però il solo compito di amministrare i
beni, bensì hanno anche il potere di agire in nome e per conto dell’ ente affinché questo possa
partecipare al traffico giuridico. Per tale ragione gli organi delle organizzazioni, a seconda se
abbiano o meno il potere di rappresentanza si distinguono in :
1. Organi interni: che hanno il potere di amministrazione ossia hanno il potere di decidere una
determinata operazione;
2. Organi esterni : che hanno il potere di rappresentanza ovvero il rappresentante dell’ ente
dichiarerà all’ esterno di agire in nome e per conto dell’ ente (spendita del nome dell’ ente).
Quindi è l’organo amministrativo che pone in essere l’operazione decisa attraverso una sua
delibera se l’organo è un consiglio di amministrazione o il semplice consenso se si tratta di
un organo di amministrazione monocratico. La firma su eventuali contratti sarà posta da
questo organo, o dal presidente del consiglio di amministrazione se formato da più
rappresentati.
Una particolarità del fenomeno amministrativo, in ipotesi di enti, è che colui che ha il potere
di rappresentanza non è un soggetto terzo bensì un organo dell’ente che nel momento in cui
compirà degli atti, per effetto di un fenomeno di immedesimazione organica, tali atti saranno
giuridicamente imputati all’ ente stesso.
Le organizzazione vanno, poi, distinte in:
Organizzazioni di natura pubblica come lo Stato ed altri enti territoriali e non ( regioni,
comuni ecc.)
Organizzazioni di natura privata (associazioni , imprese ecc.)
Nell’ ambito delle organizzazioni private possiamo poi, a loro volta distinguerle:
- Organizzazioni registrate, quelle iscritte in appositi registri pubblici;
- Organizzazioni non registrate, quelle che non risultano da alcun registro.
o Organizzazioni con scopo di lucro, le organizzazioni che hanno lo scopo di ripartire tra i
partecipanti gli utili conseguiti con l’attività da queste svolta. (es. imprese e società)
Le associazioni
Le associazioni sono organizzazioni in cui prevale l’elemento personale ovvero si tratta di un
gruppo di persone che si uniscono per svolgere una determinata attività con lo scopo di perseguire
delle finalità non economiche. L’associazionismo non è mai stato ben visto dai legislatori in quanto
Chiunque può aderire all’ associazione in seguito alla sua costituzione secondo i criteri di
ammissione previsti dallo statuto (Art. 16 seconda parte Cod. civ.). Un associato può sempre
recedere dall’ associazione salvo il caso in cui non abbia deciso di far parte di questa a tempo
determinato (Art. 24 comma 2 Cod. civ.) o può essere escluso per gravi motivi (Art. 24 comma 3
Cod. civ.). uno dei motivi che può portare all’ esclusione di uno degli associati è il non rispetto
delle norme previste dallo statuto ; l’esclusione deve avvenire solo in forza di una delibera motivata
dell’ assemblea. In tutti i casi di recesso o esclusione l’associato non potrà richiedere il risarcimento
dei contributi ( Art. 24 comma 4 Cod. civ.).
L’associazione si estingue nel momento in cui questa ha raggiunto il suo scopo o è impossibilitata a
farlo (Art. 27 Cod. civ.), o per deliberazione assembleare (Art. 21 comma 3 Cod. civ.). Una volta
dichiarata l’estinzione dell’ associazione si dovrà procedere con la liquidazione del suo patrimonio
con il pagamento dei debiti dell’ associazione (Art. 30 Cod. civ.), e la devoluzione dei beni residuati
secondo quanto stabilito dall’ articolo 31 comma 2 Cod. civ.
Sino ad ora si è parlato delle somiglianze fra le associazioni riconosciute e quelle non riconosciute:
una distinzione fondamentale è che l’associazione non riconosciuta non è iscritta nel registro delle
persone giuridiche e non è soggetta ad alcun controllo dell’ autorità governativa. Insomma questa
gode di una maggiore libertà di autonomia e di espressione anche nel perseguimento dello scopo se
però non lucrativo (Art. 36 Cod. civ.). Il potere di rappresentanza e di amministrazione, e quindi gli
amministratori di un’associazione non riconosciuta sono il presidente o il direttore. I contributi
degli associati formano il patrimonio dell’associazione che è , in questo caso, detto fondo comune
(Art. 37 Cod. civ.); il vincolo della destinazione dei loro contributi al perseguimento dello scopo ha
la durata della vita dell’ associazione ciò significa che una volta estinta questa la devoluzione dei
beni può avvenire anche a favore degli associati , ciò che invece non avviene per le associazioni
riconosciute. L’associazione riconosciuta, invece è soggetta al controllo dell’ autorità
amministrativa perché, per poter ottenere la registrazione nel registro delle persone giuridiche
presso la prefettura o presso le regioni, è necessario consegnare a questa l’atto costitutivo e lo
statuto affinché si possa verificare se il riconoscimento può avvenire o meno (Art. 1 comma 1, art 2
comma 2 D.P.R. n. 361/2000). Nell’arco di tempo che va dalla consegna dell’atto e dello statuto
alla prefettura sino all’iscrizione l’associazione può operare come associazione non riconosciuta.
Ulteriore differenza sta nell’ autonomia patrimoniale dei due tipi di associazioni: le associazioni
riconosciute , sono organizzazioni dotate di personalità giuridica e pertanto hanno un’autonomia
patrimoniale perfetta: gli associati non hanno nessun diritto sul patrimonio dell’associazione e il
loro patrimonio è distinto da questo (Art. 24 Cod. civ.); ciò non avviene solo durante la vita
dell’associazione ma anche dopo in caso di devoluzione dei beni (Art. 31 Cod. civ.). Laddove in
ipotesi di associazioni non riconosciute e quindi non dotate di personalità giuridica, saranno dotate
di un’autonomia patrimoniale imperfetta: alle obbligazioni risponde l’associazione con il suo
fondo comune o colui che ha agito in nome e per conte dell’ associazione con il suo patrimonio, e
non tutti gli associati (Art. 38 Cod. civ.); inoltre gli associati non possono avere pretese sul
patrimonio dell’associazione durante la sua vita (Art. 37 Cod. civ.).
I comitati
I comitati sono una figura a metà strada fra associazioni e fondazioni, che nasce come un’
organizzazione di più persone che intendono promuovere una raccolta di fondi da destinare ad un
determinato scopo. L’attività del comitato si articola, quindi, in due fasi: una prima fase nel quale
prevale l’elemento personale ovvero un gruppo di persone si uniscono per promuovere una
raccolta di fondi; la seconda fase è invece caratterizzata dalla prevalenza dell’ elemento
patrimoniale ossia i fondi raccolti vanno a costituire il patrimonio del comitato che sarà utilizzato
per il perseguimento di uno scopo sarà quindi presente il limite della destinazione di cui si è parlato
per le fondazioni (Art. 40 Cod. civ.).
Anche nel comitato la gestione del patrimonio e la sua rappresentanza sono affidate ad un organo
amministrativo.
I DIRITTI REALI
Come già visto, il diritto soggettivo è una particolare posizione di abilitazione del soggetto titolare
dello stesso diritto di soddisfare un proprio interesse. In questa categoria sono stati, poi, distinti i
diritti soggettivi assoluti e i diritti soggettivi relativi. I primi sono stati definiti come quei diritti che
consentono al suo titolare di farlo valere e prevalere nei confronti di un qualunque terzo, il quale è
sua volta dovuto ad astenersi dal godimento di questo diritto. Nella categoria dei diritti assoluti
distinguiamo i diritti reali.
I diritti reali sono diritti che hanno ad oggetto una res, ossia un bene, una cosa materiale
determinata. I diritti reali sono caratterizzati da tre elementi costanti:
1. Immediatezza.
Il titolare del diritto soddisfa il suo interesse esercitando direttamente il potere sulla cosa che
ne forma oggetto senza la cooperazione di alcun terzo.
2. Assolutezza.
Tutti i terzi, come precedentemente ricordato, hanno il dovere di astenersi dall’ interferire
nel rapporto fra il titolare del diritto reale ed il bene che ne è oggetto; in caso contrario il
titolare potrà agire in giudizio contro chiunque lo contesti o lo pregiudichi (efficacia erga
omnes)
3. Inerenza.
Il diritto reale si dice che inerisce direttamente sulla cosa ovvero significa che questo grava
direttamente sul bene e non si modifica se il bene lo si aliena a terzi. Si tratta della così detta
ius sequelae (diritto di sequela) nel senso che il diritto reale segue il bene cui inerisce.
Poiché i diritti reali sono suscettibili di essere trasferiti anche a terzi aventi causa, è necessario
rendere visibile e conoscibile l’esistenza di diritti reali sulla cosa. Per questa esigenza fondamentale
i diritti reali presentano una caratteristica che li distingue dagli altri diritti ovvero quella del numero
chiuso e contestualmente della tipicità: i diritti reali sono predeterminati dalla legge in un certo
numero di figure tipiche alle quali i privati non possono aggiungerne ulteriori. In questo modo il
terzo potrà più facilmente riconoscere la presenza di diritti reali sulla cosa, e si evita che le parti
costituiscano dei casi inferiori di diritti reali rispetto a quelli espressamente previsti dall’
ordinamento.
Nell’ ambito dei diritti reali, si distinguono:
I diritti reali su cosa propria: il diritto di proprietà
I diritti reali su cosa altrui: i diritti reali che gravano su i beni di proprietà altrui e che
coesistono con il diritto del proprietario seppur questo risulta compresso, o meglio limitato. I
diritti reali su cosa altrui possiamo poi distinguerli in diritti reali di godimento e diritti reali
di garanzia.
Collegati ai diritti reali sono le cosiddette obbligazioni propter rem (obbligazioni reali): sono vere
e proprie obbligazioni caratterizzate dall’ individuazione del soggetto passivo (es. il debitore) in un
soggetto titolare del diritto reale su un determinato bene (es. si pensi alle contribuzioni condominiali
alle quali è dovuto il proprietario di un immobile).
Da non confondere con le obbligazioni propter rem sono gli oneri reali in forza dei quali un
creditore per il pagamento di somme di denaro o altre prestazioni può soddisfarsi sul bene stesso
senza dover tener conto di chi è proprietario o di chi è titolare di diritti reali sia di godimento che di
garanzia. L’unica fattispecie che riconosce la legge di oneri reali è quella prevista dai contributi
consorziali (Art. 864 Cod. civ.): si pensi all’ipotesi in cui si debba bonificare un lotto di terreno, i
contributi consorziali gravano su tutti coloro che decidono di acquistare un immobile che fa parte di
Ai sensi dell’ articolo 832 Cod. civ., la proprietà è definita come “il diritto di godere e di disporre
delle cose in modo pieno ed esclusivo entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’
ordinamento giuridico”.
Il diritto di proprietà attribuisce quindi un duplice potere a chi ne è proprietario:
Potere di godimento del bene, ovvero il potere di trarre dalla cosa tutte le utilità che questa
è in grado di fornire. È il proprietario a dover decidere come usufruire di queste utilità: se
direttamente e quindi utilizzando il bene per soddisfare i suoi interessi; o indirettamente ad
esempio cedendo un immobile in locazione e trarre da questo i frutti civili.
Potere di disposizione del bene, ovvero il potere di cedere a terzi il diritto sulla cosa o nella
sua totalità o solo in parte.
Proseguendo con la lettura dell’ articolo, vediamo che il proprietario gode e dispone del bene in
modo pieno ed esclusivo, da qui scaturiscono i suoi caratteri di:
Pienezza: il proprietario ha il diritto di fare della cosa tutto ciò che vuole purché rispetti i
limiti impostigli dalla legge. È anche consentito distruggere il bene solo nei casi in cui
questo, però, non arrechi danni a terzi.
Esclusività: il proprietario ha il diritto di escludere qualunque terzo dall’ esercizio dei sui
stessi poteri sul suo bene.
Nell’ultimo comma, l’articolo ci indica che sono presenti dei limiti e degli obblighi ai quali il
proprietario deve attenersi nell’esercizio del suo diritto. questi limiti cambiano a seconda del bene
che si prende in considerazione; ad esempio se si è proprietari di un autoveicolo è dovere del
proprietario sottoporlo a revisione nei tempi previsti dalla legge e dovrà assicurarlo per poterlo
utilizzare nella via pubblica; o se si considera la proprietà immobiliare bisognerà rispettare quei
limiti riguardanti la costruzione e quindi richiedere il S.C.I.A (segnalazione certificata di inizio
attività) o anche la modifica di un immobile. Tali limitazioni sono state previste dall’ ordinamento
giuridico con lo scopo di perseguire, anche se indirettamente, la funzione sociale che la
Costituzione, all’ articolo 42, affida al diritto di proprietà. Questa funzione sociale è facilmente
ricollegabile a quanto esposto dall’ articolo 44 della Costituzione nel quale si impone di sfruttare
economicamente i beni in modo efficiente, così da rendere la proprietà un diritto che sia in grado di
perseguire interessi di carattere generale. Il diritto di proprietà è quindi un diritto tutelato
costituzionalmente anche se questa impone semplicemente che nell’ esercizio di questo diritto
venga rispettata la legge (Art. 42 comma 2 Cost.). Ai sensi dell’ art. 43 Cost., la legge stabilisce
che è possibile riservare o trasferire allo Stato la proprietà di determinati beni a fini di utilità
generale.
La proprietà risulta inoltre caratterizzata da:
Imprescrittibilità (Art. 948 comma 3 Cod. civ.), più specificatamente non soggetta a
prescrizione è l’azione giudiziale a tutela del diritto di proprietà ossia l’azione di
rivendicazione. Da ciò, si deduce indirettamente che, potendo far sempre valere il diritto di
proprietà con l’azione di rivendicazione, la proprietà è imprescrittibile.
Perpetuità, non è soggetta ad alcun termine: non deve e non può essere costituito per un
determinato periodo di tempo, ma è un diritto che risulta essere tendenzialmente perpetuo.
Elasticità, il diritto di proprietà è suscettibile di essere compresso da diritti reali minori a
favore di terzi. La proprietà recupererà automaticamente la sua pienezza.
Estensione, una particolare caratteristica del diritto di proprietà quando parliamo di fondi è
la sua estensione sia in senso verticale che in senso orizzontale. Ai sensi dell’ articolo 840
Cod. civ., il diritto di proprietà si estende all’ infinito sia nel sottosuolo che nello spazio
aereo sovrastante, con ciò se ad esempio si costruisce un immobile sul suolo questo
automaticamente è di proprietà dello stesso proprietario del suolo (Accessione: Art. 934
Cod. civ.). In senso orizzontale , invece, il diritto di proprietà si estende nei limiti del
Ricorda
Quando si parla di un’azione giudiziale dobbiamo distinguere:
1. Il petitum: ciò che viene richiesto al giudice, l’oggetto della richiesta.
2. Legittimazione attiva: i soggetti titolari del potere di far valere la domanda
giudiziale e quindi di promuovere l’azione giudiziale.
3. Legittimazione passiva: è il soggetto convenuto ovvero il soggetto contro il quale
l’azione deve essere fatta valere.
I diritti reali su cosa altrui non sono una parte del diritto di proprietà ma una sua limitazione.
Questi possiamo distinguerli in:
Diritti reali di godimento: riconoscono al titolare del diritto di godimento una facoltà su un
bene, precedentemente compresa nel diritto di proprietà, ad un soggetto diverso dal
proprietario; pertanto questi comprimono il potere di godimento che spetta ad un
proprietario, si pensi ad esempio all’usufrutto dove la proprietà viene suddivisa in due parti:
una la nuda proprietà, l’altra l’usufrutto.
Diritti reali di garanzia: comprimono il potere di disposizione di un determinato bene, che
spetta al proprietario, con lo scopo di utilizzarlo come garanzia di crediti a terzi, si pensi ad
esempio all’ipoteca o al pegno.
Sono diritti reali di godimento su beni immobili i diritti di superficie, enfiteusi, abitazione e
servitù; sono diritti reali di godimento su beni mobili il diritto di usufrutto e uso.
DIRITTO DI SUPERFICIE
(Art.952 e seguenti Cod. civ.)
Occorre ricordare che uno dei modi di acquisto del diritto di proprietà a titolo originario è quello
dell’ accessione (Art. 934 Cod. civ.) : un soggetto proprietario di un suolo è proprietario di tutto ciò
che si trova sopra o sotto il suolo.
Il principio dell’accessione è un principio che subisce delle deroghe stabilite dalla legge o dal titolo
è, infatti, possibile che un soggetto proprietario di un determinato suolo e quindi avente il potere di
edificare sul suo suolo può concedere questa sua facoltà ad un soggetto terzo; il terzo diventerebbe
così, titolare di un diritto reale di godimento, il diritto di superficie (Art 952 Cod. civ.).
Il diritto di superficie può consistere:
nel diritto di fare e mantenere su un suolo di un altro soggetto una determinata costruzione. Si
tratta dell’ipotesi nella quale ci troveremo difronte ad un vero e proprio diritto reale di
godimento perché la facoltà del titolare del diritto di superficie di edificare su un suolo
appartenente ad un diverso proprietario, è una facoltà che precedentemente apparteneva a
quest’ultimo. Scorporando il diritto di proprietà da questa facoltà si avrà una deroga al principio
di accessione (Art. 952 comma 1).
nella proprietà separata di una costruzione già esistente di cui è titolare un soggetto diverso
dal proprietario del suolo. In questa seconda ipotesi il proprietario ,titolare sia del suolo sia della
costruzione, potrebbe sia alienare entrambi o potrebbe, come descritto nella fattispecie dell’ art.
952 comma 2, alienare la sola costruzione; così facendo il terzo diventerebbe proprietario del
solo fabbricato.
I modi di acquisto della superficie sono il contratto, il testamento o l’usucapione. Si tratta di
acquisti, eccetto per l’usucapione, a titolo derivativo in particolare si parlerà di acquisto a titolo
derivativo costitutivo per la fattispecie al primo comma poiché il proprietario del suolo non
trasferirà il suo stesso diritto ma solo una facoltà di questo ovvero il diritto di fare e mantenere una
costruzione; laddove nella fattispecie al secondo comma si parlerà di acquisto a titolo derivativo
traslativo in quanto il proprietario del suolo e della costruzione trasferirà il suo diritto di proprietà
della costruzione ad un terzo, si tratterà quindi dello stesso diritto.
Nella seconda fattispecie si parla di un vero e proprio diritto di proprietà, come tale questo non è
soggetto a prescrizione quindi il non uso non estinguerà il diritto di superficie. Diversamente nel
primo comma , che descrive un diritto reale di godimento, se il terzo per 20 anni non ha mai
costruito alcun fabbricato sul suolo perderà il suo diritto di superficie, è pertanto soggetto a
prescrizione (Art.954 comma 4).
DIRITTO DI ENFITEUSI
(Art. 957 e seguenti Cod. civ.)
Il diritto di enfiteusi è un diritto caduto del tutto in consuetudine: sviluppatosi nel medioevo per
consentire ai grandi latifondisti di cedere in godimento una porzione dei propri terreni ai contadini
con l’obbligo di questi di migliorare il fondo e di pagare un canone in denaro o natura, interessò il
legislatore del 1942 poiché questo ipotizzò che l’enfiteusi potesse ancora avere un’utilità in termini
economici.
Il diritto di enfiteusi è un diritto che attribuisce ad un soggetto, diverso dal proprietario, il potere di
godere di un determinato immobile ( potere che solitamente spetta al proprietario) con l’obbligo di
migliorarlo e di pagare un canone periodico che può consistere in denaro o in frutti naturali al
legittimo proprietario ((Art. 960 Cod. civ.). Il potere di godimento che spetta all’enfiteuta si vuol
anche chiamare dominio utile perché questi ha sul fondo gli stessi diritti sui frutti del fondo e sul
tesoro ( Art. 959 Cod. civ.) che avrebbe un proprietario ad eccezione degli obblighi ai quali deve
rispondere e con la particolarità che essendo titolare solo dell’enfiteusi non può alienare il diritto di
proprietà del fondo ma può alienare il suo diritto di enfiteusi senza alcun consenso del proprietario (
Art. 965 Cod. civ.) (principio nemo plus iuris). Non è inoltre concesso all’enfiteuta di costituire un
ulteriore rapporto di enfiteusi con un terzo soggetto poiché così si svuoterebbe completamente il
diritto di proprietà (divieto di subenfiteusi: Art. 968 Cod. civ.)
Il diritto di enfiteusi può essere costituito o per contratto, o per testamento o per usucapione e può
essere perpetuo o temporaneo, nel caso in cui si tratti di un diritto temporaneo questo non dovrà
avere durata minore ai 20 anni (Art. 958 Cod. civ.). Come già detto il diritto dell’enfiteuta è un
diritto paragonabile a quello del proprietario e poiché trascorsi i 20 anni l’enfiteuta potrebbe
affermare di essere divenuto proprietario del fondo per usucapione, la legge prevede delle tutele per
il concedente del diritto di enfiteusi ( nonché il proprietario del fondo): al diciannovesimo anno il
proprietario richiede un atto di ricognizione all’enfiteuta, il quale riconosce l’esistenza del diritto
di godimento ( Art. 696 Cod. civ.). è un atto che ci ricorda l’interruzione nella prescrizione, infatti
l’enfiteuta riconoscendo la presenza del diritto di godimento interrompe l’eventuale termine che
sarebbe stato necessario per l’usucapione.
Il diritto di enfiteusi potrebbe estinguersi o per scadenza del termine o per devoluzione o per
affrancazione. La legge attribuisce, infatti, il potere di devoluzione al proprietario del fondo ovvero
il potere di liberare il fondo dal diritto enfiteutico in caso di inadempimento da parte dell’ enfiteuta (
Art. 972 Cod. civ.); attribuisce , invece, il potere di affrancazione all’ enfiteuta: trattandosi di un
diritto molto vicino a quello di proprietà, l’enfiteuta ha la possibilità di acquistare la proprietà del
fondo pagando un determinato prezzo di affrancazione ( Art.971 Cod. civ.), si tratta di un vero e
proprio diritto potestativo in quanto l’enfiteuta modifica la sfera giuridica di un altro soggetto senza
il suo consenso.
DIRITTO DI SERVITÚ
(Art. 1027 e seguenti Cod. civ.)
Il diritto di servitù è un diritto reale su cosa altrui che presenta caratteristiche peculiari rispetto agli
altri. Questo consiste nel peso imposto sopra un fondo, detto fondo servente, per l’utilità di un altro
fondo , detto fondo dominante, appartenenti a diversi proprietari ( Art. 1027 Cod. civ.).
Da questa definizione scaturiscono le caratteristiche del diritto di servitù:
Predialità. La parola predialità, che dà il nome alle servitù prediali, deriva dal latino e
significa fondo; è infatti importante che la servitù nasca come un rapporto tra due fondi: uno
servente che viene gravato da un peso, e uno dominante il quale riceve una utilità che può
consistere o in un miglioramento della sua potenzialità di utilizzazione o in una maggiore
amenità ( un miglioramento sotto il profilo estetico) (Art. 1028 Cod. civ.). L’utilità può
riguardare anche eventi futuri ( es. un fondo da acquistare, un edificio da costruire), in questi
casi la servitù sarà costituita solo quando l’evento si sarà realizzato ( es. il fondo sarà stato
acquistato, l’edificio sarà stato costruito) (Art. 1029 Cod. civ.). Le servitù, aventi sempre la
caratteristica di inerenza ai fondi, possiamo distinguerle in:
a. Servitù tipiche quelle previste e regolamentate dal codice civile.
b. Servitù atipiche quelle che pur non essendo previste dalla legge possono essere costituite
solo se hanno lo scopo di migliorare l’utilità del fondo dominante;
c. Servitù industriali, le servitù che hanno lo scopo di migliorare il fondo dominante a
favore dell’industria sopra installata.
Pertanto, le servitù non devono consistere in :
Un peso imposto ad una persona e non ad un fondo: la servitù infatti deve essere
suscettibile di gravare sul fondo indipendentemente se questo venga o no trasferito a
terzi. Con ciò si spiega il brocardo latino servitus in faciendo consistere nequit ovvero le
servitù devono consistere in un dovere negativo di non fare o di pati, subire. Se le servitù
dovessero consistere in un comportamento positivo e quindi in un fare la servitù
risulterebbe un peso imposto ad una persona e per tale ragione perderebbe la caratteristica
di essere prediale.
Un vantaggio a favore di una persona o di un soggetto di diritti e non di un fondo: il
beneficio della servitù deve implementare la potenzialità economica e produttiva di un
fondo e non del suo titolare questo perché altrimenti tale utilità non è suscettibile di
restare tale se il fondo viene trasferito a terzi.
Con ciò la legge non esclude che il proprietario del fondo servente venga gravato da obblighi
accessori che non sono oggetto della servitù ma sono prestazioni accessorie utili per la
funzionalità del diritto di servitù (Art. 1030 Cod. civ.).
Se una servitù avesse ad oggetto un vantaggio o un peso a favore di una persona ci
troveremmo dinanzi a servitù irregolari.
Doppia inerenza. se normalmente i diritti reali sono caratterizzati già di per loro
dall’inerenza, il diritto di servitù vedrà applicato tale principio ad entrambi i fondi: sia al
fondo dominante poiché in caso di trasferimento a terzi, il terzo avrà anch’egli il diritto di
godere della servitù; sia a quello servente poiché in caso di trasferimento sarà trasferito anche
il peso imposto dalla servitù.
Contiguità. Fondo servente e fondo dominante, anche se non confinanti devono essere vicini
ovvero devono trovarsi in una situazione topografica tale che l’uno possa arrecare utilità
dall’altro.
Appartenenza a diversi proprietari. Secondo il brocardo latino nemini res sua servit è
necessario che il fondo dominante e il fondo servente appartengano a diversi proprietari; se
Servitù coattive: sono diritti di servitù previsti espressamente dalla legge che si preoccupa del
possibile pregiudizio che possa nascere come conseguenza di una particolare situazione in cui si
trova il fondo. Al titolare di tale fondo si attribuisce il diritto potestativo di ottenere l’imposizione
della servitù sul fondo altrui dietro, però, pagamento di un’ indennità (Art. 1032 comma 1 Cod.
civ.). Per poter costituire una servitù coattiva, il proprietario del fondo che necessità di utilità dovrà
o stipulare un contratto con l’altro proprietario se questo acconsente al diritto, o rivolgersi dal
giudice che con una sentenza costitutiva farà nascere la servitù ( Art. 1032 comma 2 Cod. civ.).
Venuti meno i presupposti, sarà legittima la richiesta di estinzione della servitù che avverrà sempre
per sentenza costitutiva di un giudice (Art. 1055 Cod. civ.).
Tipici esempi di servitù coattiva sono o le servitù di acquedotto e di elettrodotto, o le servitù di
passaggio a favore di un fondo intercluso ( Art. 1051 Cod. civ.) o di un fondo non intercluso (Art.
1052 Cod. civ.); in queste ipotesi la legge garantisce ad un fondo che si trovi circondato da fondi
altrui o ha un accesso inadeguato, di costituire una servitù per poter accedere alla via pubblica. Sarà
ovviamente l’autorità giudiziaria a dichiarare l’inadeguatezza dell’accesso. L’art. 1052 tutelava
prevalentemente la costituzione di una servitù legata alle esigenze dell’agricoltura e dell’industria,
con l’entrata in vigore della Costituzione l’articolo è stato modificato ispirandosi agli articoli 2 e 3
Cost. e concedendo la possibilità di costituire una servitù agli edifici ad uso abitativo per
l’accessibilità di portatori di handicap.
Le servitù volontarie: nascono per volontà delle parti nel momento in cui uno dei fondi non si
trova nelle condizioni sfavorevoli che riconosce la legge e per tale ragione sono i proprietari che per
contratto stabiliscono la nascita del diritto di servitù. La servitù può anche essere costituita per
testamento (Art. 1058 Cod. civ.).
Per le servitù che si costituiscono con l’acquisto del diritto a titolo originario dobbiamo
distinguere le servitù apparenti da quelle non apparenti. Le servitù apparenti sono quelle al cui
esercizio sono destinate opere visibili e permanenti (es. tubazioni per la servitù di acquedotto) , le
altre ovviamente non hanno questa caratteristica.
La legge stabilisce che le servitù non apparenti possono essere costituite solo per contratto o per
testamento ( Art. 1061 Cod. civ.), le altre invece possono costituirsi per acquisto del diritto a titolo
originario e quindi per usucapione o per destinazione del padre di famiglia. Si avrà la
costituzione per usucapione quando il proprietario di un fondo esercita una servitù, senza averla, per
20 anni trascorsi i quali diventerà titolare del diritto di servitù. Diversamente sarà l’acquisto per
destinazione del padre di famiglia : in questo caso si presume (presunzione assoluta) che due fondi
appartengano ad uno stesso proprietario e che questi per migliorare l’utilità di uno dei due
costruisca delle opere permanenti e visibili; se uno dei due fondi viene venduto ad un terzo soggetto
senza che sia detto espressamente dell’esistenza della servitù, il terzo potrà usufruire dell’opera
visibile e diventerà quindi titolare del diritto di servitù.
L’esercizio della servitù è regolato dal titolo in forza del quale si è costituito il diritto (contratto,
testamento, sentenza costitutiva); all’atto della costituzione è fondamentale chiarire tale titolo
poiché sarà questo che regolamenterà la servitù (Art. 1063 Cod. civ.). La legge però ha previsto
Anche per il titolare del diritto di servitù la legge concede un’azione specifica con la quale può
ottenere il riconoscimento del diritto e quindi la cessazione di eventuali molestie o turbative, si
tratta dell’azione confessoria. Il titolare del diritto di servitù sarà detto legittimato attivamente e
sarà gravato dall’ onere della prova ovvero dovrà dimostrare di essere titolare del diritto; il
proprietario del fondo servente, sarà detto legittimato passivamente.
La comunione
Un diritto soggettivo può appartenere a più persone che sono, pertanto tutte contitolari dello stesso
diritto. In questi casi saranno applicate le disposizioni previste dall’ordinamento giuridico in tema
di comunione. La comunione è , dunque, la contitolarità dello stesso diritto in capo a più soggetti i
quali sono titolari di una quota astratta del bene che indica la “misura” della partecipazione ai diritti
e agli obblighi della cosa comune (Art 1101 Cod. civ.). Nell’ipotesi in cui le quote non sono
previste si presume che siano tutte uguali, o sono anche previste forme di “comunione senza quote”
ovvero casi nei quali il bene appartiene unitariamente al gruppo.
La disciplina della comunione risponde alla logica secondo cui il diritto di ciascun comunista
incontra dei limiti nei confronti dei diritti degli altri contitolari. Ciascun soggetto ha il potere di
godere e di disporre della cosa comune.
Per quanto riguarda il potere di godere, un comunista, anche se è titolare di una quota minima, può
servirsi del bene (Uso promiscuo della cosa comune: Art. 1102 Cod. civ.) con i limiti di:
1. Non alterare la destinazione della cosa
2. Non impedire agli altri contitolari di farne parimenti uso.
I comunisti possono concordare tra di loro il godimento nel bene nel tempo e nello spazio,
derogando alla regola dell’uso promiscuo (Art 1106 Cod. civ.). Questi hanno, inoltre il diritto di
percepire i frutti della cosa in proporzione alla loro quota e il dovere di pagarne le spese
(obbligazioni propter rem) salvi i casi in cui non rinuncino alla titolarità del diritto.
Per quanto riguarda il potere di disposizione, ciascun comproprietario può disporre del bene nei
limiti della sua quota pertanto gli atti di disposizione del bene ( quindi nei casi in cui si voglia
alienare il bene o cederlo in locazione a terzi) è necessaria l’unanimità ovvero il consenso di tutti i
contitolari ( Art. 1108 comma 3 Cod. civ.). Non è escluso però che ciascun soggetto possa alienare
solo la sua quota di partecipazione alla comunione (Art. 1103 Cod. civ.).
L’amministrazione del bene spetta a tutti i partecipanti alla comunione ma , per compiere gli atti
non è richiesto il consenso di tutti infatti ai sensi dell’ articolo 1105 Cod. civ.:
Per gli atti di ordinaria amministrazione è richiesta la maggioranza dei contitolari ovvero è
richiesto il consenso di tanti comproprietari le cui quote rappresentino più della metà del
valore complessivo del bene;
Per gli atti di straordinaria amministrazione occorre il consenso dei comunisti le cui quote
rappresentano almeno i due terzi del valore complessivo della cosa (Art 1108 Cod. civ.)
Nel caso in cui i provvedimenti per l’amministrazione della cosa comune non rispettino quanto
detto sopra, ciascun contitolare può rivolgersi all’ autorità giudiziaria; può inoltre essere richiesto
dai comproprietari un regolamento che disciplini la comunione.
È chiaro che il legislatore guarda con sfavore la comunione e per tale ragione ha previsto che:
Possa essere sciolta in qualsiasi momento da ciascun comunista (Art. 1111 comma 1 Cod.
civ.) con il presupposto che il bene venga diviso tra le parti se si tratta di un bene divisibile,
in caso contrario venga venduto con la divisione di quando guadagnato dall’alienazione. Lo
scioglimento non è consentito per i beni che se divisi perdono la loro utilità ( es. il cortile di
un condominio)
Vieta che le parti possano vincolarsi e restare in comunione per un tempo superiore ai 10
anni (Art 1111 comma 2 Cod. civ.).
Il possesso
Il possesso non è un diritto reale bensì è una situazione di fatto che in quanto tale ha una
particolare rilevanza giuridica. Il possesso è , quindi, un potere di fatto esercitato su una determinata
cosa, e il suo esercizio corrisponde al diritto di proprietà o ad un altro diritto reale a prescindere se il
possessore sia effettivamente titolare di tale diritto o no (Art. 1140 Cod. civ.). La legge assicura a
colui che semplicemente possiede la cosa determinati vantaggi: ad esempio una tutela possessoria o
la possibilità di trasformare il possesso in proprietà. Questa scelta normativa di garantire una tutela
possessoria a colui che possiede un bene seppur non ne è proprietario ( e quindi la ratio della tutela)
può spiegarsi:
Prendendo in considerazione un possessore legittimo, e quindi un possessore che è
anche titolare del diritto di proprietà del bene, la legge offre una tutela più spedita e
meno rigorosa sul piano della prova, rispetto a quelle che il codice prevede a tutela
della proprietà; infatti un proprietario che voglia difendere il suo diritto è gravato in
giudizio dall’ onere della prova che non risulta così semplice soprattutto se dovrà
rifarsi alla probatio diabolica.
Prendendo in considerazione, invece , un possessore illegittimo, la legge mira a
conservare la pace tra i consociati e quindi offrendo una tutela a colui che non è
proprietario, si vuole evitare che colui che intende opporsi a questo possesso si faccia
giustizia da sé ma, piuttosto, ricorra all’autorità giudiziale ( in caso contrario potrebbe
essere proprio il possessore illegittimo ad esperire l’azione possessoria; il proprietario
potrà esperire l’azione di rivendica solo quando la prima sarà terminata).
Oggetto del possesso sono tutti i beni materiali ad eccezione dei beni di cui non si può acquistare la
proprietà come i beni demaniali e i beni del patrimonio indisponibile dello Stato. Affinché si possa
parlare di possesso, è necessario che sussistano:
o L’elemento oggettivo, corpus, ovvero la materiale disponibilità del bene oggetto del
possesso;
o L’elemento soggettivo, animus, ovvero la volontà manifestata all’esterno di tenere la cosa
per sé e di escludere qualsiasi terzo all’ utilizzo del bene.
Prendendo in considerazione quest’ultimo elemento possiamo distinguere le situazioni
possessorie in:
Possesso pieno (corpore et animo): concorrono in questa situazione entrambi gli
elementi: il soggetto ha sia la materiale disponibilità del bene (corpus) e si comporta
come se ne fosse proprietario escludendo tutti i terzi (animus possidendi);
Detenzione: in questa situazione il soggetto è sì nella materiale disponibilità della
cosa (corpus) ma, il soggetto gode e dispone del bene nel rispetto di diritti che
riconosce spettare a terzi (animus detinendi).
Poiché non è così semplice distinguere possessore e detentore, la legge presume che un
soggetto che abbia la materiale disponibilità del bene sia possessore, salvo questi non
dimostri la prova contraria (Art. 1141 comma 1 Cod. civ. : presunzione relativa).
Ai fini di distinguere una situazione possessoria da una detentoria è necessario prendere in
considerazione il comportamento che i soggetti manifestano all’ esterno e non la loro
intenzione (ovvero lo stato psicologico che mostra al proprio interno). Non assume, infatti,
nessuna rilevanza la modifica dell’ atteggiamento del detentore che non dimostra all’
esterno; se invece tale modifica è manifestata all’ esterno, si potrebbe verificare la cosiddetta
interversione del possesso – il mutamento della detenzione in possesso (Art. 1141 comma 2
Cod. civ.) . Sostanzialmente, tale modifica la si può avere in due modi:
1. Opposizione del detentore rivolta al possessore proprietario: il detentore dimostra in
forza di un atto di continuare a possedere la cosa non più come detentore ma come
I DIRITTI DI CREDITO
Il rapporto obbligatorio
Sino ad ora si è parlato di diritti reali, che come già detto fanno parte della macro-categoria dei
diritti assoluti ossia quei diritti sulla cosa caratterizzati dall’immediatezza e assolutezza. Da questi
abbiamo già distinto i diritti relativi ossia quei diritti che concedono al proprio titolare di cooperare
con un altro soggetto per soddisfare i suoi interessi sottostanti al diritto stesso; insomma si tratta di
diritti che possono essere fatti valere sono contro una persona determinata.
Il classico caso di diritto relativo è il diritto di credito. Il titolare del diritto di credito, più
propriamente detto creditore, assume, in quanto tale, una posizione di potere che consiste nella sua
legittimazione a pretendere da un soggetto terzo , il debitore, una determinata prestazione. Il
rapporto che intercorre fra i due soggetti, attivo il primo e passivo il secondo, è detto rapporto
obbligatorio. È per questa ragione che il concetto su esposto, si può anche riassumere dicendo che
al debitore fa capo un’obbligazione e il creditore è il titolare di un diritto di credito.
Il rapporto obbligatorio è un vero rapporto giuridico che intercorre fra il creditore e il debitore nel
senso che il creditore può esigere che il debitore esegua una determinata prestazione. La legalità del
vincolo del debitore, può essere sanzionata solo con la responsabilità patrimoniale (Art. 2740 Cod.
civ.): in caso di inadempimento il debitore dovrà rispondere all’obbligazione con tutti i suoi beni
presenti e futuri; vale a dire che l’inadempimento ha conseguenze risarcitorie a carico del debitore e
a favore del creditore.
Le obbligazioni di cui abbiamo parlato sino ad ora sono dette obbligazioni civili, che non bisogna
mai confondere con le obbligazioni naturali.
Obbligazioni naturali
Le obbligazioni naturali si hanno nelle ipotesi in cui la prestazione è dovuta non in forza di un
obbligo giuridico (come per le obbligazioni civili), ma in forza di un dovere morale e sociale (Art.
2034 Cod. civ.). Il codice disciplina questa fattispecie solo per le conseguenze che potrebbe avere
l’adempimento spontaneo: il debitore non è tenuto giuridicamente ad eseguire la prestazione, ma se
la esegue non potrà chiederne la restituzione (soluti retentio: il diritto del creditore di trattenere la
prestazione eseguita Art. 2043 Cod. civ.); laddove un inadempimento non ha alcuna conseguenza
sul piano giuridico ma potrebbero esserci conseguenze sul piano morale e sociale. La soluti retentio
rappresenta l’unico effetto di un’obbligazione naturale in caso di adempimento, che però
presuppone il concorso dei seguenti presupposti:
a) Spontaneità dell’ esecuzione ovvero la prestazione deve essere eseguita senza coazione
(incoercibilità dell’obbligazione naturale);
b) La capacità del soggetto che esegue la prestazione. Di fatti, a differenza di quanto avviene
per le obbligazioni civili che sostanzialmente sono atti dovuti e quindi si attengono al
principio all’ art. 1191 Cod. civ., le obbligazioni naturali sono dei negozi giuridici per i quali
è richiesta espressamente la capacità di intendere e di volere del soggetto che esegue la
prestazione spontaneamente.
Un esempio tipico, previsto dalla legge, di obbligazione naturale è il debito di gioco.
OBBLIGAZIONI INDIVISIBILI
Le obbligazioni indivisibili, sono in generale obbligazioni che hanno ad oggetto una
prestazione che non può essere divisa in più parti o per sua natura o per volontà delle parti
(Art. 1316 Cod. civ.). L’ obbligazione plurisoggettiva indivisibile è un’obbligazione solidale
poiché c’è un espresso rinvio normativo alla disciplina di questa (Art. 1317 Cod. civ.) anche
se con qualche differenza:
l’indivisibilità della prestazione;
questo suo carattere permane anche in ipotesi di morte di uno dei creditori o di uno
dei debitori: gli eredi sono tenuti per intero ad eseguire la prestazione (Art. 1318 Cod.
civ.);
in caso di remissione fatta da uno dei condebitori, l’ obbligazione indivisibile non
libera gli altri (Art. 1320 Cod. civ.).
Obbligazioni semplici: hanno ad oggetto una sola prestazione che il debitore dovrà eseguire
per liberarsi dell’ obbligazione.
Obbligazioni alternative: hanno ad oggetto più prestazioni, ma il debitore si libera
eseguendone per intero una sola; nel senso che non può costringere il creditore a ricevere
parte di una prestazione e parte dell’ altra (Art. 1285-1286 Cod. civ.).
Obbligazioni facoltative: hanno ad oggetto una sola prestazione ma il debitore ha la facoltà
di liberarsi eseguendone un’ altra diversa.
La differenza fra le obbligazioni alternative e quelle facoltative è che nelle prime le due
prestazioni sono entrambe oggetto dell’ obbligazione, laddove nelle seconde l’oggetto dell’
obbligazione è solo una. Questa distinzione assume una decisiva importanza in caso di
impossibilità sopravvenuta perché infatti se nelle obbligazioni alternative non è più possibile
adempiere ad una delle obbligazioni, questa diventa un’obbligazione semplice (Art. 1288 Cod.
civ.); nel caso di obbligazione facoltativa se l’impossibilità riguarda la prestazione principale,
Una particolare ipotesi di obbligazione che è destinataria di una disciplina specifica è quella
delle OBBLIGAZIONI PECUNIARIE, ovvero quelle obbligazioni che hanno ad oggetto una
prestazione che consiste nel dare una somma di denaro. Le obbligazioni pecuniarie vanno
estinte mediante la moneta che ha corso legale nello stato al tempo del pagamento ( Art. 1277
comma 1Cod. civ.) o con qualsiasi altro mezzo di pagamento.
Come è noto la moneta non rappresenta un bene che per sé è capace di soddisfare i bisogni
dell’uomo, ma la sua utilità sta nel fatto che la moneta è un mezzo utilizzato per acquistare beni
e servizi con i quali soddisfare i propri bisogni. Da ciò si può dedurre che ciò che importa della
moneta non è il suo valore nominale (ovvero il suo valore numerico) ma il suo valore reale (
ovvero il suo potere di acquisto). Quest’ultimo è però soggetto ad un continuo cambiamento nel
tempo, quindi se ci troviamo di fronte ad un’obbligazione pecuniaria che deve essere
adempiuta dopo un intervallo di tempo dal momento in cui è sorta il debitore dovrà adempiere
pagando quanto pattuito in base al valore nominale o al valore reale della moneta? L’art 1277
Cod. civ., impone il principio nominalistico: il debitore dovrà adempiere all’ obbligazione
pagando, alla scadenza, la medesima quantità che era stata inizialmente fissata; quindi il rischio
che il valore reale diminuisca (cosiddetto deprezzamento monetario) graverà sul creditore.
Per tutelare il creditore da questo rischio, le parti possono concordare di indicizzare l’oggetto
della prestazione in base ad un parametro che tenga conto del cambiamento delle condizioni
economiche generali; si ricorrerà quindi all’ utilizzo di clausole di indicizzazione monetaria ( o
rivalutazione monetaria), ad esempio la clausola oro, o la clausola ISTAT.
Le obbligazioni di cu abbiamo parlato sino ad ora sono dette obbligazioni di valuta, ovvero
quelle obbligazioni la cui prestazione si estingue secondo il principio nominalistico e che sin
dall’origine consistevano nel dare una somma di denaro. Si distinguono da queste e si
sottraggono all’ applicazione del principio nominalistico le obbligazioni di valore, ossia quelle
obbligazioni che avevano ad oggetto una prestazione diversa dalla consegna di una somma di
denaro; in questo caso la moneta rappresenta solo un bene sostitutivo della prestazione
originaria ( es. obbligazione risarcitoria).
Una caratteristica particolare delle obbligazioni pecuniarie è che il loro oggetto è una somma di
danaro , che è considerato dalla giurisprudenza un bene fruttifero. I suoi frutti sono gli interessi
(Art.1282 Cod. civ.) che hanno un carattere accessorio dell’obbligazione principale: il debitore
è tenuto a pagare la prestazione pecuniaria più gli interessi maturati nel caso in cui
l’obbligazione sia liquida (determinata nel suo ammontare) ed esigibile (scaduta). A seconda
della fonte, gli interessi si distinguono in:
o Legali: se sono dovuti in forza di una previsione di legge ( Art. 1499-1815 Cod. civ.)
o Convenzionali: se sono dovuti in forza di un accordo tra le parti
Se si esamina la loro funzione distinguiamo:
o Interessi corrispettivi: hanno una funzione di corrispettivo del godimento di capitali
concesso a terzi ( si tratta dei frutti civili ai sensi dell’art. 820 comma 3 Cod. civ.). Un
esempio di capitale soggetto a interessi corrispettivi è il mutuo (Art. 1815 Cod. civ.).
o Interessi compensativi: hanno una funzione compensativa nel senso che compensano il
creditore del danno sofferto a seguito di una determinata circostanza (cd: obbligazioni di
valore).
o Interessi moratori: sono una vera e propria sanzione prevista o dalla legge o dalle parti in
ipotesi di ritardo dell’adempimento di un’obbligazione pecuniaria (Art. 1224 Cod. civ.).
Gli interessi di un’ obbligazione sono determinati in misura percentuale (saggio o tasso di
interesse) proporzionalmente all’ entità dell’obbligazione principale (capitale) e al tempo in cui
Ai due soggetti originari del rapporto obbligatorio potrebbero, durante il corso di questo, sostituirsi
o aggiungersi degli altri. Saremo quindi dinanzi ad una modificazione soggettiva del rapporto
obbligatorio; questo può avvenire:
a) Per successione a titolo universale (la modificazione riguarda tutti i rapporti che fanno parte
del patrimonio del dante causa);
b) Per successione a titolo particolare (le modificazioni riguardano il singolo rapporto)
Tenendo in considerazione questa seconda ipotesi, dobbiamo distinguere:
I. L’ ADEMPIMENTO
Come già detto, l’obbligazione è un rapporto giuridico nel quale il soggetto passivo, nonché il
debitore , è tenuto ad eseguire una determinata prestazione nei confronti del soggetto attivo, il
creditore. L’esatta esecuzione della prestazione dovuta è detta adempimento (o pagamento).
Al fine di poter eseguire esattamente la prestazione e quindi garantire al creditore di soddisfare il
suoi interessi con il pagamento , il debitore deve comportarsi secondo la diligenza del buon
padre di famiglia nel senso che deve curare con attenzione sia i preparativi dell’ adempimento
sia l’esecuzione vera e propria della prestazione (Art. 1176 Cod. civ.). Ovviamente il grado di
diligenza richiesto cambierà a seconda dell’oggetto dell’ obbligazione e a seconda delle
competenze del debitore; alla prestazione vengono aggiunte anche delle prestazioni di carattere
accessorio che ad esempio troviamo agli articoli 1177, 1178 Cod. civ. , nei quali rispettivamente,
il debitore ha l’obbligo di custodire il bene nel caso di prestazioni che consistono nella consegna
di cose determinate (Art. 1177 Cod. civ.), mentre ha l’obbligo di consegnare cose che non
vadano al di sotto della qualità media in caso di obbligazione generica (Art. 1178 Cod. civ.).
Se il debitore eseguisse un adempimento parziale, il creditore se vuole può rifiutarlo sempre se il
rifiuto non risulti in mala fede.
La compensazione
L’ istituto della compensazione si ha quando fra due soggetti intercorrono rapporti obbligatori
reciproci, ovvero un soggetto è sia creditore che debitore dell’ altro (Art. 1241 Cod. civ.). Di regola
la compensazione si verifica per qualunque titolo di debito salvo i casi espressamente previsti dalla
legge all’ articolo 1246 Cod. civ.
La legge prevede tre tipi di compensazione:
a) Compensazione legale (Art. 1243 comma 1 Cod. civ.): si ha allorquando i crediti reciproci
sono:
o Omogenei nel senso che hanno lo stesso oggetto;
o Liquidi cioè sono determinati nel loro ammontare;
o Esigibili ovvero suscettibili di poter essere fatti valere in giudizio (è scaduto il termine di
adempimento.
b) Compensazione giudiziale (Art. 1243 comma 2 Cod. civ.): essa opera nel corso di un giudizio
nel momento in cui sia invocato un credito liquido ed esigibile da una parte, mentre l’altra parte
oppone in compensazione un credito omogeneo ed esigibile che però non è ancora liquido. Il
giudice può dichiarare l’estinzione per compensazione solo se quest’ultimo credito sia di facile
e pronta liquidazione.
c) Compensazione volontaria (Art. 1252 Cod. civ.): non richiede l’intervento di un giudice, ma
sorge in seguito ad un accorto fra le parti secondo il quale i soggetti si impegnano a rinunciare
in parte o totalmente ai rispettivi crediti anche nei casi in cui non siano liquidi, omogenei ed
esigibili.
Nei casi in cui opera la compensazione legale e giudiziale, l’estinzione dei crediti si ha allorquando
questi abbiano iniziato a coesistere, quindi opera sempre retroattivamente. Affinché possa parlarsi
di compensazione è necessario che una parte eccepisca in giudizio l’altra parte (opera in via di
eccezione) , la compensazione non può essere rilevata di ufficio dal giudice (Art. 1242 comma 1
Cod. civ.). Possono opporre compensazione anche i terzi garanti (Art. 1247 Cod. civ.).
La confusione
Si ha la confusione quando le qualità di creditore e di debitore si riuniscono nella stessa persona,
in questo modo l’obbligazione si estingue(Art. 1253 Cod. civ.). Un esempio di estinzione per
confusione si potrebbe avere in caso di morte del creditore\ debitore e questi lascia come suo
unico erede il debitore\creditore.
Gli effetti della confusione naturalmente liberano anche gli eventuali terzi garanti, poiché le
garanzie seguono le sorti dell’obbligazione. Eccezion fatta, però, per la fideiussione ovvero se
per una qualsiasi causa viene a mancare nel rapporto obbligatorio il debitore originario il suo
posto sarà preso dal suo fideiussore, quindi l’obbligazione resta in vita (Art. 1255 Cod. civ.).
La novazione
La novazione è un contratto con il quale i soggetti di un’obbligazione, sostituiscono il rapporto
obbligatorio originario con uno totalmente nuovo avente autonome situazioni giuridiche rispetto
al precedente. La novazione si distingue tra:
Novazione soggettiva: si ha novazione nel momento in cui il rapporto obbligatorio viene
modificato dal lato passivo, quindi si ha novazione in ipotesi di delegazione passiva,
espromissione e accollo (Art. 1235 Cod. civ.). In tutti questi casi l’obbligazione non si
estingue ma cambiando il soggetto sorge una nuova obbligazione (vedi art. 1275- 1276 Cod.
civ.).
Novazione oggettiva: si ha novazione quando l’originaria obbligazione viene sostituita con
una nuova avente oggetto o titolo diverso (Art. 1230 Cod. civ.). Perché si abbia novazione
oggettiva è necessaria la presenza di due presupposti:
La remissione
La remissione consiste in un atto unilaterale in forza del quale il creditore rinuncia, totalmente o
parzialmente, al suo diritto di credito. Nel momento in cui questa dichiarazione è comunicata al
debitore l’obbligazione si estingue, salvo i casi in cui non sia proprio il debitore a rinunciare alla
remissione comunicandolo entro un congro termine (Art. 1236 Cod. civ.). La remissione può
essere sia espressa (Art. 1236 Cod. civ.), che tacita (Art. 1237 Cod. civ.). Quest’ultima
fattispecie si configura qualora il creditore restituisca al debitore il titolo dal quale risulta il suo
diritto di credito, nei casi in cui si tratti di un atto pubblico il creditore dovrà consegnare una
copia spedita in forma esecutiva. L’estinzione dell’obbligazione per remissione importa
automaticamente l’estinzione delle garanzie (At. 1239 Cod. civ.); se , invece, il creditore
rinuncia solo alle garanzie, il rapporto obbligatorio non sarà estinto (Art. 1238 Cod. civ.).
L’impossibilità sopravvenuta
Si ha l’estinzione del rapporto obbligatorio per impossibilità sopravvenuta solo qualora la causa
non sia imputabile al debitore. Per tale intendendosi una situazione non prevedibile al
momento della nascita del rapporto obbligatorio o una situazione che può essere superata solo
con uno sforzo superiore a quello che legittimamente può essere richiesto al debitore (Art. 1256
Cod. civ.). Il problema, per comprendere se è possibile superare questa situazione impeditiva, è
individuare se la condotta sia esigibile o no dal debitore: nel caso in cui la condotta sia esigibile,
l’obbligazione permane e il debitore è tenuto ad adempiere; nel caso contrario l’obbligazione si
estingue.
L’impossibilità va ,poi, distinta in:
a) Impossibilità definitiva nel senso che la causa impeditiva è irreversibile e pertanto
l’obbligazione si estingue automaticamente (Art. 1256 comma 1 Cod. civ.)
L’inadempimento
Come già detto, il debitore è tenuto ad adempiere in modo esatto, totale e tempestivo, se così non
fosse si deve parlare di inadempimento. Si ha quindi inadempimento quando il debitore non esegue
l’intera prestazione (inadempimento totale) o quando la esegue non utilizzando la diligenza, la
perizia e la prudenza richiesta o non rispettando quanto pattuito dalle parti (inadempimento
parziale o adempimento inesatto). Non sempre però si può parlare di inadempimento qualora il
debitore non esegua entro i termini del contratto la prestazione, potrebbe infatti trattarsi di un
semplice ritardo ma ciò che è rilevante in questi casi è l’interesse del creditore ad un adempimento
tardivo; a tal proposito distinguiamo:
L’inadempimento assoluto qualora la prestazione non è stata adempiuta ed è escluso che
possa essere effettuata in futuro poiché è venuto a mancare l’interesse del creditore;
L’inadempimento relativo qualora, invece, si tratta di un semplice ritardo e quindi il
debitore può adempiere anche in futuro ma solo nelle fattispecie in cui il creditore sia
d’accordo ad un adempimento tardivo.
In ogni ipotesi il debitore è tenuto al risarcimento del danno salvo i casi in cui questi non provi
che ciò deriva da un’impossibilità sopravvenuta per causa a lui non imputabile (Art. 1218 Cod.
civ.); in quest’ultimo caso l’obbligazione si estingue e il debitore non è più tenuto al risarcimento
del danno. In tutti gli altri casi il debitore è sempre tenuto al risarcimento in caso di inadempimento.
In caso di inadempimento assoluto alla prestazione originaria si sostituisce la prestazione
risarcitoria; in ipotesi di inadempimento relativo, invece, la prestazione risarcitoria si aggiunge
alla prestazione originaria.
Il creditore che agisce in giudizio per il risarcimento del danno è tenuto solo ad esibire il titolo dal
quale risulta che il suo diritto è esistente; grava sul debitore l’onere di provare il suo adempimento o
che la prestazione non può più essere eseguita per causa a lui non imputabile (Art. 1218 Cod. civ.).
A seconda dei casi, la responsabilità risarcitoria si distingue in:
Responsabilità per colpa: il debitore va esente da responsabilità nei casi in cui dimostri che
abbia impiegato la diligenza (es. Art. 1587 n.1 Cod. civ., uso della casa locata da parte del
conduttore deve rispettare quanto stabilito dal contratto di locazione), la prudenza e la
perizia che gli sono state richieste per l’adempimento. Nel momento in cui non venga usata
la diligenza, la prudenza e la perizia il debitore sarà responsabile per colpa.
Il problema in questo caso sorge nel definire quale sia il grado di diligenza dovuto dal
debitore: il codice ai sensi dell’ articolo 1176 Cod. civ., stabilisce che la diligenza cambia a
seconda della prestazione dovuta e delle competenze e qualifiche del debitore.
Responsabilità senza colpa: il debitore è responsabile anche se nessuna colpa è a lui
imputabile (es. Art. 1693 Cod. civ. , il vettore è responsabile di perdita o avaria delle cose
che deve consegnare; responsabilità per le obbligazioni assunte da un imprenditore). Un’
analoga situazione la si riscontra nelle obbligazioni generiche (Art. 1178 Cod. civ.), in
questo caso il rapporto non si estingue per impossibilità sopravvenuta in quanto “genus
numquam perit” ossia il genere non perisce mai.
Come già anticipato, il debitore deve, come conseguenza del suo inadempimento assoluto o
relativo che esso sia, risarcire il danno. Il nostro ordinamento prevede il risarcimento in quanto
mira a porre il creditore in una situazione giuridico economica equivalente a quella in cui si
sarebbe venuto a trovare in ipotesi di corretto adempimento. Per poter ottenere il risarcimento
del danno il creditore deve dimostrare al giudice che realmente ne ha diritto e che ha subito un
danno immediatamente e direttamente causato dall’ inadempimento (nesso di causalità : art.
1223 Cod. civ.).
Il danno deve essere composto da:
Come in tutte le fattispecie che sino ad ora sono state esaminate, nel momento in cui un diritto non
trova la sua attuazione spontanea mediante i soggetti che sono tenuti a determinati comportamenti,
sarà necessario far ricorso al giudice sempre rispettando il principio generale secondo il quale non
ci si può far giustizia da soli. Al giudice sarà richiesta la spettanza del diritto, nonché l’accertamento
dell’ esistenza di questo e una sentenza con la quale si obbliga a tenere un determinato
comportamento, che non si è tenuto in precedenza; ovviamente tale sentenza di condanna non sarà
sempre possibile pertanto il giudice ricorrerà ad una misura alternativa che sarà quella del
risarcimento del danno.
Premesso questo, se in un rapporto obbligatorio il debitore non adempie la prestazione, il creditore
potrà promuovere un processo esecutivo sui beni del debitore. Ovviamente a seconda del tipo di
prestazione non eseguita, si avrà un processo esecutivo di carattere diverso: il creditore potrà
ottenere l’esecuzione coattiva del suo credito in forma specifica, nel senso che il credito non potrà
estinguersi adempiendo con una prestazione diversa da quella precedentemente pattuita (es.
l’obbligo di consegnare una cosa determinata, l’obbligo di un fare fungibile ecc.); il creditore potrà
promuovere l’espropriazione dei beni del debitore secondo le regole del codice di procedura civile
(Art. 2910 Cod. civ.) ossia è riconosciuto in capo al creditore il diritto di rifarsi sui beni del debitore
non direttamente bensì richiedendo l’espropriazione e la vendita di questi mediante asta pubblica
governata dall’ autorità giudiziale o terzi delegati da questa, e soddisfarsi sul ricavato.
Ma quali sono i beni del debitore che possono essere espropriati? Ai sensi dell’ articolo 2740 Cod.
civ., il debitore risponde dell’ adempimento dell’ obbligazione con tutti i suoi beni presenti e futuri
quindi anche dei beni acquistati dopo il sorgere dell’ obbligazione. Quindi l’intero patrimonio del
debitore costituisce una garanzia generica del creditore, con l’avvertenza, però, che se il bene
fuoriesce dal patrimonio il creditore non ha alcun diritto di sottoporlo ad azione esecutiva.
Se è pur vero che ciascun soggetto ha un solo patrimonio, tuttavia la legge prevede alcune deroghe
ossia stabilisce che taluni beni possano far parte di un patrimonio separato (es. fondo patrimoniale ,
un insieme di beni che i coniugi destinano al soddisfacimento dei bisogni della famiglia: Art. 167
Cod. civ., o il trust ovvero un insieme di beni destinati ad un unico scopo e amministrati da un
trustee in nome e per conto del beneficiario). Su questo patrimonio separato, possono agire solo i
creditori indicati dal legislatore (nell’ esempio potranno agire sul fondo patrimoniale solo i
creditori di un debito contratto per far fronte ai bisogni della famiglia; sul trust potranno agire solo i
creditori i cui crediti sono sorti nel perseguimento dello scopo a cui sono destinati i beni).
La garanzia del creditore sarà costituita solo per i diritti patrimoniali, e non quelli personali.
Se un soggetto è debitore di più creditori questi avranno egual diritto sul suo patrimonio, e quindi
un egual diritto di soddisfarsi con il ricavato della vendita all’ asta dei beni secondo il principio
generale della par condicio creditorum (Art. 2741 Cod. civ.). Se il ricavato della vendita dovesse
essere insufficiente per soddisfare tutti i creditori, la regola generale stabilisce che tutti dovranno
subire una proporzionale diminuzione del proprio credito, ossia il fenomeno della cosiddetta
falcidia.
Tuttavia la legge prevede una eccezione alla par condicio creditorum, infatti assicura il
soddisfacimento dell’interesse di alcuni creditori, o meglio i creditori ai quali riconosce una causa
legittima di prelazione, rispetto agli altri (Art. 2741 comma 2 Cod. civ.); nei casi in cui ci siano
creditori ai quali sono riconosciute le cause legittime di prelazione, non si verificherebbe il
fenomeno della falcidia poiché saranno prima soddisfatti questi e in seguito gli altri creditori che
vengono detti chirografari ossia quelli muniti del solo documento del titolo privo di cause legittime
di prelazione
Il privilegio
Il privilegio è una causa legittima di prelazione nel senso che la legge accorda, a suo riguardo, una
preferenza in considerazione della particolare natura del diritto di credito che assiste (Art. 2745
Cod. civ.).
Solitamente i crediti sui quali assistono i privilegi vengono considerati dal legislatore come
particolarmente meritevoli di una tutela, è per questa ragione che la legge assicura una causa
legittima di prelazione infatti si pensi che sono assistiti da privilegi i crediti di carattere tributario ( i
crediti del fisco). I creditori previlegiati, ossia i creditori titolari del diritto assistito dal privilegio,
sono considerati con particolare favore dal legislatore e quindi vengono preferiti nella distribuzione
del ricavato della vendita forzata dei beni, rispetto ai creditori chirografari.
La fonte del privilegio è sempre e comunque la legge ossia questo non può essere costituito da un
accordo tra le parti in alcuni casi , però, può essere richiesta la convenzione delle parti per la sua
costituzione (Es. art. 2775 Cod. civ.: la costituzione del privilegio sui crediti che sorgono per opere
di miglioramento e di bonifica è prevista dalla legge ma subordinata alla convenzione delle parti) e
talvolta può essere subordinata a particolari forme di pubblicità (Es. art. 2762 Cod. civ.: il venditore
di macchine che ne ha venduta una ad un prezzo superiore i 15,49 €, ha privilegio per il prezzo che
non è stato pagato. Questo privilegio è subordinato alla trascrizione dei documenti nel apposito
registro.) (Art. 2745 Cod. civ.).
Il privilegio può essere:
a) Generale (Art. 2747 comma 1 Cod. civ.) : può avere ad oggetto esclusivamente i beni
mobili del debitore. Il privilegio generale non costituisce alcun diritto soggettivo ma un
modo di essere del credito. A differenza dei diritti reali, il privilegio non attribuisce lo ius
sequelae con la conseguenza che può essere esercitato solo fin quando i beni mobili fanno
parte del patrimonio del debitore, pertanto se il bene è stato trasferito a terzi, il creditore non
può far valere il privilegio generale.
b) Speciale (Art. 2747 comma 2 Cod. civ.): rappresenta un vero e proprio diritto reale di
garanzia che può avere ad oggetto beni mobili e immobili specialmente individuati cioè
determinati. Poiché è un diritto reale di garanzia, il privilegio speciale attribuisce al creditore
lo ius sequelae ovvero la facoltà di esercitare questo diritto anche sui terzi acquirenti: chi
acquista il bene dopo la costituzione del privilegio deve subirlo.
In alcuni casi, l’esistenza del privilegio è subordinata alla condizione che il bene si trovi in
un determinato luogo (ad esempio, l’art. 2757 comma 2 Cod. civ., stabilisce che il privilegio
sui frutti si può esercitare finché i frutti si trovano nel fondo); o può richiedere che il bene
sia in possesso del creditore (Art. 2756 Cod. civ.: privilegio possessuale).
Poiché è possibile che esistano più cause di prelazione in capo a diversi creditori ma sullo stesso
bene, la legge stabilisce un ordine di preferenza: il pegno è preferito al privilegio speciale sui
mobili mentre il privilegio speciale sugli immobili è preferito all’ ipoteca (Art.2748 Cod. civ.),
salvo diversa disposizione di legge (es. art. 2772 Cod. civ. : i privilegi possono avere ad oggetto le
imposte indirette , questi in particolare hanno una priorità nei confronti delle altre cause legittime di
prelazione).
Le altre cause di prelazione sono pegno ed ipoteca: cause che come il privilegio speciale sono dei
diritti reali. La loro appartenenza a questa categoria di diritti ci fa comprendere che come tali hanno
ad oggetto una res in particolare il pegno ha ad oggetto i beni mobili, l’ipoteca i beni immobili.
Logica conseguenza della diversità della natura del bene è la disciplina che si applica ai due istituti,
infatti per poter mettere i terzi nella condizione di conoscere l’esistenza di questo diritto che grava
sul bene sarà necessario lo spossessamento per il pegno, e particolari forme di pubblicità per
l’ipoteca.
Ulteriori caratteristiche dei diritti reali e che caratterizzano anche il pegno e l’ipoteca sono
sicuramente l’inerenza ossia quando un bene è gravato dal pegno o dall’ ipoteca, questo può essere
fatto valere anche nei confronti dei terzi acquirenti del bene (infatti si dice che al creditore è
attribuito lo ius sequelae); l’ assolutezza nel senso che qualsiasi terzo deve astenersi dal ledere
l’interesse del titolare del diritto, nonché il creditore in questo caso. Dei dubbi sorgono sul carattere
dell’immediatezza che caratterizza i diritti reali in generale ma che difficilmente potrebbe essere
ravvisato in ipotesi di pegno ed ipoteca: immediatezza sta a significare che il titolare del diritto può
soddisfare i suoi interessi con un rapporto diretto con la res senza la necessità che collabori un terzo
soggetto; per il pegno e l’ipoteca, il creditore titolare di questi diritti non può soddisfarsi
direttamente sul bene perché a lui è riconosciuta solo la facoltà di far espropriare i beni e farli
vendere in un asta pubblica con l’ausilio di un’autorità giudiziaria, solo in seguito potrà soddisfarsi
in via preferenziale sul ricavato della vendita.
Ovviamente i diritti di pegno ed ipoteca sono diritti reali su cosa altrui e vengono definiti diritti
reali di garanzia. I diritti reali di garanzia si differenziano dai diritti reali di godimento in quanto
quest’ultimi limitano il potere di godimento del proprietario mentre i diritti reali di garanzia
limitano la disponibilità del bene nel senso che rappresentano un disincentivo per il terzo ad
acquistare il bene gravato da pegno o ipoteca.
In sintesi, il diritto di pegno ed ipoteca attribuiscono al creditore:
Ius distraendi ossia la facoltà di far espropriare il bene oggetto del diritto reale di garanzia e
quindi di farlo vendere mediante procedura esecutiva. L’espropriazione avviene secondo le
norme del codice di procedura civile secondo il quale dovrà essere attuata da un ufficiale
giudiziario.
Ius prelazionis ossia il diritto di essere preferito rispetto agli altri creditori nella
distribuzione del ricavato della vendita del bene.
Ius sequelae ossia il potere del creditore di potere di far espropriare il bene, il diritto reale
di garanzia potrà essere fatto valere nei confronti dei terzi acquirenti. Si tratta di un potere
che si ricollega all’inerenza e deve fare i conti con le particolari norme che disciplinano la
circolazione dei beni oggetto dei diritti.
I diritti reali di garanzia, a differenza del privilegio generale, hanno sempre ad oggetto beni
determinati.
A differenza del privilegio speciale che può costituirsi solo per via legale, nel senso che si applica
ai soli casi previsti dalla legge, il pegno e l’ipoteca richiedono un loro titolo costitutivo, ciò si
spiega il perché possono essere anche concessi da un terzo (che rappresenta una figura diversa dal
garante del credito, in quanto il terzo datore di pegno o ipoteca, risponde dell’ inadempimento solo
con il bene assistito dai diritti reali di garanzia).
Il diritto di pegno e quello di ipoteca sono rapporti accessori nel senso che presuppongono
l’esistenza di un credito e ne garantiscono l’adempimento. Per questa loro caratteristica seguono la
sorte del credito se quindi perisce il bene assistito da pegno o ipoteca questi si estingueranno.
Da quello che emerge dall’ art. 2741 Cod. civ. , le cause legittime di prelazione sono un principio di
tipicità nel senso che essendo una deroga al principio della par condicio creditorum le cause di
prelazione si presentano in un numero limitato previsto dalla legge: è vietato alle parti di costituire
Il pegno
Il diritto di pegno è un vero e proprio diritto reale di garanzia avente ad oggetto beni mobili non
registrati, crediti, universalità di mobili o diritti reali mobiliari (es. usufrutto di cose mobili) (Art.
2784 comma 2 Cod. civ.). La legge ammette il pegno rotativo che si ha quando le parti si
accordano sulla possibilità di sostituire con altri beni quelli originariamente costituiti in garanzia;
mentre vieta il suppegno ossia vieta di concedere in pegno un altro diritto di pegno (Art. 2792 Cod.
civ.).
Caratteristiche del pegno, che caratterizzano anche il diritto di ipoteca sono:
L’ indivisibilità: nel senso che il diritto di pegno non può essere diviso, se il bene dato
in pegno subisce un frazionamento, il pegno grava su ogni singola parte (Art. 2799 Cod.
civ.).
La specialità : il diritto di pegno grava sempre su beni determinati.
Il diritto di pegno può essere costituito a favore del creditore mediante apposito accordo contrattuale
dal debitore o da un terzo, l’accordo si perfeziona con la consegna della cosa al creditore (Art. 2786
comma 1 Cod. civ.) o ad un terzo (Art. 2786 comma 2 Cod. civ.). La consegna nel pegno è
necessaria affinché si possa rendere visibile ai terzi il vincolo posto su un determinato bene, proprio
perché per la caratteristica dell’ inerenza il pegno può essere fatto valere anche nei confronti dei
terzi acquirenti.
Oltre la consegna, per la costituzione del pegno è necessario osservare una serie di formalità che
variano a seconda della tipologia del bene su cui grava e sul suo valore economico, questo per
assicurare al creditore lo ius prelazionis. Infatti:
Il contratto costitutivo deve risultare da atto scritto avente data certa qualora il bene
garantito eccede la somma di 2,58 € (Art. 2787 comma 3 Cod. civ.). In particolare se
l’oggetto del pegno è un credito, è necessaria la notifica al debitore della costituzione o la
sua accettazione con un atto avente data certa (Art. 2800 Cod. civ.).
Dall’atto costitutivo devono risultare specificatamente il credito garantito e il suo
ammontare, o il bene costituito in pegno.
Permanenza del possesso del bene in capo al creditore o al terzo (Art. 2787 comma 2 Cod.
civ.).É per questa ragione che per la costituzione del pegno è previsto lo spossessamento del
bene ossia la consegna della cosa al creditore.
L’ipoteca
L’ ipoteca è un diritto reale di garanzia che attribuisce al creditore il potere di espropriare il bene
ipotecato e di soddisfare il suo interesse sul ricavato della vendita dello stesso bene (Art. 2808
comma 1 Cod. civ.). In quanto tale , il diritto di ipoteca attribuisce al creditore lo ius distraendi, lo
ius prelazionis e lo ius sequelae. Il diritto di ipoteca può avere ad oggetto beni immobili, mobili
registrati, le rendite dello Stato e i diritti reali immobiliari (ad eccezione delle servitù)(Art. 2810
comma 2 Cod. civ).
Come già detto, il diritto di ipoteca, così come il diritto di pegno, presenta alcuni caratteri come:
L’indivisibilità: nel senso che il diritto grava per intero sopra tutti i beni vincolati e sopra
ciascuna parte se il bene è stato diviso. (Art. 2809 comma 2 Cod. civ.)
La specialità: possono essere vincolati solo beni determinati e l’ipoteca deve essere
determinata nel suo ammontare così da permettere ai terzi di conoscere la sua entità e quindi
si rende riconoscibile il limite massimo entro il quale il creditore potrà far valere il suo
diritto.
Una caratteristica che distingue l’ipoteca dal pegno, proprio per la natura diversa dei beni oggetto
del diritto di pegno ed ipoteca, la costituzione dell’ ipoteca è subordinata ad un sistema di
pubblicità: l’ipoteca ha ad oggetto beni per i quali sono previsti dei sistemi di trascrizione nei
pubblici registri pertanto lo stesso diritto di ipoteca deve essere pubblicizzato pena la sua
costituzione per tale ragione si parla di pubblicità costitutiva (Art. 2808 comma 2 Cod. civ.).
In base alla fonte del diritto di ipoteca ossia il titolo dal quale deriva il diritto potestativo di iscrivere
l’ipoteca nei registri immobiliari, possiamo distinguere:
L’ipoteca legale. Si parla di ipoteca legale quando la legge consente a determinati soggetti
di procedere all’iscrizione dell’ipoteca in considerazione della causa del credito, senza che
occorra la volontà del debitore (Art. 2817 Cod. civ.). L’ipoteca legale spetta :
1. All’ alienante a garanzia del pagamento dell’ acquirente di quanto pattuito;
2. Ai coeredi, ai soci e agli altri condividenti a garanzia del pagamento delle somme
dovute da chi ha ricevuto un bene nella divisione che ha un valore maggiore rispetto
alla quota che gli spettava.
L’ipoteca legale viene iscritta d’ufficio nel momento in cui in seguito all’ atto di
alienazione o divisione, viene presentata la trascrizione del bene, a meno che non vi sia
espressa rinuncia da parte del creditore (Art. 2834 Cod. civ.): nel momento in cui si aliena
un immobile nell’atto di compravendita ci sarà sempre una clausola che riguarda la rinuncia
dell’ ipoteca legale per evitare che il conservatore (colui che iscrive nei pubblici registri
Come già detto, la pubblicità nel diritto di ipoteca ha funzione costitutiva. Dalla natura costitutiva
della pubblicità deriva un’importante conseguenza: l’ordine di preferenza tra diverse ipoteche su
uno stesso bene a favore di più creditori è determinato dall’iscrizione e non dalla priorità del titolo.
In altre parole, ad ogni iscrizione viene associato un numero d’ordine che corrisponde al grado
dell’ ipoteca, che assume importanza qualora su uno stesso immobile ci siano più ipoteche (Art.
2852 Cod. civ.); il conflitto fra più ipoteche è risolto in base al grado dell’ ipoteca, quindi il
creditore che per primo ha iscritto la sua ipoteca prevarrà sugli altri creditori. La pubblicità
ipotecaria si attua mediante:
Iscrizione ossia l’atto con il quale prende vita l’ipoteca. L’iscrizione si esegue presso
l’ufficio dell’ Agenzia dell’ entrate del luogo in cui si trova l’immobile. L’atto deve risultare
da atto pubblico, in questo caso è necessario che sia consegnata una copia dell’ atto, o
scrittura privata autenticata (Art. 2827 Cod. civ.). L’iscrizione viene effettuata mediante una
nota nella quale vengono riassunti, in forma sintetica, i contenuti del titolo costitutivo dell’
ipoteca in particolare deve contenere tutte le informazioni di cui all’articolo 2839 Cod. civ.
Annotazione utilizzata per rendere pubbliche le vicende circolatorie del credito assistito da
ipoteca , pertanto nel caso in cui si voglia trasferire un credito assistito da ipoteca è
necessario registrare nei registri immobiliari la modifica del vincolo (Art. 2843 Cod. civ.).
Anche l’annotazione, che si esegue a margine dell’iscrizione, ha un’efficacia costitutiva:
finché non avviene l’annotazione, la trasmissione non ha alcun effetto. L’annotazione ha la
funzione di rendere conoscibile ai terzi che da quel momento il soggetto avente diritto di
prelazione non è il creditore originario, ma il creditore al quale è stato trasferito.
Rinnovazione: l’ipoteca ha durata massima di vent’anni dalla data di iscrizione, quindi al
termine di questi il diritto di ipoteca si estingue. Tuttavia il creditore ha la possibilità, prima
che trascorra il ventennio, di rinnovare l’iscrizione nel registro immobiliare mantenendo
sempre lo stesso grado (Art. 2847 Cod. civ.). Se il creditore non provvede alla rinnovazione,
può al più procedere ad una nuova iscrizione ipotecaria che , però, prenderà un nuovo grado
in base al momento della sua iscrizione (Art. 2848 Cod. civ.).
La cancellazione: è una causa estintiva dell’ ipoteca (Art. 2878 comma 1 Cod. civ.) e si ha
allorquando concorra all’ estinzione un atto di consenso alla cancellazione (Art. 2882 Cod.
civ.). La cancellazione può essere consentita o dal creditore con un atto di consenso che
dovrà rispettare tutte le formalità richieste dalla legge, o dal giudice con una sentenza
passata in giudicato. Ovviamente la cancellazione non è la sola causa estintiva dell’ipoteca
Il diritto di ipoteca in quanto diritto reale di garanzia è caratterizzato, come già detto in precedenza,
dall’inerenza e quindi dallo ius sequelae del creditore, pertanto potrà essere fatto valere anche nei
confronti dei terzi acquirenti. Il terzo acquirente di un bene ipotecato, dovrà rispondere non con
tutti i suoi beni ma solo con il bene su cui grava l’ipoteca pertanto sarà costretto a subire le pretese
dei creditori. Per tale ragione la legge lo ritiene meritevole di considerazione, infatti gli concede di
evitare l’espropriazione del bene mediante una delle seguenti facoltà (Art. 2858 Cod. civ.):
a) Pagare i crediti a garanzia dei quali è iscritta l’ipoteca, acquistando
conseguentemente un diritto di credito nei confronti del debitore ipotecario (si tratta di
un fenomeno riconducibile alla surrogazione o all’adempimento effettuato da terzi);
b) Rilasciare il bene ipotecato ai creditori;
c) Liberare l’immobile dall’ ipoteca mediante un procedimento di purgazione delle
ipoteche ossia la possibilità di pagare ai creditori il prezzo stipulato per l’acquisto (Art.
2889 Cod. civ.).
Le cause di estinzione dell’ ipoteca sono quelle indicate dall’ articolo 2878 Cod. civ.: oltre quelle
già citate della cancellazione e del passaggio del ventennio , l’ipoteca si estingue con l’estinzione
dell’obbligazione garantita, con il perimento del bene garantito o mediante rinuncia del creditore.
Come già detto, il patrimonio del debitore è una garanzia generica dei creditori secondo quanto
stabilito dal principio generale dell’ articolo 2740 pertanto questi hanno interesse affinché venga
mantenuto nella sua consistenza. Se durante la vita del rapporto obbligatorio il debitore inizi a
compiere atti che portano al depauperamento del suo patrimonio (non ha rilevanza se si tratti di
attività a carattere negativo o positivo), di conseguenza sarà danneggiata la garanzia dei creditori:
per far fronte a questo rischio la legge riconosce al creditore alcune tutele volte ad assicurare la
conservazione della garanzia patrimoniale (cd. mezzi di conservazione della garanzia
patrimoniale). Questi mezzi sono:
Ovviamente tutte le regole sino ad ora citate dovranno fare i conti con le vicende circolatorie
del bene: se si tratta di un bene immobile sarà necessaria la trascrizione della domanda
giudiziale, se si tratta di un bene mobile bisognerà valutare se potrà essere applicato il
principio possesso vale titolo che escluderà una qualsiasi azione revocatoria in quanto è un
acquisto a titolo originario.
I CONTRATTI IN GENERALE
Nozione
Il negozio giuridico è una sottocategoria dell’ atto giuridico che definiamo come quell’ atto di
volontà idoneo a produrre degli effetti giuridici mediante un atto di autonomia ossia le parti sono
libere di regolare i loro interessi. La più importante figura di negozio giuridico è quella del
contratto definito come l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro,
un rapporto giuridico patrimoniale (Art. 1321 Cod. civ.).
Dalla definizione è semplice cogliere come il contratto sia uno strumento utilizzato dalle parti per
realizzare determinati interessi attraverso la produzione di effetti giuridici. Il rapporto giuridico che
si viene a creare fra questi è disciplinato dalle regole che dettano le stesse parti nel senso che nel
momento in cui si stipula un contratto le parti si accordano sulla regolamentazione dei loro
comportamenti; il nostro ordinamento conferisce a tali regole una forza di legge tra i soggetti (Art.
1372 Cod. civ.). Si parlerà a tale riguardo di autonomia contrattuale: (Art. 1322 Cod. civ.): le parti
sono libere di determinare il contenuto del contratto ossia hanno la possibilità di determinare le
clausole che regoleranno il loro rapporto giuridico ma sempre nei limiti imposti dalla legge (Art.
1322 comma 1 Cod. civ.) e , possono scegliere “tipo” di contratto da stipulare infatti le parti non
devo necessariamente attenersi ai modelli contrattuali disciplinati dalla legge (cd. contratti tipici)
ma possono anche concludere contratti che non hanno alcuna disciplina specifica (cd. contratti
atipici) ma che sono pur sempre meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (Art. 1322
comma 2 Cod. civ.).
È importante sottolineare che il contratto ha sempre e comunque ad oggetto la costituzione, la
regolamentazione o l’estinzione di un rapporto giuridico patrimoniale ossia che il rapporto ha
sempre i caratteri della giuridicità e della patrimonialità. Ricordiamo che quest’ ultimo carattere, in
base a ciò che abbiamo detto nell’ ambito delle obbligazione (Art. 1174 Cod. civ. ), sta ad indicare
che la prestazione oggetto del contratto deve essere suscettibile di valutazione economica e non
può trattarsi di una prestazione di carattere personale. Ancora una volta, vediamo come il legislatore
non si occupa di disciplinare tutto ciò che attiene la sfera morale in quanto una prestazione di
carattere personale non ha alcuna valutazione economica ma soprattutto perché in caso di
inadempimento sorgerebbe il problema di comprendere quale sia l’entità del danno da risarcire.
Possiamo distinguere i contratti sul piano della disciplina giuridica, come già anticipato in:
a) Contratti tipici: figure contrattuali alle quali il legislatore dedica una disciplina specifica
(es. la compravendita);
b) Contratti atipici: contratti per i quali non è prevista alcuna disciplina specifica, che
sorgono per volontà delle parti purché questi siano validi, efficaci e meritevoli di tutela
(es. contratto di leasing). Questi tipi di contratti, pur non essendo previsti dalla legge
vengono spesso definiti “socialmente tipici” in quanto molto diffusi nella collettività. In
alcuni casi i contratti atipici sono divenuti, solo inseguito alla loro diffusione, oggetto di
una disciplina giuridica, si pensi al contratto di franchising.
Un contratto, come ci dice la stessa definizione, può sorgere dall’ accordo di due o più parti (non
può mai trattarsi di un atto unilaterale), possiamo al tal proposito distinguere:
a. Contratti bilaterali: quelli che sorgono dall’ accordo di due parti;
b. Contratti plurilaterali: quei contratti che sorgono dall’ accordo di più parti. In questi
contratti il vizio che potrebbe colpire la partecipazione di un solo soggetto non colpisce le
altre solo nel caso in cui la sua partecipazione non sia essenziale.
Per elementi essenziali del contratto si intendono quelli elementi che la legge definisce come
requisiti che debbano presentarsi affinché una manifestazione di volontà possa definirsi un
contratto. Se anche un solo elemento viene a mancare nella manifestazione di volontà, il contratto è
nullo (Art. 1418 Cod. civ.). I requisiti essenziali di un contratto sono (Art. 1325 Cod. civ.):
Contratto illecito
Diversamente, qualora si aderisca alla tesi della causa concreta, poiché la funzione che il
contratto intende perseguire non coincide con il modello che le parti utilizzano, va sempre
verificata pur se si tratti di contratto tipico in base agli scopi effettivamente perseguiti dalle
parti. Quindi qualora la causa del contratto sia contraria alle norme imperative, al buon costume
e all’ ordine pubblico il contratto sarà illecito (Art. 1343 Cod. civ.).
I motivi
La causa va sempre tenuta distinta dai motivi ossia gli scopi individuali che spingono ciascun
contraente a stipulare il contratto. In più il motivo che porta ciascuna parte a porre in essere il
contratto, non viene comunicato alla controparte pertanto resta del tutto irrilevante
giuridicamente, nel senso che la sua mancanza o insoddisfazione non incide sulla validità o
sull’ efficacia del contratto.
Tuttavia un motivo può risultare giuridicamente rilevante qualora questo venga oggettivato nel
contratto mediante un apposita clausola condizionale (Art. 1353 ss. Cod. civ.).
Esistono comunque dei casi in cui la legge riconosce la rilevanza dei motivi, un esempio lo
abbiamo all’ articolo 1345 Cod. civ.: il motivo assume rilevanza giuridica allorquando
entrambe le parti si siano concordate di concludere un contratto per un motivo illecito comune
ad entrambe ed esclusivo (determinante del consenso). Altri esempi nei quali il motive assume
rilevanza giuridica sono: il testamento (Art. 626 Cod. civ.) se infatti alla base del testamento c’è
un motivo illecito, la disposizione testamentaria è nulla; la donazione (Art. 788 Cod. civ.) per la
quale è sufficiente che il motivo illecito sia del donante.
È ovvio che l’area dei motivi si va restringendo qualora si aderisca alla tesi della causa concreta
e allargando ove si aderisca a quella della causa astratta in quanto in quest’ultimo caso tutto ciò
che esula dalla funzione economico-sociale tipicamente perseguita dal contratto, dovrà essere
considerato un motivo con conseguente irrilevanza sul piano giuridico.
3. L’oggetto del contratto
Si definisce oggetto del contratto le prestazioni alle quali le parti sono tenute in forza del
contratto; la sua mancanza provoca la nullità del contratto (Art. 1418 comma 2 Cod. civ.), in
particolare affinché possa dirsi esistente l’oggetto di un contratto è necessario che questo
soddisfi i seguenti requisiti:
a) Possibile ossia la prestazione deve essere materialmente suscettibile di esecuzione; la
possibilità va esaminata in sé per sé e non in base al soggetto che dovrà compierla.
b) Lecito ossia l’oggetto non deve essere contrario alle norme imperative, all’ ordine
pubblico e al buon costume.
c) Determinato o determinabile ovvero è necessario che l’oggetto sia indicato con
precisione altrimenti si ricadrebbe nel rischio di dover stabilire entro quali limiti le parti
sono tenute ad una prestazione. È necessario quindi indicare con estrema chiarezza in
cosa consiste la prestazione o per lo meno le parti dovranno fornire dei criteri che
permettano la sua determinazione (oggetto determinabile).
Nulla esclude che il contratto abbia ad oggetto dei beni futuri, a meno che questo non sia
espressamente vietato dalla legge (Art. 1348 Cod. civ.). Un esempio di ipotesi in cui l’oggetto
del contratto non può essere una cosa futura è la donazione questo perché la legge mira ad
evitare che il donante doni un oggetto di cui non conosce l’onerosità (Art. 771 Cod. civ.).
Contratto di opzione
Contratto di prelazione
La prelazione è un contratto con il quale il concedente non formula alcuna proposta irrevocabile
bensì assicura al beneficiario il diritto di prelazione ossia il diritto di essere preferito a qualsiasi
terzo a parità di condizioni nel caso in cui il concedente intenda stipulare un determinato contratto.
Proprio per questa ragione il contratto di prelazione differisce da quello di opzione: con il contratto
di prelazione il concedente non è vincolato nella stipulazione del contratto poiché non ha formulato
una proposta irrevocabile, come nell’ opzione; infatti il concedente è libero di scegliere se stipulare
o meno quel determinato contratto, l’unico limite che si impone è quello di preferire un determinato
soggetto ai terzi a parità di condizioni contrattuali.
Nel momento in cui il concedente decida di stipulare il contratto dovrà, prima di stipularlo con un
terzo, notificare al titolare della prelazione gli elementi essenziali del contratto che intende stipulare
attraverso un atto cosiddetto denuntiatio: se il beneficiario accetta ci troveremo dinanzi a due
possibilità:
a) Se la denuntiatio rappresentava una vera e propria proposta contrattuale, il semplice
esercizio della prelazione rappresenterà la conclusione del contratto;
b) Se, invece, la denuntiatio non era una proposta contrattuale e il beneficiario accetta le
condizioni del contratto, il contraente resterà sempre libero di decidere se vendere e quindi
stipulare il contratto definitivo secondo le condizioni notificate, oppure no.
Se il contraente intende modificare i termini di condizione del contratto, dovrà sempre notificarli al
soggetto titolare di prelazione sino alla scadenza del diritto di prelazione.
Il diritto di prelazione può avere fonte:
b) Causa.
Si tratta della funzione del contratto preliminare che ancora una volta dipenderà dalla
presenza o meno del corrispettivo: se questo è previsto si tratterà di un contratto
sinallagmatico e quindi a titolo oneroso, diversamente se non previsto sarà un contratto a
titolo gratuito. Riconosciuta l’assenza del corrispettivo si dovrà ancora verificare se alla
base della promessa ci sia un interesse di carattere patrimoniale o no; nel caso in cui sia una
promessa liberale parleremo di donazione.
In sostanza, il contratto preliminare è caratterizzato da una causa variabile nel senso che
questa dipende da come le parti hanno strutturato l’operazione negoziale: in questo caso il
legislatore non tipizza la causa ma lo schema.
c) Oggetto.
L’oggetto del contratto preliminare è la prestazione con la quale le parti si obbligano. Questa
consiste nel perfezionare un contratto definitivo. Sarà il contratto definitivo a produrre gli
effetti che erano stati programmati dalle parti.
d) Forma.
Come già visto, nel nostro ordinamento vige il principio di libertà della forma nel senso che
non è prevista nessuna forma particolare per i contratti, salvo però alcune eccezioni.
Per il contratto preliminare la disciplina, prevede una norma specifica che impone l’uso
della forma che sarà poi usata per la stipula del contratto definitivo (Art. 1351 Cod. civ.).
Pertanto se la legge prevede la forma scritta a pena di nullità, questa dovrà essere rispettata
anche nella stipulazione del contratto preliminare
Il contratto preliminare, nella sua maggior diffusione, precede un contratto ad effetti reali quelli che,
come già detto, trasferiscono dei diritti (Art. 1376 Cod. civ.). Questo tipo di contratto è retto dal
consenso traslativo nel senso che non appena il contratto è concluso immediatamente si trasferisce il
diritto con tutto ciò che ne consegue, la consegna del bene è un elemento esecutivo del contratto e
non uno perfezionativo (es. contratti di compravendita: Art. 1476 Cod. civ.).
Il procedimento di conclusione del contratto che si è visto quando si è parlato di accordo delle parti,
non può essere sempre utilizzato in quanto molte imprese concludono un contratto con un gran
numero di persone ovviamente tutti con oggetti diversi. Solitamente queste imprese predispongono
moduli o formulari prestampati nei quali inseriscono clausole uniformi che il nostro codice
definisce come condizioni generali di contratto; in questo caso il cliente può accettare o rifiutare la
proposta ma non potrà discutere con il proponente per una eventuale modifica.
Già il legislatore del 1942 aveva previsto una disciplina che tutelasse il contraente più debole in
tutte le ipotesi di contratti predisposti unilateralmente per concludere una serie indefinita di
operazioni, proprio perché erano già molto diffusi. In particolare il legislatore aveva previsto che:
- Le condizioni generali di contratto sono efficaci solo se la parte che le ha predisposte,
quindi l’impresa, abbia fatto in modo che la controparte le conoscesse o che quanto
meno fosse in grado di conoscerle (Condizione di conoscibilità: art. 1341 comma 1
Cod. civ.) utilizzando l’ordinaria diligenza. Quando, però, ci si trova dinanzi a clausole
particolarmente squilibrate ossia quelle clausole che concedono dei vantaggi del
soggetto predisponente e riconoscono degli svantaggi a carico della parte aderente
(cosiddette clausole vessatorie) , affinché possano essere efficaci è necessaria la loro
approvazione per iscritto (Art. 1341 comma 2 Cod. civ.).
- Nei contratti conclusi mediante moduli o formulari prestampati, le clausole aggiunte
prevalgono su quelle del modulo con le quali sono incompatibili (Art. 1342 Cod. civ.). Il
legislatore ha voluto dare più importanza alle clausole aggiunte in quanto queste si
presume che siano oggetto di una trattativa individuale dei contraenti.
La tutela appena illustrata, però, è limitata al piano formale poiché non è in grado di proteggere in
modo sostanziale il contraente debole. Si è arrivati a considerare questa disciplina insufficiente in
quanto con gli anni sono stati creati degli strumenti che eludono le norme appena citate inserendo
nei contratti delle clausole riassuntive finali con le quali in sostanza si afferma che il contraente è a
conoscenza di tutte le clausole del contratto soddisfacendo il requisito richiesto dall’ articolo 1341
Cod. civ. In realtà questa norma era stata emanata dal legislatore con l’intento di mettere a
conoscenza la parte aderente di tutti gli obblighi che assume nel momento in cui conclude quel
determinato contratto. La disciplina è stata pertanto incrementata con nuovi articolo nel 1996 (Art.
1469 bis ss. Cod. civ.) dando attuazione ad una direttiva comunitaria del 1993; successivamente
gli stessi articoli sono stati abrogati ma la disciplina che dettavano è confluita nel Codice del
consumo (D. Lgs. 206\2005).
Il codice del consumo è caratterizzato da una profonda differenza con la disciplina del 1942: infatti
il decreto non ha abrogato gli articolo 1341 e 1342 Cod. civ. ( che si continua ad applicarli in tutte
le ipotesi in cui si trova dinanzi a contratti predisposti unilateralmente per una serie infinita di
operazioni), ma prende in considerazione, a differenza di questi, una qualificazione soggettiva nel
senso che le sue norme potranno essere applicate solo a quei contratti conclusi tra un
professionista e un consumatore.
Il codice del consumo definisce il consumatore come una persona fisica che agisce fuori dall’
attività imprenditoriale o professionale che eventualmente svolge (Art. 3 lettera a D. Lgs. 206\2005)
e, il professionista come la persona fisica o giuridica che agisce nell’ esercizio della propria attività
imprenditoriale o professionale (Art. 3 lettera c D. Lgs. 206\2005).
Particolare attenzione è posta da questa disciplina sul contenuto del contratto che viene concluso tra
consumatore e professionista , in particolare sulle clausole vessatorie ossia quelle clausole che
determinano a carico del consumatore uno squilibrio di diritti ed obblighi che derivano dal
contratto; si tratta quindi di clausole particolarmente favorevoli al professionista ma sfavorevoli al
consumatore. Nell’ ambito delle clausole vessatorie dobbiamo distinguere:
Gli elementi accidentali del contratto, sono elementi che si contrappongono ai già citati elementi
essenziali perché a differenza di quest’ultimi, non sono indispensabili ai fini della validità del
contratto ma sono semplici strumenti messi a disposizione delle parti per realizzare al meglio i loro
interessi. Sono elementi accidentali del contratto:
1. La condizione.
La condizione è una clausola con la quale le parti subordinano l’efficacia (condizione
sospensiva) o lo scioglimento (condizione risolutiva) di un determinato contratto, al verificarsi di
un evento futuro e incerto (Art. 1353 Cod. civ.). Per evento futuro ed incerto si intende un
evento che deve ancora avverarsi e di cui le parti non hanno la certezza che questo si avvererà o
meno. È chiaro dalla definizione che la condizione può presentarsi in due diverse tipologie:
- Condizione sospensiva, se al verificarsi di un evento sono subordinati gli effetti del
contratto, fin quando non si verificherà il contratto non produrrà effetti.
- Condizione risolutiva, se al verificarsi di un evento si fa dipendere l’eliminazione dell’
effetto, nel senso che il contratto produrrà immediatamente effetti quando sarà concluso
ma cesserà di produrli quando si verificherà l’evento condizionante.
Non tutti i negozi giuridici tollerano l’apposizione della condizione (es. non può essere apposta
ai negozi di diritto familiare); questi negozi sono detti actus legitimus.
La condizione, sia sospensiva che risolutiva, può distinguersi in base alla natura dell’ evento in:
a. Condizione casuale: se il verificarsi dell’ evento non dipende né dalla volontà delle parti
né dalla volontà dei terzi;
b. Condizione potestativa: se il verificarsi dipende dalla volontà delle parti o di un terzo;
c. Condizione mista: se in parte dipende dalla volontà delle parti e in parte no.
Non può mai trattarsi di condizione meramente potestativa ossia quando l’efficacia del
contratto si fa dipendere dalla discrezionalità di una sola delle parti; la condizione meramente
potestativa rende nullo il contratto a cui è apposta (Art. 1355 Cod. civ.).
L’evento futuro ed incerto dal quale si fa dipendere l’efficacia del contratto deve sempre essere
lecito e possibile:
l’evento sarà illecito se è contrario a norme imperative, all’ ordine pubblico o al buon
costume. In questo caso il contratto è considerato nullo se la condizione è apposta ad un
atto inter vivos (Art. 1354 comma 1 Cod. civ.), si considera come non apposta se invece
si tratta di un atto mortis causa questo perché la giurisprudenza tende ad attribuire
maggior efficacia alla volontà del testatore (Art. 634 Cod. civ.).
l’evento sarà impossibile se consiste in un avvenimento irrealizzabile. In questo caso si
avrà sempre come non apposta per gli atti mortis causa (Art. 634 Cod. civ.)mentre per gli
atti inter vivos bisognerà distinguere tra condizione sospensiva e condizione risolutiva:
nei primi casi il contratto sarà nullo, nei secondi si avrà come non apposta (Art. 1354
comma 2 Cod. civ.). Anche qui la differenza fra atti inter vivos e mortis causa deriva
dall’intento di preservare l’efficacia della volontà testamentaria; l’ulteriore differenza fra
le diverse tipologie di condizione per gli atti inter vivos, invece, si spiega con la
considerazione che se l’evento è irrealizzabile nella condizione sospensiva non si avranno
mai effetti mentre nella condizione risolutiva gli effetti che il contratto aveva già
prodotto dalla sua conclusione non potranno mai essere rimossi.
2. Il termine.
Il termine è anch’esso un elemento accidentale molto simile alla condizione, ma si
differenzia da questa perché consiste in un avvenimento futuro e certo dal quale (termine
iniziale) o fino al quale (termine finale) debbono prodursi gli effetti del negozio giuridico.
Se l’avvenimento è certo, ciò che potrebbe essere incerto nel termine è il momento in cui
questo avverrà, a tal proposito distinguiamo:
- Determinato quando è stabilito nel contratto dalle parti;
- Indeterminato quando l’evento è certo ma le parti non conoscono il giorno in cui questo
evento si verificherà (es. giorno della morte).
Come per la condizione, anche per il termine ci sono atti che non tollerano la sua
apposizione e che prendono il nome di actus legitimi.
3. Il modus.
Il modus, o anche chiamato onere, è un elemento accidentale che può essere apposto solo ai
contratti a titolo gratuito (Art. 793 Cod. civ.) o ai testamenti (Art. 647 Cod. civ.) con lo
scopo di limitare l’arricchimento del beneficiario (della donazione o del testamento)
imponendogli un obbligo. Il beneficiario della donazione o del testamento non è mai tenuto
ad adempiere all’ obbligo oltre il valore della cosa che forma oggetto del negozio (Art. 671 e
793 Cod. civ.)
Il modus, dunque, genera una vera e propria obbligazione e per tale ragione l’adempimento
dell’ obbligo può essere richiesto da ogni interessato (Art. 793 comma 3 e 648 comma 1
Cod. civ). L’ inadempimento dell’ onere ha come conseguenza la risoluzione del contratto o
del testamento solo se il disponente ( donante o testatore) lo abbia espressamente previsto
nel negozio (Art. 793 comma 4 e 648 comma 2 Cod. civ.); in particolare nelle ipotesi in cui
nel testamento l’onere ha costituito il solo motivo determinate della disposizione allora il
giudice può pronunciare la risoluzione (Art. 648 Cod. civ.).
Anche il modus deve essere possibile e lecito: se è illecito e impossibile si ha per non
apposto ma se risulta essere stato un motivo determinante, allora si avrà un riverbero sulla
validità del testamento o del contratto ( Art. 794 e 647 comma 3 Cod. civ.).
Così come la legge è soggetta a interpretazione con lo scopo di ricercare il significato precettivo che
il legislatore ha voluto dare alla norma, allo stesso modo possiamo parlare di interpretazione del
contratto.
L’interpretazione del contratto ha lo scopo di determinare il significato giuridicamente rilevante
delle clausole di un contratto che , come è noto, hanno forza di legge tra le parti ossia si vuole
individuare qual è la regola secondo la quale le parti si sono vincolate. Per poter eseguire
un’interpretazione del contratto è necessario utilizzare dei criteri imposti dal legislatore agli articoli
1362 e seguenti Cod. civ. I criteri di interpretazione possiamo distinguerli in:
- Criteri di interpretazione soggettiva: diretti a ricercare l’intento comune dei soggetti del
contratto (Artt. 1362-1365 Cod. civ.);
- Criteri di interpretazione oggettiva: che intervengono qualora non si riesca ad attribuire al
contratto un significato facendo ricorso alle norme di interpretazione soggettiva (Art. 1367 –
1371 Cod. civ.).
Il punto di riferimento dell’ attività dell’interprete è il testo della dichiarazione negoziale ma non
bisogna limitarsi al suo significato letterale ma bisogna, invece, ricercare la comune intenzione dei
contraenti (Art. 1362 Cod. civ.); per poter far ciò è necessario valutare il comportamento delle parti
sia prima della conclusione del contratto sia dopo questa (Art. 1362 comma 2 Cod. civ.).
Il testo della dichiarazione va letto in base ad una interpretazione sistematica nel senso che
bisognerà interpretare le sue clausole le une per mezzo delle altre (Art. 1363 Cod. civ.).
Quando nel testo contrattuale le parti utilizzano delle espressioni di carattere generale, queste non
vanno mai interpretate in maniera estensiva perché si potrebbe ricorrere nel rischio che si vada oltre
la volontà delle parti : andranno quindi interpretate tenendo conto degli oggetti specifici a cui si
riferisce la comune volontà dei contraenti (Art. 1364 Cod. civ.). Un ragionamento opposto va fatto
per le indicazioni esemplificative che si hanno qualora le parti nell’ ambito di una loro pattuizione
hanno operato un’esemplificazione non menzionando alcune fattispecie; in questi casi, bisognerà
adoperare un’interpretazione estensiva ricomprendendo anche quelle fattispecie non menzionate
alle quali ragionevolmente si può estendere la volontà delle parti (Art. 1365 Cod. civ.).
Lo stesso principio di ragionevolezza si coglie laddove si richiede un’interpretazione secondo buona
fede oggettiva, ossia in base all’obbligo di correttezza reciproca che caratterizza la condotta dei
contraenti (principio dell’ affidamento: art. 1366 Cod. civ.).
Se nonostante il ricorso ai principi di cui sino ad ora si è parlato, il significato del contratto non
appare chiaro si applicherà il principio della conservazione del negozio (Art. 1367 Cod. civ.):
qualora un contratto sia suscettibile di diverse interpretazioni di cui alcune lo ritengono efficacie e
altre no, bisognerà prediligere il caso in cui si possa prevedere qualche effetto.
Altri principi sussidiari, che vanno applicati man mano che il significato del contratto resti ancora
oscuro, sono:
Gli usi interpretativi (Art. 1368 Cod. civ.): il contratto andrà interpretato in base agli usi di
un determinato contesto economico sociale corrispondente al luogo in cui il contratto si è
concluso, o per l’imprenditore nel luogo in cui ha sede la sua impresa.
L’ espressioni polisemantiche (Art. 1369 Cod. civ.): sono espressioni che hanno più di un
significato, sarà preso in considerazione quello che più si attiene alla tipologia contrattuale
utilizzata.
Le clausole predisposte nelle condizioni generali di contratto o di moduli e formulari
prestampati, vanno interpretate a favore del soggetto debole, ossia colui che agisce
passivamente al testo contrattuale (Art. 1370 Cod. civ.).
Regole finali (Art. 1371 Cod. civ.): qualora l’interprete abbia applicato tutti i criteri
interpretativi ma non si è ancora colto il significato del contratto, il legislatore ha stabilito
che vengano rispettate delle regole finali che rappresentano l’estrema ratio dell’
interpretazione. In particolare è stabilito che in un negozio a titolo gratuito il contratto va in
Durante la fase delle trattative di un contratto, le parti possono decidere se concluderlo o meno; ma
una volta che il contratto è stato perfezionato le parti sono obbligate a rispettare le regole, frutto
della loro autonomia negoziale. Il nostro ordinamento giuridico esprime questo obbligo affermando
che il contratto ha forza di legge tra le parti (Art. 1372 Cod. civ.).
Tuttavia le parti sono libere di modificare o addirittura sciogliere un contratto concluso mediante un
mutuo consenso, ossia con una nuova manifestazione di volontà di entrambi i contraenti atta a
stipulare un nuovo contratto che estingua il precedente (Art. 1372 Cod. civ.). La norma fa salvi i
casi in cui la legge stabilisce che basta la volontà di un solo contraente per sciogliere il contratto: è
ciò che accade in caso di recesso.
Il recesso
Il recesso è un atto unilaterale recettizio con il quale uno dei contraenti può esercitare la facoltà che
gli spetta per legge (recesso legale) o per apposito atto (recesso convenzionale), con la quale
scioglie il vincolo contrattuale senza la necessità del consenso della controparte. Il recesso può
essere esercitato prima che abbia inizio l’esecuzione del contratto (Art. 1373 comma 1 Cod. civ.):
tale regola trova una giustificazione nel fatto che quando il contratto ha avuto una sua esecuzione si
forma un’ affidamento delle parti circa la sua permanenza in vita, il recesso andrebbe a ledere
questo affidamento della controparte. La norma, però, non esclude i casi contrari, ossia i casi in cui ,
solo se espressamente previsto, le parti possono recedere dal contratto anche se questo ha prodotto
degli effetti. Un esempio è il contratto di durata in cui l’effetto si sviluppa durante l’esecuzione di
un periodo più o meno lungo, il recesso può avvenire anche successivamente ma questo non
pregiudica le prestazioni già eseguite.
Spesso la facoltà di recesso è pattuita a fronte di un corrispettivo nei confronti della controparte che
solitamente è rappresentato dalla consegna di una somma di denaro. Se la parte che intende recedere
paga il corrispettivo nel momento in cui esercita la sua facoltà, ci troveremo dinanzi alla multa
penitenziale (Art. 1373 comma 3 Cod. civ.); in questo caso il contratto si scioglie quando il
corrispettivo è stato pagato, salvo patto contrario (Art. 1373 comma 4 Cod. civ.).
Se, invece, il corrispettivo è pagato nel momento in cui si conclude il contratto, si parlerà di
caparra penitenziale (Art. 1386 Cod. civ.) , che va tenuta ben distinta dalla multa penitenziale. Nel
caso della multa penitenziale sorge un vero e proprio obbligo di pagare la somma di denaro quando
si decide di recedere dal contratto, nel caso della caparra penitenziale siamo difronte ad una clausola
che ha una struttura reale in quanto si perfeziona con la consegna della somma di denaro nel
momento in cui si conclude il contratto. In quest’ ultima ipotesi, qualora si decida di recedere dal
contratto bisogna distinguere se a recedere è il soggetto che ha pagato, che perderà la caparra, o il
soggetto che l’ha ricevuta, che dovrà restituire alla controparte il doppio del corrispettivo.
Ritornando agli effetti del contratto, le parti possono anche prevedere una clausola, con la quale si
vieta l’alienazione del diritto o del bene che forma oggetto del negozio per un periodo di tempo
(Art. 1379 Cod. civ.). In particolare , poiché si tratta di un vincolo che limita la disponibilità dei
privati, è necessario che la clausola rispetti dei limiti rigorosi stabiliti dallo stesso legislatore e cioè:
a) Previsione di determinati limiti di tempo;
b) Esistenza di un interesse da una delle parti a che il bene non venga alienato ( non deve trattarsi
di un capriccio delle parti);
c) Il divieto avrà effetto solo tra le parti nel senso che se una parte viola il divieto di alienazione
vendendo il bene a terzi, la controparte potrà opporsi solo alla parte che ha venduto e non al
terzo che ha acquistato.
Come già detto, il contratto ha forza di legge tra le parti: da qui si deduce che ha effetto solo tra i
contraenti e non produce effetti nei confronti dei terzi, salvo i casi in cui non è disposto
diversamente dalla legge (Art. 1372 comma 2 Cod. civ.).
Ci sono dei casi in cui la volontà contrattuale non è espressa direttamente dall’interessato, ma da un
soggetto terzo che è stato a ciò incaricato. È il fenomeno della rappresentanza che si ha qualora un
soggetto terzo è stato incaricato (o per legge o per volontà dell’ interessato) di sostituire il soggetto
interessato nel compimento di un’attività giuridica. La rappresentanza può presentarsi in due
varianti:
a) Rappresentanza diretta (Art. 1388 Cod. civ.): il rappresentante agisce in nome e per conto
di un determinato soggetto. È necessario che nel momento in cui sta compiendo un atto, il
rappresentante dichiari che sta agendo in nome e per conto dell’interessato (cd. spendita del
nome)
Gli effetti dell’ attività giuridica che esegue saranno diretti alla sfera giuridica del soggetto
che ha rappresentato.
b) Rappresentanza indiretta: il rappresentante agisce per conto di un soggetto determinato,
ma in nome proprio. In questo caso gli effetti del negozio giuridico compiuto si
verificheranno nella sfera giuridica del rappresentante; occorrerà un ulteriore atto affinché
gli effetti vengano trasferiti a favore del soggetto per cui ha agito (vedi art. 1706 comma 2
Cod. civ., mandato senza rappresentanza).
È ovvio che il soggetto rappresentante per agire deve averne il potere, in quanto nessuno ha il
potere giuridico di disporre dei diritti di un terzo. A seconda della fonte del potere di
rappresentanza, distinguiamo:
1) Rappresentanza legale: il potere rappresentativo deriva dalla legge e si ha nei casi di
incapacità dei soggetti (es. i minori di età);
2) Rappresentanza organica: il potere rappresentativo che deriva dall’ appartenenza ad un
ente, solitamente questo spetta agli amministratori di un organo;
3) Rappresentanza volontaria: il potere rappresentativo è conferito dallo stesso
interessato mediante la procura.
La procura
Come appena detto, è possibile che il potere rappresentativo sia conferito ad un soggetto
(rappresentante) da un soggetto interessato a concludere uno o più atti (rappresentato). L’ atto
con il quale si conferisce ad un soggetto il potere di rappresentanza è detto procura, per tale ragione
il rappresentante può anche essere definito procuratore. La procura è un atto unilaterale recettizio
che ha lo scopo di rendere noto a terzi il potere che ha il rappresentante. Per questo atto non occorre
l’accettazione da parte del procuratore, è necessario solo che ne sia venuto a conoscenza.
Come ogni dichiarazione di volontà, anche la procura può essere espressa o tacita, ossia risultante
da fatti concludenti; di regola la legge non richiede alcuna forma ad substantiam per l’atto, salvi i
casi in cui tale forma sia richiesta per l’atto da concludere in questo modo la procura dovrà avere la
stessa forma (es. come è noto per la vendita o l’acquisto di immobili è necessario l’atto scritto, in
questo caso è necessaria la forma scritta per la procura) (Art. 1392 Cod. civ.).
Perché il negozio concluso sia valido è necessaria la capacità di agire del rappresentato e quella
di intendere e di volere del rappresentante (Art. 1389 Cod. civ.). Il procuratore, però, potrà agire
solo nei limiti dei poteri che gli sono stati conferiti in forza della procura (Art. 1388 Cod. civ.).
Proprio perché il terzo ha interesse a conoscere se chi si afferma essere rappresentante lo è
realmente, e se esistono dei limiti al suo potere di agire, può chiedere che gli venga esibita la
procura e, se questa risulta da atto scritto, che gli venga consegnata una copia (Art. 1393 Cod. civ.).
Un esempio del fenomeno rappresentativo lo riscontriamo nell’ ambito del contratto per persona da
dominare (Artt. 1401 ss. Cod. civ.). Si tratta di uno schema generale di contratto nel senso che può
essere applicato ad una qualsiasi tipologia di contratto.
Il contratto per persona da nominare è un accordo tra promittente e stipulante, il quale ultimo si
riserva la facoltà di nominare un terzo soggetto nella cui sfera giuridica il negozio produrrà i suoi
effetti (Art. 1401 Cod. civ.): insomma, in un momento successivo alla stipulazione del contratto lo
stipulante potrà nominare un terzo che acquisterà in sua vece la posizione contrattuale.
Poiché si possa parlare di contratto per persona da nominare, è necessario che lo stipulante faccia
una dichiarazione di nomina entro un termine che può essere o fissato dalle parti o, in mancanza di
questo, stabilito dalla legge; il termine stabilito dalla legge entro il quale lo stipulante può avvalersi
o meno della facoltà di nomina è di tre giorni (Art. 1402 Cod. civ.).
La dichiarazione di nomina è valida nei confronti del terzo soggetto solamente se questo abbia
prestato il consenso a tale nomina così da poter “sostituire” lo stipulante nel rapporto contrattuale. Il
consenso può consistere o in una procura a favore dello stipulante o una dichiarazione di
accettazione successiva alla nomina (Art. 1402 comma 2 Cod. civ.) in quanto il terzo subentra in
una situazione contrattuale molto complessa poiché è composta da diritti e da obblighi.
Analogamente a quanto avviene per la procura ai sensi dell’ articolo 1392 Cod. civ., la
dichiarazione di nomina e anche quella di accettazione devono rivestire la stessa forma del contratto
che è stato stipulato tra promittente e stipulante (Art. 1403 Cod. civ.); se il contratto è sottoposto a
pubblicità anche la dichiarazione di nomina, con l’indicazione dell’ accettazione o della procura,
devono essere pubblicizzati (Art. 1403 comma 2 Cod. civ.).
La dichiarazione di nomina ha effetto retroattivo nel momento in cui il terzo l’accetta ciò significa
che il terzo acquista la posizione di contraente dal momenti in cui il contratto è stato stipulato (Art.
1404 Cod. civ.), questa sua caratteristica distingue il contratto per persona da nominare con la
cessione del contratto.
Se la nomina non è accettata dal terzo o manca uno dei presupposti di validità, il contratto produrrà
gli effetti direttamente nei confronti dello stipulante originario (Art. 1405 Cod. civ.); questa
caratteristica distinguerà il contratto per persona da nominare dal contratto a favore di un terzo.
Nei contratti a prestazioni corrispettive, qualora queste non siano state ancora eseguite, è possibile
assistere al fenomeno della cessione del contratto, un fenomeno che possiamo paragonare a quello
della cessione del diritto di credito.
Si ha cessione di un contratto quando una parte (cedente) di un contratto originario, stipula con un
terzo (cessionario) un apposito contratto con il quale si accordano per trasferire al cessionario il
contratto originario, nel senso che il terzo subentra nel rapporto contrattuale con il ceduto al posto
del cedente (Art. 1411 Cod. civ.).
A differenza di quanto avveniva per la cessione dei diritti di credito( nel qual caso la posizione del
ceduto non si modificava), nella cessione del contratto il subentro nella posizione contrattuale del
cessionario altera la condizione del contraente ceduto in quanto questi cambia il suo interlocutore
contrattuale e quindi non soltanto è obbligato ad eseguire le prestazioni nei suoi confronti, ma ha
anche il diritto di ricevere la prestazione corrispettiva; ecco spiegato il perché è indispensabile il
consenso del ceduto, mentre non occorreva nell’ ipotesi di cessione del diritto di credito (Art. 1406
Cod. civ.). Il consenso può essere dato come atto unilaterale, separato dal contratto, e può essere
rilasciato preventivamente: in quest’ultimo caso si ristabilisce un regime analogo a quello della
cessione di credito, ossia la cessione diventa efficace solamente quando viene notificata al ceduto, o
viene da lui accettata (Art. 1407 Cod. civ.).
In sostanza, sia nei contratti per persona da nominare che nella cessione del contratto si ha una
modifica di una posizione contrattuale con l’unica differenza che i primi hanno efficacia retroattiva,
i secondi producono i loro effetti, invece, dal momento in cui subentra il terzo nel rapporto
contrattuale.
Il contratto a favore di terzi, si differenzia dalle figure contrattuali viste precedentemente poiché
questo non prevede alcuna successione nella posizione contrattuale bensì è la volontà di due
contraenti di attribuire gli effetti del contratto nella sfera giuridica di un soggetto terzo.
Si tratta di uno schema generale e che pertanto può essere applicato a qualsiasi tipologia
contrattuale; in particolare si tratta di un contratto stipulato tra stipulante e promittente i cui effetti
vengono deviati a favore di un terzo soggetto che avrà il diritto di pretendere l’adempimento del
contratto (Art. 1411 Cod. .civ.).
Il terzo non acquista nessuna posizione contrattuale, ma semplicemente acquista un diritto di
ottenere la prestazione oggetto del contratto. Si tratta di uno dei casi previsti all’ articolo 1372
comma 2 Cod. civ. secondo il quale un contratto produce effetti solo tra le parti, salvo diverse
disposizioni di legge.
La disciplina fondamentale del contratto a favore del terzo è:
Il terzo acquista il diritto immediatamente dal momento in cui il contratto è stato stipulato
senza che occorra il suo consenso, tuttavia però, qualora il terzo lo ritenga opportuno può
rifiutarlo ossia può impedire il consolidamento dell’ acquisto nella sua sfera giuridica (Art.
1411 comma 2 Cod. civ.). Finché sussiste la possibilità di rifiuto da parte del terzo, lo
stipulante può modificare o revocare il contratto.
L’accettazione da parte del terzo di approfittare del diritto, non serve per consentire
l’acquisto di questo che avviene direttamente, piuttosto viene preclusa la facoltà di revoca
e di modifica dello stipulante (Art. 1411 comma 3 Cod. civ.). Da questa sua caratteristica,
è possibile notare una differenza con il contratto per persona da nominare: nelle ipotesi di
contratto per persona da nominare , con la mancata validità della nomina, il contratto
produceva i suoi effetti nella sfera dello stipulante.
Chi ha promesso la prestazione, quindi , il promittente, può opporre al terzo tutte le
eccezioni fondate sul contratto in questione, ma non quelle fondate su altri rapporti tra
promittente e stipulante (Art. 1413 Cod. civ.).
Il contratto a favore del terzo, come già detto, può essere applicato ad un qualsiasi modello
contrattuale e dal quale deriva la sua causa, nonostante ciò può dirsi che ne esiste una seconda
causa ossia l’ulteriore giustificazione giuridico-economica della deviazione degli effetti dell’
accordo tra i contraenti a favore di un terzo soggetto, come appunto ci segnala l’articolo 1411 Cod.
civ.
Esiste la possibilità che il contratto a favore di un terzo produca i suoi effetti dopo la morte
dello stipulante (Art. 1412 Cod. civ.), in questa particolare ipotesi la facoltà di revoca non viene
preclusa con la semplice accettazione del terzo, come avveniva nella fattispecie dell’ articolo 1411
Cod. civ., ma può essere esercitata ugualmente a meno che non ci sia un espressa rinuncia da parte
dello stipulante. Il contratto a favore di un terzo che produce i suoi effetti dopo la morte non
rappresenta una deroga al principio generale del divieto dei patti successori (Art. 458 Cod. civ.):
questo stabilisce che qualora un soggetto voglia disporre dei suoi beni dopo la sua morte potrà farlo
solo tramite testamento, quindi non è in alcun modo ammessa la possibilità di stipulare contratti
aventi ad oggetto una successione non ancora aperta e quindi il rinvio dell’ acquisto del diritto dopo
la morte dello stipulante. Il contratto a favore di terzi non è una deroga perché, se analizziamo
l’articolo 1412 comma 2 Cod. civ., notiamo che qualora il terzo muoia prima dello stipulante il
diritto che avrebbe acquistato con il contratto a suo favore passa ai suoi eredi; ciò ci fa comprendere
che il diritto è stato acquistato immediatamente nel momento in cui il contratto è stato stipulato, ciò
che si rinvia è l’esecuzione dello stesso. Un’importante applicazione del contratto a favore di terzi
da eseguirsi dopo la morte dello stipulante è quella dell’ assicurazione sulla vita: si stabilisce che la
compagnia di assicurazione esegua la prestazione a beneficio del soggetto indicato come
beneficiario dopo la morte di colui che ha stipulato il contratto e che ha pagato il premio
assicurativo.
Esistono delle fattispecie, come quella già incontrata della rappresentanza apparente, in cui
l’ordinamento giuridico prevede che sia applicato il principio dell’ affidamento (principio dell’
apparenza): tale principio è stato elaborato con lo scopo di tutelare i terzi in buona fede che fanno
affidamento su una situazione apparente, diversa dalla realtà dovuta al comportamento, doloso o
colposo che sia, di un soggetto. In questi casi la legge dispone che l’ apparenza prevalga sulla
realtà; se quindi un terzo aveva stipulato un contratto facendo affidamento su una situazione
apparente, il suo contratto resterà valido.
La più significativa applicazione di questo principio la si trova nell’ istituto della simulazione,
disciplinata dagli articoli 1414 ss. Cod. civ.
Si dice che un contratto è simulato qualora le parti pongono in essere una dichiarazione contrattuale
volta a far apparire una situazione di fronte ai terzi; ma le parti sono d’accordo tra loro che il
contratto non debba produrre alcun effetto o che il contratto ne dissimuli un altro.
Da quanto appena detto, potrebbe risultare strano che il legislatore disciplini questo fenomeno ma,
in realtà, questa disciplina indica una resa del legislatore di fronte alla continua proliferazione di
accordi simulatori nella prassi: ecco spiegato perché il legislatore non vieta la stipulazione di questi
accordi ma stabilisce quali potrebbero essere le conseguenze tra le parti, nei confronti dei terzi e dei
creditori.
Dalla definizione di contratto simulato, vediamo come questo istituto può presentarsi in due diverse
varianti:
a) Simulazione assoluta: qualora due contraenti abbiano concluso un contratto simulato, ma
con il loro accordo simulatorio stabiliscono che questo non dovrà produrre effetti tra loro.
L’intento è quello di lasciare immutata la situazione giuridica preesistente
b) Simulazione relativa: nel caso in cui i contraenti concordano con un accordo simulatorio
che assumerà rilevanza un contratto diverso da quello che effettivamente hanno stipulato, il
cd. contratto dissimulato; in questo caso la situazione giuridica preesistente è modificata
secondo il contratto dissimulato purché questo rispetti tutti i requisiti formali e sostanziali
(Art. 1414 Cod. civ.) (Esempio: due contraenti possono stipulare una compravendita per
coprire la donazione; ciò nonostante la compravendita è stipulata per atto pubblico e alla
presenza di due testimoni proprio per soddisfare i requisiti richiesti per la donazione).
In sostanza quello che caratterizza il fenomeno della simulazione è l’accordo simulatorio ossia
l’intesa tra i simulanti che il contratto “simulato” sia inidoneo a produrre gli effetti a cui appare
preordinato (quindi crea una situazione del tutto apparente). L’accordo simulatorio deve sempre
precedere o deve essere concomitante alla stipulazione del contratto; nei casi in cui avvenga in
modo contrario il contratto stipulato produce gli effetti prima che le parti si accordino tra loro.
Segue , quindi, all’ accordo simulatorio, il contratto simulato che produrrà effetti diversi a seconda
se si tratta delle parti o dei terzi.
L’ordinamento giuridico conferisce ai privati il potere della cosiddetta autonomia privata ossia la
capacità di stipulare dei negozi giuridici; tuttavia tali negozi hanno efficacia giuridica solamente nei
casi in cui questi rispettino i limiti imposti dal legislatore. Si definisce, quindi, invalido un negozio
giuridico che è affetto da vizi che lo rendono inidoneo ad acquistare pieno valore giuridico; le figure
di invalidità del contratto sono la nullità, l’annullabilità e la rescissione
Da non confondere con l’invalidità è l’ inefficacia , ciò sta ad indicare che il contratto è inidoneo a
produrre gli effetti, questo non comporta necessariamente la sua invalidità: si pensi ad esempio ad
un testamento prima della morte del testatore, il negozio è valido sottoposto alla condizione
sospensiva.
La nullità del contratto è la più grave sanzione prevista dalla legge per un contratto invalido infatti
un contratto nullo, ossia affetto da vizi già presenti al momento della conclusione del contratto, è
inidoneo a produrre i suoi effetti; sarà vana qualsiasi tentativo delle parti di rimediare alla nullità.
Distinguiamo due diverse ipotesi di nullità del contratto, ai sensi dell’ articolo 1418 Cod. civ.:
Contratto illecito (Art. 1418 comma 2 Cod. civ.): si ha qualora la causa (Art. 1343 Cod.
civ.), o i motivi (Art. 1345 Cod. civ.), o l’oggetto (Art. 1346 Cod. civ.) sono contrari a
norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. Per questi casi è preclusa ogni
tipologia di recupero del contratto infatti è inapplicabile l’istituto della conferma (Art. 799
Cod. civ.), quello della conversione (Art. 1424 Cod. civ.) ed è parimenti esclusa
l’applicazione dell’ articolo 2126 Cod. civ.
Contratto illegale (Art. 1418 comma 1 Cod. civ.): si ha qualora il contratto è contrario alle
norme imperative.
Le cause di nullità del contratto possiamo distinguerle in tre grandi categorie:
a) Nullità testuale: la nullità di un determinato contratto è sancita espressamente da una legge
(Art. 1418 comma 3 Cod. civ.).
b) Nullità strutturale: il contratto non presenta tutti i requisiti essenziali di cui all’ articolo
1325 Cod. civ. (Art. 1418 comma 2 Cod. civ.).
c) Nullità strutturale: il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo
diversa disposizione di legge (Art. 1418 comma 1 Cod. civ.).
In particolare, il vizio che determina la nullità del contratto può investire l’intero negozio (nullità
totale) o solamente una o più clausole (nullità parziale). In caso di nullità parziale, se la clausola
viziata è stata determinante alla conclusione del contratto nel senso che la clausola è essenziale
(l’essenzialità va valutata obiettivamente sulla base delle volontà dei contraenti), allora la nullità si
estende all’ intero contratto (Art. 1419 Cod. civ.).
Talora alcune leggi speciali prevedono delle ipotesi espressamente ipotesi in cui la nullità parziale
sia espansiva oppure no; è il caso della nullità necessariamente parziale prevista dal codice del
consumatore in materia di clausole vessatorie.
Esistono tuttavia delle ipotesi in cui la legge sostituisce “automaticamente” la clausola nulla con
clausole imposte dal legislatore: ad esempio i casi in cui la legge impone dei prezzi da rispettare per
la vendita di determinati beni. Qualora nel contratto il bene venga venduto ad un prezzo diverso, la
clausola nulla viene sostituita con quella imposta dalla norma, impedendo il carattere espansivo
della nullità parziale (Art. 1419 comma 2 Cod. civ.).
Il discorso sino ad ora fatto rispetto alla nullità parziale, riguarda il piano oggettivo ma allo stesso
modo può essere fatto sotto un profilo soggettivo: la nullità che colpisce la partecipazione di uno
solo dei contraenti di un negozio plurilaterale si estende all’intero contratto solamente nei casi in cui
tale partecipazione era essenziale (Art. 1420 Cod. civ.)
Ulteriore ipotesi di invalidità del contratto, ma sicuramente meno grave , è quella dell’ annullabilità.
Le cause generali di annullabilità, previste dal nostro codice civile sono:
a) Incapacità sia legale che naturale di uno dei soggetti contraenti (Art. 1425 Cod. civ.): un
contratto concluso da un soggetto incapace di intendere o di volere o di agire può essere
considerato annullabile se non sono state rispettate le forme di rappresentanza richiesta. In
caso di incapacità di intendere e di volere, quindi incapacità naturale, non solo è richiesto lo
stato di invalidità di un contraente ma è richiesta anche la malafede della controparte (Art.
428 Cod. civ.).
b) Presenza di uno dei vizi della volontà (Art. 1427 Cod. civ.): sono vizi della volontà
l’errore, il dolo e la violenza.
Errore
L’errore è una falsa rappresentazione della realtà, parliamo in questo caso di errore – vizio.
Il soggetto contraente, in questo caso, ha accertato e valutato i presupposti e le circostanze
del contratto che intendeva concludere in modo sbagliato e ,quindi creando in sé la
convinzione di una realtà che effettivamente non è quella. Diversamente dall’ errore-vizio,
l’errore ostativo è un errore commesso nella dichiarazione di volontà nel senso che un
contraente ha esposto in modo sbagliato la sua volontà (Art. 1433 Cod. civ.). In entrambi i
casi l’errore è un vizio che comporta l’annullabilità del contratto solamente nei casi in cui
questo sia rilevante (Art. 1428 Cod. civ.); il legislatore ha imposto questo limite nella
rilevanza ai fini dell’ annullabilità in quanto intende tutelare sia la parte che ha commesso
l’errore, sia la parte che ha fatto affidamento sul contratto stipulato qualora questa sia in
buona fede (se infatti si era accorta dell’ errore, non è degna di tutela dell’ ordinamento
giuridico). Un errore è rilevante solo nei casi in cui questo è:
Essenziale. L’errore è essenziale qualora questo assume un apprezzabile rilievo nel
contratto. L’ art. 1429 Cod. civ, definisce essenziali gli errori che ricadono sulla
natura del contratto, sul suo oggetto, su uno dei contraenti. È essenziale l’errore di
diritto quando questo rappresenta l’unica o principale ragione del contratto (si tratta
di un errore circa l’interpretazione di una norma o circa la sua vigenza). Non sono
essenziali gli errori che ricadono sui motivi se non in materia di donazione e di
testamento, purché risultino dall’ atto e siano determinanti.
Riconoscibilità. L’errore deve essere riconoscibile dall’ altro contraente; tale
riconoscibilità va valutata secondo un canone di diligenza media che si può
pretendere da quel determinato contraente. Per tale ragione la riconoscibilità va
valutata caso per caso.
Violenza
La violenza psichica è la minaccia di un male ingiusto rivolta ad un soggetto al fine di
convincerlo a stipulare un determinato contratto. Dalla violenza psichica va tenuta distinta la
violenza fisica che si ha quando manca del tutto la volontà di concludere un contratto e la
controparte costringe mediante atto fisico a stipulare un contratto; in questo caso il contratto
è nullo.
La violenza che , invece, si rileva ai fini dell’ annullabilità è la violenza psichica,
indipendentemente se a porla in essere è la controparte o un terzo (Art. 1434 Cod. civ.). Il
soggetto vittima di violenza, terminata questa, può decidere se agire per l’annullamento
oppure no.
Perché la violenza sia tale da rendere il contratto annullabile è necessario che:
Dolo
Il dolo che viene considerato ai fini dell’annullabilità va tenuto distinto dal dolo disciplinato
nel diritto penale, nel qual caso consiste nell’ intenzione di compiere un determinato reato.
Nel diritto civile, il dolo è l’inganno o il raggiro volto ad indurre la parte a contrarre il
contratto. Per l’annullabilità del contratto è necessario che:
L’inganno sia un’azione idonea a far credere alla controparte che il contratto
comporterà determinati benefici quando in realtà così non è (Art. 1439 Cod. civ.).
Il dolo sia determinante ossia che il contraente vittima del dolo non avrebbe
concluso il contratto senza la presenza di tali benefici.
Il dolo sia esercitato dalla controparte e non da terzi. La legge riconosce inoltre i
raggiri di terzi nei confronti della controparte solo nei casi in cui questi fossero noti
alla controparte e questa ne abbia tratto vantaggio (Art. 1439 Cod. civ.).
Dal dolo determinante si distingue il dolo incidente, si tratta di un raggiro che non è stato
determinante per la stipula del contratto in quanto la vittima lo avrebbe in ogni caso stipulato
ma a condizioni diverse; in questo caso l’atto non è annullabile , la conseguenza in questo
caso è la responsabilità risarcitoria (Art. 1440 Cod. civ.).
Sotto il profilo processuale, l’azione di annullamento presenta diversi caratteri dall’ azione di
nullità, in particolare:
a) Legittimazione attiva relativa: la legittimazione attiva spetta solo alle parti (Art. 1441 Cod.
civ.). Esistono tuttavia delle eccezioni di annullabilità assoluta come ad esempio in materia
testamentaria.
b) Prescrizione dell’ azione: l’azione di annullamento è soggetta a prescrizione, di regola di
cinque anni (Art. 1442 Cod. civ.). Il termine inizia a decorrere dal giorno in cui è cessata la
causa che ha dato luogo al vizio, o , in altri casi, dal giorno in cui il contratto è stato
concluso. L’eccezione non è soggetta a prescrizione, pertanto può essere sollevata in ogni
momento.
c) Ammissibilità della convalida: un contratto annullabile è suscettibile di essere convalidato
(Art. 1444 Cod. civ.). La convalida è un atto con il quale il soggetto, legittimato attivo,
rinuncia a proporre l’azione di annullamento e dichiara di voler far valere il vizio, rendendo
così valido il contratto. È necessario che il soggetto conosca il vizio che colpisce il negozio.
La convalida può essere:
- Espressa: il legittimato attivo mediante dichiarazione, rende valido il contratto
rinunciando all’ azione di annullabilità;
L’annullamento ha effetto retroattivo nel senso che si considera come se il negozio non avesse
mai prodotto effetti. La retroattività opera solamente tra le parti. I diritti dei terzi sono fatti salvi
solo qualora questi abbiano acquistato in buona fede (Art. 1445 Cod. civ.). Ovviamente bisogna
tener presente, in caso di contratti aventi ad oggetto diritti reali immobiliari, degli effetti della
trascrizione.
Rescissione per contratto concluso in stato di bisogno (Art. 1448 Cod. civ.).
Anche in questo caso il codice concede l’azione di rescissione solo quando sussistano i
seguenti requisiti:
a) Presupposti soggettivi:
Uno dei contraenti deve trovarsi in una situazione di bisogno, ciò sta a significare
che questa si trovi in una situazione di difficoltà economica anche momentanea che
costringa la parte a concludere il contratto;
La controparte ne deve aver approfittato dello stato di bisogno per trarne dei
vantaggi.
b) Presupposti oggettivi: il contratto deve presentare una sproporzione fra le due
prestazioni; in questo caso l’ordinamento quantifica la sproporzione imponendo una
prestazione ecceda della metà del valore della controprestazione (ultra dimidium). In
ipotesi di contratto di divisione la sproporzione è ridotta ad un quarto (Art. 763 Cod.
civ.).
Non tutti i contratti sono rescindibili in caso di stato di pericolo, infatti non è ammessa
l’azione di rescissione per i contratti aleatori (Art. 1448 comma 4 Cod. civ.) e per il contratto
di transazione (Art. 1970 Cod. civ.).
In entrambi casi, quindi, si può esperire l’azione di rescissione che presenta i seguenti caratteri:
a) Prescrizione dell’ azione: l’azione di rescissione può essere prescritta in un anno dalla
conclusione del contratto (Art. 1449 Cod. civ.). Se sussiste un reato il termine della
prescrizione coincide con la durata della prescrizione del diritto penale.
A differenza di quanto avveniva per l’annullabilità, in questo caso la prescrizione dell’
azione comporta anche la prescrizione in via di eccezione.
b) Inammissibilità della convalida: alla rescissione non possono essere applicate le regole
della convalida (Art. 1451 Cod. civ.). L’unico mezzo ammesso dalla legge per eliminare la
sproporzione è una modificazione del contratto per ricondurlo ad equità, ossia un equilibrio
fra le due prestazioni (Art. 1450 Cod. civ.). Si tratta di un rimedio manutentivo con il quale
si tende a paralizzare l’esperimento dell’ azione.
c) Irretroattività dell’ azione: l’azione di rescissione non ha effetto retroattivo (Art. 1452
Cod. civ.). Sono fatti salvi i diritti acquistati dai terzi.
La risoluzione del contratto non è una causa di invalidità del contratto, ma è una causa di estinzione
del vincolo contrattuale; si parla di risoluzione per i soli contratti sinallagmatici.
La risoluzione del contratto è lo scioglimento del vincolo e quindi la cessazione dei suoi effetti
causato da patologie funzionali: il contratto è valido ma venendo meno una prestazione (risoluzione
per inadempimento) o questa diventa impossibile (risoluzione per impossibilità sopravvenuta) o
diventa eccessivamente onerosa (risoluzione per eccessiva onerosità) si crea un disquilibrio del
sinallagma tale da richiedere lo scioglimento del contratto. Il soggetto che subisce l’inadempimento
per le cause prima citate è detto contraente fedele.
5. Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti (Art. 1461 Cod. civ.).
Il nostro ordinamento tutela inoltre i casi in cui uno dei contraenti di un contratto
sinallagmatico si trovi dinanzi al pericolo di inadempimento a causa del peggioramento delle
condizioni patrimoniali della controparte. In questi casi la legge permette di sospendere
l’esecuzione delle proprie prestazioni e di modificare il contratto richiedendo un’idonea
garanzia
La presupposizione
La presupposizione è un fenomeno giurisprudenziale, nel senso che non è previsto dal codice civile
e va tenuto distinto dalla risoluzione per eccessiva onerosità. La presupposizione è considerata una
causa eccezionale di risoluzione del rapporto contrattuale in quanto si verifica solo nelle ipotesi in
cui venuto meno l’avveramento di un evento inespresso nel documento ma che le parti
consideravano determinante. L’esempio classico è quello dell’ ipotesi in cui Tizio affitta il suo
balcone di casa a Caio per una giornata, in tale contratto non viene assolutamente menzionato che
Caio vuole affittare il balcone per assistere da una posizione previlegiata al passaggio di una
manifestazione. Qualora la manifestazione per un evento straordinario non dovesse più passare, è
ovvio che il contratto dovrebbe considerarsi sciolto.
Una presupposizione non si ha nei casi in cui le parti hanno concordato di apporre una condizione
con la quale il motivo che ha spinto le parti alla stipula del contratto acquisisce rilevanza causale:
qualora l’evento contenuto nella condizione si verifica, il contratto avrà efficacia; in caso contrario
il contratto sarà automaticamente considerato sciolto.
Il contratto di compravendita
La compravendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà , o di altro diritto,
relativi ad una cosa, dietro il corrispettivo di un prezzo ( Art. 1470 Cod. civ.).
Da quanto detto nella definizione si deducono i caratteri essenziali del contratto di compravendita,
cioè:
1. Contratto consensuale: la compravendita è un contratto che si perfeziona con il semplice
consenso delle parti; non è necessaria la consegna del bene.
2. Contratto non formale: non è richiesta alcuna particolare forma per il contratto, salvo i casi
in cui la legge la preveda espressamente;
3. Contratto sinallagmatico: si tratta di un contratto a prestazioni corrispettive in quanto il
compratore è tenuto a pagare un prezzo, mentre il venditore è tenuto alla consegna del bene.
In particolare il codice esclude che la compravendita possa essere effettuata da taluni
soggetti, sia se questi compaiono nella veste di compratore che di venditore (Art. 1471 Cod.
civ.). Pertanto possono essere considerati venditori:
Un produttore che colloca i suoi beni direttamente sul mercato o presso rivenditori;
Un intermediario nella circolazione dei beni che può esercitare la vendita direttamente
nei confronti dei consumatori (vendita al dettaglio) o tramite dei rivenditori (vendita all’
ingrosso);
Un venditore non professionale, ossia un venditore che occasionalmente vende,
solitamente, dei beni già usati.
La vendita può avere effetti reali o effetti obbligatori, in particolare: si parla di compravendita ad
effetti reali qualora il trasferimento del diritto compravenduto avviene con riferimento ad un
contratto avente ad oggetto un bene determinato; la compravendita ad effetti obbligatori, invece,
si verifica quando sorge come conseguenza del contratto l’obbligo del venditore di procurare
l’acquisto del bene al compratore. Le figure più importanti di compravendita obbligatoria sono:
Vendita di cose generiche: è necessario che le parti si accordino, e quindi determinino, sulla
quantità da trasferire e da consegnare (Art. 1378 Cod. civ.);
Vendita alternativa: il trasferimento, in questo caso, si verifica solo quando sia stata
effettuata la scelta tra i beni che erano oggetto dell’ obbligazione (Art. 1285 Cod. civ.);
Vendita di cosa futura: il trasferimento del diritto è subordinato all’ esistenza della cosa: di
verificherà solamente quando il bene sarà venuto ad esistenza. Nei casi in cui la cosa non
venga ad esistenza il contratto è nullo.
Vendita di cosa altrui: il contratto con il quale si trasferisce un diritto di cui non si è titolari
non è considerato né nullo né annullabile ma, genera l’obbligo del venditore di acquistare la
cosa dal legittimo proprietario per trasmetterla al compratore in buona fede. Il compratore in
buona fede che viene successivamente a conoscenza dell’ altruità della cosa può richiedere
la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno (Art. 1479 comma 1 Cod. civ.).
III. Vendita su campione: il contratto è concluso solo quando il bene rispetti le qualità del
campione; se la qualità non è rispettata il compratore può richiedere la risoluzione del
contratto. Dalla vendita su campione si distingue la vendita su tipo di campione, per
la quale la risoluzione si attua solo se la qualità del bene ha una notevole differenza
con il campione; in questo caso, infatti, il campione serve solo per indicare in modo
approssimativo la qualità (Art. 1522 Cod. civ.).
d) Vendita immobiliare
La vendita avente ad oggetto beni immobili o mobili registrati va fatta per iscritto (Art. 1350
Cod. civ.) ed è soggetta a trascrizione (Art. 2643 n.1 Cod. civ.). In base alla determinazione
del prezzo possiamo distinguere:
Vendita a misura: le parti determinano il prezzo in proporzione ad una unità di misura.
Se la misura risulta errata le parti hanno diritto ad un adeguamento del prezzo.
Vendita a corpo: le parti fissano un prezzo per l’intero immobile; in questo caso se nel
contratto le parti indicano la misura dell’ immobile il prezzo potrà essere diminuito o
aumentato solo la misura reale superi un ventesimo rispetto a quella indicata nel
contratto (Art. 1538 Cod. civ.).
Sono nulli i contratti che non contengono il permesso di costruire o il permesso rilasciato in
sanatoria; sono altrettanto nulli i contratti che hanno ad oggetto il trasferimento di un diritto
reale relativo ad un immobile che non contengono i dati catastali dell’ immobile.
Il contratto di permuta è un accordo fra due parti avente ad oggetto il trasferimento della proprietà
di un bene o di altri diritti dietro il trasferimento di un altro bene (Art. 1552 Cod. civ.); si tratta di un
contratto molto simile a quello di compravendita l’unica differenza è che questo non prevede il
pagamento di un prezzo, si potrebbe dire molto simile all’antico baratto.
Qualora il permutante abbia subito l’evizione può decidere se richiedere la restituzione della cosa
data o il valore della cosa evitta (Art. 1553 Cod. civ.).
Le spese riguardanti il contratto, e altre spese accessorie, sono a carico di entrambi i contraenti
salvo patto contrario (Art. 1554 Cod. civ.).
Le ipotesi non previsti specificatamente per la permuta, saranno disciplinate dalle norme sulla
vendita, in quanto compatibili (Art. 1555 Cod. civ.).
La locazione e l’affitto
La locazione è il contratto con il quale una parte, detta locatore o concedente, si obbliga a far
utilizzare ad un altro soggetto, detta conduttore o inquilino, un bene per un determinato periodo di
tempo in cambio di un determinato corrispettivo (Art. 1571 Cod. civ.).
In tema di locazione possiamo poi distinguere:
La locazione di beni mobili, in particolare di beni mobili registrati. Dalla locazione va tenuto
distinto il noleggio, ossia un contratto con il quale il conduttore non utilizza direttamente il
bene ma questo resta nelle disponibilità e responsabilità del concedente.
La locazione di beni immobili urbani e non urbani (es. fabbricati rurali), si tratta del
contratto più diffuso al quale il legislatore ha anche previsto una disciplina separata di cui se
ne parlerà successivamente.
La locazione di beni produttivi, per i quali si parla più propriamente di affitto.
Nonostante negli anni la locazione sia stata oggetto di sempre nuove leggi, il codice civile dedica
un’ ampia disciplina a questa, disciplina che oggi consideriamo come regola generale qualora le
leggi speciali non dispongono diversamente; sono qui di seguito riportate le norme dedicate alla
locazione:
L’affitto
L’affitto rappresenta un particolare contratto di locazione che il codice disciplina separatamente
per via della natura del bene oggetto di locazione. Si tratta di un contratto avente ad oggetto un
bene produttivo, mobile o immobile, che stabilisce l’obbligo dell’ affittuario di curarne la
gestione secondo la sua destinazione economica; a questi spettano i frutti e le altre utilità
derivanti dalla cosa (Art. 1615 Cod. civ.). Se il conduttore non rispetta le regole stabilite, il
locatore può richiedere la risoluzione del contratto (Art. 1618 Cod. civ.).
L’ affittuario può aumentare il reddito della cosa purché ciò non comporti degli obblighi del
locatore (Art. 1620 Cod. civ.).
LA RESPONSABILITÁ EXTRACONTRATTUALE
La responsabilità extracontrattuale
b) L’ illiceità del fatto. Esistono delle fattispecie in cui è la stessa legge a definire illecito il
fatto e di conseguenza obbliga chi l’ha commesso a risarcire il danno. In altri casi lo stesso
articolo 2043 Cod. civ. , a stabilire la regola generale secondo cui un qualsiasi danno
ingiusto dovrà essere risarcito, non sono, quindi, esplicitamente indicati quali siano questi
danni. In generale si può definire ingiusto il danno che lede l’interesse altrui.
L’atto da cui derivano i danni sarà un atto illecito e la condotta sarà definita antigiuridica.
Il matrimonio è un istituto di una importante tradizione sia dal punto di vista religioso che da un
punto di vista giuridico. Ovviamente, l’istituto che qui verrà esaminato sarà quello disciplinato dal
nostro ordinamento giuridico.
Il diritto italiano disciplina analiticamente il matrimonio ma non ne offre una definizione;
solitamente con questo termine si tende a delineare non solo il rapporto giuridico che si crea tra i
due coniugi (nel senso che tra gli sposi si creano degli obblighi reciproci che determinano degli
effetti giuridici), ma anche lo stesso atto che dà vita alla società coniugale.
Gli elementi che caratterizzano il rapporto coniugale sono:
a) Esclusività: come è noto il nostro ordinamento ammette solo la monogamia;
b) Indisponibilità: è esclusa una disciplina convenzionale del rapporto;
c) Indeterminatezza: non ha alcun termine di durata.
Sino al 1970, il matrimonio in Italia era anche indissolubile, ha perso questo carattere con
l’introduzione del divorzio nell’ ordinamento giuridico.
Mentre gli effetti e la disciplina dell’ istituto sono gli stessi, ciò che potrebbe cambiare dal punto di
vista giuridico è la celebrazione dell’ atto, di seguito infatti saranno analizzate le diverse tipologie.
MATRIMONIO CIVILE
Promessa di matrimonio
Prima della celebrazione del matrimonio, c’è un periodo che il diritto prende in considerazione per
via della “promessa” di contrarre matrimonio e la sorte dei doni che i futuri coniugi si sono
scambiati in vista del matrimonio. Si tratta di quello che gergalmente definiamo “fidanzamento”.
La legge impone la libertà delle parti sino al momento della celebrazione del matrimonio, ciò
significa che nessuno delle parti si obbliga con la promessa di contrarre il matrimonio o di pagare
una penale in caso di inadempimento (Art. 79 Cod. civ.). Nonostante ciò, l’ordinamento ha previsto
una particolare disciplina nel caso in cui una delle due parti, facendo affidamento sulla promessa,
abbia contratto debiti o affrontato delle spese per costituire la nuova famiglia: qualora la promessa
sia stata fatta per atto pubblico o scrittura privata o risulta dalla pubblicazione, obbliga il
promittente che si rifiuta senza un giusto motivo di contrarre le nozze, a risarcire il danno dell’
altra parte (Art. 81 Cod. civ.); il risarcimento è limitato alle spese e alle obbligazioni contratte in
vista del matrimonio proprio per evitare che il timore del promittente di dover risarcire ulteriori
danni possa “costringerlo” a celebrare ugualmente le nozze.
Nei casi di rottura del fidanzamento, il promittente ha sempre la possibilità di richiedere la
restituzione dei doni fatti facendo sempre affidamento sulla promessa (queste donazioni non
richiedono la forma dell’ atto pubblico e si perfezionano con la consegna del bene) (Art. 80 Cod.
civ.). Sia l’azione di restituzione dei doni che quella del risarcimento del danno sono soggette ad un
termine di prescrizione pari a un anno dal momento del rifiuto di celebrare il matrimonio (Art. 80
comma 2, 81 comma 3 Cod. civ.).
Capacità e impedimenti
Per poter contrarre il matrimonio è necessario che entrambi i coniugi abbiano la piena capacità di
sposarsi e non ci siano impedimenti relativi alla coppia.
Per quanto riguarda le capacità richieste ai coniugi, l’ordinamento stabilisce:
1. Libertà di Stato. I futuri coniugi non devono essere legati da vincoli di nozze precedenti, a
meno che queste non siano state annullate o considerate nulle (Art. 86 Cod. civ.).
Pubblicazione e celebrazione
Ancor prima della celebrazione del matrimonio è necessario rispettare alcune formalità
preliminari: si tratta della pubblicazione (Art. 93 Cod. civ.).
La pubblicazione è l’affissione di un atto contenente le generalità degli sposi al comune per almeno
otto giorni a cura dell’ufficiale dello Stato civile. La celebrazione non può avvenire prima del
quarto giorno successivo alla pubblicazione (Art. 99 Cod. civ.). Può essere richiesta da uno dei due
futuri coniugi o da un terzo che abbia avuto un incarico speciale; l’ufficiale dello Stato civile ha
l’obbligo di verificare l’esattezza della dichiarazione, e quindi che non ci siano eventuali
impedimenti alle nozze. Se l’ufficiale dello Stato civile si rifiuta di pubblicare l’atto, si potrà fare
ricorso al tribunale che provvederà con il rito della camera di consiglio, sentito il pubblico ministero
(Art. 98 Cod. civ.).
La funzione della pubblicazione è quello di rendere noto ai terzi le future nozze in modo che gli
interessati possono fare eventuali obiezioni. Se infatti manca uno dei requisiti essenziali per la
celebrazione, i soggetti indicati all’ articolo 102 Cod. civ. ( genitori, altri ascendenti e collaterali
entro il terzo grado, tutore o curatore e il pubblico ministero) possono opporsi alle nozze. In questo
caso il tribunale convoca le parti e sospende il matrimonio sino alla rimozione dell’ opposizione.
Nel caso in cui l’opposizione viene rimossa, chi l’ha proposta può essere condannato al
risarcimento del danno (Art. 104 Cod. civ.)
La pubblicazione può essere omessa per gravi motivi (Art. 100 Cod. civ.).
La celebrazione può avvenire al comune pubblicamente davanti all’ ufficiale dello Stato civile (Art.
106 Cod. civ.): devono essere presenti almeno due testimoni e devono essere letti gli articoli 143-
144-147 Cod. civ.; l’ufficiale dello Stato civile deve ricevere da ciascuna delle parti la dichiarazione
che effettivamente vogliono contrarre matrimonio. Immediatamente dopo la celebrazione, si dovrà
procedere alla compilazione dell’ atto che verrà iscritto nel registro di Stato civile (Art. 107 Cod.
civ.).
La dichiarazione degli sposi, come già detto, non è sottoposta né a condizione né a termine se
apposta l’ufficiale dello Stato civile può non celebrare il matrimonio, se lo fa ugualmente questi si
hanno come non apposti (Art. 108 Cod. civ.).
È ammesso il matrimonio per procura per i militari in tempo di guerra o per gli sposi che risiedono
all’estero per gravi motivi. Questo deve essere fatto per atto pubblico e ha un breve termine di
efficacia (180 giorni) (Art. 111 Cod. civ.).
MATRIMONIO RELIGIOSO
Il matrimonio concordatario è una celebrazione che può essere effettuata solo dai coniugi di
religione cattolica; per evitare discriminazioni tra soggetti di culto cattolico e soggetti di culto
acattolico il nostro ordinamento ha previsto che il matrimonio celebrato dinanzi ad un ministro di
un culto diverso da quello cattolico può produrre effetti civili (Art. 83 Cod. civ.).
Il nostro codice ha interamente disciplinato il matrimonio religioso sul piano della validità
giuridica: la celebrazione per poter essere valida deve essere autorizzata dall’ ufficiale di Stato
civile e celebrata dal ministro del culto religioso dei due futuri coniugi. Anche il matrimonio
religioso deve essere trascritto nel registro dello Stato civile, è esclusa la trascrizione tardiva.
Il testo originario del nostro ordinamento affermava la superiorità del marito, identificato come
capo famiglia, rispetto alla moglie e ai figli; oggi l’articolo 29 Cost. impone che non ci siano
differenze tra marito e moglie, si tratta di una eguaglianza morale ma soprattutto giuridica. Con
l’introduzione dell’ eguaglianza tra i coniugi, il codice civile ha modificato i suoi articoli indicando
quali sono i diritti e i doveri di questi. Il primo principio fondamentale che regola i rapporti che
nascono dal matrimonio è l’acquisto di medesimi diritti e doveri nel rapporto coniugale (Art. 143
comma 1 Cod. civ.). In particolare gli articoli 143 e 144 Cod. civ. indica i diritti e i doveri dei
coniugi mentre gli articolo 147 e 148 Cod. civ. indica i doveri dei coniugi nei confronti della
prole (proprio con riferimento a quest’ultima materia, la nuova riforma del 2013 ha unificato le
discipline riguardanti i rapporti tra i genitori e i figli nati nel matrimonio e fuori dal matrimonio).
Il matrimonio era indissolubile, si scioglieva solamente alla morte di uno dei due coniugi (Art. 149
Cod. civ.); ha perso il suo carattere dell’indissolubilità con l’introduzione nel codice della
separazione personale dei coniugi, nonché della cessazione legalmente sanzionata dell’obbligo di
convivere, da ciò deriva una diversa disciplina degli altri obblighi (Art. 150 Cod. civ.).
La separazione è una situazione transitoria in quanto può essere fatta cessare in qualsiasi momento
con la riconciliazione, che può verificarsi con la semplice ripresa della convivenza (Art. 157 Cod.
civ.).
La separazione può presentarsi in due diversi modi:
a) Separazione di fatto: interruzione della convivenza coniugale; non è sanzionata con alcun
provvedimento in quanto è espressione della libera volontà dei coniugi.
b) Separazione legale: è l’unica ad essere disciplinata dal Codice civile e può presentarsi
come:
Separazione giudiziale, si verifica quando un solo coniuge richiede la separazione
per cessare la convivenza che è ormai diventata intollerabile (Art. 151 comma 1
Per divorzio si intende lo scioglimento del vincolo matrimoniale e la cessazione di tutti gli obblighi
che da questo derivano (se si tratta di matrimonio concordatario, saranno cessati i soli effetti civili,
continuano a sussistere quelli religiosi).
Nel ordinamento italiano, il divorzio è considerato quale rimedio al fallimento coniugale ossia
quando la comunione spirituale e materiale non può più essere mantenuta.
Il divorzio è ammesso solo nelle fattispecie espressamente previste dalla legge, ad esempio:
Qualora sussista una separazione ininterrotta di tre anni. I tre anni decorrono dall’udienza
iniziale del procedimento
Qualora ci sia una condanna penale passata in giudicato per reati in danno al coniuge o ai
figli;
L’annullamento o la mancata consumazione del matrimonio.
Al verificarsi di una di queste ipotesi, i coniugi congiuntamente possono chiedere al giudice di
pronunciare lo scioglimento del matrimonio.
Anche in questo caso il giudice può disporre l’obbligo di pagare un assegno periodico ad un solo
coniuge; il valore dell’ assegno è proporzionato alle condizioni economiche e sociali dei coniugi,
alla loro partecipazione al patrimonio familiare. L’assegno potrebbe subire delle modifiche in base
al variare delle situazioni. La corresponsione può avvenire in un’unica soluzione purché questa sia
Nelle ipotesi di separazione, divorzio, cessazione della convivenza o invalidità del matrimonio
(quindi di crisi della coppia), la regola fondamentale per quanto riguarda la prole è quella dell’
affidamento condiviso, recentemente modificato e oggi disciplinato dal Capo II del titolo IX
Quando la coppia cessa di convivere, i figli devono avere un rapporto equilibrato e continuato con
ciascuno dei genitori che dovranno continuare a rispettare i doveri che hanno nei loro confronti.
Pertanto il giudice deve avere come primo scopo quello di rispettare l’interesse del minore
affidando ad entrambi i genitori il minore, può proporre l’affidamento esclusivo quando il rapporto
con l’altro è contrario al suo interesse.
Nel dettare i provvedimenti, ciò che per prima cosa stabilisce il giudice è la residenza del minore,
ossia dove abitualmente questo dovrà vivere, e i tempi e i modi della presenza del figlio presso
l’altro genitore.
La responsabilità genitoriale è sempre affidata ad entrambi i genitori, i quali possono prendere
singolarmente le decisioni di minore importanza ,mentre le altre vanno prese di comune accordo; in
caso di disaccordo sarà il giudice a decidere. Per quanto concerne il mantenimento, entrambi i
genitore ne devono provvedere il relazione al loro reddito e sarà il giudice a decidere l’ammontare
dell’ assegno di mantenimento che l’uno dovrà versare all’altro. Se la coppia ha figli maggiorenni
non autonomi economicamente, il giudice potrà disporre a suo favore un assegno periodico.
La legge stabilisce anche l’assegnazione della casa familiare perseguita principalmente nell’
interesse dei figli; l’assegnazione rileva ai fini dei rapporti economici ed è suscettibile di
trascrizione. L’assegnazione viene meno quando il coniuge – assegnatario non abiti in quella casa.
Principi generali
La successione per causa di morte rappresenta uno dei fenomeni grazie al quale un soggetto
subentra ad un altro nella titolarità di più rapporti giuridici attivi e passivi.
Il legislatore ha voluto disciplinare la successione per causa di morte in quanto vuole evitare che il
patrimonio del defunto resti privo di titolare e che si determini una situazione di incertezza nei
rapporti obbligatori. Alla vicenda successoria si aggiungono, oltre all’interesse del legislatore, gli
interessi dell’ereditando che si preoccupa della sorte dei suoi beni alla sua morte, l’interesse dei suoi
familiari e dei suoi creditori. Non per ultimo è l’interesse dello Stato il quale tassa i trasferimenti di
ricchezza derivanti dalla successione, ma potrebbe anche ricevere l’intero patrimonio ereditario in
determinate circostanze.
È escluso l’intervento pubblico nella gestione del patrimonio ereditario che è lasciata alle decisioni
dell’ ereditando, il quale può disporre dei suoi beni mediante testamento (Successione
testamentaria). La sua disponibilità del patrimonio è limitata qualora esistano stretti congiunti,
come coniuge e figli, ai quali il legislatore riconosce una quota del patrimonio definita legittima che
varia a seconda del numero e della loro qualità (Successione necessaria). I legittimari sono coloro
ai quali è sempre riconosciuta una parte del patrimonio anche se il testamento è a ciò contrario; in
questo caso possono impugnarlo e richiedere una riduzione.
La quota disponibile può essere gestita dall’ ereditando come meglio crede.
Ove l’ereditando non abbia provveduto a disporre mediante testamento, è la stessa legge a stabilire
a chi dovrà essere assegnato il patrimonio (Successione legittima).
È vietato un qualsiasi contratto con il quale l’ereditando disponga dei suoi bene dopo la morte in
quanto ciò significherebbe valutare la morte come causa dell’ attribuzione patrimoniale (Art. 458
Cod. civ.).
L’interesse dei creditori è tutelato da diversi strumenti, in particolare dalla trasmissione dei debiti
ereditari dal de cuius all’erede.
L’eredità non è assoggettata ad una disciplina tipica ma ad una varietà di regimi viste le diverse
casistiche.
La successione mortis causa può avvenire a titolo universale – istituzione di erede – o a titolo
particolare – legato (Art. 588 Cod. civ).
L’istituzione di erede attribuisce all’ erede una quota astratta del patrimonio del soggetto che è
venuto a mancare, subentra quindi in tutti i rapporti attivi o passivi; il legato, invece, è una
disposizione che permette di attribuire all’ erede dei beni determinati. Di regola il legato è disposto
per testamento ma è anche possibile che la legge lo preveda espressamente (es. il diritto del coniuge
superstite di abitazione nella casa familiare). La differenza fondamentale tra istituzione di erede e
legato si rileva soprattutto per quanto riguarda i debiti ereditari: l’erede, a differenza del legatario, è
tenuto a pagare i debiti ereditari in proporzione alla propria quota di eredità (Art. 752 Cod. civ.). In
concreto, per poter comprendere se ci si trova dinanzi ad una successione a titolo universale o ad
una successione a titolo particolare è necessaria una interpretazione della dichiarazione del
testatore: potrebbe essere possibile che il testatore abbia attribuito determinati beni ad un soggetto
considerandoli come quota del suo complessivo patrimonio. L’interpretazione è spesso molto
difficile in quanto le disposizioni possono essere state redatte da una persona che non conosceva le
sottili differenze fra istituzione di erede e legato.
La successione viene aperta nel momento della morte di una persona determinata e nel luogo dell’
ultimo domicilio del defunto. Aperta la successione occorre vedere a chi spetta una quota o i singoli
beni del patrimonio, in altre parole si prosegue alla delazione dell’ eredita (Art. 457 Cod. civ.) ossia
Può succedere qualunque persona fisica purché questa sia già nata (Art. 462 Cod. civ.). Il legislatore
ha allargato tale capacità disponendo che anche i nascituri, che questi siano concepiti o no, possono
succedere solo se:
- Nascano entro trecento giorni dall’ apertura della successione se si tratta di nascituri già
concepiti (Art. 462 comma 2 Cod. civ.);
- Siano i figli di una persona vivente al momento dell’ apertura della successione, se sono
nascituri non concepiti (Art. 462 comma 3 Cod. civ.).
In entrambi questi casi, il problema si pone sull’amministrazione dei beni sino alla nascita del
nascituro, in quanto come è noto non si può considerarli intestatari se non nascono. Il legislatore
ha, pertanto, stabilito una serie di norme le quali prevedono che qualora il nascituro sia non
concepito si applicano le stesse norme in materia di apposizione di una condizione sospensiva (Art.
643 comma 1 Cod. civ.): il lascito non produce effetti sino all’ avveramento della condizione , in
questo caso sino alla nascita, in questo periodo l’amministrazione spetta a favore di chi è stata
istituita la sostituzione, quindi a favore di chi è chiamato a succedere se il nascituro non dovesse
venire ad esistenza (Artt. 641- 642 Cod. civ.). Se è stato chiamato all’ eredità un nascituro
concepito l’amministrazione dei beni ereditari spetta ai genitori (Art. 643 comma 2 Cod. civ.).
È possibile che un soggetto per aver compiuto fatti realmente gravi nei confronti del de cuius, sia
escluso dall’ eredità anche se questo è un legittimario. Si tratta dell’ indegnità che opera come
causa di esclusione di un soggetto in forza di una sentenza costitutiva del giudice. Per poter essere
esclusi è necessario che si verifichi una delle ipotesi tassativamente previste dalla legge all’ articolo
463 Cod. civ., ad esempio il tentato omicidio o l’omicidio consumato del de cuius.
La sentenza che pronuncia l’indegnità ha effetto retroattivo, quindi l’indegno è considerato come se
non fosse mai stato erede per tale ragione ha l’obbligo di restituire i frutti che ha percepito dopo
l’apertura della successione relativi ad un bene ereditario (Art. 464 Cod. civ.). L’indegno potrebbe
essere riabilitato dal de cuius o con una dichiarazione espressa che richiede la forma dell’ atto
pubblico o tramite un lascito a suo favore (Art. 466 Cod. civ.).
Qualora il chiamato all’ eredità non dovesse accettare mediante una rinuncia all’ eredità operano
gli istituti della rappresentazione, dell’ accrescimento o della sostituzione. La rinuncia all’ eredità è
una dichiarazione unilaterale che opera retroattivamente nel senso che il chiamato all’ eredità
risulta come se non fosse mai stato chiamato (Art. 519 Cod. civ.). A differenza dell’ accettazione la
rinuncia è revocabile purché non sia trascorso il termine di prescrizione del diritto di accettazione e
l’eredità non sia stata già accettata da un altro chiamato (Art. 525 Cod. civ.).
La rappresentazione
La rappresentazione è l’istituto in forza del quale i discendenti legittimi o naturali, può quindi avere
luogo in linea retta o collaterale, (cd. rappresentanti) subentrano al chiamato all’ eredità qualora
questo non può o non vuole accettare l’eredità (Art. 468 Cod. civ.). La rappresentazione opera solo
quando l’ereditando non ha previsto cosa potrebbe accadere nel caso in cui il chiamato non voglia
accettare. (Art. 467 Cod. civ.).
La rappresentazione è esclusa quando opera la sostituzione.
L’accrescimento
Si verifica il fenomeno dell’ accrescimento quando la quota di un chiamato all’ eredità che non può
o non vuole accettare va ad accrescere la quota spettante agli altri chiamati dello stesso testamento
(Art. 674 Cod. civ.).
La sostituzione
La sostituzione si verifica quando sia stato lo stesso testatore a prevedere nel caso in cui il primo
chiamato non voglia o non possa accettare, chi a questo deve subentrare (Art. 688 Cod. civ.). Come
anticipato, la sostituzione prevale sulla rappresentazione.
Il nostro ordinamento giuridico consente a ciascun soggetto di disporre dei suoi beni dopo la morte
mediante il testamento; se il defunto non ha disposto il testamento per la totalità del suo patrimonio
o anche per una sola parte, la legge indica chi sono i successibili (Art. 457 Cod. civ.).
I criteri sui quali si basa la successione legittima sono sicuramente collegati con la solidarietà
familiare, infatti le categorie successibili per primi i parenti più vicini al defunto, in assenza di
questi si procede sino ai parenti non oltre il sesto grado (Art. 565 Cod. civ.).
I primi soggetti che hanno diritto a succedere sono il coniuge e i figli: se il coniuge concorre con
uno solo dei figli ha diritto a metà patrimonio, ad un terzo se ci sono più figli (Art. 581 Cod. civ.). Il
coniuge separato conserva i diritti ereditari, a differenza del coniuge divorziato.
In assenza di coniuge succedono i figli in parti uguali (Art. 566 Cod. civ.); la presenza dei figli
esclude dalla successione i genitori del defunto o i suoi fratelli o sorelle (Art. 568 Cod. civ.).
Se il defunto non lascia prole o fratelli e sorelle, succedono i suoi genitori in parti uguali (Art. 568
Cod. civ.). In assenza dei genitori succedono gli ascendenti o i collaterali sino al sesto grado; oltre il
sesto grado, i parenti sono esclusi dalla successione (Art. 572 Cod. civ.).
In assenza di altri successibili, l’eredità si devolve allo Stato (Art. 586 Cod. civ.), con lo scopo di
assicurare la gestione dei rapporti giuridici riferibili alle persone defunte che non hanno lasciato
eredi. In quest’ultimo caso, lo Stato risponde dei debiti ereditari limitatamente al patrimonio
ereditario.
Come più volte detto un soggetto è libero di disporre dei beni dopo la morte, ma anche di donare in
vita i suoi beni a chiunque, nonostante ciò la legge assicura a una particolare categoria di soggetti,
ossia i parenti più stretti, un diritto di ricevere una parte dei beni facenti parte dell’asse ereditario.
La quota di patrimonio che la legge riserva a tali soggetti è detta quota di legittima o di riserva
mentre i soggetti sono detti legittimari. Si parla a tal proposito di successione necessaria, che può
avere luogo anche contro quanto detto nel testamento qualora la quota di riserva non viene
rispettata.
I soggetti detti legittimari sono il coniuge, i figli e gli ascendenti (Art. 536 Cod. civ.); la quota a loro
spettante può dipendere dal numero e dai soggetti con i quali si concorre (vedi 537 Cod. civ.). La
riserva a favore degli ascendenti opera solo se il defunto non lascia figli; al coniuge spetta l’intera
quota di riserva se non ci sono né figli né ascendenti.
In altre parole possiamo dire che quando si apre una successione e sono presenti dei legittimari, il
patrimonio ereditario risulta così diviso:
1. Patrimonio disponibile: la parte dell’ asse ereditario di cui il testatore può disporre come
meglio crede;
2. Patrimonio di riserva: una quota che inderogabilmente spetta ai legittimari per legge. Il
testatore non può imporre nessun peso e nessuna condizione su questa parte del patrimonio
(Art. 549 Cod. civ.).
Per poter stabilire se il testatore con le donazioni o con le disposizioni testamentarie abbia leso i
diritti spettanti ai legittimari, è necessario calcolare l’entità del patrimonio quando la successione
viene aperta: la cosiddetta riunione fittizia. A tal fine bisognerà calcolare il valore dei beni di cui
disponeva il defunto al tempo dell’ apertura della successione (relictum), a questo vanno sottratti i
debiti per ottenere l’attivo ereditario. A tale risultato vanno aggiunti i beni di cui il testatore ha
disposto in vita a titolo di donazione (donatum). Sull’ asse così determinato (relictum – debiti +
donatum) andrà valutata la quota disponibile (Art. 556 Cod. civ.).
Qualora il testatore abbia devoluto una quota superiore a quella effettivamente disponibile, i
legittimari possono agire per ottenere la riduzione del valore della donazione o della disposizione
testamentaria. Si tratta dell’ azione di riduzione (Art. 556 Cod. civ.). I legittimari non possono
rinunciare all’azione di riduzione durante la vita del testatore, possono rinunciarvi solo all’ apertura
della successione.
L’azione di riduzione opera prima nei confronti delle disposizioni testamentarie che vengono
diminuite proporzionalmente, in secondo luogo colpirà le donazioni fatte in vita dal testatore. Se
l’azione è accolta il beneficiario della disposizione testamentaria o il donatario deve restituire il
bene libero da ogni peso o ipoteca (Art. 561 Cod. civ.).
Se l’azione ha ad oggetto beni mobili registrati o immobili, deve essere trascritta. È soggetta a
prescrizione decennale.
Qualora il bene donato con una disposizione lesiva della legittima sia stato alienato ad un terzo, il
legittimario può pur sempre espedire l’azione di riduzione nei confronti del donatario il quale se è in
grado di pagare fa salvo l’acquisto del terzo, in caso contrario il legittimario dovrà rivolgersi
direttamente al terzo (Art. 563 Cod. civ.). L’azione di restituzione nei confronti dei terzi non può
essere proposta dopo venti anni dalla trascrizione della donazione.
È concesso ai legittimari, quando il donante è ancora in vita, notificare e trascrivere nei confronti
del donatario e dei suoi aventi causa un atto di opposizione alla donazione, il quale fa sospendere il
decorso del termine ventennale; la ratio è spiegata perché i legittimari non possono espedire
l’azione di riduzione durante la vita del donante, e qualora quest’ultimo viva per vent’anni dalla
donazione ai legittimari non è riconosciuto nessun diritto, con tale atto invece fermano il decorso
del termine. L’atto di opposizione deve essere trascritto nei registri immobiliari e deve essere
rinnovato prima che siano trascorsi i vent’anni dalla trascrizione pena la perdita dell’ efficacia (Art.
563 ultimo comma Cod. civ.).
Dalla definizione riportata dal legislatore all’ articolo 769 Cod. civ. si evince che la donazione è un
contratto a titolo gratuito con il quale una parte, detta donante, per spirito di liberalità arricchisce
un’ altra, detta donatario, trasferendole un diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione.
Essendo un contratto, quindi, non è importante la sola volontà del donante di arricchire il donatario
senza ricevere un corrispettivo in cambio ma, occorrendo per il perfezionamento l’accordo fra le
parti, è necessaria l’accettazione di quest’ultimo.
Gli elementi che caratterizzano il contratto di donazione sono:
Spirito di liberalità (animus donandi): è la causa del contratto di donazione, che come
vuole la regola generale non indica il motivo che ha spinto il donante a stipulare il contratto.
Ovviamente la causa può variare a seconda del tipo di donazione che si sta compiendo, ciò
che unisce i diversi contratti è l’assenza del corrispettivo.
Rientra tra i contratti di donazione la cd. donazione rimuneratoria (Art. 770 Cod. civ.): la
liberalità fatta per riconoscenza, o in considerazione di meriti del donatario, o per speciale
remunerazione. Dobbiamo distinguere da questa la liberalità che si vuol fare in occasione di
servizi resi o in conformità agli usi (es. i regali a parenti ed amici) (Art. 770 comma 2 Cod.
civ.).
Arricchimento: è l’incremento del patrimonio del donatario che può avvenire o disponendo
di un diritto o assumendo un’obbligazione nei confronti del donatario.
Essendo un contratto è bene sottolineare che è nulla ogni promessa di donazione in quanto
stipulando un contratto preliminare si perde lo spirito di spontaneità, nonché l’animus donandi.
La donazione rientra tra i contratti tipici a scopo di liberalità, e che come tale ha una propria
disciplina ma non tutti i contratti gratuiti e con scopo di liberalità rappresentano contratti di
donazione. Un esempio di negozi aventi lo scopo di liberalità che però non sono disciplinati dalle
norme sulla donazione, sono le donazioni indirette: lo scopo principale è sempre quello di
arricchire un’altra persona senza ricevere alcun corrispettivo ma ciò avviene con la stipulazione di
un contratto avente causa diversa (es. pago un debito altrui, in questo caso sto arricchendo il
patrimonio altrui in quanto sto estinguendo un debito per suo conto ma non lo sto facendo mediante
il contratto di donazione). La disciplina che si applica alle donazioni indirette è quella del diverso
contratto che indirettamente si stipula ai fini della liberalità.
Requisiti e disciplina
Per poter stipulare un contratto i donazione è necessario, così come per le disposizioni
testamentarie, avere una soglia di capacità; non possono, infatti, donare i minorenni e gli incapaci
di agire o di intendere e di volere (Art. 774 Cod. civ.). Qualora l’incapacità sia anche solo
transitoria, il contratto è annullabile su istanza del donante che può agire entro cinque anni dal
giorno in cui è stata fatta la donazione (Art. 775 Cod. civ.). Una deroga a questa regola generale è
fatta per le donazioni a causa di matrimonio, o donazioni obnuziali, fatta da un minore o dall’
inabilitato, le quali sono valide solo se fatte con l’assistenza delle persone che esercitano la
responsabilità genitoriale o la tutela o la curatela (Artt. 165 – 166 Cod. civ.).
Anche le persone giuridiche sono capaci di fare donazioni solo se tale capacità è riconosciuta nel
loro statuto o nel loro atto costitutivo.
La rappresentanza è esclusa per il contratto di donazione: è un contratto strettamente personale e
pertanto è il donante che dovrà scegliere il donatario o l’oggetto della donazione; è quindi nullo il
mandato a donare (Divieto del mandato di donazione: art. 778 comma 1 Cod. civ.).
È , invece, valido il contratto di donazione a favore di un terzo che dovrà scegliere il donatario fra
più persone o l’oggetto fra più beni (Art. 778 comma 2 Cod. civ.).
Per il contratto di donazione è richiesta la forma ad substantiam dell’ atto pubblico (Art. 782
comma 1 Cod. civ.) e la presenza di due testimoni. La forma imposta dalla legge ha lo scopo di
L’invalidità della donazione per alcuni punti diverge dalla generale disciplina dei contratti e per altri
è affine a quella stabilita per il testamento.
La donazione non può sciogliersi se non per le cause ammesse dalla legge; tuttavia il legislatore ha
concesso il diritto di revoca al donante solo per due gravi ragioni (Art. 800 Cod. civ.):
1. Ingratitudine del donatario (Art. 801 Cod. civ.).
I casi di ingratitudine contemplati dal codice corrispondono ai casi dei n. 1,2,3 dell’ articolo
463 Cod. civ., nonché i casi di indegnità in materia testamentaria. Si parla, allo stesso modo,
di ingratitudine quando si verificano le ipotesi di ingiuria grave: è quel comportamento che
si concreta in un’offesa alla personalità morale del donante o è lesiva del suo decoro e della
sua immagine sociale. È definita ingratitudine del donatario anche il grave pregiudizio che è
stato recato al patrimonio del donante o gli ha rifiutato gli alimenti.
2. Sopravvivenza dei figli (Art. 803 Cod. civ.).
Il legislatore presuppone che qualora il donante avesse saputo dell’ esistenza di un figlio o
che ne avrebbe avuto uno, l’amore che un soggetto ha verso la prole non lo avrebbe portato
a donare un determinato bene. Se il donante scopre di avere un figlio nato fuori dal suo
matrimonio, la revoca è ammessa solo se lo riconosce.
Le norme riguardanti la revoca delle donazioni, non si applicano alle donazioni obnuziali o alle
donazioni rimuneratoria (Art. 805 Cod. civ.).
Le revoca è una diritto potestativo concesso al donante di togliere l’efficacia della donazione nei
casi previsti dalla legge.
La sentenza che pronuncia la revocazione, condanna il donatario alla restituzione dei beni (Art. 807
comma 1 Cod. civ.); se il donatario ha alienato i beni a terzi dovrà restituire il valore del bene (Art.
807 comma 2 Cod. civ.). La domanda di revocazione non pregiudica i terzi che hanno acquistato i
diritti anteriormente alla domanda, fatti salvi gli effetti della trascrizione della domanda (Art. 808
Cod. civ.).
LA PUBBLICITÁ IMMOBILIARE
La trascrizione
Come sino ad ora si è visto, il legislatore ha sempre previsto casi in cui un dante causa alieni lo
stesso bene a più aventi causa e relativamente a ciò abbiamo visto come nei casi di beni mobili vale
la regola del possesso vale titolo mentre nei casi di diritti reali immobiliare, ha previsto uno
strumento di pubblicità che è proprio quello della trascrizione.
La trascrizione è uno strumento imposto dall’ ordinamento ,per risolvere i conflitti fra più acquirenti
di diritti reali su uno stesso bene: il conflitto viene risolto in base all’ anteriorità della formalità
pubblicitaria, prescindendo dalla buona fede dell’ acquirente.
Gli atti soggetti a trascrizione sono tutti quegli atti che hanno ad oggetti la costituzione, la
modificazione o l’estinzione di diritti reali su beni immobili o mobili registrati (Art. 2643 Cod.
civ.), o gli atti che hanno ad oggetto particolari diritti personali, si pensi al contratto di locazione
ultra novennale.
La trascrizione avviene mediante l’iscrizione in un registro immobiliare, ossia un archivio pubblico
tenuto dal conservatore dei registri immobiliari. Grazie al registro immobiliare è possibile
conoscere gli atti compiuti da un determinato soggetto che si riferiscono ad un bene immobile. Per
poter procedere con la trascrizione è necessario un atto idoneo, ossia una sentenza di atto pubblico o
una scrittura privata autenticata (Art. 2657 Cod. civ.) che dovrà essere presentata al conservatore in
una copia , se si tratta di un atto pubblico o di una sentenza, o l’originale, se è una scrittura privata
(Art. 2658 Cod. civ.). Accanto alla presentazione della copia, è necessario presentare una nota di
trascrizione ossia un estratto dell’ atto che contiene tutte le informazioni necessarie per proseguire
con la trascrizione (1. Informazioni sotto il profilo soggettivo dei due contraenti; 2. Indicazioni del
titolo; 3. Informazioni sul notaio che ha erogato l’atto; 4. La natura dell’ immobile).
La funzione, in generale, della trascrizione è quella della pubblicità, ma a seconda dei casi essa può
svolgere diverse funzioni ossia:
1. Funzione dichiarativa (Art. 2644 Cod. civ.).
Come anticipato, la funzione della trascrizione è quella di rendere opponibile a terzi gli atti
aventi ad oggetto i diritto reale immobiliare su uno stesso immobile, o meglio serve a
risolvere il conflitto che si crea fra più persone. Tra i diversi atti prevale quello che per primo
è stato trascritto.
2. Funzione di continuità della trascrizione (Art. 2650 Cod. civ.).
Nel nostro ordinamento vale il principio generale della continuità delle trascrizioni: sappiamo
che la trascrizione nei registri immobiliari è utile per conoscere tutti gli atti precedenti, è
ovvio che una lacuna fra tutti gli atti impedisce di ricostruire le vicende di quel bene. Una
lacuna riferita alle trascrizioni precedenti, in particolare, non farà produrre gli effetti a quelle
successive: è compito del soggetto che intende trascrivere il suo atto curare le eventuali
lacune precedenti affinché la sua trascrizione produca effetto.
In sintesi, se l’atto anteriore di acquisto è stato trascritto, le trascrizioni successive producono
i loro effetti (opponibilità ai terzi) secondo il loro ordine; se quelle anteriori non sono state
correttamente trascritte si perde la continuità delle trascrizioni finché non le si cura.
3. Funzione prenotativa (Art. 2652 Cod. civ.).
Oltre agli atti elencati all’ articolo 2643 Cod. civ., sono soggette a trascrizione anche le
domande giudiziali relative ai contratti soggetti a trascrizione. L’effetto della trascrizione
delle domande giudiziali è quello di prenotare la trascrizione della successiva sentenza: se la
domanda verrà accolta la sentenza si considererà trascritta dal momento in cui è stata trascritta
la domanda giudiziale. L’effetto prenotativo della domanda giudiziale serve a regolare i