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Amore e «ben fare» nella canzone di Dante


‘Io sento sì d’Amor la gran possanza’

ENRICO FENZI

1. Punto di partenza sia una parafrasi interpretativa del testo,1 che in


passato ha procurato qualche difficoltà ai commentatori, specie nella
quarta stanza.
«[1] Io soffro a tal punto lo strapotere di Amore che non posso resistere
più a lungo alla sofferenza, e me ne lamento anche perché la sua forza
continua a crescere e la mia la sento venir meno, sì ch’io sono sempre più
debole rispetto a quello che ero. Non voglio dire che Amore faccia di più
di quello che voglio, anche perché, se solo facesse quanto il mio desiderio
vorrebbe, le forze limitate che la natura mi ha dato non riuscirebbero a
sopportarlo: ed è proprio ciò che mi dà pena, che il mio potere finirà per
rivelarsi inadeguato alla volontà. Ma se la bontà di questo mio desiderio
merita pure una ricompensa, ebbene, io la chiedo a quegli occhi che con
la loro splendida bellezza confortano la mia anima piena d’amore, sì da
ricevere da essi nuova vita.
»[2] I raggi dei begli occhi di lei penetrano nei miei che se ne sono in-
namorati e portano la loro dolcezza dovunque io senta amaro e, avendola
già percorsa, conoscono la strada e conoscono il luogo [il cuore] nel quale
hanno lasciato Amore, dopo averlo introdotto in me attraverso i miei
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occhi. Per questo, se si volgono verso di me io ne sono beneficato mentre,


se mi si nascondono, danneggiano lei alla quale io appartengo e che amo
a tal punto che è solo per servirla che mi preoccupo di restare in vita. I
miei pensieri fatti solo d’amore si volgono a servirla come al loro unico
scopo, ed io desidero con tanto ardore di operare in tal senso che se fossi
convinto di poterlo fare fuggendo da lei ci riuscirei facilmente: ma so
anche che ne morrei.
»[3] È proprio un amore vero quello che mi ha conquistato e mi tiene
così strettamente, visto che per esso io farei sul serio quello che ho detto:
nessun amore, infatti, ha tanta forza quanto quello che fa accettare la
morte per meglio servire ad altri. Ed io mi sono deciso a un amore siffatto
sin dal momento in cui il grande piacere che ora provo nacque per il po-
tere della bellezza che nel viso della mia donna riassume in sé ogni altra
bellezza possibile. Io sono servitore, e quando penso di chi, in qualsiasi
modo essa si comporti nei miei confronti, sono contento di tutto, perché
si può ben servire anche chi non vuole. E se la giovinezza di lei mi priva
dell’amorosa ricompensa, spero in una stagione nella quale ci sia per me
maggior giustizia, sempre che la mia vita riesca ad arrivare sino a quel
momento.
»[4] Quando penso che il grande amore ch’io porto ha fatto nascere in
me un nobile desiderio che spinge tutta la mia volontà a compiere il bene,
mi sembra di esserne ricompensato oltre misura: di più, mi sembra addi-
rittura sbagliato che il mio sia considerato un servizio amoroso perché, se
guardo a ciò che appare, questo mio servizio diventerebbe la ricompensa
che sarei io a concedere a lei per la sua bontà. Ma poi, se mi attengo stret-
tamente alla verità, devo tornare a considerare quel desiderio di ben fare
come un servizio, perché se mi adopero di valere non penso tanto alla mia
persona, ma lo faccio affinché una cosa che appartiene a lei accresca il
proprio pregio: io sono tutto suo e tale mi considero, ed è Amore che mi
ha reso degno di un simile onore.
»[5] Solo Amore mi poteva rendere tale, cioè degno d’essere proprietà
di una donna che non s’innamora, ma se ne sta come quella alla quale
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

nulla importa della mia mente ch’è piena d’amore e che non può passare
un’ora senza di lei. Io non l’ho mai vista senza scorgere in lei, ogni volta,
qualche nuova bellezza, sì che Amore diventa in me sempre più grande
quanto più nuova bellezza s’aggiunge. Per questa ragione io resto fermo
in un medesimo stato d’animo e Amore mi tiene in una condizione nella
quale si mescolano in parti uguali una medesima sofferenza e una mede-
sima dolcezza, solo per il tormentoso intervallo che dura dal momento in
cui perdo la possibilità di vederla sino a quello in cui la recupero.
»[6] Canzone mia bella, se tu rappresenti bene quello ch’io sono, non
essere superba come pure converrebbe alla tua bontà: ti prego tuttavia,
dolce mia amorosa, di sforzarti di trovare i modi e le vie che ti conven-
gano. Se qualche cavaliere ti invita o ti trattiene presso di sé, prima di
compiacerlo, se vuoi sapere quale egli sia, accertati, se puoi, con chi si
stringa d’amicizia, dato che il buono s’accompagna sempre ai buoni:
anche se spesso avviene che qualcuno si mette in compagnie che smenti-
scono la buona reputazione della quale altri lo gratificano. Tu, non stare
con i malvagi né all’interno della tua cerchia né nei rapporti connessi alle
tue occupazioni e interessi, ché schierarsi dalla loro parte non è mai stata
una scelta di valore.
»[7] Canzone, prima di andare altrove, vai ai tre meno colpevoli della
nostra città. Saluta i primi due, e il terzo tenta prima di tutto di strapparlo
via dalla sua cattiva combriccola. Digli che il buono non se la prende con
il buono ma prima di tutto cerca di vincere contro i malvagi; digli che è
pazzo chi non recede da atti dissennati solo per timore di riuscirne sver-
gognato; digli che solo chi fugge il male teme davvero la vergogna perché,
fuggendolo, si garantisce anche dalla vergogna che ne deriva».

2. Dopo il tentativo di parafrasi, ripercorriamo brevemente la canzone


stanza per stanza, anche a costo di qualche ripetizione.
La prima stanza dichiara il paradosso della condizione amorosa. La
«possanza» (v. 1) di Amore tendenzialmente infinita oltrepassa le limitate
forze del soggetto che lo patisce e ne annulla la forza vitale. Questo squi-
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librio generatore di inadeguatezza e sofferenza non ha altra cura che


omeopatica, attraverso una sorta di riattualizzazione dell’innamoramento:
solo la rinnovata vista della donna, infatti, riesce a «portar conforto» (v.
16) con la sua bellezza, e dunque a provocare una iniezione di nuova
«vita» (v. 14) nel soggetto che in tal modo non solo ridiventa capace di
reggere alla forza del sentimento che lo domina, ma addirittura lo incre-
menta. In termini diversi, questa funzione vitale e dinamica della presenza
della donna torna ad essere puntigliosamente sottolineata nella quinta
strofa. Qui, si osservi invece come Dante affronti il tema topico della
«mercede» (v. 13), verso la quale tradizionalmente precipitavano le la-
mentele e le recriminazioni dell’amante, e che, così inteso, mal si sarebbe
conciliato con il tema della canzone.2 Intanto, tale «mercede» non è im-
mediatamente legata alla capitolazione della donna che infine ricambierà
l’amore del quale è fatta oggetto, ma «nasce» (v. 13) – il verbo è pregnante
– dall’amore medesimo definito come un «buon volere» (v. 13) che si
scoprirà analogo al «ben far» del v. 51. Ma soprattutto Dante, fedele alla
linea inaugurata nella Vita nova con lo ‘stilo della loda’, mette in scena
una situazione che si può compendiare così: la donna con il solo conce-
dersi alla vista e ricambiandone lo sguardo offre al poeta la «mercede» di
un supplemento di vita che per lui non ha altra sostanza oltre la pura de-
dizione amorosa e un corrispondente desiderio di «ben far», cioè di agire
secondo virtù, che ha in sé la propria ricompensa e che appunto non pone
altre condizioni oltre l’«aver più vita». Ed egli ottiene questa particolare
«mercede», come è detto nel corso della canzone, a partire dai primi versi
della seconda stanza, con la forza positiva ed esaltante di quel «Entrano
…» (v. 17, ed entrando, «portan conforto»), e come è confermato poco
avanti, là dove gli occhi di lei «merzé, volgendosi, a me fanno» (v. 24: ma
si potrebbe mettere la virgola anche dopo «me»). Occorre dunque ripetere
che un tale supplemento di vita si rivela non essere cosa diversa
dall’‘amare di più’ e dall’incremento di perfezione morale in cui l’amore
si risolve, e che questo «aver più vita» e ‘amare di più’ e desiderare sem-
pre più e meglio il bene sono a loro volta momenti perfettamente omolo-
ghi, secondo una logica strettissima, al godimento di una «mercede»
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sempre più grande: «parmi esser di merzede oltrapagato» (v. 52), al punto
da imporre una ridefinizione, nella quarta stanza, del concetto stesso di
‘servizio amoroso’ (che servizio è mai quello che secondo la sua essen-
ziale definizione in ogni momento coincide perfettamente con la sua
stessa ricompensa?). Occorre tuttavia aggiungere che questa che po-
tremmo definire con qualche semplificazione una ‘fenomenologia del-
l’amore disinteressato’ e dei suoi effetti beneficanti è tutta soggettiva; essa
caratterizza la disposizione di spirito di un amante che di là dalla gratifi-
cante «mercede» che è intrinseca alla sua dedizione amorosa non rinuncia
a immaginare e a proiettare nel futuro un’altra «mercede», quella che gli
verrà da una donna finalmente innamorata. Si potrà dunque dire che la
«mercede» della prima stanza viene sùbito declinata in chiave soggettiva,
ribadita più avanti, nella quarta stanza, attraverso quei «parmi» e «par»
(«parmi esser di merzede oltrapagato», e «mi par di servidor nome te-
nere», vv. 52 e 54), mentre la contraddizione che si instaura con il vicino
v. 46 («e se merzé giovanezza mi toglie») è intrinseca alla schizofrenica
situazione vissuta dal poeta che esalta i benefici, gratificanti effetti del-
l’amore per una donna troppo giovane per provare essa stessa e ricambiare
un amore che ancora non conosce e non capisce.3 Il che esalta, per con-
trasto, l’autonomo valore della tripla ‘mercede’ – il più di vita che la
donna gli concede semplicemente offrendosi alla vista, e il più di amore
di cui il poeta immediatamente la riempie, e il più di virtù che ne è il frutto
immediato – che esiste indipendendentemente dal fatto che tale amore
non sia ricambiato, dal momento che «qual ch’ella sia, di tutto son con-
tento, / ché l’uom può ben servir contra talento» (vv.44-45). In modi ap-
parentemente semplici, dunque, da questi versi della prima stanza si
dipana il filo della canzone che tutt’intera, à rebours, ci aiuta a capirli.
La prima parte della seconda stanza sviluppa il concetto della ‘ripeti-
zione necessaria’: l’immagine della donna penetra di nuovo attraverso gli
occhi innamorati dell’amante e ripercorre ancora una volta il cammino
già fatto (20-21: «e sanno lo cammino sì come quelli / che già vi son pas-
sati»), sino al cuore, ove già era arrivata depositandovi l’amore. Questa
ripetizione, cioè la rinnovata vista di lei, è precisamente il «dolce» (v. 19)
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nutrimento dell’animo innamorato, e la ricompensa che il suo «buon vo-


lere» (v. 13) merita (v. 24: «perché merzé, volgendosi, a me fanno»): se
tale ricompensa venisse a mancare, l’amante ne sarebbe danneggiato, ma
a soffrirne le conseguenze sarebbe anche e soprattutto la donna medesima
che assisterebbe alla rovina di qualcuno ch’è s’è votato a lei sino a farsi
totalmente suo. Il tema della completa dedizione diventa ora centrale, ed
è illustrato attraverso il caso-limite di un ‘servizio’ che imponga al-
l’amante di fuggire lontano dalla donna: ebbene, se il servizio amoroso al
quale è assoggettato lo richiedesse, egli lo farebbe volentieri (31-32:
«s’io·l credesse far fuggendo lei, / lieve saria»), ma altrettanto certamente
ne morirebbe.
La terza stanza ribadisce come un amore capace di sacrificarsi sino al-
l’accettazione della morte sia un amore vero e forte, quale quello che si è
saldamente impadronito del poeta sin dal primo momento in cui la con-
templazione della sublime bellezza raccolta nel viso della donna gli ha
procurato un piacere straordinario. Egli è dunque suo «servente» (v. 43)
e quando ne ripensa le qualità è ben felice di esserlo indipendentemente
dai comportamenti di lei, visto che si può ben servire anche chi non lo
gradisce: e se per ora è solo la giovinezza di lei che priva il poeta della sua
ricompensa, egli spera di sopravvivere sino al momento in cui essa si farà
più ragionevole e si possa così instaurare un rapporto più giusto, o meno
squilibrato. Questa breve considerazione lascia, per dir così, il poeta solo
di fronte al proprio amore e lega piuttosto strettamente la canzone all’altra
con la quale è tradizionalmente accostata, cioè Amor che movi, e in genere
all’intera serie per la ‘pargoletta’: il tema della giovinezza della donna
appare dunque determinante per collocarla in contesti più ampi, e andrà
visto più da vicino. Nell’immediato l’accento posto sull’estraneità della
giovane donna nei confronti dell’amore di cui è fatta oggetto accentua
per contrasto il carattere di una dedizione amorosa la cui natura è meglio
definita nella stanza che segue.
Nella quarta stanza Dante esordisce affermando che l’amore (il «gran
disio», v. 40) ha fatto nascere in lui il nobile desiderio di fare il bene, e che
tale desiderio costituisce in sé un frutto tanto straordinario dell’amore da ri-
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baltare l’idea che la sua dedizione amorosa nei confronti della donna possa
essere definita nei termini affatto tradizionali di ‘servizio’, e invece si con-
figuri come una sorta di ricompensa ch’egli offrirebbe alla donna per ricam-
biarla di un dono siffatto. Ciò è falso, naturalmente, e in verità il suo è e
resta un servizio, ma in un senso particolare e superiore: è vero infatti che
nel rapporto amoroso il diretto beneficato è lui, ma il proprio incremento
di valore oltrepassa i limiti della sua persona e si risolve in maggior gloria
della donna alla quale il poeta totalmente appartiene. Il desiderio di «ben
fare», insomma, realizza la natura profonda dell’amore, ed è la forma ade-
guata e la migliore testimonianza del ‘servizio’ che lega il poeta alla donna:
la prova ultima della capacità del poeta di accogliere la forza nobilitante in-
trinseca in tale servizio e di farsi, in ciò stesso, cosa sua.
La quinta stanza racchiude un forte nodo concettuale che fa della donna
un analogo di Dio, motore che tutto muove e non è mosso. Come Iddio,
essa è termine assoluto e incondizionato di perfezione, mentre la vita del
poeta, per contro, dipende in tutto e per tutto da lei, e l’amore si rivela
come esperienza vissuta e grata consapevolezza di questo essenziale squi-
librio. Da una parte c’è dunque la sublime indifferenza di lei, e dall’altra
la fragilità della creatura che da lei dipende: «stassi come donna a cui non
cale / dell’amorosa mente / che sanza lei non può passare un’ora» (68-70).
Qui può forse insinuarsi la possibilità di una lettura allegorica della can-
zone, da molti suggerita ma non sviluppata (Contini per es., nel ‘cappello’
della sua edizione – Alighieri 1939: 126 –, scrive: «più si avanza nella
lettura, e più si ha l’impressione che si celi un soprasenso – forse allusione
all’amore della sapienza»: e più o meno così anche Nardi 1992, Foster-
Boyde (Alighieri 1967), Barański 2009, e da ultimo anche da Giunta (Alig-
hieri 2011),4 forse perché argomentarla sino in fondo è troppo oneroso né
porta grandi vantaggi. Intanto si dica che la seconda parte della stanza
chiarisce come meglio non si potrebbe la natura di quella dipendenza, e
l’idea stessa di quella ‘ripetizione necessaria’ dalla quale l’intera canzone
ha preso le mosse. Ora sappiamo, infatti, che non si tratta di una mera ri-
petizione dell’accadimento amoroso, ma di una riattualizzazione continua
attraverso la quale si dichiara l’essenza dell’amore, fenomeno vitale che
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per sua natura è in progress, o non è. Non esiste, sembra dire Dante, un
amore dato una volta per tutte, bloccato nella sua particolare mistura di
«martiro» e «dolcezza» (v. 77): o meglio, è tale solo quando non sia vi-
vificato dalla ‘vista’ di lei, dinanzi alla quale l’innamorato vive ogni volta
il suo amore come qualcosa di affatto nuovo e stupefacente che non cessa,
per dir così, di rinascere, secondo un incessante moto di crescita legato al
progressivo e infinito disvelamento che ogni successiva apparizione della
donna torna a provocare. Sul punto, una sorta di premessa generale è in
Amor che movi 22-23, ove il disio conduce il poeta «in rimirar ciascuna
cosa bella / con più diletto quanto più è piacente», mentre qui, in Io sento
sì d’Amor, con intensa e bellissima torsione, i diversi gradi di bellezza
non sono più appannaggio di ‘cose’ diverse ma di una sola e unica donna
che l’innamorato scopre ogni volta sempre più bella, finendo con l’iden-
tificare l’amore medesimo in un percorso che è anche scoperta di sé e del
proprio valore. Se a questo punto si ricorda la quarta regula amoris del
Cappellano: «semper amorem crescere vel minui constat» (II 8), sarà
anche facile osservare come Dante la estragga dal suo empirico contesto
e le conferisca sostanza dialettica e speculativa, puntando su una nozione
‘infinita’ di bellezza che si fa garanzia della trascendente infinità d’amore.
Con un salto che può apparire assai brusco e ha fatto discutere, la sesta
è ultima stanza ha già funzione di congedo, prima del congedo vero e pro-
prio. Dante si rivolge alla propria canzone («Canzon mia bella …», v.
81), sottolineando come essa gli «somigli» (v. 81), e cioè rispecchi fedel-
mente il suo pensiero e il suo stato d’animo, ed esortandola a non essere
così «sdegnosa» (v. 82) come pure la sua «bontà» (v. 83) le darebbe diritto
di essere, ma di mostrarsi tuttavia particolarmente esigente nello scegliere
il proprio pubblico. Del «cavaliere» (v. 87) che desiderasse averla, essa
dovrebbe prima di tutto scoprire quali siano i suoi compagni: è vero infatti
che i buoni s’accompagnano sempre ai buoni, ma càpita pure che qual-
cuno si imbarchi in compagnie che di fatto smentiscono la buona fama di
cui gode. E tali pessime compagnie vanno evitate: «Co’ rei non star né a
cerchio né ad arte» (v. 95). Un verso, questo, ove di là dalla più normale
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parafrasi è probabile si celino allusioni più precise, delle quali poco avanti
si dirà.
Delle cose dette nell’ultima stanza il congedo vero e proprio dà imme-
diata dimostrazione: la canzone può infatti andare ai «tre men rei» (v. 97)
della città di Firenze, ma il terzo, appunto, andrebbe prima tirato fuori
dalla cattiva compagnia con la quale s’è intruppato («e ‘l terzo fa’ che
prove / di trarlo fuor di mala setta in pria», v. 100) e che, secondo quanto
appena premesso, può suonare come smentita – «disdetta» (v. 93) – della
buona fama di cui gode. A tal fine la canzone dovrebbe dire a costui che
il «buono» (v. 101) non se la prende con i buoni, ma dovrebbe prima di
tutto cercare di sconfiggere i malvagi: non lo facesse, infatti, la sua sup-
posta bontà ne riuscirebbe incrinata e quanto meno da «buono» regredi-
rebbe a ‘men reo’, com’è appunto il caso. Dovrebbe anche aggiungere
ch’è cosa da pazzi non recedere dalla propria «follia» (v. 104) per paura
di riuscirne svergognato, e dunque per un malinteso senso di puntiglioso
orgoglio: la vergogna vera, infatti, la si evita solo fuggendo il male.

3. La canzone Io sento sì d’Amor la gran possanza non ha goduto in


passato di molta attenzione (come è avvenuto, per la verità, anche con
altre canzoni dantesche), fatta la doverosa eccezione delle edizioni com-
mentate delle Rime, delle quali si possono qui rammentare le più impor-
tanti, da quella di Contini (1939; 19462), a quella di Mattalia (1943),
Foster-Boyde (1967), Barbi-Pernicone (1969), Pernicone (1970a), Jaco-
muzzi (1983: mi pare ingiustamente trascurata), De Robertis (2005);
Giunta (2011) e per ultimo il collettivo Libro de las canciones (2014), a
cura di Juan Varela-Portas de Orduña, nel quale, come già ho premesso,
Io sento sì è commentata da Eduard Vilella. Solo recentemente si è ag-
giunta una specifica lettura di Barański (2009),5 che per la prima volta
propone un’ampia analisi della canzone e alcune ipotesi innovative, come
quelle relative al contenuto, che sarebbe di tipo etico piuttosto che amo-
roso, e quelle relative alla data, abbassata ai primi anni dell’esilio.
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Per cominciare, va osservata l’importante caratteristica per la quale,


secondo un’applicazione estensiva del principio delle cobla capfinidas, in
modo più o meno evidente le stanze successive alla prima cominciano ri-
pigliando i concetti espressi nell’ultima parte della precedente. In tal
modo Dante oltrepassa l’àmbito tecnico-stilistico entro il quale l’artificio
era compreso, e lo trasforma e ne usa per sottolineare i passaggi logici
dell’argomentazione che governano la struttura della canzone, come que-
sta lettura cercherà di mostrare. Per quanto riguarda il contenuto, tra le
varie questioni che la canzone suscita, spicca immediatamente quella
posta dall’ultima stanza e dal congedo, che appare propedeutica alla com-
prensione dell’intero testo: chi sono i tre fiorentini «men rei»? È oppor-
tuno dire sùbito che non lo si sa, al punto che è impossibile anche solo fare
delle congetture. Impossibile ma non del tutto, perché è vero che nulla si
può dire dei primi due (che non saranno, come scrive Contini (1939: 131),
a 97-106, quelli «sicuramente buoni», ma pur sempre «men rei»), qual-
cosa si può invece azzardare per il terzo al quale il congedo è specifica-
mente dedicato, in modi che sollecitano con troppa forza la curiosità del
lettore. Non che si riesca ad andare lontano: l’unico nome proponibile è
quello di Cavalcanti, già vagamente insinuato sulla traccia di quanto Boc-
caccio scrive a proposito della profezia di Ciacco, che alla domanda di
Dante se in Firenze «alcun v’è giusto» risponde: «Giusti son due, e non
vi sono intesi» (If. VI 62 e 73).6 E il nome di Cavalcanti è da ultimo pro-
posto con sufficiente decisione da Barański (2009: 181-90), e ad esso
credo anch’io si debba restare, anche se sulla base di argomenti diversi dai
suoi.7 Quali gli elementi che giustificano l’ipotesi? Direi che ne esistano
di carattere sia generale che particolare. Per i primi: una canzone d’amore
come Io sento sì, così fortemente connotata in senso ideologico-specula-
tivo, ha il proprio lettore e interlocutore ideale in un poeta come Caval-
canti: altri di tale livello entro la cerchia fiorentina degli ‘amici’ di Dante
non si saprebbero trovare. Detto questo, la qualità di «cavaliere» (87: «Se
cavalier t’invita o ti ritene») rafforza l’ipotesi che si tratti del nobile
Guido, la cui famiglia era tra quelle dei ‘grandi’, mentre anche l’esorta-
zione rivolta alla canzone a non essere «sdegnosa», e cioè a non colorare
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di un un senso troppo elitario la propria «bontà», ci può portare proprio a


lui arricchendo il senso della frase di un sottile risvolto polemico. Non
paiono invece decisivi alcuni pur notevoli riscontri testuali, come quelli
portati da De Robertis ad loc.: per i versi iniziali della canzone di Dante
si veda infatti, di Cavalcanti, Io non pensava 20-21: «l’anima sento per lo
cor tremare, / sì come quella che non po’ durare», e Perch’i’ no spero 22:
«ch’i’ non posso soffrire», oppure, per il v. 13: «e se di buon voler nace
mercede», Donna me prega 70: «che solo di costui nasce merzede». Ma
è curioso che a questi casi8 s’aggiunga la circostanza secondo la quale la
mossa iniziale del primo congedo/ultima stanza corrisponda da vicino, di
nuovo, alla ‘ballatetta’ Perch’i’ no spero 9-10: «guarda che persona non
ti miri / che sia nemica di gentil natura», mentre i due congedi insieme si
direbbe che ribaltino e per vari aspetti aggravino sul piano sociale e po-
litico le accuse mosse in chiave più squisitamente personale e con tono più
intimamente addolorato da Cavalcanti a Dante nel sonetto I’ vegno il
giorno a te ‘nfinite volte, che vale la pena di rileggere:
I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte,
e trovoti pensar troppo vilmente:
molto mi dol della gentil tua mente
e d’assai tue vertù che ti son tolte.
Solevanti spiacer persone molte;
tuttor fuggivi l’annoiosa gente:
di te parlav’i’ sì coralemente
che tutte le tue rime avea ricolte.
Or non ardisco, per la vil tua vita,
far mostramento che tuo dir mi piaccia,
né ‘n guisa vegno a te che tu mi veggi.
Se ‘l presente sonetto spesso leggi,
lo spirito noioso che ti caccia
si partirà da l’anima invilita.

Ora, non è il caso di riconsiderare tutte le interpretazioni che sono state


date di questa famosa ‘rimenata’.9 Ci basti che Dante non solo riprenda
da Cavalcanti l’avvertimento che costui dà al proprio componimento:
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«guarda che persona non ti miri…», ma che prosegua rovesciando sul


«terzo» le stesse accuse che l’amico aveva mosso a lui, centrate sul trali-
gnamento rispetto a una perduta nobiltà d’animo e di comportamenti, del
tutto evidente nelle sue nuove e ‘vili’ frequentazioni. Quando leggiamo
nella canzone, sotto forma di sentenza generale: «egli avien che spesso
altri si getta / in compagnia che non è che disdetta / di buona fama ch’altri
di lui sona» (92-94), è impossibile non riandare al sonetto di Cavalcanti,
già banditore delle qualità di Dante e però costretto al presente a dubitare
di lui, vista la mala compagnia nella quale s’è gettato. E quando leggiamo
nel congedo che il primo compito della canzone medesima è quello di
trar fuori l’innominato terzo cavaliere dalla «mala setta» (v. 89) con la
quale costui s’accompagna è altrettanto difficile non pensare alla forte
analogia con il sonetto, dalla terzina finale investito dello stesso compito
dato, qui e là, ancora per possibile. Senza dire, infine, che con il «buono»
che se la prende con i buoni diventa legittimo sospettare un’allusione di-
retta al sonetto di Cavalcanti, ed a una personalità come la sua, per quanto
ne sappiamo, sembra ben convenire l’accenno conclusivo a una sorta di
orgoglioso puntiglio che potrebbe impedire il ravvedimento.
Ma ecco che, se il terzo è effettivamente Cavalcanti (come io, con altri,
tengo per certo), la faccenda diventa molto interessante. Una identifica-
zione simile, infatti, agisce in profondità sul testo, e finisce per condizio-
nare e ridefinire il senso complessivo della canzone, ben oltre i limiti dei
due congedi che in ogni caso moltiplicano in direzioni nuove la loro va-
lenza. Lo stretto rapporto con I’ vegno ‘l giorno a te comporta – va detto
con forza – che proprio qui Dante ribatta, all’attacco dell’amico (e ciò
smentisce l’opinione corrente che il sonetto di Cavalcanti sia stato lasciato
da Dante senza risposta: l’ultima stanza e il congedo sono una risposta!).
Lo fa trascurando i risvolti di carattere personale e addirittura intimo ai
quali per contro è affidato gran parte del fascino del sonetto di Cavalcanti,
e insiste sulla dimensione in senso lato sociale e politica del contrasto (e
sarà appena il caso di osservare che proprio il tono della risposta ci assi-
cura à rebours del significato eminentemente politico della ‘rimenata’).
Appare dunque del tutto verisimile che ci si trovi dinanzi ai momenti ini-
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

ziali di una rottura dovuta a scelte divergenti non tutte ben ricostruibili.
Ma tra esse non può essere sottovalutata la scelta di tipo democratico-po-
polare (la «annoiosa gente», v. 6) di Dante, che approfitta dei tempera-
menti appena introdotti negli Ordinamenti di Giustizia nel luglio 1295, in
forza dei quali l’iscrizione alle Arti era ridotta a una formalità priva di
corrispondenza reale. Per aprirsi una via alla carriera politica, Dante infatti
si iscrive all’Arte dei Medici e degli Speziali, sfruttando una possibilità
che i Grandi, e Cavalcanti tra essi, continuano invece a rifiutare, fomen-
tando in ogni modo il clima di violenza. Qui sta, probabilmente, lo stacco
decisivo, e proprio quell’iscrizione sembra essere stata il concreto casus
belli tra i due amici. Uno dei primi atti certi della carriera politica di
Dante, nel giugno 1296, è poi il voto favorevole a una legge che conce-
deva pieni poteri al Gonfaloniere di giustizia e ai priori nel reprimere gli
atti di violenza compiuti in particolare dai magnati contro i popolari in-
vestiti di cariche pubbliche, ed è proprio questa linea che finirà per por-
tarlo in rotta di collisione con Guido, rissoso e intollerante esponente dei
Grandi.10 Di più è difficile dire, anche se un sonetto rinterzato, Se mia
laude scusasse te sovente, indirizzato da Dino Compagni a Cavalcanti,
suona come importante conferma di quanto osservato. Dino «in sostanza
lamenta che Guido non metta al servizio della collettività le sue grandi
virtù facendosi ovrere, cioè iscrivendosi a un’Arte» (Santagata 2012: 100-
101), e accompagna il suo invito con l’osservazione indubbiamente po-
lemica secondo la quale Guido, date le sue personali virtù, non avrebbe
bisogno né della sua qualità di Grande né di una propria «masnada» (13-
14: «E grande nobiltà non t’ha mistiere, / né gran masnad’avere»): do-
vrebbe insomma mutare atteggiamento, temperando le proprie posizioni
di tipo aggressivamente magnatizio e abbandonando (se non è interpreta-
zione troppo azzardata: il che non credo) la propria «mala setta».11 Il che
mi induce a insistere, e a interpretare il v. 95 della nostra canzone: «Co’
rei non star né a cerchio né ad arte» come un’allusione neanche troppo
criptica alla realtà fiorentina, e dunque a scioglierlo più o meno così: ‘con
i malvagi non bisogna avere a che fare né all’interno della propria cerchia,
o consorteria (che per Cavalcanti era appunto quella dei Cerchi), né all’in-
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terno delle Arti’, attraverso le quali si articolava la partecipazione dei cit-


tadini al governo della città.
Di là dalle lacune della nostra informazione si direbbe indubbio, in-
somma, che sonetto e canzone risalgano a quei momenti, quando la gio-
vanile, fervida amicizia poetica di Dante e Cavalcanti non resse al peso
di scelte diverse, ideali e pratiche. I due aggettivi non sono detti a caso.
Se l’«annoiosa gente» e, dall’altra parte, la «mala setta» stanno a mostrare
il carattere pratico-politico della contrapposizione, la canzone nel suo in-
sieme batte sul tema della concezione d’amore, e proseguendo il discorso
aperto da Amor che movi la innerva e la risolve in chiave etica: quella che
dà a Dante la forza con la quale può ribaltare su Cavalcanti le accuse che
proprio da lui gli erano state mosse. Né si dica che questa insistenza su
Cavalcanti quale idolo polemico della canzone dipenda da un nostro par-
tito preso o addirittura da una fissazione. Di là da quanto è stato accen-
nato, si potrebbe infatti costruire una sorta di tavola di corrispondenze
rovesciate, per dare conto della continua e puntuale contrapposizione di
due modi opposti di concepire la natura e l’esperienza d’amore. E ciò che
vale già per Amor che movi, in Io sento sì è sviluppato con sistematica
coerenza, sin dai primi versi, configurando un vero e proprio ribaltamento
delle posizioni del ‘primo amico’. Al quale ribaltamento, almeno ai miei
occhi, aggiunge un particolare sapore – quasi una sottile e addirittura per-
fida malizia – il fatto che il congedo della canzone, messo all’ombra di un
analogo invito cavalcantiano, come abbiamo visto, finisca per modellarsi
su Guittone (per altro assai presente per tutta la canzone), che nel sonetto
222, Tutt’el maggiore, in un contesto affine dichiara che l’amicizia è il
bene più prezioso, «ma molt’om guardar dia / con quale far lui amistà
convegna» (vv. 3-4), e se per caso la si abbia con «om non bono» (v. 6),
ebbene «tegno el mantener follia» (v. 7). Non ci si deve dunque vergo-
gnare di ritrarsi da un’amicizia siffatta, al contrario: «Non donque vergo-
gn’om bel desusarla, / ché non vergogna già, ma pregio aporta: / vergogni
ben chi mal provide in farla» (vv. 9-11).12 Da questo accertamento intorno
all’identità del terzo men reo, dunque, è opportuno ricominciare.

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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

4. Io sento sì è stata sempre accoppiata a Amor che movi, ed è stato da


ultimo De Robertis a insistere sulla loro «contiguità» e «origine comune»,
precisando che «dall’una all’altra canzone ci si muove entro uno spazio
ben definito, quasi con gli stessi mezzi e per minimi spostamenti» (De
Robertis 2005: 90-97).13 Solo Barański, accogliendo un suggerimento di
Giunta, stacca ora le due canzoni, e in particolare pensa che Io sento sì
debba essere spostata in avanti, al tempo dell’esilio, e strettamente asso-
ciata alla montanina Amor, tu vedi ben.14 A me l’ipotesi sembra del tutto
improponibile, né vedo come si possa identificare in Cavalcanti, morto nel
1300, il ‘terzo’ cavaliere, e allo stesso tempo pensare che il congedo a lui
diretto con tanta vis polemica sia stato scritto cinque o sei anni dopo la sua
morte.15 Tuttavia, poiché quanto vado scrivendo resta legato a imposta-
zioni tradizionali rispetto alle quali l’ipotesi di Barański rappresenta in re
un’alternativa piuttosto radicale, non mi sembra il caso di discuterne nel
merito, appesantendo inutilmente il testo, e mi accontento di rinviare chi
voglia avere un quadro delle opposte posizioni alle pagine dello studioso.
Per parte mia, dunque, non solo mi sembra di dover confermare la tradi-
zionale accoppiata Amor che movi – Io sento sì, ma credo anche che si
possa ulteriormente precisare il rapporto di dipendenza che lega una can-
zone all’altra.16
In via preliminare, vorrei però ricordare ancora una volta alcuni nodi
dell’esperienza poetica dantesca dopo la Vita nova, per meglio collocare
il momento di Amor che movi e Io sento sì.
Dopo aver articolato il passaggio dalla Vita nova alla stagione succes-
siva attraverso le due canzoni Voi che ‘ntendendo e Amor che nella mente
nelle quali è tutta esplicita la loro funzione di cerniera,17 Dante si muove
per vie diverse seppur tra loro intrecciate in più modi. L’impegno dottri-
nale di Le dolci rime, dedicata a definire la nobiltà, e Poscia ch’Amor,
dedicata a una nuova e complessa nozione di leggiadria, sembra suffi-
ciente a definire una loro relativa autonomia, che s’accampa sullo sfondo
di una dichiarata rimozione del discorso amoroso, ora messo tra parentesi
rispetto ai temi trattati, legati a un programma di magistero civile che al-
larga e sviluppa gli insegnamenti di Brunetto e che suona come il passa-
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porto per una attività più propriamente politica. Ma è anche importante


sottolineare che le due ‘dottrinali’ si pongono come la testimonianza di
quel «ben far» che assume valore centrale in Amor che movi e Io sento sì,
le due canzoni nelle quali ritorna in grande e con accenti di grande novità
il tema della natura d’amore (nella prima), e della sua dimensione e rea-
lizzazione personale (nella seconda). Ed è precisamente a partire dalla
messa a fuoco di una nuova concezione della natura d’Amore che Dante
radicalizza, per dir così, la propria esperienza della sua forza nelle ‘pe-
trose’, nelle quali pure concentra i risultati di uno straordinario apprendi-
stato formale e stilistico che lo porta fuori da ogni residua traccia di
soggezione a Guittone e ne fa il campione di una poesia che non ha più
nulla da invidiare ai modelli d’oltralpe, e di Arnaldo Daniello in ispecie,
come il De vuglari eloquentia dichiarerà expressis verbis.
La coppia che qui ci interessa – Amor che movi e Io sento sì – dà voce,
come s’è accennato, a una concezione d’Amore affatto nuova, ispirata
all’emanazionismo neoplatonico, inteso come una forza cosmica che pe-
netra e muove l’universo intero,18 e nello stesso tempo partecipa a un in-
sieme più ampio di componimenti il cui filo unitario è costituito dal
comune oggetto del desiderio: una giovinetta più volte designata come
‘pargoletta’ che per l’età acerba è del tutto ignara d’amore e costituzional-
mente refrattaria alle profferte del poeta, al quale non resta che aspettare
e sperare che, avanzando nell’età, anch’essa finalmente si apra all’espe-
rienza d’amore e ne conosca e subisca il potere. Così non solo leggiamo
in Amor che movi 56-58:
non soffrir che costei
per giovanezza mi conduca a morte,
che non s’accorge ancor com’ella piace,

e vediamo ripetuto in Io sento sì 46-48:


se merzé giovanezza mi toglie,
io spero tempo che più ragion prenda,
pur che la vita tanto si difenda,

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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

ma ritroviamo questa giovinetta / ‘pargoletta’ nelle due ballate I’ mi son


pargoletta bella e nova e Perché· tti vedi giovinetta e bella,19 nel sonetto
Chi guarderà giammai sanza paura, e infine nelle tre canzoni ‘petrose’,
Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra; Amor, tu vedi ben che questa
donna; Io son venuto al punto della rota,20 nelle quali, di là da ogni pos-
sibile divergenza di opinioni, è almeno chiaro che la grande invenzione
della ‘donna pietra’ riposa sulla coerente estremizzazione dell’immagine
primaria della pargoletta quale oggetto muto, insensibile, non più reattivo
d’una pietra o d’un qualsiasi altro minerale nei confronti della forza
d’amore.
Il legame tra il momento definitorio-speculativo e il momento specifi-
camente personale-amoroso è dunque assai stretto: la teoria s’invera nel-
l’esperienza vissuta dal protagonista che, di la da sé, si riconosce in una
vicenda che lo trascende e che ha il proprio ultimo orizzonte nell’avvol-
gente moto dei cieli e nella vita dell’universo governata dall’amore. Non
è dunque vero che Dante, come a prima vista potrebbe sembrare, sia in
qualche modo retrocesso verso una prospettiva di tipo cavalcantiano ri-
spetto alla spiritualizzata concezione dell’amore come atto di dedizione
e lode messa a fuoco nella Vita nova. In verità, egli non concede nulla a
Cavalcanti, e semmai si serve della ‘pargoletta’ quale straordinario exem-
plum fictum per isolare sia l’oggettiva autonomia dei contenuti etici del-
l’esperienza d’amore, specificamente in Io sento sì, sia, nelle ‘petrose’, la
natura specifica del desiderio erotico esasperato dalla frustrazione. Nei
due casi, Dante imposta un discorso che muove dal mistero di quel desi-
derio per oltrepassarlo e ricomprenderlo in un orizzonte più ampio, come
del resto ha sempre fatto. Dall’amore come ‘lode’ della Vita nova, al-
l’amore come amore-per-il-sapere e dunque come ‘filosofia’ delle rime al-
legoriche e infine all’impegno civile delle dottrinali ove il discorso
amoroso è messo provvisoriamente tra parentesi, Dante arriva così in
Amor che movi e in Io sento sì a chiudere il cerchio saldando nel «ben
fare» amore e virtù sociali. Solo ora, finalmente, tout se tient: tutto è ri-
compreso ed esaltato nel nuovo disegno e nulla va perso entro questa no-
zione universale di amore, sì che proprio qui, ancora e pour cause, è posta
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la solida base dalla quale si libera la straordinaria esplorazione tematica


e stilistica delle ‘petrose’.
Il discorso si fa troppo ampio. Nell’immediato, in ogni caso, il nodo più
attivo sta nell’identificazione di amore e virtù, ed è un nodo che distingue
dagli altri componimenti e lega tra loro Amor che movi e Io sento sì, can-
zoni programmaticamente dedicate a ricondurre il fenomeno amoroso alle
sue fondanti dimensioni etiche, senza le quali non d’amore certamente si
tratta, ma, come Dante dirà anni dopo nella grande canzone Doglia mi
reca 143, di «appetito di fera». Afferma dunque Amor che movi 9-12:
da te [Amore] conven che ciascun ben si mova
per lo qual si travaglia il mondo tutto;
sanza te è distrutto
quanto avemo in potenza di ben fare,

e ribadisce Io sento sì 43-45:


Quand’io penso un gentil disio ch’è nato
del gran disio ch’io porto,
ch’a ben far tira tutto il mio podere […].

Di più, Io sento sì insiste nel precisare qualcosa che rovescia quanto ci


saremmo normalmente aspettati. Amare non è l’effetto – uno degli effetti
– di una più ampia disposizione alla virtù, ma è la virtù, piuttosto, ad es-
sere uno degli effetti d’Amore. Dante sostiene qui che ogni «potenza» di
chi ama è vòlta al «ben fare», cioè a operare secondo virtù, in quanto pre-
cisamente ama. L’universale forza d’Amore è la pre-condizione di ogni
«ben fare», perché è appunto l’Amore inteso quale originario, trascen-
dente «Gran Disio» (mi riesce quasi inevitabile stamparlo con le maiu-
scole) che fa nascere e alimenta nel cuore dell’uomo il nobile desiderio
di operare secondo virtù, che dell’Amore così inteso è dunque un aspetto
particolare: una conseguenza tanto benefica quanto necessaria. Ed è anche
su questo terreno che si manifesta l’intransigente opposizione di Dante
nei confronti della distruttività cavalcantiana e dei suoi chiari risvolti anti-
sociali.21 Non c’è dubbio, infatti, che il Cavalcanti fieramente contrario a
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

profittare dei temperamenti introdotti negli Ordinamenti di giustizia sia il


medesimo che con altrettanta intransigenza pratica una ideologia amorosa
assolutamente indisponibile ad essere trasferita sul terreno delle virtù ci-
vili, lungo la via che Dante andava segnando con tanta forza.
Una via siffatta ha naturalmente la sua vicina origine nel cuore del-
l’esperienza stilnovistica, là dove, secondo un topos già transalpino sul
quale non vorrei qui insistere,22 s’esaltava la forza nobilitante di un amore
distruttore dei vizi e generatore, per contro, di ‘senno’ e ‘bontà’, e in-
somma di ogni salutifera virtù. Ma là, nella Vita nova, spettava alla donna
il miracolo di «inducere Amore in potenzia là ove non è» (XII 6), mentre
ora è semmai il contrario, e la ‘pargoletta’ finisce per essere l’inconsape-
vole oggetto sul quale, come se una lente dirigesse su di lei i raggi del
sole, si concentra la forza di un desiderio che scende dal cielo e induce ad
amare. Questa esaltazione della dimensione oggettiva e sovrapersonale
di Amore è naturalmente il frutto dello spostamento del punto focale dalla
dimensione psicologica del ‘rapporto’ amoroso all’interesse speculativo
volto a indagare la natura propria del fenomeno, ed è tale interesse che ora
detta le mosse del discorso dantesco. Ed è importante cogliere, a questo
punto, come dalla forza delle proprie argomentazioni Dante sia condotto
ad affrontare un problema ch’egli risolve nella forma appena dissimulata
della quaestio, rispondendo, come avverrà poi spesso nel Convivio, a una
possibile obiezione, o meglio, bloccando una possibile deriva del di-
scorso. A ciò è dedicata la quarta stanza della canzone Io sento sì, vv. 49-
64, che ha dunque un ruolo affatto speciale.
Mi si permetta di ripetere qui l’essenziale contenuto della stanza. Dante
vi afferma che l’amore (il «gran disio») ha fatto nascere in lui il nobile de-
siderio di operare il bene, e che tale desiderio costituisce in sé una ricom-
pensa tanto straordinaria da ribaltare l’idea che il suo amore sia connotato
come ‘servizio’. Sul piano strettamente logico, dice infatti Dante, sembre-
rebbe paradossale considerare come ‘servizio’ qualcosa che non ha altra
realtà fuori dalla sua stessa ricompensa, al punto che per un attimo prende
corpo l’ipotesi, questa sì assolutamente paradossale, che il suo rapporto
con la donna sia rovesciato, quasi fosse lei al suo servizio avendone in
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cambio la mercede del poeta riconoscente. Non è vero, naturalmente, e


resta vero che è lui che ‘serve’, ma in un senso particolare e superiore: il
diretto beneficato è lui, ben oltre il fatto che per il momento la ‘giovinetta’
gli si neghi, ma il proprio incremento di valore oltrepassa i limiti della
sua persona e si risolve in maggior gloria di lei alla quale il poeta total-
mente appartiene.
Il significato letterale è chiaro, ma occorre andare un poco oltre. La
quaestio che qui prende forma in maniera persino provocatoria (il ‘servi-
zio’ amoroso ripagato dall’impulso a «ben fare» può ancora chiamarsi
tale o no?) può essere infatti ritradotta, con qualche semplificazione, più
o meno così: se il «gran disio», cioè l’Amore che muove dal cielo e invade
il cuore del poeta, genera per forza propria una decisiva spinta ad agire
virtuosamente, e se la «giovanezza» fa sì che la donna sia del tutto muta
e refrattaria, e insomma non ci metta nulla di suo che vada oltra l’ogget-
tiva circostanza della sua bellezza, ebbene, l’idea stessa del ‘servizio’
amoroso entra in crisi e propriamente scompare. Con ogni evidenza, in-
fatti, la centralità dell’oggetto d’amore decade, e salta lo schema che vuole
specialmente nobilitante quell’amore che si configura come dedizione e
servizio nei confronti di un ideale di umana perfezione e virtù quale quello
tradizionalmente rappresentato dalla donna. L’amante, insomma, non
deve nulla a nessuno, e tanto meno alla «giovanetta» della quale gli è av-
venuto d’innamorarsi, della quale non avrà altro da lodare che la bellezza
e dalla quale non avrà altro da augurarsi che non sia la soddisfazione del
desiderio. Così, il capovolgimento dell’impostazione della Vita nova e
della sua poetica della lode sarebbe completo, e non resterebbe molto da
opporre alle teorie di Cavalcanti che interpreta l’amore come una sorta di
patologia del soggetto che segue percorsi suoi propri e deve, per contro,
assai poco alle supposte eccelse qualità del più o meno occasionale og-
getto d’amore: per dirla molto alla grossa, è come se ci trovassimo di
fronte a un Cavalcanti che pur mantenendo fermi i capisaldi del suo pen-
siero sia in vena di ottimismo nell’interpretare in senso positivo il senti-
mento che lo domina.
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

Ma appunto, le cose non stanno così, e la seconda parte della stanza ri-
sponde alle pur legittime deduzioni della prima e ristabilisce la verità della
nozione d’amore come ‘servizio’. A tal fine, il primo argomento messo in
campo da Dante punta sul fatto che l’esperienza d’amore esorbita di per
sé da una dimensione puramente individuale, ristretta al soggetto che ama.
L’amore infatti è una sorta di spossessamento, di fuoriuscita da sé, perché
chi ama ‘si dona’ alla persona amata e ciò che fa lo fa per lei:
Ma poi ch’i’ mi restringo a veritate
convien che tal disio servigio conti;
però che s’io procaccio di valere,
non penso tanto a mia propietate
quanto a colei che m’ha in sua potestate,
ché ·l fo perché sua cosa in pregio monti;
ed io son tutto suo e così mi tegno
(vv. 57-63).

Occorre osservare, naturalmente, che il topos del servizio amoroso è dif-


fusissimo, dai siciliani a Guittone a Chiaro Davanzati (per restare in area
italiana), così come è altrettanto topica la connessione di un tale servizio
con le qualità d’animo dell’amante che esibisce una ‘obbedienza’ fondata
sulla ‘conoscenza’ delle virtù di lei. Si veda, per esempio, lo sviluppo che
ha il tema nella canzone di Bonagiunta, Sperando lungamente 1-6:
Sperando lungamente in acrescensa
trar contendensa – d’alto signoraggio,
che mi dà tal coraggio
ch’ogn’altr’om i’ ne credo sovrastare,
di ben servir mi dona caunoscensa,
che dà ubidensa …

(la parafrasi di Menichetti in Bonagiunta 2012: 40: «Mentre da lungo


tempo spero di tradurre in accrescimento di valore l’ostilità di una nobile
signorìa – la quale esalta tanto il mio animo che sono convinto di essere
superiore a chiunque altro –, la saggezza mi dispone a quel ben servir che
per discendenza diretta è nato da ubbidienza»). Come si vede, non sarebbe
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difficile insistere sulle plurime strette connessioni tra questi versi e quelli
di Dante, a partire proprio da quel «ben servir» (v. 38) che procede dalla
‘conoscenza’ e dall’‘ubbidienza’ e compensa l’ostilità di lei con un ac-
crescimento di valore del soggetto. È tuttavia solo e propriamente dante-
sco il suo far parte in posizione forte di una catena argomentativa intesa
a definire una particolare concezione d’amore. In primo luogo, va ripe-
tuto, la nozione di per sé non semplice di ‘servizio’ viene richiamata per
bloccare una possibile deriva che restringa l’amore a uno ‘stato’ o ‘con-
dizione’ del soggetto, ed è dunque attiva su due fronti: da un lato corregge
i possibili eccessi di una chiusura auto-celebrativa che riduce l’amore a
una ‘marca’ che testimonia della nobiltà d’animo di colui che ama (è ap-
punto ciò che per un momento la canzone sembra prospettare, in partico-
lare là dove dichiara che l’amante, proprio in quanto tale, è spinto ad agire
secondo virtù), e dall’altro, per alcuni aspetti contrario, comporta il rifiuto
della versione cavalcantiana e, di là da essa, di tutta l’abbondante teoriz-
zazione dell’amore in chiave patologica propria della cultura medica della
quale il commento di Dino del Garbo a Donna me prega è un eccellente
punto d’arrivo. Da questo punto di vista la nozione di ‘servizio’ è indi-
spensabile per ristabilire d’un colpo solo la centralità dialettica dell’og-
getto del desiderio, assunto quale garanzia di verità: in effetti, la donna
amata costituisce il punto di riferimento più alto e la simbolica summa
del corteo di virtù comportamentali e in senso lato sociali che il rapporto
con lei fomenta, perché tutto ciò che di «bene» (v. 86) si fa non lo si fa per
sé ma per lei.
Di qui, con un passaggio assai fluido e motivato, il discorso torna alla
dimensione personale dell’esperienza amorosa. Solo Amore fa sì che
Dante si sforzi di ‘valere’ (v. 59), e solo Amore,dunque, lo rende «degno»
di appartenere alla donna:
Amor di tanto onor m’ha fatto degno.
Altro ch’Amor non mi potea far tale
ch’i’ fosse degnamente
osa di quella che non s’innamora
(vv. 64-67).

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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

Questa idea di ‘appartenenza’ virtuosa è decisiva, e come tale è ribadita


nei versi appena citati, che segnano il passaggio dalla quarta alla quinta
stanza. Resta tuttavia, sin qui, una enunciazione alquanto vuota: o meglio,
una enunciazione che dichiara uno stato di fatto non ancora corredato
delle sue ragioni profonde. Quelle appunto che la quinta stanza rivela,
chiudendo l’intera progressione argomentativa della canzone e finendo
per confermare quanto sia articolato e coerente il rigetto delle posizioni
di Cavalcanti.
Si è ricordato, poco sopra, il topos della forza nobilitante di amore, che
nella Vita nova ha un così nobile approdo. Tale forza comporta una tra-
sformazione: meglio, è essa stessa trasformazione, come è sancito una
volta per tutte in Donne ch’avete (Vita nova X) 35-36: «qual soffrisse di
starla a vedere / diverria nobil cosa, o si morria». Lasciamo che anche qui
paia innegabile la polemica con Cavalcanti, tanto lontano da ogni conce-
zione nobilitante di amore da dichiarare tout court: «s’i’ la sguardasse,
ne morria» (Gli occhi 24), contraddicendo alla base stessa dalla quale Io
sento sì muove, ove la morte sarebbe l’inevitabile conseguenza della per-
dita della vista di lei: «… so ch’io ne morrei» (v. 32), e restiamo un attimo
su quell’ipotesi di trasformazione. Prima di tutto è l’amore medesimo che
incessantemente si trasforma, a norma della citata quarta regula amoris
del Cappellano: «semper amorem crescere vel minui constat» (De amore
II 8), il che naturalmente significa che nel cuore di chi si protesta ‘vero’
amante non può che aumentare. Si veda, solo per fare qualche esempio,
oltre ai versi di Bonagiunta citati appena sopra,23 Mastro Torrigiano 7,
Vorei che mi facesse 12: «l’amor ciascunora cresce un grado», oppure
Onesto, 4, La partenza 20-21: «e ciascun giorno più cresce e sale /
l’amor», e soprattutto Guittone, A renformare amore 30: «’n amar voi
sempre cresco e megliuro». Qui, il dettato è ambiguo, dovendosi proba-
bilmente intendere che il ‘crescere’ e il ‘migliorare’ non vadano intesi in
senso assoluto, ma solo e relativamente a quell’amore (‘il mio amore per
voi aumenta e si perfeziona’). In ogni caso sembra almeno implicita l’idea
che la crescita dell’amore non solo vada cancellando ogni viltà e promuo-
vendo, per contro, le migliori qualità umane, ma che una siffatta trasfor-
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mazione sia il ‘correlativo oggettivo’ attraverso il quale quella medesima


crescita diventa percepibile e misurabile. Ora, l’originalità speculativa di
Dante sta appunto nel far dipendere l’idea dell’amore come processo di
trasformazione e arricchimento personale da un ‘servizio’ che oltrepassa
l’auto-referenzialità dell’io e si pone come ‘principio di realtà’ che con
quel processo instaura un vero e proprio circolo dialettico. Rileggiamo i
vv. 71-80:
Io non la vidi tante volte ancora
ch’io non trovasse in lei nova bellezza,
onde Amor cresce in me la sua grandezza
tanto quanto ‘l piacer novo s’aggiunge.
Per ch’egli avien che tanto fo dimora
in uno stato, e tanto Amor m’avezza
con un martiro e con una dolcezza
quant’è quel tempo che spesso mi pugne,
che dura da ch’io perdo la sua vista
infino al punto ch’ella si racquista.

Anche se il dettato può presentare qualche difficoltà, il senso è chiaro.


Il poeta ‘dimora’ in una medesima condizione o stato d’animo, nel quale
sofferenza e dolcezza d’amore si mescolano, solo negli intervalli durante
i quali è privato della vista della sua donna, nostalgicamente desiderata (di
una nostalgia che ‘punge’, come quella sofferta dal «novo peregrin
d’amore» in Pg. VIII 5). Ogni volta che la vede, invece, questo equilibrio
salta, sopraffatto dalla scoperta in lei di «nova bellezza», la quale a sua
volta genera nuovo e più grande amore, in una progressione tendenzial-
mente infinita. La ‘ripetizione necessaria’ alla quale si è accennato non sta
dunque nel fatto che la rinnovata vista di lei serva a mantenere in vita
l’amore, ma piuttosto che lo accresce assecondandone la natura essen-
zialmente dinamica e trasformatrice. In questo modo, Dante non definisce
il proprio ‘servizio’ amoroso nei termini di un rapporto statico e costrit-
tivo, ma ne fa l’analogo di un atteggiamento di disponibilità, di apertura,
attraverso il quale l’io riconosce di là da sé e accoglie ciò che ha la forza
di mutarlo. In breve, l’amore non è quel morbo chiuso, disperato, regres-
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

sivo che Cavalcanti denuncia, ma al contrario è essenzialmente questa


positiva forza trasformatrice, e il ‘servizio’ è la capacità/volontà di accet-
tarla e farla vivere in sé.

APPENDICE

Senza alcuna impossibile pretesa di completezza (data la loro natura to-


pica molti dei rimandi potrebbero essere sostituiti con altri, magari più
pertinenti) trascrivo qui, e ne approfitto anche per ripetere o inserire qual-
che ulteriore minima chiosa, una serie di luoghi paralleli, alcuni già segna-
lati dai commentatori, altri che mi sono via via trovato ad aggiungere, che
tutti insieme possono contribuire a illustrare meglio i significati del testo.
Per non appesantire troppo questa parte i riferimenti bibliografici sono
ridotti all’essenziale, sottintendendo il rinvio alle edizioni correnti, né ciò
dovrebbe costituire un problema. Avverto in ogni caso che oltre le edizioni
particolari (Guittone lo si cita dall’ed. Egidi [Guittone 1940], Chiaro Da-
vanzati e Bonagiunta dalle edizioni Menichetti [Davanzati 1965 e Bona-
giunta 2012]; Monte Andrea dall’edizione Minetti [Monte Andrea 1979];
Panuccio dall’edizione Brambilla Ageno [Panuccio 1977]; Inghilfredi dal-
l’ed. Marin, Inghilfredi 1978), per i trovatori si cita dall’ampia antologia
di Martín de Riquer (Riquer 1975); per i siciliani e i cosiddetti siculo to-
scani da Roberto Antonelli (Poeti 2008); per i poeti dello Stil novo, Mario
Marti (Poeti 1969), ma pure dalle più recenti edizioni a cura di Marco
Berisso (Poeti 2006), e Donato Pirovano (Poeti 2012), Roma. Tra paren-
tesi si indicano gli studiosi che commentando la canzone dantesca già
hanno segnalato il rimando, e si sottintende che l’indicazione, salvo av-
viso contrario, è ad loc.
1. Io … possanza: Pg. XXX 39: «d’antico amor sentì la gran potenza»
(Foster-Boyde). RINALDO D’AQUINO, Un oseletto 12: «fera posanza ne
l’Amor reposa».
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2. non posso … soffrire: BERNART DE VENTADORN, Amors, e que·us 47:


«ni eu no posc plus durar». Vd. BONAGIUNTA, Oi amadori 50-51: «mi
tiene – in tante pene / ch’io non posso più durare»; CAVALCANTI, Io non
pensava 20-21: «l’anima sento per lo cor tremare, / sì come quella che non
po’ durare»; Perch’i’ no spero 22: «ch’i’ non posso soffrire» (De Rober-
tis). Vd. La dispietata mente 7-8: «né dentro sento tanto di valore / che
possa lungamente far difesa» (Giunta), e Vn. XIV 3: «veggendo come
leggiero era lo suo [della ‘deboletta vita’] durare».
3. ond’io mi doglio: comune in clausola. Vd. GIACOMINO PUGLIESE, 1-
2: «Morte, perché m’ài fatta sì gran guerra […] ond’io mi doglio?» (De
Robertis), e Quando veggio rinverdire 20. E ancora BONDIE DIETAIUTI, 3,
Greve cosa 3; BONAGIUNTA, Quando apar 22, ecc.
4. ‘l suo valor si pur avanza: nel senso di ‘aumenta’, ‘s’accresce’, vd.
MONTE ANDREA, 24, Radice e pome 2: «per cui s’avanza ogni nobilitate»;
NERI DE’ VISDOMINI, 6, Per ciò che 5: «s’avanza il mio tormento». Ma è
implicito anche il senso attivo di ‘superare’, per cui vd. BRUNETTO, Teso-
retto 1658-9: «ella t’avanza in pregio ed in valore»; CAVALCANTI, Fresca
rosa novella 23-25. «Votra cera gioiosa, / poi che passa e avanza / natura
e costumanza». Vd. Pd. XIII 24, e XVIII 60.
5. sento mancare: ALIGHIERI, La dispietata mente 30: «ch’i’ sono al
fine della mia possanza» (De Robertis). PANUCCIO, IX, La doloroza 60: «’l
core e ‘l dir mi manca».
6. son meno: minore, più debole (agg.). INGHILFREDI, d. 1, Dogliosa-
mente 28: «chi è meno di sua condizione»; ALIGHIERI, E’ m’incresce 55:
«’l mio sentire è meno assai».
7. Non dico … voglio: CHIARO, XLIV, 1-6: «Amore, io non mi doglio
/ per mie pene sentire […] né perché più ch’io soglio / doppiato aggia
martire» (De Robertis: «medesima cadenza, e in un analogo giro argo-
mentativo»). Per la formula, CHASTELAIN DE COUCI, La douce voiz 25:
«Je ne di pas que je face folage»; CHIARO, La mia disiderosa 13: «Non
dico che lo cor mio senta male» (Giunta).
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

8-10. ché, s’e’ facesse … ella è finita: un pensiero analogo in CHIARO,


XXVII, Chïunque altrüi blasma 36-37: «S’al mio chieder m’avesse sor-
montato, / tanto alto non sarei», ma vd. soprattutto ALIGHIERI medesimo,
Amor che movi 36-37, ove il poeta non giunge «a così alta cosa, / ma dalla
tua vertute [di Amore] ha quel ch’elli osa / oltra ‘l poder che natura ci ha
porto». Vd. CAVALCANTI, Fresca rosa novella 31: «chi porìa pensare oltre
natura?» (e Chi è questa 12: «Non fu sì alta già la mente nostra»). Per fi-
nita: ‘limitata’ vd. ALIGHIERI, Cv. IV IX 2-3: «sì come ciascuna arte e of-
ficio umano dallo imperiale è a certi termini limitato, così questo da Dio
a certo termine è finito […] dunque la giurisdizione della natura univer-
sale è a certo termine finita». E già GUITTONE, Lettere, I 44 (ed. Margue-
ron, GUITTONE 1990: 10): «E duve male sent’omo, como paga el ben che
ci è, finito di grandezza, di tempo? Unde animo non finito non in cose fi-
nite e breve pagar po’ …».
11. ma questo … cordoglio: CHIARO, X, Gravosa dimoranza 51: «e
questo è ciò laond’io riprendo gioia» (De Robertis).
13. e se di buon voler … mercede: CAVALCANTI, Donna me prega 70:
«che solo di costui nasce merzede» (De Robertis). Il motivo della giusta
ricompensa è legato a quello, sviluppato nelle stanze successive, del fe-
dele e pieno ‘servizio amoroso’: vd. GALLETTO PISANO, 1, Inn·alta-Donna
8-9: «ogne bon servire è meritato / chi serve a bon signore a piagimento».
16. per aver … amore: vd. in generale, anche per i versi che seguono,
CAVALCANTI, 1-4: «Veggio negli occhi della donna mia / un lume pien di
spiriti d’amore, / che porta uno piacer novo nel core, / sì che vi porta d’al-
legrezza vita». – portan … conforto: MONTE ANDREA, 5, Lasso me, tristo
6: «Amor mi dà conforto»; ALIGHIERI, La dispietata mente 12-3: «piac-
ciavi di mandar vostra salute, / che sia conforto della sua virtute». – ovun-
que io sento amore: e poco avanti, v. 19 (vd.) «ovunque io sento amaro».
17. Entrano … belli: da GIACOMO DA LENTINI, Sì come il sol che manda
la sua spera, e Or come pote sì gran donna entrare (ma si risalga a CHRÉ-
TIEN DE TROYES, Cligès 695 ss.), è il tema topico dell’ ‘entrata’ dell’imma-
gine della donna attraverso gli occhi e del suo depositarsi nel cuore
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dell’amante ove diventa oggetto dell’immoderata cogitatio della quale


parla Andrea Cappellano (vd. in particolare ALIGHIERI, Amor che movi
24-30). Vd. la versione dolorosa del motivo in CAVALCANTI, Voi che per
li occhi mi passaste ‘l core, ma pure Un doloroso sguardo 9-11: «Ma
quando sento che sì dolce sguardo / d’entro de li occhi mi passò lo core /
e posevi uno spirito di gioia». Giunta rimanda a CHIARO DAVANZATI, d. 12,
Sì come ‘l sol 9-10: «Ed eo, lasso, guardando ‘nnamorai, / ché·mmi di-
scese al cor vostra figura», e anche per una più diffusa rete lessicale, a
LAPO GIANNI, Gentil donna cortese 5-7: «I’ fu’ sì tosto servente di voi, /
come d’un raggio gentile amoroso / da’ vostri occhi mi venne uno splen-
dore». Vd. ALIGHIERI, E’ m’incresce 7, mentre gli occhi belli in rima (che
riprendono da vicino il bello splendore) sono in GIACOMO DA LENTINI, 5,
Dal core mi vene 48. Vd. anche BRUNETTO, Tesoretto 257: «li belli occhi
e le ciglia»; GUINIZZELLI, 3, Dolente lasso 12-3: «furo li belli occhi pien’
d’amore / che me feriro»; Mare amoroso 93: «gli occhi belli, come di gir-
falco», ecc.
18. innamorati: MAZZEO DI RICCO, 6, Lo gran valore 23: «gli ochi ‘na-
morati»; CINO, XCI, Quando pur veggio 27: «e quel [disio] per gli occhi
innamorati viene».
19. dolce … amaro: il gioco oppositivo dolce / amaro incrocia quello
su amore / amaro che si istituisce qui con il v. 16: «ovunque io sento
amore». I tre termini insieme: amore, amaro / dolce, in GUITTONE, XXIX,
O vera vertù 6-7: «amar grand’è amaro, e picciol dolze / teco sembra tra-
dolze» (vd. ancora XIV, Tutto ‘l dolor 15 e 77: «co mal vidi, amaro
amore», e «Amore, Amor, più che veneno amaro»; XXXIX, Vegna –
Vegna, 12: «dolc’è tec’onni dolce e onni amaro», ecc. Ma questo gioco
verbale è larghissimamente attestato: vd. per esempio CHIARO DAVANZATI,
XIX 15 e 29: «Amore amaro dico […] Amaro amor, tormento »; BONA-
GIUNTA, d. 4, Conosco il frutto 10e 14: «quel che dolze rende sanz’amaro
[…] ca per lo dolze compera l’amaro»; NOCCO DI CENNI, Greve di gioia
29-30: «Simil l’amaro amore allo ‘mprimera / mostra dolce il veleno»
(ed. Zaccagnini, RIMATORI 1915: 220); GUINIZZELLI, II, Madonna, il fino
amore 26: «di voi m’à priso amore amaro»; 6, Lamentomi 7: «ché molto
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

amaro frutto si matura / e diven dolce per lungo aspettato», e ancora


MONTE ANDREA, 27, Omo disvarëato 13; RUSTICO, 26, Tutto lo giorno10;
INGHILFREDI, I, Audite forte cosa 20; ONESTO, 1, Ai lasso, taupino 14; l’in-
cipit di MEO ABBRACCIAVACCA, 9 Amore amaro, a morte m’hai feruto
(Zaccagnini 1907: 17), ecc. Vd. questi e altri rimandi alla tradizione antica
e provenzale del motivo nella nota dell’editore, Luciano Rossi, a GUINIZ-
ZELLI, II 26 (Guinizzelli 2002: 13-14).

20. sanno lo cammin: in generale, ALIGHIERI, La dispietata mente 53-


65 (Giunta). E If. IX 30: «ben so ‘l cammin».
23. dentro: cioè nel cuore. Vd. i sonetti di ALIGHIERI, Amore e ‘l cor
gentile e Io mi senti’ svegliar (Vita nova 11 e 15). GIACOMO DA LENTINI,
6, 1-2: «La ‘namoranza disïosa / che dentro a lo mi’ cor è nata», e tra
molti PIER DELLA VIGNA, 19b, Però ch’Amore 5-6; GUINIZZELLI, Al cor
gentil 11, ecc.
25. procaccian danno: GUITTONE, 101, Similemente vole 12: «procaccia
quei talor suo danno». Circa l’interpretazione qualcuno (per es. Foster e
Boyde) ha inteso son come terza plurale, con soggetto ‘gli occhi’, e dun-
que: ‘i raggi di questi occhi belli danneggiano lei alla quale i miei occhi
appartengono’.
26. celandosi da me: MONTE ANDREA, 35, Meo sir 11: «celando me,
poria tosto morire»; 105, Poi che lo ferro 6-7: «da me celando vostra faz-
zon piagente, / non v’ascondete». Per il concetto, vd. GUITTONE, Spietata
donna 10-1: «lo tu’ isguardo in guarigion mi pone, / e lo pur disdegnar mi
fa perire».
27. che sol … mi tegno caro: GUITTONE, A renformare amore 52-5: «Eo
voglio / solo per poder meglio / vostro servigio fare / e valer sì …»;
CHIARO DAVANZATI, La mia fedel voglienza 59-60: «null’altra gioia aver
mai non mi pare / che sol a voi servire»; ID., Lo ‘namorato core 57-8:
«sol per voi servire / voria valer, più che per mia piagenza»; ALIGHIERI,
Vn. 5, Ballata, i’vo’ 27: «’n voi servir l’à ‘mpronto onne pensero»; La di-
spietata mente 43: «che sol per voi servir la vita bramo». Vd pure ibid. 26:
«ne tien più cari»; Poscia ch’Amor 125: «per sé caro è tenuto». Giunta:
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«Per Dante è un’idea di amore insolitamente paritaria», lontana da quella


completamente sbilanciata della Vita nova.
28. d’amor si fanno: son fatti solo d’amore. Vd. Pd. VII 134: «quelle
cose che di lor [elementi] si fanno».
29. a lor segno: al loro obiettivo finale. Al proposito, è frequente la
metafora del segno quale ‘bersaglio’: vd. JACOPONE, 74, Que farai 11:
«como segno a ssaietta», e ancora CAVALCANTI, 16, A me stesso 13-14;
38, S’io fossi quelli 8-9; DINO FRESCOBALDI, Un’alta stella 13-4.
30. adoperare: operare, esercitare il servizio al quale è irresistibilmente
tratto. Vd. ALIGHIERI, Piangete, amanti (Vita nova III): «il suo [della
Morte] crudele adoperare» (così spesso CHIARO DAVANZATI: vd. XXXVIII
15; XXXIX 53; LI 15; 23, 14; 46, 10). – sì forte bramo: vd., anche per la
corrispondenza con il concetto sviluppato avanti (vd. vv. 59-61), ALI-
GHIERI, La dispetata mente 43-5: «che sol per voi servir la vita bramo, / e
quelle cose ch’a voi onor sono / dimando e voglio».
32. lieve saria, ma … ALIGHIERI, Tre donne 84-5: «lieve mi conteria
ciò che m’è grave; / ma …». Ancora nel senso di ‘facile’ vd. per esempio
Vita nova X 32: «questa ultima parte è lieve a intendere»; Doglia mi reca
55-56: «in costrutto / più lieve»; Pg. VIII 76: «assai di lieve si com-
prende». – ne morria: BONAGIUNTA, Tutto lo mondo 8: «si fiore me fa-
lisse, ben moria»; CAVALCANTI, Gli occhi di quella 24: «s’i’ la sguardasse,
ne morria».
33-34. m’ha preso … mi stringe forte: verbi tecnici dell’impossessa-
mento amoroso (così De Robertis, che rimanda all’episodio di Francesca,
If. V 101, 104, 128). In Amor che movi 24-25: «Per questo mio guardar
m’è nella mente / una giovane entrata, che m’ha preso» (Jacomuzzi).
Amore che afferra e stringe è metafora comune (ma si noti qui la corri-
spondenza di mi stringe forte con il precedente sì forte bramo): vd., con
Giunta, MAZZEO DI RICCO, 2, Lo core inamorato 46-47; GUITTONE,
XXXIII, Sì mi destringe forte 1-2, e soprattutto, per la forte corrispon-
denza, CINO, XLV, Mille volte richiamo 10-12: «E certo sì verace amor mi
strigne, / che ciascun uom s’infigne / d’amare, a mio rispetto». E ancora
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

CARNINO GHIBERTI, 2, Disïoso cantare 56: «ed amo sì verace»; CHIARO


DAVANZATI, XV, Quant’io più penso 30: «voglio dunque verace amor se-
guire».
36-38. ché nullo amore … altrui: Ioan. 15, 13: «Maiorem hac dilectio-
nem nemo habet ut animam suam ponat quis pro amicis suis» (Foster-
Boyde). Vid. RE ENZO, 2, S’eo trovasse pietanza 66-69: «che non m’è
noia / morir, s’ella n’à gioia: / che sol vita mi place / per lei servir verace»;
GUINIZZELLI, Tegnol di folle 50: «onde mi piace morir per su’ amore»;
ALIGHIERI, Amor, da che convien 7: «Tu vò’ ch’i’ muoia, e io ne son con-
tento».
39. fermato: «Fermo è in Dante il termine della passione ostinata: cfr.
ALIGHIERI, Io son venuto 12 e Pg. XXVII 33, 34; e si ricordi l’‘incipit’ ar-
naldiano Lo ferm voler» (De Robertis). Anche in Ballata, i’vo’ (Vita nova
V) 25-27: «Madonna, lo suo core è stato / con sì fermata fede / che ‘n voi
servir l’à ’mpronto onne pensero».
40. sì tosto come: Vita nova VIII 2: «sì tosto com’io imagino».
41-42. fu nato … s’accoglie: è il tradizionale processo dell’innamora-
mento (vd. Amore e ‘l cor gentil 9-14). DINO FRESCOBALDI, Un sol penser
39-41: «In te convien che cresca ogni pesanza / tanto, quanto ogni tuo
ben fu ’l disio / ch’era fermato nella sua bellezza» [Giunta]. – piacimento:
GIACOMO DA LENTINI, 19c, 1-2: «Amore è un disio che ven da core, / per
abondanza di gran piacimento». Ribadisce il concetto secondo cui l’amore
(‘il gran disio’) nasce dal ‘piacimento’, BONAGIUNTA, d. II, Con gran disio
12-13: «E’ par che da verace piacimento / lo fino amor discenda». – ogni
bel s’accoglie: DANTE, Amor, tu vedi ben 37: «In lei s’accoglie d’ogni
bieltà luce»; Pd. XXXIII 103-104: «però che ‘l ben […] tutto s’accoglie
in lei».
43. servente: ALIGHIERI, Lo meo servente core 1-2: «Lo meo servente
core / vi raccomando» (e GUITTONE, Non mi credea 11; CAVALCANTI, Se
vedi Amore 12; Dante, un sospiro 12).
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44. qual … contento: per il concetto, vd. GUIDO DELLE COLONNE, La


mia gran pena 31: «Poi ch’a·llei piace, a me ben de’ piacere».
45. servir contra talento: GUINIZELLI, Donna, l’amor mi sforza 37-8:
«Grave cos’è servire / signor contra talento» (Giunta); ibid., 17: «Eo, che
servir talento»; GUITTONE, XV, Gente noiosa 14: «tanto forte mi è contra
talento». Ma tutto questo discorso di Dante sembra essere una risposta ai
dubbi dell’amante nel Roman de la Rose, ed. Langlois, vv. 2019-2022:
«mais sergenz en vain se travaille / de faire servise qui vaille / se li servi-
ses n’atalente / au segnor cui l’en le presente».
46-47. e se merzé… difenda: ‘e se la giovinezza di lei mi priva del-
l’amorosa ricompensa (merzé), spero in una stagione nella quale ci sia
per me maggiore giustizia’. Si può anche intendere tradizionalmente che
il poeta attenda il momento in cui la giovinetta, avanzando nell’età, di-
venti più ‘ragionevole’ (giovanezza soggetto di prenda), oppure che la
ragione, soggetto, acquisti più spazio, più potere (Giunta), ma proprio
questa lettura induce a interpretare che qui la ragione implichi il raggiun-
gimento, nel tempo, di un più giusto equilibrio tra amante e amata, ed
equivalga dunque, com’è nel lessico del tempo, a ‘giustizia’. Il motivo
lega assai strettamente la canzone alle altre liriche che insistono sul mo-
tivo dell’acerba giovinezza che impedisce alla donna non solo di provare
amore, ma anche solo di capire che cosa esso sia. Si tratta delle due ballate
I’mi son pargoletta bella e nova e Perché· tti vedi giovinetta e bella, e del
sonetto Chi guarderà giammai sanza paura; delle due canzoni dedicate
alla natura e alla potenza d’amore, Amor che movi tua vertù dal cielo, e
della nostra Io sento sì d’Amor la gran possanza, e infine il gruppo delle
tre canzoni ‘petrose’, Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra; Amor,
tu vedi ben che questa donna; Io son venuto al punto della rota (rispetti-
vamente, De Robertis, nni 22, 23 e 24; 5 e 6; 7, 8, 9, avvertendo che lo stu-
dioso ha escluso dal gruppo ‘petroso’ Così nel mio parlar). Vd. in
particolare Amor che movi 56-58: «non soffrir che costei / per giovanezza
mi conduca a morte, / ché non s’accorge ancor com’ella piace» (e CAVAL-
CANTI, Io non pensava 28: «E non si n’è madonna ancora accorta!»). Si
tratta di un punto assai delicato e però, mi sembra, alquanto trascurato.
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

Giunta si limita a spiegare come Beatrice e tutte le altre donne amate e


cantate da Dante fossero per definizione ‘giovani’, sì da qualificare
l’amore come passione irrazionale piuttosto che «quieto sentimento», e
rinvia in modo parziale ad Amor che movi 56-7 e a DINO FRESCOBALDI,
XX, Morte avversara 35: «che se a merzede giovinetta è fera» (ma si ag-
giungano subito i versi che precedono, 27-30, che precisano la matrice
dantesca del motivo: «Ma la sua nova e salvaggia etate, / crudele e lenta
contro a mia fermezza, / per la sua giovinezza / m’ha tempo, in vanità gi-
rando, tolto»).
48. pur … difenda: sempre che la mia vita riesca ad arrivare sino a quel
momento. ALIGHIERI, Tutti li miei penser (Vita nova VI) 13-14: «conve-
nemi chiamar la mia nemica / Madonna la Pietà, che mi difenda»; Amor
che movi 64: «là ‘v’io non posso difender mia vita». Vd. GUIRAUT RI-
QUIER, Pus astres 25-26: «que non ai autre conort [speranza] / que de
murir me defenda», e, in connessione con ragione, MONTE ANDREA, VIII,
Tanto m’abonda 17: «s’i’ ò rasgione, se vuol, mi difenda»; RUSTICO, 17,
13 : «prego la ragion che mi difenda».
49. Quand’io penso …: ALIGHIERI, La dispietata mente 21: «quand’io
mi penso ben». Vd. CHIARO, VI, Lungiamente portai 33: «Quando penso
ed isguardo / la vostra gran bieltate»; CAVALCANTI, Io non pensava 19:
«quand’io penso bene» (Vilella). Giunta (vd.) cita Arnaut de Mareuil,
Guiraut Riquer, Guiraut de Calanso, Rinaldo d’Aquino. – gentil disio …
gran disio: il nobile (gentile) desiderio di ben fare nasce dall’amore (il
gran disio).
51. a ben far tira: Vd. Amor che movi 9-12: «da te conven che ciascun
ben si mova / per lo qual si travaglia il mondo tutto; / sanza te è distrutto
/ quanto avemo in potenzia di ben fare». JACOPONE, 59, L’anema ch’è vi-
ziosa 12: «a ffar mal la voglia tira» (ALIGHIERI, Pd. IV 16-7: «Io veggio
ben come ti tira / uno e altro disio»). Altre occorrenze di ben far in Donne
ch’avete 49 (Vita nova 10): «quanto di ben po’ far Natura»; If. VI 81; Pg.
XXVII 60. È ribaltata l’aspra sentenza di GUITTONE, O tu de nome Amor
28-30, per il quale Amore allontanava da ben fare: «e s’ei fusse ch’al ben
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far non soggiorna, / ma parte Amor. partendo onta li torna, / ché, fallendo
ben far, pregio è diserto».
52. parm’esser … oltrepagato: GUITTONE, XXI, Amor tanto altamente
68: «m’ha sovrameritato el meo servire» (De Robertis). GAUSBERT DE
PUYCIBOT, Car no· m abelis 11-12: «E teing mi fort per pagatz / del mal
qu’ieu sofria»; Anon., Non saccio a che coninzi (V 358) 3-4 e 10: «per uno
ciento de lo meo servire / ò ricievuto doppio pagamento […] mi tengno
sovrameritato» (Giunta); CHIARO DAVANZATI, XVIII, Di cantare ho talento
52: «tanto m’à dato e dà più ch’è ragione» (vd. la ricca nota di Menichetti,
ad loc., sul topos del ‘signore’ che provvede a chi lo serve). Sul beneficio
ricevuto che eccede il servizio reso, vd. ALIGHIERI, Cv. III I 8: «avegna che
lo servo non possa simile beneficio rendere allo signore quando da lui è
beneficiato, dee però rendere quello che migliore può», ecc. Contra, CA-
VALCANTI, Li mie’foll’occhi 13-14: «Fatta sé di tal servente, / che mai non
déi sperare altro che morte».
55. del parere: così il testo De Robertis. Diversamente il testo di Barbi:
del piacere. Nel primo caso il verso significherebbe semplicemente ‘se si
guarda all’apparenza’ (e dunque: ‘solo apparentemente il servizio diventa
la ricompensa della bontà altrui [della donna]’, e cessa d’essere, appunto,
un servizio. Oppure, nel secondo caso: ‘dinanzi agli occhi della bella donna
[il piacere], il servizio …’, ecc. Di entrambe le lezioni, e delle relative in-
terpretazoni, Giunta, con qualche ragione, non è soddisfatto. Ma non c’è
dubbio che con il testo De Robertis l’articolazione del discorso corre bene,
con il ‘parere’ che corrisponde al ‘parmi’ del v. 52 e al ‘mi par’ del v. 54,
e torna a sottolineare che quella del ‘servir’ come ricompensa del poeta
alla bontà di lei è un’ipotesi sbagliata e in quanto tale subito rigettata: «Ma
poi ch’io mi ristringo a veritate …», ecc. (si veda la parafrasi fatta sopra).
Nel caso opposto, il filo logico si spezza, l’ipotesi diventa una verità asso-
luta che non si contrappone più alla verità vera e nel contesto della canzone
suona del tutto incongrua: perché mai contemplando la bellezza della
donna il poeta trasformerebbe in suo servizio in mercede?
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

57. mi ristringo: mi tengo stretto. In senso non metaforico vd. If.


XXXIV 8-9, e Pg. III 4 (Barbi-Pernicone).
58. convien che … servigio conti: ‘è opportuno ch’io consideri come un
servizio’. GUITTONE, XII, Voglio de dir 16: «voglio ben che per suo tal
mi conti»
59-61. s’io procaccio … podestate: vd. sopra, nota al v. 30; CHIARO
DAVANZATI, Lo ‘namorato core 57-8: «sol per voi servire / voria valer, più
che per mia piagenza», citato sopra, v. 27, e GUITTONE, Gente noiosa e vil-
lana 118-21: «lo talento e l’ovra / ch’eo metto in agrandire / me per lei ser-
vire». Vd. GIACOMO DA LENTINI, d.1, Membrando l’amoroso dipartire 28:
«lo meo sire, che m’à in potestate»; FEDERICO II, 1, Dolze meo drudo 20:
«mi conviene ubidire / quelli che m’ha in potestate».
62. in pregio monti: per l’espressione, di origine provenzale, vd. GUIDO
DELLE COLONNE, I, La mia gran pena 40: «in tanto bene montare»; BRU-
NETTO, Tesoretto 2819: «sì che monti in ricchezza»; CHIARO DAVANZATI,
XLIII, Novella gioia 10: «Chi ave gioia sale […] in pregio»; ID., Tutto
l’affanno 42: «[omo] ch’avanza e monta e sale per servire». Giunta ri-
manda a DANTE DA MAIANO, Lo vostro fermo dir 5: «ché ‘l vostro pregio
in tal loco è poggiato».
63. e io son … mi tegno: RE GIOVANNI, 1-2: «Donna, audite como / mi
tegno vostro omo»; COMPAGNETTO DA PRATO, II, L’amor fa una donna
amare 32-3: «A voi mi do, donna mia: / vostro son, mio non mi tegno»;
CIOLO DE LA BARBA, Compiutamente 9: «considerate ch’io son vostro»;
CAVALCANTI, Se m’ha del tutto 13: «Donna, tutto vostro sono».
64. Amor … degno: NOFFO BONAGUIDE, IX, In cor vi porto 4: «di cui
servente Amor m’ha fatto degno». De Robertis rimanda a GUITTONE,
XXXII, O cari frati miei 81-82: «dove più d’onor degno m’ha fatto / esso
meo car Segnor»; BONDIE DIETAIUTI, Amor, quando mi membra 44: «onde
di grande onor m’ha fatto segno»; Giunta a LAPO GIANNI, Dolc’è il pen-
sier 24: «che·mmi fé degno di cotanto onore».
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67. quella … innamora: ALIGHIERI, Le dolci rime 20: «ella di se stessa


s’innamora».
68. stassi: Giunta: «la metafora dell’immobilità, cioè dell’indifferenza
all’amore, ricorda Al poco giorno 7-8: “questa nova donna / si sta gelata
come neve all’ombra”». Vd. TIBERTO GALLIZIANI, 1, Blasmomi de l’amore
24: «e·ll’altra mi sta fera». – non cale: ALIGHIERI, Amor, da che convien
69: «s’a costei non ne cale». CHIARO DAVANZATI, 70, 1-2: «Madonna, or
veggio che poco vi cale / di me».
70. sanza … ora: TOMMASO DI SASSO, II, D’amoroso paese 6: «Amore
me no lascia solo un’ora»; NOFFO BONAGUIDE, 5, Un spirito d’amor 4: «e
sanza lui non viveria un’ora» (Barbi-Pernicone).
71-74. Io non vidi … s’aggiunge: stringente il rapporto con Amor che
movi 20-3: «un disio che mi conduce / in sua dolce favella / in rimirar
ciascuna cosa bella / con più diletto quanto è più piacente». Vd. la ballata
forse di CINO, Quanto più fiso miro 5-6: «Parmi vedere in lei, quand’io la
guardo, / tuttor nova bellezza» (Barbi-Pernicone: vd. Studi danteschi, I,
1920, p. 42), e CAVALCANTI, XXVI, 1-4: «Veggio ne gli occhi de la donna
mia / un lume pien di spiriti d’amore, / che porta un piacer novo nel core,
/ sì che vi porta d’allegrezza vita». Ma il concetto espresso da Dante è un
po’ diverso. Vd. ancora MASTRO TORRIGIANO, 7, Vorei che mi facesse 12:
«l’amor ciascunora cresce un grado»; ONESTO, 4, La partenza 20-21: «e
ciascun giorno più cresce e sale / l’amor».
75-80. per ch’egli … si racquista: l’interpretazione data (‘per questa ra-
gione io resto fermo in un medesimo stato d’animo e Amore mi tiene in
una condizione nella quale si mescolano in parti uguali una stessa soffe-
renza e una stessa dolcezza, solo per il tempo da cui spesso sono ferito che
dura dal momento in cui perdo la possibilità di vederla sino a quello in cui
la recupero’) segue quella di Foster-Boyde (che rimandano alla quarta re-
gula amoris del CAPPELLANO: «semper amorem crescere vel minui con-
stat» [II 8; Capellano 1972: 310: ‘si sa che l’amore sempre o cresce o
diminuisce’]), e poi di Giunta. Vd. RUGGIERI D’AMICI, II, Lo mio core 5:
«facendo sì gran dimora» (così anche BONAGIUNTA, d. III, Oi lo meo core
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

5). Vd.ALIGHIERI, De’ tuoi begli occhi 12 (dubbie 16): «quella pietà
ch’amor racquista»; CINO, Quando potrò io dir 34-35: «poca vita / rimasa
m’è, se non mi si racquista».
76-77. tanto Amor … dolcezza: Petrarca riecheggerà questi versi in Rvf
360, 25-6: «In quanto amaro [Amore] à la mia vita avezza / con sua falsa
dolcezza». ALIGHIERI, Io son venuto 64: «se ‘l martiro è dolce».
78-79. quel tempo … dura: GUITTONE, XXIII, Sì me destringe 47:
«tempo con dolzore / poco dura».
79-80. vista … racquista: CINO, CII, Quando potrò 34-36: «Vedi che
poca vita / rimasa m’è se non mi si racquista / per grazïa della beata vista».
81. Canzon mia bella …: strofa-congedo, che contiene l’invito alla can-
zone affiché selezioni con cura il proprio pubblico. Vd. Flamenca 7093-
7096: «cel qe las salutz mi donet / mais de iiii ves mi preguet / non
venguesson entr’avols mans, / ni ja non las ausis vilans» (ed. Mancini,
Flamenca 2006: 251): ‘il cavaliere che mi dette i “saluti” mi pregò più di
quattro volte che non cadessero in cattive mani e non li ascoltasse persona
villana’); CINO, XXXIX, L’uom che conosce 43-6: «Canzone, udir si può
la tua ragione, / ma non intender sì che si’ aprovata / se non da innamorata
/ e gentil alma», e soprattutto CAVALCANTI, Perch’i’ no spero 9-10:
«guarda che persona non ti miri / che sia nemica di gentil natura», e infine
ALIGHIERI medesimo, Donne ch’avete 64-67: «E se non vòli andar sì come
vana, / non restare ove sia gente villana: / ingegnati, se puoi, d’esser palese
/ solo con donne o con omo cortese» – se tu mi somigli: ALIGHIERI, Io mi
senti’ (Vita nova XV) 14: «quell’à nome Amor, sì mi somiglia»; Amor
che nella mente 50: «e bello è tanto quanto lei somiglia».
83. s’avene: si conviene, s’addice. In questo senso anche in CHIARO DA-
VANZATI, IV, Donna, ciascun fa canto 45-46: «non s’aven potestate / là
ov’è argogliamento»; XIX, Chi ‘mprima 25-26: «a tal mette corona / che
no·lli s’averia» (e altrove: vd. nell’ed. Menichetti il Glossario s. v. avenire,
421), e in GUIDO ORLANDI, XVIb, A·ssuon di trombe 12: «servando in sé
l’onor come s’avene». Per il concetto e il modo dell’espressione di questi
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due versi, qualche affinità con GUINIZZELLI, Omo ch’è saggio 7-8: «non se
dev’om tenere troppo altero, / ma dé guardar so stato e sua natura».
84. però: tuttavia (cioè, ‘non essere sdegnosa, ma neppure troppo cor-
riva’). – t’asottigli: Amor che movi 35: «non che da se medesmo sia sot-
tile». MASTRO TORRIGIANO, 1-2: «S’una donzella di trovar s’ingegna / e
d’ogni ricco saver s’asottiglia»; GUITTONE, 27, Amore, certo 11: «m’inge-
gno e m’asottiglio» (De Robertis); GUINIZZELLI, Pur a pensar 5: «e ‘n
adagiarsi ciascun s’assottiglia» (Giunta).
86. prender modo e via: dittologia per il semplice ‘modo’. CECCO, Per
sì gran somma 3: «prender modo di far» (De Robertis); 38, I’ ho sì poco
3: «non posso trovar via né modo»; BRUNETTO, Tesoretto 1726: «che par
che modo pilli».
88. imprima … metta: ALIGHIERI, Messer Brunetto 8: «prima che ‘n in-
telletto altrui si metta» (Giunta); I’ mi son pargoletta 16-17: «omo in cui
/ Amor si metta per piacer di lui»; DINO FRESCOBALDI, 5, Donna, da gli
occhi 3-4: «par che sovente / si metta nel disio».
89-90. espia … persona: CAVALCANTI, XXXV, Perch’i’ no spero 9-10:
«ma guarda che persona non ti miri / che sia nemica di gentil natura»;
CINO, XXXIX, L’uom che conosce, 47-48: «e però tu sa’ ben con quai
persone / dé’ gire a star per essere onorata» (Giunta). CATENACCIO CATE-
NACCI, Volg. Disticha Catonis 9, 1-2: «Se vedi alcuni homini de poveri
semblanti / tosto no li desprezare ma spia li facti innanti». Vd. avanti
anche la citazione di Francesco da Barberino nella nota al v. 95 e quella
di Guittone ai vv. 103-104, entrambe assai pertinenti al contesto dantesco.
– setta: If. III 62: «la setta d’i cattivi» (e Cv. I XI passim, ecc.).
91. ch’el buon … carriera tene: ma l’ed. Barbi: camera tene. Giunta
cita A. MONOSINI, Floris italicae linguae libri novem, Venezia, Guerilio,
1604, p. 297: «Il buon fa camera col buono», ripreso nei Proverbi toscani
di GIUSTI-CAPPONI, Roma, Newton & Compton, 2001 (Ia ed., 1880), p.
63. Con ciò, ritiene preferibile la lezione carriera, viste le attestazioni
provenzali di tener carriera (LEVY, Prov. Supplement Wörterbuch, s. v.),
mentre De Robertis rimanda a Tesoretto 2175: «presi carriera». Per il con-
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

cetto e l’immagine vd., con Giunta, Carmina burana 19, 2, Si legisse me-
moras 1-4: «Si legisse memoras / ethicam Catonis, / in qua scriptum le-
gitur: / “ambula cum bonis”»; BRUNETTO, Tresor II 95, 11: «En ce doit l’en
resgarder les mours de celui a cui il done […] et avec queles genz il habite
et en quel compaingnie il vit»; FRANCESCO DA BARBERINO, Documenti I
2: «convien ciascuno / usar coi buoni».
92-94. Ma elli avven … di lui suona: donde la raccomandazione di
GUITTONE, Sovente vegio saggio 76-79: «Chi vol mantener pregio / guardi
ben che dispregio / d’alcuna mala parte / en lui non tegna parte» (vd.
avanti, a 103-104). Il caso inverso in SORDELLO, XLIII, Aissi co l tesaurs
239-41: «no·s vol formir / d’aver solaz mas per cubrir / s’avolesa e sas cu-
beitatz» (‘non vuol darsi cura di avere le qualità dell’uomo di società se
non per coprire la sua bassezza e la sua cupidigia’). Giunta cita ALBER-
TANO DA BRESCIA, Trattati morali III 14 (ed. Selmi, 1873): «sappi che per
usanza e amistà di questi cotali [i ‘sozzi’ poco sopra nominati] quelli ch’è
buono uomo è tenuto rio». – si getta: BRUNETTO LATINI, Tesoretto 1432:
«chi si gitta in quell’arte [sc. «gioco di dado»]»; ibid.: «chi in ghiottornia
si getta»; ibid. 2798: «Altro […] si getta in mala via». – disdetta: ALI-
GHIERI, Io Dante a·tte 11: «ella verrà a·ffarti gran disdetta». – suona: per
la ‘risonanza del nome’. Vd. Pg. XI 109 (Giunta), e If. IV 76-77.
95. né a cerchio né ad arte: per stare a cerchio nel senso di ‘conversare
in gruppo’, vd. GIOVANNI GHERARDI DA PRATO, Il Paradiso degli Alberti
IV 349: «Essendo Alfonso un dì a cerchio e udendo …» (Barbi-Perni-
cone). Ma ha singolari corrispondenze con quanto Dante qui raccomanda
(e pure con i contenuti della canzone Poscia ch’Amor) FRANCESCO DA
BARBERINO, Doc. I 6, 1 ss. In particolare vd. 25-34: «Se tu serai in via / o
in piaça con gente, / actendi prima / di che quadra son lima […] Tu quasi
in piccol tratto / conoscerai chi nel tuo cerchio gira». E vd. pure GUITTONE,
31, Poi male tutto è nulla 106: «Non con malvagi mai gauder bon pono»
(i malvagi sono qui poco avanti, v. 102); CINO, XXXIX, L’uom che cono-
sce 47-8: «e però tu sa’ ben con quai persone / de’ gir a stare per essere
onorata». Ma il particolare contesto nel quale va collocata la canzone dan-
tesca suggerisce pure di azzardare un’interpretazione più precisa: ‘con i
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malvagi non bisogna avere a che fare né all’interno della propria cerchia,
né all’interno delle Arti, alle quali occorreva essere iscritti per avere ruoli
politici nel Comune. – ad arte: in qualche attività comune. Vd. Amaistra-
menti de Sallamon (ed. STUSSI, 1967) 100: «metilli [tuo figlio] ad arte»
(cioè, mandalo a imparare un mestiere).
97. tre men rei di nostra terra: contro l’opinione tradizionale che Dante
qui indichi effettivamente tre non meglio identificati personaggi di Fi-
renze, Giunta ha proposto che si tratti invece di un tre indeterminato, per
dire ‘pochi’ o ‘pochissimi’, e allega al proposito varie testimonianze di un
simile uso. Ma tali esempi, basati su espressioni quali: ‘non ce ne sono
neppure tre su cento che …’ (FALQUET DE ROMANS), oppure: ‘in tutto il
mondo non ce ne sono neanche tre che …’ (ARNAUT CATALAN e ALFONSO
EL SABIO, e GUIRAUT RIQUIER), ove il senso indeterminato è ovvio, non
sembrano calzanti ai versi di di Dante, che paiono designare personaggi
reali, anche per quanto è detto in maniera più circostanziata del terzo che
penso anch’io, con nuovi argomenti, sia Cavalcanti (vd. sopra, il paragrafo
III). Vd. Pg. XVI 121-2, ove i tre hanno un nome (Corrado da Palazzo,
Gherardo da Camino, Guido di Castello), e Inf. VI 73: «Giusti son due
…», ove di nuovo Giunta, contro i commentatori che si sono ingegnati di
dar loro un nome, pensa a un due indeterminato.
100. mala setta: vd. sopra, v. 90.
101-102. non prende guerra … prove: GUIDO DELLE COLONNE, 4, Amor,
che lungiamente 26: «saggio guerrero vince guerra e prova».
103-104. è folle … follia: vd. i casi di adnominatio con fol e ‘follia’ ci-
tati da Giunta, che non hanno però molto a che fare con il concetto
espresso da Dante, ov’è centrale la ‘paura di vergogna’, e insomma il di-
sonore che deriverebbe dal retrocedere dalle proprie posizioni, là dove
l’ostinazione e il puntiglio sarebbero per contro percepite come qualità
positive (vd. la stretta associazione di ‘tema’/‘paura’ e ‘vergogna’ in Cv.
IV 19, 8; If. XXVII 66: «tema d’infamia»; Pg. XXXIII 31-2). In tal senso,
si può forse dire che qui Dante al ‘terzo’ raccomanda un comportamento
del quale egli stesso darà testimonianza, con l’ammissione della colpa, il
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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

pentirsene e il chiedere perdono, nella canzone Tre donne, mentre un con-


cetto analogo è quello espresso in O voi che per la via (Vita nova II) 17-
18 a proposito di «coloro / che per vergogna celan lor mancanza».
Afferma qualcosa di assai prossimo alle raccomandazioni dantesche il so-
netto 222, Tutt’el maggiore di Guittone: in un contesto affine egli dichiara
che l’amicizia è il bene più prezioso, «ma molt’om guardar dia / con quale
far lui amistà convegna», e se per caso la si abbia con «om non bono», eb-
bene «tegno el mantener follia». Non ci si deve dunque vergognare di ri-
trarsi da un’amicizia siffatta, al contrario: «Non donque vergogn’om bel
desusarla, / ché non vergogna già, ma pregio aporta: / vergogni ben chi
mal provide in farla».

NOTE

1
L’ultima ‘voce’ sulla canzone è quella, eccellente, di Eduard Vilella, in Ali-
ghieri 2014: 231-237 (lo stesso studioso ha curato anche la canzone Amor che
movi, ibid., pp. 208-219). Ad essa – introduzione e commento – come in altri
casi rimanderò con il solo nome dell’autore, e pagina: avverto in ogni caso che
non entrerò in questa sede nel merito della tesi che percorre le pagine del volume
e che è soprattutto argomentata nella lunga e impegnativa introduzione di Juan
Varela-Portas, secondo la quale le quindici canzoni dantesche nell’ordine così
detto ‘del Boccaccio’ e restituito da Domenico De Robertis nella sua edizione
critica, costituirebbero un vero e proprio libro organicamente concepito da Dante
medesimo. Di ciò cercherò di discutere in altra sede.
2
Qualche cenno in più in Fenzi 2011: 16. Quanto si dice qui di seguito sulla
«mercede», e in particolare la contraddizione tra le opposte dichiarazioni del v.
46 e del v. 52, non vedo che sin qui sia stato osservato dai commentatori.
3
A proposito di tale contraddizione Jacomuzzi (1983) opportunamente annota
al v. 52: «Qui sembra contraddire il v. 46 dove si dichiara di non ricevere merzè,
ma là il riferimento è alla donna, qui alla potenza, sempre generatrice di bene, del-

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l’Amore che è il protagonista della canzone e a cui si oppone, come antagonista


provvisoria, l’indifferenza della giovane».
4
Con Nardi 1992: 9-10, vd. l’edizione Foster-Boyde (Alighieri 1967: II, 203,
ad 32), «Morrei»: allegorically, D knows that he would die –spiritually– were he
to abandon the love of wisdom symbolized in the donna». Giunta, nella sua edi-
zione (2012), a proposito del «gentil disio» del v. 49 scrive: «… sempre che non
valga piuttosto la lettura in chiave allegorica: una disposizione a ben operare nata
dalla sete – il gran disio –, appunto – di sapere». Indicazioni ulteriori in Barański
(2009: 199 nota 60).
5
In precedenza, molto fini sono le pagine di Pazzaglia 1998.
6
Boccaccio 1965: 355 = VI 45: «Quali questi due si sieno sarebbe grave lo
‘ndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde che egli sel traggano, che vo-
gliono dire essere stato l’uno l’autor medesimo e l’altro Guido Cavalcanti, il
quale era d’una medesima setta con lui». Senza nominarlo, e giustamente senza
aver l’aria di dargli molto credito, Boccaccio si riferisce a Guido da Pisa, ad loc.:
«nos istos duos iustos intelligere possumus Dantem […] secundum vero Guido-
nem de Cavalcantibus: qui duo soli illo tempore quo civitas Florentie fuit intus
et extra bellis conquassata civilibus, iusti et amatores patrie sunt reperti et rei pu-
blice defensores». Ma si veda anche Benvenuto (si cita il commento, nell’ed.
Cioffari, dall’ottimo sito Darmouth Dante Project).
7
Per un accenno, già Nardi (1992: 10) ha pensato possa trattarsi di Cavalcanti,
cosa che Foster-Boyde ritengono possibile. L’edizione più recente, quella di
Giunta, tace; assai vago è Contini, che si limita a ricordare la candidatura di Ca-
valcanti insinuata da Boccaccio, e che solo indirettamente ha l’aria di avallarla
ricordando nel ‘cappello’ che la raccomandazione del primo congedo è quella
stessa del Cavalcanti nella ‘ballatetta’ Perch’i’ no spero 9-10, ‘ballatetta’ ulte-
riormente ripresa da Dante nei suoi vv. 2-3 (vd. avanti: salvo avviso contrario,
cito Cavalcanti dall’edizione De Robertis, Cavalcanti 1986).
8
Altro di tipo variamente topico si può naturalmente aggiungere: per es. Ca-
valcanti, Veggio negli occhi 1-4: «Veggio negli occhi della donna mia / un lume
pien di spiriti d’amore, / che porta uno piacer novo nel core, / sì che vi porta d’al-
legrezza vita», a proposito dei vv. 14 ss.; Gli occhi di quella 24: «s’i’ la sguar-
dasse, ne morria», per il v.32; Se m’ha del tutto 13: «Donna, tutto vostro sono»,
per il v. 63.

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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

9
Da quanto segue risulta che resto sulla linea dell’interpretazione in chiave po-
litica già formulata da Marti in più occasioni: vd. Marti 1961: 22-23; ID., 1966:
82 ss.; ID., 1970: in part. pp. 893-894. L’altra proposta di lettura che tiene campo:
il sonetto sarebbe scritto in persona d’Amore, la si deve a De Robertis 1978, che
la conferma nella sua edizione del 1986 (vd. qui, pp. 158-159, le fitte indicazioni
del ‘cappello’). A questa interpretazione resta da ultimo Roberto Rea in Caval-
canti 2011: 222.
10
Mi riferisco naturalmente ai fatti della vigilia di san Giovanni, il 23 giugno
1300, quando i Grandi avevano aggredito il corteo dei Consoli delle Arti e degli
esponenti del governo popolare che sfilavano in processione recando in san Gio-
vanni le tradizionali offerte votive. Dante, da pochi giorni priore, votò (e forse
propose) il confino per i capi di parte Nera e Bianca: tra questi ultimi vi era Guido
(che poco dopo morì a Sarzana), già protagonista del famoso episodio della frec-
cia scagliata contro Corso Donati. Vd. Petrocchi 1986: 63 ss. e 80 ss. Tra la bi-
bliografia più recente, mi limito a rinviare al bel volume della Brilli (2012, in
part. pp. 74 ss.), la quale a sua volta rimanda a Zorzi 2008: 95-120. Ma ricordo
ancora il suggestivo saggio di Durling (2001: 303-329, in part. pp. 312 ss.), nel
quale lo studioso proietta il complesso rapporto di Dante con Cavalcanti contro
lo sfondo di un oscuro e insormontabile ‘senso di colpa’ di Dante per avere pro-
vocato, seppure indirettamente, la morte dell’amico. Aggiungo che anche Durling
2001: 312, è netto nel riferire il senso della ‘rimenata’ alle scelte politiche di
Dante a metà decennio. Seppure in maniera più sfumata, questa è anche l’opi-
nione di Pasquini 2006: 24-25: vd. anche la nota che segue.
11
Santagata 2012 ha attirato la mia attenzione sul sonetto, da lui letto in ma-
niera assai convincente e riportato precisamente alle ragioni in senso lato politi-
che della rottura tra Dante e il suo ‘primo amico’ (il testo, in Cavalcanti 1986:
211-214).
12
Per altri riscontri, anche se non tutti egualmente significativi , rimando al-
l’apparato intertestuale dato in Appendice: vd. per esempio, oltre al presente dav-
vero notevole, i rimandi fatti ai vv. 8-10; 25; 27; 52; 58; 64; 78-9; 95.
Da ultimo si dichiara convinto di questo legame anche Vilella 2014: 224.
13

E con maggior decisione a pagina 232, nota 57.


14
Giunta, citato con approvazione da Barański 2009: 152-153, trova che «il
tono aspro dell’accusa ai concittadini» convenga agli anni dell’esilio (ma si può
obiettare che le cose non vanno troppo diversamente con Poscia ch’Amor, priva

135
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addirittura di congedo visto che «Color che vivon fanno tutti contra»), e che la
«Nostra terra» del v. 97 «può ben essere la terra rimpianta dall’esule». Di qui
Barański va oltre: circa i rapporti con Amor che movi, finisce per concludere che
si tratta di meri topoi che non dimostrano nulla (2009: 155), ed esalta invece i rap-
porti con la ‘montanina’ (2009: 162-8), che confermerebbero la datazione bassa
della canzone, per altro non sostenuta, a mio parere, da argomenti adeguati.
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Si tratta di una contraddizione che non riguarda Giunta, dal momento che
non solo non dà alcun nome al ‘terzo’, ma pensa che il numero tre – i «tre men
rei» – vada inteso per un indeterminato ‘pochi’, senza alcun riferimento a perso-
naggi reali (l’ipotesi non spiace del tutto a Vilella 2014: 235).
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Per quanto riguarda Amor che movi rimando alla lettura che ne ho dato in
Fenzi 2011: 15-59, ove, specie nelle prime pagine, è meglio esposto quanto assai
velocemente ripeto nelle righe che seguono.
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Alle due canzoni vanno aggiunte la ballata Voi che savete ragionar d’amore
e i sonetti Parole mie che per lo mondo siete e O dolci rime che parlando andate,
che fanno loro da scorta e danno conto delle contorsioni e delle difficoltà dell’as-
sunto. Per ciò vd. Fenzi 1975, e Fenzi 2009: 29-69.
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L’ha mostrato a suo tempo Pernicone 1970b. Vd. anche il suo commento alla
canzone nell’edizione delle Rime (Alighieri 1969: 483-498). Come già è capitato
di puntualizzare altrove, il commento a firma Barbi-Pernicone è in realtà opera,
sia pure con l’aiuto di materiali lasciati da Barbi, del solo Pernicone.
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Per i particolari problemi che suscita questa ballata vd. Fenzi 2011: 48 nota
15.
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Considerata da sempre come la capofila del gruppo, Così nel mio parlar è
stata ora staccata dalle ‘petrose’ (o piuttosto dalle ‘invernali’) da De Robertis,
che nella sua edizione critica ha ristabilito l’ordine dei manoscritti antichi, già at-
tribuito a Boccaccio.
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Per ciò, rinvio in particolare a Fenzi 2004: in particolare per le conclusioni,
pp. 138-143.
22
A proposito del potere nobilitante di amore, è forse il caso di ricordare che
nel De vulgari eloquentia Dante cita due volte, in I IX 3 e in II V 4, la canzone
del rex Navarre Thibaut de Champagne, De fin amor si vient sen et bonté, stret-
tamente legata, specie nelle immagini finali, con il Roman de la Rose 1715-1719
(vd. Thibaut de Champagne 1925: 15, ma ora anche, a cura di Luciano Formi-

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ENRICO FENZI Amore e «ben fare»

sano, in Alighieri 2012c: pp. 334-339). I primi due versi, che nell’ed. critica suo-
nano diversamente che in Dante: «De bone amor vient seance et bonté, / et amors
vient de ces deus autresì», mostrano una forte analogia con la guinizzelliana Al
cor gentil. Né si dimentichi, per esempio, il De amore del Cappellano, per altro
ben conosciuto dagli autori della Rose, che proprio agli inizi dell’opera elenca
quali siano gli effetti d’amore: «IV. Quis sit effectus amoris. Effectus autem amo-
ris hic est, quia verus amator nulla posset avaritia offuscari, amor horridum et in-
cultum omni facit formositate pollere, infimos natu etiam morum parare. O, quam
mira res est amor, qui tantis facit hominem fulgere virtutibus tantisque docet
quemlibet bonis moribus abundare! [[IV. ‘Quale sia l’effetto dell’amore. Effetto
dell’amore è che il vero amante non può essere macchiato da alcuna avarizia;
amore fa che chi è aspro e trasandato eccella in ogni grazia, ricolma di nobilti co-
stumi anche chi è d’infimi natali, e gratifica i superbi d’umiltà: così, colui che
ama è solito comportarsi con gentilezza con tutti. Che cosa mirabile è l’amore,
che fa rifulgere l’uomo di tante virtù e gli insegna a farsi ricco di tanti buoni co-
stumi!’]. Il testo latino in Capellano 1892: 9-10 (e 1980: 12).
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In Bonagiunta la ‘acrescenza’ di valore intrinseca al servizio d’amore e
alla ‘conoscenza’ ch’esso fomenta è anche nel sonetto Per fino amor – lo fior –
del fiore – avraggio 9-10: «Così lo bene – vene – in acrescenza, / pregi’ e va-
lensa – in caonoscensa - regna» (Bonagiunta 2012: 221).

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