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ENRICO FENZI
nulla importa della mia mente ch’è piena d’amore e che non può passare
un’ora senza di lei. Io non l’ho mai vista senza scorgere in lei, ogni volta,
qualche nuova bellezza, sì che Amore diventa in me sempre più grande
quanto più nuova bellezza s’aggiunge. Per questa ragione io resto fermo
in un medesimo stato d’animo e Amore mi tiene in una condizione nella
quale si mescolano in parti uguali una medesima sofferenza e una mede-
sima dolcezza, solo per il tormentoso intervallo che dura dal momento in
cui perdo la possibilità di vederla sino a quello in cui la recupero.
»[6] Canzone mia bella, se tu rappresenti bene quello ch’io sono, non
essere superba come pure converrebbe alla tua bontà: ti prego tuttavia,
dolce mia amorosa, di sforzarti di trovare i modi e le vie che ti conven-
gano. Se qualche cavaliere ti invita o ti trattiene presso di sé, prima di
compiacerlo, se vuoi sapere quale egli sia, accertati, se puoi, con chi si
stringa d’amicizia, dato che il buono s’accompagna sempre ai buoni:
anche se spesso avviene che qualcuno si mette in compagnie che smenti-
scono la buona reputazione della quale altri lo gratificano. Tu, non stare
con i malvagi né all’interno della tua cerchia né nei rapporti connessi alle
tue occupazioni e interessi, ché schierarsi dalla loro parte non è mai stata
una scelta di valore.
»[7] Canzone, prima di andare altrove, vai ai tre meno colpevoli della
nostra città. Saluta i primi due, e il terzo tenta prima di tutto di strapparlo
via dalla sua cattiva combriccola. Digli che il buono non se la prende con
il buono ma prima di tutto cerca di vincere contro i malvagi; digli che è
pazzo chi non recede da atti dissennati solo per timore di riuscirne sver-
gognato; digli che solo chi fugge il male teme davvero la vergogna perché,
fuggendolo, si garantisce anche dalla vergogna che ne deriva».
sempre più grande: «parmi esser di merzede oltrapagato» (v. 52), al punto
da imporre una ridefinizione, nella quarta stanza, del concetto stesso di
‘servizio amoroso’ (che servizio è mai quello che secondo la sua essen-
ziale definizione in ogni momento coincide perfettamente con la sua
stessa ricompensa?). Occorre tuttavia aggiungere che questa che po-
tremmo definire con qualche semplificazione una ‘fenomenologia del-
l’amore disinteressato’ e dei suoi effetti beneficanti è tutta soggettiva; essa
caratterizza la disposizione di spirito di un amante che di là dalla gratifi-
cante «mercede» che è intrinseca alla sua dedizione amorosa non rinuncia
a immaginare e a proiettare nel futuro un’altra «mercede», quella che gli
verrà da una donna finalmente innamorata. Si potrà dunque dire che la
«mercede» della prima stanza viene sùbito declinata in chiave soggettiva,
ribadita più avanti, nella quarta stanza, attraverso quei «parmi» e «par»
(«parmi esser di merzede oltrapagato», e «mi par di servidor nome te-
nere», vv. 52 e 54), mentre la contraddizione che si instaura con il vicino
v. 46 («e se merzé giovanezza mi toglie») è intrinseca alla schizofrenica
situazione vissuta dal poeta che esalta i benefici, gratificanti effetti del-
l’amore per una donna troppo giovane per provare essa stessa e ricambiare
un amore che ancora non conosce e non capisce.3 Il che esalta, per con-
trasto, l’autonomo valore della tripla ‘mercede’ – il più di vita che la
donna gli concede semplicemente offrendosi alla vista, e il più di amore
di cui il poeta immediatamente la riempie, e il più di virtù che ne è il frutto
immediato – che esiste indipendendentemente dal fatto che tale amore
non sia ricambiato, dal momento che «qual ch’ella sia, di tutto son con-
tento, / ché l’uom può ben servir contra talento» (vv.44-45). In modi ap-
parentemente semplici, dunque, da questi versi della prima stanza si
dipana il filo della canzone che tutt’intera, à rebours, ci aiuta a capirli.
La prima parte della seconda stanza sviluppa il concetto della ‘ripeti-
zione necessaria’: l’immagine della donna penetra di nuovo attraverso gli
occhi innamorati dell’amante e ripercorre ancora una volta il cammino
già fatto (20-21: «e sanno lo cammino sì come quelli / che già vi son pas-
sati»), sino al cuore, ove già era arrivata depositandovi l’amore. Questa
ripetizione, cioè la rinnovata vista di lei, è precisamente il «dolce» (v. 19)
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baltare l’idea che la sua dedizione amorosa nei confronti della donna possa
essere definita nei termini affatto tradizionali di ‘servizio’, e invece si con-
figuri come una sorta di ricompensa ch’egli offrirebbe alla donna per ricam-
biarla di un dono siffatto. Ciò è falso, naturalmente, e in verità il suo è e
resta un servizio, ma in un senso particolare e superiore: è vero infatti che
nel rapporto amoroso il diretto beneficato è lui, ma il proprio incremento
di valore oltrepassa i limiti della sua persona e si risolve in maggior gloria
della donna alla quale il poeta totalmente appartiene. Il desiderio di «ben
fare», insomma, realizza la natura profonda dell’amore, ed è la forma ade-
guata e la migliore testimonianza del ‘servizio’ che lega il poeta alla donna:
la prova ultima della capacità del poeta di accogliere la forza nobilitante in-
trinseca in tale servizio e di farsi, in ciò stesso, cosa sua.
La quinta stanza racchiude un forte nodo concettuale che fa della donna
un analogo di Dio, motore che tutto muove e non è mosso. Come Iddio,
essa è termine assoluto e incondizionato di perfezione, mentre la vita del
poeta, per contro, dipende in tutto e per tutto da lei, e l’amore si rivela
come esperienza vissuta e grata consapevolezza di questo essenziale squi-
librio. Da una parte c’è dunque la sublime indifferenza di lei, e dall’altra
la fragilità della creatura che da lei dipende: «stassi come donna a cui non
cale / dell’amorosa mente / che sanza lei non può passare un’ora» (68-70).
Qui può forse insinuarsi la possibilità di una lettura allegorica della can-
zone, da molti suggerita ma non sviluppata (Contini per es., nel ‘cappello’
della sua edizione – Alighieri 1939: 126 –, scrive: «più si avanza nella
lettura, e più si ha l’impressione che si celi un soprasenso – forse allusione
all’amore della sapienza»: e più o meno così anche Nardi 1992, Foster-
Boyde (Alighieri 1967), Barański 2009, e da ultimo anche da Giunta (Alig-
hieri 2011),4 forse perché argomentarla sino in fondo è troppo oneroso né
porta grandi vantaggi. Intanto si dica che la seconda parte della stanza
chiarisce come meglio non si potrebbe la natura di quella dipendenza, e
l’idea stessa di quella ‘ripetizione necessaria’ dalla quale l’intera canzone
ha preso le mosse. Ora sappiamo, infatti, che non si tratta di una mera ri-
petizione dell’accadimento amoroso, ma di una riattualizzazione continua
attraverso la quale si dichiara l’essenza dell’amore, fenomeno vitale che
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per sua natura è in progress, o non è. Non esiste, sembra dire Dante, un
amore dato una volta per tutte, bloccato nella sua particolare mistura di
«martiro» e «dolcezza» (v. 77): o meglio, è tale solo quando non sia vi-
vificato dalla ‘vista’ di lei, dinanzi alla quale l’innamorato vive ogni volta
il suo amore come qualcosa di affatto nuovo e stupefacente che non cessa,
per dir così, di rinascere, secondo un incessante moto di crescita legato al
progressivo e infinito disvelamento che ogni successiva apparizione della
donna torna a provocare. Sul punto, una sorta di premessa generale è in
Amor che movi 22-23, ove il disio conduce il poeta «in rimirar ciascuna
cosa bella / con più diletto quanto più è piacente», mentre qui, in Io sento
sì d’Amor, con intensa e bellissima torsione, i diversi gradi di bellezza
non sono più appannaggio di ‘cose’ diverse ma di una sola e unica donna
che l’innamorato scopre ogni volta sempre più bella, finendo con l’iden-
tificare l’amore medesimo in un percorso che è anche scoperta di sé e del
proprio valore. Se a questo punto si ricorda la quarta regula amoris del
Cappellano: «semper amorem crescere vel minui constat» (II 8), sarà
anche facile osservare come Dante la estragga dal suo empirico contesto
e le conferisca sostanza dialettica e speculativa, puntando su una nozione
‘infinita’ di bellezza che si fa garanzia della trascendente infinità d’amore.
Con un salto che può apparire assai brusco e ha fatto discutere, la sesta
è ultima stanza ha già funzione di congedo, prima del congedo vero e pro-
prio. Dante si rivolge alla propria canzone («Canzon mia bella …», v.
81), sottolineando come essa gli «somigli» (v. 81), e cioè rispecchi fedel-
mente il suo pensiero e il suo stato d’animo, ed esortandola a non essere
così «sdegnosa» (v. 82) come pure la sua «bontà» (v. 83) le darebbe diritto
di essere, ma di mostrarsi tuttavia particolarmente esigente nello scegliere
il proprio pubblico. Del «cavaliere» (v. 87) che desiderasse averla, essa
dovrebbe prima di tutto scoprire quali siano i suoi compagni: è vero infatti
che i buoni s’accompagnano sempre ai buoni, ma càpita pure che qual-
cuno si imbarchi in compagnie che di fatto smentiscono la buona fama di
cui gode. E tali pessime compagnie vanno evitate: «Co’ rei non star né a
cerchio né ad arte» (v. 95). Un verso, questo, ove di là dalla più normale
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parafrasi è probabile si celino allusioni più precise, delle quali poco avanti
si dirà.
Delle cose dette nell’ultima stanza il congedo vero e proprio dà imme-
diata dimostrazione: la canzone può infatti andare ai «tre men rei» (v. 97)
della città di Firenze, ma il terzo, appunto, andrebbe prima tirato fuori
dalla cattiva compagnia con la quale s’è intruppato («e ‘l terzo fa’ che
prove / di trarlo fuor di mala setta in pria», v. 100) e che, secondo quanto
appena premesso, può suonare come smentita – «disdetta» (v. 93) – della
buona fama di cui gode. A tal fine la canzone dovrebbe dire a costui che
il «buono» (v. 101) non se la prende con i buoni, ma dovrebbe prima di
tutto cercare di sconfiggere i malvagi: non lo facesse, infatti, la sua sup-
posta bontà ne riuscirebbe incrinata e quanto meno da «buono» regredi-
rebbe a ‘men reo’, com’è appunto il caso. Dovrebbe anche aggiungere
ch’è cosa da pazzi non recedere dalla propria «follia» (v. 104) per paura
di riuscirne svergognato, e dunque per un malinteso senso di puntiglioso
orgoglio: la vergogna vera, infatti, la si evita solo fuggendo il male.
ziali di una rottura dovuta a scelte divergenti non tutte ben ricostruibili.
Ma tra esse non può essere sottovalutata la scelta di tipo democratico-po-
polare (la «annoiosa gente», v. 6) di Dante, che approfitta dei tempera-
menti appena introdotti negli Ordinamenti di Giustizia nel luglio 1295, in
forza dei quali l’iscrizione alle Arti era ridotta a una formalità priva di
corrispondenza reale. Per aprirsi una via alla carriera politica, Dante infatti
si iscrive all’Arte dei Medici e degli Speziali, sfruttando una possibilità
che i Grandi, e Cavalcanti tra essi, continuano invece a rifiutare, fomen-
tando in ogni modo il clima di violenza. Qui sta, probabilmente, lo stacco
decisivo, e proprio quell’iscrizione sembra essere stata il concreto casus
belli tra i due amici. Uno dei primi atti certi della carriera politica di
Dante, nel giugno 1296, è poi il voto favorevole a una legge che conce-
deva pieni poteri al Gonfaloniere di giustizia e ai priori nel reprimere gli
atti di violenza compiuti in particolare dai magnati contro i popolari in-
vestiti di cariche pubbliche, ed è proprio questa linea che finirà per por-
tarlo in rotta di collisione con Guido, rissoso e intollerante esponente dei
Grandi.10 Di più è difficile dire, anche se un sonetto rinterzato, Se mia
laude scusasse te sovente, indirizzato da Dino Compagni a Cavalcanti,
suona come importante conferma di quanto osservato. Dino «in sostanza
lamenta che Guido non metta al servizio della collettività le sue grandi
virtù facendosi ovrere, cioè iscrivendosi a un’Arte» (Santagata 2012: 100-
101), e accompagna il suo invito con l’osservazione indubbiamente po-
lemica secondo la quale Guido, date le sue personali virtù, non avrebbe
bisogno né della sua qualità di Grande né di una propria «masnada» (13-
14: «E grande nobiltà non t’ha mistiere, / né gran masnad’avere»): do-
vrebbe insomma mutare atteggiamento, temperando le proprie posizioni
di tipo aggressivamente magnatizio e abbandonando (se non è interpreta-
zione troppo azzardata: il che non credo) la propria «mala setta».11 Il che
mi induce a insistere, e a interpretare il v. 95 della nostra canzone: «Co’
rei non star né a cerchio né ad arte» come un’allusione neanche troppo
criptica alla realtà fiorentina, e dunque a scioglierlo più o meno così: ‘con
i malvagi non bisogna avere a che fare né all’interno della propria cerchia,
o consorteria (che per Cavalcanti era appunto quella dei Cerchi), né all’in-
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Ma appunto, le cose non stanno così, e la seconda parte della stanza ri-
sponde alle pur legittime deduzioni della prima e ristabilisce la verità della
nozione d’amore come ‘servizio’. A tal fine, il primo argomento messo in
campo da Dante punta sul fatto che l’esperienza d’amore esorbita di per
sé da una dimensione puramente individuale, ristretta al soggetto che ama.
L’amore infatti è una sorta di spossessamento, di fuoriuscita da sé, perché
chi ama ‘si dona’ alla persona amata e ciò che fa lo fa per lei:
Ma poi ch’i’ mi restringo a veritate
convien che tal disio servigio conti;
però che s’io procaccio di valere,
non penso tanto a mia propietate
quanto a colei che m’ha in sua potestate,
ché ·l fo perché sua cosa in pregio monti;
ed io son tutto suo e così mi tegno
(vv. 57-63).
difficile insistere sulle plurime strette connessioni tra questi versi e quelli
di Dante, a partire proprio da quel «ben servir» (v. 38) che procede dalla
‘conoscenza’ e dall’‘ubbidienza’ e compensa l’ostilità di lei con un ac-
crescimento di valore del soggetto. È tuttavia solo e propriamente dante-
sco il suo far parte in posizione forte di una catena argomentativa intesa
a definire una particolare concezione d’amore. In primo luogo, va ripe-
tuto, la nozione di per sé non semplice di ‘servizio’ viene richiamata per
bloccare una possibile deriva che restringa l’amore a uno ‘stato’ o ‘con-
dizione’ del soggetto, ed è dunque attiva su due fronti: da un lato corregge
i possibili eccessi di una chiusura auto-celebrativa che riduce l’amore a
una ‘marca’ che testimonia della nobiltà d’animo di colui che ama (è ap-
punto ciò che per un momento la canzone sembra prospettare, in partico-
lare là dove dichiara che l’amante, proprio in quanto tale, è spinto ad agire
secondo virtù), e dall’altro, per alcuni aspetti contrario, comporta il rifiuto
della versione cavalcantiana e, di là da essa, di tutta l’abbondante teoriz-
zazione dell’amore in chiave patologica propria della cultura medica della
quale il commento di Dino del Garbo a Donna me prega è un eccellente
punto d’arrivo. Da questo punto di vista la nozione di ‘servizio’ è indi-
spensabile per ristabilire d’un colpo solo la centralità dialettica dell’og-
getto del desiderio, assunto quale garanzia di verità: in effetti, la donna
amata costituisce il punto di riferimento più alto e la simbolica summa
del corteo di virtù comportamentali e in senso lato sociali che il rapporto
con lei fomenta, perché tutto ciò che di «bene» (v. 86) si fa non lo si fa per
sé ma per lei.
Di qui, con un passaggio assai fluido e motivato, il discorso torna alla
dimensione personale dell’esperienza amorosa. Solo Amore fa sì che
Dante si sforzi di ‘valere’ (v. 59), e solo Amore,dunque, lo rende «degno»
di appartenere alla donna:
Amor di tanto onor m’ha fatto degno.
Altro ch’Amor non mi potea far tale
ch’i’ fosse degnamente
osa di quella che non s’innamora
(vv. 64-67).
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APPENDICE
far non soggiorna, / ma parte Amor. partendo onta li torna, / ché, fallendo
ben far, pregio è diserto».
52. parm’esser … oltrepagato: GUITTONE, XXI, Amor tanto altamente
68: «m’ha sovrameritato el meo servire» (De Robertis). GAUSBERT DE
PUYCIBOT, Car no· m abelis 11-12: «E teing mi fort per pagatz / del mal
qu’ieu sofria»; Anon., Non saccio a che coninzi (V 358) 3-4 e 10: «per uno
ciento de lo meo servire / ò ricievuto doppio pagamento […] mi tengno
sovrameritato» (Giunta); CHIARO DAVANZATI, XVIII, Di cantare ho talento
52: «tanto m’à dato e dà più ch’è ragione» (vd. la ricca nota di Menichetti,
ad loc., sul topos del ‘signore’ che provvede a chi lo serve). Sul beneficio
ricevuto che eccede il servizio reso, vd. ALIGHIERI, Cv. III I 8: «avegna che
lo servo non possa simile beneficio rendere allo signore quando da lui è
beneficiato, dee però rendere quello che migliore può», ecc. Contra, CA-
VALCANTI, Li mie’foll’occhi 13-14: «Fatta sé di tal servente, / che mai non
déi sperare altro che morte».
55. del parere: così il testo De Robertis. Diversamente il testo di Barbi:
del piacere. Nel primo caso il verso significherebbe semplicemente ‘se si
guarda all’apparenza’ (e dunque: ‘solo apparentemente il servizio diventa
la ricompensa della bontà altrui [della donna]’, e cessa d’essere, appunto,
un servizio. Oppure, nel secondo caso: ‘dinanzi agli occhi della bella donna
[il piacere], il servizio …’, ecc. Di entrambe le lezioni, e delle relative in-
terpretazoni, Giunta, con qualche ragione, non è soddisfatto. Ma non c’è
dubbio che con il testo De Robertis l’articolazione del discorso corre bene,
con il ‘parere’ che corrisponde al ‘parmi’ del v. 52 e al ‘mi par’ del v. 54,
e torna a sottolineare che quella del ‘servir’ come ricompensa del poeta
alla bontà di lei è un’ipotesi sbagliata e in quanto tale subito rigettata: «Ma
poi ch’io mi ristringo a veritate …», ecc. (si veda la parafrasi fatta sopra).
Nel caso opposto, il filo logico si spezza, l’ipotesi diventa una verità asso-
luta che non si contrappone più alla verità vera e nel contesto della canzone
suona del tutto incongrua: perché mai contemplando la bellezza della
donna il poeta trasformerebbe in suo servizio in mercede?
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5). Vd.ALIGHIERI, De’ tuoi begli occhi 12 (dubbie 16): «quella pietà
ch’amor racquista»; CINO, Quando potrò io dir 34-35: «poca vita / rimasa
m’è, se non mi si racquista».
76-77. tanto Amor … dolcezza: Petrarca riecheggerà questi versi in Rvf
360, 25-6: «In quanto amaro [Amore] à la mia vita avezza / con sua falsa
dolcezza». ALIGHIERI, Io son venuto 64: «se ‘l martiro è dolce».
78-79. quel tempo … dura: GUITTONE, XXIII, Sì me destringe 47:
«tempo con dolzore / poco dura».
79-80. vista … racquista: CINO, CII, Quando potrò 34-36: «Vedi che
poca vita / rimasa m’è se non mi si racquista / per grazïa della beata vista».
81. Canzon mia bella …: strofa-congedo, che contiene l’invito alla can-
zone affiché selezioni con cura il proprio pubblico. Vd. Flamenca 7093-
7096: «cel qe las salutz mi donet / mais de iiii ves mi preguet / non
venguesson entr’avols mans, / ni ja non las ausis vilans» (ed. Mancini,
Flamenca 2006: 251): ‘il cavaliere che mi dette i “saluti” mi pregò più di
quattro volte che non cadessero in cattive mani e non li ascoltasse persona
villana’); CINO, XXXIX, L’uom che conosce 43-6: «Canzone, udir si può
la tua ragione, / ma non intender sì che si’ aprovata / se non da innamorata
/ e gentil alma», e soprattutto CAVALCANTI, Perch’i’ no spero 9-10:
«guarda che persona non ti miri / che sia nemica di gentil natura», e infine
ALIGHIERI medesimo, Donne ch’avete 64-67: «E se non vòli andar sì come
vana, / non restare ove sia gente villana: / ingegnati, se puoi, d’esser palese
/ solo con donne o con omo cortese» – se tu mi somigli: ALIGHIERI, Io mi
senti’ (Vita nova XV) 14: «quell’à nome Amor, sì mi somiglia»; Amor
che nella mente 50: «e bello è tanto quanto lei somiglia».
83. s’avene: si conviene, s’addice. In questo senso anche in CHIARO DA-
VANZATI, IV, Donna, ciascun fa canto 45-46: «non s’aven potestate / là
ov’è argogliamento»; XIX, Chi ‘mprima 25-26: «a tal mette corona / che
no·lli s’averia» (e altrove: vd. nell’ed. Menichetti il Glossario s. v. avenire,
421), e in GUIDO ORLANDI, XVIb, A·ssuon di trombe 12: «servando in sé
l’onor come s’avene». Per il concetto e il modo dell’espressione di questi
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due versi, qualche affinità con GUINIZZELLI, Omo ch’è saggio 7-8: «non se
dev’om tenere troppo altero, / ma dé guardar so stato e sua natura».
84. però: tuttavia (cioè, ‘non essere sdegnosa, ma neppure troppo cor-
riva’). – t’asottigli: Amor che movi 35: «non che da se medesmo sia sot-
tile». MASTRO TORRIGIANO, 1-2: «S’una donzella di trovar s’ingegna / e
d’ogni ricco saver s’asottiglia»; GUITTONE, 27, Amore, certo 11: «m’inge-
gno e m’asottiglio» (De Robertis); GUINIZZELLI, Pur a pensar 5: «e ‘n
adagiarsi ciascun s’assottiglia» (Giunta).
86. prender modo e via: dittologia per il semplice ‘modo’. CECCO, Per
sì gran somma 3: «prender modo di far» (De Robertis); 38, I’ ho sì poco
3: «non posso trovar via né modo»; BRUNETTO, Tesoretto 1726: «che par
che modo pilli».
88. imprima … metta: ALIGHIERI, Messer Brunetto 8: «prima che ‘n in-
telletto altrui si metta» (Giunta); I’ mi son pargoletta 16-17: «omo in cui
/ Amor si metta per piacer di lui»; DINO FRESCOBALDI, 5, Donna, da gli
occhi 3-4: «par che sovente / si metta nel disio».
89-90. espia … persona: CAVALCANTI, XXXV, Perch’i’ no spero 9-10:
«ma guarda che persona non ti miri / che sia nemica di gentil natura»;
CINO, XXXIX, L’uom che conosce, 47-48: «e però tu sa’ ben con quai
persone / dé’ gire a star per essere onorata» (Giunta). CATENACCIO CATE-
NACCI, Volg. Disticha Catonis 9, 1-2: «Se vedi alcuni homini de poveri
semblanti / tosto no li desprezare ma spia li facti innanti». Vd. avanti
anche la citazione di Francesco da Barberino nella nota al v. 95 e quella
di Guittone ai vv. 103-104, entrambe assai pertinenti al contesto dantesco.
– setta: If. III 62: «la setta d’i cattivi» (e Cv. I XI passim, ecc.).
91. ch’el buon … carriera tene: ma l’ed. Barbi: camera tene. Giunta
cita A. MONOSINI, Floris italicae linguae libri novem, Venezia, Guerilio,
1604, p. 297: «Il buon fa camera col buono», ripreso nei Proverbi toscani
di GIUSTI-CAPPONI, Roma, Newton & Compton, 2001 (Ia ed., 1880), p.
63. Con ciò, ritiene preferibile la lezione carriera, viste le attestazioni
provenzali di tener carriera (LEVY, Prov. Supplement Wörterbuch, s. v.),
mentre De Robertis rimanda a Tesoretto 2175: «presi carriera». Per il con-
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cetto e l’immagine vd., con Giunta, Carmina burana 19, 2, Si legisse me-
moras 1-4: «Si legisse memoras / ethicam Catonis, / in qua scriptum le-
gitur: / “ambula cum bonis”»; BRUNETTO, Tresor II 95, 11: «En ce doit l’en
resgarder les mours de celui a cui il done […] et avec queles genz il habite
et en quel compaingnie il vit»; FRANCESCO DA BARBERINO, Documenti I
2: «convien ciascuno / usar coi buoni».
92-94. Ma elli avven … di lui suona: donde la raccomandazione di
GUITTONE, Sovente vegio saggio 76-79: «Chi vol mantener pregio / guardi
ben che dispregio / d’alcuna mala parte / en lui non tegna parte» (vd.
avanti, a 103-104). Il caso inverso in SORDELLO, XLIII, Aissi co l tesaurs
239-41: «no·s vol formir / d’aver solaz mas per cubrir / s’avolesa e sas cu-
beitatz» (‘non vuol darsi cura di avere le qualità dell’uomo di società se
non per coprire la sua bassezza e la sua cupidigia’). Giunta cita ALBER-
TANO DA BRESCIA, Trattati morali III 14 (ed. Selmi, 1873): «sappi che per
usanza e amistà di questi cotali [i ‘sozzi’ poco sopra nominati] quelli ch’è
buono uomo è tenuto rio». – si getta: BRUNETTO LATINI, Tesoretto 1432:
«chi si gitta in quell’arte [sc. «gioco di dado»]»; ibid.: «chi in ghiottornia
si getta»; ibid. 2798: «Altro […] si getta in mala via». – disdetta: ALI-
GHIERI, Io Dante a·tte 11: «ella verrà a·ffarti gran disdetta». – suona: per
la ‘risonanza del nome’. Vd. Pg. XI 109 (Giunta), e If. IV 76-77.
95. né a cerchio né ad arte: per stare a cerchio nel senso di ‘conversare
in gruppo’, vd. GIOVANNI GHERARDI DA PRATO, Il Paradiso degli Alberti
IV 349: «Essendo Alfonso un dì a cerchio e udendo …» (Barbi-Perni-
cone). Ma ha singolari corrispondenze con quanto Dante qui raccomanda
(e pure con i contenuti della canzone Poscia ch’Amor) FRANCESCO DA
BARBERINO, Doc. I 6, 1 ss. In particolare vd. 25-34: «Se tu serai in via / o
in piaça con gente, / actendi prima / di che quadra son lima […] Tu quasi
in piccol tratto / conoscerai chi nel tuo cerchio gira». E vd. pure GUITTONE,
31, Poi male tutto è nulla 106: «Non con malvagi mai gauder bon pono»
(i malvagi sono qui poco avanti, v. 102); CINO, XXXIX, L’uom che cono-
sce 47-8: «e però tu sa’ ben con quai persone / de’ gir a stare per essere
onorata». Ma il particolare contesto nel quale va collocata la canzone dan-
tesca suggerisce pure di azzardare un’interpretazione più precisa: ‘con i
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malvagi non bisogna avere a che fare né all’interno della propria cerchia,
né all’interno delle Arti, alle quali occorreva essere iscritti per avere ruoli
politici nel Comune. – ad arte: in qualche attività comune. Vd. Amaistra-
menti de Sallamon (ed. STUSSI, 1967) 100: «metilli [tuo figlio] ad arte»
(cioè, mandalo a imparare un mestiere).
97. tre men rei di nostra terra: contro l’opinione tradizionale che Dante
qui indichi effettivamente tre non meglio identificati personaggi di Fi-
renze, Giunta ha proposto che si tratti invece di un tre indeterminato, per
dire ‘pochi’ o ‘pochissimi’, e allega al proposito varie testimonianze di un
simile uso. Ma tali esempi, basati su espressioni quali: ‘non ce ne sono
neppure tre su cento che …’ (FALQUET DE ROMANS), oppure: ‘in tutto il
mondo non ce ne sono neanche tre che …’ (ARNAUT CATALAN e ALFONSO
EL SABIO, e GUIRAUT RIQUIER), ove il senso indeterminato è ovvio, non
sembrano calzanti ai versi di di Dante, che paiono designare personaggi
reali, anche per quanto è detto in maniera più circostanziata del terzo che
penso anch’io, con nuovi argomenti, sia Cavalcanti (vd. sopra, il paragrafo
III). Vd. Pg. XVI 121-2, ove i tre hanno un nome (Corrado da Palazzo,
Gherardo da Camino, Guido di Castello), e Inf. VI 73: «Giusti son due
…», ove di nuovo Giunta, contro i commentatori che si sono ingegnati di
dar loro un nome, pensa a un due indeterminato.
100. mala setta: vd. sopra, v. 90.
101-102. non prende guerra … prove: GUIDO DELLE COLONNE, 4, Amor,
che lungiamente 26: «saggio guerrero vince guerra e prova».
103-104. è folle … follia: vd. i casi di adnominatio con fol e ‘follia’ ci-
tati da Giunta, che non hanno però molto a che fare con il concetto
espresso da Dante, ov’è centrale la ‘paura di vergogna’, e insomma il di-
sonore che deriverebbe dal retrocedere dalle proprie posizioni, là dove
l’ostinazione e il puntiglio sarebbero per contro percepite come qualità
positive (vd. la stretta associazione di ‘tema’/‘paura’ e ‘vergogna’ in Cv.
IV 19, 8; If. XXVII 66: «tema d’infamia»; Pg. XXXIII 31-2). In tal senso,
si può forse dire che qui Dante al ‘terzo’ raccomanda un comportamento
del quale egli stesso darà testimonianza, con l’ammissione della colpa, il
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NOTE
1
L’ultima ‘voce’ sulla canzone è quella, eccellente, di Eduard Vilella, in Ali-
ghieri 2014: 231-237 (lo stesso studioso ha curato anche la canzone Amor che
movi, ibid., pp. 208-219). Ad essa – introduzione e commento – come in altri
casi rimanderò con il solo nome dell’autore, e pagina: avverto in ogni caso che
non entrerò in questa sede nel merito della tesi che percorre le pagine del volume
e che è soprattutto argomentata nella lunga e impegnativa introduzione di Juan
Varela-Portas, secondo la quale le quindici canzoni dantesche nell’ordine così
detto ‘del Boccaccio’ e restituito da Domenico De Robertis nella sua edizione
critica, costituirebbero un vero e proprio libro organicamente concepito da Dante
medesimo. Di ciò cercherò di discutere in altra sede.
2
Qualche cenno in più in Fenzi 2011: 16. Quanto si dice qui di seguito sulla
«mercede», e in particolare la contraddizione tra le opposte dichiarazioni del v.
46 e del v. 52, non vedo che sin qui sia stato osservato dai commentatori.
3
A proposito di tale contraddizione Jacomuzzi (1983) opportunamente annota
al v. 52: «Qui sembra contraddire il v. 46 dove si dichiara di non ricevere merzè,
ma là il riferimento è alla donna, qui alla potenza, sempre generatrice di bene, del-
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9
Da quanto segue risulta che resto sulla linea dell’interpretazione in chiave po-
litica già formulata da Marti in più occasioni: vd. Marti 1961: 22-23; ID., 1966:
82 ss.; ID., 1970: in part. pp. 893-894. L’altra proposta di lettura che tiene campo:
il sonetto sarebbe scritto in persona d’Amore, la si deve a De Robertis 1978, che
la conferma nella sua edizione del 1986 (vd. qui, pp. 158-159, le fitte indicazioni
del ‘cappello’). A questa interpretazione resta da ultimo Roberto Rea in Caval-
canti 2011: 222.
10
Mi riferisco naturalmente ai fatti della vigilia di san Giovanni, il 23 giugno
1300, quando i Grandi avevano aggredito il corteo dei Consoli delle Arti e degli
esponenti del governo popolare che sfilavano in processione recando in san Gio-
vanni le tradizionali offerte votive. Dante, da pochi giorni priore, votò (e forse
propose) il confino per i capi di parte Nera e Bianca: tra questi ultimi vi era Guido
(che poco dopo morì a Sarzana), già protagonista del famoso episodio della frec-
cia scagliata contro Corso Donati. Vd. Petrocchi 1986: 63 ss. e 80 ss. Tra la bi-
bliografia più recente, mi limito a rinviare al bel volume della Brilli (2012, in
part. pp. 74 ss.), la quale a sua volta rimanda a Zorzi 2008: 95-120. Ma ricordo
ancora il suggestivo saggio di Durling (2001: 303-329, in part. pp. 312 ss.), nel
quale lo studioso proietta il complesso rapporto di Dante con Cavalcanti contro
lo sfondo di un oscuro e insormontabile ‘senso di colpa’ di Dante per avere pro-
vocato, seppure indirettamente, la morte dell’amico. Aggiungo che anche Durling
2001: 312, è netto nel riferire il senso della ‘rimenata’ alle scelte politiche di
Dante a metà decennio. Seppure in maniera più sfumata, questa è anche l’opi-
nione di Pasquini 2006: 24-25: vd. anche la nota che segue.
11
Santagata 2012 ha attirato la mia attenzione sul sonetto, da lui letto in ma-
niera assai convincente e riportato precisamente alle ragioni in senso lato politi-
che della rottura tra Dante e il suo ‘primo amico’ (il testo, in Cavalcanti 1986:
211-214).
12
Per altri riscontri, anche se non tutti egualmente significativi , rimando al-
l’apparato intertestuale dato in Appendice: vd. per esempio, oltre al presente dav-
vero notevole, i rimandi fatti ai vv. 8-10; 25; 27; 52; 58; 64; 78-9; 95.
Da ultimo si dichiara convinto di questo legame anche Vilella 2014: 224.
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addirittura di congedo visto che «Color che vivon fanno tutti contra»), e che la
«Nostra terra» del v. 97 «può ben essere la terra rimpianta dall’esule». Di qui
Barański va oltre: circa i rapporti con Amor che movi, finisce per concludere che
si tratta di meri topoi che non dimostrano nulla (2009: 155), ed esalta invece i rap-
porti con la ‘montanina’ (2009: 162-8), che confermerebbero la datazione bassa
della canzone, per altro non sostenuta, a mio parere, da argomenti adeguati.
15
Si tratta di una contraddizione che non riguarda Giunta, dal momento che
non solo non dà alcun nome al ‘terzo’, ma pensa che il numero tre – i «tre men
rei» – vada inteso per un indeterminato ‘pochi’, senza alcun riferimento a perso-
naggi reali (l’ipotesi non spiace del tutto a Vilella 2014: 235).
16
Per quanto riguarda Amor che movi rimando alla lettura che ne ho dato in
Fenzi 2011: 15-59, ove, specie nelle prime pagine, è meglio esposto quanto assai
velocemente ripeto nelle righe che seguono.
17
Alle due canzoni vanno aggiunte la ballata Voi che savete ragionar d’amore
e i sonetti Parole mie che per lo mondo siete e O dolci rime che parlando andate,
che fanno loro da scorta e danno conto delle contorsioni e delle difficoltà dell’as-
sunto. Per ciò vd. Fenzi 1975, e Fenzi 2009: 29-69.
18
L’ha mostrato a suo tempo Pernicone 1970b. Vd. anche il suo commento alla
canzone nell’edizione delle Rime (Alighieri 1969: 483-498). Come già è capitato
di puntualizzare altrove, il commento a firma Barbi-Pernicone è in realtà opera,
sia pure con l’aiuto di materiali lasciati da Barbi, del solo Pernicone.
19
Per i particolari problemi che suscita questa ballata vd. Fenzi 2011: 48 nota
15.
20
Considerata da sempre come la capofila del gruppo, Così nel mio parlar è
stata ora staccata dalle ‘petrose’ (o piuttosto dalle ‘invernali’) da De Robertis,
che nella sua edizione critica ha ristabilito l’ordine dei manoscritti antichi, già at-
tribuito a Boccaccio.
21
Per ciò, rinvio in particolare a Fenzi 2004: in particolare per le conclusioni,
pp. 138-143.
22
A proposito del potere nobilitante di amore, è forse il caso di ricordare che
nel De vulgari eloquentia Dante cita due volte, in I IX 3 e in II V 4, la canzone
del rex Navarre Thibaut de Champagne, De fin amor si vient sen et bonté, stret-
tamente legata, specie nelle immagini finali, con il Roman de la Rose 1715-1719
(vd. Thibaut de Champagne 1925: 15, ma ora anche, a cura di Luciano Formi-
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sano, in Alighieri 2012c: pp. 334-339). I primi due versi, che nell’ed. critica suo-
nano diversamente che in Dante: «De bone amor vient seance et bonté, / et amors
vient de ces deus autresì», mostrano una forte analogia con la guinizzelliana Al
cor gentil. Né si dimentichi, per esempio, il De amore del Cappellano, per altro
ben conosciuto dagli autori della Rose, che proprio agli inizi dell’opera elenca
quali siano gli effetti d’amore: «IV. Quis sit effectus amoris. Effectus autem amo-
ris hic est, quia verus amator nulla posset avaritia offuscari, amor horridum et in-
cultum omni facit formositate pollere, infimos natu etiam morum parare. O, quam
mira res est amor, qui tantis facit hominem fulgere virtutibus tantisque docet
quemlibet bonis moribus abundare! [[IV. ‘Quale sia l’effetto dell’amore. Effetto
dell’amore è che il vero amante non può essere macchiato da alcuna avarizia;
amore fa che chi è aspro e trasandato eccella in ogni grazia, ricolma di nobilti co-
stumi anche chi è d’infimi natali, e gratifica i superbi d’umiltà: così, colui che
ama è solito comportarsi con gentilezza con tutti. Che cosa mirabile è l’amore,
che fa rifulgere l’uomo di tante virtù e gli insegna a farsi ricco di tanti buoni co-
stumi!’]. Il testo latino in Capellano 1892: 9-10 (e 1980: 12).
23
In Bonagiunta la ‘acrescenza’ di valore intrinseca al servizio d’amore e
alla ‘conoscenza’ ch’esso fomenta è anche nel sonetto Per fino amor – lo fior –
del fiore – avraggio 9-10: «Così lo bene – vene – in acrescenza, / pregi’ e va-
lensa – in caonoscensa - regna» (Bonagiunta 2012: 221).
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