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COSTANZO PRE VE

il prato LUIGI TEDESCHI

DIALOGHI
SULL'EUROPA E
SUL NUOVO ORDINE
MONDIALE
INTRODUZIONE DI STEFANO SISSA
Direttori di collana
Jacopo Agnesina, Università del Piemonte Orientale - Vercelli
Diego Fusaro, Università di Milano - San Raffaele

Segretario di redazione
Mario Carparelli, Università del Salento

Comitato Scientifico
Giovanni Bonacina, Università di Urbino
Gaetano Chiurazzi, Università d i Torino
Vincenzo Cicero, Università di Messina
Massimo Dona, Università di Milano - San Raffaele
Domenico Fazio, Università del Salento
Sebastiano Ghisu, Università d i Sassari
Giuseppe Girgenti, Università d i Milano - San Raffaele
Marco Ivaldo, Università d i Napoli - Federico I I
Roberto Mordacci, Università di Milano - San Raffaele
Vesa Oittinen, Università di Helsinki
Pier Paolo Portinaro, Università di Torino
Roberta Sala, Università d i Milano - San Raffaele
Andrea Tagliapietra, Università di Milano - San Raffaele

I membri del Comitato Scientifico fungono da revisori. Ogni saggio pervenuto


alla collana “I Cento Talleri”, dopo una lettura preliminare da parte dei Direttori
di collana, è sottoposto alla valutazione dei membri del Comitato Scientifico
(due per ogni saggio).
Le proposte di pubblicazione devono essere inviate ai seguenti indirizzi:
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via Lombardia 41, 35020 Saonara (Padova).
L u ig i T edeschi

C o sta nzo P reve

DIALOGHI
SULL'EUROPA E
SUL NUOVO ORDINE
MONDIALE
INTRODUZIONE DI STEFANO SISSA
s

Introduzione

La f il o s o f ia ‘t u t t a p o l it ic a ’ d i
C o stan zo P rbve:
UN INTELLETTUALE NON OMOLOGATO

È con grande piacere che ho accolto il cortese invito


di Luigi Tedeschi ad introdurre questo libro-intervista a
Costanzo Preve, cui sono legato da affinità intellettuale
e da sincera amicizia, in un’epoca in cui l’amicizia disin­
teressata e l’onestà intellettuale sono sempre più rare. Il
presente libro è l’ideale prosecuzione del precedente A lla
ricerca della speranza perduta, edito nel 2008; allo stesso
tempo, però, è una pubblicazione del tutto autonoma
che —se volete - potete leggere anche senza un ordine
preciso, in quanto ogni capitolo affronta un plesso tema­
tico in sé compiuto, anche se tu tti convergono nel deli­
neare una radicale critica all’attuale situazione sociale,
politica e culturale.
Fare esperienza di Costanzo Preve, leggendo i suoi
scritti, guardando le sue videointerviste in rete, o aven­
done conoscenza personale, come ha avuto la fortuna il
sottoscritto, significa potersi riconciliare, per certi versi,
con la figura dell’intellettuale; figura oggi quanto mai
equivoca. Occorre infatti intendersi bene su questo ter­
mine. Preve indirizza una critica radicale a quanti ven­
gono riconosciuti pubblicamente come gli intellettuali.
Se Preve è tecnicamente un intellettuale (è un pensatore
colto e originale, con una foltissima produzione di libri
e articoli), non lo è sociologicamente, in quanto non appar­
tiene a quella categoria di persone cui viene affidato il
compito di produrre e diffondere idee compatibili con
il sistema, in cambio di un riconoscimento ufficiale e di
una collocazione stipendiale negli apparati di produzio­
ne del consenso.
6 Stefano Sissa

Come ‘intellettuale’, Preve non risulterebbe assoluta-


mente conforme —né in ciò che dice, né in come lo dice
—ai codici che regolano la produzione e la diffusione di
idee nel nostro paese (e certamente non solo nel nostro).
E perciò è inevitabilmente condannato all’esclusione dai
circuiti istituzionali e mediatici attraverso i quali passa
la cultura ‘ufficiale’. Tutto ciò è comprensibile, del resto;
nessuno, infatti, accoglierebbe nei propri ranghi un ‘ne­
mico’. Uso di proposito un’espressione semanticamente
molto marcata come quella di ‘nemico’, piuttosto che im­
piegare - come convenzionalmente si fa - termini come
‘critico’ o tu tt’al più ‘avversario’. La critica filosofico-po-
litica di Preve, in effetti, è un attacco senza quartiere al
sistema di riproduzione di un pensiero omologato, che
anche quando sembra porsi come antagonistico, svolge in
realtà soltanto la funzione di ‘valvola di sfogo’ puramen­
te virtuale, legittimando nei fatti gli equilibri vigenti.
In effetti, la cerchia sociale che costituisce Yintellighenzia
può occasionalmente anche ospitare pensatori originali e
dissacranti, ma solo a patto che il loro profilo comples­
sivo sia tale da non mettere realmente in discussione né
l’ordine del discorso nel suo complesso, né i presupposti
economici e politici dello stesso. Tali figure, anzi, sono
spesso apprezzate, poiché catalizzano un disagio latente
verso l’ordine sociale stabilito, offrendo solo delle ‘grati­
ficazioni sostitutive’ e delle alternative puramente esteti­
che, contribuendo nei fatti a rinforzare i rapporti di do­
minio presenti.
Preve parla giustamente di “ritorno del clero”, rife­
rendosi a quella schiera di persone variamente collocate
(‘clero secolare’: i giornalisti, ‘clero regolare’: i professo­
ri universitari) che —in analogia alla funzione svolta nel
Medioevo dal ceto sacerdotale —operano per fornire una
legittimazione ideologica a quell’insieme integrato di
rapporti di forza di cui essi sono dipendenti.
Introduzione 7

«Il clero giornalistico secolare ha il com pito di orga­


nizzare una rappresentazione quotidiana profana, il cui
scopo è quello di simulare la sacralità del dom inio della
N uova N obiltà finanziaria transnazionale ultracapitali­
stica e postborghese. Il clero giornalistico secolare è or­
ganizzato in una chiesa invisibile, o meglio ultravisibi­
le, che definiremo circo mediatico. [ ...] Il circo mediatico
è più im portante della com unità universitaria, perché
dà e toglie la parola a chi vuole, e controlla dunque i
flussi com unicativi fondamentali. È però nella com u­
nità universitaria mondiale che vengono elaborate per
ora le forme culturali [...}. Il circo m ediatico effettua la
saturazione com unicativa di ciò che è stato prim a ela­
borato nella forma della frammetazione produttiva»1.

Si tratta di circuiti molto influenti, dunque; eppure


rimangono ‘dipendenti’, in quanto non sono direttamente
innestati nei processi di produzione della ricchezza socia­
le, al contrario di quanto può accadere per altre professio­
nalità intellettuali che non vengono però designati come
“gli intellettuali”: si tratti di economisti, tecnocrati, alti
ingegneri, esperti di diritto al servizio delle corporations,
ecc. Il gruppo sociologico degli “intellettuali” costituisce,
invece —per usare un’espressione di Pierre Bourdieu —una
“frazione dominata della classe dominante”, che in certi
casi può persino inscenare blande forme di antagonismo
ritualizzato, ma nella sostanza non ha alcun interesse ad
opporsi realmente ad un sistema che li beneficia, se pur in
posizione subalterna. E in virtù di tale posizione (domina­
ti tra i dominanti), essi sviluppano sovente forme accen­
tuate di opportunismo e di cinismo, peraltro funzionali
al raggiungimento di sufficienti posizioni di carriera in

note
1 C. PREVE, Il ritorno del clero, C.R.T., Pistoia, 1999; pagg. 21 e 27.
8 Stefano Sissa

una competizione sempre più serrata. Cinismo che però si


traveste, mostrandosi essi molto più ‘umanitari’ di quanto
non siano realmente, attraverso una generica rivendicazio­
ne di libertà e una pomposa celebrazione dello spirito di
critica verso tutti i dogmi, che però —sorprendentemen­
te - ne lascia alcuni del tutto intoccati. Facciamo qual­
che esempio: il primato dell’individualità sul sociale (e
quindi la condanna di ogni regime che non sia liberale), il
ruolo guida dell’Occidente nella civilizzazione mondiale
(anche quando è travestito da alter-mondialista), la virtù
dello sradicamento cosmopolitico contrapposta all’at­
taccamento alla propria patria (visto sempre e solo come
una forma di ottusità nazionalistica), l’imparagonabilità a
priori del genocidio ebraico con altri genocidi storici, la
dottrina dei diritti umani come sommo apice della morale
civile (impiegata in realtà come formula di legittimazione
degli interventi armati degli USA e dei loro alleati per
abbattere regimi politici incompatibili con le loro mire
egemoniche).
Al di sotto di questo livello, si colloca un contingente
ben più ampio di professionisti dal profilo intellettuale de­
cisamente più modesto, che possiamo definire “ceto medio
semi-colto” (composto per lo più da insegnanti, addetti
alla cultura, lavoratori non manuali che leggono romanzi e
frequentano festival letterari e filosofici, ecc.) che si collo­
cano nelle frange istruite della piccola borghesia e che co­
stituiscono un gruppo sociale chiaramente dominato. Essi
costituiscono in realtà un settore subalterno della cultura
di massa, soltanto che hanno la pretesa di differenziarsene
in quando dispongono di titoli di studio e praticano for­
me di consumo distintive rispetto alla maggioranza, che è
di bassa istruzione. Ad esempio seguono i programmi di
Augias e Fazio, non vanno in vacanza ad Ibiza o Sharm E1
Siicik, preferendo semmai le città d’arte o gli agriturismo,
leggono i quotidiani, visitano mostre piuttosto che fre­
Introduzione 9

quentare lo stadio, socializzano manifestando apertamente


il loro antiberlusconismo in ogni circostanza, ecc.
Nonostante lo sbandierato principio di ‘autonomia di
giudizio’ e un retorico appellarsi ai presìdi morali della
tradizione umanistica, costoro non fanno che recepire le
istanze del clero intellettuale nella loro forma essoterica, os­
sia vestite in foggia genericamente ‘umanitaria’, laddove
sul piano esoterico si tratta, in realtà, di istanze nichilisti-
che e relativistiche, incompatibili col vecchio umanesimo.
Tali istanze, già accolte in forma semplificata, vengon poi
diffuse con modalità quasi sloganistiche, in un allinea­
mento completo ai dogmi del politicamente corretto, diffusi
in particolar modo da giornali e TV.
L’engagement intellettuale di questa categoria sociale
consiste per lo più nella lettura giornaliera di quotidiani
come La Repubblica, nell’organizzazione di visite di istru­
zione per le scuole ad Auschwitz, in un pacifismo sempli­
cistico e sprovvisto di ogni minima nozione geopolitica,
in una concezione puramente moralistica della vita politi­
ca, nell’idea del primato della società civile, sempre intesa
come momentaneo e mutevole rassemblement di opinioni
individuali e mai riferite alle posizioni di classe. La no­
zione di classe sociale viene, anzi, esplicitamente rifiutata e
sostituita da altre categorie sociologiche di maggiore ap­
peal presso il pubblico, come le donne, i giovani, i gay, gli
immigrati, tutti però concepiti al di fuori di ogni precisa
determinazione, come se una donna, un giovane, un gay,
un immigrato ricchi e ben collocati nel sistema fossero da
intendere alla stessa stregua di uno che non ha accesso alle
risorse e al potere.
Ciò che accomuna questi due livelli ben differenziati
di intellettuali, ossia il ‘clero’ e i ripetitori mid-brow (ossia
i ‘semi-colti’) è un atteggiamento farisaico. Ai processi di
disgregazione sociale e di asservimento di fatto delle co­
scienze viene opposta una prosopopea dell’umanità che ha
10 Stefano Sissa

ormai poco o nulla a che vedere con la tradizione dell’uma­


nesimo, che sia quello classico oppure quello civile di età
moderna. Si riconduce —nel solco della tradizione liberale
—la soggettività umana alla mera individualità, presunta
libera e autonoma a priori, e perciò in grado di affrontare
le questioni sul piano di un ‘aperto confronto’ all’interno
della società civile. Una società civile non intesa hegelia­
namente come “sistema dei bisogni”, ma illuministica­
mente come arena pubblica dove si esprimono le opinioni
(ossia la relativistica doxa) e si eserciterebbe il controllo
pubblico del potere, anche attraverso la ricezione presso le
istituzioni formali delle istanze emerse nei dibattito civi­
le. Senonché si finge di non vedere che tale spazio di rap­
presentanza pubblica è ormai da tempo configurato come
uno spazio virtuale di sola ‘rappresentazione’, cioè di pura
‘messa in scena’ delle prerogative democratiche, senza re­
ale possibilità di incidenza; mentre i processi decisionali
si svolgono certamente altrove. L’intellettuale stipendiato
ha la funzione di mantenere in piedi questa illusione, at­
tivandosi, più o meno consapevolmente, per stornare ogni
possibile istanza che preveda il passaggio dal piano pura­
mente ideologico a quello di una prassi trasformatrice o
quantomeno ad una resistenza organizzata e fattiva.
Mi permetto di documentare un concreto caso speci­
fico, ma esemplare, di trasmissione ideologica dal clero
alla manovalanza intellettuale. Nel 2010 il sottoscritto ha
partecipato ad una serie di incontri organizzati dall’Isti­
tuto Gramsci dell’Emilia Romagna sulle “voci della de­
mocrazia” (tale istituto si propone ancor oggi di porre in
atto strategie per una ‘gramsciana’ egemonia culturale: c’è da
chiedersi, però, in quale direzione e a beneficio di quali
gruppi sociali). La direzione e la conduzione di tali incon­
tri era affidata al professor Carlo Galli, docente all’Univer­
sità di Bologna, noto editorialista de La Repubblica, oggi
presidente della Fondazione che guida la sezione emiliana
Introduzione 11

dell’Istituto Gramsci, nonché deputato eletto per il Partito


Democratico alle elezioni politiche del 2013. Galli è un
serio e preparatissimo studioso di dottrine politiche. Uno
degli incontri aveva come titolo “democrazia e conflitto: il
repubblicanesimo” ed aveva come ospite il professor Mar­
co Geuna, dell’Università Statale di Milano, che avrebbe
fatto da relatore sulla tradizione del pensiero repubblicano
nell’ambito della storia delle dottrine politiche. Durante
l’apprezzabile esposizione delle articolazioni storiche del
concetto di repubblicanesimo, è emerso come esso si regga
su due concetti chiave: libertà intesa nel senso di “non esse­
re dominati” (da nemici esterni, da soggetti privati interni
troppo potenti) e virtù, intesa come sobrietà nei costumi e
disponibilità a dedicare parte di sé alla cosapubblica, inclusa
la disponibilità a combattere —letteralmente —per difen­
derla. In conclusione della dotta esposizione, entrambi i
professori hanno sottolineato come la tradizione repubbli­
cana potrebbe e dovrebbe essere un antidoto alla rassegna­
zione, al rifugio nel privato, alla sopportazione della domi­
nazione che caratterizzano la condizione attuale. Secondo
loro, l’odierna democrazia liberale non ha mantenuto le
sue promesse, ha assistito ad un trionfo della proceduralità
sulla libertà sostanziale e sulla partecipazione; in ultimo,
si è trasformata in una spregiudicata oligarchia di fatto,
garantita da una messa in scena puramente mediatica del­
la sovranità popolare. Diagnosi pienamente condivisibile.
Tuttavia colsi una reticenza, come segnalai durante il di­
battito in coda alla relazione. In fondo, nel concetto stesso
di virtù è già implicita anche la nozione repubblicana di li­
bertà, in quanto la vir-tù è la facoltà del vir, cioè dell’uomo,
ma inteso assiologicamente come uomo valoroso, ‘virile’,
appunto, e quindi anche pronto a combattere, all’occorren-
za, contro la possibile dominazione. E per ‘combattere’ non
si può intendere ipocritamente solo la ‘battaglia delle idee’
o le rituali contese parlamentari (che allora si tornerebbe
12 Stefano Sissa

nella strettoia della liberaldemocrazia di cui si era detto),


ma anche l’eventualità —in casi estremi —di usare effetti­
vamente la violenza organizzata; infatti per la tradizione
repubblicana, “il popolo libero è il popolo in armi”. Capen­
do dove volevo andare a parare, i due professori si son pre­
occupati di riprendersi tosto la parola e di precisare lette­
ralmente che “alla critica delle armi”, preferivano “le armi
della critica”, ribaltando un celebre enunciato di Marx, che
contestava la ‘pura critica’ degli intellettuali borghesi pro­
gressisti del suo tempo. Non solo: si è precisato che il pri­
mato assiologico della nozione di vir escluderebbe le donne
dalla pienezza delle prerogative politiche. Mi si è opposto,
insomma, un argomento tipicamente politically correct. Ar­
gomento capzioso, poiché nulla vieta a priori alle donne
emancipate della società di oggi di assumere —all’occor-
renza —i valori ‘marziali’ della difesa repubblicana; eppure
l’argomento è risultato subito decisivo per convincere il
resto del pubblico in sala, composto per lo più da quel ceto
medio semi-colto di cui sopra. Pubblico che si è sentito subito
rassicurato dal fatto di sentirsi dire dagli esimi professori
che, nella sostanza, nessuno dei presenti avrebbe dovuto
scomodarsi o correre dei rischi personali. Tutto avrebbe po­
tuto rimanere così com’è: la critica alla democrazia liberale
era soltanto una lamentatio consolatoria, momentaneamen­
te catartica, in quanto la soluzione prospettata consisteva
alla fine proprio nel ribadire la legittimità esclusiva di
quelle pratiche che, solo sulla carta, erano state messe in
discussione dagli interventi dei due dotti.
Naturalmente nessuno pretendeva che dei cattedrati­
ci incitassero alla rivolta o si spendessero per organizzare
dei gruppi d’azione, ma almeno avrebbero potuto lasciare
intendere, anche implicitamente, che tutto ciò era forse
auspicabile o quantomeno lasciare la mia sollecitazione al
giudizio del pubblico, senza controbattere. Se hanno agito
diversamente è perché invece la loro funzione è proprio
Introduzione 13

quella di istruire la manovalanza intellettuale presente tra


gli uditori a tradurre sempre il potenziale conflitto sociale
in formule retoriche e in astratte istanze moraleggianti, in
modo da stornare la pur remota possibilità che si erga pian
piano una reale opposizione, consapevole ed organizzata,
al sistema.
Ecco, Costanzo Preve non è e non sarà mai questo gene­
re di intellettuale: non è reticente, né uno che getta acqua
sul fuoco; anzi. Certo, nemmeno da lui ci si deve aspettare
che faccia da promotore di iniziative politiche. E un filoso­
fo, non un militante politico. Eppure il suo essere filosofo è
totus politicus. E questo non perché egli si interessi esclusiva-
mente di filosofia politica o di questioni sociali, come ci si
può pure aspettare dati i suoi trascorsi marxisti, ma perché
in generale il suo modo di interrogarsi filosoficamente (ad
esempio anche sul pensiero degli antichi greci o sulle que­
stioni del soggetto moderno) passa sempre attraverso l’as­
sunzione del ruolo determinante della vita associata e della
dialettica storica in cui le comunità umane si rapportano
tra loro in virtù dell’accesso alle risorse e ai mezzi di potere.
E proprio a livello metodologico — o meglio ancora:
epistemologico - che Preve è filosofo ‘politico’, in quan­
to per lui la ‘verità’ filosofica è un sempre prodotto, non
arbitrario però, della vita associata. Il suo modello opera­
tivo è quello della deduzione sociale delle categorìe filosofiche,
ossia l’assunto che le categorie del pensiero, pur potendo
anche assurgere a valore teoretico universale, siano sempre
il prodotto e allo stesso tempo l’espressione di condizioni
storico-sodali-politiche ben determinate. Attenzione: non
si sta qui dicendo la cosa ovvia —che ogni professore di
liceo decente direbbe ai propri studenti —che le teorie dei
filosofi van comprese contestualizzandole storicamente. In
affinità con certa sociologia europea di derivazione marxi­
sta (Franz Borkenau, Alfred Sohn-Rethel), ma anche con
il Durkheim de Le forme elementari della vita religiosa, egli
14 Stefano Sissa

ritiene che gli stessi concetti filosofici siano una implicita


rappresentazione —se pur mediata dal pensiero (cioè non
un im-mediato rispecchiamento) — della configurazione
dei rapporti sociali, politici ed economici in cui si colloca­
no gli uomini che hanno prodotto quei concetti. Tanto per
fare un esempio: la filosofia dei cosiddetti ‘presocratici’, in­
centrata su concetti come quello di arche, di logos, di metron,
riferiti alla realtà naturale (physis) o all'essere in generale, è il
precipitato storico dell’esperienza sociale della costituzio­
ne della polis, ossia della comunità politica, che non era più
la comunità tribale, garantita a priori da rapporti ascrittivi
di tipo clanico. La polis presuppone la presenza di sogget­
ti pensanti, educati all’uso della ragione, che stabiliscano
un fondamento stabile della loro unità politica e regolino
i rapporti interni secondo criteri di ‘giusta misura’, una
giusta misura che si articola nel rapporto tra divenire, cioè
un relativo dinamismo sociale, e permanenza, ossia la neces­
saria stabilità istituzionale e la conservazione dei rapporti
comunitari. Si tratta di presìdi istituzionali (uso qui il ter­
mine ‘istituzione’ nel senso ampio che ne dà l’antropologia
sociale) che non possono essere dati per scontati, in quanto
la polis era investita in quel frangente, proprio anche in
virtù del suo sviluppo, da tendenze sociali che potevano
anche tradursi in spinte dissolutrici, come ad esempio il
potenzialmente s-misurato incremento dell’interesse pri­
vato e l’espansione dell’economia monetaria e mercantile.
Per Preve non si può mai discutere di. filosofia in astrat­
to, prescindendo dai rapporti di forza che disegnano il
campo di praticabilità del pensiero e dell’azione autonoma
e razionale. La ragione filosofica si intreccia con una de­
terminata prassi, poiché necessita che siano assolte precise
condizioni per essere praticata senza divenire pura ideolo­
gia giustificatrice del dominio esistente oppure una dot­
trina consolatoria per il ritiro nel privato. La filosofia ha
bisogno di persone che dialogano razionalmente tra loro
Introduzione 15

in condizioni di relativa libertà, ossia dove non accada che


si affermi una tesi soltanto in virtù del potere o della forza
de facto di chi la pronuncia. La filosofia si afferma in virtù
della combinazione politicamente riconosciuta di ìsonomia,
eguaglianza davanti alla legge, isegoria, ovvero libertà e
parità di parola, parresia, dovere di non essere reticenti e
impegno a dire la verità. Occorre insomma che ci siano
le condizioni perché possa dispiegarsi la cosiddetta ragio­
ne comunicativa di cui parla Habermas. Purtroppo, però,
il filosofo tedesco, allontanatosi a partire dalla fine degli
anni ’70 dalla matrice hegeliano-marxiana della scuola di
Francoforte per approdare ad una sorta di trascendentali­
smo kantiano, ha finito per declinare tale concetto in una
chiave formalistica affine allo stereotipo propagandato
dalle liberaldemocrazie, anziché precisare le articolazioni
storico-politiche per cui quella ragione comunicativa può
essere praticata piuttosto che conculcata. Esattamente ciò
che invece Preve si preoccupa di fare, come vedrete in que­
ste pagine, qui con particolare riferimento agli anni che
stiamo vivendo. Infatti, cosi come dice che «la democrazia
ateniese non sarebbe stata possibile con una guarnigione
persiana sull’acropoli», Preve ritiene pure che oggi non sia
possibile in Europa avere i mezzi per praticare pubblica­
mente una filosofia critica (ossia una filosofia che sia tale e
non pura ideologia, anche se rimane sempre un quantum di
componente ideologica che non può essere eradicato dal
pensiero filosofico) finché sussistano sul territorio europeo
le basi militari americane, la cui presenza soft, non deve in­
gannare: si tratta della garanzia ultima che il nostro paese
rimanga permanentemente subalterno, sul piano culturale
non meno di quello politico od economico. Infatti a nes­
suno è concesso di introdursi nei gangli degli apparati di
potere così come nei luoghi illustri della produzione intel­
lettuale se è in aperto contrasto con quella ferma domina­
zione, che è tanto discreta e 'vellutata' presso di noi quanto
16 Stefano Sissa

si manifesta aperta e brutale in altre aree del mondo.


L’antiamericanismo di Preve - e la correlata ostilità al
paese che costituisce nello scacchiere mediorientale la testa
di ponte dell’egemonia occidentalista, ossia Israele - non
è dovuto ad un pregiudizio ideologico e neppure ad una
assolutizzazione della chiave di lettura geopolitica, che pure
Preve ritiene giustamente essenziale, ma non in sé esau­
stiva. Preve è antiamericano perché è anticapitalista. Egli
sa benissimo, come tutti, che il modo di produzione capita­
listico non è certo nato negli Stati Uniti e inoltre che esso
è fondamentalmente un “processo senza soggetto” che di
suo - cioè se non incontra una strenua resistenza - tende
a scardinare e progressivamente omologare a sé ogni altra
forma eterogenea di organizzazione sociale ed economica.
Tuttavia è negli USA che il capitalismo ha raggiunto il suo
culmine identificando con se stesso l’intera società. E là che
il capitalismo è entrato nella fase speculativa del suo svilup­
po dialettico, ha inverato cioè la sua essenza fino al punto di
rispecchiarsi in se stesso come forma compiuta. È dunque
a partire da là che si diffondono nel mondo i tratti di un
capitalismo assoluto-totalitario, stabilitosi come una sorta di
orizzonte ‘naturale’ intrascendibile, che fa sembrare ogni
proposta di alternativa sistemica una pretesa assurda e ogni
altra forma di organizzazione socio-economica con cui entra
in attrito un intralcio atavico da spazzar via al più presto.
Anche se le centrali del capitalismo possono essere di­
slocate altrove (la più classica è la City di Londra), allo
stato attuale delle cose, sono gli Stati Uniti, con gli alleati
NATO come corollari, in virtù della loro forza militare e
del suadente colonialismo culturale, ad essere il più poten­
te e pericoloso ‘agente di trasmissione’ mondiale di questo
vero e proprio virus sociale, portatore di sfruttamento, ac­
caparramento inconsulto di risorse, mercificazione di tutti
i rapporti sociali, alienazione della condizione umana.
Non a caso ho introdotto il tema dell 'alienazione. Pre­
Introduzione 17

ve è stato direttamente allievo del filosofo marxista Louis


Althusser, avendo studiato alla Sorbona negli anni imme­
diatamente antecedenti al ‘68. E risaputo che la lettura
critica di Marx fatta da Althusser introduce l’idea di una
vera e propria coupure épistémologique tra il giovane Marx
idealista e il Marx maturo dell’analisi strutturale del modo
di produzione capitalistico, con le sue caratteristiche di
dominazione e sfruttamento. In questa lettura, il tema
dell’alienazione —che presupporrebbe una sorta di essenza
dell’uomo alterata poi dai rapporti di produzione capitalisti­
ci —viene concepito come un residuo idealistico, hegeliano
e borghese della filosofia del primo Marx, il quale è ap­
prodato solo in seconda istanza ad una teoria sociale com­
piutamente scientifica. Orbene, Preve ha maturato negli
anni un distacco sempre più ampio dall’impostazione del
problema data dal suo maestro, cui comunque riconosce
una opportunità contingente ai tempi in cui venne fornita.
Secondo Preve, la poderosa formulazione teorica del Marx
del Capitale non necessariamente comporta il decadimen­
to del tema dell’alienazione; considera anzi quest’ultimo
come un architrave irrinunciabile della teoria di Marx.
Egli opera una rilettura in chiave ‘idealista’ del pensiero di
Marx2, ma invertendone il giudizio assiologico. Il filosofo
di Treviri è così chiaramente ricollocato in pieno nel solco
della filosofia classica tedesca e in particolare nella linea di
Fichte e di Hegel, troppo presto ridotti dalla storiogra­
fia marxista a semplici alfieri di una borghesia in cerca di
accreditamento sociale nell’ambito del nascente capitali­
smo industriale tedesco. Borghesia e capitalismo non co­
stituiscono un’endiadi senza residuo. Il capitalismo è stato
indubbiamente innescato e veicolato dalla borghesia, ma

note
2 Vedi, tra gli altri, C. PREVE, M a r x in attuale. E red ità e prospettiva,
Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
18 Stefano Sissa

tale classe sociale non può essere identificata tout court come
l’intrinseco supporto sociologico di un processo sociale così
complesso. In effetti, tale processo si è rivelato capace di
trascendere ampiamente il solo supporto della borghesia,
come si è visto negli ultimi decenni, in cui abbiamo assi­
stito ad un sostegno incondizionato al capitalismo anche
da parte del proletariato occidentale, stregato dai comfort e
dai livelli di consumo che gli ha garantito fino all’altro ieri.
In realtà, alcune frange della borghesia - che peral­
tro si articola in più componenti differenziate —hanno
rappresentato anche una forma di ‘coscienza infelice’ del­
la civilizzazione capitalistica, offrendo il destro anche al
sorgere della critica anticapitalistica di forma dialettica
(diversa da quella puramente nostalgica e ‘reazionaria’),
che ha avuto in Marx il suo esponente più robusto. Per
il moderno pensiero dialettico, elaborato in seno a quelle
frange sociali di cui sopra, la vicenda umana si qualifica
attraverso il processo di autocomprensione del rapporto
di reciproca determinazione tra il soggetto e l’altro da sé,
cioè l’oggetto. L’uomo perviene alla verità di se stesso —che
è una verità relazionale —attraverso quella prassi storica
che gli consente la comprensione di come il suo essere vada
concepito a partire dal punto dinamico di incontro/scon-
tro tra Io e Mondo, tra soggetto e realtà; il che bandisce
sia il puro soggettivismo che il realismo ingenuo. La con­
dizione alienata è quella in cui l’uomo è lontano o impe­
dito a compiere questa autocomprensione, che avrebbe un
effetto liberatorio perché consentirebbe sia di rimuovere
gli ostacoli di una oggettività pietrificata, sia di rimettersi
dagli svianti sogni di onnipotenza del soggetto.
Ora, non vi è dubbio che il sistema capitalistico, che
pure ha sprigionato enormi potenziali di razionalità tecnica
e scientifica, comporti per l’uomo un sempre più marcato
esproprio della sua capacità di autodeterminarsi, raggelato
come in un insieme di rapporti sociali che funzionano alla
Introduzione 19

stregua di ‘cose’ (reificazione) e che gli impediscono di sog­


gettivarsi realmente. Il capitalismo porta progressivamente
alla mercificazione di tutti i rapporti sociali, ossia alla sussun­
zione di ogni attribuzione sociale di valore al solo valore di
scambio. Dato che il sistema di mercato prevede una serrata
competizione in cui necessariamente il capitale più grande
divora quello più piccolo, ciascuno —sempre più —vien
trattato da ciascun altro come mero strumento per l’accu­
mulazione di capitale, che non è solo il denaro, ma tutto
ciò che conferisce un astratto potere di scambio nella rela­
zione di mercato. Questo non avviene senza conseguenze
radicali per la condizione umana; per cui è opportuno par­
lare di ‘alienazione’, che significa allontanarsi da sé stessi,
alterando ciò che essenzialmente si è. Per Preve è corretto
usare questo termine non perché debba esistere u n ’essenza
umana da intendersi come substrato già dotato all’origine
di tutte le sue determinazioni, almeno in nuce, com’è nella
metafisica classica, ma perché comunque ritiene che esista
una natura ternana sulla base quale è comunque possibile
pensare una ontologia dell’essere sociale (per dirla con Gyòrgy
Lukàcs, un altro dei punti di riferimento di Preve).

«Il fatto è che il term ine alienazione, o meglio il


suo uso filosofico, presuppone un precedente fatto stori­
co, e cioè che la totalità dei rapporti sociali possa esse­
re intu ita come “alienata”. Ed alienata significa allora
“allontanata”. Ed allontanata da che cosa? M a è chia­
ro. A llontanata non tanto da u n ’origine nel frattem po
decaduta e perduta e che si tratta allora di “recuperare”
con un ritorno alla p rim itività { ...], quanto allontanata
da un'Idea di Genere Umano realmente razionale»3.

note
0 C . PREVE, S to ria d ella d ia le ttic a , P etite Plaisance, Pistoia, 2006,
pagg. 125-6.
20 Stefano Sissa

Per Marx la natura dell’uomo consiste nel suo essere un


ente naturale generico che si specifica sempre nella determina­
tezza dei rapporti storico-sociali, dato che l’uomo in socie­
tà è alio stesso tempo prodotto e produttore di se stesso.
Preve è d’accordo, ma anziché inferirne —come ha fatto lo
storicismo - che allora l’identità umana è null’altro che un
vuoto caleidoscopio totalmente in balia della contingenza
storica, egli vi innesta qui l’altra grande ‘bussola’ del suo
pensiero filosofico, ovvero la tradizione greca di età classica,
e in particolare la definizione della natura umana fornita da
Aristotele, per il quale l’uomo è zoon logon echon e zoon poli-
tikon. La prima espressione significa che l’uomo è un essere
vivente ‘attrezzato per stare’ nel logos, ossia è potenzialmen­
te capace di produrre discorsi razionali e calcolare la ‘giusta
misura’ nell’ordine delle cose; la seconda che è un essere
comunitario, ossia l’uomo può esistere come tale solo nel­
la dimensione di una partecipata socialità pubblica, poiché
laddove questa dimensione manchi, esso si riduce allo stato
di bruto, cioè al suo solo funzionamento biologico.
Ecco perché il sistema capitalistico, pur non essendo
certo l’unica forma di dominazione e oppressione della
storia (che anzi, ne è pienissima) è tuttavia il nemico per
eccellenza, un nemico mortale. In altri sistemi storici vi
erano le condizioni affinché solo una parte della società
potesse estrinsecare i caratteri propri della natura umana;
al prezzo, certo, di pesanti discriminazioni: ricordiamo
come nella filosofia della storia di Hegel la ‘libertà’ (che
poi è la soggettività, non la pura libertà negativa dei libe­
rali) sia prima di uno solo, nel dispotismo asiatico, poi di
molti, ma non di tutti, nel mondo classico. Nella moder­
nità capitalistica, vi è infine —potenzialmente —la ‘libertà’
di tutti; nei fatti, invece, vi è l’annichilimento progressivo
della natura dell’uomo in quanto tale e non solo dei pro­
letari, che semmai son quelli sui quali la tormenta capita­
listica infierisce per primi, con più ferocia e senza rete di
Introduzione 21

protezione. Nel capitalismo, l’uomo è stato ridotto prima


a mero prestatore d’opera sul mercato, poi a semplice con­
sumatore privato e infine ad una vera e propria precarie­
tà ontologica (homo precarius). Con la precarietà assurta a
paradigma normativo dell’esistenza (da quella nel lavoro
a quella negli affetti, ecc.), la natura razionale e comuni­
taria dell’uomo viene terremotata nelle sue fondamenta e
rimane soltanto di essere delle appendici dei meccanismi
ciechi del profitto e atomi esistenziali alla deriva. Nessun
sistema, insomma, per quanto odioso, era arrivato al pun­
to tale di mettere a repentaglio la stessa natura umana (e
a questo potremmo aggiungere la natura in generale, dato
l ’impatto smisurato sull’ecosistema).
Ribadisco che parliamo di ‘uomo’ e non soltanto di de­
terminate classi non perché l’analisi di classe non rimanga
comunque fondamentale sul piano squisitamente socio­
logico, ma perché il meccanismo capitalistico è talmente
poderoso e pervasivo da assimilare progressivamente una
massa sempre più ampia di persone fino a trascendere le
differenze di classe. In un capitalismo sviluppato in pieno,
insomma, vengono sfruttate solo determinate classi, ma
viene alienata l’umanità nella sua interezza.
La speranza di Preve (ecco il senso del titolo del libro)
è che ci sia ancora una chance di invertire o almeno frenare
questa corsa al precipizio, contando sul fatto che la natura
umana, per sua stessa costituzione, ha ancora qualche re­
siduo potenziale per potersi opporre ad una deformazione
incessante e senza misura. Per questo Preve si affida alla
filosofia degli antichi greci e al loro senso del limite, alla
nozione di giusta misura, contrapposta all’abisso caotico
dell’indeterminato, che è la rappresentazione in foggia
cosmologica e ontologica di una società anomica che si di­
sgrega e si cannibalizza dalPinterno.
Preve insomma, oltre ad inserirsi nell’alveo del pen­
siero dialettico tedesco, è anzitutto un erede della filosofia
22 Stefano Sissa

classica dei greci. Attenzione, però. L’affiliazione di Preve


allo spirito degli antichi non ha nulla a che vedere con
il neopaganesimo scimmiottato dei postmoderni, dei quali
anzi si dichiara strenuo avversario. E non è un caso che
mentre questi siano fondamentalmente anti-cristiani, Pre­
ve invece —pur da non credente —riconosce al cristianesi­
mo un contenuto veritativo - oltre che etico - universale,
fondato ontologicamente e non solo convenzionalmente.
Ai neopagani odierni, di cui l’antesignano fu Nietzsche
(che però almeno, nella sua unilateralità, era comunque
geniale, a differenza di costoro), interessa soltanto il ‘po­
liteismo dei valori’, contro l’idea di ragione universale, in
modo da lasciare soltanto al mercato la funzione di medium
universale dell’umanità. Invece, la riaffermazione previa-
na della natura umana in chiave aristotelica contraddice il
decostruzionismo radicale del soggetto portato avanti con
gioiosa incoscienza (quando non anche con perfida fregola)
dagli intellettuali postmoderni, le cui preferenze rispetto
al mondo antico vanno semmai verso Yepochédegli scettici
(che però in loro si traduce in nichilismo) o Yedoné degli
epicurei (che però in loro si traduce in consumismo); non
a caso scuole filosofiche successive all’età classica della po­
lis, cioè quella del cittadino comunitario, di cui proprio
Aristotele ha assistito al tramonto, con gli esordi dell’età
ellenistica.
Altrettanto deleterio —nota Preve —è il versante non
liberale del postmodernismo, ossia quello ‘radicale’ che fa
capo agli insegnamenti di Foucault, Deleuze, Toni Ne­
gri, tee. Nelle loro filosofie —o per esser più precisi, nella
‘vulgata’ che ne circola negli ambienti della sinistra più o
meno antagonista, fatti di ricercatori universitari dall’a­
ria ‘alternativa’ o militanti dei centri sociali —alberga un
notevole potenziale deflagrante della soggettività, sia sul
piano teoretico che su quello pratico. Si tratta di conce­
zioni letteralmente an-^rróiche, ossia demolitrici di ogni
Introduzione 23

fondamento {arche) della responsabilità sociale dell’uo­


mo, in virtù del libero gioco dell’infinita produttività
del desiderio o dell’esplosione delle differenze; che però,
a dispetto di quanto ne pensino i loro sostenitori, finisce
per assecondare e legittimare di rimbalzo le logiche in­
dividualistiche e di mercato che sulla carta si vorrebbero
contrastare.
Da quanto detto, non risulterà sorprendente il profilo
per molti aspetti ‘conservatore’ di Preve. Beneficamente
conservatore, però. Conservatore dei presìdi essenziali del­
la natura umana e della tenuta del legame sociale, così
come del patrimonio di esperienza e saggezza morale che
deriva dal passato storico, mediato però dal pensiero ra­
zionale (ossia non accettato acriticamente come un dato).
Conservatore perché patriottico e oppositore della logica
dello sradicamento universale che ci vorrebbe tutte pe­
dine in balìa dei flussi impersonali del capitalismo, che
mobilizza costantemente uomini, merci e capitali al solo
fine del profitto, senza alcun riguardo verso le esigenze
più profonde della vita sociale, che hanno bisogno, invece,
di essere coltivate con pazienza e in un quadro di relati­
va stabilità (è così per la famiglia, l’amicizia, l’amore di
coppia, l’onesta cooperazione nel lavoro, la vita pubblica
consapevole e partecipata). Preve, cioè, non è conservatore
nel senso della difesa dei privilegi di classe quale viene
attuata dai detestabili partiti conservatori odierni, che pe­
raltro sono ancora più nichilisti e asserviti al capitalismo
di quanto non siano già quelli progressisti, i quali semmai
sono in compenso più ingenui, ipocriti e fuorviami. Preve
è un conservatore comunista, ossia è un comunista comunitari-
sta. Comunista perché si oppone al capitalismo in direzio­
ne di una società umana guidata dalla razionalità e orien­
tata in senso emancipativo con carattere universalistico;
da raggiungere non astrattamente, però, quanto piuttosto
nella continua mediazione dialettica delle diverse espe­
24 Stefano Sissa

rienze storiche delle comunità locali e delle statualità na­


zionali. Perciò non è per il cosmopolitismo (che in realtà è
un’ideologia di legittimazione delle élite internazionali),
ma è un comunitarista, ossia è per la conservazione dei
legami preventivi del tessuto sociale, per il radicamento,
anche territoriale (che non significa grossolanamente ‘et­
nico’), per i codici di dignità e onore che il mondo della
tradizione custodiva: tutti fattori senza i quali ogni argine
allo tsunami capitalistico diviene impensabile.
In questa ottica, patria, famiglia e religione non appa­
iono più soltanto come feticci di una anacronistica destra
reazionaria oppure come slogan filistei e copertura ideo­
logica, com’è nelle destre affaristiche allineate al sistema.
Patria, famiglia, religione, almeno laddove non vengano
assolutizzate, strumentalizzate, imposte acriticamente,
sono anche il precipitato storico della naturale socialità
umana; sono presìdi a beneficio della continuità dei rap­
porti e di una reciprocità interna, contrapposti all’indivi­
dualismo, all’opportunismo cinico, al nichilismo. Presìdi,
beniteso, che possono certo avere (e tante volte hanno avu­
to) sviluppi negativi, opprimenti, ferocemente discrimi­
natori, ma non sono con ciò da abrogare a priori, proprio
come non si “butta via il bambino con l’acqua sporca”.
Così si spiega anche il giudizio fortemente critico
che Preve dà della cultura scaturita dal Sessantotto. Non
parliamo del ‘68 in quanto tale, poiché in realtà in quel
frangente storico (che è durato ben più di un anno) si in­
trecciarono istanze sociali variegate, complesse e anche
contraddittorie, su cui sarebbe incongruo dare un giudi­
zio assiologico univoco. Parliamo invece di una menta­
lità, di un senso comune che si è sviluppato a partire da
mutamenti sociali e culturali dovuti più all’affermazione
di una moderna società dei consumi che ad una genuina
lotta sociale anticapitalistica, che pure vi fu, in mezzo a
tante altre cose, ma —possiamo ben dire, oggi —fu la li­
Introduzione 25

nea perdente all’interno del movimento di contestazione.


«Vietato vietare», «vogliamo tutto e subito», «l’imma­
ginazione al potere» sono gli slogan più frappanti di quel
periodo. Slogan che fanno pensare più alle spacconerie di
un gruppo di adolescenti viziati, che ad una realistica ca­
pacità di organizzarsi per sfidare quel modello politico ed
economico che a parole si diceva di voler abbattere. Non è
un caso, allora, che la linea vincente all’interno del movi­
mento sia stata quella congeniale alle esigenze dell’ingres­
so del capitalismo nella sua fase assoluta-totalitaria. Tale
fase necessitava il superamento della vetusta morale bor­
ghese (funzionale all’accumulazione, ma poco al consumo)
e l’estrema fluidificazione dei rapporti sociali, in direzione
di un individualismo edonista, negatore di ogni autorità
e di ogni valore della trasmissione culturale e normativa
per via di tradizione.
Tale screditamento di autorità non cancella con ciò
stesso il potere, ma provvede a sgretolare tutte quelle con­
figurazioni in cui l’esercizio del potere doveva accompa­
gnarsi anche ad un certo senso di autorevolezza e respon­
sabilità collettiva: dallo stato repubblicano alla famiglia,
alla scuola, all’apprendistato nel lavoro, ecc. L’eclisse del
Super-Io che caratterizza il libertarismo di derivazione ses­
santottesca, anziché condurre l’uomo ad una maggiore re­
alizzazione della sua esistenza, come si è voluto credere,
lo ha invece consegnato mani e piedi all’azione coattiva
dei meccanismi sistemici e dei persuasori occulti, cui non
riesce più ad opporre la minima resistenza, una volta che
si manchi di padroneggiamento, serietà, disciplina. L’e­
saltazione incondizionata del principio di piacere in tutte
le fasi della socializzazione (dall’educazione del bambino,
alla scoperta del sesso nell’adolescenza, al consumismo va­
canziero e da centro commerciale del lavoratore adulto)
comporta, poi, lo sviluppo di personalità narcisistiche, tanto
più pretenziose e desiderose di incessante gratificazione
26 Stefano Sissa

quanto, in realtà, intimamente fragili e insicure, come ha


ben evidenziato Lasch nel suo ha cultura del narcisismo. Si
tratta in realtà di personalità perfette per fungere da mas­
sa di manovra di quel meccanismo di mercificazione di
ogni rapporto sociale che è il capitalismo.
Se si è ben capito il senso delle righe precedenti, non
dovrebbe sbalordire che Preve eserciti oggi una critica
particolarmente accanita nei confronti della odierna cul­
tura di sinistra. Molti invece se ne stupiscono, qualifican­
dolo sbrigativamente come un ex filosofo di sinistra ormai
pentito e passato alla destra, alla stregua di un Armando
Plebe. Ciò anche in virtù del fatto che alcuni suoi libri,
anche importanti, sono stati pubblicati da case editrici ap­
partenenti all’area della destra radicale. Non si entrerà qui
nella questione dell’attualità e validità o meno delle cate­
gorie di destra e sinistra, così come delle differenti valenze
che hanno in ambito politico piuttosto che culturale4. È
bene però precisare che Preve è stato per decenni un filoso­
fo non ‘di sinistra’, ma marxista, per approdare poi —come
si è detto —ad una sintesi originale tra pensiero greco clas­
sico, idealismo e marxismo (conservato soprattutto nella
sua deduzione sociale delle categorie filosofiche). Il marxismo,
così come il comuniSmo, non coincide con la cultura di
sinistra (che è tipica della borghesia progressista), anche
se storicamente ci sono state sovrapposizioni e convergen­
ze a livello sia di dottrina politica che di blocchi sociali
impegnati nella contesa politica. Queste sovrapposizioni

note
4 Mi permetto soltanto di rinviare, però, a due miei scritti: l’artico­
lo La 'destra' come categorìa antropologico-culturale. Per la preistoria di un
concetto politico, in «Scienza & Politica», n. 42, 2010, e poi Pensare la
politica controcorrente, e-book, Arianna Editrice, Bologna, 2010: un mio
studio su Alain de Benoist (un autore su cui anche Preve ha pubblicato
un 'confronto filosofico-politico’), interpretato alla luce delle categorie
concettuali della ‘destra antropologica’.
Introduzione 27

e convergenze non sono ormai più attuali nella situazione


presente. Infatti oggi la cultura di sinistra, ridotta quasi
esclusivamente a forme più moderate o più radicali del
politìcally correct, non è altro che l’altra faccia della meda­
glia (quella più ‘presentabile’) della dominante ‘destra del
denaro’ (quella incardinata sul tipo umano rappresentato
in modo esemplare da un film come Wall Street). La prima
è quella che riveste di un multicolore manto di moralità la
plumbea assenza di scrupoli della seconda, svolgendo così
propriamente una funzione ideologica. Lo si vede in tanti
frangenti: dalle guerre imperialistiche che diventano ‘in­
terventi umanitari’ per abbattere le ‘dittature sanguinarie’
(ossia quei regimi che —pur con tutti i difetti e limiti di
questo mondo —comunque si oppongono al Nuovo Ordine
Mondiale), alla celebrazione di una open society senza fron­
tiere, per cui le masse popolari, sia occidentali che non,
dovrebbero aspirare a vivere in condizioni di perenne mo­
bilizzazione come segno supremo di libertà individuale;
il che in realtà favorisce i processi di dislocazione capi­
talistica e accumula perennemente ‘eserciti industriali di
riserva’ per ricattare i lavoratori già impiegati e spingerli
ad accettare condizioni sempre più gravose e precarie.
In conclusione, affinché nessuno possa muoverci accu­
se di reticenza, provo anche a rispondere all’obiezione del
“cui prodest?". C’è chi dice infatti: “se certe case editrici
della destra radicale hanno pubblicato testi di Preve, vor­
rà pur dire che ne ricavano una qualche utilità”. Va fat­
ta innanzitutto una premessa: il panorama dei profughi
della destra estrema dei decenni scorsi è tanto composito
e contraddittorio al suo interno quanto lo è quello dell’e­
strema sinistra. Come in questa si posson trovare stalini­
sti, trotskisti, anarchici, autonomi operaisti oppure del
cognitariato globale, terzomondisti, pacifisti, animalisti,
militantismo femminista o gay, generici no global, in-
surrezionalisti black bloc, ecc.; così pure in quella si può
28 Stefano Sissa

trovare di tutto: dai nostalgici del Ventennio ai naziskin,


ma anche i convertiti al liberalismo e all’americanismo,
i cultori dell’arcaico e i futuristi, i sovranisti statalisti e i
federalisti sostenitori delle comunità locali, i neopagani
e i cattolici tradizionalisti, gli individualisti nietzschiani
e i nazi-maoisti, gli autoritari e libertari, gli ecologisti
concentrati sui minuti equilibri dei luoghi specifici e gli
industrialisti orientati ai grandi spazi della geopolitica.
Questo solo per precisare che quando si parla di destra ra­
dicale si dovrebbe dire a quale famiglia si fa riferimento,
sapendo che poi case editrici o testate possono nel tempo
mutare indirizzo o avere nella stessa redazione anche ten­
denze differenti. Detto questo, è chiaro che all’interno
di quel bacino sussistono ancora oggi aree caratterizzate
da preoccupanti pulsioni xenofobe, da revanscismi pa­
ranoici, da biechi autoritarismi e intolleranza, da infa­
mi logiche da “capro espiatorio”. Tuttavia occorrerebbe
che tutti quello che vengono da sinistra evitassero a loro
volta di ragionare ‘fascisticamente’, pensando che esista­
no categorie di persone ‘ontologicamente’ diverse e per
loro stessa ‘essenza’ condannate ad una perenne incom­
patibilità col tessuto ‘sano’ della società. Questi vigilantes
dell’antifascismo (cui un po’ di buona psicoanalisi rivele­
rebbe a loro stessi con quale facilità proiettino su altri an­
che le proprie inconsce pulsioni ‘fasciste’) ritengono che
esista un LV-fascismo, un fascismo perenne, un nucleo di
‘sostanza’ irrimediabilmente orrida e incorreggibile che
può solo tentare travestimenti tattici, mantenendo inal­
terato il suo recondito piano diabolico di annientamento
di tutto ciò che è umano. Esistono certamente persone o
gruppi dagli obiettivi torvi che si mimetizzano con temi
e gerghi cari alla sinistra al fine esclusivo di farsi sdoga­
nare, per poi egemonizzare dall’interno alcuni ambienti
antagonistici collocati dalla parte opposta dei tradizio­
nali schieramenti. È altrettanto vero, tuttavia, che ve ne
Introduzione 29

sono altri che hanno attraversato un sincero travaglio


intellettuale ed esistenziale, per giungere alla fine della
loro elaborazione a posizioni che possono risultare a cia­
scuno più o meno condivisibili, ma che sono comunque
degne di attenzione, rispetto e interlocuzione, e che non
escludono ampie convergenze strategiche: uno su tutti è
Alain de Benoist, con cui Preve ha stabilito un dialogo ed
un’amicizia personale5. Cosi come un’amicizia personale
e una convergenza si è stabilita anche con Luigi Tedeschi,
che è colui che ha realizzato questo libro-intervista e che
ha spesso ospitato interventi di Preve sulla rivista da lui
diretta: Italicum, riconducibile all’area del cosiddetto so­
cialismo tiazionale, ma pensato nell’ampia prospettiva dei
rapporti geopolitici internazionali. Anche Tedeschi ha
militato da giovane nella destra radicale. Scelta che fu
—ci dice —prima che politica, di carattere esistenziale:
“una forma di ribellione ad uno stato di omologazione
culturale, di vuoto morale, disgusto per l’adeguamento
di massa al pensiero dominante”. Non la nostalgia del
ventennio ha motivato la sua giovanile scelta di campo
dunque, ma forse l’orgoglio un po’ maudit del proscrit­
to (per dirla col titolo di un noto romanzo di von Salo­
mon), di chi preferisce combattere sul fronte dei perdenti
e presidiare, con un gruppo sparuto, l ’ultima ‘trincea’.
Quella che non fu difesa, certamente, dal postfascismo
istituzionale, presto convertitosi al collaborazionismo
filoamericano e a un perbenismo di facciata, funziona­
le soltanto alla conservazione dei rapporti di potere da
parte dei gruppi dominanti. Motivo per cui Tedeschi, e
altri della sua generazione, operarono lo strappo dal MSI
e animarono l’esperienza della cosiddetta Nuova destra,

note
5 Vedi C. PREVE, I l paradosso D e Benoist, Edizioni Settim o Sigillo,
Rom a, 2006.
30 Stefano Sissa

che però non trovò un adeguato corrispettivo politico ri­


spetto all’elaborazione culturale, che comunque tentò il
rinnovamento.
Ecco cosa scandalizza quei marxisti che rifiutano Pre­
ve: il fatto di interloquire anche con alcune figure intel­
lettuali che provengono da queste esperienze. Ma quello
che questi marxisti non capiscono è che non tutti costoro
son rimasti a crogiolarsi nel loro risentimento da per­
denti, come già fu nelle ultime drammatiche esperien­
ze della Repubblica di Salò, in cui la percezione della
sconfitta imminente e la sensazione di essere stati traditi
li condusse a un nichilismo in virtù del quale ogni rap­
presaglia —anche la più atroce —era concessa. C’è anche
chi elaborato retrospettivamente quel senso di sconfitta e
anziché inalberarsi sul proprio ‘cuore nero’, ha innescato
una dialettica produttiva. Uso il termine ‘dialettica’ in
senso propriamente filosofico perché —come dice lo stes­
so Tedeschi - la filosofia dialettica ci insegna che ogni
pensiero contiene in sé la sua opposizione e se i cosid­
detti ‘opposti estremismi’ si sono scontrati anche nelle
piazze in un altro periodo della nostra storia, ora che essi
vengono dal ‘pensiero unico’ additati tout court come ide­
ologie assassine, può accadere che si superi l’unilateralità
delle loro radici e si trovino nuove, più misurate, con­
vergenze. Fu infatti in occasione di una manifestazione
svoltasi a Roma a seguito degli eventi dell' 11 settembre,
organizzata congiuntamente da gruppi radicali di oppo­
sta matrice politica, che Tedeschi ha conosciuto Costanzo
Preve e ha intrecciato con lui un confronto culturale che
è ancora in corso. Parliamo dunque di un vero confron­
to dialettico, in cui le proprie posizioni si arricchiscono
realmente dei contributi dell’altro. Il che non è la stessa
cosa di nutrire un mero interesse ad utilizzare strumen­
talmente le idee di Preve. Per gli intellettuali tradizio­
nalmente ascrivibili all’orizzonte della destra radicale,
Introduzione 31

infatti, Preve può risultare appetibile per svariati motivi:


come proveniente dalle fila del marxismo che però critica
la cultura di sinistra, per la sua ripresa di alcuni valori
‘conservatori’, in virtù del suo antiamericanismo, ecc. Ma
probabilmente ciò che interessa più di ogni altra cosa è
che la proposta di Preve comporta un cospicuo riposi­
zionamento della tradizione filosofica e politica europea
rispetto ai suoi principali affluenti storico-culturali. Se
molti considerano la tradizione di pensiero occidentale
come il frutto dell’incontro/scontro tra due grandi pa­
radigmi, rappresentati dalle immagini emblematiche di
Atene e di Gerusalemme, la proposta di Preve prevede di
ricollocarsi solidamente su Atene, ravvisando un sostan­
ziale fallimento dell’altra matrice. Il che significa alcune
cose di non poco conto: ristabilire il primato della ragio­
ne sulla fede, del Logos sulla Legge, delle virtù civili del­
la polis sull’attesa messianica. È quest’ultimo punto che
interessa alla destra radicale, che concepisce il messiani­
smo come una forma di svalutazione in chiave moralistica
dell’ordine naturale delle cose. In questa ottica, l’attesa mes­
sianica si è secolarizzata, in età moderna, traducendosi
nella presunzione di poter realizzare il Regno dei Giusti
attraverso una continua ‘fuga in avanti’, che —in sequen­
za —ha potuto assumere nella storia i tratti del liberali­
smo, del progressismo, della democrazia, del socialismo,
del comuniSmo, del globalismo cosmopolitico del libero
mercato; tutte concezioni negatrici della tradizione, del­
la gerarchia, del radicamento etnico-territoriale. Da qui
un’ostilità preconcetta verso quella linea di appartenenza
etno-culturale. Orbene, Preve non ha però alcuna ostili­
tà preconcetta; non è giudeofobo. Alcuni dei suoi autori
di riferimento, ad esempio, sono di origine ebraica: da
Spinoza a Marx a Lukàcs. Così come è alieno dalla giude-
ofobia, egli lo è però altrettanto dalla giudeofilia, ossia dal
pregiudizio incondizionatamente favorevole verso tutto
32 Stefano Sissa

ciò che è prodotto della cultura ebraica; posizione tal­


mente diffusa e propagandata oggi negli ambienti intel­
lettuali, giornalistici, diplomatici da sembrare quasi una
patente di ingresso per i circoli più prestigiosi.
Un messianismo, più o meno secolarizzato, ha con­
tribuito ad alimentare quella speranza di una società più
giusta che ha animato il movimento operaio, così come
la dottrina marxista. Non si è però rivelato, sulla lunga
distanza, un fattore vincente per quella lotta; anzi, porta
oggi alle promesse di fantomatiche liberazioni globali da
parte delle moltitudini che - al di là delle intenzioni di chi
formula tali dottrine (Toni Negri, ad esempio) - finiscono
soltanto per essere funzionali alla globalizzazione capita­
listica, che mira a creare una massa omogenea di sradicati
da dislocare e manipolare. Viceversa il messianismo seco­
larizzato ha funzionato molto bene nel sostenere —piut­
tosto - il fronte capitalistico. Un “mito di elezione” di
origine veterotestamentaria caratterizza l’autopercezione
che hanno gli Stati Uniti rispetto al resto del mondo. Se la
cosiddetta dottrina del “destino manifesto” risale all’O t­
tocento, è però sin dalla fondazione delle colonie ameri­
cane da parte dei puritani Padri pellegrini che il Nuovo
Mondo assume il ruolo di nuova Gerusalemme terrena,
non compromessa dal vizio e dal peccato come la Vecchia
Europa. La prosperità economica, nella forma dell’accu­
mulazione capitalistica, non sarebbe allora che il suggello
del patto divino, l’indizio decisivo dell’essere stati pre­
scelti, e come tali essere strumenti del piano di salvez­
za di Dio, che è anche una rivalsa dei Giusti contro gli
“empi”. Tale Weltanschammg caratterizzata da un richiamo
incessante alla “terra promessa”, ha operato nei fatti come
fattore di sradicamento per le altre comunità politiche,
concepite sempre nella forma delia inadeguatezza rispetto
alla perfezione garantita dal patto tra gli Eletti e il Dio
unico, sovrano e vendicatore. Da qui, la convinzione ame-
Introduzione 33

ricana di dover svolgere una missione civilizzatrice mon­


diale, col prezioso supporto di quello stato che nelle sue
stesse Leggi Fondamentali reca i presupposti teologici di
quella ‘elezione’. Stato che, peraltro, si permette il lusso
di praticare apertamente una violenta politica di apartheid
facendo leva sul senso di colpa dell’Europa nei confronti
della Shoah.
È alla luce di tutto questo, che Preve mira a rifonda­
re un’alternativa filosofica e politica a partire da “Atene”;
persino il suo Marx è de-messianizzato, così come l’eredità
di Fiegei che egli raccoglie non è improntata all’idea di un
sistema filosofico riducibile alla secolarizzazione del para­
digma teologico cristiano-protestante (che è la lettura che
ne dà, ad esempio, Karl Lowith). Il retaggio della grecità
classica nella filosofia di Preve è visibile in alcuni snodi
fondamentali: a) il concetto di finitezza, cioè di senso del
limite, contrapposto alla smisurata voracità di ogni ‘cat­
tivo infinito’, tra cui includiamo quello che scaturisce da
un’aspettativa messianica di perfezione che non può mai
essere raggiunta perché frutto di una illimitata proiezione
soggettiva; b) il nesso tra pensiero razionale, realizzazione
personale (vivere bene: eu zen) e virtù civile, il che com­
porta di pensare all’uomo come un essere eminentemente
politico, cioè partecipe della dimensione della polis', c) la
preoccupazione per la fondatezza ontologica, ossia la ri­
cerca di una base consistente, non puramente arbitraria e
contingente, su cui ancorare l’esistenza umana, per scon­
giurare ogni deriva nichilistica (la stessa preoccupazione
che spinse Platone a contrastare la sofistica, in particolare
quella gorgiana): fondatezza ontologica che —tradotta dal
linguaggio dell’ontologia a quello della sociologia - non
può che significare una certa consistenza e permanenza dei
vincoli sociali.
Come dalla cosiddetta Scuola di Francoforte, anche
dal pensiero di Preve scaturisce una teoria critica dell’i-
34 Stefano Sissa

citologìa, a beneficio di tutti quelli che si sentono di non


dover accettare il capitalismo nichilista come un destino
ineluttabile e come 'fine della storia’. Soltanto che a diffe­
renza della critica dell’ideologia elaborata da autori come
Adorno, Horkheimer, Marcuse (cui comunque Preve tri­
buta riconoscimenti, al di là di alcune critiche), che son
pur sempre orientati dal messianismo ebraico, per lui a
fare da stella polare è —come abbiamo più volte detto - la
Grecia classica. Un pensiero informato alla classicità non
significa rifiuto del moderno. Preve, filosofo ‘greco’, ma
anche seguace di Spinoza, Fichte, Hegel, Marx e Lukàcs,
è un pensatore dell’emancipazione e non si oppone al
moderno (come è tipico, invece, dei pensatori reaziona­
ri), ma semmai al modernismo, di cui la successiva deriva
postmoderna, altrettanto osteggiata da Preve, è un esito
inevitabile, una volta poste quelle premesse. Il moder­
nismo è un orizzonte culturale entro cui si concepisce il
soggetto come cominciamento assoluto e mai come frut­
to di un processo storico di mediazione dialettica. E tale
assolutizzazione del soggetto in solitario non può non
sfociare presto o tardi nel nichilismo, poiché quando ci si
concepisce come inizio assoluto, non si può far altro che
pretendere di annientare tutto ciò che non asseconda la
propria volontà di potenza (procedendo a negazioni ‘asso­
lute’ piuttosto che ad negazioni dialettiche); e ciò fino al
punto paradossale di dissolvere la propria stessa soggetti­
vità, che per ‘consistere’ ha invece bisogno di rapportarsi
dialetticamente con l’altro da sé.
L’odierno capitalismo ‘globalitario e il nichilismo di­
vorante sono due facce della stessa medaglia: il secondo
non è che il risvolto soggettivo del primo. La filosofia
di Preve è un tentativo generoso ed energico di contra­
stare entrambi. La sua è una voce piuttosto isolata: la
voce di un filosofo che si è sempre posto controcorrente
e perciò ha pagato un prezzo in termini di relativa so­
Introduzione 35

litudine esistenziale, filosofica e politica. Negli ultimi


anni, tuttavia, si è sviluppato un certo interesse verso le
sue posizioni, soprattutto sulla rete. Credo sia perché le
persone più attente e curiose cominciano a comprendere
che il pensiero di Preve è tra quelli più lucidi e taglienti
per fornire una base di consapevolezza teorica alla ricerca
di alternative a questo sistema mostruoso. Speriamo di
contribuirvi anche con questo libro. Buona lettura.

Stefano Sissa
37

L’Europa può reinventare se stessa?

E u r o p a : u n m it o u n if ic a n t e o o m o l o g a n t e ?

1) Che cos’è l’Europa per l’europeo d i oggi? Qual è l’in­


fluenza dell’Europa nella sua vita reale, nella cultura
mediatica, nelle sue convinzioni politiche? L’Europa
si identifica con la UE, con la sovranità del gover­
no finanziario della BCE, con i ripetuti tagli della
spesa pubblica dovuti al trattato d i Maastricht, con
la perdita del potere d’acquisto dei salari derivata,
dall’avvento dell’euro e con le infinite direttive eu­
ropee che limitano e condizionano la vita economica
e civile dei popoli. l ’Europa si identifica quindi per
gli europei con potere coercitivo della UE di deriva­
zione finanziaria e non democratica, sopportato dai
popoli europei con una sorta d i rassegnazione all’i­
neluttabile, senza un dissenso che abbia alcuna rile­
vanza politica. L’Europa, invece, dal punto di vista
culturale, viene identificata sulla base delle proprie
radici storiche, politiche, spirituali. E quindi il d i­
battito riguardo l’identità dell’Europa si articola su
posizioni estremamente varie e diversificate. Si in­
vocano infatti, a fondamento dell’Europa le radici
cristiane, la cultura classica e la concezione imperia­
le pagana, i d iritti dell’uomo d i derivazione illum i­
nista. Tali identità, considerate singolarmente, sono
in reciproca ed evidente contraddizione. Esse possono
in realtà, rappresentare elementi complementari d i
una sintesi unitaria della cultura europea, non es­
sendo nessuna di esse di per sé sufficiente a costituire
univocamente una identità credibile cui un’Europa
unita possa fa r riferimento. Tuttavia, nella contin­
genza storica attuale, tali identità storico —cultu-
38 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

rati costituiscono tante visioni ideologiche separate


dell’Europa, non essendo tali radici riscontrabili (se
non in esigue minoranze del mondo culturale), nei
valori morali, nella sfera sociale, nella educazione,
nei costumi dì vita dei popoli europei. Ci si chiede
allora se l’Europa possa avere una identità unitaria,
dato che le stesse specificità, dei singoli popoli europei
sono in estinzione. In realtà la UE costituisce una
identità omologante e non unificante. La UE, quale
entità sovrana omologante è d i per sé negatrice di
ogni realtà sia di natura identitaria che ideologica.
La UE esprime una sovranità economica che infor­
ma le istituzioni, la cultura e la non identità dei

popoli, nel plasmare la materia informe della psi­


cologia collettiva delle masse. Allora, in riferimento
alla problematica delle radici europee, ci si chiede
come l’Europa possa rendersi indipendente rivendi­
cando l’identità dei popoli, quando essa stessa non
possiede una propria identità.

Concordo interamente con i tuoi “dubbi iperbolici” su


come oggi si intende costruire l’Europa. A dire la verità, io
sono ancora più “radicale” di te. Nell’attuale congiuntura
storica infatti (e non in uno spazio-tempo astrattamente
razionale, ma per ora inesistente) io sono contro l'Europa,
non la voglio, preferirei il mantenimento di stati —na­
zionali sovrani, collegati evidentemente da facilitazioni
commerciali e culturali e da alleanze militari difensive,
che non impediscano però la piena ed assoluta sovrani­
tà. Se penso questo, è perché oggi, con Yattuale classe po­
litica, con Yattuale classe mediatico - universitaria, con
Yattuale senso di colpa collettivo continuamente innaffia­
to dal peggiore gruppo intellettuale della storia europea
dal tempo degli etruschi (di cui parlerò più avanti) la sola
Europa possibile è quella dell’impero occidentale a guida
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 39

USA. Stando così le cose, io non voglio questa Europa.


Voterei contro in qualunque referendum, e mi spenderei
apertamente per la sua pubblica negazione.
Detto questo, per non lasciare equivoci di sorta, credo
che l’attuale Europa si basi su almeno due “errori meta­
fisici”. Prendo l’espressione del notevole filosofo tedesco
(oggi dimenticato) Georg Simmel, che considerava un
“errore metafisico” il privilegiare i mezzi rispetto ai fini
nell’uso degli strumenti tecnici e nel consumo dei beni,
per cui l’avere prendeva il posto dell’essere (secondo la
corretta formulazione di Erich Fromm), e così la stessa
finalità (il vivere bene, eu zen, secondo Aristotele) era can­
cellata. Il primo errore metafisico è di tipo economico,
ed il secondo di tipo culturale. Li segnalerò brevemente
entrambi, ma è evidente che il tema è di tale importanza
da meritare uno sviluppo maggiore.
Il primo errore metafisico è di tipo economico. Le oli­
garchie hanno infatti pensato che bisognasse “cominciare”
con una unificazione monetaria (l’euro) e commerciale, e
che - per così dire —il resto sarebbe venuto dopo automa­
ticamente (come diceva Napoleone, l’intendence suivra). Ma
i profili nazionali e gli interessi dei popoli non sono affatto
una “fureria” come per le truppe in marcia. Questo econo­
micismo esasperato, ideologia spontanea degli imprendi­
tori e dei loro teologi, gli economisti che mentre fumano la
loro pipa-totem emettono mantra in lingua inglese, lingua
sacra del capitalismo, non corrisponde per nulla alla vita
reale degli individui, delle classi, dei popoli e delle nazio­
ni, ma li stravolge tutti per i suoi scopi. I sistemi scolastici,
cresciuti in circa duecento anni di storia in ogni paese per
corrispondere al suo profilo nazionale, sono stati distrut­
ti per essere “adattati” ai vincoli comunitari. I professori
liceali sono stati degradati a prof e a poco più di anima­
tori sociali assistiti da bande di pedagogisti, psicologi e
sindacalisti invasivi (il titolo intero di “professore” è stato
40 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

riservato ai soli professori universitari, il nuovo sacerdozio


cosmopolitico globalizzato), e la stessa università è stata
distrutta con corsi triennali ridotti ad esamifici per il futu­
ro lavoro flessibile e precario. La spaventosa crisi derivata
dall’introduzione dell’euro ha comportato di fatto (le sta­
tistiche lo testimoniano) l’erosione di trenta anni di con­
quiste del lavoro salariato europeo organizzato. Il dominio
militare Usa non è stato minimamente diminuito, ma anzi
si aumentano e si ampliano le basi. In definitiva, l’errore
metafisico consiste in ciò, che si vorrebbe che gli europei
amassero l’Europa quando la stessa Europa si è manifesta­
ta di fatto con un peggioramento delle loro condizioni di
vita, l’apertura di un epoca di aspettative decrescenti per
la classe media, la precarizzazione e la flessibilizzazione del
lavoro dipendente, la degradazione del sistema scolastico e
universitario, l’aumento del controllo del dominio militare
USA, ecc. E il caso di dire: no, grazie!
Il secondo errore metafisico è di tipo culturale. Si è
infatti sviluppato una sorta di “gioco al massacro”, o gioco
delle cancellazioni reciproche, per cui la casta analfabe­
ta e settaria degli intellettuali europei è stata chiamata a
“cancellare” le tradizioni culturali che erano odiose a cia­
scuna scuola. È come se nel mondo antico i platonici, gli
aristotelici, gli epicurei e gli stoici fossero stati chiamati
a “cancellare” ciò che non piaceva a ciascuno, per cui alla
fine l’identità culturale del mondo antico sarebbe risultata
o da cancellazioni, o da veti reciproci, o da una sorta di
eclettismo concordato per cui erano messi tutti per quieto
vivere e per “politicamente corretto”, senza che però nes­
suno ci credesse veramente. E così abbiamo assistito al de­
menziale scontro tra fautori “religiosi” dell’identità detta
ebraico —cristiana e fautori “laici” della eredità detta ra­
zionalistica, illuministica e dei cosi detti “diritti umani
di libertà”. In proposito svolgerò due sommari ordini di
ragionamento.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 41

In primo luogo, non capisco che cosa voglia dire eredi­


tà ebraico-cristiana, a meno che si intenda il fatto che nel­
la Bibbia ce sia l’Antico che i Nuovo testamento. L’iden­
tità ebraico-cristiana naturalmente non esiste, non è mai
esistita come fatto unitario, e non esisterà mai, ed il fatto
che questo improbabile concetto sia stato coniato deve es­
sere fatto risalire esclusivamente al complesso di colpa per
il cosi detto “olocausto”. L’Europa ha una tradizione pri­
mariamente cristiana (senza dimenticare mai un fatto che
nel paese di Padre Pio è costantemente dimenticato, e cioè
che i cristianesimi sono tre, e cioè cattolicesimo, prote­
stantesimo ed ortodossia, e sono tutti e tre sul medesimo
piano), e solo secondariamente ebraica e musulmana. Se ci
si riferisce al monoteismo normativo e prescrittivo, allo­
ra non c’è nessun profilo binario ebraico —cristiano, ma
c’è un profilo ternario cristiano-ebraico-musulmano. Dire
ebraico-cristiano oggi significa soltanto escludere l’Islam.
Dica pure qualcuno che gli ebrei sono i nostri “fratelli
maggiori”. Per quanto mi riguarda, i miei fratelli mag­
giori sono i greci, i miei cugini primi sono i cristiani, e tra
i miei cugini secondi ho anche sia musulmani che ebrei.
Nessuno mi costringerà mai a belare accettando ciò che il
politicamente corretto mi appiccica al bavero della giacca.
In secondo luogo, non c’è alcun dubbio che il raziona­
lismo moderno abbia prodotto le due teorie convergenti
e complementari del diritto naturale (giusnaturalismo) e
del contratto sociale (contrattualismo). E tuttavia il fat­
to che da queste due componenti (e segnatamente dalla
prima) sia derivata l’attuale teologia interventistica dei
cosiddetti “diritti umani” (ad apertura alare asimmetrica
e con bombardamento interventistico differenziato) non
elimina un fatto grosso come la catena delle alpi. E questo
fatto sta in ciò, che all’interno di questo stesso pensiero europeo
la fondazione giusnaturalistica dei diritti umani è stata
criticata “in tempo reale” prima da Hegel (e dai successi-
42 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

vi differenziati hegelismi di destra e di sinistra) e poi da


Marx (tenendo conto che il pensiero marxiano originario
deve essere tenuto ben distinto dalle formazioni ideolo­
giche marxiste posteriori, tipo quella egemone di Stalin).
Ora, so perfettamente che in questa provvisoria congiun­
tura storica Hegel e Marx sono stati cancellati come cani
morti e consegnati ad irrilevanti gruppi di hegelologi e
di marxologi accademici, ma ripeto che questo è dovuto
soltanto ad una provvisoria congiuntura storica. E molto
probabile che tra cinquant’anni le cose andranno diversa-
mente, e sarà finita l’epoca della fine della storia (Fukuya­
ma), del disincanto verso le grancli-narrazioni (Lyotard) e
del cosiddetto (e ridicolo) “patriottismo della Costituzio­
ne” (Habermas, Napolitano, ecc.).
Per il momento, parafrasando i giudici “golpisti” di
Mani Pulite, possiamo ispirarci ad un solo motto: resi­
stere, resistere, resistere. Nessuna adesione a profili ine­
sistenti come quelli chiamati “ebraico-cristiano” o “dei
diritti umani”.

U n a id e n t i t à e u r o p e a d iv e n u t a s e n so d i c o lpa
COLLETTIVO

2) Costatiamo come l’identità dell’Europa oggi sia una


problematica rimossa dalla coscienza dei popoli, in
quanto evocatoria di un fondamentale senso di col­
pa collettivo d i cui l’Europa è vittim a. L’Europa è
quindi la patria delle colpe originarie. La sua cul­
tura è vista come la sintesi generatrice dei peggiori
crimini contro l’umanità, quali l’olocausto e il co­
lonialismo. Il suo peccato originale sarebbe dunque
geneticamente connaturato alle sue radici culturali.
L’eurocentrismo viene identificato sia col dominio co­
loniale che con la concezione razziale del nazismo. A l
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 43

di là del giudizio storico sid colonialismo (epoca tra­


montata da almeno 50 anni), l’Europa ha lasciato
in Africa, Sudamerica ed in minor misura in Asia,
una impronta culturale che oggi è parte integrante
della identità di molti popoli oggi indipendenti. Tale
patrimonio culturale comune può costituire oggi una
fonte di dialogo e di confronto in funzione antimpe­
rialista nei confronti del dominio globale america­
no. Ma come può l’Europa svolgere un ruolo d i mo­
tore politico - culturale per la liberazione dei popoli
se è essa stessa ad identificare la propria cultura con
il suo senso di colpa irredimibile che comporta la ri­
mozione dalle coscienze degli europei del proprio pa­
trimonio identitario? Occorre inoltre aggiungere che
l’Europa intera (e non solo l’Italia e la Germania),
è stata condannata dal tribunale della storia dei di­
ritti umani istituito dalla superpotenza americana,
che, alla luce del proprio primato morale —armato,
da Norimberga a Baghdad ha emanato solo senten­
ze di morte d i ispiraziotie biblica. Il senso di colpa
europeo è esplicativo d i una subalternità morale e
politica dell’Europa, che accetta supinamente la con­
dizione d i protettorato continentale americano.

Tu cogli il punto essenziale della questione, quando


affermi che senza rimuovere il senso di colpa collettivo di
cui l’Europa è vittima ogni ulteriore discussione diventa
superflua, inutile ed impossibile. Sono d’accordo -se posso
dirlo- al cento per uno per cento. Ma, appunto, qui co­
mincia la discussione.
In primo luogo, l’Europa è vittima, ma è vittima con­
senziente. Essa è come il masochista che si piega alle fru­
state gemendo di piacere. Vedremo poi i diversi ruoli del­
le quattro fonti principali di masochismo, il colonialismo,
il fascismo, il comuniSmo, ed infine l’olocausto ebraico. A
44 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

mio parere, di fatto solo il quarto conta, e gli altri tre re­
stano del tutto accessori e complementari. Finché il maso­
chismo dell’Europa non verrà curato in modo radicale, le
basi USA espiatorio-punitrici continueranno ad occupare
militarmente l’Europa.
In secondo luogo (andrebbe da sé, ma è meglio chia­
rirlo per evitare pittoreschi equivoci diffamatori) quanto
dico non significa per nulla che il genocidio ebraico non
sia mai avvenuto, e che -se avvenuto- non debba essere ra­
dicalmente respinto, deplorato, condannato e ovviamente
“ricordato”. Io sono per la totale libertà di parola e di
espressione pubblica per i cosiddetti “revisionisti” ed i
cosiddetti “negazionisti”, non posso entrare nel merito
del gioco dei numeri delle vittime accettate o supposte
(non sono infatti mai entrato in vita mia in un archivio
storico —sono totus philosopbus), ma parto dal dato storico
per cui Hitler intendeva realmente sterminare il popo­
lo ebraico in quanto popolo, per un insieme di ragioni
razziali (preservare la purezza del sangue tedesco) e di
ragioni storico-complottivo-paranoiche (il complotto
ebraico compiuto in alleanza informale fra capitalisti fi­
nanziari e commissari politici bolscevichi). Per quanto
mi riguarda, il genocidio ebraico è veramente esistito (così
come quello armeno, che non è per nulla meno odioso e
più “giustificato” del precedente). Detto questo, è evi­
dente che esso merita che ne venga coltivata la memoria.
Altra cosa, invece, è il culto religioso della memoria. La
memoria è coltivata soprattutto nell’ambito privato fa­
migliare e nello spazio pubblico scolastico, ed ha come
fine principale l’impedire il più possibile che fatti con­
simili possano essere in futuro legittimati e ripetuti. Il
culto della memoria non ha questo scopo preventivo ed
educativo, ma esercita una funzione di legittimazione di
eternizzazione di un senso di colpa collettivo e generazio­
nale permanente.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 45

In terzo luogo, bisogna dire che la cosiddetta respon­


sabilità collettiva e intergenerazionale, spostata nel cam­
po della politica, è una superstizione assiro-babilonese
irrazionale, da respingere come si respinge uno scorpione
velenoso. Responsabili sono coloro che hanno compiuto i
crimini. I giovani tedeschi non sono affatto responsabili
per Hitler e per Auschwitz. I giovani russi non sono affatto
responsabili per le fucilazioni di migliaia di ufficiali polac­
chi nelle fosse di Katyn. I giovani italiani non sono affat­
to responsabili per il colonialismo italiano in Libia ed in
Etiòpia. I giovani americani non sono affatto responsabili
per le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I giovani
mongoli non sono affatto responsabili per il massacro di
ottocentomila persone (800.000) a Bagdad. Ed i giovani
israeliani, ovviamente, non sono affatto responsabili per le
atrocità del sionismo. Se cominceranno ad esserlo, lo saran­
no quando cominceranno a massacrare i palestinesi.
Hai dunque totalmente ragione quando te la prendi
con la sindrome di colpa, e quando capisci perfettamente
che non si tratta per nulla di un giusto risarcimento mo­
rale, ma di un rito espiatorio di tipo religioso, tendente
a creare un senso di colpa (d’altronde, le stesse analisi di
René Girard sulla religione finiscono con il dire cose si­
mili). A questo punto, però, è bene differenziare i fattori
da te segnalati.
Per quanto riguarda il colonialismo, sono d’accordo in
linea di massima con il tuo rifiuto della colpevolizzazio-
ne eterna. Devo però far notare che il colonialismo meri­
ta però una autocritica particolare, non tanto e non solo
per ciò che è avvenuto in passato ed è ormai consegnato
alla storia, quanto perchè oggi l’adesione all’imperialismo
USA si nutre ideologicamente anche di una rilegittima­
zione del vecchio colonialismo. Ed infatti il punto sta qui,
e solo qui. Io non voglio stucchevoli cerimonie del “chie­
dere perdono”, perchè esse sono anzi funzionali al mante-
46 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

nimento del senso di colpa. Vorrei però che l’autocritica


ai presupposti anche razziali del colonialismo servisse da
premessa all’estensione di questa critica anche all 'odierna
legittimazione dell’interventismo imperialistico attuale.
Per quanto riguarda il nesso fascismo-comunismo, è
inutile negare che io sia a tutti gli effetti un allievo criti­
co di Marx, e che quindi possa essere connotato come un
“marxista critico non-pentito”. Ed infatti io sono proprio
questo: un marxista critico non-pentito, e quindi un “co­
munista” nel senso di Karl Marx. E tuttavia, non ho nulla
in contrario a che venga istituito un paragone critico fra
fascismo e comuniSmo, come fa il mio amico de Benoist.
Non ha infatti senso ripetere che le intenzioni del comu­
niSmo erano universalistiche, mentre quelle del fascismo
erano razzistiche e particolaristiche. Alle vittime dei lager
e dei gulag non importa infatti nulla che nel primo caso
le pallottole che gli vengono sparate in testa siano “par­
ticolaristiche” e nel secondo caso “universalistiche”. Piut­
tosto, considero masochista il limitarsi a condannare il
fascismo ed il comuniSmo ritenuti entrambi “totalitari”,
con ridicolo effetto di legittimare indirettamente il “ter­
zo assente”, e cioè il liberalismo capitalistico. E questa la
radice del successo di quella dotata professoressa di scuo­
la media chiamata Hannah Arendt, eretta a sacerdotessa
della critica al totalitarismo, laddove il suo primo marito
Giinther Anders, dotato intellettualmente cento volte più
di lei, resta del tutto sconosciuto.
E tuttavia, l'unico vero fattore di colpevolizzazione
europea è la religione dell’olocausto. Che si tratti di una
religione è perfettamente chiaro a molti ebrei critici (Jo­
seph Finkelstein, Israel Shamir, Ghilacl Atzmon, eccete­
ra). Per usare il linguaggio teologico di una sacerdotessa
italiana dell’olocausto (cfr. ElenaLowenthal, “La Stampa",
19/01/08) “la shoah sfugge drasticamente ad ogni fenome­
nologia della storia, divina e umana”. Se le parole hanno
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 47

ancora un senso, significa che il genocidio ebraico (che -ri­


peto a scanso di equivoci protervi- c’è veramente stato)
non può essere paragonato a nulla di quanto è successo
nella storia. Ma queste sono sciocchezze inaccettabili, del
tutto inutili peraltro per la stessa causa giusta del ricordo
delle vittime innocenti di Auschwitz. Tutti gli eventi sto­
rici, essendo per l’appunto “storici”, sono paragonabili ad
altri eventi storici. Solo gli eventi religiosi, appunto per­
chè religiosi, sono imparagonabili: la crocifissione di Gesù
e la sua resurrezione, i comandamenti dati da Dio a Mosè,
le visioni di Budda, le rivelazioni a Maometto, eccetera.
La religione dell’olocausto è il principale fattore di
“eternizzazione” del senso di colpa dell’Europa. Per capir­
lo basterebbero due ore di pacata conversazione razionale.
Ma queste due ore sono impossibili per una coercizione so­
ciale esterna. Chi infatti le proponesse verrebbe diffamato
come “antisemita” - pur ovviamente non essendolo per
nulla- e ben pochi hanno il coraggio di sopportare le con­
seguenze sociali di questa diffamazione. Nessuna carriera
politica o universitaria diverrebbe possibile. Situazione a
tutti gli effetti superstizioso-medioevale, per fortuna sen­
za roghi. Ed è già, effettivamente, un “progresso”.

L’E u r o p a è u n a p a t r ia u n iv e r sa l e

3) Il problema della identità europea è indissolubil­


mente legato a quello della sua indipendenza. La
sovranità europea non è in alcun modo concepibi­
le alla stregua dell’indipendenza nazionale di un
popolo, perché l’Europa non è una nazione, ma un
insieme assai diversificato di stati. L’Europa è una
entità geopolitica troppo grande per essere conside­
rata un’unica nazione e, nello stesso tempo, troppo
piccola per essere autosufficiente rispetto alla potenza
48 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

globale degli USA e delle stesse potenze emergenti,


quali la Cina, La Russia e l’India. Ueurocentrismo,
oltre che un retaggio del passato, è oggi un lusso che
l’Europa non può permettersi. L’Europa è portatri­
ce d i un patrimonio culturale che va dalla cultura
classica all’idealismo ottolnovecentesco di carattere
universalistico, aperto al contributo d i tu tti i popoli
extraeuropei che possono potenzialmente essere par­
tecipi dei valori universali originari dell’Europa.
L’Europa dunque può essere in quanto universali­
sta, altrim enti non è. L’Europa è allora estranea alla
problematica schematica sia dello stato nazione che

del cosmopolitismo globale senza radici, in quanto il


suo universalismo deriva dalla coscienza di sé stessa,
così come, in parallelo, dal riconoscimento delle altre
identità diverse da essa. L’Europa è quindi oggi in
aperta contraddizione dialettica sia con sé stessa (che
non riesce ad essere una sintesi delle diverse specifi­
cità dei propri popoli), che con gli altri (che non rico­
nosce sulla base d i una propria identità, ma in fu n ­
zione dell’ideologia cosmopolita dei d iritti dell’uomo,
che nega ogni radice originaria dei popoli).

Se ti ho capito bene, e non ti ho frainteso, tu sei con­


temporaneamente contro lo stato-nazione, che consideri
ormai sorpassato o troppo debole per contrapporsi allo
strapotere economico e militare USA, e contro il “cosmo­
politismo globale senza radici”, di cui tu individui cor­
rettamente la forma dominante presente nell’ “ideologia
cosmopolita dei diritti dell’uomo, che nega ogni radice
originaria dei popoli” e, (aggiungo io) scioglie ogni popo­
lo, ogni nazione ed ogni stato in un insieme di individui
sradicati, deterritorializzati ed assolutizzati in quella che
il filosofo Lukàcs avrebbe definito “insieme di onnipoten­
za astratta e di concreta impotenza”.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 49

Sono d’accordo sul fatto che “l’eurocentrismo, oltre che


un retaggio del passato, è oggi un lusso che l’Europa non
può permettersi”. Non sono però d’accordo —e penso sia
bene dirlo francamente - a mettere sullo stesso piano lo
stato-nazione e il cosmopolitismo sradicato dei diritti uma­
ni. Posso concederti che siano entrambi due mali. Ma il
fatto che siano entrambi due mali resta del tutto astratto.
Una slogatura ed una cardiopatia sono entrambe due mali,
ma quale dei due è il maggiore? Nello stesso modo credo
si debba dire apertamente che, fra i due mali, i difetti dello
stato-nazione sono meno gravi dei difetti del cosmopoliti­
smo (interventista) dei diritti umani. I diritti umani sono il
male maggiore, lo stato-nazione è il male minore. Ritengo
che la questione debba essere impostata così, perchè in caso
contrario ci condanneremo per sempre ad un pendolarismo
impotente del tipo di “nè...nè”, moralmente gratificante,
ma che non ci porterà da nessuna parte. Permettimi allora
di impostare diversamente la questione, proprio sulla base
non del “nè...nè”, ma del “male maggiore...male minore”.
L’ideologia dei diritti umani è in questo momento sto­
rico il male maggiore del panorama ideologico internazio­
nale (dico “ideologico”, non certo filosofico o religioso). In
questo momento, essa è una semplice teologia del diritto
all’interventismo imperialistico, e come teologia norma­
tiva viene insegnata ai giovani studenti dei dipartimenti
universitari di studi internazionali, perennemente eccitati
all’idea di essere l’equivalente laicizzato professionale dei
vecchi missionari (Kosovo, Irak, Birmania, Sudan, eccete­
ra). Mi spiace dover dire una cosa simile, perchè mentre
molti filosofi appartengono a correnti apertamente relati­
vistiche (Richard Rorty, Gianni Vattimo, lo stesso Alain
de Benoist), io sono invece un vecchio e tenace universa­
lista, della stessa scuola universalistica di Spinoza, Hegel
e Marx. Inoltre, ho sempre condiviso la tesi di fondo del
filosofo tedesco Ernst Bloch, per cui il diritto naturale è
50 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

un alleato della dignità dell’uomo. Ma tutto questo non


mi impedisce di capire la natura interventistica dell’ideo­
logia dei diritti umani.
Dal momento che l’impero americano ha un fondamen­
to messianico-religioso, e non certamente giusnaturalistico-
razionalistico, esso non ha alcun vero interesse per i diritti
umani, che sono pur sempre un terreno di dibattito filo­
sofico razionalistico. Ma esso usa strumentalmente questa
ideologia, perchè sa bene che essa è il terreno ideale di in­
contro con la parte più stupida degli intellettuali europei (e
cioè la parte che va dal novanta al novantacinque per cento
del totale). Questa intellettualità esce da una delusione nei
confronti del proprio precedente universalismo, rivoluzio­
nario-comunista o anche moderato-socialista, ed è quindi
pronta a sublimare le sue precedenti illusioni con un mu­
tamento di funzione del proprio passato universalismo, che
passa così dalla trasformazione sociale al desiderio di punire
i dittatori, non importa se glabri, baffuti o barbuti. E anche
in questo modo che l’universo simbolico degli USA tiene al
guinzaglio tutta questa gente disorientata, confusa e fallita.
Bombardare lo Zimbawe! Bombardare il Myanmar! Bom­
bardare il Sudan! Bombardare l’Iran! E se non si può bom­
bardare, almeno embargo, embargo, embargo!
È evidente allora che lo stato-nazione è il male m i­
nore, di fronte a questa adunata di invasati “umanitari”!
Non ha forse fatto una cosa meravigliosa il generale De
Gaulle, cacciando le basi americane e restaurando il sa­
crosanto stato-nazionale francese? Non deve forse essere
ammirato il grande Fidel Castro, nel difendere lo stato­
nazionale cubano? Non sarebbe meraviglioso se un vero
stato nazionale italiano restaurasse la sovranità politica e
militare, congedando tutte le basi USA e Nato presenti
nel paese, in modo che in Italia (che nessuno altro stato
nazionale vicino minaccia!) ci siano soltanto militari ar­
mati del nostro paese?
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 51

Con questo, voglio assicurarti di essere personalmente


consapevole che i piccoli stati nazionali non sono suffi­
cienti per resistere e muoversi sullo scacchiere geografi­
co globalizzato. Mi è completamente noto. E nello stesso
tempo, l’Europa di oggi è quella dei Solana e dei D’Ale-
ma. Pensiamo veramente di fermarli? È molto difficile.
Per questa ragione, insisto che una bella indipendenza
nazionale (tipo Venezuela e Iran, per intenderci) è comun­
que un male minore, e quindi un bene maggiore, rispetto
al peggio. Ed il peggio è oggi l’ideologia interventistica
dei diritti umani.

L’E u r o p a oltre il c a pit a l ism o e le m a c er ie d e l pa ssato

4) L’Europa è giustamente considerata la fonte origi­


naria dei d iritti dell’uomo, della democrazia poli­
tica, dello stato sociale. Valori imprescindibili della
società civile. Tuttavia in Europa, parallelamente
ai d iritti dell’uomo, nacque l’economia capitalista,
il cui sviluppo si estese, attraverso il colonialismo,
a tutto il mondo. Nacque in Europa, e fu esportato
quindi nel mondo, un modello d i sviluppo che si è
affermato a tu tt’oggi come universale, qtiale fonte
di progresso ed evoluzione a livello mondiale. A l p ri­
mato eurocentrico dell’Europa coloniale si è sostitui­
to quello americano, quale potenza imperialista, che
impone con la forza delle armi, oltre all’economia
capitalista, anche la democrazia e i d iritti umani.
Come dunque si può constatare, l’imperialismo eu­
ropeo è stato propedeutico alla globalizzazione. Ci si
chiede allora, come l’Europa, che ha diffuso a livel­
lo mondiale il modello di sviluppo capitalista, possa
oggi rivendicare l’indipendenza dei popoli, costitui­
re un modello di sviluppo alternativo a quello ameri-
52 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

cano, quando è essa stessa ad essere colonizzata da un


capitalismo assoluto macie in USA e dalla cultura
liberal dei d iritti umani, da fenomeni cioè da essa
stessa generati. Ogni problematica riguardo l’indi­
pendenza europea è destinata a restare prigioniera
d i questa contraddizione. E vero che l’Europa f u an­
che la patria del fascismo e del comuniSmo, ma que­
sti sono fenomeni storicamente sconfitti e sono consi­
derati parte integrante del senso di colpa collettivo
europeo cui prim a abbiamo fatto riferimento. Forse
l’Europa, per essere antagonista, deve reinventare se
stessa, creare in se stessa un nuovo libero pensiero
universale, senza il quale non potrà liberarsi delle
macerie del passato e della egemonia politica e cultu­
rale anglosassone. Sono queste le linee fondamentali
di una auspicabile lotta di liberazione europea?

Credo che tu colga il cuore della questione, affermando


che “l’Europa deve reinventare se stessa, creare un nuovo
libero pensiero universale, senza il quale non potrà liberar­
si delle macerie del passato e della egemonia politica e cul­
turale anglosassone”. Dal momento che condivido al cen­
to per cento questo tuo modo di impostare la questione,
ritengo utile problematizzare ulteriormente quanto dici.
In primo luogo, la strategia di legare il carro dei de­
stini europei all’asse anglosassone USA-Inghilterra passa
attraverso il concetto di Occidente, e bisogna avere quindi
il coraggio mediato e razionale di respingerlo.
Se non si respinge totalmente il concetto di Occiden­
te è inutile poi lamentarsi che l’Europa è messa al carro
dell’impero USA, perchè è proprio attraverso il concetto di
Occidente che l’Europa vi viene incatenata, in senso cultu­
rale, politico e soprattutto geopolitico. Questa è la ragione
principale della mia adesione all’eurasiatismo (rivista “Eu-
rasia”, eccetera), che pure ha molte versioni, alcune delle
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 53

quali personalmente non condivido (come ad esempio l’i­


dea russo-mongolica oppure l’idea politica imperiale). Il
concetto di Occidente deve essere respinto senza furberie,
distinguo, specificazioni o mezzi termini. Non ha senso
dire che l’Europa è l’unico “vero” occidente, e gli USA
sono un “falso” occidente. Oggi c’è un solo occidente, ed è
l’unione geopoliticomilitare strategica fra USA ed Europa
sotto il comando militare americano, che decide sovrana-
mente la politica intemazionale facendosi beffe del diritto
ed inscenando disgustosi processi biblici contro i leaders
sconfitti, in primo luogo i benemeriti Milosevic e Saddam
Hussein, fra le oscene urla di consenso del circo mediatico
e dei difensori dei “diritti umani”. Devo dire che su questo
punto trovo molta confusione, in quanto un mucchio di
gente in buona fede, sia a destra che a sinistra, continua
a pensare che l’Europa sia l’unico e vero “occidente”. In
questo modo faremo come i lemming, che vengono portati
ad annegare nel mare dietro il pifferaio di Hamelin.
In secondo luogo (e qui vengo al punto da te evocato)
l’Europa ha nello stesso tempo avviato un processo di mon­
dializzazione, globalizzazione e quindi universalizzazione
geografica del modo di produzione capitalistico con tutti
i suoi derivati (distruzione delle comunità, indebolimento
del potere normativo del monoteismo, distruzione pro­
gressiva della famiglia e della figura del padre in particola­
re, economicizzazione del conflitto, società dei consumi di
massa, individualismo generalizzato ed anomico, eccetera),
ed un processo di proposta culturale universalistica, che
non vedo espresso soltanto nei tre punti da te indicati (di­
ritti dell’uomo, democrazia politica, stato sociale), ma vedo
soprattutto in un profilo di libertà individuale all’infuori
di ogni vincolo comunitario. Si tratta di una vera e propria
unità degli opposti in senso dialettico, perchè la mondia­
lizzazione capitalistica distrugge la libertà, o quanto meno
la riduce a libertà dell’individuo rispetto ad un consumo di
Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

merci di cui abbia però la disponibilità monetaria solvibile.


In ogni caso questo processo storico, iniziato a metà sette­
cento in Europa, è oggi passato integralmente negli USA. Si
dirà che l’avverbio “integralmente” è scorretto ed esage­
rato, perchè pienamente capitalistici sono ormai non solo
l’Europa stessa ed il Giappone, ma anche l’India, la Cina,
il Brasile, eccetera. Eppure vorrei tenere fermo l’avverbio
“integralmente”, in quanto qui non si parla tanto dell’esi­
stenza geografica ed economica di rapporti capitalistici di
produzione in un singolo paese o in un insieme di Paesi
(se così fosse, mi sbaglierei certamente), ma si parla del
fatto che gli USA garantiscono in modo imperiale Xunità
dei rapporti capitalistici nel mondo, e non si spiegherebbe
altrimenti la fittissima rete di basi militari ovunque, che
garantiscono certamente in primo luogo l’abnorme livello
di consumi interni della superpotenza USA, ma assicurano
più in generale l’unità politica e culturale del sistema. Non
si spiegherebbe infatti altrimenti l’incomprensibile fatto
per cui le oligarchie capitalistiche continuano a fornire
basi militari alla superpotenza USA. Il fatto, ad un tempo
scandaloso e ridicolo, che gli USA si permettano di allar­
gare la loro base militare a Vicenza a sessantatre (63) anni
dalla fine della seconda guerra mondiale, con la scusa di
difenderci dalla minaccia dell’Iran o della Corea dei Nord,
e che su questo punto non vi siano differenze fra Berlusconi
e D’Alema, Fini e Prodi, eccetera, è il segreto di Pulcinella di
questa configurazione geopolitica mondiale.
Detto questo, quali dovranno essere i fondamenti di
questo “nuovo libero pensiero universale” da te auspicato?
Qui finisce l’intervista, e dovrebbe cominciare la vera discus­
sione, fatta tutta al di fuori del circo politico, del circo
mediatico, del circo universitario, e del circo degli intel­
lettuali politicamente corretti con l’accesso garantito alla
comunicazione sociale.
55

Crisi nel sistema o crisi del sistema capitalista?

C r is i e v o l u t iv a o c r is i sist e m ic a d e l c a p it a l is m o ?

1) La grave crisi che investe il capitalismo globale


pone problemi d i ordine sia politico che sociale a
tu tt’oggi insolubili: trattasi d i una crisi ciclica e/o
evolutiva, oppure d i una crisi sistemica del model­
lo capitalista globalizzato? Si ripropone un vecchio
interrogativo novecentesco: la crisi dell’attuale ca­
pitalism o assoluto è una crisi nel sistema o del siste­
ma? I rincari progressivi delle materie prim e e del
settore alimentare, il terremoto finanziario dei mti-
tu i subprime, la situazione pre-fallimentare di al­
cuni colossi della finanza mondiale, le svalutazioni
ripetute del dollaro, il calo verticale dei consumi con
conseguente impoverimento e disoccupazione gene­
ralizzati, sono fenomeni che mettono in Ucce i costi
economici, ambientali, sociali e politici d i un ordi­
namento la cui sussistenza potrebbe essere messa in
discussione dal fatto che esso non potrebbe essere più
in grado di produrre nuove risorse rispetto a quante
ne consuma nei cicli produttivi. D el resto i fattori
generatori si questa crisi erano già da anni emersi
attraverso le repentine crisi finanziarie succedutesi
con lo scoppio delle varie bolle speculative: i guru
dell’economia mondiale hanno per anni diffuso la
teoria truffaldina secondo cui lo sviluppo abnorme
di una economia finanziaria avulsa dalla economia
reale avrebbe incrementato quest’ultim a e avrebbe
sopperito alle sue crisi. Che si sia verificato l’esat­
to contrario è ormai evidente. In realtà la specula­
zione finanziaria globale ha comportato il collasso
d i interi settori produttivi e ha avuto la funzione,
56 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

mediante la creazione di un indebitaìnento gene­


ralizzato (e globale!) di creare una enorme liqu i­
dità virtuale che ha drogato l’economia produttiva
(vedi la diffusione del prestito al consumo), al fine
mantenere livelli d i consumo troppo elevati rispet­
to alle capacità d i crescita della produzione. A l di
là delle utopie marxiste smentite dalla storia del
‘900, il capitalismo oggi non potrebbe aver genera­
to a l suo interno quella crisi sistemica già annun­
ciata da circa 150 anni, secondo cui esso non è più
in grado d i riprodurre nuove forse produttive? Il
progressivo calo della produzione e dei consumi, la
concentrazione nelle m ani dell’oligopolio delle mul­
tinazionali di settori strategici dell’economia, con
conseguente scomparsa della concorrenza e l’instau­
razione di regimi d i prezzi imposti, non sono fa tto ­
ri che potrebbero determinare una serie di collassi
produttivi causati dalla conseguente rarefazione
monetaria e dal decremento vorticoso dei redditi ol­
tre che del potere d’acquisto delle popolazioni? Sem­
brano ripresentarsi i sintomi che hanno condotto
alla implosione economica, prim a che politica, dei
paesi del socialismo reale. Dunque: anche il capita­
lismo potrebbe essere soggetto alla stessa sindrome
dissolutiva. Sembra una improbabile futurologia,
ma i presupposti ci sono tutti.

La descrizione che fai dei caratteri strutturali essen­


ziali dell’attuale crisi economica internazionale derivata
dalla globalizzazione del modello neoliberale della “so­
cietà di mercato integrale”(SMI), da non confondere con
la semplice e vecchia economia capitalistica di mercato
della precedente epoca dello stato nazionale sovrano do­
tato di propria moneta e di politica estera autonoma, mi
sembra non solo corretta nell’essenziale, ma anche abba-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 57

stanza esauriente e convincente. Sarebbe allora superfluo


commentarla, essendo già esaustiva, ed è allora meglio
discutere un punto solo: si tratta di una crisi di sistema o
nel sistema? Nella mia concezione di riproduzione strut­
turale del capitalismo, non esistono crisi di sistema, ma
soltanto ed esclusivamente crisi nel sistema, fino a quan­
do forze storiche rivoluzionarie, che non si possono però
costituire sul piano puramente economico (che è utili-
tarisco ed esclusivamente redistributivo per sua propria
essenza insuperabile), ma devono costituirsi anche e so­
prattutto su di un piano culturale globale (culturale, non
culturalistico o peggio intellettualistico), siano in grado
di mettersi in movimento. Ed oggi queste forze ancora
non si vedono. Viviamo ancora in mezzo alla fase dissolu­
tiva delle vecchie forze del periodo precedente (destra e
sinistra, comuniSmo ed anticomunismo, fascismo ed an­
tifascismo laicismo e religione, eccetera). A suo tempo
Marx ritenne che il capitalismo sarebbe caduto per una
crisi di sistema, dovuta alla sua incapacità di sviluppa­
re le forze produttive (con una analogia storica rivelatasi
errata con le precedenti società precapitalistiche, schia­
vistiche e feudali) e che si sarebbe manifestata attraverso
crisi ricorrenti di sovrapproduzione e di sottoconsumo
permanenti. Ma l’esperienza storica dell’ultimo secolo ha
dimostrato che il capitalismo si nutre di queste crisi di
“dimagrimento”, e che è in grado di espellere le proprie
tossine, anche se lo fa approfondendo la distruzione eco­
logica dell’ambiente e l’istupidimento e la manipolazio­
ne delle nuove plebi postmoderne di tipo ormai postbor­
ghese e postproletario.Vorrei ovviamente che fosse diver­
samente, e che il capitalismo stesse entrando in una crisi
di sistema. Ma dopo decenni di economicismo crollistico
“marxista”, da me sinceramente praticato e creduto, non
ci credo oramai più, anche se questo, anziché indebolire
il mio anticapitalismo, lo ha semmai invece rafforzato.
58 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

I l m ercatism o è l ’e s it o fin a l e d ell ’id eo lo g ism o liberale

2) Il nuovo libro di Giulio Tremanti “La paura e la spe­


ranza” pone seri interrogativi circa l’attuale crisi del
capitalismo, l 'autore denomina l’ideologia del liberi­
smo globale contemporaneo come “mercatismo”. Egli
afferma: “Il 1989, con il crollo del muro di Berlino,
segna la crisi sia del comuniSmo sia del liberalismo.
Sostituiti entrambi da un’ideologia nuova: il merca­
tismo, l’ultima follia ideologica del Novecento. Il libe­
ralismo si basava su un principio d i libertà applicato
al mercato. Il comuniSmo su di una legge d i sviluppo
applicata alla società. Il mercatismo è la loro sintesi.
Perché applica al mercato una legge di sviluppo line­
are e globale”. L’assoliciizzazione del mercato avrebbe
prodotto l’omologazione dell’uomo alla doppia funzio­
ne di produttore e consumatore. Il mercatismo “postu­
la e fabbrica prim a un nuovo tipo di <pensiero uni-
co>, e poi un nuovo tipo ideale di uomo-consumatore:
l’<uomo a taglia unica>. Fonde insieme consumismo
e comuniSmo. E così sintetizza un nuovo tipo di mate­
rialismo storico: <mercato unico>, <pensiero unico>,
<uomo a taglia unica>”. Tale nuovo materialismo
storico, di carattere totalitario, sarebbe scaturito dal­
la doppia sconfitta del liberalismo e del comuniSmo.
Il liberalismo, che secondo Premonti, “non poggia su
una legge assoluta, ma da un lato sul principio di
libertà applicato al mercato, dall’altro lato su un ap­
parato dialettico, empirico e graduale fatto da regole,
tempi, metodi, coessenziali alla libertà stessa... Nien­
te ricorda la complessa dinamica propria del vecchio
liberalismo quanto la struttura di un vecchio orologio
meccanico". Che la genesi del pensiero liberale risieda
in un principio di libertà applicato alla economia,
appare un principio assai contraddittorio. In tal caso,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 59

sarebbe pensabile un liberalismo che, in nome della


libertà rifiuti il mercato applicando i suoi principi a
differenti modelli socioeconomici? Proprio in quan­
to esso postula una originaria libertà dell’individuo,
indipendentemente dalle strutture sociali in cui esso
vive e non esistono fed i elo ideali presupposti all’in­
dividuo stesso, quest’ultimo è contraddistinto dal suo
agire materiale esclusivamente volto alla propria au­
toconservazione economica. Non è quindi il principio
economico a definire la libertà, i d iritti individuali e
le istituzioni politiche? M i sembra inoltre assai dub­
bio che la società liberale, all’opposto d i quella comu­
nista, non abbia a proprio fondamento una “legge”.
Non si spiegherebbe infatti l’idea del progresso se non
come una legge evolutiva dell’uomo e della società im ­
posta proprio dalla ideologia liberale. Forse che per
creare evoluzione e progresso il liberalismo non ha
bisogno di uno stato e di istituzioni che impongano
una politica, una legge, una cultura, un modello eco­
nomico che guidino la società verso gli obiettivi sta­
biliti, nel contempo emarginando e reprimendo altre
idee e culture ad esso estranee? Inoltre il liberalismo
attuale non ha forse le sue radici nelle leggi economi­
che oggi assurte a “presupposti metafisici” cui deve
uniformarsi il mondo globalizzato? Infine, ci si chie­
de come il liberalismo che porta nel suo DNA l’idea
del progresso cosmopolita e universale e l’espansione
del proprio sistema economico e politico possa essere
suscettibile di limitazioni o correzioni che ne possano
impedire la propria degenerazione nel mercatismo.

La sostituzione di Padoa Schioppa con Giulio Tremon-


ti, esito delle recenti elezioni politiche dell’aprile 2008, è
ovviamente un fatto benefico per la nazione italiana, per­
ché vede un critico moderato (ed a mio avviso purtroppo
60 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ancora inconseguente, ma è questo che passa il convento


per ora) del mercatismo neoliberista della globalizzazione,
che è il nemico principale oggi degli individui, delle classi
oppresse, dei popoli, delle nazioni e del diritto interna­
zionale fra stati (teologia interventistica dei diritti umani,
dittatura del politicamente corretto, clero intellettuale de­
generato di tipo mediatico-universitario, eccetera), sosti­
tuire un fantoccio oligarchico delle agenzie USA di rating
ed un rappresentante del binomio che correttamente La
Grassa chiama GF/ID (grande finanza e industria decotta).
Sono anche da apprezzare le aperture di Tremoliti verso
il comunitarismo. E tuttavia l’inserimento di Tremonti nel
blocco politico a guida berlusconiana trasforma il comuni­
tarismo di Tremonti in comunitarismo puramente verbale,
virtuale ed ineffettuale. Nessuna ingegneria genetica potrà
far funzionare un clone alla Frankenstein in cui un cuore co­
munitario (Tremonti) coesista con un cervello neoliberale e
mercatista (Berlusconi). Vi sono infatti due vincoli struttu­
rali esterni che impediscono ogni possibile comunitarismo
in Europa. In primo luogo, la Banca Centrale Europea e
le bande ultraliberali del funzionariato di Bruxelles, vere e
proprie stalle di Augia che bisognerebbe distruggere dalle
fondamenta, cosa purtroppo impossibile, perché un nuovo
1789 è ancora lontano. In secondo luogo, le basi militari
USA in territorio europeo, guidate spiritualmente dal cle­
ro sionista, che per “comunità” intendono l’occidentalismo
imperiale euro-americano in crociata contro l’islam e gli
“stati canaglia” indicati dal Dipartimento di Stato USA. È
questo il “comunitarismo” di Bondi e di Pera, cui è del tut­
to subalterno il comunitarismo localistico di Bossi, che ha
come tallone d’Achille non tanto il cosiddetto “razzismo”
(il solo razzismo che conosco in Italia è lo snobismo con la
puzza sotto al naso alla Nanni Moretti), quanto proprio la
subalternità provincialistica alla strategia di guerra di ci­
viltà USA con consulenza sacerdotale sionista (chiusura di
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 61

moschee, eccetera). Detto questo, in un mondo di analfabe­


ti Tremonti resta un intellettuale di valore. Ma rischia di
essere, per così dire, l’Ingrao di Berlusconi. Come Ingrao
chiacchierava, ma solo i cooperatori emiliani contavano nel
PCI, nello stesso modo Tremonti può anche dire cose intel­
ligenti, ma solo Bush e Berlusconi comandano.

U n ’E u r o p a in c o n t r a d d iz io n e t r a id e a c o m u n it a r ia
i;d e c o n o m ic is m o d e l l a UE

3) La seconda parte del libro di Tremonti, dedicata alla


speranza, prende le mosse dalla decadenza dell’Euro­
pa. La fine delle ideologie del ‘900, con tutte le trage­
die che hanno prodotto, ha comportato anche il dissol­
versi della cultura, delle tradizioni, della memoria
storica europea. L’Europa ha smarrito la sua identità
e i suoi valori. Egli afferma: “Identità e valori sono
due facce della stessa medaglia. Lidentità è fa tta dai
valori, i valori fanno l’identità. Nella storia tutte le
comunità si basano e trovano infatti la loro identità
nella prevalenza di tradizioni, idee, nozioni <pro-
prie>. In una parola, nella prevalenza dei loro va­
lori”. Lautore quindi contrappone all’economicismo
della UE l’idea comunitaria, quale matrice della no­
stra originaria “differenza” che definisce l’identità,
il “noi” necessario alla instaurazione della dialettica
“noi-altri”. L’Europa accoglie l’altro senza essere sé
stessa. L’Europa, già madre d i tutte le rivoluzioni oggi
sembra esangue ed esaurita: “Eppure serve un’altra
rivoluzione per resistere all’incalzare, all’incombere
d i una rivoluzione che, per la prim a volta nella sto­
ria dell’Europa, non viene da dentro e non si fa den­
tro, perché si fa fuori e viene da fuori: quella dalla
globalizzazione”. L’Europa sembra essersi omologata
62 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

alla cultura universalistica della “eguaglianza in­


differenziata e di importazione libera, categorie que­
ste progressivamente estese dalle persone alle merci.
Diventa così automatica la tendenza ad accettare a
scatola chiusa tutto ciò che viene da fuori, solo perche'
viene da fuori”. Ma, a mio avviso, l’idea comunita­
ria è necessaria alla sussistenza di una identità nel­
la misura in cui contraddice i presupposti ideologici
e politici della globalizzazione. Quest’ultima è un
fenomeno totalizzante che può affermarsi solo sulla
dissoluzione delle comunità tradizionali. Nello stesso
modo il liberalismo potè affermarsi con la scomparsa
del mondo feudale premoderno. Nella dialettica “noi­
altri”, occorre rilevare che l’identità europea non può
essere rivendicata come un fenomeno nazionale-iden­
titaria, cioè facendo leva sui valori del sangue e della
terra. Il pensiero fondamentale della cultura europea
è necessariamente universalista, suscettibile di esse­
re confrontato e condiviso con tutta l’umanità. For­
se il suo attuale oscuramento è dovuto ad una morte
(provvisoria) per asfissia, conseguente alla riduzione
dell’Europa entro la propria area geografica, come
provincia dell’occidente americanista. Affermare
una identità europea tra le tante sparse nel mondo,
sarebbe un non senso, per una impostazione filosofica
elaborata su problematiche concepite come strutture
portanti ed idonee a generare sintesi dai contenuti
universali perché aperte ad ogni contributo esterno
che può a sua volta universalizzarsi come parte inte­
grante di un pensiero universale.

Constato con piacere che tu individui con precisione


i due elementi deboli della versione comunitario-europea
di Tremonti. Da un lato, oggi l’Europa è di fatto solo
una provincia geografica dell’occidente americanista, e lo
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 63

stesso Ratzinger, sul quale avevo anch’io ingenuamente


“puntato” per la sua nobile critica filosofica al nichilismo
ed al relativismo, è andato negli USA ad avallare “spiri­
tualmente” l’abbietta visione del mondo dell’occidenta­
lismo USA e della sua teologia nazista dei diritti umani
(il termine è linguisticamente pesante, ma anche “pesato”
prima di scriverlo). Certo, so bene che la sua agenda è sta­
ta scritta prima del viaggio sulla base del ricatto dei preti
pedofili (peraltro realmente esistiti), ricatto ampiamente
esagerato dai circoli fondamentalisti protestanti e sionisti
che controllano i mezzi di comunicazione di massa negli
USA, ma ciò che conta è il risultato, e cioè che Ratzinger
è andato a benedire il Grande Terrorista (Bush) contro il
Piccolo Terrorista (Bin Laden).
In secondo luogo, tu affermi che l’identità europea non
può essere rivendicata come fenomeno geografico naziona-
le-identitario, ma deve essere ricostruita e difesa come un
pensiero necessariamente universalista, da non imporre ma
da proporre (appunto, non “imporre” ma “proporre”), con­
frontare e condividere con tutta l’umanità. Sono pienamen­
te d’accordo con questo modo di impostare la questione,
in cui non vedo nessuna arroganza eurocentrica e nessuna
nostalgia colonialistica e imperialistica, ma una semplice
sobria e moderata rivendicazione di dialogo universalisti­
co. Non ho mai condiviso il relativismo comunitario alla
Richard Rorty, neppure nelle versioni “comuniste” alla
Gianni Vattimo, ma ho invece sempre appoggiato le impo­
stazioni universalistiche alla Hegel-Marx, pur consapevole
della necessità di attuare una profonda “riforma” della loro
dialettica troppo spesso necessitaristica e teleologica (“rifor­
ma” intendo, non “controriforma”, come talvolta è avvenu­
to in Croce e Gentile). Chi segue la via del “particolarismo
europeo”, magari con le migliori intenzioni soggettive, fi­
nirà con il confluire, volente o nolente, nell’occidentalismo
a guida USA ed a sacrdozio levitico sionista (sia chiaro-non
64 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

“ebraico”, ma sionista). Ci sta qui il più importante nodo


filisofico-sociale e politico dei prossimi decenni. Tanto vale
impostarlo fin da subito nei suoi tratti generali, come tu fai
in modo concettualmente chiaro e felice.

USA e C i n a : d u e v o l ti d i u n o stesso sistem a

4) Non si sa se la crisi del capitalismo globale possa de­


terminare una implosione generalizzata di un model­
lo economico dominante. Probabilmente no, dato che
nessuna causa esterna può metterne in dubbio la pre­
valenza, né il capitalismo assoluto sembra in grado
di riformarsi ed evolversi verso altre forme di svilup­
po economico e sociale. La geopolitica pone lim iti per
ora invalicabili per trasformazioni epocali almeno a
breve e medio termine: non è in discussione infatti
il primato mondiale degli USA, pur se tra infinite
contraddizioni, crisi, crepe evidenti. Non sembra pe­
raltro che la globalizzazione possa determinare la fine
degli stati, come più volte annunciato. Queste false
profezie sono smentite dal ruolo predominante che gli
stati assumono nelle crisi economiche nel mondo libe­
rista. Negli USA è lo stato che scongiura crack finan­
ziari ricoprendo il ruolo di debitore in ultima istanza,
immettendo liquidità nel mercato, svalutando il dol­
laro per ridurre l’indebitamento estero e per rendere
competitiva l’economia americana. Lo Stato america­
no ha inoltre una funzione propulsiva nell’economia
attraverso le guerre con l’industria degli armamenti.
La stessa svolta liberista della Cina è stata resa possi­
bile, in quanto imposta da uno stato totalitario. Stato
e liberismo non sembrano essere termini antitetici,
ma complementari. Riscontriamo tuttavia una palese
contraddizione: nelle fasi di espansione economica, il
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 65

liberismo si afferma in nome dell’antì-stato, mentre


nelle fasi recessive, il liberalismo sopravvive grazie
all’intervento dello stato. Nella stessa Cina, l’econo­
mia liberista si sviluppa perché lo stato impone uno
sviluppo senza freni, senza diritti sindacali, garan­
zie previdenziali e assistenziali. Dobbiamo dunque
concludere che il modello liberista sussiste in quanto
sostenuto e garantito dallo stato. Inoltre, rileviamo
che le nuove potenze asiatiche, non potranno mai rap­
presentare una alternativa al modello capitalista, né
insidiare il primato economico e politico americano.
Le economie del mondo globalizzato sono infatti re­
ciprocamente complementari ed interdipendenti: se
la Cina costituisce il maggior bacino produttivo del
capitalismo, a causa dei bassi costi di produzione, è
il mercato finanziario occidentale a rappresentare il
necessario sbocco per il reinvestimento dei profitti, così
come accade per i paesi produttori d i petrolio. Il pa­
ventato, futuribile primato economico cinese, non in-
ficerebbe la struttura del capitalismo globale. Solo la
politica unitaria di stati portatori dì modelli di svi­
luppo diversi e alternativi potrebbe fa r venire meno
gli automatismi economici della globalizzazione.

Concordo interamente con la tua conclusione teorica e


politica, per cui oggi solo la politica unitaria di stati por­
tatori di modelli di sviluppo diversi ed alternativi potreb­
be (forse!) far venir meno gli automatismi economici della
globalizzazione. Sono interamente d’accordo con questa
conclusione di tipo “realistico”, che si contrappone virtuo­
samente (e razionalmente) ai modelli virtuali che hanno
impazzato negli ultimi due decenni, sponsorizzati proprio a
causa della loro surreale inapplicabilità dai centri di potere
mediatico e intellettuale, in particolare di “sinistra” (vedi il
grande diseducatore del popolo stupido di sinistra, il quoti-
66 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

diano “Il Manifesto”, vero e proprio scandalo politico e cul­


turale italiano, impensabile in quasi tutti i paesi stranieri).
La Cina, ovviamente, non è in alcun modo un modello
economico alternativo, ma esplica egualmente un ruolo
geopolitico - militare positivo contro l’impero USA, e per
questa ragione bisogna appoggiarla contro l’indegna ag­
gressione mediatica a proposito del Tibet. Nell’attuale si­
tuazione storica mondiale, venuta meno l’operatività pra­
tico —storica della vecchia utopia sociologica monoclassi­
stico —proletaria (impropriamente chiamata “marxismo”,
laddove il pensiero originale di Marx si presta anche ad
interpretazioni se non proprio alternative almeno diverse
e meno proletario —centriche), solo gli armamenti strate­
gici russo e cinese ci difendono ancora dal progetto impe­
riale globale USA, che ha ridotto la NATO a mercenariato
cosmopolitico mondiale (Afghanistan, domani chissà).
Il venir meno dell’utopia anarchico - proletaria può
portare a due esiti fondamentali. Da un lato, l’inesistenza
di scenari anarcoidi ed antistatuali, in cui il comuniSmo
è definito in termini di anarchismo di (inesistenti) mol­
titudini all’interno di un (inesistente) spazio di consumo
globale, in cui il capitalismo assoluto coincide in modo
onirico —surreale con il comuniSmo realizzato (il ridicolo
Toni Negri ed il concerto intemazionale dei centri sociali
e dei dipartimenti universitari). Dall’altro, il rafforzamen­
to strategico —militare di centri statuali e politico —eco­
nomici. Lo statalismo e il protezionismo non sono certo
soluzioni a medio e lungo termine, perché sono entrambi
privi di potenzialità universalìstiche, ma si tratta di una
terapia convalescenziale che non possiamo provvisoria­
mente evitare. Prima lo si capisce, e meno tempo si perde.
67

P rec arietà e m an ip o lazio n e an tropologica


n ell’era d el cap italism o assoluto

I GIOVANI EMARGINATI DAL VUOTO DI SENSO GLOBALE

1) Viviamo in un’epoca che sembra abbia eternizzato


il presente. Infatti, sembrano essere scomparsi dal­
la società i giovani, cioè l’elemento vitale di proie­
zione del presente verso il futuro, rendendosi perciò
problematico il naturale ricambio generazionale che
costituisce la base di ogni progettualità del presente.
Espressioni come “l’avvenire è dei giovani’’, per non
parlare di istanze futuriste che auspicavano “l’av­
vento al potere dei giovani’’, sembrano essere state
dimenticate, quali velleità ideologiche di un nove­
cento ormai consegnato all’oblio della storia. Il calo
delle nascite e politiche economico -previden ziali che
disincentivano l’uscita dal mondo del lavoro degli
anziani, sono fattori che rendono marginale il molo
dei giovani nella società. Dopo il giovanilismo ses­
santottino, i giovani sembrano emarginati da una
società non suscettibile d i naturale rinnovamento,
in cui si potrebbero manifestare nel tempo rilevanti
conflitti intergenerazionali. La fine del novecento e
delle fed i ideologiche, sembra aver reciso quel logico e
naturale nesso di continuità tra le generazioni, che
determina la sussistenza oltre il tempo dei valori eti­
co morali su cui si struttura ogni società umana. La
tradizionale invidia degli anziani verso i giovani si
è tram utata in compassione, nei confronti di coloro
su cui incombe un avvenire nebuloso, minaccioso per
le antiche certezze, denso di incognite imponderabi­
li. Il nostro presente storico viene vissuto da giovani
ed anziani non con l’ansia dell’attesa d i un futuro
68 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

denso di aspettative e progetti d i trasformazione, ma


con la rassegnazione di chi è condannato all’impo­
tenza dinanzi a mutamenti globali imprevedibili ed
incontrollabili. Forse, con la fine del novecento, secolo
delle “utopie assassine”, insieme con gli assassini,
sono state uccise anche le utopie, quali prefigurazio­
ni ideali di rivolgimenti politici e sociali di portata
epocale, la cui realizzazione dava senso all’esistenza
e attribuivano un ruolo primario alle nuove gene­
razioni. Forse è questo “vuoto di senso” che aliena
la condizione giovanile e la omologa ad una società
condannata a subire il futuro e non a crearlo.

Nella sua Ontologia dell’Essere Sociale (1885-1971) il


vecchio filosofo Lukàcs aveva già parlato della condizione
umana nel capitalismo in termini di “onnipotenza astratta
e di concreta impotenza”. Si tratta più o meno della dia­
gnosi che fai anche tu. E passato quasi mezzo secolo dai
tempi della diagnosi di Lukàcs, che mi sembra pienamen­
te verificata dalla situazione storica attuale.
La condizione giovanile vive questa sintesi vitale con­
traddittoria di onnipotenza astratta e di concreta impoten­
za in modo particolarmente acuto e doloroso. È di moda
oggi nel ceto corrotto degli intellettuali incrudelire sgua­
iatamente contro le “utopie novecentesche”, ignorando
che la dimensione futurologica, spesso assente negli anzia­
ni e nelle persone di mezza età, è invece fisiologica e quasi
“biologica” nei giovani. I sessantottini invecchiati sono in
prima linea nel negare ai giovani la dimensione utopica, e
fanno a gara a trasformare la loro propria delusione gene-
razionale in una grottesca Figura Eterna della Delusione
in quanto tale. Per questo i giovani spesso provano fasti­
dio per il “reducismo sessantottino” e per le sue narcisisti­
che cerimonie. I giovani saranno anche privi di memoria
storica, ma non sono affatto stupidi, e sono in grado di
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 69

valutare la natura della società che l’abbietta generazione


sessantottina gli ha preparato. Si tratta di una società ad
un tempo postborghese ed ultracapitalistica, in cui sono
state distrutte sia la Famiglia sia la Scuola, ma il Mercato
e la Pubblicità sono più forti e straripanti che mai.
La comprensione della condizione giovanile oggi deve
partire necessariamente dalla preventiva comprensione
della natura specifica della società capitalistica di oggi.
Non ci si può certo limitare alla banalità per cui i giovani
erano già giovani ed i vecchi, vecchi ai tempi delle pira­
midi egizie. Occorre capire esattamente che cosa caratte­
rizza storicamente la condizione giovanile oggi, e non in
un’inesistente situazione atemporale.
La chiave storico-politica per individuare il centro del­
la questione giovanile oggi sta in ciò, che i giovani sono
oggi il cuore di un mostruoso esperimento antropologi-
co-sociale, rivolto a farli diventare il soggetto portatore
dell’instaurazione e dello sviluppo allargato di un nuovo
modello di società capitalistica assoluta ed illimitata, neo-
liberale, globalizzata, postborghese e postproletaria, oltre
che ovviamente postfascista e postcomunista, in cui “de­
stra” e “sinistra” cessino integralmente di essere categorie
in qualche modo ancora politiche, per essere soltanto at­
trattori culturali e simbolici, ed in quanto tali interamen­
te manipolati dal sistema pubblicitario e mediatico.
Delle tre età della vita (giovani, persone di mezza età
ed anziani) i giovani sono i soli che possono biologicamen­
te sopportare lo stress fisico e l’incertezza psicologica di
un generalizzato lavoro flessibile, precario ed instabile. Le
persone di mezza età e gli anziani non potrebbero fisica-
mente sopportarlo, ed inoltre sono stati abituati ai cosid­
detti “trenta anni gloriosi” di cui parla Hobsbawm (1945-
1975), caratterizzati invece da una prospettiva generalizza­
ta di lavoro stabile e sicuro, sia pure quasi sempre “aliena­
to” e “fordista”. Per poter instaurare antropologicamente,
70 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

e non solo “economicamente” (l’analisi economica priva di


dimensione antropologica e di riflessione storico-filosofica
è infatti quasi sempre vuota e fuorviarne) questo nuovo
modello di capitalismo assoluto, neoliberale, postborghe­
se, postproletario, deideologizzato, ultra-atomistico, glo­
balizzato, eccetera, bisogna far leva su di una classe di età
che ne possa sopportare biologicamente i costi spaventosi.
La produzione interamente “biopolitica” (ed è allora
questa la vera “biopolitica”, non quella di cui parlano i
corrottissimi ceti intellettuali universitari delle facoltà di
filosofia) di questa base antropologica flessibile e precaria
è quindi rivolta ai giovani, ed è allora questa, e non altra,
la questione giovanile oggi. Rendere flessibile e precaria
la condizione giovanile presuppone peraltro la distruzione
de facto di due istituzioni (millenaria la prima, secolare la
seconda), e cioè la famiglia e la scuola. Sia la famiglia che
la scuola, infatti, sono istituzioni commisurate a progetti
di vita globale e permanente, caratterizzati dalla continu­
ità sentimentale, sessuale, professionale, ecc.. Incompati­
bili, quindi, con la generalizzazione dell’incertezza, della
precarietà e della flessibilità. Il crollo tragicomico della
cosiddetta “cultura di sinistra” negli anni più recenti sta
infatti in ciò, che questi deficienti “il termine è pesante,
ma quando ci vuole ci vuole!” da un lato si dichiarano
contro il lavoro flessibile e precario, e dall’altro fanno tut­
to il possibile per delegittimare e distruggere sia la fa­
miglia che la scuola, e cioè proprio istituzioni omogenee
culturalmente e biologicamente ad una struttura sociale e
lavorativa non flessibile e non precaria.
In Italia la distruzione della scuola (di cui è un sin­
tomo, secondario ma interessante, la degradazione lingui­
stica dei professori a prof, promossa non certo dall’inno­
cente gergo giovanile ma dalla consorteria delle canaglie
mediatico-culutrali che gestiscono il linguaggio pubblico)
è stata delegata ad una armata Brancaleone di sindacalisti
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 71

CGIL-Scuola, pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e vari


distruttori della professionalità disciplinare dell’insegnan­
te, “riconvertita” in abilità polivalente di gestione e di ani­
mazione del “disagio” giovanile. Ho assistito sgomento ed
impotente a questa fantascientifica “invasione degli ultra­
corpi” nei trentacinque anni del mio insegnamento liceale
(1967-2002), e ritengo di averne anche compreso la dina­
mica progressiva di insediamento, dinamica che presuppo­
ne (ahimè) la conoscenza del metodo dialettico di Hegel e
di Marx, senza il quale tutto ciò che avviene appare incom­
prensibile, in quanto sembra a prima vista uno scenario
alla Kafka ed alla Borges (lato tragico), ed alla Totò ed alla
Ridolini (lato comico). Scrittori “insegnanti” come Lodoli,
Starnone e la Mastrocola si fermano alla superficie ma non
possono capirne la severa dinamica strutturale. Perché si
possa instaurare in forma stabile e permanente una società
ultracapitalista e postborghese bisogna che il lavoro sala­
riato diventi del tutto “imprenditoriale”, e cioè flessibile e
precario, essendo appunto l’altra “precarietà” l’altra faccia
dialettica complementare della cosiddetta “imprenditoria­
lità”. Per questo la scuola “borghese” deve essere sostituita
da una scuola “capitalistica” postborghese. Il mercenaria-
to cui è stata delegata dai poteri forti (ultracapitalistici e
postborghesi - non dimenticare mai questa formula, a pri­
ma vista spiazzante ma essenziale) è grosso modo in Italia
il “picismo” pedagogico-sindacale, ed a nessuno salti in
mente di utilizzare il nobile concetto di “comuniSmo” per
questa feccia sociologico-politica che si è impadronita circa
vent’anni fa del corpo della scuola italiana. In proposito
vorrei essere volutamente categorico, anche se purtroppo
“estremistico”: senza spazzare via (licenziamenti, pensio­
namenti anticipati, degradazione a bidelli, uso di idranti,
eccetera) questa feccia sindacal-pedagogica la scuola italia­
na è condannata a morte. Spero che il lettore abbia compreso
la gravità di questo termine: condannata a morte.
72 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Mentre la distruzione della scuola è stata delegata alla


feccia sindacal-pedagogica di provenienza PCI (oggi me­
taforicamente PDS-DS-PD), la distruzione della famiglia,
intesa come legittimità del Superio paterno integrato
dal complementare Amore materno, è stata delegata alla
macchina consumistica televisivo-pubblicitaria, integra­
ta da girotondi femministi e gay-pride. E probabile che
gli agenti storico-sociologici cui è stata delegata (struttu­
ralmente e funzionalmente) questa distruzione simbolica
della famiglia non ne siano stati del tutto consapevoli, ma
il fatto che gli idioti non siano consapevoli di quello che
fanno e siano preda di meccanismi di auto-illusione e di
falsa coscienza necessaria è una vera e propria costante sto­
rica. Senza la convergente distruzione della famiglia (la
cui funzione “etica” - Hegel - è sostituita dal potere del
consumismo pubblicitario televisivo) e della scuola (la cui
funzione educativa è sostituita dall’invasività pedagogico-
sindacale) sarebbe stato impossibile instaurare la società
della flessibilità del lavoro e del precariato permanente.
La sommaria descrizione che ho cercato di disegnare è
del tutto incomprensibile per tutti coloro che seguono ip­
notizzati lo scontro epocale fra Di Pietro e Berlusconi ed il
gioco delle intercettazioni telefoniche a metà fra Boccaccio
ed i cinema a luci rosse. L’analisi impietosa contenuta nella
tua domanda è basata sulla nozione di “vuoto di senso”,
che tu giustamente metti al centro della tua riflessione.
In tutte e tre le sue età (giovani, mezza età, anziani)
l’uomo è antroplogicamente un animale “cercatore di sen­
so”, nel suo doppio aspetto convergente di ideologia e di
utopia (Bloch, Mannheim). I giovani sono biologicamente
la classe d’età caratterizzata da un maggiore potenziale di
“ricerca di senso”, e questo non è affatto un caso, perché
sono la classe d’età che ha una maggiore aspettativa fisio­
logica di vita. L’attuale modello di capitalismo assoluto
neoliberale, postborghese e postproletario, postfascista e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 73

postcomunista, ha flessibilizzato e precarizzato la vita in­


tera, e non avrebbe potuto farlo se non “iniziando” dai
giovani, i soli fisicamente in grado di sopportare questo
modello inumano di vita.
Riuscirà a farlo a lungo? E questa la vera domanda cen­
trale del nostro tempo e non certo l’irrilevante turn over fra
Fini e D ’Alema, il boccaccesco guardonismo degli inter­
cettatoti di Berlusconi, e l’eterna simulazione azionista fra
fascismo ed antifascismo. In termini etologici il problema
si può formulare così: l’uomo è un animale infinitamente
addomesticabile, o ci sono limiti biologici, psicologici,
storici ed antropologici alla sua addomesticabilità ed alla
sua illimitata manipolazione? Io scommetto razionalmen­
te sulla seconda ipotesi, ma devo ammettere sinceramente
che non ne sono del tutto sicuro, e che non sono neppure
sicuro di riuscire a dimostrarlo.

G io v a n i c o n d a n n a t i a l l ’im m o b il is m o d e l l ’e t e r n o
PRESENTE?

2) 1 giovani, oggi come sempre, sono spesso criticati dal­


le vecchie generazioni, per la loro incapacità d i com­
prenderli e di immedesimarsi nella loro condizione.
Quella degli anziani è forse una generazione dalla
“memoria perduta?”. I vecchi sessantottini, così come
le generazioni precedenti, sono incapaci di compren­
dere i giovani, vedendo in essi una proiezione di se
stessi, non concepiscono il futuro come una dimensio­
ne umana che esorcizzi i mali del presente. Il vuo­
to esistenziale giovanile, da tu tti diagnosticato, è la
dimostrazione evidente dalla assenza di valori etici
da trasmettere già presente nei giovani di 30 anni
fa. Evidentemente le generazioni dei genitori si sono
dimostrate incapaci di compiere un serio esame di co-
74 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

scienza e di svolgere nei confronti di se stessi ima seria


autocritica costruttiva. Esse sono vissute nel relativo
benessere e, pertanto, nel perpetuo, passivo adegua­
mento alle evoluzioni dell’eterno presente della società
tecnologica - consumista. I giovani non sono stati for­
m ati da famiglie elo comunità di appartenenza ide­
ale in grado di trasmettere valori, intesi come canoni
di interpretazioni del mondo e del tempo in cui ci è
dato vivere. Si è creata ormai una società stratificata
ed immobile, in cui le opportunità sono riservate ad
elites sempre più ristrette, con conseguente emargi­
nazione di larghe masse condannate a ruoli subalter­
ni. Viviamo in un paese che ha la classe politica più
vecchia d’Europa, elegge presidenti della repubblica
ultraottantenni, riserva i ruoli dirigenziali a grup­
p i lobbistici e parentali, il valore del merito viene
disconosciuto, la mobilità sociale è pressoché mdla. 1
giovani sono condannati a vivere sulla propria pelle
il paradosso di una società liberale e progressista, ma
immobile, globalizzata nell’economia e nella cultura,
ma feudale —castale nella sua struttura.

Vorrei partire dalla tua osservazione finale, volutamen­


te paradossale, per cui . .i giovani sono condannati a vi­
vere sulla propria pelle il paradosso di una società liberale
e progressista, ma immobile, globalizzata nell’economia e
nella cultura, ma feudale-castale nella sua struttura”.
È probabile che la sociologia accademica, con la sua
pedante prosopopea e la sua totale mancanza di imma­
ginazione, non approverebbe questa tua formulazione,
ritenendola contraddittoria. Ma la contraddizione, nono­
stante l’ostilità che a suo tempo manifestò Lucio Colletti
nei confronti di questo indispensabile concetto, è la chiave
per la comprensione di tutte le cose, ed in particolare dei
fatti sociali (e la condizione sociale oggi è appunto —per
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 75

dirla con Durkheim - un fatto sociale totale). Colletti è


giunto al capolavoro assoluto della coniugazione di due
opposti apparentemente antitetici ed incompatibili, e cioè
il marxismo positivistico, scientistico ed anti-hegeliano
più estremistico e furioso, da un lato, e l’adesione al neoli­
beralismo berlusconiano più ostentato, dall’altro. Per chi
conosce l’unità degli opposti hegeliana e la complemen­
tarietà dei contrari in solidarietà antitetico-polare questo
apparente paradosso è un vero segreto di Pulcinella. Nello
stesso modo, l’assoluta complementarietà dell’immagine
ideologica liberale e progressista, da un lato, e della realtà
feudale-castale, dall’altro, è una sorta di sudoku di quelli
che le riviste di enigmistica segnalano come “facilissimi”
e da “principianti”.
Il fatto però è che questo paradosso è qualcosa che i
giovani vivono sulla propria pelle, in particolare in Ita­
lia (o quanto meno in Italia più ancora che in altri pae­
si europei). L’Italia infatti è il paese europeo che più di
tutti soffre della perversa compresenza del nepotismo
clientelare democristiano, da un lato, e degli esiti della
distruzione picista della scuola e della famiglia, dall’al­
tro. Questa doppia perversa eredità caratterizza appunto
la specifica “miseria italiana”, nella sua totale mancanza di
vera meritocrazia professionale, da un lato, e di invaden­
za burocratico-sindacale, dall’altro. Ancora una volta, di
questo non soffrono gli anziani, che sono già in pensione,
o le persone di mezza età, già più o meno insediate in ruo­
li professionali stabili, ma proprio i giovani, che devono
ancora “entrare” in un universo lavorativo caratterizzato,
oltre che dalla flessibilità e dalla precarietà, anche da dosi
ipertrofiche di clientelismo, raccomandazioni, mafie poli­
tico-sindacali, ed altra feccia sociale del genere.
La particolare miseria della condizione giovanile in Ita­
lia deve quindi essere indagata, oltre che con il modello
dell’esperimento antropologico segnalato nella risposta
/t> Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

precedente (che resta comunque la chiave principale pre­


supposta ad ogni altra spiegazione ulteriore), sulla base del­
la sinergia malefica fra diccismo e picismo (e cioè sulle due
eredità DC e PCI, che mi permetto plasticamente di indi­
care con due formulette che non mettono in campo concetti
rispettabili come democrazia, cristianesimo e comuniSmo).
Esaminiamoli separatamente, anche se nella concreta realtà
sociale sono di fatto fusi insieme ed indistinguibili.
Il diccismo si basava su di una riformulazione del patto
sociale liberaldemocratico in termini di familismo amo­
rale e di reti personali di conoscenza e raccomandazioni
reciproche (vedi commedia all’italiana e soprattutto il più
grande sociologo italiano della seconda metà del novecen­
to, Alberto Sordi). Il diccismo ha indubbiamente avuto
grandi meriti storici, primo fra i quali l’impedire l’espe­
rimento di Napolitanov, Amendolayev, Berlinguerinsky,
eccetera, che avrebbe portato nell’ultimo decennio milio­
ni di donne italiane a fare le badanti e/o le puttane in
Francia, Spagna, Grecia, eccetera. Per questo il diccismo
dovrà essere ringraziato. E tuttavia il diccismo, scioglien­
do lo stato nei rapporti personali e famigliari, non poteva
che incrementare sia la corruzione del settore pubblico
(Romano Prodi), sia il brigantaggio meridionale (Totò Ri­
ina). Il craxismo ed il posteriore berlusconismo non hanno
certo potuto modificare il codice diccista, ma gli si sono
soltanto sovrapposti. I giovani ricercatori italiani che si
trovano di fronte un apparato universitario marcio e nepo­
tista, e devono rifugiarsi all’estero per vedere riconosciute
le loro capacità disciplinari e professionali, devono sapere
che il diccismo sta alla radice dei loro guai.
Il piccismo (da non confondere con il comuniSmo in ge­
nerale) è stato indagato da Augusto Del Noce in termini
di esito nichilistico della trasformazione dialettica dello
storicismo sociologico in società radicale dei consumi di
massa. Esatto. C’è infatti ben poco da aggiungere. Questa
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 77

trasformazione implicava, come ho detto, la distruzione


sia della famiglia che della scuola, in cui i piccisti hanno
funzionato come mercenariato idiota ed inconsapevole per
conto i gigantesche forze sistemiche ultracapitalistiche e
postborghesi.
I giovani italiani, se usassero il cervello ed il metodo
storico-dialettico, saprebbero dunque chi ringraziare. E so­
prattutto, chi eventualmente punire come meriterebbero.

I l g io v a n il is m o com e f u g a d a l l a realtà

3) Giovani ed anziani sono elementi della società en­


tram bi essenziali ed interdipendenti. Lo scorrere del
tempo determina il naturale ricambio generazio­
nale, con nuove e diverse visioni dell’uomo e della
società, in un rapporto d i necessaria continuità sto­
rica, presente anche nelle fa si d i rottura e di trasfor­
mazione epocale. La condizione giovanile odierna
è alienata e innaturale. L’età della giovinezza non
approda mai alla maturità, sono definiti “giovani”
i quarantenni ancora in cerca di una stabile occu­
pazione, impossibilitati al crearsi una vita autono­
ma, vengono definiti cinicamente “bamboccioni” da
una elite autoreferente, estranea a i bisogni e alle
istanze d i una massa giovanile e non, che cerca in­
vano un ruolo e una dimensione del vivere sociale,
negata da un’economia assolutizzata e da una poli­
tica incapace di creare equilibri sociali adeguati a i
tempi. Non a caso, nella vulgata culturale mediati-
ca, si parla sempre d i giovani ed anziani, la media
età, e con essa la maturità, sembra essersi estinta.
La condizione giovanile è vissuta come una dimen­
sione statica e permanente, viene assimilata anche
dagli anziani nella moda, nei comportamenti, nel
78 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

pensiero unico omologato all’esistente in perenne


mutamento; la giovinezza si è tram utata in una
condizione giovanilistica vissuta come fuga dalla re­
altà del proprio tempo come una sorta di virtualità
creativa su se stessi, come l’immagine reale di più
generazioni eternamente giovanilistiche perché in­
capaci di una qualsiasi maturità, intesa come equi­
librio e senso del limite, le peculiari qualità cioè, che
possano conferire senso e stabilità a l vivere sociale
del nostro tempo.

Ogni tanto si incontra qualcuno che ti fa notare che


non esistono più le cosiddette “mezze stagioni”, e che or­
mai c’è soltanto un susseguirsi di freddo polare e di caldo
torrido. Nello stesso modo la mezza età, un tempo pe­
riodo di stabilità matrimoniale, di progressione profes­
sionale, di inquietudine sentimentale, di partecipazione
storico-politica, eccetera, non sembra esistere più. Fino
ai settanta anni si è giovani, oppure “ancora giovani”,
0 addirittura “giovanili”. Dopo i settant’anni si diventa
improvvisamente anziani (il politicamente corretto non
conosce la parola inquietante “vecchi”, ma soltanto la pa­
rola tranquillizzante “anziani”), buoni per le panchine dei
parchi e per l’ospedale oncologico. La frenesia del giova­
nilismo si unisce peraltro al solito sospetto-invidia verso
1 veri giovani biologici ed anagrafici. La gioventù è un
coperchio simbolico che unisce insieme i giovani-giovani
ed i vecchi-giovani. Qualche tempo fa ho incontrato un
conoscente di gioventù che non vedevo da decenni, che
mi ha lodato dicendo che ero ancora “giovanile”, ma che
per sembrarlo di più avrei dovuto tingermi i capelli, farmi
meglio la barba perché non si vedessero le radici bianche
dei peli, eccetera. E mancato poco che non mi chiedesse,
secondo l’uso di un esilarante personaggio del romanziere
vigevanese Lucio Mastronardi: “Funziona la mazza?”.
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 79

Nella Filosofia del Diritto di Hegel il passaggio dall’e­


tà giovanile all’età matura era metaforizzato attraverso
il passaggio dalla moralità astratta (Moralitaet) all’eticità
concreta (Sittlichkeit), ed a sua volta l’eticità concreta era
caratterizzata, per quanto riguarda l’individuo concreto (e
cioè l’individuo non solo del liberalismo classico borghe­
se, ma anche del posteriore e complementare comuniSmo
storico novecentesco realmente esistito), dal matrimonio
monogamico e dalla professione. Ma abbiamo già chiari­
to nelle risposte precedenti che la nuova configurazione
sociale ed economica del capitalismo globalizzato asso­
luto, postborghese e postproletario, è caratterizzata dalla
flessibilità e dalla precarietà, o più esattamente dalla fles­
sibilità nella erogazione della forza-lavoro e dalla preca­
rietà delle forme di vita, cui l’industria del postmoderno
filosofico si sforza di conferire un’aurea seducente. Si è
allora giovani fino ai settanta anni perché si è idealmente
“precari” fino al termine della propria attività lavorativa.
L’interminabile innovazione tecnologica, inoltre, toglie
agli anziani quel “possesso del mestiere” che un tempo
faceva da base materiale al prestigio dei “maestri” rispet­
to agli apprendisti.
Si tratta di cose ben note non solo ai sociologi ed agli
economisti, ma anche agli scrittori ed ai romanzieri. E
tuttavia è forse meno noto che la radice di questa inter­
ruzione degli elementi simbolici del vecchio e fisiologico
ricambio generazionale sta in particolare nel tipo di mer-
catizzazione integrale della vita quotidiana, che ha tra­
sformato le classi d’età in targets merceologici di consumo
differenziato. È stato calcolato che i bambini parcheggiati
davanti ai televisori hanno memorizzato in tenera età cen­
tinaia di brand, e che di lì nasce la mostruosa coazione
ai capi “firmati”, cui forse la nuova benedetta ministressa
della Pubblica Istruzione Gelmini vuole porre un (esile)
freno con la reintroduzione del grembiule eguale per tutti
80 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

(ma scommetto che fallirà, perché sono sicuro che l’ala


merceologica berlusconiana del mercato capitalistico to­
tale e senza freni vincerà contro l’ala tradizionalista dei
costumi educati vetero-borghesi).
A distanza di quasi un secolo, il vecchio futurismo alla
Marinetti appare sempre di più un timido ed ancora ar­
tigianale precursore dell’odierno futurismo integrale. In
termini marxiani, si è passati dalla fase della sottomis­
sione formale dell’innovazione tecnologica alla riprodu­
zione sociale borghese alla fase della sottomissione reale
dell’innovazione tecnologica stessa alla riproduzione so­
ciale ultracapitalistica. Sta qui la radice materiale della in­
terruzione della trasmissione dell’esperienza fra i giovani
e gli anziani. L’esperienza degli anziani era strutturata sui
due parametri essenziali della famiglia monogamica sta­
bile (sia pure con le note patologiche dell’ipocrisia, dell’a­
dulterio, dell’eventuale prepotenza maschile, eccetera) e
della professione stabile ed accrescitiva (sia pure con le
note patologiche della raccomandazione, dell’intrallazzo e
della segnalazione di carriera a base politica e/o boccacce-
sco-pecoreccia). La critica culturale piccista ha avuto buon
gioco in quasi mezzo secolo a delegittimare gli aspetti
“etici” di questi due parametri vetero-borghesi sottoli­
neando ed evidenziando gli aspetti moralistico-negativi
(sostanzialmente due, raccomandazioni ed adulteri). Alla
fine, il deserto prodotto è stato funzionale alla costruzione
di autostrade a scorrimento veloce per i nuovi fuoristrada
dell’ultracapitalismo flessibile e precario, e quindi giova-
nilistico per sua stessa natura.
Tutto questo i mastodonti dell’eterno conflitto Fasci­
smo/Antifascismo non lo capiranno mai, anche se possono
contribuire ancora a lungo a rendere impossibile una ge­
neralizzata comprensione.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 81

U n a p r e c a r ie t à e s is t e n z ia l e p e r m a n e n t e

4) La condizione giovanile contemporanea è indisso-


lubilmente legata alla precarietà. Oggi si è in fa tti
eternamente precari nel lavoro, nella vita sociale,
nella vita affettiva, in un mondo che ha costrui­
to la propria vita sugli im pulsi effìmeri del con­
sumismo globalizzato. C’è oggi il concreto pericolo
che questa precarietà immanente sia vissuta dai
giovani non come condizione alienante, ma come
naturale dimensione umana. I giovani in fa tti
hanno assimilato sin dall’infanzia questo modo di
esistere e, poiché sono assenti dalla loro esperienza
vissuta valori e dimensioni sociali diverse, la loro
psicologia e le loro scelte d i vita potrebbero essere
costruite su questa “liqtiida" precarietà im m a­
nente. Il vuoto d i memoria storica è evidente, così
come è condannabile senza appello l’influenza eser­
citata su d i loro dalle generazioni precedenti, che
hanno sradicato in se stessi, prim a che nei propri
figli, qualunque valore identitario trascendente la
realtà effimera del presente. Vero è anche il fatto
che la fine del secolo ideologico e la storicizzazione
del novecento ha stornato dalla mente dei giovani
pregiudizi fideistici generatori di false e astratte
interpretazioni della realtà storica passata e pre­
sente. Tuttavia è viva l’esigenza di una nuova e
obiettiva visione della realtà che prescinda sia dal
pregiudizio ideologico che dalla attuale precarietà
esistenziale permanente. Il problema fondamen­
tale è quello però di suscitare nei giovani un sen­
so critico che determ ini una fase di rottura con la
“metafisica del mercato’’ dell’ economicismo consu­
mista, alla luce delle idee guida della cultura euro­
pea, qtiali l’universalismo filosofico e la dimensione
82 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

comunitaria dell’esistenza. È un compito difficile,


ma. la rottura delle giovani generazioni con l’eterno
presente, è l’unica speranza possibile, dato che è da
tu tti constatabile il fallim ento delle generazioni
ideologizzate precedenti, il cui peccato irredim ibile
è quello di non avere rappresentato un modello di
ispirazione credibile per i giovani.

La formulazione di questa tua quarta domanda con­


tiene tutti gli elementi indispensabili per disegnare i ter­
mini essenziali di una prima ipotesi sui caratteri stori­
co-sociali determinati della questione giovanile come si
presenta oggi non in uno spazio-tempo astratto, ma nelle
nostre società ultracapitalistiche postborghesi e postpro­
letarie, globalizzate e neoliberali. Per questa ragione mi
sarà facile compiere una breve ricapitolazione.
In primo luogo, il cuore di tutta la questione, già da
me segnalato in una precedente risposta, sta nel “concreto
pericolo che questa precarietà immanente sia vissuta dai
giovani non come condizione alienante, ma come naturale
dimensione umana”. È infatti proprio così. Il nuovo capi­
talismo assoluto sa bene che la vera vittoria finale, o quanto
meno una vittoria di lungo periodo e non solo provvisoria
e congiunturale, non può aversi sul terreno dell’economia
e della sociologia, e neppure su quello della geopolitica e
della potenza militare, ma solo su quello dell’antropologia
sociale diffusa, e cioè sul terreno che alcuni filosofi hanno
definito della grammatica delle forme di vita e della colo­
nizzazione della vita quotidiana. Il punto più alto in asso­
luto della tradizione marxista indipendente del novecento
(non parlo certamente degli apparati ideologici dei partiti
comunisti diretti da veri e propri briganti nichilisti), e
cioè il filosofo Lukacs (1885-1971), ha individuato nel
cosiddetto “rispecchiamento quotidiano” la base ontolo-
gico-sociale su cui viene edificato poi l’insieme di rapporti
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 83

sociali. È vero che questa geniale individuazione avveniva


purtroppo ancora all’interno di un involucro ideologico
marxista tradizionale a mio avviso oggi ormai obsoleto,
in quanto interno ad una fase ancora borghese-proletaria
(e non postborghese e postproletaria) del capitalismo, ma
tuttavia si era già colto il centro del problema.
Ed il centro del problema sta in ciò, che la strategia
immanente del sistema non è più incentrata sulla co­
lonizzazione sociologica, e cioè sul cosiddetto nesso di
imborghesimento del proletariato/proletarizzazione del­
la borghesia, ma sulla manipolazione antropologica, in
modo da trasformare la precarietà —come tu dici —in
una naturale dimensione umana. I giovani sono quindi
il naturale oggetto di questa sperimentazione sociologi­
ca, che è partita dagli USA per poi approdare in Euro­
pa e giungere oggi alle cosiddette “società tradizionali”,
mondo musulmano, India, Cina, eccetera. La questione
del corpo femminile in Afghanistan diventa altrettan­
to importante di quanto lo sia impiantare un’ennesima
base missilistica USA. Scoprire il sedere delle giovani
donne iraniane diventa un obiettivo bellico così come le
centrali nucleari di raffreddamento. Questo, ovviamen­
te, è del tutto fuori della comprensione sia delle nostre
“destre” che delle nostre “sinistre”. Tutto deve diventare
flessibile, il lavoro, la professione, il sesso, eccetera. Tutto
deve diventare funzione esclusiva del potere d ’acquisto
del mercato assoluto. Quando l’economia di mercato sarà
diventata società di mercato (ed a te certo non sfugge
la differenza fra i due termini), allora questo mostruoso
esperimento antropologico potrebbe vincere, come nei
più terrificanti scenari della fantascienza horror. E tu t­
tavia non credo che ce la faranno. Mentre infatti non ho
mai avuto molta fiducia nei cosiddetti poteri salvifici
della classe salariata, operaia e proletaria, ne ho sem­
pre avuta di più nella capacità di resistenza della natura
84 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

umana. Ho sempre fondato il mio irripetibile “comuni­


Smo” in Spinosa ed in Aristotele, e non certo in Panzieri
ed in Negri.
In secondo luogo, concordo sul fatto che la presa d’at­
to del “fallimento delle generazioni ideologizzare prece­
denti” deve diventare sempre di più il punto di partenza
per riformulare i termini essenziali di una “rifondazione”.
Ma la dissoluzione, ridicola e vergognosa, del cosiddetto
partito della rifondazione comunista italiana, che si sta
fortunatamente compiendo sotto gli occhi di tutti in que­
sto afoso luglio 2008, fra brogli, congressi truccati, cam-
mellaggi di falsi iscritti, tentativi golpisti del narcisista
borderline Bertinotti di sciogliere il suo partitino in una
melma arcobaleno, eccetera, deve farci capire che non si
tratta tanto di “rifondare” il comuniSmo partitico, a mio
avviso ormai superato dalla stessa “storia” su cui aveva in­
cautamente puntato tutte le sue carte (ma chi di storia
ferisce di storia perisce), quanto di riformulare il vecchio
eterno problema di una buona vita (il greco eu zen) nei
confronti di un sistema smisurato {apeiron, aoriston) in cui
la crematistica sta rendendo impossibile la progettazione
di una vita sensata.
In quanto ai problemi dell’utopia, o più esattamen­
te di come impedire il più possibile l’ideologizzazione
dell’utopia stessa, bisognerà parlarne in modo più anali­
tico in un’altra occasione. Essa certamente non manche­
rà nel prossimo futuro. Dopo circa quarantanni (1968-
2008) l’apparato ideologico-antropologico sessantottino
ha smesso —come tu dici —di “rappresentare un modello
di ispirazione credibile per i giovani”. Speriamo proprio
che sia così.
85

L’in teg razione im possibile


in u n a id en tità eu ro p ea che n o n c ’è

La g u e r r a g l o b a l iz z a t a c o n t r o la c iv il t à

1) Il tema del focus di ltalicum “Identità e migrazioni"


sembra apparentemente mettere a confronto termini
tra loro antitetici in quanto si può presupporre che il
fenomeno delle migrazioni conduca necessariamente
alla distruzione delle identità specifiche. In realtà le
migrazioni nella storia hanno spesso determinato l’e­
spansione di popoli che non hanno perduto con le mi­
grazioni la propria identità, ma che anzi, insediando­
si in altri paesi hanno soppiantato le altrui identità.
Potrebbe essere rappresentato in questo modo l’esito
finale delle migrazioni, specialmente dei popoli isla­
mici, che dall’Asia e dall’Africa hanno condotto negli
ultimi decenni una invasione silenziosa dell’Europa.
Le migrazioni nella storia hanno determinato profon­
de trasformazioni epocali in quanto dall’incontro di
civiltà diverse, dal connubio cioè di valori di culture
diverse, sono scaturite nuove sintesi che hanno dato
luogo al rinnovamento culturale e civile di identità or­
mai esangui. Con le migrazioni si è realizzata spesso
l’universalizzazione di identità e valori che altrimenti
sarebbero stati confinati nel ristretto ambito locale dei
singoli popoli. Non sembra però quello ora descritto l’e­
sito prodotto dalla globalizzazione che, assimilando i
popoli sulla base del principio economicistico del libero
mercato non ha portato alla sintesi, ma all’azzeramen­
to universale delle identità dei popoli: la globalizzazio­
ne, nella stia genesi, non nasce dall’incontro delle civil­
tà, ma dallo scontro fra le civiltà stesse, o meglio, dalla
guerra mondiale della globalizzazione contro la civiltà.
86 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Il problema del rapporto fra migrazioni (violente do


pacifiche che siano) ed identità culturali non solo è vec­
chio come l’umanità, ma addirittura coincide con la stessa
storia universale, che per almeno il cinquanta per cento si
identifica con la storia delle migrazioni stesse. Per questa
ragione è sconsigliabile metodologicamente iniziare con
genericità, magari anche sagge ma del tutto vaghe. Per
questa ragione è meglio parlare non di identità e migra­
zioni in generale, ma di identità e migrazioni in rapporto
con il contesto storico in cui viviamo, e cioè l’Europa e
l’Italia, e più in particolare l’Europa e l’Italia degli ultimi
due decenni. Se infatti si sostiene che le migrazioni sono
una minaccia (dell’identità culturale europea e cristiana,
del mercato del lavoro europeo e italiano, dell’ordine pub­
blico, eccetera), bisogna chiarire in che senso sono una mi­
naccia, e che cosa esattamente minacciano. Cominciamo
allora dall’Europa, e passiamo poi all’Italia.
Da più di un decennio, e con una visibile accelerazio­
ne dopo l’i l settembre 2001, l’Europa è diventata una
Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto
geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un cor­
po di occupazione straniero, denominato NATO, inviato
da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale,
pronto a minacciare ed a rischiare una guerra mondiale in
Georgia ed in Ucraina. Se questo è anche in parte vero,
allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande
profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano,
dalle cattedrali romaniche e gotiche all’umanesimo rina­
scimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo,
dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, ec­
cetera? Pura ipocrisia. Il profilo culturale di Eurolandia
oggi è caratterizzato da una apparentemente inarrestabile
americanizzazione, da una manipolazione televisiva vol­
gare ed invasiva, da una situazione generalizzata di lavoro
flessibile e precario, da un sistema universitario autore-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 87

ferenziale dominato da sistemi di cooptazione maialeschi


(per le donne) e familistici (per gli uomini), da una scuola
secondaria degradata da sindacalisti, psicologi invasivi e
pedagogisti futuristi pazzi, da una gioventù incline alla
droga ed allo sballo del “sabato sera”, eccetera. Se è così,
dove sta la famosa minaccia delle migrazioni africane, isla­
miche ed est-europee? Sarei proprio contento di saperlo!
Passando all’Italia, il colpo di stato giudiziario extra­
parlamentare denominato surrealmente Mani Pulite ha
distrutto il vecchio ceto politico della Prima Repubblica
1946-1992, aprendo lo scenario alla contrapposizione si­
mulata Berlusconi contro Veltroni, in uno scenario tragi­
comico di antifascismo in assenza totale di fascismo, di di­
sponibilità illimitata a mandare i nostri volontari in tutte
le aree del mondo che interessano all’impero americano, di
televisione degradata a passerella di Veline e di Gregoraci
con le tette in fuori, di cultura lottizzata ferocemente da
bande presenzialiste, eccetera. Una delle Italie più brutte
degli ultimi due secoli, un’Italia che all’estero sa soltanto
presentarsi come una sorta di Italia per ricchi oziosi (la Fer­
rari, la moda, il look, ed altre simili porcate per parassiti).
Avrò forse un po’ esagerato. Lo ammetto. E tuttavia, se
questo è lo scenario, dove sta la minacciai Chi può farci an­
cora più male di quello che siamo già riusciti a farci da soli?
Chi ha distrutto la stabilità e la sicurezza del posto di lavo­
ro? Sono forse stati i muratori romeni e senegalesi? Chi ha
creato il modello-puttana per le ragazze italiane, in cui dar­
la via ai potenti garantisce un reddito dieci volte superiore
al diventare professoressa, ricercatrice e medico d’ospedale?
Sono forse le battone nigeriane, albanesi e moldave?
E potremmo continuare.
Detto questo, può essere interessante l’atteggiamento
assunto verso le migrazioni da due differenti gruppi so­
ciali in Italia, il cosiddetto “popolo” (identificato spesso
con il cosiddetto “leghismo” di Bossi), ed i cosiddetti “in-
88 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

tellettuali”, cioè coloro che l’umorista Stefano Benni ha a


suo tempo definiti Gente di certa Kual Cultura (il Kappa
è ovviamente nell’originale, non è un errore di stampa).
Del popolo, si dice che è razzista e pieno di pregiudizi,
e che ha dimenticato quando noi eravamo emigranti con le
pezze al culo, trattati da mafiosi negli USA e da crumiri in
Francia. Il popolo è accusato di “populismo”, il che equivale
ad accusare un radiologo di “radiologismo” ed un panettie­
re di “panismo”. Berlusconi è accusato di “populismo”, lad­
dove tutti i populisti veri (Peròn, Nasser, eccetera) hanno
sempre attuato politiche di redistribuzione della ricchez­
za favorendo i ceti disagiati, mentre semmai Berlusconi è
come Superciuk, l’eroe dei fumetti del personaggio di Alan
Ford, che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Con politologi
tanto competenti, possiamo proprio stare tranquilli!
Il popolo non è certamente razzista per natura, oppu­
re perché legge solo il Corriere dello Sport anziché leggere
Baricco in traduzione slovena. Il popolo indulge al cosid­
detto “razzismo” solo quando comincia a percepire che il
lavoro dei migranti serve ai padroni per svalutare il potere
contrattuale conquistato in decenni di defatiganti lotte
sindacali. In Francia fino a tre decenni fa gli immigrati
italiani, spagnoli, portoghesi, polacchi, armeni ed anche
arabi si integravano facilmente nei quartieri popolari di
Parigi (ne porto una testimonianza personale diretta), e si
integravano sulla base della cultura del lavoro e della cultura
del vicinato. Oggi i giovani disoccupati vivacchiano nelle
cosiddette banlieue.r vagabondando qua e là ed organizzan­
dosi in bande di tipo “etnico”, spacciando droga e cercan­
do la rissa ed il rogo di automobili, laddove i loro genitori
si integravano attraverso il lavoro ed il vicinato. Se questo
non avviene più, la colpa è della nuova economia liberi­
sta globalizzata o della cultura islamica incompatibile con
l’Europa? Ognuno barri la casella che preferisce. Io ho fat­
to da tempo la mia scelta tra Karl Marx ed Oriana Fallaci.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 89

Il popolo, quindi, ivi compreso il montanaro bergama­


sco bossiano, non è affatto razzista. Sa bene che i marocchini
non sono identificabili con lo sciagurato ragazzotto spac­
ciatore di droga e gli albanesi non sono identificabili con
le violente bestie del prossenetismo. Sa anche, ovviamen­
te, che molti zingari rubano (perché negarlo con virtuoso
struzzismo?), ma molti di più non rubano affatto. Ricostru­
iamo una cultura del lavoro sicuro e garantito e del vicinato
solidale, e vedrete che il migrante si integrerà, pur conti­
nuando a fare il Ramadan, a non mangiare salame, eccetera
(differenze che non hanno mai fatto male a nessuno).
Gli intellettuali, o meglio la Gente di una certa Kual
Cultura, sono invece il vero problema. Gli intellettuali, in­
fatti, si “rifanno” la buona coscienza ed il loro illusorio sen­
timento di superiorità morale sulla plebe bosso-berlusco-
niana così come le attricette si “rifanno” il culo e le tette.
Un tempo erano comunisti utopisti egualitari, ed ammi­
ravano il partigiano combattente ed il guerrigliero eroico
latino-americano. Adesso non credono più in nulla, sono
passati da Emiliano Zapata a Luis Zapatero, dalla dittatura
del proletariato al corteo dell’Orgoglio Gay, da Gramsci
a Veltroni, eccetera, e credono di essere “superiori” inso­
lentendo Ratzinger ed alzando grida roche ai comizi dello
scamiciato molisano Di Pietro. È questa la ragione per cui
hanno scoperto la figura del Migrante come nuova figura
mimetica per nascondere la loro propria miseria.
Essendo del tutto privi d'identità, non deve stupire il
fatto che esaltino come massimo valore positivo la man­
canza di identità. Il marxismo è una semplice utopia tota­
litaria, da gettare nella pattumiera della storia. La classe
operaia, su cui avevano scommesso tanto, è un insieme di
leghisti volgari. Le nazioni non esistono, ma sono soltanto
delle “comunità immaginarie” artificiali. I sessi non esi­
stono più, ma ci sono soltanto più gli “omo” e gli “etero”.
Non c’è più nulla di stabile. Difendere la lingua italiana
90 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

è sospettato di mussolinismo, per cui nessuno protesta


più se invece di dire Giorno delle Elezioni gli imbecilli
dicono Electìon Day (e chi parla è un signore che conosce
bene l’inglese ed ha insegnato per un anno inglese nelle
scuole secondarie superiori). E allora il migrante diventa il
loro nuovo ìdolo, perché gli si attribuisce (erroneamente)
una sorta di tendenza spontanea al “meticciato”, al mul­
ticulturalismo. In altre parole, il migrante ha sostituito il
contadino povero (neorealismo cinematografico degli anni
quaranta e cinquanta) e Voperaio-massa fordista incazzato
(estremismo mimetico sessantottino). Costoro, non aven­
do nessuna identità, e facendo anzi 1 apologia filosofica
della non-identità (secondo la catena concettuale storici­
smo-relativismo-nichilismo, ben messa in luce dal filosofo
tedesco Joseph Ratzinger), hanno scoperto nel migrante la
nuova figura religiosa con cui possono finalmente sfogare
il loro odio verso il popolo (accusato di populismo).
I migranti veri sono ovviamente un’altra cosa. In parti­
colare quelli musulmani (ma anche in subordine i romeni
ortodossi ed i filippini cattolici) vengono da identità cultu­
rali in cui c’è ancora un fortissimo senso del lavoro e della
solidarietà familiare. Il regno di Palmella e della Bonino
gli è estraneo. Ed è per questo che il ceto di una certa Kual
Cultura si è costruito un’immagine di migrante meticciato
che ovviamente non esiste assolutamente nella realtà.

M ig r a z io n i e p r o l e t a r iz z a z io n e u n iv er sa le

2) Le migrazioni sono un fenomeno che periodicamente


si presenta nella storia dell’uomo. La storia dell’Ita­
lia è segnata da un susseguirsi di invasioni - migra­
zioni che ne hanno impedito l’unificazione politica
e hanno profondamente inciso sulla identità etnico
- culturale dell’Italia attuale. Nella storia dell’Ita-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 91

Ha e dell’Europa si sono verificate migrazioni che, al


contatto con la cultura locale hanno prodotto, oltre
che guerre d i conquista, anche nuove culture, evolu­
zione, nuove entità politiche: basti pensare alle m i­
grazioni - conquiste arabe, normanne, sveve. Ma le
attuali migrazioni non possono essere assimilate a
quelle del remoto passato italiano ed europeo. Infatti
il fenomeno migratorio attuale è esteso su scala mon­
diale ed è diretta conseguenza del principio liberista
della libera circolazione degli individui e dei capita­
li nel mondo globalizzato. Alla delocalizzazione della
produzione nel terzo mondo, con relativi incrementi
dei profitti dovuti alla riduzione dei costi della ma­
nodopera, fa riscontro una migrazione asiatica ed
africana dalle dimensioni bibliche verso l’Occidente.
Quest’ultim a è un fenomeno che scaturisce dal pro­
liferare dei conflitti bellici nel terzo mondo, causati,
per lo più, dall’imperialismo economico delle mul­
tinazionali volto all’accaparramento delle materie
prim e e delle fon ti d’energia e dall’impoverimento
del sud del mondo dovuto alla voragine incolmabile
dell’indebitamento indotto dalle politiche del Fondo
Monetario Internazionale. L’Occidente, con i costi
sociali dell’immigrazione sconta le conseguenze del
suo prim ato economico. A farne le spese sono i ceti
svantaggiati dell’Europa stessa, che vedono pregiu­
dicate le possibilità di occupazione dalla concorren­
za d i masse di lavoratori stranieri e debbono per di
più sopportare i disagi d i una convivenza difficile e
spesso conflittuale con popoli diversi e non assimila­
bili. La globalizzazione genera profitti per le elites
finanziarie, ma non progresso sociale per le masse
cosmopolite, ma proletarizzazione del lavoro a tu tti
i livelli su scala mondiale: questa è la sola forma di
eguaglianza realizzata veramente globale.
92 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

È ovviamente corretto rilevare che le attuali migra­


zioni, dovute alla globalizzazione, non hanno nulla a che
vedere con le vecchie migrazioni che hanno contribuito
potentemente alla etnogenesi storica del processo di co­
stituzione della nazione italiana (longobardi, franchi, nor­
manni, svevi, arabi, eccetera). E tuttavia, a fianco delle
differenze, non bisogna “censurare” anche elementi di so­
miglianza. Le ragioni delle migrazioni di massa possono
essere diverse, ma alla fine pur sempre di migrazioni di
massa si tratta. La nazione italiana, se una nazione italiana
ci sarà ancora fra duecento anni (e se per caso sfortunata­
mente non ci fosse più, la colpa sarebbe non certo dell’im­
migrazione musulmana o ortodossa, ma dell’omologazio­
ne multiculturale americanizzante in un orribile melting
pot di consumatori apolidi), sarà per forza una nazione
che avrà in qualche modo dovuto incorporare demogra­
ficamente e culturalmente le nuove ondate migratorie.
U n’Italia priva di identità ne verrà schiacciata. Ma un’I­
talia capace di ridonarsi di un’identità credibile non avrà
problemi di assimilazione. La Francia, la grande Francia
di de Gaulle (non parlo del pagliaccio Sarkozy), ne è stata
un esempio. Essa ha saputo assimilare negli ultimi cento
anni gigantesche ondate di migranti, eppure continua ad
avere un’identità forte, molto più forte della nostra sul
piano linguistico e culturale.
Non è un caso che gli stessi sostenitori della cosiddet­
ta “guerra di civiltà” (Huntington) siano anche sostenitori
della globalizzazione economica mondiale a guida impe­
riale americana. Tutto questo non è affatto casuale, ma
purtroppo su questo non si riflette abbastanza.
Le migrazioni barbariche della fine dell’impero roma­
no furono dovute anch’esse ad una sorta di globalizzazio­
ne continentale delle spinte delle popolazioni nomadiche
centro-asiatiche (avari, unni, peceneghi, ungari, eccetera).
Certo, non si trattava di una globalizzazione finanziaria o
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 93

industriale, non esisteva il famoso “decentramento pro­


duttivo”, ma c’era pur sempre una globalizzazione geo­
politica. Ma le ragioni restano sempre prevalentemente
interne: il limes romano fu sfondato anche e soprattutto
perché l’economia romana era marcia dall’interno; di­
strutte le vìllae dei piccoli produttori, distrutto il mercato
interno, aumentata la burocrazia parassitaria, formatisi i
latifundia, diffusesi religioni folli con rituali di autoca­
strazione (Eliogabalo, eccetera), abbrutite le masse metro­
politane dai circenses e dai giochi gladiatori (l’equivalente
dei gruppi di tifosi calcistici imbestialiti), alla fine bastò
una gelata invernale del Reno per permettere l’entrata dei
barbari, compresi quei longobardi i quali, molto più dei
celti ormai da tempo spariti, sono i diretti progenitori del
Senatur, del Dio Po, di Borghezio e delle sue urla antisla-
miche in cui l’incosciente (probabilmente senza neppure
sospettarlo) è al servizio della crociata anti-islamica per
conto del sionismo (non parlo dell’educato sionismo vel-
troniano alla Gad Lerner, ma del sionismo aggressivo e
fallaciano alla Fiamma Nirenstein).
In sostanza, gira come la vuoi, si arriva sempre ad un
punto, e cioè che il vero problema non sono i migranti
ma siamo sempre noi. Certo, il vecchio sociologismo mo­
noclassistico proletario, per cui non esistono le identità
nazionali (pure e semplici “comunità immaginarie”, come
sproloquia il ceto universitario politicamente corretto),
ma soltanto salariati omologati in un unico popolo sinda­
calistico mondiale, non è la soluzione. Ridurre l’emigrato
al suo contratto di lavoro è ovviamente riduttivo. E tut­
tavia non c’è alternativa: finché l’emigrato non godrà di
diritti sindacali eguali al lavoratore italiano tutti i discorsi
sulla integrazione saranno aria fritta, e gireranno a vuoto.
L’emigrato, infatti, vuole soprattutto dignità. Già il
grande Hegel, nella sua Fenomenologia dello Spirito, ana­
lizzando la dialettica fra Servo e Signore, ha chiarito che
94 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

il servo non si accontenterà mai fino a che non avrà conse­


guito il riconoscimento. Riconoscete l’emigrato nella sua
identità culturale, non chiedetegli un’omologazione che
non chiedereste mai ad un americano o ad un inglese, cui
invece si riconoscono tutte le “differenze” che pretende,
ed avrete un concittadino entusiasta, e per di più grato
all’Italia che in molti casi lo ha strappato alla fame e alla
precarietà. Certo, avrete sempre una fisiologica percentua­
le di banditi, assassini, prosseneti e spacciatori. Ma a que­
sto punto gli emigrati saranno i primi a volersi liberare di
questa feccia che li diffama. Del resto, è esattamente quel­
lo che è avvenuto per la nostra emigrazione italiana negli
USA. O vorreste affermare che tutti gli italo-americani
sono la feccia ripugnante del Padrino e dei Soprano?

I m m ig r a z io n e e “ n o m a d ism o p r o d u t t iv o ”

3. Il declino economico europeo ha prodotto una drastica


riduzione delle risorse produttive, diffusa disoccupa­
zione e sempre più esigue capacità di assorbimento
della manodopera sìa italiana che straniera. Si ve­
rificano sovente fenomeni di conflittualità sociale che
dilaniano progressivamente un tessuto sociale già
precario. Da una parte (da destra), si lamenta la
scarsa predisposizione degli immigrati alla integra­
zione nella società occidentale. Ma, ci si chiede come
sia possibile che africani e asiatici condividano va­
lori identitari e culturali in cui da generazioni gli
europei hanno smesso di credere. Dall’altra (da si­
nistra), si invoca e si favorisce l’immigrazione come
una “grande opportunità” per realizzare, sulla base
di motivazioni economiche, umanitarie, ideologiche
la società multietnica. L’immigrazione diviene in
realtà un colossale affare economico e politico. Per gli
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 95

imprenditori, allo scopo d i usufruire dì forza lavoro


a basso costo, per le istituzioni assistenziali (d i solito
ecclesiastiche), cui vengono devoluti ingenti contri­
buti statali, per politici pronti a sfruttare una po­
tenziale massa di manovra. Ma non sì va quasi mai
alle radici del fenomeno dell’immigrazione, alla etti
origine c’è la aggressione economicista del capitali­
smo assoluto, alla perenne ricerca di materie prim e e
forza lavoro a basso costo, per sostenere il suo abnor­
me livello d i consumi, Quindi l’integrazione viene
concepita come omologazione di europei ed immigra­
ti alle esigenze produttive globali, che comportano
la migrazione permanente della manodopera nei
hioghi e nei settori che al momento ne abbisognano:
l’integrazione coincide quindi con la non identità del
produttore —consumatore dotato di capacità d i adat­
tamento a questa precarietà globale che determina il
perenne “nomadismo produttivo”. Tale nomadismo
va diffondendosi peraltro anche nelle nuove gene­
razioni italiane, specialmente nei giovani dotati di
capacità intellettuali e specializzazioni tecnologiche,
nelle quali è riscontabile la tendenza ad emigrare in
paesi che permettano loro di costruire un futuro che
l’Italia è incapace di garantirgli.

Mi spiace dovermi ripetere, ma la chiave del problema


del rapporto fra identità e migrazioni sta sempre e solo nella
corretta formulazione da te usata in questa terza doman­
da: “Ci si chiede come sia possibile che africani ed asiatici
condividano valori identitari e culturali in cui da genera­
zioni gli europei hanno smesso di credere”.
Mi permetto una piccola correzione. Non da genera­
zioni, ma sostanzialmente solo da meno di due genera­
zioni circa. Continuare a ripetere a pappagallo che l’emi­
grazione è una “risorsa”, perché gli emigrati fanno lavori
96 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

che ormai gli italiani non vogliono più fare (contadini,


pastori, badanti, muratori, prostitute, eccetera), come fa
la sinistra, oppure che essi non hanno diritto di pregare da
noi, e dovrebbero andare a pregare ed a pisciare nel deser­
to (lo giuro, non me lo sono inventato, lo ha detto recen­
temente il sindaco di Treviso Gentilini!), come fa la “de­
stra”, non ci fa cavare un ragno dal buco. E non possono
neppure cambiare le cose il singolo calciatore e la singola
poliziotta di colore. Alla fine, gira gira, torniamo sempre
allo stesso punto di partenza: perché una società possa in­
tegrare felicemente, bisogna che il suo profilo complessivo
sia seducente, bisogna che la sua cultura sia attraente, biso­
gna che l’etica sociale e politica prevalente sia ammirevole.
Quando andai a studiare in Francia negli anni sessanta,
mi innamorai del profilo complessivo della Francia stessa,
del suo altissimo livello universitario, tanto migliore del
deserto provincialistico in cui ero cresciuto, m ’innamorai
dei suoi bistrots multietnici in cui tutti si sentivano egua­
li, perché eguagliati dal lavoro e dal vicinato, e non dai
pistolotti degli intellettuali di una certa Kual Kultura,
e m’innamorai soprattutto del confronto fra la Francia e
da dove venivo. Ora, ovviamente, sono in grado di su­
perare l’ingenuità esterofila della mia giovinezza. Ma ciò
che conta è il fatto che soltanto quando noi faremo ca­
pire agli emigranti che noi pretendiamo (giustamente!)
da loro quello che noi per conto nostro pratichiamo ogni
giorno l’integrazione avrà veramente luogo. Pretendiamo
che imparino la lingua italiana. Bene, giustissimo. Ma chi
ha permesso il degrado della lingua italiana, la sparizione
del congiuntivo, i mezzobusti televisivi sgrammaticati e
romaneschi, l’uso selvaggio delle parole inglesi quando
non ci sarebbe nessun bisogno di usarle in quanto esistono
perfetti corrispondenti italiani (intendiamoci: non penso
affatto al cachet che diventa l’italianissimo cialdino o il bar
che diventa l’italianissima mescita)? Chi ha permesso la
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 97

degradazione della lingua italiana in grufolare di porci?


E poi vorremmo che imparassero bene una lingua che noi
abbiamo degradato e involgarito!
Pretendiamo che rispettino la religione cattolica che è
sicuramente la religione della maggioranza degli italiani,
e che non è quindi seriamente equiparabile al buddismo o
all’induismo, salva restando ovviamente la legittimità in­
tegrale della pratica pubblica di tutte le religioni. Ma chi
ha consentito ad una attrice da trivio di auspicare la sodo-
mizzazione del papa da parte di diavoli, fra le grida oscene
della marmaglia urlante intorno al palco? E poi, possibile
che a nessuno venga in mente che bisogna che anche noi
rispettiamo l’Islam, smettendola di distinguere i musul­
mani in “buoni” e “cattivi”, appiccicando la targhetta di
“musulmani moderati” a coloro che accettano gli inter­
venti militari occidentali in Afghanistan ed in Irak, e cioè
interventi che neppure io, battezzato cristiano, mi sogno
di approvare, e che vorrei ricacciati e distrutti dalle forze
patriottiche locali, non importa di quale religione siano?
Pretendiamo che rispettino la nostra cultura politica.
Ebbene, che cosa può pensare un immigrato colto e poli­
ticamente sensibile di un Massimo D ’Alema e di un Gian­
franco Fini, che hanno rinnegato tutto il profilo politico in
cui hanno trascorso la giovinezza, e questo non certamente
in forza di un travaglio intellettuale sincero, ma di una
semplice presa d’atto delle compatibilità ideologiche del
nuovo scenario politicamente corretto? L’ex-comunista,
allevato sulle ginocchia di Togliatti e di Berlinguer, ha
bombardato la Jugoslavia nel 1999 per conto della NATO
e dell’impero USA, inventandosi un genocidio inesisten­
te, e certificato come inesistente da osservatori interna­
zionali (OSCE, eccetera). L’ex-neofascista allevato sulle
ginocchia di Almirante e di Donna Assunta, che afferma
che il fascismo è il male assoluto, e finché ammazza libici
ed etiopi va ancora bene, ma quando tocca i sacri ebrei è
98 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

imperdonabile. Auschwitz è il male assoluto, mentre H i­


roshima è solo un male relativo.
Non entro qui nel merito. L’ho già fatto ampiamente
in altra sede. Ma mi chiedo come si possa chiedere a emi­
granti di accettare il profilo non di Dante, ma di Pulcinel­
la, non di Manzoni, ma del Voltagabbana.

S ta to n a z io n a l e e picc o le pa tr ie

4) Quando si vuole contestare la globalizzazione si fa


appello sovente alla difesa delle identità naziona­
li. In Europa le identità si riconoscono sempre meno
negli stati nazionali. Infatti il principio dello Sta­
to sovrano è tuttora basato sulle identità nazionali.
Tuttavia è constatabile come dal Trattato di Ver­
sailles in poi, la nascita d i nuovi stati nazionali in
Europa, prim a a seguito dello smembramento degli
imperi centrali, poi in virtù della fine dell’URSS,
abbia dato luogo alla proliferazione di nuove en­
tità statuali non autosufficienti economicamente e
spesso protagoniste di conflitti inter - etnici. Tale
frantumazione dell’Europa, è stata inoltre una delle
concause della “guerra civile europea” teorizzata da
Ernst Nolte. Il dissolversi degli stati nazionali oggi
però comporta la nascita delle patrie locali sempre
piu piccole, spesso concepite su base esclusivamente
etnica. Possiamo affermare che il localismo delle pic­
cole patrie non è una rivoluzione, ma una involuzio­
ne rispetto allo stato nazionale, in quanto l’identità
europea ne risulta ulteriormente frantum ata e la
contrapposizione dei valori regionali avverso l’av­
vento della globalizzazione si presenta come una
difesa estrema e velleitaria, in quanto chiusa in
sé stessa e priva di sbocchi futuri. Il prim ato glo-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 99

baie americano è comunque in crisi e sempre più


dilaniato da conflitti nel mondo aperti o potenziali,
proprio contro stati nazionali che si oppongono all’e­
spansionismo o che comunque ostacolano il primato
USA, quali l’Iraq, l’Iran, il Venezuela e quasi l’in­
tero Sudamerica, la Russia, la Cina, l’India. Se gli
stati nazionali europei non riescono ad integrarsi e
sono sempre più deboli al loro interno è forse perché
l’identità non può essere fondata solo sulla nazione,
quale comunità di sangue e d i suolo, ma anche su
altri valori culturali, politici, religiosi trasversali
che esulino sia dal localismo che dallo stato naziona­
le, perché aperti alla condivisione dei popoli a l d i là
delle specificità etniche, linguistiche e culturali.

Sono pienamente d’accordo con quanto dici sul rap­


porto fra stato nazionale e cosiddette “piccole patrie”, e
mi permetterò di riassumere brevemente quanto dici con
questa sintetica formulazione: lo stato nazionale non è l’i­
deale, può e deve essere corretto e riformato, ma è pur
sempre meglio delle piccole patrie. Personalmente, ag­
giungo qui la mia formulazione, che è leggermente di­
versa: lo stato nazionale è un prodotto storico degli ulti­
mi secoli, ma non è affatto una “comunità immaginaria”,
quanto una evoluzione moderna della etnogenesi delle
precedenti identità già esistenti; non è ovviamente, in
quanto prodotto storico, un dato intangibile ed immodi­
ficabile, e può e deve essere migliorato con una maggio­
re valorizzazione delle identità locali e con un maggiore
accoglimento degli emigrati (senza nessun meticciato,
culto del migrante, e soprattutto senza nessuno stupido
“multiculturalismo”, cavallo di Troia della omologazio­
ne americanizzante del mondo); e tuttavia, cosi com’è, lo
stato nazionale è pur sempre meglio non solo del culto
delle cosiddette “piccole patrie”, ma anche e soprattutto di
100 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

unificazioni neoliberali come l’attuale Eurolandia asservi­


ta agli USA sul piano geopolitico ed al capitale finanziario
transnazionale sul piano economico e sociale.
La formulazione è forse un po’ lunga ma in questo modo
il lettore non farà confusione. Chi vuole oggi la statalizza­
zione delle piccole patrie, lo svuotamento del vecchio sta­
to nazionale (considerato “obsoleto”), la diffamazione del
concetto di nazione come “comunità immaginaria”, l’uso
scissionista delle etnie contro le nazioni, eccetera? Non è
difficile rispondere. Ci aiuta a farlo lo studioso francese
di geopolitica Francois Thual (cfr. Il mondo fatto a pezzi,
Edizioni del Veltro, Parma 2008). Chi vuole oggi che il
mondo sia ulteriormente “fatto a pezzi”, in modo che al
posto di duecento stati se ne abbiano duemila, più picco­
li e deboli, e quindi più controllabili economicamente e
militarmente?
Ma è evidente! L’impero USA lo vuole, perché con
due stati indipendenti tibetano ed uiguro potrebbe mi­
nacciare la Cina con basi missilistiche nuove come può
fare oggi con la Russia con basi missilistiche in Polonia
e Repubblica Ceca! Ci aveva già provato con la Cecenia,
ma per fortuna la Russia ha reagito in tempo. Ci è riusci­
ta con il Kosovo, trasformato oggi in ministato razzista
albanese ed in centro mafioso di droga e di tratta del­
la prostituzione. Se la Turchia cominciasse ad avere una
politica indipendente dagli USA, gli USA scoprirebbe­
ro immediatamente che i curdi, fino ad un attimo prima
“terroristi”, hanno assolutamente bisogno di uno stato
nazionale indipendente da cui espellere dieci milioni di
turchi. Se l’Italia uscisse dalla NATO, gli USA scopri­
rebbero immediatamente che le nazioni siciliana, sarda e
friulana hanno assolutamente bisogno di stati nazionali
indipendenti. Se la giunta militare birmana non tenes­
se il paese multinazionale con pugno di ferro, gli USA
imporrebbero subito uno stato shan ed uno stato karen.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 101

E potrei ovviamente moltiplicare gli esempi. Il fatto che


lo spezzettamento non si estenda all’Abchazia ed alla Os-
sezia è dovuto esclusivamente al fatto che il georgiano
Saakasvili è un loro fantoccio provocatore disposto a tutto
pur di riempire il suo infelice ed innocente paese di basi
missilistiche USA puntate su Mosca.
Pensatori onesti ed intelligenti come Alain de Benoist
non sembrano capire fino in fondo questo problema, in
quanto sono contemporaneamente per una geopolitica anti-
USA e per lo spezzettamento dello stato nazionale in una
miriade di piccole patrie. Onestamente, trovo in questo
una contraddizione. In de Benoist, questo è probabilmen­
te un derivato dalla sua insistente polemica decennale
contro il giacobinismo accentratore dello stato francese.
In ogni caso, il problema resta. A mio avviso, il centro
della contraddizione si sposta storicamente a seconda delle
congiunture politiche, e non resta mai lo stesso. Oggi (e
ripeto oggi), l’aspetto principale, mi sembra quello geo­
politico, e quello secondario mi sembra la pur legittima
difesa delle particolarità delle etnie e delle piccole patrie.
Non intendo affatto negare questo aspetto. Sono anzi
un “fanatico” dichiarato e non pentito della difesa dell’in­
segnamento delle lingue minoritarie e di ogni aspetto del
folklore locale. Ma per questo non c’è nessun bisogno di
frantumare lo stato nazionale. Il piccolissimo popolo Lap­
pone, ad esempio, è perfettamente tutelato dall’interno
dello stato nazionale svedese, che concede addirittura ai
lapponi privilegi che nega ai suoi stessi cittadini “svede­
si”. In Cina le minoranze etniche non sono neppure tenute
all’obbligo di un solo figlio, e sono dunque avvantaggiate
rispetto alla stessa maggioranza han. Questa è la giusta via.
La giusta via non è infatti quella dello spezzettamen­
to in tremila ministati a disposizione degli USA e della
NATO. Spero che su questo concordiamo.
102

Obama, l’America virtuale


e l’etere velenoso del capitalismo reale

O b a m a : l ’u o m o n u o v o p e r la n u o v a f r o n t ie r a

1) Con Obama sembra sia nata una nuova America.


Chi non ha esaltato Obama quale primo presidente
americano di colore, che inaugura una nuova epoca
americana, quale demiurgo dei nuovi tempi, imm a­
gine volta a riaffermare il prim ato morale e politico
Usa nel mondo? Non a caso si è affermato: “Nulla è
impossibile all’America". I Vangeli affermano altre­
sì: “Nulla è impossibile a Dio". L’America è quindi
identificata con Dio, data la sua vocazione messia­
nica, che sembra rievocare la “nuova frontiera" di
kennediana memoria. UAmerica ha sempre d i fron­
te, nel tempo e nello spazio, una nuova frontiera dai
confini globali da superare, quale portatrice di d irit­
ti umani, democrazia e liberismo, elargiti spesso a
mano armata, ha subalternità dell’Europa, sempre
in attesa d i eventi messianici d i provenienza atlan­
tica, è evidente. Forse il filoamericanismo è entra­
to nel codice genetico europeo: Veltroni ha detto: “lo
credo all’insostituibilità dell’America. Il mondo non
può accettare l’isolamento degli USA, non può r i­
nunciare alla sua leadership morale”. Uesaltazione
di Obama della sinistra ha reso evidente anche il fi­
loamericanismo della stessa sinistra radicale, rivela­
tasi tu tt’a lp iù an ti —Bush, ma non antiamericana.
La destra, già dichiaratamente filo —Bush, esterna
invece le sue preoccupazioni circa le intenzioni di
Obama per un futuribile ritiro americano dall’I­
raq, tramite Gasparri che ha detto “Obama? Ora A l
Qaeda è p iù contenta”. La destra identifica l’Europa
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 103

e l’Occidente con l’America: se Obama non conduce


crociate armate contro l’Islam, chi proteggerà l’Eu­
ropa? A mio avviso l’America, tramite Obama vuole
solo ricrearsi una immagine più credibile dinanzi
a se stessa e al mondo. Un presidente di colore sarà
sufficiente a esorcizzare l’immagine dell’America di
Bush quasi sconfitta militarmente, afflitta da una
crisi economica devastante e da un mega debito che
la rende ricattabile dalle potenze emergenti?

Parlare di Obama come se non fosse il presidente de­


gli USA, ma una sorta di socialdemocratico “abbronzato”
di lingua inglese (per usare il termine pittoresco impie­
gato da Silvio Berlusconi) è un nonsenso in cui non ho
alcuna intenzione di cadere. Discuterò invece il problema
in tre punti. Primo, se l’America è o meno un impero,
o più esattamente una repubblica imperiale, e quindi se
questa categoria si possa usare o sia invece impropria e
fuorviarne. Secondo, se l’America vuole essere un impe­
ro, e continuare ad esserlo, da cui nasce l’accusa surreale
di “antiamericanismo” rivolta a coloro che affermano che
l’America vuole essere un impero, e quindi vengono ac­
cusati di diffamazione per aver affermato ciò che gli stes­
si americani affermano di volere. Terzo, se l’America può
continuare ad essere un impero, lo voglia o meno, o sia in
decadenza, per cui non potrà più essere un impero neppu­
re volendolo. Dovrò essere forzatamente sintetico, ma in
queste cose conta solo l’essersi spiegato chiaramente senza
lasciare equivoci di sorta.
In primo luogo, l’America è un impero, oppure non
lo è affatto, ed anzi il termine è improprio e spinge ad
analogie storiche fuorviami? L’antichista Giovanni Vian-
sino (cfr. Impero Romano Impero Americano, Editrice Punto
Rosso, Milano 2005) ritiene di si, ma ritiene anche che il
vecchio impero romano sia stato migliore, perché meno
104 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

invasivo e più rispettoso delle particolarità culturali na­


zionali. Il discorso sarebbe lungo, e certo depone a favo­
re dell’impero romano il mantenimento del bilinguismo
greco-latino di fronte all’arrogante e ormai insopportabile
monolinguismo anglosassone, ma io non seguo Viansino
su questo punto, dato il carattere schiavistico ed oppres­
sivo dell’impero romano. Pensatori come Claudio M utti e
Tiberio Graziani (su questo punto in sostanziale conver­
genza con Alain de Benoist) ritengono invece che gli USA
non siano un impero, perché per loro il “vero” impero è
una cosa buona, non invasiva e rispettosa delle partico­
larità dei popoli, mentre gli USA sono un cannibale che
promuove nel mondo intero un “primitivismo di massa”
(l’espressione è di Adorno nei Prismi), e sono una mac­
china distruggitrice ed omologatrice. Infine, ci sono po­
sizioni (ad esempio Slavoj Zizek) che affermano che gli
USA non sono un impero, ma semplicemente uno stato
nazionale aggressivo ed espansionista. Il discorso sarebbe
ancora lungo, ma mi limiterò qui ad esprimere brevemen­
te la mia posizione personale, pur senza poterla motivare
adeguatamente per ragioni di spazio.
Con tutte le cautele terminologiche del caso, per me
l’America è un impero. L’interpretazione ipocrita ed errata
che la assolve, scaricando tutto su di un generico Impero
capitalistico globale deterritorializzato contestato da ge­
neriche Moltitudini non meglio determinate (e cioè l’in­
terpretazione di Antonio Negri e Michael Hardt, per for­
tuna tramontata dopo un effimero drogaggio mediatico),
deve essere archiviata come sussulto della mafia universi­
taria globalizzata di “sinistra”, il cui scopo era appunto di
assolvere in ultima istanza il ruolo imperialistico USA, an­
negandolo in un generico impero capitalistico mondiale.
Un episodio grottesco, quasi osceno, della comunità uni­
versitaria mondiale addomesticata. L’America è un impero
in base a due parametri fondamentali, la strategia impe-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 105

riale all’esterno e la democrazia imperiale all’interno. Che


ci sia una strategia imperiale all’esterno è cosa notissima,
e basta in proposito consultare una cartina geografica sul­
le basi militari USA all’estero. In quanto alla democrazia
imperiale all’interno, il sistema bipartitico USA è comple­
tamente unito sulle linee portanti del dominio mondia­
le, anche se vi sono fisiologiche differenze tattiche sia per
quanto riguarda l’appoggio o meno a determinati gruppi
di interesse dentro lo stato statunitense, sia per quanto
riguarda la “linea ideologica” da seguire. Obama è estra­
neo culturalmente e soprattutto generazionalmente alla
feccia intellettuale estremistica degli ex-trotzkisti rici­
clati in falchi interventisti (Horowitz, Berman, eccetera),
ma da questo a parlare di “multilateralismo” ce ne corre.
Un impero non è mai multilaterale per quanto concerne i
suoi obiettivi strategici. Un impero è sempre unilaterale
per sua propria essenza interna. In linguaggio kantiano,
un impero è unilaterale in base ad un giudizio analitico
a priori. E tuttavia, esistono per fortuna e grazia di Dio
nel mondo paesi dotati di armamento strategico nucleare
indipendente, che (del tutto indipendentemente dal giu­
dizio sul carattere interno dei loro regimi politici) fanno
da freno (katechon) all’impero USA. L’Europa è cultural­
mente morta, ed è da tempo prona ed inginocchiata nel­
la posizione un tempo chiamata del “missionario”, ma ci
sono almeno due zone culturali del mondo in cui l’odioso
dominio imperiale USA è respinto dalla grande maggio­
ranza della popolazione (il mondo arabo-musulmano ed il
mondo latino-americano). Questi due mondi esercitano lo
stesso ruolo contrastivo che al tempo dell’impero romano
era esercitato dalle tribù germaniche e dal regno dei Parti.
In secondo luogo, che l’America voglia essere un im­
pero, non mi pare seriamente contestabile. Molti studi
dettagliati hanno accertato il carattere messianico ed eccezio-
nalistico dell’identità culturale ed ideologica statunitense,
106 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

identità culturale assolutamente bipartisan, condivisa in­


tegralmente da un Clinton e da un Reagan, da un Bush e
da un Obama. Non nego, ovviamente, l’esistenza di linee
tattiche parzialmente differenti. Per continuare l’analo­
gia, i senatori ed i cavalieri nell’ultima fase della repub­
blica romana avevano effettivamente interessi divergenti
ed anche profili ideologici alternativi, e questo causò addi­
rittura un secolo di guerre civili a Roma (i Gracchi, Mario
e Siila, Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio, eccetera).
Anche negli USA ci fu una sanguinosissima guerra civile
fra Nord e Sud (1861 —1865).
La questione dell’ideologia identitaria USA, messia­
nica ed eccezionalistica, con le sue ripugnanti origini sei­
centesche nella parte più fanatica del puritanesimo pro­
testante inglese, è in realtà una questione centrale. Fin
quando gli americani non accetteranno di essere un paese
“normale” e comparabile ad altri nel mondo, abbandonan­
do lo schifoso ciarpame messianico ed eccezionalistico, il
tumore non verrà estirpato, ed il mondo sarà sempre sot­
to minaccia di guerra. E tuttavia, soltanto ristrettissimi
gruppi illuminati di americani sono oggi veramente di­
sposti ad abbandonare questo messianesimo eccezionali­
stico per “rientrare” in un mondo pluralistico normale. Il
problema, quindi, può essere riassunto così: abbandonare
consapevolmente il ripugnante messianesimo ecceziona­
listico, ed adottare progressivamente quello che definirei
con termine inesistente un “normalismo”, e cioè l’accet­
tazione di essere un paese come gli altri, sia pure ovvia­
mente con caratteristiche storiche e geografiche originali.
È anti-americanismo questo? Bisogna intenderci. Per
me non lo è, in quanto si richiede agli USA non certo di
non esistere, quanto soltanto di abbandonare la ripugnan­
te pretesa del messianesimo eccezionalistico. Forse che si
è antitedeschi se si richiede alla Germania di abbandonare
il profilo ideologico di Hitler? Forse che si è antisemiti se
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 107

si chiede al sionismo politico di abbandonare il progetto


di cancellazione del popolo palestinese e di abbandonare
l’osceno motto di Golda Meir: “Una terra senza popolo
per un popolo senza terra”?
Non lo credo proprio. Eppure su questo punto crucia­
le c’è una reticenza inspiegabile, se non con l’ipotesi che
siamo diventati un popolo di schiavi che ha introiettato il
dominio anche psicologicamente.
In terzo luogo, l’America può continuare ad aspirare al
dominio mondiale, oppure sta entrando in una fase di ir­
reversibile decadenza? Autori come il francese Emmanuel
Todd hanno sostenuto la tesi dell’irreversibile decadenza
dell’impero americano, e sono molto numerosi i saggisti
che sostengono tesi simili. Dico subito che purtroppo non
condivido affatto questa tesi ottimistica, che considero
“economicistica”, e cioè troppo protesa ad evidenziare
elementi economici, tecnologici, concorrenziali, di de­
bito interno, di esposizione debitoria, di avanzamento di
nuove superpotenze (Cina, India, Brasile, la stessa Europa
Unita, eccetera).
Il dominio imperiale americano non si basa esclusi­
vamente, e neppure principalmente, su basi economiche.
Chi ragionava in questo modo pronosticava all’inizio de­
gli anni novanta un dominio mondiale giapponese, ma si
sbagliava di grosso, perché il dato essenziale della questio­
ne non stava affatto nella tecnologia o nelle esportazioni
giapponesi, ma stava invece nel fatto che il Giappone re­
stava militarmente occupato da basi americane, e questo
conta mille volte di più di tutte le esportazioni e di tutto
il toyotismo del mondo. I sostenitori del declino USA,
anche se non lo sanno, sono fratelli gemelli del peggiore
economicismo riduzionistico marxista, da Kautsky in poi.
Il potere imperiale USA, che certamente Obama difen­
derà, perché è su questa base che le oligarchie finanziarie
USA gli hanno dato il semaforo verde con i loro giornali e
108 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

le loro catene televisive, si basa su tre parametri. Primo, la


produzione tecnologica ed economica, in cui gli USA con­
tinuano ad essere leaders mondiali (mai dimenticarlo), ma
in cui c’è veramente una concorrenza da parte delle nuove
potenze emergenti. Secondo, il potere di ricatto militare,
su cui la sproporzione fra la potenza USA ed il resto del
mondo resta schiacciante. Terzo, il potere culturale, ot­
tenuto attraverso il cinema, la televisione, i modelli di
vita, la liberalizzazione sessuale, la musica, l’immaginario
giovanile colonizzato dal primitivismo di massa, eccetera.
Andiamoci dunque piano a parlare di decadenza im­
periale USA. Purtroppo, non è cosi. Chi ne parla, finisce
con il sostenere che non è più necessaria una terapia im­
munitaria, perché la malattia è vinta. Fosse vero! Ma non
è affatto così!

L’o m o l o g a z io n e c o m p iu t a d e g l i a f r o - a m er ic a n i
al sistem a

2) G li entusiasmi della prim a ora sembrano però spe­


gnersi a poco a poco. Ci si chiede da più parti: ma
Obama sarà davvero di sinistra? Non sembra egli
abbia m ai fatto sim ili professioni di fede. La cultu­
ra del nostrano politically correct sembra comunque
esaltarsi dinanzi al successo della cosiddetta e mai
definita “altra America", a l successo del primo presi­
dente di colore, alla fine del razzismo, cui corrispon­
derebbe il trionfo del cosmopolitismo e della società
aperta del melting pot. Che poi tutto questo succeda
oltre Atlantico, in una realtà storica e politica cioè
lontana da noi anni luce, non ha alcuna importan­
za, dato che il primato americano rende la realtà
Usa coestensiva ed identificabile con le sorti globali
del pianeta. Se non erro, anche Condoleeza Rice è
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 109

afro —americana, Segretario di Stato d i Bush, la cui


politica si è identificata con quella dell’estremismo
neocon proprio dei Wasp. È afro —americano anche
Colin Powell, già assertore della guerre “democrati­
che” degli Usa, poi dimessosi all’inizio della seconda
invasione dell’Iraq. Tali personaggi, anche se afro
— americani, non hanno destato entusiasmo. Da
quanto precede, si evince che la provincia europea
vede in Ohama l’apostolo del riscatto dei neri, men­
tre in America egli è il simbolo, assieme alla Rice e
a Potvell dell’integrazione di una piccola elite afro —
americana nel sistema dei valori politico - religiosi
—economici fondanti degli S tati Uniti. Il processo
d i assimilazione dei neri ai valori della società dei
bianchi sembra compiuto. In tale assorbimento dei
gruppi etnici già subalterni consisterebbe dunque
il “miracolo americano”. Anche se poi, nei fa tti, si
tratta di un miracolo solo virtuale, date le condizio­
ni di inferiorità economica, sociale e culturale tu t­
tora sussistenti per la stragrane maggioranza degli
afro —americani, dei cicanos ecc...

Nella precedente prima risposta abbiamo parlato di


cose serie, o se vogliamo di cose tragiche, e cioè in che
modo funzioni non una democrazia in generale, ma una
democrazia imperiale (cose talmente diverse da essere ad­
dirittura incommensurabili), e del se, ed in quale misu­
ra, si possa parlare o meno di declino relativo o assoluto
dell’impero americano di fronte alle cosiddette “nuove
potenze emergenti”. Si può essere d’accordo o in disac­
cordo con le mie considerazioni, ma è innegabile che si
tratti di cose serie, ed anche tragiche, in quanto la super-
potenza USA porta con sé, nella sua dinamica di svilup­
po, il pericolo di continue guerre, in quanto si “nutre” di
continui nemici (il paragone con l’impero romano fatto
110 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

da Viansino mi sembra nell’insieme pertinente, anche se


non bisogna cadere mai nelle facili illusioni comparative
dell’analogia storica).
Qui invece si passa alla commedia, o per meglio dire,
al dramma satiresco ateniese. La mania per Obama, infarti,
non riguarda soltanto quel vero e proprio personaggio del­
la commedia dell’arte che è Walter Veltroni, ma riguarda
pressoché tutto l’arco della cosiddetta “sinistra”, che si è
inventata nella sua pittoresca ignoranza un Obama pacifi­
sta, socialdemocratico, filo-europeo, eccetera, seguendo la
sua ben nota abitudine di vivere drogandosi di illusioni
esotiche. Obama è infatti “esotico” come Stalin, Mao, Che
Guevara, eccetera. Il momento della smentita e della delu­
sione verrà presto. Nel frattempo, questa “sinistra” avrà ri­
mandato ancora per qualche anno la necessità di diventare
adulta, e di organizzare un insieme di tattiche e di strategie
basandosi sulle proprie forze. Ma chi non ha forze materia­
li, spirituali e morali, e presenta la signora Luxuria come
modello antropologico di avanguardia e non come sempli­
ce rispettabile caso umano particolare del tutto privo di
ricadute universalistiche fa parte del problema, non della
soluzione. E mentre allora nel caso della risposta preceden­
te mi sono sforzato di prendere la domanda sul serio, in
questo caso avrò difficoltà a mascherare il mio fastidio ed il
mio disgusto di dover parlare di una simile feccia umana ed
intellettuale. Cerchiamo però almeno di risalire genetica-
mente alle fonti storiche di questa obama —mania provinciale
per deficienti. Essa è infatti soltanto un sintomo superfi­
ciale e grottesco di una perdita di sovranità intellettuale
che semplicemente raddoppia nel rarefatto mondo delle
ideologie la ben più importante e strutturale perdita di so­
vranità militare causata dalle basi militari USA in Italia.
Alla base, a mio avviso, ci sta il mantenimento drogato
ed artificiale dell’antifascismo in assenza totale e concla­
mata di fascismo dopo il 1945. Questo mio rilievo non ha
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 111

ovviamente nulla a che vedere con un problema ben distin­


to, e cioè la valutazione storica, politica, morale, sociale e
storiografica del fascismo storico in Italia (1919—1945), ed
anche del fascismo come fenomeno europeo complessivo
(Germania, Spagna, eccetera), ed infine del fascismo come
fenomeno extra-europeo (ammesso che in questo caso non
sia impropria l’estensione del concetto a fenomeni come il
populismo argentino o l’imperialismo giapponese —cosa
che personalmente ritengo impropria e fuorviarne). Ho
espresso la mia valutazione storiografica sul fascismo in
molte sedi (cfr. La quarta guerra mondiale, All’insegna del
Veltro, Parma 2008), e qui non mi ripeto. Sono per mol­
ti aspetti un antifascista retroattivo, ma così come sono un
seguace retroattivo dei Gracchi, e cioè una sostanziale as­
surdità. Ciò che invece è sicuro, e che la “sinistra” italiana
dopo il 1945 ha mantenuto in vita un morto, lo ha dis­
seppellito ed ha costruito la sua (miserabile) identità non
su di un insieme vivente di contraddizioni culturali, poli­
tiche e sociali, ma su di un passato interamente trascorso
e sacralizzato in modo religioso. L’antifascismo in assenza
completa di fascismo è diventato una religione atea per
senzadio, con riti di esclusione, demonizzazione, esorciz-
zazione, infiltrazione, contaminazione, eccetera.
Ma perché questo è avvenuto? Anche le follie hanno
una loro logica. Ed in questo caso la logica deve essere
diagnosticata in una carenza strutturale di legittimazione
politica e culturale complessiva. Il modello sovietico di
socialismo dopo il 1956 appariva portatore di un deficit di
credibilità addirittura palese, ed allora la sacralizzazione
dell’antifascismo in assenza completa di fascismo, in par­
ticolare dopo i fatti del I960 a Genova e Reggio Emilia,
finì con l’essere la via pii! facile per una rilegittimazione
simbolica integrale del comuniSmo italiano. Il comuni­
Smo italiano non avrà magari avuto una strategia ed una
tattica per la rivoluzione, se non la beota attesa storicistica
112 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

della presunta (ed ovviamente del tutto inesistente) inca­


pacità dell’economia capitalistica di sviluppare le mitiche
forze produttive, ma almeno adempiva al compito storico
di impedire il temuto “ritorno del fascismo”. Tenere in
vita il fantasma di un onnipresente pericolo fascista diven­
tava così una funzione ideologica strutturale di compat­
tamento simbolico e soprattutto elettorale. Ma l’inganno
non poteva durare per sempre.
Fin dal 1964, nel Problema dell'Ateismo, Augusto del
Noce diagnosticò il cuore della questione: fondare la le­
gittimità storica del comuniSmo sul puro scorrimento pro-
gressistico della storia significa accettare il mito della mo­
dernizzazione dei costumi e dei rapporti sociali come “av­
vicinamento” alla prospettiva socialistica, ma il puro stori­
cismo progressistico porta solo prima al relativismo e poi al
nichilismo, e da Teresa Noce si arriverà ad Emma Bonino, e
da Antonio Gramsci a Marco Pannella. In una prospettiva
storica cinquantennale, possiamo dire che il keynesismo in
economia adempiva alla stessa funzione simbolico-illusoria
della modernizzazione liberalizzata dei costumi in sociolo­
gia. Sia Keynes che Luxuria erano visti come momenti di
“avvicinamento” ad una società più giusta.
Il comuniSmo italiano era già culturalmente morto fin
dall’inizio degli anni ottanta. Il mantenimento dell’anti­
fascismo in assenza completa di fascismo non poteva che
sfociare in un filo-americanismo onirico, dal momento che
l’America buona (quella di Roosevelt, dello sbarco in Si­
cilia ed in Normandia, ed anche del deplorevole “errore”
di Hiroshima, da non confondere comunque con l’impara­
gonabile Male Assoluto di Auschwitz) ci aveva liberati dal
Fascismo, anch’esso ormai definito Male Assoluto.
Solo i cretini, peraltro statisticamente numerosissimi,
possono non capire che il mantenimento simbolico del Pas­
sato Sacralizzato come Male Assoluto èfunzionale alla rimo­
zione dei mali assoluti (o relativi) attuali. Ed infatti solo il
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 113

Cretino, personaggio fondamentale della Storia Universale,


può non capire che se l’unico Male Assoluto è stato quello
terminato nel 1945, e da allora non ce ne sono mai più stati
(di “assoluti”, almeno), allora ne consegue che tutti i mali
posteriori (ad esempio la criminale invasione USA in Iraq
del 2003) sono non soltanto mali relativi, ma addirittura
errori che non sono stati commessi dagli USA in quanto
tali, ma soltanto dalla parte cattiva degli USA, e cioè dai
neoconservatori di Bush. Gli USA sono sempre per prin­
cipio innocenti. Come nel gioco delle tre carte ad uso dei
deficienti delle stazioni ferroviarie, nello stesso modo c’è
sempre una carta cattiva e una carta buona a stelle e strisce.
Il mito dell’altra America è quindi derivato, anche se
non direttamente, dal mantenimento artificiale dell’anti­
fascismo in assenza compieta e conclamata di fascismo. Il
fascismo deve perdere ogni caratteristica storica (a partire
dalla quale, ad esempio, si origina la mia disapprovazione
e la mia condanna, soprattutto per i fatti coloniali in Libia
ed in Etiopia), per diventare un Male Assoluto. Quando i
vari Fini ed Alemanno sacrificano al Male Assoluto, non
c’è qui alcun tradimento, ma solo un adattamento ideolo­
gico funzionale ad un sistema organico di subordinazione
dell’Europa asservita al dominio imperiale USA.
Nonostante tutti i tentativi degli intellettuali pentiti
e dei sessantottini rinnegati di equiparare Hitler e Stalin
la demonizzazione esclusiva di Hitler permane, in par­
ticolare a causa della sostituzione della religione civile
olocaustica alle vecchie religioni monoteistiche europee,
troppo invasive e prescrittive nella gestione psicologica
complessiva della vita privata, che deve essere interamen­
te liberalizzata per non creare intralci precapitalistici al
consumo illimitato del corpo e dello spirito. Il senso di
colpa indotto dalla nuova religione olocaustica, infatti, è
funzionale ad almeno tre dimensioni storico-sociologiche.
Primo, legittima i progetti genocidi del sionismo verso il
114 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

popolo martire palestinese, che deve pagare con il suo sa­


crificio espiatorio la colpa dell’Europa di non aver saputo
impedire Hitler, ma anzi di averlo “prodotto” essa stessa.
Secondo, legittima la permanenza illuminata ed indeter­
minata di basi militari USA in territorio europeo, sulla
base del fatto che, senza un guardiano ed un protettore,
noi europei potremmo sempre ricadere nella tentazione
populista a due facce, fascista-comunista (a questo serve
la mascalzonesca teoria del cosiddetto “totalitarismo uni­
co”). Terzo, non essendo una religione invasiva sui com­
portamenti familiari e sessuali, permette la sostituzione
integrale di Gramsci con Luxuria.
Chi mi conosce sa bene che non coltivo un solo gram­
mo del cosiddetto “antisemitismo”, che anzi mi ripugna
umanamente e filosoficamente. Ma se non si comincia ad
avere il coraggio di mettere su carta certe spiacevoli verità
è inutile continuare a stupirci dell’egemonia di una “si­
nistra americana” adoratrice provinciale della cosiddetta
“altra America”, come se si fosse continuato a sostenere
Hitler con la scusa che c’era sempre un “altra Germania”
(Goethe, Hegel, Mozart, eccetera). Siamo a questo punto.
Non ne usciremo certamente presto. Gli idioti sono fra
noi, e gli idioti sono più pericolosi dei lupi.

O b a m a , il p r e s id e n t e d e lla c o n t in u it à c l in t o n ia n a

3) Da questa America decedente si aspetta parados­


salmente l’innovazione. Obama viene definito clin-
toniano. Ma Clinton non perseguì politiche sociali.
Occorre ricordare che la fine del suo secondo manda to
coincise con una grave crisi finanziaria, quella del­
la implosione della bolla speculativa generata dalla
neiv economy, che diede inizio ad una crisi struttu­
rale dell’economia americana da cui non è più usci-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 115

ta. Clinton non fu né pacifista né multilateralista,


fu responsabile della guerra di aggressione contro la
Serbia e dell’aggressione al Sudan. Obama ha an­
nunciato misure a sostegno all’economia e al lavoro
d i stampo keynesiano, ma l’intervanto dello Stato
non rappresenta un mutamento del sistema liberi­
sta americano: anche i precedenti presidenti, da Re-
agan in poi, hanno fatto uso della finanza pubblica
allo scopo d i fa r fronte a i disastri del liberismo fi­
nanziario. L’intervento pubblico in America ha una
funzione assistenziale e restauratrice del sistema
liberista in crisi, non comporta lo stato sociale. In
politica estera Obama ha annunciato il ritiro dall’I­
raq, ma anche il proseguimento della guerra afgana
e la chiusura verso l’Iran. Tra i suoi collaboratori
spiccano i nomi d i lllary Clinton, Brzezinski, Kerry,
Rahm: tali scelte preludono a politiche interventiste
nel mondo, eventualmente armate.
Quanto al ritiro dall’Iraq, è da dimostrarsi con
quali modalità gli Usa lasceranno tale Paese, senza
incorrere in una ritirata - disfatta simile a quella
vietnamita. Da quanto precede, al d i là di una in­
novazione virtuale —mediatica, emerge una sostan­
ziale continuità della politica americana all’interno
e nel mondo, tesa a conserva re il proprio primato.

Il mito del clarinettista Clinton come capo dell’Ulivo


Mondiale, (la demenziale espressione, ad un tempo surre-
ale e servile, fu veramente usata da Romano Prodi, l’uomo
che voleva ritrovare il nascondiglio di Moro nel 1978 fa­
cendo ballare i tavolini!) è ovviamente una variante dell’a­
mericanismo onirico della sinistra italiana, di cui ho già
discusso nella risposta precedente. La guerra di aggres­
sione contro la Serbia nel 1999 fu “venduta” come una
campagna mediatica che strillava su di un (inesistente)
116 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

genocidio della popolazione albanese del Kosovo e su di


una (altrettanto inesistente) “pulizia etnica” di quest’ulti-
ma. Si trattò in realtà di una guerra contro l’Europa (cfr.
Romolo Gobbi, Guerra contro l’Europa, Editrice Settimo
Sigillo, Roma 2000), cui l’Europa si sottomise con il sor­
riso ebete del masochista che si sottomette alla virago in
bustino e calze nere che lo frusta sulle rosee chiappe. L’Ita­
lia, paese cialtrone ed ipocrita, la fece violando la costitu­
zione che l’impediva esplicitamente, in base all’ipocrisia
tartufesca per cui non si trattava di guerra, ma soltanto di
una “operazione di polizia internazionale”. L’ONU, peral­
tro, non l’aveva consentita, e quindi si trattò soltanto di
una guerra unilaterale NATO. La NATO è oggi la peste
dell’Europa, e sempre più lo sarà nel prossimo futuro, fino
a provocare un’inutile tensione con la Russia post-comu­
nista. In proposito Putin è stato una benedizione rispetto
all’osceno ubriacone Eltsin, anche se purtroppo è ancora
al di sotto della necessità minima di deterrenza, a causa
anche della natura criminale della nuova borghesia russa,
che non può fare da base politica e culturale per nulla di
serio. Ma per il momento teniamoci quello che passa il
mercato, anche se è di scarsa qualità!
Quando scoppiò la crisi della bolla speculativa nell’ot­
tobre 2008 cercai di capirne qualcosa, data la mia relativa
incompetenza in economia. In generale compro il Sole 24
Ore la domenica mattina esclusivamente per l’inserto cul­
turale, e butto via immediatamente nel cestino il resto del
giornale. Questa volta, però, fui incuriosito da un titolo
di un inserto sulle “cause della crisi”, ed allora me lo sono
diligentemente letto, sperando di poter capire le “cause
della crisi”.
Canaglie! Le cause della crisi erano individuate da co­
storo nella scarsa vigilanza attuata dagli organi a ciò prepo­
sti! Sfacciati ipocriti! Il processo sociale di arricchimento
globale provocato nell’ultimo ventennio dalla finanziariz-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 117

zazione dell’economia, con relativo impoverimento non


solo dei cosiddetti “poveri” del Terzo Mondo ma anche del
ceto medio metropolitano, consegnato all’insicurezza esi­
stenziale ed al lavoro flessibile, incerto e precario, era defi­
nito in termini di “insufficiente controllo da parte degli or­
gani a ciò preposti”, come se gli addetti al controllo fossero
stati sessantottini analfabeti promossi con il voto unico e
non boriosi managers anglofoni roteanti la loro pipa-totem
con masters nelle più costose facoltà di economia!
La sfacciataggine delle canaglie neoliberali è inaudi­
ta! Il problema però non si risolve gettando nella pattu­
miera questi inserti color rosa. La questione è la natura
dell’intervento pubblico. Su questo, lo ammetto, non ho
affatto le idee chiare. Mi è chiaro, naturalmente, che il
“salvataggio delle banche” non ha nulla a che fare con il
ritorno allo “stato sociale”, che negli USA non c’è mai sta­
to, ma in Europa invece si, addirittura prima dei famosi
“trenta anni gloriosi” (1945 - 1975) del troppo lodato
Hobsbawm, un cattivo storico che riduce le nazioni a “co­
munità immaginarie”, contribuendo cosi ad incrementa­
re le banalità postmoderne sulla fine degli stati nazionali
e l’avvento di un multiculturalismo sradicato adatto per
gruppi intellettuali in crisi di orientamento.
Non mi è invece chiaro, in quanto appartiene ad un
futuro non prevedibile anche se imminente, se vi saranno
movimenti sociali in grado di reimporre, magari con un sag­
gio uso misurato della violenza necessaria (la manifestazio­
ne belante —pecoresca non ottiene mai nulla per sua stessa
natura, ma è soltanto una autocelebrazione narcisistica per
impotenti cronici), la restaurazione di forme di stato sociale,
al di là di elemosine oligarchiche tipo social card. Io non lo
escluderei a priori. Il ceto medio, fino ad ora, ha mangiato
merda per vent’anni senza protestare, accettando insicurez­
za, declassamento e quello che si chiama in linguaggio so­
ciologico “aspettative decrescenti”. Esso non può aspettarsi
118 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

nulla dalla “sinistra” di Luxuria e dallo sgombero dei cro­


cifissi nei luoghi pubblici. Certo, si tratterà probabilmen­
te di ciò che i politologi corrotti di regime chiameranno
“populismo”. Io sono diventato personalmente un amico
di questo concetto. Se al circo mediatico delle oligarchie
finanziarie dominanti la parola “populismo” fa schifo, so­
spetto automaticamente che si tratti di una buona parola.
Ma chi vivrà vedrà, e perciò mi fermo qui.

V er so u n a p ia n if ic a z io n e c a pit a l ist a

4) La crisi devastante americana, che ha colpito Veco­


nomia finanziaria, determinato una grave recessio­
ne dell’economia reale, moltiplicato oltre ogni lim ite
il debito estero, sembra preludere alla decadenza
progressiva del prim ato economico e politico globale
americano.
La crescita esponenziale delle potenze asiatiche, il ri­
torno sulla scena mondiale della Russia, un Sudarne-
rica sempre più affrancato dall’influenza america­
na, un’Europa, che pur carente di sovranità politica,
è pu r sempre un fattore condizionante, fanno presa­
gire la fine dell’unilateralismo americano a favore
di un mondo multipolare, composto da potenze conti­
nentali. Tuttavia c’è da osservare che la crescita delle
potenze asiatiche e la rivitalizzazione della Russia,
derivano dalla delocalizzazione produttiva operata
dall’Occidente e dal coinvolgimento di tali stati nella
finanza globale. La recessione produttiva, unita al
decremento dei consumi in Occidente, potrebbe por­
tare al rallentamento dello sviluppo anche di Cina e
India. Il debito americano, le ripetute insolvenze, i
crack finanziari, l’instabilità del dollaro, potrebbero
pregiudicare gravemente il ruolo sia politico che eco-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 119

nomico dei Paesi asiatici e della Russia nel mondo.


Inoltre gli interventi statali a pioggia nelle economie
occidentali comportano necessariamente un accresci­
mento del ruolo delle banche centrali (private) e dei
fondi sovrani degli em irati arabi, con conseguente
incremento del debito pubblico americano e occiden­
tale. A i fallim enti bancari e ai crolli dell’industria,
fanno seguito fusioni, incorporazioni, nuovi flussi di
capitale transnazionale volti all’accaparramento oli­
garchico dell’economia mondiale.
E da prevedere una trasformazione oligarchico —di­
rigista del capitalismo globale, strutturato in con­
centrazioni d i capitale transnazionale sempre più
ristrette.
In tale ottica, è prevedibile per il prossimo futuro
l’avvento di un capitalismo pianificatore dell’econo­
mia a livello mondiale, che rivela una paradossale
somiglianza al sistema di pianificazione economica
fallim entare di memoria sovietica.

Dei molti stimoli contenuti in questa quarta domanda


credo sia opportuno concentrarsi su uno solo, e cioè “se sia
prevedibile o meno per il prossimo futuro l’avvento di un
capitalismo pianificatore dell’economia a livello mondiale,
che rivelerebbe una paradossale somiglianza con il sistema
di pianificazione economica fallimentare di memoria so­
vietica”. Il discorso richiederebbe cento pagine, ma ritengo
lo si possa telegraficamente compendiare in tre punti.
In primo luogo, io non credo affatto alla cosiddetta
pianificabilità della riproduzione capitalistica complessi­
va. Provvedimenti dirigistici anticrisi vengono certamen­
te presi di tanto in tanto, l’apparato statale viene messo al
servizio del sistema capitalistico in molti modi, alternan­
do ciclicamente momenti protezionistici e liberalizzazio­
ni economiche ultraliberistiche, eccetera, ma non bisogna
120 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

confondere tutto questo con la vera e propria pianifkabi-


lità del sistema. Il capitalismo vive strutturalmente della
concorrenza strategica, diplomatica, militare e geopolitica
di gruppi capitalistici rivali (Gianfranco La Grassa), e non
esiste nessuna pianificazione centralizzata dell’estorsione
del plusvalore (errore di Raniero Panzieri e di tutto l’ope­
raismo italiano fino ad Antonio Negri). E per questo che il
capitalismo è tanto forte. Se ci fossero organi pianificatori
centralizzati sarebbe immensamente più debole, e ci sa­
rebbe una fortezza della Bastiglia o un Palazzo d’inverno
da assaltare, che purtroppo non ci sono. Il capitalismo è
assimilabile a un etere velenoso che avvolge tutta l’atmosfe­
ra, non ad una fortezza da assediare. Se fosse una fortezza,
i popoli del mondo l’avrebbero già conquistata da tempo,
e le ridicole distinzioni Ira “destra” e “sinistra” farebbero
già parte di un museo di archeologia comica per bambini.
In secondo luogo, il superamento del capitalismo,
niente affatto sicuro ma solo potenzialmente possibile,
potrà avvenire soltanto con un insieme di comportamenti
soggettivi coscienti ed organizzati, all’interno di una “fi­
nestra storica di opportunità”, che può avvenire o in con­
seguenza di una crisi profonda oppure (Dio non voglia!)
in conseguenza di una guerra o di un insieme di guerre. I
cosiddetti “comunisti” hanno da tempo rimosso un fatto
storico elementare, e cioè che il comuniSmo russo è nato
sulla base della prima guerra mondiale ed il comuniSmo
cinese sulla base della guerra sino-giapponese. Non mi si
fraintenda. Non intendo affatto “auspicare” questa situa­
zione catastrofica. Semplicemente, rilevo un dato storico
che i pecoroni belanti del pacifismo narcisistico di regime
rimuovono continuamente.
In terzo luogo, il comuniSmo storico novecentesco
(1917 - 1991) non è fallito a mio avviso perché la piani­
ficazione economica era inefficiente, anche se alla fine lo
era. Lo era, ma era anche in via di principio migliorabile
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 121

con provvedimenti di politica economica ad hoc. Il comu­


niSmo storico novecentesco è stato un grande esperimento
di ingegneria sociale dall’alto esattamente l’unica fattispe­
cie che Marx aveva esplicitamente esclusa, considerandola
“utopistica”. Secondo Fredric Jameson, che secondo me
ha colto il nocciolo della questione, l’esperimento comu­
nista di ingegneria sociale socialista ha potuto svilupparsi
soltanto sotto una “cupola geodesica", e non appena si è
aperto al mercato mondiale è subito crollato. La ragione,
a mio avviso, è totalmente spiegabile in base alla teoria
generale di Marx, sulla base della centralità della lotta di
classe all’interno dei rapporti sociali di produzione ingan­
nevolmente “socialisti”. Si è trattato di una maestosa con­
trorivoluzione di massa dei ceti medi cresciuti alFintemo
della società sovietica, stanchi e nauseati dell’egualitari-
smo livellatore che pagava un medico meno di un operaio,
controrivoluzione interna che ha avuto poi un appoggio
esterno in circoli capitalistici, soprattutto sionisti (vedi la
maggior parte degli odierni “baroni ladri” che impestano
la società russa criminale di oggi).
Volesse il cielo che il sistema capitalistico fosse fragile
e debole come l’esperimento fallito di ingegneria socia­
le sotto la cupola geodesica chiamato comuniSmo storico
novecentesco (da non confondere —per carità di Dio —con
il comuniSmo utopico —scientifico di Marx - l’ossimoro
è ovviamente del tutto volontario)! La sua forza sta pro­
prio nella sua capillare invasività, e questo esclude sia la
teoria del crollo economico del sistema (Grossmann), sia
la teoria del capitalismo politicamente organizzato e pia­
nificato a livello mondiale (Pollock). Se le cose stessero
alla Grossmann e/o alla Pollock sarebbero in fondo facili.
Purtroppo non stanno così, ed ecco perché appaiono tanto
difficili. E tuttavia, una “breccia”, prima o poi, si troverà,
anche se non certo nel corso della nostra vita terrena.
122

L’eroismo di Gaza
e il Ministero Occidentale della Verità

I l t r a d im e n t o a r a b o d e lla c a u sa pa lestin e se

1) La tragedia di Gaza, a seguito dell’invasione isra­


eliana, ha potuto verificarsi a causa della abissale
sproporzione di forze militari, economiche e politiche
esistente tra Israele e i palestinesi di Hamas. Questi
idtimi, assediati, affamati, scarsamente armati, v i­
vono in uno status di isolamento e criminalizzazione
internazionale. La debolezza politica e militare di
Hamas è dunque da imputarsi al suo isolamento nel
contesto internazionale, con particolare riferimento
al mondo arabo. Ed è proprio la mancanza di peso
politico (o il tradimento della causa palestinese?),
degli stati arabi la causa della selvaggia aggressione
israeliana perpetrata con tutte le possibili violazio­
ni del diritto internazionale. Il mondo arabo - mu­
sulmano trovò in passato un suo momento di unità
proprio nella difesa della causa palestinese, mentre
oggi sembra dominato da interessi sia strategici che
economici che, seppur con qualche eccezione (Siria e
Iran), lo coinvolgono nella sfera geopolitica ed econo­
mica dell’Occidente. La causa araba e quella palesti­
nese si identificarono in quel moto indipendentista
che liberò la nazione araba dal colonialismo europeo.
Il nazionalismo arabo ebbe come modello i regimi lai­
ci, nazionalisti, socialisti di stampo nasseriano, con
l’Egitto come stato guida. La fine di tale modello por­
tò, a causa delle profonde divisioni nel mondo arabo,
alla fine della stessa causa araba. Successivamente,
fti l’Islam a rappresentare il fattore identitario di
tu tti i popoli arabi e non. Ma lo stesso Islam si ri-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 123

velò un fattore religioso - identitario generatore di


ulteriori insanabili divisioni politiche tra gli stessi
popoli islamici. Lo stesso fondamentalismo ha spesso
strumentalizzato, p iù che sostenuto la causa palesti­
nese. Anzi, il fondamentalismo islamico appare assai
poco conciliabile con le aspirazioni palestinesi all’in­
dipendenza, data la natura composita, sia dal punto
di vista etnico, che religioso del popolo palestinese.

Chi conosce l’opera di George Orwell ricorderà il fa­


moso Ministero della Verità, il cui compito è l’imposizio­
ne della sola versione consentita di un qualsivoglia problema
di carattere pubblico, culturale e sociale. Le società capi­
talistiche normali, a differenza dei modelli nazionalsocia­
listi (Hitler) o comunistico-dispotici (Stalin) non hanno
in genere bisogno di uno specifico ministero della verità,
perché bastano ed avanzano i meccanismi sofisticati di fil­
traggio, demonizzazione e diffusione capillare dei modelli
politico-culturali adatti alla riproduzione sociale comples­
siva, che nel capitalismo contemporaneo è oligarchica, o
più esattamente oligarchico-finanziaria-transnazionaie. È
proprio il meccanismo del mercato di beni e di servizi, al
di fuori di qualsiasi pianificazione pubblica di tipo dispo­
tico e statalistico, che produce un mercato oligopolistico
delle opinioni e delle concezioni del mondo. Per questa
ragione il Ministero della Verità è sostituito dal Mercato
Oligopolistico delle concezioni del mondo “consigliate”
dall’oligarchia, che gli intellettuali universitari in genere
coerentizzano, abbelliscono e sistematizzano, trasforman­
dole in “risorse” ornamentali per arrampicatori sociali e
(uso il termine e la grafia dell’umorista Stefano Benni)
Persone di una Certa Kual Kultura.
C’è però una eccezione rilevante, e pressoché unica, sulla
questione ebraica e sionista. In questo caso, e solo in questo
caso, si esercita la dittatura pubblica del Ministero orwel-
124 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

liano della Verità, che impone la sola verità consentita, pena


l’emarginazione e la condanna per i reprobi malati di peste
ai margini della società. Nella mia terza risposta analizze­
rò gli aspetti culturali della Religione Olocaustica e del
Tabù Negazionista, e soprattutto la fondamentale funzione
politico-sociale di questi due dati culturali e teologici. In
questa mia prima risposta invece, toccherò gli aspetti più
propriamente storico-politici di questa questione.
Nonostante le messe in guardia del Ministero della
Verità, i dati storici ed ideologici ci dicono che il popolo
ebraico ha avuto una etnogenesi storica del tutto distin­
ta da qualsiasi continuità etnica palestinese (cfr. Shlo-
mo Sand, Comment le peuple p u f fu t inventò., Fayard, Paris
2008), e che tutte le pretese alla proprietà esclusiva della
Palestina sono soltanto indegne porcherie razziste prive di
fondamento. Il carattere apertamente colonialistico-razzi-
stico del primo sionismo (Herzl, eccetera) non può essere
seriamente negato alla luce dei documenti storici. La stes­
sa equazione ebraismo-sionismo è una sporca menzogna,
perché il sionismo è una ideologia politico-territoriale che
un ebreo può condividere oppure no, e ci sono stati famosi
ebrei che non l’hanno condivisa, o l’hanno condivisa in
forma tiepida e piena di riserve. Per fare un solo esempio,
il noto Primo Levi, autore di Se questo è un Uomo, monu­
mento immortale della testimonianza delle sofferenze del
popolo ebraico nei campi di sterminio (si, di sterminio,
e non solo di lavoro), definì “protervia sanguinosa” (cfr.
“La Stampa”, 14 —9 —1982) i comportamenti di Begin
in Libano (immensamente meno protervi e sanguinosi di
quelli attuati a Gaza dalle belve sioniste), e lo stesso Levi
nel 1985, avendo sostenuto in una conferenza pubblica a
New York che Israele era stato un “errore in termini stori­
ci” (sic!) fu interrotto, silenziato e costretto a terminare la
conferenza dalla plebaglia urlante di un pubblico di soli
ebrei fanatizzati.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 125

Ho usato volutamente termini forti ed insultanti. E li


ho usati perché non riconosco nella mia coscienza l’auto­
rità di nessun Ministero della Verità e mi prendo l’inalie­
nabile diritto di distinguere fra popolo ebraico, religione
ebraica, sionismo politico, comportamenti razzisti e colo­
nialisti dei governi israeliani, diritti inalienabili del popo­
lo palestinese, vergognosa subalternità europea, eccetera.
So bene che mentre è possibile separare il popolo italiano
dal fascismo, il popolo tedesco dal nazionalsocialismo, il
popolo russo dallo stalinismo, il popolo americano dal
bushismo assassino, eccetera, chiunque separi concet­
tualmente l’ebraismo dal sionismo viene subito accusato
di antisemitismo. E un’accusa sporca e menzognera, ma
nelle attuali condizioni storiche è impossibile sottrarvisi.
Quando grandina, e non c’è un riparo, bisogna mettersi il
cappuccio per evitare i danni al cuoio capelluto.
Ma torniamo al nostro problema, e per farla corta tor­
niamo subito ai fatti di Gaza del dicembre 2008 —gen­
naio 2009- Il Ministero della Verità sostiene in proposito
che si trattò di una risposta legittima alle violazioni uni­
laterali della tregua fatte da Hamas (vincitore delle prece­
denti elezioni democratiche in Palestina dopo che l’intero
occidente asservito aveva sostenuto per decenni che ci vo­
levano elezioni democratiche in Palestina —ma evidente­
mente per l’occidente asservito la democrazia è diventata
un codice ideologico di accesso politicamente corretto e
non più un principio di legittimazione elettorale-maggio-
ritario). Si tratta di una sporca menzogna. Israele aveva
sempre sistematicamente violato la tregua non solo chiu­
dendo i cosiddetti “valichi” e condannando gli abitanti di
Gaza alla fame e alla miseria, ma aveva sempre proseguito
le cosiddette “uccisioni mirate”. Questo mi ricorda Hitler,
che attacca la Polonia il primo settembre 1939 sostenendo
di attuare una semplice risposta ad un precedente attacco
militare polacco.
126 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Ma torniamo alla natura delle modalità dell’attacco a


Gaza, modalità che non solo configurano un insieme di
crimini di guerra (fosforo bianco, armi nuove di distru­
zione capillare dei corpi, eccetera), ma che erano espli­
citamente rivolte contro la popolazione civile (donne,
bambini, vecchi, eccetera). Per capire la natura di questa
scelta omicida e criminale bisogna che ci si impadronisca
concettualmente di due pilastri ideologici della strategia
sionista, rispettivamente il “far capire che hanno perduto”
ed il “dar loro una lezione perché capiscano che hanno
perduto e finalmente lo ammettano”. Il Ministero Occi­
dentale della Verità, ha come scopo la non-comprensione di
questi due dati strategici. Chiunque parli con un israelia­
no medio in Israele o all’estero, o con un sionista medio
all’estero sa perfettamente che quello che vi dico è vero,
ed è ancora al di sotto della verità, anche se l’ipocrisia
del Ministero della Verità deve cercare di confondere le
acque con la simulazione della triade sionista-buonista-
progressista Yehoshua-Oz-Grossman.
Ma torniamo a Gaza. Secondo calcoli recenti, nei venti
giorni di bombardamenti punitivi ci sono stati 1330 mor­
ti, di cui 437 bambini sotto i sedici anni, e 5890 feriti, di
cui 1890 bambini sotto i sedici anni. E non si tratta affat­
to di “danni collaterali”, dovuti al fatto che i “vili” di Ha-
mas si nascondevano fra i civili (fra poco saremo costretti
a riscrivere la storia, ed a dire che i vili partigiani ebrei del
ghetto di Varsavia si nascondevano fra i civili, mettendo
in imbarazzo i poveri civilissimi tedeschi). Si è trattato
di una punizione collettiva voluta. Del resto, lo ammette
apertamente la ripugnante sionista Yaffa, una cinquanten­
ne che gestisce un negozio di abbigliamento per bambini:
“Abbiamo bisogno di finire il lavoro a Gaza. Milletrecento
morti non bastano. Devono uscire tutti con la bandiera
bianca” (cfr. “La Stampa”, 11-2-09). Ho scritto “sionista”
e non “ebrea” non certo per timore di essere demonizzato
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 127

dal politicamente corretto, questo nuovo cancro della libe­


ra comunicazione razionale fra gli uomini, ma per rispetto
di tutti gli “ebrei” che mi hanno arricchito l’esistenza, da
Gesù a Spinoza, da Marx a Lukacs, da Benjamin a Primo
Levi. E bene nominare correttamente le cose, come disse
Confucio, e dare ad ognuno il suo, come scrisse Sciascia.
Del resto, la ripugnante camiciaia Yaffa non è sola. Ar-
non Sofer, l’architetto del disimpegno da Gaza, sostenne
in un’intervista sul Jerusalem Post, questo giornale nazista
in caratteri ebraici, che per restare a Gaza e per mantenere
lo status quo bisognava “uccidere, ed uccidere, ed uccidere,
e questo tutti i giorni, ogni giorno”, finché i palestinesi
smetteranno di sollevarsi ed abbandoneranno Gaza.
Questa è stata dunque la logica dei venti giorni del
massacro di Gaza. La macchina della propaganda sioni­
sta, in questi casi, cerca di non far capire il cuore del
problema, cosi bene espresso sinteticamente dalla nazista
Yaffa (li ammazzeremo fino a che non si arrenderanno ed
usciranno con la bandiera bianca), ed attiva immediata­
mente i pagliacci della triade colta “per l’esportazione”
Yehoshua-Oz-Grossmann, che suonano sempre lo stesso
disco stonato: “Questa volta era purtroppo necessario at­
taccare, bombardare e massacrare, ma bisogna farlo con
maggiore moderazione, e poi bisognerà trattare con il
buon Abu Mazen, una volta eliminati i fanatici fonda­
mentalisti terroristi barbuti di Hamas”. E questo lo dico­
no i probabili uccisori con il veleno di Arafat, uccisione
con il veleno che non è affatto un gossip irresponsabile del
tipo dell’autoattentato Bush-Mossad alle Torri Gemelle
dell’11 settembre 2001, ma è a tutti gli effetti una ipote­
si storiografica probabile (cfr. Amnon Kapeliouk, in “Le
Monde Diplomatique”, novembre 2005). Personalmen­
te, sul probabile avvelenamento di Arafat non sono un
“negazionista”, e considero del tutto plausibili gli argo­
menti portati da Kapeliouk.
128 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Il cuore della questione sta quindi in ciò, che i sionisti


vogliono che i palestinesi “escano con le mani alzate”, e
per questo bisogna punirli collettivamente in modo assi­
ro-babilonese ogni tre o quattro anni. Non si creda quindi
ai cosiddetti “danni collaterali”, causati dall’estremismo
dei piccoli razzetti fatti in casa su Sderot. Lo volesse Dio
che Hamas fosse armata meglio, almeno come i benemeri­
ti e mai abbastanza lodati Hezbollah del Libano!
Di fronte a questi tripli criminali (di guerra, contro la
pace e contro l’umanità) l’Europa vile, cinica ed asservita
non richiede una seconda Norimberga contro questi nuovi
nazisti, ma finge che il cuore del problema non sia quel­
lo espresso dalla nazista Yaffa, espressione della assoluta
maggioranza della tribù sionista, ma sia l’insieme dei di­
stinguo della triade politicamente corretta Yehoshua-Oz-
Grossmann. E cosi per far dimenticare i crimini di Gaza,
si apre subito una cortina fumogena perché l’attenzione
della cosiddetta (ed ormai inesistente) “opinione pubbli­
ca” venga dirottata su alcune sciocche —ma del tutto mar­
ginali ed ininfluenti —dichiarazioni “negazionistiche” di
due preti conservatori (Williamson ed Abramovic), basate
su discutibili opinioni storiografiche (in ogni caso, da me
non condivise) che circolano liberamente da anni in pub­
blicazioni liberamente vendute nelle librerie, e che han­
no già dato luogo a controversie storiografiche notissime
(Hillberg, Vidal-Naquet, Faurisson, Thion, eccetera). Il
carattere di cortina fumogena per nascondere attraverso la
condanna della negazione di crimini commessi in passa­
to la ben più importante ed attuale negazione di crimini
commessi oggi nel presente è qualcosa di immensamente
più osceno della pubblicazione dei peli del pube femmi­
nile o dei testicoli maschili.
La maggioranza degli europei, avendo abbandonato
la passione della verità, è ormai spiritualmente morta. Ci
sono ovviamente ebrei coraggiosi (cfr. Marcel Liebman,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 129

Nato ebreo, Sharazad edizioni, 2008), ma essi vengono


espulsi dalle loro stesse comunità, come avvenne a suo
tempo a Spinoza, con la kafkiana e borgesiana dicitura di
“ebrei che odiano sé stessi”. Una piccola parte di europei,
sotto la costante minaccia dell’accusa infamante di anti­
semitismo, è ancora in grado di indignarsi, ma lo fa sotto
la modalità che a suo tempo Hannah Arendt condannò
come “politica della pietà”. Si negano ai palestinesi i loro
diritti storici di resistenza, si finge che sia ancora in corso
un “processo di pace”, si finge che le cavallette schifose dei
coloni non stiano occupando la Cisgiordania fino a satu­
rarla ed a rendere impossibile persino un microstato pale­
stinese bantustan, ed al massimo si ha pietà dei bambini,
visti come enti puramente fisici, astorici ed apolitici, e
pertanto meritevoli di pietà e di umanità.
Per quanto mi riguarda, ho pietà dei bambini e delle
vittime innocenti. Ma ho anche ammirazione, condivisio­
ne e solidarietà per i meravigliosi combattenti adulti di
Hamas e di Hezbollah.

D ue p o p o l i e u n o sta to

2) Alla frammentazione del mondo arabo —islamico,


fa invece riscontro l’unità dell’Occidente a guida
americana nel sostegno ad Israele. Il ruolo di Israele
nel contesto mediorientale, è quello di potenza locale
sostenuta dagli interessi strategici e politici ame­
ricani. Infatti, è proprio grazie all’incondizionato
sostegno americano nell’ambito internazionale, che
Israele può compiere invasioni con massacri genera­
lizzati di civili, fare probabile uso di arm i chimiche,
ignorare sistematicamente le direttive Onu. Lo sta­
tus “speciale” di Israele, sembra quindi configurarsi
come quello di uno stato fuori del diritto interna­
130 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

zionale, in quanto non soggetto ad esso. Questo par­


ticolare status israeliano, avrebbe la sua legittim i­
tà sulla base della distinzione planetaria imposta
dagli Usa e dai suoi satelliti occidentali, tra stati
democratico —liberali e non (alias stati canaglia). Il
grado d i democraticità è stabilito in virtù della omo­
logazione di ciascuno stato alle strategie economiche
e politiche degli Usa. Quindi, per quanto concerne i
palestinesi, pu r avendo avuto luogo elezioni demo­
cratiche, il governo d i Hamas è illegittimo, perché
ritenuto da Israele e dall’Occidente “terrorista”.
Israele dichiara quindi impossibile la pace perché
non riconosce il governo “terrorista” d i Hamas. Ma è
evidente che la pace, così come la guerra, non può es­
sere fa tta se non con un nemico. Nell’ottica occiden­
tale la democrazia si tramuta in americanocrazia,
legittima in quanto a senso unico, con vincitori pre­
determinati e omologati. Senza amaricanocrazia,
non può esserci dunque pace in Medio Oriente. In
Occidente tu tti invocano la pace, sul presupposto di
una moralistica, asettica, virtuale, pilatesca eqtiidi-
stanza tra Israele e i palestinesi, senza considerare
la enorme disparità di forza tra i due contendenti:
nella tragedia di Gaza, a i 13 morti israeliani, fa n ­
no riscontro 1.300 palestinesi. Ma non può esservi
pace se non con la giustizia, intesa come parità tra le
p a rti in causa. Lo slogan demagogico pacifista “due
popoli due stati” cela in sé una spudorata menzo­
gna. Uno stato palestinese composto da Cisgiordania
e Gaza (il 20% del territorio originariamente riven­
dicato come Palestina), non può costituire la base
territoriale per uno stato palestinese materialmente
indipendente, perché privo di risorse economiche e
naturali sufficienti, perché sovrappopolato, perché
stravolto dalle guerre e impoverito dalle deviazioni
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 131

dei corsi d’acqua effettuate dagli israeliani, esposto


ad una guerra civile latente a causa del moltiplicar­
si degli insediamenti israeliani negli ultim i anni.
Un tale stato palestinese si ridurrebbe a protettora­
to politico israeliano e colonia economica degli stati
arabi del golfo. E Gerusalemme? I palestinesi non
possono accettare l’espropriazione israeliana su base
teologica, garantita dal muro. “Due popoli e due
stati” è una illusoria menzogna, al pa ri dell’impro­
babile utopia dello slogan “Due popoli e uno stato”
con l’intenazionalizzazione di Gerusalemme.

In una vignetta di Altan il personaggio stralunato che


ne fa da protagonista dichiara: “Il trucco c’è, si vede, e
non gliene frega niente a nessuno”. È esattamente quanto
avviene per la menzogna palese dei “due popoli due stati”,
resa impossibile dalla colonizzazione della Cisgiordania
sfacciatamente proseguita negli ultimi quaranta anni. Hai
dunque perfettamente ragione a rimarcare questa sfaccia­
ta menzogna. Del resto, tutti gli esperti, compreso quelli
occidentalisti, filoamericani e filoisraeliani lo ammettono
apertamente (cfr. Lucio Caracciolo, in “Limes” e recente­
mente in “La Repubblica”, 27-1-09).
Come studioso di filosofia, uno dei sintomi della corru­
zione estrema di una cultura è il presentarsi all’aria aperta
della manifestazione, oscena e corrotta, della “perdita di
interesse verso la verità”. Questa perdita di interesse verso
la verità è un sintomo molto peggiore della semplice ne­
gazione della verità. La negazione della verità non è ancora
una malattia mortale di una cultura, perché le si può op­
porre la proclamazione motivata e dimostrata della verità
stessa. Il cosiddetto “negazionismo”, ad esempio, di cui
parlerò diffusamente nella mia prossima risposta, è una
patologia grave, ma non mortale, perché le si può opporre
una strategia culturale “affermazionista”, del tipo: “Voi
132 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

negate che certi fatti siano mai avvenuti, ma vi sbagliate,


perché noi vi dimostreremo con abbondanza di documen­
tazione che invece essi sono avvenuti”. Se allora presuppo­
niamo un interesse verso la verità da entrambe le parti, e
la disponibilità ad accettare un convincimento razionale
(si tratta della teoria dell’argomentazione di Jurgen Ha­
bermas, ma prima ancora di Socrate), alla fine si dovrebbe
addivenire ad un accordo razionale e veridico.
Ma non è più questo il caso. L’unico vero “negazioni-
smo” che oggi si avvelena, è la negazione dell’evidenza
storica per cui Israele vuole tutta la Palestina, tutti lo san­
no, tutti fingono di non saperlo, e tutti danno il tempo
alla tribù sionista assassina di “svuotare” di arabi la loro
“Terra Promessa”.
Finché accetterà questa sporca menzogna l’Europa, per
dirla con Metternich, sarà solo una povera e subalterna
“espressione geografica”. Speriamo solo che i probabili
costi di questa vergogna non ricadano sui nostri figli e
che la divinità nei cieli non pratichi il principio idolatri­
co assiro-babilonese della responsabilità collettiva e salvi
invece i “giusti”!

F il o c c id e n t a l is m o e sen so d i co lpa e u r o p e o

3) L’Europa, con i suoi stati membri, non ha una stra­


tegia, un progetto, un ruolo autonomo nel mediorien-
te. La UE è un organismo economico sovranazionale,
che come tale, si sovrappone alla politica degli stati
orientando i propri interessi nell’ambito dell’Occi­
dente angloamericano. Il filoccidentalismo diffuso
tra i popoli europei, si salda con l’isalmofobia sca­
turita dai problemi dell’immigrazione e dalla cri­
minalizzazione dei media dell’Islam fomentatore
di terrorismo. Ma la causa palestinese non coinci-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 133

de, anzi spesso prescinde dalle problematiche dell’I­


slam. A l filoccidentalismo f a riscontro un generico
pacifismo che comunque si riconosce nel modello di
società occidentale. Il filoccidentalismo europeo por­
ta ad identificare la propria scelta di campo con la
causa d’Israele, considerata un elemento della stessa
area geopolitica europea. Non manca chi la vorrebbe
membro della Ue. Ma tale assimilazione scaturisce
dall’assorbimento da parte degli europei di presunti
valori occidentali imposti dal dominio Usa sull’Eu­
ropa, quali il senso di colpa ormai radicato negli eu­
ropei, che hanno sedimentato la criminalizzazione
della propria storia, quali responsabili delle perse­
cuzioni religiose prim a e dell’Olocausto poi. Non è
un caso che venga riesumato ad hoc in questo periodo
il fantasm a dell’antisemitismo europeo mediante la
condanna apodittica del negazionismo. 1 fantasm i
orrorifici del passato europeo vengono rivitalizzati
dai media allo scopo di creare una legittim ità mora­
le israeliana per l’invasione di Gaza e comunque per
rendere gli europei succubi dei propri sensi d i colpa
collettivi, che possono essere rimossi solo mediante la
sottomissione morale e politica all’Occidente ame­
ricano e sionista. Perfino la Chiesa Cattolica, per
bocca del portavoce vaticano Mons. Lombardi, subor­
dina la fede cristiana al riconoscimento del primato
del senso di colpa per le responsabilità europee circa
l’Olocausto. Non si tratta oggi nemmeno di auspi­
care un’Europa filoaraba, in virtù della difesa dei
propri interessi economici legati al petrolio. I Paesi
esportatori della penisola arabica sono filoccidenta-
li e le fon ti di approvvigionamento del greggio sono
molteplici nel mondo. La politica non può ridursi ad
una somma d i interessi. Quello dell’Europa, per es­
sere politicamente rilevante, deve essere un ruolo di
134 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

natura etica, prim a che politica, in quanto l’Europa


deve costituire il punto di riferimento di un model­
lo culturale, sociale e politico che può avere la sua
rilevanza nella geopolitica mediorientale, suscetti­
bile d i creare alleanze politiche e capace d i comporre
interessi divergenti. Ma chi non ha un modello cul­
turale prim a che politico da esportare, è giusto che
subisca l’imposizione di sistemi politici estranei, con
i relativi sensi di colpa originari.

Ricordo perfettamente la cosiddetta Guerra dei Sei


Giorni del giugno 1967, quando i sionisti occuparono
l’intera Cisgiordania e le colline siriane del Golan. Ave­
vo solo 24 anni, e nonostante mi dichiarassi un seguace
di Marx e di Lenin facevo parte di quella “sinistra” euro-
centrica, occidentalistica e razzista di cui parla Edward
Said nel suo capolavoro Orientalismo. Le mie fonti erano
film come Exodus e Lawrence d’Arabia, e nutrivo l’idea
colonialista e demenziale che i kibbntz fossero “comunisti”
mentre gli arabi fossero religiosi, feudali ed arretrati. Già
allora, per fortuna, nutrivo già il sospetto, poi divenuto
progressivamente certezza inoppugnabile, che il sionismo
fosse uno sporco fenomeno coloniale, ma lo giustificavo
in nome dell’espiazione del genocidio ebraico. A poco a
poco, cominciai ovviamente a capire che non si può fare
“espiare” il genocidio ebraico fatto da europei al popolo
palestinese, totalmente e pienamente innocente di que­
sto genocidio. La comprensione di questo dato elemen­
tare, accessibile ad un bambino di prima elementare (ma
tutte le cose importanti sono anche sempre elementari,
alla faccia dell’alibi pomposo-universitario della cosiddet­
ta “complessità”), mi ha permesso di capire il cuore della
malattia culturale europea, e cioè la rimozione e l’ipocri­
sia, per cui il complesso di colpa per avere “permesso H it­
ler” (e chi lo ha permesso? Non io, certamente, essendo
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 135

nato nel 1943. Il principio della responsabilità collettiva è


un principio bestiale assiro-babilonese, estraneo alla razio­
nalità greca ed al concetto di anima individuale e di perso­
na, cui io cerco di ispirarmi), che viene scaricato su di un
“capro espiatorio”, e cioè sull’innocente popolo palestine­
se. Dopo aver capito questo, la mia intera vita spirituale
è cambiata, e non mi ha più interessato nulla il giudizio
del politicamente corretto, l’anonimità, la chiacchiera, la
curiosità e l’equivoco (per dirla con le categorie del primo
Heidegger). Ho capito da allora che la piccola Palestina,
occupata da una feroce tribù razzista in nome del senso
di colpa europeo, era un simbolo di una più generale in­
giustizia globale diffusa nel mondo. E con questo, fine di
ogni riferimento autobiografico.
Eppure, nel 1967 nessuno ancora osava dire che la cri­
tica al sionismo era una forma di antisemitismo masche­
rato ed addirittura una concessione al cosiddetto “nega-
zionismo” storiografico. L’impazzimento culturale non era
ancora giunto a questo punto, credo a causa dell’influenza
geopolitica equilibratrice del benemerito e mai abbastan­
za rimpianto fenomeno politico-militare del comuniSmo
storico novecentesco realmente esistito, al netto delle le­
gittime critiche sulla sua natura dispotica. Il mondo non
era ancora impazzito nella autoreferenzialità occidenta­
listica imperiale politicamente corretta. Non era ancora
stato costituito il Ministero della Verità. Non era ancora
stata edificata la Religione Olocaustica della Unicità As­
soluta di Auschwitz. Si poteva ancora dire che Auschwitz
era bensì stato schifoso ed imperdonabile, ma altrettanto
schifosi e imperdonabili erano stati Hiroshima e Dresda
(vedi in proposito Nicholson Baker, Cenere di Uomo, Bom­
piani, Milano 2008). Si poteva ancora discutere della na­
tura dei genocidi novecenteschi senza l’obbligo di aderire
all’immagine del novecento come secolo delle ideologie
assassine e delle utopie totalitarie, ignorando che il nove-
136 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

cento fu anche e soprattutto un secolo in cui l’azione poli­


tica collettiva cercò di imporsi sul dominio dell’economia
incontrollata (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Mi­
lano 2006). Non esisteva ancora un clero levitico sionista
che cercasse di smantellare le identità cristiane e marxista
per sostituirle con un complesso di colpa eterno per l’in­
terminabile elaborazione del lutto dell’Unico Genocidio
del Novecento, nell’ottica che a suo tempo Domenico Lo­
surdo ha connotato come “giudeocentrismo”, pagando ov­
viamente questa pacata opinione storiografica con l’accusa
infamante di antisemitismo. Tipico delle religioni e delle
teologie è appunto quello di impedire una discussione ra­
zionale sui loro fondamenti.
Apro una parentesi. Per ragioni culturali e familiari
sto finalmente studiando i dettagli del genocidio armeno.
Non leggo il turco e l’armeno, e quindi sono costretto a
esaminare soltanto testi in italiano ed in lingue occiden­
tali. Per ora sto schedando tre testi principali. Il saggio
di Vahakn N. Dadrian (Guerini e Associati), che sostiene
ovviamente la tesi del genocidio con ricchissima docu­
mentazione bibliografica anche in turco ed in armeno, tesi
che io condivido, anche se non con tutti i suoi giudizi (ad
esempio, non credo che i Giovani Turchi siano entrati in
guerra nel 1914 con il fine di poter sterminare le mino­
ranze —lo hanno fatto perché la Germania si era impegna­
ta a tutelarne l’integrità territoriale, mentre Inghilterra,
Francia e Russia volevano distruggerlo e disintegrarlo).
Il saggio di Marcello Flores (il Mulino), che sostiene pa­
rimenti l’esistenza di un genocidio armeno, pure in pre­
senza di dilettanteschi errori, come quello di attribuire
(p. 23) allo Zar russo Nicola I (morto nel 1855) la guerra
russo-turca del 1878. Potenza dell’evocazione delle anime
dei defunti, cui evidentemente la nuova storiografia ita­
liana è dipendente (si tratta di una nuova fonte). Infine,
il saggio di Guenter Lewy (Einaudi), che sostiene che un
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 137

vero e proprio genocidio armeno non ci fu, ma ci fu sol­


tanto una serie di massacri. Come si vede, Dadrian e Flo­
res sostengono la tesi del genocidio, e Lewy sostiene la tesi
ufficiale dello stato turco kemalista e post-kemalista, per
cui non ci fu genocidio ma solo una serie di deplorevoli
massacri. Personalmente mi permetto di esprimere i miei
convincimenti in due punti. Primo, ritengo che Dadrian
e Flores abbiano ragione, e Lewy torto, e che gli armeni
abbiano subito un genocidio esattamente come gli ebrei,
che peraltro lo hanno subito anche loro, ma non hanno
diritto a chiederne l’esclusiva o l’eccezionaiità, che non è
una tesi storiografica, ma semplicemente una tesi teolo­
gica di tipo olocaustico. Secondo, ritengo che l’occidente
e particolarmente gli USA, che hanno le mani sporche di
sangue, non abbiano alcun diritto morale di imporre alla
Turchia una cerimonia di espiazione selettiva. La faccia
l’occidente per Hiroshima 1945 e per Gaza 2009, e poi se
ne potrà parlare.
Perché ho aperto questa parentesi? Ma perché il caso
armeno dimostra che di un insieme di eventi controversi
si può e si deve poter parlare liberamente, anche se si trat­
ta di temi “caldi”. Dadrian e Flores dicono che c’è stato
il genocidio (anche se Flores si occupa di storia armena
senza sapere l’armeno e il turco, e mi sembra una follia del
dilettantismo accademico), Lewy dice che non c’è stato. Io
penso che ci sia stato, ma ciò che conta è che se ne possa
parlare liberamente.
Questo non è consentito per il genocidio ebraico. Ora,
io non ho alcun titolo per parlarne, perché ho soltanto let­
to i libri di altri, e non ho fatto nessuna ricerca in proprio.
In vita mia non sono mai entrato in nessun archivio sto­
rico, non ho nessuna intenzione di farlo, e non ho nessun
complesso di colpa per non averlo fatto. L’arte è lunga,
la vita è breve, e l’arte che pratico non comporta la fre­
quentazione di archivi storici. La sola cosa che pretendo,
138 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

da dilettante e libero lettore, è di poter farmi un libero


convincimento in un clima tranquillo e non avvelenato da
anatemi e da minacce penali. Chiedo troppo? Non credo.
Passiamo al genocidio ebraico. Sulla base delle correnti
definizioni storiche di genocidio (cfr. Wikipedia, eccete­
ra), la mia opinione è che un genocidio ebraico ci sia stato,
ed è sicuro che c’è stato, all’interno di una politica “ster-
minazionistica” che riguardava peraltro anche altri gruppi
etnici e religiosi (zingari, slavi, eccetera). Devo ammettere
che, avendo una mentalità filosofica e non storica, i detta­
gli m ’interessano poco, mentre m ’interessa di più capire
chi aveva ragione e chi aveva torto sul piano della “verità
universale”. Ora, a mio avviso, Hitler aveva indiscutibil­
mente torto, ha commesso crimini (peraltro paragonabili
ai crimini degli alleati vincitori) ed intendeva anche per­
seguire un genocidio degli ebrei (e di altri). So bene che
esiste un dibattito storiografico fra negazionisti ed “affer-
mazionisti”, che riguarda cose come il numero delle vitti­
me, l’esistenza o meno di camere a gas usate direttamente
per uccidere inabili al lavoro e malati, l’esistenza o meno
di ordini scritti o soltanto indiretti ed orali, la natura ter­
ritoriale oppure apertamente sterministica della soluzione
finale, eccetera. Bene, ho il diritto, e lo rivendico, di assu­
mere un atteggiamento simile a quello che assumo rispetto
al genocidio armeno, e cioè di farmene una libera opinione
indipendente, senza essere minacciato di esclusione dal
consorzio umano da parte di un orwelliano Ministero del­
la Verità, o meglio dell’unica verità consentita dalla triade
manipolatrice del ceto politico, del circo mediatico e del
clero universitario degli storiografi di corte. Ho anche il
diritto di non occuparmene, se liberamente decido di non
occuparmene. Il mio giudizio su Hitler, il nazionalsocia­
lismo, il razzismo, l’antisemitismo, il giudeocentrismo, la
giudeofilia e la giudeofobia (due aspetti inscindibili della
stessa realtà), me lo sono già fatto da tempo, e non dipende
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 139

da Thion o da Garaudy, da una parte o da Vidal Naquet o


da Hillberg, dall’altra. Praticando una filosofìa universali­
stica ed umanistica, ed essendone fiero, per me il problema
della persecuzione collettiva di razze (presunte), popoli,
nazioni, religioni, eccetera, non si pone assolutamente ed è
per me una impossibilità morale, logica e filosofica.
Passiamo invece alla nuova Religione Olocaustica, che
invece mi sembra non un’opinione soggettiva, ma un dato
storico fattuale, del tutto indipendente (lo ripeto, indi­
pendente) dalla fattualità storica del genocidio ebraico e
delle sue modalità qualitative e quantitative. Nello stesso
modo, il giudizio sulla Santa Inquisizione deve essere dato
prescindendo completamente dalla predicazione o dalla
natura divina e lo umana di Gesù di Nazareth. In proposi­
to, distinguere è la precondizione del capire.
La religione olocaustica, con riti, processioni, memoria
selettiva e privilegiata, è un dato relativamente recente,
inesistente fra il 1945 e il 1980 circa. Deve quindi esse­
re studiata come una ideologia di legittimazione. Essa,
in breve, adempie a due funzioni. Primo, legittima in­
direttamente i crimini del razzismo territoriale sionista.
Secondo, legittima la colpevolizzazione eterna della Ger­
mania, giustificando così indirettamente la permanenza
ad infìntimi di basi militari USA in Europa, e rendendo
culturalmente impossibile qualunque asse geopolitico Pa-
rigi-Berlino-Mosca (de Grossouvre), unico modo concreto
di infrangere il monopolio militare americano nel mondo.
In terzo luogo, la religione olocaustica, pura e semplice
religione civile dell’elaborazione di un complesso di colpa
inestinguibile, è una religione soft e tight per senzadio, ed
insieme alla moda innocua del Dalai Lama può sostituire
le vecchie e fastidiose religioni normative dei comporta­
menti morali e comunitari (Ratzinger, eccetera).
Come ha chiarito molto bene l’antinegazionista Vidal-
Naquet, la trasformazione della religione olocaustica in
l'io Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Ortodossia provoca necessariamente la formazione di una


Eresia, e cioè il negazionismo. I negazionisti sanno bene
che la loro sorte è quella di essere messi al bando dal gene­
re umano come i lebbrosi, ma è statisticamente sicuro che
c’è sempre una piccola parte della popolazione disposta a
pagare i prezzi dell’eresia (e parlo prescindendo del tutto
dal contenzioso storiografico).
Termino citando la coraggiosa giornalista israeliana
Amira Hass (cfr. “Internazionale”, n. 582, marzo 2005):
“Non ho guardato alla televisione la cerimonia per l’inau­
gurazione del nuovo museo dell’Olocausto a Gerusalem­
me. .. non volevo vedere il modo in cui lo stato di Israele ha
sfruttato la storia della mia famiglia e del mio popolo per
una campagna di pubbliche relazioni... la morte di sei mi­
lioni di ebrei è la più grande risorsa diplomatica di Israele”.
Non si poteva dire meglio. Se Amira Hass è antisemi­
ta, anche io lo sono. Ma non credo proprio che né Amira
Hass né chi scrive lo siano. Lasciamo che lo urlino la cami­
ciaia nazista Yaffa e la signora Fiamma Nirenstein.

D e c a d e n z a a m e r ic a n a e c o n f l it t u a l it à l a t e n t i
in M e d io r ie n t e

4) L’America vive nell’idillio mediatico della parola


profetica di Obama. l i uomo che con la sua parola, in
pochi giorni è stato identificato nella speranza mes­
sianica globalizzata. Obama in realtà ha abbozzato
ipotesi di dialogo con l’Islam, ipotizzato la fine della
unilateralità americana (chiusura d i Guantana-
mo, ritiro dall’Iraq), auspicando maggiore coinvol­
gimento dell’Europa nelle strategie americane, sen­
za tuttavia promettere chiaramente m ultilateralità
nelle decisioni in campo geopolitico. Sul Medioriente
invece, al di là di generici proclami pacifisti, non
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 141

ha esposto una strategia politica per la soluzione


del conflitto israelo - palestinese. Che Israele abbia
compiuto l’invasione d i Gaza approfittando del tem­
poraneo vuoto dì potere dovuto alla fine della presi­
denza Bush, è un fatto. E quindi assai problematico
per Obarna imporre una qualunque strategia per
una pace durevole in Medioriente, alla luce di un
evidente stato di fatto di supremazia assoluta israe­
liana nell’area, con Hamas in stato di avanzata de­
composizione ed i palestinesi d i Abu Mazen ridotti
ad una cronica impotenza. La crisi epocale dell’eco­
nomia americana fa presagire una riduzione degli
impegni politici e m ilitari americani nel mondo a
causa dell’impossibilità economica a sostenerli, data
la mancanza di risorse sufficienti. Israele dipende
economicamente e militarmente dal sostegno ameri­
cano e pertanto è ipotizzabile che essa abbia operato
questa aggressione armata allo scopo d i distruggere
Hamas ed imporre tino stato di predominio militare
nell’area mediorientale, dato che le garanzie di so­
stegno americano negli anni fu tu ri potrebbero subi­
re riduzioni rilevanti. Inoltre, la riduzione all’im ­
potenza, oltre che all’isolamento internazionale dei
palestinesi, potrebbe indurre Israele ad accrescere
il proprio ruolo di potenza mediorientale e quindi
pregiudicare, col pretesto della sicurezza dello stato
ebraico, qualunque tentativo di dialogo degli Usa
verso l’Iran, determinando nuove aperte conflittua­
lità, peraltro già latenti, nell’area.

Dal momento che mi sono già analiticamente dilunga­


to in alcune risposte precedenti, mi permetterai di essere
breve e telegrafico a proposito di Obama, da non confon­
dere per carità con la “obamamania” europea, profilo ide­
ologico per sudditi proconsolati subalterni.
142 lu ig i Tedeschi, Costanzo Preve

In primo luogo, la successione di Obama a Bush ha


certamente una (piccola) importanza storica all’interno
degli USA inteso come stato-nazione sovrano, in quan­
to certamente il gruppo dirigente raccoltosi intorno ad
Obama rappresenta interessi diversi da quelli dei gruppi
raccoltisi intorno a Bush, come già avvenne nell’impero
romano per Mario e Siila e Cesare e Pompeo, e nell’impero
vittoriano inglese fra Gladstone e Disraeli.
In secondo luogo, per quanto riguarda gli USA non
come stato-nazione ma come potenza imperiale non può
cambiare molto, perché gli interessi imperiali sono strut­
turali, geopolitici e di lungo periodo. Non a caso la clas­
se oligarchica americana, che resta la stessa di prima, ha
affiancato ad Obama rappresentanti fidati della strategia
imperiale (dal vicepresidente Biden a Hillary Clinton,
imperialista riconosciuta e sionista estremista).
In terzo luogo, per quanto riguarda Israele, non può
cambiare molto, perché bisogna capire che per quanto ri­
guarda il Medio Oriente il sionismo è completamente so­
vrano, e non dipende dagli USA. Sulla Palestina, per dirla
in modo chiaro, Israele è il cane e gli USA la coda, e non
viceversa come credono gli sciocchi, che pensano che gli
USA siano il cane ed Israele la coda. Su questo l’economi­
cismo petrolifero della sinistra comunista è stato sempre
l’equivalente del modello geocentrico in astronomia. Se
vogliamo finalmente diventare copernicani, bisogna capi­
re che per la Palestina gli USA sono la coda ed Israele è il
cane, e non viceversa.
In quarto luogo, per finire, la cosiddetta “obamama-
nia” (mi si scusi per la faticosa espressione) non è una cosa
seria, ma è solo l’ennesimo episodio di illusione subal­
terna del multilateralismo diplomatico (del tutto inesi­
stente ed impossibile in una logica imperiale, necessaria­
mente unilaterale). Gli straccioni subalterni alla Veltroni
si muovono all’interno della logica della sottomissione,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 143

auspicando che ad un Imperatore Bianco Cattivo succe­


da uno Imperatore Negro Buono, cosi come i miserabi­
li graecult dell’impero romano speravano che a Caligola
e Nerone potesse succedere un imperatore “illuminato”
tipo Vespasiano o Traiano. Costoro non meritano che di­
sprezzo storico e politico.
144

La crisi dell’individualismo occidentale


e l’immagine dello spirito del tempo

U n a r e s t a u r a z io n e l ib er ista in c o m p iu t a

1) L’Occidente si dibatte in una crisi in cui, nonostan­


te le periodiche fluttuazioni al ribasso dei mercati
finanziari e i d ati negativi sempre p iù allarm anti
dell’economia reale in tema di produzione e occupa­
zione, continua a confidare nella sussistenza e nel­
la ripresa del sistema economico liberista, sia pure
nelle sue più diversificate interpretazioni. Anche se
ovunque si è reso necessario l’intervento degli stati
nell’economia, allo scopo di scongiurare fallim enti
d i banche e grandi imprese, agli stati è attribu i­
to il solo ruolo d i debitore in ultim a istanza, senza
che essi possano efficacemente assumere le funzioni
di controllo ed intervento, di programmazione eco­
nomica e di redistribuzione sociale della ricchezza.
Proprio perché lo stato vive relegato alla funzione di
mero supporto all’economia di mercato, le strategie
anticrisi si rivelano inefficaci. Si vuole in sostanza
utilizzare la mano pubblica al fine di ripristina­
re quell’ordine economico basato sul libero mercato
globale, responsabile della crisi mondiale, in quan­
to creatore di liquidità illim itata virtuale, debito
ed insolvenza generalizzata, economia produttiva
subordinata agli squilibri dei mercati finanziari.
La contraddizione della crisi dell’economia liberi­
sta, consiste dunque nel riproporre in tal modo la
restaurazione impossibile di un sistema senza regole
né lim iti, che non tollera controlli esterni, ma che,
proprio perché sprovvisto di meccanismi di equili­
brio interni, deve essere supportato dagli stati, la
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 145

cui azione in economia viene percepita dagli inve­


stitori con diffidenza e sfiducia, quale indebita in­
terferenza. Il modello liberista globale si dibatte in
una crisi insanabile, perché fondato sul debito, sidla
precarietà e su consumi illim itati, quando, invece,
un’economia in recessione richiede stabilità, pro­
grammazione, investim enti pubblici a lungo perio­
do. Il liberismo si è rivelato incapace a d affrontare
i m ali del nostro tempo da esso stesso generati. Le
soluzioni sono note a tu tti e le strategie anticrisi non
possono essere che d i carattere politico —istituziona­
le. Forse la parabola liberista contemporanea finirà
perché non riuscirà a portare a compimento la pro­
pria restaurazione ottocentesca e progressista.

Ammetto apertamente di non avere le idee molto chia­


re sulla natura storica profonda di questa crisi del capita­
lismo. Che essa ci sia, e sia grave, ed abbia già fatto cadere
le oscene apologie del mercato liberista, è chiaro a tutti, e
non c’è bisogno che sprechi carta per ripetere argomenti
critici già largamente noti. Da quanto mi sembra di capi­
re, questa crisi è grande abbastanza per far male a milioni
di persone, ma è ancora troppo piccola e “controllabile”
dalle cupole oligarchico-fìnanziarie per comportare una
vera sconfìtta strategica dell’attuale “capitalismo assolu­
to” (l’espressione, a mio avviso corretta, è di M. Badiale
- M. Bontempelli, La Sinistra Rivelata, Massari, Bolsena
2007). In ogni caso, mancano le forze soggettive, politi­
che e culturali, per aprire un nuovo ciclo storico. Lasciamo
il “pensare positivo” a Jovanotti e Berlusconi.
Sempre secondo Badiale e Bontempelli (op. cit., pp
243-250), la svolta che ha portato al ciclo neoliberista as­
soluto non ha atteso la caduta ingloriosa e grottesca del
comuniSmo storico novecentesco veramente esistito (1989
—1991), ma è iniziata sotto Jimmy Carter nel 1979 con
146 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

la stretta monetaria di Paul Volcker. Secondo il noto com­


mentatore Paul Krugman, la grande recessione economi­
ca occidentale del 1980 —82 non è stata l’involontaria e
spiacevole conseguenza della lotta all’inflazione, ma è sta­
ta una recessione intenzionalmente provocata come tale, e
la manovra monetaria del 1979 è stata voluta, prima an­
cora che per combattere l’inflazione, perché si producesse
disoccupazione attraverso la recessione.
Non sono sicuro che sia andata così. Da qualche parte
ho letto che il giro di boa verso il basso del potere d’acqui­
sto del salario reale dell’operaio specializzato americano è
stato il 1973, non il 1979- In ogni caso, se questo è vero,
siamo di fronte da almeno quaranta anni ad un nuovo
ciclo dell’accumulazione capitalistica “mondiale”, che fa
diventare i cosiddetti trenta anni gloriosi “1945 —1975”
non certo uno stadio dell’evoluzione pacifica progressiva
dal capitalismo al socialismo (come ha pontificato per
decenni il gruppo subalterno ed ignorante dei cosiddetti
“economisti di sinistra”), ma un normale momento cicli­
co della ricostruzione dopo la grande crisi del 1929 e le
distruzioni della seconda guerra mondiale (1939 —1945),
che ricordo non è mai esistita come guerra unitaria ma ne
ha sempre contenuto tre distinte (cfr. C. Preve, La quarta
guerra mondiale, Il Veltro, Parma 2008).
Questo ciclo economico neoliberista, il primo vero e
proprio ciclo del capitalismo assoluto, postborghese e post­
proletario, il primo ciclo interamente postfascista e post­
comunista, non ha ancora trovato a mio avviso uno storico
che lo abbia saputo inquadrare con categorie di lungo pe­
riodo. La casta degli economisti non va al di là delle si­
mulazioni econometriche, e la casta dei contemporaneisti
è troppo occupata a rinfocolare l’antifascismo in assenza
completa di fascismo. Dal momento che, per manifesta in­
competenza specialistica, non posso certamente farlo io, mi
limiterò a segnalare due fattori materiali probabili.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 147

In primo luogo, non ho ovviamente mai creduto, nep­


pure per un momento, che esistesse una cosa chiamata “glo­
balizzazione”, ed ho sempre pensato che si trattasse di un
ordine (globalizzatevi, o la pagherete cara!) nascosto sotto
una presunta descrizione (la globalizzazione è un fatto, e chi
la nega è matto!), per cui bisognava semmai scoprire dove
stavano le “cupole criminali” che mandavano questo mes­
saggio. In termini paleomarxisti, erano sicuramente fra­
zioni del capitale finanziario in lotta contro le tradizionali
frazioni del capitale produttivo industriale, maggiormente
legate alla sovranità monetaria dei vecchi stati nazionali e
quindi maggiormente interessate a salvaguardare keyne-
sianamente il potere d’acquisto delle classi salariate. Non
sono però sicuro che questa interpretazione sia corretta.
Certo, l’allargamento del mercato mondiale e la formazione
di nuove classi medie nel Fu-Terzo-Mondo ha giocato un
suo ruolo. Sul piano ideologico (David Harvey), questo ha
comportato uno spostamento dell’ideologia dominante dal
tempo illuministico del progresso allo spazio postmoderno
della globalizzazione (viaggi facili ed a buon prezzo, inglese
turistico come nuova koinè mondiale, invasività televisiva,
guerra di civiltà fra spazi geografici, NATO come mercena-
riato mondiale senza confini, eccetera).
In secondo luogo, l’ultimo ventennio neoliberista (1989
- 2009) è stato anche una sorta di grande ed oscena orgia
bacchica di festeggiamento per la caduta del baraccone tar­
lato del comuniSmo storico novecentesco, che d’accordo con
Jameson definirei un grande esperimento di ingegneria so­
ciale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta,
cupola geodesica generalmente definita “totalitarismo” nel
pensiero politico occidentale apologetico del capitalismo.
Questa orgia bacchica è durata ventanni, ed il 2008 può
esserne definito come il risveglio del giorno dopo, con il
mal di testa e la bocca impastata dell’alcoolista. In termini
letterari, il Capitalismo Assoluto Neoliberale può essere de-
148 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

finito in termini di Grande Alcoolista Anonimo.


Per criticare il delirio neoliberale non c’è neppure bi­
sogno di essere marxisti, anzi è meglio non esserlo, date le
tendenze riduzionistiche ed economistiche del marxismo
tradizionale, positivista in filosofia e ricardiano in econo­
mia. Prendiamo Benedetto Croce (cfr. litica e Politica, Later­
za, Bari 1921, ristampato 1981, pp. 263-7). Croce critica il
liberismo economico, “cui è stato conferito il valore di leg­
ge sociale, convertendolo in illegittima teoria etica, in una
morale edonistica ed utilitaria, la quale assume a criterio di
bene la massima soddisfazione dei desideri in quanto tali,
che è poi di necessità, sotto questa espressione di apparenza
quantitativa, la soddisfazione del libido individuale o di
quello della società intesa in quanto accolta e media di in­
dividui". Da cui —continua Croce —“l’utilitarismo si sforzò
d’idealizzarsi in una generale armonia cosmica, quale legge
della Natura e della divina Provvidenza”. Infine —conclude
Croce - “nell’indebito innalzamento del principio econo­
mico liberistico a legge sociale è la ragione onde è parso che
quel principio stesso dovesse essere negato”.
Bravo, don Benedetto! Non si poteva dire meglio, in un
buon italiano aulico, anche se un po’ vecchiotto! Ed infatti
è veramente così. Nei termini dello studioso francese Pierre
Rosanvallon, si tratta di un “capitalismo utopico”, e cioè di
un capitalismo che non è mai esistito e che non può esistere
se non nel mondo leibniziano delle (inesistenti) “armonie
prestabilite”, utopico almeno quanto è utopica l’utopia
marxiana capovolta e simmetrica, quella dell’estinzione
dello stato nel comuniSmo. A differenza di come ha soste­
nuto il pur benemerito Karl Polanyi, anche il capitalismo,
giunto allo stato di eccezione (Schmitt), è un’economia in
qualche modo incorporata (embedded) nel sistema politi­
co, tanto è vero che le oligarchie oggi in crisi ricorrono allo
stato e ai poteri pubblici per poter “raddrizzare” quanto
hanno distorto nel ventennio precedente.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 149

Non si tratta quindi di un ritorno al capitalismo


dell’ottocento. Il capitalismo, infatti, non ritorna mai
indietro. Nello stesso tempo, segue sviluppi ciclici che
necessariamente “ricordano” momenti precedenti. La dif­
ferenza, così come il diavolo, sta sempre nel dettaglio. E si
tratta di trovarlo. Purtroppo, la corporazione degli econo­
misti non potrà aiutarci.

S t r a t e g ie “ m o n d ia l i ” e “ g l o b a l i ” a c o n f r o n t o

2) Tra Europa e USA esistono divergenze circa le strate­


gie con cui affrontare la crisi globale. L’Europa vuo­
le attuare, mediante il ricorso alla spesa pubblica,
programmi d i investim enti che possano favorire la
ripresa economica, allo scopo d i scongiurare il ripro­
dursi dell’indebitamento bancario, quale prim o re­
sponsabile della crisi in atto. Tale strategia compor­
terà l’incremento dell’indebitamento pubblico e po­
tenziale inflazione, oltre alle incertezze congenite di
una ripresa per il momento solo ipotetica. G li USA,
a l contrario, vogliono ricorrere all’indebitamento
pubblico al fine di rifinanziare un sistema banca­
rio ormai privo d i risorse per erogare nuovi presti­
ti e quindi riattivare il mercato dei capitali, dalla
cui azione dovrebbe scaturire la ripresa economica.
Ciò comporterebbe senza dubbio la riattivazione di
meccanismi finanziari basati sul debito, con tutte le
incognite ed incertezze del caso. Il dissenso circa le
strategie anticrisi tra Europa ed USA, riflette la d i­
versità d i cultura e d i modello d i sviluppo economico
da sempre esistente tra le due sponde dell’A tlan ti­
co, neppure smentite dai processi d i omologazione
globale in atto. Ma tali diversità non conducono a
contrapposizioni politiche rilevanti, poiché l’Europa
150 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

non ha mai smentito la convinzione diffusa secondo


cui la ripresa della UE non possa avvenire se non a
seguito di quella americana. Quest’ultima, infatti,
dovrebbe avere un effetto trainante per l’economia
europea. La ripresa dei consumi americani e la cre­
scita della domanda interna, dovrebbe cioè dare im ­
pulso alle esportazioni europee, esonerando quindi
l’Europa dagli oneri di gravosi indebitam enti pu b­
blici a tti a favorire la crescita della propria doman­
da interna. Se poi gli USA ricorressero a spregiu­
dicate manovre di svalutazione del dollaro a danno
dell’Europa, essa potrebbe solo compiangere sé stes­
sa e la propria subalternità. Pressoché immutate
restano le posizioni europee nel campo geopolitico,
quale la sua appartenenza all’area occidentale, alla
Nato (estesa ora anche a Croazia ed Albania), la
sua partecipazione (anche se lim itata), alle guerre
americane, al mercato globale. Infatti, l’istituzione
di autorità di controllo sui mercati finanziari, tanto
invocata dalla UE, presupporrebbe il controllo de­
gli stati sull’economia, forme d i protezionismo ido­
nee alla difesa degli interessi nazionali, restrizioni
e regole di selezione rigide per i prodotti finanziari
quotati in borsa. Occorrerebbe, per dirla con Dah­
rendorf affrontare la crisi con strategie “mondiali”
e non “globali”. Lo stesso recente G20, ha reso evi­
dente che gli equilibri mondiali fu tu rib ili si fon­
deranno su un probabile G2 tra Cina e USA, data
la stretta interdipendenza delle loro economie. Tali
nuovi scenari comporterebbero la marginalizzazione
dell’Europa nel contesto geopolitico mondiale. L’Eu­
ropa sconta la sua mancanza di strategia politica
unitaria ed autonoma, quale incapacità sua conge­
nita a costruire un modello d i sviluppo che in campo
economico e sociale non sia omologato agli USA.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 151

Gira, gira, torniamo sempre alla nostra patetica, inin­


fluente ed impotente Eurolandia, per usare il termine del­
lo storico Franco Cardini. L’impotenza manifesta di Eu­
rolandia è ormai diventata una sindrome depressiva della
parte meno corrotta degli europei, che però non sanno
praticamente che cosa fare. Come hai notato, l’idea che
la ripresa economica europea possa avvenire soltanto se
“trainata” da quella USA è già un terrificante indice di
subalternità interiorizzata. Se dobbiamo aspettare il “trai­
no”, significa che il nostro motore è già fuso!
La rivista geopolitica “Limes” rappresenta il punto di
vista di quella parte dell’oligarchia finanziaria europea che
non vuole in nessun modo sganciarsi dall’Occidente a Guida
Americana (OGA), un OGA che da tempo ha sostituito
l’ONU come garante del diritto internazionale fra stati,
ma che vorrebbe una maggiore condivisione delle decisio­
ni strategiche, e pertanto saluta Obama come un possibile
salvatore dopo la doppia presidenza del neo-conservatore
ideologizzato Bush (neo-con, nel significato francese del
termine). Ma questo non può che restare un pio desiderio
(o meglio, una consapevole menzogna per gli imbecilli),
in quanto un impero non negozia mai per principio i suoi
fini strategici di potenza globale, ma al massimo negozia
passaggi tattici secondari. Dal punto di vista di “Limes”
potremo perciò chiedere: ci prendono in giro, oppure sono
talmente illusi da prendere in giro sé stessi?
La rivista geopolitica “Eurasia”, cui mi onoro di col­
laborare, è molto migliore (anche se ovviamente virtuo­
samente silenziata dal politicamente corretto), in quanto
almeno è estranea all’occidentalismo, e pone correttamen­
te il problema geopolitico dell’asse eurasiatico Europa-
Russia-Cina come solo fattore geopolitico di riequilibrio
strategico all’impero americano ed all’OGA. Dio la bene­
dica! E proprio cosi! E tuttavia, Sarkozy rema contro, la
Merkel rema contro, Putin è incerto e condizionato dall’o-
152 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ligarchia criminale russa, ed anche la Cina non sembra


disponibile. In quanto all’India, sia gli USA che l’OGA
la ricattano con il Pakistan e con il terrorismo. Per ora,
non c’è molto da sperare. Peccato! Ma l’idea è buona, e
conviene coltivarla per tempi migliori.
Non credo ad un asse USA-Cina per controllare l’eco­
nomia mondiale. La Cina sta saggiamente sviluppando il
mercato interno, ed io interpreto così la recente notizia del
programma statale cinese per una riforma sanitaria gratuita
erga omnes (“La Stampa”, 8.4.2009). La coppia USA-OGA
la sta punzecchiando (Tibet, Dalai Lama, giunta militare
nazionalista del Myanmar, comuniSmo gerarchico confu­
ciano della Corea del Nord eccetera), ma per fortuna sua e
degli equilibri mondiali la Cina sembra resistere.
In questa congiuntura storica (in un futuro, anche vi­
cino, chissà!) la nostra povera Eurolandia non ha speranze.
Il fatto che le sue oligarchie sostengano che bisogna aspet­
tare il traino della ripresa americana mi fa pensare che si­
ano talmente intrecciate finanziariamente con gli USA da
non poter perseguire una politica indipendente neppure
se lo volessero. Ma può darsi che mi sbagli, ed allora vorrei
essere corretto per saperne di più. Il mercenariato milita­
re NATO è diventato un mercenariato globale al servizio
della geopolitica di potenza USA, ed il pretesto del “ter­
rorismo” appare ormai soltanto un articolo ideologico di
esportazione per idioti volontari consenzienti, e non fa più
parte della storia politica contemporanea, ma della storia
culturale e sessuale del Masochismo. Il personale mediati-
co insediato al vertice dei mezzi di comunicazione di mas­
sa (Mieli, Riotta, Rossella, eccetera) è composto da veri e
propri agenti prezzolati della coppia USA-OGA, e questo
personale è in grado di bloccare qualsiasi anche piccolo
vagito di opposizione culturale. Il codice culturale politi­
camente corretto, gestito dalla casta corrotta e ben pagata
dei cosiddetti “intellettuali”, è ormai totalmente allineato
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 153

al binomio USA-OGA, e soltanto uno sciocco può pen­


sare che sia “pluralistico”, laddove è ferreamente unitario
nella sua espressività politica (novecento come secolo delle
utopie totalitarie e delle ideologie assassine, missione oc­
cidentalistica per la liberazione di tutte le donne del mon­
do dai velo islamico, antifascismo in assenza completa di
fascismo, religione olocaustica dell’unicità eccezionale
di Auschwitz, teologia dell’interventismo umanitario,
eccetera). Il codice OGA è stato leggermente indebolito
dall’attuale crisi catastrofica del modello neoliberale, ma
purtroppo è stato indebolito troppo poco.
La debolezza di Eurolandia è la vera tragedia dell’Euro­
pa. E l’Europa non risorgerà prima che Eurolandia non sia
distrutta. In proposito, penso che non si possa purtroppo
“saltare il passaggio” della piena restaurazione della sovra­
nità politica e monetaria degli stati nazionali. So che la mia
opinione è minoritaria ed isolata, ma non posso farci nulla.

L’ “Io m in im o ” , q u a l e u l t im o s t a d io d e l c a pit a l ism o

3) Le crisi economiche sistemiche, come quella attua­


le, comportano alla lunga mutamenti degli equili­
bri sociali preesistenti e trasformazioni più o meno
marcate dei sistemi economici, con conseguenti ri-
volgimenti politici più o meno rilevanti. Secondo
la dottrina economica liberista le crisi hanno una
funzione di trasformazione evolutiva e progressiva
dell’economia di mercato. Le crisi ricorrenti, infatti,
avrebbero l’effetto, per così dire, “catartico” d i su­
perare gli squilibri presenti nel mercato e quindi,
quello di operare una selezione darwiniana delle
realtà imprenditoriali e finanziarie, col risultato di
fa r sopravvivere i soggetti che siano in possesso di
requisiti compatibili con i nuovi equilibri imposti
154 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dalla logica evolutiva del libero mercato. Il liberi­


smo prospetta soluzioni alle crisi che presuppongano
una funzione salvifica del libero mercato, assunto
ad entità metafisica immanente. In tali processi di
trasformazione, tuttavia, non si tiene conto dei costi
umani, in term ini di miseria, disoccupazione, con­
flitti sociali, eventuali guerre civili che le crisi eco­
nomiche determinano. In attesa dei nuovi equilibri
imposti dal dio mercato globale, il costo umano glo­
bale delle crisi è incalcolabile: il liberismo è sostan­
zialmente anetico. Le crisi economiche, facendo ve­
nir meno le certezze e le prospettive di sviluppo pre­
esistenti, vanificano inesorabilmente le aspettative
individualistiche e, d i riflesso, dovrebbero generare
ripensamenti collettivi riguardo la struttura indi­
vidualista della società contemporanea, inducendo
tu tti alla riscoperta di antiche solidarietà, scaturite
dalle esigenze proprie della indigenza economica e a
concepire nuove forme più eque d i redistribuzione
della ricchezza. Tuttavia, dalla analisi del presente,
emerge che tali prospettive, di carattere potenzial­
mente comunitario, siano al di là da venire. Anzi, è
proprio la crisi, con la drastica riduzione di redditi e
consumi a rafforzare l’egoismo individuale. Infatti,
la lotta per la sopravvivenza è generatrice di inter­
m inabili guerre tra poveri, per la difesa di posti di
lavoro sempre più rari e sempre meno remunerativi.
Nella attuale situazione, la guerra tra microegoi­
smi è tanto più spietata, dato che la posta in gioco
della sopravvivenza è legata al mantenimento di un
certo livello di reddito e consumo e quindi ad tino
status sociale, configurabile come componente an­
tropologica dell’ “io minimo” descritto da C. Lasch.
Tale competizione egoistica globale tra consumatori
alienati, sembra smentire le analisi della cultura
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 155

marxista secondo sui le aggregazioni sociali scaturi­


rebbero dai bisogni collettivi, da cui emergerebbero
poi le contrapposizioni classiste rivoluzionarie. Allo
stato attuale, d i prospettive rivoluzionarie non se ne
vede l’ombra, si verificano invece, sia in occidente
che altrove, solo rivolte episodiche e velleitarie, prive
d i sviluppi per Vimmediato futuro.

Ad un insieme di problemi tanto articolati e complessi


è bene cercare di rispondere in modo unitario, attraverso
una interpretazione della storia universale, o meglio attra­
verso una interpretazione dell’intreccio fra l’accumulazio­
ne capitalista e tutti i paesi del mondo. Dal punto di vista
filosofico la cosa è chiara, e può essere compendiata così:
esiste una tendenza dialettica interna al modello anomi-
co ed anticomunitario dell’individualismo, che lo porta
da Hobbes a Lasch, e cioè dall’individualismo possessivo
estrovertito di conquista e dominio al narcisismo impo­
tente ripiegato in sé stesso. Sulla base del bilancio storico
di quattro secoli, questa tesi, apparentemente paradossale,
appare in realtà ampiamente verificata. L’individualismo
prima distrugge le comunità, ma non sa fermarsi, ed a
partire da un certo punto comincia ad autodistruggersi. In
questo senso, Marx non deve essere inteso come un pen­
satore rivoluzionario (sto parlando, ovviamente, a livello
filosofico, non politico-sociale), come lo ha necessariamen­
te presentato tutto il marxismo (progressista in filosofia,
positivistico nella scienza, riduzionistico nella concezione
della storia, ricardiano in economia, eccetera), ma come il
terzo grande pensatore conservatore (della comunità con­
tro l’individualismo, intendo), e cioè il terzo dopo Ari­
stotele (il primo) ed Hegel (il secondo). Ma so bene che
contro questo riorientamento gestaltico, pur possibile, si
mobiliterebbero tutti i “pensatori ufficiali”, atei o creden­
ti, di destra o di sinistra, eccetera.
156 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Ciò che è chiaro (per chi lo sa vedere) in filosofia, è


meno chiaro in storia, ed è quindi consigliabile proporre
al lettore uno schema elementare di filosofia della storia in
tre punti. Siamo giunti, a mio avviso, alla terza (se terza
ed ultima, o se ce ne sarà una quarta, nessuno lo può sa­
pere) fase della storia dell’opposizione al capitalismo. Per
ragioni di spazio, devo “andare con l’accetta”, ma speria­
mo di avere modo in futuro di esporre il tutto in modo più
completo, coerente ed articolato.
In una prima fase storica (1550-1850 circa), l’opposi­
zione economica, politica e culturale ai nuovi rapporti di
produzione capitalistici fu fatta in nome e per conto dei
gruppi comunitari che ne avrebbero pagato le spese, e cioè
dai contadini e dagli artigiani (in Europa), dalle tribù co­
munitarie comunistico-primitive (in Africa ed America),
ed infine dagli stati dispotici di tipo tributario in Asia.
Come è noto, questa resistenza “difensiva” fu alla fine scon­
fitta. I manuali di storia, non importa se conservatori o
progressisti, di destra o di sinistra, atei o religiosi, eccetera,
fanno a gara per non far capire il carattere sistemico unita­
rio di questa triplice resistenza, ed in effetti l’applicazione
del modello dicotomico Progresso/Reazione non permet­
te di individuarla. Culturalmente, questa resistenza prese
molte forme (conservatorismo anti-illuministico, pensiero
tradizionalista, comunitarismo comunista a base utopica
o babuvista, rivolte religiose in India ed in Cina, messia-
nesimo fra gli indiani d’America, nostalgia per il vecchio
piccolo mondo artigiano e patriarcale, eccetera). Questa re­
sistenza dovrebbe essere rivalutata e non disprezzata come
stupida arretratezza. Ma questo non viene fatto, ed infatti
su questo punto tutti i “progressisti”, dai neoliberali ultra­
capitalistici apologeti dell’individualismo fino ai presunti
“marxisti” (in realtà positivisti progressisti che “votano a
sinistra” e lavorano sempre sistematicamente per il re di
Prussia), sono sempre in piena (ed idiota) concordia.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 157

In una seconda fase storica (1850-1980 circa), una volta


consumata la sconfitta delle resistenze contadine ed arti­
giane, e quindi tradizionalistiche, all’accumulazione capi­
talistica, fu assolutamente inevitabile e logico che le classi
operaie, salariate e proletarie di tipo urbano ed industriale
venissero individuate come il solo soggetto sociale collet­
tivo e comunitario in grado di resistere al capitalismo in­
dividualistico. Pensare che Marx si sia sbagliato, o si sia
illuso, ed avessero già ragione i furbi disincantati di allora
(Schopenhauer, Nietzsche, Max Weber, eccetera), è a mio
avviso del tutto antistorico. Retrodatare il disincanto ai
suoi pochi annunciatori, a mio avviso, è un atto antistori­
co, ed anche ingeneroso, perché finisce con il tagliare l’al­
bero in cui anche noi siamo seduti. Non siamo forse anche
noi dei critici del capitalismo assoluto? E se lo siamo, che
senso ha irridere per i loro sbagli i nostri predecessori?
Ora sappiamo che Marx si era illuso sulle capacità ri­
voluzionarie della classe operaia, salariata e proletaria, ed
anche sulla capacità della socializzazione capitalistica del­
le forze produttive di produrre, come per una magica ed
alchemica “generazione spontanea”, un soggetto rivolu­
zionario. Così non è stato. Ma se così non è stato, è perché
il sistema capitalistico ha saputo con successo mobilitare,
culturalmente e politicamente, le nuove classi medie con­
tro il proletariato. E lo ha fatto dando qualcosa a queste
classi medie, in termini di status, di promozione sociale, di
stabilità di lavoro, di redditi crescenti, eccetera. Le classi
medie sono state prese nel loro insieme (al netto dei cosid­
detti “intellettuali di sinistra”, che in realtà conducevano
una loro guerra civile culturale interna al modello borghe­
se di comportamento), il fattore strategico della sconfitta
(non prevista da Marx) delle classi subalterne operaie, sala­
riate e proletarie. E questi sia in Occidente (USA, Francia,
Germania, Italia, eccetera), sia ancor più in Oriente, dove
la dissoluzione sociale del baraccone dispotico-egualitario
158 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

chiamato comuniSmo storico novecentesco è stata dovuta


ad una vittoriosa controrivoluzione sociale di massa delle
nuove classi medie cresciute dentro lo stesso modello di
accumulazione socialista, e questo dovunque, Cina, Rus­
sia, Ungheria, senza alcuna eccezione.
Siamo allora arrivati ad una terza fase storica, che ha
pochi tratti in comune con la prima e con la seconda. E
siamo però di fronte ad un paradosso, che chiamerò breve­
mente il paradosso dell’ingratitudine. Ed il paradosso dell’in­
gratitudine sta in ciò, che le classi medie, che pure hanno
permesso alle oligarchie capitalistiche la piena vittoria
contro il povero baraccone dispotico egualitario subalterno
del comuniSmo storico novecentesco realmente esistito (e
non di quello utopico-scientifico disegnato da Marx - l’os-
simoro è ovviamente volontario), sono state ripagate dalle
oligarchie vincitrici, che non avrebbero mai vinto senza il
loro appoggio decisivo, con il lavoro provvisorio, flessibile
e precario, con l’età delle aspettative decrescenti, ed in po­
che parole con l’abbattimento del profilo storico borghese
classico, che Hegel individuò nella famiglia e nella perma­
nenza per la vita intera del lavoro professionale stabile e
sicuro, unico involucro possibile della cosiddetta “eticità”
(,Sittlicbkeit). Ed infatti il famoso “stato etico” hegeliano
non è quello che mette i mutandoni alle donne o legife­
ra sulle staminali o sulla idratazione dei moribondi, ma è
quello che garantisce la serenità familiare e la stabilità del
lavoro e delle professioni. Sembra un’owietà, ma chiedete
ad un politicante analfabeta, non importa se di destra o di
sinistra, e vi dirà che lo stato etico di Hegel è quello che
vuole coprire per moralismo i culi delle adolescenti. Qui
l’ignoranza giunge a tali vertici di surrealismo da diventa­
re effettivamente “sublime”.
Un simile paradosso d’ingratitudine è effettivamente
già avvenuto in passato. Prendiamo la storia romana, dal
primo re Romolo (753 a.C.) all’ultimo imperatore d’Oc­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 159

ridente, Romolo Augustolo (476 d.C.). Bene, in termini


sintetici, l’impero romano fu costruito ad opera di una
classe di piccoli proprietari e produttori indipendenti,
senza la quale saremmo ancora qui a parlare etrusco o cel­
tico, che fu “ringraziata” dalle oligarchie (indipendente­
mente dalla spartizione del bottino fra senatori e cavalieri)
con la proletarizzazione, la caduta in miseria, la riduzione
a plebei straccioni mantenuti a panem et circense.*;,
Ebbene, qualcosa del genere è avvenuto anche oggi.
Cosi come i piccoli proprietari romani furono “ringrazia­
ti” con la loro riduzione a precari straccioni, divisi fra i
clientes di Silvius Berlusco e Romanus Prodo che gli davano
ogni giorno delle sportulae per mendicanti ossequienti,
nello stesso modo le classi medie, che sono indubbiamente
state nel loro insieme la precondizione sociale della vit­
toria storica delle oligarchie capitalistiche, vengono ora
“ringraziate” con la distruzione integrale del loro profilo
culturale, che era non solo e non tanto il modesto benes­
sere dei consumi (considero riduzionistica ed economi­
cistica l’eccessiva enfasi sul carattere integrativo dei co­
siddetti “consumi”, di cui pure non nego ovviamente il
ruolo) quanto la stabilità dei progetti di vita, nel doppio
aspetto professionale e familiare. Oggi il modello cultu­
rale postborghese è la laureata costretta al cali center, e
Luxuria, il transessuale che si vanta di essersi prostituito
da giovane, visto come punta avanzata della modernizza­
zione individualistica dei consumi. In questa divisione del
lavoro, l’economia è assegnata alla destra (la destra mer­
catistica, come dice De Benoist), la politica al centro, e
la cultura alla sinistra (nel senso di Vendola, Bertinotti,
Caruso, Luxuria, Sansonetti e la signora Dandini).
Per quanto tempo sopporteranno ancora tutto questo
le classi medie? Quanto tempo ci metteranno a capire che
sono state “fregate” dalle oligarchie finanziarie? E quanto
ci vorrà perché capiscano che l’individualismo con cui le
160 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

hanno illuse e manipolare non potrà che far ancora peg­


giorare la loro condizione non solo sociale, ma anche e
soprattutto psicologica ed esistenziale?
Questo è l’enigma-chiave. Tenendo conto della stupi­
dità inerziale delle collettività manipolate, temo che ci
vorrà molto tempo. In ogni caso, più tempo di quello che
ci resta per la nostra restante vita terrena.

P e n s a t o r i “ in a t t u a l i ” e s p ir it o d e l t e m po

4) Un modello politico che si afferma come vincente in


ogni epoca, ha la sua origine nella propria cultura
e teoria filosofica sottostante, che poi, attraverso fasi
intermedie trasformatrici, si impone con il consenso
delle masse e fonda nuove istituzioni politiche. Tali
fenomeni culturali, prim a che politici, hanno suc­
cesso e si impongono nella società in quanto, come si
dice a posteriori, sono capaci di interpretare lo spi­
rito del tempo. Tale spirito del tempo (Zeitgeist he­
geliano), scandisce il succedersi di ideologie e sistemi
politici e, talvolta, è esplicativo di tan ti fallim enti
ed occasioni mancate di gruppi che devono il loro in­
successo alla propria mancanza di sensibilità politi­
ca per interpretarlo nel corso della storia. Nell’epoca
contemporanea, le forze politiche liberali, sembrano
quindi essere gli interpreti legittim i dello spirito del
nostro tempo: sono stati i liberali gli unici soprav­
vissuti alla fine catastrofica delle ideologie novecen­
tesche, hanno compreso le potenzialità di sviluppo
della tecnologia e della economia di mercato, realiz­
zato quella società cosmopolita e globale già prospet­
tata come esito finale di ideologie e religioni, ma con
tragici insuccessi. Tuttavia, questa oggettività dello
spirito del tempo accreditata dall’ideologia liberale
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 161

è riconosciuta come universale in base ad una conce­


zione dello spirito del tempo intesa come registrazio­
ne passiva ed omologata del fatto compiuto. Quella
liberale è comunque lina ideologia economicista e
non politica (tantomeno filosofica), atta a rieenpire
il vuoto culturale ed esistenziale manifestatosi con
la fine delle ideologie e l’eclissi delle religioni in oc­
cidente. Che tale concezione sia fallace è dimostrato
dal fatto che essa si fonda essenzialmente su un atto
d i fede ideologica in contraddizione evidente con il
nostro tempo: oggi non si confida forse che siano le
virtù taumaturgiche del mercato a risolvere una cri­
si globale causata proprio dall’avvento della finanza
globalizzata? Ma ci si chiede allora se interpretare
lo spirito del tempo non sia prerogativa d i quei po­
chi emarginati spiriti liberi che hanno la cultura e
la sensibilità necessaria per scorgere, nello stato di
cose presenti, correnti di pensiero minoritarie e forze
sociali occultate, ma potenzialmente capaci d i affer­
mare nuove esigenze e nuove concezioni dell’uomo e
della società latenti, e spesso vaghe ed inespresse, ma
idonee a superare le strutture politiche ed economi­
che di un eterno presente condannato alla stagna­
zione, proprio perché estranee allo spirito del tempo?
G li interpreti dello spirito del tempo non sono allo­
ra coloro che hanno la funzione di portare alla luce,
attraverso un processo di razionalizzazione quanto
d i culturalmente e spiritualmente è presente nella
società a livello ancora irrazionale ed inconscio? G li
interpreti dello spirito del tempo non sono quindi
coloro che, sedie premesse di una realtà compiuta,
creino nume utopie, quei pensatori “inattuali” cioè,
che superino la contemporaneità, in funzione della
prefigurazione di un futuro i cui fondamenti sono
già presenti in questo nostro tempo?
162 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Di tutti i temi che tu mi hai cortesemente posto in


alcuni anni di dialogo franco e amichevole, fondato sul su­
peramento morale, umano e psicologico delle eredità av­
velenate della dicotomia Destra/Sinistra, questo è di gran
lunga il più importante, così che gli altri, pur importanti,
quasi spariscono. Per questo mi permetterai di “allargar­
mi” un po’ di più del consueto. Sarà ovviamente necessa­
rio tornarci. Per il momento, utilizziamo l’occasione per
metterne alcune basi.
Il tema dello Zeitgeìst, e cioè della corretta compren­
sione da parte di individui pensosi di quale sia lo “spirito
del tempo”, è ovviamente più che mai attuale. Hai per­
fettamente ragione a rilevare che “il modello politico che
si afferma come vincente in ogni epoca, ha la sua origine
nella propria cultura e teoria filosofica sottostante, che poi,
attraverso fasi intermedie trasformatrici, si impone con il
consenso delle masse, e fonda nuove istituzioni politiche”.
Chi non comprende che l’elemento simbolico sorregga il
tutto, e magari pensa che il modello filosofico che regge la
sintesi sociale dominante sia una semplice sovrastruttura
ideologica secondaria derivata (e questa concezione è co­
mune all’economicismo, nelle due varianti complementari
del marxismo sociologistico e deH’ultra-liberismo indivi­
dualistico), assomiglia ad un medico che riduce l’intera
medicina a dermatologia, e cioè allo studio della pelle. La
grandezza di Alain de Benoist, rispetto ai suoi imitatori
italiani di secondo livello sta in ciò, che mentre gli imita­
tori italiani tipo Tarchi si perdono in irrilevanti analisi po­
litologiche (se la metodologia è la scienza dei nullatenenti,
la politologia è la scienza dei poveracci), de Benoist invece
ha saputo andare alla radice delle filosofie portanti di oggi,
e questo indipendentemente dal fatto che si sia poi d’ac­
cordo in tutto, in parte, oppure in modo molto limitato.
In una lettera all’amico Niethammer del 1816 (un
anno dopo il famoso Congresso di Vienna), Hegel parla
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 163

dello “spirito del tempo” in termini di inarrestabile avan­


zamento verso il progresso della ragione, e considera la
Restaurazione come un semplice incidente di percorso.
Oggi questa visione ottimistica dello Spirito del Tempo
ci è preclusa, senza che per questo si debba aderire alla
posizione opposta (e complementare) per cui un tempo
la cosiddetta “totalità” sarebbe stata modificabile, men­
tre invece oggi non più (Adorno, francofortesi, eccetera).
Questo pessimismo, travestito da filosofia definitiva ed ul­
timativa della storia, è semplicemente la razionalizzazione
sublimata della delusione della (mostruosa) generazione
sessantottina, che viene imposta alla nuova generazione
del lavoro flessibile e precario da apparati universitari ben
pagati e ben inseriti negli strati inferiori e subalterni delle
oligarchie dominanti.
Fra l’ottimismo progressistico borghese e la sindrome
depressiva dell’eternizzazione dell’impotenza storica esi­
ste qualcosa di intermedio, e cioè una possibile soluzione?
E ovvio che questa, e solo questa, è di fatto la doman­
da-chiave. Fra l’ottimismo di Hegel ed il pessimismo di
Adorno, c’è una soluzione dialettica possibile?
Certamente c’è. Ma perché la si possa percorrere, oc­
corre fare una diagnosi credibile dello spirito del tempo.
Nessun medico consiglia una terapia senza prima aver fat­
to una diagnosi. Noi dobbiamo, prima di tutto, evitare il
pur legittimo orgoglio soggettivo di chi è fiero del proprio
ruolo di testimone critico di minoranze, cullandosi ma­
gari con la vecchia autoconsolazione degli impotenti, per
cui solo le minoranze comprendono le cose. Essere infatti
maggioranza sarebbe sempre meglio che essere minoran­
za. Il pensiero di Hegel potrebbe infatti compendiarsi in
questa frasetta. E tuttavia, lo Zeitgeist non è affatto un dato
statistico-sociologico cui aderire per tranquillo conformi­
smo identitario (la cui base psicologico-esistenziale è qua­
si sempre la legittima e scusabile paura della solitudine e
164 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

della emarginazione sociale), ma è un enigma filosofico da


decifrare, la cui decifrazione è spesso difficilissima.
Questa decifrazione è difficile, e bisogna meritarsela.
Questo non significa che il criterio del merito sia il ri­
conoscimento collettivo maggioritario, in quanto (cito
Lukacs) ci si scoraggia assai presto quando ci si accorge
che quanto diciamo ha un eco estremamente limitata. Ep­
pure, faremmo un errore di paranoia impotente se ci con­
solassimo dicendo che noi siamo intelligenti, anzi intel­
ligentissimi, ma purtroppo i pecoroni che ci circondano
non ci capiscono.
In proposito, le culture di sinistra e di destra che ab­
biamo cercato di lasciarci alle spalle (almeno dal punto di
vista identitario) presentano difetti apparentemente op­
posti ma complementari. La cultura di sinistra, sulla base
di un presupposto sociologico, relativistico, storicistico e
nichilistico, è intrisa dell’idea che soltanto le maggioranze
hanno ragione, perché le maggioranze sarebbero soltanto
l’espressione sovrastrutturale del progresso inarrestabile
della cosiddetta “modernizzazione” (data la stupidità tra­
dizionale di questo punto di vista sociologistico, non ci
si accorge che la cosiddetta “modernità” è semplicemente
il capitalismo, e la cosiddetta “modernizzazione” è sem­
plicemente l’approfondimento antropologico della mani­
polazione capitalistica complessiva). La cultura di destra,
sulla base di un presupposto superuomistico, tradiziona­
listico, aristocratico e gerarchico, ritiene invece che solo i
Pochi siano intelligenti, mentre i Molti sono solo decere-
brati pecoroni in attesa di una Guida. E dunque, il primo
presupposto per capire il presente, ed il più difficile di
tutti, si può compendiare così: il relativismo sociologisti­
co maggioritario di sinistra ed il superuomismo aristocra­
tico di destra, lungi dall’essere due contrari, sono soltanto
i due opposti complementari di un’unità ideologica di
tipo antitetico-polare.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 165

Passando ad un secondo punto, per poter attingere la


comprensione dello spirito del tempo di oggi, bisogna sa­
per essere ad un tempo fedeli agli ideali della giovinezza,
e nello stesso tempo superarli (nel senso della hegeliana
Aufhebung) alla luce dell’esperienza storica. Sempre Lukacs
nota che vi sono tre modi di elaborare il passaggio dalla
giovinezza alla maturità: la fedeltà, lucida e ottusa, ai va­
lori politici e morali coltivati nella giovinezza stessa; il
passaggio ad un altro campo, e quasi sempre al campo
opposto; infine, la perdita della capacità di dedizione in
genere. Ognuno di noi ha certamente fatto e fa tuttora
l’esperienza, nell’ambito delle sue conoscenze, di tutte e
tre le tipologie antropologiche, psicologiche, politiche e
morali. Partiamo quindi da questa sommaria tipologia
per cercare di autointerpretare prima di tutto noi stessi.
Conosci te stesso (gnothìs’eautòn), diceva Socrate, il fonda­
tore della tradizione filosofica occidentale.
La fedeltà, lucida o ottusa (meglio lucida, evidente­
mente) agli ideali politici della giovinezza, non è affatto di
per sé un disvalore, anzi. Di fronte al cinismo opportuni­
stico è anzi un valore. Ma si tratta solo di un valore morale,
non di un valore etico. Il valore morale parte infatti sempre
e solo dall’individuo e dalla fedeltà soggettiva e veridica
alla propria coscienza individuale (la cosiddetta “coeren­
za”). Ma il passaggio dalla morale all’etica è mediato dalla
comprensione dialettica dei nuovi dati sociali e politici, e
allora sia la fedeltà che la coerenza non sono elementi ra­
zionali decisivi, ma possono diventare ostacoli non solo alla
comprensione, ma anche e soprattutto all’azione.
Il passaggio al campo avversario è la norma, o meglio
la norma statistica maggioritaria. La vecchia sapienza con­
servatrice vede nell’adeguamento alla realtà cosi com’è il
criterio del passaggio dalla giovinezza alla maturità (il
cosiddetto “principio di realtà”). Si tratta di sciocchezze.
Il passaggio al campo avverso è quasi sempre dovuto alla
166 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

triplice tentazione di cui ha parlato a suo tempo il filosofo


Spinoza (ricchezza, onori, potere). Tutte queste canaglie ci
parlano dai giornali, dai canali televisivi, dai parlamenti.
Noi sappiamo perché sono lì. Possono ingannare molti,
in particolare i più giovani, ma non noi, che siamo i loro
coetanei. Il sistema oligarchico ha bisogno di questi rin­
negati, li paga bene, e li ripaga infatti con l’immortale
triade corruttrice (potenza, ricchezza, onori).
La perdita della capacità di dedizione in genere rap­
presenta, come il riflusso della marea, il sedimento dei pe­
riodi storici di riflusso, come quello che stiamo vivendo.
Questa perdita di capacità di dedizione in genere, razio­
nalizzata in vario modo dalle facoltà universitarie di filo­
sofia, è il prodotto della interconnessione di tre momenti
successivi: il momento delle illusioni; il momento delle
delusioni e, infine, il momento delle sintesi del complesso
di illusioni e di delusioni, il cosiddetto disincanto. E le
facoltà di filosofia sono appunto specializzate nel fonde­
re creativamente insieme questo disincanto (Max Weber,
Richard Rorty, Gianni Vattimo, fino agli adorniani poli­
ticamente corretti ed innocui tipo Stefano Petrucciani).
Lo spirito del tempo ha quindi un oggetto ed un sog­
getto. L’oggetto è il tipo umano (o idealtipo in senso we-
beriano) conformista identitario e politicamente corretto,
pienamente inserito nel gioco di simulazione della pro­
tesi manipolatoria Destra contro Sinistra, sacerdote del
Politicamente Corretto Unificato con tutte le sue ormai
notissime determinazioni (religione olocaustica di colpe-
volizzazione eterna dell’occidente, antifascismo in palese
assenza di fascismo, teologia dei diritto umani, america­
nismo progressista, eccetera). Il soggetto è invece l’inter­
prete critico e problematico di questa situazione. Egli non
può che aspettarsi la diffamazione, l’emarginazione ed il
silenziamento. Ma sarebbe sciocco e suicida se finisse con
il crogiolarsi masochisticamente di questa condizione mi-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 167

noritaria. È esattamente quello che vuole il nemico: l’au-


toesclusione accompagnata da una impotente sensazione
di superiorità intellettuale e morale.
Essendo già arrivato quasi alla fine dello spazio a di­
sposizione, di cui ho già abbondantemente abusato (ma il
tema lo richiedeva), non posso certamente esporre la mia
concezione dello spirito del tempo. Sarebbe però opportu­
nistico se almeno non vi accennassi sommariamente.
Lo spirito del tempo presente è caratterizzato da quel­
la che il vecchio Lukacs connotò come compresenza di on­
nipotenza astratta e di concreta impotenza. Non ha quindi
molto senso, ed è anzi fuorviante, cercare di avvicinarsi
al nostro tempo in base a categorie puramente politolo­
giche (Bobbio, Rawls, Habermas), e tantomeno in base a
categorie puramente economiche (ad esempio neoliberisti
contro neo-keynesiani). Non è neppure particolarmente
utile avvicinarsi con categorie dicotomiche di tipo Laici
contro Religiosi. E evidente che la problematica tragica di
Ratzinger è mille volte al di sopra dei ringhianti cagnoli­
ni ateo-darwiniani (Augias, Flores d’Arcais, eccetera), che
hanno smesso di credere nel materialismo storico e sono
passati a credere nella teoria dell’evoluzione. Ancora un
passo, e certamente arriveranno alla teoria geologica della
deriva dei continenti come soluzione simbolica dei pro­
blemi del presente.
La compresenza di onnipotenza astratta (oggi incrina­
ta ma ancora purtroppo troppo poco, dalla crisi scoppiata
nel 2008) e di concreta impotenza (per cui il soggetto
non ha più di fatto neppure diritto a quella che è sem­
pre stata la base sostanziale della sensatezza della vita
umana in tutte le epoche, e cioè il profilo professionale
e lavorativo permanente) caratterizza quindi in prima
istanza lo spirito del nostro tempo. Diffidate di chi vuole
inchiodarvi a dicotomie ormai trascorse (comunismo/an-
ticomunismo, fascismo/antifascismo, ateismo/religione,
168 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

laicismo/clericalismo, eccetera). Costoro, in buona fede o


meno (faccio una valutazione a occhio: 20% buonafede,
80% malafede), vogliono inchiodarvi all’ipnotica inuti­
lità di confronti passati per impedirvi di riflettere alle
contraddizioni del presente.
Ed ecco allora in breve qual è la nostra (mi permetto
questa espressione) concezione dello spirito del tempo:
fare il possibile perché costoro non ci riescano, o almeno
non abbiano la strada sgombra. Noi ci metteremo di tra­
verso per quanto potremo.
169

L’utopia e la gioventù del mondo

U n ’E u r o p a o p pr e s sa d a i r u d e r i d el t e m p o

1) Il ricambio generazionale è un fenomeno fisiologico,


indispensabile alla vita di ogni società. Esso è sem­
pre portatore di elementi di rottura, trasformazione,
continuità tra loro inscindibili. Attraverso le nuove
generazioni, la società può prefigurare l’immagine
di sé stessa nel futuro, può comprendere le proprie
potenzialità di sviluppo, così come le carenze del pro­
prio presente. Nella seconda metà del ‘900 sembra
essere scomparso quel processo di rottura —continuità
che aveva garantito la perpetuazione degli stati eu­
ropei per secoli, senza che nuovi ordini d i valori (che
non fossero quelli dell’economicismo cosmopolita), po­
tessero conferire alle società occidentali una loro spe­
cifica ragion d’essere nella storia del nostro tempo. Il
fenomeno del ’68 ha rappresentato una rottura che
ha reciso le radici della cultura europea, data la sua
incompatibilità con l’avanzata progressiva di uno
sviluppo, sia economico che tecnologico, che annullava
sia le specificità culturali dei popoli, sia altre forme
identitarie di organizzazione sociale alternative ad
un modello capitalista - consumista cosmopolita che
diffondesse benessere e consumo generalizzato, ugua­
glianza e omologazione, libertà ed individualismo.
Ma il ’68 non fu un fenomeno accidentale della sto­
ria: esso si affermò perché nella società europea occi­
dentale post bellica non c’era rimasto nulla o quasi
da conservare. La fine della seconda guerra mondiale
coincise col tramonto dell’eurocentrismo e la conse­
guente emarginazione dell’Europa dalla storia. La
ricostruzione post bellica venne compiuta alla luce
170 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dei nuovi equilibri politici mondiali. 1paesi europei,


si adeguarono per amore o per forza a i modelli del
bipolarismo mondiale americani o sovietici, in base
alle rispettive aree di occupazione. Come retaggio
della vecchia Europa rimasero quindi i sensi di col­
pa (per colonialismo ed olocausto), dal punto d i vista
culturale, moralismo piccolo borghese quale relitto di
antichi valori etici sia civili che religiosi nell’ambito
sociale, conformismo omologante, sia individuale che
collettivo, in campo politico. Per quanto riguarda l’I­
talia, la rottura epocale che condusse alla nascita del­
la 2° repubblica coincise con la fine del bipolarismo
mondiale e l’avvento del capitalismo globale made in
USA. Ma della prim a repubblica c’era forse qualcosa
da conservare? Forse il falso stato sociale scaturito da
compromesso liberal —cattolico —comunista sfociato
poi nella palude del partito - stato democristiano,
che, attraverso assistenzialismo, clientelismo e corru­
zione garantì il proprio potere, il capitalismo confin­
dustriale e l’Italia all’occidente? Oggi l’Italia è un
paese d i vecchi. La continuità del sistema precedente
è stata assicurata in questi ultim i 15 anni dal rici­
claggio in senso liberista dei ruderi ideologici della
1 ° repubblica. Il ricambio generazionale non può re­
alizzarsi in una società in cui dominano modelli di
riferimento globali estranei ad essa. G li stati euro­
p ei sembrano ruderi di epoche ormai tramontate, che
sussistono per l’inerzia di un tempo che manifesta
sempre più il loro vuoto d i senso.

Esprimendo in modo chiaro, netto e deciso il tuo rifiu­


to di ogni nostalgismo per la cosiddetta Prima Repubblica
Italiana (1946 —1992, e cioè dal referendum monarchia
—repubblica vinto dalla repubblica al colpo di stato giu­
diziario extraparlamentare surrealmente chiamato Mani
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 171

Pulite) tu mi inviti veramente a nozze, consentendomi di


chiarire ancora una volta la mia posizione, anche se l’ho
già fatto molte altre volte in precedenza, anche all’inter­
no dei nostri dialoghi. Ma si può sempre dire qualcosa di
nuovo, e soprattutto di meglio articolato.
Mi permetterai però di iniziare da un possibile dissen­
so, non tanto concettuale o storiografico, quanto di “sensi­
bilità”, dovuto certamente alla forza inerziale delle nostre
rispettive provenienze politiche, come è noto diverse se
non opposte. Si tratta di quello che tu chiami il complesso
di colpa europeo per il colonialismo e per l’olocausto, che
tu metti insieme facendo capire che intendi accostarli, e
considerarli omogenei. Mi permetto di dissentire. Non li
considero omogenei, ma questo non certamente per ra­
gioni pregiudiziali di “sinistra”, ma grazie ad un ragiona­
mento autonomo. Oggi il colonialismo e l’olocausto non
sono elementi simbolici omogenei di un comune senso di
colpa inespiabile dell’Europa. È invece tutto il contrario.
Rifiutare il colonialismo, sia pure nella forma largamente
simbolica e figurata della storiografia (penso ad Angelo
Del Boca) significa non certo rifiutare la nuda esistenza di
fatti irreversibilmente accaduti, ma rifiutare il presuppo­
sto di superiorità occidentalistica sul resto del mondo ed i
cosiddetti “barbari da civilizzare”. Ora, è questo il presup­
posto di superiorità occidentalistica che sta dietro, sopra e
sotto alla nostra subalternità all’americanismo imperiale,
che ha trasformato la stessa NATO (e quindi anche noi
italiani) in mercenariato globale per le guerre geopoliti­
che dell’impero USA. È invece diverso il caso dell’olocau­
sto. Lo sterminio degli ebrei da parte di Hitler e dei suoi
alleati (trascuro qui sia il numero delle vittime che i gradi
di intenzionalità, elementi che dovrebbero essere lascia­
ti alla libera discussione degli storici, e che invece sono
“tabuizzati” dal Politicamente Corretto a direzione ideo­
logica sionista) è effettivamente impiegato per rafforzare
172 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

l’inespiabile senso di colpa degli europei, e quindi per raf­


forzarne la loro incorporazione occidentalistica subalter­
na. E quindi, se proprio non vado errato, anticolonialismo
ed “olocaustismo” non sono omogenei, ma sono addirit­
tura opposti. In un caso si ha un rafforzamento simbolico
della continuità del suprematismo occidentalistico e della
sua “missione di civiltà”, e nell’altro caso si ha invece la
perpetuazione di un senso di colpa intergenerazionale che
porta alla totale impotenza progettuale europea. E con
questo, chiudo provvisoriamente, per ragioni di spazio,
un tema che meriterebbe ben altro ampliamento.
E veniamo ora al tema che ci interessa, quello del bi­
lancio ragionato del periodo della prima repubblica ita­
liana (1946 —1992). Lo stiamo facendo, però, non certo
in un laboratorio storiografico protetto, ma all’interno di
una crisi politica devastante (estate 2009)- Da un lato, un
Paperonismo Puttanesco di un Uomo-Viagra circondato
di tette e di culi, dall’altro un Golpismo Giudiziario a
base moralistico-ipocrita che intende pur sempre rovescia­
re con l’arma degli scandali sessuali un risultato elettorale
uscito dalle urne, attraverso una diretta americanizzazio-
ne della politica fino ad oggi ignota all’Europa (del tipo:
rovesciare Clinton perché ha fatto sesso orale con un’ar-
rampicatrice sociale consenziente). La miseria di quanto
sta avvenendo è tale che ogni persona moralmente integra
deve chiamarsi fuori da questa merda, e smettere di ti­
fare per l’Uomo-Viagra contro il Golpismo Moralistico,
o viceversa. Intellettuali, professori universitari, giudici,
insegnanti, giornalisti, sono per il Golpismo Moralistico.
Negozianti, primari, pensionati securitari, casalinghe te­
ledipendenti, clientele meridionali sono per l’Uomo-Via­
gra. Il nostro dialogo ha molti presupposti, ma uno di essi
è fondamentale: entrambi ci teniamo rigorosamente fuori
da questa oscena e degradata pantomima.
Il presupposto metodologico per il bilancio (per te ne-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 173

gativo) che tu mi inviti a fare sta a mio avviso nella distin­


zione fra tre diversi piani del discorso:

1) La rammemorazione soggettiva dell’esperienza per­


sonale e generazionale del periodo 1946 — 1992, che
di per se non ha assolutamente nulla a che fare con il
livello politico superficiale della prima repubblica ita­
liana, e che concerne tutti gli italiani che hanno oggi
più di cinquant’anni. Una simile rammemorazione è
inevitabilmente autobiografica e quindi narcisistica
(del tipo “come eravamo”), ma non può essere evitata,
anche perché la stessa storia orale {orai history) l’ha le­
gittim ata come fonte storica integrativa.

2) Il vero e proprio bilancio politico-storiografico della


prima repubblica italiana, riducendo ove possibile al
minimo l’interferenza soggettiva personale, ma cer­
cando di individuarne i fondamenti sociali ed ideolo­
gici principali.

3) Il giudizio storico sulla seconda metà del novecento in­


teso come fenomeno globale, certamente in parte coin­
cidente con la prima repubblica italiana, ma da tenere
ben distinto da essa, in particolare nel suo rapporto
contrastivo con gli ultimi vent’anni (1989 — 2009).
Premetto subito che darò un giudizio totalmente po­
sitivo sul primo punto, totalmente negativo (e cjuindi
coincidente con il tuo) sul secondo, ed invece parzial­
mente positivo sul terzo. Ma discutiamone con ordine.

Per quanto riguarda il primo punto, ringrazio Dio (o


il Caso, o tutti e due) per essere nato in Italia nel 1943-
Ho evitato di essere fra i milioni di morti del grande ma­
cello suicida che i libri di storia chiamano Prima Guerra
Mondiale. Ho evitato, come non ha potuto fare mio padre,
174 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

la guerra coloniale in Etiopia del 1935. Ho evitato, come


non ha potuto fare il mio zio paterno, di morire in Russia
nel 1942 in una guerra ideologica di aggressione al comu­
niSmo, di cui continuo ad avere un giudizio storiografico
globale positivo (al netto di errori e di orrori, da me presi
debitamente in considerazione). Ho evitato nel 1943 di es­
sere messo nella tragica situazione di dover scegliere una
delle due parti in una guerra civile, che soltanto dopo la sua
fine fu sacralizzata moralmente con la distinzione fra Ca­
duti per la giusta causa e Caduti per la causa sbagliata. Ho
evitato il decennio degli anni Cinquanta, definito da Fran­
co Fortini i Dieci Inverni. In compenso, ho “imbroccato” (e
ne sono pienamente consapevole) il benedetto periodo delle
aspettative crescenti, dei viaggi facili, del facile reperimen­
to di un lavoro stabile e sicuro, della vivacità culturale, del
gratificante agonismo ideologico (sia pure in un contesto
dettatoci dalla generazione precedente, cui fummo costret­
ti a conformarci), di un quadro internazionale benedetto,
in quanto bipolare (sia pure rigido e manipolato) e non
ancora imperiale, e soprattutto (lo ripeto) della stabilità e
della sicurezza del lavoro (niente call-cmter ed altre simi­
li porcate di oggi). In definitiva, perché non dovrei essere
consapevole, a posteriori e vedendo l’oggi, di avere “imbroc­
cato” una finestra storica sostanzialmente felice?
Passando all’argomento che più ti preme, e cioè al
bilancio storico-politico della prima repubblica italia­
na (1946 —1992), devo dire di avere letto alcune sintesi
(ne ricordo tre: Accame, Lanaro e Crainz), ma di prefe­
rire per ragioni di spazio esprimere qui direttamente la
mia opinione. Sono d’accordo con te che non c’è niente da
rimpiangere (se non la giovinezza e l’epoca storica delle
aspettative crescenti e della rivoluzione, in realtà oggetti­
vamente impossibile ma ritenuta soggettivamente possi­
bile). E come potrei rimpiangerla, non avendo mai fatto
parte dei cortigiani della classe politica che ne ha formato
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 175

la costituzione materiale, non importa se al centro, a sini­


stra o a destra? Come potrei rimpiangerla, non avendo mai
fatto parte di quelle due metà complementari che erano i
pidocchietti democristiani assunti per diritto divino nella
televisione di Bernabei e gli intellettuali “organici” del
mastodonte manipolato PCI? Come potrei rimpiangerla,
conoscendo il modo in cui, con la scusa degli “opposti
estremismi”, regnavano i servizi segreti USA, gli anarchi­
ci volavano dalla finestra presi da “malore attivo” e degli
allucinanti deficienti uccidevano giornalisti con un colpo
di pistola alla testa in nome della classe operaia fordista
della catena di montaggio?
La prima repubblica italiana fu a tutti gli effetti, po­
liticamente, una semicolonia proconsolare occupata da un
impero contro un altro, che non ha mai neppure saputo
produrre un equivalente patriottico e nazionale come il be­
nemerito generale francese De Gaulle. Dovendo ad ogni
costo “dare dei voti” (in fondo, li ho dati per trentacin-
que anni), promuoverci soltanto Togliatti ed Andreotti.
Il primo almeno credeva nella inevitabile vittoria storica
del socialismo sul capitalismo, mentre il secondo difendeva
con la sua aria da gattamorta democristiana spazi minimi
di manovra in Medio Oriente. Non riesco a stimare Almi-
rante, Berlinguer e Craxi, ma lo spazio mi impedisce qui
di motivare le mie ragioni. E tuttavia, persino queste tre
mediocrissime figure sono superiori ai tre “diadochi” Fini,
Bertinotti e D ’Alema, tre figuri della seconda repubblica
formatisi tutti e tre negli apparati ideologico-politici della
prima repubblica. Nel linguaggio filosofico di Heidegger,
la prima generazione era ancora portatrice di una “metafisi­
ca” (intesa come valori in cui si credeva ancora), mentre la
seconda generazione è portatrice soltanto di una “tecnica”
(intesa come pura e semplice gestione manipolativa di un
potere interamente deideologizzato). Ma non perdiamoci
con gli alberi, e cerchiamo di considerare soltanto la foresta.
176 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

II 1958 è certo stato un anno importante della nostra


storia recente. Si tratta dell’anno che gli storici dell’eco­
nomia individuano come l’anno dell’inizio del cosiddetto
“miracolo economico”, l’anno in cui per la prima volta dal
1861 gli occupati dell’industria superano per numero i
contadini, ed infine l’anno del debutto di Celentano, Mina
e De Andrè. Ma si tratta di una storia della modernizza­
zione, non della storia degli apparati politici della prima
repubblica.
Analogamente, il 1968 non è per nulla un anno “po­
litico”, come tu sembri suggerire. Le strutture politiche
restano praticamente intatte di fronte alle manifestazioni
studentesche (1968) ed operaie (1969). Il Sessantotto (da
non confondersi con gli eventi differenziati e disomogenei
dell’anno 1968) resta come data simbolica di instaurazio­
ne di un’etica liberalizzata, superficialmente antiborghese
e profondamente ultracapitalistica, che oggi dopo più di
quaranta anni, vediamo interamente dispiegata nella sua
forma più odiosa e disperante. Si tratta dell’individuali­
smo senza freni, in cui la contestazione di allora è dive­
nuta norma conformistica per l’oggi. Di politico c’è poco,
almeno nel senso stretto del termine.
In quegli anni, tuttavia, si consolidò quella che chia­
merei la “votomania identitaria ossessiva” degli italiani,
frutto del bipolarismo DC —PCI, che è sopravvissuta a
quegli anni. Prendiamo le percentuali dei votanti nelle
ultime elezioni europee del giugno 2009. Cominciamo
dal Lussemburgo (91 per cento) o dal Belgio (90 per cen­
to). Qui è evidente che queste percentuali da incubo ri­
flettono gli interessi economici di gruppi di interpreti,
traduttori, impiegati, albergatori, autisti, prostitute, ec­
cetera, al servizio degli apparati burocratico-parassitari di
Eurolandia. Passiamo poi alla Germania (43 per cento) ed
alla Francia (40 per cento). Qui si ha a che fare con norma­
li paesi europei semisovrani, i cui cittadini manifestano la
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 177

loro sostanziale giustificata indifferenza per Eurolandia.


Abbiamo poi l’Olanda (36 per cento) ed il Regno Unito
(34 per cento). Qui si ha a che fare con paesi solo formal­
mente europei, in realtà americanizzati e collegati diretta­
mente all’impero USA. Ma passiamo al Portogallo (37 per
cento), alla Spagna (44 per cento), ed alla stessa Grecia,
che pure è abbondantemente sussidiata dai contributi eu­
ropei all’agricoltura (52 per cento). È evidente che persino
nell’area mediterranea l’Europa è percepita (correttamen­
te) come l’Eurolandia dei banchieri e della globalizzazione
liberistica. Bene, passiamo ora all’Italia, dove troviamo un
demenziale e sbalorditivo 66 per cento. Ma ti rendi conto:
il 66 per cento! Come spiegarlo?
Si spiega come eredità votomaniaco-identitaria di mas­
sa bipolare della prima repubblica, allora DC contro PCI,
oggi Amici di Berlusconi contro Nemici di Berlusconi.
Non c’è altra spiegazione. Dopo un ventennio (e quale
ventennio) la votomania identitaria, con contorno isterico
di giudici, giornalisti ed intellettuali (aiuto, i populisti!!
Aiuto, i comunisti!!) è restata praticamente identica. Di
qui dobbiamo partire.
Nell’attuale fase storica del capitalismo oligarchico
integrale, la democrazia non esiste più, neppure nella vec­
chia forma della democrazia rappresentativa costituziona­
le. La costituzione viene violata quando è ritenuto neces­
sario, come avvenne in Italia nel 1999 per la guerra aerea
(ma sempre guerra fu!) contro la Jugoslavia, fatta per ra­
gioni di insediamento geopolitico USA nei Balcani (Camp
Bondsteel). Il ricattabile ex-comunista D’Alema fu l’uomo
giusto per farla. Doveva accreditarsi, e lo ha fatto. La pri­
ma repubblica italiana non fu abbattuta per via elettorale,
ma con un colpo di stato giudiziario extraparlamentare,
con asfissiante coro moralistico del circo mediatico ed uni­
versitario. Finirà così anche la seconda, legata al nome di
Silvio Berlusconi? A tu tt’oggi non posso saperlo. Leggen­
178 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

do un maligno articolo di Adriano Sofri (La Repubblica,


19-06-09) sembra di capirlo. Adriano Sofri, il mandante
dell’omicidio del commissario Calabresi, l’apologeta dei
bombardamenti umanitari e del sionismo assassino, rap­
presenta bene la degenerazione politica dell’estremismo
sessantottino di “sinistra”, ed il suo articolo (che consiglio
caldamente di leggere), mostra alla luce del sole la natura
antidemocratica e golpista di questa classe intellettuale.
Craxi fu detronizzato per le tangenti (che prendevano tu t­
ti, ed anzi prendevano più ancora di lui), Berlusconi deve
essere detronizzato per la sua senile sensibilità verso culi,
tette e carne fresca di puttanelle disinibite. Questo è il far
politica nell’Italia di oggi. E possibile uscirne?
Non certo con questa cultura politica. Non certo con
questa classe politica di amministratori cinici. Non certo
con questo circo mediatico di venduti alla cupola ideolo­
gica imperiale. Non certo con questo clero universitario
che si orienta in base alla nuova religione del Politicamen­
te Corretto (ne sunteggio qui i dogmi: il Populismo come
unica categoria politologica multiuso, che esprime il suo
odio verso il popolo vero e proprio, sostituto simbolica-
mente da gay, femministe e migranti; l’Antifascismo ceri­
moniale in assenza completa di Fascismo; la religione olo-
caustica della unicità imparagonabile di Auschwitz, con
assoluzione contestuale di Hiroshima; la sacralizzazione
eterna della dicotomia Destra/Sinistra; infine, la religione
interventistica dei Diritti Umani a segnalazione mediati-
ca esclusiva). Non si vedono infatti i soggetti politici or­
ganizzati che potrebbero fare da base storica ad una uscita
da questo incubo tragicomico.
Passando al terzo punto, che a mio avviso è più impor­
tante dei primi due, ci si può chiedere se è legittimo dire
che l’ultimo ventennio è stato peggiore del quarantennio
precedente. È evidente che in questi giudizi c’è un’ineli-
minabile elemento psicologico e generazionale personale,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 179

e tuttavia continuo a ritenere legittima questa domanda.


Già all’inizio dell’ottocento, in polemica contro la filosofia
della storia di Hegel, c’è stato qualcuno che ha detto che
è impossibile paragonare le varie epoche storiche, perché
“tutte sono egualmente vicine a Dio”. Io non lo penso.
Alcune sono più vicine a Dio ed alcune più lontane, sia
per chi crede in Dio sia chi (ed è il mio caso) con que­
sta parola intende il significato complessivo dell’esistenza
umana nel tempo, tempo che è il luogo della progressiva
presa di coscienza della sua natura solidale e comunitaria.
In questo senso non ho paura di dire apertamente che il
ventennio recente è stato peggiore del quarantennio pre­
cedente, e non certo per la mia insignificante persona di
pensionato benestante, ma per l’intera umanità.
E perché lo dico? Lo dico perché condivido nell’essen­
ziale una recente formulazione di Alain de Benoist, con­
tenuta in un’introduzione ad una antologia della rivista
francese Rébellion. Parlando del nemico principale oggi,
de Benoist ne elenca cinque: il capitalismo e la società
di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano
politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghe­
sia sul piano sociale, ed infine gli Stati Uniti sul piano
geopolitico. Non si poteva dire meglio. Ora, il ventennio
recente è peggiore del quarantennio precedente perché ha
rafforzato tutte e cinque queste orribili realtà (con il solo
rilievo che personalmente, con Eugenio Orso, penso che la
vecchia borghesia sia stata sostituita da un nuovo mostro,
una sorta di global upper class post borghese).
Nonostante i suoi aspetti antropologicamente ripu­
gnanti, che spesso portavano coloro che lo conoscevano
bene dall’interno ad uscirne in modo neoliberale (due soli
esempi italiani: Lucio Colletti e Massimo Caprara), il vec­
chio comuniSmo storico novecentesco (di cui accetto co­
munque il principio della comparabilità storica sia con il
liberalismo sia con il fascismo —si rassicuri de Benoist!) ha
180 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

pur sempre funzionato come freno (katechon). Contro l’a-


ziendalizzazione integrale del mondo della vita degli uo­
mini. Recentemente l’acuta filosofa italo-francese Michela
Marsano ha analizzato dettagliatamente l’estensione del
modello antropologico dell’azienda capitalistica in tutti
gli aspetti della vita umana. La forma politica del liberali­
smo favorisce in tutti i modi questo orrore antropologico,
e per questo è il nemico principale, molto più di qualun­
que forma di cosiddetto “populismo”, di veterocomuni-
smo (Corea del Nord) o di presunto fascismo (Birmania,
Sudan, eccetera). Una cultura che non riesce più neppure
ad individuare il nemico principale è destinata all’estin­
zione, lamentosa, testimoniale o ridicola.
Oggi i due più grandi statisti del mondo, che Dio e
Allah li preservino a lungo, sono il venezuelano Chavez e
soprattutto il meraviglioso iraniano Ahmadinejad, usci­
to fortunatamente vincitore dalle recenti elezioni, contro
cui è stata “montata” una rivoluzione arancione di tipo
Ucraina e Georgia, per fortuna fallita. Nel momento in
cui scrivo non so ancora se il Golpismo Moralistico riusci­
rà o meno ad abbattere l’Uomo-Viagra, che ricordo essere
stato votato dalla maggioranza degli italiani (non da me,
certo, ma dalla maggioranza dei votanti). Il modello cul­
turale italiano maggioritario, detto in modo telegrafico, è
la somma di Confindustria + Centri Sociali, e cioè l’unio­
ne di Padoa Schioppa, Scalfari e Marcegaglia da un lato, e
Vendola, Bertinotti e Luxuria dall’altro. Aziendalismo nel
tempo di lavoro, sballo e droga nel tempo libero. Chi non
ha ancora capito che si tratta di elementi complementari e
non di opposti, deve essere esortato ad occuparsi di pesca
con la lenza e di raccolta di francobolli, e non di filosofia e
di scienze sociali. E tuttavia, il discorso è appena incomin­
ciato. Bisognerà approfondirlo più avanti. Il circo corrotto
degli intellettuali mediatici di passerella non ci aiuterà
certamente, ma ci silenzierà. Tuttavia, meglio così.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 181

L’u o m o è d e s t in a t o a d e t e r n a r s i o alla p r e c a r ie t à
IMMANENTE?

2) La età giovanile oggi viene vissuta in una condizione


esistenziale in cui predominano incertezza e nebulo­
sità circa il futuro, data la mancanza di prospettive
nel campo lavorativo, sociale e nella vita affettiva.
Domina la precarietà esistenziale, intesa come eterna
instabilità del presente, assenza di obiettivi stabili
nel tempo. È evidente che il sistema economico globa­
le di ispirazione liberista ha generato una cultura,
una psicologia, una antropologia umana basata sulla
precarietà. L’economicismo domina la vita delle mas­
se: se precaria è la vita economica, precaria è anche
l’esistenza. In realtà, al di là delle problematiche eco­
nomiche del nostro tempo, è la condizione umana ad
essere di per sé stessa precaria: precaria, in quanto
di breve durata, è la vita dell’uomo in rapporto alla
storia (per non parlare delle ere geologiche), precario
è il tempo presente, incalzato sempre da un futuro
imminente che muta continuamente le condizioni del
presente, precarie, perché limitate, le possibilità uma­
ne di trasformazioni dello stato di cose presenti, dato
l’inevitabile condizionamento delle realtà storiche e
geografiche in cui all’uomo è dato di vivere, fallaci e
precari si rivelano spesso gli obiettivi raggiunti, per­
ché vanificati e smentiti da successivi eventi non pre­
vedibili. Ma niente e nessuno può distogliere l’uomo
dalla sua aspirazione perenne alla stabilità, intesa
come una dimensione futura che gli consenta di su­
perare i lim iti e i condizionamenti imposti dalla pre­
carietà del presente. Didea liberale secondo cui l’uo­
mo è un essere destinato ad espandersi, sembra essere
smentita dalla ineliminabile aspirazione umana ad
eternarsi, a proiettare cioè sè stesso verso tempi mio-
182 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

v i e nuove mete, sia nella dimensione umana che in


quella trascendente propria delle religioni. Prevale
dunque la prospettiva dell’uomo proiettato a eternar­
si nel tempo e al di là di esso, piuttosto che quella di
espandersi nello spazio, dimensione di per sé precaria.
A l di là del pensiero unico e del relativismo etico oggi
dominanti, da epoche primordiali fino a i giorni no­
stri, le conquiste della scienza, le creazioni artistiche,
le dottrine politiche, l’evoluzione culturale sussistono
e si sviluppano in quanto generate da una idea di
assoluto inteso quale bisogno antropologico di supera­
mento della precarietà contingente, li uomo è infat­
ti sempre alla ricerca d i una filosofia (mai del tutto
compiuta e definitiva), generatrice di una condizione
umana di equilibrio stabile nel presente e creatrice di
nuove mete e aspirazioni da raggiungere nel futuro.

Sono pienamente d’accordo con il modo con cui imposti


filosoficamente la questione, e mi posso pertanto limitare
ad integrarlo con un ragionamento personale. L’uomo è in­
fatti un ente precario per sua stessa natura antropologica ed
ontologica, in quanto non solo è continuamente minacciato
dal fallimento dei suoi progetti, dall’infermità e dalla mor­
te prematura (colgo l’occasione per affermare il mio accordo
con l’interpretazione che della filosofia di Leopardi ha dato
Sebastiano Timpanaro), ma è anche tormentato ed angu­
stiato dall’anticipazione consapevole della propria .morte
individuale, anticipazione consapevole ignota agli anima­
li (ricordo che sia Heidegger che Jaspers hanno scritto in
proposito pagine convincenti). E tuttavia, vi sono due tipi
di precarietà, la vecchia precarietà esistenziale, che provo­
ca l’aspirazione alla eternizzazione simbolica della propria
identità (metempsicosi indiana, immortalità greca dell’ani­
ma, resurrezione paolina dei corpi, sublimazione nelle cause
storiche collettive alla Antonio Gramsci, eccetera), e la nuo-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 183

va precarietà economicistica, interamente concentrata in un


presente visto come luogo dei consumi di beni e servizi o di
ricerca incessante di lavori precari meglio pagati.
Ritengo che qui ci stia uno degli aspetti più inquietanti
del presente storico in cui viviamo. Come tu rilevi corretta-
mente, l’uomo è sempre stato un ente precario, ed addirittura
questa precarietà, così dolorosa da vivere psicologicamente,
è stata il fattore simbolico creativo di tutte le sue produzioni
ideali, dai graffiti di bisonti nelle caverne alla Divina Com­
media di Dante. La precarietà si sublimava in immortalità
ed in permanenza, e questo, lungi dall’essere frutto di super­
stizione di ignoranti (come sostiene il positivismo imbecille
in tutte le sue forme), era invece il meraviglioso connotato
specifico della specie umana. Ma ora la precarietà economi­
cistica taglia alla radice questa meravigliosa sublimazione
ideale e culturale. L’uomo di oggi è un precario privato della
proiezione simbolica all’infuturamento stabile, fattore che
fino ad oggi ha caratterizzato tutte le esperienze filosofiche
del mondo, dalla Grecia ad Israele, dalla Cina all’India. In
termini nicciani, questa è l’epoca non certo del superuomo
(o dell’Oltreuomo, la variante relativistica postmoderna del
pensiero debole), ma dell’Ultimo Uomo, l’ente miserabile
che sa che Dio è morto, e quindi che tutto diventa possibile
ma anche indifferente. L’economicismo è il regno dell’Ulti­
mo Uomo, il nostro incubo attuale.

R ic a m b io g e n e r a z io n a l e e d iv e n ir e d ella s t o r ia

3) Il succedersi ciclico delle generazioni non si risolve


nella mera esigenza fisiologica della perpetuazione
della specie. In tal caso, l’unica verità nella storia
dell’uomo sarebbe quella nichilistica della morte,
che alla pari di un buco nero spaziale assorbirebbe
la vita nello scorrere indeter?ninato del tempo senza
184 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

soluzioni di continuità. Il ricambio generazionale


non avrebbe in tal caso alcuna rilevanza nella storia,
che si ridurrebbe ad un piatto ed eterno succedersi
della funzione riproduttiva della specie e la dimen­
sione temporale stessa della vita umana sarebbe un
concetto privo di senso, data Virrilevanza del tempo
nel susseguirsi meccanico ed uniforme degli eventi. Il
ricambio generazionale è essenziale e rilevante nella
condizione umana in quanto legato al divenire stesso
della storia nel tempo. Iduomo, attraverso il rinno­
vamento continuo delle generazioni permea di sé il
tempo, crea il suo tempo. Ogni generazione quindi,
prende coscienza del proprio tempo, reinterpreta la
storia in funzione delle proprie prospettive nel tempo
che verrà e che gli è dato di vivere. Ogni generazio­
ne eredita una storia e le condizioni determinate da
un passato prossimo e remoto, che divengono presto
oggetto d i negazione e trasformazione. Tali processi
evolutivi sono possibili però, in quanto si realizza
una continuità storica con quel passato che si vuole
negare eìo trasformare. Attraverso ilflusso del tempo,
assistiamo allo scorrere di tin divenire storico in cui
ogni generazione costituisce la manifestazione del
proprio “spirito del tempo”. Solo attraverso la com­
prensione dello spirito del tempo diviene dunque in-
tellegibile la storia, non come mera narrazione, ma
come ricerca d i una logica immanente interna alla
storia stessa, logica basata sul susseguirsi dei processi
di trasformazione che si svolgono nel divenire storico.
Lo spirito del tempo è quindi determinato dalle pro­
spettive di negazione e rinnovamento delle eredità
che la storia ci trasmette. Oual è allora lo spirito del
nostro tempo? Non certo la supina accettazione da
parte dei giovani del determinismo meccanicistico
della espansione economica globale (peraltro dall’av-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 185

venire assai dubbio). Non certo la condizione di un


essere umano alienato dalla logica di produzione —
consumo. Nella precarietà immanente dell’indivi­
dualismo liberale, non c’è spirito del tempo perché
non c’è trasformazione ed evoluzione nel tempo. La
condizione alienata nell’aggettività del presente, che
diviene eterno presente, genera un individuo fine a
sé stesso, estraneo alle realtà storico sociali del nostro
tempo. ILindividualismo infatti produce una dimen­
sione umana che è solo astratta e sterile di prospet­
tive perché presuppone la fuoriuscita dall’uomo dal
suo tempo e dal divenire della storia. L’atemporali­
tà dell’individualismo, è il non essere dell’uomo nel
tempo è l’alienazione di un uomo in una fuga fuori
dal suo tempo e da sé stesso.

Il concetto da te evocato di Spirito del Tempo (Zeitgeist)


comprende una unità dialettica di opposti complementari.
Da un lato, rappresenta la coagulazione temporale prov­
visoria dell’unità espressiva di tutte le tendenze storiche
vincenti e vincitrici, che dominano il presente sotto la for­
ma dell’illusione di essere eterne, e di incarnare il Bello,
il Giusto ed il Buono, laddove sono invece l’incarnazione
del Brutto, dell’Ingiusto e del Malvagio (pensiamo alla
globalizzazione neoliberista, che i suoi apologeti e servi
presentano appunto come la concretizzazione dello Spirito
del Tempo, e cioè dell’Incubo dell’Anticristo). Dall’altro
lo Spirito del Tempo evoca necessariamente una reazio­
ne minoritaria, composta di anime (preferisco il termine
greco di anima a quello moderno di individuo, in quanto
per i nostri maestri greci psychè non era uguale ad atornon)
che sono anche l’unità sociale minima di resistenza al po­
tere. Con un pizzico di (scusabile) presunzione, ritengo
che entrambi possiamo considerarci come anime resistenti
all’odierno spirito del tempo.
186 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Se fossimo animali (con tutto l’amore ed il rispetto che


gli animali meritano) tutti coloro che non procreano (per
impossibilità fisica o per scelta individuale) dovrebbero
essere considerati inutili alla specie (cominciamo quindi
a cancellare Leopardi). Personalmente, avrei dovuto esse­
re eliminato a 27 anni, perché è a quell’età che mi sono
riprodotto mettendo al mondo un figlio, e dopo non mi
sono riprodotto più, ma, appunto, gli esseri umani non
sono mantidi religiose. Il significato della loro vita non si
esaurisce nella semplice anonima riproduzione della spe­
cie. Per questo tutti i riduzionismi biologistici, tanto di
moda oggi (e non a caso) in un’epoca storica di chiusura
del futuro e di eternizzazione del presente, non hanno nul­
la di “scientifico”, ma sono soltanto miserabili sintomi di
uno smarrimento umano e filosofico più ampio.
Molto correttamente tu individui la principale carat­
teristica dell’individualismo nella atemporalità destori­
cizzata. La storia reale non ha mai conosciuto “individui”
(nati concettualmente solo con Hobbes, fiume e Smith,
ed in variante di “sinistra” con Rousseau). Ha sempre e
solo conosciuto membri di comunità umane in rapporto
reciproco, solidale e/o conflittuale. La peste individualisti­
ca che oggi ci soffoca deve essere considerata provvisoria
e temporanea, frutto di una congiuntura che non credo
proprio possa durare per sempre.

U t o p ia e r e in c a n t o d e l m o n d o

4) Il ricambio generazionale è indissolubilmente lega­


to all’idea della giovinezza. Trattasi d i una giovi­
nezza perenne, presente in ogni tempo, perché ogni
tempo conosce nuove generazioni e nuovi ideali di
rinnovamento, che costituiscono il motore stesso del­
la storia. L’età giovanile è identificabile con l’idea
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 187

della soggettivazione del mondo. Il giovane che si


affaccia alla vita prende coscienza d i sé stesso, ma­
turando una concezione soggettiva del mondo, in
quanto quest’ultimo viene concepito in funzione
della presa di coscienza del proprio essere nella so­
cietà e nel presente storico. D a tale soggettivazione
del mondo nascono inevitabilmente le utopie, quali
visioni che trascendono il proprio tempo, in funzio­
ne d i realtà dell’avvenire, ma in fieri nel presen­
te. La visione utopica scaturisce dalla necessità dì
superare una realtà obiettiva in cui non ci si ri­
conosce, di sfuggire alle condizioni alienanti della
eredità storica, che impediscono il libero dispiegarsi
delle aspirazioni di una nuova generazione che si
sente soffocata dall’oppressione d i un presente senza
prospettive. Nell’età della m aturità poi, attraverso
la mediazione della soggettività delle aspirazioni
con l’oggettività del presente storico, si potranno
realizzare quelle trasformazioni che hanno come
fattore di prim aria generazione quelle visioni uto­
piche da cui scaturisce ogni rinnovamento del mon­
do. Nell’epoca attuale, la globalizzazione economica
ha imposto in modello economico totalizzante in cui
sta realizzando un processo inverso a quello scatu­
rito dalla dimensione utopica dell’uomo. La strut­
tura della società attuale, basata sulla ipertrofia
della produzione e del consumo determina l’ogget-
tivazione dell’uomo nelle dinamiche dell’economia
della produzione e del consumo. Infatti è l’ogget-
tività economica a creare una soggettività umana
virtuale, compatibile e omologabile all’economia
globale. La realtà socio —economica scaturita dalla
globalizzazione ha condannato a. morte l’idea forza
della trasformazione del mondo. Forse sono queste
le ragioni dell’assenza di utopie nel nostro tempo
188 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

e la dissociazione dell’utopia dall’idea d i giovinez­


za, intesa come soggettivazione del mondo. Il disin­
canto del mondo teorizzato da Max Weber forse è
giunto alla sua compiuta realizzazione con l’ogget­
tivazione dell’uomo nell’economia, nella tecnologia,
nella virtualità telematica. L’utopia può definirsi
tale, se prefigura realtà future, in cui si esprime
l’anelito umano alla incondizionatezza, alla liber­
tà dai lim iti imposti da un’epoca ormai esaurita e
senza avvenire. L’utopia è dunque l’idea che potrà
presiedere ad tm nuovo reincanto del mondo? Ogni
rinnovamento del mondo deriva da un’idea utopica
di incanto, d i perfezione, di giustizia, di assoluto,
e sorge proprio dalla coscienza delle inefficienze, dei
bisogni, dei mali congeniti alla realtà presente.

Accolgo con molto favore ed approvazione il tuo in­


teressamento per la nozione di utopia, e colgo l’occasione
di questa tua quarta domanda per chiarire brevemente la
mia posizione politica e filosofica in proposito. Concordo
sul fatto che la logica della globalizzazione mercatistica
intende condannare l’idea utopica della trasformazione
del mondo. Nello stesso tempo, per l’inesorabile dialettica
che la pervade, essa incarna il massimo dell’utopia negati­
va (alla 1984 di Orwell, per intenderci), l’incubo dell’”ar-
resto definitivo” del tempo storico nella mercatizzazione
integrale non solo dell’economia (economia di mercato),
ma di tutti i rapporti umani e sociali (società di mercato).
Ernst Bloch impostò a suo tempo in modo insupera­
bile la questione, affermando che l’utopia si occupa solo
del presente. Più esattamente, essa prefigura, all’interno
del presente, un presente alternativo. Ancora più esatta­
mente, essa prefigura, all’interno del presente, un presen­
te alternativo, sulla base di possibilità potenziali presenti
già nel presente, anche se dominate e soffocate. Noterai
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 189

che non ho mai usato la paroletta “futuro”, pur essendo


ovvio che le utopie hanno generalmente un orientamento
“futuristico” e non “tradizionalistico”, e di regola pre­
diligono la prefigurazione del futuro alla nostalgia del
passato. E tuttavia, a proposito del futuro, condivido il
motto che recentemente Eugenio Orso ha premesso ad
una sua convincente analisi delle classi sociali nel capita­
lismo globalizzato odierno, per cui “ignota è l’architettu­
ra del domani”.
Sulla base della definizione data di utopia, mi permet­
terai di sbozzare un breve percorso della mia concezione
di utopia all’interno della tradizione filosofica occidentale.
La filosofia greca nasce sulla base di una utopia della co­
munità, una comunità politica capace di impedire dall’in­
terno, senza interventi provvidenziali esterni (il Salvatore
cristiano, il Regno di Dio, eccetera), la dissoluzione ano-
mica ed individualistica della comunità stessa. La filoso­
fia non nasce quindi, se non indirettamente, dalla ricerca
dei primi principi materiali (Talete) o dalla cosiddetta
“meraviglia” (Aristotele). Essa nasce sulla base del man­
tenimento dell’utopia della comunità sociale solidale. Il
primo grande pensatore “utopista” è allora Parmenide, il
grande legislatore pitagorico di Elea, che la esprime nella
forma, solo apparentemente misteriosa ed in realtà chia­
rissima, del concetto di Essere, eterno ed immutabile (to
ori) in quanto non soggetto a cambiamento. Questo Essere
è un’utopia sociopolitica, o più esattamente comunitaria,
in quanto esprime in forma metaforica l’idea di perma­
nenza nel tempo della perfetta legislazione pitagorica,
estranea a qualunque “aggiornamento”, capace di rego­
lare in modo insuperabilmente “perfetto” la convivenza
comunitaria dei cittadini, contro l’irruzione dell’indivi­
dualismo mercatistico portato dal denaro (chremata), la cui
logica di sviluppo inevitabile, infinita ed indeterminata
(apeiron) è la schiavitù per debiti per i più poveri.
190 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Hegel sostenne acutamente che la Repubblica di Plato­


ne non era per nulla un’anticipazione greca della successi­
va utopia rinascimentale moderna (Tommaso Moro, Cam­
panella, Bacone, eccetera), ma era l’espressione più pura
dell’idealismo della cultura greca, ed era pertanto “ideale”
come le forme ideali della grande scultura greca. Come la
scultura greca portava nella materia l’ideale della perfetta
forma del corpo, l’utopia platonica portava nella società
l’ideale della perfetta forma della convivenza comunitaria
umana. È del tutto evidente che l’architettura concreta
della Repubblica di Platone non è accettabile secondo le
regole del Politicamente Corretto di oggi (a partire dalla
dittatura eugenetica dei matrimoni combinati dai gover­
nanti sulla base per di più di una “nobile menzogna”),
ma non è questo il criterio giusto per cui essa deve essere
giudicata. Si tratterebbe di un criterio anacronistico ed
antistorico. La Repubblica è ideale come è ideale la statua
di Afrodite. Entrambe sono in un certo senso del tutto
“utopiche”.
Benché possa sembrare a prima vista strano, è stato
Aristotele colui che ha filosoficamente fondato il concetto
di “utopia” come piace a me ed a te, in quanto è stato Ari­
stotele a distinguere con precisione il concetto di possibile
come casuale, contingente ed aleatorio (katà to dynatòn)
ed il concetto di possibile come potenzialità contenuta
all’interno del concreto sviluppo dinamico di una realtà
(dynamei on). L’utopia, intesa come potenzialità presente in
un presente storico alternativo a quello dominante, deriva
dialetticamente proprio dal concetto di essente-in-possi-
bilità (e cioè appunto dynamei on).
Questa premessa, sia pure un po’ lunga, era necessa­
ria, per mostrare come il concetto di utopia deriva dalla
saggezza dei greci, e non è stata improvvisamente inven­
tata nel 1516 da Tommaso Moro con la sua nota operetta
Utopia. Essa comprende due libri, e soltanto il secondo
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 191

è dedicato alla descrizione dell’Utopia vera e propria. Il


primo libro, spesso trascurato, è invece il più significativo,
perché in esso Moro parla delle recinzioni (enclosures), che
scacciano dalle campagne i contadini poveri, che diventa­
no cosi spesso ladri per poter sopravvivere, ed in questo
modo contribuiscono a far aumentare la criminalità, che
non è pertanto dovuta ad una fantomatica malvagità inna­
ta nell’uomo. Sembra di leggere, con mezzo millennio di
anticipo, un’analisi odierna del rapporto fra pauperismo,
espropriazione dei più poveri e criminalità.
Il grande idealismo classico tedesco (che nella mia per­
sonale ricostruzione, che qui ovviamente non ho lo spazio
per riassumere, comprende Fichte, Hegel e Marx, che per
me non è affatto un “materialista”, ma il coronamento
utopico della filosofia classica tedesca) è stato una gran­
de utopia dei ringiovanimento dell’umanità (Verjungen der
Menscheit). Come tu hai correttamente notato nella tua do­
manda, l’utopia può anche essere definita una soggettiva­
zione giovanile del mondo. Non si tratta però di questo o
di quel giovane empiricamente dati, ma del Giovane (con
la maiuscola) come concetto unificato ideale del ringio­
vanimento del mondo (si tratta peraltro del concetto di
10 in Fichte, in cui l’Io giovanile distrugge i pregiudizi e
le ingiustizie accumulatisi nella storia dal Non-io, che è
poi una metafora concettuale unificata del Vecchio, in cui
11 Vecchio non è più il portatore della saggezza, ma dei
pregiudizi).
Non c’è qui lo spazio, e neppure la necessità, di di­
scutere la mia interpretazione di Hegel come portatore
di una unità concettuale contraddittoria di Utopia e di
Realismo. Si tratta di un realismo utopico (l’ossimoro è
ovviamente intenzionale), in quanto il realismo è soltanto
il freno a mano di un veicolo che percorre la via del perse­
guimento di una comunità utopica moderna, che non può
certo riproporre e restaurare la grecità classica, ma deve
192 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

incorporare la nuova individualità nelle nuove forme della


famiglia, della società civile e dello stato. Non a caso, la
logica iperindividualistica ed atomistica dell’attuale glo­
balizzazione neoliberale tende a distruggere soprattutto
la famiglia monogamica, la società civile delle professioni
stabili che durano un’intera vita, e lo stato nazionale por­
tatore della sovranità monetaria.
Marx raccoglie l’eredità dell’utopia comunitaria mo­
derna di Hegel, e cerca di “infuturarla” nella sua società
comunista senza proprietà privata, famiglia, società civile
e stato. Qui mi sembra che l’errore concettuale di Marx
(peraltro largamente scusabile, soprattutto ai suoi tempi)
sia stato quello di cercare di dedurre l’utopia del futu­
ro a partire da dati del tutto discutibili (in quanto for­
temente esagerati, e quindi maldestramente estrapolati)
del suo presente storico, a partire dalla sopravvalutazione
delle capacità (in realtà modestissime) della classe ope­
raia, salariata e proletaria, e dalla presunta incapacità (in
realtà inesistente) della borghesia capitalistica nel riuscire
a sviluppare le forze produttive (in realtà, le sviluppa fin
troppo, in modo distruttivo, sia per l’ambiente che per la
convivenza umana).
Pur autoconsiderandomi un allievo indipendente ed
“eretico” di Marx, ritengo concretamente impossibili e
impraticabili (e quindi negativi) proprio gli elementi del
suo pensiero che piacciono a tutti gli anarcoidi, gli estre­
misti e i confusionari, e cioè l’estinzione dello stato, la
morte della famiglia, la fine integrale della forma di merce,
eccetera. Per quanto mi riguarda, il comunitarismo è sol­
tanto il comuniSmo privato dei suoi aspetti impraticabili,
che in realtà, sotto l’apparente forma di un collettivismo
livellatore, derivano da un segreto individualismo, a sua
volta ereditato non certo da Hegel, quanto da Rousseau,
il cui contratto sociale equo derivava da individui alla Ro­
binson, privi di legami familiari e comunitari precedenti.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 193

Possiamo quindi riassumere il tutto in questo modo.


L’utopia non è soltanto una vaga idea regolatrice di un
nebuloso futuro, e non è neppure una consolazione mora­
listica per la miseria del presente. L’utopia è una idea-forza
realistica, perché “realmente” radicata in possibilità po­
tenziali già esistenti qui ed ora. Le spietate oligarchie che
ci governano, ovviamente, promuovono una visione del
mondo anti-utopica (Popper, Dahrendorf, Bobbio, Haber­
mas, eccetera), che chiamano ipocritamente modernità,
oppure una visione del mondo iperrealistica da utopia ne­
gativa del tutto impraticabile (postmoderno, Sloterdijk,
eccetera). Il sentiero dell’utopia vera, che definirei utopia
realistica, è certamente stretto, ed è facile cadere. Ma mi
sembra che stiamo faticosamente percorrendolo entrambi,
e possiamo esserne moderatamente fieri e contenti.
194

Benedetto XVI e il declino della modernità

A lla r ic e r c a d i u n n u o v o u m a n e s im o

1) Nella enciclica “Caritas in ventate’’ di Benedetto


XVI, facendo riferimento alla “Populorum progres-
sio” d i Paolo VI, si afferma “N el disegno di Dio,
ogni uomo è chiamato allo sviluppo, perché ogni vita
è vocazione”. Il concetto di sviluppo assume il signi­
ficato di vocazione in quanto presuppone la natura
trascendente dell’uomo. Uno sviluppo che negasse la
dimensione trascendente renderebbe l’uomo oggetto
di uno sviluppo immanente alla storia e non sog­
getto, quale autonoma persona artefice della propria
libertà. Lo sviluppo si tradurrebbe quindi in una
vocazione dell’uomo alla verità, perché comprende
l’integralità della persona, sia sul piano naturale
che su quello soprannaturale. Infatti, le cause del
sottosviluppo non sarebbero tanto di ordine mate­
riale, ma sarebbero dovute alla mancanza di valo­
ri etici, quali la carità, la solidarietà comunitaria.
Nell’enciclica di Benedetto X V I si afferma: “La
società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma
non ci rende fratelli”. Alla Chiesa non manca certo
il senso della realtà storica, al fine di comprendere
le problematiche sociali del nostro tempo. Tuttavia,
poiché la vocazione allo sviluppo spinge gli uomini
a fare per “essere di p iù ”, quale crescita dell’essere
dell’uomo nella prospettiva trascendente, dobbiamo
osservare che la problematica dell’essere nella storia è
stata oscurata da quella dell’avere individualistico.
Nel mondo post-moderno globalizzato si è in quanto
si ha, in term ini economici, sociali, culturali, mora­
li. Uindividuo è in quanto non ha finalità che tra-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 195

scendono se stesso: egli possiede se stesso nella misura


in cui è svincolato da legami fam iliari, comunitari,
trascendenti, che definiscono la sua identità storico­
sociale. Non è un caso che il concetto d i sviluppo nel
mondo contemporaneo sia legato indissolubilmente
alla crescita economica. Il sottosviluppo è in larga
parte conseguenza di una forma di sviluppo impo­
sto al terzo mondo decolonizzato, che coincide con
l’esportazione forzata del modello occidentale tecno­
cratico —capitalista, che ha determinato impoveri­
mento di risorse, soppressione delle economie locali,
sradicamento delle tradizioni identitarie. E stata
la crescita dell’Occidente la causa stessa del sottosvi­
luppo del terzo mondo, da cui ha estratto materie
prim e a basso costo, ed esportato debito insolvibile.
Il modello di sviluppo economico occidentale impo­
sto su scala mondiale, non ha solo marginalizzato
il terzo mondo, ma ha anche annientato le ideologie
novecentesche (già condannate dalla <Centesimus
annus> d i Giovanni Paolo II come <messianismi
carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni>),
ed insieme ad esse il messaggio trascendente delle re­
ligioni. Non ho ravvisato nell’enciclica di Benedetto
X V I la coscienza di questo processo di espansione dai
contenuti nichilisti del liberismo globalista in cui
sono state accomunate nello stesso destino decadente
sia l’ideologia che la religione. Ideologia e religione
non sono tuttora elementi essenziali per lo sviluppo
di nuovi umanesimi fu tu ribili?

La recente enciclica papale è indubbiamente un testo


notevole, anche perché finalmente vola “alto” su di un
tema ritenuto tradizionalmente “basso”, come i rappor­
ti economici e sociali. Ma qui, appunto, il massimo di
altezza coincide con il massimo di apparente “bassezza”.
196 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Non esiste nulla di più alto della considerazione critica


dei rapporti sociali, politici ed economici. Per usare un
linguaggio medioevale (comunque sempre migliore del
linguaggio post-moderno e del razionalismo detto “laico”,
termine improprio ed ingannatore, perché in greco laos
significa popolo, non élites snobistiche legate al capitale
finanziario), Gerusalemme c’è soltanto quando si occupa
di Babilonia, ed il Millennio c’è soltanto quando si occu­
pa del Secolo. Tutto il resto è solo “sepolcro imbiancato”
(Gesù di Nazareth).
E tuttavia, questa enciclica ha dovuto necessariamente
subire la sorte della rapidissima obsolescenza mediatica e
giornalistica. Per qualche giorno se ne è parlato sui gior­
nali, e poi è sparita. Testi del genere sono fatti per una
“cultura della lentezza" e della riflessione pacata, del tutto
incompatibile con l’attuale ontologia del telefonino e del
telecomando. E tuttavia, il suo relativo successo (da quan­
to riesco a capire, maggiore che in casi precedenti) è stato
dovuto principalmente a due fattori.
In primo luogo, allo scoppio della recente crisi finan­
ziaria, con le note ricadute in termini di impoverimento
dei ceti medi e di disoccupazione delle classi operaie, sa­
lariate e proletarie, già fortemente colpite nei due decenni
precedenti dall’oscena generalizzazione del lavoro flessibi­
le e precario, che se fossi un teologo cattolico definirei “il
più grande peccato possibile di fronte a Dio”. Lo scoppio
di questa crisi ha messo in crisi l’osceno gracchiare apolo­
getico del “partito degli economisti”, partito che non è né
di destra né di centro né di sinistra, ma è un partito tota­
litario criminale che personalmente metterei fuorilegge,
se ne avessi il potere. Essi non solo non hanno “previsto
la crisi”, come si suole dire oggi in modo cauto e mini­
malista, ma hanno attivamente sostenuto il ventennio
di rapina che ci sta alle spalle. A questo punto, la critica
dell’enciclica di Ratzinger è confluita nel grande estuario
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 197

limaccioso delle critiche alle “esagerazioni” del capitali­


smo incontrollato, critiche che oggi fanno quasi tutti, con
l’eccezione di pedofili, lupi mannari e traders di vario tipo,
tirati su ad avidità e cocaina.
In secondo luogo, al suicidio della precedente “sinistra
anticapitalistica”, riciclata e riconvertita (soprattutto a
partire dall’alto, e cioè dai suoi tre settori del ceto politico,
del circo mediatico e del clero universitario), rimasta in
piedi soltanto come struttura politica di intermediazione e
come bacino elettorale di confusionari, che hanno rapida­
mente trovato nell’anti-berlusconismo il succedaneo della
precedente via italiana al socialismo. Rimasta come bacino
elettorale e nicchia identitaria la “sinistra” è sopravvissu­
ta come fattore politico-parlamentare, ma è sparita come
portatrice di visione del mondo e come profilo filosofico
(nel senso in cui anche i “semplici” sono potenzialmente
filosofi, come scrisse a suo tempo correttamente Antonio
Gramsci). In questo gigantesco “buco” morale e spirituale
(verificatosi peraltro in modo parallelo e convergente an­
che a “destra”), è del tutto naturale che il linguaggio della
chiesa cattolica abbia (parzialmente) riempito il buco.
Tutto questo però è soltanto congiunturale e provvi­
sorio. Come è avvenuto dopo il terremoto dell’Abruzzo
del 2009, le tende restano pur sempre provvisorie. Prima
o poi, la gente si stanca di abitare in tenda, e prima o poi
vuole giustamente tornare ad abitare in case di muratura.
Lo stesso avviene a mio parere per la necessità odierna di
valutare e di criticare la società capitalistica. C’è stato un
terremoto storico negli anni 1989-1991- I vecchi edifici
del comuniSmo storico novecentesco sono crollati, e sono
crollati perché non erano stati costruiti con criteri anti­
sismici (e cioè, fuori di metafora, sulla base di un reale
consenso democratico dei cittadini). Per vent’anni i pro­
fughi di “sinistra” sono vissuti in tende provvisorie (ide­
ologia del totalitarismo, ideologia dei diritti umani con
198 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

bombardamento unilaterale incorporato, post-moderno,


bioetica individuale, eccetera), ma il tempo dei brontolii
sotto la tenda (piove, fa freddo, i bambini si lamentano,
eccetera) sta finendo.
I mascalzoni ed i maramaldi della cosiddetta “sini­
stra” hanno deciso di passare dall’eguaglianza sociale al
fiancheggiamento del femminismo di “genere” ed alla
riduzione del senso del mondo alla (pur giusta) solidarie­
tà verso zingari e migranti, allontanandosi così dal loro
stesso precedente popolo di riferimento, costantemente
ingiuriato come leghista, populista ed egoista. E allora del
tutto evidente che, trovato chiuso uno sportello preceden­
temente aperto, si corra a cercarne un altro. E quello che
è successo negli ultimi vent’anni. Qui sta la ragione del
(relativo) interesse verso la recente enciclica di Ratzinger.
E tuttavia, le chiese non si riempiranno per ragioni di
aggiornamento teologico o di intelligente diagnosi filoso­
fica. Le chiese, ormai semivuote da tempo, si riempiono
a metà sulla base della gestione quotidiana della sacralità
simbolica della famiglia, della paternità, della maternità,
della fragilità della terza età. Si riempiono perché mentre
i teologi e gli intellettuali idioti si sono secolarizzati, la
maggior parte dei semplici preti e delle semplici suore non
si sono auto-secolarizzati. Volere una chiesa secolarizzata è
come volere un gelato bollente. La religione esiste soltanto
nella misura in cui non fa nessuna concessione alla secola­
rizzazione, in quanto la secolarizzazione non è affatto una
“religione adulta”, ma è il contrario di tutte le religioni.
Ma su questo vorrei tornare in seguito. Ratzinger ha
capito (e non era affatto facile) che la religione cattolica
non si sarebbe “salvata” con la trasformazione delle chiese
in centri di assistenza sociale. In altre parole, Ratzinger ha
capito che la chiesa non si sarebbe salvata dalla secolariz­
zazione assecondandola ed auto-secolarizzandosi. È questa
la ragione per cui è tanto odiato dai pagliacci del laicismo
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 199

ultracapitalistico (Scalfari, Flores d ’Arcais, eccetera), il cui


ideale sarebbe un papa laico, relativista e fallibilista. Per­
sonalmente, non voglio prendere in giro il lettore e farmi
scambiare per un “ateo devoto” (in cui la devozione è in
realtà adesione al neo-conservatorismo USA e sionista,
vedi Pera, Ferrara, eccetera). Non sono quello che si chia­
ma un “credente”, anche se credo immensamente di più di
Casini e di Berlusconi nella capacità umana di battersi per
una società più giusta. Ma, se fossi un credente, vorrei una
chiesa la meno auto-secolarizzata possibile, che smette di
perdere tempo con pomposi ed inutili “dialoghi” con i lai­
ci, palestre narcisistiche per semi-colti profumatamente
pagati dagli enti locali (generalmente di centro-sinistra).
E tuttavia, poniamoci radicalmente il problema: la
cosiddetta “dottrina sociale della chiesa” è all’altezza dei
problemi contemporanei, oppure resta una mezza misura,
o come dicono gli anglosassoni, una teoria di media por­
tata (middle-range theory)?
Questo, e solo questo, è il problema. Il resto è chiac­
chiericcio per colti.

E t ic a e m e r c a t o : d u e sistem i in c o m p a t ib il i

2) Uenciclica sociale di Benedetto XV I pone l’accento


sulla centralità dell’uomo nella vita economico —so­
ciale. Viene posta in risalto la condizione umana oggi
degradata dalle inaccettabili differenze d i ricchezza
sia all’interno dei paesi sviluppati che tra gli stati,
oltre alla disgregazione della coesione sociale e delle
istituzioni democratiche, con relativo abbassamento
del livello di tutela dei d iritti dei lavoratori. Occor­
re dunque riflettere stili’economia e sui suoi fini. La
disgregazione sociale, l’insicurezza dovuta alla pre­
carietà, il livellamento delle culture nella dimen-
200 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sione tecnologica, vengono evidenziati come fattori


che conducono, oltre che a l degrado della condizione
umana, a guasti anche nell’ambito dell’economia,
che verrebbe depauperata delle risorse del capitale
umano. L’economia viene considerata uno strumento
e non un fine e pertanto non può risolversi unica­
mente nella logica mercantile, ma deve perseguire il
bene comune. La logica antisociale del profitto è in­
f a tti sopraffazione dei deboli. “Non va dimenticato
che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae for­
ma dalle configurazioni culturali che lo specificano e
lo orientano”. I param etri culturali e morali propri
di una società sarebbero dunque i criteri che infor­
mano gli orientamenti del mercato. In realtà, nella
società liberista globalizzata, è il mercato a dettare
le condizioni di sviluppo e quindi a determinare gli
orientamenti culturali, a prescindere dai presuppo­
sti morali. Il mercato globale è una realtà economica
che presiede alla totalità delle a ttività umane, il cui
unico criterio di valutazione è dato dalla loro ade­
guatezza alle dinamiche del mercato. Il capitalismo
assoluto deve il proprio successo al fatto di non esse­
re vincolato ad alcun principio etico intrinseco alla
economia d i mercato. Tra i postulati fondamentali
dell’economia liberale c’è proprio quello secondo cui
l’economia è scienza nella misura in cui fa astrazio­
ne da elementi etici e!o culturali estranei. La scienza
economica non è dunque neutrale, quale strumento
predisposto alla realizzazione d i finalità esterne ad
essa, ma è autoreferente a se stessa, per principio
anetica e dissolutrice di altre scienze, filosofie e re­
ligioni che ostacolino il raggiungimento dei propri
fini, quali il profitto, l’espansione produttiva, il con­
sumo. Giudico quindi illusoria l’istanza contenuta
nell’enciclica secondo cui possano sussistere spazi per

I
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 201

iniziative economiche che non perseguano profitto e


che possano essere istaurati rapporti economici ispi­
rati alla gratuità e alla, logica del dono nell’ambito
di una società globale strutturata sul mercatismo. Il
principio contrattuale è antitetico al principio della
solidarietà, nella misura in cui le funzioni redistri­
butive degli stati si rivelano incompatibili con le
condizioni poste dalla concorrenza selvaggia di un
mercato globale che annulla la sovranità degli stati.
Possono solo sussistere istituzioni no-profit, qualora
queste si rivelino funzionali al mercato. Istituzioni
d i carattere assistenziale (in prim is la gestione dei
flussi migratori), che adempiano a funzioni spesso
già svolte dallo stato e che comunque contribuiscano
a prevenire tensioni sociali che potrebbero rappre­
sentare elementi di turbativa del mercato.

Mi sono letto due volte attentamente l’enciclica, e per


di più con l’evidenziatore, come è necessario fare con i
testi filosofici e teologici “seri”. Ratzinger è un papa filo­
sofo, e dal momento che anch’io sono un filosofo di profes­
sione mi lusingo di capire che cosa ci sta di volta in volta
dietro certe formulazioni apparentemente ovvie e sempli­
ci. Il teologo è per me semplicemente un filosofo che crede
in Dio, ed infatti non è un caso che questo termine non
venga mai usato per chi parla di Dio senza però crederci,
almeno in senso monoteista (ad esempio, nessuno chiame­
rà mai Spinoza e Feuerbach “teologi”, anche se entrambi
parlano ossessivamente di Dio, ancor più di monsignor
Ravasi o di monsignor Martini). Per ragioni di spazio, è
ovvio che non posso fare continue citazioni. Una foresta
è fatta di alberi, ma io tratterò questa enciclica come una
foresta unitaria. Non c’è nulla di peggio del commentato-
re che si perde dietro ogni singolo albero, e non vede più
l’unitarietà della foresta.
202 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

La foresta ratzingeriana si presenta come un esercizio


retorico di convincimento. Si tratta di un’interpellazione
morale (ed anzi, ahimè, moralistica) rivolta al capitalismo.
Anziché “ascolta, Israele!”, Ratzinger esclama: “Ascolta,
globalizzazione capitalistica, e pentiti!”. Più esattamente,
pentiti per i tuoi eccessi. E tuttavia, rivolgersi alla produ­
zione capitalistica, per di più nella sua forma globalizzata,
equivale a rivolgersi alla sintesi clorofilliana o alla deriva
dei continenti. Si dirà che l’analogia non è corretta, perché
le piante e le rocce non possono ascoltare, ma gli uomini si.
E tuttavia nel capitalismo gli uomini non si comportano
come uomini, dotati di fede, logos e raison, ma come animai
spirits e come maschere di carattere (Charaktemiasken). Se
devo pagare un operaio millecinquecento euro in un posto,
e posso pagarlo a parità di tecnologie e di competenze tre­
cento euro in un altro, il capitalista ignorerà l’intera tradi­
zione umanistica occidentale e l’intera tradizione culturale
cristiana, ed effettuerà una “delocalizzazione”.
Non ho certo scoperto nulla di nuovo. Tutto questo
era già largamente noto anche molto prima di Marx. Ma
qui non si tratta di noto o di ignoto, quanto di rigore
intellettuale e morale. Il solo modo concreto di “domare”
la logica del mercato globale, a mia conoscenza, è il pro­
tezionismo più o meno temperato. Ma è appunto il pro­
tezionismo che è escluso a priori dalla vulgata economica
neoliberale. Alla base sta la pretesa (a mio avviso del tutto
infondata) che l’economia politica moderna (nel senso di
Smith, Ricardo, Keynes e Schumpeter) sia una scienza.
Ma a mio avviso non è affatto una scienza, in nessun si­
gnificato del termine. Si tratta di una specifica ideologia
sociale su basi filosofiche individualistiche e utilitaristi­
che, che si presenta come scienza esattamente come nel
medioevo la teologia si presentava come scienza (pretesa,
peraltro, accettata dai domenicani e respinta dai france­
scani, salvo eccezioni minoritarie nei due campi). Marx
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 203

sarà stato ateo, e quindi reprobo, ma ha avuto perfetta­


mente ragione quando ha fatto la sua (discutibile finché si
vuole) critica dell’economia politica. Una critica globale,
che non lascia pietra su pietra. Vogliamo gettare via il
bambino di questa critica insieme con l’acqua sporca de­
gli errori ed orrori del comuniSmo storico novecentesco
(Katyn, gulag staliniani, Poi Pot, eccetera)? Lo si faccia
pure, ma se lo si fa non ci si stupisca poi se restano in pie­
di soltanto geremiadi moralistiche di cui i capitalisti non
tengono peraltro alcun conto.
La scienza economica, quindi, è irriformabile. Può
soltanto essere sostituita con una concezione globale al­
ternativa. Cercherò di argomentarlo usando lo stesso les­
sico concettuale di Ratzinger, per cui se per caso potesse
leggermi (ma è da escludere, in quanto sembra preferire
interlocutori di comodo tipo Pera ed Habermas, quando
non Oriana Fallaci e .Magdi Allam) potrebbe almeno ca­
pirmi, anche se ovviamente non condividermi (la Divina
Provvidenza, infatti, non si spinge tanto in la).
Il processo detto di secolarizzazione non è certamente
un insieme di opinioni filosofiche e religiose, ma è un pro­
cesso strutturale di legittimazione della società in quan­
to tale. Fino ad un periodo oscillante fra il 1730 ed il
1830 circa, la legittimazione sociale in Europa era basata
in vario modo sulla religione (trascuro qui le pure im­
portanti differenze fra cattolicesimo, protestantesimo ed
ortodossia, presupponendole come note nel lettore). Con
la rivoluzione industriale ed il suo successivo propagarsi
nei vari paesi europei (e poi negli USA, in Russia e in
Giappone) la legittimazione sociale “passa il testimone”
dalla religione alla economia politica, che diventa cosi la
nuova teologia secolarizzata del capitalismo. Ho detto del
capitalismo, non della “borghesia”, che a differenza del
capitalismo, che è un anonimo mostro freddo, produce an­
che la sua “coscienza infelice” nelle sue varie forme (ide-
204 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

alismo, marxismo, niccianesimo, eccetera). Benché l’illu­


minismo sia un fenomeno complesso e contraddittorio,
e non possa essere sbrigativamente ridotto ad ideologia
di legittimazione del capitalismo (né intendo certamente
farlo), è indubbio, e non può essere decentemente negato,
che il suo concetto di ragione si sia strutturato sulla base
della riduzione del pensiero umano ad intelletto calco­
lante, nel doppio aspetto di intelletto calcolante scienti­
fico (Kant) ed economico (Hume, Smith, eccetera). Non
si tratta allora di respingere o di accettare integralmente
l’illuminismo. Si tratta soltanto, per ora, di capire questo
suo carattere, e di non prostrarglisi davanti con il culo
per aria come fanno i talebani prima del combattimento.
I talebani del laicismo, numerosissimi da noi, fanno esat­
tamente questo.
Ratzinger ha capito questo, e per questa ragione non
respinge la ragione in quanto tale, ma intende ridefinirla
in termini di logos greco e non di raison illuministica. A
differenza di come fanno i dilettanti che stabiliscono una
linea continua “europea” dai greci ad Habermas, Ratzin­
ger sa perfettamente che questa linea continua non esiste,
perché la ragione dei greci comprendeva l’intero comples­
so della riproduzione comunitaria umana, e non avrebbe
mai consentito la riduzione di questa riproduzione unita­
ria alla sola dimensione alienata del cosiddetto homo oecono-
nùcus. Questo pone il filosofo Ratzinger molto più in alto
del pollaio laicista che domina nei mezzi di comunicazio­
ne di massa e negli apparati manipolatori delle facoltà di
filosofia. E tuttavia, come nel romanzo di Stevenson del
Dottor Jekyll e di Mr Hyde, Ratzinger deve fare i conti
con la sua ombra, chiamata Benedetto XVI, che gestisce
un gigantesco apparato burocratico (una vera e propria in­
dustria del Sacro e della sua amministrazione) pienamente
incorporato (Polanyi avrebbe detto embedded) nella ripro­
duzione capitalistica e nelle sue oligarchie. Nelle cerimo-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 205

nie costituzionali, a fianco di ministri, prefetti, ambascia-


tori, giornalisti, eccetera (mancano soltanto in genere le
puttane, oggi pudicamente chiamate escort, fra poco la sco­
pata verrà chiamata movimento sussultorio a due di tipo
edonistico secolarizzato), ce sempre un Vescovo-Pretone
dall’aria compunta.
E allora? Diciamocelo per una volta in latino: oportet
ut scandalo, eveniant, e più presto verranno e meglio sarà.

La “ f a m ig l ia u m a n a ” e la g l o b a l iz z a z io n e

5) La Chiesa prende atto del processo di globalizzazio­


ne, evidenziandone le trasformazioni di caratte­
re socio —economico, l’interconnessione sempre più
accentuata tra i popoli, il processo d i progressiva
unificazione della “fam iglia umana”. Nell’encicli­
ca viene criticato il suo accentuato carattere deter­
ministico, l’orientamento che assolutizza l’aspetto
socio-economico. Ma la globalizzazione stessa viene
considerata nel suo complesso come un fenomeno
che offre grandi opportunità, se gestito nel senso di
“favorire un orientamento culturale personalista e
comunitario, aperto alla trascendenza, del processo
d i integrazione planetaria”. Pertanto occorrerebbe
correggerne le disfunzioni derivanti da una sua
cattiva gestione: si renderebbe necessario infatti un
suo riorientamento di carattere etico —culturale, che
si sostituisca alla attuale impostazione individuali­
stica e utilitaristica, conferendo alla globalizzazione
stessa le finalità proprie d i una um anità solidale.
Viene teorizzata cioè, una globalizzazione che generi
redistribuzione della ricchezza, anziché accrescere i
differenziali di ricchezza tra i popoli, crei sviluppo
anziché sottosviluppo generalizzato. Il processo di
206 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

globalizzazione in atto trae origine da fasi d i tra­


sformazione evolutive interne al mondo capitalista,
dopo la fine delle ideologie e in corrispondenza del­
la fine del bipolarismo USA - URSS con relativa
affermazione degli USA quale unica superpotenza
mondiale. La globalizzazione non è un processo di
carattere deterministico — necessario scaturito da
una forza progressiva immanente alla storia che
conduca allo sviluppo d i una um anità unificata sot­
to l’egida d i un progresso illimitato, ma è frutto d i
una strategia espansionistica mondiale del modello
di società capitalistica, imposto dalla superpotenza
americana. D a quanto precede, emerge l’incompa­
tibilità assoluta tra il modello solidale universa­
listico proprio della missione della Chiesa ispirato
alla visione trascendente dell’uomo. La Chiesa vuole
inserirsi nelle dinamiche dei processi storici in atto,
adeguando alle circostanze storiche contingenti il
proprio messaggio. La Chiesa vuole in tal modo tro­
vare un suo spazio nell’ambito di fenomeni storici
alla cui genesi è completamente estranea. Essa tenta
di sfuggire alla sua progressiva marginalizzazione
dalla storia cui sembra averla condannata la civiltà
occidentale divenuta laicista e cosmopolita da circa
200 anni a questa parte. Tali adeguamenti della
Chiesa alla realtà storica contingente, comportano
però il rischio d i uno snaturamento del messaggio
evangelico nei suoi contenuti trascendenti —escato­
logici. La visone della globalizzazione quale possi­
bile processo d i integrazione planetaria della “f a ­
mìglia umana”, non comporta implicitamente la
trasformazione dell’universalismo cattolico in una
sorta d i cosmopolitismo astratto, uguale e contrario
a quello delle correnti materialistiche dell’in divi­
dualismo liberale?
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 207

Tu noti giustamente, e lo metti anzi al centro delle tue


considerazioni, che l’idea portante dell’enciclica di Ratzin­
ger è la distinzione fra la globalizzazione, in sé potenzial­
mente buona, e la sua cattiva gestione neoliberale, che si
tratterebbe di correggere con rimedi fondamentalmente
volontari, di tipo solidaristico e morale. Il papa non sareb­
be così un No Global, ma un New Global, per usare il grot­
tesco linguaggio dei giornalisti e dei commentatori me­
diatici. E tuttavia, se togli la praticabilità di questo pre­
supposto, che è il fondamento teorico esplicito dell’intera
enciclica, tutto il resto perde largamente di significato. Si
tratta di un presupposto errato, che corrisponde in cam­
po politico-sociale al presupposto geo-centrico della vec­
chia astronomia tolemaica pre-galileiana. Parlo sul serio,
e letteralmente: la valutazione positiva della globalizza­
zione capitalistica attuale corrisponde, mutatis mutandis,
al modello astronomico geocentrico, e come quest’ultimo
era irriformabile, e non consentiva correzioni di dettaglio,
ma doveva essere rovesciato dalle fondamenta, nello stes­
so modo il sistema della globalizzazione economica deve
essere rovesciato dalle fondamenta. Certo, i rapporti di
forza geopolitici e militari non lo consentono a breve ed
a medio termine, e non sono cosi sciocco ed ingenuo da
non saperlo. Ma una forza che si vuole messianica come la
chiesa cattolica non dovrebbe essere incatenata e vincolata
al breve ed al medio termine. Lasciamo che questo concer­
na soltanto i miserabili ex-comunisti riciclati in cani da
guardia dell’impero USA e del sionismo, con il loro popolo
antiberlusconiano di babbioni plaudenti, che ha recente­
mente scoperto che perfino Fini è diventato di “sinistra”.
Come sfuggire alla marginalizzazione cui la secolariz­
zazione condanna la chiesa cattolica? È il problema che tu
poni, ed è un buon problema, per cui cercherò almeno di
prenderlo in considerazione, anche se onestamente non in­
vidio Ratzinger, perché non saprei certamente rispondervi.
208 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Se io fossi papa (lo dico per scherzo, parafrasando Cecco An-


giolieri) arresterei certamente il processo suicida di auto­
secolarizzazione e restaurerei la messa in latino (con messali
tradotti per i fedeli), ma nello stesso tempo farei finalmente
sposare i preti, incoraggerei una teologia di tipo greco e
non certamente veterotestamentario ed assiro-babilonese
(come quella, e non è un caso, dell’inserto culturale dome­
nicale del Sole 24 Ore - evidentemente è la più innocua per
la Confindustria, perché priva della benché minima traccia
dello spirito anti-crematistico aristotelico), favorirei un av­
vicinamento all’ortodossia e diminuirei la polemica contro
l’islamismo, eccetera. Parlo per scherzo, ovviamente, anche
perché data la mia età già relativamente avanzata le proba­
bilità che venga fatto papa cattolico sono irrisorie. Non mi
pongo quindi come consigliere non richiesto di una reli­
gione di cui non sono neppure “praticante”.
Ciò che invece conta è liberare il problema del rapporto
fra religione, politica, economia e cultura dal soffocante
abbraccio della situazione italiana, una delle più degenera­
te dell’intero occidente. Il problema da discutere è quello
da te inquadrato, quello dell’annullamento dell’universali­
smo cattolico in un cosmopolitismo astratto, eguale e con­
trario (ma in realtà assai più eguale che contrario) a quello
delle correnti materialistiche dell’individualismo liberale.
In proposito, mi chiedo come ci sia gente cosi ingenua (e
mi permetto di aggiungere, cosi stupida), sia pure in per­
fetta sincerità e purezza di spirito (mi riferisco ad esempio
al priore di Bose Enzo Bianchi) che non capisce che le ri­
unioni “umanistiche” interconfessionali con preti, pasto­
ri, pope, rabbini, ulema, bonzi, stregoni Sioux, eccetera,
lungi dal favorire una vera visione religiosa del mondo (in
termini di primato dell’essere sull’avere), non fanno altro
che degradare la natura non secolarizzata di tutte le reli­
gioni che si rispettino, che hanno come principale merito
quello di non essere relativistiche, e di ritenere di fondarsi
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 209

sulla verità. Il fondamentalismo religioso fanatico ed intol­


lerante è certo da combattere, e merita certamente di essere
combattuto, ma questo non può avvenire sicuramente sul­
la base fragile dell’umanesimo occidentalistico di pecoroni
salmodianti vestiti in modo carnevalesco. Prima o poi lo
capiranno anche gli attori dilettanti che vi partecipano.
Combattere il laicismo adottando il relativismo laicista
nella forma dell’umanesimo retorico generico (il famoso
minimo comun denominatore fra laici e credenti) mi sem­
bra un pezzo di umorismo surrealistico classico.
E invece necessario svincolare la parte più seria ed au­
tentica del sentimento religioso dallo scenario degradato
dello scontro simulato fra Berluscones e Scalfarones. Ho
personalmente “staccato la spina” da almeno un quindi­
cennio da questa batracomiomachia e dalle sue mezze ali
estremiste (Feltri e Brunetta per i berluscones e Di Pietro
per gli scalfarones), e so bene che anche tu te ne sei “chia­
mato fuori”. Naturalmente, chi in Italia se ne chiama fuo­
ri non ha più accesso alla visibilità pubblica, perché lo sce­
nario manipolato gestito dalle nostre oligarchie impone
che tutti gli italiani, ma proprio tutti, siano o berluscones
0 scalfarones. Lo scontro è largamente simulato, con il suo
contorno di magistrati, giornalisti e soprattutto putta­
ne, perché quando si arriva ai vincoli imperiali bipartisan
(truppe in Afghanistan, tolleranza verso i crimini sionisti,
diffamazione verso il benemerito Ahmadinejad, che Allah
possa conservare a lungo) allora berluscones e scalfarones
si riuniscono miracolosamente in un solo partito unifi­
cato. E questo dovrebbe far pensare se ormai il pensare
indipendente non fosse nel frattempo estinto come la ti­
gre con i denti a sciabola. Sebbene io ovviamente sia del
tutto neutrale fra berluscones e scalfarones, devo dire che
1 secondi mi irritano leggermente più dei primi, non solo
perché ero anche io in camerino quando si sono frenetica­
mente cambiati d’abito dal rosso al rosa (rosso-Gramsci e
210 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

rosa-Veltroni), ma perché almeno i berluscones sono stati


eletti in regolari elezioni, mentre gli scalfarones cercano
di golpizzare i precedenti attraverso l’azione congiunta di
magistrati, giornalisti e puttane, tre categorie certamente
nobili e degne di rispetto, ma che però nessuno ha eletto.
Torniamo però alla religione, dopo questo intervallo
buffonesco, come gli antichi greci tornavano alla tragedia
dopo l’intervallo del dramma satiresco. Discutiamo anco­
ra di quello che tu chiami il tentativo di “inserimento”
della chiesa in un quadro generale in cui essa è totalmente
estranea, che ha dovuto subire e cui non ha per nulla con­
tribuito. E qui infatti il centro del problema.
Per capire esattamente di che cosa stiamo parlando,
non sarà inutile una analogia storica con la formazione del­
la società feudale europea dopo il lungo e secolare collasso
del mondo antico greco-romano, a suo tempo mirabilmen­
te studiato da Santo Mazzarino. La chiesa non ha affatto
“creato”, e neppure diretto questo passaggio storico, de­
rivato da una fusione conflittuale fra il tardo latifondismo
romano e l’irruzione dei nuovi gruppi militari germanici.
Essa ha dovuto subirlo, ed adattarvisi, laddove si era già
“assestata” in età costantiniana e teodosiana sulla base di
una correzione comunitario-caritativa (l’ideologia del Po­
vero, secondo l’antichista inglese Peter Brown) del modo
di produzione schiavistico antico, solo leggermente mo­
dificato dal colonato (e per di più soltanto in alcune zone
periferiche del mondo romano). Quindi, neppure allora la
chiesa ha creato e determinato un bel niente. E tuttavia,
pur non essendo stato un fattore diretto di modificazione
strutturale della società, il cristianesimo ha “informato”
culturalmente l’insieme del mondo medioevale europeo,
e basti in proposito ricordare il simbolismo religioso, la
società tripartita medioevale, la conservazione della scrit­
tura, le cattedrali romaniche e gotiche, la grande pittura
e scultura sacra, la meravigliosa teologia a base platonica
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 211

ed aristotelica, eccetera. Soltanto la tradizione massonica,


filtrata in alcuni ambienti protestanti, ha potuto parlare
di medioevo come età oscura. Certo, Dante coesisteva con
i roghi degli eretici e delle streghe, ma anche nel mon­
do greco il Partenone coesisteva con la schiavitù. In ogni
caso, ciò che conta in questa sede è riaffermare il fatto che
la chiesa, pur non avendo per nulla “prodotto” la società
feudale e poi comunale e signorile, ne ha dato l’impronta
simbolica e culturale in moltissimi campi.
Nulla di simile per la cosiddetta età moderna e con­
temporanea. Qui la chiesa ha dovuto soltanto subire, adat­
tarsi, piegare la testa, gestire l’inerzia conservatrice della
parte più debole e subalterna della società (pensiamo al
fenomeno della religiosità barocca, che peraltro perma­
ne ancora oggi come la dimensione maggiormente “di
massa” della mobilitazione cattolica popolare). La società
medioevale (contadina e comunale, nobiliare e protobor­
ghese mercantile, feudale e signorile) era impregnata di
religiosità. Il denaro contava già molto, anzi moltissimo,
e basti leggere la novellistica di Boccaccio per capirlo. Ma
nello stesso tempo il denaro e la connessione mercantile
non erano ancora il tessuto esclusivo del legame sociale.
A mia conoscenza, salvo errore, soltanto il neopaganesimo
rinascimentale italiano riabilita integralmente il denaro e
la ricchezza come forze positive di cui vantarsi senza ver­
gogna, coscienza infelice e sensi di colpa. Ed anche in que­
sto caso, la chiesa si dimostra debole e subalterna (come
era già avvenuto al tempo di Avignone e della messa fuo­
rilegge del francescanesimo pauperistico e popolare), ed
abbiamo infatti i papi del tipo di Alessandro VI e Giu­
lio II, normali principi rinascimentali con debolissima ed
ipocrita copertura spirituale. Lo stesso assolutismo euro­
peo, ultimo fragile baluardo nobiliare contro la borghesia,
deve rivolgersi a preti secolarizzati e machiavellici come
Richelieu e Mazarino.
212 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Da circa trecento anni, il cristianesimo sopravvive nel­


la società come nicchia residuale. Non è comunque colpa
sua, e non condivido l’opinione di chi afferma che così non
sarebbe stato se non avesse tardato tanto a secolarizzarsi ed
ad accogliere il cosiddetto “pensiero moderno”. Il suo re­
lativo ritardo a secolarizzarsi è anzi stato un suo fattore di
resistenza, in quanto se si fosse auto-secolarizzato prima in
modo suicida sarebbe entrato in crisi anche prima. La sua
crisi sta a mio avviso altrove. Dovendo diagnosticare le
cause profonde di questa crisi, direi che esse stanno (quasi)
tutte nella duplicità ed ambiguità verso la nuova realtà
borghese e capitalistica. Da un lato, questa realtà è stata
criticata per tre secoli, con una continua insistita critica
al cartesianesimo, all’ateismo, al materialismo, al relati­
vismo borghese, eccetera (Ratzinger non si è certamente
inventata la critica al relativismo ed al nichilismo, ma l’ha
semplicemente riattualizzata alla luce della filosofia con­
temporanea). Si è trattato, insomma, di una critica teolo­
gica e culturale (Rosmini, Del Noce eccetera). Dall’altro
lato, mentre si critica la borghesia, si accettava il capitali­
smo, realtà infinitamente peggiore della borghesia stessa,
perché almeno la borghesia è un soggetto culturale collet­
tivo capace di coscienza infelice, mentre il capitalismo è
soltanto un’orrenda bestia fredda e senz’anima.
Qui si colloca la specifica ipocrisia (mi si scusi il ter­
mine, un po’ pesante, ma non ne trovo nessun altro) della
chiesa cattolica. Le chiese ortodosse si sono precocemente
riconvertite in custodi della comunità nazionale contro gli
invasori di altra religione (le chiese cattoliche che hanno
di fatto dovuto interpretare questo ruolo sono state fon­
damentalmente due, di Polonia e di Irlanda), e questo ha
potuto facilitare la conservazione del loro ruolo, sia pure
marginalizzato (penso oggi in particolare non tanto alla
chiesa ortodossa russa, imperiale sotto Nicola II come sot­
to Putin, ma alle chiese greca, armena, serba e georgiana).
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 213

Le chiese protestanti hanno seguito la via della secolariz­


zazione fino a suicidarsi dolcemente nell’etica umanisti­
ca scandinava, con l’eccezione del feroce protestantesimo
fondamentalista-sionista degli USA, che però a rigore non
è più una religione protestante, ma una religione idolatri­
ca nazionale come quella assiro-babilonese, in cui Cristo è
soltanto più un Baal a stelle e strisce.
La situazione della chiesa cattolica è più ambigua, non
solo, ma di tutte la più ambigua. Da un lato, essa è uni­
versalistica proprio in base al nome che porta, ma di fatto
è soltanto una forma di occidentalismo aperto in superfi­
cie ad “inculumazioni” subalterne ed ineffettuali di indi­
geni convertiti della Nuova Guinea che ballano in modo
post-cannibalico e pre-discoteca. Il solo universalismo
oggi sarebbe una forma di denuncia radicale del capita­
lismo globalizzato, privo dei tragicomici aspetti positi­
vistici dell’ateismo scientifico del defunto e penosissimo
comuniSmo storico novecentesco, con i suoi politici cinici
ed i suoi intellettuali scemi. Ma questo non può avvenire.
Ratzinger è certamente un filosofo intelligente, che per
molti aspetti mi ricorda quel Nicolò da Cusa quattrocen­
tesco, che per poco non diventò papa anche lui, ma che
non lo divenne perché non aveva i soldi per comprarsi la
cattedra di Pietro, ma non è un caso che i suoi interlocu­
tori siano personaggi penosi come Jurgen Habermas ed
Oriana Fallaci, del tutto al di sotto della percezione della
tragicità potenziale della situazione contemporanea.
Ratzinger se la prende un giorno si e l’altro pure con­
tro il relativismo ed il nichilismo, sulla base di una no­
zione normativa della natura umana di origine assai più
aristotelica che veterotestamentaria. Bravissimo, sono
completamente d’accordo. Ma che senso ha combattere il
relativismo quando non si ha il coraggio di diagnosticare
le ragioni materiali del relativismo stesso? Il relativismo
nasce dal fatto che nel mondo della merce capitalistica tut-
214 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

to è di fatto relativo al valore di scambio della merce stessa,


ed al potere d’acquisto individuale che vi sta sotto. E dal
momento che il semplice scorrimento della merce in tutte
le direzioni è appunto la forma economica del Nulla (con
la maiuscola), ne deriva che questo Nulla sta alla base della
relatività del valore di scambio e del potere d’acquisto.
Non voglio certamente insegnare nulla a Ratzinger.
Per mia e sua fortuna, non sono papa. E tuttavia prendere
sul serio qualcosa, come io ho preso sul serio la sua enci­
clica, significa parlare liberamente senza peli sulla lingua.
Io non gli bacerei la mano, ma mi limiterei ad un leggero
inchino di cortesia. Non faccio parte del suo gregge, per­
ché non ho pastori, ma nello stesso tempo lo preferisco a
tutti i manigoldi e maramaldi con cui ho trascorso decen­
ni intermedi della mia vita.

E c o n o m ia del d o n o e c a pit a l ism o

4) La Chiesa in questa enciclica vuole offrire una pro­


pria visione delle problematiche sociali del nostro
tempo. Richiamandosi alla enciclica sociale di Paolo
VI “Populorum progressio”, essa ne vuole rappresen­
tare un aggiornamento relativamente al periodo sto­
rico attuale. In essa è presente la condanna morale
del capitalismo e del suo conseguente relativismo eti­
co, che profondamente incide sulla società determi­
nando la disgregazione sociale, il degrado progressivo
dell’etica solidale e comunitaria e con essa la visione
trascendente dell’uomo e della storia. Tuttavia, os­
serviamo che in questa enciclica non si intravede un
futuribile, possibile superamento dell’ordinamento
capitalista, quale sistema incompatibile con il mes-
saggio evangelico. L’enciclica si intitola “Caritas in
ventate” e pertanto, in essa viene coeretitemente
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 215

affermato: “L’essere umano è fatto per il dono, che


ne esprime ed attua la dimensione trascendente”.
Il sistema capitalista che presiede alla globalizza­
zione è basato su logiche economiciste che incidono
integralmente nella vita individuale e collettiva ed
è pertanto per sua stessa genesi anticristiano e an­
tiumano. Se “l’essere umano è fatto per il dono”, in
quanto creato ad immagine e somiglianza d i Dio,
l’individualismo e l’utilitarismo sono contrari alla
natura umana. Se, secondo la dottrina della Chie­
sa, l’uomo non è proprietario dei beni terreni ma
ne è solo l’amministratore, se il prestito ad interes­
se veniva condannato in quanto il profitto ottenuto
sulla base del decorso del tempo è illecito in quanto
il tempo non appartiene all’uomo ma a Dio, la Chie­
sa dovrebbe auspicare la fondazione di nuovi ordini
economici e sociali che si sostituiscano integralmente
a l capitalismo. Leconomia del dono e l’economia di
carità sono storicamente esistite e quindi, se l’econo­
mia non è il destino dell’uomo, non è davvero fa n ­
tascienza ipotizzare il superamento del capitalismo.
Esprimo la mia delusione riguardo questa encicli­
ca sociale, poiché in essa non scorgo la speranza di
uno sconvolgimento del determinismo necessario ed
immanente dell’ideologia del progresso illim itato di
stampo liberale: è assente in essa la configurazione
utopica di una società informata ad un ordine di
valori alternativo e contrapposto all’esistente.

Condivido interamente il sentimento di “delusione”


da te provato dopo la tua attenta lettura dell’enciclica
papale. Se io fossi personalmente un cattolico pratican­
te, certamente penserei che si è trattato di una “occasione
mancata”. Siamo di fronte ad una crisi organica e strut­
turale della globalizzazione, e ci si limita alla consueta
216 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

reiterazione dell’iterpellazione morale del capitalismo,


chiamato a “convertirsi”. Ma come ho già avuto modo di
dire in precedenza, il capitalismo non è un soggetto mo­
rale, ma una “bestia fredda” senz’anima.
Non essendo però un cattolico praticante, non sono
stato deluso perché non mi ero precedentemente illuso. La
chiesa cattolica confonde da tempo la critica radicale del
capitalismo con l’automatica approvazione a posteriori del
defunto comuniSmo ateo, e finché saremo in presenza di
questa confusione, o meglio di questa identificazione (ed
in questa identificazione di fatto Ratzinger non si distin­
gue dal suo predecessore polacco se non per una maggiore
sobrietà linguistica), ci sarà sempre un “blocco” che impe­
dirà una critica radicale al capitalismo.
Questa critica, comunque, non verrebbe probabilmen­
te capita dalla grande maggioranza del “popolo pratican­
te” che va ancora a messa in Italia. Si tratta di un popolo
che vota in maggioranza Berlusconi e Casini e che acco­
glierebbe con sospetto e diffidenza toni troppo radicali
e messianici, perché è stato abituato nell’ultimo mezzo
secolo ad attribuire questi toni ai “comunisti”. Natural­
mente, i “comunisti” non esistono più da almeno vent’an-
ni, perché i loro dirigenti mascalzoni e maramaldi si sono
riciclati come mercenariato politico USA e come urlatori
anti-berlusconiani. Il massimo di “messianesimo” che si
chiede alla Chiesa Cattolica dal gruppo cinico di potere
Repubblica-Espresso-Micromega è la denuncia dei costu­
mi puttaneschi di Berlusconi. Per il resto, il cosiddetto
“laicismo” vorrebbe - se potesse - sostituire la religione
con i Gay-Prides e con lezioni divulgative su Darwin in­
terpretato come teorico dell’ateismo.
La libertà teologica di Ratzinger deve quindi fare i
conti con il suo alter ego più potente chiamato Benedet­
to XVI. E inevitabile che fra Ratzinger e Benedetto XVI
vinca sempre alla fine il secondo. La funzione strutturale
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 217

oggettiva vince sempre contro la libertà intellettuale sog­


gettiva. Si tratta dell’inevitabile vendetta del materiali­
smo storico contro tutti coloro che cercano di minarne le
basi teoriche e filosofiche.
Come tu giustamente rilevi, la schizofrenia della te­
ologia accomodante e compromissoria con il capitalismo
si rivela allo scoperto sulla questione del “dono”. Vi sono
stati molti studiosi di provenienza cattolica (ricordo qui
soltanto il portoghese Fernando Belo) che hanno riscon­
trato nella predicazione e nella testimonianza di Gesù di
Nazareth la centralità assoluta del dono come elemento
fondamentale del rapporto sociale. Ed in effetti è vera­
mente cosi. Se la natura umana non è un dato storico rela­
tivo e convenzionale, ma è un dato ad un tempo naturale
e trascendente (e tutto il pensiero filosofico di Ratzinger
ruota infatti intorno a questo principio fondamentale,
chiave teorica della sua opposizione al relativismo ed al
nichilismo), allora l’individualismo e l’utilitarismo sono
contrari alla natura umana, come del resto tu rilevi cor­
rettamente.
Ora, in questo non si possono fare furbeschi compro­
messi. Nelle questioni di fondo non ci si può limitare a
dire che il bicchiere è mezzo pieno, ed anche se non è
pieno del tutto è sempre meglio che non sia solo mezzo
vuoto. Questa è letteralmente teologia da bar.
E veniamo allora sempre allo stesso punto. Da un lato,
esiste realmente la volontà soggettiva di sottrarsi all’ide­
ologia del progresso illimitato di stampo liberale, attra­
verso il recupero di una nozione filosofica greca di logos,
nozione che è realmente estranea alla raison illuministica.
Dall’altro, l’ideologia atea del progresso illimitato attra­
verso la religione dell’economia politica, cacciata dalla
porta, rientra dalla finestra come accettazione dell’econo­
mia di mercato, per di più nella sua forma più abietta,
quella della globalizzazione.
218 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Poiché bisogna concludere, concluderò brevemen­


te cosi: la chiesa cattolica ha avuto le sue buone ragioni
storiche per opporsi al comuniSmo leninista, in quanto
quest’ultimo faceva dell’ateismo un suo elemento centrale
(materialismo dialettico, umanesimo ateo, eccetera); ma
oggi questo scenario storico non esiste di fatto più; conti­
nuare ad identificare la critica al capitalismo con l’appro­
vazione del comuniSmo leninista è ad un tempo un errore
ed un crimine. E questa la sfida che si pone di fronte nei
prossimi decenni per la teologia cattolica. Non sono par­
ticolarmente ottimista, perché conosco i miei “polli”. Ma
staremo a vedere.
219

Il lavoro stabile e il dogma


dell’onnipotenza del mercato

P o s t o f isso e p r im a t o d ella p o l it ic a

1) La crisi finanziaria del 2008, a causa delle sue rica­


dute sociali, determinerà, quali che possano essere le
sue soluzioni e medio e lungo termine, profondi mu­
tamenti negli equilibri sociali preesistenti. Data
l’incertezza accentuata della attuale situazione e,
soprattutto, data la nebulosità degli sviluppi di una
ripresa per ora lim itata ai soli mercati finanziari, le
certezze dogmatiche dell’economia liberista globaliz­
zata, cominciano a vacillare. Trattasi di voci isolate,
quali quella del Ministro Tremanti, che ipotizza un
ritorno alla stabilità del posto fisso, a fronte degli
squilibri generati dalla precarietà del lavoro ormai
dominante. Tali affermazioni, del tutto estempora­
nee e subito contestate dal Gotha degli economisti li­
berali, dalla grande impresa e dal sistema bancario,
debbono tuttavia essere interpretate come un tenta­
tivo d i rapportarsi a opinioni e sentimenti diffusi
in un corpo sociale dilaniato dalle ricorrenti crisi cui
è esposta l’economia di mercato, le cui conseguenze
gravano, in term ini d i disoccupazione sulla genera­
lità dei lavoratori. La precarietà del lavoro è coeren­
te con un modello liberista dell’economia strutturato
sul libero mercato del lavoro e del capitale a l fine di
realizzare le migliori condizioni di impiego delle ri­
sorse per la massimizzazione del profitto. Ipotizzare
un ritorno al posto fisso e quindi a quindi a norma­
tive del lavoro che possano garantire, oltre alla sta­
bilità del lavoro, previdenza ed assistenza, significa
in realtà auspicare un ritorno della politica, con la
220 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sua funzione equilibratrice, nel governo dell’econo­


mia. Infatti l’economia liberista globalizzata, mas­
simizzando il profitto, non è in grado di determi­
nare redistribuzione del reddito ed equilibri sociali
stabili. La stabilità del lavoro presuppone un ruolo
preminente della politica (e quindi dello Stato), che
persegua i propri programmi determinando le con­
dizioni di sviluppo dell’economia, negando quindi a
quest’ultima quel ruolo autocratico e dominante che
oggi riveste nel mondo globalizzato. La politica dun­
que, dovrebbe prendere le mosse dalle problematiche
sociali e dai fenomeni culturali presenti nella socie­
tà, allo scopo di costruire un determinato modello so­
ciale rappresentativo della comunità dei cittadini.
E questa la finalità ultima e la ragion d’essere della
politica stessa. Concepire la politica come argine o
come strumento di compromesso dell’attuale econo­
micismo totalizzante è vano e velleitario.

Esiste oggi un orgasmo mediatico che effettivamente


assomiglia molto al noto orgasmo fisico. È intenso, sod­
disfacente, ma dura poco e si dimentica fino alla prossi­
ma volta. Nello stesso modo l’orgasmo mediatico solleva
problemi importantissimi ed epocali, ma resta inteso che
tutto questo deve durare soltanto pochi giorni, e poi si
passa al prossimo scandalo, se possibile farcito di ghiotti
particolari boccacceschi.
Questo è regolarmente avvenuto per la nota sortita di
Giulio Tremonti sul fatto che il Posto Fisso, per un lavora­
tore salariato (non importa se operaio, impiegato o tecni­
co), è da considerarsi molto migliore, e quindi socialmente
e moralmente auspicabile, rispetto al posto temporaneo,
incerto, flessibile e precario. Al punto in cui siamo arrivati,
persino una ovvietà come questa (del tipo: è meglio essere
sani che essere malati, eccetera) diventa ragione di dibat-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 221

tito serioso e di siparietti televisivi. E questo non è certo


un caso. La nuova religione idolatrica del capitalismo libe­
rale si basa infatti su due dogmi sottratti alla discussione.
In primo luogo, non avrai Altro Impero che quello USA,
nelle due varianti complementari del migliore dei mon­
di possibili e/o del meno peggiore dei mondi possibili. In
secondo luogo, il lavoro flessibile e precario è insieme eco­
nomicamente inevitabile e psicologicamente una risorsa
per una vita “spericolata” (come diceva una nota canzone).
Tutto l’asfissiante circo mediatico-universitario deve quin­
di presentare i sostenitori del ritorno al Posto Fisso come
dei metafisici attardati, dei nostalgici del terribile nove­
cento secolo delle ideologie assassine, degli astronomi ge­
ocentrici nel tempo di Copernico e Galileo, eccetera. Solo
chi ha mantenuto la mente chiara e pulita capisce oggi fino
in fondo che si tratta di una manipolazione vergognosa.
Ma c’è di più. Un tempo un’elementare etica della
comunicazione imponeva che quando si fissava un valore
etico e politico socialmente positivo e maggioritariamente
approvato si cercasse contestualmente di prefigurare le mo­
dalità possibili per il suo perseguimento e la sua applica­
zione. Tutto questo è finito circa un trentennio fa, e sembra
che nessuno se ne sia ancora accorto, come i protagonisti
di una novella del danese Andersen in cui solo un innocen­
te bambino si arrischiò a dire che il re era nudo. E allora
Tremonti afferma che il Posto Fisso è un valore, e subito
dopo non dice una sola parola sul come, dove e quando si
possa cominciare a realizzare questo valore politico-sociale.
Siccome non siamo estremisti, non chiediamo che la cosa
venga risolta in pochi mesi. Ci accontenteremo di alcune
linee-guida, di una prospettiva, di un’impostazione. N ul­
la, non viene nulla. Naturalmente, sappiamo bene perché
non viene nulla. Oggi i politici sono semplici fantocci in­
tercambiabili al servizio della riproduzione fatale, anonima
ed impersonale della globalizzazione neoliberale, che Dio
222 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

la maledica. Non essendo sovrani né nella politica estera né


in quella monetaria (a causa del fortissimo indebolimen­
to della sovranità dello stato nazionale) la loro sovranità
sul quadrante dell’orologio è ridotta allo spazio fra meno
cinque e più cinque. Gli altri cinquanta minuti sono sog­
getti alla sovranità esclusiva dell’Imperatore Negro Buono
(accompagnato dalla sua signora, dalle sue due bambine e
dal cagnolino) e dei grandi centri finanziari in concorrenza
reciproca. Tremonti sembra grande sullo schermo televi­
sivo, ma nella realtà è un nanetto che non arriva neppure
all’inguine dei banchieri speculatori e dei generali USA.
L’evocazione di Tremonti del Posto Fisso è un’invoca­
zione religiosa, che segue il messaggio oracolare (e cial­
trone) dell’ultimo Heiddeger, per cui (cito testualmente)
“solo un Dio può ancora salvarci”. Ed infatti, se insieme
con l’affermazione vuota della positività sociale e morale
del Posto Fisso non riesco ad aggiungere altre indicazioni
pratiche di massima, si ha la tragicomica conseguenza del­
la predicazione di un cuoco ad un gruppo di affamati sulla
positività delia carne ai funghi. Il livello di tutto questo
non ha a che fare con Marx, Weber, Tocqueville, eccetera,
ma con il noto film “Totò e Peppino divisi a Berlino”.
L’invocazione di Tremonti al Posto Fisso è quindi
omogenea e speculare all’invocazione di Ratzinger sull’A­
more Universale. Ogni domenica il pastore bavarese con
un leggero accento tedesco ci incita all’amore fraterno,
alla pace universale, alla lotta contro il relativismo ed il
nichilismo, e non c’è mai una sola indicazione pratica sul
come avvicinarsi a questi legittimi obiettivi e su come re­
sistere ad un mondo ormai privo di qualsiasi valore uma­
no e sociale e pertanto “relativo” alla quantità di denaro di
cui ognuno può disporre (è infatti questa la base materiale
del relativismo, e tutto il resto, dalla droga al laicismo al
transessuale, viene solo in conseguenza).
Bisogna quindi passare dal livello dell’Invocazione
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 223

Impotente (Tremonti in economia e Ratzinger in etica) al


principio dell’Analisi Responsabile. Il principio dell’ana­
lisi responsabile, usato da tutti i medici che prima fanno
la diagnosi e la prognosi, e poi scelgono (ove possibile)
la terapia, ci dice che alla base di tutto c’è la cosiddetta
globalizzazione neoliberale, basata sul principio del libero
commercio (e del libero uso della forza-lavoro migrante
come arma di pressione presso l’esercito industriale di ri­
serva “nazionale”) e della cosiddetta delocalizzazione dove
il costo del lavoro diretto e soprattutto indiretto è minore.
Questa globalizzazione neoliberale è oggi a mio avviso l’e­
quivalente della teoria delle razze inferiori e pericolose di
mezzo secolo fa, ed il fatto che questa mia pacata e medi­
tata affermazione venga subito percepita come un assurdo
paradosso estremistico costituisce più del cinquanta per
cento del problema culturale del mondo contemporaneo.
Oggi nessuno discuterebbe seriamente dei lati buoni e dei
lati cattivi della teoria della razza. La legittimità stessa
del problema verrebbe respinta in blocco. Ed invece della
globalizzazione neoliberale, considerata inevitabile e fata­
le come i terremoti, si discute dottamente in termini di
vantaggi e svantaggi. Ora, è certo noto che il libero com­
mercio internazionale presenta vantaggi e svantaggi, e di
questo si discuteva già nel Settecento (fisiocratici, Smith,
Ricardo, eccetera). Ma il libero commercio ed i costi di
produzione non sono un sacro principio religioso mono­
teistico. Lo sono soltanto per quella superstizione idola­
trica chiamata economia politica inglese, che è solo una
ripresa in forma moderna di ciò che Aristotele aveva bat­
tezzato crematistica, cui aveva contrapposto un concetto
di economia in cui stava al centro la riproduzione umana
complessiva e comunitaria per una buona vita (eu zen).
Tutte le casalinghe sanno che la padella bollente non
può essere presa direttamente con le dita, ma deve essere
presa per il manico, salvo scottarsi e saltare gridando per
224 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

la cucina. Ora, la padella bollente è l’economia intemazio­


nale, ed il problema sta allora nel decidere insieme quale
sia il manico migliore. Oggi invece c’è chi paga le spese
della padella bollente scottandosi le mani (lavoratori tem­
poranei, flessibili e precari e migranti poveri e ricattati)
mentre invece siedono tranquilli a tavola aspettandosi di
essere serviti i parassiti di questa società (politici, gior­
nalisti, professori universitari, attori, cantanti, conduttori
televisivi ed altra consimile feccia). Qualche pedante dirà
che le cose sono molto più “complesse”. Eh no, signor pe­
dante! Le cose saranno certamente più complesse, ma il
loro fondamento è semplice, e sta qui.
Di fronte a questa situazione, io vedo tre soluzioni pos­
sibili, che mi permetto qui di segnalare brevemente.
In primo luogo, si può continuare a sostenere la globa­
lizzazione neoliberale, affermando che essa non è stata an­
cora radicalizzata abbastanza. E la tesi ad esempio di Niall
Ferguson (cfr. “La Stampa”, 30-11-09)- Secondo Ferguson
(cito) “ci vorrebbe un approccio ancora più radicale rispetto
agli anni della signora Thatcher e di Reagan”. Questo ap­
proccio deve portare (e Ferguson lo dice apertamente) alla
integrale fine del Welfare State. Questo programma, che la­
scia alla sua destra solo Attila e Gengis Khan (scherzo, per­
ché questi due signori erano a mio avviso complessivamente
migliori di tutti i Ferguson del mondo), viene giustificato
con la constatazione degli altissimi ritmi cinesi di sviluppo.
In poche parole: o torniamo al capitalismo selvaggio totale,
o la concorrenza asiatica ci distruggerà. Ed il paradosso sta
nel fatto che il cannibale Ferguson ha perfettamente ragio­
ne, ma ce l’ha solo dando per scontato che la globalizzazione
neoliberale sia una divinità da non mettere in discussione,
come l’unità di Dio e del Diavolo, di Prometeo e di Lucifero.
In secondo luogo, si può continuare a belare contro la
globalizzazione evitando di proposito il diabolico richia­
mo al protezionismo (non importa se forte o leggero, ecce-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 225

tera). Si tratta del ridicolo ed impotente Movimento detto


No Global (in acronimo MNG), che personalmente pro­
porrei seriamente di ribattezzare Presa in Giro Planetaria
(in acronimo PGP). Questi buffoni, vera e propria pitto­
resca opposizione mediatica di Sua Maestà (sua maestà è
ovviamente la globalizzazione neoliberale), si mobilitano
ogniqualvolta i Potenti si incontrano per mettere in scena
una commedia dell’arte post-moderna (cassonetti rove­
sciati, vetrine infrante, pagliacci in trampoli, mangiatori
di fuoco, prefiche belanti, eccetera). Qui l’etica e l’estetica
di infima qualità si incontrano. L’estetica del cattivo gusto
kitsch si unisce trionfalmente con l’etica della ostensione
lamentosa ed impotente. Si avanzano con petizioni, e rice­
vono idranti. I nostri lontani discendenti li ricorderanno
così. La sola cosa che questi giullari non chiedono mai è il
solo rimedio contro la globalizzazione neoliberale, e cioè il
sacrosanto protezionismo. Ci vedono in esso non la saggia
proposta di Fichte e poi di List dello stato commerciale
chiuso, ma tutti i fantasmi di “destra” che li assillano: lo
stato nazionale, il bottegaio leghista, l’intervento comu­
nitario nazionale sulla sovranità assoluta dell’individuo,
eccetera. È la rivolta dell’individuo sovrano (senza denaro)
contro il suo gemello individuo sovrano (con denaro). Su
questo avrei voluto fare lunghe considerazioni filosofiche,
ma per ora le risparmio al lettore, perché ho pietà di lui.
In terzo luogo, finalmente, c’è chi ha avuto finalmente
il coraggio di prendere il toro per le corna e la padella per
il manico, affermando la legittimità del protezionismo, al­
meno per aree geografiche (un “piccolo protezionismo” a
livello di singolo stato nazionale è infatti del tutto impra­
ticabile, anche ove fosse astrattamente auspicabile). La sola
risposta alla globalizzazione neoliberale è infatti geopolitica
(parola del tutto ignota alla PGP, presa in giro planetaria), e
non può che comportare la formazione nel mondo di alcune
grandi aree protezionistiche (con quali modalità concrete
226 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

non tocca a me giudicare, in quanto non economista), in


cui il libero commercio (che resta un valore, ma un valore
secondario) è subordinato alla sovranità comunitaria nazio­
nale e locale, al ripristino il più possibile del Posto Fisso, al
mantenimento ed anzi aH’allargamento del Welfare, all’in­
dipendenza dall’Impero USA neoliberale, eccetera. Noto
con piacere e soddisfazione che questa è anche l’esplicita
proposta di Alain de Benoist e dei suoi collaboratori (cfr.
la rivista in lingua francese Elements, numero 133, otto­
bre-dicembre 2009). Qui per la prima volta si suggerisce
un’ipotesi a prima vista incredibile e paradossale (non però
per me, che ho sempre saputo che la dialettica si basa sulla
unità degli opposti e sulla loro dinamica di trasformazione
reciproca), per cui pur di potersi perpetuare il capitalismo
potrebbe anche reinventarsi il comuniSmo. A chi rimanesse
a bocca aperta di fronte a questa (apparente) assurdità con­
siglio di riflettere sul successo universitario mondiale della
trilogia di Tony Negri e di Michael Hardt, in cui si lega
l’ipotesi comunista con la globalizzazione incontrollata, il
libero scambio, la fine dello stato nazionale e l’esaurimento
infinito dei desideri dell’individuo sovrano.
Come diceva un tempo il comico pugliese Arbore: me­
ditate, gente, meditate!

C a pit a l e u m a n o e s t a b il it à d e ll ’im p r e sa

2) D inanzi a questa crisi mondiale sistemica, né gli or­


ganismi economici internazionali né gli stati, sono
stati in grado di emanare normative idonee a disci­
plinare la finanza globale. In realtà non si è voluto
mettere in discussione un sistema economico globale
che ha dimostrato le proprie carenze e soprattutto
l’incapacità di risolvere le crisi da esso stesso provo­
cate. Secondo il dogma liberista, poiché l’economia è
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 227

libera, essa dovrebbe autonomamente rigenerarsi,


creando spontaneamente nuovi equilibri di mercato.
Si pretenderebbe quindi, che da quegli stessi fatto­
ri degenerativi (sistema bancario, finanza virtuale,
delocalizzazione produttiva), del sistema economico
attuale, scaturiscano le soluzioni alla crisi presente.
Ma le crisi strutturali esigono soluzioni, a loro vol­
ta, strutturali, ha precarietà può generare solo ulte­
riore instabilità, l’economia del debito solo ulteriore
indebitamento. La stabilità, al contrario, produce
risidtati a medio e lungo temine, la programmazio­
ne obiettivi concreti e lim itati, ma consolidati nel
tempo. La precarietà è l’eterno presente, soggetto a
mutamenti continui senza soluzione d i continuità,
la stabilità, invece, determina progressività nello
sviluppo. Il binomio impresa-stabilità è assai più
omogeneo e coerente rispetto al suo omologo impresa-
precarietà, che invece presuppone perenni trasfor­
mazioni e ristrutturazioni, con conseguente rapida
e continua obsolescenza delle strutture produttive.
L’impresa concepita quale entità stabile deve quindi
essere strutturata in una dimensione comunitaria.
Nella diversificazione delle funzioni, le varie com­
ponenti produttive sono organicamente preordinate
ad una finalità comunitaria, che trascende l’egoismo
mercatista, che concepisce Inforza lavoro unicamente
come fattore della produzione. Nell’impresa stabile,
si realizza la condivisione di rapporti umani im ­
prontati alla solidarietà comunitaria, che può costi­
tuire un valido fattore d i resistenza alle crisi. Nel
lavoro stabile possono realizzarsi progetti d i vita im ­
pensabili nella condizione della precarietà. L’impre­
sa stabile può essere fonte di selezione e formazione
delle categorie produttive cui sono delegate le funzio­
ni tecniche e dirigenziali. Limpresa stabile può ere-
228 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

are quel capitale umano, la cui formazione specifica,


nelle rispettive competenze, è il risultato d i investi­
menti protratti nel tempo e frutto d i programmazio­
ni che prevedano evoluzione e ricambio delle classi
dirigenti, l i investimento nel capitale umano, oltre
a produrre sviluppo e risorse sempre rinnovate nel
tempo, rende l’impresa autosuffidente, svincolata
cioè, dalle lobbies del management, che, quali ele­
menti estranei all’impresa, perseguono finalità lega­
te al profitto a breve termine, a danno dello sviluppo
e dell’occupazione: i danni del parassitismo mana­
geriale sono noti a tutti. Tuttavia, l’impresa stabi­
le deve essere concepita in un contesto sociale in cui
essa, congiuntamente ad altre imprese del proprio e
di altri settori produttivi, svolga una funzione socia­
le indispensabile alla vita della comunità statuale.
Pertanto occorre considerare la funzione sociale svol­
ta dall’impresa, in termini d i proibizione, sviluppo,
ricerca, occupazione, evoluzione della personalità
umana, finalità predominanti rispetto alla produ­
zione del profitto: il ruolo svolto dall’impresa nella so­
cietà deve essere eminentemente politico, altrim enti
l’impresa produttiva è destinata ad essere fagocitata
dalla speculazione finanziaria dominante.

Caro Tedeschi, io condivido pienamente il tuo pacato


elogio della stabilità, categoria filosofica oggi vituperata
perché vista oggi come sinonimo di immobilità, stagna­
zione, conservazione, noia, eccetera. Bisogna capire bene
chi sono i lestofanti che fanno l’elogio della vita spericola­
ta, e che non la propongono certamente per sé, ma esclu­
sivamente per i loro servi, giullari e schiavi. Mi permetto
quindi in questa risposta di approfondire due questioni
filosofiche di fondo, che stanno “a monte” delle attuali
apologie della precarietà della vita e della flessibilità del
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 229

lavoro. Se si potesse “votare” su queste due caratteristiche


generalizzate, il risultato del referendum sarebbe il 90% per
il posto fisso e la sovranità politica della comunità nazio­
nale, e solo il 10% contro (stragrande maggioranza dei
finanzieri, professori universitari, intellettuali multicultu­
rali, artisti, eccetera). Ma, appunto, questa è la sola cosa
su cui non si può votare, ed è per questo che si tengono in
piedi i due scenari della simulazione Destra contro Sinistra
e deH’Antifascismo in assenza completa ed integrale di Fa­
scismo. Su due cose non si vota. Non si vota sul Posto Fisso
e sulla generalizzazione dell’incertezza del lavoro flessibile
e precario. Non si vota infine sull’invio del mercenaria-
to militare italiano per la guerra geopolitica USA in Af­
ghanistan (le cui ragioni interamente di potenza sono ben
spiegate dalla giornalista dalemiana Lucia Annunziata, che
conobbi mentre si agitava nella redazione della rivista di
estrema sinistra “Ombre Rosse”, vedi “La Stampa”, 3-12-
09). Torniamo però ai nostri due problemi. In primo luo­
go, il dogma liberista per cui l’economia libera è in grado
di rigenerarsi automaticamente da sola creando spontane­
amente nuovi equilibri di mercato è un dogma religioso, e
non religioso solo in parte, ma integralmente e totalmente
religioso, religioso al 100%. La capacità integrale di au­
torigenerazione integrale senza alcun intervento esterno è
infatti semplicemente una integrale secolarizzazione della
capacità assoluta di rigenerazione integrale di Dio, l’unica
entità onnipotente dell’universo ad essere titolare di questa
sovrumana capacità. Scendendo nei particolari, si tratta di
quella particolare eresia colta del protestantesimo indivi­
dualistico che è il cosiddetto “deismo”, coltivato da Loke
insieme con la sacralità della proprietà privata e con l’azio­
nariato in una compagnia per il commercio degli schiavi
negri. Ed è per questo che sono del tutto fuori strada co­
loro che credono di liberarsi della religione santificando
Darwin (santo subito! santo subito!), ridicoleggiando il
230 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

creazionismo, e sostituendo l’astrofisica e la teoria dell’evo­


luzione ai miti biblici. Di tutti i confusionari costoro sono
i più confusionari di tutti. Oggi la superstizione religiosa
non sta in Lourdes o in Padre Pio, ma sta esclusivamente
nella santificazione della magica capacità autorigenerativa
del modello della globalizzazione neoliberale. I treni dei
malati a Lourdes non fanno male a nessuno, ma sono anzi
un lodevole momento per la socializzazione comunitaria.
Sono invece gli idolatri cannibali della magica capacità au­
torigenerativa del modello neoliberale che mettono in pe­
ricolo la vita umana. Ma mentre scrivo questo, so perfetta­
mente che siamo lontanissimi dai presupposti minimi per
la formazione di una coscienza culturale diffusa che possa
rendersi conto di tutto questo. Questa idolatria neoliberale
della capacità divina onnipotente di autorigenerazione, che
so bene essere soltanto una pestifera secolarizzazione della
capacità del corpo di Cristo di rigenerarsi da solo dopo la
morte, è oggi la principale religione dell’Occidente, l’uni­
ca diffusasi anche in Russia, India e Cina. Ma prima o poi
cadrà, e sarà l’umanità stessa a farla cadere.
Vi è però un secondo punto che è molto più importan­
te del primo.
A causa della pittoresca ignoranza economica dei filo­
sofi e della correlata ignoranza filosofica degli economisti e
dei sociologi resta oscuro alla maggioranza degli osserva­
tori il rapporto organico fra il lavoro flessibile e precario,
da un lato, e la distruzione dell’etica borghese precedente,
soprattutto nei tre campi della famiglia, dei rapporti fra
le generazioni e della scuola. Eppure, o si capisce questo
elementare ABC, o tanto varrebbe occuparsi soltanto di
Del Piero, Balotelli e del Grande Fratello.
Le proposte di periodizzazione storica del capitalismo
sono state molto numerose, come un tempo erano nu­
merosi i topi nelle stive delle navi. Per farla breve, ho a
lungo ritenuto la più attendibile quella esposta da Marx
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 231

nel cosiddetto Capitolo VI inedito del Capitale, per cui il


capitalismo sarebbe stato caratterizzato da due fasi suc­
cessive, quella della sottomissione formale e quella della
sottomissione reale del lavoro al capitale. Non si tratta di
una cattiva periodizzazione, ma nello stesso tempo essa è
insopportabilmente industrialistica-economicistica-ridu-
zionistica, e finisce con il dare un’eccessiva importanza al
solito lavoro di fabbrica. Ma qui Marx paga il suo prezzo
alla religione capitalistica prima individuata in Locke ed
in Smith. Per costoro il capitalismo è un’entità magica
capace di autorigenerazione illimitata, ed è quindi l’unica
entità divina esistente nell’universo (e possiamo cosi ca­
pire la ragione ultima dell’insistenza di laici, positivisti
ed empiristi nella delegittimazione della religione), per
Marx la produzione capitalistica resta un’entità magica
immanente dotata della capacità di rovesciarsi dialettica-
mente in comuniSmo. Bisogna quindi cercare di produrre
una periodizzazione diversa per individuare le svolte reali
nella storia del capitalismo.
A mio avviso (mi scuso di questo prevismo elementa­
re in pillole) le fasi principali della storia del capitalismo
inteso come totalità sono due. In un primo momento il
capitalismo sottomette alla sua riproduzione solo una parte
della vita umana, sia pure una parte importantissima (e
cioè il lavoro e le sue forme di erogazione). Deve quin­
di sottomettere a sé non solo il lavoro salariato, ma anche
il lavoro artigiano e contadino, e cioè quello dei piccoli
produttori indipendenti (a suo tempo base sociale sia della
filosofia che dell’arte greca). È normale che in questa prima
fase gli si contrapponga l’organizzazione politica del lavoro
salariato, prima socialista e poi comunista (nelle sue innu­
merevoli e contrastanti versioni ideologiche). Ed è norma­
le che restino ancora in piedi in questa prima fase sia la
tradizionale mentalità di sottomissione delle grandi masse
plebee che millecinquecento anni di feudalesimo aveva-
232 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

no abituato all’obbedienza ai potenti (prima i proprietari


terrieri e poi gli industriali ed i banchieri), sia i costumi
borghesi, in primo luogo il patriarcalismo familiare e la se­
rietà selettiva degli studi. In questa fase, insisto e persisto,
i dominanti sottomettono soltanto l’erogazione lavorativa
salariata distruggendone le autonome forme precedenti,
ma lasciano in piedi sia le culture popolari sia l’etica bor­
ghese (famiglia, scuola, consuetudini religiose, eccetera).
In questo modo, però, soltanto una parte dell’unità psichi­
ca umana è realmente incorporata nella produzione capi­
talistica, mentre resta un’altra parte che non lo è, ma che
“scorre” non assimilata a fianco della riproduzione capita­
listica stessa. In termini di storia della religione, diremo
che la nuova religione capitalistica non si è ancora imposta
interamente, ma restano zone “pagane” non ancora con­
vertite (l’autonomia della famiglia, il tradizionalismo, la
religione, l’indipendenza educativa della scuola, eccetera).
Ed è appunto in questo spazio di indipendenza po­
tenziale che ricresce continuamente la pianta della conte-
stazione al capitalismo, non importa se di “destra” (Ezra
Pound) o di “sinistra” (Antonio Gramsci). Per la costitu­
zione del capitalismo assoluto, il fatto che i seguaci iden-
titari e settari di Pound e di Gramsci si ammazzino gli
uni con gli altri è una risorsa inestimabile, perché non
c’è nulla di meglio di un continuo scontro fra bastonatori
(tipo Centro Sociale contro Casa Pound) per nascondere la
segretezza dei giganteschi movimenti di capitali. Questo
da luogo inoltre ad interminabili “dibbattiti” (con due bi,
alla romanesca) sull’attualità dell’antifascismo, eccetera.
Ma non sta qui ovviamente il punto principale. Quella
che Bauman chiama società “liquida” è soltanto la socie­
tà dello scorrimento liquido dei capitali finanziari. Ora, lo
scorrimento liquido dei capitali finanziari che si muovono
nello spazio liscio della globalizzazione neoliberale richie­
de lo scioglimento preventivo degli elementi solidi delle due
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 233

strutture precedenti, le comunità popolari e l’etica borghe­


se. Da un lato, il lavoro diventa flessibile e precario, ed ogni
tentativo di contestare il dominio assoluto dell’economia
viene demonizzato come “totalitarismo” (di qui la conno­
tazione dell’intero novecento, come secolo delle ideologie
assassine). Dall’altro, lo scioglimento del vecchio mondo
che si oppone ancora alla divinizzazione integrale dell’e­
conomia viene perseguito con metodi differenziati, che in
mancanza di una seria teoria generale possono essere solo
qui disordinatamente enumerati: distruzione del superio
paterno sostituito dal dominio dell’Es del desiderio del
consumo; femminilizzazione dell’etica sociale, anticame­
ra del ripiegamento nel privato; esaltazione di gay e trans
come alternativa virtuosa alla vecchia e noiosa forma di
dimorfismo sessuale maschio-femmina; distruzione della
scuola meritocratica sostituita da agenzie di socializzazione
al servizio del semplice mercato del lavoro; dominio della
simulazione televisiva parallela al mondo reale (non c’è più
Tex Willer, ma solo Dylan Dog, non più eroi, ma solo in­
cubi e fantasmi); non ci sono più professori, ma solo prof.
E potrei continuare, ma non c’è peggior sordo di chi
non vuol sentire. E quindi “allegria!”, come diceva Mike
Bongiorno.

S t a t o so c ia l e , u n m o d ello e u r o p e o

3. La tematica della stabilità del lavoro evoca necessa­


riamente quella relativa allo stato sociale, oggi giu­
dicato incompatibile con il modello economico libe­
rista che invece presuppone la non ingerenza dello
stato nell’economia. Il posto fisso in fatti comporta
una serie di normative di protezione sociale di ca­
rattere previdenziale e assistenziale, oltre alla tutela
sindacale. Il lavoratore stabile rappresenta un mo-
234 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dello sociale d i carattere eminentemente politico: la


stabilità è infatti intesa come una forma d i tutela
atta a consentire il libero esercizio dei d iritti politi­
ci garantiti dalle costituzioni democratiche. Infatti
solo l’uomo liberato dai bisogni prim ari (prim a casa,
lavoro stabile, contratto collettivo d i lavoro, sanità,
previdenza), può essere in grado di godere della ne­
cessaria autonomia atta a garantirgli la libera par­
tecipazione politica. Nella condizione della precarie­
tà, tali d iritti restano sostanzialmente preclusi: se
nulla il lavoratore può decidere circa la sua sfera in­
dividuale e fam iliare (regolate dall’andamento dei
mercati), tanto meno egli potrà esercitare le proprie
libertà in campo politico. Lo stato sociale inoltre, è
di impossibile realizzazione in una economia basa­
ta sulla precarietà del lavoro. Infatti lo stato sociale
può sussistere, in quanto alimentato da un surplus
di reddito prodotto e devoluto allo stato perchè questo
possa adempiere alle sue funzioni d i tutela sociale.
Il lavoro precario, invece, proprio perché instabile,
non consente l’accumulo di risorse necessarie per il
finanziamento dello stato sociale. Lo stato sociale
delinea dunque un modello statuale basato sul p r i­
mato dei d iritti sociali rispetto a quelli individuali,
creato e sviluppatosi originariamente in Europa e
piti volte riprodotto in altre parti, del mondo: Suda-
merica, mondo arabo, Canada ecc. L’Europa, dopo
la fine dell’URSS, pu r essendo stata soggetta al pro­
cesso espansivo della globalizzazione economica, ha
conservato alcune strutture proprie dello stato so­
ciale, che hanno consentito ad alcuni stati (vedi l’I­
talia), di contenere gli effetti devastanti della crisi
del 2008. N el mondo globalizzato, la crisi ha ridi­
mensionato notevolmente il ruolo dominante degli
USA nel mondo: Cina, India, Sudamerica si sono
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 235

notevolmente affrancate dal predominio economico e


politico statunitense, solo l’Europa ne rimane con­
sapevolmente soggetta. Ma è proprio e solo l’Europa
ad avere creato vari modelli economico-sociali alter­
nativi a quello liberista anglosassone. Solo l’Europa
può proporre modelli statuali portatori di equilibri
sociali esportabili universalmente che consentono
mutamenti strutturali che possano offrire soluzio­
ni ad una crisi dinanzi alla quale le teorie liberali
manifestano tutta la loro impotenza. La decadenza
europea è dovuta alla sua subalternità agli USA,
ma solo il Vecchio Continente è portatore d i model­
li sociali “rivoluzionari”. Le potenze emergenti, pur
svincolandosi dalla supremazia americana, ne han­
no importato il modello economico, ed è prevedibile
nel tempo, l’esplodere d i enormi conflitti sociali, che
possono essere prevenuti elo risolti solo attraverso ri­
forme istituzionali che consentano la partecipazione
politica ed equilibri stabili tra le classi sociali.

In molte nostre conversazioni precedenti ci siamo già


ripetutamente soffermati sull’Europa e sul suo destino. Ri­
leggendole per poter rispondere meglio a questa tua terza
domanda, mi sono accorto che siamo quasi sempre rimasti
al di sotto della gravità del pericolo mortale sull’Europa
che noi conosciamo. Dal 1945 al 1991 essa non era sovra­
na, perché era militarmente occupata da due superpotenze
ideologiche, per cui i poveri europei, privi della benché
minima sovranità (e la sovranità geopolitica e militare è
la base indispensabile di tutte, ma proprio tutte, le altre
sovranità). Ma dal 1991 l’Europa, che avrebbe potuto ap­
profittare dell’occasione della caduta di una superpotenza
per poter educatamente liberarsi anche dell’altra, non solo
non lo ha fatto, ma ha incredibilmente rafforzato i legami
materiali e spirituali con l’altra rimasta (gli USA, ovvia-
236 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

mente). Ora, gli USA sono una potenza culturale estranea


all’Europa (tralascio qui di citare una immensa bibliogra­
fìa che lo dimostra analiticamente), sorta fuori e contro
l’Europa stessa, sulla base del diritto comune anglosassone
e non del diritto romano, e sulla base del messianesimo
veterotestamentario e non della solidarietà neotestamen­
taria. Ora, il diritto romano è bensì stato concepito sulla
base della tutela della proprietà privata (il noto ìus utendi et
abutendi, ove in questo abntendi ci sta il nocciolo della sua
radicale insufficienza per garantire una comunità umana),
ma esso almeno stabilisce i termini della dicotomia Pub-
blico/Privato, che resta l’imprescindibile base filosofica
per sviluppare la dicotomia fra proprietà individuale e di­
sponibilità pubblica di beni comunitari indisponibili (ad
esempio la salute, e poi la casa e l’istruzione). Negli USA
tutto questo è letteralmente impensabile e indicibile, ed
infatti lo stesso Obama non osa neppure lontanamente
giungere ad un sistema sanitario pubblico generalizzato
di tipo francese o italiano (pur con tutti i suoi noti difetti),
ma deve semplicemente limitarsi ad aumentare la coper­
tura assicurativa privata, e già questo timido passo insuf­
ficiente è accusato di “socialismo” (ricordo l’affermazione
di una star hollywoodiana di cui ora non ricordo il nome).
Se l’Europa comincia a mollare sulla distinzione fra
beni comuni che devono essere disponibili in via di princi­
pio per tutti (nell’ordine: sanità, abitazione, scuola) e beni
individuali allora essa è morta. In questo modo non avreb­
be solo perso il corpo (almeno dal 1945 l’ha perso, e nessu­
no sa quando potrà recuperarlo), ma anche l’anima (psycbè).
E l’Europa senza anima è solo un’espressione geografica,
per dirla con Metternich, una appendice peninsulare del
grande continente asiatico, cui una potenza straniera ed
estranea cerca di rubare quanto resta della sua anima.
E dal momento che repetita juvant, ripetiamo quale ri­
tengo che sia la sua anima in pericolo. In estrema sintesi,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 237

l’Europa è stata costituita culturalmente da tre elementi:


la filosofia greca, il diritto romano e la religione cristiana.
La filosofia greca si basa sul principio delfico, pitagorico
ed infine socratico del “conosci te stesso” {gnothi s’eautòn),
e quindi sulla conoscenza della natura umana complessi­
va dell’individuo. Ma questa natura umana complessiva
dell’individuo dotato di anima non ha nulla a che fare con
quella sua oscena e ridicola caricatura che è Vhomo oecono-
micus, che è quella piccola porzione di individualità che
si occupa dell’arricchimento privato (l’aristotelica crema-
tistica), e che fa diventare una parte il tutto. Anzi, la stes­
sa filosofia greca nasce proprio contro l’autonomizzazione
deH’arricchimento illimitato (apertoti) e della schiavitù per
debiti. In Grecia non esisteva un vero e proprio diritto gre­
co, in quanto esistevano leggi comunitarie (novioi), il cui
scopo era la regolazione della corretta divisione (netmirì) sia
del denaro che del potere. Non esisteva quindi un illimita­
to ius utendi et ahutendi dell’individuo, formalizzato in di­
ritto universale ed astratto. Questo nasce soltanto a Roma,
e prima non c’era, e nasce solo sulla base della generalizza­
zione universale della proprietà privata. Questa proprietà
privata era “privata” perché i suoi titolari originari storici
(i plebei romani) erano esattamente coloro che erano “pri­
vati” del godimento dei beni comuni {ager puhlicus). Alla
crudeltà astratto-formale di questo diritto assoluto di pro­
prietà si oppose il cristianesimo neotestamentario (le scrit­
ture ebraiche, scorrettamente battezzate “antico testamen­
to”, sono soltanto una mitologia romanzata di fondazione
della sola nazione ebraica, e sono altrettanto poco univer­
salistiche della religione sciamanica siberiana), basato sulla
carità e sulla solidarietà comunitaria. Nella sua pittore­
sca incapacità totale di mutare la struttura sociale (prima
schiavistica, poi feudale, ed oggi capitalistico-globalizzata)
il cristianesimo fu costretto a dismettere i panni del pri­
mitivo suo messianismo escatologico ed apocalittico, ed a
238 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

rivestire i più tranquillizzanti panni della beneficenza fatta


da un benefattore (il greco everghetes). Si tratta della dialet­
tica europea che ormai conosciamo bene: conosci te stes­
so (elemento filosofico greco), proprietà privata (elemento
giuridico romano), ed infine pratica della carità sulla base
della verità religiosa (elemento religioso cristiano). Insisto
sul fatto che questa dialettica trinitaria (e pertanto dialet­
tica) è del tutto indipendente dal fatto contingente per cui
il singolo individuo europeo creda in Dio oppure no, si
dichiara di destra oppure di sinistra, eccetera. Questa è solo
l’accidentalità, che Hegel a suo tempo affermò non esse­
re razionalmente deducibile, perché casuale ed aleatoria.
Questa è semplicemente fiamma dell’Europa, da cui deriva
anche lo stato del benessere e la copertura scolastica e sani­
taria generalizzata ed erga omnes.
Tutto questo è oggi messo in pericolo dalla mancanza
di un freno (il greco katecbon). Non entro qui nel merito
sulla natura di questo katecbon, che può essere l’equili­
brio fra superpotenze (a mio avviso, un buon katecbon),
l’utopia egualitaria (anche se egualitario-dispotica) del
comuniSmo storico novecentesco, la carità solidale cri­
stiana, eccetera. Quello che conta è che ci sia un katechon
purchessia, per ora.
Il dispotismo dell’unico impero messianico USA (del
tutto indipendente dalla direzione contingente dal Bianco
Cattivo Bush e/o del Negro Buono Obama) e la generaliz­
zazione della globalizzazione neoliberale rappresentano la
morte dell’Europa, o se si vuole il suo suicidio. E tuttavia,
essere uccisi o suicidarsi è certo diverso, ma il risultato alla
fine è lo stesso. Con il modello del messianesimo crema-
tistico anglosassone (psicologia invece di filosofia, diritto
comune invece di diritto romano, economia politica in­
vece di religione) l’Europa è semplicemente morta. Le sue
attuali oligarchie (politici sottomessi, circo mediatico di
saturazione, clero intellettuale di universitari pomposi,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 239

attori, pagliacci, transessuali e sessantottini corrotti) pre­


parano la morte dell’Europa. Non del tutto a caso il gran
parlare (sia pure più che legittimo) di eutanasia volontaria
non è altro che il riflesso duplicato di una ben più gran­
de eutanasia volontaria, quella di un intero continente. Il
pensiero europeo oggi è una grande tanatologìa, in un clima
sbracato e sbrodolato di cerebrolesi alla guida del furgone.
Aspettiamo i barbari, per dirla con Kavafis. Ma non
verranno mai. Per ora, limitiamoci a sperare che i talebani
caccino le truppe imperiali dall’Asia Centrale. Di più per
ora è difficile sperare.

COOPERAZIONE F. PARTECIPAZIONE, IDEE PER UN NUOVO


MODELLO DI SVILUPPO

4) Il ritorno della stabilità occupazionale, non rap­


presenterebbe d i per sé un’alternativa alle impo­
stazioni liberiste in campo economico. Sia il posto
fisso che la precarietà sono fenomeni legati alla sto­
ria e alla dialettica sociale interna a l capitalismo.
Entrambe sono forme d i occupazione riconducibili
alla categoria del lavoro dipendente. Quest’ultimo,
oggi prevalente, ha avuto la sua espansione in con­
seguenza della, rivoluzione industriale, che sradicò
le popolazioni dall’agricoltura e dall’artigianato,
per impiegarle nell’industria nascente. Nelle fasi
di crescita e di stabilizzazione, nell’economia ca­
pitalista ha prevalso il posto fisso, le tutele socia­
li, con i conseguenti meccanismi d i redistribuzione
del reddito. Invece, nelle fa si di trasformazione e!o
di crisi prevale la precarietà del lavoro. Non a caso
l’avvento della globalizzazione fu annunciato dallo
slogati, poi divenuto dogma “scordatevi il posto fis­
so”. Infatti, nella storia del capitalismo è sempre il
240 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

lavoro dipendente ad essere oggetto d i sperimenta­


zione nelle trasformazioni economiche. Il posto fisso
non salvaguarda certo il lavoratore dalla disoccu­
pazione nelle ricorrenti crisi occupazionali insite
nel succedersi dei cicli dell’economia. Il posto fisso
è, al pa ri della precarietà, soggetto alla logica del
mercato del lavoro, poiché entrambi, sono forme
diverse del fenomeno lavoro-merce, proprio dell’eco­
nomia liberale. Anche il lavoratore stabile delega
la propria vita lavorativa all’impresa che acquista
le sue prestazioni in cambio della sopravvivenza,
per essere poi espulso dal processo produttivo per
obsolescenza o non compatibilità con le politiche
aziendali. Il lavoro stabile ha avuto la sua massi­
ma espansione nel “trentennio virtuoso” teorizzato
da Hobsbawm (1945-1975), nelle fa si d i sviluppo
dell’economia mista, del keynesismo, della socialde­
mocrazia in campo politico. Ma oggi, queste forme
di “capitalismo illuminato” sono improponibili. La
perdita d i sovranità degli stati nell’economia glo­
balizzata rende le istituzioni politiche impotenti a
fronteggiare le crisi e dare direttive in campo eco­
nomico. La stessa socialdemocrazia è un fenomeno
novecentesco ormai consegnato alla storia. 1 p a rtiti
di sinistra l’hanno abbandonata, in quanto ideo­
logia roformista rivelatasi perdente. Infatti la so­
cialdemocrazia occidentale della seconda metà del
‘900 era una ideologia ormai destrutturata. Essa
era un’ideologia marxista il cui fine era l’avvento
del comuniSmo: solo che, a differenza del leninismo,
perseguiva i propri obiettivi per via democratica.
Essa fu sempre sconfitta, Lenin e la rivoluzione rus­
sa ne decretarono il fallimento. N el dopoguerra, in
occidente essa ripudiò il marxismo per assumere un
ruolo riformista in seno alla società capitalista. Im ­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 241

portan ti riforme sociali si devono a l socialismo ri­


formista, al laburismo, ma oggi il capitalismo glo­
bale non necessita p iù d i mediazioni politiche, né
d i equilibri sociali stabili. D inanzi a questa crisi
sistemica del capitalismo, occorre elaborare nuove
soluzioni che determinino nuovi equilibri socia­
li. Occorre pertanto fa r riferimento a modelli che
eliminino la dialettica della contrapposizione tra
capitale e lavoro e quindi, il fenomeno del lavoro-
merce d i scambio. Pertanto, ritengo che le uniche
dottrine sociali alternative all’economicismo libe­
rale siano quelle che propongano la partecipazione,
unicamente alla cogestione dell’impresa: ta li dot­
trine socio-economiche hanno avuto lim itata appli­
cazione nel capitalismo renano, nella socialdemo­
crazia scandinava, nella cogestione iugoslava. Ala
in occidente si è sempre impedito che ta li riforme
economiche avessero riscontro nella rappresentanza
politica. Occorre dunque ispirarsi alla estensione
della responsabilizzazione del lavoratore all’inter­
no dell’impresa, onde f a vorire la sua partecipazione
a i processi decisionali. Forme d i cooperazione, coge­
stione, partecipazione, oltre che nell’economia, van­
no anche estese agli am biti professionali, culturali,
dell’associazionismo no-profit, a tutte le componenti
cioè del tessuto sociale. Tuttavia, a mio parere (ma
tale argomento necessita d i approfondimento in al­
tra sede), tali trasformazioni debbono necessaria­
mente essere promosse, gestite, attuate dallo stato,
perchè si impedisca che si generino nuove forme
d i capitalismo sotto mentite spoglie e si vanifichi
l’auspicabile e necessario processo d i liberazione del
lavoro dalla sua soggezione a l capitale: non vorrei
quindi, che all’egoismo individuale e!o oligarchico,
si sostituisse l’egoismo dei molti e!o dei tu tti.
242 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Siamo partiti dal Posto Fisso, e si è aperta una “catena


dei perché” (l’espressione, impagabile, è di Franco Fortini)
che ci ha portato alla globalizzazione neoliberale, all’impe­
ro messianico USA, alla piena legittimità di un regolato
ritorno al protezionismo di “area geopolitica”, al suicidio
dell’Europa, alla secolarizzazione economica della religione,
alla necessità di flessibilizzare e di rendere precaria l’intera
natura umana, eccetera. Del resto, se si tira il filo giusto, si
snoda a poco a poco l’intero gomitolo. E la scomparsa del
Posto Fisso, unito con l’asfissiante ideologia postmoderna
della fine delle grandi narrazioni (l’altra faccia filosofica del­
la fine economica del posto fisso), è proprio il capo del filo
che sgomitola a poco a poco l’intero gomitolo.
Tuttavia, hai perfettamente ragione a rilevare che non
possiamo avere una posizione fissista e geocentrica sul Po­
sto Fisso, come se da esso si potesse dedurre l’intera logica
della riproduzione capitalistica. La riproduzione capita­
listica, infatti, segue un andamento ciclico, e non certo
un andamento lineare e progressivo (questo è il codice il­
lusorio del punto di vista progressistico delFilluminismo
iperborghese, in cui sono caduti come pesci i cosiddetti
“marxisti”, puri e semplici positivisti poveri e subalterni).
Il solo andamento non ciclico, forse, è quella incorporazio­
ne di tutta la vita umana nella sottomissione capitalistica
di cui ho parlato nelle mie risposte precedenti. Il resto,
tutto il resto, ma proprio tutto il resto, è ciclico e non li­
neare progressivo. In quanto alla teoria marxista dell’ine­
vitabile necessità del rovesciamento del capitalismo in un
comuniSmo senza famiglia e senza stato, essa è certamente
più attendibile della teoria piatta, ma non di molto e non
è comunque epistemologicamente superiore alla teoria del
disegno intelligente della creazione, che le è però superio­
re dal punto di vista estetico, etico ed artistico.
Hai dunque ragione, lo ripeto, a rilevare che la (rela­
tiva) permanenza del posto fisso non è un dato tolemai-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 243

co, ma contraddistingue soltanto certi momenti di storia


del capitalismo, come i famosi “trenta anni gloriosi” del
fordismo-keynesismo di Hobsbawm. Non sono personal­
mente un ammiratore di Hobsbawm, anche se scrive bene
ed è divertente leggerlo. Non sono un suo ammiratore
perché Hobsbawm è un propagatore della stupida conce­
zione per cui le nazioni sono semplici “comunità imma­
ginarie” inventate da letterati e lessicografi al servizio di
politici protezionisti. Si tratta di una teoria che, oltre ad
essere attualmente falsa, è stata entusiasticamente adotta­
ta da tutti gli apologeti della globalizzazione e della fine
degli stati nazionali, il cui destino è quello di essere “frul­
lati” in un unico impero cosmopolitico e multiculturale
a dominio USA. Il massimo degli orrori. E tuttavia, resta
il fatto che il Posto Fisso è un buon punto per iniziare
a sgomitolare la “catena dei perché”, ma non è il centro
metafisico e tolemaico del mondo.
Come tu affermi, in buona compagnia con Giorgio
Gaber, la libertà è la partecipazione. Dal momento che
sono pienamente d’accordo, non aggiungerò argomenti
supplementari. Anche per me la libertà è partecipazione.
La semplice partecipazione però è insufficiente se insieme
ad essa non matura un punto di vista filosofico veritativo
sul mondo. Gli ateniesi partecipavano moltissimo alla ge­
stione della loro polis, ed erano quasi cinquecento quando
la loro partecipazione portò alla ingiusta condanna a mor­
te di Socrate. Insieme alla partecipazione, infatti, ci vuole
un corretto punto di vista filosofico veritativo sulla giusta
riproduzione complessiva della specie umana sulla terra.
E tuttavia, non voglio essere troppo sofisticato. Una
cosa per volta. Se infatti ci fosse già oggi una partecipa­
zione adeguata alle scelte economiche di impresa, tutte le
stupidaggini sulla globalizzazione neoliberale sfumereb­
bero in qualche mese come neve al sole, ed i soli indici
sociali realmente importanti sarebbero quelli sull’occu-
244 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

pazione, laddove oggi i cosiddetti indici di “uscita dalla


crisi” sono quelli dei banchieri e degli speculatori che ri­
cominciano a guadagnare (ma hanno mai cessato di farlo?
Ecco una domanda che porrei ad un amico economista, se
ne avessi uno). Ma oggi sembra che la partecipazione della
cosiddetta “società civile” (non a caso, sono i lavoratori
ad essere pericolosi, la società civile è più innocua di un
gattino) si limiti ai raduni dello scamiciato dialettofono
molisano Di Pietro e dei cortei viola di anti-berluscones.
In questo modo non possiamo tirarcene fuori. Se avessi
precise ricette per tirarcene fuori, le comunicherei imme­
diatamente a te ed ai nostri (pochi) lettori. Ma siccome
non le ho, il comune senso del pudore mi invita a tacere
ed a chiudere qui. Iddio ci protegga!
245

Scuola: un laboratorio
di sperimentazione sociologica

F a m ig l ia , in d iv id u a l is m o e c o n t r o l l o so ciale

1) La crisi delle istituzioni sociali tradizionali ha il


suo epicentro nella dissoluzione della fam iglia. In­
fa tti, al modello fam iliare, di per sé comunitario, è
andato via via sostituendosi il modello individua­
lista del single. La fam iglia attuale in fatti sembra
scaturire da una unione tra single. D a persone cioè
tenute insieme da vincoli d i nascita e parentela, ma
in realtà antropologicamente chiuse nella realtà in­
dividuale del single. La fam iglia pertanto viene a
configurarsi come un microcosmo a sé stante, estra­
neo, se non contrapposto alla società, quale unione
di egoismi individuali interdipendenti. Si verifica
un rapporto di tensione conflittuale tra società e f a ­
miglia, che conduce il pili delle volte alla implosione
della fam iglia stessa, nella misura in cui i modelli
di vita proposti dalla società (e dalla virtualità me­
dia tica), si rivelano incompatibili con la struttura
unitaria della fam iglia. Pertanto, la fam iglia è oggi
un microcosmo destinato spesso alla implosione; la
sua incompatibilità con la struttura atomistica del­
la società porta sovente alla criminalizzazione della
fam iglia stessa, vista come un nucleo coercitivo ed
alienante, produttivo d i sopraffazione e repressione,
nel contesto di una società che non tollera nuclei co­
m unitari indipendenti, portatori d i valori estranei
all’orizzonte individualistico del relativismo etico.
Assistiamo oggi alla esternalizzazione delle funzioni
già di pertinenza del nucleo familiare, quali l’edu­
cazione dei figli, sempre più affidata agli psicologi,
246 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

la formazione dei giovani, appannaggio oggi della


cultura mediatica, l’assistenza agli anziani, con
l’intervento spesso coattivo degli assistenti sociali.
L’intervento massiccio degli specialisti esterni nel­
la vita fam iliare è rivelatore di un controllo sociale
che si impone sempre p iù al nucleo familiare: si sta
imponendo, in una società che si definisce democra­
tica e liberale, una sorta di totalitarismo sostan­
ziale strisciante che non ha nulla da invidiare ai
regimi dittatoriali del ‘900. Tale forma pervasila
di controllo sociale è cosi delineata da Christopher
Lasch: “Dietro l’apparente perm issività si nasconde
un rigido sistema di controllo, tanto più efficace in
quanto evita il confronto diretto tra le autorità e gli
individui su cui queste cercano d i imporre il pro­
prio volere. Poiché il confronto provoca discussioni di
principio, le autorità delegano se possibile ad altri
l’imposizione della disciplina, atteggiandosi così a
consiglieri, <persone di fiducia>, amici. Allo stesso
modo i genitori si affidano a i dottori, agli psicologi
e agli stessi compagni del bambino per imporgli un
complesso di norme e assicurarsi che le rispetti”.

È bene che le tre questioni da te poste, la questione


giovanile, la questione familiare e la questione scolastica
vengano trattate metodologicamente in modo unitario,
perché il modo unitario è il solo adatto a capirci qualcosa.
Separandole, si rischia di non capire la logica profonda
della loro dinamica evolutiva (o meglio involutiva) unita­
ria. Si finisce inevitabilmente con il riproporre le consuete
(anche se giustificate) geremiadi sul bullismo e sulla ma­
leducazione dei giovani, sul venir meno dell’autorità pa­
terna, e sulla progressiva sparizione della serietà degli stu­
di con conseguenti promozioni facili di massa, anticamera
sicura per una disoccupazione ampiamente prevedibile.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 247

Il modo in cui oggi si presentano intrecciate le tre que­


stioni (giovanile, familiare e scolastica) trova il suo mini­
mo comun denominatore unitario in un maestoso passag­
gio storico di fase della società capitalistica occidentale,
da una fase proto-borghese e poi neo-borghese (e quindi
necessariamente anche proto-proletaria e neo-proletaria)
ad una fase attuale decisamente post-borghese (e quindi
ovviamente anche post-proletaria). In una formulazione
sintetica, stiamo entrando in una forma nuova di occiden­
talismo, che potremo definire post-borghese ed ultra-capitalistico.
In breve, appunto, un occidentalismo post-borghese ed
ultra-capitalistico. Se non si comprende questa sintetica
formulazione (indipendentemente dal fatto che non la si
comprende da destra o da sinistra, da posizioni liberali,
fasciste o comuniste) è praticamente impossibile coglie­
re concettualmente la dinamica dialettica profondamente
unitaria del problema.
Il modello unitario dellaquestionegiovanile-familiare-
scolastica, così come oggi lo conosciamo, è nato circa due
secoli fa, fra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento,
sostituendo i modelli precedenti della famiglia allargata
(a sua volta discendente dal modello romano di familia)
e della scuola religiosa cristiana (protestante, gesuitica o
ortodossa a seconda dei luoghi). Per ragioni di spazio, è
impossibile qui diffondersi (ma sarebbe illuminante!) sui
particolari dei delicati passaggi storici che hanno prodot­
to il modello della scuola moderna (il liceo classico tede­
sco e il liceo scientifico francese-napoleonico), il modello
della famiglia moderno (l’amore coniugale e l’educazione
comune dei figli al posto dei matrimoni combinati dalle
famiglie), ed infine il modello romantico della figura del
“giovane” (secondo l’idealista Fichte il portatore privile­
giato del “ringiovanimento” della società, inteso come la
passione per un cambiamento “in meglio” dell’intera so­
cietà). In questo passaggio epocale in cui siamo immersi
248 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

(e di cui è per ora ancora impossibile prevedere i pros­


simi passaggi, visto che è sempre completamente ignota
l’architettura del domani) possiamo soltanto capire —in
quanto ne siamo sbalorditi spettatori —il tramonto uni­
tario del vecchio modello giovanile-familiare-scolastico,
tenendo sempre conto che si tratta di un tramonto non
di un dato millenario, ma di un dato soltanto bisecolare.
Nella tua domanda, che contiene già in potenza tutti
gli elementi per una risposta, sono evidenziati i due punti
cruciali del problema, e cioè da un lato la sostituzione del
modello individualistico del single al precedente model­
lo familiare, e dall’altro il conseguente processo di quella
che tu chiami opportunamente l’esternalizzazione delle
funzioni già di pertinenza del nucleo familiare. Le cose
stanno proprio così. Christopher Lasch non è stato proba­
bilmente l’unico a notare che questa estrema individualiz­
zazione atomistica è del tutto complementare all’aumento
di un controllo sociale asfissiante demandato ad agenzie
specializzate, di contractors e polizie private per il corpo ed
i psico-sociologi invasivi per la mente. Ma a mio avviso il
cuore del contributo di Lasch per la comprensione di que­
sto fenomeno non sta tanto qui, quanto nell’aver rilevato
che la genesi di questo mostruoso fenomeno non si deve
cercare a “destra”, ma a “sinistra”, o più esattamente in
una evoluzione degenerativa post-moderna della sinistra
stessa. Qui l’intuizione di Lasch si coniuga con la tesi dei
due sociologi francesi Boltanski e Chiapello, che hanno
mostrato come la sinistra si era storicamente costituita
attraverso una alleanza fra una critica economico-sociale
alle ingiustizie distributive del capitalismo, di cui erano
titolari le classi popolari, salariate, operaie e proletarie,
ed una critica artistico-culturale alle ipocrisie maschili-
ste e patriarcali della borghesia (più propriamente, della
vetero-borghesia), di cui erano titolari gli artisti, gli scrit­
tori e gli intellettuali ottocenteschi e novecenteschi. Il
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 249

contributo di questi ultimi fu decisivo per delegittimare


le vecchie forme di controllo “autoritario”, ma in questo
modo il bambino fu gettato via con l’acqua sporca. In ter­
mini freudiani, si voleva gettare via soltanto il Super-Io,
liberando le potenzialità inespresse e “represse” dell’Es,
ma alla fine si buttò via anche l’Io, la preziosa istanza
di autocontrollo del comportamento sia individuale che
sociale. Gli ingenui di “sinistra" che si chiedono ancora
come sia stato possibile che l’ignobile Luxuria si sia sosti­
tuito al nobile Gramsci potrebbero facilmente capirlo se
per loro il richiamo a Marx fosse il possesso di un meto­
do dialettico di chiarimento degli enigmi del presente, e
non soltanto una spilletta di riconoscimento per “marcare
il territorio” di appartenenze organizzate. Gli animali lo
fanno molto meglio ed in modo molto più performativo
con sapienti getti di urina.
Non intendo negare che la famiglia, come del resto
tutte le istituzioni umane, abbia presentato insieme ele­
menti fisiologici positivi ed elementi patologici negati­
vi. Ad esempio, era abbastanza comune un tempo che il
marito picchiasse la moglie, come è abbastanza comune
oggi che i figli diventino di fatto ostaggi dei conflitti fra i
genitori. Queste patologie familiari, ben note un tempo ai
confessori auricolari e ben note oggi agli psicologi ed agli
avvocati matrimonialisti, e che appunto non intendo af­
fatto negare, sono state unilateralmente enfatizzate negli
ultimi quaranta anni e trasformate in una demonizzazione
sistematica dell’istituzione familiare in quanto tale, ope­
razione necessaria per poter promuovere congiuntamente
la figura idealizzata del sbigle, non importa se omo, etero o
transessuale. Ma qui ci sta un vero enigma, che merita di
essere indagato con più attenzione.
Mano a mano che la delegittimazione individualistica
anti-autoritaria della famiglia bisecolare moderna aumen­
tava, in un processo che finiva con il dissolvere progres­
250 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sivamente non solo il Super-Io ma anche e soprattutto lo


stesso Io (eredità della psyche greca, dell 'anima cristiana e
della stessa soggettività razionale cartesiana, morale kan­
tiana e filosofica hegeliana e marxiana), aumentava anche
la disoccupazione giovanile, matrice del cosiddetto “bam-
boccionismo” tanto deplorato da ipocriti come Brunetta
e Padoa Schioppa. Ed il paradosso sta in ciò, che proprio
mentre il processo di diffamazione, delegittimazione e
criminalizzazione della famiglia moderna bisecolare toc­
cava vertici mai visti prima (il transessuale sostituisce il
padre di famiglia come modello mediatico privilegiato,
all’interno di una dittatura di fatto del circo mediatico
pervasivo appoggiato dalla casta nichilistica e pretenzio­
sa degli “intellettuali di sinistra” politicamente corretti),
nello stesso tempo i giovani disoccupati erano di fatto
costretti a rimandare di un decennio almeno il loro inse­
rimento stabile nel mondo del lavoro e della possibilità
di costituzione di una famiglia economicamente indipen­
dente. Per parafrasare la Filosofia del Diritto di Hegel, la
Famiglia è abolita tramite il modello individualistico del­
la sovranità dei single (il cui motto inarrivabile è stato ed è
“l’utero è mio e me lo gestisco io”), la Società civile non si
basa più sulla stabilità del lavoro e sul merito riconosciu­
to, e lo Stato, privato ormai di ogni sovranità monetaria,
è ridotto ad arruolatore di mercenari geopolitici per conto
dell’impero dominante USA e del suo sacerdozio sionista.
Come ho già avuto modo di rilevare almeno due volte,
la crisi attuale della famiglia non è la crisi di un model­
lo millenario, ma è la crisi di uno specifico modello co­
munitario soltanto bisecolare. E essenziale impadronirsi
concettualmente di questa consapevolezza, perché in caso
contrario gli attuali svergognati apologeti della dissolu­
zione individualistica avranno buon gioco nel far notare
(ed avrebbero ragione) che nel corso dei millenni la fami­
glia è passata attraverso grandi cambiamenti, e quindi non
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 251

esiste un solo modello “naturale” di famiglia. È normale


che papa Ratzinger parli di modello “naturale” di fami­
glia contro quella vera e propria “icona della dissoluzione”
che è Emma Bonino, ma si tratta di una trincea difensiva
debole, perché è bene ammettere che la famiglia, oltre che
una base naturale, ha avuto anche un’evoluzione storica.
E allora la vera trincea difensiva sta nel sostenere che la
famiglia bisecolare moderna, democratizzata attraverso la
sacrosanta emancipazione femminile, è ancora una forma
di vita insuperata, e sarebbe un grave errore sostituirla con
una sommatoria di singles.
Il futuro è impregiudicato. Ma forse la famiglia mo­
derna si può salvare ancora. Preliminare al suo salvatag­
gio è la delegittimazione, che deve diventare però aperta e
coraggiosa, della mefitica cultura dissolutiva di “sinistra”
(e qui mi ricollego non tanto a Marx, quanto appunto a
Lasch), che abbiamo lasciato colpevolmente impazzare in­
disturbata nell’ultimo quarantennio.

G io v a n e - a d u l t o : u n r a p p o r t o r o v esc ia to

2) La scuola era tradizionalmente intesa come una isti­


tuzione preposta alla educazione dei giovani a i valori
etici della comunità d i appartenenza. Il concetto di
educazione così inteso (dal latino educere, elevare),
sembra essere ormai scomparso come un relitto dei
secoli scorsi, li educazione e l’istruzione presuppon­
gono il riconoscimento dell’autorità dell’insegnante,
la disciplina necessaria per l’apprendimento e per la
formazione dei giovani, perché nell’età adulta fossero
a loro volta forniti delle doti necessarie per divenire
educatori. Oggi il rapporto docente - discente sembra
essersi rovesciato, dato che sono gli adulti che devono
rapportarsi ai giovani: l’insegnante deve attrarre la
252 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

loro attenzione, dimostrarsi accattivante ed abile in­


trattenitore. È il fanciullo che è divenuto protagonista
del rapporto con l’adulto, che a sua volta deve adat­
tarsi ad esso, deve paradossalmente essere “educato”
da esso. Questa concezione rovesciata del rapporto gio­
vane - adulto è l’espressione più autentica dell’ide­
ologia individualista prevalente nell’attuale società
globalizzata: l’individuo è dalla nascita una entità
in sé stessa già compiuta e autoreferente, capace di
giudizio e di scelta e qualunque forma di educazione
rappresenterebbe una coartazione della sua libertà
innata e restia ad ogni ad ogni freno che ne ostacoli le
sue espressioni creative. Da tali presupposti deriva il
permissivismo generalizzato, a danno dell’educazione
nei rapporti umani e uno spontaneismo incontrollato
a danno della necessaria autodisciplina. Negare la
necessità dell''educazione e della disciplina nella scuo­
la significa formare adulti caratterialmente deboli,
psicologicamente labili e quindi meglio predisposti
a recepire la cultura mediatica della società dei con­
sumi. Inoltre, la scarsa predisposizione al sacrificio
frutto di tale permissivismo conduce all’abbassamen­
to generalizzato delle capacità di apprendimento e
del livello culturale della società.

Dal momento che sia la tua seconda che la tua ter­


za domanda hanno come oggetto il problema scolastico,
correttamente interpretato come sintomo di un piu gene­
rale problema sociale e politico, toccherò in questa mia
seconda risposta solo il problema generale, “globalizza­
to” e mondiale, della crisi del vecchio modello bisecolare
di educazione, e nella mia terza risposta soltanto la sua
versione tragicomica italiana. Nella mia seconda risposta
evocherò una vera e propria tragedia, nella mia terza ri­
sposta invece una commedia che diventa in alcuni casi un
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 253

dramma satiresco (la riforma Berlinguer e la cosiddetta


“scuola dell’autonomia”).
Nel testo delle tue domande (di cui condivido sia la
lettera che soprattutto lo spirito) emerge ancora una volta
la consapevolezza che in realtà la crisi, apparentemente
duplice, è in realtà profondamente unitaria, in quanto si
tratta di una crisi unica della famiglia e della scuola nel­
la loro forma educativa bisecolare. Tutto questo sfugge al
circo mediatico, che è oggi un fattore attivo di diseduca­
zione, dissoluzione e disgregazione, e sfugge ovviamente
ai due gruppi specialistici dei pedagogisti e degli assisten­
ti sociali (o consulenti familiari). Ma solo possedendo il
“bandolo della matassa” ci si può capire qualcosa.
Alcuni intelligenti saggisti hanno cominciato a capire
che il continuo richiamo ideologico all’Occidente ebraico­
cristiano è in realtà un perfido strumento per il seppelli­
mento di tutte le tradizioni positive di questo occidente
stesso, e della sola esaltazione della sua principale tradi­
zione negativa (la rivendicazione della superiorità della
cosiddetta civiltà occidentale ed il diritto al colonialismo
e all’aggressione imperialistica). Fra questi intelligenti
saggisti mi limito qui a richiamare Luca Grecchi (cfr. Occi­
dente: Radici, essenza, futuro. Il Prato, Saonara 2009) e Ma­
rino Badiale e Massimo Bontempelli (cfr. Civiltà Occiden­
tale, Il Canneto, Genova 2009). Non esiste naturalmente
nessun occidente ebraico-cristiano e tantomeno nessun
mito di “ebrei fratelli maggiori”. Si tratta di sciocchezze
militari sioniste rivolte alla legittimazione ideologica di
una contrapposizione simbolica di civiltà contro l’Islam,
che non potrebbero mai passare senza il prolungamento
a tempo indeterminato del complesso di colpa degli in­
tellettuali europei per avere “permesso Auschwitz”. La
cultura cristiana è certamente una componente essenziale
dell’identità europea, ma l’identità europea non ha di per
sé niente di esclusivamente occidentale (sinonimo di caro-
254 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

lingio, e solo di carolingio), in quanto comprende anche


l’ortodossia orientale di origine bizantina e la stessa com­
ponente arabo-ebraica dell’Andalusia musulmana medio­
evale. L’Occidente è il veleno dell’Europa, non il suo codi­
ce genetico. Il suo codice genetico comprende almeno una
decina di componenti, fra cui ci sono certamente il cri­
stianesimo, l’illuminismo e le culture andaluse ebraiche e
musulmane, ma c’è soprattutto la componente originaria
greca, che sta anzi alla base del concetto di educazione
ipaickia). Ed è proprio questa base spirituale greca che è
oggi messa in pericolo dalle fanfaluche sull’occidentali­
smo (metafora dell’impero ideocratico USA) e dell’identi­
tà ebraico-cristiana (metafora della sottomissione europea
al sacerdozio sionista ed ai suoi obiettivi geopolitici).
La logica della globalizzazione imperialistica a dire­
zione spirituale e militare USA tende a superare il vecchio
modello bisecolare borghese-europeo (basato appunto sul
comune carattere educativo della famiglia e della scuola),
attraverso una strategia di dominio politico sul proletaria­
to, di dominio economico sui ceti medi e la piccola borghe­
sia, ed infine di dominio culturale sulla stessa borghesia
complessivamente intesa (e non ridotta alla sua semplice
caricatura riduttiva economicistica). Il dominio politico
sul proletariato avviene attraverso la progressiva elimina­
zione dai parlamenti di tutte le forze politiche critiche del
capitalismo, denunciate come “populiste” dalla casta cor­
rotta dei politologi universitari e colpevolizzate come di­
pendenti dal totalitarismo novecentesco, dal comuniSmo
dispotico e dal baffo asiatico di Stalin, Valter ego di Hitler.
Il dominio economico sulle classi medie avviene attraver­
so la distruzione del loro fondamento sociale bisecolare,
il posto fisso prestigioso sostituito dal lavoro flessibile e
precario, matrice della polverizzazione individualistica e
dell’impotenza storica generale. Il dominio culturale sulla
borghesia avviene appunto attraverso la complementare
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 255

distruzione della famiglia e della scuola, basi simboliche


della sua egemonia bisecolare. Ma questa ferrea e maestosa
logica non può essere capita né a “sinistra”, in cui con­
tinua a dominare l’immagine paleo-marxista per cui nel
triennio 1989-91 c’è stata una vittoria della Borghesia sul
Proletariato, né tantomeno a “destra”, in cui mezzo secolo
di anticomunismo ideologico funzionale alle cerimonie di
espiazione e di perdono per essere stata “fascista” (e quindi
variante del Male Assoluto) ha necessariamente compor­
tato l’inevitabile passaggio da Giovanni Gentile ed Ezra
Pound a Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, con la bene­
dizione finale dell’impero americano (cerimonia espiatoria
a Washington di fronte ad Obama, alla moglie, alle bam­
bine ed al cagnolino) e del suo sacerdozio sionista (cerimo­
nia espiatoria a Gerusalemme ed al Museo dell’Olocausto
con zucchetto ebraico in testa). Inutile dire (ma forse utile
per evitare malvagi fraintendimenti) che tutto questo non
c’entra né con il marxismo, né con l’illuminismo, né con
la religione cristiana, né con la religione ebraica.
Sono molte le ragioni per cui l’attuale globalizzazione
ipercapitalistica è del tutto incompatibile con la centralità
dell’educazione, e con il fatto che l’educazione, pur essen­
dosi sempre accompagnata sia con la formazione sia con
l’istruzione, non può essere ridotta a queste ultime. Men­
tre infatti su questo punto il presunto (ed inesistente) pro­
filo ebraico-cristiano non può dirci assolutamente niente,
il concetto di educazione europeo deriva direttamente dal
concetto greco di educazione (paideia) si tratta di un con­
cetto comunitario, o più esattamente a base comunitaria,
che non rimanda assolutamente ad una base sociale schia­
vistica (secondo una tradizione confusionaria indifferen­
temente di destra e di sinistra, da Nietzsche a Stalin), ma
ad una base sociale dominata da una maggioranza politica
di piccoli produttori indipendenti (il popolo ateniese che
affollava i teatri e le feste pubbliche, fra cui Socrate, figlio
256 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

di uno scalpellino e di una levatrice). L’educazione greca


(paideìa) è un prodotto di questa base sociale, non di ricchi
oziosi mantenuti da schiavi (che vennero, ma vennero più
tardi, in pieno periodo ellenistico-romano).
I Dialoghi di Platone sono in proposito un documento
storico assolutamente rivelatore, in quanto in essi affiora
continuamente la differenza fra quella che chiamerem­
mo oggi formazione-istruzione e quella che chiamerem­
mo oggi (ma che sciaguratamente chiamiamo sempre di
meno) educazione. Il pilota ed il ceramista devono essere
ovviamente “istruiti” per conseguire il loro profilo profes­
sionale specifico (chiamato dai greci techne), ma dal sem­
plice possesso della techne non consegue direttamente il
sapere filosofico necessario per la riproduzione armonica
della comunità dei cittadini. Attraverso la techne si costru­
iscono le case, si guidano le navi e si vincono le batta­
glie, ma è solo attraverso l’educazione filosofica (paideia)
che si sviluppa il logos, strumento non solo della ragione
e del linguaggio ma anche e soprattutto del corretto cal­
colo sociale (il verbo loghizomai) dei rapporti politici ed
economici fra i cittadini. Il discorso sarebbe lungo, ed è
qui soltanto impostato, ma ciò che conta è capire che non
esiste educazione (paideia) senza una base comunitaria che
ne impronta il carattere. L’educazione bisecolare borghe­
se si è basata su quel cattivo succedaneo della polis greca
che è stato lo stato nazionale europeo moderno, che si è
delegittimato da solo attraverso i due bagni di sangue no­
vecenteschi (1914-1918 e 1939-1945), e per questo viene
oggi gettato via dalla globalizzazione come si getta via
appunto il bambino con l’acqua sporca.
Le conclusioni, sempre provvisorie (come devono es­
sere le conclusioni), si possono già tirare con una relativa
sicurezza. Chi pensa di salvare l’eredità educativa comune
della famiglia e della scuola bisecolare (la cui genesi è bor­
ghese, ma la cui validità è potenzialmente universalistica,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 257

e quindi da difendere e conservare) accettando contem­


poraneamente la globalizzazione finanziaria ipercapitali-
stica attuale si illude, ed illudendo sé stesso illude tutti
coloro che gli danno retta. La logica della globalizzazione
(purtroppo solo superficialmente scalfita dalla crisi esplosa
nel 2008) porta alla sostituzione della famiglia con una
sommatoria di single, alla riconversione del vecchio inse­
gnante in animatore psicologico di adolescenti consegnati
ai videogiochi ed ai pubblicitari televisivi, alla riconver­
sione del vecchio clero religioso in assistenzialismo puro
di drogati e poveracci, alla dittatura degli economisti, ed
alla fine della scuola sostituita da agenzie interinali di for­
mazione. Il capitalismo postborghese è una società priva
di eticità; e quindi di educazione.
Molti cominciano ad accorgersene (in Italia ad esem­
pio la saggia Paola Mastracola). Ma il generale discredito
in cui è oggi caduta la critica al capitalismo, identifica­
ta con il baffo di Stalin o l’ancheggiare di Luxuria, porta
all’illusione per cui ci possa essere una sorta di “via peda­
gogica” alla salvezza. Non è cosi, ma ci vorranno decenni
prima che tutto questo possa diventare patrimonio politi­
co e sociale comune.

I s t r u z io n e , m ercato d el la v o ro e reg resso sociale

3) Il livello di istruzione delle masse si è notevolmente


elevato negli ultim i 30 anni. Il istruzione già elitaria
ed accessibile solo alle classi p iù elevate, si è diffusa
in gran parte del mondo industrializzato anche ne­
gli strati sociali meno abbienti. Lo sviluppo della tec­
nologia ha richiesto sempre maggiore qualificazione
e specializzazione nel mondo del lavoro. Quindi, l’i­
stituzione scolastica ha subito grandi ampliamenti e
ha garantito nuove possibilità di scelta per le giovani
258 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

generazioni, sia per un’evoluzione della società ver­


so una maggiore giustizia sociale, che per adeguarsi
alle rapide trasformazioni di una società industriale
sempre in continuo progresso. Tuttavia l’istituzione
scolastica si è dimostrata, almeno in Italia, sempre
inadeguata rispetto alle esigenze del mondo del lavoro.
La formazione scolastica si è rivelata sempre p iù ar­
retrata rispetto alla evoluzione della società. L’ingresso
dei giovani nel mondo del lavoro è stato negli ultim i
decenni sempre p iù difficoltoso, se non traumatico, sia
per le scarse prospettive di occupazione, sia per una
sostanziale impreparazione dei giovani, non forniti
di una istruzione adeguata, rispetto alle mansioni
richieste dalle esigenze produttive. Scuola e società si
sono rivelati due mondi incompatibili. Lo Stato si è
dimostrato sempre carente negli investimenti nella
formazione e nella ricerca. Tuttavia, dato il declino
del primato dello Stato, la formazione è oggi concepi­
ta come eschisivamente funzionale alle dinamiche del
mercato e delle esigenze del mondo imprenditoriale,
distruzione è quindi concepita come un insieme di
nozioni tecniche richieste dal mercato della occupazio­
ne, con conseguente annullamento delle funzioni edu­
cative di carattere etico. Inoltre, con la fine dello stato
sociale e l’elevazione del livello di specializzazione, l’i­
struzione tende a riacquistare il carattere elitario di
inizio ‘900. Si diffonde in fa tti sempre piti il fenomeno
dell’analfabetismo di ritorno: la globalizzazione com­
porta dunque gravi fenomeni di regresso sociale.

La risposta precedente ha richiamato una vera e pro­


pria tragedia, e cioè l’inserimento della comune crisi della
famiglia e dell’educazione all’interno di una sottomissione
reale sia della borghesia che del proletariato alla sempli­
ce riproduzione di un meccanismo sociale cannibalico che
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 259

non ha più bisogno né della famiglia né dell’educazione,


ma promuove unicamente il dominio della merce e dell’ac­
cesso ad essa attraverso differenziati profili di solvibilità.
La sostituzione di borghesi e proletari attraverso semplici
venditori e compratori ha ovviamente conseguenze tel­
luriche, di cui mi limito qui ad indicare la sostituzione
dell’inglese al latino come lingua liturgica sacralizzata, la
sostituzione in filosofia del progetto universalistico edu­
cativo dell’umanità con il chiacchiericcio disincantato
postmoderno (solo un ingenuo può veramente pensare che
il relativismo ed il nichilismo siano semplici opinioni fi­
losofiche errate anziché strutture ideologiche costitutive
della società —mi spiace dover connotare come “ingenuo”
il pur dotato filosofo tedesco Joseph Ratzinger), e l’oscena
riduzione dei professori ad animatori sociali inseriti nel
mercato della cosiddetta “autonomia scolastica”.
A causa di una situazione particolare (in breve, la neces­
sità sistemica di riciclare le due classi politiche mercenarie
ricattabili degli ex- comunisti e degli ex-fascisti dopo il
colpo di stato giudiziario extra-parlamentare surrealmen-
te denominato Mani Pulite) la distruzione della scuola in
Italia non “fa testo”, in quanto ha assunto movenze tragi­
comiche e satiresche sostanzialmente assenti nella maggior
parte degli altri paesi europei. A mia conoscenza (e parlo
da esperto, perché sono stato professore di scuola seconda­
ria per 35 anni, 1967-2002) soltanto in Italia la cosiddet­
ta “autonomia scolastica” è stata presentata come aperta e
sfacciata duplicazione mimetica del mercato, e soltanto in
Italia la scuola è stata consegnata ad un pittoresco distrut­
tore puro come il dilettante Luigi Berlinguer (1996-2000),
che ha trovato i suoi miserabili esecutori in una congrega di
sindacalisti semi-analfabeti, virago CGIL scuola, psicologi
invasivi e soprattutto pedagogisti pazzi, nel silenzio impo­
tente ed orripilato dei pochi professori pienamente consa­
pevoli della natura distruttiva di quanto stava capitando.
260 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Segnalo in proposito il saggio di Massimo Bontempelli


(cfr. “Indipendenza”, n.27, 2009), in quanto Bontempelli,
intellettuale dotato di ampia competenza storica e filoso­
fica, e nello stesso tempo insegnante di scuola secondaria,
è perfettamente in grado di capire la logica distruttiva
innescata negli ultimi ventanni, che ha trovato nel quin­
quennio di Luigi Berlinguer un momento parossistico e
tragicomico di dittatura dei sindacalisti e dei pedagogi­
sti contro i semplici professori, che la riforma Gentile del
1923 aveva correttamente messo al centro del progetto
scolastico (prescindo qui del tutto dal fascismo, dal libe­
rismo e dal comuniSmo —non a caso Gramsci ne diede
sempre una valutazione positiva, e questo non a caso, dal
momento che Gramsci era un neo-idealista DOC). Bon­
tempelli non ricorda però un precedente pittoresco ma
significativo, il fatto cioè che lo sciagurato avesse firmato
più di un ventennio prima un testo interamente descola-
rizzatore insieme con altri due confusionari (cfr. “Il Mani­
festo” rivista, n. 21, febbraio 1970). La descolarizzazione
propugnata dal sessantottino fu infatti applicata, ma non
nella forma utopico-consiliare, quanto nella forma azien-
dalistico-mercatistica. Ricordo bene quegli anni di follia,
perché essi coincisero con gli ultimi anni del mio insegna­
mento liceale, in cui fui ridotto ad una guerriglia isolata
di resistenza, scacciando come mosche fastidiose tutte le
bande pedagogico-sindacali ed ignorando sovranamente
tutto il ciarpame di test, documenti ed altri deliri. Picco­
le cose, ma come dice un proverbio greco moderno, anche
gli scarafaggi sono piccoli, eppure fanno schifo lo stesso.
Non scendo qui nei particolari, e per questo rimando
all’articolo di Bontempelli sopra citato. Il punto centrale
sta però in ciò, che a fianco del delirio invasivo di sindacali­
sti semi-analfabeti e di pedagogisti pazzi (penso che il mas­
simo della abiezione pedagogica invasiva sia stata quella dei
signori Maragliano e Vertecchi, equivalente scolastico dei
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 261

mutanti Veltroni e Bertinotti) la distruzione della scuola


fu progettata attraverso la distruzione dei programmi na­
zionali e la cosiddetta “autonomia scolastica”, adattamento
dell’istituzione scolastica alla logica del mercato, in cui gli
studenti diventavano compratori e clienti, e come sanno
tutti i negozianti, il “cliente ha sempre ragione”.
Per capire la logica di tutto questo bisogna capire che
essa si rivolgeva non alla mente, ma alla “pancia” degli
operatori scolastici, perché trasformava i presidi in “im­
prenditori sul territorio” e gli insegnanti in giocatori del
vecchio gioco di “Monopoli”, in cui tutti comprano e ven­
dono. Nel linguaggio platonico, si trattava di una vittoria
tennistica dei peggiori sui migliori, perché il vero buon
professore ha una vocazione pedagogica esclusiva di stu­
dio, ed è generalmente divenuto professore proprio rinun­
ciando ad attività molto meglio pagate che richiedevano
però proprio l’esercizio di attività imprenditoriali che oc­
cupavano però almeno dieci ore al giorno (per dirla con il
comico Totò, modestamente era proprio il mio caso).
La chiave teorica per capire tutto questo deve essere
cercata in una vecchia esternazione dell’avvocato Gianni
Agnelli, per cui bisogna rivolgersi alla sinistra per poter
portare a termine il programma della destra (e si pensi a
Prodi ed alla sua “lenzuolata” di privatizzazioni, in cui la
Goldmann Sachs sostituisce la vecchia via italiana al socia­
lismo). Ma, appunto, quale sinistra? La sinistra derivata dal
vecchio apparato metamorfico PCI —PDS —DS —PD, inte­
sa come ceto politico particolarmente ricattabile, riconver­
titosi in mercenariato politico delle multinazionali e della
guerra USA geopolitica nei Balcani (si pensi a D’Alema ed
al Kosovo 1999). Quando si comincerà a capire (ma ci vor­
ranno ancora molti anni) che l’autonomia scolastica di Lui­
gi Berlinguer e l’intervento in guerra di Massimo D ’Alema
nel 1999 seguono la stessa logica (ma ho l’impressione che
neppure l’acuto Bontempelli lo capisca veramente), allora
262 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

si porranno le basi minime per la comprensione della logica


complessiva degli eventi italiani dell’ultimo ventennio.
L’autonomia scolastica fu “venduta” ai più ingenui
come occasione per un rinnovamento, per una sperimen­
tazione controllata e per l’incentivazione della creatività
professionale degli insegnanti. Sciocchezze. Più o meno
nello stesso periodo si diffuse un’innovazione linguistica
che passò del tutto inosservata in quanto il circo mediati-
co-giornalistico di manipolazione cominciò a sostituire al
titolo di “professore” il titolo di prof., un tempo riservato al
solo linguaggio gergale giovanile, mentre l’apparato sin­
dacale cominciò a derubricare i professori ad “insegnanti”
(dalla scuola materna al liceo classico), riservando il titolo
di professori al solo notabilato castale universitario. Ma
per capire la logica profonda di questi mutamenti quasi
invisibili ci sarebbe voluta una capacità che in generale la
gente non ha, quella della “immaginazione sociologica”.
Gli apparati sindacali di sinistra sognano una prole­
tarizzazione universale, in modo da poter “rappresenta­
re” tutti questi nuovi plebei di fronte ai patrizi (Marce-
gaglia, Montezemolo, ecc.). Venuta meno la possibilità
di instaurare la mitica società socialista (derubricata ad
utopia sanguinaria di funzionari baffuti in giacca di pel­
le), il programma diventava quello della distruzione della
scuola cosiddetta “borghese” (incarnata dall’abietto Gio­
vanni Gentile). Non si accorgevano però, gli ingenui, che
a distruggere la scuola borghese non erano loro (poveri
untorelli!) ma erano proprio le nuove oligarchie finanzia­
rie della globalizzazione uitracapitalistica.
I danni fatti da Berlinguer sono stati devastanti, ma non
è un caso che nessuno dei successori (Moratti, Fioroni e Gel-
mini) è in qualche modo riuscito a porvi rimedio. E questo,
appunto, non è un caso, perché siamo di fronte ad una ten­
denza strutturale, per cui il nuovo capitalismo postborghe­
se non ha più bisogno né della famiglia né della scuola.
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 263

Ho abbandonato il mestiere di professore con il pen­


sionamento nel 2002, ed ho “rimosso” psicologicamente
il periodo di Berlinguer (e del suo irrilevante successore
De Mauro) come si rimuove un cattivo periodo della vita,
la mia impressione è che la giovane generazione di pro­
fessori (si noterà che non cerco di usare mai il termine
sindacalese di “insegnanti”, che pure sarebbe così bello
poter usare se queste blatte non lo avessero sporcato) sof­
frono a vedersi dequalificati come animatori sociali “del
territorio”, ma non sono in grado di innescare comporta­
menti collettivi e comunitari di resistenza vera e propria.
Ancora una volta, la resistenza deve ripiegare nel singolo
lavoro ben fatto. E tutti sanno che, scacciati come insetti
fastidiosi, i sindacalisti semi-analfabeti, la virago CGIL
Scuola, gli psicologi invasivi ed i pedagogisti pazzi, resta
alla fine sempre l’educatore, maschio o femmina che sia.
Il mio pessimismo è quindi temperato. Se dovessi ri­
ferirmi soltanto alla superficie mediatica, sindacale e dei
pedagogisti pazzi (in proposito il mutante Maragliano ha
a suo tempo fatto l’elogio del videogioco come sostitu­
to dei noiosi libri tradizionali), dovrei fare osservazioni
alla Spengler sul tramonto dell’Occidente. Ma so bene che
continuano ad esserci educatori vocazionali, che nessuna
congrega di pedagogisti pazzi e di imprenditori dell’auto­
nomia scolastica potrà mai distruggere.

L a sc o m pa r sa d e l r ib e llism o g io v a n il e

4) Nelle scuole, come nelle università, è scomparsa la ri­


bellione. La ribellione dei giovani, fenomeno congeni­
to all’età adolescenziale, sembra essersi ormai ridotto
a manifestazioni quasi folkloristiche, evocatrici di un
passato ideologico ormai estinto e assente nella cul-
tura delle nuove generazioni. Sembra inoltre ormai
264 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

in decadenza la naturale contrapposizione giovani -


adidti. Questi in fa tti sono oggi due mondi tra cui è
impossibile la comunicazione. Quando non c’è comu­
nicazione non può esserci né odio né amore. La società
contemporanea ha risolto la questione giovanile (già
propria delle problematiche sociali del ‘900), attra­
verso la sua rimozione. Ci si può in fa tti ribellare alle
istituzioni d i una società ingiusta e ormai fuori del
tempo, se si hanno prospettive di trasformazione e
ideali da realizzare in un futuro storico p iù o meno
lontano. L’assenza d i una cultura portatrice di valori
etici elo spirituali, porta necessariamente all’accet­
tazione supina delle condizioni del presente storico,
subendone le conseguenze, come una sorta di necessità
fatalistica, liomologazione sociale già paventata ne­
gli anni della contestazione giovanile è giunta dopo
quasi due generazioni al suo compimento. In realtà,
tale vuoto di prospettive ha le sue radici nel processo
di deresponsabilizzazione e decolpevolizzazione dei
giovani perseguito nell’istituzione scolastica nell’ul­
timo quarantennio. Si è deresponsabilizzato il gio­
vane sin dalla prim a età scolare, facendo ricorso ad
un facile psicologismo che rovesciasse le responsabilità
individuali su di una indefinita e astratta società,
si è decolpevolizzato ogni comportamento asociale at­
tribuendone la colpa agli insegnanti e alla famiglia,
visti come istituzioni autoritarie, relitti di una socie­
tà arcaica, liberticida e repressiva. Ogni prospettiva
di cambiamento è stata annullata formando perso­
nalità deboli, recidendo ogni legame con le radici cul­
turali europee e ogni continuità storica con il ‘900,
inoculando nei giovani massicce dosi d i senso di colpa
collettivo (vedi olocausto, colonialismo ecc... ). In tale
contesto, venendo meno le basi culturali ed una edu­
cazione alla autodisciplina e al senso critico, si sono
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 265

sradicate addirittura le basi antropologiche di ogni


possibile sano ribellismo, per quanto velleitario, che
potesse manifestarsi nelle scuole e nelle università,
proprio in virtù della presa di coscienza, acquisita
attraverso la cultura, della propria condizione e del
proprio ruolo nella storia e nella società in cui una
nuova generazione è chiamata a vivere ed operare.

Sono d ’accordo con la tua affermazione, per cui ci deve


essere un rapporto, sia pure non immediatamente eviden­
te ad occhio nudo, fra la progressiva deresponsabilizza­
zione educativa e familiare dei giovani ed il contestuale
progressivo indebolirsi ed affievolirsi della ribellione dei
giovani stessi, fenomeno certamente in parte fisiologico,
ma anche storico, perché i movimenti di massa giovanili
sono spesso stati dei veri e propri barometri e segnalatori
di sommovimenti sociali complessivi.
Per chi è stato interno per decenni alla cultura di sini­
stra, questo fenomeno appare chiaro come il cristallo. Dal
vecchio marxiano “Proletari di tutto il mondo unitevi!”
si era infatti passati al “Hai ucciso tua nonna per rubargli
la pensione? La colpa in definitiva non è tua, ma è del­
la società”. Chi ha creduto (e due generazioni di idioti
lo hanno creduto) che responsabilizzando unicamente la
società si sarebbe ottenuto il risultato di concentrare l’at­
tività ribellistica dei giovani contro la società stessa (e le
sue innegabili e peraltro sempre crescenti ingiustizie), si
trova ora con un cerino spento in mano, come l’imbecille
che ha appena segato il ramo d’albero in cui era seduto.
Deresponsabilizzando del tutto l’individuo per i cosiddet­
ti “mali sociali” alla fine si è finito con il deresponsabiliz­
zare congiuntamente anche l’istanza soggettiva razionale
responsabile dell’individuo stesso. Il deresponsabilizzato
non può essere un soggetto militante, ma al massimo un
oggetto per psicologi ed assistenti sociali.
266 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Il presupposto storico e filosofico di qualsiasi ribellio­


ne giovanile (non mi riferisco a pagliacciate mediatiche in
cui gli studenti agiscono come guardia plebea e carne da
cannone per la difesa di un modello di università comple­
tamente mafioso e corrotto ed in cui ogni meritocrazia è
sostituita da cooptazioni familistiche truccate, quasi sem­
pre verticali per i maschi ed orizzontali per le femmine)
sta in una unità di sentimenti, passioni ed interessi delle
tre classi di età, i giovani, le persone di mezza età e gli
anziani, in cui i giovani agiscono da avanguardia storico­
biologica di tutte e tre le classi di età. Ed è appunto que­
sto che oggi è messo fortemente in discussione.
In tutti i periodi storici, fin dal tempo del paleolitico,
le tre classi di età hanno teso a costruire gruppi culturali
separati, in cui i riti di passaggio ed i riti funerari han­
no sempre giocato un ruolo simbolico di mantenimento
della comunità (pensiamo agli antichi egizi). E tuttavia,
al di là della separatezza delle tre classi di età, esisteva il
presupposto della comunità unitaria da riprodurre. Con lo
sviluppo della individualizzazione atomistica estrema tut­
to questo viene meno. L’individuo diventa così talmente
ipertrofico da svuotare il significato dell’educazione, l’e­
tica del lavoro e la stessa ritualizzazione della morte. Il
giovane è semplicemente un vecchio sano, ed il vecchio
un giovane malato.
È bene capire che il controllo sociale complessivo da
parte delle oligarchie dominanti non avviene più secondo
le modalità prevalenti nel novecento, in cui le oligarchie
controllavano l’insieme sociale con il metodo del divide
et impera, contrapponendo gli interessi collettivi della
classe operaia e dei braccianti agricoli (da cui sociali­
smo, comuniSmo, fascismo, eccetera). Oggi il controllo
avviene indirettamente attraverso lo sviluppo dell’im­
potenza sociale, per cui tutti indistintamente i membri
della società —non importa se provenienti dalla vecchia
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 267

piccola borghesia o dal vecchio proletariato —si sentono


egualmente impotenti a cambiare le cose. La stessa fine
del mondo diventa più visualizzabile e rappresentabile
di un cambiamento radicale della società in cui si vive,
che è diventata ormai una società dell’impotenza sociale
permanente. E come si può resistere di fronte ad una en­
tità così sfuggente e nello stesso tempo così onnipotente
come la globalizzazione?
Tu affermi che la società contemporanea ha risolto la
questione giovanile attraverso la sua rimozione. Affer­
mazione esatta, ma da integrare. Il giovane è superficial­
mente onnipresente, attraverso l ’ostensione televisiva
dei muscoli del calciatore e/o delle chiappe delle veline,
o attraverso i continui borborigmi sul bullismo e la co­
siddetta “mancanza di valori”. Ma è appunto presente
come presenza fisico-biologica socialmente del tutto im­
potente, a partire dalla Madre di Tutte le Impotenze,
l’incapacità sociale di risolvere il problema dei problemi,
il lavoro flessibile e precario. Mi ero sbagliato. Non vi­
viamo in una società dell’impotenza, ma in una società
della vergogna.
268

La nuova geopolitica del capitalismo immanente

E clisse o t r a m o n t o d e lla s u p e r p o t e n z a a m e r ic a n a ?

1) Esiste oggi una nuova geopolitica: la geopolitica post


crisi. In realtà, la crisi economico - finanziaria occi­
dentale è tuttora in atto e ben lungi dall’essere su­
perata, ma, data la sua dimensione globale, produce
oggi e produrrà ancor p iù in fu tu ro trasformazioni
profonde degli attuali assetti geopolitici. Uaspetto
p iù rilevante della nuova geopolitica mondiale che
si sta delineando è costituito dal declino della super-
potenza americana. G li USA infatti, epicentro della
crisi finanziaria, hanno potuto evitare il collasso eco­
nomico e finanziario facendo ricorso ad un massiccio
intervento statale, incrementando un debito pubbli­
co dalle dimensioni gigantesche già prim a della crisi
e, per d i più, detenuto in larga parte dalla Cina e
dai fo n d i sovrani degli Em irati. Il dollaro come valu­
ta di riserva mondiale è messo da p iù p a rti in discus­
sione. Il primato militare americano è gravemente
compromesso dalle guerre di logoramento tuttora in
atto in Iraq e Afghanistan. È assai dubbio che gli
USA saranno in grado in futuro di sostenere fin a n ­
ziariamente la propria presenza militare nel mon­
do. La delocalizzazione industriale, specie in Asia,
ha drasticamente ridimensionato il sistema produt­
tivo americano, condizionando, peraltro, la politica
economica americana alle strategie aggressive delle
potenze asiatiche, specie della Cina. Con la fine dell’
“era Bush” l’unilateralismo messianico - globalista
americano è giunto al termine, oppure registra solo
una rilevante battuta d’arresto? I nuovi scenari ge­
opolitici preludono ad un mondo multipolare, domi-
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 269

nato cioè da varie potenze continentali (Cina, India,


Russia, Brasile), tra loro interdipendenti economi­
camente e quindi anche politicamente? Non m i sem­
bra possibile che gli USA si possano rassegnare ad
un ruolo di comprimari in un consesso mondiale di
potenze continentali, data la loro struttura istituzio­
nale d i stampo teologico - economico, propria cioè di
un Paese fondato sul messianesimo biblico del desti­
no manifesto, dei d iritti um ani esportabili global­
mente, sempre proiettato, per sua natura identita­
ria, al superamento d i nuove frontiere. N ell’attuale
contesto geopolitico mondiale non esistono potenze
continentali elo mondiali portatrici di modelli socio -
economici e quindi politici tra loro alternativi, come
f u per il dualismo USA - URSS nel ‘900. A nzi, il
sistema capitalista, p u r con le sue differenziazioni,
ha ormai omologato la politica e l’economia d i tutto
il mondo. Il sistema capitalista domina oggi incon­
trastato: da questo punto d i vista la vittoria globale
dell’americanismo sembra per ora totale. I capitali­
smi del mondo globalizzato denotano tuttavia delle
differenze riguardo le specifiche strutture politiche
ed economiche dei vari Paesi: mentre le società e gli
stati occidentali (USA ed Europa) sono dominate dai
grandi gruppi economico - finanziari che perseguono
strategie espansionistiche attraverso organi (EMI,
Banca Mondiale) e accordi internazionali (WTO), le
potenze orientali (Russia e Cina), sono controllate da
fo rti strutture statali, che, attraverso poteri quasi as­
soluti, realizzano i propri disegni espansionistici nel
campo dell’economia e della finanza. I l mondo post
2008 è dunque caratterizzato da conflitti permanen­
ti tra potenze mondiali operanti nelle diverse aree
geopolitiche, ma comunque tra loro interdipendenti
ed interne ad un unico sistema capitalista globale.
270 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Non a caso, i fattori che determinano accordi e scon­


tri nell’ambito della politica internazionale sono la
crescita del Pii, le quotazioni del petrolio, le perio­
diche crisi dell’economia finanziaria. La nuova geo­
politica è solo apparentemente un confronto - scontro
tra Stati, perché nella sostanza si rivela un conflitto
permanente interno ad un unico sistema, generato
dalla concorrenza economica tra gruppi dominan­
ti, identificati in un’unica Global Class planetaria
distribuita tra i vari Stati. Potremmo definire la
attuale fase della globalizzazione come una “geopo­
litica delle élìtes” per l’appropriazione delle risorse
mondiali. Im configurazione dell’attuale geopolitica,
rivela altresì le ragioni dell’insuccesso del fronte di
opposizione antiamericanista diffuso nel mondo: il
dissenso non può essere lim itato all’imperialismo
americano, ma deve incentrarsi sul sistema economi­
co capitalista e stdle sue ricadute sociali e culturali
che possiamo definire “americanismo”.

Le riflessioni contenute nella tua domanda permettono


un insieme di risposte ad ampio raggio. Ho detto un in­
sieme di risposte, non una risposta sola, perché si tratta di
temi diversi, anche se interconnessi.
In primo luogo, si ha a che fare con una corretta defi­
nizione della stessa geopolitica vera e propria. Mi sembra
che con questo termine si intendano in realtà due cose
distinte. Da un lato, si tratta di una scienza sociale vera e
propria che intende fondere insieme geografia e politica,
e che in quanto scienza sociale nel senso di Max Weber è
anche relativamente “neutrale” rispetto ai fini politici, e
quindi non è ovviamente ideologicamente caratterizzata,
e non è pertanto né di destra né di sinistra, anche se la
stupidità moralistica del Politicamente Corretto tende a
considerarla di “destra” (per la stupidità moralistica tutto
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 271

quanto non è immediatamente moralistico ma ha a che


vedere con la forza è sempre inevitabilmente “fascista”).
Il fatto che l’occupazione militare dell’Asia Centrale ven­
ga considerata essenziale in termini geopolitici (si tratta
del controllo del cuore dell’unico grande continente eu­
rasiatico, detto anche heartland) non ha di per sé alcun
carattere culturale o ideologico, ma è un vero e proprio
“fatto”. Nello stesso modo, il fatto che gli USA mettano
basi militari permanenti in Iraq e in Colombia è esso stes­
so un fatto geopolitico, in quanto è mirato al controllo del
Medio Oriente e dell’America Latina.
Dall’altro lato, però, la geopolitica non è soltanto (e
principalmente) una scienza sociale weberianamente neu­
trale rispetto ai valori etici e filosofici, ma è un prolun­
gamento ideologico inevitabile di questi ultimi, almeno
per chi li professa. Il fatto di mettere basi militari in Asia
Centrale è un dato geopolitico-militare del tutto “neutra­
le” rispetto ai valori politico-filosofici. Il fatto però che
noi preferiamo come male minore che a mettere queste
basi sia la Russia di Putin piuttosto che gli Stati Uniti
d’America di Obama (e confesso che questo è il mio caso)
non è affatto un dato neutrale rispetto ai valori, ma è un
semplice prolungamento di un giudizio complessivo sullo
stato del mondo e sulla direzione storica che noi soggetti­
vamente auspichiamo.
Non c’è in questo nulla di male, purché venga ammes­
so apertamente. Mentre le premesse filosofiche di valore
sono del tutto irrilevanti nel caso delle scienze naturali
(la deriva dei continenti non è infatti né di destra né di
sinistra), nel caso delle scienze sociali (e la geopolitica è
appunto una scienza sociale) l’etica della comunicazione
impone che le proprie premesse di valore siano interamen­
te esplicitate. Se infatti personalmente io collaboro alla
rivista geopolitica Eurasìa, mentre non mi sognerei mai di
collaborare alla rivista geopolitica Limes (e del resto non
272 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

me lo hanno mai chiesto e non me lo chiederebbero mai),


ciò avviene in base a premesse valoriali, e non certamente
sulla base della neutralità weberiana delle scienze sociali.
E tuttavia, vorrei esaminare al microscopio la tesi di
fondo che tu espliciti alla fine del tuo intervento, in cui
dici: “La configurazione dell’attuale geopolitica —la geopo­
litica delle élites in concorrenza per l’accaparramento delle
risorse mondiali —rivela le ragioni dell’insuccesso del fron­
te di opposizione antiamericanista diffuso nel mondo. Il
dissenso non può essere limitato all’imperialismo america­
no, ma deve incentrarsi sul sistema economico capitalista e
sulle sue ricadute sociali e culturali che possiamo definire
americanismo”. In questa tua formulazione, sintetica ma
completa, ci sono potenzialmente tutti gli elementi che ci
interessano. Primo, se siamo di fronte ad una brigantesca
geopolitica delle élites di accaparramento delle risorse mon­
diali, ne deriva che costoro sono tutte sullo stesso piano,
e non ha senso “tifare” per i cinesi contro gli americani,
o per i russi contro gli europei. Secondo, ne deriva che il
semplice antiamericanismo non solo è poco produttivo, ma
è anche errato e fuorviarne se pensiamo alla politica bri­
gantesca della Cina in Africa. Terzo, nonostante si metta in
guardia contro il semplice antiamericanismo, si ammette
che sul piano “sovrastrutturale”, e cioè culturale, esiste pur
sempre un “ismo” chiamato “americanismo”. Come è pos­
sibile allora sbrogliare una matassa tanto ingarbugliata?
Non pretendo certo di riuscire a farlo, ma tenterò al­
meno di chiarire il mio punto di vista. Per farlo mi riferirò
ad una recente formulazione di Alain de Benoist, che a
mio avviso imposta correttamente i termini del problema
geopolitico attuale, che riassumerò così: il segreto della
presa di posizione geopolitica sta esso stesso al di fuori
della questione geopolitica propriamente detta.
Scrive Alain de Benoist: “Il nemico principale è ad un
tempo il più nocivo ed il più potente. Esso è oggi il ca-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 273

pitalismo e la società di mercato sul piano economico, il


liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano
filosofico, la borghesia sul piano sociale ed infine gli Stati
Uniti d’America sul piano geopolitico. Il nemico princi­
pale occupa il centro del dispositivo. Tutti coloro che in
periferia combattono il potere del centro dovrebbero esse­
re solidali. Ma non lo sono”. Ho riportato questa formula­
zione, ammirevole per la sua precisione e concisione, per­
ché mi sento di sottoscriverla al cento per cento. Evento
assai raro quest’ultimo, perché in generale la condivisione
non è mai al cento per cento.
I contenziosi storici precedenti (ad esempio destra e
sinistra, fascisti e comunisti, atei e credenti, eccetera), an­
che se hanno ormai perduto ogni pertinenza storica con il
presente, sono il primo fattore di impedimento alla soli­
darietà ed alla strategia di alleanze contro quello che de
Benoist chiama “il potere del centro”. E necessario infatti
accettare la categoria polemologica e geopolitica di “ne­
mico principale”. Io l’accetto. In proposito è bene ricorda­
re che nel dibattito filosofico le cose non stanno in questo
modo, perché in esso si hanno soltanto amici e non nemi­
ci (Aristotele, Epicuro, eccetera), in quanto anche coloro
che praticano la confutazione delle nostre posizioni sono
amici e non nemici, perché la loro confutazione ci aiuta
a chiarificare meglio le nostre posizioni. Ma ciò che vale
in filosofia non vale in politica. In politica esiste invece la
dicotomia Amico/Nemico, a meno che la politica sia ri­
dotta ad amministrazione ed a gestione di una situazione
immodificabile diretta da una oligarchia economica, ed in
questo caso il nemico è retrocesso ad avversario.
Ma non perdiamoci in fumisterie laterali. Resta il fatto
che de Benoist colloca il conflitto geopolitico all’interno
di un insieme inscindibile di cinque conflitti strategici
epocali. Se li analizziamo uno per uno, riusciremo forse
a capire meglio che la contrapposizione all’americanismo
274 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

non solo non è incompatibile, ma è complementare alla


centralità della contrapposizione geopolitica e al dominio
militare degli Stati Uniti d’America.
Prima di tutto, è bene sottolineare il coraggio e la chia­
rezza con cui si ribadisce quella che è stata per duecento
anni in Europa una posizione classica della “sinistra” pri­
ma della sua recente catastrofica deriva di tipo neoliberale
e postmoderno, e cioè che sul piano economico il nemico
principale resta il capitalismo e la società di mercato. La
dissoluzione vergognosa del dispotismo sociale costruito
sotto cupola geodesica protetta definito comuniSmo storico
novecentesco (1917 - 1991) ha comportato (ed era inevi­
tabile che lo fosse) la delegittimazione della critica al capi­
talismo in quanto tale, per cui il capitalismo è ridiventato
la gabbia d’acciaio (Max Weber) ed il destino della tecnica
(Martin Heidegger). È certo curioso che a fare questa ra­
dicale affermazione anticapitalistica sia Alain de Benoist,
colui che nell’ultimo mezzo secolo aveva cercato di coeren-
tizzare un profilo di Nuova Destra, laddove la stragrande
maggioranza degli urlatori estremisti sessantottini si è ri­
ciclata in neoliberali ed in apologeti dei bombardamenti
umanitari. Ma questo non deve stupire coloro che hanno
un punto di vista dinamico e dialettico sulla realtà. Esiste
infatti una destra del denaro (Berlusconi, Sarkozy, eccetera),
che aderisce al capitalismo come una maglietta al corpo. Ed
esiste una destra della tradizione, che spesso (non sempre) è
più anticapitalista della sinistra del progresso, in quanto è
maggiormente libera dalla idolatria verso i (provvisori) vin­
citori della storia. Qui de Benoist non si limita a criticare il
cosiddetto Pensiero Unico del neoliberismo, (la piattaforma
dei movimenti detti no-global, oggi pressoché spariti, e non
rimpianti), ma critica giustamente il capitalismo in quanto
tale. E bene anche distinguere fra il modello dell’economia
di mercato ed il modello della società di mercato. Il mercato
come criterio della razionalità della domanda e dell’offerta
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 275

non è un principio del tutto malvagio, e deve essere distinto


dal capitalismo, laddove la società di mercato è l’estensione
di questo principio economico a tutti gli ambiti della vita
umana. È questo l’incubo contro cui combattere. Ma oggi
la logica capitalistica della accumulazione illimitata porta
appunto non ad una tollerabile economia di mercato, ma
verso una intollerabile società di mercato.
Può sembrare scandaloso affermare che oggi il libera­
lismo è il nemico principale sul piano politico, ma non lo
è. Astrattamente parlando, il modello liberaldemocratico è
il migliore possibile, ed è certamente migliore di tutte le
forme di stato e di governo di tipo populista, integralista,
fascista e comunista. Ma, appunto, questo avviene soltanto
in un seminario universitario di dottrine politiche, in cui
il modello liberaldemocratico è esposto in forma idealti-
picamente pura e perfetta. Nei fatti, invece, il liberalismo
è soltanto la copertura del dominio delle oligarchie finan­
ziarie che dominano il pianeta con l’ausilio geopolitico
delle loro strutture militari permanenti. Questo modello
ha espropriato la sovranità politica e monetaria degli sta­
ti nazionali, sovranità stilla cui base erano stati edificati i
modelli sociali del welfare state. Oggi il liberalismo politico
è diventato un codice d’accesso alla globalizzazione finan­
ziaria, e non ha più nulla a che fare con la rappresentanza
degli interessi sociali, punto di riferimento imprescindi­
bile della democrazia moderna (ed anche di quella antica
della Jw/it greca). Il circo mediatico ed il clero universitario
sono concordi a denunciare il cosiddetto “populismo” dei
dittatori, ma questo circo e questo clero sono asserviti alle
oligarchie finanziarie transnazionali. In quasi tutti i casi
concreti, il cosiddetto “populismo” è comunque preferibile
(almeno come male minore) al liberalismo.
Degno di. nota è il fatto che sul piano filosofico venga in­
dividuato come nemico principale l’individualismo. Joseph
Ratzinger, che resta filosoficamente superiore ai postmoder-
276 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ni, avrebbe probabilmente parlato invece di nichilismo e di


relativismo. Ma su questo punto de Benoist si mostra più
acuto. Il nichilismo ed il relativismo, infatti, non sono af­
fatto originari, ma sono il derivato della distruzione di ogni
rapporto comunitario e solidaristico, per cui tutto diventa
relativo al potere d’acquisto monetario del singolo indi­
viduo. E quindi l’individualismo il vero nemico filosofico
principale di oggi, in quanto l’individuo non è più il por­
tatore della sua irripetibilità assoluta (la psychè greca), ma
semplicemente l’unità ontologica assolutizzata dell'accesso
alla società di mercato di cui si è parlato in precedenza.
Sul piano sociale, il nemico principale resta la borghe­
sia. E tuttavia (e mi permetto qui di rimandare ad un li­
bro scritto con Eugenio Orso e recentemente pubblicato)
personalmente preferisco segnalare che le attuali oligar­
chie finanziarie che dominano il pianeta non presentano
soltanto evidenti elementi “borghesi” tradizionali, ma
presentano anche nuovi ed inediti elementi post-borghesi
(connessi peraltro ad un processo di deriva di natura post­
proletaria per le classi popolari, subalterne, operaie, sala­
riate e proletarie). Ma qui siamo soltanto sulla soglia di
una ridefinizione integrale di una teoria delle classi.
Sulla base di questa illustrazione del tempo presente,
la quinta determinazione (gli USA come nemico geopoli­
tico principale) appare connessa strettamente con le quat­
tro determinazioni precedenti. Astrattamente, esse pos­
sono essere esaminate separatamente, ma concretamente
esse sono oggi fuse insieme strettamente. Certo, il capi­
talismo, il liberalismo, l’individualismo e la borghesia ci
sono anche in Russia ed in Cina, e spesso hanno addirit­
tura in certi paesi un profilo più ripugnante di quanto
possano avere negli stessi USA (il capitalismo russo e bra­
siliano è oggi più ripugnante di quello statunitense). Ma
gli USA restano il grande collante culturale ed il grande
garante geopolitico-militare della riproduzione capitali-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 277

stica mondiale. In questo senso, e solo in questo senso, gli


USA sono il nemico principale. Si noterà che non vi è qui
nessun anti-americanismo aprioristico ed isterico, ma ci si
limita sobriamente ad individuare negli USA un collante
culturale ed un garante militare complessivo.
Detto questo, concordo nell’essenziale con la tua defi­
nizione di “geopolitica delle élites”. Questa definizione pren­
de atto del fatto che oggi le grandi cause storiche dell’u­
manità (solidarismo, comunitarismo, eccetera) non hanno
in alcun modo dei portatori partitici o statuali. Sul piano
geopolitico ritengo che la Cina abbia ragione a proposito
del Tibet, ma ciò non toglie che il popolo tibetano con­
tinui ad avere il diritto assoluto a difendere i suoi diritti
nazionali. E ciò che dico del Tibet potrebbe essere detto
per altre decine di cause nazionali.
La geopolitica deve essere “bevuta” con moderazione,
senza ubriacarsene. Essa è un dato storico-geografico, ed
ignorarla è da “anima bella” (uso qui un termine hegelia­
no). Ma essa non è la chiave interpretativa fondamentale del
presente storico. Essa deve essere subordinata alla valutazio­
ne filosofica della realtà contemporanea. Essa però è anche
un “segnalatore”, in quanto le nostre opinioni geopoliti­
che rimandano pur sempre infallibilmente a quello che noi
pensiamo sullo stato generale del mondo in cui viviamo.

I l d e c l in o a m e r ic a n o e le in c o g n it e m e d io r ie n t a l i

2) Il declino attuale della superpotenza americana coin­


volge in prim is quelle aree del mondo già conflittuali
quali il Medi-oriente. Il governo Netanyahu in Isra­
ele vuole accelerare la propria politica di espansione
degli insediamenti di coloni nei territori occupati.
Tale politica, data la reazione palestinese, comporta
uno stato di guerra permanente. Israele, da sempre,
278 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

può perseguire una tale strategia espansionistica in


virtù dell’incondizionato sostegno economico e politi­
co americano. Quest’ultimo, data la crisi strutturale
dell’economia americana e il gigantesco deficit delle
finanze pubbliche, potrebbe non avere nel prossimo
futuro la stessa valenza economica e la stessa efficacia
politica del passato. Inoltre, un incondizionato soste­
gno americano ad Israele, nella attuale situazione,
potrebbe sortire l’effetto di generare m utam enti ri­
levanti negli schieramenti politici del Medioriente,
che pregiudicherebbero inevitabilmente le strategie
americane nell’area. Infatti, all’appoggio unilaterale
americano la politica di Netanyahu potrebbe fare ri­
scontro l’ostilità dei Paesi arabi dell’area mediorien­
tale, il cui sostegno, tacito o espresso, è per gli ame­
ricani fondamentale per sostenere le guerre in Iraq
e Afghanistan. Tale latente conflittualità potrebbe
inoltre generare conseguenze difficilmente controlla­
bili per quanto concerne gli approvvigionamenti e le
qtiotazioni del greggio sui mercati mondiali. Non di­
mentichiamo infine che l’Arabia Saudita e gli E m i­
rati sono tra i principali detentori del debito p u b ­
blico americano. Il quadro geopolitico mediorientale
è inoltre mutato negli u ltim i anni: Iran e Turchia
sono oggi potenze locali che svolgono un ruolo indi-
pendente nell’area. In particolare la Turchia, alleato
tradizionale degli USA, ha oggi accentuato la propria
identità islamica allo scopo d i svolgere, nel gioco del­
le alleanze mediorientali, una politica autonoma che
fatalmente, non potrà che configgere con la politica
filo israeliana degli americani. Ulteriori ripercussio­
ni potrebbero verificarsi negli stati caucasici, nell’A ­
sia centrale e nella stessa Europa orientale, per quan­
to concerne il conflitto latente tra USA e Russia per il
controllo dell’area e per lo sfruttamento delle materie
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 279

prime. Ricordiamo come l’intervento militare russo


in Georgia abbia determinato nel 2008 una battuta
d’arresto alla penetrazione americana nell’area cau-
casica. In tale contesto, è significativo l’atteggiamen­
to di contrarietà di Obama nei confronti d i Israele
per quanto riguarda la politica degli insediamenti.
Tuttavia una politica americana svincolata dagli
interessi israeliani è impensabile. Così come oggi è
impensabile un trattato d i pace tra Israele e Palesti­
nesi sulla base del principio “due popoli due stati”.
Israele, al di là delle dichiarazioni di facciata, perse­
gue il proprio disegno aggressivo nei. territori occupati
ed uno stato palestinese costituito da Cisgiordania e
Gaza non sarebbe economicamente autosufficiente e
soggetto al condizionamento militare israeliano che
ne vanificherebbe l’indipendenza. Su Gerusalemme,
Israele non è disposta a trattare. Comunque, sia per
il declino americano, sia per l’ingresso di nuovi attori
sulla scena mediorientale, potrebbero verificarsi m u­
tam enti considerati fino a pochi anni fa impensabili.

Non c’è bisogno di essere ebrei per essere sionisti, ha


recentemente dichiarato il vicepresidente americano Joe
Biden (cfr. Le Monde Diplomatique, aprile 2010). Con una
ammirevole chiarezza Biden ha colto il centro geopolitico,
ideologico e simbolico della questione medio-orientale,
cosi come essa si pone sia per l’impero ideocratico ame­
ricano sia per i suoi alleati europei subalterni. La frase di
Biden può peraltro essere rovesciata in questo modo: non
si è affatto antisemiti se si è antisionisti.
La presa di posizione rispetto al sionismo è la cartina di
tornasole per definire oggi il profilo complessivo della cul­
tura politica europea e la sua capacità di valutazione mo­
rale a proposito di ciò che avviene nel mondo. Prendersela
con la Serbia, con la Birmania e con il Sudan e scusare, re-
280 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

lativizzandoli e contestualizzandoli, gli spaventosi crimini


della politica sionista, segnala una gravissima perdita di
equità morale, dal momento che la principale caratteristica
del giudizio morale è quella di non essere asimmetrico.
Già Aristotele, con grande precisione, aveva connotato la
giustizia come il modo di trattare i fatti eguali in quanto
eguali ed i fatti diseguali in quanto diseguali.
Rifacendomi alla chiarissima posizione di Joe Biden,
direi che oggi il sionismo non fa solo parte integrante del
codice politicamente corretto obbligatorio dell’america-
nismo e dell’occidentalismo, ma è anche uno degli ele­
menti simbolici principali dell’asservimento dell’Europa
in quanto tale. L'elaborazione del complesso di colpa per
avere “permesso Hitler” (a questo mirano di fatto i pel­
legrinaggi scolastici di massa ad Auschwitz, e non certo
purtroppo al mantenimento della cosiddetta “memoria
storica”, nuova religione di un mondo che non perde l’oc­
casione di ridicolizzare Dio e tutti quelli che ci credono
ancora) è stata infatti dichiarata illimitata ed infinita, sen­
za alcuna data di scadenza, e per questo ritengo corretto
parlare di “religione olocaustica”. Tipico della religione è
infatti quello di voler essere eterna ed assoluta.
La religione olocaustica si è munita da tempo di un
lessico teologico unificato. Coloro che respingono il sioni­
smo statuale e territoriale vengono definiti “antisemiti” (il
termine ha sostituito il precedente termine artigianale di
“infedeli”). Gli ebrei onesti ed illuminati che criticano il
sionismo vengono surrealmente definiti “ebrei che odiano
sè stessi”. Coloro che condannano senza riserve Auschwitz,
ma osano inserire Auschwitz all’interno di una serie di
eventi egualmente inaccettabili (genocidio degli armeni
nel 1915, Hiroshima, Nagasaki, Dresda, eccetera), ven­
gono accusati di “banalizzare” Auschwitz (sic!). E diven­
tato di moda, e la corporazione vile degli intellettuali lo
ha avallato, sostenere che Auschwitz è “imparagonabile”
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 281

a qualsiasi altra cosa, non appartiene neppure alla storia,


è fuori della storia ed è invece il segnale di un Male Me­
tafisico, l’unico male metafisico commesso dall’umanità.
E chiaro che tutto questo non può essere del tutto ca­
suale. Il sionismo è stato infatti eretto a sacerdozio levitico
della globalizzazione capitalistica, e la sua teologia deve
amministrare un complesso di colpa generale (persino il
comuniSmo storico novecentesco, fenomeno complessiva­
mente giudeofilo, è stato recentemente trasformato in feno­
meno giudeofobico). Biden ha ragione. Il sionismo è oggi
uno dei “pezzi” fondamentali del profilo occidentalistico.
Le ricadute geopolitiche di questa religione olocaustica
sono sotto gli occhi di tutti. La geopolitica medio-orien­
tale (e più in generale di tutta l’area in cui è prevalente
la religione musulmana) è stata appaltata ad un duopolio
USA-Israele, da cui l’Europa è stata tenuta completamen­
te fuori. In estrema sintesi, il problema si pone in questo
modo: sono in grado gli USA di imporre qualcosa di stra­
tegico allo stato sionista, oppure non ne sono in grado,
perché le lobbies ebraiche americane sono talmente invasi­
ve e potenti da riuscire comunque a impedirlo?
E possibile ovviamente pensare sia la prima che la se­
conda cosa. Personalmente, non ho informazioni sufficien­
ti per poter dare una risposta seria ed argomentata. Tendo
tuttavia ad aderire alla seconda posizione, in particolare
tenendo conto dell’estrema debolezza della presidenza di
Obama. In casi come questi la retorica del dialogo fra le
civiltà conta come il due di briscola. Nel Medio Oriente
lo stato razzista e sionista di Israele è il cane e gli USA
la coda, non viceversa. L’arroganza recente di Netanyahu
verso lo stesso Obama non può essere interpretata diversa-
mente. Un teppista si comporta da “impunito” quando sa
perfettamente che nessuno è in grado di punirlo.
Seguendo l’opportuno suggerimento contenuto nella
tua domanda, è invece necessario studiare le principali
282 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

tendenze politiche e geopolitiche della regione. Nono­


stante la mia personale antipatia culturale verso il fon­
damentalismo musulmano sunnita, appoggio con tutto il
cuore coloro che in Afghanistan vogliono cacciare gli in­
vasori USA ed i loro vergognosi fantocci europei. La stessa
cosa vale evidentemente anche per l’Iraq, anche se pur­
troppo all’auspicabile unità politica e religiosa del popolo
iracheno si è sostituita la guerra civile intercomunitaria.
Ritengo molto importante, ed in prospettiva strategico,
il fatto che la Turchia stia cominciando ad assumere una
posizione geopolitica maggiormente indipendente, ed i
crimini compiuti recentemente a Gaza dai sionisti siano
stati l’occasione per lo statista Erdogan per cominciare a
chiamare assassini gli assassini. Si tratta di un fenomeno
connesso con il declino del kemalismo politico e militare.
Il kemalismo ha avuto indubbiamente alcuni meriti negli
anni venti per salvare la stessa esistenza della Turchia, ma
da tempo era diventato un fattore negativo sia per quanto
riguarda il trattamento delle minoranze interne (i curdi in
primo luogo), sia per quanto riguarda la canina obbedien­
za agli imperativi strategici degli USA e di Israele.
Mi è difficile esprimere fino in fondo l’ammirazione
che provo per la dignità e l’indipendednza del popolo ira­
niano, e questo del tutto indipendentemente dal giudizio
specifico sulle correnti politiche che lo dividono in questa
fase storica. Colgo comunque l’occasione per ripetere che
considero del tutto giusta e legittima la vittoria elettora­
le di Ahmadinejad del 2009, come è stato peraltro ripe­
tutamente rilevato da molti osservatori indipendenti. La
maggioranza lo ha votato perché si è occupato anche dei
poveri, e non solo dei privilegiati. Il circo mediatico occi­
dentalista, che lo fa passare per un nuovo Hitler, trovando
anche nel clero intellettuale di “sinistra” complici in que­
sta svergognata manipolazione, dovrebbe vergognarsi, se
avesse ancora nozione del concetto di vergogna.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 283

In definitiva, il quadro geopolitico medio-orientale è


in movimento. Benvenuta la resistenza di Putin nel Cau­
caso ed in Ucraina, benvenuta la nuova relativa autonomia
della Turchia, benvenuta l’indipendenza dell’Iran, benve­
nute le resistenze in Iraq e in Afghanistan, indipendente­
mente dai loro discutibili contenuti politici.

L’a v v e n t o d e l “ secolo a s ia t ic o ”

3) L’avvento del X X I ° secolo è stato p iù volte a n n u n ­


ciato come quello del “secolo asiatico”. D el resto, la
fine delle potenze coloniali europee e l’incipiente
declino americano fa n n o presagire che al prim ato
occidentale potrà sostituirsi tra qualche decennio
quello asiatico (Cina e India). La crescita economi­
ca cinese e indiana è comunque dovuta in massima
parte alla delocalizzazione industriale dell’Occi­
dente, il cui alto livello d i consumi costituisce il ne­
cessario sbocco alla iperproduzione asiatica. Qtiin-
di, l’esportazione del modello capitalista in Asia
ha determinato una inscindibile interdipendenza
tra Occidente e Oriente, quali due necessarie com­
ponenti del medesimo processo produttivo. Tuttavia
all’espansione economica asiatica non ha fa tto r i­
scontro una adeguata redistribuzione della ricchez­
za sul piano interno. In fa tti la crescita cinese è ba­
sata sulla competitività di una economia i cui bassi
costi d i produzione (in specie la mano d’opera), sono
altam ente competitivi. S i rivela oggi del tutto er­
rata l’idea secondo la quale l’economia globalizzata
avrebbe determinato spontaneamente nuovi equili­
bri perequativi del reddito tra Occidente e Oriente:
ai decrementi reddituali dei lavoratori occidentali
avrebbe fa tto riscontro la crescita di quelli orien-
284 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

tali. Nella odierne realtà, all’impoverimento dei


redditi da lavoro occidentali corrispondono bassi sa­
lari orientali ed è l’Occidente anzi, che per rendersi
competitivo nel mercato mondiale, deve adeguarsi
ai costi e a i prezzi dell’economia asiatica. La compe­
titiv ità dell’economia globalizzata, scaturendo dai
bassi costi d i produzione sta generando solo genera­
lizzato impoverimento e accentuata proletarizzazio­
ne globale. La crescita di Cina e India è inoltre gra­
vida d i incognite nell’immediato futuro. I l declino
economico dell’Occidente potrebbe produrre cali pro­
gressivi dei consumi tali da generare in parallelo
decrementi produttivi accentuati in Asia. Le spe­
requazioni reddituali cinesi potrebbero provocare
conflitti sociali d i rilevanza tale da scardinare gli
equilibri politici interni. Il capitalismo asiatico po­
trebbe non evolversi secondo le stesse linee di svilup­
po di quello occidentale, progressive perequazioni
di reddito, welfare ecc.. L’economia globale in fa tti
è basata sull’offerta e sulla esportazione; domanda
interna e redistribuzione della ricchezza non sono
considerate fa tto ri essenziali allo sviluppo. E altresì
tram ontata la visione di un Occidente che, in forza
del suo prim ato nell’economia finanziaria, avrebbe
usufruito delle proprie rendite, delegando all’Asia
la funzione di supporto produttivo dei profitti dei
mercati finanziari. Tale schema d i stratificazione
classista tra i popoli del mondo sembra essersi in ­
franto sull’onda delle ripetute crisi finanziarie. A l
pari delle potenze occidentali ormai al tramonto, la
Cina persegue analoghe strategie espansionistiche
nel terzo mondo: alla penetrazione ideologica si è
sostituita quella economica, volta alla conquista dei
mercati e all’accaparramento selvaggio delle mate­
rie prim e.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 285

Le pertinenti osservazioni che fai a proposito dei rap­


porti economici fra Europa e Asia mi confermano su di
un’opinione che peraltro coltivo da molti anni, e che cer­
cherò di sintetizzare qui. La soluzione data da Condorcet
nel 1794 all’interno della sua ideologia del progresso non
si è verificata. Condorcet connotava correttamente il con­
tenuto del progresso in questi precisi (ed insuperabili) ter­
mini: “Le nostre speranze sullo stato futuro della specie
umana possono ridursi a questi tre punti importanti: la
distruzione della diseguaglianza fra le nazioni; il progresso
dell’eguaglianza in seno ad uno stesso popolo; ed infine,
il reale perfezionamento dell’uomo”. La mia personale in­
terpretazione della genesi espressiva del pensiero di Marx,
come sanno i miei (ancora purtroppo pochi) lettori, rifiuta
la tesi gemella di Karl Lowith-Ernst Bloch sulla secola­
rizzazione della precedente escatologia giudaico-cristiana
nel linguaggio dell’economia politica (che necessariamen­
te trasforma la filosofia della storia in teologia della storia
e la storia del mondo in “tribunale del mondo”, Weltge-
richt, quanto di più odioso ci possa essere in tutta la storia
della filosofia occidentale), e propone invece in alternativa
la tesi della elaborazione dialettica della stessa “coscienza
infelice” borghese, che si rende conto che la realizzazione
del programma lucidamente disegnato da Condorcet è in­
compatibile con la dinamica illimitata dello sfruttamento
capitalistico. E tuttavia, quella di Marx è per ora rimasta
una utopia sulla carta, in quanto tutti i tentativi di concre­
tizzazione storica (preferisco questo termine a quello ulti­
mativo di “realizzazione”, che implica necessariamente una
fine della storia, impossibile e non auspicabile) sono stati
sconfitti dalla potenza della dinamica della riproduzione
capitalistica (e questo —lo si noti bene —del tutto indipen­
dentemente dalla valutazione etico-politica complessiva
che riteniamo di dare sul comuniSmo storico novecente­
sco realmente esistito). In queste condizioni, essendo per il
286 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

momento del tutto ineffettuale un ritorno a Marx, si ritor­


ni almeno alla critica di List al liberismo capitalistico (che
non coincide peraltro con il pensiero di Adam Smith, come
Giovanni Arrighi ha mostrato). La globalizzazione è infat­
ti un meccanismo infernale che uccide il lavoro umano,
ed è già riuscita nella malefica impresa di ridurlo a lavoro
flessibile e precario. L’accecamento di coloro che predicano
un’altra globalizzazione, o una cosiddetta “globalizzazione
alternativa”, magari condita per renderla più attraente con
una nuova economia verde {green economy), è uno spiacevole
accecamento volontario. Un unico mercato mondiale, ma­
gari perfezionato “a sinistra” con il libero ingresso illimi­
tato di tutti gli immigrati che lo desiderano in tutti i paesi
che lo desiderano (è noto che la cosiddetta “sinistra”, che
non può vivere senza miti, ha sostituito al mito sociologi­
co del proletariato il mito antropologico della “diversità”
dell’immigrato), sarebbe ed è già un incubo. Bisogna te­
nere vivo il progetto di un mondo più comunitario e più
solidale (il comuniSmo dispotico è fallito, ed a mio avviso
non più riproponibile, e prima o poi anche i “nostalgici”
finiranno con il capirlo, ma restano i contenuti di comuni­
tarismo e di solidarismo, sia pure incorporati in un profilo
filosofico alternativo), ma per il momento è necessario pas­
sare per una fase di protezionismo economico e di ristabili­
mento della sovranità dello stato nazionale sull’economia.
Il lettore deve perdonarmi questo lungo intermezzo fi­
losofico, ma esso era necessario per poter impostare il tema
dei rapporti fra l’Europa e l’Asia nei prossimi decenni. Sul
piano della concorrenza all’interno del mercato del lavoro
salariato “non c’è partita”, per dirla in linguaggio calci­
stico, in quanto non c’è partita fra i salari di Germania e
Italia e quelli di Cina e Thailandia. Vogliamo veder di­
struggere sotto i nostri occhi le conquiste sociali degli ul­
timi duecento anni? Ebbene, esse saranno inevitabilmente
distrutte all’interno della logica della globalizzazione.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 287

Il riorientamento verso il mercato interno è peraltro ne­


cessario soprattutto per paesi “emergenti” come l’India e la
Cina. In India siamo certamente di fronte ad un impetuoso
sviluppo economico e tecnologico. E tuttavia si pensa forse
che l’estendersi della guerriglia rurale impropriamente de­
finita “maoista”(i naxaliti) sia un fenomeno di revival ideo­
logico, laddove si tratta della sacrosanta reazione delle mas­
se contadine impoverite di fronte alla logica selvaggia della
globalizzazione, cui si sono sottomessi anche i due partiti
comunisti indiani (un tempo gloriosi, ed ora miserabili)?
Questo discorso vale anche per la Cina. Cito Le Mon­
de, 17/4/2010: “In Cina, l’esplosione del consumo si urta
all’ostacolo che i cinesi chiamano delle “tre montagne”. Le
famiglie devono affrontare le spese della copertura sanita­
ria, della scuola e dell’alloggio, spese che sono assai poco
o per nulla a carico del settore pubblico (lo stato cinese
copre il 18% delle spese sanitarie contro il 50% degli Sta­
ti Uniti e l’80% in Europa”. Si tratta di cifre che fanno
riflettere. La Cina comunista, il paese di Mao Tse Tung, è
al di sotto non solo del nostro ivelfare state europeo, ma ad­
dirittura degli USA, con tutto quello che sappiamo delle
resistenze privatistiche alla riforma di Obama!
Colgo l’occasione per affermare pubblicamente che
personalmente non credo alla cosiddetta “natura sociali­
sta” dello stato cinese, tesi che trova anche in Italia alcuni
sostenitori (Losurdo, Sidoli, eccetera). Certo, so bene che le
crisi delle vecchie categorie della filosofia politica moderna
(prima fra tutte, la dicotomia Destra/Sinistra) ha portato
alla sostituzione del marxiano “Proletari di tutto il mondo
unitevi” con il pirandelliano “Così è se vi pare”. In que­
sto carnevale semantico è possibile dire letteralmente di
tutto, e persino che Berlusconi ed Ahmadinejad sono ac­
comunati dall’essere entrambi “populisti” (si veda il guru
di sinistra alla moda Slavoj Zizek). Il carnevale semantico
precede indubbiamente una prossima quaresima, in cui si
288 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dovrebbero ridefinire integralmente le categorie filosofi-


che, economiche e politiche adeguandole al mondo in cui
viviamo. Ma detto questo, resta il fattore geopolitico.
In conformità con quanto detto nella mia precedente
prima risposta, se è vero che il nemico principale è l’ege­
monia geopolitica e militare degli USA, ne consegue che
non bisogna a mio avviso essere troppo “schizzinosi” con
la Cina. Se gli osservatori dicono tutti che i cinesi presi nel
loro complesso stanno meglio di trenta anni fa (ma questo
è un copione già visto, che si può applicare anche agli
italiani degli anni cinquanta e sessanta) possiamo anche
prenderlo per buono. Resta il fatto che ciò che si chiede
alla Cina (ed in subordine all’India, mentre purtroppo sul
Giappone non si può contare) non è che adegui la sua so­
cietà ad un modello intelletualistico dell’estrema sinistra
europea (pensiamo alle illusioni sulla rivoluzione cultura­
le 1966-69), ma semplicemente che continui a giocare il
ruolo geopolitico indipendente dall’egemonia USA.
Vi sono fondate speranze che questo possa avvenire. Il
resto è fantapolitica per giocatori di Risiko.

I l n u o v o m o d ello so cia lista s u d a m e r ic a n o .


È POSSIBILE UNA FUTURA ALLEANZA CON L’EUROPA?

4) Nella geopolitica sudamericana sembrano invece pre­


valere tendenze di affrancamento dal dominio capi­
talista americano, in virtù delle politiche sociali di
leaders popolari quali Chavez, Kirchner, Lula, ed al­
tri. Il Sudamerica sembra voler uscire da quella con­
dizione di subalternità americana ed emarginazione
geopolitica mondiale. Modelli di sviluppo locali basa­
ti sidla indipendenza nazionale, sull’intervento dello
Stato nell’economia, sembrano costituire valide forme
di resistenza all’invasività del capitalismo globale.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 289

Trattasi comunque di Paesi in condizioni sociali di­


sastrate, che hanno adottato politiche dettate da una
situazione di emergenza che tuttora sussiste. Inoltre,
specie il Venezuela e l’Argentina devono comunque fa r
fronte, con costi sociali rilevanti, alle manovre ostili
degli USA e dell’FMI. Tra le potenze locali emergenti
va senz’altro annoverato il Brasile: occorrerà vedere in
futuro fino a che punto questo Paese potrà conciliare
le esigenze dello sviluppo produttivo con una adeguata
politica sociale e con i costi derivanti dalla distruzione
delle risorse ambientali (vedi distruzione della foresta
amazzonica). Occotrerebbe, onde fornire basi solide ai
suddetti regimi di ispirazione socialista, mettere in
moto un processo di progressiva integrazione economica
e politica tra gli stati del Sudamerica, ma quesfulti­
ma è forse al momento prematura, data la situazio­
ne sociale di emergenza e l’instabilità politica di tali
Paesi. Nell’attuale prospettiva mondialista della geo­
politica, l’economia e la politica sia degli stati che dei
continenti è largamente caratterizzata dalle rispettive
connessioni ed interdipendenze. Il Sudamerica non
può rimanere isolato nelle sue prospettive economiche e
politiche. I l suo partner naturale, non solo dal punto di
vista economico e politico, ma culturale ed identitario è
l’Europa. Quest’ultim a è parte integrante della storia
e della cultura del Sudamerica. Una alleanza strate­
gica tra i due continenti potrebbe costituire alla lunga
un modello politico e sociale alternativo al capitalismo
anglosassone e asiatico. UEuropa però non costituisce
oggetto del nostro attuale dibattito sulla geopolitica.
Ne abbiamo già parlato altrove, diffusamente e forse
anche troppo. Non è un caso che essa sia un argomento
estraneo al presente dibattito, dato il suo prolungato
assordante silenzio e la sua perenne e colpevole assenza.
Ma, come si sa, gli assenti hanno sempre torto.
290 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Come tu noti opportunamente, l’Europa e l’America La­


tina avrebbero astrattamente tutto per poter diventare part-
ners economici e geopolitici strategici, a partire da un’affi­
nità culturale simile a quella che intercorre fra l’Inghilterra
e gli Stati Uniti d’America. Se però questo non avviene, al
di là del mondo ineffettuale e virtuale delle proclamazioni
retoriche dei capi di stato in visita e degli istituti culturali,
ciò deve essere ricondotto a due fattori strutturali. In breve,
mentre il legame strategico fra Inghilterra e Stati Uniti esi­
ste, l’Europa politicamente non esiste, e nello stesso modo
purtroppo neppure l’America Latina esiste.
L’inesistenza politica dell’Europa è sotto gli occhi di
tutti, e costituisce uno dei fattori storici più dolorosi di
oggi. Gli europeisti continuano da decenni a sostenere che
l’unità culturale e politica europea è la premessa indispen­
sabile per una sua futura indipendenza strategica in campo
economico e geopolitico, e quando ero giovane addirittu­
ra ci credevo anch’io. Adesso sono stanco di essere preso
in giro. L’Europa è costellata di basi atomiche americane,
a sessantacinque anni di distanza dalla fine della seconda
guerra mondiale (1945-2010), ed i miserabili paesi ex­
comunisti sono diventati in blocco il sostegno del pro­
lungamento all’infinito della sottomissione militare agli
USA. Servi miserabili dell’URSS prima, servi miserabili
degli USA adesso. Comunque, sono stanco di essere pre­
so in giro dalla retorica europeista. Francia, Germania e
la stessa Italia sono diplomaticamente tenute per la gola
dall’impero americano e dal suo abietto sacerdozio ideolo­
gico sionista. Se sfogliamo i nostri quotidiani stampati, li
vediamo pieni di bloggers cubani che invocano l’invasione
diretta americana, di giustificazioni per gli attentati terro­
ristici ceceni a Mosca, di inviti all’intervento armato con­
tro il benemerito patriota iraniano Ahmadinejad, eccetera.
Il circo mediatico, ormai parzialmente autonomizzato dai
suoi stessi referenti economici e finanziari, si è collocato a
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 291

“destra” della stessa diplomazia ufficiale. Recentemente,


mentre lo stesso Frattini difendeva gli operatori di Emer-
gency arrestati in Afghanistan., il circo mediatico italiano
gridava rabbioso che erano colpevoli, come se dei medici
pacifisti potessero seriamente allearsi con patrioti suicidi
disposti a farsi saltare in aria. Finché gli europei non si sa­
ranno liberati dal loro circo mediatico corrotto alleato con
il loro clero universitario occidentalista non ci sarà mai
nulla da fare. Ma siccome per ora questa liberazione appare
impossibile, bisogna concludere realisticamente che non si
vede una via di uscita a breve e medio termine. Sul lungo
termine saremo tutti già morti, comprese le generazioni
dei giovani e delle persone di mezza età.
Anche l’insieme dei paesi dell’America Latina non
mostra ancora una capacità di azione geopolitica unitaria,
nonostante alcune promesse (Chavez, Correa, eccetera). In
primo luogo, nonostante le lingue spagnola e portoghese
siano relativamente vicine e (parzialmente) mutualmente
comprensibili, le differenze culturali fra la grande area lu-
sofona (il Brasile) e l’area ispanofona sono molto grandi, ed
a mio avviso impediscono il parlare di una vera e propria
cultura comune. Il Brasile è sempre andato per conto suo,
e continua ad andare per conto suo, senza mai rinunciare a
politiche imperialistiche nei confronti dei suoi vicini (ad
esempio Bolivia e Paraguay). In secondo luogo, esistono
gravi contenziosi storici e territoriali fra i paesi latino­
americani (ad esempio Cile e Argentina, Perù ed Ecuador,
Colombia e Venezuela, eccetera), contenziosi in cui può
facilmente intervenire la superpotenza americana (pensia­
mo in Europa ai contenziosi storici fra greci e turchi e fra
romeni ed ungheresi). In quarto luogo, infine, le terribili
diseguaglianze sociali nella ripartizione delle ricchezze (su
questo piano il gigante Brasile è particolarmente scanda­
loso, e non sembra che il sopravvalutato Lula sia riuscito a
cambiare le cose) fanno si che esista una fragilità struttu-
292 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

rale all’interno di tutti questi stati nazionali. E pensiamo


al Messico, paese spesso associato ad una rivoluzione (che
ci fu peraltro veramente), in cui oggi la presenza di mafie
di narcotrafficanti armati ha fatto letteralmente “marcire”
la società civile di questo paese.
E si potrebbe continuare. Ma ciò che conta è che oggi
gli USA sembrano aver deciso di passare alla politica delle
basi militari permamenti (vedi la Colombia di Uribe), al
di là del loro tradizionale giardino caraibico di casa.
Aspettiamo un nuovo Simòn Bolivar. Ma sarà molto
più difficile di quanto lo sia stato al tempo degli spagnoli.
Il nemico è immensamente più forte.
293

Il futuro della filosofia e l’eterno presente nichilista

L a v e r it à f il o s o f ic a e il su o d is c o n o s c im e n t o

1) La filosofia conduce alla verità? 0 meglio, ci si chie­


de se il conseguimento della verità sia lo scopo della
filosofia. In tal caso, ci si chiede se la speculazione filo­
sofica, proprio perché preordinata a d tma qualunque
finalità veritativa, non sia viziata all’origine nei
suoi presupposti, nel senso che, ancor prim a che inizi
il suo percorso se ne siano già determ inati gli esiti ed
i contenuti. Tali considerazioni, sono proprie del no­
stro tempo, dato che ad essere messa in dubbio è pro­
prio la sussistenza stessa della verità filosofica. In fa t­
ti, la verità filosofica è oggi in massima parte discono­
sciuta, in qtianto risultato di una elaborazione con­
cettuale non suscettibile di riscontri obiettivi, perché
estranea alla verifica sperimentale. L’assenza d i una
problematica inerente i contenuti veritativi della f i ­
losofia nel nostro tempo è spiegabile, a mio avviso, in
base all’orientamento materialista - progressivo che
ha improntato la storia culturale dell’Occidente negli
ultim i due secoli. JJavvento dell’era moderna ha com­
portato dapprima il disconoscimento della dimensio­
ne trascendente propria delle religioni, a favore del
razionalismo e dell’empirismo prim a e dell’im m a­
nentismo filosofico poi. Quindi, la scienza e la tecno­
logia, operanti peraltro nell’8001’900 in un ambito
storico - sociale caratterizzato dal progressivo avan­
zare dell’economicismo liberista, hanno soppianta­
to la filosofia stessa, ormai relegata a materia per
specialisti, avulsa dal contesto storico presente. Due
fattori dunque hanno contribuito all’eclissi della ve­
rità filosofica: in prim o luogo quel processo di moder-
294 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

nizzazione definito da M ax Weber come “disincan­


tamento del mondo” che ha determinato il prim ato
del positivismo di fine ottocento ed in secondo luogo,
l’avvento delle ideologie totalizzanti del ‘900 (comu­
niSmo, fascismo, liberalismo), che ha comportato l’i ­
dentificazione dell’ideologia con la filosofia e quindi
con le grandi narrazioni storicistiche del ‘900. Si è
dunque affermata una filosofia della stenda di natu­
ra ideologica, le cui finalità hanno alla lunga oscu­
rato e strumentalizzato i fondam enti filosofici da cui
presero le mosse le ideologie stesse. Poiché il senso ed
il fine della storia postulato dalle verità ideologiche è
venuto meno con la fine delle ideologie novecentesche,
la filosofia è stata giocoforza coinvolta nel medesimo
fallimento. L’ambito proprio della filosofia è quello
relativo alla problematica dell’essere, problematica
oggi occultata perché soppiantata da quella dell’e-
sistere, il cui ambito è lim itato all’eterno presente,
avido di immediate, empiriche, mutevoli certezze che
governino appunto l’esistere nel tempo. Il clima di
relativismo, sia esistenziale che temporale, proprio
della contemporaneità, conduce alla elaborazione di
una verità di per sé autoreferente, priva cioè d i con­
tenuto veritativo, perché lim itata ad una dimensio­
ne positiva dell’uomo, svincolata dall’essere. La pro­
blematica dell’essere invece dovrebbe fondarsi sulla
riproposizione del pensiero dialogico - dialettico. La
dialettica hegeliana postula il principio d i contrad­
dizione, la compresenza d i concetti tra loro contrari,
ma legati da una logica che li rende compresenti e
compatibili (tesi e antitesi). Il metodo dialettico pre­
suppone qu in d i la compatibilità e la comparabilità
degli opposti, in quanto elementi inscindibili di un
processo logico che conduce alla sintesi. Tale processo
conoscitivo si rivela impraticabile nel contesto d i una
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 295

concettualità soggettiva relativista estremizzata che,


in tanto sussiste, in quanto si riveli incompatibile
ed incomparabile con l’altro da sé. Paradossalmente
l’impostazione dialettica condurrebbe ad un esito ni­
chilistico. La negazione del riconoscimento dell’altro
da sé non può che generare la negazione del sé, con
conseguente negazione assoluta dell’essere (un Hegel
capovolto).

Se un Ponzio Pilato postmoderno mi chiedesse a bru­


ciapelo che cos’è la verità sono sicuro che non mi sottrar­
rei opportunisticamente a questa domanda, ma gli darei
la mia risposta, senza nessuna sapienziale arroganza, ma
nello stesso tempo con tranquilla decisione. Mi occupo a
tempo pieno di filosofia da quasi mezzo secolo, e riterrei
moralmente ipocrita non essere ancora riuscito a dare la
mia risposta. La verità filosofica è una sola, ed è il pieno
riconoscimento razionale della natura solidale e comuni­
taria dell’essere umano, considerato universalisticamente
nello spazio (geografia) e nel tempo (storia). Questa è l’u­
nica verità filosofica che conosco, ma so bene che è difficile
che possa essere accettata, per un insieme di ragioni di cui
qui mi limito a ricordarne tre.
In primo luogo, la verità filosofica deve essere tenu­
ta ben distinta da altre categorie logiche spesso frettolo­
samente scambiate per la verità filosofica stessa, come la
certezza (l’acqua bolle a cento gradi, il sole è una stella, la
luna è un satellite, la glicemia è un segnalatore del diabe­
te, eccetera), l’esattezza (due più due fa quattro, Parigi è la
capitale della Francia), la sincerità (io ti amo), eccetera. La
verità filosofica c’è soltanto quando si da un giudizio ad un
tempo conoscitivo e moralmente valutativo (in linguaggio
tecnico, una unità di ontologia e di assiologia), mentre la
semplice conoscenza in assenza di contestuale valutazione
morale è caratteristica soltanto della cosiddetta “scienza”,
296 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

nella doppia forma delle scienze naturali (Galileo, New­


ton, Darwin, Einstein, eccetera) e delle scienze sociali pro­
grammaticamente svalutative (Max Weber).
In secondo luogo, la verità filosofica, oltre ad esserci
soltanto nel primo caso sopra segnalato (con esclusione
dell’accertamento scientifico, della coerenza e dell’esat­
tezza connotativa, che per loro natura escludono la valu­
tazione morale), c’è soltanto quando pone una pretesa di
universalità razionalmente e dialogicamente sostenibile,
e non c’è invece quando si limita a manifestare una pre­
ferenza personale senza pretesa di universalità (del tipo: a
me piace questo e quest’altro, mentre non mi piace questo
e quest'altro).
In terzo luogo, infine, è del tutto ovvio che la prin­
cipale obiezione che mi può essere fatta può essere più o
meno questa: sostenendo che la verità filosofica consiste
nel pieno riconoscimento universalistico della natura soli­
dale e comunitaria dell’essere umano tu non fai altro che
manifestare una tua legittima opinione (i sofisti greci e
Nietzsche, ad esempio la pensavano in modo esattamente
opposto). Questa tua opinione è però del tutto indimostra­
bile, e quindi resta una semplice opinione soggettiva, non
certo la pomposa, metafisica, premoderna ed inesistente
verità, da abbandonare ai preti ed ai profeti ideologici.
Tutto questo può sembrare ovvio, ma non lo è affatto.
In realtà, questa obiezione relativistica sorge all’interno di
un processo moderno (che va storicamente dal Cogito sei­
centesco di Cartesio all’Io penso settecentesco di Kant) che
riduce il tema della verità al tema della certezza del sog­
getto, o più esattamente alle procedure verificabili delle
modalità di accertamento di un soggetto preventivamente
reso generico ed astratto e costituito in modo formalistico
sulla base di una integrale destoricizzazione. Ridotta la ve­
rità a certezza, è evidente che solo le certezze possono essere
dimostrate sulla base dell’esperimento e della matematiz-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 297

zazione quantitativa del mondo. Il relativismo viene cosi


fondato su basi integralmente gnoseologiche ed epistemo­
logiche. Su questa base, solo le scienze della natura possono
essere “vere” (anche se ovviamente sempre rivedibili, veri­
ficabili, falsificabili e migliorabili mediante ipotesi sempre
più adeguate). Tutto ciò che non è sottoponibile ad espe­
rimento ed a matematizzazione è per sua natura opinabile,
e quindi non è vero. Il vero, se esiste, è soltanto il certo e
l’esatto. La filosofia è cosi ridotta a teatro retorico di irri­
levanti opinioni. Da questo vicolo cieco non se ne esce se
non si ha il coraggio di respingerne il presupposto, e cioè
la riduzione della verità filosofica a certezza scientifica veri­
ficabile. Ma è un’operazione che non fa quasi nessuno, per­
ché sono tutti spaventati dall’accusa infamante di essere dei
metafisici premoderni, come se la trasformazione attuata
da Kant dell’ontologia veritativa in gnoseologia accertativa
fosse l’equivalente del giudizio di San Pietro che decide in­
sindacabilmente chi può entrare in paradiso e chi non può
farlo. Ma se non ci si lascia spaventare da questa grottesca
ingiunzione tutto diventa immediatamente più chiaro.
La modernità borghese-capitalistica non sa che farsene
della verità (che gli antichi concepivano in modo filosofico
ed i medioevali in modo religioso) per il semplice fatto
che la legittimazione simbolica della società capitalistica
non è più di tipo filosofico (la verità come prodotto della
ragione umana) o di tipo religioso (la verità come corretta
interpretazione della natura di Dio), ma è di tipo inte­
gralmente economico. Il fondamento è allora il nesso fra
proprietà privata e valore di scambio delle merci (con il
lavoro umano come prima merce), e questo fondamento
per sua natura non è veritativo, in quanto basta accertarsi
del fatto che non c’è nulla di empiricamente accertabile
al di la della proprietà privata e del valore di scambio. La
metafisica è cosi integralmente trasformata nel nesso fra
empirismo ed utilitarismo, l’ontologia diventa gnoseolo-
298 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

già, la gnoseologia diventa la nuova teologia del capitali­


smo e degli apparati universitari normalizzati (Lukacs) ed
al posto della vecchia trinità viene insediata la separazione
fra categorie dell’essere (ontologia veritativa) e categorie
del pensiero (epistemologia accertativa).
Il discorso sarebbe lungo e qui è appena cominciato.
In sintesi, se qualcuno pensa di poter parlare di verità fi­
losofica, e nello stesso tempo accetta il terreno del kanti­
smo, del positivismo e del niccianesimo, ebbene, costui si
sbaglia, ed è come un topolino che, attratto dal pezzo di
formaggio, si chiude nella gabbia da solo.
Sostenere apertamente che la filosofia è una ideazione
integralmente veritativa in senso classico platonico-hege­
liano (e non scettico-relativistico) e darne anche una formu­
lazione determinata (come ho fatto in precedenza) provoca
immediatamente sconcerto ed irritazione, non solo perché
viola la regola postmoderna (il postmoderno sta ai sofisti­
cati intellettuali disincantati come Padre Pio sta al popolo
dei semplici credenti rimasti fermi alla scuola dell’obbli-
go), ma anche perché sembra un atto di presunzione tipico
di chi “ritiene di avere la verità in tasca”, e magari la vuole
anche imporre con inevitabili esiti autoritari e violenti. Ma
non è affatto cosi. Ad esempio io ritengo che la filosofia sia
una ideazione conoscitiva e veritativa, e non mi sottraggo
opportunisticamente dal dame una formulazione pubbli­
ca, ma non ritengo affatto di avere la verità in tasca, ed anzi
sono dispostissimo a sottoporla ad una pubblica discussio­
ne seria ed approfondita. Semplicemente ritengo (in com­
pagnia con i “classici” come Platone, Aristotele, Spinoza
e Hegel) che senza una comune intenzionalità veritativa
il cosiddetto dialogo non è che un torneo narcisistico di
trovate retoriche più o meno brillanti.
La filosofia deve quindi essere liberata da due gen­
darmi che la tengono ammanettata, la scienza naturale e
l’ideologia politica. La scienza naturale è una grande ide-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 299

azione conoscitiva, che però comprende soltanto la cono­


scenza e non la valutazione morale della totalità (totalità
che l’approccio kantiano e poi positivistico valuta come
inconoscibile). La filosofia è una interpretazione olistica
della totalità, non un rispecchiamento delle caratteristi­
che della natura astronomica, fisica, chimica o biologica, e
la sua sottomissione ai canoni del rispecchiamento scien­
tifico la uccide, come un pesce verrebbe ucciso dall’aria o
l’uomo dall’acqua. La riconversione della verità in certezza
del soggetto (Cartesio, Kant, positivismo) oppure la ridu­
zione della verità a semplice interpretazione (Nietzsche
ed il postmoderno) non sono semplici “errori”, ma sono
funzioni strutturali e sistemiche della riproduzione capi­
talistica, che non ha bisogno della verità ed anzi la aborre,
bastandole la relatività del potere d’acquisto delle merci
da parte dei soggetti individualizzati.
L’ideologia è invece una patologia diversa dalla prece­
dente. Mentre il relativismo nasconde l’assolutezza del­
la merce e del suo dominio, l’ideologia generalmente è
solo una teologia della storia divinizzata, per cui alla fine
la stessa storia non esiste più, e come ha detto un acuto
commentatore novecentesco, si ha “una storia spogliata
della sua forma storica”. In proposito, il congedo medi­
tato dal dominio ideologico è sempre una precondizione
necessaria (anche se non sempre sufficiente) per un ritor­
no alla filosofia correttamente intesa. L’ideologizzaziotie
della filosofia è però stata una peste novecentesca, oggi
tramontata, per cui, pur respingendola in modo netto
(personalmente, sono un “sopravvissuto” dalla riduzione
ideologica delia filosofia effettuata nel novecento dal mar­
xismo, e mi considero vaccinato come lo era dalla peste
Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi), non la considero
oggi un nemico pericoloso nella congiuntura storica at­
tuale (2010). Oggi il nemico principale della filosofia è
la sua riduzione positivistica a semplice supporto episte-
300 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

mologico alle scienze della natura (che per procedere non


ne hanno comunque nessun bisogno), patologia gemella
a quella del chiacchiericcio scettico-universitario di tipo
nichilista e relativista. Senza un ritorno ai classici non
vedo per ora nessuna salvezza.

La f il o s o f ia com e s c ie n z a d e l l ’essere

2) Come già affermato, l’oggetto della filosofia è l’essere.


E l’essere in tanto sussiste in quanto verità. Q uindi
la vocazione della filosofia è quella della elaborazione
di processi logico - concettuali il cui fine è il perve­
nire ad una verità universalmente riconosciuta. I
sistemi filosofici, sin dall’antichità, sono stati con­
cepiti come inclusivi della totalità della conoscen­
za, predisposti dunque alla rappresentazione e alla
comprensione della totalità dell’essere. L’avvento
della modernità ha generato una progressiva mol­
tiplicazione di scienze specialistiche che hanno m i­
nato profondamente la unitarietà e la globalità del
sapere, proprio della scienza filosofica. I l risultato
d i tale evoluzione è stato quello della proliferazio­
ne di tante scienze autoreferenti, tutte portatrici di
una propria verità parziale. Tutte le singole verità
sussistono, le une accanto alle altre, sviluppandosi
ognuna in base ai propri metodi e procedimenti tra
loro incompatibili. Ogni scienza è oggi chiusa in sé
stessa, nella consapevole ignoranza delle altre, dato
che la commistione tra le varie scienze condurrebbe
ad inficiare la linearità e coerenza logica dei singoli
processi conoscitivi. D inanzi ad un medesimo ogget­
to di ricerca abbiamo quindi una serie di analisi di-
versificate tra loro non assim ilabili data la diversità
dei rispettivi presupposti. Q uindi una medesima
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 301

problematica comporta un punto di vista scientifico,


economico, sociologico, psicologico, filosofico ecc... L’u­
nitarietà originaria del sapere filosofico si è dunque
disintegrata in una estrema parcellizzazione della
conoscenza in tante verità per loro logica interna
non inclusive. Ogni scienza, nel proprio atto fonda­
tivo contiene in sé la propria fin alità e le proprie
prospettive. Non vuole essere rappresentativa di
una totalità, semmai è indotta ad affermare le pro­
prie ragioni unilaterali per escludere e soppiantare
altre impostazioni d i altre scienze. Il campo della
conoscenza filosofica è stato ristretto ad un sapere che
si esaurisce nelle proprie elaborazioni fin i a sé stesse,
ma poiché tale condizione risulta essere innaturale
per la filosofia, quest’ultim a, data la diversità del
proprio oggetto e metodo di ricerca conoscitiva, fin i­
sce per essere m ai compatibile con le altre ed essere,
in conseguenza, emarginata e vanificata nei suoi
presupposti. Ciò che diversifica la filosofia dalle altre
scienze, è proprio d i non avere finalità presupposte,
in quanto portatrice di una conoscenza e coscienza
dell’essere che non può essere inglobata in qualsivo­
glia specialistico e riduzionistico processo conosciti­
vo. La filosofia ha in fa tti per oggetto la creazione di
modelli rappresentativi della totalità del reale. La
filosofia è scienza dell’essere in quanto la sua voca­
zione originaria è quella di costruire delle sintesi del
reale che includano e trascendano le fin alità parzia­
li delle varie categorie della conoscenza. La filosofia
prende le mosse da una ricerca di senso propria della
natura um ana che si interroga, senza m ai risposte
definitive, intorno al proprio essere nella realtà da
cui poi scaturiscono le finalità della scienza, della
politica, dell’arte e di ogni qualsivoglia categoria del
pensiero e dell’agire umano nel mondo.
302 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Sono pienamente d ’accordo sul fatto che l’Essere (scrit­


to maiuscolo, e quindi sostantivizzato) è il principale og­
getto della filosofia. Se scriviamo “essere” minuscolo il
termine diventa un verbo ausiliario che fa generalmente
da copula fra sostantivo ed aggettivo (la ragazza è bella)
o stabilisce una modalità empirica di esistenza fattuale
(Londra è in Inghilterra). Questa riduzione dell’essere a
irrilevante copula è non a caso proposto dagli avversari del
carattere veritativo della filosofia (il più recente è Andrea
Moro, Breve storia del verbo essere, Adelplii, Milano 2010),
ma costoro non scoprono assolutamente nulla, perché ad
esempio nella lingua turca il verbo “essere” non esiste
nemmeno e non si può neppure sostantivare, riducendosi
a suffisso incorporato nell’aggettivo (risparmio possibili
esemplificazioni didattiche per pietà verso il lettore).
La tradizione filosofica occidentale, vecchia ormai di
duemilacinquecento anni, nasce invece da una sostanti-
vizzazione del verbo essere (che diventa quindi l’Essere con
la maiuscola, alla faccia dei nominalisti e degli empiristi).
Da Parmenide in poi l’Essere rappresenta in forma meta­
forica la permanenza e la stabilità della verità nel tempo, o
se si vuole quella parte della verità che non può essere cor­
rosa e distrutta dalla morte e dal tempo. E tuttavia coloro
che si limitano a coniugare il verbo essere in modo astrat­
tamente logico, mostrandone l’incompatibilità con il pro­
venire e con il finire nel Nulla (ad esempio in Italia Ema­
nuele Severino) non ci aiutano assolutamente ad impadro­
nirci concettualmente del problema, ed anzi ci portano
verso una strada sbagliata. Il termine di Essere nasce nella
Grecia antica (Parmenide) come concetto integralmente
storico, politico e sociale, ed indica la perfezione immuta­
bile della buona legislazione pitagorica il cui abbandono
porterebbe alla dissoluzione della comunità politica, dis­
soluzione metaforizzata con il termine di Nulla. I filoso­
fi antichi si pensavano ed erano legislatori comunitari, e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 303

pertanto non erano assolutamente “intellettuali” nel senso


moderno del termine (cfr. Z. Bauman, La decadenza degli
intellettuali, Bollati, Boringhieri, Torino 1992). In quanto
concetto politico comunitario il termine di Essere riflette
unicamente la concezione greca della buona vita associata
{eu zen) dell’uomo come animale politico (politikòn zoon).
Nell’antica Grecia mancava una religione monoteisti­
ca rivelata dotata di scritture sacrali di riferimento (tipo
la Bibbia o il Corano) di cui una casta di sacerdoti potesse
rivendicare il monopolio interpretativo, per di più dotato
di strutture poliziesche coattive (inquisizione, eccetera). È
chiaro che la mitologia greca non si prestava alla funzione
di religione monoteistica coattiva di riferimento, ed anzi
il suo carattere apertamente “mitico” faceva da presuppo­
sto per una libera decostruzione simbolica di tipo raziona­
listico {logos). L’umanesimo greco (se ne veda la brillante
interpretazione del filosofo italiano Luca Grecchi) non si
poteva sviluppare sulla base “mimetica” del riferimento
ad una divinità personale trascendente (Tommaso d’A-
quino, Josef Ratzinger, eccetera), ma si costruiva razio­
nalmente sulla base del primato del solidarismo politico
comunitario sugli interessi privati (e si veda l’opportuna
distinzione aristotelica fra economia e crematistica, ignota
alla autofondazione moderna dell’economia su sé stessa di
David Hume e di Adam Smith).
I pensatori classici che vengono dopo Parmenide (So­
crate, Platone, Aristotele, Epicuro, gli stoici) contestano
certamente la sua concezione di Essere (anche e soprattutto
perché il loro contesto storico e sociale non può più essere
quello della buona legislazione pitagorica immutabile da
conservare nella sua perfetta stabilità), ma mantengono
interamente la concezione di Essere (sostantivato, e quin­
di non kantianamente diviso fra categorie ontologiche e
categorie gnoseologiche), inteso come metafora filosofica
astrattizzata dell’unità inscindibile della comunità politi­
304 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ca. Persino Epicuro, che è il solo filosofo classico a porsi


al eli fuori della sfera politica propriamente detta, di fatto
si pone anche lui come un ideale legislatore comunitario,
perché il suo gruppo solidale di amici può servire da mo­
dello per una futura convivenza umana priva di istituzio­
ni coattive (e dal modello di convivenza amicale epicurea
derivano, sia pure con numerose mediazioni storiche, le
concezioni di Fichte e di Marx sulla futura possibile estin­
zione dello stato).
È del tutto normale che l’avvento del cristianesimo
portasse ad una progressiva identificazione del concetto
greco di Essere con la divinità monoteistica rivelata, anche
se questo contesto non viene comunque mai integralmen­
te “desocializzato” (come in Hobbes e Locke) e “destori­
cizzato” (come in Cartesio e Kant) come avverrà più tardi
con l’avvento del modello capitalistico di società. Ma que­
sto richiede una riflessione ulteriore.
Paragonata alla luminosa chiarezza razionale dell’insu­
perabile filosofia greca classica la filosofia medioevale può
certo essere interpretata in termini di decadenza (o più
pudicamente di abbassamento di livello), dal momento
che tutte le precedenti categorie filosofiche vengono rein­
terpretate e tradotte in termini di categorie teologiche, ed
in questo modo vengono sottomesse alla “sorveglianza” di
odiosi apparati ecclesiastici. Io stesso ho sostenuto a lungo
questa tesi come professore di filosofia e storia nei licei, ma
mi sono progressivamente reso conto che si trattava di una
semplificazione “laicista”. Sia pure incapsulato all’interno
di un pesante apparato categoriale teologico il pensiero
francescano e domenicano europeo (e più ancora quello
averroista) mostra una capacità di interpretazione della
totalità sociale molto maggiore del cosiddetto “pensiero
moderno”, ed in ogni caso molto maggiore del kantismo,
del positivismo e del postmoderno. Se si esamina colui
che resta forse il più grande filosofo medioevale, l’italiano
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 305

Dante Alighieri, vediamo che le categorie teologiche non


solo sono mescolate con una insuperabile espressività poe­
tica (e qui le distinzioni di Benedetto Croce appaiono ina­
datte a cogliere l’unità della sua arte), ma anche notiamo
che le categorie teologiche sono sempre categorie storiche
e sociali, laddove il kantismo, il positivismo e il postmo­
derno sono sempre caratterizzati dalla desocializzazione
(il punto di vista illusorio dell’individuo posto robinso-
nianamente come originario) e dalla destoricizzazione (la
costruzione astratta e formalistica del soggetto ridotto in­
variabilmente ad unità di accertamento gnoseologico di
un dato conoscitivo che si vuole ad ogni costo “neutrale”).
Senza la massiccia adozione della filosofia greca il
cristianesimo non avrebbe potuto distinguersi di fatto
dall’ebraismo, cui è ignoto il concetto di incarnazione e
quindi di trinità. A qualcuno questo potrebbe forse anche
piacere (ad esempio agli sciocchi che vorrebbero una in­
tegrale “de-ellenizzazione” del cristianesimo e che al po­
sto del cristianesimo vorrebbero un insipido monoteismo
ribattezzato ebraico-cristiano come base di una identità
occidentale anti-islamica), ma a me no. E non solo no, ma
mille volte no.
Detto questo, non tutto il pensiero detto impropria­
mente “moderno” ha perduto il concetto di Essere e l’in­
tenzione veritativa della filosofia classica. Si tratta prati­
camente della sola scuola filosofica di Fichte e di Hegel,
cui aderisco. Lo stesso Marx, filosoficamente parlando, mi
interessa esclusivamente in termini di pensatore tradizio­
nale (non progressista, e non certamente laico) e di filosofo
idealista (e non materialista, che è poi di fatto sempre si­
nonimo di positivista).
La tua insistenza sul rapporto tra filosofia e conoscenza
valutativa della totalità storica e sociale è assolutamente
corretta ed opportuna. C’è filosofia soltanto quando siamo
in presenza di una pretesa dialogica e razionale, e quindi
306 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

potenzialmente universalizzabile senza violenza, di una


valutazione veritativa della totalità storica e sociale. Per
la descrizione dei drammi individuali e dei grandi affre­
schi storici la letteratura è molto migliore della filosofia,
e Dickens, Manzoni, Flaubert e Tolstoj sono migliori di
Hegel, Marx e Heidegger. Per questo il cosiddetto “esi­
stenzialismo” non è e non è mai stato una corrente filo­
sofica, ma una corrente letteraria che utilizzava impro­
priamente una terminologia filosofica. E quindi bisogna
valutare molto negativamente la corrente principale della
filosofia moderna degli ultimi trecento anni, che ha fat­
to il possibile per delegittimare la categoria della totalità
(con poche eccezioni, fra cui Hegel ed anche parzialmente
Marx quando non si lascia gravitazionalmente attirare dal
positivismo antifilosofico, peste del marxismo successi­
vo, un povero positivismo di sinistra a base gnoseologica
neokantiana). Si tratta di un fenomeno paragonabile alla
catastrofe della nazionale di calcio italiana ai Mondiali del
Sud Africa del giugno 2010. Questa catastrofe è avvenuta
in due momenti successivi. Prima è stato costruito artifi­
cialmente un soggetto conoscitivo formalizzato, del tutto
destoricizzato e desocializzato (Cartesio, Kant), titolare di
una proprietà privata originaria fondata sul lavoro indivi­
duale (Locke) e di una autofondazione su se stessa dell’e­
conomia politica non più distinta dalla semplice cremati-
stica (Hume). Poi si è distrutto questo soggetto astratto
divenuto inutile (Hume, Nietzsche), ed il colpo di grazia
è stato dato dalla cosiddetta “filosofia della mente” anglo-
sassone, che gli ha tolto definitivamente ogni storicità e
socialità (per questo si veda il recente significativo saggio
di E. Boncinelli e M. Di Francesco, Che fine ha fatto l’io,
Editrice San Raffaele, Milano 2010). Con la cosiddetta fi­
losofia della mente si è toccato veramente il fondo. Ora si
tratta di cercare di risalire.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 307

I n d iv id u a l is m o e t o t a l it à s t o r ic a e so ciale

3) Vuomo contemporaneo, quale prodotto idtimo d i un


“progressivo processo d i liberazione” che ha compor­
tato la sua “liberazione” dall’oscurantismo religioso
prim a e totalitarismo delle ideologie poi, dovrebbe
rappresentare la fase compiuta dell’individuo libe­
ro, razionale, principio e fine di sé stesso, in quanto
creatore autonomo del proprio destino teorizzato dal­
la cultura liberale. Ormai sepolte religioni ed ideolo­
gie, l’uomo contemporaneo sarebbe però privo d i ogni
alibi riguardo agli orrori delle guerre, delle stragi,
dei genocidi del passato, che tuttavia continuano a
perpetuarsi in nome della libertà, dei d iritti umani,
dell’economia del libero mercato. I l dominio del capi­
talismo su scala mondiale, non ha certo né unificato
né redento l’um anità. Vindividuo ormai liberato da
ogni fondamento metafisico non può in fa tti né de­
cidere né determinare alcunché nel contesto di una
società dominata da un libero mercato in cui l’uomo
è ridotto a elemento del processo di produzione - con­
sumo. Esso stesso è divenuto “fattore di creazione del
valore” e la stessa economia di mercato si è trasfor­
mata in “società di 'mercato”, poiché le dinamiche
dei processi economici hanno invaso ormai tu tti gli
am biti dell’attività umana. Tale esito è il necessario
e logico compimento già insito nelle premesse della
ideologia liberale. Il liberismo ha prevalso stille ce­
neri delle utopie ideologiche, non trovando dinanzi
a sé p iù alcun antagonista e ha imposto quindi un
sistema economico, politico e culturale già in crisi e
storicamente superato nel secolo scorso. Il progressi­
smo liberista è stato oggetto di una nemesi storica.
Anziché creare evoluzione e progresso ha imposto una
restaurazione tecnologicamente e ideologicamente
308 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

aggiornata dallo sponsor globale USA. Uindividuo


è dunque tale solo nell’ambito d i un individualismo
atomistico che ha reciso i legami comunitari e per­
tanto, l’individualismo liberale si è imposto come
principio di negazione della innata natura sociale
dell’uomo. Uindividuo è tuttavia alla base di ogni
problematica di ispirazione umanistica, che ponga
al centro della sua impostazione l’uomo. Uindividuo
stesso, da te definito “unità m inim a d i resistenza”,
è oggi soggetto ad un processo di disgregazione as­
sai preoccupante. S i definisce in - dividilo una unità
umana d i per sé indivisibile. Esso tuttavia è oggi
oggetto di trasformazioni manipolatorie che ne de­
terminano la scissione mediante la sua alienazio­
ne in ta n ti io quante sono le molteplici personalità
funzionali ai processi di massificazione. Prendiamo
a prestito il concetto d i “dividuo” esposto nel libro di
Marco Della Luna “Neuroschiavi”, per mettere in
luce la labilità psicologica collettiva e la plasm abili­
tà della personalità dell’uomo contemporaneo. Esso è
materia prim a per la creazione di ta n ti io virtuali
prodotti dalle tecniche di persuasione mediati che, da
una economia che richiede flessibilità e funzionalità
sempre p iù diversificate per essere compatibili con
le sue rapide trasformazioni. L’unità inscindibile
dell’individuo è oggetto d i una vivisezione globale le
cui conseguenze, dal punto d i vista antropologico e
storico - sociale sono ancora imprevedibili.

La tua terza domanda presuppone una reinterpretazio­


ne plausibile del rapporto fra l’individualità e la totalità
storica e sociale in un periodo storico caratterizzato pro­
prio dalla perdita esplicita di questo rapporto, che invece
faceva da base sia al pensiero antico (in forma politica) sia
al posteriore pensiero medioevale (in forma religiosa). Per
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 309

questo propongo di prendere in considerazione il recente


saggio dell’oligarca finanziario Eugenio Scalfari (Per l’alto
mare aperto, Einaudi, Torino 2010). Lo prendo in conside­
razione in forma semplicemente contrastiva, perché la mia
interpretazione della modernità è assolutamente opposta a
quella di Scalfari, e quindi la mia posizione può essere com­
presa proprio in rapporto contrastivo con la sua, una sorta
di Bibbia laica e laicista prète-à-porter, quanto di peggio io
possa concepire nei miei peggiori incubi filosofici notturni.
Scalfari fa iniziare la modernità con lo scetticismo di
Montaigne, poi perfezionato e sistematizzato da Diderot.
Si tratta di una mossa per nulla ovvia ed innocente. Anch’io
leggo ed apprezzo Montaigne e Diderot, ma non mi so­
gnerei mai di far cominciare la filosofia moderna con una
mossa scettica originaria, un po’ come i manuali di storia
della filosofia che la fanno incongruamente e follemente
cominciare con l’acqua di Talete. Ma per Scalfari la mossa
scettica originaria è necessaria, perché serve a fondare la
sua interpretazione della Modernità, compendiabile in ter­
mini di liberazione dell’Individuo dagli Assoluti (prima di
tutto il Dio monoteistico cristiano, e poi la sua imperfetta
secolarizzazione nella teodicea marxista della Storia).
La Modernità ha quindi un fondamento positivo, l’In­
dividuo, ed un fondamento negativo, gli Assoluti. Scalfari
non si rende probabilmente conto che questa dicotomia
è soltanto una povera secolarizzazione positivistica della
precedente dicotomia religiosa cristiana fra un principio
positivo, Dio, ed un principio negativo, il Demonio. Ma
questo caratterizza la falsa coscienza del pensiero cosid­
detto “laico”, che dalla religione prende sempre sistema­
ticamente soltanto il peggio (la sicumera e la pretesa as­
solutistica) e tralascia sempre sistematicamente il meglio
(la considerazione veritativa della totalità in termini di
carità, solidarietà, cominità sulla base ontologica dell’uni­
tà metafisica fra conoscenza e valutazione morale).
310 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Secondo la migliore tradizione religiosa (il laicismo in­


dividualistico e scettico, nichilista e relativista è infatti la
peggiore delle religioni mai esistite nella storia) esiste una
Origine, e questa creazione simbolica del mondo moder­
no è la liberazione dell’Individuo dagli Assoluti. La totale
incapacità di Scalfari di effettuare una deduzione sociale
delle categorie del pensiero fa si che il nostro oligarca fi­
nanziario non possa capire la natura destoricizzata e deso­
cializzata del pensiero moderno, che presuppone in modo
ultrametafisico un soggetto costituito in forma astratta e
formalizzata (il Cogito di Cartesio, poi genialmente criti­
cato da Vico, l’Io Penso di Kant, poi genialmente criticato
da Fichte e da Hegel) ed omogeneizza l’intero spazio con
il materialismo e l’intero tempo con il progressismo (di
cui Scalfari non può capire l’affinità funzionale e strut­
turale con la legittimazione della proprietà capitalistica).
Ma è bene mostrare brevemente in modo contrastivo dove
cadono i due principi metafisici scalfariani, l’Assoluto e
l’Individuo.
Iniziamo dall’Assoluto. Scalfari inneggia alla demoli­
zione illuministica del vecchio Assoluto religioso cristia­
no, ignorando il fatto che gli illuministi stavano dando il
colpo di grazia ad un vegliardo morente, perché questo
assoluto religioso, che aveva legittimato simbolicamente
per un millennio in Europa la società feudale e signori­
le, non legittimava ormai più nulla, perché il capitalismo
non si legittima più con l’assolutezza della religione ma
con l’assolutezza dell’economia. La fondazione dello scam­
bio capitalistico su se stesso, in assenza di fondamenti
religiosi (l’esistenza di Dio), politici (il contratto socia­
le) e filosofici (il diritto naturale), equivaleva alla prova
ontologica dell’esistenza di Dio, perché era egualmente
tautologica ed autoreferenziale. Questa prova ontologica
dell’eternità del capitalismo fu preparata teoricamente
da David Hume, e poi perfezionata economicamente da
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 311

Adam Smith (la mano invisibile del mercato, equivalente


al secolarizzato della teoria di Leibniz sull’armonia presta­
bilita di Dio).
Gli Assoluti non erano cosi per niente distrutti, ma
semplicemente ad un assoluto se ne sostituiva un altro,
all’inizio apparentemente meno invasivo e pericoloso (il
“dolce commercio” contro le pressioni guerresche nobi­
liari e le guerre di religione), ma poi con il tempo (e ba­
sta vedere la scandalosa diseguaglianza delie ricchezze nel
mondo attuale) sempre più invasivo e distruttivo. Altro
che distruzione razionialistica degli Assoluti da parte del
libero pensiero illuministico! Ma almeno l’illuminismo
ha giocato un ruolo storicamente positivo nella delegitti­
mazione di strutture effettivamente ingiuste e dispotiche,
mentre Scalfari non è più per nulla un illuminista o un
loro successore, in quanto fa parte integrante ed organica
delle oligarchie dominanti della globalizzazione, e cioè
del meccanismo apparentemente anonimo ed impersona­
le della svalorizzazione e della precarizzazione del lavoro
umano. Il distruttore degli Assoluti è semplicemente l’a­
pologeta di un nuovo ed odioso Assoluto, laddove il solo
vero “assoluto” degno di questo nome è la natura comuni­
taria e solidale del genere umano.
Anche l’Individuo divinizzato da Scalfari non si sente
troppo bene. La dinamica dialettica degli ultimi due seco­
li lo ha progressivamente sottomesso al dispotismo di in­
siemi economici e sociali automatizzati, e questo lo hanno
almeno capito i francofortesi ed Heidegger, e anche se i
primi si sono autorinchiusi in un rinvio illimitato della
prassi ed il secondo è arrivato alla sapienziale (ed ipocrita)
conclusione che solo un Dio può ancora salvarci (il mantra
di Umberto Galimberti, complementare alle pagatissime
conferenze della parte più colta ed inquieta dell’oligarchia
finanziaria dominante). Liberatosi di Ratzinger, conse­
gnate le plebi pre-illuministiche a Padre Pio, al miracolo
312 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

di San Gennaro ed alia Sindone di Torino (un manufatto


medioevale di accertata origine), l’individuo scalfariano
si è riconsegnato ad un nuovo assoluto, la globalizzazio­
ne, la speculazione finanziaria, il “giudizio dei mercati”,
Moody’s, la Goldman Sachs, la religione olocaustica di
colpevolizzazione illimitata dell’Europa costellata di basi
atomiche USA, eccetera. Scalfari si rende vagamente con­
to che il suo individuo volterriano non legge più Goethe
o Montaigne, ma ha subito un processo di involgarimento
berlusconiano costellato di veline, escort e semplici putta­
ne. E quindi spenglerianamente preoccupato per la deca­
denza della civiltà. Non nascondo personalmente di pre­
ferire astrattamente il volgare Berlusconi alla sua spocchia
elitaria, e considero il servilismo dei suoi recensori (da
Barbara Spinelli ad Alberto Asor Rosa) l’ennesima ma­
nifestazione dell’inguaribile servilismo della casta degli
intellettuali, che non perdono mai occasione per far capire
di non capire mai assolutamente nulla dei veri problemi
filosofici epocali cui siamo confrontati.

Il fu turo d e lla f il o s o f ia e la d o m a n d a d i senso

4) La filosofia ha un fu tu ro ? D al corso delle cose pre­


senti, sembra che la risposta negativa sia inevita­
bile. ÌJavvento della società globalizzata, ha deter­
minato il prevalere del capitalismo assoluto, che è
tale in quanto unico modello di sviluppo economico
e sociale. In tale contesto epocale si è assistito, dopo
la fine delle ideologie, ad un eclisse (o tramonto?)
del pensiero filosofico forse m ai riscontrabile nella
storia dell’Occidente. La filosofia, spogliata del suo
contenuto veritativo, estraniata dalla sua dimensio­
ne storica, è stata espropriata della sua originaria
vocazione. Quella di costituire la scienza dell’essere.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 313

Q uindi la filosofia attuale ha come oggetto della sua


speculazione la contingenza mutevole e provvisoria
di un eterno presente, concepito come perpetuo dive­
nire destoricizzato. Ma ci si domanda allora, se una
filosofia, che prescinda da un processo di razionaliz­
zazione della realtà, possa definirsi tale. Così come
un pensiero che intraprenda una analisi del presen­
te, privo della sostanza dell’essere e svincolato dalla
storia, non si configuri come una sorta di nichilismo
im m anente senza soluzioni. Una filosofia che, in un
periodo storico caratterizzato dalla adesione acritica
all’esistente economico globalizzato, si inserisca nella
dimensione della necessità, non è p iù filosofia. In fa t­
ti, la filosofia attuale si è estraniata dalla problema­
tica veritativa e si astrae dalla ricerca di senso, ha
la funzione di trovare conferme e creare legittim ità
ad un esistente globalizzato che non abbisogna di al­
cun im prim atur filosofico. Questo latente nichilismo
di fondo lascia però inevasa la domanda di senso di
una um anità che, per quanto alienata e manipo­
lata, non potrà m ai fa re a meno di interrogarsi sul
senso e sul destino di sé stessa. La filosofia non potrà
m ai essere soppressa, perché l’uomo non potrà m ai
essere sradicato dalla sua dimensione storica e dalla
necessità di interpretare l’origine e ilfine di sé stesso.
Il concetto espresso da M. Badiale e M. Bontempel-
li “pensare il presente come storia” è fondamentale
per comprendere la necessità dell’uomo odierno di ri­
trovare una propria dimensione nel divenire della
storia ed elaborare quel pensiero fondamentale che
fornisca una interpretazione logico - concettuale de­
gli eventi del passato e del presente e, nel contempo,
possa delineare il senso di un possibile futuro. I l n i­
chilismo generato dall’economicismo totalizzante del
presente, nella sua azione devastatrice, non potrà,
314 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

alla fine, col progressivo collassare di un modello socio


- economico antistorico ed antiumano, che negare sé
stesso. In tal modo, il nulla nichilistico del presente
non potrà che fa r rivivere l’essere, quale termine lo­
gico - necessario di contrapposizione dialettica. Disse
in fa tti Dostoevsky che non si può conoscere l’essere se
non si è provata la vertigine del nulla.

Prese nel loro insieme, al di là di qualche individualità


statisticamente irrilevante, le strutture universitarie mon­
diali delle facoltà di filosofia sono diventate un Sacerdozio
dell’Insensatezza, la cui finalità è proprio quella di diffon­
dere fra le giovani generazioni l’idea che la totalità non
esiste (in quanto Kant insegna che è comunque gnoseolo-
gicamente inconoscibile perché non spazio-temporalizza-
bile fenomenicamente), e se per caso qualcuno volesse ad
ogni costo concepirla è totalmente insensata, perché Dio è
morto, chi ci crede può facilmente diventare un pericoloso
fondamentalista (solo gli ebrei sono parzialmente esentati,
in quanto sacerdoti dell'espiazione di un Male Assoluto
imparagonabile a qualunque altro) eccetera.
Sarebbe ingenuo credere il contrario. In una società
liberalizzata nei costumi sessuali individuali, ma nello
stesso tempo ferreamente organizzata sia pure in forma
apparentemente flessibile, sarebbe strano che le oligarchie
finanziarie dominanti non spingessero la loro influenza
indiretta anche sui temi della preparazione filosofica delle
giovani generazioni. La domanda di senso sulla totalità
storica e sociale in cui viviamo rinasce infatti in ogni ge­
nerazione, per cui una società fondata su fondamenti in­
sensati non può che promuovere l’equazione Sensatezza =
Insensatezza e “spegnere il microfono” a tutti coloro che in­
vece sostengono che la filosofia ha come oggetto esclusivo
la verità dell’essere della totalità. In quello che dico non
c’è alcuna enfasi catastrofica, e soprattutto non c’è nessuna
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 315

teoria del complotto. Non penso affatto che il capitalismo


sia una sorta di Organizzazione Spectre alla James Bond che
pianifica maniacalmente la consegna delle cattedre di filo­
sofia a postmoderni nichilisti, ad epistemologi irrilevanti
ed a filosofi della “mente” del tutto inutili. In linguaggio
althusseriano, si tratta di una causalità sistemica e strut­
turale, non di un complotto diretto da oligarchi che han­
no capito che la gnoseologia di Kant ed il nichilismo di
Nietzsche sono per loro elementi culturali di legittima­
zione più affini di quanto lo possano essere la dialettica
veritativa di Hegel o la teoria dell’alienazione di Marx. E
quindi, nessuna paranoica teoria del complotto. Il fatto
che uno dei nemici principali della filosofia sia l’apparato
universitario ed editoriale delle facoltà di filosofia è per
me un dato strutturale, e non una mania complottistica e
paranoica. Il sistema in cui viviamo deve sistematicamen­
te favorire l’assolutezza dell’economia, la privatizzazione
della religione, l’insensatezza della filosofia, la riduzione
calcistica del nazionalismo identitario, l’abolizione delle
differenze fra alta cultura e cultura popolare, l’omologa­
zione multiculturalistica su basi anglosassoni, la prevalen­
za simbolica delle minoranze sessuali sulle normali banali
famiglie, la superiorità dei pubblicitari sugli insegnanti,
la droga e gli psicofarmaci, la riduzione del pacifismo ad
ostensione ritualizzata di tipo belante-pecoresco (con ai
margini rotture di vetrine da parte di esagitati e marginali
in passamontagna), eccetera. La sorte attuale della filosofia
deve quindi essere inquadrata all’interno di almeno una
trentina di determinazioni sistemiche e strutturali, e non
può essere indagata separandola da queste ultime.
Il concetto di fine della filosofia deve essere accura­
tamente distinto da quello di crisi della filosofia (do per
scontato che per filosofia intendo soltanto l’interrogazione
veritativa della totalità, metaforizzata con il termine di
Essere, mentre escludo esplicitamente ogni tipo di re-
316 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

torica sofistica, gnoseologica, relativismo, nichilismo ed


esistenzialismo). La fine della filosofia è semplicemente
impossibile (come peraltro la fine dell’arte o della religio­
ne), perché la domanda individuale e collettiva di senso
fa parte della natura umana come la sessualità o l’amore
materno. Chi ne parla seriamente è semplicemente uno
sciocco che non sa resistere alle mode a rapida obsolescen­
za (oggi parlare di “fini” è un genere giornalistico per la
categoria più stupida del mondo, quella degli intellettuali
postmoderni). Le crisi filosofiche invece esistono, e sono
“ricorsive” (per usare un termine che La Grassa usa per
l’economia). Tutta la storia della filosofia occidentale può
essere ricostruita sulla base di crisi ricorsive. Oggi siamo
però di fronte ad una situazione che esclude ogni teoria
delia semplice ricorsività, perché siamo di fronte ad una
novità qualitativa, quella di una socialità dominata esclu­
sivamente da una dittatura assoluta e totalitaria di una
crematistica finanziaria che si nasconde sotto il nome ari­
stotelico di “economia”. Ripeto che questa novità (perché
di novità si tratta, come la novità del nesso fra alienazioni
e uomo precario studiata da Eugenio Orso) non può essere
esaminata su semplici basi analogiche ricorsive, perché da
luogo ad un panorama completamente nuovo.
In quanto pensatore formatomi in un contesto storico
ormai sorpassato, quello della con trapposizione fra comu­
niSmo storico novecentesco e capitalismo ancora indu­
striale e keynesiano (e quindi non ancora globalizzato),
non mi considero in grado di descrivere, sia pure a grandi
linee, i lineamenti fondamentali di una filosofia del fu­
turo, che certamente verrà, anche se nessuno può per ora
sapere quando. Alcune lezioni però le ho tratte, e sono
orgoglioso di essere riuscito a trarle.
In primo luogo, sono orgoglioso di essere riuscito a
sfuggire alla “vulgata laicisita” del kantismo, del positi­
vismo e del postmoderno, riuscendo nello stesso tempo a
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 317

mantenere la critica globale alla falsa totalità del sistema


capitalistico. Non era scontato, dati gli esiti miserabili
della miserabile generazione del Sessantotto.
In secondo luogo, sono orgoglioso di essermi progres­
sivamente (e faticosamente) affrancato dalla ideologizza-
zione positivistica identitaria del marxismo, e di quella
sua ultima ricaduta che è il mantenimento della dicotomia
Destra/Sinistra in un contesto storico che l’ha superata del
tutto. Le scuole filosofiche non sono mai né di destra né
di sinistra, anche se molti loro aderenti lo possono legit­
timamente essere. Ad esempio i tre più grandi esponenti
della migliore scuola filosofica italiana del novecento, il
neoidealismo italiano e cioè Giovanni Gentile, Benedetto
Croce ed Antonio Gramsci, erano uniti dal codice filosofi-
co (il neoidealismo, appunto), mentre politicamente l’uno
era fascista, l’altro liberale e l’ultimo comunista. Analo­
gamente alcuni feroci anti-idealisti, come i comunisti
Galvano Della Volpe e Ludovico Geymonat ed i liberali
Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano, avevano un codi­
ce filosofico comune (positivistico ed anti-idealistico), ma
posizioni politiche diverse.
In terzo luogo, infine, la dicotomia Atei/Credenti ha
forse qualcosa a che fare con i matrimoni ed i funerali re­
ligiosi o civili, ma non ci dice assolutamente nulla sulla
pertinenza delle analisi filosofiche. Io non sono presonal-
mente un credente, ma ritengo che l’analisi critica del­
lo storicismo e dei suoi esiti dissolutori fatta dal filosofo
cattolico Augusto Del Noce immensamente migliore di
quelle dei replicanti progressisti della sinistra italiana,
che provocherebbero oggi vergogna ed imbarazzo quando
ormai sappiamo bene come le cose sono andate a finire.
La filosofia non è morta, ed è sicuro che ci sopravvivrà.
Come, però, non possiamo saperlo.
318

Rivolta delle élites e disfacimento del capitalismo

U n a l o t t a d i classe ca po v o lta

1) Le soluzioni alla crisi economico - finanziaria del


2008 appaiono incerte e problematiche. Esse in fa t­
ti vengono costantemente ricercate all’interno di un
sistema finanziario globale, che non viene messo in
discussione, semmai, ne vengono criticati solo deter­
m in a ti eccessi. Le ricorrenti crisi dell’economia capi­
talista hanno sempre dato luogo a profonde trasfor­
mazioni degli equilibri politico - sociali preesistenti,
con la conseguenza di espandere la base produtti­
va. Inoltre, la conflittualità sociale scaturita dalla
crisi ha sempre condotto all’ampliamento sia della
sfera dei d iritti sociali dei lavoratori che della par­
tecipazione politica delle masse. Le evoluzioni del
capitalismo, per due secoli sembrano avere seguito
tale direttiva come fattore costante del suo svilup­
po storico. Oggi, la crisi globale sembra invece aver
prodotto una fase involutiva del capitalismo stesso.
In Italia e in tutto l’Occidente, si va delineando in ­
f a tt i un “autunno caldo del capitalismo”, in cui è la
classe dominante dell’economia a pretendere riforme
economico - sociali sistemiche, che comportano pro­
fo n d i m utam enti nella legislazione del lavoro, con la
conseguenza di stravolgere materialmente un assetto
normativo costituzionale ispirato allo stato sociale e
alla solidarietà tra le classi. G li investim enti della
F iat in Italia sarebbero possibili, secondo Marchion-
ne e Confindustria, qualora si operassero ampie de­
roghe alla attuale contrattazione collettiva, alla le­
gislazione del lavoro, alla rappresentanza sindacale,
al fine di rendere competitiva l’industria italiana
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 319

nel mercato globale. La crisi economica del 2008 ha


reso necessario lo smembramento dello stato sociale,
con energici tagli alla spesa pubblica. Ma, dinanzi
a tali misure penalizzanti per la collettività, non si
è generata alcuna conflittualità sociale da parte dei
ceti subalterni, quali i disoccupati, i precari, i lavo­
ratori a basso reddito, bensì si sono ribellate le classi
privilegiate, le lobbies economiche, politiche, profes­
sionali, istituzionali, allo scopo di difendere le loro
rendite di posizione, le élites cioè d i m ia società stra­
tificata sul privilegio sociale. Sembra dunque giunto
a definitivo compimento quel processo iniziato alla
fine degli a n n i HO con il reaganismo e il thatcheri-
smo, denominato da Lasch “la rivolta delle élites”.
Sembra, paradossalmente, che la Global Class pro­
testi contro l’ordine economico e politico che ha loro
consentito di costituirsi come élites. In questa fase
storica si è m anifestata la coscienza d i classe delle
élites, quale coscienza del loro ruolo dominante nella
società. Si va delincando qu in d i una lotta di clas­
se innescata dalla classe dominante, che, in quanto
monopolista (o quasi) della struttura produttiva di­
viene autoreferente, con il fine d i affrancarsi dalle
strutture politiche istituzionali, quali sovrastruttu­
re non p iù fu n zio n a li al tnodo d i produzione capi­
talista globale. Si sta realizzando una rivoluzione
marxista capovolta. Tale svolta involutiva della
Global Class si manifesta come riflesso conseguente
all’esaurimento epocale del prim ato dello sviluppo
dell’economia produttiva. I volum i della produzione
mondiale non hanno registrato incrementi rilevanti
rispetto alla “età dell’oro’’ del trentennio ‘45 - ’75.
Disoccupazione diffusa, precariato, perdita del pote­
re d’acquisto dei salari non favoriscono certo crescita
della produzione e del consumo. Inoltre, le stesse con-
320 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dizioni - capestro imposte a i lavoratori della Fiat,


non saranno certo sufficienti a rendere l’industria
italiana competitiva con la produzione asiatica. In
realtà, l’attuale ristagno della crescita è esplicativo
dell’esaurimento di una fase storica contrassegnata
dallo sviluppo progressivo. Il capitalismo impone le
proprie condizioni in una fase di regressiva difesa
delle proprie posizioni di privilegio. Tu hai spesso
enunciato il concetto di “capitalismo feudale”. Tale
definizione m i sembra appropriata in quanto rivela
la doppia natura contraddittoria del capitalismo del
X X I 0 secolo: è feudale nella conservazione dei p riv i­
legi monopolistici e nella sua arroganza nel preten­
dere sovvenzioni e aititi di Stato, mentre è liberista
in tema di produttività e competitività della forza
lavoro, nell’esigere cioè precarietà, mobilità, assenza
di vincoli sociali.

Di tutti gli stimoli contenuti in questa tua prima do­


manda mi permetterai di svilupparne soltanto uno, che
però sarà forse il più interessante ed intrigante per i no­
stri lettori. Si tratta di quella “rivoluzione marxista capo­
volta”, che opportunamente Lasch ha definito “la rivolta
delle élites”. E un fenomeno macroscopico, che è sotto gli
occhi di tutti, e che viene sistematicamente rimosso in
nome del “politicamente corretto”, che insiste nel soste­
nere che viviamo in una democrazia (sia pure imperfetta
e minacciata aU’intemo dal populismo ed all’esterno dal
terrorismo e dal fondamentalismo religioso), laddove non
viviamo affatto in una democrazia (la cui precondizione
irrinunciabile sarebbe il primato della decisione politica
democratica sugli automatismi fatali ed incontrollabili
dell’economia divinizzata), ma in una oligarchia finanzia­
ria temperata da alcune garanzie individuali di godimento
(limitato) di alcuni diritti civili.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 321

Questa “rivoluzione marxista capovolta” è tuttavia


parzialmente comprensibile utilizzando criticamente lo
stesso apparato concettuale di Marx, al netto di due suoi
giganteschi errori prognostici, il carattere rivoluzionario
inter-modale delle classi popolari, operaie, salariate e pro­
letarie (sulla base del recente bilancio storico bisecolare
del tutto inesistente) e la pretesa incapacità delle classi
dominanti borghesi-capitalistiche di continuare a svilup­
pare le forze produttive (sulla base del recente bilancio
storico bisecolare del tutto inesistente). Se si mettono in­
fatti fra parentesi questi due giganteschi errori progno­
stici (che non permettono in alcun modo di parlare del
cosiddetto “marxismo” come di una scienza prognostica
in senso naturalistico moderno e di tipo galileiano) resta
però comunque qualcosa, e questo qualcosa non è soltan­
to la teoria della alienazione (che in un’opera di prossima
pubblicazione Eugenio Orso ha collegato strettamente
con la generalizzazione del lavoro flessibile e precario, fe­
nomeno antropologico assai più che soltanto angustamen­
te economico), ma è soprattutto una teoria della illimita­
tezza distruttiva della dinamica riproduttiva capitalistica,
teoria che separa Marx dalla tradizione del progressismo
positivistico (ideologia dominante nel comuniSmo storico
novecentesco in tutte le sue versioni), e lo ricollega in­
vece alla tradizione della filosofia greca classica, nata in
opposizione alla smisuratezza del denaro e del potere non
controllati dalla ragione (logos) e dalla misura (metron).
Questo Marx, quindi, sarebbe ancora non solo utile,
ma addirittura indispensabile. Ma questo Marx non inte­
ressa né alle restanti comunità marxiste in attività (con­
greghe di atei positivisti in pieno sbandamento teorico e
culturale) né alla cosiddetta “sinistra” (tribù post moderna
di individualisti narcisisti odiatori del popolo realmen­
te esistente accusato di razzismo populista). Marx resta
quindi del tutto “virtuale”, e viene sempre preso “decaf-
322 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

feinato”, per poterne espungere gli aspetti inquietanti in­


compatibili con il Politicamente Corretto.
Studioso di Marx e della storia del marxismo da alme­
no quattro decenni, io non mi stupisco affatto di quella
rivoluzione marxista capovolta cui assistiamo da almeno
un trentennio. Mi sarei anzi stupito del contrario. Il fatto
è che per “marxismo” tutti i dilettanti ed i fanatici in­
tendono (ed hanno sempre pervicacemente inteso) il mito
sociologico infondato della natura spontaneamente rivo­
luzionaria del proletariato di fabbrica moderno, mito epi-
stemologicamente inferiore alla cosmologia Maya ed alle
favole della nonna. A causa dell’egemonia incontrastata in
Italia del cosiddetto “operaismo” (di cui l’ultima versione
alla Negri è soltanto una forma adattata alla globalizza­
zione sotto dominio imperiale USA) nel nostro paese il
pensiero di Marx è stato identificato per mezzo secolo con
il mito sociologico del proletariato di fabbrica, uno dei
grumi sociali meno rivoluzionari dell’intera storia univer­
sale comparata (l’eccezione russa del 1917 fa parte appun­
to di quelle eccezioni storiche che confermano la regola).
Bisogna quindi cercare di capire la natura storica e
sociale profonda di questa rivolta delle élites. In primo
luogo, non è la prima volta nella storia del capitalismo che
questa rivolta delle élites ha luogo, ma almeno la secon­
da volta. La prima rivolta delle élites ha avuto luogo fra
il 1871 (repressione della Comune di Parigi) ed il 1914
(scoppio della prima guerra mondiale), ed è strano che il
pur benemerito Lasch non se ne sia accorto (ma questo
è probabilmente dovuto all’assoluto e totale americano-
centrismo di tutti gli intellettuali americani, compresi i
più geniali e dotati). Nietzsche in filosofia e Pareto in so­
ciologia sono stati i due principali teorici di questa prima
rivolta delle élites, e non bisogna dimenticarlo mai.
Non considero invece i movimenti fascisti del periodo
storico 1919-1945 episodi di rivolta delle élites, anche
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 323

se cosi tendono a considerarli quasi tutti gli attuali con-


temporaneisti universitari (un pittoresco gruppo di anti­
fascisti rituali in totale e conclamata assenza di fascismo).
Sebbene i movimenti fascisti siano stati anche favoriti e
finanziati da élites industriali, agrarie e finanziarie (a se­
conda ovviamente dei vari paesi), la natura profonda del
fascismo non è stata quella di una rivolta delle élites, ma
quella di un vasto e contraddittorio movimento dei ceti
medi e della piccola borghesia tradizionale contro la pro­
letarizzazione, rappresentata simbolicamente dalla minac­
cia del bolscevismo russo. Mi oppongo quindi con forza
all’interpretazione storiografica dei fascismi in termini di
rivolta delle élites, e questo del tutto indipendentemente
dal giudizio morale, politico o storiografico sulla natura
storica del fascismo in tutte le sue varianti.
A partire dal 1980 circa siamo invece di fronte ad una
seconda vera e propria rivolta delle élites. Si tratta allora
non tanto di condannarle moralisticamente, come fanno
tutti coloro che si limitano a constatare che negli anni cin­
quanta del novecento il differenziale salariale fra un opera­
io Fiat ed il direttore Vittorio Vailetta era di uno a venti,
mentre oggi il differenziale salariale fra un operaio Fiat ed
il direttore Sergio Marchionne è di uno a quattrocento.
Questo non è certo dovuto ad irrilevanti sconfitte di scio­
peri operai, ma è dovuto esclusivamente ad un passaggio
da un capitalismo prevalentemente produttivo, e quindi
industriale, ad un capitalismo prevalentemente specula­
tivo, e quindi finanziario. Mentre la prima rivolta delle
élites (1871-1914) si basava prevalentemente sulla riorga­
nizzazione della sovranità monetaria dello stato nazionale
(con accompagnamento culturale alla Nietzsche-Pareto),
questa seconda rivolta delle élites si basa prevalentemen­
te sul controllo di uno spazio economico globalizzato, ed
il suo accompagnamento culturale non è più prevalente­
mente di “destra” (Nietzsche, Pareto, Kipling, ecc.), ma
324 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

è prevalentemente di “sinistra” (postmoderno, Ljotard,


Bobbio, Rawls, Habermas, religione olocaustica di colpe-
volizzazione infinita dell’Europa, ideologia interventistica
dei diritti umani, governo dei giudici e dei giornalisti,
costituzione materiale basata sullo scandalismo, irrisio­
ne della religione vista come residuo superstizioso pre­
moderno, sostituzione del Big Bang alla creazione divina,
imposizione del coito e del godimento immediato al posto
dell’amor cortese e del dolce stil novo, ecc.).
E tuttavia Lasch coglie il punto essenziale della que­
stione, molto più dei cosiddetti “marxisti”, poveri po­
sitivisti subalterni di sinistra cultori dell’ideologia del
progresso. Lasch è però “imbarazzante” sia per i ceti di
sinistra postmoderni, di cui aveva precocemente diagno­
sticato la natura narcisistica, sia per la cultura dominante,
che ovviamente gli preferisce generici tuttologi chiacchie­
roni che si limitano a denunciare forze anonime ed imper­
sonali e non indicano mai con il dito gli oligarchi che ci
dominano (la società liquida di Bauman, il destino della
tecnica di Galimberti, ecc.).
So bene che la definizione di “capitalismo feudale” è
provvisoria, e non è ancora certamente soddisfacente (seb­
bene ritenga in buona fede che il lavoro sociologico che
ho scritto con Eugenio Orso si collochi al di sopra del­
ia produzione media della sociologia universitaria, ed è
per questo ovviamente che è stato silenziato —le strutture
culturali ufficiali sono prima di ogni altra cosa strutture
selettive di silenziamento, all’interno appunto del feno­
meno generale della rivolta delle élites). Ma questo ossi­
moro si pone tuttavia al di sopra di tutte le tranquilliz­
zanti apologie che vanno da Sloterdjik a Rorty, da Rawls
a Bobbio fino ad Habermas, il seppellitore delfultima
manifestazione di inquietudine della vecchia coscienza
borghese (la scuola di Francoforte di Horkheimer e Ador­
no). Non la considero però (come tu suggerisci) una fase
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 325

involutiva del capitalismo. Come chiarirò meglio nella


mia quarta risposta, tendo invece ad interpretare questa
rivolta delle élites come un passaggio strutturale alla ter­
za fase logica del capitalismo (la fase speculativa dopo le
fasi astratta e dialettica), fase che deve cercare di limitare
il più possibile gli elementi “dialettici” della fase prece­
dente (comunitarismo borghese di Hegel, comunitarismo
proletario di Marx, marxismo critico novecentesco, ecc.).
Infine, last but not least, questa rivolta delle élites delle
classi dominanti europee ed USA è anche stata una rispo­
sta preventiva all’incipiente sfida delle nuove classi capi­
talistiche della Cina, dell’India, della Corea e del Brasile.
Come sarebbe stato infatti possibile competere con loro
senza avere bastonato prima i propri riottosi plebei, senza
precarizzare il lavoro, e senza colpire la conquista dei co­
siddetti trenta anni gloriosi (1945-1975)?

L a g l o b a l iz z a z io n e com e u n iv e r s a l iz z a z io n e
DEGLI EGOISMI

2) La globalizzazione ha comportato l’uniformazione


dei processi produttivi, degli scambi, della mobilità
dei capitali e della manodopera, fenom eni peraltro
resi possibili dal progresso tecnologico. La globaliz­
zazione ha dunque condotto al fenomeno della inter­
dipendenza mondiale dell’economia, della finanza,
della cultura, degli equilibri politici di un ordine
mondiale sempre p iù instabile e conflittuale. Per­
tanto, la crisi finanziaria del 2008, per sua genesi
e natura di carattere globale, avrebbe richiesto solu­
zioni e riforme comuni, concordate in sede interna­
zionale tra gli S tati e organismi sopranazionali. Ma
finora non si registrano accordi internazionali in tal
senso. Nessuna disciplina di controllo è stata varata
326 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

per quanto concerne gli strum enti finanziari deri­


vati, sono al di là da venire accordi che affranchino
l’economia mondiale dal dollaro che resta valuta di
riserva, rimane im m utato il problema del cronico
debito del terzo mondo e la sua dipendenza dal FMI.
Anziché la globalizzazione delle politiche economiche
e sociali, abbiamo assistito al prepotente riemergere
degli egoismi nazionali e localistici. La politica eco­
nomica della UE (specie da parte della Germania),
nella vicenda del default del debito pubblico greco
ce ne offre un esempio paradigmatico. Nelle crisi f i ­
nanziarie, la politica degli S tati non è volta tanto a
difendere la propria economia e la propria indipen­
denza nazionale dalle ricorrenti manovre antieuro-
pee degli USA, quanto a salvaguardare i privilegi
acquisiti nella propria area geopolitica di influenza.
Si tratta in realtà di una strategia regressiva di im ­
pronta esclusivamente monetaria messa in atto dalla
BCE, che peraltro comporta provvedimenti di natura
fiscale e sociale che si rivelano penalizzanti per i po­
poli europei. Anche nella sfera individuale l’avvento
della globalizzazione ha generato un individualismo
egoista dagli orizzonti sempre piti ristretti. La mobi­
lità e la precarietà del lavoro hanno diffuso un mo­
dello di vita basato sull’incertezza permanente, il cui
fine ultimo è lim itato alla mera sopravvivenza. Inol­
tre, con il progresso tecnologico nel campo delle comti-
nicazioni e l’incremento degli scambi, si è verificata
un’espansione della produzione normativa a tutela
dei d iritti del singolo alla privacy e alla salvaguar­
dia della sfera individuale che ha depauperato l’uo­
mo della sua naturale tendenza allo spontaneismo
sociale. L’eccessiva normatività giuridica crea rigidi
codici di comportamento inderogabili (ideologia del
politically correct). La libertà individuale si tramu-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 327

ta in uno stato di generalizzata illibertà collettiva,


l’esercizio codificato dei d iritti individuali produce
estrema conflittualità nella società e soprattutto con­
trollo sociale esterno nei comportamenti delle masse.
Sembra che la globalizzazione abbia determinato
solo l’universalizzazione degli egoismi.

Per rispondere correttamente all’insieme di problemi


che tu poni è bene cercare una formulazione unitaria sin­
tetica, che permetta di “stringere” il cuore della questione
da te sollevata. Riporto qui allora una felice formulazione
sintetica del grande sociologo francese Pierre Bourdieu,
che ci offre tutti i dati teorici del problema. Ha scritto
Bourdieu: “La nozione polisemantica di globalizzazione
ha come effetto, se non forse come funzione, di nascondere
nell’ecumenismo culturale o nel fatalismo economicistico
gli effetti deirimperialismo e di far passare un rapporto
transnazionale per una necessità naturale”. Qui c’è proprio
tutto, se si usa ovviamente la lente adatta.
In primo luogo, la globalizzazione non soltanto non
ha fatto scomparire il buon vecchio imperialismo (matrice
principale del grande macello impropriamente chiamato
dagli storici “prima guerra mondiale”), ma ne è sempli­
cemente la forma specifica dell’attuale periodo storico.
In una prospettiva secolare (l'unica illuminante e sensa­
ta) rimperialismo ha assunto fino ad oggi tre forme, il
mercantilismo seicentesco e settecentesco, l’imperialismo
vero e proprio ottocentesco e novecentesco, ed infine l’at­
tuale globalizzazione. La decadenza della sinistra europea
è cominciata proprio quando negli ultimi due decenni del
novecento e nel primo decennio del ventunesimo secolo
questo informe conglomerato postmoderno ha abbando­
nato la categoria di imperialismo ed ha adottato categorie
sostitutive come la religione olocaustica, il bombarda­
mento aereo in difesa dei diritti umani, l’attenzione osses-
328 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

siva ed esclusiva per le minoranze sessuali, gli zingari ed i


migranti, il disprezzo per il popolo accusato surrealmente
di “populismo”, ecc. (il punto più basso a livello europeo
è stato raggiunto in proposito dal Partito della Rifonda­
zione Comunista italiano sotto la direzione dilettantesca
ed infantile di Fausto Bertinotti). E bene in proposito ri­
cordare che il solo elemento permanente della tipologia
a tre stadi sopra ricordata (mercantilismo, imperialismo
propriamente detto ed infine globalizzazione) è stata, è e
sarà la funzione diplomatica e militare degli stati naziona­
li, che certo in questa terza fase “si ritirano” dalle funzioni
sociali dette di welfare, ma non si ritirano affatto dalla
pressione diplomatica e dall’intervento militare.
In secondo luogo, Bourdieu ricorda la funzione di ma­
nipolazione ideologica della cosiddetta “necessità natura­
le”. E una vecchia, vecchissima storia, ma le sue manifesta­
zioni empiriche sono sempre nuove, e richiedono quindi
sempre un’attenzione particolare. Le religioni monotei­
stiche hanno a lungo esercitato la funzione ideologica di
far passare concreti interessi sociali di classe per “naturale”
adeguamento ai voleri divini (in questo il monoteismo è
stato sempre molto più “performativo” del politeismo o
del panteismo a base naturalistica), ma da circa mezzo se­
colo questa “naturalizzazione” è passata all’economia poli­
tica santificata e deificata. Per questa ragione il cosiddetto
“pensiero laico”, che vorrebbe liberarci il cervello sosti­
tuendo la teoria darwiniana dell’evoluzione al cosiddetto
“disegno intelligente divino” è in ritardo di almeno un se­
colo (e mi esprimo qui in modo particolarmente indulgen­
te e pacato). Le facoltà di economia sono oggi l’equivalente
delle facoltà medioevali di teologia, mentre le facoltà di
filosofia e di scienze sociali sono ridotte ormai a supporti
secondari di questa naturalizzazione (consulenze filosofiche
per narcisisti in crisi di identità, inutile epistemologia al­
luvionale, integrale destoricizzazione e desocializzazione
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 329

della teoria della conoscenza scientifica, diffamazione insi­


stita e petulante della metafisica umanistica classica, ecc.).
In terzo luogo, Bourdieu ci ricorda che l’ecumenismo
culturale ed il fatalismo economicistico sono una sola ed
unica unità dialettica, anche se, in linguaggio marxista,
potremmo anche dire (ma sarebbe meno preciso) che il fa­
talismo economicistico è la struttura e l’ecumenismo cul­
turale è la sovrastruttura. La globalizzazione finanziaria si
pone in forma fatalistica come gabbia d’acciaio (Max We­
ber) o come destino della tecnica (Martin Heidegger), e si
ha così il paradosso (per altro facilmente decifrabile) per
cui una Grande Narrazione (più esattamente, la più osce­
na delle grandi narrazioni mai concepite nella millenaria
storia dell’umanità) si presenta come la smentita definiti­
va e “liberatoria” di tutte le grandi narrazioni precedenti.
Contestualmente, tutta la superficiale retorica ecumenica
(multiculturalismo, multietnicità, ecc.) non è che l’abito di
Arlecchino indossato sopra il giubetto antiproiettile usato
per le guerre occidentalistiche di civiltà (Irak, Afghanistan,
domani chissà). Qui la funzione di occultamento del circo
mediatico e del clero universitario appare in piena luce, e
gli unici a non capirlo sono i semicolti presenzialisti che
affollano le conferenze per gente di una certa Kual Kultura
(i K maiuscoli sono dell’umorista italiano Stefano Benni).
In quarto luogo, il fatalismo economicistico che permea
la nostra cultura come una nuvola velenosa di smog è già
stato diagnosticato da alcuni decenni, ma è impossibile fare
passi avanti se non si diagnostica il male alla radice. Biso­
gna quindi risalire a due concezioni alternative di economia
politica per potere respingere la prima ed accettare la se­
conda. Secondo una prima concezione di economia politica
essa è frutto di una autofondazione su sé stessa senza alcun
fondamento pre-esistente di tipo religioso, filosofico e poli­
tico (David Hume) e di una rigorizzazione della mano invi­
sibile del mercato (Adam Smith), per cui il legame sociale
330 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

fondato sullo scambio fa venir meno qualsiasi altro presun­


to Assoluto (in questo modo la metafisica economicistica si
presenta come liberazione da ogni altra precedente metafi­
sica —il massimo della sfacciata mistificazione!). Ma in base
ad una seconda concezione l’economia politica deve rispon­
dere non al mercato ma al “sistema dei bisogni” sociali (He­
gel e poi Marx), ed è quindi una disciplina dipendente dalla
politica, e non viceversa (Aristotele, Tommaso d’Aquino,
Polany, interpretazione di Hegel di Pierre Naville, inter­
pretazione di Marx di Michel Henry, Henry Denis, Denis
Collin ed infine se me lo si permette —di chi scrive). La
prima concezione non è riformabile, perché sfocia sempre
gravitazionalmente in un monoteismo fatalistico del mer­
cato. La seconda è invece la “regola d’oro” da sviluppare, ma
la via è bloccata dalla “saracinesca” formata dalle oligarchie
finanziarie, dal ceto politico, dal circo mediatico e dal clero
universitario di economia, filosofia e sociologia.
In quinto luogo, infine, l’ecumenismo culturale, lungi
dall’essere progressista, emancipatore e di “sinistra” è sol­
tanto la copertura culturale per conniventi e per allocchi di
un nuovo capitalismo finanziario globalizzato che per ri­
muovere la generalizzazione del lavoro flessibile, tempora­
neo e precario deve promuovere la formazione di un nuovo
esercito industriale di riserva multiculturale, multirazzia­
le, multietnico, multireligioso, linguisticamente unificato
(inglese operativo) e sessualmente omogeneizzato (omo ed
etera al posto delle vecchie noiose famiglie borghesi). Tutto
questo non ha assolutamente nulla a che fare con il vecchio
concetto greco di ospitalità verso lo straniero (jxenos) in cui
lo straniero era bensì ospite, ma mai ci si sarebbe sognati
di rinunciare alla propria identità culturale greca, di cui si
era anzi non solo fieri ma fierissimi. Ultimamente questo
è stato chiarito da un magistrale saggio di Luca Grecchi
(uno dei più promettenti filosofi italiani contemporanei,
ed appunto per questo silenziato ed ignorato dalla mafia
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 331

mediatico-accademica al servizio delle oligarchie), che con­


futa con ricchi argomenti l’errata concezione dei greci come
nazionalisti, sciovinisti e razzisti. I greci erano fieri della
propria irripetibile identità religiosa, culturale e linguisti­
ca, e nello stesso tempo aperti al cosiddetto “diverso” (oggi
trasformato in un inesistente Diverso per colpevolizzare la
legittima difesa economica e culturale delle comunità).
La formula che tu utilizzi alla fine della tua domanda
(la globalizzazione come universalizzazione degli egoismi)
è particolarmente felice, perché suggerisce al lettore che
abbia ancora voglia di pensare che l’universalizzazione
degli individualismi acquisitivi (non importa se dal lato
dell’Imprenditore o dal lato del Consumatore) universa­
lizza. soltanto l’individualismo acquisitivo stesso. E questo
un ennesimo ossimoro (l’universalizzazione dell’indivi­
dualismo), che non potrebbe però concretamente realiz­
zarsi senza la perdita della stabilità del lavoro (l’individuo
flessibile è il vero coronamento di ogni individualismo,
perché porta lo sradicamento al suo punto più alto) e senza
la distruzione delle vecchie comunità familiari e religiose
in nome di nuove comunità provvisorie fittizie (la folla
anonima dei centri commerciali, il concerto rock, ecc.).
L’antropologia sociale di questa nuova ed inedita uni­
versalizzazione dell’individualismo anomico deve ancora
essere studiata, e non possiamo certamente aspettarci al­
cun aiuto dalle caste mediatiche ed universitarie. E tutta­
via io credo nella natura umana, e quindi non credo nella
sua manipolabilità infinita. Se la natura umana fosse infi­
nitamente manipolabile, non ci sarebbero soggetti sociali
capaci di tirarci fuori, né tanto meno futurismi tecnologi­
ci o ideologie del progresso. Per questo non bisogna chie­
dere aiuto all’ideologia, ma ad un rinnovamento filosofico.
Ma dal momento che la tua terza domanda verte appunto
su questo, svilupperò il mio discorso proprio nella mia
terza prossima risposta.
332 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

L a “G lo b a l C lass ” e l ’in d e f in ib il e “P a u p e r C lass ”

3) Come già accennato, il capitalismo del X X I 0 è ca­


ratterizzato dalla propria autoreferenzialità, dato
che non esistono ad oggi modelli economico - sociali
alternativi ad esso. È l’economia capitalista globa­
lizzata che ha creato un modello rigido, sia dal punto
di vista economico che ideologico, che legittima o con­
danna la politica degli Stati. ^Tuttavia, si rileva, che
il capitalismo, sin dalla sua nascita al tramonto del
mondo feudale, si è dimostrato vincente proprio in
virtù della sua capacità di adattamento a situazioni
storiche e geografiche estremamente diversificate nello
spazio e nel tempo. I l capitalismo è sopravvissuto così
a lungo, grazie alla sua capacità d i recepire e omolo­
gare alle sue esigenze i valori e i costumi delle civiltà
preesistenti a d esso ed è stato in grado di fa r proprio
il progresso scientifico - tecnologico, coinvolgendolo
nelle logiche di mercato. Il modello capitalista fitto
ad oggi non è m ai stato unitario: la storia del mondo
moderno è costellata da una estrema diversificazione
di modelli socio - politici ispirati al capitalismo, ma
compatibili con le pecidiari realtà storiche e sociali
del tempo. Oggi si afferma, e non senza ragione, che
il capitalismo occidentale si è dimostrato vincente
rispetto alle ideologie del X X ° secolo, proprio per la
sua estrema capacità di trasformazione, che gli ha
consentito d i evolversi e di superare sempre le sue
crisi interne, p iù volte diagnosticate erroneamente
come sintomi della sua ineluttabile decadenza. 1 mo­
delli politici basati invece su dogmi ideologici (fasci­
smo e comuniSmo), sono stati travolti sia a causa del­
le guerre (fascismo), che per la loro estrema rigidità
nell’affrontare i problemi del proprio tempo nell’ot­
tica ideologica, che si è peraltro rivelata incapace di
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 333

riformare il sistema politico ed economico dinanzi


a i m utam enti in atto di un mondo in continua evo­
luzione (comuniSmo). I l capitalismo del X X I 0 secolo
invece presenta caratteristiche di rigidità ed univo­
cità strutturale nel qualificarsi come unico modello
universale di sviluppo. A ttualm ente il sistema ca­
pitalista è incapace di mediazione tra un liberis?no
ormai chiuso nel suo assolutismo ideologico - econo-
micista e la realtà storico sociale contemporanea. E
assente oggi una dialettica sociale che abbia la f u n ­
zione di determinare quella necessaria contrapposi­
zione tra le classi sociali, i gruppi politici, le diverse
culture, da cui poi possano emergere delle sintesi in
cui trovino la loro composizione le diverse istanze po­
ste dalla conflittualità politico - sociale. Alla dialet­
tica sociale si è sostituito uno stato di conflittualità
permanente all’interno dell’economia di mercato,
che scaturisce dalla concorrenza selvaggia, dalle ten­
sioni sociali senza soluzione, dalle guerre infinite per
l’appropriazione delle risorse. Nella realtà odierna,
è tuttavia impensabile una dialettica conflittuale
tra le classi, perché, mentre le élites della “Global
Class” hanno creato un modello economico - sociale
strutturato in funzione del proprio unilaterale ed
oligarchico dominio sull’economia e sulla finanza, la
“Pauper Class” è u n ’entità indefinita, un fenomeno
non originario, ma derivato dalla dissoluzione delle
vecchie classi sociali, dalla marginalizzazione pro­
gressiva di grossa parte della popolazione attiva. La
mancanza d i conflittualità sociale è dovuta proprio
alla indefinibilità degli interessi e dei valori comuni
delle classi subalterne che possono essere identificate
solo nella lorofuoriuscita dal mondo economico, dalla
loro frantum azione sociale e dalla loro emarginazio­
ne politica.
334 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Il capitalismo è una totalità processuale in pie­


no svolgimento, ed essendo una totalità processuale in
pieno svolgimento non è scientificamente conoscibile,
almeno secondo i criteri della scienza moderna. Nella
terminologia della filosofia di Kant, il capitalismo è assi­
milabile ad una Cosa in Sé, cioè ad un Pensabile ma non
Conoscibile. Ciò che è scientificamente conoscibile deve
poter essere determinato in uno spazio ed in un tempo,
ed il prolungamento nel futuro può soltanto essere fat­
to in base al presupposto della cosiddetta “uniformità
della natura” (Stuart Mill). Ad esempio, noi possiamo
scientificamente prevedere le eclissi di luna e di sole an­
che fra alcuni secoli, ma possiamo farlo soltanto con il
presupposto della stabilità omogenea ed uniforme dello
spazio e del tempo. Già la teoria detta del Big Bang non
è affatto scientificamente sicura al cento per cento, ed
infatti ci sono fisici e cosmologi che non la condivido­
no assolutamente. Il futuro processuale del capitalismo
inteso come totalità dinamica in svolgimento non è per
nulla prevedibile, ed è per questo che ho sempre definito
il marxismo un utopismo scientifico, perché è una utopia
positivistica e deterministica pensare di poter determi­
nare scientificamente il futuro di una totalità dinamica
in pieno svolgimento.
Fatta questa necessaria premessa, tu avanzi una ipotesi
degna di essere presa in considerazione. In primo luogo,
utilizzi il concetto darwiniano di adattabilità (fitness), per
cui la vittoria del capitalismo nel recente passato storico
è interpretata non tanto come semplice capacità di favo­
rire lo sviluppo delle forze produttive (secondo il criterio
tradizionalmente accettato dai marxisti, sia ortodossi che
eretici), ma come adattabilità darwiniana all’ambiente
storico e sociale circostante. In secondo luogo, ipotizzi che
l’attuale capitalismo neoliberale globalizzato stia perden­
do questa adattabilità, diventando paradossalmente sem­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 335

pre più “ideologico”, e ripetendo cosi gli errori dei suoi


due grandi avversari storici novecenteschi, il fascismo ed
il comuniSmo. Vale quindi la pena cercare di sviluppare e
di discutere l’ipotesi che tu proponi.
Dal momento che il capitalismo non è una cosa, ma
un rapporto sociale di produzione (qui sta la relativa
superiorità di Marx su Heidegger), la sua forza è diret­
tamente proporzionale alla debolezza dei suoi possibili
avversari strategici. Se è vera, ammesso che sia vera, la
trasformazione del proletariato storico in Pauper Class
(secondo l’ipotesi proposta da me e da Orso, che non è
ideologica ma soltanto sociologica - e vorrei sinceramen­
te che fosse falsa, ma penso purtroppo che sia vera), allora
non siamo tanto di fronte ad una ideologizzazione “rigi­
da” del capitalismo (come tu sembri ipotizzare), ma ad
una situazione storica e sociale temporanea (temporaneità
che può durare anni, decenni o secoli, il futuro è impreve­
dibile), in cui il capitalismo si sviluppa unicamente come
rete concorrenziale di diverse unità capitalistiche in reci­
proco conflitto strategico (secondo l’ipotesi di Gianfran­
co La Grassa), restando invece del tutto latente, virtuale
ed ineffettuabile la lotta di classe. Sul piano storico, non
considero le pur benemerite lotte sindacali vere lotte di
classe, perché esse sono del tutto interne e “sistemiche”
alla riproduzione del modo di produzione capitalistico.
Andando contro la tradizione marxista, considero “lotta
di classe” soltanto quel tipo di lotta strategica che met­
te realmente in discussione la riproduzione “modale” del
capitalismo. So che questo mi farà diventare ancora più
antipatico di quanto già lo sia ai “sinistri” di ogni tipo,
ma ritengo che è giunta l’ora di smetterla di “raccontarci
delle storie” (Althusser).
La vera novità storica di questo ultimo ventennio è
l’entrata nel mondo della concorrenza strategica dei capi­
tali indiani, cinesi, turchi, brasiliani, eccetera. Credo che
336 lu ig i Tedeschi, Costanzo Preve

la rigidità ideologica neoliberale, che tu correttamente


rilevi, sia soltanto la ricaduta sovrastrutturale di queste
novità, da cui derivano fenomeni del tutto secondari come
il conflitto fra Marchionne e la Fiom di Pomigliano.
Come cercherò di chiarire nella mia prossima quarta
risposta, che considero la più importante di tutte, il pro­
blema sta nel capire se ed in che modo dalla Pauper Class
possa scaturire l’insieme di soggettività politiche rivolu­
zionarie in grado di confrontarsi con il capitalismo in que­
sta terza fase “speculativa” del capitalismo. Questo non
può essere oggetto di scienza, perché è imprevedibile, ma
solo di filosofia, nel senso di una filosofia della prassi basa­
ta su di una ontologia dell’essere sociale. E tuttavia, qual­
cosa si può pur sempre dire, anche se bisogna abbandonare
l’idea della prevedibilità del futuro, su cui si è mosso per
due secoli il pensiero anticapitalistico.
In primo luogo, bisogna separare decisamente i con­
cetti di progresso e di emancipazione, che la tradizione
marxista ci consegna unificati, e che invece non sono af­
fatto unificati, e soprattutto non sono unificabili, né teo­
ricamente né praticamente. Il concetto di progresso deve
essere cortesemente archiviato, mentre quello di emanci­
pazione deve essere invece messo al centro. Ma spieghia­
moci meglio.
Il concetto di progresso nasce nel settecento borghese
europeo, e prima non c’era. Tutti i tentativi di “retroda­
tarlo” all’antichità classica, al medioevo ed al rinascimen­
to sono scorretti, perché individuano concetti di generica
possibilità di miglioramento delle condizioni sociali o
programmi di perfezionamento spirituale dell’uomo che
non corrispondono affatto al concetto settecentesco di
progresso. Il concetto di progresso è il fondamento ideolo­
gico di legittimazione della borghesia settecentesca, per­
ché sottrae la sovranità sulla totalità temporale alla prece­
dente sovranità religiosa, i cui apparati teologici si erano
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 337

schierati dalla parte della riproduzione signorile e tardo-


feudale. Più esattamente, il concetto di progresso storico
è estrapolato da un fatto materiale, il progressivo perfezio­
namento degli strumenti tecnologici di conoscenza della
natura astronomica, fisica, chimica, geologica e biologica.
Questo perfezionamento è per sua propria natura poten­
zialmente infinito, perché non esiste e non può esistere lo
strumento “definitivo”. Questo carattere potenzialmente
infinito del perfezionamento dello strumento tecnologico
è estrapolato nel campo umano e sociale, e Kant ne è il
maggiore e migliore interprete filosofico.
Il concetto di emancipazione non è invece di origine
illuministica (se non in forme ancora non sistematizzate),
ma è di origine idealistica, e trova nell’idealismo di Fichte
la sua prima forma compiuta. L’emancipazione non è in
alcun modo un progresso potenzialmente infinito estra­
polato dall’infinito perfezionamento degli strumenti di
ricerca, ma un rapporto fra l’Io (metafora ideale dell’intera
umanità concepita come un solo soggetto storico emanci­
patore attivo) ed il Non-Io (metafora dell’insieme di re­
sistenze che si oppongono storicamente e socialmente al
processo emancipatore). Qui —come è chiaro —non c’è più
nessuna metafora del progressivo perfezionamento degli
strumenti, ma il solo riconoscimento della prassi eman-
cipativa umana.
In secondo luogo (e questo secondo aspetto è anco­
ra più importante del primo) bisogna diagnosticare con
precisione l’origine di quella posizione patologica che
pretende di dominare la conoscibilità del futuro. Qui la
confusione regna in genere sovrana, perché nella tribù
dei filosofi universitari politicamente corretti domina la
teoria per cui la cosiddetta grande narrazione marxista
(da superare secondo Habermas con un pensiero decisa­
mente postmetafisico: traduzione, capitalistico) non sa­
rebbe che una secolarizzazione della vecchia escatologia
338 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ebraico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica


moderna. Una sorta di Apocalisse di Giovanni, in cui
però Giovanni, avendo imparato l’inglese, ha potuto leg­
gere Smith e Ricardo.
Si tratta di pompose sciocchezze. La pretesa di cono­
scere il futuro non ha alcun carattere escatologico-apoca-
littico, ma deriva dallo sviluppo unilaterale del concetto
di capitalismo come “spazio uniforme” allo spazio del­
la natura. E cosi come le eclissi si possono prevedere (in
nome della uniformità dello spazio-tempo prevedibile),
nello stesso modo il futuro storico può essere previsto,
sulla base della quantificazione e della matematizzazio-
ne delle grandezze sociali. Ma le sole grandezze sociali
quantificabili e matematizzabili sono quelle puramente
economiche, sulla base del concetto di valore economico
come tempo di lavoro sociale medio incorporato nel be­
ne-merce. Lo spazio sociale prolungato nel futuro diventa
cosi effettivamente uno spazio prevedibile, ma soltanto se
esso viene ferreamente limitato alla dimensione economi­
ca dello scambio delle merci.
Chi capisce questo (ma non facciamoci illusioni - l’in­
tera comunità universitaria rema contro) capisce che la
pretesa di conoscere il futuro del capitalismo come se fosse
un oggetto scientifico non trova affatto la sua radice nel
pensiero greco, nella escatologia cristiana o nell’idealismo
tedesco di Fichte e di Hegel (i confusionari postmoderni
sono particolarmente attaccati a questa ultima versione),
ma trova la sua origine in una estrapolazione economici­
stica della futurizzazione del tempo storico, sorta all’in­
terno dell’economia politica inglese e poi generalizzata
dal positivismo e dal suo grillo parlante, il neokantismo
universitario arrogantemente “post-metafisico”.
Poveri noi!
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 339

U n c a p it a l is m o s e n z a u m a n e s im o : è d u n q u e g iu n t a la

SUA fase t e r m in a l e ?

4) Dalle precedenti considerazioni emerge chiaramen­


te che è in atto attualm ente un processo d i progres­
siva estraniazione del capitalismo dalla realtà sto­
rica presente. Il capitalismo globale, che ha la sua
espressione politica originaria nella superpotenza
statunitense, si afferma come uno stato d i fa tto com­
piuto in se stesso: è un fenomeno imposto dalla sua
logica di dominio economica e politica incontrasta­
ta. La sua fuoriuscita dalla storia è delineata dalla
progressiva smaterializzazione dell’economia stes­
sa: al declino dell’economia produttiva f a riscontro
l’avvento della finanza virtuale, al potere derivante
dal possesso dei mezzi di produzione si è sostituito il
potere sulla conoscenza e sull’informazione. In una
società dominata da rapporti sociali im prontati alla
logica economicista del mercato, si può constata­
re solo l’assenza di ogni form a d i progettualità che
implichi trasformazioni politiche e nuovi e diversi
modelli di sviluppo. Le stesse crisi economiche non
possono essere superate da un capitalismo ormai in ­
capace di progettualità ed evoluzione: esso non è in
grado di mettere in dubbio sé stesso e i propri dogmi
economici e politici. La storia non può essere ridot­
ta ad un divenire interno alle strategie economiche.
Paradossalmente, il concetto di “fine della storia”
espresso da P ukujam a rivelerebbe una sua credi­
bilità, se riferito al fenomeno capitalista del X X I °
secolo, data la sua incapacità di ulteriori evoluzioni.
In tale contesto viene meno la stessa concezione del
progresso, che è stata l’idea trainante dello sviluppo
capitalista. Costatiamo dunque come il fenomeno
capitalista abbia condotto alla completa oggettiva-
340 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

zione dell’uomo nei processi economici, in tma fase


storica in cui la logica dello scambio ha prodotto un
tipo umano espropriato della coscienza di sé stesso
e del senso della sua esistenza nel divenire storico.
In questo processo di alienazione globale dell’uomo
nell’oggettività immanente, possiamo dunque scor­
gere i sintomi di una crisi sistemica involutiva del
fenomeno capitalista, che, spogliandosi di ogni con­
tenuto umanistico, è giunto probabilmente alla fase
terminale della sua parabola epocale.

Vorrei partire dalla formulazione con cui tu concludi


la tua quarta ed ultima domanda, per cui “il fenomeno
capitalistico, spogliandosi di ogni contenuto umanistico,
è giunto probabilmente alla fase terminale della sua para­
bola epocale”. Questa mia quarta risposta sarà allora uno
sviluppo dialogico di questa tua affermazione.
In primo luogo, bisogna capire se si tratta di un auspi­
cio, oppure di una diagnosi, o detto altrimenti di un au­
spicio soggettivo o di una diagnosi oggettiva. Entrambe
le cose, ovviamente, ma è comunque bene disarticolare la
formulazione.
Se si tratta di un auspicio soggettivo, lo condivido
interamente, e la nostra differenziata provenienza ideolo-
gico-politica mostra alla luce del giorno che oggi (2010)
la dicotomia Destra/Sinistra è una pura semplice prote­
si di manipolazione politica volta a rinfocolare identità
ed appartenenze ormai più tribali che politiche in senso
greco-classico, mentre il solo fattore che conta è l’appro­
do culturale ad un comune giudizio critico sul capita­
lismo neoliberale globalizzato di oggi. Apprezzo anche
il tuo riferimento ai valori umanistici. Ho messo infatti
molto tempo (forse troppo) per capire che la critica strut-
turalistica all’umanesimo, in parte giustificata sul piano
strettamente epistemologico, era però totalmente fuori
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 341

bersaglio sul piano filosofico. Io mi considero oggi un


umanista filosofico, e credo di esserlo tanto più quanto
più ho metabolizzato interamente le tesi dell’anti-uma-
nesimo filosofico, che ho conosciuto in gioven tù al livello
più alto di sistematizzazione (Heidegger, Althusser, Fou­
cault, ecc.). La consuetudine amicale con persone come te
e come Luca Grecchi mi ha molto aiutato, e non vi sarò
mai grato abbastanza.
Siamo però sempre a livello dell’auspicio, non ancora
di una diagnosi e di una prognosi. Dal momento che verso
il capitalismo ho un approccio dialettico, considerandolo
in termini di unità di emancipazione e di alienazione, il
problema si riduce allora a diagnosticare quando gli aspet­
ti emancipativi si riducono fino ad annullarsi e quando gli
aspetti alienanti diventano dominanti. Ho già rilevato in
una precedente risposta, ed ora lo ribadisco con forza, che
oggi gli aspetti alienanti sono passati in primo piano, sia
verso gli equilibri ambientali del pianeta sia verso la stes­
sa conservazione degli elementi minimi della tradizione
culturale, artistica e religiosa dei popoli e degli indivi­
dui. E duncjue, se si parla di auspicio, sono diventato un
anticapitalista radicale, e tanto più radicale quanto più
mi sono liberato degli elementi del positivismo scientifico
della vecchia sinistra e degli elementi dell’individualismo
anomico ed anarchico della nuova sinistra.
Passiamo invece alla prognosi. Già nella precedente
terza risposta ho fatto notare che il futuro è assolutamen­
te imprevedibile, e che l’ipotesi della sua prevedibilità è
stata costruita sulla base erronea dell’assimilazione del­
lo spazio-tempo storico allo spazio-tempo fisico, per cui
da questa inesistente omogeneità era estrapolata la pre­
tesa della prevedibilità degli eventi futuri pensati come
eventi naturali. Gran parte del marxismo (se non tutto)
è da mettere agli archivi, perché in esso l’anticapitalismo
morale è fondato sulla previsione scientifica degli esiti so-
342 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

cialisti, comunisti o almeno comunitari del capitalismo.


Non è cosi, ed è meglio smettere di perdere tempo per
farsi “accreditare” da parte di chi pensa in questo modo.
In fondo, nessun astronomo serio perderebbe tempo a far­
si accreditare presso sostenitori del geocentrismo o della
terra piatta. Da studioso della storia del marxismo, mi
sono inevitabilmente occupato della teoria del cosiddetto
“crollo del capitalismo”, teoria infinitamente più debo­
le di tutte le cosmologie Maya. Non voglio in proposito
proporre un paragone fra gli economisti neoliberali ed i
teologi bizantini, perchè rispetto troppo i teologi bizanti­
ni per offenderli con questa comparazione.
Cerchiamo eli impostare correttamente il problema,
partendo con il piede giusto. Si tratta di distinguere a pro­
posito del capitalismo fra livello logico (più esattamente,
logico-ontologico) e livello storico (più esattamente, sto­
rico-economico). I due livelli non si sovrappongono, e la
loro eventuale errata sovrapposizione da luogo appunto a
quella costellazione chiamata “storicismo”, il cui raddop­
piamento inevitabile è allora l’economicismo (la storia del
futuro, infatti, viene “prevista” in base alle estrapolazioni
delle tendenze prevedibili delle quantità economiche). In
termini più semplici e comprensibili, bisogna distingue­
re fra periodizzazione logica e periodizzazione storica del
capitalismo, e comprendere che la periodizzazione logica
non si sovrappone alla periodizzazione storica. Ma cer­
chiamo di scendere brevemente nel merito.
A proposito della periodizzazione logica del capitali­
smo, credo che l’approccio più utile, fecondo e ricco di
effetti secondari di conoscenza sia quella dialettica ricava­
ta dalla logica di Hegel, per cui il capitalismo si svilup­
pa secondo un ritmo triadico da una prima fase “astratta”
ad una seconda fase “dialettica” ad una terza fase “specu­
lativa”. Non ho qui purtroppo lo spazio sufficiente per
dettagliare in modo articolato questa periodizzazione, ma
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 343

l’ho fatto altrove con dovizia di argomentazioni storiche e


filosofiche. I manuali di storia e di storia della filosofia non
ci aiutano per nulla in questa comprensione, pur essendo
ovviamente ricchi di informazioni e di dettagli, e bisogna
quindi integralmente riscriverli dalle fondamenta. Così
come sono sono infatti inutilizzabili, e non permettono
quel riorientamento gestaltico che fa da premessa indi­
spensabile per la ricostruzione di una catena metafisica
alternativa del passato, sia storico che filosofico. Per ora
basti dire che in questa mia periodizzazione logica del ca­
pitalismo sono arrivato alla (sempre fallibile e rivedibile,
in presenza di argomenti consistenti) conclusione per cui
abbiamo da poco superato a livello mondiale la fase dia­
lettica del capitalismo (caratterizzata da dicotomie come
Progresso/Conservazione, Destra/Sinistra, Fascismo/An-
tifascismo, Comunismo/Anticomunismo, Laicismo/Re-
ligione, Occidente/Oriente, ecc.), e siamo entrati in una
incipiente fase speculativa, in cui ormai il capitalismo
frammenta l’intero genere umano in pulviscolo di atomi
di consumo sradicati da ogni identità che non sia l’acces­
so a consumo stesso, e quindi la merce pura si specchia
ormai in uno specchio (speculimi). Alla luce di questa pe­
riodizzazione logica il capitalismo è effettivamente ormai
giunto al suo “ultimo stadio”, perché logicamente non è
ipotizzabile nessun suo stadio ulteriore.
Ma, attenzione, la periodizzazione logica non coincide,
e quindi non deve essere sovrapposta, alla sua periodiz­
zazione storica. La periodizzazione storica non consente
infatti ultimi stadi di nessun tipo, in quanto la storia si
svolge in modo del tutto imprevedibile, anche se è un
errore ribattezzare questa imprevedibilità in termini di
“alcatorietà”, secondo la moda catastrofica dell’ultimo
althusserismo (in proposito La Grassa ha scritto nero su
bianco che a questo punto l’avvento del comuniSmo è as­
similabile nella sua alcatorietà alla caduta di un meteori-
344 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

te). Chi ha un pensiero dialettico (e quindi, non certo gli


althusseriani) non deve stupirsi: l’aleatorietà è sempre e
dovunque il grado supremo del determinismo, e l’esito
obbligato di ogni tentativo di previsione necessaristica del
futuro storico.
La periodizzazione storica, quindi, non segue nessu­
na logica triadica (astratto-dialettico-speculativo), e nello
stesso tempo non è il regno dell’arbitrio e della casualità
assoluta. In questo senso, La Grassa ha le sue ragioni nel
parlare di ricorsività storica, anche se ovviamente nessun
“ricorso” è mai eguale al “ricorso” precedente. Se ci si li­
mita infatti alla riproposizione della benemerita teoria di
Vico dei corsi e dei ricorsi storici si può cadere in quel fa­
tale errore che definirò in termini di “incantesimo dell’a­
nalogia”. Marx, ad esempio, sulla base proprio dell’in­
cantesimo dell’analogia partì dalla palese incapacità delle
classi feudali europee a sviluppare le forze produttive e ne
dedusse che anche la borghesia capitalistica sarebbe incor­
sa in questa analoga incapacità. Ma si trattò di un errore,
proprio sulla base dell’incantesimo dell’analogia. Il capi­
talismo è invece capacissimo di sviluppare le forze pro­
duttive in modo infinito ed indeterminato (l’apeiron di
Anassimandro), non ha razionalità (logos), non ha misura
(metron), non ha freno (katechon), e per questa ragione
l’antica filosofia greca è oggi mille volte potenzialmente
più anticapitalistica di cento e cinquanta anni di cosiddet­
to “marxismo”, un positivismo di sinistra a base gnoseo­
logica neokantiana che ha come suo povero fondamento
metafisico un’ideologia del progresso illimitato estrapo­
lata dal perfezionamento potenzialmente illimitato degli
strumenti di misura.
In che modo può allora articolarsi la periodizzazione
storica del capitalismo sulla sua inevitabile periodizza­
zione logica? Qui sta il problema, dal momento che esse
non possono essere come la res cogitans e la res extensa in
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 345

Cartesio, che non hanno alcun punto di tangenza e che


solo Dio può unire e connettere. È questo il problema fon­
damentale per una teoria del capitalismo oggi. Io riten­
go di averla correttamente impostata, ma non sono tanto
presuntuoso da pensare di averla risolta. Ma la risoluzione
verrà da uno sforzo collettivo e comune, di cui (il futuro è
imprevedibile) non possiamo avere conoscenza, tantome­
no “scientifica”. E tuttavia, non partiamo da zero.
L’eclissi della dialettica
e le nuove co n flittu alità d ella storia

Le id e o l o g ie n o v e c e n t e sc h e d in a n z i a l pr e se n t e
STORICO CAPITALISTA

1) La crisi economica e politica del mondo occidentale


non sembra offrire soluzioni a breve o medio term i­
ne, perché non emergono nuovi equilibri economici
e politici che possano sostituire l’ordine mondiale
instaurato dal prim ato americano. La pecidiari-
tà di questa crisi è quella d i un sistema liberista
globale, che sopravvive alle proprie crisi in assenza
di dissenso. N ell’am bito dell’attuale quadro poli­
tico — istituzionale liberal democratico, si verifica
Valternanza tra destra e sinistra, nell’ambito di
im a perfetta continuità delle impostazioni di ca­
rattere politico ed economico dì fondo: abolizione
progressiva del welfare, tagli alla spesa pubblica,
privatizzazioni, riduzione della sovranità del­
lo Stato, condivisione delle strategie geopolitiche
americane. Le opposizioni a l sistema sono assai
m arginali e legate alle ideologie identitarie nove­
centesche (fascismo, comuniSmo). In realtà le m oti­
vazioni ideologiche, seppur legittim e e convincen­
ti sid piano della critica, sono legate a condizioni
storiche ormai superate, conducono cioè a soluzioni
im praticabili nella società del X X I ° secolo, oltre
a d essersi dimostrate fa llim en ta ri già nel secolo
scorso per quanto concerne il superamento del si­
stema capitalista. N e l campo politico e culturale
le vecchie ideologie sono oggi autoreferenti, non
idonee q u in d i a confrontarsi con una realtà sto­
rica il cui sviluppo è ormai estraneo a d esse. Tut-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 347

tavia, la globalizzazione liberista si è afferm ata


come fenomeno totalizzante, anche in conseguen­
za della assenza d i una critica interna alla stessa
ideologia liberale, che svolga una analisi critica
della realtà storica attuale sulla base degli stessi
presupposti ed obiettivi della società globalizza­
ta. Occorrerebbe q u in d i considerare se l’economia
globalizzata, orinai libera dagli ostacoli politici ed
ideologici, abbia prodotto sviluppo, occupazione,
miglioramento delle condizioni socio economiche
delle masse. Emergerebbe allora il sostanziale re­
gresso economico e sociale dell’occidente, cui f a ri­
scontro lo sfruttam ento indiscrim inato delle risorse
m ateriali ed um ane del terzo mondo, oltre a i danni
prodotti dal livellamento culturale scaturito da un
economicismo pervasivo che annulla ogni identità
comunitaria. Occorrerebbe inoltre considerare se la
diffusione / imposizione a livello globale dei d iritti
u m a n i possa aver condotto all’espandersi delle li­
bertà individuali. D all’analisi della realtà storica
attuale emerge invece la abrogazione progressiva
dei d ir itti sociali, specialmente in m ateria sicu­
rezza e stabilità del lavoro, di assistenza e previ­
denza. ha società liberale dovrebbe offrire maggio­
r i opportunità d i lavoro, emancipazione sociale e
ricambio continuo delle classi dirigenti. Inattuale
società liberal democratica è caratterizzata invece
dalla assenza d i mobilità sociale, dalla stratifica­
zione elitaria delle classi sociali (capitalismo feti-
dale).Per tornare all’Italia, gli abnorm i compensi
percepiti dai manager (vedi Marchionne), vengono
criticati solo dal punto di vista pseudo —etico (con
annessa demagogia fondata sull’invidia), ma non
si considera (proprio dal punto d i vista liberale),
quale ricaduta questi fo lli investim enti nel mena-
348 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

gem ent possano produrre in tema d i sviluppo, cre­


scita economica, redistribuzione del reddito. Nes­
suna, in quanto l’economia finanziaria può solo
produrre profitti per le élites, liquidando strutture
produttive e falcidiando l’occupazione. Il panora­
ma politico attuale è sconcertante: né i liberali, né
le minoranze ideologiche sono in grado di analiz­
zare compiutamente le contraddizioni interne e,
oserei dire genetiche, della globalizzazione.

Tu affermi in conclusione: “Nè i liberali, né le mino­


ranze ideologiche (fascisti e comunisti) sono in grado di
analizzarle compiutamente le contraddizioni interne, e
oserei dire genetiche, della globalizzazione". Sono pie­
namente d ’accordo, e quindi ho la strada spianata per
analizzare quanto tu suggerisci. Il minimo comun deno­
minatore di queste tre posizioni (liberalismo, fascismo,
comuniSmo) sta nel fatto che tutte e tre si sono sviluppa­
te sul comune fondamento dell’ideologia del progresso
(inevitabile accompagnamento simbolico del passaggio
storico in Europa dalla società feudale-signorile alla so­
cietà borghese capitalista) e sul dato della sovranità mo­
netaria dello stato nazionale moderno, con conseguente
almeno parziale sovranità della politica sull’economia
(presupposto della dicotomia funzionale Destra/Sinistra
e della politica economica governativa indipendente, da
Colbert a Keynes). Venuti meno questi due presuppo­
sti, tutte e tre le posizioni perdono ogni fondamento,
e devono essere reimposte artificialmente e fragilmente
dai tre apparati ideologici della riproduzione capitali­
stica globalizzata (ceto politico, circo mediatico e clero
universitario-il primo è il più squallido e corrompibile,
il secondo è il più sfacciato e cialtrone, il terzo è il più
presuntuoso ed arrogante). Ognuna di esse, però, presen­
ta patologie differenziate.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 349

II liberalismo moderno si è costruito sulla base del


fondamento della sovranità dell’individuo moderno,
e cioè di un individuo programmaticamente separato
(“robinsoniano”, diceva correttamente Marx) dalle co­
munità precedenti, a loro volta molto differenziate geo­
graficamente (feudali e signorili in Europa e Giappone,
dispotico-gerarchiche in Cina ed India, comunistico-
primitive in Africa, eccetera). La sovranità economica
presupponeva ovviamente una sovranità politica (stato
rappresentativo costituzionale) ed una sovranità religio­
sa e filosofica (tolleranza religiosa, autonomia del dibat­
tito filosofico dal controllo chiesastico, eccetera). Questo
non solo non coincideva con la democrazia (sovranità
popolare, suffragio universale, partiti politici, eccete­
ra), ma anzi la escludeva espressamente. Solo quando le
grandi masse furono neutralizzate ed incorporate nella
riproduzione capitalistica la “democrazia” potè essere
concessa. Si usa dire nei libri di storia che la democrazia
non fu mai “concessa”, ma fu ottenuta con terribili lot­
te. Non sono d’accordo. Senza rivoluzioni, il capitalismo
nella sua ferrea logica riproduttiva non concede nulla,
di là di quanto può funzionalizzare e rendere innocuo e
compatibile.
Mano a mano che la sovranità originaria dell’indi­
viduo, effettivamente esistente nell’epoca storica della
prima accumulazione capitalistica e dell’espansione co-
lonialisitica, veniva svuotata ed annullata dall’anonimo
dominio impersonale dei cosiddetti “mercati”, la nuova
divinità idolatrica che aveva sostituito la ben migliore
divinità monoteistica precedente il liberalismo soprav­
viveva soltanto più in modo fantasmatico in una esisten­
za da “zombie” (personalmente, faccio risalire a questo
fatto simbolico la centralità del vampiro nell’immagi-
nario giovanile e cinematografico contemporaneo). Le
due fasi ideologiche progressive di questa sopravvivenza
350 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

da zombie (in mancanza della sovranità dell' individuo)


sono state prima la lotta contro le dittature totalitarie
gemelle (fascismo-comunismo) e poi la lotta per impor­
re i cosiddetti “diritti umani”, con l’uso incrociato dei
bombardamenti, dei corpi di spedizione e delle ON G di
mascalzoni e finti pacifisti. Ma su questo mi soffermerò
maggiormente nella prossima risposta. Per ora basta ed
avanza quello che ho rilevato sullo svuotamento integra­
le del presupposto storico-sociale del liberalismo.
A proposito dell’identità fascista (che pure non è mai
esistita in forma unitaria) sempre più appare chiaro che
essa è stata un “incidente di percorso” della storia del No­
vecento, dovuta alla congiuntura specifica della Grande
Guerra 1914-1918, e che non ha mai avuto una vera e
propria portata mondiale (non hanno infatti avuto nulla
a che fare con il “fascismo” propriamente detto le ditta­
ture latino-americane, il populismo arabo, eccetera). Per
questa ragione il successivo ed ossessivo “antifascismo in
assenza integrale di fascismo”, peste ideologica dell’Italia
dopo il 1945 è sempre e soltanto stato una “ideologia di
diversione” il cui unico scopo era appunto quello di impe­
dire, di individuare, nominare e concettualizzare le nuove
contraddizioni storiche.
Nella mia vita precedente al 1999 (guerra dalemia-
no-USA alla Jugoslavia) di “intellettuale di sinistra”
mi hanno ingozzato di antifascismo ossessivo come si
ingozzano le oche all’ingrasso, e per questa ragione la
storiografia sul fascismo 1919-1945 mi è venuta a noia
specialmente di fronte a fenomeni immensamente più
interessanti come le origini dell’ebraismo, del cristiane­
simo o dell’Islam o gli affascinanti Ittiti e Sumeri. In
genere si afferma che il fascismo è stato originato dalla
paura del bolscevismo e della rivoluzione salariata, ope­
raia e proletaria. Non nego che questo fattore possa esse­
re anche esistito (Italia 1922, Germania 1933, eccetera),
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 351

ma lo ritengo secondario. Il fattore principale non è però


stato anti-proletario, ma anti-liberale, in quanto i ceti
medi si sono spaventati di fronte all’indebolimento dello
stato rispetto al mercato mondiale (situazione peraltro
vagamente simile a quella odierna, da cui l’esorcizza-
zione isterica del cosi detto “populismo” da parte de­
gli apparati ideologici della globalizzazione finanziaria
neoliberale). E si veda l’importanza di personaggi come
Giovanni Gentile ed Ugo Spirito, del tutto privi di odio
anti-proletario. Deve però far riflettere il fatto che ben
presto il fascismo individuò il nemico principale non nel
liberalismo ma nel socialismo, e dopo il 1945 il neofa­
scismo diventò la polizia militare del capitalismo ameri­
cano e dei suoi servizi segreti. In questo senso Fini non è
affatto un “traditore” (lasciamolo berciare a Storace o alla
“vajassa” Mussolini), ma si situa in una perfetta conti­
nuità con la scelta strategica dei dirigenti nel MSI dopo
il 1945. Sembra che lo abbiano capito tutti, al di fuori
forse solo di Marco Tarchi.
Le cose sono più complesse per la terza identità,
quella comunista. In Italia il fatto che essa si sia “sciol­
ta” all’interno del solvente antifascista è certo stato un
fattore di dissoluzione, perché l’antifascismo è sempre
e soltanto un liberalismo borghese-capitalistico di “si­
nistra”. Su questo punto il vecchio Amadeo Bordiga ha
sempre capito l’essenziale, a differenza di confusionari
cronici come Ingrao o la Rossanda. Ha giocato un ruolo
anche la natura nichilistica dello storicismo progressi-
stico, secondo l’insuperata diagnosi filosofica di Augu­
sto Del Noce. Su queste basi, il passaggio da Antonio
Gramsci a Norberto Bobbio era in effetti inevitabile.
Ma il vero crollo è stato dovuto al venir meno dei due
fondamenti fallaci della filosofia comunista della storia,
l’inesistente carattere rivoluzionario inter-modale della
mitica classe operaia, salariata e proletaria e l’inesistente
352 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

presunta incapacità del sistema capitalistico di svilup­


pare le forze produttive industriali e sociali. Su questa
base era ovviamente del tutto impossibile comprendere
la natura delle nuove contraddizioni della globalizzazio­
ne, ed era ora inevitabile che si creassero bacini residuali
di “guardie plebee” ideologizzate urlanti dei neoliberali
di destra di Fini (Rauti, Storace eccetera) e dei neolibe­
rali di sinistra di D ’Alema (Bertinotti, Vendola, eccete­
ra). Questa non è però più tragedia greca, ma solo teatro
dei pupi siciliano.
E dunque triste, ma anche del tutto normale, che le
contraddizioni interne della globalizzazione non pos­
sano essere non dico capite, ma anche solo nominate,
verbalizzate e concettualizzate dai due ceti intellettuali
parassitari degli apparati mediatico-universitari. In essi
la componente fascista è pressoché introvabile, data la
demonizzazione del politicamente corretto, mentre la
componente liberale sfiora il novanta per cento e quella
comunista il dieci per cento (giudico per così dire “a
occhio”, ma forse il rapporto è addirittura del novantot-
to a due, essendo molti “comunisti” di tipo vendoliano
semplici intellettuali liberali snob di sinistra).
Si illude chi pensa che si debba aspettare che una
nuova teoria completa e compiuta debba essere elaborata
prima che si possa anche solo iniziare, una efficace prassi
trasformatrice rivoluzionaria. Questa teoria, se verrà (ed
io sono sicuro che verrà, sulla base non certo di inesi­
stenti “m oltitudini”, ma della mille volte più esistente
natura umana come fattore di resistenza all’alienazio­
ne), verrà “in corso d’opera”, come è del resto sempre
sistematicamente successo nella storia precedente. Sono
pressoché sicuro che elementi delle vecchie tradizioni
politico-culturali di destra e di sinistra ritorneranno in
forma nuova ed anche apparentemente irriconoscibili,
ma mescolati fra loro al punto di non poterli neppure
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 353

distinguere. Si illudono invero coloro che pensano di po­


ter “rilanciare” il liberalismo, “riproporre” il fascismo o
“rifondare” il comuniSmo. La verità filosofica è eterna,
ma la sua ricaduta ideologica- sociale è sempre solo tem­
poranea e congiurale.
La sola cosa sicura che possiamo dire della globaliz­
zazione è che essa è un nemico irriducibile. Troppo poco
per poter fondare una teoria positiva su di una sempli­
ce negazione. Assicuro il lettore critico e sospettoso di
esserne perfettamente consapevole. Ma senza un No pre­
liminare ed originario non è neppure possibile dire i nu­
merosissimi Sì che dovremo dire. Soltanto i Sì peraltro,
sono in grado di articolare e concretizzare una tattica ed
una strategia. Questi Sì tardano dolorosamente a farsi
strada, e non possiamo aspettare che ci dia il via nessun
profeta religioso (Gesù o Maometto) o nessun legislato­
re filosofico-politico (Marx, Lenin, eccetera). A cavallo
fra due epoche storiche, la nostra generazione è arriva­
ta troppo tardi per vivere le vecchie contraddizioni, e
troppo presto per vivere quelle nuove. Di qui deriva la
sensazione di smarrimento e confusione che ci circonda,
ed in cui siamo noi stessi immersi e cui non possiamo
purtroppo sottrarci.

D it t a t u r a d e i d ir it t i u m a n i e so lid a r ie tà c o m u n it a r ia

2) La globalizzazione ha determinato profondi m u­


ta m en ti culturali, anche in virtù del progresso
tecnologico, che ha diffuso il cosmopolitismo, l’omo­
logazione generalizzata al sistema economico e po­
litico occidentale, consumismo di massa. 1 bisogni
e la cultura dell’individualism o si sono imposti a
discapito delle ideologie comunitarie. L’individuo
dunque, secondo la vulgata globalista, è arbitro
354 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

assoluto del proprio destino. L’individualism o ab­


bisogna dunque d i tutele giuridiche a sostegno del
singolo individuo come elemento a se stante, estra­
neo alla comunità in cui vive. Anche il suo d irit­
to al dissenso allora, rim ane comunque garantito
nella sfera individuale, suscettibile d i condivisio­
ne nell’ambito d i ta n ti in d ividualism i convergen­
ti, ma in ogni caso riconosciuto in quanto p e rti­
nente all’individuo. In realtà, l’assenza d i dissenso
odierno ha la sua origine proprio nella miscono­
sciuta natura sociale dell’uomo. E in fa tti nel rap­
porto sociale tra in d iv id u i appartenenti alla stessa
società in un dato periodo storico, che si creano e
si rafforzano id entità sociali differenziate, in f u n ­
zione d i interessi comuni, di istanze culturali, d i
una visione complessiva della struttura della so­
cietà attuale. La riproduzione sociale può generar­
si solo nell’am bito comunitario, in un am bito in
cui prevale cioè un bene comune non identificabile
con gli individui. Oggi, in questa struttura so­
cietaria antisociale, è impensabile il configurarsi
di blocchi sociali contrapposti, data la fra m m e n ­
tazione atomistica scaturita dall’individualism o.
L’affermazione univoca dei d iritti in d ivid u a li e
la proliferazione d i leggi a loro tutela, ha porta­
to a l diffondersi d i una conflittualità esasperata
tra individui, a danno d i quella solidarietà socia­
le costitutiva dell’identità comunitaria. Inoltre,
i meccanismi a ttu a tiv i della tutela individuale,
hanno prodotto tecniche d i controllo sociale tipiche
d i una società totalitaria. La protesta è oggi lim i­
tata a m otivi “etici”, quali i d ir itti civili, il p a ­
cifismo, il fem m inism o, l’omosessualità: la libertà
individuale è intesa come proprietà esclusiva della
propria vita. L’attuale dissenso quindi, svolge una
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 355

fu n zio n e di legittim azione etica dell’ordinamento


liberal capitalista. In questa ottica, è il dissenso
stesso ad offrire a l sistema nuove prospettive d i do­
m inio totalizzante.

Durante la sanguinosa guerra civile americana


(1861-1865) non era sempre possibile rinchiudere su­
bito i prigionieri dietro palizzate protette. Veniva allo­
ra tracciata sul terreno una linea la deadline (linea della
morte), per cui se un prigioniero la sorpassava veniva
ucciso immediatamente. Il teatro culturale del nostro
tempo può essere interpretato con l’aiuto della metafora
della deadline. È possibile dire quasi tutto in nome del
principio liberale della libertà d’espressione, ma soltan­
to all’interno di un preventivo Giuramento di Fedel­
tà Occidentalistico (in acronimo GFO). Questo giura­
mento di fedeltà occidentalistico ha molte componenti,
ma qui per brevità ne segnalo soltanto tre: la religione
olocaustica di espiazione illim itata dell’Europa in cui
un ingiustificabile male relativo a coloro che lo han­
no compiuto viene definito Male Assoluto, ed in questo
modo sottratto a qualsiasi valutazione ed interpretazio­
ne storiografica alternativa (a differenza di Hiroshima,
del genocidio degli armeni, eccetera); la condanna senza
appello di tutte le dittature, sia pur distinte in dittatu­
re con attenuanti (Cuba, Venezuela, Cina eccetera) ed
in dittature assolute senza attenuanti (Corea del Nord,
Iran, Myanmar, eccetera) ove la concessione o meno di
attenuanti è fluttuante, perchè è patrimonio arbitrario
dell’impero USA, sacerdote della religione occidenta­
listica infine la religione dei D iritti Umani, nuova te­
ologia idolatrica che ha sostituito i vecchi monoteismi
prescrittivi del tempo della morale borghese. Chi rifiuta
il giuramento di fedeltà Occidentalistico non viene più
ucciso (come ai tempi pittoreschi dei roghi medioevali
356 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

o delle prigioni staliniane), ma viene escluso dalla co­


municazione del genere umano politicamente corretto,
come se avesse sorpassato una invisibile deadline. Chi
scrive l’ha sorpassata da tempo. Continua a far parte del
genere umano, ma non più della comunità intellettuale
legittim a politicamente corretta, non importa se catto­
lica o atea, religiosa o laica, di centro, di destra o di si­
nistra di sopra o di sotto. Qui, sotto lo stimolo della tua
seconda domanda a proposito dell’individualismo pren­
derò in esame soltanto l’ideologia dei cosiddetti D iritti
Umani. Per far capire subito quello che ne penso, dirò
che si tratta dell’equivalente moderno (o più esattamen­
te post-moderno) del rogo degli eretici o dell’ ideologia
hitleriana della razza. Mi rendo conto che tutto questo
suona paradossale ed estremistico. Ma siccome lo penso
veramente, sono costretto a spiegarne sommariamente
le ragioni.
Quando ci si trova di fronte ad un paradosso dialet­
tico, è necessaria una ricostruzione storica chiarificatri­
ce. Ed il paradosso dialettico sta in ciò, che una filosofia
originariamente nobile ed umanistica come quella dei
D iritti Naturali dell’Uomo in quanto tale (e non solo in
quanto ateniese, spartano o persiano) è stata trasformata
nel suo contrario, cioè nella ripugnante ideologia della
generalizzazione dei cosiddetti Diritti umani, evidente
involucro antropologico-sociale dell’Individuo omoge­
neizzato alla riproduzione della globalizzazione capitali­
stica di oggi. E allora necessaria una sommaria ricostru­
zione storica, in cui cercherò di ridurre al minimo tutti i
tecnicismi filosofici specialistici.
Nel mondo greco, matrice quasi esclusiva del mondo
occidentale in cui viviamo, in assenza di una religione
monoteistica rivelata in libri sacri da profeti fondatori,
il riferimento alla natura come codice normativo della
riproduzione della comunità era pressoché obbligato, e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 357

derivava da una “fessurazione” della precedente unità


indistinguibile di macrocosmo naturale e di microco­
smo umano-sociale. In assenza di qualsiasi filosofia del­
la storia universale del genere umano (inevitabilmen­
te derivata da una teodicea monoteistica o da una sua
successiva secolarizzazione razionalistica) il riferimento
normativo alla natura era inevitabile per cui la “natura”
aveva un carattere insieme ontologico ed assiologico (e
cioè etico e morale), che rendeva del tutto impensabile,
ed addirittura inimmaginabile, la successiva distinzio­
ne illuministica kantiana fra categorie dell’essere e ca­
tegorie del pensiero. La natura normativa del concetto
di natura faceva sì che i primi filosofi (impropriamente
definiti, “presocratici”) erano necessariamente legislato­
ri comunitari “ideali”, che potevano legittimarsi come
“credibili” di fronte ai loro concittadini soltanto pre­
sentandosi come autorevoli interpreti della natura stessa
(ed ecco perchè, da Talete ad Anassimandro, da Eraclito
a Parmenide, eccetera, erano sempre invariabilmente au­
tori di poemi sulla natura, perìphyseos). La natura non era
interrogata primariamente come oggetto astronomico,
fisico, chimico e biologico (come credono gli ingenui,
fuorviati e mal guidati studenti liceali), ma come mo­
dello normativo da “trasporre” metaforicamente (e del
resto “metafora” significa in greco trasporto) nella legi­
slazione sociale.
In quella prima fase la “natura dell’uomo” era quindi
coincidente con la sua natura sociale, politica e comuni­
taria, ed era a tutti chiaro che l’individuo isolato dell’at­
tuale capitalismo non poteva esistere, e l’uomo isolato
veniva connotato come una bestia o come un Dio. Lo
stesso Socrate, del tutto ancora interno a questo mondo
comunitario, individua l’oggetto esclusiva della filoso­
fia nel detto delfico “conosci te stesso” (gnothì s’eau tòri),
da intendere non nel senso psicologico- individualistico,
358 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ma nel senso della conoscenza dell’individuo come essere


comunitario.
Nella successiva epoca ellenistico-romana la perdi­
ta della sovranità e della precedente comunità politica
(polis) rese impossibile anche la stessa distinzione fra
la normale “economia” intesa come riproduzione giu­
sta ed ordinata e la “crematistica” intesa come tecnica
dell’arricchimento individuale. Occorre far notare che,
sul piano dell’analogia storica, la perdita di sovranità
politica della comunità antica presentava aspetti simili
alla perdita di sovranità politico-monetaria dello stato
nazionale moderno prima della attuale globalizzazione,
per cui l’età ellenistico-romana può proficuamente es­
sere pensata come una sorta di proto-globalizzazione.
Questo comporta necessariamente la produzione di un
nuovo individuo astrattizzato, e astrattizzato in quanto
privato della “concretizzazione” derivata dal suo prece­
dente inserimento in una comunità. Ma il pensiero el­
lenistico, a differenza dell’attuale e degenerato pensie­
ro postmoderno, manteneva ancora un rapporto con il
concetto di natura come dato normativo sulla cui base
pensare anche la condizione umana. Mentre il pensiero
epicureo prendeva atto della fine della sovranità comu­
nitaria della politica ripiegando in una sorta di comu­
nità protetta in un giardino di amici, il pensiero stoico
coniava per la prima volta il concetto di D iritti Umani
dell’uomo inteso in senso cosmopolitico come cittadi­
no “astratto” del mondo senza confini e senza frontiere.
Quanto questo universalismo sia poi passato al successi­
vo cristianesimo è oggetto di discussione. A mio avviso
molto. Se il cristianesimo fosse soltanto l ’universalizza-
zione del monoteismo messianico ebraico rivelato non
avrei per esso che disprezzo ed indifferenza, e condivi­
derei l’opinione di chi (Assman, de Benoist, eccetera)
vi vede la radice della violenza e dell’intolleranza. Ma
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 359

siccome ci vedo invece la prevalente natura di ricezione


deH’umanesimo universalistico greco non posso fare a
meno di nutrire per esso una certa simpatia (sia pure
da non credente in nessun mondo ultraterreno), e per
questo considero Ratzinger immensamente superiore
non solo alla coppia sionista spiritata Bonino-Pannella
ma anche ai disincantati atei positivisti Turchetto-Odi-
freddi.
Ma facciamola corta. I successivi D iritti dell’uomo
della rivoluzione francese del 1789 derivano ancora dal­
la precedente filosofia giusnaturalistica del Diritto Na­
turale, e pertanto mantengono ancora un rapporto, sia
pur tenue, con il fondamento greco della natura umana
come riflesso razionalizzato del presupposto dell’unità
ontologica, e quindi anche e soprattutto assiologica, di
macrocosmo naturale e di microcosmo sociale. Ma nel
Settecento la nozione di natura umana viene reinterpre­
tata da Hume e Smith non più come base normativa per
il Bene Comune (da Hume considerata in termini di me­
tafisica illusoria del tutto indimostrabile, per gli scettici
l’unica realtà che sfugge allo scetticismo è il “dato” del­
la proprietà privata e dello scambio capitalistico delle
merci). Ma come attitudine “naturale” degli esseri uma­
ni alla proprietà ed allo scambio, che in quanto tale è
perfettamente autonoma ed autofondata, e non ha biso­
gno quindi di nessun fondamento religioso (esistenza di
Dio), filosofico (riferimento ai diritti naturali dell’uomo)
o politico (contratto sociale).
E allora necessario impadronirsi concettualmente
in modo sicuro della natura di questo passaggio dalla
benefica filosofia dei diritti naturali dell’uomo (suppor­
to teorico del Bene Comune comunitario) alla malefica
ideologia dei cosiddetti “diritti dell’uomo”, in cui pro­
priamente l ’Uomo non c’è più, ed è fatto sparire con
la sua riduzione a supporto (Trdger) ed a “maschera di
360 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

carattere” (Charaktermaske) di semplice portatore indif­


ferenziato dei rapporti di produzione e di scambio capi­
talistici. È questo l’uomo, che sta alla base dei cosiddetti
D iritti Umani. Il carattere più sporco ed intollerabile
di questa sudicia ideologia di esportazione imperiali­
stica sta proprio nella natura nobile della sua lontana
origine, e la mia indignazione contro questa porcheria è
simile all’indignazione che un vero cristiano proverebbe
se vedesse la croce di Cristo essere usata come diretto
strumento di tortura per estorcere informazioni su di un
tesoro nascosto.
Appare allora chiaro ciò che tu stesso avevi rilavato
nella prima domanda, per cui l’agitare ideologico scom­
posto dei diritti umani come diritti del potenziale pro­
duttore-consumatore capitalistico globalizzato non si
pone affatto come aggiuntivo e complementare all’espan­
sione progressiva dei diritti sociali e comunitari, ma anzi
all’opposto si pone come vettore attivo della loro abroga­
zione. In sintesi, la sporca ideologia dei D iritti Umani,
lungi dall’essere la benefica concretizzazione della nobile
filosofia greca e poi cristiana dei diritti naturali dell’uo­
mo (e ciò che c’è di buono nel pensiero di Ratzinger è
frutto esclusivo del riferimento, greco ed aristotelico, non
certo del biblismo confindustriale di monsignor Ravasi e
della pagina culturale domenicale del “Sole 24 Ore”), è
solo, la protesi sovrastrutturale imperialistica dell’impe­
ro USA come unica forma di vita legittima da imporre a
tutto in pianeta.
Pensiamo alle motivazioni con cui e stato assegna­
to il premio Nobel per la pace del 2010 al dissiden­
te cinese Liu Xiao Bo. Il gran capo indiano della tribù
USA Obama e gli intellettuali scandinavi servi di Oslo
lo hanno premiato in quanto portatore e testimone di
“valori universali”. Ora, il termine “universale” è mol­
to impegnativo. Io stesso sono un fautore dell’umver-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 361

salismo processuale dell’umanità, in quanto avversario


del moderno codice teorico post-moderno, frutto di
una sintesi di storicismo, sociologismo, relativismo e
nichilismo. Ma l’Universale, se esiste (in forma ratzin-
geriana, spinoziana, hegeliana, marxiana e addirittura
previana), è una cosa seria e non può essere subordina­
to agli interessi di una superpotenza cannibalica che ha
cosparso il mondo di basi nucleari (che nella storia, ha
già usato due bombe atomiche a soli tre giorni di di­
stanza). Bene, il signor Liu Xiao Bo (di cui non auspico
affatto la punizione-personalmente, non godo mai del
dolore di altri esseri umani) ha scritto un documento
(politico e non filosofico) in cui auspica il trapianto in
Cina di un sistema politico di tipo americano. Il suo
primo effetto sarebbe (ormai, dopo il 1989 lo sappiamo
bene) la perdita di ogni sovranità politica dello stato
cinese sull’economia, e pertanto l’ulteriore approfondi­
mento (in Cina già scandaloso, per cui non mi faccio
raccontare favole alla Domenico Losurdo sulla natura
socialista della Cina di oggi) della forbice fra ricchi e
poveri. Vuole questo il signor Liu Xiao Bo? Non lo so,
non lo conosco personalmente. Ma siccome so invece
che cosa accadrebbe se le sue oscene proposte politiche
venissero accettate, so invece che i suoi “diritti umani”
si accompagnerebbero all’ulteriore erosione di quanto
resta dei diritti sociali in Cina. Oggi sappiamo, dove
ha portato il berciare apparentemente “umanistico” dei
Sacharov, dei Walesa e degli Havel. Ci vuole il dominio
del momento politico su quello economico. I sostenitori
dei diritti umani vogliono il contrario. Possono tenersi
il loro falso “universalismo”. Si tratta dell’universaliz-
zazione del capitalismo finanziario globalizzato. Non ci
caschiamo più.
362 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

L a d ic o t o m ia A m ic o / N em ic o d i C a e l S c h m it t
NELLO “SCONTRO DI CIVILTÀ”

3) Non esiste dissenso senza contrapposizioni defi­


nite. Occorre in fa tti che si determinino posizioni
differenziate d i schieramenti opposti riguardo ad
un medesimo oggetto del contendere. Solo se esiste
un potere, può costituirsi un contropotere. Solo se
esiste lo Stato, può esistere antistato, se esiste la re­
ligione può esistere l’ateismo, se esiste la borghesia,
esiste anche il proletariato. Oggi, è evidente a tu t­
ti la dissoluzione dello Stato, entità istituzionale
che tu tta via non è stata sostituita da una nuova
form a istituzionale, ma continua a sussistere svuo­
tata delle sue prerogative, quali la sovranità poli­
tica, economica e sociale. E l’economia globalizzata
a dettare gli in d irizzi della politica degli Stati.
R isulta allora del tutto velleitaria ed impotente la
protesta che chiede le dim issioni di un governo, che
vuole affermare un progetto politico che è irrealiz­
zabile nell’ambito di un sistema i cui fondam enti
prescindono dalle classi dirigenti della politica na­
zionale. Tutto ciò conduce alla considerazione che
il dissenso contro un sistema diviene inconcepibile,
quando non si possono delineare i caratteri rea­
li e definiti di un avversario. Quando si afferma
di voler combattere il capitalismo, gli americani,
l’imperialismo, tale prospettiva si rivela di per sé
stessa velleitaria ed inconcludente: capitalisti ed
im perialisti sono anche g li avversari geopolitici
degli americani. Inoltre il capitalismo non è solo
un sistema economico, ma anche culturale, etico e
sociale. Spesso si vuole combattere il capitalismo,
contrapponendo ad esso form e di dissenso scaturite
dalla sua stessa cultura individualista e condivi-
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 363

dendo (anche inconsciamente), il suo modello socia­


le. Per delineare un nemico contro cui creare un
dissenso sociale, oggi non ci è di grande aiuto la te­
oria giuridico - politica d i Cari Schm itt incentrata
sulla dialettica amico - nemico. Secondo Schm itt, la
politica è strutturalm ente conflitto, che si sostanzia
nella distinzione amico - nemico, quale “estremo
grado d i u n ’associazione o d i una dissociazione”. Il
nemico non è il concorrente economico o l’avversa­
rio politico, ?na bensì “l’altro”, qualcosa d i diverso
elo estraneo a noi. Dovremmo allora concludere che
ogni contrapposizione a l capitalismo ha la sua ra­
gion d’essere in quanto nega il capitalismo stesso.
Ogni movimento anticapitalista, sarebbe u n ’en ti­
tà politica che sussiste in virtù della sua contro­
parte ideologica, u n ’entità che è tale in quanto
derivata e dipendente dal capitalismo. La dialet­
tica amico — nemico dovrebbe inoltre generare il
differenziarsi delle entità comunitarie, costitutive
di poli antagonisti, portatori d i identità particola­
ri. Ma nel X X I 0 secolo, abbiamo potuto constatare
che la logica amico — nemico si è riprodotta come
tecnica espansionista della superpotenza america­
na. Se tu tti coloro che non accettano l’ordinamento
capitalista in economia e la liberal democrazia in
politica sono nemici, allora ogni guerra espansioni­
stica (vedi Iraq e Afghanistan), sarebbe legittima,
in quanto scaturita da uno “scontro di civiltà”, tra
una identità virtuale definita “occidentale”, espor­
tatrice arm ata di d ir itti u m a n i e democrazia nei
confronti degli “sta ti canaglia”.

Da quanto mi sembra di capire, tu respingi la teoria


di Cari Schmitt sulla dicotomia Amico /Nemico, consi­
derandola poco adatta alle esigenze di oggi e dell’attuale
364 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

congiuntura storico politica. Dal momento che io invece


l’accetto nell’essenziale, sia pure con alcune riserve, mi
corre l’obbligo di segnalare, sia pure brevemente, pri­
ma perché l’accetto, e poi quali sono le mie principali
riserve.
Una breve premessa. Schmitt è stato certamente un
genio della filosofia politica novecentesca, e tuttavia come
scrisse argutamente Hegel il genio è l’uomo più indebi­
tato del mondo, perché ha debiti innumerevoli con i suoi
predecessori. Egli fa però parte di quella scuola del re­
alismo politico di tipo machiavellico, che a mio avviso
esclude del tutto il riferimento normativo al bene comune
comunitario di tipo greco, in cui invece io mi riconosco in
quanto umanista metafisico dichiarato. Ma questo per ora
possiamo metterlo da parte.
La ragione per cui accetto nell’essenziale la dicoto­
mia schmittiana sta nel fatto che essa descrive con am­
mirevole approssimazione la situazione storico-politica
creatasi nel Novecento, e soprattutto perm ette di no­
minare l’impero ideocratico americano come nemico
principale. Esso è il nemico principale non perché sia
l’unico impero capitalistico (anche, la Russia, la Cina,
l ’India, eccetera, sono capitalisti al cento per cento ben­
ché con una positiva dominanza del momento politico,
sia pure dispotico (meglio una politica dispotica che
un dispotismo anonimo ed impersonale dell’economia
divinizzata), ma perché la sua bruta esistenza coordina,
sul piano sia militare che soprattutto culturale, l’intera
riproduzione capitalistica globalizzata mondiale, im ­
ponendone le regole finanziarie. Per questo è il nemico
principale, non certo perché i suoi concorrenti siano
“umanamente” migliori. Ma questo ti è certamente
noto. Inoltre, Schmitt è stato l’unico pensatore nove­
centesco che ha rilevato in modo chiaro e “riproduci­
bile” che la sporca legittimazione particolaristica della
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 365

potenza m arittim a americana è stata edificata attraver­


so il richiamo ad una presunta “um anità”. In Italia è
stato ed è Danilo Zolo colui che meglio ne ha sviluppa­
to il pensiero, e si tratta di un pensatore non certo pro­
veniente dalla destra, ma dalla sinistra ed addirittura
dall’estrema sinistra. E questa la chiave (direi la sola
chiave) con cui ho condotto la mia critica alla sporca
ideologia dell’esportazione armata dei diritti umani da
me svolta nella precedente seconda risposta. Oggi il
paradosso dialettico sta in ciò, che il nemico principa­
le è appunto quello che si presenta come il principale
amico dell’umanità, che intende conformare “universa­
listicamente” alla sua particolaristica struttura econo­
mica, politica e sociale, e lo fa in nome di un manda­
to religioso, di una divinità auto-attribuita, un vero e
proprio Anti-Cristo frutto di una fusione mostruosa fra
fondamentalismo ebraico veterotestamentario e purita­
nesimo calvinista degli "eletti”.
Come tu sai, ho scritto a suo tempo un documen­
to filosofico-politico in cui riprendo l’elencazione di
Alain de Benoist delle cinque principali forme di ne­
mico principale oggi. Se l’ho scritto e diffuso è perchè
evidentemente mi ci riconosco. Sono però anche perfet­
tamente consapevole dei suoi lim iti e delle sue insuf­
ficienze, ed ecco perchè considero del tutto legittimo
che tu non ti ci riconosca. Per ora, mi limito ad alcuni
rilievi sommari.
In primo luogo, sono consapevole della grande obie­
zione fatta dai teorici della cosiddetta Non-Violenza
(Pontara, eccetera), che non confondo mai con i pagliacci
del pacifismo ipocrita ritualizzato, in realtà guerrafon­
dai, come la coppia sionista spiritata Bonino-Pannella.
Per i primi bisogna interrompere la mortifera catena del­
la inimicizia violenta, ed il solo modo è quello di con­
siderare tu tti non come nemici principali irriducibili,
366 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ma come futuri amici potenziali (Capitini, eccetera). Mi


permetterai di non riuscire a credere a questa edifican­
te metafisica. L’esperienza di Norberto Bobbio (pacifista
famoso ed ammirato, e poi banditore vergognoso della
guerra del Kosovo del 1999) è stata per me determi­
nante in quanto mi ha colpito anche sul piano emotivo,
affettivo e personale. Ho capito allora che se un paci­
fismo non si inserisce concettualmente in una più am­
pia comprensione della riproduzione mondiale (da cui e
impossibile “espungere” il capitalismo e l’imperialismo,
laddove e soltanto un elemento di auto-mistificazione lo
stupido antifascismo in assenza di fascismo, con Clinton
liberatore antifascista e Milosevic tiranno fascista), può
diventare l’alibi di voltafaccia vergognosi. Dal 1999 ho
imparato la lezione. Non mi fregano più.
In secondo luogo, l’individuazione del nemico prin­
cipale non è che un presupposto necessario ma non
ancora sufficiente, e lascia completamente aperta ed
impregiudicata la dialettica di come si specificherà in
futuro la dicotomia Amico/Nemico. E questo un pun­
to di importanza inestimabile. Nominare il nemico
principale è il presupposto per superare la paura della
deadline e del giuramento di fedeltà occidentalistico.
Violare questo giuramento di fedeltà occidentalistico
significa concretizzare quello “spirito di scissione” (il
termine è molto felice, ed è di Antonio Gramsci) che
è il presupposto di qualunque azione futura. Chi ha
individuato il nemico principale sa che l’individuali­
smo laico anticomunitario è peggiore dei riferimenti
aristotelici della religione (in cui io non sono peraltro
credente) che gli USA non hanno alcun diritto di criti­
care in modo universalistico la Russia, la Cina, l’Iran,
Cuba, eccetera, eccetera.
L’individuazione del nemico principale non è ancora
certamente una metafisica ed una prassi di liberazione e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 367

di emancipazione, ma ne è soltanto il presupposto. N ien­


te di più, ma questo niente di più é il primo passo di
un lunghissimo viaggio, di cui non disponiamo dell’i­
tinerario, perchè il futuro storico (a differenza di quello
astronomico) è del tutto imprevedibile. Vorrei sfatare un
possibile equivoco. Io credo alla pertinenza dei rappor­
ti geopolitici, e considero una reazione moralistica da
“anima bella” il chiudere gli occhi davanti ad essi. Ma
ti assicuro che non mi sogno affatto di sostituire la geo­
politica alla filosofia. Se poi qualcuno lo fa, ammesso che
qualcuno lo faccia (La Grassa, Rivista Eurasia, eccetera),
non lo so, e bisogna rivolgersi a lui per chiarimenti. Io
non lo faccio. Io mantengo la centralità umanistica del­
la filosofia come bussola per l’orientamento nel mondo.
La geopolitica non è affatto l ’unica concretizzazione del
nemico principale. Semplicemente, fa parte di una cate­
na, la “catena dei perchè” (come scrisse Franco Fortini),
tutti i perché uniti da una catena economica, filosofica,
politica, sociale, eccetera.
Per finire, l ’individuazione del Nemico e anche il
presupposto per poterlo distinguere non solo dal sem­
plice avversario (pensiamo al fondamento mascalzonesco
dell’antiberlusconismo italiano dell’ultimo ventennio,
l’aver simbolicamente trasformato l ’avversario Gran
Paperone e gran Puttaniere in nemico populista asso­
luto della democrazia, difesa invece da Di Pietro, dalla
Finocchiaro e da Santoro-Saviano), ma anche per poter
in seconda battuta connotare gli Amici Potenziali. Am­
metto che il problema del nemico è solo il dieci per cen­
to, mentre quello degli amici è invece il novanta per
cento, ma consentirai con me che se non sai da chi devi
difenderti non puoi neppure chiamare alla solidarietà ed
al soccorso.
368 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

S c o m p a r s a d e lla d ia l e t t ic a h e g e l ia n a e f e t ic is m o
ECONOMICITÀ

4) Come abbiamo già approfondito e discusso nei


precedenti dialoghi, il capitalismo, come eviden­
zia la crisi economica in atto, è giunto alla fase
storica della sua decadenza. Per una compiuta
analisi storico - filosofica del fenomeno capitali­
sta, occorre dunque richiamarsi alla dialettica
hegeliana. Come hai scritto p iù volte, il capitali­
smo, dopo un sua fase iniziale “astratta”, ha poi
dovuto affrontare la contrapposizione dialettica
classista riassunta nel binomio borghesia —prole­
tariato, ed infine è giunto a l suo definitivo com­
pim ento - esaurimento nella fase “speculativa”,
quale è quella storica attuale, in cui esso diviene
un fenom eno autoriflessivo e totalizzante. Vorrei
esprimere alcuni dubbi circa tale interpretazione
filosofica del fenomeno capitalista, in quanto la lo­
gica interna che presiede al suo sviluppo storico,
non m i sembra conformarsi allo schema filosofico
fondato sulla dialettica hegeliana. I l capitalismo,
nella sua fase iniziale, f a riferim ento non solo e
non tanto alla radice culturale illum inista, m a si
innesta nella logica d i dominio del periodo stori­
co delle grandi conquiste coloniali del ‘600 e ‘700,
in u n ’epoca mercantilistica dom inata dall’asso­
lutismo monarchico, in un mondo cioè ancora sal­
damente ancorato ad una cultura e una politica
premoderna. I l suo riferim ento specifico non è ta n ­
to il razionalismo illum inistico, quanto semmai
Vempirismo e soprattutto l’assolutismo politico di
Tommaso Hobbes. Nella sua fase dialettica, quella
in cui si evidenziano le sue interne contraddizioni
(‘800 e ‘900), con lo scontro di classe borghesia -
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 369

proletariato, il capitalismo, non si configura come


un fenomeno che stiperà il proprio term ine d i con­
trapposizione dialettica (proletariato), in una sin ­
tesi. ha sua antitesi diviene parte integrante d i un
processo necessario d i trasformazione che conduce
al superamento della contrapposizione dialettica.
Il capitalismo si contrappone a l marxismo, ma non
supera le proprie contraddizioni interne (che anzi,
nella sua fase “speculativa” vengono esasperate),
assorbendo in sé stesso le istanze del suo avversario.
Esso nega semmai nella sua fase finale unilate­
ralmente la propria antitesi. La caratteristica pe­
culiare del capitalismo è inoltre quella d i negare,
nella sua dimensione compiuta entram bi i term ini
della contrapposizione dialettica della storia recen­
te, La lotta d i classe ha avuto un esito finale in cui,
la scomparsa del proletariato ha comportato anche
quella della borghesia stessa. Il capitalismo è d u n ­
que un fenom eno che si è affermato attraverso la
negazione unilaterale assoluta d i ogni contrappo­
sizione storico dialettica. Non voglio afferm are con
quanto detto in precedenza l’inadeguatezza della
dialettica hegeliana a d interpretare i fenom eni
della storia. Voglio solo sottolineare che la storia del
capitalismo, proprio perché non essendo compatibi­
le con i canoni filosofici dell’idealismo, rappresenta
un fenomeno estraneo al pensiero dialettico e per
questo, non suscettibile d i produrre l’universaliz-
zazione dei suoi postulati fondam entali. Esso, a
mio parere, non produce che teorie di legittim azio­
ne economica e politica aposteriori, perché non si
sviluppa secondo una logica unitaria elo definita,
ma si identifica con una prassi economicista im ­
manente. Non a caso la vittoria del capitalismo del
1989 sul socialismo reale coincide con la fuoriuscita
370 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dell’Europa dalla storia. La prassi capitalista, in


quanto coincide con la negazione assoluta di ogni
fenomeno a d esso non compatibile, può dunque es­
sere definita sid piano filosofico come il risultato di
. un nichilismo compiuto.

I tuoi dubbi sulla interpretazione filosofica (più esat­


tamente, filosofico dialettica) del fenomeno capitalistico
sono anche i miei, e sarebbe strano che non lo fossero,
perchè sarebbe il preoccupante segnale di una mancan­
za soggettiva di autoconsapevolezza critico-fallibilistica.
Per questo colgo con piacere l’occasione per un ulteriore
chiarimento.
La mia interpretazione filosofica della periodizzazio-
ne del capitalismo (astratta, dialettica, speculativa) non
intende affatto contrapporsi per sostituirla alle consuete
periodizzazioni storico-economiche del capitalismo stes­
so, ma intende soltanto integrarle dal punto di vista della
ricostruzione della loro totalità olistica espressiva, che i
puri dati economici o sociologici non riuscirebbero a ri­
specchiare adeguatamente. Ad esempio, non mi contrap­
pongo affatto ai tentativi di periodizzazione di Giovanni
Arrighi (egemonia genovese, egemonia olandese, ege­
monia inglese, egemonia USA, e domani forse la Cina,
eccetera) o a quelli di Gianfranco La Grassa (successione
ciclica di momenti unipolari e di momenti multipolari).
Semplicemente, la mia periodizzazione è una “rete” ulte­
riore che getto su di una molteplicità di fenomeni storici
e sociali, che cerco di interpretare sulla base esclusiva della
ideazione filosofica.
Filosofia per me significa idealismo, ed idealismo signi­
fica dialettica (mi rifaccio quindi ad una lunga tradizio­
ne, da Platone a Hegel ed in Italia da Gentile, Croce e
Gramsci). Mi permetto di rimandare ad un mio studio
monografico (Costanzo Preve, Storia della Dialettica, Peti­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 371

te Plaisance, Pistoia 2006). Ma sulla base della tua solle­


citazione mi limiterò a due soli aspetti. Primo, la dialet­
tica è utilizzabile con profitto soltanto se si eliminano due
equivoci mortali, il mito dell’origine unitaria decaduta ed
il mito della finalità necessaria prefissata. Secondo, la dia­
lettica non sparisce nella fase speculativa del capitalismo
(come tu sembri ipotizzare), ma assume soltanto forme
diverse da quelle assunte storicamente nelle fasi astratta e
dialettica propriamente detta. Ma vediamo meglio.
In prima approssimazione, la dialettica e il semplice
riconoscimento della unità ontologica dei contrari. Più
esattamente, è il riconoscimento razionale dell’unità on­
tologica degli opposti in movimento temporale ed in cor­
relazione essenziale. Essa non rompe affatto con il senso
comune (per fortuna generalmente ben distribuito fra le
persone semplici, ed è invece molto raro in quella catego­
ria dogmatica, allucinata, settaria ed intollerante chiama­
ta degli “intellettuali”), ma semplicemente lo elabora in
forma potenzialmente accessibile a tutti.
Ogni fisiologia presenta delle patologie. Le principali
patologie della dialettica a mio avviso sono due: il mito
dell’origine unitaria decaduta ed il mito della finalità ne­
cessaria prefissata. Vediamole separatamente. Nel primo
caso (il mito dell’origine unitaria decaduta) si ipotizza
che il normale momento in cui viviamo non sia caratte­
rizzato dall’unità contraddittoria degli opposti in corre­
lazione essenziale, ma dal normale principio di non-con-
traddizione effettivamente vigente nelle scienze della na­
tura, in cui per principio non può esistere la soggettività
antagonistica delle prese di coscienza. Si ipotizza allora
un’unità originaria decaduta da raddrizzare, che da luogo
o ad un mondo peccaminoso, “a testa in giù” (variante
biblica, ed in generale monoteistica ma estranea ad esem­
pio alle culture non monoteistiche, come quella cinese,
che è naturalistica), o ad un mondo in qualche modo
372 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

“alienato” (scuola marxista e poi anti-marxista italiana di


Lucio Colletti, Giuseppe Bedeschi e Luciano Albanese).
E possibile che la lontana origine filosofica di questa con­
cezione sia quella neo-platonica tardo-antica. (Ma perso­
nalmente ne dubito, pur non avendo qui lo spazio per un
chiarimento ulteriore). Resta il fatto che il presupposto
mitico di questa unità “originaria decaduta da ricostruire
non caratterizza affatto la moderna dialettica storica di
Fichte e di Hegel, poi ereditata da Marx e quindi risulta
infondata ed arbitraria questa sovrapposizione, che è sem­
pre il sintomo (laddove sia in buona fede) di una imper­
fetta secolarizzazione messianica di un presupposto mo­
noteistico trascendente, inevitabilmente creazionistico.
Per costoro il così detto comuniSmo dovrebbe rimettere
semplicemente sui suoi piedi una comunità originaria
decaduta nel tempo storico. Chi ci vuol credere si acco­
modi. C’è infatti di peggio. Lasci però perdere la dialet­
tica moderna e soprattutto il moderno sottoscritto. Nel
secondo caso (il mito della finalità’necessaria prefissata)
la dialettica filosofica viene messa al servizio (come ba­
dante senza diritti e senza libretto di lavoro) del concetto
di “legge scientifica”, per di più concepita in senso posi­
tivistico e quindi rigorosamente deterministico. Questo
concetto di legge scientifica è previsionale, e su questa
base, ad esempio, si possono solo prevedere le eclissi di
sole e di luna ed il ritorno delle comete in modo sorpren­
dentemente esatto. Ma se il futuro “naturale” è astrono­
micamente prevedibile (non sempre, peraltro), il futuro
storico non è mai prevedibile in via di principio, perché
comprende l’imprevedibile prassi individuale e collettiva
degli esseri umani, che nessuna estrapolazione economi­
ca o sociologica potrà mai “prevedere” se non in forma
dilettantesca, quasi sempre soltanto analogica e ricavata,
“pescando” nel passato storico, luogo di inevitabili p it­
toreschi equivoci.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 373

Eliminate queste due patologie, entrambe di origine


religiosa e per di più fortemente collegate, al punto costi­
tuire un’unica e sola patologia, si può ristabilire una con­
cezione sobria e non ubriaca di dialettica storico-filosofica.
La dialettica riconosce la permanenza delle contraddizioni
dell’essere sociale (se ci siano anche contraddizioni nell’es­
sere naturale lasciamolo ai benemeriti seguaci della reli­
gione di Engels, il materialismo dialettico, ma si interdice
di prevederne le specifiche forme di esistenza nel futuro
che è poi esattamente quello che Hegel dice quando af­
ferma che la nottola di Minerva, l’uccello consacrato alla
consapevolezza storica dell'autocoscienza umana, si alza in
volo soltanto al crepuscolo).
E qui giungiamo al punto che ti assilla. In passato
certamente la dialettica c’è stata, ma nel presente sembra
non esserci più, da cui si potrebbe razionalmente ipotiz­
zare che anche nel prossimo futuro potrebbe non esserci
più. Ma cerchiamo di vedere meglio le cose. Certo, oggi
come oggi è certo che l’Europa sembra essere provvisoria­
mente fuoriuscita dalla storia, e basti pensare a come gli
arroganti diplomatici USA nei files di Wikileaks descri­
vono i miserabili fantocci europei, schiavi soddisfatti di
sé ed incapaci di dignità e ribellione. Ma nel resto del
mondo la storia non si è fermata almeno per ora. Nella
mia prima risposta ho fatto notare che le tre principali
forme di coscienza politica novecentesca inerziale sono
ormai prigioniere di una gabbia ideologica (pensiero
liberale, pensiero fascista, e pensiero comunista) e sono
quindi del tutto paralizzate ed impotenti. Ma le passibi­
lità del futuro non sono contenute nella prigione prov­
visoria del presente. È invece del tutto esatto che nella
nuova fase speculativa del capitalismo (economicamente
globalizzata, politicamente oligarchica, filosoficamente
individualista e postmoderna) la dialettica per ora non
può essere ristabilita nella forma delle soggettività col­
374 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

lettive configgenti dotate di identità classistiche relati­


vamente stabili. Ma il fatto che la dialettica non passa
essere riproposta come prima non significa che essa non
esista più. Significa soltanto che non può più essere ripro­
posta nelle forme storiche e sociali precedenti.
•Faccio qui l’analogia con la teoria dell’evoluzione.
Tutti i biologi evoluzionisti concordano sul fatto che
essa è imprevedibile (paradossalmente è questo l’unico
elemento su cui concordano anche i biologi creazionisti
del cosiddetto “disegno intelligente”, in cui l’imprevedi-
bilità è ricondotta a voleri imperscutabili di Dio onnipo­
tente). Bene, anche la storia futura è del tutto impreve­
dibile. Per questo è indispensabile sostituire al mito del
Destino della Tecnica (non importa se nella variante hard
della differenza ontologica di Heidegger o nella variante
soft della dialettica negativa di Adorno-una più cialtrona
dell’altra) il nuovo concetto di Dittatura dell’Economia,
o più esattamente di dittatura oligarchica dell’economia.
La differenza è essenziale. Se siamo ormai in un’epoca
post (non importa se postmoderna, postmetafisica, ecce­
tera, io proporrei di punire tutti i post con una innocua
ma fastidiosa scossetta elettrica nel sedere), allora anche
la soggettività umana incorporata in una fatalità tecnica
intrascendibile (da qui il successo elei vari Emanuele Se­
verino ed Umberto Galimberti negli organi della grande
manipolazione mediatica delle oligarchie della globaliz­
zazione). La conclusione è allora il refrain: non c’è più
nulla da fare/è stato bello sognare. Se invece il problema
non sta nel presunto Destino della Tecnica ma nel più
concreto Dispotismo dell’economia Feticizzata, allora
questa dittatura è un nemico ben indicabile (rimando
qui alla mia terza risposta), e per di più un ostacolo in
via di principio toglibile.
Le nuove forme della contraddizione dialettica
nell’epoca del capitalismo speculativo, oligarchico e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 375

globalizzato, non possono ancora essere descritte. C’è


già la lista dei nemici principali (de Benoist, ma an­
che Preve), ma non c’è ancora la lista degli amici e dei
collaboratori. Questa lista crescerà in cammino. Per
ora basti partire dalla convinzione per cui essa è onto­
logicamente possibile. E se è ontologicamente possibile,
e non siamo in preda al Destino della Tecnica o della
dialettica negativa (una vera oscenità), allora sarà anche
socialmente possibile, politicamente possibile, e quindi
storicamente possibile.
376

La privatizzazione della vita sociale

L a p r iv a t iz z a z io n e d e i d i r i t t i so c ia li

1) Il referendum dei lavoratori della Fiat, conclusosi


con la vittoria dei SI alla strategia di ristru ttu ­
razione aziendale voluta da Marchionne, prelude
a m utam enti sistemici dell’economia italiana in
senso liberista. E dunque giunto al suo “natura­
le” compimento un processo d i destrutturazione del
modello di economia m ista enunciato dalla carta
costituzionale, che prevedeva il controllo, Vindirizzo
e lo stesso intervento diretto dello Stato nell’econo­
mia nazionale. Alle privatizzazioni delle aziende
pubbliche, hanno fa tto seguito le riforme stru ttu ­
rali della legislazione del lavoro, con l’introduzione
di form e diversificate d i lavoro precario, le riforme
pensionistiche con l’allungamento della vita lavora­
tiva, le lim itazioni della tutela sindacale. La nuo­
va strategia industriale inaugurata da Marchion­
ne, rappresenta di per se il delinearsi di un nuovo
modello di sviluppo, suscettibile di applicazione a
tu tti i settori della produzione. La svolta “M ar­
chionne” sarebbe dovuta all’esigenza prioritaria
di adeguare l’economia italiana alla competitività
dei mercati internazionali: pertanto essa comporta
l’aggancio dei salari alla produttività, la compres­
sione dei d iritti sindacali e l’esclusione dalle tra t­
tative aziendali di quei sindacati che non accettino
i contratti di lavoro proposti dagli imprenditori, ol­
tre alla abrogazione, nei fa tti, del contratto collet­
tivo d i lavoro. I l nuovo modello di sviluppo è qu in d i
fondato sulla unilateralità del modo di produzione
imposto dalla grande industria e dalle banche in
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 377

relazione alle condizioni, in term ini d i produttivi­


tà e competitività poste dal mercato globale. In re­
altà, quali che siano le prospettive di sviluppo della
F iat - Chrysler, certo è che l’economia italiana ed
europea non potrà m ai essere competitiva con quel­
la cinese elo asiatica, data la m inim a incidenza del
costo del lavoro dei paesi emergenti rispetto ai la­
voratori europei. Si è comunque determ inata una
svolta epocale nei rapporti di produzione: è scom­
parsa la funzione di mediazione dello Stato nei
rapporti tra le p a rti sociali (il governo ha peraltro
sostenuto la strategia d i Marchionne), si è svuotato
d i contenuto il ruolo dei sindacati, quale contro­
parte rappresentativa dei lavoratori nelle tratta­
tive con l’imprenditore, che a sua volta (nel caso di
Marchionne), si dissocia dalla propria associazione
sindacale (Federmeccanica), per imporre il proprio
contratto d i lavoro. 1 costi sociali d i tale trasforma­
zione del modello economico, in term ini di salario,
tutela sindacale, occupazione, qualità della vita,
sono devastanti. Ma, soprattutto, occorre eviden­
ziare come la ristrutturazione industriale imposta
da Marchionne si realizzi nel contesto d i una fase
storica in cui si verifica nella società italiana una
trasformazione sociale e culturale che potremmo de­
finire “privatizzazione della vita sociale”. In fa tti,
nell’ambito della giustizia civile l’orientamento ri­
formatore è quello d i sviluppare la pattuizione p r i­
vata, la conciliazione, un tipo d i contrattualismo
in cui le leggi derogano alla trattativa tra le parti.
N el campo penale, la depenalizzazione di molte f a t ­
tispecie di reato, il massiccio ricorso al patteggia­
mento, sono fenom eni di analoga ispirazione. N el­
lo stesso diritto del lavoro tu tta la legislazione sul
lavoro precario e flessibile, è, nei fa tti, sostitutiva
378 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dei principi della contrattazione collettiva, e della


stessa contrattazione aziendale, già diffusa in altri
settori (vedi il tessile), p rim a del “modello” M ar-
chionne. Alla contrattazione collettiva si sostituirà
nel tempo la contrattazione privata individuale.
Sta emergendo un processo riformatore in cui gli
organi legislativi e giurisdizionali dello Stato ven­
gono estraniati dalle loro fu n zio n i istituzionali: il
legislatore abroga se stesso, eliminando l’intervento
dello Stato come fonte normativa prim aria e de­
volvendo alla sfera privatistica la regolazione dei
rapporti tra le p a rti sociali, il giudice è destinato a
svolgere una funzione giurisdizionale lim itata alla
legittim ità, estraniandosi cioè dal merito delle con­
troversie tra i cittadini.

Penso che la formula da te impiegata “privatizzazione


della vita sociale” sia estremamente felice, e possa servi­
re da bussola concettuale per una corretta ricostruzione
storica e culturale di ciò che ha preceduto la situazione
attuale. Ciò che correttamente il sindacato FIOM-CGIL
chiama il “ricatto Marchionne” è in realtà il “modello
globalizzato Marchionne”, e senza capirne la logica di­
venta impossibile opporvisi se non in modo puramente
lamentoso e testimoniale. Benché preti, politici, giorna­
listi e clero universitario parlino di “responsabilità sociale
delfimpresa” ad ogni piè sospinto, in realtà l’impresa è
responsabile soltanto verso i profitti dei propri azionisti,
ed il resto è secondario. Cerchiamo allora nella storia degli
ultimi secoli un filo conduttore che ci permetta di andare
un poco più in profondità.
In tutte le società precapitalistiche la privatizzazione
integrale della vita sociale era non solo impossibile, ma
anche concettualmente inconcepibile. Questo non signi­
fica affatto che esse fossero moralmente “migliori”, ed
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 379

ogni nostalgismo di questo tipo ci porta fuori strada. È


interessante che lo stesso termine latino privatus non al­
ludesse ad una situazione originaria di libertà ‘“naturale”,
ma indicasse al contrario l’operazione di “privazione” dal
godimento della proprietà comunitaria dell’ager publicus,
che in realtà “pubblico” in senso moderno non lo era per
niente, ma si riferiva ad una comunità tribale fortemente
gerarchica ed inegualitaria. Il fatto che essere “privato”
volesse dire essere forzosamente privato di qualche cosa (il
godimento comunitario dei beni), mentre il “pubblico”
alludesse ad un particolarismo tribale gerarchico (le gentes)
non è solo una curiosità etimologica, ma è uno stimolo
per uno spaesamento concettuale necessario per farci rela­
tivizzare i significati attuali dei termini, che sono storici
e non “naturali”.
Il modello politico e sociale della polis greca classica
era fondato su di un modo di produzione sociale di piccoli
produttori indipendenti, e non era affatto correlato ad un
modo di produzione schiavistico sviluppato, secondo una
tradizionale confusione cui sono caduti pensatori diversi
ed incompatibili come Nietzsche, Hannah Arendt, Stalin
ed il marxismo classico. Ed è questa la ragione per cui
Marx fece sempre riferimento alla polis greca classica, ve­
dendo in essa un esempio certo di sfruttamento, ma non di
alienazione vera e propria. La separazione dei concetti di
sfruttamento (Ausbeutung) e di alienazione (Entfremdung) è
concettualmente necessaria, perchè il modo di produzione
capitalistico è il primo ed il solo in cui si verifica la piena fu­
sione di entrambi. Solo la norma dell’accumulazione illi­
mitata di valore, infatti, permette di incorporare integral­
mente i processi di sfruttamento (che caratterizzano tutte
indistintamente le formazioni sociali classiste) all’interno
del processo di alienazione, cioè di espropriazione inte­
grale dello stesso processo lavorativo sociale, al di là della
precedente distribuzione ineguale del plusprodotto.
380 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Questo - vai la pena ripeterlo senza stancarsi - non


comporta assolutamente conclusioni "nostalgiche” nei
confronti delle società caratterizzate dal dispotismo orien­
tale oppure, in Europa, dal feudalesimo e dal dominio
nobiliare. Il problema non sta qui, ma sta nella corretta
individuazione della genesi storica della società caratteriz­
zata dalla privatizzazione della vita sociale. Anche se solo
oggi questa privatizzazione della vita sociale è diventa­
ta scandalosamente visibile (e lo è diventata perché si è
globalizzata), è bene ricordare che già fra Settecento ed
Ottocento sono già riscontrabili sintomi di questa visi­
bilità, soprattutto nell’interpretazione idealistica della
natura del precedente illuminismo (Aufklàrurng). Ciò che
cercherò di sviluppare in questa mia prima risposta è ap­
punto una tesi, per cui progressivamente il punto di vista
integralmente individualistico e privatistico dell’empi-
rismo inglese ha sostituito il punto di vista certamente
ancora classistico, ma anche comunitario, dell’idealismo
tedesco cui Marx non è che l’ultimo coerente esponente.
Ma indaghiamo prima il modello dell’idealismo tedesco,
e soltanto dopo, quello deU’empirismo inglese, in modo
che la “contrastività” del secondo rispetto al primo appaia
maggiormente visibile.
Il carattere “dialettico”, e quindi contraddittorio, de­
gli esiti della critica illuministica appare già chiaro al
primo grande idealista, il prussiano Fichte, figlio di servi
della gleba. A differenza di Voltaire e dei suoi successori
odierni (ricordo qui solo il giornalista con pretese cultu­
rali Eugenio Scalfari), Fichte considera Filluminismo in
termini dialettici, che ritengo nell’essenziale validi an­
cora oggi. Da un lato, la distruzione illuministica delle
pretese metafisiche di legittimazione feudale e signorile
(e quindi assolutistica) è interamente giustificata e legit­
timata, e non c’è traccia di quel “nostalgismo” che inve­
ce caratterizzerà i pensatori della successiva Restaurazio­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 381

ne (1815-1830). Il vecchio mondo meritava di morire,


perchè aveva perduto quella eticità sostanziale che pure
era stata in grado di produrre le grandi cattedrali, roma­
niche e gotiche. Dall’altro lato, però, la distruzione di
tutte le precedenti certezze comunitarie, pur necessaria,
aveva comportato uno stato di anomia individualistica,
di scetticismo e di relativismo nichilistico integrale che
Fichte definì in termini di “epoca della compiuta pec­
caminosità” e più tardi Hegel definì come “risoluzione
dell’ascetismo della morale in regno animale dello spiri­
to”. Qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità di in­
terpretare analiticamente i due concetti critici di Fichte
e di Fiegei, ma è sufficiente sottolineare che la diagnosi
di potenziale “privatizzazione della vita sociale” era già
stata fatta, ed era stata fatta in termini chiari ed addirit­
tura cristallini. Non siamo all’anno zero della critica, se
sappiamo restaurare affreschi coperti dai graffiti liberali
e postmoderni.
Ci sono molti modi alternativi di esporre e di rias­
sumere il pensiero di Hegel, ma ce n’è forse uno com­
parativamente e contrastivamente migliore degli altri:
Hegel è il pensatore moderno che ha esposto nel mon­
do migliore la distinzione e nello stesso tempo la com­
plementarietà convergente del Privato e del Pubblico,
ognuno sovrano nei rispettivi ambiti. Se questo è vero
- come può essere agevolmente dimostrato - partendo
da Hegel non si potrà arrivare mai alla privatizzazione
della vita sociale. E utile ripercorrere sommariamente il
suo processo di pensiero, fondato sulla distinzione fra
la Moralità (o sfera del Privato) ed Eticità (o sfera del
Pubblico), in cui entrambi i momenti sono riconosciuti
interamente legittimi.
Hegel inizia concettualmente da una critica, talvolta
addirittura eccessiva ed un po’ ingenerosa, nei confronti
del diritto naturale (o giusnaturalismo) e del contratto so-
382 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ciale (o contrattualismo). Se pensiamo che il giusnaturali­


smo ecl il contrattualismo ai suoi tempi costituivano il
novanta per cento del pensiero politico, ci rendiamo conto
della sua rivoluzionarietà e del suo coraggio innovativo.
Ma sono le motivazioni che lo spingono a suscitare la no­
stra postuma ammirazione.
Hegel respinge il diritto naturale, pur riconoscendone
il valore storico negli ultimi secoli perchè non accetta che
ci sia un presupposto non-storico della storia posto all’ori­
gine della storia stessa, e nello stesso tempo sottratto alla
storicità costituente. Oggi si direbbe che si contrappo­
ne ai miti dell’Origine, che sono inevitabilmente anche
dei miti della Fine della Storia (ove la storia è vista in
termini di perdita e di successiva ricomposizione di un
Intero Perduto). Se ci fosse qui lo spazio per approfon­
dire analiticamente la questione, apparirebbe chiaro che
questa posizione è incompatibile con l’interpretazione di
Hegel come neoplatonico moderno che vuole ricomporre
una totalità organica originaria decaduta (Lucio Collet­
ti), oppure come teorico della fine della storia (Alexandre
Kojève). Ma in questa sede ci interessa sottolineare che sia
il Privato che il Pubblico sono entrambi prodotti dello
sviluppo storico, e non sono presupposizioni giusnatura­
listiche astoriche.
Hegel critica la teoria del contratto sociale per le
stesse ragioni per cui aveva criticato la teoria del diritto
naturale. Non c’è e non c’è mai stato un contratto origi­
nario, ma all’origine la società si è costituita sulla base
di rapporti di forza (nascita del dominio, rapporto fra
servo e signore, eccetera). Il moderno rapporto di Pri­
vato e di Pubblico è un risultato storico di un processo di
incivilimento dialettico progressivo, non la restaurazio­
ne di una caduta originaria, bene esemplificata dal mito
biblico del peccato originale, radice unica di tutte le
successive secolarizzazioni escatologiche. Chi interpreta
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 383

Marx in termini di secolarizzatore utopico della escato­


logia giudaico-cristiana (ad esempio Lowith, ed oggi la
stragrande maggioranza della filologia universitaria sia
moderna che postmoderna, da Habermas a Lyotard) deve
dimenticare e far dimenticare che Marx nell’essenziale
accetta la critica di Hegel al diritto naturale ed al con­
tratto sociale, la metabolizza e la fa sua, e quindi non
è corretto inserirlo nella sequenza (sia pur rispettabile)
dei pensatori dell’Origine presupposta e del conseguente
Fine prefissato.
Il rapporto fra sfera pubblica e sfera privata è posto
da Hegel in modo rigorosamente filosofico, e più esatta­
mente filosofico-comunitario, e non più nel vecchio modo
religioso precedente. Per essere chiari, il pubblico inter­
viene sul privato quando c’è un reato non quando c’è un
peccato. Il pubblico interviene nel privato quando c’è pe­
dofilia, non certo quando c’è omosessualità. Nello stesso
tempo, anche alla famiglia viene conferito un carattere
pubblico, nella misura in cui l’educazione dei figli non
può che avere un carattere pubblico. La stessa società civi­
le fa parte di una sfera pubblica, perchè il riconoscimento
della professionalità e l’assistenza pubblica non possono
essere ridotte all’arbitrio di un eventuale “capitalismo
compassionevole”.
Non vi è qui lo spazio per esaminare le varie forme
di hegelismo posteriore, di destra (Gentile) o di sinistra
(hegelo-marxismo). Esse hanno sempre avuto come mi­
nimo comun denominatore il rifiuto concettuale di una
qualsivoglia privatizzazione della vita sociale, ed ad esse
bisognerà tornare per “raddrizzare” l’attuale andazzo pri-
vatizzatore. E invece utile esaminare la corrente dell’ em­
pirismo individualistico anglosassone, perchè è essa a fare
da portatrice ed amplificatrice di questo fenomeno.
Mentre la tradizione dell’idealismo tedesco (nell’es­
senziale ereditata da Marx nella forma del superamento-
384 Luigi Tedeschi, Costanzo Prave

conservazione, Aufhebung) permette di salvare l’autonomia


specifica sia del Pubblico che del Privato, la tradizione
dell’empirismo anglosassone fin dall’inizio è dominata da
una tendenza di privatizzazione individualistica integrale
del pubblico. L’origine sta forse in una particolare seco­
larizzazione del calvinismo, una forma di religione che
tende a mettere in rapporto diretto e senza mediazioni
l’individuo e la divinità, oltre a fare l’apologià dell’arric­
chimento privato come segnale della elezione divina. Ma
già in Hobbes, che pure è completamente ateo e diffida
degli estremisti religiosi puritani, è centrale la polemica
contro l’antropologia filosofica di Aristotele. Rifiutando
la teoria aristotelica per cui l’uomo è un animale politico,
sociale e comunitario (politikòn zoon) si rifiuta soprattutto
la conseguenza pratico-politica di questa teoria, per cui
l’uomo è un animale comunitario capace di calcolo socia­
le per la divisione giusta ed armonica del potere e delle
ricchezze (zoon logon echon). In Locke la proprietà priva­
ta è un diritto naturale derivato dal lavoro diretto del
primo coltivatore, e non l’effetto di un processo storico
di progressiva privatizzazione di una precedente comu­
nitaria (si tratta della concezione che Marx chiamò poi
“robinsonismo” riferendosi al personaggio di Robinson
Crosuè). La stessa critica di Locke alla categoria metafisi­
ca di “sostanza”, lungi dall’essere una innocua operazione
gnoseologica, è una metafora politica per la negazione
di una sostanza comunitaria che “sta sotto” agli scambi
privati fra individui. Ma il punto archimedico di questa
privatizzazione filosofica della vita sociale sta in David
Hume, e nel suo particolare modo di respingere il con­
tratto sociale che nelle concezioni del tempo era conside­
rato l’elemento che “istituiva” la società. Mentre Hegel
(e poi Marx) respingeva la fondazione contrattualistica
della convivenza umana perchè considerava il contratto
una istituzione puramente privatistica, non adatta a fon-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 385

dare concettualmente la società umana (rifiutando cosi la


concezione della società umana come rete contrattuale di
individui privati originari e sottratti alla storicità ed alla
socialità costituenti), Hume considera il contratto sociale
inutile, dal momento che la società si istituisce spontane­
amente senza contratto sulla base delle attese di scambio
reciproche fra venditore e compratore (e Smith, accette­
rà integralmente questa autofondazione deii’economia
su se stessa, con inevitabile posteriore trasformazione
del primato dell’economia in dittatura totalitaria della
crematistica). Soltanto i manuali di storia della filosofia,
capolavori di stupidità istituzionalizzata, possono soste­
nere che la critica di Hume alla categoria di causalità non
nasconde nulla di “sociale”, ma è soltanto un geniale ac­
corgimento gnoseologico. In questo modo, la privatiz­
zazione della vita sociale era cosa fatta, con l’inevitabile
primato del modello neoliberale di economia su tutti gli
altri ambiti della vita sociale (l’azienda Italia, il giudizio
dei mercati, eccetera).
E interessante che neU’ultim a opera di Toni Negri,
questo giocoliere che ricava il suo comuniSmo anarchico
dallo stesso sviluppo della globalizzazione capitalistica,
ci sia un’insistita polemica contro la dicotomia di Pub­
blico e di Privato, in nome di un fantomatico “comune”
attinto direttamente da individui onnipotenti animati
da una nicciana volontà di potenza intesa come autovalo­
rizzazione energetica individuale. Ma si tratta solo di un
sintomo secondario, nel mondo dissociato dei cosiddetti
“intellettuali di sinistra”, della provvisoria vittoria del
modello dell’empirismo anglosassone sul modello dell’i­
dealismo tedesco. La storia delle idee ha infatti un anda­
mento più ciclico che lineare, dipendendo strettamente
non tanto da una logica conoscitiva e veritativa, che re­
sta sempre e solo “ideale” (donde appunto l’idealismo),
quanto da una più modesta sociologia degli intellettuali
386 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

accademici, editoriali ed universitari. Oggi il padrone é


a Washington, e nel giorno stesso in cui sto scrivendo
queste righe (sabato 12 febbraio 2011) i giornali com­
mentano la cacciata dei Mubarak, sostengono che non
si tratta di una vittoria del popolo egiziano, pagata con
un grande tributo di sangue, ma di una vittoria di Oba-
ma e del modello neoliberale di gestione “democratica”
del capitalismo. I rapporti di forza in cui viviamo ci co­
stringono a sopportare impotenti questa dittatura della
manipolazione, ma speriamo che si tratti soltanto di una
congiuntura temporanea.

La p r iv a t iz z a z io n e id e o l o g ic o - p o l it ic a

2) Dalle precedenti considerazioni, deriva necessaria­


mente l’affermarsi d i una nuova struttura della so­
cietà, caratterizzata dalla fram mentazione dei rap­
porti sociali, tram utatisi in rapporti privati e dal
venir meno dei corpi intermedi rappresentativi delle
categorie produttive, delle classi sociali, degli interes­
si legittim i della collettività. I rapporti privatistici,
sono per loro natura avidsi dai fondam enti etici, da
principi cioè generati dalla interdipendenza delle
idee e delle condizioni sociali tra gli individui, che
costituiscono il legame obiettivo ed interpersonale
alla base d i qualsivoglia rapporto comunitario tra i
singoli. I l rapporto privato è necessariamente estra­
neo alla dinamica dei rapporti sociali e pertanto trae
la sua origine da interessi individuali: è per sua na­
tura un rapporto che si realizza su basi economiche.
È facile quindi comprendere come tali rapporti siano
improntati a l prevalere della forza economico - con­
trattuale di una delle p a rti e come una società fo n ­
data sull’individualismo privatistico, non possa che
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 387

produrre squilibri sociali e disuguaglianze endemi­


che. G li attuali m utam enti dei rapporti economici
in Italia non potranno che incidere profondamente
sull’assetto politico - istituzionale. Invero, è ormai la
prassi, intesa come insieme di forze trasformatrici
nell’ambito economico e sociale ad imporre cambia­
m enti sistemici nella, società. In via di principio, tale
processo di rinnovamento è congenito allo sviluppo di
nuove forme di equilibri sociali che scaturiscono dal
venir meno del rapporto d i reciproca interazione e
rappresentatività tra istituzioni politiche e società
civile. Pertanto, all’esaurimento di una fase storica,
fa rà seguito l’inizio di nuovi processi di sviluppo,
creati da nuove classi dirigenti legittimate da nuovi
equilibri politico - sociali. A d un vecchio ordine, si
dovrebbe contrapporre l’emergenza di nuove forze so­
ciali che si impongono nella società civile. Ma il pre­
sente processo di trasformazione che si impone nella
società civile, è estraneo all’ordinamento istituziona­
le. Esso non si rivolge contro lo Stato, ma si afferma
al di fuori e al di là dello Stato. Quello attuale è un
modello di sviluppo che riforma la società estranian­
dosi dallo Stato (cioè dalla sfera politica e culturale).
Siamo dinanzi all’avvento d i riforme strutturali in
completa assenza dello Stato. In realtà il rinnova­
mento della società è imposto non dal concorso delle
forze sociali e produttive presenti nella società, ma
dalla invasività di forze economiche che si impongo­
no nel mercato globale. E unilateralità e l’autorefe-
renzialità del capitalismo attuale non si identifica
quindi con una prassi emergente dai rapporti politi­
co - sociali presenti nella società, ma con una prassi
di dominio economico del mercato che si impone alla
società civile, che a sua volta si tram uta quindi in
“società di mercato”.
388 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Ha scritto recentemente Alain de Benoist (cfr. Ele-


ments, n.138, gennaio-marzo 2011): “Oggi il denaro
raccoglie l’unanimità. Da tempo, la destra se ne è fatta
schiava. La sinistra istituzionale, con la copertura del “rea­
lismo”, si è rumorosamente allineata all’economia di mer­
cato, cioè alla gestione liberale del capitale. Il linguaggio
dell’economia è diventato onnipresente”.
Ho cercato di dimostrare nella mia prima risposta che
quella che tu correttamente chiami “privatizzazione della
vita sociale”, oggi minimo comun denominatore di tutte
le destre e di tutte le sinistre istituzionali (ma anche cul­
turali, editoriali, giornalistiche ed universitarie), trova la
sua radice ultima nella prevalenza progressiva del mo­
dello dell’empirismo inglese sul modello dell’idealismo
tedesco, e che fino a quando questa prevalenza non sarà
rovesciata saremo condannati a muoverci in un mondo
di simulazioni e di chiacchiere secondarie, infarcito di
moralisti, giornalisti, magistrati e soprattutto puttane e
travestiti.
In questa seconda risposta, dopo aver dedicato la pri­
ma agli aspetti storici principali, mi limiterò ad esami­
nare il “lato sinistro” di questa convergenza al modello
liberale dalla riproduzione sociale. Il discorso sarebbe lun­
ghissimo, ma lo limiterò a discutere le tesi di quattro soli
studiosi, e cioè Amadeo Bordiga, fondatore nel 1921 del
comuniSmo italiano, Augusto Del Noce, grande filosofo
cattolico italiano, ed infine la tesi dei due sociologi fran­
cesi Lue Boltanski ed Ève Chiapello.
Non è certamente questa la sede per un bilan­
cio storico e teorico dell’attività di Amadeo Bordiga
(1889-1970), che resta una delle figure più interessanti
dell’intero novecento italiano se non altro perché visse
all’insegna della solitudine dell’incomprensione delle
maggioranze conformiste che si credono informate ed
intelligenti. Qui segnalerò un unico aspetto del suo pen­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 389

siero, il rifiuto di incorporare la critica al capitalismo,


all’interno dell’antifascismo, e soprattutto la piena com­
prensione del fatto che di per sé l’antifascismo (partico­
larmente quando diventa una “religione civile” cerimo­
niale di legittimazione in conclamata assenza di fascismo
propriamente detto) è sempre e soltanto una forma di
liberalismo, sia pure di “sinistra”, ed è pertanto impos­
sibile fondare sull’antifascismo il socialismo ed il comu­
niSmo. Quanto dico non ha ovviamente nulla a che fare
con la legittima valutazione storica e storiografica sia dei
fascismi (al plurale) sia degli antifascismi (al plurale),
ma deve essere ferreamente limitato al solo contenuto
della tesi bordighiana, per cui l’antifascismo è sempre
e soltanto una variante ideologica del liberalismo, ed in
esso deve inevitabilmente cadere prima o poi in modo
gravitazionale. Per capire la tesi di Bordiga è necessario,
soprattutto in Italia, un doloroso riorientamento gestal-
tico globale, in quanto in superficie le cose sembrano
proprio essere rovesciate, dal momento che dopo il 1945
l’antifascismo è stato praticato soprattutto come coper­
tura e mascheramento ideologico di legittimazione del
comuniSmo italiano, consapevole della ristrettezza della
sua base di consenso in base a cose come la dittatura del
proletariato o il sociologismo operaista. Ma questa, ap­
punto, è la superficie e non la profondità. In realtà l’insi­
stenza sul minimo comun denominatore antifascista del
patto costituzionale degli italiani non portava che super­
ficialmente ad una legittimazione dei comunisti, visti
come parte integrante e maggioritaria del partigianato
resistenziale antifascista, in quanto agiva in profondità
(e gli ultimi decenni lo hanno dimostrato senza ombra
di dubbio) come critica di tutte le “dittature” e come
apologia del solo sistema liberale. La logica dell’antifa­
scismo non portava dunque verso Lenin e neppure verso
Gramsci, ma portava inevitabilmente verso la teoria del­
390 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

le regole del gioco di Norberto Bobbio o verso la critica


del totalitarismo di Hannah Arendt. Soltanto il lungo
periodo nella storia permette di giudicare veramente la
preveggenza strategica delle grandi ipotesi teoriche, e
oggi (2011) possiamo dire che il rifiuto dell’antifascismo
di Bordiga era appunto preveggente, perchè intuiva pre­
cocemente il nesso organico fra antifascismo e liberali­
smo, al di là delle congiunturali strategie di legittim a­
zione del PCI fino al 1991-
A proposito di Augusto Del Noce, non c’è figura
tanto diversa ed incompatibile con quella di Amadeo
Bordiga. Eppure Del Noce è stato uno dei pochissimi
pensatori italiani che abbiano saputo andare al di là del­
la superficie polemica a rapidissima obsolescenza, e che
abbiano individuato la natura profondamente nichili­
stica dello storicismo assoluto italiano, che il comuni­
Smo in Italia assunse in una forma solo superficialmente
riverniciata a “sinistra”. Giovanni Gentile e Benedetto
Croce avevano infatti radicalizzato l’impostazione stori­
cista di Hegel, togliendole quegli aspetti logici ed onto­
logici che ad esempio aveva saputo conservare il Lukàcs
dell’Ontologìa dell’Essere Sociale, per cui lo scorrimento
progressistico in avanti del tempo storico diventava il
solo fondamento di legittimazione della causa del su­
peramento del capitalismo. Si aveva così, sempre nel
linguaggio di Lukàcs, una “storia spogliata della sua
forma storica”, in cui la vittoria e la sconfitta empiriche
di una causa politica diventavano il solo criterio per un
corretto orientamento storico. Il comuniSmo, quindi,
diventava legittimo solo in quanto vinceva. Se avesse
cominciato a perdere, sarebbe stato legittimo e doveroso
abbandonarlo, rinnegarlo e cambiare di campo. A fianco
del carattere nichilistico e relativistico dello storicismo,
Del Noce rilevava con profetica intelligenza che il pro­
gressismo storicistico sarebbe inevitabilmente sfociato
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 391

nella confluenza in una società dei consumi individua­


listica, per cui l’esito neoliberale era diagnosticato in
modo certo molto diverso da quello di Bordiga, ma in
definitiva l ’approdo era lo stesso.
I sociologi francesi Lue Boltanski ed Ève Chiapello
hanno proposto una convincente periodizzazione del
capitalismo, che non potrò però tuttavia esaminare in
questa sede per ragioni di spazio. Il solo aspetto della
loro trattazione che esaminerò qui è la loro teoria della
genesi, sviluppo ed esito della cosiddetta “sinistra”. Essi
rilevano che nel periodo storico che va grosso modo dal
1871 al 1968 la “sinistra” si era costituita sulla base di
una alleanza fra una critica economico-sociale alle ingiu­
stizie distributive del capitalismo, di cui erano titolari
le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, ed una
critica artistico-culturale all’ipocrisia della morale della
borghesia, di cui erano invece titolari appunto gli intel­
lettuali di “avanguardia”. Questa alleanza durò fino al
Sessantotto (da non confondere con gli empirici eventi
dell’anno 1968), in cui il capitalismo cominciò a svi­
luppare una logica riproduttiva post-borghese (e quindi
inevitabilmente anche post-proletaria, dal momento che
borghesia e proletariato sono opposti dialettici in corre­
lazione unitaria essenziale, e non c’è l’uno senza l’altra),
liberalizzando integralmente il costume e le forme di
vita vetero-borghesi. Il liberalismo vinse così diretta-
mente all’interno del ceto degli intellettuali, sempre più
“creativi” e “postmoderni”, mentre la vittoria sul prole­
tariato venne realizzata con l ’indebolimento della sovra­
nità monetaria dello stato nazionale, la globalizzazione,
l’economia del debito, eccetera.
In questa sede, non mi interessa “coerentizzare” le ri­
spettive tesi di Bordiga, Del Noce e Boltanski-Chiapello.
Sarebbe certamente possibile farlo, ed in questo modo si
mostrerebbe alla luce del giorno che i processi di inte-
392 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

grazione subalterna neoliberale della “sinistra” non sono


affatto casuali o semplice frutto di un “tradimento” o di
semplice corruzione monetaria dei suoi dirigenti ed intel­
lettuali (anche se gli alti redditi certamente “aiutano”),
ma sono il risultato di processi storici maestosi di lunga
durata, uniti ad una stupidità ed ingenuità ideologiche
sbalorditive, che risultano però visibili soltanto al “crepu­
scolo”, quando.cioè si leva la hegeliana nottola di Minerva
della consapevolezza storica.
I rilievi che tu fai a proposito di un processo di trasfor­
mazione ohe non si rivolge tanto contro lo Stato quanto al
di fuori ed al di là dello Stato sono quindi assolutamente
corretti e pertinenti, e trovano la loro logica di spiega­
zione soprattutto nella dinamica della privatizzazione
della vita sociale da me (e da te) esaminata nella prima
risposta. La “sinistra” vi aderisce non solo per la sua tra­
dizionale subalternità politica e culturale, esito della sto­
rica inferiorità dei dominati rispetto ai dominanti, ma
perchè in essa la componente anarchica anti-statuale si è
alla fine affermata contro la componente che tendeva ad
una “egemonia” alternativa a quella dei dominanti stessi.
Non si tratta più però dell’anarchismo storico dei brac­
cianti andalusi o degli artigiani svizzeri, ma del nuovo
anarchismo postmoderno dei ceti intellettuali parassitari,
che è sempre e soltanto una variante spocchiosa e snob
dell’individualismo liberale. E questa la ragione per cui è
diventata storicamente obsoleta la pur generosa difesa di
Bobbio dell’identità differenziale della Sinistra rispetto
alla Destra in base all’idealtipo pratico dell’eguaglian­
za. Per essere praticata e non restare un’ipocrita parola
vuota, l’eguaglianza ha appunto bisogno della sovranità
politica di forze sociali che si coagulano necessariamen­
te anche intorno ad una statualità decisionale. Il libero
gioco sovrano delle forze economiche produce soltanto
incremento della diseguaglianza. Noi ci troviamo oggi
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 393

in questa situazione, e l’approdo ideologico neolibera­


le della “sinistra” è un fattore aggiuntivo del blocco di
fronte a cui ci troviamo. Lo stesso esito giudiziario della
sinistra anti-berlusconiana in Italia, ridotta a spiare dal
buco della serratura della villa di Arcore, rivela la natura
privatistica cui è ridotto il conflitto politico oggi. Non ne
verremo fuori presto, purtroppo.

La p r iv a t iz z a z io n e g e o p o l it ic a glo ba le

3) I l nuovo modello d i sviluppo, in realtà nuovo non


10 è affatto, il suo avvento in Italia e in Europa è
dovuto alla esportazione d i esso dagli USA. L’esten­
sione del modello economico globalizzato a ll’Italia e
progressivamente all’Europa dilaniata dalla crisi
del debito, rappresenta sem m ai l’omologazione ad
un americanismo, concepito come sistema globale
non solo dal punto d i vista economico, ma anche
sociale e culturale. È ormai scontato affermare che
la stessa economia d i mercato conduce necessaria­
mente alla società di mercato, nel senso che tutte
le relazioni um ane si conformano alla prassi eco­
nomica della concorrenza e del libero mercato. La
globalizzazione conduce q u in d i alla totalità globa­
le del sistema economico, in quanto quest’ultim o
coinvolge nella sua logica estensiva tu tta l’esisten­
za umana. Non resterebbe dunque altro orizzonte
esistenziale per l’uomo che quello costituire una
risorsa um ana idonea a creare valore nel sistema
produttivo, pena l’impossibilità d i sopravvivenza.
11 sistetna economico liberista globale abbisogna di
continue innovazioni, ristrutturazioni industria­
li, mobilità estrema delle risorse produttive, allo
scopo d i adeguarsi continuamente agli standard di
394 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

produttività e competitività emergenti dal merca­


to. Pertanto, il lavoratore è soggetto ad una insta­
bilità permanente, a vivere come uno stato quoti­
diano di normalità quelle condizioni di emergen­
za e di precarietà che in passato erano proprie di
periodi temporanei (anche se prorogati nel tempo)
di gravi crisi economiche, o di eccezionalità dovute
a calamità naturali, guerre, carestie straordinarie
generalizzate. Pali condizioni sono rilevabili nella
storia in concomitanza dei periodi post - bellici o
post - rivoluzionari, ma le situazioni di emergen­
za erano però percepite come fa s i necessariamente
propedeutiche a fu tu r e prospettive di sviluppo elo
alla edificazione d i una nuova società, alla realiz­
zazione cioè d i società ideali incardinate su valori
u m a n i im m a nenti alla storia. D i im m anente nel­
la società globalizzata c’è invece solo la precarietà e
l’incubo del fu tu ro prossimo. La precarietà è in fa t­
ti una condizione che coinvolge la totalità sociale
e quindi, oltre che i lavoratori subordinati, anche
il menagement, che, allo scopo d i rendere l’im pre­
sa flessibile alle esigenze della com petitività del
mercato globale, assume una struttura dinam ica
e flessibile, nelle tecniche d ì produzione, nella delo­
calizzazione degli im pianti, nell’impiego delle r i­
sorse. La vecchie grandi concentrazioni industriali,
hanno da tempo ceduto il passo alla fram m entazio­
ne in una m iriade di neivco delocalizzate, ognuna
legata ad un progetto di sviluppo a breve termine.
In tale contesto, sia il manager che l’operaio sono
accomunati da un destino precario permanente,
quali risorse um ane fu n g ib ili, im piegabili in un
progetto a breve termine. La concorrenza selvaggia
del nuovo capitalismo non genera l’eccellenza del­
le tecniche d i produzione, né nuovi investim enti,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 395

la cui ricaduta sociale produrrebbe m iglioram enti


del tenore di vita dei lavoratori, ma solo tecniche
di sopravvivenza d i tu tti i propri componenti, la
cui esistenza è direttam ente dipendente dai pro­
getti industriali a breve termine. Allo stesso modo,
se la concorrenza del vecchio capitalismo industria­
le doveva, almeno in teoria, generare, attraverso
una selezione darw iniana, l’eccellenza delle capa­
cità im prenditoriali e delle conoscenze innovative
in campo tecnico e scientifico, il nuovo capitalismo
ha sostituito il mito prometeico della conquista di
sempre nuovi orizzonti del progresso e della civi­
lizzazione umana, con la capacità di sopravvivere
alla emergenza connaturata alle condizioni d i pre­
carietà permanente. La “strategia di sopravviven­
za”, come definita da Lasch, produce individualità
deboli, ma perfettam ente omologabili a i m uta­
m enti ciclici dei mercati e comunque integrabili in
un modo di produzione che non richiede stabilità e
fin a lità um ane ulteriori alla logica della sopravvi­
venza, cui è legato l’intero sistema. I l senso dell’es­
sere è sostituito dalla “strategia d i sopravvivenza”.

Le tue considerazioni sulla centralità della precarietà


del lavoro oggi, e sul fatto che da categoria puramente
economica attinente il mercato del lavoro (l’economia di
mercato) essa sia diventata una categoria antropologica
generale attinente la riproduzione sociale complessiva (la
società di mercato) sono convergenti con quelle di un re­
cente saggio di Eugenio Orso (cfr. Alienazioni e Uomo Pre­
cario, prefazione di Costanzo Preve, editrice Petite Plai-
sance, Pistoia 2011). Dal momento che ritengo che Orso
abbia individuato il centro del problema, assai meglio
di quanto fino ad ora fatto dalla sociologia universitaria
italiana, non farò considerazioni ulteriori, inevitabilmen­
396 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

te pleonastiche, ma mi concentrerò su di un solo punto,


che d’altronde tu indichi con chiarezza, e cioè il rapporto
stretto fra modello della precarietà generalizzata ed ame-
ricanizzazione di tutti i rapporti sociali.
Così come oggi noi la conosciamo, la globalizzazione
è inseparabile dal dominio geopolitico, finanziario e mili­
tare dell’impero USA. Certo, in teoria una diversa globa­
lizzazione interamente policentrica sarebbe concepibile,
ma in pratica il modello attuale di globalizzazione sotto
dominio militare e finanziario americano è l’unico concre­
tamente esistente, ed è impossibile parlare di Italia e di
Europa senza partire dal fatto che l’Italia e l’Europa sono
militarmente occupate da basi militari USA dotate di
armi atomiche, essendo da tempo venuto meno il pretesto
della loro permanenza (e cioè il contenimento del comu­
niSmo sovietico). Per questa ragione un approccio pura­
mente economico, dei problemi (il “ricatto Marchionne”,
eccetera) è del tutto insufficiente, e rischia anche di diven­
tare un alibi per evitare la presa in considerazione lucida
del problema.
Da qualche tempo, l’ex-marxista (ed ora apertamen­
te post-marxista) Gianfranco La Grassa ha cambiato di
nome il suo blog, passando da “Ripensare Marx” a “Con­
flitti e Strategie”. Tre parole dicono tutto, perchè il quasi
cinquantennale viaggio di La Grassa dentro il pensiero
di Marx (modello di serietà rispetto alla retorica vuota di
personaggi come Ingrao, Rossanda, Bertinotti, Vendo­
la, eccetera) è sfociato nella considerazione esclusiva dei
conflitti e delle strategie geopolitiche. Qui certamente ha
giocato un ruolo anche il rifiuto althusseriano della cate­
goria di alienazione, messa invece al centro del discorso
dal saggio Orso, ma ritengo personalmente errato e fuor­
viarne insolentire La Grassa per aver preferito il vecchio
porco puttaniere Berlusconi (considerato geopoliticamen-
te il “male minore” in quanto legato all’ENI, a Putin ed a
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 397

Gheddafi) alla “sinistra”, che si è data come direzione stra­


tegica il gruppo editoriale Scalfari-De Benedetti, e che ha
abolito il popolo, accusato surrealmente di “populismo”,
sostituendolo con un’Armata Brancaleone di Santoro, Sa-
viano, popolo viola e cortei di femministe indignate. Al
di là di pittoresche polemiche, inevitabilmente sopra le
righe, ci sta qui un problema teorico serio: fino a che pun­
to l’esclusiva considerazione geopolitica dei fatti econo­
mici, politici e sociali può di fatto “cancellare” la concreta
esistenza di sfruttati e di sfruttatori, e del fatto che per il
punto di vista degli sfruttati bisogna perlomeno conserva­
re un “occhio di riguardo”?
E impossibile dare una ricetta generale ed evitare il
giudizio tattico caso per caso. Ma cercando di impostare
il problema in modo teoricamente dignitoso, direi che
la deriva di La Grassa può essere evitata soltanto ricono­
scendone parzialmente il nucleo razionale che l’ha cau­
sata e cioè il fatto che talvolta nella storia la semplice
contrapposizione polare Lavoro Salariato-Capitale non ci
permette di fare luce sulla concreta congiuntura stori­
ca in cui ci troviamo, se questa congiuntura storica è
caratterizzata da una particolare “sovradeterminazione”
geopolitica. Personalmente, non penso affatto che i ca­
pitalismi brasiliano, cinese o indiano siano moralmente
migliori e preferibili a quello americano (di cui l’Europa
è oggi solo una miserabile appendice priva di sovranità
militare e soprattutto mediatica e culturale). Penso però
(e qui concordo con la rivista “Eurasia”, con La Gras­
sa e soprattutto con Alain de Benoist, oltre che con la
stragrande maggioranza dei rivoluzionari detti “terzo­
mondisti”, arabi in primo luogo) che il sistema del pre­
cariato generalizzato, fondato sull’economia del debito
e del ricatto (un ricatto molto maggiore del cosiddetto
“ricatto Marchionne”), sia per ora coordinato a livello
internazionale dall’impero militare USA, che è per que­
398 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sta ragione il nemico principale. Non possiamo ignorare


che esiste una “catena dei perchè” e che bisogna risalire
sempre all’anello principale della catena, che tiene tutti
gli altri. Non è obbligatorio essere contro l’alienazione
ed il lavoro precario. Esiste sempre la filatelia, la pesca
con la lenza e la pedofilia telematica. Ma se invece si de­
cide di battersi contro la prima, allora gli USA restano
il nemico principale, ed anche da La Grassa è possibile
imparare qualcosa, pur non seguendolo nelle sue alluci-
nazioni scientistiche ed anti-umanistiche.

L a p r iv a t iz z a z io n e p o s it iv is t a - c a pit a l ist a

4) La estrema mobilità virtuale del mondo dell’eco­


nomia globalizzata, cela in se una sostanziale im ­
mobilità d i fondo. Esso riproduce eternamente se
stesso, è im m utabile nelle sue leggi economiche, nei
suoi param etri d i analisi delle situazioni storiche e
geopolitiche dei popoli, nelle sue soluzioni alle crisi
ricorrenti: esso sana i suoi m ali con le terapie che
hanno provocato la patologia stessa. Il mondo glo­
balizzato non è aperto alla innovazione e alla d i­
versità, ma al contrario si presenta chiuso a d ogni
possibilità d i mutamento dei propri orizzonti, non
integra le specificità e le identità diverse da se stes­
so, ma, a l contrario ha la funzione di soppiantare
popoli e culture. N el contesto di una visione storico
-filosofica distaccata dall’immediatezza dell’a ttu a ­
lità del presente, il capitalismo odierno è un mondo,
inteso in senso hegeliano, come “u n ità dinamica dì
una totalità d i elem enti". I l mondo del capitalismo
è in fa tti costituito da una serie d i elementi storica­
mente contingenti, ma che vengono resi coerenti da
un sistema concettuale unitario, in cui la storia e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 399

il divenire dell’uomo risultano inglobati in una lo­


gica che necessariamente conduce alla realizzazione
compiuta del “mondo” capitalista. Esso è autorifles­
sivo nei propri postulati sistemici, in quanto non
può esistere storia passata o fu tu r a che non venga
integrata nella logica del proprio sviluppo. Esso non
concepisce trasformazioni storico - politiche estranee
a se stesso, in quanto qualsivoglia fenomeno viene
ricondotto ad una diversità interna e coerente con
i presupposti del suo sistema. Esso riproduce eter­
namente se stesso nel tempo storico e nello spazio
geopolitico globale, in quanto ogni alternativa ad
esso viene ridotta a momento contingente del pro­
prio sviluppo intrinsecamente unitario. Da una
obiettiva analisi del “mondo” capitalista, non può
che scaturire una visione del capitalismo stesso,
come un mondo chiuso, un fenomeno compiuto e
storicamente ormai esaurito, incapace di rappor­
tarsi dialetticamente ad elem enti ad esso estranei
e!o contrapposti con cui confrontarsi, e, la sua stes­
sa capacità d i autoriproduzione è oggi fortemente
messa in dubbio dalla crisi sistemica dell’economia
del 2008, dina n zi alla quale non sa proporre altre
soluzioni che vadano oltre la riproposizione d i quel­
la economia finanziaria che ha determinato il suo
temporaneo collasso. D in a n zi ad un mondo che ha
ormai concluso il suo percorso storico, della cui crisi
irreversibile occorre prendere atto, è necessario non
fa rsi coinvolgere nei lim iti ristretti della condizione
um ana del nostro tempo. Occorre semmai riscoprire
i presupposti della condizione storica in cui ci è dato
d i vivere, poiché un mondo chiuso nella riproduzio­
ne dì se stesso non può p iù produrre storia. Bisogna
concepire il proprio pensiero come un term ine dia­
lettico d i confronto e di opposizione ad un sistema
400 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

- mondo unitario, non perché universale, ma solo


unilaterale ed autoreferente. L’imperativo morale
del presente è dunque “vivere oltre le condizioni del
nostro tempo”. Occorre allora elaborare soluzioni
che concepiscano orizzonti al di là ed al di fu o ri del
mondo del capitalismo. Vivere oltre il proprio tem ­
po non significa tuttavia estraniarsi dal presente
storico. La realtà obiettiva del mondo capitalista
deve semmai costituire il necessario termine d i r i­
ferim ento dialettico con cui confrontarsi e valutare
criticamente la compatibilità del proprio pensiero
e delle prospettive d i superamento della condizione
coattiva del presente, sempre in relazione alla real­
tà storica contingente del nostro tempo.

La tesi da te esposta in questa tua quarta domanda coin­


cide nell’essenziale con la tesi recentemente sviluppata in
modo analitico da un saggio di Diego Fusaro (cfr. Essere
senza Tempo, Bompiani, Milano 2010) e questo non é un
caso, perchè segnala che comincia ad esserci una percezio­
ne diffusa del fenomeno storico-politico cui fate entrambi
riferimento. Dal momento che la condivido interamente,
specialmente nella chiara forma sintetica con cui tu la ri­
assumi, ritengo inutile parafrasarla in vari modi, mentre è
più utile riprendere brevemente il metodo storico da me
già sviluppato nella mia prima risposta, in cui cercavo le
radici storiche alternative per spiegare il fenomeno da te
indicato come “privatizzazione della vita sociale”, che è
effettivamente il cuore della questione storica e politica
che si tratta di contrastare, sia pure con le nostre debolis­
sime e per ora quasi invisibili forze.
Risalendo al settecento, secolo decisivo per la for­
mazione dell’immagine del mondo contemporaneo, ci
accorgiamo che la legittimazione ideologica dei nuovi
rapporti di produzione capitalistici (con la classe borghe­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 401

se come portatore storico ed economico, nel linguaggio


di Marx Trager) viene argomentata in due modi diversi,
in base al progresso storico (e quindi al parametro della
temporalità storica come fondamento di legittimazione
in ultima e decisiva istanza) ed in base alla mera natura­
lità sociale da restaurare contro un presunto “artificiali-
smo” feudale e signorile. Le due strategie di legittima­
zione, se vogliamo usare una metafora militare, “mar­
ciano separate e colpiscono unite”, ma oggi ci rendiamo
conto che nella complessa dialettica storica ed ideologica
la seconda sta prevalendo sulla prima, e bisogna allora
capire bene il perchè.
La legittimazione della nuova società borghese-capi­
talistica attraverso il concetto di progresso resta ovvia­
mente la principale, ed in ogni caso la più “visibile”. Il
progresso (si veda in particolare Condorcet) viene visto
come aumento del dominio tecnico e scientifico dell’uo­
mo sulla natura (il che comporta fisiologicamente come
suo opposto complementare anche una riscoperta della
“natura” in quanto tale), unito ad un incivilimento dei
costumi individuali e sociali, laddove questo secondo
processo di incivilimento è pensato nella forma dell’i­
deale regolativo illimitato che non può però mai asin­
toticamente raggiungere un fine ultimo (Kant). In forte
contrasto con la saggezza greca, basata sul concetto di
“lim ite” (peras), qui si è invece di fronte alla centralità
fondativa dell’illimitato, e niente mi toglierà mai dalla
testa che questa fondazione filosofica del progresso il­
limitato come idea regolativa non sia che il raddoppia­
mento nel cielo delle idee del carattere potenzialmente
illimitato della produzione capitalistica, al di là della
“falsa coscienza necessaria” dei teorici che la stavano ela­
borando. Qui è decisivo il carattere contrastivo con la
precedente legittimazione ideologica signorile e feudale,
basata invece sul carattere sacrale e divino (e quindi non
402 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

“progressistico”) dei potere e sulla riproduzione ciclica


di una economia fondata sull’agricoltura e sulla estorsio­
ne regolata dalla rendita fondiaria.
Se esiste un sintomo decisivo per comprendere il ca­
rattere penosamente subalterno del marxismo storico,
che rimanda ovviamente al carattere subalterno delle
sue classi di riferimento popolari, proletarie, operaie e
salariate, esso sta appunto nel fatto che esse recepisco­
no quasi integralmente la teoria borghese-capitalistica
del progresso storico, senza vederne in alcun modo il
suo carattere intimamente borghese. Il fatto che alcuni
intellettuali di orientamento marxista e socialista (cito
qui soltanto Georges Sorel e Walter Benjamin) abbia­
no cercato invano di trovare un fondamento alternativo
a quello del progresso per legittimare una concezione
anticapitalistica del mondo, e che questi tentativi siano
sempre stati regolarmente respinti, spesso diffondendo il
sospetto che si trattasse di astute strategie di “infiltrazio­
ne” della cultura antiprogressista della “destra” eterna,
ci segnala come il mantenimento della dicotomia rigida
Destra/Sinistra non sia affatto stata innocua e marginale,
ma abbia funzionato da ostacolo “ostativo” al chiarimen­
to della questione.
E tuttavia, a fianco della legittimazione “progressi-
stica” dominante, è sempre esistita una legittimazione
“naturalistica” della produzione capitalistica in base al
ritorno alle vere leggi della natura. Su questo punto la
scuola francese dei fisiocratici e la scuola inglese dell’e­
conomia politica (Hume e Smith soprattutto) hanno
sempre avuto posizioni comuni, al di là dell’importanza
differenziata data rispettivamente all’agricoltura oppure
all’industria. Mentre nella concezione progressistica la
temporalità veniva investita di un significato migliora­
tivo ed ascendente, nella concezione naturalistica la tem­
poralità era fortemente ridimensionata rispetto all’ob­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 403

bedienza alle (presunte, ed in realtà inesistenti) leggi


della natura. Il successivo positivismo ottocentesco (cui
il marxismo storico realmente esistito fu sempre e sol­
tanto una variante ideologizzata di “sinistra”) cercò di
unire insieme il concetto di progresso con il concetto di
decisività della “legge”, estesa ed estrapolata dalla natu­
ra alla società. Ma ci sta qui una contraddizione logica,
perchè se una “legge” è veramente tale (ad esempio, la
presunta legge della domanda e dell’offerta come fonda­
mento della riproduzione sociale e comunitaria), essa lo
è in modo assoluto, e non relativo allo scorrimento della
temporalità storica, progressistica o decadentistica che
la si voglia. Gran parte della filosofìa novecentesca deve
essere interpretata come segnale, sia pure incerto e con­
traddittorio (dovuto all’ipocrisia degli apparati ideologi­
ci, universitari, sempre e comunque “clero” secolarizzato
del potere), del fatto che è assolutamente incompatibile
sostenere contemporaneamente che il capitalismo è un vet­
tore del progresso storico e sociale e che è invece ferre­
amente dipendente dalle leggi naturali di riproduzione
del sistema economico.
L’immobilità di fondo che segnalate sia tu che Fusa-
ro deve quindi essere interpretata non tanto come una
vittoria finale della tesi naturalistica su quella progres­
sistica (anche se questo aspetto è il più visibile in su­
perficie nel chiacchiericcio mediatico di giornalisti ed
economisti), ma come il riflesso ideologico sovrastrut-
turale dell’approdo della produzione capitalistica globa­
lizzata ad una fase “speculativa”, che si lascia alle spalle
le precedenti fasi astratta e dialettica (non ripeto qui per
ragioni di spazio la mia tesi periodizzante del capitali­
smo, già ampiamente esposta altrove), in quanto questa
fase speculativa implica un grado, altissimo di destori-
cizzazione e di desocializzazione, quella appunto che tu
hai brillantemente definito la privatizzazione della vita
404 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sociale. È anche legittimo ipotizzare, come del resto tu


fai (ma sono d ’accordo anch’io) che il capitalismo si mo­
stra così logicamente un mondo chiuso ed un fenomeno
compiuto e ormai esaurito, e questo paradossalmente
perché non sono più i rivoluzionari o i marxisti a dir­
lo, ma lo dichiarano apertamente i suoi stessi apologeti.
Dopo avere per un secolo battuto il tamburo sul marxi­
smo come teoria escatologico-messianica della fine della
storia (e per di più con alcuni argomenti assolutamente
pertinenti, vedi Weber, Croce e Lowith), adesso sono essi
stessi diventati i banditori di questa fine “naturalistica”
della storia, implosa ormai in una fatalità crematistica
intrasformabìie.
Che dire? Vergogna a tutti coloro che si fanno porta­
tori di questa fine della storia, ed onore a tutti coloro che
vi si oppongono!
405

L’indifferentismo morale
e la cultura dell’individualismo di massa

L ib ia : ipo c r is ia pa cifista e m or a lism o arm ato a m er ic a n o

1) I l degrado politico —culturale delle classi dirigen­


ti della politica sia italiana che europea, riflette
il venir meno nell’am bito della società occidentale
d i valori d i carattere etico riconosciuti, su cui cioè,
possa fondarsi u n giudizio morale che presieda
alle scelte politiche dei popoli chiam ati alle urne.
L’indifferentism o morale collettivo, è ahim è con­
statabile in questi giorni d in a n zi alla aggressione
arm ata dell’Occidente nei confronti della Libia,
stato sovrano riconosciuto dall’ONU, bombardato
in base ad una risoluzione delle N azioni U nite vo­
luta da Obama. G li USA hanno decretato la fine di
Gheddafl senza che tale risoluzione, emessa in spre­
gio del diritto internazionale, fosse condannata dal
sentire comune dei popoli, come se tali avvenim en­
ti, in cui l’Ita lia è coinvolta in p rim a persona, si
verificassero in a ltri mondi ed altri tempi. Non su­
scita certo entusiasmo l’aggressività arm ata della
Nato, né suscita molta indignazione la condanna
dei presunti “crim ini contro l’u m a n ità ” attrib u ita
a Gheddafl, ma la politica im perialista americana
e lo stato d i soggezione dei paesi vassalli europei
sono f a t t i che vengono accettati acriticamente come
tino stato d i fa tto che prescinde dalla volontà dei
popoli, ormai estraniati dalle scelte politiche delle
classi dirigenti. T u tti ricordano i m ilioni di m a­
nifesta n ti scesi nelle piazze di tu tta l’Europa nel
2003 per condannare la guerra d i Bush contro l’I ­
raq, ma quei sentim enti d i protesta e d i condanna
406 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

contro l’imperialismo armato degli USA sembrano


scomparsi. In realtà l’esaurirsi di tale dissenso è
dovuto proprio al suo contenuto ideologico “pacifi­
sta”. Si condannava l’America, in quanto aggres­
sore armato dell’Iraq, ma nel contempo si condan­
navano i “crim ini contro l’u m a n ità ” di Saddam,
e si invocava la pace. Questo linguaggio pacifista
adattato ai tem pi odierni assume questa chiave
d i lettura: si deve condannare l’intervento armato
della Nato, ma Gheddafi, in quanto criminale in ­
ternazionale deve essere destituito e processato, ma
il tutto deve avvenire per via pacifica. È eviden­
te che in ta l modo la protesta sposerebbe nella so­
stanza la strategia americana (tra l’altro tendente
al disimpegno m ilitare diretto), ma contesterebbe
solo le modalità esecutive. Ipocritamente non si ef­
fettu a n o scelte di campo: nessuno sta con Obama,
nessuno con Gheddafi, tu tti siamo per la pace. La
protesta pacifista fa llì nel 2003, perché non si ef­
fettuarono chiare scelte di campo. Occorre in fa tti
schierarsi sia con Gheddafi che con Saddam, non
con le loro p u r discutibili persone, ma come rap­
presentanti legittim i d i stati sovrani. La scelta è
la seguente: o si prendono le p a r ti dell’im periali­
smo armato occidentale, oppure ci si batte per la
sovranità degli sta ti ed il diritto internazionale,
tertium non datur. L’indifferentism o morale col­
lettivo attuale è la conseguenza della morale della
non scelta, dell’assenza di una causa con obiettivi
politici concreti da conseguire.

Applicato direttamente e senza mediazione ai fatti


storici, politici e sociali, il moralismo non è solo la mor­
te della politica, ma è anche e soprattutto la morte della
stessa morale. La morale, infatti, è sempre la specifì-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 407

cazione problematica all’interno della singola coscien­


za individuale dell’etica, e senza un’etica comunitaria
sensata la stessa morale si agita in un vuoto pneuma­
tico senza fondamenti, consegnata al più puro arbitrio
(cfr. Costanzo Preve, Storia dell’Etica, Petite Plaisance,
Pistoia 2007). Ma la stessa etica trova il suo fondamen­
to in una ontologia dell’essere sociale, che a sua volta
presuppone un’analisi “materiale” dell’economia e del­
la geopolitica internazionale. Il moralismo non sa che
farsene di tutto questo, perchè è il regno dell’arbitrio
soggettivo spacciato per riferimento a presunti “eterni
valori dell’Uomo”.
L’indifferentismo morale cui tu fai giustamente ri­
ferimento, e che correttamente attribuisci al degrado
delle classi dirigenti italiane ed europee (senza mai di­
menticare che la testa del serpente non sta a Roma o a
Parigi, ma a W ashington e nella pretesa messianica di
uniformare il mondo intero al solo criterio di giudizio
protestante e sionista), è però il prodotto dialettico per­
verso di una ipertrofia moralistica ipocrita, e non nasce
dal nulla, ma deve essere diagnosticato correttamente,
se vogliamo guarirne ed uscirne fuori. La recente guerra
USA-NATO contro la Libia di Gheddafi, cui fai rife­
rimento (scrivo nel giorno di Pasqua 2011, e quindi
non posso conoscerne ancora gli esiti, che immagino
comunque tragici per il popolo libico e per il diritto
internazionale) ne è un esempio, ed è bene parlarne di­
rettamente. Non è certamente la prima volta che assi­
stiamo a questo copione di manipolazione organizzata
e di criminalità mcdiatica. Dopo la dissoluzione del
comuniSmo storico novecentesco, talvolta impropria­
mente battezzato come “dittatura totalitaria” o come
“socialismo reale”, il caso-Libia è solo la terza volta. La
prima volta è stata la Jugoslavia (1999), e la seconda
volta l’Irak (2003). In tu tti e tre questi casi la sfacciata
408 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

violazione del diritto internazionale è stata ipocrita-


mente motivata con ragioni “um anitarie” cui è stata in­
collata anche la nuova ideologia neoliberale del diritto
incondizionato di abbattere i “dittatori”. Il “moralismo
giudiziario”, inaugurato con i processi di Norimberga
e di Tokio (quest’ultimo ancora più sfacciato del prece­
dente) vuole anche la sanzione processuale dei Cattivi, e
questo non è affatto un caso.
Non è affatto un caso, perchè la riduzione del diritto
internazionale a diritto penale rivolto verso i “dittatori”
(qui non c’è differenza fra Milosevic, Saddam Hussein
e Gheddafi, perchè tutti e tre vengono simbolicamente
“hitlerizzati” per poterne legittimare il trascinamento in
giudizio) non è che la conseguenza di quella privatizza­
zione della vita sociale cui abbiamo già entrambi ampia­
mente fatto riferimento in una conversazione preceden­
te. Sulla base di questo criterio, Napoleone non sarebbe
finito a Sant’Elena, ma sarebbe stato processato da una
corte penale inglese, russa, austriaca e prussiana. Cavour
e Bismarck sarebbero stati certamente processati, perchè
non c’è dubbio che nel perseguire le loro finalità poli­
tiche (rispettivamente l’unificazione dell’Italia e della
Germania) commisero certamente crimini penali di ogni
tipo. La storia deve quindi ritenersi conclusa (vedi l’i­
deologia imperiale americana di Francis Fukuyama sul­
la fine della storia), e conclusa in una globalizzazione
finanziaria generalizzata e guida militare e geopolitica
americana. In questo quadro il “pubblico” è ridotto a
economia (più esattamente, a crematistica), e tutto il re­
sto è privatizzato, civilmente o penalmente.
Il discorso sarebbe lungo, e non può essere fatto in
questa sede per ragioni di spazio. Conviene invece limi­
tarsi ad un punto solo, del resto da te bene individuato,
che è la vergognosa impotenza e connivenza del cosiddet­
to “pacifismo”.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 409

Del pacifismo (chiamato a volte in modo classicistico


“irenisno”) sono state date molte definizioni, che a volte
complicano le cose anziché chiarirle. In questa sede per
ragioni di brevità e di chiarezza, mi limiterò a segnalar­
ne due. In primo luogo, esiste un pacifismo assoluto,
che però a scanso di equivoci è bene definire subito
come “non-violenza”, e che non ha nulla e che fare con
il berciare “pace, pace” in irrilevanti cortei ai cui fianchi
esagitati in passamontagna danno fuoco a cassonetti e
spaccano vetrine in genere ampiamente assicurate, nu­
trendo così le assicurazioni e lo spettacolo mediatico.
La non-violenza è una tecnica politica individuale e col­
lettiva, rivolta ad ottenere scopi, e deve essere giudicata
esclusivamente dal fatto se questi scopi vengono o no
ottenuti, non certo dal salmodiare pecoresco di belan­
ti dipinti (vedi Gandhi, eccetera.). In secondo luogo,
possiamo chiamare pacifismo la risoluzione pacifica di
conflitti originariamente violenti ed addirittura armati
in cui le due parti vengono chiamate intorno ad un tavo­
lo di negoziazione in presenza di un arbitro imparziale.
Nel caso della Libia 2011, il solo “pacifista” degno di
questo nome è stata l’organizzazione dell’Unità Africa­
na, il cui tentativo di mediazione è fallito a causa del
fatto che una delle due parti, che stava per perdere sulla
base delle sue sole forze, puntava ad una vittoria totale
dato l’appoggio dei bombardamenti USA e NATO. Non
chiamo invece “pacifisti”, perché non lo sono in alcun
modo, gli interventisti “umanitari” violatori del diritto
internazionale, che dovrebbero essere connotati invece
come “guerristi”, se le parole avessero ancora un senso
non del tutto “colonizzato” dalla manipolazione seman­
tica del potere.
Mi congratulo con il tuo coraggio morale quando dici
che occorre schierarsi sia con Gheddafi che con Saddam,
e non con le loro discutibili persone, ma come rappre­
410 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sentanti legittimi di stati sovrani. Questa è esattamente


anche la mia posizione. Sono stato con Milosevic (1999)
e con Saddam (2003), e sono oggi con Gheddafi (2011).
In questo modo viene colto il punto cruciale della que­
stione, che sta nella illegittimità e nella infondatezza
(sia politica che morale) della pretesa dell’assolutezza del
diritto arbitrario sul principio dell’interventismo uma­
nitario. Per avere un senso, il termine di “interventismo
umanitario” deve essere ferreamente limitato ai terremo­
ti, alle catastrofi nucleari, agli tsunami, alle carestie, ed a
tutto ciò in cui è in gioco la solidarietà fra individui, po­
poli e nazioni. L’interventismo militare geopolitico che
si traveste da intervento umanitario (falsificando anche
le risoluzioni ONU, che parlavano solo di no-flight-zone,
e non di diritto al bombardamento con intervento uni­
laterale in una guerra civile fra libici) è invece sempre e
solo “guerrrismo”, ed in nessun modo “pacifismo”. Ma
allora, che cosa muove le cornacchie di “sinistra” inter-
ventiste, Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Dario Fo,
Franca Rame, eccetera (non parlo qui certo di Giorgio
Napolitano, esponente organico della subordinazione
italiana agli USA ed alla Nato)?
Si è trattato di un impazzimento collettivo? In parte
sì. Certamente, di un impazzimento ideologico genera­
lizzato. Ci può aiutare la scuola di Palo Alto in Califor­
nia (Berkeley), che studia le psicosi dei bambini, sulla
base dei messaggi contraddittori che ricevono dai com­
portamenti contraddittori dei loro genitori, e che non
sanno ovviamente padroneggiare, decifrare ed elaborare.
Tutta questa gente “di sinistra” non aveva mai conside­
rato un “valore” la sovranità nazionale, in nome della
astratta solidarietà internazionalistica su base puramente
classista. Adesso questi sventurati hanno semplicemente
rovesciato il vecchio nichilismo nazionale a base anarcoi­
de (per cui i ribelli hanno sempre ragione contro un fan­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 411

tomatico “potere”, indipendentemente dal loro concreto


programma politico e sociale, che può essere ben peg­
giore di quello del potere precedente) in cosmopolitismo
astratto di generici “diritti umani” a base moralistica.
Ma torniamo all’esempio dell’impazzimento sulla base
della mancata elaborazione di messaggi contraddittori.
Da un lato, questi fallimentari disgraziati recepiscono il
messaggio dei mass media occidentali in modo pressoché
integrale e non filtrato da un metodo critico (Milosevic
macellaio dei Balcani, Saddam Hussein dittatore sangui­
nario, Gheddafi ridicolo tirannello amico di Berlusconi,
eccetera). Dall’altro, e contraddittoriamente, dopo aver
recepito l’immagine del Crudele Dittatore con simbolici
baffi alla Hitler-Stalin, devono però belare “pace, pace”
in nome del riferimento astratto al pacifismo. Ma questi
belati non possono resistere al fascino della teoria dei
diritti umani, pilastro del Politicamente Corretto con
cui questi sventurati (a mio avviso più degni di pietà
che disprezzo) hanno sostituito il precedente Operai­
smo Mistico (viva la FIOM) ed il precedente Culto del
Guerrigliero Eroico (viva Che Guevara). L’impazzimento
ideologico che ne consegue, come nel caso dei bambini
curati a Palo Alto, li ha portati a gridare: “Viva la Pace!
Uccidete il sanguinario dittatore, anche con i bombarda-
menti USA e NATO, se necessario!!”.
C’è una lezione da trarre da tutta questa grottesca
e triste storia? Certo che c’è. La lezione consiste in ciò,
che il pacifismo non può essere agitato in modo astrat­
tamente ritualistico, ma richiede una fortissima base te­
orica, filosofica politica e morale. Occorre ricominciare
a riconoscere l’aspetto principale e l’aspetto secondario
dei problemi, e chiedersi come é possibile che i respon­
sabili della dittatura delle oligarchie crematistiche sia­
no nello stesso tempo i difensori dei diritti umani degli
individui, dei popoli e delle nazioni. Il vergognoso tra­
412 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dimento della parola data (il patto d’amicizia fra Italia


e Libia) è stato unanimemente avallato in Italia da tutta
indistintamente la destra e la sinistra parlamentari, che
hanno così ancora una volta mostrato alla luce del sole
quella che per molti è ancora una tesi discutibile ed
azzardata, e cioè l’attuale tramonto della dicotomia De-
stra/Sinistra. Che cosa ci vorrà ancora perchè si cominci
a capire quella che è ormai sotto gli occhi di tu tti, e
cioè l’omologazione degli estremi bipolari precedenti
in un Estremismo di Centro a sorveglianza mediatico-
universitaria ed a permanente minaccia di bombarda-
menti NATO?

P e n sie r o u n ic o e in d if f e r e n t is m o m orale

2) Non esistono oggi né p a r titi né m ovim enti p o liti­


ci capaci d i interpretare il comune sentire, inteso
come insieme d i valori morali e culturali d iffu si che
nella società si contrappongano ad un ordine demo­
cratico, caratterizzato dall’assenza di fondam enti
etici su cui possano legittim arsi le istituzioni degli
stati. I l fenom eno della globalizzazione economica
in atto, ha ridotto drasticamente la sovranità degli
sta ti ed ha anche m utato profondamente la cultura
dei popoli, he identità nazionali hanno ceduto il
passo al cosmopolitismo globale, alle differenziazio­
n i culturali e linguistiche si sono sostituite nuove
form e d i uniformazione culturale specie nei costu­
mi, nel modo d i sentire comune, per lo p iù plasmato
dalla virtu a lità dell’im m agine erogata dai media.
Inum anità sembra evolvere verso form e di omolo­
gazione del pensiero e del sentire che si impongo­
no nel mondo non unificandolo, ma trasformando
l’um anità stessa in un agglomerato cosmopolita
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 413

globale. Il globalismo indifferenziato non richiede


certo adesione e consenso, ma si impone sia con le
arm i che con la cultura e l’economia dei consumi.
I l globalismo non comporta le scelte morali e le va­
lutazioni del pensiero critico, ma investe tu tti in
un unico processo che viene inteso dalla generalità
delle masse come necessario ed ineluttabile destino.
Pertanto, in tale contesto è facilm ente spiegabile
l’indifferentism o morale generalizzato nel nostro
presente storico sia. d in a n zi alle guerre im periali­
stiche, che nei confronti d i certe scelte d i trasfor­
mazione sistemica dell’economia, che comportano
l’abrogazione progressiva dello stato sociale, che nei
rapporti interpersonali im prontati alle esigenze
utilitaristiche dell’individuo. In questo program­
mato fluire indifferenziato d i eventi, la società non
riproduce p iù sé stessa, dal momento che è la società
stessa ad aver rinunciato ai suoi presupposti etici
che ne assicurassero la sussistenza e la continuità.
Una società globale indifferenziata non può che es­
sere sempre uguale a sé stessa, è la risultante d i
uno stato di fa tto perm anente che non ha q u in d i
alcuna esigenza d i riprodursi. Il economicismo glo­
bale ha distrutto inoltre i postulati basilari della
stessa ragione economica. Prevale in fa tti, al di là
dei suoi clamorosi fa llim en ti, l’economia fin a n zia ­
ria globale, fondata sui valori v irtu a li del merca­
to finanziario, sull’irrazionalismo delle masse dei
consumatori — investitori, a discapito della produ­
zione, dello sviluppo, della redistribuzione della
ricchezza. Un mondo indifferenziato globale è la
conseguenza u ltim a di un nichilismo diffuso specie
nell’am bito d i una cultura, che ha inteso da oltre
un secolo prescindere dal pensiero critico e dal g iu ­
dizio morale. E sintomatico d i tale stato di cose,
414 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

che generalmente, quando qualcuno voglia espri­


mere una propria opinione non perfettam ente in
riga con il politically correct dominante, prem etta
al suo discorso che il suo pensiero non vuole essere
un giudizio morale.

Bisogna riflettere sul fatto, apparentemente secondario


e minore, ma sintomatico, per cui la gente si sbriga a dire
che quanto dice non vuole essere un giudizio morale. Ciò
è tanto più paradossale, ed apparentemente contradditto­
rio, quanto più la politica è stata soffocata dal moralismo
degli scandali e dall’esportazione armata dei cosiddetti
“diritti umani”, che essendo appunto “umani” non pos­
sono che essere a base morale. Ma si ha qui appunto a che
fare con il fenomeno non tanto della sparizione della mo­
rale, che nella forma del moralismo ipocrita-giudiziario è
invece ipertrofica, ma con la fine dell’etica, ed in partico­
lare dell’etica comunitaria.
La gente non direbbe che quanto dice non vuole essere
un giudizio morale se non percepisse confusamente che
c’è intorno una sorta di indiretta pressione sociale confor­
mistica che “preme” per questa affermazione. Non è facile
il capire il perchè. Ma se vogliamo capirlo, è necessario
afferrare le cose alla radice. E la radice, a mio avviso, sta
nella riduzione del concetto di libertà a libertà del con­
sumatore. Il consumatore può infatti consumare quello
che vuole, fino a che l’oggetto del consumo non è dichia­
rato esplicitamente illegale (narcotici, pedopornografia,
simboli nazisti, eccetera). Prima di essere caratteristiche
dell’ideologia contemporanea diffusa, il relativismo ed il
nichilismo sono caratteristiche organiche della libertà del
consumatore, che secondo le curve di indifferenza dell’e­
conomia neoclassica si muove in base alla massimizzazio­
ne della propria “ofelimità” (il termine tecnico per indica­
re l’utilità personale).
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 415

Tutto questo, ovviamente, non è affatto di per sé


un male. Finché ci si muove nell’ambito della legalità,
ognuno ha l ’insindacabile diritto sovrano di preferire
un consumo ad un altro. C’è chi preferisce la nuotata in
mare, chi l’escursione in montagna, chi infine il riposo
in un agriturismo di campagna. C’è chi acquista libri
rari, e chi invece preferisce un bel viaggio in un paese
lontano. Qui ci si muove nella sfera della legittim a ra­
gione economica, ed allora il problema sta nel vedere
fino a che punto quello che tu chiami “economicismo
globale” abbia distrutto, insieme con l’etica comuni­
taria, la stessa ragione economica. In fondo alla catena
scopriremo anche l’ometto che, convinto di essere un
esprit fort libero da vecchi e sorpassati pregiudizi, so­
stiene che quanto afferma non vuole essere un giudizio
morale.
Tutta la tradizione filosofica occidentale è caratte­
rizzata dal tentativo di fondare il concetto di libertà in
qualcosa che non si riducesse a semplice arbitrio. Per­
sino il termine di “libero arbitrio”, centrale nelle di­
scussioni teologiche sulla grazia e la predestinazione, è
sempre stato correlato al corretto uso di questo stesso
libero arbitrio, rivolto verso il Bene ed il Giusto e non
verso il Male e l’Ingiusto. Il processo che Karl Polanyi
ha descritto a livello storico (l’autonomizzazione dell’e­
conomia dalla sua precedente “incorporazione” politica,
sociale e comunitaria) si è per così dire “duplicato” a
livello ideologico-filosofico nella separazione prima e
nella assolutizzazione poi, della libertà del consumatore
rispetto ad ogni altro tipo di libertà. Da circa trent’anni,
aH’interno della cosiddetta “deideologizzazione”, lo stes­
so elettore è trattato come un consumatore di prodotti
politici preconfezionati nel mercato politico (campagne
elettorali personalizzate, sondaggi praticamente indi­
stinguibili dai sondaggi commerciali, eccetera).
416 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Nella tradizione filosofica occidentale moderna il


concetto di libertà è stato declinato in due modi fonda-
mentali, quello del criticismo di Kant e quello dell’idea­
lismo di Hegel. In Kant la libertà (più esattamente il li­
bero arbitrio) è declinata come un postulato a priori del­
la ragion pratica, cioè del comportamento morale umano
libero. Il soggetto kantiano è però “puro” ed astratto, e
cioè integralmente destoricizzato e desocializzato, ed in
questo modo il campo dell’etica, comunitario per defini­
zione, è integralmente ridotto a campo della morale in­
dividuale. L’etica è allora di fatto soltanto la sommatoria
di singole morali individuali. Sebbene Kant non ne fosse
probabilmente consapevole, e fosse mosso dalle migliori
intenzioni illuministiche, anti-feudali, anti-signorili ed
anti-assolutistiche, questa estrema individualizzazione
della morale non faceva che “duplicare” in campo filo­
sofico l’analoga (e storicamente coeva) individualizzazio­
ne del comportamento economico effettuata da Adam
Smith, anche se superficialmente il rigorismo dell’im-
perativo categorico kantiano non aveva nulla a che fare
con la cosiddetta “etica della simpatia” fra venditore e
compratore, che Kant avrebbe considerato eteronoma e
non autonoma, e quindi nel suo linguaggio non com­
pletamente “morale”. Ma qui si ha a che fare con quel­
la fisiologica schizofrenia del grande pensiero borghese
classico, che in seguito diede poi luogo alla famosa “co­
scienza infelice”.
Il grande idealismo classico tedesco (i cui principali
esponenti sono stati nell’ordine Fichte, Hegel e Marx,
che non è affatto stato un filosofo materialista, ma inte­
gralmente idealista, sia pure in modo molto peculiare)
nasce come critica dell’individualismo astratto di Kant,
e prende di mira in particolare i suoi aspetti strutturali
di destoricizzazione e di desocializzazione. La destoriciz-
zazione e la desocializzazione non erano state per nulla
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 417

degli “errori” di Kant, ma erano state ingredienti in­


dispensabili per effettuare la rottura con le precedenti
fondazioni organicistiche delle società feudali e signorili
e per poterle sostituire con la concezione di una nuova
società liberale-borghese costituita da individui autono­
mi, liberi ed indipendenti. L’intera filosofia detta “mo­
derna", da Cartesio (il cogito) a Kant (l’Io Penso), doveva
iniziare con una costituzione formalistica del soggetto,
destoricizzato e desocializzato, perché solo in questo
modo si “spianava la strada” alla società degli individui
del tutto auto-fondati economicamente e moralmente.
Hegel vuole invece ristabilire il rapporto fra filosofia e
comunità, già magistralmente posto dai maestri greci,
ma nello stesso tempo è consapevole di non poter “re­
staurare” il modello idealistico di Platone (di origine
geometrico-pitagorica), perché nel frattempo il cristia­
nesimo monoteistico, che egli rifiuta eli considerare in
termini di semplice superstizione e decadenza (come fa­
ranno dopo di lui i positivisti e Nietzsche), ha introdotto
la nozione di coscienza storica, più o meno diversamente
secolarizzata.
In opposizione a Kant, per cui la libertà è un po­
stulato a priori di una soggettività individuale integral­
mente destoricizzata e desocializzata (la cui astrazione
corrisponde al carattere “astratto” del lavoro capitali­
stico), per Hegel la libertà è un risultato, un consegui­
mento, il risultato finale di un processo storico e sociale
di autocoscienza della libertà. Su questo punto non esi­
ste nessuna differenza filosofica Ira Marx ed Hegel, an­
che se ovviamente Marx era comunista e Hegel non lo
era. L’individuo non è affatto cancellato o umiliato, al
contrario. Semplicemente, esso non è assolutizzato, ed
in questo modo non è posto astrattamente come vuota
origine del Bene e del Male. L’individuo è correlato alla
comunità di appartenenza, e si tratta allora di vedere se
418 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

questa comunità di appartenenza sia o meno portatrice


di valori universali, universalistici o universalizzabili. E
qui viene non solo criticato quello che Marx chiamerà
“robinsonismo”, nella duplice forma filosofica di Kant
ed economica di Smith, ma viene espresso un concetto
di libertà comunitario complessivo, che in quanto tale
è incompatibile con il riduzionismo alla sola libertà del
consumatore.
La libertà del consumatore si basa su di un pedigree
filosofico alternativo, quello di Hume e di Nietzsche,
ereditato oggi da Faucault e da Toni Negri. Per Hume la
libertà rimanda ad un soggetto che non è che un flusso
variopinto di emozioni e di sensazioni, ed è pertanto il
soggetto ideale per l’attuale seduzione consumistica del
mercato pubblicitario. D ’altra parte, per Hume la socie­
tà non ha bisogno di essere fondata sull’esistenza di Dio,
sul diritto naturale e sul contratto sociale, ma basta ed
avanza il semplice rapporto di abitudine fra individui. Il
sulfureo Nietzsche riprende integralmente la concezione
antropologica del soggetto di Hume, in quanto il sog­
getto per Nietzsche non è che il flusso energetico della
volontà di potenza. L’attuale concezione post-moderna
della libertà del consumatore unifica genialmente Hume
e Nietzsche, emargina quella di Kant (considerata trop­
po moralistica e ritenuta valida soltanto per seminari
universitari esplicitamente rivolti contro la concezione
comunitaria derivata da Hegel e poi da Marx), e si op­
pone frontalmente alla concezione di Hegel e di Marx,
bollati come nemici della “società aperta” di Popper, non
a caso diventato oggi il papa filosofico del capitalismo
anglosassone. Società aperta che poi non è “aperta” per
nulla, ma anzi è chiusissima, perché si basa sul presup­
posto della fine capitalistica della storia.
Come si vede, una corretta diagnosi dell’odierno in­
differentismo morale, generalizzato, ipocritamente uni­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 419

to ad un continuo moralismo asfissiante, non può evitare


di risalire alle origini dell’individualismo borghese mo­
derno. Il comuniSmo storico novecentesco recentemente
defunto (1917-1991) non ha potuto e saputo in alcun
modo contrapporvi si, perché le comunità non possono
essere imposte artificialmente in modo dispotico, ed
il dispotismo, in questo simile al latte, ha una vera e
propria “data di scadenza”, che coincide con l’avvento
di nuove generazioni storicamente estranee ai movi­
menti politici e sociali che hanno dato luogo a questi
“dispotismi sociali”. Così come avvenne per il dantesco
“contrappasso”, viviamo in un periodo storico in cui la
diffusione dell’individualismo anomico è stata ideolo­
gicamente rilegittimata da questo crollo. La sola cosa
sicura, però, è che si tratta di un fenomeno temporaneo
e provvisorio.

Il m o r a l ism o o r g a n ic o d e g l i in t e l l e t t u a l i
POST - MODERNI

3) Quando si evoca Vindifferentismo morale, in occi­


dente il riferim ento corre im m ediato al conformi­
smo delle masse, drogate dal consumismo indotto
dallo strapotere dei media della persuasione col­
lettiva. Una socialità in cui prevale l’indifferenza
generalizzata non è tale. È assai facile per un in ­
tellettuale organico emettere g iu d izi d i condanna
morale sulle masse che non intendono il suo verbo
e lamentare la sua emarginazione. M a l’intellet­
tuale emarginato dalle masse, che non interpreta
il senso comune dom inante nella società in cui vive
è una figura p riva d i senso nel contesto sociale in
cui opera. La radice dell’indifferentism o morale
della società odierna è da ricercarsi, sia dal p u n ­
420 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

to di vista storico che filosofico nell’individualism o.


A nzi, l’indifferentism o morale delle masse è la con­
seguenza u ltim a di un processo d i dissociazione tra
l’individtio e la società affermatosi storicamente
da almeno due secoli. Occorre in fa tti risalire alla
genesi dell’individualism o per comprendere la lo­
gica storico - filosofica da cui scaturisce l’in d iffe ­
rentismo morale odierno. E in fa tti lo sgretolarsi
progressivo dell’etica com unitaria a produrre la
morale, intesa come l’etica individuale d i un uomo
dissociato dalla società e dai valori comuni d i rife­
rimento. Che poi la morale si legittim i attraverso
il prim ato del pensiero trascendentale (kantismo),
oppure tram ite il prim ato della coscienza in d iv i­
duale (protestantesimo), la differenza non è così
rilevante: in entram bi i casi l’uomo, espropriato
della sua dimensione sociale, isolandosi dalla co­
m unità, incardina ì suoi valori in entità estranee
all’uomo stesso. Il pensiero critico è soppiantato da
direttive di comportamento cui l’io deve adeguarsi.
Il precetto morale si sostituisce alla dialettica del
confronto sociale perché l’individuo diviene l’unica
fonte di legittim azione di sé stesso. Q uindi all’in ­
dividualismo morale succede l’individualism o
prim a em pirista poi illum inista che, negando al
pensiero filosofico ogni fondam ento metafisico, eli­
m ina dunque ogni causalità e fin a lità presupposta
all’individuo, che diviene in tal modo unica causa
di sé stesso e del proprio agire. Una volta ristret­
ti gli orizzonti del pensiero ad un agire fa ttu a le
determinato dall’u tilità individuale e degradati i
rapporti sociali a rapporti economici di scambio di
merci e servizi, è evidente che le problematiche ine­
renti il giudizio etico — morale di sé stessi e della
società appaiono determ inazioni prive di senso. La
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 421

metafisica e la assiologia si sono trasformate in p si­


cologia individuale e d i massa, sedim entata ormai
la relatività del proprio essere individuale e della
stessa storia, ridotta nei lim iti temporali dell’esi­
stenza, si è realizzata la dissoluzione dell’io, che
si è sciolto nell’acido dell’indifferentism o morale
d i un individualism o massificato, che non è e non
vuole essere una nuova e diversa filosofia dell’essere
dell’uomo contemporaneo, ma la negazione stessa
d i ogni dimensione etico — morale che conferisca
senso alla vita stessa.

La colpevolizzazione aristocratico-snobistica delle


masse rappresenta una facile via di fuga per i cosiddetti
“colti”, la cui cultura non gli permette però di capire che
il consumismo non è un prodotto spontaneo che viene
“dal basso”, ma una forma di integrazione artificiale in­
tegralmente gestita dai dominanti sui dominati. D ’altra
parte, la recente dissoluzione del comuniSmo novecen­
tesco recentemente defunto deve pur sempre servirci da
lezione, ed insegnarci che la compressione dei consumi
individuali non è in alcun modo una forma di moraliz­
zazione, e tantomeno di ricostruzione etica comunitaria,
ma soltanto una forma di anomia che poi porta al suo
contrario, il riscatenamento dell’individualismo con­
sumistico (ed in questo l’esempio della Cina dovrà pur
sempre essere preso in considerazione).
Nel colpevolizzare le masse per la loro presunta “vol­
garità” si distinguono i cosiddetti “gruppi intellettuali”.
Hai perfettamente ragione, e non posso che congratular­
mi con te, nel segnalare che è assai facile per un intellet­
tuale (organico ma non solo) emettere giudizi di condan­
na morale sulle masse che non intendono il suo verbo
e lamentare la sua emarginazione. In questa mia terza
risposta, quindi, mi limiterò ad esaminare il rapporto
422 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

fra gli attuali gruppi intellettuali e le forme dominanti


di individualismo. Queste forme derivano dalla società
di mercato, e ci sarebbero anche se per ipotesi i grup­
pi intellettuali non esistessero. Ma le forme attuali della
riproduzione sociale degli intellettuali, e soprattutto del­
la loro visibilità pubblica (giornalistica, televisiva, ma in
primo luogo e sopratutto universitaria) sono comunque
un fattore da prendere in considerazione.
I saggi che studiano la storia ed il ruolo dei gruppi in­
tellettuali sono molto numerosi, ed io stesso ne ho scritto
uno (cfr. Il ritorno del clero, Editrice CRT, Pistoia 2000).
Tuttavia quello che imposta a mio avviso meglio i ter­
mini storici e filosofici della questione è stato scritto da
Zygmunt Bauman, ed è il suo capolavoro (cfr. La deca­
denza degli intellettuali, Bollati Boringhieri, Torino 1992
e 2007). Anziché riassumerne semplicemente le tesi, le
rielaborerò autonomamente partendo da esse, per svilup­
pare poi il mio punto di vista, che ritengo in gran parte
convergente con il tuo.
Bauman individua la genesi storica di uno specifico
gruppo sociale definibile come “intellettuali” nei philo-
sophes, cioè negli illuministi francesi del Settecento eu­
ropeo, e li connota come “legislatori sociali”, almeno in
pectore. Gli intellettuali sarebbero quindi nati nel Sette­
cento, e sarebbero nati come legislatori sociali. Si tratta
di una ipotesi del tutto plausibile, che si contrappone ad
altre due scuole di pensiero. La prima parla di “intellet­
tuali” in tutti i casi in cui una società produce dei me­
diatori culturali la cui funzione è quella di produrre un
mondo simbolico di integrazione sociale, ed in questo
caso bisogna risalire agii scribi egizi, ai cantori scandi­
navi, ai filosofi cinesi, indiani e greci, ai profeti ebrai­
ci, eccetera, con il pericolo di produrne in questo modo
una nozione talmente ampia e generica da risultare di
fatto inutilizzabile, come le maglie di una rete talmen­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 423

te grandi da non poter prendere i pesci, perchè questi


ultimi ci passano attraverso. La seconda lim ita la nascita
di veri e propri gruppi intellettuali ad un fatto molto
recente avvenuto a fine Ottocento, il caso Dreyfus e la
reazione organizzata (Zola, eccetera) aH’antisemitismo
moderno, con il pericolo però di produrre una nozione
talmente limitativa di “intellettuali” da renderla non
euristica e non operativa per ragioni opposte ma con­
vergenti con la precedente. L’ipotesi di Bauman è invece
plausibile perchè correla strettamente il gruppo sociale
degli intellettuali in quanto specialisti dell’universale e
del simbolico con l ’emergere della borghesia come classe
sociale specifica, di cui il proletariato non è tanto la ne­
gazione ed il superamento, come ha scorrettamente opi­
nato il marxismo ottocentesco e novecentesco, quanto un
correlato organico e complementare, che nasce con essa,
si sviluppa con essa, e tramonta con essa. Vi è pertanto
un primo elemento che possiamo trarre da Bauman: il
gruppo sociale degli intellettuali sorge insieme con la
borghesia e con il suo complemento necessario chiamato
proletariato, e con lo sviluppo progressivo di un capita­
lismo post-borghese, e quindi post-proletario, è normale
che non possano più esistere nella vecchia forma consue­
ta, e questo fa venir meno tutte le teorie precedenti, da
Voltaire a Mannheim, da Husserl a Gramsci, eccetera.
Ma qui il diavolo, si nasconde nel dettaglio, e cioè
in una paroletta apparentemente inoffensiva. Gli in­
tellettuali, in questo caso i filosofi non sono nati come
legislatori sociali ma come legislatori comunitari. Non
è affatto la stessa cosa. Il termine “società” non esiste
neppure in greco antico, e non esiste perchè non ne esiste
neppure il concetto e la realtà, ma c’è soltanto il termine
di comunità (koinòn, koìnonia). Lo stesso termine latino
di societas non è di fatto mai impiegato nel senso che
oggi diamo a questa parola. La “società” è un termine
424 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

generico, la cui ipertrofia sociologica nasconde una inde­


terminatezza patologica. Il “sociale” è un concetto am­
pio, che manca però di forza esplicativa, se non ne viene
prima posta la sua genesi ontologica, che è sempre una
ontologia storica. Per ora le scienze cosiddette “sociali”
tendono a spiegare i fenomeni sociali con altri fenomeni
sociali, ed in questo mondo si crea una catena viziosa,
autoreferenziale e tautologica simile ad un serpente che
si morde la coda. Ma cos’è, in ultima istanza, l’elabora­
zione del sociale? Non è nulla, se non si capisce che il
“sociale” deve essere spiegato al di fuori di esso, e non è
che una metafora impropria di ciò che dovrebbe invece
essere definito come “storicità”. Finché si continuerà a
pensare gli intellettuali come “legislatori sociali”, e ba­
sta, ci si muoverà sempre in un cerchio magico incantato
in cui i concetti, come in un girotondo senza fine, si
richiamano sempre e solo l’uno con l’altro.
I primi filosofi greci, che pure a mio avviso sarebbe
scorretto definire come “intellettuali”, non erano legisla­
tori sociali, ma erano legislatori comunitari. Una pigra
abitudine inerziale consolidata ci ha portato a pensare
che fossero semplicemente dei “naturalisti”, e cioè dei
precursori artigianali dei moderni fisici, chimici e bio­
logi. Ma non è così. In assenza di una religione mono­
teistica e creazionistica rivelata, e pertanto in assenza di
quella funzione profetica diffusa presso gli Ebrei, i pri­
mi filosofi greci dovevano affermarsi come autorevoli e
credibili nella loro comunità esclusivamente attraverso
l’interpretazione della genesi della Natura, in quanto la
stessa comunità sociale era pensata come duplicazione
della natura stessa, sulla base deH’originaria indistin­
zione fra macrocosmo naturale e microcosmo sociale ed
umano. Con l’irrompere della moneta coniata e della
sua tesaurizzazione potenzialmente illimitata (apeiron),
la precedente comunità era messa in pericolo dal potere
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 425

delle ricchezze individuali e soprattutto dalla schiavi­


tù, per debiti. Per questo era necessario il calcolo comu­
nitario equilibrato del potere e della ricchezza {logos), e
questo è il significato fondamentale del termine logos,
che soltanto in seconda istanza significa linguaggio o ra­
gione discorsiva.
Gli intellettuali ottocenteschi e novecenteschi ripren­
dono quindi questa funzione di legislazione comunitaria,
e questo è un loro titolo di merito, non certo di demerito,
come affermano i post-moderni che li accusano di essere
caduti vittime della cosiddetta “sindrome di Siracusa”,
alludendo a Platone che si sarebbe illuso di poter fare da
consigliere ai tiranni. Ma qui c’è soltanto la reazione con­
giunturale all’ipertrofia della ideologizzazione politica del
ventennio, 1960-1980, il cui lutto non è stato ancora ela­
borato se non nella forma del pentimento.
La fine della funzione intellettuale si accompagna con
la visibilità mediatica ossessiva di intellettuali conferen­
zieri, simili ai Luciano ed agli Apuleio del tardo impero
romano. La cultura diventa integralmente spettacolo con
la passivizzazione dello spettatore. Diventati specialisti
universitari attraverso la esasperata divisione accademica
delle discipline (funzionale alla moltiplicazioni di catte­
dre, dipartimenti e finanziamenti), gli intellettuali non
solo si suicidano, ma si riproducono solo attraverso la
cooptazione conformistica delle cattedre universitarie.
Mentre per diventare poliziotti, magistrati o insegnanti
di scuola media ci vogliono pur sempre concorsi selettivi
in busta chiusa in cui vengono corretti testi rigorosa­
mente anonimi, i concorsi universitari (parlo qui ovvia­
mente solo delle facoltà di filosofia e di scienze sociali)
vengono effettuati sulla base dell’integrale cooptazione,
in cui il conformismo ideologico politicamente corretto
fa premio su qualsiasi altra forma di merito, nonostante
l ’ipocrita e ritualistico richiamo ad una inesistente “me­
426 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ritocrazia”. Questo fa diventare gli intellettuali (parlo


non del singolo, che può anche cantare fuori dai coro,
ma del gruppo sociale in quanto tale) uno dei gruppi
sociali più. conformisti ed “integrati” dell’intero orbe
terracqueo. Se oggi il codice dominante è quello indivi­
dualistico della libertà del consumatore, possiamo essere
sicuri che i gruppi intellettuali mediatici ed universitari
se ne faranno portatori, non tanto nella forma esplicita e
diretta (demandata ai pubblicitari), quanto nella forma
indiretta della sistematica diffamazione di tutte le forme
di pensiero non omogenee a quest’ultimo, non impor­
ta se di destra (Ezra Pound) o di sinistra (Karl Marx).
Gli intellettuali sono oggi portatori di quello specifico
estremismo di centro che possiamo definire conformi­
smo post-moderno. Possiamo aspettarci qualcosa di buo­
no dalle cosiddette “persone normali”, ma da essi intesi
come gruppo sociale sicuramente no.

A sso l u t ism o d e l l ' e c o n o m ia e c o n se r v a z io n e


d e l l ' e s ist e n t e

4) L’economia d i mercato e soprattutto la società di


mercato ad essa collegata, quale complesso di rap­
porti sociali derivati dalla logica mercatista, pro­
duce sempre nuovi equilibri dinam ici in cui tro­
vano il loro punto di equilibrio sia la domanda e
l’offerta d ì beni e servizi, che la composizione dei
rapporti sociali, morali e culturali tra le classi.
Così come nel mercato si manifestano le crisi econo­
miche, quali m om enti d i trasformazione in cui il
mercato tende a creare nuovi param etri di equili­
brio, anche la struttura della società tende ad evol­
versi parallelamente. Pertanto, da tali m utam enti
emergono alcune classi sociali, cui corrisponde il
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 427

declino di altre. Questo processo dinamico —evolu­


tivo dell’economia d i mercato, determ ina dunque
sempre nuovi equilibri a i quali è la società che
deve adattarsi e m ai l’economia, ha nuova strut­
tura dei rapporti sociali che ne deriva è dominata
da quelle classi sociali che si siano rese compati­
bili con le evoluzioni del mercato con conseguente
estromissione delle altre. I l capitalismo del X X I °
secolo tende a d u na accentuata logica selettiva ad
excludendum, con l’effetto d i m arginalizzare sem­
pre p iù vasti stra ti del tessuto sociale, che vengono
progressivamente esclusi dai nuovi equilibri socio
— economici. La selezione effettuata dal mercato
determina m arginalizzazioni e disuguaglianze
sempre p iù accentuate nel corpo sociale, m ai l’inte­
grazione e l’eguaglianza tra le diverse componenti
della società. Oggi assistiamo con la crisi sistem i­
ca in atto sia alla emarginazione delle masse nei
paesi evoluti dell’occidente, che dei popoli del ter­
zo mondo nell’am bito geopolitico, l i emarginazione
conduce all’isolamento sia individuale che colletti­
vo d i masse um ane che non si riconoscono nelle isti­
tuzioni, in quanto prive di un ruolo attivo nella
società sia nel campo economico che in quello po­
litico. Q uindi si afferm a un indifferentism o mo­
rale di massa derivato da una condizione um ana
non sorretta da valori morali che giustifichino gli
equilibri sociali selettivi e disgreganti della socie­
tà globalizzata del nostro tempo. L’emarginazione
sociale comporta l’emergere di una logica della so­
pravvivenza generalizzata, derivante dallo stato di
precarietà economica nel campo lavorativo ed esi­
stenziale nei rapporti interpersonali. In tale con­
dizione l’uomo non tende a l sovvertimento sociale,
ma alla conservazione dell’esistente: una vita pre­
428 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

caria, concentrata sulla sopravvivenza genera solo


istinto di conservazione. Non è un caso che nella
società occidentale prevalgano le tendenze politiche
conservatrici: l’estromissione delle masse da una
politica dom inata dalle oligarchie delle lobbies ha
determinato l’indifferentism o morale quale condi­
zione d i estraniazione esistenziale dell’io sia dalla
propria identità che dal mondo in cui vive. In d if­
ferentism o morale e conservatorismo dell’esistente
sono fenom eni paralleli che tendono ad identifi­
carsi a vicenda. Perché considerare la propria so­
stanza tim ana solo alla luce della realtà positiva
contingente, conduce fatalm ente alla accettazione
dell’esistente. Analoghi sviluppi subisce la cultu­
ra dominante, che oggi appare concentrata nella
condanna morale d i tu tti quei fenom eni non del
tutto com patibili con la logica relativista di con­
servazione dell’ordine anomico dell’esistente (d i­
r itti um ani, liberaldemocrazia, individualism o),
l i indifferentism o morale rappresenta dunque la
fase term inale di un processo degenerativo di una
condizione um ana che precipita nell’abisso del suo
non essere, inteso come non essere d i se stessi, sia
dal punto d i vista individuale che collettivo.

Ritengo che tu abbia individuato il cuore del pro­


blema del nostro tempo affermando che oggi la società
deve adattarsi all’economia, e non certo l’economia alla
società. Si dirà (e sono soprattutto i marxisti a dirlo) che
questa non è una novità, perchè questo è sempre avve­
nuto, e sempre la società (o più esattamente la comuni­
tà) ha dovuto adattarsi all’economia. Ma non è vero. Se
per “economia” si intendono le risorse naturali, le forze
produttive, l’agricoltura, l’allevamento, eccetera, allora
questo può essere parzialmente vero (parzialmente, ma
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 429

non del tutto, perchè ambienti naturali simili hanno


prodotto configurazioni storiche e sociali, molto diver­
se e talvolta alternative). Ma oggi l’economia non è più
questo, quanto l’imposizione diretta di una forma ob­
bligata politica, culturale e sociale autoreferenziale. Si
tratta di una relativa “novità”. Questa novità deve essere
indagata con categorie specifiche adatte ad essa.
Per comprendere il cuore del problema da te messo a
fuoco con tanta chiarezza un’eccessiva erudizione storica
ed economica può addirittura essere fuorviante, per il
noto principio per cui occorre prima vedere le foreste, e
poi esaminare i singoli alberi. Sono invece necessari due
concetti fondamentali, il primo elaborato da Karl Marx,
il secondo da Karl Polanyi. Secondo Marx il capitalismo,
0 più esattamente il modo di produzione capitalistico,
è retto da una norma di produzione e riproduzione il­
limitata, ed è proprio questa illimitatezza l’elemento
differenziale e contrastivo con tutti i precedenti (e forse
1 successivi, se ci saranno successivi, cosa che nessuna fi­
losofia della storia necessitaristica, deterministica e tele­
ologica può garantire a priori in forma messianica, rico­
perta o meno con una presunta veste “scientifica”) modi
di produzione che hanno caratterizzato la storia univer­
sale dei cinque continenti. Secondo Polanyi il capitali­
smo è la sola società in cui l ’economia non sia contenuta
ed “incorporata” nella più ampia produzione sociale e
comunitaria, e questa non-incorporazione è ovviamente
la premessa non solo dell’autonomizzazione patologica
dell’economia stessa, ma del suo soffocante dominio su
tu tti gli ambiti della vita sociale, per cui a poco a poco,
la fisiologica economia di mercato diventa una patologi­
ca società di mercato.
Partendo dall’economia politica intesa come discipli­
na indipendente, in tutte le sue varianti di destra, di
centro e di sinistra, questa comprensione è impossibi-
430 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

le, ed è impossibile per l’autoreferenzialità della stessa


scienza economica, che si basa sul presupposto antro­
pologico dell’individuo originario, prima produttore e
poi consumatore. E vero che a volte si parla di macro­
economia contrapposta a micro-economia, ma si tratta
quasi sempre di un espediente, perchè le stesse grandez­
ze macro-economiche disaggregate rimandano in ultima
istanza alla sacralità indiscussa della fondazione utilita­
ristica originaria.
L’economia politica trova quindi il suo fondamento
ontologico ultimo in una metafisica dell’individuo ori­
ginario. Per questo fanno ridere (ma si ride per non pian­
gere!) tutte le affermazioni alla Habermas o alla Rorty,
per cui oggi noi vivremmo finalmente in una situazione
post-metafisica, in cui il rischiaramento illuministico ha
finalmente vinto sulle precedenti superstizioni religiose
e su quei succedanei religiosi imperfettamente secolariz­
zati che rinviano al pensiero di Hegel e di Marx.
Chi cerca in tu tti i Modi nell’economia politica la
chiave per la comprensione della totalità sociale non la
troverà mai, perchè l’economia politica non è la solu­
zione, ma è il problema. Una delle ragioni - non l ’u ­
nica, certamente - del fallimento del marxismo storico
nella comprensione del problema della riproduzione
della totalità capitalistica sta nel fatto che a partire da
Engels (ma con qualche minore responsabilità di Marx)
il marxismo si è costituito come “economia politica di
sinistra” e come previsione pseudo-scientifica e quasi-
religiosa del crollo del capitalismo per opera del sog­
getto demiurgico proletario. Ma l’economia politica, di
destra o di sinistra che sia coincide al cento per cento
con l’utilitarismo, ed essendo l’utilitarismo una meta­
fisica dell’individuo originario é del tutto impossibile
sulle sue basi giungere alle dinamiche della dissoluzione
e della ricomposizione della comunità. Solo la filosofia
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 431

può arrivarci, e non è un caso infarti che a partire dal


1803 circa Hegel abbia individuato nella filosofìa l’unica
leva per la ricomposizione della comunità, abbandonan­
do le precedenti generose posizioni giovanili (l’arte, il
cristianesimo, la grecità, eccetera).
Alcuni economisti sensibili ed intelligenti hanno
peraltro capito a loro modo quanto sto dicendo, e cioè
che sul terreno della sola economia è del tutto impos­
sibile ricostruire la totalità sociale, e pertanto modifi­
carla in una prospettiva concreta e realistica. Fra questi
spicca l ’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni
(1924-1988). Studiando la storia del pensiero economi­
co, e non dimenticando mai che quella che viene chia­
mata “socialità” non è altro che storicità, o se vogliamo
una configurazione mobile e provvisoria della storicità
stessa, Napoleoni giunse alla comprensione della iden­
tità in ultima istanza fra la teoria economica del valo­
re e la teoria filosofica dell’alienazione. E mentre per il
suo compagno di strada Lucio Colletti questa scoperta
fu l’occasione (o meglio, il pretesto) per giustificare il
proprio abbandono della prospettiva di Marx e la propria
“conversione” al liberalismo di Popper, per Napoleoni
fu invece il punto di partenza per un ripensamento ra­
dicale dell’intera economia politica (cfr. Discorso sull’eco­
nomia politica, Boringhieri, Torino 1985), e quindi per
una uscita ragionata dalla sua assolutezza autofondata.
Personalmente, ne scrissi in proposito un commento per
la rivisita “Marxismo Oggi”. Nel 1990, due anni dopo
la sua morte, furono pubblicate delle sue note intitola­
te “cercate ancora” (cfr. Cercate Ancora, Editori Riuniti,
Roma 1990). E tuttavia, la stima e la simpatia umana
per la sua persona, da me personalmente conosciuta, non
deve impedirmi di dare un giudizio criticamente negati­
vo sulla sua impostazione della ricerca, che esclude ogni
tipo di salvezza storico-politica, si muove verso la critica
432 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

della Tecnica (intesa nel senso di Heidegger come dispo­


sitivo anonimo ed impersonale incontrollabile ed immo­
dificabile, Gestell), accusata di annullare il soggetto e
di portare il mondo verso un dominio incondizionato,
per cui il progetto di emancipazione umana sfocia nella
sapienziale conclusione heideggeriana che “solo un Dio
ci può ancora salvare”.
In questo modo la generosa esortazione di “cercare
ancora” diventa a mio avviso completamente astratta ed
ineffettuale, e sfociare nel vasto mare del pensiero post­
moderno, che non è che la razionalizzazione sofisticata
dell’impotenza storica e sociale, più o meno travestita
da disincanto verso le grandi narrazioni (Lyotard, Sloter-
dijk, eccetera). Bisogna indubbiamente cercare, ma cer­
care è dpi tutto inutile se non si sa dove cercare, perchè
soltanto sapendo dove cercare si può sperare di trovare
qualcosa. Qui bisogna mettersi alla scuola dei cercatori
di funghi e dei pescatori, che non sono magari sicuri di
trovare quello che cercano, ma sanno che in certi posti è
assolutamente sicuro che non si troverà nulla, mentre in
altri è invece probabile che si troverà qualcosa.
Il luogo in cui cercare è a mio avviso perimetrato dai
due concetti fondamentali prima richiamati a proposi­
to di Marx e di Polanyi. Se si crede di poter contestare
e criticarne il capitalismo in nome di una illimitatezza
ancora più efficiente o addirittura più “giusta” si andrà
fuori strada, perchè sul terreno della illimitatezza il ca­
pitalismo è assolutamente imbattibile. Questo non com­
porta automaticamente l’adozione della teoria della de­
crescita, che nella forma oggi diffusa (Latouche, Badiale,
Bontempelli, eccetera) non mi sembra convincente, ma
comporta la sua presa in considerazione evitando fretto­
lose liquidazioni in nome del modello liberale di crescita
o del paradigma marxista classico, che come ho detto
prima è economicistico, ed è quindi soltanto un povero
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 433

utilitarismo di sinistra a mio avviso non riproponibi­


le. La teoria della decrescita mi sembra per ora essere il
semplice rovesciamento non dialettico della precedente
teoria della crescita. Capisco bene le ragioni soprattutto
ecologiche ed ambientali che ne possono favorire il suc­
cesso, ma vi sono troppi “passaggi” economici, politici e
filosofici che questa teoria “salta” perchè si possa pensare
di avere già trovato il bandolo della matassa. Resta il
fatto che la norma di accumulazione illim itata che regge
il capitalismo, in particolare nella forma attuale post­
borghese e post-proletaria è il cuore da contestare e da
criticare. I l “cercare ancora”, quindi, significa cercare
le forme di aggregazione politica e sociale che possano
“praticamente” infrangere questa patetica e viziosa illi­
mitatezza. Il pensiero greco, pensiero della misura (me-
tron), della giustizia (dike) e del calcolo politico e sociale
comunitario {logos) può essere in questo infinitamente
più “attuale” dello storicismo marxista o della sapienzia-
lità heideggeriana.
È tuttavia la diagnosi di Polanyi che oggi mi sem­
bra la più ricca di insegnamenti. Finché l’economia (di
cui non discuto la legittim ità sia dell’oggetto che del
metodo, se non vengono assolutizzati in una metafisi­
ca utilitaristica dell’individuo robinsoniano originario)
non sarà riportata all’interno del controllo sociale comu­
nitario, inevitabilmente politico, il popolo non sarà mai
al potere, ma resterà sempre un’astrazione ideologica
vuota, per cui la democrazia non potrà mai essere altro
che oligarchia e l’economia non potrà mai essere altro
che crematistica.
434

Per una nuova proposta politica

S c h ia v it ù d e l d e b it o : c r is i della s o v r a n it à
E DELLA RAPPRESENTANZA

1) La crisi economica ha accentuato nel 2011 la deca­


denza istituzionale italiana: oggi non è sufficien­
te sostituire un governo con un altro, ma si deve
rifondare un intero sistema, a l fine di restituire
alla politica il suo ruolo prim ario, il governo dello
stato. D in a n zi a d un Berlusconi in declino, l’al­
ternativa è Bersani, la politica attuale non offre
altro. La sovranità degli stati europei è stata pro­
gressivamente erosa dalla UE, che, oltre ad avere
espropriato gli sta ti della loro sovranità moneta­
ria, ne ha assunto, tram ite la BCE, la direzione
economica. Il debito pubblico italiano (e di alcuni
paesi europei), è sottoposto a manovre speculative
internazionali che aggravano d i giorno in giorno
la condizione economica del paese. I l sostegno del­
la BCE all’Italia comporta la adozione d i politiche
economiche incentrate sui tagli alla spesa sociale
e inasprim enti della pressione fiscale: l’Italia nel
prossimo fu tu ro dovrà sacrificare una ingente per­
centuale delle proprie risorse al sostegno del debito.
Saranno pertanto i creditori della BCE a imporre
all’Italia la politica economica e il definitivo sm an­
tellamento dello stato sociale. La sovranità ita lia ­
na è stata espropriata dai mercati fin a n zia ri e dal­
la BCE. L’Europa è vittim a d i assalti speculativi
contro l’euro cui la UE, chiusa nel suo monetarismo
assoluto, noti ha saputo opporre valide strategie di
difesa. Occorrono dunque nuove proposte politiche,
d in a n zi alla decadenza economica, politica e mora­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 435

le degli stati. I l novecento è ormai alle nostre spal­


le e le ideologie internazionaliste incentrate sulla
lotta d i classe tra borghesia e proletariato, non sono
adeguate ad interpretare la realtà del X X I ° seco­
lo. La progressiva proletarizzazione dei ceti m edi è
conseguenza della espulsione di masse d i lavoratori
dal processo produttivo. Una classe subalterna può
ribellarsi ed imporre le proprie ragioni, nella m i­
sura in cui esercita un ruolo strategico nella strut­
tura economica capitalista e, pertanto, è dotata di
una consistente capacità contrastativa nei confron­
ti della classe dominante. Le masse d i disoccupati
elo precari, costituiscono solo “l’esercito industria­
le d i riserva”, non in grado di reagire alla forza
preponderante del capitalismo. Nuove soluzioni
possono essere ricercate solo nell’am bito geopolitico.
Nella attuale geopolitica in fa tti, si evidenzia una
netta linea di demarcazione fr a gli sta ti economi­
camente e politicamente preponderanti, in quanto
detentori dei debiti sovrani, sfruttatori delle r i­
serve d ì materie prim e del terzo mondo, cui fanno
riscontro altri sta ti schiacciati da un debito p u b ­
blico insolvibile, espropriati delle proprie risorse e
della propria sovranità mediante la schiavitù del
debito. Q uindi, un processo di ribaltam ento degli
equilibri geopolitici esistenti, non potrà che coin­
volgere gli stati v ittim e del neocolonialismo capi­
talista. Solo gli sta ti in fa tti, attraverso la rivendi­
cazione della propria sovranità, possono m utare gli
squilibri esistenti. Occorrerebbe q u in d i eliminare
la schiavitù del debito mediante la fuoriuscita di
m olti paesi europei dall’euro o, imporre radicali ri­
form e della UE, per ora impensabili. I l default de­
gli sta ti debitori e la conseguente svalutazione del
debito, porrebbe gli sta ti europei in grado d i creare
436 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sviluppo economico. Nessuno stato potrebbe da solo


porre in essere tali strategie. Pertanto bisognereb­
be pervenire a vasti accordi tra gli stati strangolati
dalla schiavitù del debito, dando luogo ad un nuovo
internazionalismo che abbia come soggetti gli sta­
ti nazionali, da contrapporre alla globalizzazione
finanziaria che rappresenta invece la morte degli
sta ti stessi.

Invitandomi a parlare di politica, mi metti in diffi­


coltà. Perché non so da che parte cominciare. È l'incipit
che è difficile. Il saggio filosofico più difficile che esista,
la Scienza della Logica di Hegel, in confronto è come To­
polino. Tutti cominciano dal Berlusca in fuga, inseguito
da giudici vendicativi e partigiani (in genere di centro-
sinistra moderata tipo “Repubblica”, da lui confusa con il
comuniSmo staliniano) e da puttanelle ricattatrici. Come
Riccardo III di Shakespeare, anche Berlusconi prima o poi
dirà “Il mio regno per un aereo che mi porti alla Isla des lo
Ricos nei Caraibi!”. Ma dopo non verrà il regno dei giusti­
zieri (Di Pietro), dei poeti meridionali furbacchioni (Ven­
dola), dei popolani emiliani che parlano come mangiano
(Bersani), ma il regno del Fondo Monetario Internazionale
(FMI) e della Banca Centrale Europea (BCE). La sotto­
casta più corrotta di tutte, quella mediatico-giornalistica,
dovrà cambiare scenario, ma essi sono esperti in rapidi
mutamenti di scenografia.
Per chi rifiuta lo scenario manipolato, è molto difficile
l’incipit. Tu stesso fai molte considerazioni macro-econo­
miche. Sulla base del trinomio sfida della globalizzazione,
giudizio dei mercati, ricatto del debito è assolutamente
impossibile partire dalla decisione politica, non importa
se di centro, destra o sinistra.
L’Italia è completamente commissionata dal duopo­
lio Draghi-Napolitano. Un banchiere ed un ex-comu-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 437

nista riciclato in rappresentanza degli interessi militari


dell’impero americano e dei parametri oligarchici dei po­
teri finanziari. Dilettanti privi di fantasia come Orwell e
Huxley non lo avrebbero mai immaginato. La fantascien­
za si diletta di imperi stellari, feudalesimi spaziali, ver­
mi giganti, eccetera, ma nessun scrittore di fantascienza
avrebbe mai potuto immaginare l’ex-comunista Napolita­
no e l’ex-fascista La Russa che baciano insieme la bandiera
delle truppe NATO in Afganistan. Quelli che dicono che
la realtà supera sempre la fantasia stanno sistematicamen­
te al di sotto della realtà stessa.
Per discutere di politica ci vogliono due premesse: la
sovranità e la rappresentanza. Su queste basi ci si può ov­
viamente dividere, ma queste basi devono essere presup­
poste. Se al loro posto si installa la cosiddetta govemace,
allora ogni discussione diventa inutile, e la parola passa
alla casta degli economisti. Ma gli economisti non sono
una specializzazione (come o medici, gli ingegneri, i giu­
risti, gli autisti, gli infermieri, eccetera). Sono un partito
politico neo-liberale, ed insieme un sacerdozio della dise­
guaglianza allargata. Essi non “rappresentano” se non gli
interessi globali della riproduzione capitalistico-finanzia-
ria complessiva, ed hanno occupato in pianta stabile gli
schermi televisivi in prima serata, relegando i preti, i do­
cumentari ecologici, i film pornografici soft e la cosiddetta
“cultura” in seconda e terza serata.
Se si potessero fare passare radicali riforme all’Unione
Europea, non è dubbio che ciò sarebbe “realisticamen­
te” una via preferibile e meno avventuristica dell’uscita
dall’Euro e della sospensione del debito (o anche solo di
una sua radicale rinegoziazione). Ma questo mi sembra
per ora più impossibile dell’Utopia di Tommaso Moro,
della Città del Sole di Tommaso Campanella e di tutti
i progetti ultracomunisti dello scorso secolo. In Europa
si è formata nell’ultimo trentennio una classe politica ed
438 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

intellettuale, mediatica ed universitaria, pienamente e


totalmente omologata al neoliberismo in economia, al
neoliberalismo in politica e al Politicamente Corretto
nella cultura. Questo coperchio asfissiante si è per ora ri­
chiuso, ed esso mi sembra realisticamente irriformabile.
Si dirà che la rivoluzione è ancora più impensabile, man­
cando di soggetti potenzialmente interessati ad essa e so­
prattutto politicamente organizzagli. La situazione è in
effetti strategicamente bloccata, ed allora sono costretto,
se voglio evitare una poetica fuga in avanti, a tornare al
piccolo cabotaggio italiano, che pure mi ripugna pro­
fondamente. Nella mia terza risposta analizzerò meglio
il problema della cosiddetta “casta”, che oggi il concer­
to mediatico manipolatore individua come il problema
centrale della società italiana. Anche se ripugnate, la
“casta” non è il problema centrale della società italiana,
come non lo è neppure la pur laida ed indifendibile per­
sona di Berlusconi. Il problema fondamentale è un siste­
ma produttivo asfittico, concepito negli anni cinquanta
e sessanta per produzioni di massa di media intensità
tecnologica, oggi prodotte ormai in tutto il mondo a co­
sti minori. La torta è diminuita, le fette sono più piccole,
e ci raccontano che tutti mangeremmo meglio e di più
se la “casta” fosse colpita e se le spigole al ristorante del
senato costassero venti euro anziché il prezzo protetto di
tre. Non c’è veramente limite alla babbioneria umana.
Siamo sempre alla facile ricerca del “capro espiatorio”. In
un sistema costruito sulla svalorizzazione sistematica del
lavoro e sulla valorizzazione del solo capitale finanziario
è il lavoro italiano che deve essere svalorizzato, sia nella
forma diretta (lavoro temporaneo, flessibile, precario e
diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori sul
posto di lavoro), sia nella forma indiretta (servizi erogati
dal welfare). A questo punto, esaminiamo brevemente “a
volo d’uccello” il mercato politico.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 439

Il centro-destra ed il centro-sinistra ufficiali (con­


sidero Casini, Fini e Rutelli, ufficialmente “pontieri”,
degli antiberlusconiani di centro-destra più che riserve
elettorali del centro-sinistra) hanno smesso da tempo di
essere formazioni politiche di rappresentanza per trasfor­
marsi in strutture di governarne del tutto eterodirette dal
FMI e dalla BCE (la sfida della globalizzazione, il giudi­
zio dei mercati, il vincolo dei debito, eccetera). I cosid­
detti “indignati” hanno cominciato a capirlo, ma il loro
analfabetismo politico e progettuale è tale (venti anni di
desertificazione della cultura politica non sono passati
per nulla!) da non lasciare soverchie speranze. In Italia
l’antiberlusconismo ha sedimentato una protesta lega­
litaria a base giudiziaria politicamente del tutto analfa­
beta. Stante il carattere del Partito Democratico come
partito di governarne e non più di rappresentanza tutti i
suoi fiancheggiatori, da Di Pietro a Vendola, da Diliber­
to a Ferrerò, appaiono del tutto inutili. Essi si limitano
a “rappresentare” non interessi sociali, ma clientele di
estremisti anti-berlusconiani, il cui grido resta quello
del comico Totò (“in galera ti voglio!”). Di Beppe Grillo
non intendo neppure parlare. Ho recentemente assistito
ad un suo shoiv davanti al parlamento con ceste di cozze
per indicare la casta che si attacca agli scogli. In quanto
ai radicali (Pannella und Bonino) non li considero perso­
nalmente una forza politica, ma un elemento culturale di
profonda corruzione civile ed umana, avanguardia di un
individualismo estremo ed anomico. In parola semplici,
ripugnanti.
So che presto verrà riproposto un “nuovo partito co­
munista”. Sebbene in esso siano impegnate persone che
stimo (Domenico Losurdo, Andrea Catone), sono del
tutto estraneo e questa prospettiva. Mettendo al centro
la dicotomia Destra/Sinistra, esso non potrà che fare da
stampella elettorale al Partito Democratico, fingendo
440 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

che sia ancora un partito di rappresentanza popolare,


e non di semplice governance finanziaria (FMI e BCE) e
militare (USA e NATO). Dato il carattere fatuo e confu­
sionario del cosiddetto “popolo di sinistra” (un’adunata
non dei refrattari, ma dei babbioni politicamente corret­
ti) esso non avrà neppure un seguito elettorale, perché
gli sarà preferito Vendola, sponsorizzato dal “Manifesto”
e dalla FIOM.
Inoltre, riproporre il partito comunista (con la triade
Marx, Lenin e Gramsci) significa riproporre uno stru­
mento concepito nel novecento per la rivoluzione in­
centrata sulla classe operaia, salariata e proletaria. Que­
sta rivoluzione è già stata fatta nel novecento (Russia
1917, Cina 1949, eccetera) ed è fallita. Perché è fallita?
Qui le risposte possono essere molte, ed hanno riempi­
to e riempiono enormi biblioteche. La mia risposta, in
estrema sintesi e concisione, è questa: il superamento
del capitalismo (nel senso della hegeliana Aufhebung, su­
peramento-conservazione delle conquiste precedenti) è
del tutto legittimo, giusto e benefico, ma la base sociale
operaia, salariata e proletaria è troppo ristretta, perché
identifica il superamento del capitalismo con la prole­
tarizzazione universale, necessariamente guidata da un
partito dispotico e militarizzato. In Russia essa ha dato
luogo dopo 74 anni (1917-1991) ad una grandiosa con­
trorivoluzione delle nuove classi medie sovietiche, che
non hanno “restaurato” il vecchio zarismo o il vecchio
capitalismo, ma hanno dato il potere ad una feroce oli­
garchia di padroni-ladri, per il momento messa in parte
sotto controllo dall’ex-poliziotto comunista Putin sulla
base del rilancio del vecchio e benemerito nazionalismo
russo. In Cina lo stesso partito comunista ha abbando­
nato del tutto il progetto di proletarizzazione generale
forzata di tipo ideologico (la linea maoista dal 1956 al
1976), per trasformarsi in nuovo mandarinato naziona­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 441

lista di tipo confuciano “rinnovato”. Sostenere che que­


sto non è che un’evoluzione del comuniSmo (Losurdo,
Sidoli, eccetera) è del tutto fuorviarne. La definizione
del comuniSmo non può passare da Marx a Pirandello
(così è se vi pare), per cui ognuno arbitrariamente mette
l’etichetta che vuole.
Mi sono accorto di non essere minimamente riusci­
to a delineare una proposta politica. È vero. In estre­
ma sintesi, il suo profilo non può che essere un nuovo
anticapitalismo al di là della destra e della sinistra del
tutto affrancato dal contenzioso identitario rabbioso che
in genere viene associato all’anticapitalismo. Questa,
ovviamente, non è ancora una proposta politica. È però
impossibile una proposta politica seria senza che si siano
prima realizzate le precondizioni culturali metapolitiche
di essa.

C e n t r a l it à del la v o ro e d e g l o b a l iz z a z io n e

2) La crisi ha comportato rilevanti m u ta m e n ti di ca­


rattere economico - sociale in Italia. Im portanti
m u ta m en ti nella stru ttu ra economica e sociale del
paese sono sta ti realizzati prim a con l ’introduzio­
ne del lavoro precario e flessibile, poi con l’abro­
gazione de facto del contratto collettivo di lavoro e
dello statuto dei lavoratori, a cui sta subentrando
il contratto aziendale e una accentuata flessibilità
nella disciplina dei licenziam enti. Una nuova co­
stituzione m ateriale si sta imponendo, abrogando
de facto il vigente dettato costituzionale in m a­
teria giuslavoristica, previdenziale e assistenzia­
le. D in a n zi a queste trasformazioni, che m utano
profondam ente il modello sociale italiano in senso
liberista, non è possibile elaborare nuove propo-
442 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ste politiche di natura ideologica, che prospettino


società ideali avulse dalla attuale dinam ica dei
rapporti economico sociali esistenti. Pertanto, oc­
corre form ulare proposte praticabili nell’ambito
dell’attuale assetto economico e politico. Occorre
dunque prospettare riforme non fin i a sé stesse,
o che rappresentino un argine moderato ad un
capitalismo totalizzante, che mantengono inalte­
rato però il modello liberale - individualista v i­
gente, ma che inneschino un processo virtuoso di
m utam ento graduale della stessa logica interna
alla struttura economica dom inante. Processo poi
suscettibile d i evoluzioni, che accentuino la cen­
tralità del lavoro rispetto al capitale, che svilup­
pino la fu nzione sociale della produzione, rispet­
to all’accumulazione e al profitto: in una parola,
l’affermazione del prim ato della politica rispetto
all’economia. Preso atto della definitiva decadenza
della piccola e media impresa e dell’artigianato,
bisogna dunque riproporre un modello p ro d u tti­
vo diffuso basato sulla cooperazione integrata tra
le piccole e medie imprese, che valorizzi le risorse
m ateriali e intellettuali, crei occupazione d iffu ­
sa, in contrapposizione alla grande industria or­
m ai in larga parte delocalizzata o fagocitata dalle
m ultinazionali, o in irreversibile disfacimento.
La produzione e la gestione diretta dei lavorato­
r i cooperativi, potrà superare il dualismo tra im ­
prenditori e salariati, ormai talm ente squilibra­
to a favore dei prim i, da rendere im praticabile
la difesa dei d ir itti dei lavoratori. Una fitta rete
diffusa sul territorio d i imprese cooperative p a r­
tecipate può produrre invece occupazione diffusa
ed equilibrata redistribuzione del reddito, oltre
a ridurre le disuguaglianze sociali oggi sempre
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 443

p iù accentuate. Un tale sistema cooperativo può


avere successo, solo se incentivato, protetto, disci­
plinato dalla supervisione degli organi dello stato.
A ltrim e n ti, sarebbe fagocitato dalla concorrenza
selvaggia dei grandi gruppi eto dagli egoismi in ­
d ivid u a li e collettivi. Costatata inoltre la progres­
siva dissoluzione del welfare, è oggi im pensabile e
controproducente teorizzare uno stato distributore
di risorse, che prescinda dalla partecipazione dei
c itta d in i alla sua gestione. Le riform e stru ttu ra li
possono avere una loro efficacia solo se generate dal
basso, non come una mera concessione partorita da
uno stato paternalista. La previdenza e l’assisten­
za dei lavoratori debbono pertanto essere gestite
dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori asso­
ciati, non nell’am bito privatistico, ma in e n ti d i
d iritto pubblico. È in fa tti opportuno che lo stato
sovrintenda alla gestione delle risorse destinate a
previdenza ed assistenza, con fu n zio n i perequati­
ne tra le categorie, onde impedire sia g li egoismi
d i corporazione, sia politiche d i categoria in con­
trasto con gli interessi generali. Uno stato ha una
sua valenza etica nella misura in cui sia formato,
partecipato, gestito, dalla comunità dei citta d in i
che lo cotnpongano.

Dalla tua domanda si capisce bene che tu inten­


di porre con forza il tema della centralità del lavoro
umano nella società. Hai perfettamente ragione. Sono
in molti oggi a parlare della necessità di rimettere il
lavoro al centro della società (penso soltanto all’o tti­
mo sociologo Luciano Gallino). E tuttavia, nella storia
in genere si parla della centralità di qualcosa quando
questa centralità è perduta. Al tempo dell’imperatore
romano Augusto si parlava moltissimo di morale, e si
444 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

cercava anche di imporla con leggi severissime, ma mai


come allora la morale era sparita, distrutta dai modelli
schiavistici di lusso ed arricchimento. Temo che la stes­
sa cosa stia accadendo oggi con il lavoro e la sua centra­
lità. Per dirla con Metastasio, la centralità del lavoro è
come l’araba fenice: che ci sia, ciascuno lo dice/ dover
stia, nessuno lo sa.
La società borghese-capitalistica si fondò simboli­
camente sulla centralità del lavoro umano. Per Adam
Smith il valore dei beni-merci era dato dal tempo di
lavoro sociale medio necessario a produrle. Marx, che
voleva rovesciare il mondo che Smith aveva giustifica­
to (il capitalismo di mercato), accolse integralmente la
teoria smithiana del valore-lavoro, e si limitò a coniu­
garla con la teoria dell’alienazione (seguo qui l’interpre­
tazione di Lucio Colletti e Claudio Napoleoni). Quando
l’ultimo Lulcàcs, nella sua mirabile Ontologìa dell’Essere
Sociale, cercò di correggere la filosofia comunista ufficia­
le, il cosiddetto “materialismo dialettico”, mise il lavoro
come modello (Vorbìld) e forma originaria (Urform) di
ogni possibile prassi umana. Il lavoro era visto non solo
come mezzo di sussistenza, ma come forma di dignità.
Il padre di Gesù di Nazareth, Giuseppe, era una fale­
gname, e non si fa fatica a credere che anche suo figlio,
prima di profetizzare e frustare i mercanti nel tempio,
abbia imparato anche lui questo umile mestiere. Prima
di profetizzare, Maometto aveva lavorato come umile
cammelliere.
Tutto questo sembra oggi scomparso. Idioti falsa­
mente utopisti hanno cantato le lodi di un comuniSmo
del consumo automatizzato, in cui le macchine avrebbe­
ro sostituito gli uomini (tanto per non fare nomi, alludo
al comuniSmo del desiderio di Negri-Hardt, idoli dei
centri sociali e del marxismo universitario imperiale del
passato decennio, oggi fortunatamente sprofondato nel-
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 445

la vergogna). La polemica di estrema sinistra contro i co­


siddetti “bottegai” e contro le virtù piccolo-borghesi del
risparmio hanno caratterizzato l’orribile clima culturale
post-sessantottino. Dal matrimonio gay all’eutanasia,
dal femminismo alla anti-caccia, dal meticciato all’abo­
lizione della corrida, una nuova cultura post-borghese
ha sostituito i valori fondati sulla dignità del lavoro.
Di chi la colpa? Ad un primo sguardo, sembrerebbe
che la colpa sia stata degli avanguardisti urlatori dell’e­
strema sinistra, che nella mia quarta risposta definirò con
Michel Houellebecq “masochisti astiosi”. Ma non è così.
Il pesce puzza sempre dalla testa, non dalla coda. Biso­
gna cercare altrove, se si vuole alla fine capirci qualcosa.
Oggi Marx sembra tornato di moda. Ma non biso­
gna lasciarsi ingannare. La gran cassa mediatica, che per
un ventennio aveva proclamato che era morto e sepol­
to, sembra riscoprirlo come potenziale “consulente della
globalizzazione”, o più esattamente di una globalizza­
zione meno distruttiva per il lavoro umano. Inoltre, non
c’è bisogno di essere keynesiani per sapere che se non
si distribuiscono più salari sufficienti, non soltanto au­
mentano i rischi di disordini sociali, ma entra in crisi la
domanda interna di beni e servizi. Personalmente, ricevo
spesso telefonate di giornalisti che mi chiedono la ragio­
ne della “riscoperta di Marx”, ed in genere rispondo im­
barazzato che si tratta sempre di riti autoreferenziali del
sistema mediatico, che prima seppelliscono e poi risusci­
tano a comando, il che li lascia sempre un po’ interdetti,
perché lo prendono come una maleducazione: “Ma come,
ci interessiamo anche noi del suo oggetto di studio, e lei
anziché ringraziarci ci dice cose del genere!”.
Discutiamo allora di lavoro. Il capitalismo è un pro­
cesso dialettico, che sorge valorizzando il lavoro umano
(nel doppio aspetto di lavoro imprenditoriale e di lavoro
salariato), ma che nel suo processo di approfondimento
446 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

tende verso il suo contrario, e cioè verso la valorizzazione


del lavoro umano stesso. Si tratta non di una contrad­
dizione dialettica, che richiede la logica di Hegel (e di
Marx) e non quella di Kant (e di Bobbio). Se ce ne impa­
droniamo, potremo forse capirci qualcosa.
A fianco della centralità del lavoro umano e della sua
dignità sociale tu sembri particolarmente interessato a
non riproporre progetti astratti di tipo ideologico. Fuori
dai denti, credo che tu alluda indirettamente o al fasci­
smo o al comuniSmo novecenteschi, a meno che tu voglia
intendere altri progetti come la teoria della decrescita,
che personalmente ritengo astrattamente auspicabile ma
concretamente inapplicabile (almeno nelle attuali con­
dizioni geopolitiche mondiali, che rendono impossibile
un reale coordinamento cosmopolitico). Sono d’accordo,
ma il problema sta nell’esplicare apertamente il perché
noi li consideriamo irriproponibili, al di là dei rispettivi
giudizi di valore ideologici.
Per quanto riguarda il fascismo italiano, ammet­
to apertamente che il progetto delle corporazioni pro­
prietarie mantiene un certo livello di plausibilità (Ugo
Spirito, ma anche l’ultimo Giovanni Gentile). Tuttavia
il fascismo lo ha rovinato con il colonialismo imperia­
listico, con la discriminazione razzistica anti-ebraica,
con l’alleanza con Hitler, e finalmente con l’abolizione
dei diritti liberali e delle libertà democratiche. Come si
vede, è il “contorno storico” che ha reso illegittimo lo
stesso nucleo razionale delle corporazioni proprietarie,
senza contare il rifiuto assoluto dei capitalisti. Tutti i
capi della destra, da Mussolini ad Almirante a Fini, han­
no sempre alla fine scelto il capitalismo “reale” contro
le utopie riformatrici “ideali”. Chi continua a fingere di
non saperlo mi ricorda i “merli” che negli atrii delle sta­
zioni continuano a cadere vittime dei furbacchioni del
gioco delle tre carte.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 447

Un discorso più complesso deve essere fatto per il


comuniSmo. Personalmente, io continuo ad essere “co­
munista” nel senso di Marx, anche se non nel senso di
Diliberto o Ferrerò. Ma qui non interessa la mia autodi­
chiarazione soggettiva, quanto la mia proposta di spie­
gazione del fallimento del comuniSmo storico. A diffe­
renza di chi lo liquida come totalitarismo burocratico
inefficiente, io penso che il comuniSmo (intendo quello
leniniano posteriore al 1917) abbia realmente cercato di
fondare una società incentrata sui valori del lavoro. Ma il
lavoro è stato pensato nella forma della proletarizzazione
universale e della sottomissione dell’intera popolazione
ad un partito-stato necessariamente dispotico. In questo
modo è stato messo in piedi un progetto necessariamente
artificiale (ed in quanto artificiale storicamente fragile)
di ingegneria sociale autoritaria ed egualitaria sotto cu­
pola geodesica protetta, cupola che una volta “bucata”
dai modelli di vita capitalistici esterni ha fatto entrare
uno tsunami che ha travolto tutto in pochissimo tempo.
Sono quindi d’accordo sull’essenziale, e cioè sulla impro­
ponibilità di una riproposizione di modelli novecente­
schi a base ideologica.
Questo non significa, però, che si possano fare con­
cessioni all’attuale moda della demonizzazione, stu­
pidamente favorita da molti storici contemporaneisti,
non è oggi che una copertura ideologica del neolibera­
lismo imperante, e questo anche quando questi storici
si dichiarano fieramente di sinistra ed addirittura di
estrema sinistra (ad esempio, per non fare nomi, Marco
Revelli).
Storicamente parlando, il “riformismo possibile”
è sempre stato identificato con la social-democrazia.
Perché perseguire una rivoluzione impossibile quando
esistono gli spazi ed i soggetti politici organizzati per
un riformismo possibile? La scelta per un riformismo
448 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

possibile portava ad una vittoria a tavolino. Ma oggi la


“sfida della globalizzazione” rende paradossalmente più
pensabile il comuniSmo della stessa socialdemocrazia, il
cui progetto, costruito sulla base di un buon capitali­
smo industriale, è stato poi eroso dalla vittoria tennisti­
ca del capitale finanziario. Fra l’altro, è questo il fatto
che ha fatto venire meno la dicotomia Destra/Sinistra,
che infatti è continuamente reimposta dal sistema me­
diati co europeo come semplice protesi di manipolazio­
ne elettorale illusoria. È chiaro che oggi la cosiddetta
socialdemocrazia è impensabile senza un ritorno guida­
to alla sovranità monetaria dello Stato nazionale, che è
anch’essa impossibile senza un ritorno ad una forma di
protezionismo ben temperato, non assoluto, certamente,
ma con “un occhio di riguardo” per le produzioni locali
e nazionali.
Gira gira, si torna sempre allo stesso punto, e cioè
ad un processo politico di deglobalizzazione. E evidente
che non esiste una classe politica ed intellettuale, uni­
versitaria e mediatica, che lo possa non dico promuove­
re, ma anche solo concepire. Il vecchio cosmopolitismo
finanziario della destra si è gloriosamente unito al vec­
chio internazionalismo proletario della sinistra, che fusi
insieme rendono per ora impensabile la sola possibile
uscita dalla crisi. Sulla base del ricatto del debito, della
sfida della globalizzazione e del cosiddetto “giudizio dei
mercati” nessuna via d’uscita è possibile. Se il riformi­
smo fosse possibile sarebbe certamente preferibile alla
rivoluzione, anche se più prosaico e meno romantico. Ma
esso non mi sembra più possibile. Ecco perché la parola
“rivoluzione” non deve farci paura.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 449

D e c a d e n z a d e lla “ c a st a ” e “ m a s o c h is t i a s t io s i ”

3) I governi a ttu a li sono a ffe tti da crisi d i endemica


ingovernabilità, sia per vincoli esterni d i carat­
tere economico (UE, BCE, FMl ) e p o litici (Nato),
sia p e r vincoli interni, costituiti dagli interessi
particolaristici d i caste grandi e piccole. I l bene
comune, l’interesse generale, valori che costitu­
iscono il fondam ento della politica intesa come
governo della res publica, scompaiono d in a n zi ad
una m iriade d i egoismi corporativi autoreferen­
ti, che impediscono sia u n ’azione politica d ai va­
sti orizzonti, sia program m i di riforme a lungo
term ine. I l senso dello stato è un concetto ormai
estraneo a questa società, perché è assente nella
politica attuale qualsiasi rapporto comunitario
d i solidarietà sociale che prescinda dalla difesa
d i particolari interessi economici o rendite d i po­
sizione. È scomparso inoltre in Ita lia il concetto
d i nazione, proprio perché la grande massa dei
c itta d in i si riconosce d i fa tto nei propri interessi
particolari, sia in d iv id u a li che collettivi. È sorta
perfino una p a tria assurta a simbolo degli egoismi
locali: la padania. Oggi è p iù che m a i diffusa la
protesta contro la casta privilegiata dei politici,
ma questa gode d i assurdi privilegi, quale corri­
spettivo dovuto per il m antenim ento dell’Ita lia in
posizione subalterna nell’am bito occidentale, Tale
appannaggio viene erogato perché la politica non
ostacoli i disegni della grande in dustria e della
fin a n za , fin a lizza ti a l dominio del capitalismo
assoluto con conseguente macelleria sociale. La
casta dei politici, a sua volta si procura consenso
attraverso clientelismo e protezione degli interessi
e dei privilegi delle caste m inori delle categorie.
450 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

L’Ita lia è insomma un ordinamento gerarchico di


carattere castale - feudale, gestito in nome e per
conto dei poteri delle glohal class globalizzate. A p ­
pare evidente che non è possibile dunque fo rm u la ­
re proposte politiche alternative senza f a r riferi­
mento a i valori etici su cui una comunità si. stru t­
tura. Esistono in fa tti categorie della produzione,
delle professioni, dell’arte, del terziario, che, in
quanto componenti della società sono necessarie
alla sussistenza della vita sociale comunitaria.
E d è q u in d i in base alla loro fu n zio n e sociale, del
ruolo cioè assolto nella società civile, che la loro
presenza acquista una dignità etica che lo stato
deve riconoscere e disciplinare. Senza alcun rife­
rim ento alle v irtù civiche, ogni società si dissolve
nell’egoismo degli interessi destinati a fagocitarsi
a vicenda. Non si può prospettare alcuna riform a
strutturale della società, senza un movimento po­
litico che prenda coscienza dell’agire politico come
una missione d i carattere etico, tesa alla realiz­
zazione del bene comune come fondam ento della
com unità sociale.

La tua domanda invita a riflettere sul rapporto fra eti­


ca e politica, ribadendo una verità notissima, e cioè che
senza un rapporto fra etica comunitaria e rappresentanza
politica non c’è che la dissoluzione di ogni legame socia­
le. Tu sai che secondo la mia ricostruzione della storia
della filosofia i cosiddetti “presocratici” non erano fisio­
logi (anche se così li interpretò Aristotele trecento anni
dopo la loro comparsa), ma legislatori comunitari, e la
natura non era che un metafora panteistica per indicare
ciò che loro più premeva, il rapporto fra etica e politica
nella polis. Ma è appunto perché approvo interamente
questo oggetto di riflessione (il rapporto fra etica e po­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 451

litica, appunto) che sconsiglierei fermamente di cadere


nella trappola che ci viene oggi proposta, quella delle
“ruberie della casta”, capro espiatorio oggi delle oligar­
chie dominanti, che vorrebbero”snellirla”per potere ul­
teriormente indebolire il potere della rappresentanza.,
sia pure corrotta.
Scrive Franco Berardi “Bifo” (cfr. “Il Manifesto",
15/9/2011): “Mentre Berlusconi ci ipnotizza con i suoi
funambolismi da vecchio mafioso, eccitando l’indigna­
zione legalitaria, Napolitano ci frega il portafoglio. La
divisione del lavoro è perfetta. Gli indignati d’Italia
credono che basti ristabilire la legalità perché le cose
si rimettano a funzionare decentemente, e credono che
i diktat europei siano la soluzione per le malefatte del­
la casta maliosa italiana. Il Purgatorio che ci aspetta è
invece più complicato e lungo. Dovremo forse passa­
re attraverso una insurrezione legalitaria che porterà
al disastro di un governo della Banca Centrale europea
impersonato da un banchiere o da un confindustriale
osannato dai legalitari. Sarà quel governo a distruggere
definitivamente la società italiana, ed i prossimi anni
italiani saranno peggiori dei venti che abbiamo alle
spalle. E meglio saperlo”.
Vorrei commentare questo breve testo perché lo con­
divido nell’essenziale, al di là degli anarchismi del per­
sonaggio e dell’ipocrisia dell’organo di stampa che lo
pubblica, organo dell’ala estremistica dei legalitari anti-
berlusconiani.
Non intendo affatto negare l’esistenza della casta, e
neppure sottovalutarla o scusarla. Essa mi fa schifo poli­
ticamente, moralmente ed esteticamente. Nessuna com­
media greca può competere con Scajola, che ha affermato
che gli avevano comprato una casa a Roma con vista sul
Colosseo senza che lui neppure lo sapesse. Ma cerchia­
mone la genesi storica strutturale. La casta è stata un
452 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

costo fisiologico (un faux fraìs, in lingua francese) pagato


a fine ottocento nel passaggio dal liberalismo censi tario
alla rappresentazione “democratica”. La cosiddetta “cor­
ruzione”, già conosciuta dagli antichi, è quindi endemi­
ca in Europa da più di un secolo. L'esperienza insegna
che il richiamo dei valori non serve quasi a nulla, e che ci
vuole la paura del boia. La classe politica di servizio (non
importa se delle oligarchie economiche e/o dei lavora­
tori dipendenti) è come una donna di servizio la quale,
oltre alla paga mensile, “fa la cresta” alla spesa per incre­
mentare il suo reddito. Le danno cento euro per fare la
spesa, lei compra per settanta, ed intasca trenta. Intasca
trenta perché invidia il tenore di vita dei suoi padroni,
e vorrebbe anche lei andare a Cortina anziché a Sharm
el Sheik. Ma - mi dirai- le cose non sono così semplici.
Errore, le cose sono esattamente così. Inutile scomodare
la tradizione cattolica, la mancata rivoluzione protestan­
te, il calvinismo assente, ed altre idiozie della tradizione
azionista italiana.
Questi straccioni arricchiti sono dunque un costo ag­
giuntivo alla rappresentanza democratica moderna. Se
pensiamo al tempo di Giolitti (1901-1912) oppure della
DC (1946-1992), la casta c’era eccome, ma dava qualcosa
ai suoi rappresentati. Pensiamo a Gaspari in Abruzzo. La
“serva” faceva la cresta alla spesa, ma almeno portava a
casa la spesa, e riempiva il frigorifero. Oggi la novità è
che continua a fare la cresta, ma non porta neppure più a
casa la spesa. E perché non porta più a casa la spesa? Ma è
semplice! A causa della “sfida della globalizzazione”, del
“giudizio dei mercati” e del “ricatto del debito” di cui
abbiamo già ampiamente parlato nelle due risposte pre­
cedenti. La mafia chiede il “pizzo”, ma almeno fornisce
la “protezione”. Oggi questi miserabili non sono più in
grado di fornire alcuna protezione. La “pacchia” dei tempi
DC-PSI-PCI è finita. Oggi le elezioni, in tempo di crisi
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 453

economica e bipolarismo partitico, vengono quasi sempre


automaticamente vinte dal partito di opposizione, desti­
nato poi a “ruotare” a scadenza elettorale. In Italia ce in
più un parossismo ideologico identitario, ereditato dalla
Prima Repubblica (l’antifascismo in assenza di fascismo e
l’anticomunismo in assenza di comuniSmo), che rende le
nostre genti preda di un babbionismo ideologico mani­
polato inesistente nel resto del modo, ma la somma totale
non cambia.
Ho assistito in TV allo spettacolo surreale del popo-
lo-babbione PCI-PD che applaudiva freneticamente Ber-
sani quando faceva riferimento a Napolitano “difensore
della Costituzione” (si tratta del garante dei mercati e
dell’intervento anticostituzionale della NATO in Libia).
Con una base elettorale del genere, non c’è nessun biso­
gno di un governo tecnico della Banca Centrale Europea.
I lernming andranno da soli a buttarsi in mare seguendo il
pifferaio di Hamelin. Trattandosi di masochisti astiosi,
sarà facilissimo dirottare il loro odio non solo contro il
laido puttaniere Berlusconi, ma anche contro le libere
professioni, gli apparati amministrativi delle province,
eccetera.
Ci aspettano quindi tempi duri. Tu sembri credere
che sia impossibile svuotare la “casta”, o quantomeno
dimagrirla. Non lo credo. Ho rilevato in precedenza
che nelle democrazie elettorali capitalistiche, ancora di
più nella fase del bipolarismo commissariato che svuota
qualsiasi decisione politica sovrana, un settore di “casta”
è fisiologico, perché serve da intermediazione parassita-
ria fra l’imprenditoria privata e le strutture pubbliche.
Ma questa intermediazione può essere snellita, e lo può
essere quando non può più erogare clientelismi, prote­
zioni, nicchie di privilegio, false pensioni di invalidi­
tà, ospedali e scuole destinati a non essere mai messi in
funzione, eccetera. Il problema è questo: quando questa
454 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

casta parassitarla sarà snellita e dimagrita, quale sarà il


nuovo capro espiatorio di cui avranno bisogno le oligar­
chie per dirottarci contro l’invidia sociale degli apparati
“legalitari”?
La tragicommedia di Mani Pulite, l’operazione che
ha visto il seppellimento della prima Repubblica DC-
PSI, certamente corrotta ma anche erogatrice di wel-
fare e di rappresentanza politica parzialmente sovrana
(almeno in politica interna), ha messo al centro della
sfera politica una categoria giudiziaria, l’obbligatorietà
dell’azione penale. Ora, io non dubito neppure per un
momento che l’obbligatorietà dell’azione penale sia una
necessità per la convivenza comune. Nego invece che
possa diventare la categoria più importante e decisiva
dell’azione politica sovrana. Che i “politici rubino” è
per me un fatto statistico parzialmente scontato. Sono
convinto che rubino anche in Islanda e Danimarca, al­
meno una parte di loro. La politica attira idealisti, non
importa se rivoluzionari o riformisti, soltanto in tempi
storici in cui sono aperte prospettive di sovranità, di
destra e/o di sinistra. In tempi in cui la politica è unica­
mente una registrazione notarile del giudizio dei mer­
cati o un supporto tecnico della sfida economica della
globalizzazione è normale che essa attiri soprattutto
il tipo umano del faccendiere o al massimo quello del
ragioniere-contabile. Ci saranno sempre dei caroselli di
automobili di elettori-tifosi dopo la vittoria elettora­
le, ma si tratta di percentuali minime, anche se supe­
riori a quelle degli esploratori artici e dei serial killer.
Il tipo umano dell’amministratore-ragioniere ruberà
percentualmente poco, mentre il tipo umano del fac­
cendiere ruberà percentualmente di più. Ma il faccen­
diere è indispensabile nella politica odierna, perché fa
da mediatore tra l ’imprenditoria privata e le strutture
pubbliche. A Washington, ad esempio, la grande mag­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 455

gioranza dei politicanti è costituita da lobbysti ufficial­


mente registrati.
E realistica la prospettiva evocata da Franco “Bifo”
Berardi? Io credo proprio di sì, anche se la babbioneria
masochistica del popolo di sinistra, oggi riciclato in tifo­
seria politicamente corretta di matrimoni gay, immigra­
ti e nomadi, renderà probabilmente superfluo il ricorso
diretto ed un governo tecnico di tipo Marcegaglia-Mon-
tezemolo-Draghi. Quest’ultimo certamente porterebbe
l’età pensionabile ad ottant’anni (dicendo che questo è
utile per trovare lavoro ai “giovani”- d ’altronde, un po­
polo interamente babbionizzato e ridotto a plebe tifosa
non può rendersi conto della contraddizione), privatiz­
zerebbe l’assistenza sanitaria incentivando le assicura­
zioni, moltiplicherebbe la flessibilità del lavoro (sempre
per rispondere alle “sfide della globalizzazione”), libe­
ralizzerebbe tassisti e libere professioni, promuoverebbe
ulteriormente eutanasia, cremazione e centralità della
coppia gay contro le vecchie ed obsolete normali fami­
glie, eccetera.. Di Pietro verrebbe tacitato con un paio di
manette d’oro, e Vendola con la sponsorizzazione statale
del matrimonio gay. Sarà del tutto inutile ricorrere ad un
governo tecnico.
Come se ne esce? A mio avviso non se ne uscirà, finché
gli oppositori al capitalismo continueranno ad essere per­
cepiti come “masochisti astiosi”, secondo una definizione
di Michel Houellebecq con cui ho deciso di iniziare la mia
quarta ed ultima risposta. Ma questo richiede un muta­
mento culturale tellurico, di cui per ora non si vendono
che fragilissime tracce. Vale però la pena di rifletterci bre­
vemente sopra.
456 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

C a pita lism o r iv o l u z io n a r io e d econo m icism o libertario

4) I l concetto di rivoluzione ha subito nel X X I ° secolo


un capovolgimento a 360°. S i accreditano in fa tti
come rivoluzionari fenom eni d i rivolta innescati
dall’imperialismo americano e occidentale, volti al
ripristino dell’ordine capitalista e alla sostanziale
perdita della sovranità nazionale. Così abbiamo
assistito alla rivoluzione arancione in Ucraina,
alle varie rivoluzioni arabe ecc... Il capitalismo,
da reazionario è divenuto rivoluzionario, nella
m isura in cui estende il proprio dominio im pe­
rialista e diffonde il verbo della globalizzazione
economica. L’evoluzione culturale, l’affrancam en­
to dalla miseria materiale, l’aspirazione all’in d i­
pendenza dei popoli, capisaldi ideali delle ideolo­
gie del ‘900, sono sta ti soppiantati dal ritorno al
X I X ° secolo, da una espansione capitalista che,
p u r m utata nelle sue forme, afferm a il prim ato
americano nel mondo. Allo stesso modo la Cina,
quale potenza emergente, dismesso l’apparato ide­
ologico maoista, estende il suo dominio, specie in
Africa, con le arm i della finanza e dell’accumula­
zione capitalista. E in fa tti proprio la crisi dell’oc­
cidente ad incrementare la spinta a questo nuovo
imperialismo, spesso sotto m entite spoglie rivolu­
zionarie, volto alla appropriazione d i materie p r i­
me a basso costo. La rivoluzione, così come intesa
nel ‘900, è stata sottoposta ad una demonizzazione
ideologica, quale fenom eno foriero d i ordini tira n ­
nici e sistem i politici fallim en ta ri, ormai fu o ri
della storia, perché l’emancipazione progressiva
della modernità è un valore portante dell’avvento
della globalizzazione. A l contrario, è proprio il ca­
pitalism o ad espandere insieme all’imperialismo,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 457

la propria crisi e qu in d i, la schiavitù del debito,


le guerre, l’impoverimento generalizzato dei popo­
li. In occidente, sono proprio i fenom eni congeniti
allo sviluppo capitalista, quali l’espulsione delle
masse dei lavoratori dal processo produttivo, la
delocalizzazione industriale, la disoccupazione,
la precarietà, a generare tensioni sociali da cui
possono nascere i presupposti di nuovi fenom eni
rivoluzionari, per ora solo fu tu r ib ili. Ogni nuova
proposta politica deve necessariamente prendere
atto del fallim ento dal capitalismo globalizzato.
Q u in d i occorre fa r appello a proposte d i riforma
che coinvolgano la società nel suo complesso e la r i­
vendicazione del p rim ato della decisione politica,
conseguente al recupero della sovranità degli stati.
Tu ttavia il fenom eno rivoluzionario non può sor­
gere sulle ceneri dei fa llim e n ti del vecchio ordine,
né su nuove teorie economiche, né su dottrine po­
litiche elaborate dagli intellettuali. Le rivoluzioni
nascono da uno slancio vitale coinvolgente le masse
nella prefigurazione d i nuove realtà, che comporti­
no, oltre a nuovi ordinam enti politici, nuovi valo­
ri esistenziali che diano senso all’agire dell’uomo
nella storia. La rivoluzione non può che consistere
in tm a etica com unitaria già presente nella socie­
tà e suscettibile di imporsi a livello politico. La
rivoluzione è la proiezione d i un m ito unificante
gli in d iv id tii nelle loro esigenze m ateriali e nelle
loro aspirazioni spirituali. Oggi, non si prospet­
tano all’orizzonte nuove mitologie utopico - rivo­
luzionarie. T uttavia gli elem enti generatori sono
presenti nella realtà; spetta a nuovi m ovim enti
politici scoprirne la potenzialità rivoluzionaria ed
elaborarne d i conseguenza una sintesi sia ideale
che politica.
458 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Dal momento che questa è la quarta ed ultima do­


manda, vorrei approfittarne per “allargarmi” un po’ e
riflettere sulla natura del nostro tempo. Scrive il roman­
ziere Michel Houellebecq (cfr. La carta e il territorio, p.
333): “Più in generale, si viveva in un periodo ideologi­
camente strano, in cui in Europa Occidentale tutti sem­
bravano persuasi che il capitalismo fosse condannato, e
persino condannato a breve scadenza, che vivesse i suoi
ultimissimi anni, senza che però i partiti dell’ultrasini­
stra riuscissero a sedurre al di là della loro clientela abi­
tuale di masochisti astiosi. Un velo di cenere sembrava
essersi sparso sulle m enti”.
U n’affermazione paradossale, ma ciò che non è pa­
radossale non merita neppure un commento. Mi scu­
serai allora se in questa quarta risposta non scenderò
nel merito nelle tue osservazioni, che peraltro condivi­
do integralmente e che quindi non richiedono ulterio­
re elaborazione analitica, e mi limiterò a commentare
questa affermazione di Houellebecq. Houellebecq, che
pure è caduto in stupide affermazioni anti-islamiche,
ha però avuto il merito inestimabile di capire che la so­
cietà occidentale si è corrosa da sola al suo interno, non
riuscendo a porre lim iti a quella “estensione del campo
della lotta” che, partendo dalla- competizione sessuale
agonistica, si è estesa a tu tti.i campi della vita sociale,
fino ad intaccare la base di tutto, l’amore stabile e fon­
dato sul dono.
Il codice di questa società in cui viviamo può essere
definito come un capitalismo interamente liberalizzato,
oppure in modo più preciso una sorta di economicismo li­
bertario. Questo codice produce necessariamente un “velo
di cenere che si sparge sulle m enti”, e che sottopone in­
tegralmente a sé i momenti che nel grande idealismo
classico tedesco erano ancora pensati come autonomi da
qualsiasi costrizione economico-politica, l ’Arte, la Re-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 459

ligione e la Filosofia (scritte in maiuscolo, ovviamente).


L’economicismo libertario, lo dice il termine stesso, uni­
sce creativamente due termini, l'economicismo (la sfida
della globalizzazione, il vincolo del debito, il giudizio
dei mercati, il rating eccetera) ed il libertarismo (l’uso
delle droghe, il vietato vietare, la preferenza della con­
vivenza gay al vecchio e noioso matrimonio “borghese”,
la “coppia aperta”, la preferenza dei nomadi e dei mi­
granti sui vecchi “bottegai” leghisti, il laicismo nichili­
stico, relativistico e positivistico contro il creazionismo
del “disegno intelligente” del papa teologo bavarese
Ratzinger, lo spargere le ceneri nella natura rispetto al
tradizionale pasto dei vermi in casse chiuse, eccetera). Il
codice dell’economicismo libertario è fortissimo, perché
si innesta non tanto nella natura umana in generale, che
invece potenzialmente è un criterio di ordine e misura
(;metron), quanto in una configurazione storica della na­
tura umana sedimentatasi e consolidatasi negli ultimi
quattromila anni dopo il tramonto del modo di produ­
zione comunitario.
L’anticapitalismo si è storicamente costituito fino ad
oggi in Europa Occidentale in una forma antropologica
che per brevità definirò del “masochismo astioso”. Non
fu sempre così. Al contrario, al principio non fu così, e
bisogna ripercorrerne le avventure dialettiche.
L’illuminismo borghese settecentesco non poteva es­
sere anti-capitalistico, per la ovvia e semplice ragione
che il capitalismo non c’era ancora, e quindi la sue con­
traddizioni non potevano essere ancora visibili. Il co­
muniSmo settecentesco era un comuniSmo della ripar­
tizione agraria, nemico del lusso, ed era filosoficamente
fondato su una interpretazione egualitaria e livellatrice
del diritto naturale e del contratto sociale. Dal momen­
to che il modo di produzione capitalistico era ancora
in una prima fase “astratta” (e quindi non “dialettica”
460 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

e non “speculativa”- uso qui liberamente una termino­


logia tratta dalla logica dialettica di Hegel, che a mio
avviso Marx non “rovescia” affatto, ma semplicemente
applica alla illimitatezza della produzione capitalisti­
ca), non esisteva ancora nessun concorrente anti-capi­
talistico, ed il mondo poteva essere “unificato” in una
unificazione teorica astratta (il tempo come progresso,
lo spazio come materia, la morale kantiana dell’indivi­
duo e dell’imperativo categorico, il lavoro come tem­
po astratto di tempo di lavoro sociale medio, eccetera).
La ragione per cui la filosofia capitalistica si è fermata
all’illuminismo, e Kant e Voltaire sono gli ultim i filoso­
fi “spendibili”, sta proprio nel fatto che questo stadio è
precedente alla visibilità della contraddizione. Il primo
pensiero implicitamente anti-capitalistico è la formu­
lazione idealistica di Fichte, in cui l’Io è la metafora
dell’attività umana universalisticamente concepita, non
importa se nella vecchia forma feudale o nella nuova
forma capitalistica. Marx riteneva in buona fede di esse­
re “materialista”, ma si ingannava sulla natura del suo
stesso pensiero, perché identificava il materialismo con
l ’ateismo, con il pensiero scientifico, con lo strutturali­
smo storico e con la prassi rivoluzionaria “materiale”.
In realtà (cfr. Tesi su Feuerbach) egli intendeva l’oggetto
materiale non come semplice “oggetto” (Objekt), ma
come resistenza contrapposta all’azione del soggetto at­
tivo (Gegestand), e questa è esattamente la stessa con­
cezione dell’idealismo di Fichte (trascuro qui le media­
zioni determinate proposte da Hegel, perché manca lo
spazio per analizzarle). Il suo comuniSmo non era che
l’elaborazione idealistica della coscienza infelice bor­
ghese, cosi come era stata disegnata dallo stesso Hegel.
Il marxismo nacque quindi come pensiero coerentiz-
zato nel ventennio 1875-1895, su committenza pres­
soché diretta della socialdemocrazia tedesca, e nacque
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 461

come variante del positivismo di sinistra, variante che


conservò per circa un secolo. Il positivismo è una fi­
losofia profondamente masochista, perché il disprezzo
verso la filosofia e la religione e l’apologià acritica di
una “scienza” sradicata dai giudizi di valore non può
che finire con il farsi del male da sola. L’intera eredità
della tradizione trimillenaria della civiltà occidentale
(in breve, - dall’umanesimo di Omero in poi - segnalo
in proposito un importante saggio di Luca Grecchi di
prossima edizione) viene spacciato per conservatorismo
ed arretratezza. La religione è ridotta a superstizione
per babbioni creduloni, la filosofia a perdita di tempo
adolescenziale, ed il massimo di paradosso è questo, che
questa furia nichilistica annientatrice è spacciata per
contributo alla liberazione socialista dell’uomo. Il ca­
rattere dialettico della coscienza infelice borghese, unico
motore espressivo della totalità dello stesso pensiero di
Marx, viene progressivamente sostituito da una sorta di
organizzazione subalterna dell’invidia delle plebi, che
in effetti Nietzsche seppe a suo modo diagnosticare in
tempo, dandone però una versione regressiva ed anco­
ra peggiore del “materialismo” socialdemocratico e poi
comunista.
Questo non poteva far diventare realmente credibile
la cultura socialista e poi comunista. E tuttavia, all’ini­
zio, essa mostrò un carattere umanistico ed emancipato-
re (pensiamo a Rodolfo Mondolfo), che derivava da una
interpretazione popolare dell’ideologia del progresso.
Ben presto però all’interno del socialismo si impose la
“guerra civile interborghese” promossa dagli intellet­
tuali “progressisti”, che Sorel fu il primo a diagnosti-
care con relativa precisione. Questa guerra civile inter­
borghese distrusse gli elementi umanistici precedenti
di origine idealistica e romantica, mettendo in primo
piano gli elementi avanguardistici, futuristici, distrut-
462 Luigi "Tedeschi, Costanzo Preve

tivi e nichilistici di questo gruppo sociale. Fino al Ses­


santotto questi elementi furono ancora moderati e tenu­
ti a freno dalla cultura popolare dominante, ma a partire
dal Sessantotto si scatenarono senza più freni (e si veda
l’analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, che
peraltro mi permetto di interpretare liberamente senza
il loro permesso).
Si misero cosi le basi del codice dell’economicismo
libertario, un codice di individualismo esasperato che
viene incontro ad una nuova fase storica definibile come
post-borghese e ultra-capitalistica. La grande maggio­
ranza della gente “normale”, non importa se votante a
sinistra, al centro o alla destra, non si riconosce assolu­
tamente nei valori artistici, letterari, filosofici e cultu­
rali di questa “avanguardia” sociale, che viene promossa
da oligarchie di accademisti, giornalisti, pseudo-intel­
lettuali, eccetera, ed identifica la “sinistra” con queste
oligarchie, non però nella variante allegra, bacchica ed
orgiastica del laido Berlusconi, ma nella variante ap­
punto dei masochisti astiosi. Dal momento che questi
ultimi vogliono farci vergognare di consumare troppo,
indicandoci i bambini africani con il pancino gonfio per
la fame e giustificando i nomadi che rubano a man bassa
(non tu tti ovviamente, ma molti sì), e questo proprio
quando il grande capitalismo finanziario abbandona il
cosiddetto “consumismo” per l’austerità è del tutto ov­
vio che questo provochi un generalizzato rigetto.
Ho creduto di capire plasticamente questo quando
ho visto gli esagitati m ilitanti di Rifondazione comu­
nista, guidati dai loro capo Ferrerò con il megafono, che
cercavano di far cadere innocenti ciclisti del cosiddetto
Giro della Padania. In un momento di attacco genera­
lizzato alle condizioni di vita della maggioranza degli
italiani, essi facevano la sola cosa che erano capaci di fare,
attizzare la guerra civile simbolica fra masse di destra e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 463

masse di sinistra su basi ideologiche. È del tutto chiaro


che una nuova proposta politica non può essere fatta su
questa base antropologica diffusa di babbioni masochi­
sti ed astiosi. Da adesso in poi, però, non possiamo che
cercare di promuovere una cultura alternativa, che verrà
soltanto da prove e riprove, e che la nostra generazione
“scoppiata” probabilmente non vedrà mai.
464

Un dissenso sociale tutto da inventare

L ' im p o t e n z a della p r o testa “ in d ig n a t a ”

1) La manifestazione degli indignados si è tra m u ­


tata in un problema d i ordine pubblico. L’assalto
dei black block ha monopolizzato l’attenzione dei
media, oscurando i significati d i una m anifesta­
zione contro la dittatura del sistema finanziario e
la schiavitù del debito creati da tm a UE concepita
come una istituzione finanziaria promotrice d i uno
sviluppo capitalista globale che si impone agli sta­
ti. Il movimento degli indignados quindi, appare
come l’erede designato dei m ovim enti no global e
del pacifismo ideologicamente globalista che mo­
nopolizzò la protesta contro le guerre imperialiste
americane. G li indignados dovrebbero essere allora
anche gli eredi legittim i dello stesso fallim ento del­
la protesta del movimento no global, che anzi, nel
caso dell’aggressione alla Libia, ha visto i suoi p iù
autorevoli esponenti schierarsi dalla parte degli in ­
vasori della Nato. La protesta sociale viene dunque
metabolizzata dal sistema capitalista globale, come
un fenom eno congenito al malcontento e a l disagio
che si generano in concomitanza d i eventi epocali
(crisi economiche, rivolgim enti sociali), che deter­
m inano la evoluzione d i un sistema capitalista, i
cui sviluppi progressivi producono nuovi equilibri
economici e sociali. In fa tti, i m assimi esponenti del
capitalismo globale (da D raghi a Soros), sembrano
condividere le motivazioni degli indignados. I l ca­
pitalism o è un sistema che nella storia ha saputo
rigenerare p iù volte se stesso, sposando spesso le ra­
gioni dei suoi avversari, contribuendo in ta l modo,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 465

a vanificare gli obiettivi della protesta e svuotando


di contenuto le m otivazioni dei suoi nemici. Non
esiste oggi una cultura del dissenso sociale, non si è
cioè m anifestata una chiara visione degli obiettivi
da perseguire, perché tale protesta è scaturita dalla
condizione d i precarietà e m arginalità d i masse di
giovani e meno giovani che si ritrovano in piazza
in nome d i un essere - contro d in a n zi a un sistema
globale non identificabile in specifici obiettivi da
abbattere. La protesta degli indignados è un feno­
meno di risulta, che unisce una massa di in d iv id u i
sulla base della loro condizione d i esclusi elo espulsi
da un sistema: un fenomeno derivato da una causa
esterna non può che rivelarsi alla lunga organico
ed interno alla causa stessa. Se il capitalismo è glo­
bale, globale è anche una protesta, che, estraniata
dalle specificità delle situazioni nazionali elo conti­
nentali specifiche, non può non dissolversi nella ge­
nericità delle sue motivazioni, nella inadeguatezza
delle sue proposte, nella fram m entarietà della sua
organizzazione strategica.

Leggo che dai un giudizio moderatamente ma ine­


quivocabilmente negativo e scettico sui possibili esiti
del movimento detto degli “indignati”. In linea di mas­
sima sono d’accordo, anche se bisogna essere cauti sulle
possibili “ricadute” di questo movimento in termini di
cultura politica generale. In proposito, cercherò di chia­
rire le ragioni in base alle quali anch’io sono purtroppo
scettico sulle prospettive “strategiche” di questo movi­
mento.
Distinguerei prima di tutto questo movimento, pel­
ota declamatorio, lamentoso, petizionistico e politica-
mente inespressivo, da una cosa completamente diversa,
e cioè dai cosiddetti black bloc. Questi ultimi non sono
466 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

affatto riducibili ad un’ala estremistica, violenta ed ille­


gale di un pacifico, pecoresco, belante e “gioioso” mo­
vimento apprezzato persino da Soros e da Draghi (il cui
apprezzamento o è pura ipocrisia o segnala una possi­
bile divisione tattica fra i gruppi strategici dominanti
- propendo purtroppo per la prima alternativa). Questi
ultimi sono un gruppo informale a parte, che non si re­
laziona affatto con lo stato o con il potere, con argomen­
ti presi più o meno da Foucault, Deleuze e Negri, ma
esclusivamente con il circo mediatico, che ignora i belati
pecoreschi ritmati e le petizioni moralistiche, ma per sua
stessa natura evidenzia soltanto tre tipi di spettacoli, lo
spettacolo sportivo, lo spettacolo pomografico o infine
10 spettacolo violento. I black bloc attirano i media come
11 miele attira gli orsi o la merda gli insetti. Chi di loro
ritiene razionalmente in buona fede che nell’odierna so­
cietà dello spettacolo che solo in questo modo si può
attirare l’attenzione della “gente” oppure far paura ai
potenti (ed in questo modo, proprio sulla base di questa
paura, ottenere di più delle semplici ostensioni ritualiz­
zate di pecoroni con il viso dipinto, o secondo la nuova
moda in maschera) credo si sbaglino. E si sbagliano non
certo perchè facendo paura alla gente comune portano
acqua alla eterna “destra” (questo è l’eterno argomen­
to ipocrita dalla sinistra di regime), ma perchè i dati
strategici delle scelte delle oligarchie sono legati a fat­
tori macroeconomici, macropolitici e macrogeopolitici
del tutto esterni ed indifferenti rispetto all’irrilevante
teatrino dei cassonetti bruciati e dei vetri infranti. Se la
violenza dei black bloc servisse, bisognerebbe favorirla ed
auspicarla, e non certo scoraggiarla, perchè comunque
sarebbe sempre diecimila volte minore di quella dei cri­
minali che hanno distrutto la Libia e minacciano la Siria
e l’Iran. Ma purtroppo non serve, come del resto non
servono assolutamente a nulla i riti cosiddetti “pacifisti”
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 467

o “altermondialisti”, luoghi di reclutamento per futuro


ceto politico di manipolazione e di intermediazione.
Torniamo ora al tuo giudizio sul movimento degli
“indignati”. Come tu dici chiaramente (ed io concordo),
si tratta di un movimento di facilissima metabolizza-
zione e neutralizzazione da parte del sistema capitalisti-
co, esattamente come si è trattato per i suoi due ridicoli
predecessori, il movimento pacifista ed il movimento
altermondialista, che in vent’anni hanno ottenuto zero
r is u lta ti, o come direbbe José Mourinho, “Zero t i t i l l i " . In
proposito, sono forse utili due riferimenti teorici com­
plessivi e generali.
In primo luogo, bisogna prima di tutto prendere
atto che il grande movimento del comuniSmo storico
novecentesco è finito irreversibilm ente (altra cosa è il co­
muniSmo inteso come tendenza storica e metastorica al
comunitarismo sociale solidale, che non può avere date
di scadenza per il semplice fatto che non ha mai neppu­
re avuto date di inizio), ed ogni gesticolazione di gal­
vanizzazione testimoniale estremistica è prima di tutto
inutile per gli stessi scopi che soggettivamente si pre­
figge. Oggi all’ordine del giorno non c’è il comuniSmo,
comunque declinato e comunque definito, ma soltanto
un possibile recupero di sovranità dello stato nazionale
e un possibile orientamento geopolitico. Altro in questo
momento non mi sembra sia all’ordine del giorno. De­
globalizzazione economica, sovranità politica dello stato
nazionale, riorientamento geo-politico preferibilmente
eurasiatico, superamento culturale di tutte le forme di
post-moderno e di apologia neoliberale dei diritti umani
come pretesto per un interventismo detto “umanitario”
ed in realtà imperialistico; altro proprio oggi non si può
decentemente perseguire, non certo i “castelli in aria”
dei programmi immediati di socialismo e di comuni­
Smo. La fine miserabile dei micropartitini italiani di D i­
468 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

liberto e Ferrerò, ridotti a mendicare un posto a tavola


a Bersani per rientrare in parlamento e salvare le sorti
del loro pezzente ceto politico professionale, ne sono un
triste esempio, in quanto il loro richiamo identitario ed
innocuo al “comuniSmo” deve essere unito alla loro pro­
messa a Bersani di non rifare mai più gli scherzetti di
Bertinotti e di Turigliatto, e cioè far cadere il governo
commissionato dalla Banca Centrale Europea e dal Fon­
do Monetario Internazionale.
Bisogna purtroppo dare ragione a Gianfranco La
Grassa ed alle tesi esposte nel suo ultimo notevole sag­
gio (cfr. Oltre l’Orizzonte, Besa editrice, Lecce 2011). La
Grassa sostiene che in questo momento storico l’inizia­
tiva strategica della riproduzione sociale complessiva
è pienamente, ■completamente ed integralmente nelle
mani delle classi dominanti, e le classi dominate sono
pienamente a rimorchio, e lo sono al cento per cento. E
ovviamente un peccato che La Grassa accompagni questa
razionale constatazione con frasi ripugnanti ed. inaccet­
tabili contro la filosofia, l’idealismo e l ’umanesimo, e
con dichiarazioni metastoriche per cui la storia non è
mai stata storia di lotte di classe fra dominanti e domi­
nati, ed è invece sempre stata lo scenario immutabile di
strategie e di conflitti fra le sole classi dominanti. Da
vecchio professore anche di storia potrei dimostrare che
non è così, ma dovrei scrivere una storia generale alter­
nativa dell’umanità in migliaia di pagine con esempi e
commenti, e comunque La Grassa non starebbe neanche
a sentire, ma risponderebbe con bizzarre e pittoresche
invettive che non bisogna perdere tempo, e che lui par­
la solo con quelli che sono preliminarmente d ’accordo
con lui. Ma queste sono solo note psicologiche personali
poco rilevanti.
E invece rilevante il fatto che La Grassa, al netto delle
sue fastidiose invettive, ha ragione nell’essenziale. Oggi
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 469

il “pallino” è esclusivamente in mano alle classi domi­


nanti, e del resto tu lo dici con chiarezza, definendo gli
indignati un “fenomeno di risulta”. Tu scrivi (ed io lo
sottoscrivo integralmente) che “il capitalismo è un si­
stema che nella storia ha saputo rigenerare più volte se
stesso, sposando spesso le ragioni dei suoi avversari, con­
tribuendo in tal modo a vanificare gli obiettivi della pro­
testa e svuotando di contenuto le motivazioni dei suoi
nemici”. Perfetto, è veramente così. Soltanto la cultura
di sinistra europea, una delle più stupide dell’intera via
lattea, ha potuto autodefinire se stessa come “progres­
sista” e la cultura borghese-capitalistica come “conser­
vatrice”. Ma è inutile infierire contro gli idioti, che in
genere si riuniscono da soli con la loro idiozia. Dopo
il Sessantotto il capitalismo ha “sposato” le ragioni dei
suoi avversari, ed ha risposto con il benessere consumi­
stico e con il temporaneo allargamento del ivelfare nei
riguardi delle classi popolari, salariate e proletarie e con
la liberalizzazione del costume nei riguardi del miserabi­
le ceto degli intellettuali piccolo-borghesi. George Sorel
è stato il solo intellettuale che a suo tempo ha almeno
in parte compreso le linee generali di questo processo,
allora appena iniziato, ma ha potuto farlo soltanto nella
misura in cui ha distinto la causa della emancipazione
sociale e comunitaria dalla mefitica cultura “di sinistra”
del tempo, che era peraltro mille volte più dignitosa e
sensata di quella completamente degenerata di oggi.
Di fronte al conflitto sociale le classi dominanti, ti­
tolari oggi esclusive del sapere complessivo della ripro­
duzione strategica, selezionano sempre il ricevibile e
l ’irricevibile. Il ricevibile viene contrattato, limitato,
alleggerito, e l’irricevibile viene invece inesorabilmen­
te respinto in toto. Facciamo l’esempio del referendum
contro la stangata proposto dal premier greco Papandreu
qualche tempo fa, ed immediatamente respinto da tutta
470 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

l’oligarchia mondiale ed europea concorde, i cui gior­


nali hanno peraltro sfacciatamente rilevato che non si
chiede il parere democratico dei tacchini se siano o no
d ’accordo con il pranzo di Natale. Al posto del referen­
dum, la cui natura di pericolosa delegittimazione delle
manovre d’impoverimento sociale era evidente, si sono
controproposte le elezioni, sapendo perfettamente che in
un’epoca di integrale commissariamento oligarchico chi
vince e chi perde le elezioni è del tutto indifferente ed
intercambiabile (Berlusconi, Casini e Bersani in Italia,
Pasok e Nea Demokratia in Grecia, Popolari e Socialisti
in Spagna, Sarkozy o Hollande in Francia, eccetera). Ma
se questo è vero, alle miserabili classi dominate resta
solo partire dalla analisi di ciò che è insopportabile per
i dominanti, e chiedere appunto questo, e solo questo.
Ma una protesta genericamente globale, che accetta la
premessa del mercato mondiale e delle sue regole di fun­
zionamento, limitandosi a belare richieste generiche di
umanità rivolte proprio ai lupi, è non solo inutile, ma
anche ridicola. Oggi le classi dominanti non sopportano
la sovranità dello stato nazionale, la deglobalizzazione,
il riorientamento geopolitico. Questo bisogna chiede­
re, o meglio organizzarsi per ottenere, non belare con
richieste globali megagalattiche o fare congressi filoso­
fici internazionali sulla “idea” di comuniSmo (Badiou,
Zizek, Negri, Hardt, e tutta l’oligarchia accademica di
“sinistra”).

Q u a n d o m u o r e il d ia v o l o , D io è g ià m o r t o d a t e m p o

2) La gente è tornata in massa sulle piazze. R ispet­


to alla contestazione novecentesca e alla prote­
sta antiam ericana dei p r im i a n n i 2000, v i sono
però delle notevoli differenze. Le m anifestazioni
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 471

a ttu a li in fa tti non scaturiscono da m otivazioni


ideologiche, n é hanno p er obiettivi proteste inter-
nazionaliste contro l’imperialismo, che si tradu­
cono alla fine in mere condanne moralistiche (per
es. l’antiam ericanism o risoltosi in pacifismo u n ti
Bush). Il degenerare della crisi economica, l’impo­
verimento generalizzato, g li sconvolgimenti sociali
prossim i venturi d i eq u ilib ri consolidatisi da de­
cenni, sono fenom eni che hanno indotto m igliaia
d i persone a portare in piazza le proprie situazio­
n i sociali disagiate e le proprie tensioni d in a n zi
a un fu tu ro incerto. S i è q u in d i espressa una pro­
testa sociale che m anifesta la realtà d i una socie­
tà in disfacimento, perché privata, oltre che delle
certezze d i un relativo benessere, anche dei propri
paradigm i morali e politici. Tale dissenso sociale
ha fornito lo spunto per interpretazioni ideologi­
che della protesta. Trattasi però, d i riproposizio­
ne d i una politica estremista novecentesca, ormai
inadeguata a comprendere l’attuale momento sto­
rico, che oggi, p iù che fornire contenuti politici al
dissenso, rappresenta una buona occasione per il
riciclaggio della vecchia sinistra radicale ormai
m arginalizzata e im potente d in a n zi a d una re­
altà estranea agli schem atismi ideologici. I mes­
saggi ideologici in fa tti, sembrano sortire effetti
consolatori stilla m inoranza dei fedelissim i, ma
non in grado d i coinvolgere le masse emergenti. Il
dissenso sociale è form ato per lo p iù da giovani: il
loro fu tu ro appare seriamente compromesso dalla
assenza d i prospettive di ogni genere. I l ripropor­
si nelle piazza d i vecchi slogan e comportamenti
propri dell’estremismo velleitario del ‘900, deriva
dalla assenza di cultura politica riscontrabile nei
giovani odierni. D i personaggi politici em in en ti
472 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

del ‘900 italiano sia d i destra che d i sinistra (es.


Berlinguer e A lm ira n te), se ne ram m enta appena
il nome. Occorre comunque osservare che la storia
nel suo incessante divenire emette le sue inappel­
la bili sentenze: sulla seconda parte del ‘900 è ca-
duto l’oblio della storia perché la politica d i quegli
a n n i non è riuscita ad essere storia, in quanto si è
dimostrata impotente d in a n zi alle grandi trasfor­
m azioni economiche e politiche, si è rivelata inca­
pace d i fa re storia. La progressiva scomparsa delle
masse dalla politica fin dai p r im i a n n i ’80 ha de­
term inato la fuoriuscita dell’Italia e dell’Europa
dalla storia. La mancanza d i cultura politica dei
giovani è inoltre il risultato delle condanne apo­
dittiche della cultura ideologica novecentesca, che,
insieme agli estrem ism i ha determinato la scom­
parsa della stessa memoria storica. Nessuno, sia
la destra che la sinistra che il cattolicesimo, può
comunque rallegrarsi della fine delle ideologie in
fu n zio n e della morte del proprio nemico storico; la
fine del male assoluto avviene quando il bene non
p iù ragione d i essere. I l nuovo secolo ci ha insegna­
to che quando si verifica la morte del diavolo, la
morte d i Dio è avvenuta già da tempo.

Fra gli stimoli contenuti in questa tua seconda doman­


da ne vorrei, subito raccogliere due, per poterli adeguata-
mente sviluppare. Il primo è contenuto nella tesi per cui
“nella seconda metà del Novecento è caduto l’oblio della
storia perchè la politica di quegli anni non è riuscita ad
essere storia, e si è rivelata incapace di fare storia”. Il se­
condo, immensamente più importante del primo, consiste
in una diagnosi infausta, per cui saremmo in presenza di
una società in disfacimento. Analizziamoli separatamente,
prima l’uno e poi l’altro.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 473

Se parliamo dell’Italia della seconda metà del Nove­


cento e di questo primo decennio del Duemila, è assolu­
tamente vero. Fenomeni come il cosiddetto “terrorismo”
o il balletto triangolare DC-PSI-PCI sono stati puri
“incidenti di percorso” ed epifenomeni irrilevanti della
storia italiana degli ultim i sessanta anni, anche se han­
no riempito le cronache politiche e costituito le identi­
tà politico-sportive degli italiani. Da un punto di vista
storico, il solo ed unico fenomeno rilevante non è stato
per nulla “storico”, ma solo economico e di costume, il
boom economico iniziato dal 1958 e la modernizzazio­
ne e liberalizzazione dei costumi iniziata a partire dal
1968, anzi dal Sessantotto come anno simbolico della
fine della vecchia Italia. Ma appunto si è trattato di due
fenomeni non “storici”, a meno che sulla scorta delle
Annales francesi il concetto di storia venga allargato in
modo indiscriminato, ed infatti oggi fioriscono le storie
dell’immondizia, degli odori e del sesso orale. Ma questo
allargamento indefinito ed infinito del concetto di sto­
ria, lungi dal segnalare una maggiore consapevolezza sui
tempi lenti della storia, segnala al contrario l ’accettazio­
ne interiorizzata della mancanza di sovranità decisionale
sulle strategie di riproduzione della società. In una notte
in cui tutte le vacche sono nere Mike Bongiorno ed Aldo
Moro divertano intercambiabili ed irrilevanti.
Questo è dovuto però esclusivamente alla mancan­
za di sovranità politica, militare e geopolitica dell’Eu­
ropa dopo il 1945. Gli europei sono diventati “popolo
senza storia”, e la storia si è fatta soltanto e Mosca o a
Washington, con la sola parziale eccezione di un grande
“sovranista” come Charles de Gaulle, che dovendolo fare
indicherei come il solo grande uomo di stato europeo
della seconda metà del Novecento.
In mancanza di sovranità la politica non può diventa­
re storia, e non solo l’Italia ma l’intera Europa sono stati
474 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

luoghi senza storia. I due soli elementi “storici” rile­


vanti sono stati, da un lato, il progressivo allargamento
economico, politico e culturale deiramericanismo an­
glosassone e del suo modello di capitalismo assoluto e
totalitario, il cui progredire in tu tti i campi della vita
associata può essere riscontrato quasi ad occhio nudo,
ed il progressivo svuotamento del comuniSmo storico
novecentesco e del suo modello dispotico di regolamen­
tazione sociale livellatrice, destinata a crollare non tanto
per la pressione esterna o per il “tradimento” di singoli
individui, ma per una maestosa controrivoluzione socia­
le e culturale delle classi medie cresciute nel “sociali­
smo”. Si tratta di due maestosi fenomeni storici che però
non hanno trovato in Europa ed in Italia la loro sede.
Per questa ragione non condivido il tuo troppo gene­
roso giudizio su Berlinguer ed Almirante. Anche loro,
e soprattutto loro, sono solo stati dei comprimari, dei
galvanìzzatori identitari di un fascismo e di un comuni­
Smo impossibili ridotti a semplici risorse di spendibilità
parlamentare e di simulazione. Chi alla fine produce, per
di più consapevolmente, D ’Alema e Fini non merita a
mio modesto avviso una rivalutazione storiografica. Ma
questo punto è secondario.

È invece immensamente più importante ragionare sul­


la tua valutazione, per cui troveremmo in una società in
disfacimento, o sulla via progressiva di disfacimento. Sarà
vero, anche solo in parte, o si tratta della solita profezia ca-
tastrofistica destinata ad una smentita più o meno vicina
o lontana? Cercherò, sia pure in modo sommario, di non
sottrarmi alla valutazione.
Sintomi inequivocabili di disfacimento ci sono cer­
tamente. Una recente indagine statistica della Banca
d’Italia del novembre 2011 ha accertato che più di due
milioni di giovani italiani (uno su quattro) non lavora e
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 475

non studia. Se pensiamo che fra gli studenti ed i lavora­


tori vengono conteggiati disperati fuori corso del tutto
disinteressati ad uno studio reale e lavoratori temporanei
e precari, da uno su quattro si può tranquillamente ar­
rivare a due su quattro. Una società che tratta in questo
modo i giovani, concedendogli però la droga, la discote­
ca e l’automobile a diciotto anni, ma non assicurandogli
lavoro e prospettive, è una novità nella storia comples­
siva dell’umanità. È quindi possibile parlare di disfaci­
mento. Il peggioramento dei servizi pubblici rispetto ad
alcuni decenni fa è anch’esso sotto gli occhi di tutti, e la
crescente volgarità televisiva è pur sempre il sintomo di
una crescente plebeizzazione della società che ha omoge­
neizzato in un unico ripugnante pastone le vecchie classi
borghesi e le vecchie classi popolari. Sotto questa crosta
schifosa resta pur sempre una risorsa antropologica po­
sitiva, e pensiamo all’ammirevole volontariato giovani­
le in soccorso degli alluvionati liguri a Genova ed alle
Cinque terre. E tuttavia, il concetto di disfacimento è
talmente importante da non poterci fermare su esempi,
cui si possono sempre opporre controesempi di segno op­
posto, con il risultato che le cose sono alla fine ancora più
confuse di prima.
Cerchiamo di vedere il problema del disfacimento
alla radice. E stato osservato che la nuova società indivi­
dualistica del capitalismo recente post-borghese (che io
chiamo “speculativo”, ma non mi formalizzo sui nomi,
se qualcuno lo vuol chiamare diversamente) non potreb­
be sopravvivere neppure un giorno nella sua crescente
anomia se non potesse disporre di “riserve geologiche”
ereditate dalle società precedenti, non solo popolari,
artigiane e contadine ma anche e soprattutto piccolo­
borghesi nel senso dignitoso del termine (soltanto il
settarismo suicida di sinistra ha insegnato a considerare
la piccola borghesia una parolaccia, laddove si trattava
476 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

di una positiva mediazione fra cultura tradizionale e


rivendicazione di una dignitosa individualità). Ricordo
le coppie del Sessantotto che per “contestare” abbando­
navano i marmocchi nati casualmente da rapporti “non
protetti” ai genitori ed ai nonni popolari e piccolo-bor­
ghesi che gli toglievano il moccio dal naso e gli pulivano
il sederino.
E tuttavia, in questi ultimi decenni questi depositi
tradizionali si sono consumati ed assottigliati, come la
famosa “pelle di zigrino’” di Balzac. Il ritorno della parte
migliore della gioventù ad un certo tradizionalismo dei
costumi è certamente un fenomeno positivo, che segna
la diminuzione del mefitico costume sessantottino. Ma
non è certo sufficiente. Il fatto è che il modello dell’indi­
vidualismo del capitalismo finanziario globalizzato non
si è arrestato, ma si è anzi irrobustito con la fine del
suo contraltare (in greco katechon), e cioè del benefico e
mai abbastanza rimpianto comuniSmo storico novecen­
tesco. L’erosione di questi depositi antropologici è forse
il fattore principale di questo disfacimento. E del tutto
chiaro che i piccoli gruppi residuali della “sinistra radi­
cale” (le culture radicali, le chiama Bersani, accingen­
dosi ad utilizzarle elettoralmente, in base al detto che
si raschia anche il fondo del barile) non sono in grado
di farci nulla, ma sono anzi un’avanguardia vociante del
disfacimento culturale. Ritengo di poterlo sapere meglio
ancora di te, perchè sono stato “interno” a questo mondo
per quasi un trentennio, e ne ho progressivamente visto
la degenerazione dall’originario operaismo ideologizza­
to e fanatico, ma pur sempre popolare, all’adesione alla
frammentazione delle culture del femminismo, del pa­
cifismo e dell’ecologismo (nulla a che fare con le cause
nobili della Pace, della Donna e dell’Ambiente), fino a
diventare un’avanguardia vociante della dissoluzione so­
ciale, vere e proprie sentinelle avanzate del disfacimento.
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 477

Sono pienamente d’accordo con te, per cui se il dia­


volo sono state le ideologie del malvagio secolo del No­
vecento, quando si verifica la morte del diavolo la morte
di Dio è avvenuta già da tempo. Qui ci avviciniamo al
centro del problema del disfacimento. La filosofia e la
scienza non possono essere ridotte ad ideologie, e l’ideo-
logizzazione della scienza, dell’arte e della filosofia sono
indubbiamente state una patologia mortale. Ma questo
non comporta l’eliminazione dello spazio delle ideolo­
gie, che a sua volta non è che una ideologia particolar­
mente povera e grottesca, e questo per una ragione di
semplicissima comprensione. L’ideologia è il terreno in
cui gli uomini elaborano e prendono coscienza dei loro
interessi collettivi di gruppo, e la grottesca teoria del­
la “fine delle ideologie” non è che una povera ideologia
dell’ultrainclividualismo anomico. Eliminato il diavolo
delle ideologie si fa palese il fatto che Dio è già morto, se
con questo termine si intende niccianamente la morte di
una verità universale comunitaria e la riduzione del per­
seguimento degli interessi sociali collettivi e comunitari
alla semplice autovalorizzazione consumistica dell’indi­
viduo atomizzato ed isolato.
Basta con le ideologie, gridano i tecnici della ripro­
duzione economica del capitalismo imperialistico finan­
ziario globalizzato! E gridando “basta con le ideologie”
mostrano ad occhio nudo la loro volontà totalitaria, che
mai nessuna religione osò mai spingere fino a questo
punto, di ridurre l’intero pianeta a spazio “liscio” di
investimenti concorrenziali, la cui liquidità presuppo­
ne automaticamente lo svuotamento dei servizi sociali e
delle proprietà pubbliche costituite nella fase precedente
della storia del capitalismo. Ma l’incurabilità dei cretini
gioisce parlando della fine delle ideologie. Per fortuna
c’è sempre il telecomando a “spegnere” il blaterare te­
levisivo degli annunciatori della “fine delle ideologie”.
478 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

I l s o g g e t t o r iv o l u z io n a r io im p o s s ib il e e la t o t a l it à
sociale d i S a r tre

3) I l dissenso sociale è oggi m ar ghiaie e incerto. A l


contrario il capitalismo, nei suoi m assim i esponen­
ti economici e culturali, elabora programmi, idee
e modelli da proporre per la soluzione dei proble­
m i della crisi, che assume il carattere d i una fase
necessaria per lo sviluppo evolutivo della globaliz­
zazione. Che il capitalismo non possa che propor­
re soluzioni ideologiche per una crisi che è nata al
suo interno e che nella realtà smentisce g li stessi
presupposti scientifici” del liberismo economico,
è cosa ormai nota. Ma, al fallim ento evidente del
liberismo globale, f a riscontro un dissenso sociale
degli indignados che esprime una dramm atica ma
generica protesta, peraltro facilm ente strum enta­
lizzabile. Se ci si riferisce alla dialettica del m a­
terialismo storico marxista, d in a n zi all’odierno
capitalismo globale non f a riscontro alcun soggetto
collettivo antagonista; al capitalismo post classista
non si contrappone alcuna base post proletaria.
Come hai affermato p iù volte, la contrapposizione
dialettica m arxista oggi non è p iù applicabile alla
società attuale, perché non esistono i presupposti
storici della lotta di classe che generarono la rivo­
luzione bolscevica del 1917. La attuale situazione
storica, cotne tu dici, è assim ilabile a quella del
1789, perché nel mondo globalizzato post classista,
la condizione degli oppressi non è quella del prole­
tariato, ma quella del terzo stato. Da quanto pre­
cede, si comprende qtianto vana e velleitaria sia,
stata la ricerca degli ideologi m arxisti d i un nuovo
soggetto collettivo rivoluzionario da contrapporre a l
capitalismo globale. In cosa si identifica l’odierno
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 479

terzo stato? Esso, non è un soggetto unitario e or­


ganizzato, rappresenta sem m ai la totalità sociale
assoggettata agli im perativi del mercato globale, si
identifica con la stessa struttura sociale della socie­
tà contemporanea. Occorre q u in d i fa r riferim ento
non a d una classe sociale potenzialm ente rivolu­
zionaria, perché questa si rivela, per sua natura,
autoreferente e incapace di rappresentare l’intera
totalità sociale. La protesta può divenire antagoni­
sta se abbraccia la totalità dei soggetti sociali che
costituiscono la struttura della comunità statuale.
Vorrei dunque fa r riferim ento al concetto di totali­
tà dialettica espresso da J.P. Sartre. Egli, partendo
dalla considerazione che la totalità seriale (intesa
come insieme di soggetti in erti perché oggetti stru­
m entali dei processi produttivi capitalisti), non
può costituire il soggetto di una prassi d i libertà
collettiva, afferm a che solo il gruppo, quale soggetto
collettivo composto d i in d iv id u i che perseguono vo­
lontariam ente un fine comune condiviso, può con­
siderarsi un soggetto dialettico di libera prassi. Il
gruppo, a sua volta, può divenire seriale integran­
dosi nella struttura capitalista, oppure può realiz­
zare le proprie fin a lità trasformandosi in istitu ­
zione rendendo stabili le sue finalità. N el gruppo
vi è l’identificazione del fine individuale con quello
collettivo, ma esso, nella società contemporanea non
può rappresentare la totalità dialettica della inte­
ra società. Dato che nella società esistono divisioni
di ruoli e d i classi, ciascun gruppo esprime una
parte del tutto, che diviene autoreferente di una
totalità sociale che non può identificarsi con esso.
I l gruppo si contrappone ad a ltri gruppi che sono
per definizione altre totalità soggettive: non può
pertanto sussistere un soggetto collettivo rappre-
480 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sentativo della intera prassi sociale. Un soggetto


collettivo rappresentativo della totalità oggettiva
può sussistere, a mio avviso solo se dedotto da una
prassi sociale che si riconosce in un principio etico
unificante. Una comunità esprime l’essere sociale
della totalità dei gruppi che la compongono. Essi
in fa tti sono elem enti costituitivi d i una comunità
in quanto, all’interno d i essa traggono il loro rico­
noscimento e la loro stessa ragion d’essere. L’essere
comunitario si fonda stilla identificazione tra la
parte e il tutto, tra particolare e universale. L’esse­
re comunitario è il prodotto della sintesi dialettica
della totalità sociale.

Questa tua terza domanda è una domanda filosofica,


e tu sai che io amo le domande filosofiche come gli orsi
amano il miele. Dividerei la mia risposta in due parti.
Nella prima tratterò il tema della fine del soggetto rivo­
luzionario all’interno della teoria del materialismo stori­
co di Marx, e farò soprattutto riferimento alla soluzione
dell’ultimo Lukàcs, che contesto in molti particolari, ma
però condivido nell’essenziale. Nella seconda esprimerò
le mie riserve sulla teoria di Sartre, che personalmente
considero con assai maggiore severità di quanto mi sem­
bra faccia tu.
Cominciamo dal primo punto. Può il materialismo
storico di Marx sopravvivere alla falsificazione di un ele­
mento essenziale come la rivoluzionarietà del soggetto
operaio, salariato e proletario? Domanda cruciale. Si può
rispondere sia si che no. Se rispondiamo no, che non può
sopravvivervi, allora non si apre soltanto un “buco” gran­
de come una voragine, ma si compie un atto di riduzioni­
smo teorico, come se tutta la complessa indagine di Marx
dipendesse strettamente da un unico chiodo da appendia­
biti, la rivoluzionarietà di uno specifico, contingente ed
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 481

empirico soggetto rivoluzionario. Se potessimo parlare di


Bersani, D ’Alema e Veltroni come di pensatori indipen­
denti, e non di funzionari politici di gestione di macchi­
ne organizzative di potere, potremmo dire che proprio
con il pretesto della morte di Dio (cioè della classe opera­
ia rivoluzionaria guidata dal Moderno Principe, e cioè da
loro stessi - Dio ce ne scampi e liberi!) essi sono passati al
commissariamento degli organismi finanziari internazio­
nali ed ai bombardamenti USA-NATO. È questo anche
l’esito di Gianfranco La Grassa, nel saggio ricordato poco
sopra. La Grassa fa dipendere il comuniSmo ed il mar­
xismo da un solo ed unico elemento “scientifico” (non
dimenticando ovviamente di insolentire la filosofia, l’ide­
alismo, l’umanesimo ed il comunitarismo, scambiato per
l’organicismo tribale nemico dell’individuo indipenden-
te-tragicommedie dell’ignoranza filosofica!), e cioè dalla
formazione dell’operaio “combinato”, e cioè del lavorato­
re collettivo cooperativo associato. Falsificata questa uni­
ca e sola ipotesi, allora si può dichiarare niccianamente la
morte di Dio (del marxismo e del comuniSmo, appunto)
ed heideggerianamente l’avvento di un capitalismo fon­
dato su strategie di dominio. Sono queste le conseguenze
del far dipendere tutto il complesso edificio filosofico e
scientifico di Marx da una, una sola valvola. Rotta questa
valvola, affonda l’intera portaerei.
Io penso invece, e lo penso fermamente, che la pos­
sibilità ontologica del superamento del capitalismo non
venga affatto meno con la falsificazione dell’ipotesi del
soggetto rivoluzionario proletario, al tempo di Marx per
altro del tutto plausibile e credibile, perchè legata ad una
ipotesi rivelatasi anch’essa errata, la presunta incapacità
del capitalismo di sviluppare le forze produttive, che in
realtà confondeva le ricorrenti e cicliche crisi di accumu­
lazione del capitale con una inesistente tendenza stagna-
zionistica definitiva.
482 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Riassumo qui brevemente il percorso di pensiero di


Lukàcs, che secondo me è esemplare proprio per superare
l’idea di una falsificazione definitiva del capitalismo con
il venir meno (reale o presunto) di un soggetto rivoluzio­
nario unico.
Nei primi anni Venti del Novecento Lukàcs scris­
se un vero e proprio capolavoro filosofico, che è Storia
e Coscienza di Classe. Abbandonando consapevolmente il
modello del marxismo di Kautsky, deterministico, mec­
canicistico ed evoluzionistico, la cui adozione al tempo
della Seconda Internazionale (1889-1914) spiega in par­
te anche il tradimento nel 1914 della causa storica del
socialismo, Lukàcs costruisce un modello radicalmente
nuovo di teoria marxista, di fatto idealistica perché ba­
sata hegelianamente sulla unità di soggetto ed oggetto,
e cioè di proletariato rivoluzionario (soggetto) e di storia
universale trascendentalmente costituita (oggetto). Non
è questo il luogo per evidenziare gli elementi fichtiani,
kantiani e soprattutto weberiani del suo modello. Basti
dire che nonostante tutti i suoi difetti questo modello è
incomparabilmente superiore al modello di “marxismo”
di Kautsky.
A proposito di Storia e Coscienza di Classe bisogna evi­
tare due posizioni estreme, entrambe errate. La prima
consiste nel sostenere che si tratta di un’opera meraviglio­
sa, stupenda, insuperabile, e che la successiva evoluzione
di Lukàcs, fino all’ultima ontologia dell’essere sociale, è
frutto di una sua adesione allo stalinismo, o addirittura
ad un modello “accademico” di filosofia (Cesare Cases). La
seconda, esemplificara dalle volgarità settarie del bilancio
monografico di Guido Oldrini, consiste nel ritenere Storia
e Coscienza di Classe un incidente estremistico di percorso
dovuto al clima messianico-escatologico degli anni Venti,
e che solo l’ontologia dell’essere sociale è degna di atten­
zione e di valorizzazione.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 483

Personalmente, sostengo una terza posizione, che dà


luogo ad una terza interpretazione, incompatibile con le
due precedenti, e soprattutto con le volgarità settarie di
Oldrini. In estrema sintesi, l'Ontologia dell’Essere Sociale
(ed i successivi Prolegomeni) non rappresentano una rot­
tura assoluta con l’impostazione di Storia e Coscienza di
Classe, ma un ripensamento autocritico evoluivo, che ha
portato Lukàcs a non individuare più il soggetto emanci­
patore nel solo proletariato, ma nell’intera umanità dia­
letticamente ricostruita. Il passaggio dal soggetto prole­
tario all’intera umanità non sarebbe però possibile senza
l’elaborazione di una vera e propria ontologia dell’essere
sociale, costruita non più sulla base di presunte (ed ine­
sistenti) “leggi dialettiche”, ma sul progressivo divenire
“umano” dell’Uomo (con la maiuscola, ovviamente, alla
faccia di tutti i nominalismi negatori dell’Universale).
Ritradotto in questi termini, il marxismo può soprav­
vivere a mio avviso anche dopo la fine nel mito del pro­
letariato e le falsificazioni popperiane di La Grassa. Il di­
scorso sarebbe qui appena incominciato, ma devo lasciarlo
qui per ragioni di spazio e di opportunità.
La Crìtica della Ragione Dialettica di Sartre fu pubbli­
cata nel I960, circa quaranta anni dopo Storia e Coscien­
za di Classe di Lukàcs, e si pone programmaticamente la
stessa finalità dell’opera precedente, liberare il marxismo
dai suoi elementi positivistico-deterministici, nel caso di
Lukàcs, l’economicismo evoluzionistico di Kautsky, e nel
caso di Sartre il suo succedaneo “comunista”, il materiali­
smo dialettico di Stalin con le sue inesistenti leggi della
dialettica. Essa doveva consistere di due parti, ma la se­
conda non fu mai scritta. In questo modo, l’opera asso­
miglia ad un romanzo poliziesco in cui non si verrà mai a
sapere se l'assassino verrà o meno scoperto e punito (e dici
poco!). Ovviamente, questo non avviene a caso, ma segue
una logica dialettica implacabile.
484 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Mentre Lukàcs lavora sull’ipotesi idealistica dell’uni­


tà fra soggetto ed oggetto, natura del proletariato rivo­
luzionario e storia universale dell’umanità trascenden­
talmente costituita in una sola unità espressiva, neces­
sariamente idealistica (donde condanna inevitabile dei
sacerdoti moscoviti del materialismo dialettico), Sartre
lavora sull’ipotesi che soltanto specifici gruppi-in-fusio-
ne, unificati da una comune finalità-progetto, possano
superare quello che chiama pratico-inerte, una sorta di
riproposizione esistenzialistica del Non-Io di Fichte. In
questo modo Sartre ritiene di poter superare il punto de­
bole filosofico del marxismo classico, la deduzione pura­
mente “materiale” della rivoluzione dai fatti economici,
che la storia aveva già nel I960 cominciato a falsificare
inesorabilmente. Il fatto è che questi gruppi-in-fusione
devono essere prima o poi “totalizzati”, in quanto nella
società le finalità-progetto sono moltissime, e non ce n’è
certamente una sola, e cioè quella dei rivoluzionari sog­
gettivi “di sinistra”. Inoltre, le stesse totalizzazioni sog­
gettivamente rivoluzionarie ricadono nel pratico-inerte,
una volta che vengono istituzionalizzate.
Sartre non riesce a scrivere un secondo volume della
Critica della Ragione Dialettica proprio perché si era messo
da solo in una impasse da cui non poteva uscire. Egli infat­
ti, da buon esistenzialista anti-hegeliano, in cui il pensie­
ro filosofico greco era completamente assente (per Sartre
i greci erano come se non fossero mai esistiti), rifiutava il
concetto di natura umana, l’ontologia dell’essere sociale,
e più in generale qualunque fondazione ontologica uni­
versalistica del genere umano. In questo modo, appare
chiaro che non avrebbe mai potuto “totalizzare” nulla,
perché la totalizzazione di una parte sola giunge necessa­
riamente ad una impasse.
Sartre a mio avviso manifesta in sofisticatissimo e
rarefatto linguaggio filosofico il dramma ontologico
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 485

della “sinistra”. La sinistra, infatti, da un lato con il suo


stesso termine ammette di essere solo una parte della
società (ci sono infatti anche un centro ed una destra,
e poco conta che si accetti una tricotomia o solo una
dicotomia “secca” Destra/Sinistra), ma nello stesso tem­
po pretende di essere veramente il Tutto, anzi il solo
Tutto storicamente legittimo. Questo comporta neces­
sariamente sul piano filosofico narcisismo, autoreferen-
zialità, schizofrenia e paranoia. Se la Sinistra è contem­
poraneamente una Parte ed il Tutto, la Destra è solo un
Residuo, e con il residuo si possono fare solo due cose,
convincere se si può o costringere se non si può. Ma
questo automaticamente è anche un diritto della De­
stra, che però la Sinistra nega. E ne nega la legittim ità
in nome dell’ideologia del progresso. È vero che la sini­
stra è solo una parte, ma la parte “giusta” perchè parla
in nome della storia, laddove la “destra” è solo reazione
e conservazione destinata prima o poi all’assorbimento
ed alla sparizione.
L’opera di Sartre, proprio nella misura in cui non potè
essere completata, mostra alla luce del sole questa apo­
ria, quella cioè di voler ricostruire il marxismo su di una
base di “sinistra”. Dal momento che ho personalmente
conosciuto Sartre ed ho discusso con lui, mi permetto di
terminare con alcune note personali.
Il sottoscritto è un pensatore immensamente più mo­
desto dei due grandi Lukàcs e Sartre, ma nello stesso
tempo si considera capace di trarre le conclusioni dalle
impasses in cui sono caduti i grandi sulle cui spalle si era
arrampicato. A lungo, quando cominciai a pubblicare
saggi filosofici, mi rivolgevo esclusivamente ad un ideale
destinatario di “sinistra”, che ritenevo interessato ad una
ricostruzione credibile del materialismo storico. In altre
parole, partivo dal presupposto dell’identificazione asso­
luta fra lo spazio politico di “sinistra” e l’interesse a rico-
486 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

struire il materialismo storico, non rendendomi neppure


conto, nella mia beata ingenuità, che dopo il Sessantotto
la “sinistra” aveva imboccato un’altra strada, quella del
post-moderno, del pensiero debole, del rifiuto di Hegel,
dell'accettazione selettiva di Nietzsche nella variante
Foucault-Deleuze, del femminismo differenzialista di
“genere” (per cui il genere umano era rifiutato nella sua
unità ontologica di Gattungsivesen), eccetera.
Su questa strada, che perseguii per almeno quindici
anni (1980-1995 circa), mi resi ben presto conto che
sarei finito esattamente come Sartre, e cioè sarebbe stato
possibile costruire una pars destruens (in fondo, trova­
re i materiali per criticare il capitalismo è la cosa più
facile del mondo), ma non sarei mai riuscito a scrivere
una pars costruens, che presuppone filosoficamente alme­
no tre elementi, una deduzione sociale delle categorie
del pensiero, una ontologia dell’essere sociale (ma con
correzioni qualitative rispetto alla formulazione datale
da Lukàcs fra il 1964 ed il 1971, che non riconosce la
natura idealistica del pensiero di Marx e pretende di
conciliare l’inconciliabile, e cioè l’eredità hegeliana di
Marx e la teoria leniniana del rispecchiamento), ed un
aperto riconoscimento del fatto che la filosofia (e non
l’ideologia di “sinistra”) è una ideazione pienamente
conoscitiva e veritativa.
Chi si mette su questa strada deve smettere di pen­
sare che lavora solo per la “sinistra” o per la comunità
marxista, appunto per uscire dalla impasse in cui si era
ficcato da solo Sartre, e pensare di poter “totalizzare”
la sinistra come se fosse un universale, per di più non
ontologico, storicistico, relativistico (e quindi nichili­
stico), e che nega la natura umana, e cioè l’eredità greca
del logos e del metron. C’è voluto del tempo, ma meglio
tardi che mai.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 487

U n c a p it a l is m o sp e c u l a t iv o u n il a t e r a l e e p r o v v is o r io

4) N egli squilibri e nelle tensioni di questa realtà


storica in rapida evoluzione e/o dissoluzione, viene
riproporsi la dialettica tra conservazione e rivo­
luzione. Onesti sono elem enti connaturati a i pro­
cessi d i trasformazione sociale. N el ‘900 borghesia
e proletariato incarnavano la contrapposizione
tra conservazione e rivoluzione. Questi ruoli oggi
sembrano essersi capovolti. Secondo i media uffi­
ciali e la ctdtura liberale dominante, progresso e
rivoluzione coincidono con l’espandersi del merca­
to globale. Pertanto l’evolversi di tale rivoluzione
procede con l’abbattim ento progressivo della sovra­
n ità degli stati, le liberalizzazioni e privatizzazio­
n i dei servizi pubblici, la flessibilità del lavoro, la
fine del welfare, Vindividualism o culturale e il re­
lativism o morale. I l fro n te dei conservatori sareb­
be invece rappresentato da coloro che afferm ano il
prim ato della politica sull’economia, del pubblico
sul privato, difendono lo stato sociale, le istituzio­
n i cioè legate a l retaggio ideologico del ‘900, d i una
epoca ormai tram ontata. I term in i della vecchia
dicotomia classista si sarebbero rovesciati. Ciò è
visibilm ente falso, dato che le classi sociali del ‘900
in occidente sono ormai estinte e con esse sono ve­
n u ti meno anche ip a ra d ig m i della conservazione e
della rivoluzione. T uttavia occorre considerare che
una difesa ad oltranza dello stato sociale, del p r i­
mato della politica, del sistema della economia m i­
sta, così come sono sta ti realizzati nel ‘900, f a de­
flu ire la protesta sociale su posizioni d i velleitaria
retroguardia, in difesa cioè d i u n ’epoca scomparsa
e che non può suscitare grandi nostalgie. N oi stes­
si, quando difendiam o i sacrosanti d ir itti socia-
488 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

li della comunità, q uali espressione della natura


sociale dell’uomo, sebbene inconsapevolmente, d i­
fendiam o uno stato, una struttura sociale, una
cultura massificata che nei tem pi passati abbiamo
avversato. Sappiamo bene quanto il tvelfare abbia
distrutto quella socialità spontanea delle società
preindustriali, quanto l’evoluzione delle classi su­
bordinate abbia coinciso con l’integrazione d i esse
nel sistema produttivo del capitalismo e del consu­
mismo, quanto Veconomia m ista non si sia rivelata
una economia socializzata, ma sem m ai un essen­
ziale supporto alla espansione del capitalismo. Il
tvelfare del ‘900 è un fenom eno interno alla econo­
m ia capitalista (sia pure keynesiana), creato per
incrementare profitti e consumi privati. L’odierno
antistatalism o cialtrone, non tiene in debito conto
che i p r im i beneficiari del tvelfare del ‘900 sono
sta ti proprio i capitalisti, che hanno devoluto a ca­
rico della collettività gli oneri della cassa integra­
zione, dei prepensionamenti, dei fin a n zia m e n ti a
fondo perduto, fenom eni che hanno contribuito in
larga parte all’espandersi incontrollato del debito
pubblico. In realtà i progetti riform isti del ‘900
sono fa lliti in occidente perché incentrati sulla
sola redistribuzione della ricchezza, ma non hanno
inciso sui meccanismi fo n d a m entali della produ­
zione capitalista che sono rim asti inalterati. Oggi,
se la protesta sociale ha un senso, il suo obiettivo
deve essere quello d i pervenire alla creazione di
un nuovo modo d i produzione comunitario, che è
tale perché prende le mosse dalle strutture, dalle
esigenze, dalle aspirazioni, dallo spirito creativo,
in una parola, dalla prassi sociale emergente dal­
la società civile, per pervenire alla emancipazione
dal capitalismo. Non si può sostituire l’alienazio-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 489

ne del lavoro - merce del capitalismo con la dipen­


denza da im a en tità statuale (come f u nel ‘900 per
il fascismo, il comuniSmo, la socialdemocrazia, gli
sta ti nazional popolari), che si sostituisce all’in d i­
viduo e a i corpi interm edi della società civile, ma
dovrà essere la com unità sociale nella sua integra­
lità a costituire la base degli in d irizzi economico
- sociali e dei valori civili e morali su cui si fonda
uno stato.

Inizio proprio da un dato personale, che mi sembra


effettivamente interessante. Tu noti che in questo passag­
gio storico ed in questa congiuntura ideologico-politica
2011-2012 entrambi difendiamo uno stato, una struttu­
ra sociale, una cultura massificata che nei tempi passati
(quelli della nostra giovinezza, CP) abbiamo avversato.
Secondo me non è vero, ma assumiamolo pure come ipo­
tesi, e cioè come dubbio iperbolico cartesiano.
Ora, è storicamente vero che un signore chiamato Co­
stanzo Preve ha difeso per decenni la teoria della dittatura
del proletariato di Lenin ed il signor Luigi Tedeschi una
variante post-fascista delle corporazioni proprietarie di
Ugo Spirito e Giovanni Gentile. Ebbene, non c’è proprio
niente di cui vergognarsi o da rinnegare. Ci abbiamo cre­
duto, perchè eravamo in vario modo inseriti in ambienti
identitari che ci credevano.
Ma essere fedeli agli ideali della giovinezza non si­
gnifica automaticamente continuare a rimanere fedeli
alle sue illusioni, nella misura in cui queste illusioni
non sono state solo “falsificate" dalla storia (la cui falsi­
ficazione è sempre temporanea e congiunturale, per cui
non può essere popperianamente trasportata dalle scien­
ze della natura, in cui in parte funziona, alla storia, in
cui non funziona), ma si sono anche rivelate deboli ed
eccessivamente caratterizzate dalle imposizioni della ge­
490 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

nerazione precedente, che ci ha caricato addosso le sue


paranoie, anti-fasciste e/o anti-comuniste.
Quindi, il restare fedeli agli ideali della giovinez­
za significa proprio concederci una autocritica radicale
ma non distruttiva, che non liquidi le ragioni profonde
etico-politiche dell’impegno giovanile, ma lo riqualifi­
chi integralmente alla luce di una nuova consapevolezza.
Ora sappiamo due cose, apparentemente contraddittorie.
Da un lato, ci è chiaro che i sistemi di tvelfare non erano
affatto degli stadi di avvicinamento progressivo e rifor­
mistico al “socialismo”, a sua volta prima fase dell’uto­
pia comunista, ma erano il prodotto di una fase partico­
lare del capitalismo e del suo dominio riproduttivo. Una
fase temporanea, ed infatti oggi il capitalismo finanzia­
rio neoliberale globalizzato lo sta smantellando in tu tti i
paesi del mondo. Dall’altro, che l’odierno antistatalismo
è “cialtrone”, come tu giustamente lo connoti, sia nella
variante egemonica della manipolazione mediatrice ed
universitaria neoliberale (qui devo ammettere che Al­
thusser aveva ragione nel connotare l’università come
un apparato ideologico, anche se non di “stato”, ma di
riproduzione globale del capitalismo), sia nella varian­
te sofisticata dei “comunisti alla moda” (Badiou, Zizek,
Negri, Hardt, eccetera), che disprezzano il “pubblico”,
contrapponendogli un onirico e del tutto ancora inesi­
stente “comune”.
Restare fedeli agli ideali della giovinezza, avendone
superato le illusioni della dittatura del proletariato e/o
delle corporazioni proprietarie, significa ora difendere
il “pubblico”, ed il pubblico è oggi necessariamente in
questa fase storica legato alla sovranità dello stato na­
zionale, il che implica economicamente una de-globa-
lizzazione (e non certo una globalizzazione alternativa
“umanistica”, astrattamente auspicabile, ma di cui non
vedo attualmente le pre-condizioni politiche e cultura­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 491

li materiali), e politicamente un riorientamento geopo­


litico ed una indipendenza europea dagli USA e dalla
NATO (e dalla politica aggressiva medio-orientale del
sionismo israeliano).
In caso contrario, è del tutto normale che il mondo ti
sembra “rovesciato” di cento ed ottanta gradi, come tu
scrivi. Ed infatti lo è. Ma non é rovesciato di cento ed ot­
tanta gradi rispetto ad un mondo ideale di solidarietà co­
munitaria, necessariamente ideale-platonico o ideale-cri­
stiano, ma è rovesciato rispetto alla precedente fase storica
del capitalismo. Mi permetto quindi di riformulare bre­
vemente ancora una volta la mia teoria di periodizzazione
filosofica del capitalismo, che non si oppone alle consuete
periodizzazioni economiche (Mandel, La Grassa, Arrighi,
eccetera), ma a mio avviso le integra.
Il capitalismo filosoficamente considerato in term i­
ni di società della illimitatezza del processo di produ­
zione, passa “idealmente” attraverso tre fasi, l’astratta,
la dialettica e la speculativa. Nella prima fase astratta
non esistono ancora i due poli dialettici della borghesia
e del proletariato, ma esiste soltanto la borghesia, nel
suo processo di autoaffermazione nei confronti delle pre­
cedenti società feudali e signorili. In questo processo di
autoaffermazione vengono prodotti socialmente concetti
di unificazione (lo spazio come materia, il tempo come
progresso orientato linearmente e non ciclicamente, la
morale come autofondazione categorica individuale
senza comando divino, il valore come tempo di lavoro
sociale medio contenuto in un bene-merce, l’autofon-
dazione su se stessa della società sulla base dell’abitu­
dine reciproca allo scambio senza bisogno di premesse
“metafisiche”come la religione, il diritto naturale o il
contratto sociale politico, eccetera).
In una seconda fase dialettica viene ristabilito su
basi nuove il principio della comunità contro la prece­
492 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

dente fondazione individualistica del fondamentalismo


illuministico. Nella sua prima fase l’idealismo classico
tedesco (Fichte e Hegel) pensa ancora la comunità come
coesistenza armonica e pacifica di classi sociali diverse,
mentre nella sua seconda fase (Marx) si fa strada l’idea
che questa comunità è impossibile fino a che ci sono
ancora delle classi antagonistiche, in quanto una di
esse (la borghesia) sfrutta l’altra (il proletariato). Marx
non rompe però affatto con l’idealismo, e non diventa
“materialista” semplicemente perchè è ateo in religione
e strutturalista nella modellistica dei modi di produ­
zione. Egli elabora socialmente il concetto hegeliano
di “coscienza infelice”, da Hegel strettamente limitato
alla coscienza religiosa monoteistica europea, e lo appli­
ca alla immanenza sociale divisa in classi. Il suo “comu­
niSmo”, quindi, non ha assolutamente nulla di popolare
e proletario, ma è costruito sulla base pienamente “bor­
ghese” dell’elaborazione dialettica della coscienza infe­
lice. In questa seconda fase dialettica (e quindi bipolare,
e cioè borghesia-proletariato intesi come polarità astrat-
tive-reali, e non solo come meri aggregati statistici di
portatori di ruoli anonimi di interazione economica e
sociale) abbiamo vissuto fra il 1810 ed il 1990 circa
in Europa, e tutta la produzione filosofica europea può
essere correttamente collocata, situata ed interpretata
(certo in modo non riduzionistico ed ideologico) all’in­
terno di queste coordinate storiche. È questa stagione
che ha permesso il grande pensiero dialettico, non im ­
porta se di destra o di sinistra.
Nel passaggio alla sua fase speculativa (in cui il capi­
talismo si contempla da solo nel suo specchio della mer­
cificazione individualistica universale, speculimi), il mon­
do appare realmente “rovesciato”, se non ne si intende
la logica dialettica, che resta sempre “dialettica”, anche
se concentrata nell’iniziativa di un solo soggetto (i do­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 493

minanti) e non più di due come prima (i dominanti ed i


dominati). Ecco perché il linguaggio della “rivoluzione”
appare rovesciato, ed oggi “rivoluzione”, come tu corret­
tamente dici, è l’abbattimento progressivo della so­
vranità degli stati, la liberalizzazione e la privatizzazione
dei servizi pubblici, la flessibilità del lavoro, la fine del
welfare, l’individualismo culturale e il relativismo mo­
rale”. Tu scrivi che “i termini della vecchia dicotomia
classista si sarebbero rovesciati”. Sono d’accordo nell’es­
senziale, ma credo sia meglio dire che più che essersi
rovesciati, si è affermato un solo aspetto unilaterale, che
ha sussunto, assorbito e risucchiato in se stesso l’altro
polo. Viviamo in un mondo in cui attivi sono ormai solo
i dominanti, mentre i dominati sono provvisoriamente di­
ventati un polo puramente passivo. Di qui l’impressione
di mondo completamente rovesciato.
Ho scritto provvisoriamente, e bisogna scriverlo sottoli­
neato, perché venga enfatizzato il carattere provvisorio di
questa situazione. Personalmente, non credo più a sogget­
ti demiurgici rivoluzionari costituiti per via puramente
sociologica (o addirittura tecnologica, come ha sostenuto
e sostiene il delirante operaismo cosmopolitico globaliz­
zato delle cosiddette Moltitudini), ma sono convinto che,
sulla base del carattere socialmente simbolico e reattivo
della natura umana ontologicamente concepita, la caren­
za di dialettica presente fra dominanti e dominati, tipica
della fase speculativa del capitalismo in cui giganteggiano
soltanto i dominanti possa essere colmata.
In quale modo, concretamente, però nessuno lo sa
ancora veramente, e non ci sono per ora che succedanei
volontaristici, ancora molto deboli rispetto ai teorici del
disincanto, il cui principale esponente è oggi il filosofo te­
desco Sloterdijk. Nell’attuale fase speculativa del capita­
lismo, siamo di fronte al “dato” dell’iniziativa unilaterale
senza opposizione del solo lato “dominante” della società.
494 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Per questo oggi giganteggia nei media televisivi, canale


ideologico di questo dominio unilaterale, il “giudizio dei
mercati”, che ha interamente sostituito qualunque agire
politico, di destra o di sinistra che sia. Siamo costretti a
capire indirettamente dai nostri padroni che cosa voglio­
no, e per ora siamo immobilizzati ad intuire che quello
che vogliono è semplicemente il contrario di qualunque
società solidale, comunitaria ed umana. Questa situazione
non può che essere temporanea, salvo il marcire integra­
le della società su se stessa, ed un futuro di conflittualità
tipo “guerra delle Due Rose” inglese 1455-1485, in cui si
era di fronte ad un puro gangsterismo feudale di assassini
per la ripartizione del potere. Il gangsterismo capitalistico
sarà ancora più feroce ed insensato, ma non sarà eterno,
sempre che si dia fiducia al genere umano, e non a suoi
succedanei sociologici.
495

Etica comunitaria, progresso e rivoluzione

C a p it a l is m o e c o m u n it a r is m o : r it o r n a la
CONTRAPPOSIZIONE TRA INDIVIDUALISMO E DEMOCRAZIA

1) La decadenza del sistema capitalista e la sua pre­


vedibile conflagrazione nel tempo, è il tema da cui
prende le mosse qualsiasi teoria che voglia proporre
soluzioni possibili ad una crisi epocale irreversibi­
le e prefigurare la struttura politico - sociale d i un
mondo post - capitalista. In realtà l’attuale capi­
talismo globalista si è afferm ato quale sistema eco­
nomico imposto dal prim ato americano subentrato
alla fine dell’URSS e del mondo ideologico novecen­
tesco e si è definito post - ideologico, post - moderno,
post - industriale, insomma solo come post - qual­
cosa che lo ha preceduto, senza che esso conferisse
autonomamente alla storia un proprio senso, a l di
là delle culture e dei sistem i politici che lo aveva­
no preceduto. Non è un caso che la globalizzazione
economica abbia fa tto nascere idee nichiliste che
in a ltri contesti sarebbero state im pensabili, quali
la fine delle ideologie o la fin e della storia. Lo stesso
individualism o liberale ispirato a Sm ith e Locke
(relitti filosofici del ‘700), è stato rivitalizzato come
una concezione residuale d i un uomo spogliato del­
le verità teologiche, della metafisica filosofica, delle
dottrine sociali del secolo scorso. A ll’individualism o
senza lim iti e senza regole liberista si deve neces­
sariam ente contrapporre u n term ine dialettico di
opposizione, che abbia la capacità dì proporre un
modello sociale, economico e culturale alternativo
a l capitalismo. A ll’individualism o si contrappone
dunque il comunitarismo. I l comunitarismo non è
496 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

una ideologia solo contraria ed opposta al capita­


lismo (comunità contro individualità), né propone
un modello socio - economico assoluto e riproducibi­
le prescindendo dalla realtà storica e culturale dei
popoli, come lo è il capitalismo. Esso è im a teoria
filosofica che deriva dalla analisi critica della real­
tà politico - sociale del nostro tempo e vuole rappre­
sentarne il superamento. Una possibile società che
si sostituisca a quella capitalista, è possibile solo se
si faccia riferim ento alla natura sociale dell’uomo,
alla solidarietà spontanea tra gli individui, alla
collaborazione comunitaria come principio stru t­
turale della società. Il comunitarismo è dunque un
fondam ento filosofico cui f a riscontro un principio
etico. Tra la società liberale e quella comunitaria
v i è q u in d i una contrapposizione d i valori etici.
A lla etica dei d ir itti della ideologia liberale, si
contrappone l’etica com unitaria del lavoro. A d un
fondam ento d i natura giuridica liberale, f a ne f a
riscontro un altro di natura sociale comunitaria.
Se lo stato liberale riconosce i d ir itti dell’individuo
in quanto cittadino, nello stato comunitario l’in ­
dividuo ottiene riconoscimento in quanto membro
della comunità sulla base della fu nzione sociale del
lavoro svolto nell’ambito società, Lo stato liberale
ha natura verticistica in quanto erogatore di d i­
ritti, lo stato comunitario ha natura democratica,
quale risultato ultim o dell’a ttiv ità produttiva del­
la generalità dei m em bri della comunità. Lo stato
liberale afferm a l’eguaglianza din a n zi alla legge,
lo stato comunitario l’eguaglianza d in a n zi al la­
voro. Nello stato liberale fonte della ricchezza è il
libero mercato, ossia, il flusso incontrollato d i merci
e capitali, nello stato comunitario la ricchezza, è
prodotta dall’opera dei lavoratori cooperativi asso-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 497

ciati. Un movimento d i opposizione al capitalismo


non può che riproporre, in una visione adeguata al
presente storico, la dialettica d i contrapposizione
tra capitale e lavoro.

Mi è relativamente facile rispondere sul tema del


rapporto fra comunitarismo e democrazia, anzi oggi più
esattamente sul nesso fra esigenza di comunitarismo ed
assenza di democrazia, perché vi ho già dedicato due sag­
gi a me molto cari, Elogio del Comunitarismo (Controcor­
rente, Napoli 2006) e II popolo al potere (Arianna, Bologna
2006). Si tratta di un tema su cui ho le idee molto chiare.
Se poi siano anche esatte oppure no, questo devo lasciarlo
al lettore.
Fai notare che l’ossessivo utilizzo del termine “post”
indica una incapacità di connotare in positivo in modo
credibile il tempo presente. Si tratta di un dato comune
a tutte le epoche storiche (il bilancio storico del passato e
la proiezione utopica nel futuro sono alla portata di tutti,
così non è per la corretta valutazione del presente). Ma
oggi l’uso ossessivo del termine “post” indica qualcosa di
più, il sintomo di un disagio e di una esorcizzazione. Ciò
che avviene è infatti imbarazzante ed indicibile, il com­
pimento dell’idea illuministica di progresso nella totale
mercificazione del mondo. Una cosa del genere si fa ma
non si dice.
In una definizione sintetica, ma anche esaustiva e
completa, il comunitarismo é la concretizzazione socia­
le della democrazia. Bisogna quindi prima definire cor­
rettamente la democrazia nella sua dimensione sociale
e non soltanto procedurale e formale, e poi il concetto
di comunitarismo verrà dopo, spontaneo come un parto
naturale.
Possono essere utili in proposito due rilievi prelimi­
nari. Primo, ogni società si specifica e si determina neces-
498 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

sanamente in comunità distinte, a meno che si intenda


per società una immane raccolta di merci, ed uno spazio
per la loro circolazione, che è esattamente ciò che avviene
oggi. I nostri contemporanei hanno assistito ad una figu­
ra hegeliana non ancora prevista da Hegel, quella del ro­
vesciamento delhinternazionalismo proletario in cosmo­
politismo capitalistico, favorita (anche se non certo deter­
minata, poveri straccioni!) da quello stesso ceto politico
ed intellettuale, i cosiddetti “comunisti”, che avevano per
quasi un secolo fieramente rappresentato il primo per poi
diventare i più zelanti sostenitori del secondo.
Secondo, il comunitarismo, per sua stessa natura,
ha bisogno di continue correzioni universalistiche, che
fanno diventare la filosofia universalistica non un lusso,
ma una necessità. Se la comunità dei Palongo Palongo
sacrifica al loro dio Budulù bevendo nei crani fumanti
di bambini uccisi ripetendo il mantra augurale Kakon-
go, bisogna trarne la conclusione che questa comunità
ha fortemente bisogno di una correzione universalistica
del comportamento. Il comunitarismo non implica af­
fatto il relativismo, ed è anzi esattamente il contrario.
Il relativismo astrattizzato e mascherato da tolleranza e
diversità, della illimitata circolazione di merci, che sono
infatti l’unico Assoluto in cui il solo relativo è il diffe­
rente prezzo delle merci e dei servizi.
E questa la ragione per cui nel mio libro Elogio del
Comunitarismo ho dedicato metà dello spazio ad una ri-
costruzione storico-generica dell’intera storia della filo­
sofia occidentale. Non esiste elogio del comunitarismo
senza contestuale elogio dell’universalismo, inteso come
processo autonomo di sviluppo della coscienza dell’uma­
nità. In caso contrario il comunitarismo non può svilup­
pare il suo potenziale di solidarietà e di comunicazione,
e pertanto quella educazione (paideia) che lo costituisce
intimamente.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 499

Passando al tema della democrazia e delle sue de­


finizioni, a suo tempo non ho intitolato a caso il mio
libro II popolo al Potere, ma gli ho dato un significato
voluto ed inconsueto. In genere si parla di democrazia
etimologicamente come potere del popolo, specificando
che il popolo deve costituirsi istituzionalmente in cor­
po elettorale, ma si trascura così l’elemento processuale,
per cui in realtà il popolo deve poter accedere al potere
reale, che è sempre e soltanto un potere comunitario,
quello di determinare modi, tempi e lim iti della propria
riproduzione sociale complessiva, laddove le decisioni
veramente importanti (dichiarazione di guerra, "oggi
ipocritamente mascherata da interventismo umanitario,
pensioni, sanità, abitazione, eccetera) sono delegate o a
poteri oscuri (arcana imperli), oppure alla contingenza
individuale. La democrazia non può che essere un con­
creto processo di accesso popolare alle decisioni, almeno
a quelle che non sfuggono alla volontà umana (terremo­
ti, pestilenze, eccetera).
Cerchiamo di definire il termine di democrazia, in
modo da capire almeno bene di che cosa stiamo parlan­
do. Propongo di farlo con tre accostamenti successivi,
in modo che il terzo ed ultimo diventi significativo del
tutto.
In primo luogo, democrazia significa potere del po­
polo. Nei greci il popolo propriamente detto si diceva
laos, ed il demos significa già popolo che ha una istitu­
zionalizzazione in demi separati, e cioè in circoscrizio­
ni territoriali disomogenee. Inoltre, presso i greci esiste
una ambiguità semantica, per cui popolo significa con­
temporaneamente l’insieme indistinto dei cittadini e la
parte più povera, e quindi maggioritaria (Aristotele) dei
cittadini stessi. Così per il comuniSmo nel XX secolo,
in cui per i comunisti significava il massimo possibile
di democrazia (la famosa democrazia sostanziale con­
500 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

frapposta a quella soltanto formale, vedi dibattito anni


Cinquanta Togliatti-Bobbio) e per gli anticomunisti il
massimo di despotismo totalitario, nello stesso modo
per gii Ateniesi democrazia voleva dire potere di tutto il
popolo, e per i loro avversari esterni (ma sempre di più
anche interni) potere demagogico dei più poveri sobil­
lati dai retori.
In secondo luogo, nei tempi moderni il termine
popolo viene specificato, significando prima i diritti
inalienabili dell’individuo presupposto astrattamente
come isolato ed originario (in un primo tempo in modo
giusnaturalistico, e poi indebolitosi questo fondamento
sia da destra-pensiero della restaurazione, sia da sinistra-
marxismo, nel modo tautologico ed arrogante del posi­
tivismo giuridico), e poi il popolo costituito in corpo
elettorale, prima in forma censitario-notabile e poi nella
forma democratico-partitica, inevitabilmente corrotta.
In terzo luogo, infine, democrazia non può che esse­
re la costante-permanente di ciò che era già nelle poleis
greche e nei comuni medievali italiani, e cioè delibe­
razione normativa collettiva sulle regole interne della
riproduzione economica complessiva della comunità. In
caso contrario non si capisce bene di che cosa dovrebbe­
ro discutere e deliberare i membri dei collegi eletti dal
popolo.
Appare chiaro che oggi (Italia, aprile 2012) non ce
nessuna democrazia, se un’entità impalpabile ma pesante
come una montagna chiamata spread può deliberare sul­
le pensioni, sul lavoro, sulla sanità, sui meccanismi più
delicati ed importanti della vita quotidiana, senza con­
tare guerre illegali (Afganistan, Libia) fatte eccitando
artificialmente un’opinione pubblica peraltro distratta e
disinteressata alla ricostruzione dei termini precisi delle
ragioni ultime delle guerre (che non sono mai, ma proprio
mai, i cosiddetti diritti umani).
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 501

In sintesi, dovendo spiegare ad un marziano disinfor­


mato ma anche non rincoglionito dal tifo politico-iden-
titario, direi che l’Italia è passata dall’epoca del Bunga
Bunga all’epoca del Banca Banca. Come si vede, un mu­
tamento epocale, addirittura rivoluzionario, tutto avve­
nuto all’interno di categorie non elette, i giornalisti ed
i magistrati.
Il vecchio Puttaniere era caduto in quella lascivia
senile ampiamente descritta nella commedia greca di
Aristofane e di Menandro e poi dal vaudeville da avan­
spettacolo dei cinema pomeridiani che ho avuto ancora
in sorta di visitare nei primi anni Cinquanta del XX
secolo (epoca in cui si è peraltro fermato, come mummi­
ficato, Silvio Berlusconi). Ma i suoi patetici Bunga Bun­
ga gli impedivano di mettere in atto quel Banca Banca
caratteristico non tanto di un astratto mondo virtuale e
bocconiano di “imprese”, ma di capitale finanziario glo­
balizzato, determinato dai due parametri della flessibi-
lizzazione del lavoro e della delocalizzazione del capitale.
Avesse colpito le condizioni di vita dei più poveri nel
modo dei teologi bocconiani dei Banca Banca avremmo
avuto ciclopiche manifestazioni, tamburi, fischietti, esa­
gitati in passamontagna, cassonetti bruciati ed in più il
corale urlo: “Fascisti! Fascisti!”.
La vecchia via italiana al socialismo, tacitamente abro­
gata, è stata sostituita da una forma di “puro empirismo”,
del tipo: “Monti è pur sempre meglio di Berlusconi!”. E
perché, di grazia? Perché parla un inglese da economisti
e non solo un francese da cabaret e da Maurice Chevalier?
Perché mangia cotechini anziché toccare freneticamente
culi di adolescenti ambiziose trasformate in vittime dalle
femministe?
Per chi è rimasto dotato di capacità autonome ed in­
dipendenti di analisi la situazione è talmente disperan­
te da aver superato il limite del tragico per imboccare
502 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

quello del grottesco. Ma se guardiamo a Grecia, Spagna


e Portogallo, paesi senza ex-comunisti riciclati, cavalie­
ri, tette e culi, ma che sono nelle nostre condizioni ed
ancora peggio, vediamo che lo svuotamento della demo­
crazia è un fenomeno comune, e soltanto dei cialtroni
ex-comunisti possono intrattenere l’idea che sia solo e
tutta colpa del Puttaniere. E intanto anche Bossi è stato
falciato dai giudici (aprile 2012). Aspettiamo il prossi­
mo che si opponga alla dittatura delle banche.

D e m o c r a z ia a n t ic a , d e m o c r a z ia m ed io eva le e
ATTUALITÀ DELLA METAFISICA IDEALISTA

2) Quando si enunciano i p rin cip i della filosofia co-


m unitarista, non si può omettere il riferim ento a
form e comunitarie d i organizzazione sociale del­
la Grecia classica e dell’età medioevale, cioè delle
società premoderne. Ma contrapporre il comuni­
tarismo al capitalismo come una dialettica d i op­
posizione tra modernità e antim odernità ha oggi
un senso? Si comprende facilm ente come la ripro­
posizione della società premoderna al modernismo
capitalista sarebbe un anacronismo storico. È tu t­
tavia d i a ttu a lità la critica al pensiero moderno,
quale fondam ento antiveritativo creatore di fa lsi
m iti, quali l’individualism o liberale assoluto, il
dogma della scienza economica, del libero mercato
che distribuisce ricchezza attraverso la mano in v i­
sibile, l’adeguamento necessario della cultura alla
realtà economico - sociale dell’esistente. S i è p iù
volte afferm ato che se il capitalismo è la conseguen­
za del “disincantam ento del mondo’’, occorrerebbe
allora procedere ad un “reincantamento del mon­
do” p er pervenire alla fuoriuscita dal capitalismo.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 503

Come interpretare questo possibile reincantam en­


to, in un mondo ormai quasi del tutto secolariz­
zato, privo d i m iti unificanti, verità trascendenti,
metafisiche filosofiche, svuotato cioè di ogni pensie­
ro critico non compatibile con i dogmi delle verità
scientifiche, delle dottrine economiche, delle scienze
sociali? Se non si vuole confidare in im probabili
fughe mistiche d i carattere trascendente e impos­
sibili revivals dei m iti ideologici, occorre orientare
il pensiero critico verso altre prospettive. Occorre
dunque, dopo aver sfrondato il pensiero dell’ideo­
logismo del presente, vagliare criticamente quali
esigenze, quali aspirazioni, quali orientam enti di
carattere culturale e politico emergono dalla realtà
sociale del presente storico, e q u in d i quali concet­
ti filosofici e quali strategie politiche possono esse­
re proposte attualm ente. In tale contesto è ovvio il
richiamo alla metafisica filosofica idealista dei se­
coli scorsi. Potremo allora valutare con obiettività
quali verità filosofiche sono sopravvissute all’opera
di sistematica demolizione del divenire storico. I l
compito della nostra azione è d i carattere etico p r i­
ma che politico, in un contesto europeo che, a l con­
trario delle altre culture, ha vissuto integralm ente
la modernità e ne costata oggi la sua inevitabile
decadenza.

Tratterò nell’ordine tre argomenti: natura della demo­


crazia antica, natura della democrazia medioevale, ed infi­
ne ragioni dell’attualità della metafisica idealista.
Luciano Canfora è un brillante antichista italiano,
specialista in “smascheramenti”. Così come ha smasche­
rato in nodo convincente il mito del falso papiro di Arte-
midoro, che solo cretini patentati come i burocrati della
regione Piemonte potevano comprare a peso d’(artemid)
504 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

oro, e come ha smascherato l’eccessiva demonizzazione


della figura di Stalin (il baffuto georgiano è stato il solo
modo con cui la classe più storicamente incapace della
storia universale, quella operaia, salariata e proletaria,
ha potuto arrivare al potere, anche solo per due gene­
razioni), nello stesso modo in due libri consecutivi ha
“smascherato” il mito della democrazia ateniese. In real­
tà, si trattò sempre e soltanto della dittatura aristocrati­
ca della famiglia degli Alcmeonidi, coperta da tecniche
di manipolazione assembleare e da finanziamenti impe-
. rialistici.
Questa volta, però, lo staliniano barese collaboratore
del Corriere della Sera ha smascherato male. Dal momen­
to che la stragrande maggioranza dei reperti trasmessici
dall’antichità è composta da critici della democrazia, e
questo sia in greco antico che in latino, è facilissimo
inanellare opportune citazioni che parlano di tirannia
della maggioranza, demagogia dei sicofanti, eccetera.
Inoltre, anche i bambini sanno che c’erano gli schiavi
e le donne erano discriminate, ma soltanto pochi adul­
ti esperti sanno che il modo di produzione schiavistico
nell’antica Atene non era affatto dominante (lo divenne
soltanto in età ellenistica), ma ad Atene prevaleva uno
specifico modo di produzione di piccoli produttori in­
dipendenti.
Ebbene, lo smascheratore non tiene conto del fatto che
logos, prima di voler dire linguaggio, ragione e pensiero,
voleva dire calcolo (loghìzomai), ed in particolare calcolo
sociale comunitario della giusta misura della ripartizione
del potere e della distribuzione delle ricchezze. E la demo­
crazia antica (trascuro qui per brevità i pur necessari ric­
chissimi particolari, fra cui l’equilibrio della terri torialità
economica dei vari demi di costa, pianura e montagna)
era, appunto la gestione politica del modo in cui si ripro­
duceva economicamente l’insieme della polis. Il contrario,
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 505

insomma, dell’attuale passaggio dal Bunga Bunga al Ban­


ca Banca.
Il comune medievale, pur all’intemo della prevalenza
di un modo di produzione diversissimo (il modo di pro­
duzione feudale), era anch’esso strutturato per il control­
lo della produzione collettiva comunitaria. Nato come
comune in prevalenza signorile (comune consolare), poi
presto evoluto in senso commerciale con il taglio po­
destarile delle torri, assunse presto la forma corporativa
delle collegialità delle arti professionali. Certo, prose­
guiva la feroce lotta di classe fra arti maggiori ed arti
minori (qui parlo solo di Firenze come prima parlavo
solo di Atene), ma in ogni caso permaneva il controllo
popolare, e quindi democratico, sulla riproduzione eco­
nomica complessiva della comunità.
Bene, facciamola corta. Non si tratta qui di idealizza­
re, ma soltanto di non condurre lo smascheramento fino
al punto nichilistico di non riuscire più a distinguere
dove non c’era ancora lo spread ma c’erano ancora invece
embrioni di autogoverno politico e di autogestione eco­
nomica. Non si tratta di restaurare ciò che è irreversibil­
mente passato e non potrà certamente più ritornare. Chi
mi accusasse di questo avrebbe vittoria facile, ma io glie­
la concedo subito tutta, perché non è questo che voglio o
ritengo possibile. Semplicemente, voglio ribadire la tesi
attualissima che non c’è democrazia quando forze eco­
nomiche oscure ed incontrollabili determinano in modo
pressoché esclusivo la riproduzione sociale, svuotando
ogni sovranità ed ogni rappresentanza.
In quanto all’idealismo classico tedesco, anche in
questo caso non si tratta di tornare al quarantennio
1790-1830. Chi come me ha insegnato filosofia per
quaranta anni lo sa perfettamente. Si tratta di ribadire
che mentre nella storia delle scienze esistono soglie di
irreversibilità (non si toma al geocentrismo o al fissi­
506 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

smo delle specie), nella storia della filosofia non esisto­


no soglie di irreversibilità, e Platone continua ad essere
più attuale di W ittgenstein e Hegel di Nietzsche. D un­
que non credete a quelli che vi parlano di attualità o
di inattualità come se fossero parametri fisici e chimici.
Chi proclama inattuale e superato (come se fossimo in
autostrada) l’idealismo classico tedesco, oltre a dare di
Hegel una lettura “manicomiale” (il termine è di Remo
Bodei), intende sopratutto squalificare l’idea di verità fi­
losofica come ideazione distinta dalla certezza scientifica
e dell’autenticità artistica. Non fatevi infinocchiare da
. chi in questa congiuntura ha il monopolio delle pagine
culturali per radicai chic.

L ' id e a della d e cre scita e la a b r o g a z io n e


DEL CONCETTO DI PROGRESSO

3) Connaturata allo sviluppo del capitalismo è l’idea


del progresso. E questa visione lineare d i un pro­
gresso incessante e fu o ri da ogni lim ite che costi­
tuisce il fondam ento filosofico della concezione pro­
gressiva della storia e della cultura liberale. È la
concezione determ inista della storia, intesa come
infinito progresso che presiede anche alle trasfor­
m azioni del capitalismo e ne legittim a tutte le sue
evoluzioni antisociali e devastanti per Vam bien­
te, le religioni, le culture, le identità dei popoli. Il
mito del progresso ha origini illum iniste e prefigu­
ra come obiettivi, società perfette, ritorni a sta ti di
innocenza prim ordiali dell’uomo, in una parola,
il fine del progresso si identificherebbe con il p a ­
radiso in terra. I l carattere astratto ed estraneo
alla natura um ana di ta li concezioni è evidente. I l
perseguimento di ta li im possibili obiettivi presup­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 507

porrebbe l’impegno e la dedizione assoluta propria


di èli te s di sacerdoti del progresso. Tali proposizio­
ni, nel contesto liberale, sarebbero contraddittorie:
l’avanzata del progresso è coeva alla evoluzione
della società in senso liberaldemocratico e per­
tanto il progresso può sussistere in quanto le sue
conquiste siano generatrici d i profitto e d i rapida
diffusione tra le masse. S i deve allora concludere
che Vevoluzione progressista della società coincide
con l’espansione capitalista e quindi, l’accezione
contemporanea dell’idea del progresso si id en ti­
fica con lo sviluppo illim itato della produzione e
del consumo propri della economia del capitalismo
avanzato. E q u in d i legittim o elaborare questa
equazione: progresso = mercificazione del mondo,
ha stessa protesta degli in d ig n a ti di tutto il mondo
contro la schiavitù del debito, la disoccupazione, la
mancanza d i prospettive per i giovani, si fonda su
presupposti errati, quando i giovani rivendicano
il proprio diritto a vivere nella condizione dei loro
padri. La condizione d i benessere diffuso è oggi
improponibile nella misura in cui è impossibile
tornare a i livelli abnorm i d i consumo dei decenni
passati. Certi livelli di consumo sono insostenibi­
li, in quanto realizzati attraverso l’indebitam ento
insolvibile delle masse dei consumatori e uno sfru t­
tamento delle materie prim e incom patibile con l’e­
quilibrio dell’ecosistema. Il consumismo illim itato
è una creazione dell’economia finanziaria, che, a
sua volta, ha la sua ragion d’essere nella impos­
sibilità nell’economia industriale di creare nuova
domanda. La società com unitaria non è incompa­
tibile con l’idea del progresso, ma lo è semmai con
uno sviluppo dell’innovazione subordinata alla
logica del profitto. Il progresso dell’um anità è d u n ­
508 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

que legato ad altri param etri. Una società sarà


tanto p iù progredita, quanto p iù avrà affrancato
il maggior numero di in d iv id u i dalla schiavitù dei
bisogni materiali, avrà elevato il livello culturale
della società, preservato l’ambiente, ridotto le dise­
guaglianze economiche, avrà offerto maggiori op­
portunità per tu tti e una maggiore mobilità socia­
le. In tale ottica, si deve concludere che lo sviluppo
del capitalismo ha seguito negli u ltim i decenni un
corso non progressista, ina regressivo.

Toccherò due punti, quello della insostenibilità


dell’attuale sviluppo basato sul consumismo illimitato,
e quello sulla eventuale ridefinizione radicale dell’idea di
progresso.
Sono d’accordo con i teorici della decrescita (Latouche,
Bontempelli) sulla sostanziale insostenibilità dell’attua­
le modello di sviluppo capitalistico globalizzato. Condi­
vido tutti i parametri essenziali del loro ragionamento, e
rilevo che recentemente anche de Benoist vi ha aderito,
suscitando i consueti sospetti dei “decrescisti di sini­
stra”, cui evidentemente la stessa decrescita interessa di
meno dell’isterico mantenimento della dicotomia De-
stra/Sinistra. Mi disturba soltanto il loro miserabilismo
missionario, come se si dovesse essere ad ogni costo an­
che vegetariani o vegani per salvare il pianeta, i consigli
per accendere il fuoco senza fiammiferi, e tutte le idiozie
che un certo ecologismo innocuo alla moda ha messo in
circolazione negli ultimi decenni. Il fatto che molte aree
del pianeta non abbiano per ora bisogno di decrescita,
ma semplicemente di crescita (gran parte dell’Africa e
dell’Asia), non é rilevante per l’argomentazione, perché
se ci si colloca al livello del pianeta complessivo l’unico
argomento dei “crescisti” è una scommessa pascaliana, e
cioè che la scienza e la tecnologia troveranno sempre ma­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 509

terie prime e tecnologie adatte anche dopo l’esaurimento


di minerali e carburanti. In realtà è tranquillamente pos­
sibile fare uno scenario futurologico in cui questo non
avviene, o non avviene abbastanza.
In realtà, i sostenitori della decrescita sono ridotti
alla esortazione morale rivolta erga omnes ed agli amanti
del ragionamento previsionale (il due per cento della po­
polazione mondiale, con una valutazione di vertiginoso
ottimismo). Il meccanismo del consumismo illim itato
è semplicemente la ricaduta antropologica di massa del
funzionamento del capitalismo finanziario globalizzato,
che unisce strettamente la fame nel mondo, il consumo
di prestigio per pochi e l’estetica del centro commer­
ciale per le nuove plebi a reddito basso. Se Renzo Bossi
detto Trota si vuole comprare ad ogni costo la Ferrari e
Claudio Scajola un alloggio davanti al Colosseo dichia­
rando di non essere informato sulle fonti di finanzia­
mento, simili scene da avanspettacolo non mi suscitano
nessuna indignazione morale (da tempo so che nel suo
complesso salvo eccezioni il ceto politico professionale
in Italia è composto da criminali comuni organizzati),
ma solo pacate riflessioni sul fatto che i consumi di lusso
ed in generale le spese inutili e scandalose sono sem­
plicemente ricadute della immoralità strutturale di un
sistema fondato sul denaro che ha come inno popolare
religioso la canzonetta: “Nessuno mi può giudicare!”.
Ecco perché, in conclusione, si può certamente pensare
in alcuni casi ad una economia più “verde” (la Germania
insegna), ma una vera e propria decrescita implica una
rivoluzione titanica, in cui i bisogni di greca ed epicurea
memoria sostituiscano i desideri illim itati di tipo pub­
blicitario. Se pensiamo che oggi persino il pensiero di
estrema sinistra si basa sulla antropologia del desiderio
illimitato (Deleuze, Guattari, Negri, Hardt, eccetera),
sostituendo Marx con Benetton senza neppure averne la
510 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

più lontana coscienza, potremo concluderne con Ennio


Flajano che la situazione è disperata, ma non seria. Pas­
sando al tema del progresso, tu noti correttamente che
di fatto, al netto della retorica edificante, oggi il pro­
gresso è diventato regressivo, perché si identifica con la
mercificazione del mondo. Elementare, Watson! Ma poi
sostieni che il concetto di progresso deve essere man­
tenuto, ma riparametrato, ed indichi fra i nuovi para­
metri l’affrancamento del maggior numero di individui
dalla schiavitù dei beni materiali (immagino necessari
per una dignitosa sopravvivenza), un elevato livello cul­
turale della società, la preservazione dell’ambiente, la
riduzione delle diseguaglianze, una maggiore mobilità
sociale.
Si tratta ovviamente di proposte di buon senso pie­
namente condivisibili, che peraltro anche Draghi, Monti,
Berlusconi e Bersani sottoscriverebbero fra gli applausi
della plebe dei comizi della domenica, voltando immedia­
tamente pagina sulla base della fede del “rilancio dell’e­
conomia” sulle stesse basi neoliberali e globalizzate. Ecco
perché io sono molto più radicale, e propongo l’abolizione
tout court della paroletta “progresso”, sia come parola che
come concetto.
Intendiamoci, non penso proprio di impedire alla
gente di usare quando vuole la collaudatissima paroletta
“progresso” (progresso delle tecniche chirurgiche, pro­
gresso delle terapie farmacologiche, progresso delle in­
novazioni informatiche, progresso nella corretta alimen­
tazione e nell’apprendimento dell’inglese, eccetera). La
gente parli pure come vuole. Tempo fa le femministe cer­
carono di imporre formule scritte di raddoppiamento ob­
bligatorio politicamente corretto dei finali di parola a/o
e i/e, trovando accoglienza nella parte tradizionalmente
più stupida dell’intera società, i gruppettini di sinistra
politicamente corretti. Parlo di stupidità, perché mentre
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 511

il problema era quello di riqualificare integralmente il


comuniSmo, sporcato ed infangato dai Gorbaciov, Eltsin,
D ’Alema e Veltroni, essi credettero di salvarlo con inie­
zioni dopanti di ecologismo, femminismo e pacifismo, e
cioè con ingredienti provenienti direttamente dall’impe­
ro, e cioè dal pensiero radicale statunitense. A suo tempo,
Vercingetorige non era così coglione da pensare di poter
salvare i costumi dei Celti adottando la toga romana ed i
giochi gladiatori.
Ma torniamo al concetto di progresso. Se lo vogliamo
usare come sinonimo di “miglioramento”, si faccia pure.
Ma qui è il concetto che deve essere tolto integralmente, e
cerchiamo di spiegare sommariamente il perché.
Nella cultura greca classica, matrice dell’intera tradi­
zione occidentale del “progresso” non esisteva né la parola
né il concetto. Per indicare l’equivalente semantico posi­
tivo si parlava di ristabilimento di una misura (metron) e di
un equilibrio infranto. Questo non significa che gli anti­
chi greci non avessero il concetto di miglioramento delle
tecniche di navigazione, di cura, di costruzione, eccete­
ra. E evidente che ce lo avevano. Ma il concetto unificato
di progresso come senso univoco direzionale della storia
anch’essa concettualmente unificata (Koselleck) è un pro­
dotto originale del settecento borghese europeo. Si tratta
certamente di una filosofia (Condorcet), ma di filosofia for­
temente ideologica, in cui il concetto di progresso prima
di ogni altra cosa è un’arma simbolica da usare contro i
residui feudali-signorili.
Da allora questo concetto si è riprodotto in modo
automatico facendo da minimo comun denominatore
sia del liberalismo che del comuniSmo. Il comuniSmo
fece l’errore di trasformarlo in pilastro della sua filosofia
necessitaristica della storia, ignorò sempre i consigli di
relativizzarlo che pure venivano dal suo interno (Sorel,
Benjamin), e fu infine seppellito sotto le sue macerie. Il
512 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

liberalismo lo legò strettamente ai due parametri della


liberalizzazione dei mercati e dell’incremento del con­
sumi, sorvegliati benevolmente dall’alto dalla scienza
e dalla tecnologia. Arche in questo caso, vediamo che
la cosa migliore sarebbe rinunciare alla parola, per gli
equivoci che essa si porta con sé.

L a r iv o l u z io n e n e c e ss a r ia e o g g i im p r o b a b il e

4) S i avverte l’esigenza d i un nuovo modello di svi-


■ luppo, d i nuovi orizzonti sociali e culturali che si
sostituiscano a questo stato d i atrofia spirituale ge­
neralizzata, propria di una società in perenne de­
cadenza. Come è naturale, l’idea di trasformazione
dell’esistente è d i per sé per m olti accattivante, ma
tuttora nebulosa e relegata nel regno del possibile -
fu tu rib ile. Come è del resto radicata l’idea d i con­
servazione di un presente, anche se pieno d i fen o ­
m eni negativi e contraddittori, in quanto si teme
il salto nel buio, si diffida di un nuovo mondo il
cui avvento sembra improbabile. Ma soprattutto,
è quasi un luogo comune ripetere che questa realtà
può essere m utata solo con una trasformazione r i­
voluzionaria. E quando però si vuole prendere in
considerazione l’avvento di un possibile fenomeno
rivoluzionario, le idee divengono assai vaghe. Ci
si domanda: con chi? per fa re cosa? Certo è che
oggi sono d i scarso ausilio i riferim enti alle rivo­
luzioni del 1789 e del 1917. Nuove rivoluzioni,
proprio perché volte ad abbattere il capitalismo, la
società piram idale delle élites finanziarie, la d i­
seguaglianza e l’egualitarismo del consumo, non
potranno essere attuate da ristrette classi dirigenti
cui sia devoluta la missione storica di educare le
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 513

masse ad un credo ideologico, considerato come un


ineluttabile destino dell’um anità. Nuove rivolu­
zioni non potranno che essere comunitarie e q u in ­
d i opera della base, perché presuppongono l’azione
d i popoli che già hanno creato nella società nuovi
modelli p ro d u ttivi e d i organizzazione sociale. Ma
si può obiettare: dov’è lo spirito comunitario nelle
masse alienate dalla produzione e dal consumo?
S i può im m aginare un operaio, un impiegato, un
insegnante, un professionista, un industriale, un
commerciante ecc... diverso da quello che è nella
vita sociale d i questa realtà? C i si chiede come sia
possibile un comunitarismo in una società stru t­
turata sugli egoismi in d ivid u a li e collettivi. I n ­
vero si costata ogni giorno la sussistenza d i una
antropologia sociale fondata sull’individualism o,
che sembra immodificabile. Esiste allora una a n ­
tropologia com unitaria? I!antropologia del capi­
talismo in tanto sussiste, in quanto la struttura
economico - sociale ha creato dei ruoli fu n zio n a li
all’esistenza sia dell’ordine politico - economico, sia
della cultura massmediatica. I l comunitarismo è
una rivoluzione d i popolo perché rivoluzione delle
coscienze, basata sulla fuoriuscita delle masse dai
ruoli a d esse a ttr ib u iti dal sistema capitalista. La
crisi del capitalismo avanza ed emargina masse
crescenti di lavoratori: tale processo sarà determ i­
nante nel creare nella prassi sociale una nuova
antropologia comunitaria. Le rivoluzioni non si
realizzano per l’oppressione fiscale e per cause u ti-
litariste, ma presuppongono etica, disciplina, una
coscienza interiore scevra d i egoismi individuali,
in vista dell’avvento d i una nuova società e nuovi
destini dell’um anità.
514 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

Il concetto di rivoluzione è oggi strettamente legato


a quello di ristabilimento di una antropologia comuni­
taria, ed è per l’appunto questo il problema che per il
momento appare assolutamente insolubile.
Se vogliamo usare il termine di rivoluzione nel solo
modo corretto e non equivoco (per cui eviteremo le pri­
mavere arabe - fenomeno controrivoluzionario, i m uta­
menti di gusti musicali e sessuali, eccetera), e cioè di
rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo
complessivo dell’intera struttura dei rapporti di pro­
duzione (mi sembra che qui, Marx non sia ancora sta­
to superato, certo non da Max Weber o da Heidegger),
allora ne consegue che nell’ultimo secolo in Europa
(1912-2012) la sola ed unica rivoluzione sia stata quella
russa del 1917. Abbiamo poi avuto molte guerre civili
(Spagna 1936, Grecia 1946), molti rivolgimenti e cambi
nelle forme di stato e di governo (persino il colpo di sta­
to giudiziario extra-parlamentare surrealmente definito
Mani Pulite è stato gabellato per “rivoluzione”), ma la
stessa resistenza italiana 1943-1945, con buona pace sia
dei suoi ammiratori sia dei suoi detrattori, non è stata
in alcun modo una rivoluzione, così come non lo sono
state le esportazioni del modello staliniano di sociali­
smo nei paesi dell’Est (Cina 1949 e Cuba 1959 invece lo
sono veramente state, indipendentemente dalla succes­
siva restaurazione del capitalismo in Cina). Nel 1989 si
è invece verificata tecnicamente una controrivoluzione,
fatta passare ideologicamente per liberazione, e cioè per
scatenamento del capitalismo. E questo - lo ripeto - in
senso tecnico, prescindendo cioè dal giudizio positivo o
negativo (o misto) da dare ai paesi del defunto socialismo
reale. Anzi, tecnicamente la definirei controrivoluzione
pacifica di massa dei nuovi ceti medi socialisti contro un
dispotismo burocratico operaio livellatore. Poi ognuno
ci metta il giudizio di valore che vuole, purché sappia
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 515

che in ogni caso esso dipende dalla filosofia della storia


sottostante che ognuno coltiva nel suo foro interno.
Per un secolo, finito il tempo delle rivoluzioni bor­
ghesi inaugurate a Parigi nel 1789, la rivoluzione è
stata associata strettamente al soggetto politicamente
organizzato operaio, salariato e proletario. Si è trattato
sempre e solo di un mito di mobilitazione di tipo sore-
liano, perché i proletari di tutto il mondo non si sono
mai uniti, non danno traccia di volerlo fare ed a mio
modesto avviso di anticapitalista radicale che non vuole
però raccontar(si) delle storie non lo faranno mai, muo­
vendosi sempre e soltanto, quando riescono a farlo (ed
oggi non ci riescono), su basi esclusivamente nazionali.
Se pensiamo che oggi l’estrema sinistra accademicamen­
te riconosciuta (Negri, ma anche Hobsbawm) auspica il
superamento dello stato nazionale, ne consegne che oggi
non c’è più Scienza Politica, ma soltanto Masochismo
Politico.
Si usa ripetere a pappagallo che oggi non c’è più ri­
voluzione perché è venuto a mancare un “modello”, o
meglio perché il modello precedente é fallito, e quindi
irriproponibile. Ma non lo credo proprio. Il 1789 fran­
cese ed il 1917 russo furono fatti senza nessun modello,
in quanto non lo erano a rigore né il giusnaturalismo
illuministico dei diritti dell’uomo né il modello stata-
lizzatore del marxismo della Seconda Internazionale, di
cui i bolscevichi erano pur sempre dipendenti. I modelli
si trovano sempre rapidamente ex post, e non consistono
mai in applicazioni artificiali già pronte. Inoltre, i mo­
delli si costruiscono e ricostruiscono per prove, tentativi
ed errori, e richiedono decenni per potersi assestare in
modo più o meno stabile.
Oggi la rivoluzione purtroppo (e sottolineo il pur­
troppo) appare letteralmente “indispensabile”, proprio
perché non riusciamo neppure ad immaginarne la forma
516 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

possibile. Certo, in una modellistica astratta inevitabil­


mente kantiana e maxweberiana possiamo immaginarce­
la come un grande sciopero generale soreliano, pacifico
o violento, o più esattamente con una miscela delle due
componenti della violenza e dell’ordine pianificato. Ma
tutti sappiamo che non è realistico, e questo non certo
per la risibile ragione per cui le utopie sarebbero irrever­
sibilmente fallite (nella storia le presunte irreversibilità,
si calcolano in ventenni), ma per cui mancano le forze
soggettive aggregabili. Lasciamo ai nostalgici l’idea che
l’aggregazione verrà da forze sociologiche salariate, ope­
raie e proletarie.
Il fatto è che oggi, insieme alla prospettiva della rivo­
luzione nel vecchio (ed unico) senso del termine, è venuta
meno anche la vecchia dicotomia Riforme/Rivoluzione,
per cui per un secolo e mezzo si è detto che era meglio
affidarsi ad una lenta evoluzione positiva senza strappi
per ottenere risultati simili senza lo scorrimento del san­
gue ed i cicli di violenza che ne susseguono. In realtà
non si vede oggi neppure quali forze siano seriamente
in grado di ipotizzare una riforma di questo modello di
capitalismo globalizzato a prevalenza finanziaria. Oggi
il fattore soggettivo sembra spento non solo per le rivo­
luzioni, ma anche per le riforme. I frenetici ed ipocriti
summit dei politici, disturbati o meno da incappucciati
in passamontagna o da pagliacci dipinti in trampoli e
tamburi, pattinano sul ghiaccio sottile delle superfici di
realtà interamente dominate dalla speculazione finanzia­
ria e dai suoi riti in inglese (del tipo dello spread —oh, il
buon vecchio Spirito Santo!).
E allora? Bisogna forse rassegnarsi? Bisogna accetta­
re la trinità universale della gabbia d’acciaio, del disin­
canto del mondo e del politeismo dei valori? Bisogna
accettare il più odioso dei domini militari travestito da
interventismo in difesa della pace e dei diritti umani?
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 517

Bisogna accettare, che il Politicamente Corretto ci im­


ponga che cosa possiamo dire e che cosa non possiamo
neppure pensare?
Non può essere questa ovviamente la conclusione. Il
pessimismo non è obbligatorio, ed anche l’ottimismo è
facoltativo. Non si tratta allora di dare retta alle ideolo­
gie diffuse dai pensatori permessi dal potere, in quanto il
potere dosa anche la critica concessa a dosi omeopatiche
(esemplare il caso di saggisti come Bauman e Zizek). Ciò
che passa il mercato editoriale e televisivo è sempre filtra­
to de vere e proprie “griglie di compatibilità”. Il massimo
di coraggio nello svelamento (esemplare l’unica vera gior­
nalista italiana d’inchiesta onesta, Milena Gabanelli, il re­
sto è cabaret per semicolti PD, Santoro e Saviano inclusi)
consiste nell’indicare veri e propri casi scandalosi. Ma essi
sono migliaia, e come i buchi nelle dighe tappatone uno
se ne apre un altro.
Le rivoluzioni non si fanno con modelli preapplica­
bili, e neppure accostandosi o discostandosi da modelli
ideali pregressi, come è stato il caso del marxismo, dato
che il modello originale di Marx era perfettamente inap­
plicabile, fondandosi su vere e proprie fanfaluche come
l’abolizione dello stato e la capacità di auto-organizza­
zione rivoluzionaria (e non solo sindacale, quella ovvia­
mente c’è) della classe operaia, salariata e proletaria. Le
rivoluzioni richiedono lente precondizioni di aggrega­
zione antropologica, e soprattutto la visibilità non tanto
del modello futuro, quanto della debolezza del nemico e
della perforabilità delle sue difese. Questa non c’è anco­
ra, e non si può affrettare artificialmente. Per ora basti
affermare che ci può essere, e mandare cordialmente al
diavolo chi parla di utopia, terrore ed altre fregnacce di
prevenzione e contenimento.
518

Crisi del capitalismo e inutilità dell’Essere sociale

S en so d i in u t il it à esistenziale e d e st r a n ea z io n e sociale

1) L’avanzare e il perdurare della crisi economica


europea, sta progressivamente destrutturando la
società. La recessione e i decrementi del P ii han­
no determinato la fuoriuscita dalla produzione di
rilevanti quote d i manodopera dal sistema produt­
tivo. S i allargano a macchia d’olio la disoccupazio­
ne, la sottoccupazione, il precariato, il lavoro nero.
Soprattutto, l’ingresso nel mondo del lavoro dei gio­
vani è diventato assai difficoltoso. La nostra società
diviene sempre p iù decadente, per il venir meno
del ricambio generazionale e la mobilità socia­
le. La liberalizzazione dell’economia, dei costumi,
della cultura d i massa, quali fenom eni scaturiti
dall’avvento della globalizzazione, si rivelano m iti
virtuali, destinati ad essere sm en titi dal disfaci­
mento degli equilibri sociali provocato dalla crisi
incombente. Se volessimo elaborare un bilancio del
prim o decennio del X X I 0 secolo, dovremmo rileva­
re che l’avvento della società globalizzata ha a vu ­
to solo la fu n zio n e d i distruggere l’eredità sociale
e culturale del ‘900, dato che i nuovi orizzonti, le
nuove opportunità, le grandi sfide del nuovo secolo,
si sono rivelate elem enti di una strategia di ascesa
al potere di una nuova elitaria classe dominante
del mondo finanziario a discapito della masse sem­
pre p iù escluse dai processi produttivi. L’emargi­
nazione sociale coinvolge in teri popoli; esclusione
ed emarginazione sono fenom eni conseguenti al
tramonto d i un sistema economico basato sulla
produzione e di una società fondata su equilibri
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 519

ispirati al solidarismo interclassista. La fuoriusci­


ta dal mondo del lavoro determ ina negli in d ivid u i
un senso di in u tilità esistenziale, d ì estraneazione
sociale, che conduce alla perdita della autostim a di
se stessi, a d un non senso della propria individua­
lità, ormai non p iù compatibile con le prospettive
di svihcppo d i una società elitaria, basata sulla ge­
neralizzata esclusione delle masse non p iù integra­
b ili nei processi evolutivi della società globalizza­
ta. La coscienza della in u tilità è coeva q u in d i alla
defunzionalizzazione produttiva. Tale condizione
um ana riflette q u in d i la struttura fondam entale
dei rapporti sociali nella società capitalista. L i n ­
divìduo ha coscienza di sé in quanto svolge un ruo­
lo produttivo nel contesto economico, altrim en ti la
sua vita è condannata alla emarginazione, alla
stregua di un prodotto obsoleto e q u in d i privo di
valore economico. La funzione produttiva e il ruolo
consumistico sono le sostanziali fo n ti d i riconosci­
mento nella società capitalista. Dobbiamo allora
credere che è il mercato, con i suoi rialzi è ribassi a
dare senso alla vita di ognuno. I l lavoro è merce di
scambio in un mercato che si evolve in una prospet­
tiva selettiva di progressiva esclusione dei lavora­
tori dalla produzione, m ai di espansione. La disoc­
cupazione diffusa è però un fenom eno che rivela la
sottoutilizzazione di risorse um ane disponibili. I l
paradosso dell’economia liberista è proprio questo:
l’attuale capitalismo genera recessione per la pro­
p ria incapacità d i allocazione e razionalizzazione
delle risorse produttive disponibili.

Sono veramente felice che tu abbia scelto come con­


cetto principale di questa nostra conversazione (destina­
ta probabilmente a chiudere il secondo volume della rac­
520 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

colta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine


del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il
tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inu­
tilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e
sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni
svolgerò alcune autonome riflessioni.
In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana
del rovesciamento dialettico di una costellazione teori­
co-pratica nel suo contrario complementare, possiamo
ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale
dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a
punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda
metà del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibi­
le che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico
del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più
semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero
dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione
del meccanismo riproduttivo globale del mercato capi­
talistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fonda­
zioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di
Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa
variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni
promessa messianica), il contratto sociale (non importa
se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Lo­
cke o di “sinistra” di Rousseau, mi scuso con il lettore
intelligente per avere usato queste improprie categorie,
da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il dirit­
to naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura
umana comunitaria associata come principio di legitti­
mazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo
di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed
originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il
mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo
scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di
più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 521

bilancio storico-filosofico serio, che presuppone proba­


bilmente il raggio temporale minimo di duecento anni,
possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è
rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della
inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili,
generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che
non vale neppure più la pena argomentare, svelare, di­
mostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giu­
dizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile.
Già Hegel aveva a suo tempo rilevato che l ’ateismo
non consisteva nella negazione formale, materiale e “cosa­
le” di Dio, ma nella perdita di interesse verso la verità. Ai
suoi tempi, però, questa diagnosi infausta era prematura,
perchè l’interesse verso la verità comunitario-sociale (l’u­
nica esistente, il resto essendo certezza, esattezza, veridi­
cità, corrispondenza, eccetera), sia pure deformata dal suo
uso ideologico, avrebbe avuto ancora un secolo e mezzo
davanti a sé, il secolo e mezzo della civiltà borghese e del­
la sua volonterosa ma inefficace contestazione proletaria.
Al tempo di Hegel era impensabile che, appena aperta la
televisione per le ultime notizie, la prima frase gridata
dal mezzobusto lottizzato fosse “i mercati sono euforici”,
oppure “i mercati sono nervosi”. Di fronte a questa quoti­
diana realtà, alienata ed antropomorfizzata insieme, Kafka
appare un sobrio epistemologo popperiano.

In secondo luogo, tu suggerisci un tema che dovrebbe


interessare i sociologi e gli storici per i prossimi cento
anni, e cioè che si sta formando a livello globale una nuova
elitaria classe dominante del mondo finanziario a discapi­
to delle masse sempre più escluse dai processi produttivi.
In proposito, sfugge agli analisti universitari (anche i ceti
universitari, gonfiati sproporzionatamente negli ultimi
decenni per “assorbire” i miserabili contestatori sessantot­
tini, sono in preda al processo di inutilità e decadenza)
522 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

che questa nuova classe in formazione non è più la vecchia


borghesia, sulla cui definizione multiforme erano “tarati”
i concetti del pensiero politico degli ultimi due secoli.
Siamo di fronte ad una vera e propria novità storica, in lin­
guaggio hegeliano una nuova epoca di “gestazione e di tra­
passo”. Il vecchio apparato concettuale non serve più, ma
i ceti universitari delle facoltà di filosofia e scienze sociali
(non parlo qui di facoltà più serie come biologia, medicina
ed ingegneria) sono ormai dei cani da guardia destinati ad
impedire lo sviluppo di una nuova concettualizzazione,
essendo appunto “pagati” per parlare solo di olocausto,
diritti umani, dittatori baffuti e barbuti e legittimazione
dei riti elettorali svuotati di ogni residua sovranità. Essi
non possono impedire lo sviluppo di una nuova necessaria
concettualizzazione, ma possono ritardarla, intorbidire le
acque, concionare su concetti vuoti come “qualunquismo”
o meglio ancora “populismo”, eccetera.
In terzo luogo, infine, la sensazione di inutilità, che
ha come sua base strutturale ovviamente la “superfluità”
demografica della forza-lavoro valorizzabile dal capitale
finanziario, si ripercuote inevitabilmente nella sensazione
di inutilità e di superfluità dell’argomentazione filosofica
e culturale. Il divorzio fra realtà e “virtualità”, infatti, c’è
sempre stato, ma oggi sta raggiungendo vertici da record.
Il cattolico Formigoni si tuffa d a yacths di speculatori m i­
lionari, derubricati ad “amici privati”, il banchiere Monti
regna in nome della limitazione dello spread, e la “cassetta
delle menzogne” (idest la televisione) ha trasformato i sio­
nisti in campioni della democrazia, l’esemplare Siria di
Assad in regno hitleriano di un feroce dittatore, e non è un
caso che il fenomeno di Beppe Grillo, battezzato sfronta­
tamente come “populismo”, sia in realtà sintomo evidente
di disperazione politica. Piuttosto di questi politici e di
questi economisti, meglio un attore, ma sarebbero ancora
meglio degli scimpanzè e degli oranghi.
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 523

È infatti assolutamente insensato pensare che una


società possa riprodursi sulla base del mercato, con i
suoi rialzi ed i suoi ribassi, eretto ad unico criterio della
sensatezza globale. A chi rivolgersi? Ratzinger predica
bene, fa riferimento alla filosofia aristotelica della na­
tura umana (la migliore mai prodotta), ma continua a
prendersela con lo spettro del comuniSmo, nel frattempo
defunto da almeno un ventennio, ed a avallare il peg­
gio del politicamente corretto in circolazione. Il Dalai
Lama, erroneamente spacciato per “guida spirituale”,
agisce scopertamente come un agente USA anti-cinese, e
tu tti fingono che sia soltanto l’eterna incarnazione della
saggezza orientale. Il giornale “La Repubblica” ed il suo
laicismo azionista al servizio delle oligarchie bancarie ha
sciaguratamente forgiato un’intera generazione di semi­
colti subalterni, maggioritari in quella patetica nicchia
sociale dei laureati recenti, dei prof di scuola secondaria
e dei ceti universitari autoreferenziali, di fronte a cui le
plebi di Padre Pio appaiano per contrasto un gruppo di
pensosi intellettuali illuministi.
Ma, evidentemente, il discorso è appena incominciato.

L ' in u t il it à d e i l a v o r a t o r i - c o n s u m a t o r i d e s t in a t i
ALLA ROTTAMAZIONE E L'ATTUALE IMPENSABILITÀ DELLA
RIVOLUZIONE

2) I l mercato globale si è affermato attraverso il do­


m inio del mercato finanziario sulla economia pro­
duttiva: la crescita economica non è la sua ragion
d’essere né tantomeno il suo fine ultimo. In tale
contesto, lo sviluppo produttivo si m anifesta nei
tem pi e nei luoghi determ inati dalle strategie del­
la speculazione finanziaria. Q uindi esso è di per sé
un fenomeno indotto, momentaneo e precario, a cui
524 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

poi fa n n o riscontro crisi e sottosviluppo non risolvi­


bili secondo i canoni delle dottrine economiche no­
vecentesche. Le stesse crisi, non hanno la loro cau­
sa nei cicli economici ricorrenti, m a semmai nelle
bolle finanziarie ricorrenti, in eventi cioè estranei
alle dinamiche della produzione. La globalizzazio­
ne ha prodotto insieme a i mercati globali, anche
problemi e crisi globali, data l’interconnessione
tra le economie e i mercati di tutto il mondo. La
attuale crisi sistemica ha generato decrementi di
produzione e di consumo assai rilevanti, decresci­
ta degli investim enti e rarefazione della liquidità.
Certo è che la fine del ivelfare, il la voro precario, le
delocalizzazioni produttive, hanno profondamen­
te inciso sulle capacità di consumo e d i risparmio
delle masse. Pertanto, nel prossimo fu tu ro sarà di
a ttualità il problema della esistenza di masse non
p iù u tilizzabili nella produzione e non p iù dotate
d i capacità d i consumo. La condizione d i in u tilità
degli in d iv id u i si va estendendo alle masse globali
d i lavoratori - consumatori obsoleti e destinati alla
rottamazione. Tale problematica è esposta nel libro
d i M. Della Luna “Oligarchia per popoli superflui,
Koiné Nuove ed izio n i 2010”. In fa tti, mentre nei
secoli passati l’incremento della popolazione era
incentivato dai sovrani d i sta ti che necessitavano
d i soldati, agricoltori e cittadini produttori che p a ­
gassero imposte, oggi, l’aumento della popolazione
mondiale, unito alla recessione produttiva e al de­
cremento delle risorse naturali, ha creato una nuo­
va categoria antropologica: quella dei popoli super­
flu i. Superflui perché non integrabili nel sistema
economico e bisognosi di mezzi d i sostentamento, in
tem pi d i destrutturazione dello stato sociale. A l di
là delle ipotesi catastrofiste (per fo rtu n a poco prati-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 525

cubili), quali quelle di guerre nucleari o epidemie


provocate allo scopo d i decrementare la popolazione
mondiale, altre soluzioni m i sembrano credibili. È
in fa tti ipotizzabile l’erogazione pubblica di sussi­
di m in im i di sostentamento per assicurare, assie­
me alla sopravvivenza materiale delle masse, a n ­
che quella del mercato, garantendogli un adeguato
livello d i consumi. In tale tragico scenario, gran
parte dell’um anità vivrebbe in una condizione di
dipendenza economico - esistenziale assimilabile
alla schiavitù. M a la situazione descritta sarebbe
possibile qualora si prestasse fede al dogma liberi­
sta della autoreferenza totalitaria della economia
capitalista. Masse asservite e ridotte alla condizio­
ne d i perpetua, emergenziale sopravvivenza, sono
incapaci d i rivoluzioni, qualora le cause dei feno­
m eni rivoluzionari fossero solo d i ordine economico.
A l contrario, ì m otivi del mancato riconoscimento
sociale, e della ribellione verso un ordine costituito
perché moralmente ingiusto, sono di ordine p o liti­
co - sociale, perché nascono dalla volontà comune
d i partecipazione politica e dalla visione (magari
utopica), d i una diversa strutturazione della so­
cietà che sia in grado di sviluppare risorse, onde
creare una p iù equa e diffusa ripartizione della
ricchezza. La crisi della attuale liberaldemocrazia
d i ispirazione anglosassone è quella d i un ordine
che non può e non vuole sviluppare risorse, perché
il suo scopo ultim o è quello si preservare un sistema
finanziario di per sé condannato a l fallim ento.

Tu ti poni una domanda inquietante: la gente oggi


è diventata incapace di rivoluzioni? Fai anche l’ipote­
si, da prendere certamente in considerazione, che questa
radicale incapacità trasformatrice (non importa se rifor­
526 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

mista o rivoluzionaria) possa essere dovuta non certo acl


una salarializzazione spinta della società, ma proprio al
suo contrario, la generalizzazione di sussidi minimi di
sopravvivenza per mantenere da un lato la pace sociale,
dall’altro livelli sufficienti di consumo, sia pure paras­
sitario. Lo storico Eric Hobsbawm, nato nel 1917, ha
ormai 95 anni. Intervistato da un miliardario sionista
italiano, giornalista per snobismo e per diletto, che gli
chiede con una punta di malignità se sia ancora “comu­
nista”, Hobsbawn risponde: “Il comuniSmo non esiste
più. Sono leale alla speranza di una rivoluzione anche se
non credo che succederà più. Non so se basta per essere
comunista, io sono marxista perchè penso che non ci sarà
stabilità finché il capitalismo non si trasformerà in qual­
cosa di irriconoscibile dal capitalismo che conosciamo
oggi. E sono leale alla memoria in quello che ho creduto
e che fu un grande movimento anche in Italia” (cfr. La
Stampa, 1/7/12).
A proposito dei fatto che il comuniSmo non esiste più
mi permetto una serie di brevi considerazioni. Il mo­
dello politico-sociale del comuniSmo storico novecente­
sco realmente esistito (il cosiddetto “socialismo reale”)
non esiste veramente più, ed è crollato per ragioni as­
solutamente endogene (un pò come il regime signorile
feudale in Europa), demolito da una maestosa e feroce
controrivoluzione occidentalistica dei nuovi ceti medi
“socialisti”, che hanno però finito con il consegnare l’in­
tero potere economico ad una casta di baroni-ladri. Il
comuniSmo storico novecentesco è stato l’espressione di
una sorta di democrazia plebeo-totalitaria (l’ossimoro è
voluto, perchè indica una contraddizione oggettiva) di
operai di fabbrica e di contadini poveri, due gruppi so­
ciali ad egemonia complessiva a scadenza breve, come
gli yoghurt. I gruppetti politici comunisti residuali ne­
gli attuali paesi capitalistici, senza praticamente alcuna
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 527

eccezione, non sono più gruppi rivoluzionari a legitti­


mazione marxista, ma sono residui sociologici inseriti
nella dicotomia Sinistra/Destra, e per ciò stesso del tutto
incapaci di affrontare una fase storica nuova in cui la di­
cotomia Sinistra/Destra ha perso ogni significato.
Il “comuniSmo ideale eterno”, per usare un termine
di Giambattista Vico, non è finito perchè esprime una
ricerca comunitaria di verità e di giustizia sociale di tipo
non storico ma metastorico. Non era questo ovviamente
che pensava Marx, che avrebbe respinto con disprezzo
ed irrisione questa formulazione, in quanto Marx pen­
sava che il comuniSmo fosse un prodotto processuale
immanente allo stesso sviluppo del modo di produzio­
ne capitalistico. In termini popperiani, questa legitti­
ma e ragionevolissima ipotesi scientifica è stata smentita
nell’ultimo secolo e mezzo, e mi sembra disonesto non
riconoscerlo apertamente.
L’espressione di Hobsbawn, “essere leali alla speranza
di una rivoluzione” mi sembra affascinante, ed io la adotto
interamente. A differenza di Hobsbawn, io penso invece
che avverrà, ma probabilmente non in tempi storici vici­
ni, in quanto devono maturare delle condizioni globali
ancora largamente immature. Esiste un blog in Italia de­
nominato “sollevazione”, critico dell’euro e del governo
Monti, che incita ad una sollevazione popolare sulla base
della rivendicazione di un profilo comunista di estrema
sinistra. Nonostante le ottime intenzioni soggettive di co­
storo, molto migliori dei semplici fiancheggiatori del si­
stema politico, resta dura a morire l’idea della sollevazione
di estrema sinistra, un’idea ricalcata sulla base dell’analo­
gia con un periodo storico trascorso.
La difficoltà nel “pensare” la rivoluzione anticapitali­
stica che pur sarebbe necessaria sta nel fatto che la globa­
lizzazione per ora consente solo fenomeni storici “locali”,
che possono anche abbattere governi dispotici precedenti,
528 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

ma che poi restano inseriti, incastrati ed ingabbiati nel si­


stema economico internazionale, che agisce in funzione di
ricatto permanente. E questa impensabilità che fa da sot­
tofondo allo scetticismo di Hobsbawrn. L’utopia si con­
cretizza soltanto attraverso una prospettiva, ed è appunto
l’impensabilità della prospettiva il principale fattore del
senso di inutilità così diffuso. Predicare astrattamente
contro l’inutilità diventerà così inutile come l’inutilità
stessa fino a quando non saranno finalmente visibili so­
cialmente passi in avanti nella limitazione di questo capi­
talismo cannibale.

L a g l o b a l iz z a z io n e
s e n z a m e t a fis ic a d e l l ' e t e r n o
PRESENTE CAPITALISTA E FALSA COSCIENZA DELLA STORIA

3) La crisi avanza, incombe sulla nostra vita quo­


tidiana, svuotando d i senso le nostre certezze. La
progressiva espropriazione della vita comunita­
ria, fam iliare, intim o - personale, provocata dal
dominio del mercatismo, che invade la società e la
coinvolge nella sua crisi sistemica, è esplicativa di
una condizione esistenziale sempre p iti instabile
e precaria, perché subordinata alla sopravvivenza
economica. Il fenomeno dell’accentuarsi quotidia­
no della recessione economica, della disoccupazione,
dello spread, della pressione fiscale, è sintomatico
di una crisi p iù profonda, che coinvolge totalmen­
te la nostra vita, in quanto è essa stessa ad essere
dipendente da un sistema economico e politico in
progressivo disfacimento. Tuttavia, la stagnazio­
ne della situazione politica, il dirigismo burocra­
tico e cinico della UE (assieme a l governo tecnico
di Monti), perché fenom eni d i ribellione e dissenso
al sistema sono quasi inesistenti, se si eccettuano
Dialoghi sull'Europa e sul nuovo ordine mondiale 529

i m ovim enti m inoritari e velleitari quali il gril-


lismo e altri sim ilari europei. Lo stesso astensio­
nismo massificato assume p iù il significato d i una
estraneazione collettiva dalla politica, assai p iù
vicina alla resa senza condizioni, p iù che quello di
un dissenso d i massa. Costatiamo q u in d i che nel­
la società è assente una presa d i coscienza comu­
ne di una situazione di emergenza sìa economica
che politico - sociale, dovuta ad una società in crisi
sistemica, che può solo produrre altre crisi, quan­
do alla destrutturazione di un sistema non fa r i­
scontro alcuna alternativa, magari fu tu rib ile, ma
possibile. Si m anifesta nella odierna società una
coscienza collettiva d i tipo adattativo alla situazio­
ne di precarietà materiale ed esistenziale, a d uno
stato di crisi sedimentato nelle coscienze come una
condizione d ì perenne instabilità in cui si possa
solo sopravvivere. Questa estraneazione dalla sfera
sociale, comporta il rifugio in un egoismo collettivo
in cui, da una parte le classi p iù elevate tentano di
integrarsi in un processo d i trasformazione da cui
vengono progressivamente escluse, dall’altra, quel­
le p iù deboli si affannano a sopravvivere alla crisi.
T u tti tentano d i “imbucasi” a d un simposio a cui
non sono stati in v ita ti dalla global class. La società
è prigioniera dell’eterno presente. S i eternizzano
in una sfera astorica e asociale le condizioni in ­
d ividuali del nostro presente. Il lavoro, l’avvenire
dei giovani, gli a ffe tti personali, i rapporti sociali,
vengono vissuti come se questa condizione di cri­
si fosse una condizione perenne, intrasformabile,
data l’impossibilità d i sviluppi e m utam enti r i­
spetto alla quotidianità ottusa d i questo g ra n iti­
co, eterno presente. Tale fenomeno è spiegabile alla
luce dell’etica individualista, su cui si è costruita
530 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

la psicologia collettiva del mondo contemporaneo.


I l culto dell’individualità odierna, è il risultato
d i un atteggiamento narcisistico collettivo, p iù o
meno inconscio, d i personalità che hanno coscienza
di sé nella misura in cui ottengono riconoscimento,
in prim is in base alla loro fu nzione svolta nel si­
stema economico, e dalla condizione sociale che ne
deriva. Solo nell’eterno presente ci si può illudere
d i avere riconoscimento, e d i preservare le proprie
meschine ed egoistiche certezze, in un mondo diver­
so chissà? Non si considera che l’eterno presente è
conseguenza della mancanza d i senso della storia.
Ueconomia attraversa fa si di stagnazione e reces­
sione ciclica. La storia, al contrario non am m ette
periodi d i stagnazione, né tanto meno è concepibile
una sua recessione al passato. L’eterno presente è
una falsa coscienza della storia imposta da un or­
dine capitalista ormai fu o ri della storia. La storia
invece contimia a produrre m utam enti, a generare
nuove situazioni d i cui occorre prendere coscienza.
Interpretare l’a vvenire alla luce dell’eterno presen­
te è un non senso. La storia non ha altri fin i che
quelli che l’uomo si propone di realizzare e pertanto
sarà proprio la coscienza insopprimibile dell’uomo
come essere storico a determinare il superamento
della attuale crisi, quale alienazione dell’uomo
nell’eterno presente. Da quanto precede, si com­
prende anche la necessità storica della presente cri­
si, quale momento d i superamento d i un presente
che è “eterno’’ perché non è storico.

Non sono un esperto di politologia o di sociologia


elettorale, ma personalmente assimilo i due fenomeni
dell’astensionismo e del grillismo. Con questo non in­
tendo unirmi al coro gracchiarne dei “responsabili” ade-
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 531

remi ai vecchi partiti. Dovendo scegliere, con la'pistola


alla testa, fra Grillo da un lato, e Bersani, Vendola, Di
Pietro, Casini ed Alfano dall’altro, voterei certamente
Grillo, che è certamente un guitto, ma almeno non ha
dirette responsabilità per lo svuotamento della decisione
democratica. Tuttavia sono rimasto molto colpito dal fat­
to che nelle recenti elezioni del giugno 2012 in Grecia,
dove pure si prendevano decisioni strategiche sul futuro
del paese l’astensione sia arrivata al quaranta per cento.
In Italia non si decide più nulla da un pezzo, perchè esi­
ste una sorta di giunta militarizzata di economisti con
garante un ex-comunista disilluso del comuniSmo, che
in una recente intervista su “Repubblica” rimprovera post
mortem a Berlinguer di avere ancora creduto che ci potesse
essere una società “alternativa” al mercato capitalistico.
Ma in Grecia si decideva effettivamente qualcosa di stra­
tegico, ed a mio avviso il fronte di sinistra di Syriza vi
giocava esattamente lo stesso ruolo anti-euro del partito
di Marine Le Pen in Francia, anche se questa ovvia verità
è nascosta da mille sigilli per chi si ostina ad orientar­
si sul mercato politico in nome della dicotomia obsoleta
Destra-Sinistra. Ho letto recentemente in una bellissima
intervista autobiografica di Alain de Benoist una frase
di Bergson del 1936 che non conoscevo: “Su dieci errori
politici, nove consistono semplicemente nel continuare
ancora nel credere vero ciò che ha cessato di esserlo”. Bi­
sognerebbe ricordarlo ai politologi.
E quindi inutile condannare moralisticamente gli
astensionisti oppure coloro che si rifugiano nel grillismo.
Essi prendono semplicemente atto della radicale inutilità
della tensione politica.
Il vero problema, tuttavia, sta nell’immaginare come
possa continuare nel tempo e riprodursi una società te­
nuta insieme soltanto dal legame del mercato, in cui la
decisione politica comunitaria ha di fatto cessato di esi­
532 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

stere. Per il momento questa è una relativa novità stori­


co-politica, che deve ancora stabilizzarsi. Una società del
genere è la prima società umana completamente priva di
“grande narrazione”, e cioè di racconto identitario. Già
Hegel, a proposito dell’Inghilterra, si era meravigliato
che potesse esistere una “nazione civile senza metafisi­
ca”. Benché abbia insegnato storia e filosofia nei licei per
trentacinque anni, solo recentemente mi è parso di ca­
pire il significato della sentenza di Hegel. Infatti la me­
scolanza tipicamente inglese di empirismo, scetticismo
ed utilitarismo non è una filosofia come le altre, ma è
una anti-filosofia radicale, che ha effettivamente antici­
pato la concezione attuale delle oligarchie anglosassoni,
cui l’Europa si è interamente allineata negli ultimi venti
anni. Siamo effettivamente arrivati ad essere, ed a van­
tarci di essere, “un popolo civile senza metafisica”.
L’attuale globalizzazione senza metafisica è comun­
que intrecciata al messianesimo americano vetero testa­
mentario, che appunto non è una filosofia di tipo greco,
ma una secolarizzazione religiosa di origine calvinista.
Questo fa anche venir meno la vecchia mobilità socia­
le ascendente e discendente, sostituita da una mobilità
individualistica senza alto né basso, al di fuori della ca­
pacità di consumo. Ma la mobilità non è più la vecchia
mobilità ascendente, che era stata per più di un secolo la
grande ideologia di legittimazione della borghesia clas­
sica. Gli atomi sradicati si muovono in uno spazio mer­
cantile senza alto né basso, in cui il vecchio significato
comunitario della vita è integralmente sostituito dalla
capacità di acquisto e di vendita delle proprie capacità
lavorative.
Come ho già fatto notare in precedenza, il vero pro­
blema non sta nel constatare questo processo, che è sotto
gli occhi di tutti anche se per ora oscurato dai meccani­
smi mediatici, editoriali ed universitari, ma nel prospet­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 533

tare lo scenario allargato di questa situazione. L’accesso


al consumo dei giganteschi strati medio-bassi in India,
Cina, Brasile, eccetera può certamente rinviare di de­
cenni una crisi generalizzata di senso storico e politico.
Un mondo globalizzato senza metafisica, si accompagna
ovviamente a sempre più virulente identità religiose, in
cui la cosiddetta arretratezza e la cosiddetta intolleranza
sono semplicemente il risvolto pseudo-comunitario della
completa mancanza di senso. Le facoltà di filosofia sono
già nel loro complesso interamente “normalizzate” in una
koinè che può essere definita, in termini di scetticismo so­
fisticato, di relativismo multicolore e di nichilismo tran­
quillizzante. Ma quanto questo possa durare nessuno può
veramente saperlo.

A COSA SERVE L'EURO? L'EURO È UN ERRORE O UN CRIMINE?

4) La coscienza dell’in u tilità sociale ed esistenziale


dell’uomo contemporaneo non è che la proiezione
massificata d i un mondo economico e politico vir­
tuale che rivela nella crisi il vuoto d i senso, cioè la
sua incontestabile inu tilità . Così come inutile si è
dimostrata la classe politica, acquiescente e compli­
ce delle manovre perpetrate dalla UE a danno degli
stati. Si consideri l’euro. Che cosa è l’euro? E una
moneta virtuale, che non rispecchia le condizioni
economiche e politiche dei paesi della UE, una va­
luta imposta da una BCE senza uno stato che ne
garantisca la solvibilità e la sussistenza, da una
BCE composta da organismi tentici non elettivi,
non rappresentativi della volontà popolare. L’euro
è stato definito da alcuni non una moneta unica,
ma un sistema d i cambi fissi, dato che nell’Eurozo-
na, la valuta è comune, mentre il debito pubblico
534 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

grava sulle finanze degli stati. A cosa serve l’euro?


Con l’euro si è ferm ato lo sviluppo economico, si sono
dim ezzati il potere d’acquisto e i risparm i dei cit­
tadini, si è imposta una politica di austerity che ha
distrutto lo stato sociale e ha diffuso la precarietà
del lavoro. Sono state distrutte le conquiste socia­
li, le certezze, mentre l’unificazione monetaria ha
incrementato la speculazione finanziaria che sta
determinando il fallim ento degli stati. L’euro, an­
ziché integrare i popoli, li ha condannati ad una
competizione sfrenata che ha condotto ad enormi
sperequazioni economiche tra popoli del nord e del
sud europeo. Liberarci dall’euro significherebbe
liberarci dalla schiavitù del debito imposta dalla
speculazione finanziaria, utile a i propri profitti,
ma inutile e dannosa a i popoli. G li stati sono stati
incoraggiati ad indebitarsi, anziché a sviluppare la
propria economia, e classi politiche corrotte hanno
goduto del consenso di masse anestetizzate da un
benessere virtuale e precario. Farla fin ita con l’euro
però comporterebbe riforme sistemiche negli stati e
nell’ambito europeo. Ma gli stati europei non di­
spongono di classi politiche adeguate a tali even­
ti d i emergenza rivoluzionaria, Tali concetti sono
tuttora im pensabili per la stragrande maggioranza
degli europei.

Con questa quarta ed ultima domanda mi solleciti a


parlare dell’euro, cosa però che faccio malvolentieri per­
ché, detto in linguaggio popolare, “non ci capisco nien­
te”. Altre volte nelle nostre conversazioni ne abbiamo
già parlato, in genere molto negativamente. Continuare
testardamente con l’euro oppure farla finita con l’euro è
infatti una sorta di atto di fede per tutti coloro che non
sono specialisti di economia. Personalmente, pur non do­
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 535

minando la materia, mi riconosco nelle opinioni di econo­


misti come Bagnai e Brancaccio, che sono critici radicali
dell’euro, e nello stesso tempo non voglio nascondere di
essere spaventato dalle campagne di terrore indotte quoti­
dianamente dalla televisione e dai giornali, che annuncia­
no apocalissi in caso di crollo dell’euro. Fanno sul serio o
minacciano soltanto?
Siamo nel 2012. Nonostante gli apparenti mutamen­
ti politici, le classi politiche oligarchiche italiane sono le
stesse del 1915 e del 1940. Sarebbe troppo lungo scen­
dere nei dettagli di questi elementi di continuità che
vanno molto al di là delle differenze superficiali fra il
regime liberale, il regime fascista ed il regime demo­
cratico. In proposito, i manuali di storia contemporanea
sono ingannatori, perchè ad esempio non informano sul­
la continuità della geopolitica di espansione nei Balcani
nel 1915 e nel 1940, in modo che lo studente medio
è in generale convinto che la guerra del 1915 sia stata
fatta per Trento e Trieste, città la cui “italianità” non
era messa in dubbio da nessuno, ed anzi era fiorente sul
piano culturale e letterario. Dico questo perchè gli ita­
liani hanno già dovuto pagare due volte, nel 1915 e nel
1940, per un azzardo pokeristico (del tutto secondario se
da parte di Salandra o di Mussolini), e questa mi pare la
terza volta.
Di fronte alla sempre maggiore evidenza che l’euro
non è stata una buona idea, ma è anzi stato un errore sto­
rico e strategico, molti si rifugiano in una vera e propria
“fuga in avanti”: l’Europa non ha una sovranità politica
unitaria, ha solo una moneta comune senza stato, adesso
bisogna andare verso uno stato europeo unitario. A mio
avviso sarebbe non solo un errore, ma un vero e proprio
crimine, e cercherò brevemente di spiegare il perché.
Uno stato presuppone una nazione, una nazione europea
non esiste e non esisterà mai, al massimo l’Europa sarà
536 Luigi Tedeschi, Costanzo Preve

una “macroregione”, del tipo del Friuli e della Slovenia.


Parlare di “unità nella diversità” è pura retorica per bor­
sisti Erasmus. Non ci può essere una vera unità politica
senza nazione. Possibile che i casi lampanti della Ceco­
slovacchia e della Jugoslavia (per non parlare dell’Unio­
ne Sovietica) non insegnino proprio nulla?
Se mi pagassero un tanto a pagina (come facevano con
Alessandro Dumas) per scrivere un saggio sulla presunta
eredità culturale unitaria dell’Europa (che a mio avvi­
so non esiste, e non potrebbe esistere comunque dopo
lo tsunami della globalizzazione finanziaria) non avrei
alcuna difficoltà a partorire un migliaio di pagine ipo­
crite ed artificiali. Ma quando si sventolano le bandie­
re, sia pure per ragioni soltanto sportive, si sventolano
solo le bandiere nazionali. Vi immaginate dei tifosi che
sventolano la bandiera europea? E poi la Russia fa parte
dell’Europa oppure no? Se sì, l’Europa finisce a Vladivo­
stok, ed è dunque un’unità geograficamente eurasiatica.
Se invece no, bisogna artificialmente estendere l’Europa
a Tallinn e Kiev, ed escluderne Mosca, accettando invece
l’integrazione europea ideale con gli USA, il Canada ed
Israele. Le contraddizioni potrebbero continuare.
L’euro è stata quindi una cattiva idea, e pensare di sal­
varlo con la fuga in avanti di un unico stato-nazione eu­
ropeo inesistente è un’idea ancora peggiore, sulla quale
sembrano unirsi sia l’ex-destra sia l’ex-sinistra, in assenza
di identità culturali e politiche. I rapporti culturali fra
nazioni europee erano migliori quando non si era ancora
creata l’isteria delle nazioni cicale o spendaccione e delle
nazioni virtuose. E già difficile far passare l’idea della so­
lidarietà sul debito sovrano all’interno di una sola nazione
(il caso della Lega Nord insegna, e non può essere ridotto
al folklore snobistico con cui la analizza il giornale “Re­
pubblica”), e chi pensa che questo sia possibile in futuro
per una evidente non-nazione come l’Europa mente a sé
Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale 537

ed agli altri. Quello che ha prodotto l’Euro è sotto gli


occhi di tutti, e cioè la svalutazione del lavoro salariato e
10 smantellamento progressivo degli elementi di tvelfare.
Pensare che nel prossimo futuro la tempesta passerà è da
mentitori o da incoscienti. Dall’euro bisognerà uscire, ed
11 modo di uscirne sarà il principale indicatore storico­
politico del prossimo futuro. Sarà un vero dopoguerra, cui
nessuno di noi potrà sottrarsi.
I n d ic e

P-

Introduzione di Stefano Sissa - La filosofia ‘tutta politica’


di Costanzo Preve: un intellettuale non omologato........ 5

L’Europa può reinventare se stessa?.................................... 37

Crisi nel sistema o crisi del sistema capitalista?.....................55

Precarietà e manipolazione antropologica nell'era


del capitalismo assoluto................................................ 67

L’integrazione impossibile in una identità europea


che non c’è ....................................................................85

Obama, l’America virtuale e l’etere velenoso


del capitalismo reale....................................................102

L’eroismo di Gaza e il Ministero Occidentale


della Verità................................................................. 122

La crisi dell’individualismo occidentale e l'immagine


dello spirito del tempo................................................144

L’utopia e la gioventù del mondo.......................................169

Benedetto XVI e il declino della modernità...................... 194

Il lavoro stabile e il dogma dell’onnipotenza


del mercato.................................................................219

Scuola: un laboratorio di sperimentazione sociologica...... 245


La nuova geopolitica del capitalismo immanente............. 268

Il futuro della filosofia e l’eterno presente nichilista.........293

Rivolta delle élites e disfacimento del capitalismo...........318

L’eclissi della dialettica e le nuove conflittualità


della storia........................................................................346

La privatizzazione della vita sociale..................................37 6

L’indifferentismo morale e la cultura dell’individualismo


di massa.................................................................... 405'

Per una nuova proposta politica...................................... 434

Un dissenso sociale tutto da inventare...............................464

Etica comunitaria, progresso e rivoluzione........................ 495

Crisi del capitalismo e inutilità dell’Essere sociale.............518


Questo è il terzo dei libri di dialoghi tra Costanzo Preve e Luigi Tedeschi
che costituiscono altrettante fasi di un percorso ideale iniziato nel^
2002, teso alla interpretazione del nostro tem po, analizzato al fine
rinvenire in esso le radici storiche e filosofiche da cui è derivai
della globalizzazione, vissuta da larga parte dell’um anità come
presente senza storia. Sulle ceneri delle ideologie novecantel i S i i ^ H
questi dialoghi viene analizzata la nuova antropologia umana scarurifa
dall’avvento del capitalismo globàlista, che comporta 1 asso u nec
della totalità dei rapporti umani alla “forma merce". E « e s f a
mercificazione dell’umanità a generare la flessibilità e la precarietà S e re -.ìjjH
del lavoro, anche di tutti i rapporti della vita sociale. L’analisi filosofica di
Costanzo Preve si ispira alla filosofia greca, alla concezione della coJfetmA?']
intesa come espressione della natura sociale dell’uoMo. §g c o m u n ità |is n |||
vuole dunque rappresentare il termine dialettico di opposìzn^H
all’individualismo capitalista, perché oppone la solidarietà com unitaria e il/
primato della politica alla alienazione productivist^Hpns unii sta frutto def
primato dell’economia. Questi dialoghi vogliono anche e soprattutto
una forma di primaria resistenza etica e c i^ B a lc alla omologazione
mercatista del capitalismo assoluto. Costanzo Breve non è più tra noi dal
novembre 2013. Egli ci lascia in eredità un p e n s i® , la cui fecondità è JSta
dalla estrema potenzialità (per ora utopica), di sviluppi culturali e politici,
validi per costruire la società del iffliro.

C o sta n zo P re v e (1943 - 2013) ha studiato scienze politiche, filosofia e


neoellenistica nelle Università di Torino, Parigi e Atene ( 1961 - P f f )•
È autore di numerosi studi di storia del marxismi®; di storia della fillosoma
pubblicati sia in italiano sia in lingue stranie®. 11 suo contributo aJli
studi filosofici è principalmente rivolto ad alè
e non ideologica della storia del marxismo e 1pali
convincente del pensiero greco classn o.

Luigi T ed esch i (1954) laureato in giurisprudenza cojMM|iljBa»M|g4osH'liiBI


del d iritto su Max Stirner, svolge la professione
conti e consulenza aziendale. Con Costanzo Preve ha 21i( 3
il libro “Alla ricerca della speranza perduta”, dialogo
sulle problem atiche chBIm B mjremjM
— o e nel 2013 “Lineam enti per una nuova
€ 30,00 filosofia della storia". 1 la aia he
ISBN 9 7 8 - 8 8 - 6 3 3 6 - 2 3 8 - 1
pubblicato un libro in te rv ^ P ''“D o ^ [
va la finanza-’” con G iorgio VrmMgg
direttore del periodico “La Fina
I suoi interessi principali, of?
alla filosofia, sono nel campo
7 88863 362381 dell’economià e della finanza.

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