Sei sulla pagina 1di 3

Autrice: Kassia St Clair

Titolo: The Secret Lives of Color

Sintesi: In una curata e attraente veste grafica, una selezione di settantacinque tra i
colori più insoliti, con le loro storie bizzarre e i loro intrecci con singolari momenti
storici, militari e politici, con le avventure delle civiltà e dei costumi, gli sviluppi
della scienza e dell’arte, i capricci della moda e della natura.

Il libro nasce da una rubrica tenuta dall’autrice per “Elle Decoration,” e si mantiene
sempre su un gradevole tono e livello giornalistico. È molto lontano da un saggio
divulgativo o teorico sui colori (per esempio Storia dei colori di Manlio Brusatin o i
libri di Pastoreau), pur essendo basato su ricerche accurate e contenendo occasionali
ma puntuali accenni alla base fisiologica, psico-sociologica e culturale del fenomeno
della percezione dei colori, oltre che al loro uso nella storia dell’arte (e della
letteratura) e alle associazioni che evocano o hanno evocato. Sempre leggero senza
essere banale, è un ricco collage di citazioni (da Renoir, Newton, Plinio il Vecchio,
Goethe, Melville, Turner, Ruskin), aneddoti e pittoresche leggende che si
susseguono in un turbinio fantasmagorico senza andare troppo in profondità, e senza
preoccuparsi troppo del rigore (non sempre si parla solo del colore in sé, ma spesso
anche del materiale da cui nasce), conformemente alla matrice di rubrica
giornalistica, con accenni frammentari ma suggestivi a questioni complesse, che non
si dilungano e non annoiano. Con la sua invitante veste grafica, si rivolge a un
pubblico vasto e generico, non limitato agli appassionati di storia dell’arte o della
moda, ed è anche riuscito come libro di curiosità “erudite” o strenna.

Contenuto: Nella Prefazione l’autrice spiega di essersi appassionata all’argomento


durante le ricerche sulla moda alla fine del Settecento, imbattendosi in tinte
sconosciute e in descrizioni vaghe e cominciando a interrogarsi sulla storia dei colori.
Le venne quindi affidata una rubrica su “Elle Decoration” e poté così compiere
ricerche sul tema, passando da toni banali come l’arancione a sfumature esoteriche
quali l’eliotropio e l’isabellino, che costituiranno il germe e la base del presente libro.

Nell’Introduzione, c’è una breve esposizione del meccanismo fisico della visione dei
colori: gli oggetti assorbono diverse lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico,
respingendo le altre, che sono quelle che vediamo. Il paradosso è dunque che ad
apparire è proprio il colore che l’oggetto non “possiede” ma respinge. L’autrice
illustra quindi rapidamente il viaggio dei colori fino al cervello attraverso la retina e i
coni fotorecettori, accennando di sfuggita al dibattito settecentesco sull’esistenza dei
colori nel mondo reale o sul loro essere un mero costrutto mentale, che partito dagli
empiristi interessò poi anche Kant. Vengono narrati anche gli esperimenti di Newton
sul colore e la scoperta del bianco come somma di colori, fino allora considerata
eresia, e spiegato perché la somma di luci colorate crei il bianco, mentre la
mescolanza di pigmenti colorati dia vita al nero. Segue una breve storia dei pigmenti
per dipingere, i più antichi dei quali risalgono al Paleolitico, 350.000 anni prima di
Cristo, con l’eterna ricerca dei colori più brillanti nonostante i costi spesso proibitivi,
per esempio del blu oltremare, e la laboriosa preparazione. C’è quindi un accenno alle
ambiguità della classificazione descrittiva (a parte i rarissimi esempi concreti) vigente
prima dell’avvento del sistema Pantone, una rapida panoramica sul giudizio morale
sul colore nella storia culturale dell’Occidente, in cui fu spesso visto nell’ottica del
peccato e della lussuriosa volgarità, da Melville a Le Corbusier, e accenni al rapporto
tra gerarchia sociale e colore nelle varie culture. Si fa infine notare come la
distinzione stessa e suddivisione dei colori vari da cultura a cultura e da linguaggio a
linguaggio.

Il corpo principale del testo è però formato naturalmente dalla rassegna dei 75 colori
scelti dall’autrice, ed è difficilmente riassumibile. Una fantasmagoria di colori e
aneddoti che spaziano dalla preistoria e dall’antichità al medioevo e ai giorni nostri,
seguendo lo spettro dal bianco di piombo al nero di pece, passando per le più bizzarre
sfumature di giallo, rosa, arancione, rosso, verde, blu e marrone.

Si comincia dal bianco (di piombo o biacca) che, tradizionalmente associato alla
purezza e al divino, può ispirare tanto venerazione che terrore (come in Moby Dick).
Ottenuto agevolmente fin dall’antichità dal bianco di piombo, facilmente reperibile
ma tossico (eppure usato per secoli nei trucchi femminili, nonostante le morti per il
suo abuso anche di donne celebri come Maria, duchessa di Coventry, nel settecento),
poi sostituito dal bianco di zinco prima e dal bianco di titanio nel novecento, il bianco
è storicamente legato anche al potere e la denaro, data la difficoltà di ottenere vesti
perfettamente bianche e soprattutto di tenerle pulite fino a tempi relativamente
recenti.

Per parlare dell’avorio, si parte invece dal ritrovamento da parte di un contadino, nel
1831, di 78 pezzi da scacchi vecchi di settecento anni nelle Ebridi Esterne, ciascuno
dei quali costituisce uno squisito esempio di scultura romanica (divenuti poi modelli
per gli scacchi viventi del film di Harry Potter). Ricavato da trichechi, narvali ed
elefanti, l’avorio ebbe successo come colore soprattutto associato ai matrimoni grazie
alle nozze della regina Vittoria nel 1840.
L’argento, associato a un futuro di viaggi intergalattici (i vestiti di molta
fantascienza) e a un passato mitico (con le sue proprietà magiche contro lupi mannari,
vampiri e veleni), viene invece introdotto con l’aneddoto sulla scoperta del Cerro
Rico di Potosì, in Bolivia, da cui pare fosse scorso un rivolo d’argento quando un
povero viandante vi accese un fuoco per riscaldarsi nella notte; il rivolo diventò un
fiume che riempì le casse dei sovrani spagnoli, ma l’avvelenamento da mercurio
trasformò agli occhi degli indigeni il Cerro Rico nella “Montagna che mangia gli
uomini.”

A quanto si racconta, l’isabellino, o giallo lionato, deve il suo nome a Isabella Clara
Eugenia, regnante sui Paesi Bassi spagnoli. Quando le forze del marito Alberto VII
cinsero la città di Ostenda, Isabella, convinta che l’assedio sarebbe stato fulmineo,
disse che non si sarebbe cambiata la biancheria intima finché la città non fosse
caduta. (Il colore ebbe un successo fugace nella moda, ma permane nella zoologia.)

Il blu elettrico, provocato in natura dalla ionizzazione dell’aria, divenne di moda


verso la fine dell’Ottocento, proprio mentre Edison tentava di addomesticare
l’elettricità, e ha sempre simboleggiato la modernità (fino a Minority Report, Matrix e
Inception), ma è anche il colore che si sprigionò nel cielo con la catastrofe di
Chernobyl.

Il malva come lo conosciamo nacque invece per caso dalla ricerca di una cura per la
malaria. William Perkin stava infatti tentando di creare un chinino sintetico per
abbassare i costi del trattamento della malattia, quando si imbatté in una colorazione
resistente al lavaggio, di cui intuì l’enorme potenziale commerciale, e le diede il
nome della pianta dai toni simili. A contribuire in modo determinante alla diffusione
di questa colorazione sintetica fu l’apprezzamento della stravagante moglie di
Napoleone III, convinta che si abbinasse perfettamente alla sfumatura dei suoi occhi,
ma passò rapidamente di moda (“Mai fidarsi di una donna che veste color malva,”
avvertiva Oscar Wilde qualche decennio dopo).

L’eliotropio, anch’esso sintetico, godette di grande fortuna nella seconda metà


dell’Ottocento per la straordinaria brillantezza e perché il fiore della pianta da cui
traeva il nome era simbolo di devozione femminile, anche se nel regno
dell’immaginazione letteraria venne spesso associato ad antieroine immorali (la
moglie del Marito ideale).

Potrebbero piacerti anche