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FRATELLANZA

Con il patrocinio
dell'Higher Committee of Human Fraternity
COLLANA

ACCÈNTI

L’accento pone in rilievo una sillaba di cui si compone la parola e ne aumenta


l’intensità di pronuncia.

La Civiltà Cattolica dà questo nome a una collana che raccoglie in modo


tematico la propria riflessione – ininterrotta sin dal 1850 – ponendo l’accento
su un tema di attualità o di particolare valore ispirativo.

L’accento cade su una parola chiave proponendo oggi riflessioni del passato,
creando connessioni e svelando motivazioni lontane. La nostra speranza:
riproporre testi da leggere col senno di poi per capire meglio il presente.

www.laciviltacattolica.it
© 2020 La Civiltà Cattolica, Roma
I edizione - gennaio 2020
SOMMARIO

1 PREFAZIONE
Card. Miguel Ángel Ayuso

4 PRESENTAZIONE
Antonio Spadaro S.I.

12 FRATELLANZA: LA SFIDA ALL’APOCALISSE


Antonio Spadaro S.I.

FRATELLI NELLA BIBBIA

29 LA FRATELLANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO


Saverio Corradino S.I.

41 FIGLI DELL’UNICO PADRE: IL NUOVO TESTAMENTO


Saverio Corradino S.I.

IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

52 EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE


Antonio Spadaro S.I.

67 ABU DHABI, «SENTINELLE DI FRATERNITÀ NELLA NOTTE»


Antonio Spadaro S.I.

78 MAROCCO, «LA CHIESA SI FA COLLOQUIO»


Antonio Spadaro S.I.
SULLA FRATELLANZA UMANA

90 UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI


Felix Körner S.I.

105 LA RICEZIONE DEL DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA


Laurent Basanese S.I.

115 LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO


Damian Howard S.I.

129 LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO DI PAPA FRANCESCO


Diego Fares S.I.

142 LA TEOLOGIA NEL CONTESTO DEL MEDITERRANEO


Pino Di Luccio S.I. - Francisco Ramírez Fueyo S.I.

153 «LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ»


José Luis Narvaja S.I.

DOCUMENTI

160 MESSAGGIO NATALIZIO DI PAPA PAOLO VI SULLA


FRATELLANZA FRA GLI UOMINI
22 dicembre 1964

167 DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AI PARTECIPANTI ALLA


CONFERENZA INTERNAZIONALE PER LA PACE
Al-Azhar Conference Centre, Il Cairo, 28 aprile 2017
173 DISCORSO DEL GRANDE IMAM AHMED AL-TAYYEB
ALL’INCONTRO INTERRELIGIOSO DI ABU DHABI
Founder’s Memorial, 4 febbraio 2019

180 DISCORSO DI PAPA FRANCESCO ALL’INCONTRO


INTERRELIGIOSO DI ABU DHABI
Founder’s Memorial, 4 febbraio 2019

188 DOCUMENTO SULLA «FRATELLANZA UMANA PER LA PACE


MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE»
Founder’s Memorial, 4 febbraio 2019

197 DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AL POPOLO E ALLE AUTORITÀ


DEL MAROCCO
Esplanade de la Tours Hassan, Rabat, 30 marzo 2019

TESTIMONIANZE

203 CONGRESSO EBRAICO MONDIALE


Ronald S. Lauder

208 VALORI CONDIVISI E MISSIONE INTERRELIGIOSA


Adnane Mokrani
212 UNIONE INDUISTA ITALIANA
Svamini Hamsananda Ghiri

218 UNIONE BUDDISTA ITALIANA


Elena Seishin Viviani

224 SIKHI SEWA SOCIETY


Harvinder Singh
PREFAZIONE

Card. Miguel Ángel Ayuso Guixot MCCJ


Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso

Non vi nascondo che non è la prima volta che mi è richiesta


una riflessione sul Documento sulla Fratellanza Umana per la Pace
Mondiale e la Convivenza Comune, siglato il 4 febbraio scorso a Abu
Dhabi, da papa Francesco e dall’imam al-Tayyeb. Eppure, credete-
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mi, sono sempre contento di portare il mio contributo perché dav-
vero il Documento firmato ad Abu Dhabi è stato un momento al-
tamente significativo nel cammino del dialogo interreligioso e non
solo per il dialogo islamo-cristiano. Sono pertanto grato di questa
ulteriore iniziativa della Civiltà Cattolica che ci offre, con questo
numero della collana Accenti, un’ottima occasione per approfondire
la riflessione su tale Documento.
Fin dall’inizio del Suo pontificato papa Francesco ha parlato del-
la necessità di improntare il dialogo al rispetto e all’amicizia. Un
tema che si è reso ancora più visibile e concreto nel Documento di
Abu Dhabi che non è altro che una nuova finestra aperta per dare
orizzonti più approfonditi al cammino di dialogo fra persone di di-
verse religioni, uomini e donne di buona volontà e così proseguire
sulla strada della fratellanza, della pace e della convivenza comune.
Come ha detto il Santo Padre durante la Conferenza Stampa sul
volo di ritorno da Abu Dhabi: «dal punto di vista cattolico il docu-
mento non è andato di un millimetro oltre il Concilio Vaticano II».
Non si può infatti comprendere il documento se non lo si in-
serisce nel cammino ormai di lungo corso delle relazioni interreli-
giose della Chiesa cattolica, che ha trovato espressione ufficiale nel
Concilio Vaticano Secondo.
Con il Concilio l’argine si è progressivamente incrinato e poi si
è rotto: il fiume del dialogo è dilagato con le Dichiarazioni conci-
PREFAZIONE

liari Nostra Aetate sul rapporto tra la Chiesa e i credenti delle altre
religioni e Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, temi e docu-
menti che sono strettamente legati l’uno all’altro, e hanno permesso
a san Giovanni Paolo II di dare vita a incontri come la Giornata
mondiale di preghiera per la pace ad Assisi il 27 ottobre 1986 e a
Benedetto XVI, venticinque anni dopo, di farci vivere nella città di
san Francesco la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace
e la giustizia nel mondo Pellegrini della verità, pellegrini della pace».
Pertanto l’impegno della Chiesa cattolica per il dialogo inter-
religioso che apre le vie della pace e della fraternità, fa parte della
sua missione originaria e affonda le sue radici nell’avvenimento
conciliare.
In tutto il Documento di Abu Dhabi traspare la convinzione
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che tutti insieme si possa e si debba ancora lavorare con coraggio e
fede per recuperare la speranza in un nuovo futuro per l’umanità.
E’ indubbiamente un Documento impegnativo, direi un punto di
non ritorno, che richiede riflessione, studio e che ci impegna nella
sua diffusione.
Il Documento in sé pur essendo nato, come ha ben spiegato il
Santo Padre, da una lunga e attenta riflessione comune in ambito
musulmano e cattolico, non ha nulla che non possa essere condiviso
da altri. Si tratta di un invito concreto alla fratellanza universale che
riguarda ogni uomo e ogni donna.
Non è infatti un caso che il Santo Padre, durante il Suo Viaggio
Apostolico in Thailandia e in Giappone (19-26 novembre 2019),
abbia voluto condividere i temi presenti nella Dichiarazione di Abu
Dhabi e fare riferimento ad essa. Ad esempio, durante la visita in
Thailandia, papa Francesco, regalando al Patriarca buddista una co-
pia della Dichiarazione sulla fratellanza umana, ha auspicato che fra
i fedeli delle due religioni, cristianesimo e buddismo, si lavorasse
insieme a iniziative concrete sulla via della fraternità dicendo che:
«in questo modo contribuiremo alla formazione di una cultura di
compassione, di fraternità e di incontro, tanto qui come in altre
parti del mondo» (Visita al Patriarca Supremo dei Buddisti, Bangkok,
21 novembre 2019). E sulla «cultura della compassione» ha ugual-
mente insistito durante gli incontri in Giappone.
FRATELLANZA

Ecco quindi che il testo della Dichiarazione di Abu Dhabi si va


facendo sempre più strada anche al di là delle relazioni tra cristiani
e musulmani.
Del resto il rapporto tra Occidente e Oriente, non solo in senso
geografico, è necessario e non va trascurato tanto che la stessa Di-
chiarazione sulla Fratellanza umana deve essere: «un simbolo dell’ab-
braccio tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud e tra tutti coloro
che credono che Dio ci abbia creati per conoscerci, per cooperare
tra di noi e per vivere come fratelli che si amano» (Documento sulla
Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune,
Abu Dhabi 4 febbraio 2019).

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FRATELLANZA

PRESENTAZIONE

«Oggi la fratellanza s’impone». È il 22 dicembre 1964. Nel radio-


messaggio di s. Paolo VI si avverte tutta l’attesa non solo per il Santo
Natale imminente, ma anche per un anno – il 1965 – che in effetti
mostrerà a livello globale tutti risvolti della tensione tra il desiderio
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di pace e di fratellanza mondiale e la tirannia della logica della guer-
ra e delle contrapposizioni ideologiche. Sarà l’anno, tra le altre cose,
dell’escalation della guerra in Vietnam, ma anche della conclusione
del Concilio Vaticano II, condotto in porto con grande perseveranza
proprio dal Santo Padre. Il quale Pontefice diceva anche in quel mes-
saggio che gli ostacoli che si contrappongono alla fratellanza umana
sono il risorgente nazionalismo, il razzismo, il militarismo, il classismo
e lo spirito di partito e di fazione, «che oppone ideologie, metodi, in-
teressi, organizzazioni nell›intero tessuto stesso delle varie comunità».
Sono passati più di 50 anni, eppure queste espressioni e le preoc-
cupazioni che incarnano non appaiano affatto anacronistiche. Poi
il Papa prova a rispondere a una domanda collettiva, senza tempo:
«La religione è motivo di divisione fra gli uomini?». E Paolo VI
risponde: «Oh, sì», se risulta – si sta riferendo «specialmente» alla re-
ligione cattolica – «così dogmatica, così esigente, così qualificante»,
da impedire «una facile conversazione e una spontanea intesa fra la
gente». La tensione per la fratellanza umana e il richiamo a un ruo-
lo positivo delle religioni è una costante nel magistero di s. Paolo
VI, tanto che la ritroviamo anche nel Messaggio per Giornata della
Pace del gennaio 1971.
Oggi quella stessa tensione e quel medesimo richiamo risuonano,
in altri termini e tempi, nel magistero di papa Francesco. Non si evo-
ca la fratellanza come un’aspirazione astratta e consolatoria, se non
PRESENTAZIONE

addirittura minacciosa per l’identità e la dottrina cristiana – come


alcuni tendono a dipingerla – ma come fattivo e praticabile criterio di
convivenza, e quindi criterio politico in senso alto, che sgorga dalla
storia e dalla consapevolezza comune dei medesimi pericoli all’oriz-
zonte; un valore che si misura sulla quotidianità dell’incontro, delle
mense condivise, delle strade e piazze abitate insieme, dei figli ai quali
regalare un futuro, e non sulle idee e sulle logiche di potere.

***

Tutto questo è stato sancito il 4 febbraio 2019 nel Documento


sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune,
firmato ad Abu Dhabi dal Grande imam di al-Azhar, al-Tayyeb, e
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da papa Francesco.
Il testo rappresenta un passo molto importante e irrituale nel
dialogo tra cristiani e musulmani, e simbolicamente, tra tutte le
religioni. Di fronte a un’umanità ferita e divisa, i due leader reli-
giosi firmatari mostrano che non è un’utopia promuovere la cultura
dell’incontro e il rispetto reciproco al fine di sbarrare la strada a
quanti soffiano sul fuoco dello scontro di civiltà.
In quell’occasione il Pontefice spiegò che «il punto di partenza è
riconoscere che Dio è all’origine dell’unica famiglia umana […]. Essa
ci dice che tutti abbiamo uguale dignità e che nessuno può essere
padrone o schiavo degli altri». A quel punto, facendo un balzo aldilà
del principio di reciprocità che a lungo ha connotato il rapporto tra le
religioni, il Papa ha sottolineato che «se crediamo nell’esistenza della
famiglia umana, ne consegue che essa […] domanda il coraggio dell’al-
terità, che comporta il riconoscimento pieno dell’altro e della sua liber-
tà, e il conseguente impegno a spendermi perché i suoi diritti fonda-
mentali siano affermati sempre, ovunque e da chiunque. Perché senza
libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi».
Infine, con un’espressione altrettanto forte di quella usata da s.
Paolo VI in quel Radiomessaggio del 1965, Francesco esprime così
l’urgenza della fratellanza e di un ruolo positivo delle religioni: «Non
c’è alternativa: o costruiremo insieme l’avvenire o non ci sarà futuro».
Nella stessa circostanza, il 4 febbraio 2019 il Grande imam al-
Tayyeb rivolgendosi al «fratello e amico caro, Santo Padre Papa Fran-
FRATELLANZA

cesco» mostrava con un’immagine della quotidianità, che possiamo


tutti comprendere, il fondamento di questo dialogo fraterno possi-
bile: «Il Documento di Fratellanza che celebriamo – disse al-Tayyeb
nel suo discorso – è un documento che è nato intorno a un tavolo, un
tavolo al quale sono stato ospite del mio fratello e amico Francesco,
a casa sua, quando uno dei giovani presenti ha lanciato questa idea».
Nella stessa immagine, possiamo ritrovare anche una proiezione
concreta di quel versetto del profeta Gioele tanto caro al Papa: l’in-
contro, intorno alla mensa comune, di due vecchi che sognano e la
profezia di un giovane.
Quello che stupì il Grande imam, come egli stesso ha voluto ri-
cordare, «è che Sua Santità e i suoi pensieri erano esattamente i miei
pensieri, le nostre preoccupazioni erano uguali».
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Per al-Tayyeb quel Documento è «una Costituzione, una
Carta di principi per la vostra vita […] perché […] è un’estensio-
ne della Costituzione dell’Islam, è un’estensione delle Beatitudini
del Vangelo».
Inserendoci dunque nel solco tracciato da quel Documento,
inatteso dagli osservatori e irrituale nella forma, e cercando di in-
terpretare lo spirito di quegli eventi e gli sviluppi che possono avere,
abbiamo raccolto qui sia i testi essenziali legati al Documento di
Abu Dhabi, sia i saggi pubblicati dalla nostra rivista che possano
aiutare a leggerlo più in profondità.

***

Iniziamo il nostro itinerario con una preziosa Prefazione del cardi-


nale Miguel Ángel Ayuso Guixot, presidente del Pontificio consiglio
per il Dialogo interreligioso. Il Cardinale inserisce il Documento sul-
la Fratellanza nel cammino delle relazioni interreligiose della Chiesa
cattolica, che ha trovato espressione ufficiale nel Concilio Vaticano II.
E afferma che esso, pur essendo nato da una lunga e attenta riflessio-
ne comune in ambito musulmano e cattolico, «non ha nulla che non
possa essere condiviso da altri. Si tratta di un invito concreto alla fra-
tellanza universale che riguarda ogni uomo e ogni donna».
Il nostro percorso prosegue con la dichiarazione di una prospettiva
chiara: la fratellanza è oggi la vera sfida all’apocalisse. La fratellanza
PRESENTAZIONE

non è solamente un dato meramente emotivo o sentimentale. Invece è


un forte messaggio dal valore anche politico e porta direttamente a ri-
flettere sul significato della «cittadinanza»: tutti siamo fratelli, e quindi
tutti siamo cittadini con uguali diritti e doveri, sotto la cui ombra
tutti godono della giustizia. Parlare di «cittadinanza» allontana sia gli
spettri di una fine accelerata sia le soluzioni politiche posticce pur di
evitare il peggio. Scompare, infatti, l’idea di «minoranza», che porta
con sé i semi del tribalismo e dell’ostilità, che vede nel volto dell’altro
la maschera del nemico. L’approccio di Francesco è sovversivo rispetto
alle teologie politiche apocalittiche che si vanno diffondendo sia nel
mondo islamico sia in quello cristiano. E non solo.
A seguire presentiamo il tema della fratellanza dal punto di vista
biblico: Antico e Nuovo Testamento. I due saggi di Saverio Corradi-
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no ci mostrano come in molti i passi della Scrittura venga sviluppato il
tema della fratellanza. Nel Nuovo Testamento il tema dei fratelli, pre-
sente anche negli altri evangelisti, è trattato a fondo da Luca e risalta
in diversi racconti propri del suo Vangelo, come la parabola del Padre
misericordioso, l’episodio di Marta e Maria, la parabola del fariseo e
del pubblicano, e nella fratellanza ideale dei due malfattori in croce.
La seconda sezione raccoglie le cronache di tre «viaggi della fra-
tellanza» compiuti da papa Francesco a cavallo della firma del Docu-
mento di Abu Dhabi, tre viaggi sulla frontiera tra culture e religioni,
tra il Mediterraneo e il Medio Oriente. Il primo, in Egitto, un viaggio
brevissimo ma drammatico, terapeutico e profetico, è nato in risposta
all’invito fatto dai protagonisti della vita politica e religiosa del Pa-
ese, a volte in tensione tra loro. Sono stati il coraggio della profezia
e «l’estremismo della carità» a gettare un seme di futuro. Poi, trovia-
mo proprio la cronaca del viaggio apostolico di papa Francesco negli
Emirati Arabi Uniti, ad Abu Dhabi. L’occasione è stata il «Convegno
Internazionale sulla Fratellanza», promosso dal Consiglio islamico de-
gli anziani. È in quella circostanza e in quel contesto che il Papa e il
Grande imam hanno firmato insieme il Documento «sulla fratellanza
umana». Infine, il viaggio apostolico di papa Francesco in Marocco.
Nelle parole di accoglienza del re del Marocco, Mohammed VI, nel
quale egli ha sottolineato «la fraternità imparata dai figli di Abramo»,
c’è la conferma che il seme gettato ad Abu Dhabi già germogliava. In
Marocco è emerso anche il ruolo della Chiesa, di tutti i cristiani, come
FRATELLANZA

«piccola quantità» di «lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno».


Le cronache di viaggio sono state scritte a presa diretta, man mano
che gli eventi si sono succeduti.
Quindi abbiamo cercato di raccogliere alcuni contributi capaci
di offrire indicazioni di lettura di ciò che è accaduto il 4 febbraio
2019 e del Documento firmato.
Felix Körner ce ne offre una lettura storico-contestuale e spiega
in che modo integri le formulazioni del Concilio Vaticano II e le
richieste dei Papi degli ultimi 55 anni sul dialogo interreligioso.
Poi, eccezionalmente, due articoli inediti. Laurent Basanese sot-
tolinea due elementi importanti del Documento. Innanzitutto, si
tratta di un’esortazione da mettere in pratica, in forma di leggi e ri-
forme reali, in particolare dei sistemi educativi a livello mondiale. In
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secondo luogo, non siamo di fronte a un’ennesima «dichiarazione
islamo-cristiana»: essa è indirizzata a tutti, ben oltre le appartenenze
religiose. Eppure, al contempo, il Documento invita a rinnovare in
modo concreto il discorso e lo stile degli incontri interreligiosi. E
qui Damian Howard si inserisce proponendo alcune osservazioni
che scaturiscono dall’esperienza «sul campo» dello specifico dialogo
islamo-cristiano: su ciò che in esso, nella pratica, potrebbe costitui-
re un aiuto efficace per migliorare il dialogo in corso, sulle sfide che
affronta e sugli ostacoli che si frappongono.
Diego Fares descrive, su quattro diversi livelli di riflessione – fa-
miliare, evangelico, filosofico ed economico-sociale – in che senso
nell’itinerario di papa Francesco la fratellanza, l’essere fratelli, sia un
valore trascendentale e programmatico.
Pino Di Luccio e Francisco Ramírez Fueyo, commentando un
intervento del Papa nel Convegno intitolato «La teologia dopo “Ve-
ritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo», mostrano che il
percorso che ha portato ad Abu Dhabi non è affatto estemporaneo
o naives, ma basato su una precisa e solida «teologia del dialogo».
Infine, ricordiamo come la fratellanza è stata celebrata ed elevata
a valore «laico» in particolare dalla Rivoluzione francese. José Luis
Narvaja spiega, però, perché la Rivoluzione francese non può essere
considerata la realizzazione definitiva degli ideali che proclamò, ma
piuttosto come una tappa di un processo. Proprio papa Francesco ha
PRESENTAZIONE

ricordato la funzione regolatrice esercitata dalla fraternità, in modo


che la libertà e l’uguaglianza non facciano fallire le relazioni umane.
Il volume quindi offre il Documento di Abu Dhabi, ma anche
altri documenti a esso strettamente legati. Il primo è il discorso di
papa Francesco alla Conferenza internazionale per la pace del Cai-
ro il 28 aprile 2017 durante il suo viaggio apostolico in Egitto. A
seguire i due discorsi del Papa e del Grande imam che hanno prece-
duto la firma del Documento il 4 febbraio 2019. Presentiamo, infi-
ne, il discorso che Francesco ha tenuto davanti alle autorità a Rabat
il 30 marzo 2019, durante il suo viaggio apostolico in Marocco. Ma
abbiamo deciso di inserire anche un extra: il radiomessaggio di san
Paolo VI del 22 dicembre 1964 sulla fratellanza umana che abbiamo
citato all’inizio di questa presentazione.
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Il nostro volume si chiude con alcune testimonianze e risonan-
ze per noi di grande valore. Molto importante è il contributo del
Presidente del World Jewish Congress. Così come quella del prof.
Adnane Mokrani, docente presso il Pontificio Istituto di Studi Islami-
ci (Pisai) e presso la Pontificia Università Gregoriana.
Ricordiamo poi che Francesco, durante il suo viaggio in Thai-
landia, ha donato il testo del Documento di Abu Dhabi al Patriarca
buddista; durante il viaggio in Giappone lo ha citato a Hiroshima,
dove l’atomica è stata sganciata su tutta l’umanità con la sua energia
distruttiva apocalittica; e poi anche nel suo discorso davanti al Pri-
mo ministro. Il Documento viaggia verso oriente, verso l’Estremo
oriente. E già sono giunte forti risonanze di sintonia dal mondo
buddista, induista, sikh, che qui riportiamo.
Per questo motivo pubblichiamo qui alcune parole di religioni
dell’Estremo oriente. Esse sono frutto di un incontro di riflessione
tenutosi a Roma il 15 novembre 2019. L’evento è stato organizzato
dall’Ambasciata Argentina presso la Santa Sede, con la sponsorizza-
zione del Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso e in colla-
borazione con l’Istituto di dialogo interreligioso dell’Argentina. Rin-
graziamo l’ambasciatore Rogelio Pfirter per averci donato questi testi.
Nel chiudere questa presentazione ringrazio il dott. Simone Se-
reni con il quale ho lavorato alla selezione dei saggi che compon-
gono il volume. Con lui ho condiviso l’ideazione e la realizzazione
di questo numero degli «Accènti».
FRATELLANZA

Affidiamo queste pagine ai nostri lettori con la speranza che


siano da guida per una comprensione più approfondita e personale
di ciò che è accaduto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019, del Docu-
mento che è stato firmato allora, e della fratellanza come potente
«sfida all’apocalisse».

***

Il presente volume è pubblicato con il patrocinio dell’«Alto Comitato


per la Fratellanza umana».

L’«Alto Comitato per la Fratellanza Umana» è composto da le-


ader religiosi, studiosi dell’educazione e figure del campo della cul-
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tura che si ispirano al Documento e si dedicano a condividere il suo
messaggio di comprensione reciproca e di pace.
Essi agiscono in base alle aspirazioni delineate nel Documento
e si incontrano con i leader religiosi, i capi delle organizzazioni
internazionali e altri in tutto il mondo per sostenere e diffondere i
valori del rispetto reciproco e della coesistenza pacifica. Il Comitato
si occupa anche dell’esecuzione di piani, programmi e iniziative per
assicurare un futuro di pace alle nuove generazioni.
Tra i compiti del Comitato vi sono la supervisione dell’attuazio-
ne del Documento a livello regionale e internazionale e l’organiz-
zazione di incontri internazionali con personalità religiose, leader,
capi di organizzazioni internazionali e altre parti interessate. Oltre
a ciò, il Comitato ha un ruolo fondamentale nella supervisione del-
la Abrahamic Family House ad Abu Dhabi, una delle sue iniziative
iniziali, che incarna il rapporto tra le tre fedi abramitiche e fornisce
una piattaforma per il dialogo, la comprensione e la coesistenza tra
le loro religioni.
Il Comitato è stato costituito il 20 agosto 2019 e si è riunito per
la prima volta l’11 settembre 2019, alle ore 8.30, a Casa Santa Marta.
Con il progredire delle attività internazionali del Comitato, i
suoi membri includeranno col tempo leader di altre fedi, confes-
sioni e credenze. Esso aspira ad affrontare le sfide complesse che le
comunità di tutte le fedi devono fronteggiare, con un approccio
dettato da uno stile di apertura, apprendimento e dialogo.
PRESENTAZIONE

Varie le iniziative e gli incontri che hanno visto il Comitato pro-


tagonista. Di esse si dà conto in dettaglio sul sito forhumanfraternity.org
In particolare, ricordiamo che il Comitato ha incontrato a New York
il 4 dicembre 2019 il segretario generale delle Nazioni Unite António
Guterres, al quale ha consegnato un messaggio di papa Francesco e
del Grande imam di al-Azhar, in cui si propone che il 4 febbraio sia di-
chiarato Giornata mondiale della fratellanza umana. Si chiede inoltre
alle Nazioni Unite di partecipare, assieme alla Santa Sede e alla pre-
stigiosa università sunnita del Cairo, all’organizzazione di un Summit
mondiale sulla Fratellanza umana, in un prossimo futuro. Guterres
ha manifestato apprezzamento e disponibilità per l’iniziativa, sotto-
lineando l’importanza di lavorare a servizio dell’umanità intera, e ha
designato Adama Dieng – suo Special adviser for Hate speech and the
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Prevention of genocide – rappresentante delle Nazioni Unite per segui-
re le attività proposte e collaborare con il Comitato.
Il Comitato è attualmente composto da 9 membri. Il Presidente è
S.E. mons. Miguel Ángel Ayuso Guixot MCCJ, presidente del Pon-
tificio consiglio per il Dialogo interreligioso. Il Segretario del Comi-
tato è Mohamed Mahmoud Abdel Salam, giudice ed ex consigliere
del Grande imam al-Tayyeb. La Santa Sede è rappresentata anche da
mons. Yoannis Lahzi Gaid, segretario particolare del Santo Padre.
L’Università al-Azhar vi partecipa anche con il prof. dott. Mo-
hamed Husin Abdelaziz Hassan.
Gli Emirati Arabi Uniti sono rappresentati da S.E. Mohamed
Khalifa al Mubarak, presidente del Abu Dhabi Culture, Yasser Saeed
Abdulla Hareb Almuhairi, scrittore e giornalista, e da Sultan Faisal
al Khalifa Alremeithi, segretario generale dei Muslim Elders.
Il 17 settembre 2019 è stato cooptato il Rabbino anziano M.
Bruce Lustig della Washington Hebrew Congregation. Il 16 novem-
bre anche Irina Bokova, già direttore generale dell’Unesco. Altre
personalità si aggiungeranno successivamente.

Antonio Spadaro S.I.


Direttore de La Civiltà Cattolica
FRATELLANZA

FRATELLANZA:
LA SFIDA ALL’APOCALISSE*

Antonio Spadaro S.I.

Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Da quel giorno


migliaia di berlinesi demolirono quel simbolo che li aveva tenuti
in ostaggio per quasi trent’anni. Quella è una data emblematica
del tramonto dei totalitarismi. Una nuova epoca sembrava sor-
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gere, segnata dalla globalizzazione. Eppure essa ha oggi i tratti
dell’indifferenza e del conflitto, come spesso papa Francesco ri-
pete. A fronte di un muro crollato, nel mondo ne sono sorti tanti
altri1. Il Pontefice, parlando a un gruppo di gesuiti, non ha usato
mezzi termini: «Ci sono muri che separano persino i bambini dai
genitori. Mi viene in mente Erode. E per la droga invece non ci
sono muri che tengano»2 .
Quando Francesco parlò della Chiesa come «ospedale da cam-
po dopo una battaglia», non intendeva usare una bella immagine,
retoricamente efficace. Quel che aveva davanti agli occhi era uno
scenario mondiale da «guerra mondiale a pezzi». La crisi globale
prende varie forme e si esprime in conflitti, dazi, fili spinati, crisi
migratorie, regimi che cadono, nuove alleanze minacciose e vie
commerciali che aprono la strada a ricchezza, ma anche a tensio-
ni. Si può costruire una mappa, peraltro sempre incompleta 3.

* Titolo originale: «Sfida all’apocalisse».


1. Cfr G. Salvini, «Aumentano i muri tra i popoli», in Civ. Catt. 2018 I 364-
371.
2. Francesco, «“Il nostro piccolo sentiero”. Il Pontefice incontra i gesuiti in
Thailandia e Giappone», ivi 2019 IV 419.
3. La prima volta che Francesco usò l’espressione «ospedale da campo» riferita
alla Chiesa fu durante l’intervista che gli feci a inizio pontificato: A. Spadaro,
«Intervista a Papa Francesco», ivi 2013 III 449-477. Sulla visione del mondo di
Francesco, cfr Id., Il nuovo mondo di Francesco. Come il Vaticano sta cambiando la
politica globale, Venezia, Marsilio, 2018.

© La Civiltà Cattolica 2020 I 11-26 | 4069 (4/18 gennaio 2020)


LA SFIDA ALL’APOCALISSE

Frenare la fine: l’Impero o la Chiesa?

Quale il senso di questa storia che viviamo? Alcuni anni fa Mas-


simo Cacciari, in un volume dal titolo Il potere che frena, indicò una
strada che riteniamo interessante da percorrere. Aveva proposto una
riflessione di teologia politica alla luce della Seconda lettera ai Tes-
salonicesi (2,6-7). Scrisse dell’enigmatica figura del katechon, cioè
qualcosa o qualcuno che «trattiene» e «contiene», arrestando o fre-
nando l’assalto dell’Anticristo4. In qualche modo la sua funzione è
paragonabile a quella del fratello di Prometeo, Epimeteo: tramonta-
to il sogno di progresso del quale si era fatto carico Prometeo, tocca
a suo fratello governare le sorti degli umani, impedendo l’apertura
dei vasi in cui sono contenuti i mali del mondo.
I Padri della Chiesa cercarono di individuare di chi parlasse 13
Pao­lo e che cosa potesse frenare la fine del mondo. Fino a un
certo punto, l’interpretazione prevalente fu che il katechon fosse
l’Impero romano, con la sua potestas amministrativa che teneva
unito il mondo. Ma questa funzione non può che pretendere per
sé anche una auctoritas spirituale. Con lo sgretolamento dell’Im-
pero, essa è passata, di fatto, alla Chiesa, che in questo senso è
diventata erede dell’Impero.
Ma oggi viviamo in una dimensione globale che l’Impero ro-
mano non aveva conosciuto. Ecco allora la nostra domanda: qual è
il compito della Chiesa in questo complesso scenario? Sembra che
non si possa sfuggire a una alternativa tra due possibilità. La prima
possibilità: annunciare la fine imminente di questo «mondo» e ac-
celerarne per quanto possibile la conclusione. La seconda possibilità:
essere «muro di contenimento», forza frenante, l’ultima difesa prima
della catastrofe verso cui ci conduce il potere che domina il sistema
della globalizzazione selvaggia, che governa sregolando i rapporti,
garantendo immunità e sicurezza solo al denaro, rendendo arbitra
la guerra. Siamo certi che non esista una terza possibilità? È quel che
cercheremo di indagare.

4. Cfr M. Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano,


Adelphi, 2013.
FRATELLANZA

Il compito della Chiesa davanti all’apocalisse

La Chiesa è ospedale da campo nel senso che guarisce le ferite


di una guerra ormai persa, o intende rinvigorire membra fiaccate
che vogliono riprendere la lotta? C’è chi in maniera militante fa leva
proprio sull’accelerazione, che tende a costruire un ghetto di pochi
«puri» contro gli «altri», cioè i tanti cattivi che dilagano5.
E Francesco? Il suo ministero come romano pontefice vive
dell’utopia di un mondo migliore o della tragedia di una demo-
lizione del mondo da evitare a qualunque costo? La terra per lui è
un pallone bucato a cui dare un calcio perché il male sia debellato
indicando «cieli nuovi e terra nuova»? Oppure è un vaso di coccio
in frantumi che va restaurato pezzo per pezzo a ogni costo con un
14 lento lavoro di «combaciamento» dei pezzi?
Per Francesco, il compito della Chiesa non è quello di adat-
tarsi alle dinamiche del mondo, della politica, della società per
puntellarle e farle sopravvivere alla meno peggio: questo è da lui
giudicato «mondanità». Tantomeno egli intende schierarsi con-
tro il mondo, contro la politica e contro la società. Il Papa non
respinge la realtà in vista di una apocalisse agognata, di una fine
che vinca la malattia del mondo distruggendolo. Non spinge per
portare alle estreme conseguenze la crisi del mondo predican-
do la fine imminente, né trattiene i pezzi di un mondo che sta
crollando cercando alleanze comode, equilibrismi, collateralismi.
Inoltre, non cerca di eliminare il male, perché sa che è impossibile.
Semplicemente esso si sposterebbe e si manifesterebbe altrove, in
altre forme. Cerca invece di neutralizzarlo. Proprio qui sta la dia-
lettica dell’azione bergogliana. E qui sta il nodo per comprendere
quale sia il suo significato. Qui il rovello.

Il ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno

È dunque per questo che, sotto il profilo diplomatico, Francesco si


assume la responsabilità di posizioni rischiose. La tradizionale cautela

5. È la tesi di autori come Rod Dreher che abbiamo discusso in A. Lind,


«Qual è il compito dei cristiani nella società di oggi? “Opzione Benedetto” ed eresia
donatista», in Civ. Catt. 2018 I 105-115.
LA SFIDA ALL’APOCALISSE

diplomatica si sposa con l’esercizio della parresia, fatta di chiarezza e


talvolta di denuncia. Le prese di posizione contro il capitalismo finan-
ziario speculativo, il costante riferimento alla tragedia dei migranti,
«vero nodo politico globale»6, la memoria del «genocidio» armeno, la
ulteriore formalizzazione dei rapporti con la Palestina. Gli echi persi-
stenti che hanno generato sono quelli che provengono da una «voce
che grida nel deserto», per citare Isaia, il profeta biblico. E il Papa della
misericordia non esita a gridare «maledetti», durante una Messa a San-
ta Marta, a coloro che fomentano le guerre e lucrano su di esse.
Francesco si confronta con il nuovo ruolo globale del cattolice-
simo nel contesto odierno. E in questo contesto la sua è e vuole es-
sere essenzialmente una visione spirituale ed evangelica dei rapporti
internazionali. Persino quando parla di diplomazia, come ha fatto
15
in un suo incontro privato il 3 maggio 2018 nell’Accademia eccle-
siastica, afferma una «diplomazia delle ginocchia», cioè radicata e
fondata nella preghiera.
Tutto sta nell’alternativa descritta all’inizio. Se Francesco volesse
trattenere il collasso, non potrebbe che far leva sulla legge, sul po-
tere costituito, sulla mediazione tra Stato e Chiesa, sulle regole che
permettono al sistema di sostenersi, fino al collateralismo. Se volesse
invece accelerare i cieli nuovi e la terra nuova, non avrebbe altra scelta
che lavorare di piccone, di denuncia, di disarticolazione di ciò che tie-
ne in piedi il potere e dunque il mondo così come si va configurando.
Da qui il conflitto delle interpretazioni. Chi attacca Francesco
lo fa perché lo accusa di venire a patti con il «mondo». E d’altra
parte egli piccona l’establishment – sia mondano sia ecclesiastico, il
che poi è lo stesso – e snocciola persino l’elenco delle malattie dalle
quali è affetto. Chi elogia Francesco lo fa perché lo sente sensibile
misericordiosamente alla realtà del mondo in maniera da sospende-
re persino il giudizio. E d’altra parte il Papa dice con veemenza – lo
ha fatto durante la sua visita a Napoli – che la corruzione «spuzza» e
non usa mezze misure nella denuncia.
C’è un criterio profondamente spirituale che non bisogna mai
perdere di vista. È quello che spinge Gesù ad accogliere la pecca-

6. «Papa Francesco incontra “La Civiltà Cattolica” in occasione della


pubblicazione del fascicolo 4000», ivi 2017 I 439-447.
FRATELLANZA

trice e a buttare per aria i banchetti dei commercianti davanti al


tempio. Il criterio è lo stesso Gesù. C’è chi, vedendo i due gesti, li
considera contraddittori perché – per rigorismo o lassismo – non ha
inteso il Vangelo di Cristo.
Occuparsi della politica internazionale di Francesco significa
immergersi in una visione spirituale che si nutre di un profondo
senso della catastrofe possibile e delle forze del male in azione, e
nello stesso tempo di una fiducia unica nel mistero di Dio che porta
ad accettare i piccoli passi, i processi, l’autorità mondana, i colloqui,
le trattative, i tempi lunghi, le mediazioni7.
Ma questa accettazione si fonda sulla coscienza che il mondo non
è diviso tra bene e male, tra i buoni e i cattivi. La scelta non è il
discernimento delle forze (partitiche, politiche, militari…) con cui
16
allearsi e da sostenere per far trionfare il bene. Questa accettazione
della conversazione diplomatica si fonda sulla certezza che non si dà
a questo mondo l’impero del bene. Per questo bisogna dialogare con
tutti. Il potere mondano è definitivamente desacralizzato. Se chi fa il
politico è chiamato a farsi «santo» proprio facendo il politico, operan-
do per il bene comune, d’altra parte nessun potere politico è «sacro».
In tal senso Francesco confida tutto e solo nel futuro escatologi-
co, confida in Dio solo. Ma è proprio questo che lo spinge a mettere
in atto ogni possibile sforzo per puntare sull’«integrazione», su tutto
ciò che – mettendo da parte ogni falsa illusione di «sacro impero»
– porta gli uomini sulla strada del bene, pur in mezzo alle tenta-
zioni di questo mondo. Proprio per questo nessuno è il «cattivo»,
cioè l’incarnazione del demonio. E questo è scandaloso perché lascia
aperta una porta (a volte davvero stretta, ma aperta comunque) an-
che in situazioni politicamente problematiche.

Contro la tentazione di un cattolicesimo tribale

L’energia che lo porta a frenare la caduta del mondo nel baratro


dunque non spinge il Pontefice al compromesso con i poteri. Que-
sto è il punto più delicato del ragionamento, perché a volte la Chiesa
crede che l’unico modo di poter frenare la decadenza sia quello di

7. Cfr Francesco, «“Il nostro piccolo sentiero”...», cit.


LA SFIDA ALL’APOCALISSE

allearsi con un partito politico che ne permetta la sopravvivenza


come agenzia di senso. È stato spesso il dramma della nostra Italia.
E le nostalgie non sono ancora spente. Bergoglio invece non crede
a questo potere del potere. Il sacro non è mai puntello del potere. Il
potere non è mai puntello del sacro.
Il discorso alto proprio del pontificato allora sposa tanto i
temi dell’uguaglianza, della necessità di «terra, casa e lavoro»,
quanto quelli legati alla libertà. Il «relativismo» viene svelato
adesso ancora di più nei suoi aspetti sociali devastanti. L’appello
alla «lotta» contro la dittatura del relativismo tocca il cuore della
dignità umana, che resta indifesa e inerme senza terra, casa e
lavoro. E questo non perché Francesco immagini il paradiso in
terra: il suo non è un utopismo mondano. Ma perché il suo è
17
uno sguardo di fede, che si fonda sul Giudizio finale così come il
Vangelo delle Beatitudini ce lo presenta.
A questo proposito, un ambasciatore ha notato che «il linguag-
gio di Benedetto XVI era quello della modernità occidentale, che
da una parte riconosceva il pluralismo delle visioni del mondo nella
società contemporanea, dall’altra denunciava la “dittatura del rela-
tivismo”. Il linguaggio di Francesco, pur guardando in faccia le
molte sfide della modernità culturale, al contempo considera pre-
valente il processo di polarizzazione sociale ed economico che si
va dipanando su scala globale, con una progressione incalzante e
un’intensità crescente»8.
Cade, a questo punto, la contrapposizione tra laico e cristiano,
intesi come categorie ideologiche, campi semantici e riferimenti
astratti. Lo Spirito è incontenibile. Il pensiero «cristiano» si oppo-
ne di per sé a un pensiero «laico» solo se si è mutato in ideologia.
Ma se esso stesso diventa ideologia non ha più nulla a che fare
con Cristo.
In realtà – ha detto il Papa in Egitto9 – cadono tutte le con-
trapposizioni irrigidite dalla polvere dei tempi. La vera sapienza
è «aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso».

8. P. Ferrara, Il mondo di Francesco. Bergoglio e la politica internazionale,


Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2016, 21.
9. Cfr Francesco, Discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale per
la pace, Il Cairo, 28 aprile 2017.
FRATELLANZA

Non c’è che una sola contrapposizione: o la «civiltà dell’incontro»


o l’«inciviltà dello scontro». E le religioni? «La luce policromatica
delle religioni ha illuminato questa terra». La policromia non con-
trappone i colori mettendoli in antitesi, ma li assume in una visione
non conflittuale. In fondo è questo il grande problema oggi: si vive
molto spesso la diversità in termini conflittuali.
Nel suo discorso per la pubblicazione del fascicolo 4000 de
La Civiltà Cattolica Francesco affermava: «Fate conoscere qual è
il significato della “civiltà” cattolica, ma pure fate conoscere ai
cattolici che Dio è al lavoro anche fuori dai confini della Chie-
sa, in ogni vera “civiltà”, col soffio dello Spirito». E poco prima,
nello stesso discorso, aveva detto che «la cultura viva tende ad
aprire, a integrare, a moltiplicare, a condividere, a dialogare, a
18
dare e a ricevere all’interno di un popolo e con gli altri popoli
con cui entra in rapporto»10.
La cultura per Bergoglio ha valore di verbo più che di sostan-
tivo. Solo i verbi la esprimono bene. In particolare: aprire, integra-
re, moltiplicare, condividere, dialogare, dare e ricevere. Sette verbi
flessibili al passato, presente e futuro. Sette verbi che possono indi-
care o invitare o esprimere un imperativo che muove all’azione11. Il
primo è «aprire».
È lontana dal Papa l’idea di un populismo cattolico o – peg-
gio ancora – un etnicismo cattolico, perché il Dio che lui cerca è
dovunque. È ben lontana qui l’idea di un «tribalismo» che si ap-
propria del libro dei Vangeli o del simbolo stesso della croce. Le
nozioni di radici e di identità non hanno il medesimo contenuto
per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. Le radici etniche,
trionfaliste, arroganti e vendicative sono semplicemente il contra-
rio del cristianesimo.
La terza guerra mondiale non è un destino. Evitarla impli-
ca usare misericordia e significa sottrarsi alle narrazioni fonda-
mentaliste e apocalittiche abbigliate di paludamenti e maschere
religiose. Francesco lancia una sfida all’apocalisse e al pensiero

10. «Papa Francesco incontra “La Civiltà Cattolica” in occasione della


pubblicazione del fascicolo 4000», cit.
11. Ivi.
LA SFIDA ALL’APOCALISSE

di networks politici che sostengono una geopolitica apocalittica


dello scontro finale, fatale e inevitabile. La comunità dei credenti,
della fede ( faith), non è mai la comunità dei combattenti, della
battaglia ( fight).
Occorre fuggire la tentazione trasversale di proiettare la divinità
sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Si svuota così
dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari che pre-
parano all’apocalisse e allo «scontro finale». La sottolineatura della
misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa
esigenza radicalmente cristiana.
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-
narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque,
combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e
19
dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, il Papa non dà
alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando, ad
esempio, ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la
dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra san-
ta» o che costruiscono barriere di filo spinato proprio con la scusa di
frenare l’apocalisse e di porvi un argine fisico e simbolico allo scopo
di ripristinare un «ordine». L’unico filo spinato per il cristiano, in-
fatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo.

San Francesco sul soglio di san Pietro

Francesco giunge, in maniera provocatoriamente evangelica,


a chiamare gli stessi terroristi con un’espressione densa insieme di
condanna e di compassione: «povera gente criminale». Ha usato
questa espressione nell’incontro con i rifugiati e i giovani disabili
presso la chiesa cattolica latina di Betania, il 24 maggio 2014. In
filigrana, vediamo sempre il peccatore – in questo caso il terrori-
sta – come il «figlio prodigo» e mai come una sorta d’incarnazione
diabolica. Fino all’affermazione davvero singolare per cui fermare
l’aggressore ingiusto è sì un diritto dell’umanità, ma è anche po-
stulato come «un diritto dell’aggressore», cioè il diritto «di essere
fermato per non fare del male». In tal modo si vede la realtà da una
prospettiva duplice, che include e non esclude il nemico e il suo
maggior bene.
FRATELLANZA

L’amore tipico del cristiano non è solamente quello per il «prossi-


mo», ma quello per il «nemico». Quando si arriva a guardare l’uomo
che commette l’orrore con una qualche forma di pietas, trionfa in
maniera umanamente inspiegabile – e anche «scandalosa» – quella
che invece è proprio la forza intima del Vangelo di Cristo: l’amore
per il nemico. Questo è il trionfo della misericordia.
Senza questo, il Vangelo rischierebbe di diventare un discorso
edificante, ma non certo rivoluzionario. La scelta di Francesco è
quella di Cristo davanti al Grande Inquisitore, così come ce la pre-
senta Dostoevskij nei Fratelli Karamazov: un bacio sulle labbra di
chi gli annuncia la condanna a morte; un bacio non fa mutare idea,
ma fa tremare le labbra e «brucia il cuore».
Il Papa oppone una forte resistenza alla fascinazione per il cat-
20
tolicesimo inteso come garanzia politica, «ultimo impero», ere-
de di gloriose vestigia, pilastro di argine al declino, davanti alla
crisi delle leadership globali nel mondo occidentale. Per dirlo in
termini semplificati, egli sta sottraendo il cristianesimo alla ten-
tazione di rimanere erede dell’Impero romano. Quell’eredità che
mischia potestas politica e auctoritas spirituale che abbiamo citato
avviando il nostro ragionamento. Egli spoglia il potere spirituale
dei suoi panni temporali, delle sue corazze, delle sue armature
ossidate e arrugginite. Il suo abito bianco – e senza stemmi – ri-
porta il cristianesimo a Cristo. Non indossa più il rosso, colore
tradizionalmente imperiale ed espressione della imitatio imperii
del vescovo di Roma, di cui il Constitutum Constantini costituisce
la giustificazione e la sanzione giuridica.
Non illudiamoci: l’intreccio tra sacerdotium e imperium non è
facile da dipanare. Forse non sappiamo nemmeno quali saranno gli
esiti di questo processo. Bisogna chiarirne le condizioni e le possi-
bilità. Certo è che il Papa non incorona simbolicamente più alcun
«re» come defensor fidei. Sì, egli è un leader religioso di rilevanza
mondiale, ma anche un leader dotato di un soft power in grado di
proporre una visione del mondo capace di futuro. 
In questo senso san Pietro è san Francesco. Per alcuni questo è
l’ossimoro, lo «scandalo», cioè la pietra d’inciampo nella lettura del
pontificato. L’aureola del santo di Assisi, povero cristiano, coincide
con quella del vicario di Cristo. E abbandona per sempre il profilo
LA SFIDA ALL’APOCALISSE

dell’imperatore romano. Ma pure sfugge al pericolo di identificarsi


con don Chisciotte della Mancia che lotta contro i mulini a vento
dei nostri giorni. E rifugge dal compito di psicopompo delle anime
belle rimaste nell’ovile.
Semmai forse torna in mente Dante, che nel De Monarchia col-
lega l’auctoritas spirituale del Papa direttamente con la paternitas.
Commenta Massimo Cacciari proprio a questo proposito: «Un
“primato”, cioè, che si esprime nel potere della Chiesa di farsi radi-
calmente umile, povera, evangelica. Che significa apparire al mon-
do nuda, impotente, crocefissa. Verbum abbreviatum, insomma: è
Francesco la salvezza della Chiesa. E solo innalzando la croce di
Francesco la Chiesa potrà custodire anche la propria paternitas nei
confronti dell’autorità politica»12.
21
Solo una Chiesa che, confessando apertamente di non essere la
città di Dio in atto, rigetti ogni compromesso nella gestione del
potere politico potrà ancora essere ascoltata e valere nel «secolo». In
questo senso ha ragione Paul Elie che sul New York Times ha pub-
blicato un pezzo dal titolo «Francis, the Anti-Strongman». Scriveva:
«Oggi è l’epoca degli uomini forti: Xi Jinping in Cina, Vladimir
Putin in Russia, Viktor Orban in Ungheria e Donald Trump negli
Stati Uniti disdegnano controlli e contrappesi, la stampa indipen-
dente e altre forze che potrebbero contrastare il loro potere. In que-
ste circostanze, papa Francesco è emerso come anti-uomo forte. La
sua scelta di nome evoca Francesco d’Assisi, umile santo patrono dei
poveri»13. L’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, tutta centrata
sulla santità e pubblicata a cinque anni esatti dalla sua elezione, è per
il Papa il cuore della sua azione di «riforma» della Chiesa, irriduci-
bile alle scelte organizzative sulla Curia.
Francesco vuole ridonare a Dio il suo vero potere, che è quel-
lo dell’integrazione. «Integrare» significa «inserire le differenze
di epoche, nazioni, stili, visioni, nel processo di costruzione». Il
Papa disse chiaramente in Corea ai vescovi di tutto il continente
asiatico che l’identità non è fatta solo di contenuti dati da pre-

12. Cfr M. Cacciari, Il potere che frena..., cit.


13. P. Elie, «Francis, the Anti-Strongman», in The New York Times, 24 marzo
2018.
FRATELLANZA

servare, non è fatta di un passato da conservare gelosamente14. Il


tempo verbale dell’identità per il Papa non è il passato, che genera
le «tentazioni identitarie», ma il futuro. L’ identità rivela non solo
chi siamo, ma soprattutto che cosa speriamo. L’identità non è data da
chi eri, ma da ciò che speri.
E su questo si basa anche una visione della Chiesa fondata sulla
speranza e sul futuro escatologico, che è ultra-mondano. Francesco
lo aveva ricordato ai vescovi degli Stati Uniti d’America: occorre
stare attenti a non cadere nella tentazione di scambiare «la potenza
della forza con la forza dell’impotenza, attraverso la quale Dio ci ha
redenti». Mai bisogna fare «della Croce un vessillo di lotte mon-
dane». Bergoglio intende liberare i pastori dal sentirsi in guerra in
difesa di un ordine la cui caduta porterebbe all’apocalisse del catto-
22
licesimo e magari del mondo. Il Papa non vuole vescovi «sgomenti»,
come presi da una sorta di «complesso di Masada», per cui la Chiesa
si sente accerchiata da una società che deve combattere. Anche la
difesa del cosiddetto «Occidente cristiano» è in realtà una perversio-
ne strumentale della morale cristiana. In alcuni casi si arriva persino
a giustificare interessi geopolitici o economici ammantandoli della
narrativa della difesa dei cristiani perseguitati.

Il primato dell’autorità spirituale e la fine della «cristianità»

Francesco rivela quindi la sua convinzione, che egli si forma anche


leggendo il teologo gesuita Erich Przywara: siamo alla fine dell’epo-
ca costantiniana e dell’esperimento di Carlo Magno. La «cristianità»,
cioè quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame
organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa, si va concludendo.
Przywara – più volte citato dal Pontefice – era convinto che l’Europa
fosse nata e cresciuta in rapporto e in contrapposizione con il Sacrum
imperium, che avesse le proprie radici nel tentativo di Carlo Magno
di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario. La fine della
cristianità, tuttavia, non significa affatto il tramonto dell’Occidente,
ma piuttosto porta in sé una risorsa teologica decisiva in quanto la
missione di Carlo Magno è alla fine. Cristo stesso riprende l’opera di

14. Cfr Francesco, Discorso ai vescovi dell’Asia, 17 agosto 2014.


LA SFIDA ALL’APOCALISSE

conversione. Cade il muro che quasi fino al giorno d’oggi ha impedito


al Vangelo di raggiungere gli strati più profondi della coscienza, di
penetrare fino al centro dell’anima15.
La fine del costantinismo è «la possibilità per la Chiesa di ripren-
dere i cammini evangelici avviati da Francesco d’Assisi, Ignazio di
Loyola e Teresa di Lisieux, rompendo la barriera che la separava dai
poveri ai quali il cristianesimo – nella congiuntura teologica politi-
ca delle varie forme della cristianità – è sempre apparsa come l’ideo-
logia – e la garanzia – politica dei ceti dominanti»16. E questa stessa
visione porta il Pontefice ad amare le Chiese dello «zero virgola»,
cioè quelle che hanno percentuali molto basse di cattolici rispetto
alla popolazione dei Paesi in cui si trovano. Esse però sono semi per
la Chiesa universale. Da qui la geografia della Santa Sede – inclusa
23
quella del Collegio cardinalizio e quella dei viaggi apostolici – che
è una geografia pastorale. Si pone, dunque, una netta differenza tra
lo schema teopolitico imperiale di eredità «costantiniana», che vuole
instaurare il Regno di una divinità qui e ora, e lo schema teopolitico
«francescano», che è escatologico, cioè guarda al futuro e intende
orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giusti-
zia e di pace. Nello schema «imperiale» la divinità ovviamente è la
proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideo­
logia di conquista. La visione «francescana», al contrario, genera il
processo di integrazione.
E questo è tanto più vero oggi, cioè in un’epoca in cui – in un
nuovo «disordine» mondiale ancora difficile da decifrare – il catto-
licesimo acquista una rilevanza su temi di interesse globale, quali
l’ambiente, i migranti e i rifugiati, il rispetto dei diritti umani. Non
si tratta affatto di isolare Francesco con la troppo facile e superfi-
ciale etichetta di «papa del Sud» del mondo in contrapposizione alla
secolarizzata Europa. Ma qui si tratta di capire che al contrario è la

15. Cfr ivi, 55; G. Zamagni, «“Tra Costantino e Hitler”. L’Europa di Friedrich
Heer», in Id., Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico,
Bologna, il Mulino, 2012, 55-57.
16. F. Mandreoli - J. L. Narvaja, «Introduzione», in E. Przywara, L’ idea
d’Europa. La «crisi» di ogni politica «cristiana», Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2013,
55.
FRATELLANZA

globalizzazione della Chiesa a cambiare le questioni che definisco-


no l’impatto del cattolicesimo nella sfera pubblica.
Il 9 maggio 2016, in una intervista al quotidiano francese La
Croix, il Papa ha detto, ad esempio, riguardo all’Europa: «L’Europa,
sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma
in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere
del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto
del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei
piedi, ossia il servizio e il dono della vita»17.
Ed è questo il forte messaggio che Francesco ha dato alla Chie-
sa italiana a Firenze nel 2015 con un lungo discorso da tirar fuori
dall’archivio al più presto possibile: «Non vedremo nulla della sua
pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non
24
capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno
belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole
che risuonano a vuoto»18.
Il primato dell’autorità spirituale è quello della misericordia.
Ancora Francesco ha detto ai vescovi italiani: «Davanti ai mali o ai
problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi
e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate
che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative.
La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare
domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare.
Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne
tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo».
Il potere del Crocifisso – e dunque il potere crocifisso – è l’unico
che può salvare il mondo.
Bergoglio sa che il «popolo eletto» che diventa «partito» entra in
un intricato intreccio di dimensioni religiose, istituzionali e politiche
che gli fanno perdere il senso del suo servizio universale e lo contrap-
pongono a chi è lontano, a chi non gli appartiene, a chi è «nemico».
L’essere «parte» crea il nemico: bisogna sfuggire da questa tentazio-

17. G. Goubert - S. Maillard, «Entretien exclusif avec le pope François», in


La Croix, 17 maggio 2016.
18. Francesco, Discorso nell’Incontro con i rappresentanti del V Convegno
nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015.
LA SFIDA ALL’APOCALISSE

ne19. Né dal Vangelo possono discendere direttamente ricette politi-


che. D’altra parte, il Vangelo però discerne e giudica l’azione mondana
e i suoi criteri. Due esempi: ridurre uomini, donne e bambini in fuga
a oggetti smarriti nell’acqua del nostro Mediterraneo non può essere
accettabile come mezzo di pressione per cambiare trattati internazio-
nali. Così come al confine tra Stati Uniti e Messico non è possibile
separare i figli dai loro genitori in quanto atto di crudeltà giustificato
come forma di deterrenza all’immigrazione clandestina.

La sfida all’apocalisse dopo la Bomba e il Muro: la fratellanza umana

Dopo il percorso compiuto, possiamo dunque tornare alla do-


manda dalla quale siamo partiti. Francesco annuncia e accelera la
25
fine, vagheggiando l’utopia di un mondo nuovo, oppure trattiene i
tasselli di un mondo che sta andando in pezzi? Alla fine del nostro
itinerario risulta chiaro che la sua strada non corrisponde perfetta-
mente né all’una né all’altra ipotesi. Ce n’è una terza.
Francesco presenta la Chiesa come segno di contraddizione in
un mondo assuefatto all’indifferenza. Reagisce innanzitutto chie-
dendo preghiere per il mondo, ma innanzitutto proprio per sé. E
poi reagisce svolgendo un’azione pedagogica nei confronti di quei
figli di Dio che ancora non sanno di essere figli e dunque fratelli tra
di loro. Sa che la missione della Chiesa appartiene all’ambito dell’e-
ducazione, e dunque dell’attesa, della pazienza.
Un esempio chiaro di questa azione è stata la firma insieme
al Grande imam di al-Ahzar, di un «Documento sulla fratellanza
umana per la pace mondiale e la convivenza comune». Un evento
avvenuto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019. Crediamo che ancora
non sia stata ben compresa la portata di quell’evento e di quel Do-
cumento. Nelle sue pagine c’è un’intuizione che, da una parte, an-
nulla le accelerazioni apocalittiche delle posizioni jihadiste o «neo-
crociate» e, dall’altra, non limita l’azione terapeutica a un semplice
mettere cerotti, bende e stampelle per ritardare l’inevitabile fine.
Le pagine non solamente firmate ma anche scritte insieme dal Papa

19. Cfr E. Przywara, L’ idea d’Europa…, cit., 3.


FRATELLANZA

e dall’Imam non sono prigioniere della disillusione, ma neanche si


perdono nell’utopia.
In quel testo la lettura della realtà manifesta «una situazione
mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del
futuro e controllata dagli interessi economici miopi». I due leader si
esprimono «in nome di Dio», ma non pongono direttamente pre-
messe teologiche asimmetriche. Partono invece dall’esperienza del
loro incontro e dal fatto che a partire dalla loro fede in Dio varie
volte hanno condiviso «le gioie, le tristezze e i problemi del mondo
contemporaneo». Ecco l’incipit: «La fede porta il credente a vedere
nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che
ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali
per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere que-
26
sta fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e
sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere».
Il Documento affronta con coraggio la sfida della malattia della
religione che trasforma la santità in servizio dell’azione politica in-
tesa come causa sacra. Essa, nelle sue forme più estreme e virulente,
sembra spingere l’adepto a una nuova «creazione» del mondo attra-
verso la violenza. Così si respinge la visione apocalittica che genera
il terrore come strumento per la realizzazione in tempi rapidi della
volontà di Dio intesa come distruzione. È questo, infatti, il nucleo
teologico del terrorismo religioso. Francesco e al-Tayyeb svelano
insieme le dinamiche perverse di questa visione e le strappano defi-
nitivamente il carattere religioso, appunto.
Il riconoscimento della fratellanza è verticale, fondato sulla tra-
scendenza e sulla fede in Dio. Per i due firmatari, l’uomo non si salva
da solo, come direbbe un’etica laica, illuminista, radicale e borghe-
se. Né la fratellanza è un dato meramente emotivo o sentimentale.
Non è il semplice – per quanto importante – «volersi bene». Invece
è un forte messaggio dal valore anche politico. Non a caso esso
porta direttamente a riflettere sul significato della «cittadinanza»:
tutti siamo fratelli, e quindi tutti siamo cittadini con uguali diritti
e doveri, sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Parlare
di «cittadinanza» allontana sia gli spettri di una fine accelerata sia
le soluzioni politiche posticce pur di evitare il peggio. Scompare,
LA SFIDA ALL’APOCALISSE

infatti, l’idea di «minoranza», che porta con sé i semi del tribalismo


e dell’ostilità, che vede nel volto dell’altro la maschera del nemico.
Così il messaggio assume rilevanza globale: in un tempo segna-
to da muri, odio e paura indotta, queste parole capovolgono la logi-
ca mondana del conflitto necessario. Il Papa lo ha espresso con chia-
rezza nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2020:
«La paura è spesso fonte di conflitto»; «sfiducia e paura aumentano
la fragilità dei rapporti e il rischio della violenza». Bisogna rompere
la «logica morbosa» della paura, dunque. L’approccio di Francesco è
sovversivo rispetto alle teologie politiche apocalittiche che si vanno
diffondendo sia nel mondo islamico sia in quello cristiano. E non
solo. Non è un caso che papa Francesco abbia citato quattro volte il
Documento di Abu Dhabi nel suo viaggio in Thailandia e Giappo-
27
ne. Lo ha donato al Patriarca buddista a Bangkok, e lo ha citato a
Hiroshima, dove l’atomica è stata sganciata sull’umanità con la sua
energia distruttiva apocalittica. E già sono giunte forti risonanze di
sintonia col Documento sulla fratellanza umana dal mondo buddi-
sta, induista, sikh.

***

Abbiamo aperto con il Muro di Berlino e chiudiamo con la


Bomba di Hiroshima. La direzione verso la quale ci si deve muo-
vere per evitare il baratro dell’apocalisse è stata tracciata. Il fonda-
mento di tutto è in una frase del Documento di Abu Dhabi: «La
fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da
amare». La fratellanza è la vera sfida all’apocalisse.
FRATELLI NELLA BIBBIA
LA FRATELLANZA
NELL’ANTICO TESTAMENTO

Saverio Corradino S.I.

Nello sviluppo delle idee dell’Antico Testamento, il tema del-


la «fratellanza» ha uno svolgimento piuttosto consistente, nel quale
occorre tener conto anche delle implicazioni che comporta l’essere
fratelli, non sempre puntualizzato nei termini di «sorella» e «fratel-
29
lo». Si direbbe che l’intero percorso della rivelazione biblica riman-
ga teso tra due capi: prende le mosse da Adamo, punto di origine
di un’umanità legata da comunione di sangue perché discesa «da
un solo uomo» (At 17,26; cfr Gen 1–2), e termina in Gesù Cristo,
«primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), e quindi unico luogo
di comunione in cui l’originaria fratellanza tra gli uomini abbia
compimento assoluto. Ma questa fratellanza di tutti gli uomini nel
Signore deriva dalla relazione di Figlio che Gesù ha nei confronti
del Padre, e indica il nostro nuovo modo di relazionarci con Dio in
Gesù Cristo, cioè quello di figli con il Padre.
Tuttavia nel Nuovo Testamento l’esistenza umana ha una co-
stitutiva problematicità, che mette a nudo il modo ambiguo con
cui siamo fratelli. L’uomo è figlio di Adamo, unico capostipite nella
prima creazione, ed è figlio di Dio, perché redento in Cristo. Lo si
direbbe originariamente segnato da una doppia paternità, da cui
segue un doppio titolo di fraternità, non meno che una lacerazione
interiore. In realtà, la paternità di Dio non si sovrappone a quella
di Adamo, ma risale fino a Dio a partire da Adamo, «figlio di Dio»
(Lc 3,38). Lo stesso vale per la fraternità, che ora passa attraverso la
persona divina e umana del Signore Gesù, e salda nella comunione
di sangue con lui la fraternità divina dell’uomo. Ma già la storia
dell’Antico Testamento l’arricchiva di spessore e di senso attraverso
quelle successive alleanze con Abramo, Mosè, Davide e Aronne,

© La Civiltà Cattolica 2019 IV 529-540 | 4068 (21 dic 2019/4 gen 2020)
FRATELLI NELLA BIBBIA

che sembravano restringerla e particolarizzarla. L’alleanza con Dio


– la nuova come l’antica – è scuola privilegiata di fraternità.
Eppure si assiste a una lacerazione esistenziale. Essa è dovuta al
peccato e non alla condizione umana originaria, e si ricompone
fino in fondo solo con la morte dell’uomo vecchio, nato dal peccato
di Adamo, e con la fratellanza in Cristo morto e risorto (Rm 5,12-
19). Nel disegno del Padre, da quella fratellanza non viene escluso
nessuno: essa è la Chiesa, comunione di carità.
In relazione a questo tema, due libri dell’Antico Testamento oc-
cupano un posto privilegiato, come viene dimostrato dal fatto che il
termine «fratello» vi compare con un’eccezionale frequenza: il libro
della Genesi e quello di Tobia.

30
Il libro della Genesi

Il primo libro della Bibbia rivela che la lacerazione della co-


scienza umana risale alle origini. Nel silenzio del mistero, l’uomo,
ultima tra le creature, già allora era chiamato a essere immagine e
somiglianza di Dio (Gen 1,26-27); ma insieme era soggetto a una
prova che riguardava appunto il suo impulso a «essere come Dio»
(3,4). Il fallimento dell’uomo viene incorporato subito nel tema
della fraternità: Caino uccide Abele (4,1-8). Il delitto tipico, in cui
si manifesta il dominio del peccato nell’esistenza umana, è molto
realisticamente un caso di gelosia verso il proprio fratello: l’odio si
spinge fino alla cancellazione violenta dell’altro.
Si ha di nuovo rivalità tra fratelli nel rapporto tra Esaù e Gia-
cobbe (25,29-34; 27,1-42). Intenzioni omicide tra fratelli com-
paiono anche nella storia di Giuseppe (37; 39–50); ma lì, nell’ani-
mo del protagonista, la volontà di dare morte si trova capovolta
dall’interno, e l’immagine del fratello diviene quella di colui che
dà vita: è fratello chi salva gli altri, procurando loro il nutrimento
e spingendo i colpevoli a convertirsi.
La Genesi può essere letta quasi per intero sotto la categoria teolo-
gica della «fraternità»: ci fa capire in che cosa consiste essere fratello1.

1. Cfr L. Alonso Schökel, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro
della Genesi, Brescia, Paideia, 1987.
LA FRATELLANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO

L’appellativo di «fratello» sembra avere qui più rilievo teologico che


non quelli di «padre» o di «madre», che pure sono voci e situazioni
di cui si parla continuamente, innalzandone il senso, sublimandone
le conseguenze (cfr la paternità di Adamo, di Noè, di Abramo, di
Israele).
Nel libro della Genesi, di fatto padre e madre vengono menzio-
nati prima dei fratelli (2,24). Ma subito dopo compare il termine
«fratello», e ritorna e si accumula, per sette volte consecutive (4,2-
11) in poche righe. Secondo questo libro, la storia umana prende
l’avvio nei termini di una fraternità originaria. Ma la fratellanza
è continuamente spezzata o minacciata: un gruppo di coppie di
fratelli rivali, una tensione ininterrotta, un contrasto mortale all’in-
terno di quella comune origine da uno stesso grembo.
31
Nel racconto non manca un itinerario positivo, ma ha minore
rilievo: Abramo vuole evitare contrasti con Lot (13,8); Giacobbe
cerca, con successo, di riconciliarsi con Esaù (33,4); Giuseppe per-
dona i fratelli (45,1-5). La Genesi termina affermando che la ricom-
posizione è possibile, ma di una possibilità eroica, poco probabile:
un capolavoro di generosità e di sapienza a cui si stenta a credere
(50,15-21).

Tobia: il libro della diaspora

L’altro testo è il libro di Tobia, un libro deuterocanonico arrivato


a noi solo nella versione greca, con una complessa tradizione testua-
le. Ne abbiamo una forma breve, dei codici unciali Vaticano (B) e
Alessandrino (A), e della grande massa dei minuscoli; e una forma
lunga, rappresentata dal solo Sinaitico (S), ma confermata da alcuni
frammenti aramaici e da uno ebraico trovati a Qumran, oltre che
dall’antica versione latina (la Vetus latina). Come per altri deutero-
canonici, qui la Volgata va per i fatti propri. Si è abbastanza d’ac-
cordo nel ricostruire l’originale della versione greca, e remotamente
quello semitico, puntando soprattutto sul testo del Sinaitico, che è
teologicamente più intatto, ma ricorrendo anche agli altri codici
quando ce n’è bisogno (il Sinaitico ha un paio di lacune), o quando
essi offrono utili varianti.
FRATELLI NELLA BIBBIA

Nell’arco della narrativa biblica il libro di Tobia sta al capo op-


posto rispetto alla Genesi: proprio in fondo, al polo estremo, là dove
l’esperienza avviata nella Genesi sembra arrivata a un punto critico
di maturità. Il libro è scritto per il popolo di Dio in diaspora, e
quindi anche per un cristianesimo di diaspora, come quello che vi-
viamo oggi. Protagonisti sono i figli di Israele della tribù di Neftali,
una delle 10 «tribù perdute», che sono le tribù del Regno del Nord
deportate dagli assiri nel 721 e disperse per sempre in un’area va-
stissima dell’Asia anteriore. Si tratta quindi di ebrei marginali, cui
la Bibbia non dedica particolare attenzione: le tribù dei figli delle
serve (Gen 35,25-26), quelle della Galilea dei pagani, dov’è vissuto e
ha predicato il Signore2. Neftali è appunto uno dei quattro figli del-
le serve, al quale la storia di Giuseppe attribuiva una parte di primo
32
piano nell’odio contro il fratello (Gen 37,2).
Il tema del «fratello» ha perso nel libro di Tobia la tensione
drammatica che aveva nella Genesi. Il termine viene usato fre-
quentemente, ma sempre in modo positivo; non è mai riferito a
una costitutiva rivalità tra membri di uno stesso gruppo umano. Al
contrario, qui si vuole affermare una tesi teologicamente rilevante,
cioè che i «figli delle serve» sono anch’essi fratelli, a pieno titolo,
non rimangono fuori della vocazione di Israele. Più precisamente,
le tribù perdute non sono affatto perdute, ma hanno il compito di
esprimere la vocazione dell’intero popolo di Dio che, in quanto tale,
è chiamato alla diaspora.
Il libro di Tobia ha come orizzonte la diaspora del tempo as-
siro; ma questa non si è ancora conclusa quando viene scritto il
libro (14,6-7), e le ammonizioni finali di Tobi al figlio Tobia (14,3-
7.9-10) riguardano Ninive e la terra della deportazione, mentre
Gerusalemme, altissima su quell’orizzonte, rimane solo oggetto di
visione profetica (13,9-17).
Il discorso è quanto mai realistico, per l’Israele degli ultimi secoli
biblici e per i cristiani di tutti i tempi. L’uomo di Dio che si chiude
in un ingorgo di consuetudini e di connessioni «clericali», senza

2. Cfr la citazione di Is 8,23-9,1 in Mt 4,13-16: la Galilea è il luogo dove Gesù


svolge gran parte del suo ministero, nel territorio che era stato delle tribù di Neftali
e Zabulon.
LA FRATELLANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO

far sua la storia che l’attraversa, manca alla propria vocazione, non
meno di colui che cerca il contatto con il mondo per perdervisi, o
che subisce il contatto con il mondo in modo da esserne conquistato
e assimilato. Di fatto, i più si lasciano assimilare, e le «tribù» sono
davvero «perdute».
Chiusura nel ghetto, oppure remissività nelle mani dei coloniz-
zatori: queste due false forme di fraternità sono in contrasto soltanto
in superficie, ma concordano nel fondo; entrambe dicono che la
vocazione a essere testimoni in mezzo ai pagani, con un rapporto di
parità o più spesso d’inferiorità, è troppo difficile, ed è lecito, o per-
fino doveroso, disimpegnarsene. È questa la tesi che il libro intende
esplicitamente negare, con una concatenazione il cui punto fermo
è l’originaria condizione di fratellanza tra chi appartiene davvero al
33
popolo di Dio.
L’apparente impotenza di Dio è una prova durissima per chi gli
è fedele. In concreto, la prova si esprime come condizione di pover-
tà: l’uomo di Dio ha perso tutto, perfino – si direbbe – l’appoggio
di Dio (2,14). Egli tuttavia non si stanca, non si tira indietro, perché
comprende che la prova è misteriosamente connessa con quanto
sa circa la propria inattendibilità di uomo di Dio (3,1-6), e quindi
l’unica risposta è la fede. Ma quest’ultima – ecco la novità del libro
– in un contesto di prova si esprime con un impulso invincibile di
fraternità.
Momento principale del racconto è appunto quello in cui due
israeliti, congiunti da un vincolo di sangue, e quindi «fratelli», ri-
masti fedeli a Dio e alla loro condizione di fratelli durante una prova
dolorosa e umiliante, rivolgono al Signore l’invocazione del povero;
e pur senza sapere nulla l’uno dell’altro, la rivolgono insieme, in un
medesimo istante, accomunati di fronte a Dio nella prova e nella
preghiera (3,7-17), e più tardi nella salvezza che li raggiunge tramite
un «fratello».
L’incontro tra il vecchio Tobi e Sara, due personaggi che sem-
brano così lontani e diversi tra loro, avviene nella preghiera, ma si
radica in quel vincolo di sangue, non si sa quanto remoto, che li
rende fratelli. Un incontro invisibile, inconsapevole, ma assoluta-
mente reale, com’è provato dal suo progressivo trasformarsi in in-
contro concreto. Attraverso Sara, Tobi vedrà – lui che ora è cieco
FRATELLI NELLA BIBBIA

– i discendenti di suo figlio, come garanzia di un avvenire proteso


verso la nuova Gerusalemme (13,9-17; 14,6-7), dove egli rimetterà
piede, prendendone possesso, per sempre.

Il fratello, un altro «me stesso»

Può apparire strano, dopo una prima lettura, che si cerchi il


tema del fratello (in greco adelphos, adelphē) in un testo che sembra
ignorare situazioni di fratellanza in senso proprio. In effetti, a que-
sta data il termine «fratello» – per il suo rilievo teologico non meno
che per l’uso corrente nelle lingue semitiche – ha una gamma di
significati assai vasta. Indica – come accade pure nel Nuovo Testa-
mento – le persone legate da un vincolo di sangue, prossimo o an-
34
che solo lontano3. Molto più spesso designa i correligionari, perché
si suppone una comune discendenza da Abramo o da uno dei figli
di Giacobbe, e più ancora perché dalla Legge nasce una comunione
che oltrepassa i vincoli di sangue4.
Un ulteriore impiego – in greco, ma già analogamente in ebrai-
co – ha il termine adelphē, «sorella», per indicare la sposa5. Le tre
relazioni interpersonali di consanguineo o di correligionario o di
sposa si sovrappongono e si sommano lungo il libro di Tobia, defi-
nendo a titoli diversi una comunione assolutamente unica davanti a
Dio e agli uomini.
Nella Genesi c’è qualcosa di analogo: attraverso quello specifico
vincolo carnale si viene a significare che chi è figlio di mio padre
e di mia madre è un altro «me stesso». La cosa ha valore anche per
noi, che pure abbiamo una sensibilità molto differente. In fin dei
conti, è del tutto casuale che gli attributi che rendono mio fratello
diverso da me appartengano a lui e non a me, e viceversa che i miei
attributi siano capitati a me e non a lui. Nel libro di Tobia, si risale
alla radice di tale situazione: adelphos, adelphē, è colui nel quale rico-

3. Cfr Tb 1,14.21; 2,10; 3,15; 4,12; 6,18 (cod. S); 7,1 (S).2 (S).7 (S).10 (S).12; 10,13.
4. Cfr Tb 1,3.5 (cod. S).10.16; 2,2.3 (S); 4,132; 5,5 (S).6.9 (S).10 (S).11
(S).11.12.13.14.143 (cod. B e A).142 (S).172 (S); 6,7. 11.132 (S).14.16; 7,12 (S).3.4.6 (S).9.11 (S);
9,2; 10,6 (S); 11,2 (B e A).18 (B e A); 14,4 (B e A).7 (B e A).
5. Questo soprattutto nel codice Sinaitico: Cfr Tb 5,22; 6,19; 7,9.122; 8,21;
10,6.13. Per gli altri codici, cfr 7,15; 8,4.7.
LA FRATELLANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO

nosco semplicemente me stesso, con un fondamento o con un altro.


Nessun vanto sull’altro, nessuna rivendicazione di superiorità: solo
la certezza di una comunione originaria con l’altro.

Il figlio: un fratello

Ci sono, tra questi rinvii, momenti particolarmente espressivi.


Dice l’angelo Raffaele a Tobia, a proposito di Sara: «Avrai da lei dei
figli che saranno per te come dei fratelli» (6,18). Avere un fratello è
più che avere un figlio, è un legame più ricco di senso, un motivo
maggiore di esultanza. Il figlio è me stesso per metà; per un’altra
metà è il coniuge, cioè un diverso, anche se un diverso in cui mi
identifico (e quindi adelphē sta a indicare la sposa). Ma il fratello è
35
solo me stesso, a partire da una condizione originaria accidental-
mente diversa.
Più in là (7,12), adelphos, «lo sposo», è posto in stretta simmetria
con i due usi di adelphē, «la sposa». Singolare affermazione di parità
tra sposo e sposa – espressa anche attraverso l’alternanza dialettica
di adelphos, adelphē, adelphos – in un libro dove si pensa che l’uomo
debba essere il salvatore della propria donna6, a meno che, per la
sua insufficienza spirituale, egli non sia motivo di perdizione per la
sposa, che è quanto accade ai primi sette mariti di Sara (6,14).
Per Tobi, rimangono fratelli (adelphoi) anche i giudei che si
adattano al culto idolatrico (1,5.10). Egli continua a trattarli come
tali (1,16.17; 2,2), nonostante il suo accoramento per la loro infedel-
tà. In realtà, Dio stesso li sta cercando per suo mezzo: egli intende
restituirli alla condizione originaria di fratelli, che non viene mai
accantonata, come risulta dalla lunga seconda serie di impieghi di
adelphoi.
Infine, si può notare che la funzione narrativa di Raffaele (che
significa «Dio guarisce») è, sì, di affermare una tesi teologica, cioè
che Dio guarisce e salva i suoi poveri quando dal fondo della prova
si rivolgono a lui, ma ha di mira anche l’altra tesi, quella che essere
fratelli è la parte di un angelo. L’appellativo insistente adelphos, con
cui gli altri si rivolgono a Raffaele, indica che colui che sa essere

6. Cfr Tb 6,18. Raffaele si rivolge a Tobia: «Sarai tu a salvarla».


FRATELLI NELLA BIBBIA

fratello fino in fondo – come appunto Raffaele nei confronti di tutti


– non è meno di un angelo.
Adelphos – da a- copulativo, e delphys, matrice, grembo ma-
terno – significa che l’origine carnale è la stessa, ma sta anche a
indicare un personaggio trascendente, qualcuno che viene da Dio.
È quanto il Nuovo Testamento esplicita a proposito di Gesù: a lui
spetta di «essere il primogenito di una moltitudine di fratelli» (Rm
8,29, con tutto il contesto). Essere davvero fratello è un’identità che
l’uomo può ricevere e coltivare solo come dono di Dio: è una con-
dizione che sta al di là dell’umano. È la parte di un angelo, come è
detto nel libro di Tobia, o quella, piuttosto, del Figlio di Dio, come
rivela il Nuovo Testamento.

36
La fraternità

Lo sviluppo del tema si prolunga ben oltre le possibilità di un


confronto lessicale. Tutto pare sospeso a un vincolo di fraternità in
questo racconto, che pur è diviso tra l’angoscia per le continue e in-
numerevoli defezioni degli israeliti, i fratelli (1,4-6.10), e il primato
indiscusso del legame di sangue, non importa quanto remoto, per
via del suo valore spirituale. «Siamo figli di profeti», dice Tobi al
figlio (4,12) nell’atto di raccomandargli di sposare una parente.
Condizione per la salvezza è di appartenere al popolo di Dio.
Un’appartenenza reale, e non puramente carnale, come viene speci-
ficato poco dopo (5,14). Ma una parentela effettiva, anche lontanis-
sima, nel Nuovo Testamento è quella che lega tutti gli esseri umani
al Messia d’Israele, incorporati a lui nel suo Spirito: l’indiscernibile
parentela che discende dall’incarnazione del Verbo.
Nel libro abbondano le espressioni di fraternità carnale non
espresse con il termine «fratello». Quando Tobia, durante il viag-
gio, apprende dall’angelo qual è il dramma di Sara (6,11-18), viene
detto che «la amò» (6,19). Tobi l’ama all’improvviso, come si ama un
parente intimo di cui si ignorava l’esistenza e che non era stato mai
visto e che ci è caro prima ancora d’incontrarlo. L’amore di Tobia
per Sara non ha nulla di romantico, ma è un moto profondamente
umano, che nasce da un’eredità spirituale e carnale: la benedizione
che gli viene dal padre (5,17) e da Dio mediante Abramo e Israele,
LA FRATELLANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO

e che si riversa nel sangue. Un moto naturale e divino insieme, un


presentimento dell’incarnazione.
Si è visto che la fraternità di Tobi e Sara nella prova e nella pre-
ghiera prolunga il loro legame di sangue, ma è preordinata in segre-
to da Dio; e che le corrisponde, efficacissima, la solidarietà di Dio
verso i suoi poveri. La solidarietà si muove sulla linea della fraterni-
tà: le rimane affine, e la dilata. Tobia è il libro dell’intatta solidarietà
tra fratelli, e di Dio verso coloro che sono veramente fratelli. Questa
solidarietà non è mai omertà o complicità o interesse umano: passa
attraverso i legami di sangue, ma suppone la condizione del povero
e mette in moto la solidarietà di Dio verso i suoi. Tutto è pronto
perché nel Nuovo Testamento il popolo di Dio sia, per vocazione,
l’intera umanità, e perché il legame carnale che il Messia d’Israele
37
ha con l’umanità divenga il canale attraverso il quale ci raggiunge
quella solidarietà di Dio che è la salvezza.
Notiamo intanto che questo legame tra preghiera e azione, si-
tuato nei punti nodali7, va considerato tra le costanti del libro di
Tobia. In esso, ma anche in Ester e in Giuditta – che sono gli ulti-
mi testi narrativi dell’Antico Testamento –, l’azione è tutta decisa e
conclusa e già portata a compimento dalla preghiera che l’ha pre-
ceduta. L’esecuzione concreta potrà poi snodarsi a ritmo di festa,
poiché ogni dramma tra uomini è dramma tra Dio e gli uomini,
e i «poveri» hanno l’autorità di risolverlo: l’invocazione accorata dei
fratelli evoca la solidarietà di Dio.

Fratellanza e solidarietà

Tobia è il libro di coloro che, conoscendosi o no, sono veramente


fratelli; quindi, dal primo versetto in poi è il libro della solidarietà; e
così si allarga implicitamente oltre i limiti etnici d’Israele. Proviamo
a esemplificarlo, partendo dalle prime pagine del testo.
Si comincia con una genealogia (1,1), proposta come suprema
professione di solidarietà carnale e, per gli uomini della Bibbia,
principio di ogni fratellanza. La continuità di sangue rende visibile

7. Cfr Tb 3-4; 8,5-7.15-17;13.


FRATELLI NELLA BIBBIA

la vocazione comune, che viene trasmessa da un antenato all’altro e


portata a compimento con il succedersi delle generazioni.
C’è poi chi ha addosso la responsabilità di altri, perché, pur senza
colpe proprie, è solidale verso i fratelli colpevoli, e conseguente-
mente viene deportato e ridotto in povertà (1,2). Ecco il peso di
afflizione che accompagna la comunione di vita con i peccatori: ma
questa comunione di vita appartiene alla vocazione e alla sorte del
popolo di Dio. Il giusto non contrappone la propria innocenza, vera
o presunta, alle colpe altrui, ma sente le proprie colpe come un male
di tutti, e le colpe di tutti come proprie (3,3-6).
Tale solidarietà con i fratelli si esprime a parole (la candida esul-
tanza dell’io narrativo nel primo capitolo) e con atti positivi di par-
tecipazione e condivisione (1,3). C’è di più: per il popolo di Dio, la
38
contrapposizione tra il giusto e l’ingiusto conduce solo a caricare il
giusto di tutti gli obblighi rifiutati o trascurati da colui che non sa
più essere giusto, e che rimane tuttavia fratello in senso stretto8.
Questa solidarietà immette il giusto nel ciclo delle generazioni
e dei legami parentali, e quindi nell’esercizio della più ampia fra-
ternità. Ma non lo sottrae alla solitudine. Come era stato già detto
per Giobbe, così per Tobi la sposa della giovinezza, Anna (1,9a), ha
l’ufficio di rendere visibile e di acuire la solitudine del giusto (2,14,
alla fine). Quest’ultima è vissuta in un contesto di solidarietà, e i
due termini agiscono l’uno sull’altro, e si intensificano a vicenda, in
modo misterioso e drammatico.
L’unico spiraglio di luce viene dall’apertura sul futuro – il figlio
(1,9b) –, e non da un’impossibile chiusura sul passato. Il passato è
un’eredità nobiliare, abbraccia le solidarietà innumerevoli suscita-
te da Dio in Israele, ma si presenta a Tobi solo come un gravame
spirituale di colpe da espiare. Per lui l’atto di inserirsi nella storia si
riassume in un’esperienza di deportazione (1,10), e costituisce, da
un capo all’altro del racconto, e idealmente dell’intero testo biblico,
la santità di uno sradicato. Con ciò si dimostra fino a che punto sia
inutile un radicamento fatto di continuità biologica e culturale, ma

8. Cfr Tb 1,4-8: Tobi appartiene alla medesima tribù di Neftali, l’antenato


che aveva abbandonato la tribù di Davide e si era staccato da Gerusalemme per sa-
crificare al vitello sacro di Geroboamo a Dan.
LA FRATELLANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO

non di appartenenza spirituale, nel quale ha rilievo non ciò che Dio
ripropone a ogni nuova età, a ogni tornante della vita, ma ciò che
risulta acquisito da una somma di precedenti più o meno positivi.
Appartenere a una storia di deportati significa per Tobi solidariz-
zare con i peccatori, pur senza averne condiviso il peccato (1,10): è
questa la condizione per salvarli. Tobi diviene così una figura che ha
davanti a sé un avvenire illimitato e trascendente: egli è immagine
inconsapevole di Gesù Cristo, alla pari di ogni uomo che sia cor-
dialmente fedele alla voce di Dio che lo ha chiamato.
In una così tragica esperienza di fraternità, non mancano mo-
menti di distensione, di successo (1,12-15). Tutto sta nel saperli vive-
re come provvisori, senza sacrificare nulla di essenziale nel tentativo
di stabilizzarli, di renderli durevoli e permanenti. La solidarietà in
39
cui si prolunga la fratellanza raggiunge tutti i possibili interlocuto-
ri, tutti gli attimi di verità che gli uomini, quale che sia il loro pas-
sato, si trovano a vivere. Ed è solidarietà ricevuta (1,13.21-22), non
meno che solidarietà offerta ad altri (1,16-18). Così quella solidarietà
che è partecipazione alla storia (1,15-22) investe nuove situazioni,
nuove persone.
Si profila intanto l’emblematica condizione del giusto, che è vivo
e seppellisce i morti. Si muore di peccato, ma il giusto non resta in-
denne da quella morte, si trova addosso il peso – materiale, carnale,
spirituale – di quei morti, così come il seppellitore porta il carico
dei cadaveri da seppellire. Questa, appunto, è la solidarietà di cui
principalmente si parla nel libro di Tobia.
E poi il giusto è vivo, ma di una vita che per ora è fragile, esposta
a rischi e minacce (1,19-20), priva di splendore. Suo unico splendore
è la solidarietà. Perfino l’osservanza rigorosa e di stampo farisaico,
che è tanto raccomandata in questo libro (come in Giuditta e Ester),
e che indica l’appartenenza al popolo di Dio, è solidarietà con i pec-
catori: Israele è in esilio per il suo peccato.
Bisogna anche osservare che, nonostante le asprezze dell’esi-
stenza descritte nei primi 3 capitoli, una gioiosità festosa attraversa
tutto il libro, che si apre con il ricordo esultante delle celebrazioni
al Tempio (1,6), inizia narrativamente con la ricomposizione della
famiglia il giorno di Pentecoste, dopo il ritorno di Tobi (2,1-2), ha
il momento risolutivo in un banchetto per l’ospite, che si trasforma
FRATELLI NELLA BIBBIA

in banchetto nuziale (7,9-14; 8,19-21; 9,6), e si conclude luminosa-


mente con una catena di lodi e benedizioni (cc. 12–13). È proprio
della festa esprimere la comunione di fede e di storia che lega il po-
polo di Dio, e quindi chiedere che anche altri – soprattutto chi non
ha modo di far festa – partecipino alla gioia comune (1,7-8; 2,2-3).
Il libro di Tobia è organizzato narrativamente come una somma
di quadri. Il primo si conclude allacciando idealmente la storia di
Tobi alla storia ufficiale. Achikar, per un narratore dell’Oriente an-
tico, è un personaggio importante e un autorevole maestro di sag-
gezza (1,21-22). Ci sono solidarietà che il giusto non è in grado di
cercare: Dio stesso le lancia attraverso le vicende di cui è intessuta la
vita del giusto, e di cui esse divengono esteriormente il sostegno o
la cornice ufficiale. L’esistenza del giusto non risulta in alcun modo
40
costituita da tali apparentamenti, che tuttavia aiutano a proporne il
senso, a situarla in un contesto emblematico di solidarietà sui ge-
neris. Qui di fatto si viene a suggerire che la vita di Tobi, stretto
parente di Achikar, è un’impresa di eroica saggezza.
Risulta da questo primo quadro introduttivo una somma di ag-
ganci utili per lo svolgimento del racconto (1,14,17b.19.22a); poi un
profilo del protagonista che anticipa le situazioni a venire; e infine
una scena vastissima, aperta in lungo e in largo per migliaia di mi-
glia, dove si spiega l’onnipotenza dei disegni di Dio, suprema soli-
darietà che avvolge lungo tutto il libro la storia del giusto.
Ecco dunque un libro deuterocanonico che proietta con forza la
pietà veterotestamentaria in direzione del Nuovo Testamento. Non
è questo l’unico caso: qualcosa di analogo avviene in altri libri deu-
terocanonici, come la Sapienza di Salomone e il libro di Giuditta. È
questa la ragione probabile per cui essi sono stati esclusi dal canone
giudaico.
Il libro di Tobia è frutto di un lungo cammino in avanti, verso
quella meta finale della salvezza veterotestamentaria che è l’umanità
del Figlio di Dio. Incorporati a lui, noi diveniamo fratelli in senso
pieno e trascendente, e misteriosamente solidali con la vocazione e
la storia di qualsiasi essere umano.
FIGLI DELL’UNICO PADRE:
IL NUOVO TESTAMENTO*

Saverio Corradino S.I.

Il Documento sulla fratellanza umana, firmato da papa Francesco


e dall’imam Ahmad al-Tayyeb ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019,
è un testo fondamentale per tutti, in particolare per noi cristiani;
ed è insieme un invito ad approfondire l’argomento nella Bibbia.
41
Sono molti i passi della Scrittura in cui lo troviamo sviluppato. In
particolare, nel Nuovo Testamento, il tema dei fratelli, figli del Pa-
dre – presente anche negli altri evangelisti – è trattato a fondo dal
Vangelo di Luca, e risalta in diversi episodi a lui propri.

Fratelli e sorelle a confronto

Un primo modo per esaminare il tema è vedere i testi in cui Luca,


in modo semplice ma originalissimo, mette a confronto fratelli o so-
relle: innanzitutto l’episodio di Marta e Maria che accolgono Gesù (Lc
10,38-42), poi la parabola del Padre misericordioso (15,11-32), infine
quella del ricco epulone e del povero Lazzaro (16,18-31).
L’episodio di Gesù che incontra Marta e Maria, le due sorelle,
ha per tema l’ospitalità che il Signore si attende: essa non consiste
nelle cose che si devono fare, o nei servizi da rendere agli ospiti, ma
nel modo di accoglierlo, in particolare nell’ascoltarlo. Dove l’ascolto
della sua parola ha la precedenza su ogni altra cosa, per quanto im-
portante o essenziale questa possa essere.
Che Marta e Maria siano sorelle serve a dire la loro iniziale pa-
rità, e quindi a sottolineare la diversa qualità della loro scelta. Mar-
ta fa ciò che è importante e irrinunciabile al livello dei rapporti
umani. Maria invece coglie qualcosa che sta più in là ed è ancora

* Titolo origianale: «Figli dell’unico Padre».

© La Civiltà Cattolica 2019 III 360-369 | 4061 (7/21 settembre 2019)


FRATELLI NELLA BIBBIA

più essenziale, perché appartiene alla nuova umanità che Dio Padre
sta inaugurando nella persona del Figlio: qualcosa che oltrepassa
l’intero creato, pur non negando e non ignorando nulla di quanto
appartiene al quotidiano.
Essere fratelli o sorelle dice dunque parità di livello; ed è occa-
sione di confronti. Ma i confronti li fa solo Dio. L’uomo non può
rifiutare quei confronti con il proprio fratello con cui Dio lo misura
e lo aiuta a capirsi; non può fare come Caino. Per quanto gli siano
incomprensibili, l’uomo deve accoglierli e accettarne il mistero: è il
suo modo di entrare nel mistero di Dio, e di esserne accolto a sua
volta, di divenirne parte.
Ma l’uomo non può formulare da sé solo quei confronti, e illu-
dersi della propria eccellenza, misurandola sui limiti o sulle man-
42
canze del proprio fratello. Nel Vangelo di Luca il tema del fratello
ha un punto fermo: l’impossibile confronto che un fratello è solito
fare a danno dell’altro.

Il Padre misericordioso

Anche la parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-32) parte


da una situazione di parità tra il fratello minore e quello maggiore.
Ma il rapporto dei due fratelli verso il padre – quel rapporto da cui
tutto dipende per essere fratelli – non rimane lo stesso per i due;
e la pretesa di autonomia avanzata dal fratello minore lo conduce
alla condizione di estraneo (15,19). Quella pretesa finisce quindi per
attenuare la parità iniziale: in apparenza, la sorpassa, conferisce al
fratello minore una libertà di movimenti di cui il maggiore non ha
esperienza (15,29); di fatto, però, lo conduce a perdere tutto.
Non si è fratelli se non in rapporto al padre: ecco un altro dato
ovvio, ma essenziale, sul tema del fratello. Contestare il padre –
come fanno, in modo diverso, entrambi i figli nella parabola – lede
anche la condizione di fratello: il figlio maggiore che rifiuta di fare
festa con il padre, di fatto rifiuta come fratello il figlio minore che
è ritornato al padre. Quel ritorno è una vera restituzione alla vita
(15,24.32), perché ristabilisce il prodigo in ciò che conta davvero,
cioè nella sua condizione di figlio e di fratello.
FIGLI DELL’UNICO PADRE: IL NUOVO TESTAMENTO

Il racconto si divide spontaneamente in due quadri, dove il fratel-


lo minore e il maggiore si alternano come protagonisti. Nel primo
quadro si ha in senso stretto una parabola: la storia del figlio prodigo è
un paragone per dire in termini realistici un itinerario di peccato e di
conversione; e per dirlo in due prospettive complementari: la fenome-
nologia del peccato e l’animo di Dio Padre nei confronti di chi pecca.
Il secondo quadro ha tutt’altra andatura. Propriamente non vi
si presenta più alcun paragone: il peccatore equiparato a un prodi-
go, il peccato a una perdita assoluta, la delusione dopo il peccato al
rimpianto per la casa paterna, il sentimento di Dio verso il peccatore
all’attesa silenziosa e appassionata di un padre abbandonato dal fi-
glio. Qui i valori espressivi hanno la trasparenza e l’immediatezza del
simbolo, non si sdoppiano in un gioco di confronti o di equivalenze:
43
il figlio minore è direttamente la figura del peccatore pentito e per-
donato; la casa paterna, dove si fa festa, è un’immagine dell’intimità
di Dio con i suoi; e il personaggio del padre simboleggia semplice-
mente Dio Padre, una presenza che riunisce in sé tutti i beni possi-
bili (15,31), e perciò basta a tutto, non ha bisogno di completarsi con
nulla, nemmeno con un capretto per banchettare con gli amici.
Nel dialogo contrastato con il figlio maggiore, il padre è Dio
Padre, e basta. Il figlio maggiore, che al proprio padre terreno sem-
bra rinfacciare a ragione un’indebita disparità di trattamento, in-
vece ha torto nei confronti di un padre che è Dio Padre: l’eredità
paterna rimane sempre intatta, è un’eterna ricchezza che non viene
intaccata dagli inutili sprechi dei peccatori (15,30a).
Verso la fine del racconto viene sviluppata, nelle sue diverse
parti, una metafora piuttosto che una comparazione, e la parabola
tende a diventare allegoria. Vi si dice – o quasi vi si descrive – il
rispetto con cui Dio risponde alla resistenza umana più invincibile:
una resistenza più ostinata di quella del peccatore che vuole solo
liberamente peccare; la resistenza di chi è fedele a Dio, ma si con-
fronta con i fratelli per condannarli (18,29-30a).

Il fratello che sbaglia

La parabola a questo punto – che è il punto terminale – si in-


contra con il Libro di Giona. In essa si esamina senza asprezze e
FRATELLI NELLA BIBBIA

senza reticenze una fondamentale figura di fratello e di peccatore,


non la più frequente forse, ma la più esemplare: una condizione li-
mite, che è interna all’atto di peccare, e che tuttavia ha l’espressione
sua propria nell’ambito della fedeltà di Dio.
Giona si sente fatto di un’altra pasta rispetto agli abitanti di Ni-
nive: se ne separa, installandosi su un’altura di fronte alla città, per
assistere alla loro distruzione (Gn 4,5), ma anche per controllare che
Dio faccia la sua parte, ora che egli ha accettato di fare la propria
(Gn 1,1-3; 2,1-3). Allo stesso modo il fratello maggiore della pa-
rabola non ammette di stare sullo stesso piano del fratello minore,
e rifiuta espressamente quel segno di comunione e di accoglienza
reciproca che è lo stare a tavola insieme per fare festa. Non accetta il
fratello come fratello, e quindi non accetta il padre, che continua a
44
comportarsi come padre, e che lo ha fatto fratello, o lo vuole fratel-
lo, capace di rallegrarsi perché «questo tuo fratello che era morto ora
è di nuovo vivo, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,33).
Per altre vie, più rapide e segrete, il fratello maggiore recupera
l’itinerario di peccato percorso dal minore. E appunto lì dimostra
la propria superiorità, in una resistenza al padre più convinta, più
definitiva: non accetta il fratello, perché peccatore, perché prodigo
– sconsideratamente prodigo – del patrimonio paterno. Non vuole
accettare la povertà del peccatore, che in questo momento è anche
la sua (cfr l’episodio dell’adultera in Gv 8,7.9). La povertà è costituti-
va della condizione di fratello: i fratelli hanno avuto tutto dal padre,
i peccatori hanno ricevuto tutto da Dio Padre, non hanno nulla di
proprio. Ecco un altro aspetto del tema del fratello.
Né il profeta protagonista del libro di Giona, né il fratello mag-
giore della parabola lucana danno segni di conversione. Di fronte
alla misericordia di Dio che li incalza, non è detto in alcun modo
che accennino a sottomettersi, a riflettere su di sé, a mettersi in
discussione; che si commuovano per l’affetto, la delicatezza, la di-
screzione con cui Dio li invita a cambiare animo. Non accettano
una misericordia che sembra metterli sul medesimo piano dei loro
fratelli peccatori. Essi insistono, esplicitamente o no, nel confron-
to. Sembrano fieri della propria ostinazione, con l’illusione di avere
qualcosa da insegnare a tutti: in questo caso anche a Dio, soprattut-
FIGLI DELL’UNICO PADRE: IL NUOVO TESTAMENTO

to a Dio. Di fatto sono nella condizione di chi è ormai inconverti-


bile: qualcosa di demoniaco.

La paternità di Dio

Con la parabola del Padre misericordioso l’apporto di Luca al


discorso sul fratello è dato, oltre che da elementi nuovi, anche da un
nuovo livello di profondità. Vi si scava teologicamente il tema della
paternità di Dio, che è inseparabile da questo: essere fratelli è essere
figli di quel Padre. Il tema del fratello viene perciò ad acquistare
una dimensione in più – si direbbe una dimensione verticale, di
approfondimento (la linea verticale che va da padre a figlio) –, e ora
gli altri testi evangelici si leggono sotto un’ottica inattesa. Rimane
45
pure definitivamente chiarito qual è il momento fatale per la condi-
zione di fratello, quello in cui essa accenna ad estinguersi: è quando
si cede alla tentazione di confrontarsi e di riconoscersi e dichiararsi
superiori, rifiutando l’iniziale parità dei fratelli.
E viene anche indicata la radice ultima della singolarità della
condizione di fratello, il motivo che la rende così carica di implica-
zioni spirituali: la povertà. Essere fratelli significa ritrovarsi sensibil-
mente nella nudità iniziale in cui si è nati, in quel bisogno di tutto,
in quel ricevere tutto gratuitamente, per puro amore. Una nudità
che è l’esperienza primaria in cui si visibilizza e si esprime il nostro
rapporto con Dio Padre.

Lazzaro, il ricco epulone e i fratelli

Uno sviluppo ulteriore di quest’ultimo punto si può trovare


nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone (Lc 16,18-31). Una
volta tanto Lazzaro, uno dei protagonisti, ha un nome. Più esat-
tamente, solo il povero ha un nome, come a dire un’identità sua
profonda che dura per l’eternità. L’altro è un anonimo, definito da
quella qualifica esterna che è la condizione del ricco: «un uomo,
un tale, era un ricco».
Qui i fratelli entrano nel discorso solo verso la fine, incidental-
mente: misurato il fondo della propria disperazione, all’ultimo il ric-
FRATELLI NELLA BIBBIA

co si ricorda che esistono anche gli altri, e si mette a raccomandare


ad Abramo i propri fratelli, ma senza alcun risultato. Essere fratelli
suppone analogia di livello, e potrebbe significare più o meno anche
destino comune: di qui la preoccupazione di un fratello maggiore
finito male. Il ricco è sempre se stesso, rimane fermo al proprio
livello; ma si è deciso a uscire da quel suo io individuale, ormai
divenuto una prigione d’inferno; guarda intorno a sé, e tenta di
assumere il carico della salvezza altrui.
Ma non è questa la fratellanza, estenuata e fallimentare, che la
parabola ha di mira. Il vero fratello del ricco è Lazzaro: le loro sorti
si accomunano e si saldano in rigorosa continuità, ma con un cam-
biamento assoluto dopo la morte (16,25). In vita, il ricco ha avuto
tutto, il povero nulla; e il contrasto sembra prolungarsi anche dopo
46
la morte, dato che si parla di un sepolcro per il ricco, ovviamente
sontuoso, mentre Lazzaro pare rimanga insepolto. In realtà, le par-
ti sono completamente invertite. Lazzaro aspirava ai rimasugli che
vengono lasciati cadere dalla tavola, ma non poteva averli, perché
non era nessuno; il ricco ora si accontenterebbe di una goccia d’ac-
qua (quel tanto che sta sulla punta di un dito), ma non gli viene data,
perché il distacco ormai è incolmabile. Non ha voluto accorgersi
dell’atroce inedia di Lazzaro, e ora la sua preghiera rimane inascol-
tata. In una simile alternanza di parti, il destino dell’uno si prolunga
direttamente, con naturalezza e senza interruzioni, in quello dell’al-
tro: una fratellanza ben tragica.
Non solo. In questo scambio di parti ci si rifà a una funzione
paterna: è la porzione originaria di quel loro destino comune. La
paternità a cui rinvia questa fratellanza di per sé è quella di Dio, ma
qui è visibilizzata nella paternità di Abramo, il capostipite. Lazzaro
è accolto da Abramo come figlio: non come un semplice discen-
dente carnale, ma come un vero figlio. Perciò Abramo lo fa riposare
nel suo grembo, per sempre (16,22-23): un’espressione che allude ai
divani su cui (anche in Palestina, secondo l’uso ellenistico) si gia-
ce distesi durante il banchetto. Questo è il banchetto escatologico,
dove Lazzaro ha il posto d’onore alla destra di Abramo. Anche il
ricco è un figlio di Abramo, che lo chiama esplicitamente così: «Fi-
glio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro
i suoi mali» (16,25), rievocando direttamente, per contrapposizione
FIGLI DELL’UNICO PADRE: IL NUOVO TESTAMENTO

all’eterno convito, i banchetti in casa del ricco da cui Lazzaro, l’af-


famato, era escluso. Dunque, una vera fratellanza, ma destinata solo
a raffigurare il contrasto assoluto: per un perfetto contrasto occor-
re che le parti messe in contrapposizione siano realmente simili, si
equivalgano.

I fratelli nella fede

Qualcosa di analogo viene proposto nella parabola, sempre dal


Vangelo di Luca, del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14), dove non
si parla di fratelli, e tuttavia si fa un autentico confronto tra fratelli.
Qui si tratta della fratellanza che nasce dal comune rapporto con
la Legge mosaica: un rapporto originario per il popolo d’Israele,
47
che come popolo è figlio di Dio e ascolta la parola di Dio, cioè la
Legge mosaica, e i cui membri sono tra loro fratelli, in dipendenza
da quella paternità divina.
Un rapporto con la Legge, e quindi un’obbligazione, che il fari-
seo e il pubblicano della parabola riconoscono e accettano, ma con
animo diverso. E l’animo diverso trasforma in contrasto la parità
originaria dei fratelli: essi vanno per la medesima via, che è la Leg-
ge, ma in direzioni opposte. Ancora una volta, come nella parabola
del ricco epulone, il contrasto tende a entrare nella sfera del defini-
tivo. Da quell’incontro con Dio nel Tempio, a una stessa ora e non
lontani uno dall’altro, il pubblicano torna a casa giustificato (18,14a),
e se persevera nella sua difficoltà di peccatore che può supplicare la
misericordia di Dio (18,3), e nulla più, diventerà sempre più giusto.
Il fariseo, invece, cui la vita non offre alcun motivo di mettersi in
discussione, uscirà sempre più peccatore dai quotidiani incontri con
Dio. I due esiti contrapposti sono già avviati a proiettarsi nell’eterno.
In questo episodio (che non ha nulla di ipotetico: si direbbe ap-
partenga al quotidiano del popolo di Dio) la relazione tra fratelli
rivela tutti i suoi aspetti essenziali. Il riferimento al padre, innanzi-
tutto. C’è il fatto di due israeliti che si trovano insieme, uno accanto
all’altro, di fronte alla paternità di Dio, in atto di preghiera. Qui ci si
dice che Dio è un padre che tratta con il popolo come con un figlio,
sia pure colpevole; ma non tratta con chi lo affronta alla pari, con
FRATELLI NELLA BIBBIA

chi ha diritti da rivendicare e una contabilità dove si enumerano gli


obblighi di Dio verso qualcuno (18,11-12).
C’è poi la logica esiziale del confronto. Il fariseo non ha altro
peccato che questo: non propriamente il vanto di avere osservato
«perfettamente» la Legge, poiché di questa sua fedeltà ringrazia Dio
(18,11b), e riconosce che è dono di Dio e non sua privata bravura.
Ma quel peccato contro il fratello – un peccato così naturale, così
spontaneo, che non pare neanche peccato – gli è fatale: cancella
tutto il bene che è in lui. Ancora una volta, chi non accetta il fratello
come fratello e si mette a misurare le distanze, pone una distanza
tra sé e Dio, non riconosce Dio come padre. Silenziosamente si è
ritornati di nuovo all’esempio di Giona: al suo sentimento di supe-
riorità illimitata; all’animo con cui il profeta d’Israele pronunzia la
48
condanna sui niniviti, e poi ne attende l’esecuzione; alla sua incon-
vertibilità demoniaca.
Ecco il peso effettivo di quei precetti del Vangelo che spesso
sono visti come sfumature aggiuntive, utili alla perfezione, ma non
necessarie per la salvezza: «Non giudicare!» (Mt 7,1-2; Lc 6,37);
«Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia!» (Mt 5,7; cfr
18,33).
Questo episodio, essenziale e si direbbe quasi puntiforme, coglie
due stati di coscienza accostati nello spazio e nel tempo da un co-
mune proposito di preghiera e radicalmente contrapposti, che chia-
riscono quale posto ha la povertà nella condizione del fratello. Il
fratello è qualcuno come me, a cui posso chiedere di starmi accanto,
di rimanere al mio livello, di non abbandonarmi; qualcuno da cui
non mi distinguo, a cui non mi contrappongo, con cui non ho
voglia di fare confronti; è come me. Perciò solo i poveri riescono a
essere veramente fratelli. Chi non ha niente che suggerisca un titolo
di superiorità, o un di più che l’altro non ha, è finalmente qualcuno
capace di essere veramente un fratello.
Una simile povertà è pure la condizione dell’uomo che si mette
davanti a Dio: la povertà di chi prega. Pregare è l’atto proprio del
povero. Perciò dev’essere la condizione – ma di fatto non è – del
fariseo e del pubblicano: i due israeliti che insieme, allo stesso mo-
mento, stanno nel Tempio a pregare. Il punto è che il fariseo non
è veramente un povero. Osserva la Legge fino allo scrupolo, e ap-
FIGLI DELL’UNICO PADRE: IL NUOVO TESTAMENTO

prezza questa sua fedeltà come il bene più prezioso, di valore eterno:
un possesso di cui si sente l’autore, perché è nato dall’intimo della
sua volontà; un bene che è dono di Dio (e lui lo riconosce), ma che
di fatto ormai è soltanto suo, tant’è vero che lo rivendica come suo,
in termini strettamente proprietari, nell’atto di sentirsi e dichiararsi,
per via di questa sua fedele osservanza, superiore al pubblicano. Di
solito i farisei erano economicamente poveri: ma non della povertà
biblica, quella per cui sono «beati i poveri» (Mt 5,3; Lc 6,20), quelli
in cui si assommano tutte le altre beatitudini. Perciò il Vangelo di
Matteo al termine «poveri» aggiunge un chiarimento: «di spirito»,
«in senso spirituale».
In realtà i due sono più fratelli di prima: li accomuna ora la
condizione di peccatori; e il peccato è la forma suprema e la ragione
49
originaria della povertà. Due peccatori: uno era tale prima della
preghiera, l’altro lo è dopo, in conseguenza di quella sua preghiera.
Il fariseo e il pubblicano di per sé sono di nuovo fratelli, perché
poveri: non hanno nulla di proprio; tutto in loro appartiene al Pa-
dre, anche la fedeltà del fariseo, anche la contrizione del pubblicano.
Sono peccatori, quindi poveri; pertanto sono fatti per pregare, si
direbbe, preparati appositamente per questo.
Il peccatore è un povero che può rivolgersi solo a Dio, e non ha
diritto di esigere nulla, ma è consapevole che, se rimane nei limiti
della sua condizione di povero, Dio gli darà tutto quello di cui ha
davvero bisogno. E il peccatore è un mendico che ha molti fratelli
in cui riconoscersi, fino al momento in cui non comincia a prefe-
rirsi a loro.

I due ladroni sulla croce

Del tutto analoga alla situazione del fariseo e del pubblicano


è quella dei due ladroni morenti sulla croce accanto al Signore
(Lc 23,39-43); e ancora una volta una fratellanza si risolve in due
esiti opposti.
L’episodio è solenne: stando al racconto di Luca, è l’ultimo atto
di Gesù prima di morire. Come nella parabola precedente, qui c’è
un uomo che si riconosce peccatore, e che prega: è un povero che
dalla croce si rivolge a Gesù perché si ricordi di lui; non nomina la
FRATELLI NELLA BIBBIA

propria agonia di crocefisso se non per dire che se la merita. L’altro,


invece, non pensa alle proprie colpe, è tutto preoccupato della sua
sofferenza e della morte imminente, non si mette in discussione.
E, come i crocifissori, preferisce mettere sotto accusa l’innocente
(23,39b). Come Giona, come il fratello maggiore della parabola,
come il pubblicano che ricorda a Dio quanto gli deve, anche lui
contesta il Signore.
Qui la fratellanza ideale è ben visibile nella tragica negatività:
sono due malfattori, condannati perciò a una morte atroce, che è
pienamente meritata, come uno dei due dichiara all’altro, parlando
appunto a nome di tutti e due. Ed è pure ben visibile l’esito contrap-
posto in cui si risolve una fratellanza nel delitto, che probabilmente
è durata tutta una vita.
50
Per il ladrone pentito, riconosciutosi amico di Gesù e affidatosi
a lui, c’è l’«oggi» della salvezza: «Oggi con me sarai nel paradiso»
(23,43).
IN VIAGGIO
CON PAPA FRANCESCO
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ


E DI ALLEANZE*

Antonio Spadaro S.I.

Dal Tevere al Nilo

L’aereo papale è atterrato poco dopo le 14,00 all’aeroporto inter-


nazionale del Cairo, dopo aver sorvolato il delta del Nilo e le case
52 color sabbia della Capitale egiziana. In lontananza le sagome delle
piramidi hanno ricordato al seguito papale e ai giornalisti a bordo
che stavamo per atterrare sulla terra di un’antichissima civiltà, della
quale il popolo d’Egitto è erede.
Nel suo primo discorso presso l’Università al-Azhar, il Papa ha
iniziato proprio così, ricordando come l’Egitto abbia una «gloriosa
storia», ed evocando la «ricerca del sapere» che ha caratterizzato da
sempre la sua civiltà: saggezza, ingegno, arte, astronomia. Ma que-
sta terra di acqua e sabbia, fertile e arida, vive contrasti profondi. La
sua pietra porosa è pure intrisa del sangue dei martiri. La saggezza
del sapere, che è aperto all’«altro», alla sua diversità, sembra minac-
ciata da una violenza che lo nega e non lo riconosce.
Nel suo viaggio dal Tevere al Nilo, Francesco, consapevole di
queste tensioni, ha voluto visitare una «culla di civiltà, dono del
Nilo, terra del sole e dell’ospitalità, ove vissero Patriarchi e Profeti
e ove Dio, Clemente e Misericordioso, l’Onnipotente e Unico, ha
fatto sentire la Sua voce»1. Il viaggio è durato appena 27 ore, ma la
sua intensità sembra aver dilatato le ore e i minuti.
«Accogliendo l’invito del Presidente della Repubblica, dei ve-
scovi della Chiesa Cattolica, di Sua Santità Papa Tawadros II e del
Grande Imam della Moschea di al-Azhar, Cheikh Ahmed Moha-

* Titolo originale: «Egitto, terra di civiltà e di alleanza. Il viaggio dramma-


tico, terapeutico e profetico di Francesco».
1. È l’inizio del suo videomessaggio diffuso alla vigilia della partenza.

© La Civiltà Cattolica 2017 II 285-299 | 4005 (6/20 maggio 2017)


EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE

med el-Tayyib, Sua Santità il Papa Francesco compirà un Viaggio


Apostolico nella Repubblica Araba d’Egitto dal 28 al 29 aprile 2017,
visitando la città del Cairo». Questo è stato l’annuncio fatto dalla
Sala Stampa Vaticana il 18 marzo scorso. Un Papa invitato da tutte
le forze di una società, a volte in tensione tra loro.

L’urgenza «terapeutica» e l’unità del Paese

Poi gli eventi del 9 aprile, domenica delle Palme. A Tanta, nel
Delta del Nilo, a metà strada fra il Cairo e Alessandria, una bomba
è esplosa nella chiesa copta ortodossa di San Giorgio. La chiesa era
stracolma di fedeli, e la Tv di Stato trasmetteva in diretta la celebra-
zione. Le immagini si sono interrotte al momento dell’esplosione,
53
che ha lasciato tra i banchi della chiesa morti e feriti. Neanche due
ore dopo, un secondo kamikaze si è fatto esplodere ad Alessandria
davanti alla cattedrale di San Marco (venerato come il fondatore
della Chiesa copta), dove era in corso la liturgia presieduta da papa
Tawadros II. Sono morte 49 persone, e 78 sono rimaste ferite. Le
forze di sicurezza egiziane hanno pure disinnescato due ordigni
esplosivi che erano stati piazzati nella moschea Sidi Abdel Rahim,
sempre a Tanta, dove si trova un santuario Sufi. Successivamente, il
19 aprile, si è verificato un attacco contro un checkpoint sulla strada
che conduce all’antico monastero di Santa Caterina, nel Sinai2.
Il viaggio di papa Francesco dunque ha improvvisamente as-
sunto un valore in più, un valore radicalmente «terapeutico», nel
momento in cui «l’ospedale da campo» che è la Chiesa si accosta,
grazie alle mani del suo pastore universale, all’umanità ferita. Del
resto, proprio questo è uno degli obiettivi di Francesco durante i
suoi viaggi: toccare le ferite. Lo ha fatto a Bangui e a Sarajevo, a
Lampedusa e ad Auschwitz, nelle Filippine e nel Messico… e così

2. Sarebbe troppo lungo rievocare la serie di attentati che hanno minacciato


la comunità copta e ne hanno insanguinato la vita. Quello di domenica 9 aprile è
stato l’attentato più grave nella memoria recente, ma è stato preceduto da circa altri
500 episodi di violenza contro i cristiani in Egitto a partire dal 2013. Ricordiamo
che pochi giorni prima del suo viaggio, sabato 22 aprile, Francesco si era recato
nella basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina per celebrare la Liturgia della
Parola con la Comunità di Sant’Egidio, in memoria dei «Nuovi Martiri» del XX e
XXI secolo.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

via. Dopo gli attentati, qualcuno aveva messo in dubbio il viaggio.


Al contrario, essi, agli occhi del Pontefice, hanno reso il viaggio
apostolico ancora più necessario.
Ogni attacco ai cristiani è, del resto, un attacco all’unità del
Paese, che è invece un prezioso frutto della pace3. «Il Papa della
pace nell’Egitto della pace», è stato il motto ufficiale della visita.
Francesco è raffigurato sullo sfondo delle piramidi e del fiume Nilo
sormontate dalla Mezzaluna musulmana e dalla Croce cristiana, e
accanto a una colomba, simbolo di pace, mentre sorride e benedice.

L’incontro con l’Imam di al-Azhar

Dopo l’atterraggio al Cairo il Papa si è diretto al Palazzo pre-


54
sidenziale a Heliopolis, dove è stato accolto per un primo incontro
privato e lo scambio dei doni dal presidente Abd al Fattah al-Sisi4.
Quindi si è trasferito nella sede di al-Azhar, a circa 10 km di
distanza, per una visita di cortesia al Grande Imam della moschea.
L’incontro con el-Tayyib5 ha reso questo viaggio particolarmen-
te significativo. Infatti la moschea, con l’annessa scuola superiore di
studi musulmani del Cairo, fondata nel X secolo, è tuttora il mag-
giore centro di studi teologici e giuridici del mondo islamico. La
visita di Francesco ad al-Azhar ha avuto un grande valore dal punto
di vista simbolico, perché la sua peculiare autorità è riconosciuta nel

3. «Questi atti non danneggeranno l’unità di questo popolo e la sua coesione.


Gli egiziani sono uniti di fronte a questo terrorismo fino a quando sarà sradicato»,
aveva subito detto Tawadros al premier egiziano Sherif Ismail, che lo aveva chiamato
per presentargli le sue condoglianze. Ecco il punto: l’unità del popolo egiziano e la
sua coesione nella terra di tutti. Papa Shenouda III, predecessore di Tawadros, lo
aveva detto a Giovanni Paolo II: «L’Egitto non è la terra natale nella quale viviamo,
ma la terra natale che vive in noi».
4. Nato al Cairo il 19 novembre 1954, militare, capo dell’intelligence egiziana
dopo la deposizione di Mubarak, al-Sisi è attualmente il sesto presidente della
Repubblica d’Egitto, salito al potere dopo il rovesciamento del presidente Mohamed
Morsi, il 3 luglio 2013.
5. Ahmad el-Tayyib, nato a Luxor il 6 gennaio 1946, è un noto religioso,
filosofo e teologo egiziano. Ha studiato Pensiero islamico all’Università di Paris IV
(Paris-Sorbonne), conseguendovi un dottorato di ricerca e poi insegnandovi come
Professeur invité; nel 1989 è stato professore anche nell’Università di Friburgo. Il 6
gennaio 1988 è diventato professore di Filosofia e Teologia ad al-Azhar, della cui
moschea è diventato imam nel 2010.
EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE

mondo islamico sunnita, e ogni anno questa scuola forma migliaia


di imam destinati a predicare nelle moschee di tutto il mondo.
Francesco aveva già incontrato Ahmad el-Tayyib in Vaticano
il 23 maggio 2016, per un colloquio di trenta minuti. «Il nostro
incontro è il messaggio», ha detto Francesco secondo i testimoni6.
È importante avere rapporti positivi con il più credibile e autorevo-
le interlocutore sunnita proprio in un’ottica anti-fondamentalista,
all’interno delle iniziative intraprese con alcune élites musulmane in
vista di una più ampia e incisiva collaborazione7.

La cittadinanza e il futuro da edificare insieme

Per comprendere il significato della presenza del Papa ad al-


55
Azhar è necessario sapere che dal 28 febbraio al 1° marzo 2017 nello
stesso luogo si era tenuta una Conferenza su «Libertà, cittadinanza,
diversità e integrazione». Al termine i partecipanti – politici, acca-
demici, leader religiosi cristiani e musulmani –, provenienti da 50
Paesi, hanno sottoscritto la «Dichiarazione di reciproca coesistenza
islamo-cristiana», che condanna l’uso della violenza in nome della
religione e indica nel principio di cittadinanza il criterio da ap-
plicare per garantire la pacifica e fruttuosa convivenza tra persone
appartenenti a fedi e comunità religiose differenti. Musulmani e
cristiani – si legge nella Dichiarazione – sono «una sola comunità, i
musulmani con la loro religione e i cristiani con la loro religione»;
«le responsabilità della patria sono infatti responsabilità condivise da
tutti». La Dichiarazione usa una bella immagine: «Noi siamo perso-
ne che vivono su una stessa nave, e in un’unica società: affrontiamo

6. Quella udienza era stata di grande importanza, perché è avvenuta dopo che
i rapporti tra il Vaticano e al-Azhar avevano conosciuto un periodo di freddezza.
Inoltre, dopo un attentato contro una chiesa copta ad Alessandria d’Egitto,
Benedetto XVI chiese protezione per i cristiani del Medio Oriente, e dell’Egitto
in particolare, appellandosi sia alle autorità del Cairo, sia ai governi della regione e
all’Unione Europea. La cosa purtroppo fu fraintesa come un atto di ingerenza negli
affari interni dell’Egitto. Da allora la diplomazia vaticana e il Pontificio Consiglio
per il Dialogo Interreligioso hanno molto lavorato per ristabilire i contatti.
7. Cfr il discorso del Segretario di Stato, card. Pietro Parolin, nel suo
intervento in occasione del Concistoro ordinario pubblico sul Medio Oriente, del
20 ottobre 2014.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

pericoli comuni che minacciano le nostre vite, le nostre società, i


nostri Stati, e tutte le nostre religioni».
Il concetto di nazione, che in arabo non esisteva fino all’Otto-
cento, è stato interpretato sempre in termini etnici o religiosi. Ora
la più importante istituzione sunnita, al-Azhar, lo plasma in termi-
ni geografici, nella patria comune, dove si deve vivere insieme, da
uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi8.
Proprio questo è il cuore del problema: non si tratta di invocare,
da parte del potere, la «protezione» dell’una o dell’altra comunità re-
ligiosa, ma di garantire alle persone, parte dell’unica famiglia uma-
na, i diritti fondamentali. Il luogo proprio della difesa dei cristiani è
la tutela della persona e del rispetto dei diritti umani, in particolare
quelli della libertà religiosa e della libertà di coscienza.
56
Per questo è necessario promuovere e sviluppare il concetto di
«cittadinanza» come punto di riferimento per la vita sociale, ga-
rantendo i diritti di tutti i cittadini attraverso strumenti giuridici
adeguati. Insomma, bisogna passare dalla teoria ai fatti, dai discorsi
al processo politico. E se c’è qualcosa che dittatori e fondamentalisti
detestano, è proprio questo9.

O la «civiltà dell’incontro» o l’«inciviltà dello scontro»

Il Papa e l’Imam si sono ritrovati al Conference Center di al-Azhar,


dove dal 27 al 28 aprile si è tenuta una «Conferenza interreligiosa
per la pace», organizzata dal Consiglio islamico degli anziani, una
organizzazione che ha sede ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati
Arabi Uniti, e che intende promuovere i valori umani nell’ambito
del mondo islamico. Alla presenza di altri leader religiosi e politici
egiziani e di altri Paesi e a una folta rappresentanza di docenti e stu-

8. Molto importante sul concetto di cittadinanza è la «Dichiarazione


di Marrakesh», del 26 gennaio 2016. Cfr R. Cristiano, «Courban: “Il Papa al
Cairo mentre nasce una nuova ‘umma’”», in Vatican Insider (www.lastampa.it/
vaticaninsider), 20 aprile 2017.
9. I terroristi prosperano sotto quei poteri che spingono le frange più frustrate
della popolazione a cercare rifugio sotto le bandiere nere dell’islam fondamentalista.
Di qui la tentazione, da parte di coloro che sono relegati al rango di «minoranze», di
affidare del tutto il proprio destino a regimi considerati come baluardo di protezione
dal terrorismo.
EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE

denti dell’Università, si sono succeduti i discorsi del Grande Imam e


del Pontefice, che hanno concluso la Conferenza organizzata pro-
prio in occasione della visita papale. I due leader hanno parlato da
un leggio, dove erano posti rami di ulivo e un ramo di palma, segni
della pace e del martirio.
Ha colpito tutti il caloroso e lungo abbraccio tra il Papa e l’I-
mam, che ha definito Francesco «grande ospite e caro fratello».
L’immagine ha evocato quella dell’abbraccio tra san Francesco e
il sultano Malik al Kamil, per altro menzionata nel discorso del
Pontefice.
Francesco ha tenuto un discorso ampio e di alto profilo, inter-
rotto una decina di volte da applausi. Il discorso è stato centrato
sull’importanza dell’«altro», della sua diversità. La «ricerca del sape-
57
re», che da sempre è propria dell’Egitto, «ricerca l’altro, superando la
tentazione di irrigidirsi e di chiudersi». Andando indietro nel tem-
po, ricordando la civiltà antichissima, il Papa non ha fatto appel-
lo né alle antiche radici cristiane né a quelle islamiche più recenti.
Insomma, ha messo gli egiziani di oggi tutti insieme dalla stessa
parte, tutti eredi di una grande civiltà.
Ed è andato alle radici di questa civiltà, affermando che la vera
sapienza nasce dall’apertura del cuore e della mente: essa è «aperta
e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso». Questo oggi
chiaramente può essere solamente frutto dell’educazione, che deve
promuovere l’incontro tra religioni e culture, il dialogo. «La luce
policromatica delle religioni ha illuminato questa terra», ha detto
il Papa. Non c’è alternativa: o la «civiltà dell’incontro» o l’«inciviltà
dello scontro». Il futuro va edificato insieme: l’Egitto è e deve es-
sere «terra di alleanze» per il bene comune. Di qui deve partire un
auspicabile rinnovamento del discorso religioso, risolvendo le con-
traddizioni teoriche e pratiche che accostano violenza e religione.
E proprio per questo occorre distinguere bene tra la sfera reli-
giosa e quella politica, in modo che le generazioni future si svilup-
pino come alberi ben radicati nel terreno della storia che, «crescen-
do verso l’Alto e accanto agli altri, trasformino ogni giorno l’aria
inquinata dell’odio nell’ossigeno della fraternità». Nel suo discorso
il Papa ha fuso populismo e fondamentalismo, stigmatizzando sia la
religione che usa la violenza sia quella che si fa usare dal potere le-
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

gandosi ai governi e alle fazioni politiche. Si tratta di un messaggio


forte che va ben al di là della situazione mediorientale.
Forte è stato l’appello contro la violenza, specialmente quella
che «si riveste di presunta sacralità». Essa è «la negazione di ogni
autentica religiosità». In questo Francesco è stato durissimo. Il «no»
chiaro e deciso alla violenza è risuonato più volte nel discorso pa-
pale, sempre confermato dagli applausi dei presenti. Ricordiamo a
tale proposito che l’incontro si era aperto con la richiesta del Grande
Imam di alcuni istanti di silenzio in memoria delle vittime degli
attentati terroristici.
La costruzione della pace risulta possibile solamente se ci si ado-
pera «per rimuovere le situazioni di povertà e di sfruttamento, dove
gli estremismi più facilmente attecchiscono», e per «bloccare i flussi
58
di denaro e di armi verso chi fomenta la violenza», ha quindi affer-
mato il Pontefice. Non basta un pacifismo astratto: bisogna lavorare
contro le radici più remote della violenza.
La visita del Papa ad al-Azhar rappresenta dunque un passo ul-
teriore nella direzione del superamento dell’ideologia dello scon-
tro di civiltà e della guerra di religione che Francesco sta portando
avanti con determinazione inflessibile. Egli sa che l’uso della paura
a fini geopolitici è una costante della storia umana. Il jihadismo che
genera il «terrorismo islamico» in realtà ha matrici socioeconomi-
che, non culturali e religiose10. E ad esso corrisponde l’identitarismo
«crociato» in Occidente, anch’esso innervato da interessi politici ed
economici11.

La profezia dell’Egitto, «patria per tutti»

Alla fine della visita ad al-Azhar, il Papa si è trasferito all’Hotel


Almasah, dove è avvenuto l’incontro con le autorità. Erano presenti
circa 800 rappresentanti delle Istituzioni, del Corpo diplomatico e
della società civile. Qui il Papa e il Presidente si sono incontrati in
maniera pubblica e hanno tenuto i loro discorsi.

10. Cfr R. Aitala, «Il falso mito dello scontro di civiltà», in Limes n. 2/2017,
193-204.
11. Cfr A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come
processo politico», in Civ. Catt. 2016 I 209-226.
EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE

Negli ultimi anni l’Egitto è stato scosso prima dalla rivoluzione


di piazza Tahrir e dalla caduta del rais Hosni Mubarak, poi dalla
vittoria elettorale dei Fratelli musulmani, quindi dalla crisi del loro
governo e dalla nuova rivolta, che ha rovesciato Mohamed Morsi
per far salire al potere un altro militare divenuto presidente, Abdel
Fattah al-Sisi12. Durante la sua presidenza sono migliorate le condi-
zioni di vita dei cristiani ed è stata sbloccata la costruzione di nuove
chiese. Al-Sisi è stato il primo capo di Stato nella storia dell’Egitto a
partecipare alla festività natalizia del 7 gennaio, secondo il calenda-
rio copto. Il Presidente ha sollecitato di frequente le guide religiose
ad attuare una riforma che renda l’islam sempre più compatibile
con la democrazia e a condannare la perversione jihadista. Dopo il
doppio attentato contro le chiese copte, ha accresciuto la presenza
59
delle forze armate nel Paese, non mancando di sollevare preoccu-
pazioni riguardo all’abuso di misure antiterroristiche e di controllo
promosse in nome della salvaguardia della sicurezza.
L’Egitto di oggi abbonda di tormentose contraddizioni, anche
se certamente la sua politica risulta decisiva per la stabilità di un’in-
tera area di grande interesse strategico. Il Papa non ha taciuto il fatto
che la pace è «un bene da costruire e da proteggere, nel rispetto del
principio che afferma la forza della legge e non la legge della for-
za», e che è assolutamente necessario il «rispetto incondizionato dei
diritti inalienabili dell’uomo». Ma è stato pure molto chiaro il fatto
che Francesco ha trattato l’Egitto come una nazione con un ruolo
chiave nel Medio Oriente, come un partner e un importante in-
terlocutore, riconoscendogli un «ruolo insostituibile» nel quadrante
geopolitico mediorientale. Ha immaginato un Egitto promotore
della pace regionale, pur essendo ferito esso stesso da «violenze cie-
che». Il Papa, dunque, ha agito da leader di alto profilo politico,
sapendo bene che «la pace è dono di Dio, ma è anche lavoro dell’uo-
mo»: un lavoro lento, faticoso e a volte contraddittorio.
Il Pontefice aveva già incontrato il Presidente in Vaticano il 24
novembre 2014. Il comunicato della Sala Stampa aveva registrato,

12. Cfr, ad esempio, G. Sale, «Il dibattito su democrazia e mondo islamico a


cinque anni dalle “primavere arabe”», in Civ. Catt. 2016 II 17-32; Id. «La “seconda
rivoluzione” egiziana dell’estate», ivi III 2013 478-491; Id., «Islàm e democrazia», ivi
2011 II 319-326.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

nel corso dei colloqui, l’auspicio che «si possa rafforzare la coesi-
stenza pacifica fra tutte le componenti della società e continuare nel
cammino del dialogo interreligioso». Già quella visita aveva toccato
i temi relativi al ruolo dell’Egitto nella promozione della pace e della
stabilità nel Medio Oriente e nel Nord Africa.
Al Cairo, nel suo discorso alle autorità, Francesco ha ricordato
ancora una volta il prestigioso passato storico dell’Egitto – dei fa-
raoni, copto e musulmano –, ma anche il passato biblico e il fatto
che «sul suolo egiziano trovò rifugio e ospitalità la Santa Famiglia:
Gesù, Maria e Giuseppe». Oggi in questa terra «trovano accoglien-
za milioni di rifugiati provenienti da diversi Paesi, tra cui Sudan,
Eritrea, Siria e Iraq, rifugiati che con lodevole impegno si cerca di
integrare nella società egiziana». Il Papa dunque ha fatto appello
60
all’edificazione di «un Egitto dove non manchino a nessuno il pane,
la libertà e la giustizia sociale».
In maniera accorata poi si è rivolto ai presenti: «Abbiamo il dovere
di affermare insieme che la storia non perdona quanti proclamano la
giustizia e praticano l’ingiustizia; non perdona quanti parlano dell’e-
guaglianza e scartano i diversi. Abbiamo il dovere di smascherare i
venditori di illusioni circa l’aldilà, che predicano l’odio per rubare ai
semplici la loro vita presente e il loro diritto di vivere con dignità,
trasformandoli in legna da ardere e privandoli della capacità di sce-
gliere con libertà e di credere con responsabilità. Abbiamo il dovere
di smontare le idee omicide e le ideologie estremiste, affermando l’in-
compatibilità tra la vera fede e la violenza, tra Dio e gli atti di morte».
Quindi Francesco ha ribadito che l’Egitto è e deve essere «patria
per tutti», come recita il motto della Rivoluzione del 23 luglio 1952,
grazie all’«uguaglianza di tutti i cittadini». La presenza dei cristiani
è «storica e inseparabile dalla storia dell’Egitto». E ha proseguito, tra
gli applausi: «Voi avete dimostrato e dimostrate che si può vivere
insieme, nel rispetto reciproco e nel confronto leale, trovando nella
differenza una fonte di ricchezza e mai un motivo di scontro». In
questo modo Francesco ha voluto recepire e sostenere l’importante
dibattito su religione e cittadinanza in corso nel mondo islamico,
perché esso esca dall’ambito teorico. Un dibattito che vuole fuggire
la tentazione di costruire società etno-nazionaliste e una compren-
sione «tribale» dell’identità religiosa.
EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE

Facendo questo discorso il Pontefice aveva ben presente che il san-


gue dei copti viene utilizzato nell’ambito di un conflitto politico più
ampio sia contro il Presidente sia per attrarre salafiti e Fratelli musul-
mani radicalizzati e delusi. Suscitare il conflitto – lo si sa – è tecnica
di controllo politico. Ma la comunità copta ha la piena consapevo-
lezza di essere una comunità autoctona. Come tale, tra l’altro, essa ha
sempre partecipato ai vari passaggi dell’emancipazione nazionale che
è stata sempre portata avanti da musulmani e cristiani insieme. Anche
in questo frangente difficile di attentati e paura, colpisce la maturità
cristiana della reazione della leadership della comunità copta che, no-
nostante alcune pressioni occidentali strumentali, non concede nulla a
formule vittimiste o da sindrome da «persecuzione».
Le comunità cristiane non sono «minoranze» tollerate in Egitto,
61
ma neanche possono essere ridotte – come a volte accade a livello me-
diatico – solamente a «vittime». Esse sono invece componenti essenzia-
li, vitali, storiche e culturali di un Paese poliedrico e «policromatico».

Il fratello Tawadros e la testimonianza drammatica della Chiesa copta

Intorno alle 17,20 Francesco è arrivato nel Palazzo di Tawadros


II, dove i due hanno avuto un incontro privato. Al termine, in una
sala attigua, alla presenza delle delegazioni, hanno tenuto i loro di-
scorsi. Ha colpito tutti vedere Francesco entrare nella sala indossan-
do una croce pettorale di foggia copta, ricevuta in dono.
Tawadros è a capo della Chiesa copta, che è una delle Chiese
orientali antiche, nella quale il titolo di «Papa» spetta al patriarca di
Alessandria. Il termine «copto» deriva dall’arabo qubṭ (‫)طبق‬, che a
sua volta deriva dal greco αἴγυπτος, «egiziano». Secondo alcune
statistiche più attendibili, i fedeli dovrebbero aggirarsi intorno ai
10 milioni su una popolazione di oltre 90 milioni di abitanti. La
Chiesa fu fondata in Egitto nel I secolo e ha avuto origine dalla
predicazione di san Marco. Essa ha dato un contributo notevole alla
crescita del cristianesimo grazie ai suoi scrittori, esegeti e filosofi,
da Clemente Alessandrino a Origene. Ad Alessandria fu fondata
la prima scuola di catechesi della cristianità (190 d.C.), che ebbe
grandi maestri.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

Nel suo discorso Tawadros ha espresso a Francesco affetto e


gratitudine. Francesco ha ricambiato questi sentimenti, dicendo di
giungere «come pellegrino», «certo di ricevere la benedizione di
un Fratello che mi aspettava». Nella sala si respirava il clima di un
incontro importante, al tempo stesso solenne e fraterno.
La divisione tra la Chiesa copta e quella cattolica risale al V se-
colo, quando la prima, insieme ad altre Chiese orientali, si separò da
quelle latina e greca per il rifiuto delle conclusioni del Concilio di
Calcedonia del 451. I copti sono «miafisiti», cioè credono che Gesù
sia perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, ma la sua
divinità e la sua umanità sono state unite in una sola natura, chia-
mata «la natura del Verbo incarnato».
Papa Francesco, nel suo discorso, ha inquadrato la visita come
62
una tappa ulteriore del cammino comune dentro quella che ha defi-
nito «una comunione già effettiva». Infatti, «al cospetto del Signore,
che ci desidera “perfetti nell’unità”, non ci è più possibile nasconder-
ci dietro i pretesti di divergenze interpretative e nemmeno dietro
secoli di storia e di tradizioni che ci hanno reso estranei». Non è più
possibile andare avanti separatamente. L’«ecumenismo del sangue»
sostiene la maturazione del cammino ecumenico. «Come unica è
la Gerusalemme celeste, unico è il nostro martirologio», ha detto il
Pontefice. Occorre quindi edificare «la comunione nella concretez-
za quotidiana della testimonianza vissuta».
Il discorso di Francesco si colloca all’interno di una storia di
rapporti ecumenici iniziata dopo il Concilio Vaticano II. In par-
ticolare dal giugno 1968, quando papa Paolo VI fece restituire ai
copti una parte delle reliquie dell’evangelista Marco a seguito di
una richiesta del patriarca Cirillo VI. Le reliquie del Santo erano
state trafugate nell’828 e portate a Venezia. Fu proprio Paolo VI
a incontrare per primo un patriarca ortodosso copto dell’Egitto.
Questo avvenne il 10 maggio 1973, in Vaticano, quando Paolo
VI e Shenouda III firmarono un’importante «Dichiarazione» cri-
stologica comune e dettero avvio al dialogo ecumenico bilaterale
tra le due Chiese.
Il frutto principale è stata la Dichiarazione comune del 12 feb-
braio 1988, che esprime un accordo ufficiale sulla cristologia, ac-
cordo approvato dal Santo Sinodo della Chiesa copta ortodossa. La
EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE

Dichiarazione comune sulla fede cristologica ha messo fine a secoli


di incomprensione e di reciproca diffidenza13.

I Papi, i Patriarchi e «una comunione già effettiva»

La riunione più recente tra i leader delle due Chiese è del 10


maggio 2013, quando Francesco e Tawadros II si sono incontrati a
Roma per quello che il Pontefice aveva definito «una grande gioia e
un vero momento di grazia». Nella sua omelia nella Messa mattuti-
na a Santa Marta aveva così espresso i suoi sentimenti: «È un fratello
che viene a trovare la Chiesa di Roma per parlare, per fare assieme
un pezzo di strada. È un fratello vescovo come me, un vescovo, e
porta avanti una Chiesa. Chiediamo al Signore che lo benedica e lo
63
aiuti nel suo ministero di portare avanti la Chiesa copta; e anche per
noi, perché sappiamo percorrere insieme questo pezzo di strada».
Nell’abbraccio con Tawadros del 28 aprile, Francesco ha abbrac-
ciato una Chiesa che ha conosciuto bene il martirio, nel presente
come nel suo lontano passato, vivendolo con dignità e speranza. La
manifestazione di solidarietà affettuosa di Francesco a Tawadros ha
assunto un forte valore ecumenico. L’ecumenismo, d’altra parte, a
sua volta non è fine a se stesso, ma è per il servizio dei cristiani uniti
in un mondo diviso, fratturato e instabile.
Come segno concreto, Francesco e Tawadros hanno firmato
una Dichiarazione comune che riassume il cammino ecumenico
e lo rilancia per il futuro: «Dichiariamo reciprocamente che con
un’anima sola e un cuore solo cercheremo, in tutta sincerità, di non
ripetere il Battesimo amministrato in una delle nostre Chiese ad
alcuno che desideri ascriversi all’altra». Da quest’ulteriore tappa ecu-
menica risulta evidente che il Papa e i Patriarchi che ha incontrato
fino ad oggi stanno «giocando» un ruolo profetico dentro le rispet-
tive Chiese, muovendo verso una comunione sempre maggiore, al
di là di tutte le resistenze e le inerzie che vi si oppongono.

13. «Crediamo che il Nostro Signore, Dio e Salvatore Gesù Cristo, il Verbo
Incarnato è perfetto nella Sua Divinità e perfetto nella Sua Umanità. Ha reso la Sua
Umanità una con la Sua Divinità senza mescolanza, commistione o confusione. La Sua
Divinità non è stata separata dalla Sua Umanità neanche per un momento o per un batter
d’occhio. Al contempo [pronunciamo anatema sulla] dottrina di Nestorio e di Eutiche».
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

Immagine evidente di tale dinamica ecumenica è stato ciò che


è avvenuto dopo le firme e lo scambio di doni: il Papa con il Pa-
triarca e le delegazioni si sono trasferiti in processione alla chiesa di
San Pietro, a 100 metri di distanza, per una preghiera ecumenica
alla presenza dei Capi di altre confessioni cristiane. In questa chiesa
sono evidenti le tracce del grave attentato dell’11 dicembre scorso,
che ha provocato 29 morti e 31 feriti. Quel giorno i corpi furono
trasportati dall’interno della chiesa a ridosso di un muro fuori la
chiesa. Quel muro si è intriso del loro sangue. Oggi davanti a quel
muro è stato posto un vetro di protezione, e quel luogo è diventato
meta di pellegrinaggio e di preghiera, un vero e proprio «muro dei
martiri».
Proprio tra queste mura è avvenuta una celebrazione che ha vi-
64
sto presenti, tra gli altri, papa Francesco, papa Tawadros, il patriarca
Bartolomeo e il patriarca Teodoro II di Alessandria per la prima
volta tutti insieme.
Dopo la lettura del brano evangelico delle Beatitudini da parte
dei capi religiosi in spagnolo, inglese, greco e arabo, e dopo le pre-
ghiere di papa Francesco e di papa Tawadros II, ha avuto luogo lo
scambio del segno della pace e la recita del Padre Nostro. All’uscita
della chiesa, nell’atrio, il Pontefice ha reso omaggio al luogo che
ricorda le vittime, deponendo una corona di fiori e accendendo un
cero nell’assoluto silenzio. Il luogo del martirio, il muro insangui-
nato è stato uno dei tanti ormai toccati da Francesco.

La Chiesa copta cattolica e l’«estremismo della carità»

Sabato 29 aprile, intorno alle 9,30, Francesco è arrivato allo sta-


dio dell’Aeronautica militare, dove ha celebrato la Messa per i fedeli
della comunità cattolica, composta da copti, latini, caldei, melchiti,
armeni e maroniti. La sera precedente aveva salutato i 300 giovani
che avevano raggiunto la capitale egiziana con un pellegrinaggio di
due giorni e che poi hanno partecipato alla celebrazione.
Appena arrivato, Francesco è stato attorniato da un gruppo di
bambini, corsi ad abbracciarlo. La Messa è stata una grande sinfo-
nia di canti, eseguiti da 6 corali in rappresentanza dei diversi riti
cattolici presenti in Egitto e come segno di una Chiesa universale
EGITTO, TERRA DI CIVILTÀ E DI ALLEANZE

e unita. Tra i presenti c’erano rappresentanti della comunità copta


ortodossa e di al-Azhar. Tra i fedeli, numerosi erano pure gli orto-
dossi e i musulmani, alcuni anche parenti di vittime degli attentati
terroristici degli ultimi mesi.
In Egitto si contano circa 270.000 fedeli cattolici, 213 parrocchie,
16 vescovi, circa 500 sacerdoti, tra clero diocesano e religioso, e circa
730 religiose, oltre a un altro centinaio di consacrati. I cattolici sono
impegnati in circa 400 istituzioni educative – di cui 3 di livello supe-
riore e universitario –, frequentate da 100.000 studenti. Oltre 230 sono
i centri caritativi e sociali di proprietà o diretti da ecclesiastici o religiosi.
Nel suo messaggio pastorale alla piccola comunità cattolica, il Papa
ha commentato il Vangelo dei discepoli di Emmaus, della liturgia della
III Domenica di Pasqua. E ha detto: «Quante volte l’uomo si auto-pa-
65
ralizza, rifiutando di superare la propria idea di Dio, di un dio creato a
immagine e somiglianza dell’uomo! Quante volte si dispera, rifiutando
di credere che l’onnipotenza di Dio non è onnipotenza di forza, di au-
torità, ma è soltanto onnipotenza di amore, di perdono e di vita!». Dio
è al di là delle nostre idee su di lui, spesso legate a una comprensione
mondana dell’onnipotenza come espressione di potere. L’onnipotenza
di Dio è quella dell’amore. Un ulteriore messaggio che, affermando
l’amore, nega la violenza e la respinge dal territorio della religione.
Il Papa ha parlato di un vero e proprio «estremismo della carità»,
invitando ad «amare tutti, amici e nemici». Si tratta di un messag-
gio forte che – nonostante tutto – invita il piccolo gregge cattolico
d’Egitto a uscire da un atteggiamento difensivo, confidando non nel
potere mondano, ma in quello di Dio.
Nel pomeriggio, intorno alle 15,00, il Pontefice è stato accolto dal
patriarca copto cattolico, Sua Beatitudine Ibrahim Isaac Sidrak, presso
il Seminario patriarcale di San Leone Magno, nel quartiere di Maadi.
Qui, nell’area del campetto sportivo, ha incontrato il clero, i religiosi,
le religiose e i seminaristi: circa 1.500 persone in tutto. All’interno
della Liturgia della Parola, Francesco ha tenuto un discorso, identifi-
cando in sacerdoti, consacrati e consacrate «il “lievito” che Dio prepara
per questa Terra benedetta, perché, insieme ai nostri fratelli ortodossi,
cresca in essa il suo Regno». Essi sono «seminatori di speranza, co-
struttori di ponti e operatori di dialogo e di concordia». Questo è il
modo di essere «pastori» in terra d’Egitto, evitando una serie di ten-
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

tazioni – Francesco ne ha identificate sette –, tra le quali quella del


«faraonismo», che porta all’isolamento e al senso di superiorità.
Il Papa ha ricordato i due elementi dell’identità dei religiosi egizia-
ni: «essere copti – cioè radicati nelle vostre nobili e antiche radici» ed
«essere cattolici – cioè parte della Chiesa una e universale».
Alla fine dell’incontro in Seminario, il Pontefice si è trasferito in
aeroporto per la cerimonia di congedo, compiendo un percorso di
circa 40 km, riattraversando la città.

***

Il 23 agosto 2017 si celebreranno i 70 anni dei rapporti diploma-


tici tra l’Egitto e il Vaticano. La situazione della politica internazio-
66
nale è complessa, e in questo quadro Francesco è stato riconosciuto
come «uno dei principali leader che possano condurre il mondo
verso la pace e la sicurezza»14. Il Presidente Mattarella lo aveva ben
sintetizzato nel suo Messaggio a Francesco in partenza per il Cairo:
questo viaggio è «un messaggio di speranza sia per i credenti che
per i non credenti, un monito per la tutela dei diritti umani univer-
salmente riconosciuti e un incoraggiamento a risolvere le tante crisi
che da troppo tempo scuotono il Medio Oriente».
Quello in Egitto dunque è stato un viaggio ricco di significati,
messaggi e parole chiave ricorrenti, che nei discorsi del Pontefice
sono state: «Dio», «pace», «vita», «terra», «insieme».
Compiendo il viaggio di ritorno dal Nilo al Tevere, il Papa era
visibilmente contento. Il suo messaggio fondamentale è quello che
egli ha ribadito sempre in lingua araba all’inizio di tutti i suoi inter-
venti: Al Salamò Alaikum!, cioè «La pace sia con voi!»15.

14. Parole dell’ambasciatore Abdel Rahman Moussa, consigliere del Grande


Imam, in una intervista all’agenzia Sir, del 19 aprile 2017.
15. Francesco «ha portato felicità e gioia al popolo egiziano», si legge in
un comunicato della Presidenza egiziana, che si è impegnata «nel continuare a
compiere il massimo sforzo per contrastare il pensiero integralista e annientarlo
attraverso l’elevazione dei valori del rispetto, dall’accoglienza reciproca dell’altro,
della collaborazione e dell’edificazione per il bene dell’umanità intera».
ABU DHABI, «SENTINELLE DI FRATERNITÀ
NELLA NOTTE»*

Antonio Spadaro S.I.

Alle ore 13,00 del 3 febbraio scorso papa Francesco è volato ne-
gli Emirati Arabi Uniti per il suo viaggio apostolico numero 27. Si
è trattato del primo viaggio di un Pontefice nella Penisola arabica, e
così vicino ai luoghi santi dell’islam di Medina e de La Mecca.
67
Alle 12,00, dopo la preghiera dell’ Angelus in piazza San Pietro e
prima di recarsi a Fiumicino, il Pontefice aveva ricordato lo Yemen,
e aveva espresso la sua grande preoccupazione per le vicende di un
Paese scosso da una guerra che ha provocato finora migliaia di vit-
time e sfollati, e dove i più vulnerabili sono sempre i bambini. Una
tragedia che si compie nella Penisola arabica, appunto. Con questo
appello il Papa ha voluto dare un chiaro segno della sua consapevo-
lezza delle dinamiche geopolitiche della regione, alle quali gli stessi
Emirati non sono estranei1.
L’invito a visitare il Paese gli era stato rivolto nel maggio 2016
dalla sceicca Lubna Al Qasimi, ministro di Stato per la Tolleranza,
nel corso della sua visita in Vaticano. Nel settembre di quell’anno
era stato ricevuto in Vaticano lo sceicco Mohammed Bin Zayed
al-Nahyan, il principe ereditario, figlio del defunto sceicco Zayed
bin Sultan Al Nahyan, «padre della nazione» e primo presidente
degli Emirati, e fratello dello sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan,
presidente del Paese.
Il Principe aveva parlato con il Papa della lotta al fanatismo e
della cultura della coesistenza tra cristiani e musulmani. Assie-

* Titolo originale: «“Sentinelle di fraternità nella notte”. Il viaggio apostoli-


co di papa Francesco ad Abu Dhabi».
1. A proposito del contesto del viaggio, cfr anche G. Sale, «Gli Emirati Arabi
Uniti», in Civ. Catt. 2019 I 141-151.

© La Civiltà Cattolica 2019 I 466-477 | 4049 (2/16 marzo 2019)


IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

me a un «tappeto della pace», realizzato da alcune donne afghane


nell’ambito di un progetto di solidarietà sostenuto dal governo degli
Emirati Arabi Uniti, gli aveva consegnato un libro fotografico su-
gli scavi archeologici nell’isola di Sir Bani Yas. Quegli scavi hanno
riportato alla luce un antico monastero cristiano, costruito in epoca
pre-islamica su una piccola isola a poca distanza dalla costa dell’A-
rabia. Dagli Emirati è dunque arrivata una valorizzazione ufficiale
dell’antica presenza cristiana nella regione.

La prima volta di un Papa nella Penisola arabica

L’atterraggio del volo papale è avvenuto alle 22,00, presso l’aero-


porto presidenziale della città di Abu Dhabi – che in arabo significa
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«terra della gazzella» –, la capitale degli Emirati e la seconda città
più grande, dopo Dubai. Questa terra fa parte del Vicariato aposto-
lico dell’Arabia del Sud, eretto nel 2011, che conta circa 1 milione di
fedeli – sostanzialmente migranti –, suddivisi in 16 parrocchie, e nel
quale operano 13 sacerdoti secolari e 51 regolari. Esso ha giurisdi-
zione su tutti i cattolici residenti negli Emirati Arabi Uniti, Oman
e Yemen. Il vicario è mons. Paul Hinder. Nella Penisola c’è anche il
Vicariato apostolico dell’Arabia settentrionale, che ha giurisdizione
su Kuwait, Arabia Saudita, Qatar e Bahrain.
Il Papa è stato accolto all’ingresso del finger dal Principe ereditario.
Due bambini in abito tradizionale gli hanno offerto dei fiori nel con-
testo di un’accoglienza festosa. Ad attenderlo c’era il Grande Imam di
al-Azhar Ahmad al-Tayyib, che era atterrato poco prima.
Gli impegni della visita sono iniziati il giorno seguente, 4 feb-
braio. Alle 11,50 il Papa si è recato al Palazzo presidenziale, che
occupa un’area di 160.000 mq. Il Palazzo, dominato da un colore
bianco senza macchia, è sormontato da oltre 70 cupole in mosaico
di vetro e oro, per una superficie pari a 18.000 mq. Il portone prin-
cipale è imponente: alto 12 metri e largo 8, è in acciaio e bronzo.
L’autovettura del Papa è stata scortata dalle guardie presidenziali a
cavallo fino all’ingresso principale del Palazzo, dove Francesco è
stato ricevuto dal Principe ereditario. Compiute le presentazioni, il
Principe ha accompagnato il Papa nella sala appositamente allestita
per l’incontro privato.
ABU DHABI, «SENTINELLE DI FRATERNITÀ NELLA NOTTE»

Nel pomeriggio il Pontefice si è recato nella Grande Moschea


dello sceicco Zayed, il luogo di culto più importante del Paese e
una delle più grande moschee al mondo. Può ospitare oltre 40.000
fedeli. Il complesso monumentale rispecchia il desiderio di unire le
diversità culturali del mondo islamico con i valori storici e moderni
dell’architettura e dell’arte. L’edificio è dotato di 82 cupole e di circa
1.100 colonne, archi moreschi e quattro minareti. Il Papa è stato
accolto dal grande imam al-Tayyib, dai ministri degli Esteri, della
Tolleranza e della Cultura all’ingresso del Mausoleo dello Sceicco,
che Francesco ha visitato.
In seguito il Papa è salito, insieme al Grande Imam, a bordo di
una golf cart per raggiungere il Cortile della Moschea, dove, all’a-
perto, si è svolto un incontro privato con il Consiglio islamico degli
69
anziani (Muslim Council of Elders), un’organizzazione internazio-
nale indipendente, con sede ad Abu Dhabi, che promuove la pace
nelle comunità islamiche.
L’occasione del viaggio negli Emirati Arabi Uniti è stato proprio
il «Convegno Internazionale sulla Fratellanza» (Global Conference
of Human Fraternity), promosso dal Consiglio. Prima dell’arrivo del
Pontefice, si erano già riuniti 500 leader religiosi da tutto il mondo,
che avevano discusso in 21 workshop con 60 relatori, e 30 tra cristia-
ni, ebrei e altri musulmani.
Terminato l’incontro, il Papa, accompagnato da al-Tayyib e dai
ministri presenti, si è recato al Founders Memorial, un monumento
nazionale che commemora la vita, l’eredità e i valori di Sheikh Zayed
bin Sultan Al Nahyan. L’edificio è molto suggestivo e ha al centro
l’installazione The Constellation. Progettata dall’artista statunitense
Ralph Helmick, essa rappresenta un ritratto tridimensionale e
dinamico dello sceicco Zayed. È ospitata in un padiglione a forma
di cubo di 30 metri di altezza, e contiene 1.327 forme geometriche
sospese su 1.110 cavi, che in prospettiva formano il ritratto del leader.
Il Papa e l’Imam hanno raggiunto insieme il podio. Dopo il
saluto del Principe, sono seguiti quelli di al-Tayyib e di Francesco.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

«Smilitarizzare il cuore dell’uomo»

Ricordiamo che il Grande Imam ha fatto visita a Francesco il


23 maggio 2016, mentre il loro più recente incontro – una visita
privata a Casa Santa Marta – risale allo scorso ottobre 2018. Al-
Tayyib ha accolto il Papa durante il viaggio apostolico in Egitto del
28-29 aprile 2017, in occasione della Conferenza internazionale per
la pace, organizzata da al-Azhar e dal Consiglio islamico degli an-
ziani. «Grande ospite e caro fratello» era stato allora definito il Pon-
tefice dal suo ospite. Nel 2019 ricorrono gli 800 anni dall’incontro
di Francesco d’Assisi con il sultano Al-Malik Al-Kamil, nipote del
Saladino. Il ricordo di quell’abbraccio del passato è diventato oggi
l’icona di un futuro possibile.
70 «Non c’è alternativa», aveva detto il Papa in quell’occasione: o
la «civiltà dell’incontro» o l’«inciviltà dello scontro». Le generazioni
future devono svilupparsi come alberi ben radicati nel terreno della
storia che, «crescendo verso l’Alto e accanto agli altri», trasformano
«l’aria inquinata dell’odio nell’ossigeno della fraternità». Ed è proprio
questo «ossigeno» il perno del documento «sulla fratellanza umana
per la pace mondiale e la convivenza comune», firmato dal Papa e
dall’Imam il 4 febbraio ad Abu Dhabi.
Prima della storica firma, il Grande Imam e Francesco hanno
tenuto i loro discorsi. Al-Tayyib ha iniziato parlando della sua
esperienza personale come parte di quella che può essere chiama-
ta una «generazione delle guerre»: dal secondo conflitto mondiale
fino al tragico 11 settembre 2001, la sua è stata una litania che è
sfociata nel desiderio di un capovolgimento. Riferendosi al Papa
e considerando la piaga del terrorismo, ha detto: «Il mio amico
caro e misericordioso osservava affranto le sofferenze dell’uma-
nità senza distinzione né discriminazione alcuna. Abbiamo con-
cordato che le religioni celesti nulla hanno a che vedere con que-
sti movimenti, con questi gruppi armati». Poi ha rivolto un forte
appello ai cristiani che sono in Oriente: «Voi siete cittadini, non
siete minoranza. Siete figli di questa terra»; come pure ai musul-
mani che sono in Occidente: «Inseritevi nelle società, inserite-
vi in modo positivo per tutelare la vostra identità religiosa, così
ABU DHABI, «SENTINELLE DI FRATERNITÀ NELLA NOTTE»

come rispettate le leggi di queste società. Sappiate che la sicurezza


della società è una responsabilità anche vostra».
Nel suo discorso Francesco si è presentato come «credente as-
setato di pace». E per «salvaguardare la pace, abbiamo bisogno
di entrare insieme, come un’unica famiglia, in un’arca che pos-
sa solcare i mari in tempesta del mondo: l’arca della fratellanza».
Proprio «fratellanza» è stata la parola chiave di tutto il discorso e
del documento firmato. Francesco ne pone le fondamenta in Dio,
che è «all’origine dell’unica famiglia umana». Lo sguardo di Dio,
la «prospettiva del Cielo», abbraccia e include. Non c’è violenza
che possa essere giustificata religiosamente. Pluralità e molteplici-
tà vanno salvaguardate. La fratellanza non ha nulla a che fare con
facili sincretismi. Al contrario, è necessario il «coraggio dell’alte-
71
rità, che comporta il riconoscimento pieno dell’altro e della sua li-
bertà». In particolare, la libertà religiosa è proprio quella che «vede
nell’altro veramente un fratello, un figlio della mia stessa umanità
che Dio lascia libero».
Comprendiamo come il discorso di Francesco non si sia limi-
tato al rapporto tra cristiani e musulmani. La sua portata è stata
universale, e il messaggio rivolto a un mondo lacerato. «Non c’è
alternativa: o costruiremo insieme l’avvenire o non ci sarà futuro.
Le religioni, in particolare, non possono rinunciare al compito
urgente di costruire ponti fra i popoli e le culture. È giunto il
tempo in cui le religioni si spendano più attivamente, con corag-
gio e audacia, senza infingimenti, per aiutare la famiglia umana a
maturare la capacità di riconciliazione, la visione di speranza e gli
itinerari concreti di pace».
Le religioni dunque sono chiamate a essere «sentinelle di fra-
ternità nella notte dei conflitti», che impediscano all’umanità di
rassegnarsi ai drammi del mondo e contribuiscano attivamente a
«smilitarizzare il cuore dell’uomo».
Il Papa ha quindi richiesto un impegno preciso «contro la logica
della potenza armata, contro la monetizzazione delle relazioni, l’ar-
mamento dei confini, l’innalzamento di muri, l’imbavagliamento
dei poveri».
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

Il Documento sulla fratellanza

Dopo i due discorsi, il Papa e l’Imam hanno proceduto


alla firma congiunta di un Documento nel contesto di una
scenografia suggestiva e alla presenza dei partecipanti al Convegno
internazionale sulla fratellanza.
La nostra rivista ne ha già pubblicato il testo2. La lettura del
Documento richiederà specifici approfondimenti. Qui ci limitiamo
a mettere in risalto alcuni aspetti principali del Documento nella
dinamica del viaggio. Precisiamo che la sua firma è stata una sor-
presa per molti, perché la notizia non era stata diffusa, né il testo era
noto in anticipo. I contenuti fondamentali del suo messaggio sono
dunque stati resi noti sul momento, grazie a un video proiettato su
72 un maxischermo posto accanto al Founders Memorial.
Innanzitutto, notiamo che i due leader si esprimono «in nome
di Dio», ma non pongono premesse teologiche. Partono dall’espe-
rienza del loro incontro e dal fatto che varie volte hanno condiviso
«le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo». È la
situazione del mondo – e non un quadro teorico di dialogo interre-
ligioso – che ha spinto Francesco e al-Tayyib a dire qualcosa insie-
me perché sia di «guida per le nuove generazioni verso la cultura del
reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina
che rende tutti gli esseri umani fratelli».
Qui c’è già un punto importante di metodo: l’incontro nasce
dall’ascolto della realtà. Per questo i due leader parlano «in nome di»
poveri, orfani, vedove, popoli senza pace, quindi degli scartati del
mondo. Ma anche «in nome di» libertà, giustizia, misericordia e di
tutte le persone di buona volontà.
La lettura della realtà manifesta «una situazione mondiale
dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e
controllata dagli interessi economici miopi». La causa è attribuita a
una «coscienza umana anestetizzata», al «deterioramento dell’etica»,
all’«allontanamento dai valori religiosi» autentici e alle derive
dell’«estremismo religioso e nazionale».

2. Cfr «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune (Abu


Dhabi, 4 febbraio 2019)», in Civ. Catt. 2019 I 391-399.
ABU DHABI, «SENTINELLE DI FRATERNITÀ NELLA NOTTE»

Il Documento affronta con coraggio la sfida della malattia della


religione che trasforma la santità in servizio dell’azione politica in-
tesa come causa sacra. Essa, nelle sue forme più estreme e virulente,
sembra spingere l’adepto a una nuova «creazione» del mondo attra-
verso la violenza e il terrore. Questo sarebbe proprio il suo presunto
carattere divino. E il «martire» venerato da questa forma di fonda-
mentalismo diventa oggetto di un culto collettivo che legittima e
santifica la coesione identitaria del gruppo. Francesco e al-Tayyib
svelano insieme le dinamiche perverse di questa visione e le strap-
pano definitivamente il carattere religioso. Così facendo, pongono
al centro l’esigenza morale di proteggere la persona umana e la sua
dignità. Il Papa e il Grande Imam vogliono salvare il senso reli-
gioso dalle strumentalizzazioni politiche e nichiliste. Come ben si
73
comprende, il Documento sulla fratellanza ha un significato che
va ben oltre il dialogo interreligioso tra esperti. E va anche al di là
di un dialogo tra cristiani e musulmani: esso è, di fatto, un testo di
profondo valore religioso e di grande impatto politico.
Il Documento segna un punto di svolta, perché sostanzialmente
supera la logica stessa del «dialogo», cioè il discutere su temi impor-
tanti, che è un elemento fondamentale, ma non appare più suffi-
ciente. Qui viene a maturazione ciò che Francesco nell’agosto 2014,
in Corea, nell’incontro con i leader religiosi del Paese, aveva detto
in un saluto a braccio: «La vita è un cammino lungo che non si può
percorrere da soli. Bisogna camminare con i fratelli alla presenza
di Dio: è quello che chiese Dio ad Abramo. Riconosciamoci come
fratelli e camminiamo insieme».
Il riconoscimento della fratellanza cambia la prospettiva, la ca-
povolge e diventa un forte messaggio dal valore religioso, ma anche
politico. Non a caso esso porta direttamente a riflettere sul signi-
ficato della «cittadinanza»: tutti siamo fratelli, e quindi tutti siamo
cittadini con uguali diritti e doveri, sotto la cui ombra tutti godono
della giustizia. Scompare, dunque, l’idea di «minoranza», che porta
con sé i semi del tribalismo e dell’ostilità, che vede nel volto dell’al-
tro la maschera del nemico. Così, da una parte, il mondo islamico
esprime una migliore comprensione della modernità; dall’altra, il
messaggio assume rilevanza globale: in un tempo segnato da muri,
odio e paura indotta, queste parole capovolgono la logica del con-
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

flitto necessario. Ovviamente qui non si parla di una realtà compiu-


ta, ma di una direzione verso la quale ci si vuole muovere.
L’appello è a un «risveglio del senso religioso». Interrogato dai
giornalisti sul Documento durante il viaggio di rientro a Roma,
il Papa ha affermato: «Se noi credenti non siamo capaci di darci
la mano, abbracciarci, baciarci e anche pregare, la nostra fede sarà
sconfitta». Qui Francesco parla di tutti i «credenti» e della «fede»,
allargando lo sguardo al di là dei fedeli cattolici.
Il Papa e il Grande Imam hanno fatto insieme un passo deciso
per superare risentimenti e trappole ideologiche. Hanno abbattuto i
muri costruiti dai cultural warriors, che bramano lo scontro di civiltà
grazie a un riduzionismo ideologico delle religioni. Il fondamento
di tutto è in una frase: «La fede porta il credente a vedere nell’altro
74
un fratello da sostenere e da amare».
Da questa convinzione proviene l’atteggiamento corretto. Fran-
cesco non ha mai inteso dire all’islam quello che dovrebbe essere,
non è il precettore di una sorta di riforma «illuminista» della cultura
islamica. Nulla di tutto questo. Il Documento, al contrario, è stato
scritto a quattro mani perché si deve camminare insieme. In un
mondo in cui prevalgono le divisioni globalizzate, la fraternità di
chi si riconosce «figlio di Dio» diventa forma di pensiero critico.
Come interpretare il valore di questo Documento dal punto di
vista di Francesco? Il Papa è – in termini calcistici – un «fantasista».
Il suo gioco in campo a volte è caratterizzato da originalità e im-
prevedibilità. Questo lo porta, in alcune circostanze, a rispondere
agli appelli dello Spirito più che a regole codificate e a consuetudini.
Egli tende ad essere profetico, e dunque a portare la palla persino
fuori del perimetro del campo per giocare lì la vera partita. Ma non
è un gioco che si possa fare da soli. E così egli lo ha fatto – in modi
diversi – con Bartolomeo, con Kirill e adesso con il Grande Imam
di al-Azhar. I due players di Abu Dhabi hanno spinto la palla fuori,
ma dicendo di parlare l’uno «a nome dei musulmani d’Oriente e
d’Occidente» e l’altro «a nome dei cattolici d’Oriente e d’Occidente».
Per questo si leveranno certamente voci dissonanti. E tuttavia
non si può più tornare indietro: il processo è aperto, la palla è fuori.
E i processi «devono maturare, come i fiori, come la frutta», ha detto
Francesco sul volo di ritorno. Muovendo e promuovendo tali processi,
ABU DHABI, «SENTINELLE DI FRATERNITÀ NELLA NOTTE»

la Chiesa cattolica oggi si rivela, per il nostro mondo strappato,


un potente fattore geopolitico di rammendo e di rigenerazione
grazie ai valori fondamentali e universali della fraternità. Questo
Documento è pure da comprendere come un frutto dello spirito del
Vaticano II, come ha ribadito Francesco.

Una comunità cattolica migrante che integra le differenze

Il giorno successivo, 5 febbraio, verso le 9,00 il Papa si è recato


alla St. Joseph Cathedral, una delle due sole chiese cattoliche nell’E-
mirato di Abu Dhabi (l’altra è la chiesa di San Paolo a Musaffah).
La chiesa originaria risale al 1962 e fu costruita lungo il tratto
costiero, su un appezzamento di terreno donato dal governatore
75
di Abu Dhabi. La chiesa accoglie fedeli cattolici provenienti da
ogni parte del mondo, tanto che le celebrazioni si svolgono, oltre
che in arabo, inglese e francese, anche in tagalog, malayalam,
singalese, urdu e tamil.
La visita di Francesco è avvenuta in privato. Mentre veniva in-
tonato un canto, il Papa è entrato in processione e si è incamminato
nella navata centrale. Una famiglia gli ha donato fiori, che poi egli
ha deposto sull’altare. Dopo un momento di raccoglimento, Fran-
cesco ha benedetto i presenti. Poi ha ripreso il cammino per recarsi
allo stadio per la celebrazione della Messa.
Arrivato in prossimità dello Zayed Sports City, ha fatto un giro
tra i fedeli sia all’esterno sia all’interno dello stadio. Questo è stato
costruito nel 1979 e con i suoi 45.000 posti è lo stadio polifunzio-
nale più grande degli Emirati Arabi.
Palpabili sono stati l’emozione e il clima di festa, fuori e dentro lo
stadio, dei 180.000 presenti, migranti cattolici – che costituiscono
il 10% della popolazione – venuti negli Emirati per lavorare. Di
riti e lingue diverse, essi sono uniti dalla fede. L’unità tra persone
di circa 100 nazionalità diverse è un grande segno, difficilmente
visibile altrove.
Hanno partecipano alla Messa fedeli caldei, copti, greco-catto-
lici, greco-melchiti, latini, maroniti, siro-cattolici, siro-malabaresi
e siro-malankaresi. Si tratta anche della più grande celebrazione
cristiana pubblica mai avvenuta nella Penisola arabica. Anche la
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

Preghiera dei fedeli ha reso evidente la molteplicità delle provenien-


ze dei cattolici del Paese, in quanto le intenzioni sono state pro-
nunciate in coreano, konkani, francese, tagalog, urdu e malayalam.
La Messa è stata celebrata in inglese e latino. Erano presenti anche
4.000 musulmani e il ministro della Tolleranza.
La giornata è stata dunque dedicata alla comunità cattolica che
vive in quelle terre e che rappresenta in se stessa un valore specifico
per la cattolicità in generale. La Chiesa in Arabia ha una peculiarità
che si fonda sul fatto che nelle grandi città del Golfo si realizza uno
speciale incontro tra cristiani e musulmani: centinaia di migliaia di
migranti cristiani costituiscono oggi il volto nuovo della Penisola
arabica. È impossibile, infatti, per gli Emirati rinunciare alla mano-
dopera filippina e indiana. La popolazione locale è una minoranza.
76
Anche per questo nel 2015 lo Sceicco di Abu Dhabi ha emanato
una legge per proteggere tutte le religioni contro l’odio e l’intolle-
ranza, ma a condizione che la fede venga professata con discrezione.
A questo riguardo, è bene precisare che, per l’eccezionalità della
visita del Papa, è stato dato il permesso di celebrare una Messa in un
luogo pubblico, all’aperto, cosa che normalmente è impossibile fare:
anche questa è una novità storica. Generalmente i cristiani sono
tenuti a celebrare all’interno delle chiese. Il Governo, per l’eccezio-
nalità della visita del Papa, ha voluto dare questo permesso. Inoltre,
è stato concesso un giorno di festa, remunerato, ai lavoratori del
settore privato che hanno partecipato alla Messa con il Pontefice.
La cattolicità di queste terre d’Arabia è multilingue, multicultu-
rale e multicolore, cresciuta in maniera non organizzata, a partire
da interessi concreti che hanno spinto tanti a lasciare le proprie terre
d’origine per trovare un lavoro. Così le poche parrocchie, sempre
affollate, sono condivise da comunità con lingue e riti differenti, e
lì vengono celebrati migliaia di battesimi ogni anno. Questa catto-
licità multietnica, migrante e variegata nelle differenze, costituisce
già un messaggio forte alla cattolicità nel momento in cui le tenta-
zioni identitarie e sovraniste si diffondono nel mondo occidentale.
Qual è il messaggio di Francesco per tale comunità? Proprio il
ringraziamento per questa peculiare e intensa cattolicità: «Voi qui
conoscete la melodia del Vangelo – ha detto – e vivete l’entusiasmo
del suo ritmo. Siete un coro che comprende una varietà di nazioni,
ABU DHABI, «SENTINELLE DI FRATERNITÀ NELLA NOTTE»

lingue e riti; una diversità che lo Spirito Santo ama e vuole sempre
più armonizzare, per farne una sinfonia. Questa gioiosa polifonia
della fede è una testimonianza che date a tutti e che edifica la Chiesa».
È in questa situazione che si può vivere lo spirito delle beatitu-
dini: «Vivere da beati e seguire la via di Gesù non significa tuttavia
stare sempre allegri. Chi è afflitto, chi patisce ingiustizie, chi si pro-
diga per essere operatore di pace sa che cosa significa soffrire. Per
voi non è certo facile vivere lontani da casa e sentire magari, oltre
alla mancanza degli affetti più cari, l’incertezza del futuro. Ma il
Signore è fedele e non abbandona i suoi». In particolare, Francesco
ha indicato due beatitudini da vivere: la mitezza e l’essere operatori
di pace. Il cristiano sia «armato solo della sua fede umile e del suo
amore concreto»; per questo egli è un canale della presenza di Dio
77
nel mondo.

***

Alle 12,00 circa, finita la Messa, il Papa ha lasciato lo stadio


per recarsi all’aeroporto, dove ha trovato ad accoglierlo il Principe
ereditario. Dopo aver salutato la delegazione degli Emirati Arabi
Uniti, è salito per ultimo a bordo. L’aereo è decollato alla volta di
Roma intorno alle 13,00.
Ma già si annuncia il prossimo viaggio di Francesco in Marocco,
dal 30 al 31 marzo. Il «trittico» composto da Egitto, Emirati e
Marocco – senza contare i viaggi fatti in Turchia, Arzebaigian
e Bangladesh – è un potente appello alla nostra immaginazione.
Sempre per prolungare quell’abbraccio di 800 anni fa tra il Sultano
e il Santo d’Assisi.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

MAROCCO, «LA CHIESA SI FA COLLOQUIO»*

Antonio Spadaro S.I.

L’aereo Alitalia con a bordo papa Francesco, i membri del segui-


to e i giornalisti accreditati, è atterrato all’aeroporto di Rabat-Salé,
capitale del Marocco1, pochi minuti prima delle 14,00 del 30 mar-
zo. La città è situata sulla costa atlantica, nella parte settentrionale
78
del Paese, alla foce del fiume Bou Regreg. Il Papa è stato accolto ai
piedi della scala dell’aereo dal re Mohammed VI e da due bambini
in abito tradizionale, che gli hanno offerto fiori. Dopo il picchetto
d’onore, il Papa accompagnato dal Re, ha salutato l’arcivescovo di
Rabat, il salesiano mons. Cristóbal López Romero, prima di recarsi
al Salon Royal, dove gli sono stati offerti alcuni datteri e latte di
mandorla, tradizionale segno di accoglienza.
Quindi Francesco si è trasferito alla spianata della Tour Hassan,
alta 44 metri, ricoperta di marmo e costellata di numerosi basamenti
di colonne. La struttura corrisponde al minareto, rimasto incom-
piuto, dell’imponente moschea voluta dal sultano Abu Yusuf Ya’qub
al-Mansur. Sorge prospiciente al Mausoleo di Mohammed V. Il Papa
e il Re hanno raggiunto insieme, in due auto diverse – papamobile e
limousine aperta –, il luogo dell’evento. Dopo la cerimonia di ben-
venuto, avvenuta sotto una pioggia insistente, essi si sono avviati al
podio per i discorsi rivolti al popolo marocchino, alle autorità, alla
società civile e al Corpo diplomatico.
Il Sovrano del Marocco è l’ultimo esponente della dinastia ala-
wita, che regna sul Marocco dal 1666. È un convinto promotore
del processo riformista. Rivolgendosi a Francesco, ha affermato:

* Titolo originale: «“La chiesa si fa colloquio”. Il viaggio apostolico di papa


Francesco in Marocco».
1. Cfr G. Sale, «Il Marocco di Muhammad VI», in Civ. Catt. 2019 I 561-572.

© La Civiltà Cattolica 2019 II 159-169 | 4052 (20 apr/4 mag 2019)


MAROCCO, «LA CHIESA SI FA COLLOQUIO»

«Sul piano storico, questo nostro incontro riunisce apertura e fer-


tilizzazione reciproca ed è simbolo di equilibrio. Volutamente ci
incontriamo qui, tra Mediterraneo e Atlantico e a poca distanza tra
Marocco e Siviglia, perché questo sia un punto di scambio e di co-
municazione spirituale e culturale tra l’Africa e l’Europa. Abbiamo
voluto che questa sua visita al Marocco sia un segnale di speranza,
un punto di incontro tra islam e cristianesimo». Questa visita è stata
segnata dal valore centrale del documento che papa Francesco e
l’imam di Al-Azhar avevano firmato il 4 febbraio ad Abu Dhabi,
cioè – nelle parole del Re – «la fraternità imparata dai figli di Abra-
mo». Il 2019 è per il Papa l’anno della «fraternità», come aveva fatto
capire nel Messaggio Urbi et Orbi dello scorso Natale, ripetendo la
parola 10 volte.
79
Francesco è il secondo Pontefice che visita il Marocco. San Gio-
vanni Paolo II lo fece nel 1985. Il viaggio di Francesco avviene
quando è ancora forte lo shock dell’attentato compiuto il 15 marzo
in Nuova Zelanda, dove 50 fedeli musulmani in preghiera sono sta-
ti massacrati da un suprematista bianco. «Rinnovo l’invito a unirsi
con la preghiera e i gesti di pace per contrastare l’odio e la violenza»,
ha detto il Papa, rivolgendosi al sovrano e alla platea. Ha quindi
ricordato lo storico incontro tra san Francesco d’Assisi e il sultano
al-Malik al-Kamil avvenuto 800 anni fa, assumendolo come un se-
gno per «preparare un futuro migliore alle nuove generazioni». In
un tempo «in cui alcune voci cercano di fare delle differenze e del
misconoscimento reciproco dei motivi di rivalità e disgregazione»,
c’è «una sfida che tutti siamo chiamati a raccogliere». E per questo
ha citato il documento firmato ad Abu Dhabi, ormai riferimento
per la condotta, metodo e criterio di un incontro che vada oltre il
semplice «dialogo» e che rispetti le differenze e, dunque, la dignità.
Il Papa ha proseguito condannando fanatismi e fondamenta-
lismi, parlando della grave crisi migratoria e facendo riferimento
alla necessità di una «conversione ecologica»: tutti temi che hanno
visto di recente il Marocco come sede di incontri internazionali.
Ma soprattutto ha espresso una sua radicale convinzione: «Il conso-
lidamento di una vera pace passa attraverso la ricerca della giustizia
sociale, indispensabile per correggere gli squilibri economici e i di-
sordini politici che sono sempre stati fattori principali di tensione e
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

di minaccia per l’intera umanità». È nell’ingiustizia che si trovano i


semi dei conflitti.
Francesco ha così concluso il suo primo discorso ripetendo quel-
lo che afferma sempre parlando alle autorità durante i suoi viaggi
apostolici a proposito del ruolo dei cristiani nel Paese: «Essi vogliono
fare la loro parte nell’edificazione di una nazione solidale e prospera,
avendo a cuore il bene comune del popolo». I cristiani sono chiama-
ti ad essere «servitori, promotori e difensori della fraternità umana».

L’appello su Gerusalemme

Alla fine dell’incontro il Pontefice e il Sovrano si sono trasferiti


al Mausoleo Mohammed V, situato sul piazzale della Torre di Has-
80
san. Il monumento in marmo bianco e tetto piramidale con tegole
verdi custodisce la tomba di Mohammed V, considerato padre della
moderna nazione marocchina. Il Mausoleo – edificato su una su-
perficie di 1.500 mq – è stato costruito secondo lo stile dell’arte
marocchina fra il 1961 e il 1971 dall’architetto vietnamita Eric Vo
Toan. Sotto la cupola si trova il sarcofago reale, in onice bianco,
contenente le spoglie di Mohammed V. Agli angoli, invece, sono
presenti le tombe del principe Moulay Abdellah (1935-83), il più
giovane figlio di Mohammed V, e del fratello Hassan II, che è stato
re del Marocco dal 1961 al 1999. Dopo un omaggio floreale alle
tombe, il Papa ha firmato il Libro d’onore.
Quindi si è recato al Palazzo reale o Dar el Makhzen, la residenza
ufficiale e amministrativa dei sovrani del Marocco dal 1785, quan-
do il sultano Mohammed III designò Rabat come città imperiale e
fece costruire il Palazzo, che in realtà è quasi una piccola città, che
comprende diversi edifici pubblici, governativi e una biblioteca co-
struita per ospitare la collezione di manoscritti di Hassan II.
In questa occasione il Re – in veste di Presidente del Comitato
Al Qods – e il Papa, riconoscendo l’unicità e la sacralità di Geru-
salemme (o Al Qods Acharif, come è chiamata in arabo) e avendo
a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare vocazione di
Città della Pace, hanno condiviso il seguente appello: «Noi ritenia-
mo importante preservare la Città santa di Gerusalemme/Al Qods
Acharif come patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i
MAROCCO, «LA CHIESA SI FA COLLOQUIO»

fedeli delle tre religioni monoteiste, come luogo di incontro e sim-


bolo di coesistenza pacifica, in cui si coltivano il rispetto reciproco e
il dialogo. A tale scopo devono essere conservati e promossi il carat-
tere specifico multi-religioso, la dimensione spirituale e la peculiare
identità culturale di Gerusalemme/Al Qods Acharif. Auspichiamo,
di conseguenza, che nella Città Santa siano garantiti la piena li-
bertà di accesso ai fedeli delle tre religioni monoteiste e il diritto
di ciascuna di esercitarvi il proprio culto, così che a Gerusalemme/
Al Qods Acharif si elevi, da parte dei loro fedeli, la preghiera a Dio,
Creatore di tutti, per un futuro di pace e di fraternità sulla terra».
Ricordiamo che nel 1975 a Jeddah fu istituito dall’Organizzazio-
ne della Conferenza islamica il Comitato Al Qods, appunto il nome
arabo per Gerusalemme, per operare alla preservazione del patri-
81
monio religioso, culturale e urbanistico della Città Santa. La prima
sessione fu posta sotto la presidenza del re del Marocco. La questione
di Gerusalemme da quel momento è stata rilevante per il Regno.
Rispondendo, sul volo di ritorno a Roma, a una domanda di una
giornalista marocchina, il Papa ha detto che questo appello è stato
«un passo avanti fatto non da un’autorità del Marocco e da un’auto-
rità del Vaticano, ma fatto da fratelli credenti che soffrono vedendo
questa “Città della speranza” non essere ancora così universale come
tutti vogliamo: ebrei, musulmani e cristiani. Tutti vogliamo questo.
E per questo abbiamo firmato questo auspicio: più che un accordo, è
un auspicio, un appello alla fraternità religiosa che è simboleggiata
da quella città che è tutta “nostra”. Tutti siamo cittadini di Gerusa-
lemme, tutti i credenti».

L’incontro con l’islam del Marocco

Prima delle 17,00 il Papa è andato all’Istituto Mohammed VI


degli imam, predicatori e predicatrici. Inaugurato nel 2015, esso è
nato come uno spazio di studi destinato alla promozione di un islam
rivolto verso la modernità, aperto alle altre religioni e al mondo, in
contrasto con le forme violente e con l’integralismo islamico. Dopo
l’attacco terroristico a Casablanca nel 2003, Mohammed VI ha ini-
ziato a rafforzare attivamente istituti di formazione, uffici religiosi e
centri di ricerca islamici per stemperare le tendenze radicali. Inoltre,
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

ha promosso la lotta all’esclusione e all’emarginazione dei giovani e


ha intrapreso la via della penalizzazione dell’apologia del terrorismo
e delle idee che invocano la violenza.
L’Istituto accoglie centinaia di imam, predicatori e predicatrici
(murchidin e murchidat), provenienti dall’Africa e dall’Europa (Mali,
Senegal, Costa d’Avorio, Guinea, Nigeria, Francia ecc.), favorisce la
ricerca, la cooperazione tra istituzioni islamiche moderate e ospita
convegni, congressi e seminari nazionali e internazionali.
L’Istituto è espressione del modello marocchino di islam che ha
il suo fondamento nella scuola giuridica malikita, la dottrina teolo-
gica asharita, ed è fortemente influenzato dalla spiritualità sufi. Esso
si è sviluppato in un contesto che storicamente non ha conosciuto il
califfato ottomano, che non è arrivato fino in Marocco.
82
Il Papa è stato accolto dal Re, dal ministro degli Affari religiosi,
dal direttore dell’Istituto e dal Presidente del Consiglio degli Ule-
ma. A un video di presentazione dell’Istituto e alla testimonianza
di due studenti ha fatto seguito un breve concerto dal forte impat-
to simbolico. È stata eseguita l’Ave Maria del compositore Giulio
Caccini (1551-1618). L’opera, diretta da Jean-Claude Casadesus ed
eseguita dal coro della Filarmonica del Marocco e dalla pianista
Dîna Bensai, è stata interpretata da tre cantanti di tre confessioni
religiose diverse (Caroline Casadesus, cristiana; Smahi El Harati,
musulmano; e Françoise Atlan, ebrea).

L’impegno sociale della Chiesa

Alla fine dell’incontro il Papa si è recato alla sede della Caritas


diocesana di Rabat. La Caritas in Marocco sostiene più di 8.000
immigrati all’anno, svolgendo la propria opera fondamentalmente
su due fronti: l’aiuto alle popolazioni locali, attraverso il Program-
ma di sostegno alla società civile marocchina, che promuove l’a-
gricoltura familiare e cerca di offrire migliori condizioni di vita a
persone in situazione di handicap; e l’assistenza ai migranti, attra-
verso il programma Qantara, cioè «ponte» (tra i migranti e la società
marocchina).
Il Papa è stato accolto all’ingresso principale dall’arcivescovo di
Tangeri e dal direttore della sede. Dopo aver ascoltato una testimo-
MAROCCO, «LA CHIESA SI FA COLLOQUIO»

nianza e assistito a una breve coreografia realizzata da alcuni bam-


bini migranti, ha pronunciato un discorso su «una ferita grande e
grave che continua a lacerare gli inizi di questo XXI secolo. Ferita
che grida al cielo». Con parole forti e decise, pur espresse in un tono
sofferto, il Papa ha ricordato che «il progresso dei nostri popoli non
si può misurare solo dallo sviluppo tecnologico o economico. Esso
dipende soprattutto dalla capacità di lasciarsi smuovere e commuo-
vere da chi bussa alla porta e col suo sguardo scredita ed esautora
tutti i falsi idoli che ipotecano e schiavizzano la vita». I quattro verbi
che Francesco ha utilizzato sono: «accogliere, proteggere, promuo-
vere e integrare». Essi descrivono atteggiamenti che prevengono il
fatto che la società si trasformi in una «madre sterile».
Due le condanne chiaramente espresse dal Papa. Da una parte,
83
quella contro i «“mercanti di carne umana” che speculano sui sogni
e sui bisogni dei migranti». Dall’altra, «le forme di espulsione col-
lettiva, che non permettono una corretta gestione dei casi partico-
lari». Ogni persona, ha concluso il Pontefice, «ha diritto al futuro»,
e ognuno di noi è chiamato ad essere per gli altri «“porto sicuro” di
accoglienza».
La mattina successiva, alle 9,00, Francesco si è trasferito al Cen-
tre Rural des Services Sociaux di Témara, distante circa 20 km. Il
Centro, avviato da un gesuita e medico francese, p. Georges Cou-
turier, è gestito dalle Figlie della Carità e offre diversi servizi alla
popolazione locale: alfabetizzazione per adulti; sostegno scolastico
per i più giovani; servizio mensa; asilo per bambini dai 2 ai 7 anni;
aiuto psicologico per i più bisognosi; e cure mediche per i malati, in
particolare per i grandi ustionati, ai quali viene fornito il necessario
follow-up sanitario.
Il Papa è stato ricevuto all’ingresso dalle suore che lavorano nel
Centro e dall’infermiera musulmana. Sotto una pioggia insisten-
te, una dozzina di bambini e bambine hanno accolto Francesco
sventolando bandierine colorate all’interno di una sala. Dopo aver
salutato tutti, il Pontefice ha lasciato un dono a ricordo della visita:
un’icona della santa Famiglia di Nazaret. In cambio ha ricevuto,
dai 150 tra bimbi e ragazzi assistiti nel Centro, che lo attendevano
all’esterno, un canto di saluto, senza l’accompagnamento musicale.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

Da Témara Francesco si è recato alla cattedrale di Rabat dedicata


a san Pietro e situata al centro della città. Qui ha incontrato il clero,
i religiosi, le religiose e i rappresentanti del Consiglio ecumenico
delle Chiese. Sono arrivati anche i rappresentanti della Conferenza
episcopale regionale dell’Africa del Nord e i vescovi dall’Africa sub-
sahariana, oltre ad altri vescovi ospiti.

Una Chiesa lievito

L’incontro ha visto la testimonianza di una religiosa e il saluto


di suor Ersilia, che ha compiuto 97 anni, ma anche la presenza di fr.
Jean-Pierre Schumacher, monaco novantacinquenne sopravvissuto
miracolosamente alla strage dei monaci di Tibhirine, in Algeria,
84
nel 1996, e ora nella comunità cistercense del Marocco. I suoi con-
fratelli uccisi sono stati beatificati lo scorso 8 dicembre. Il Papa lo ha
abbracciato e, commosso, gli ha baciato le mani.
Il Pontefice ha fatto poi un denso discorso, in cui ha proposto
una vera e propria «visione» del modo di essere Chiesa oggi. Da
ricordare che parliamo di una piccola Chiesa composta dallo 0,07%
della popolazione (circa 23.000 persone provenienti da più di 100
Paesi), 2 vescovi, 46 sacerdoti e 180 religiose. È opportuno ripren-
dere i passaggi fondamentali di tale discorso.
Il punto di partenza è la situazione dei cristiani in Marocco, che
a Francesco ha ricordato la domanda di Gesù: «“A che cosa è simile il
regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? […] È simile al lievito,
che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu
tutta lievitata” (Lc 13,18.21)». La situazione dei cristiani è dunque «si-
mile a un po’ di lievito che la madre Chiesa vuole mescolare con una
grande quantità di farina, fino a che tutta la massa fermenti».
Il Pontefice propone una visione alternativa rispetto a quella
ossessionata dai grandi numeri, e dunque dal successo dato «dalla
quantità di spazi che si occupano». «Gesù – ha detto Francesco –
non ci ha scelti e mandati perché diventassimo i più numerosi! Ci
ha chiamati per una missione. Ci ha messo nella società come quella
piccola quantità di lievito: il lievito delle beatitudini e dell’amore
fraterno nel quale come cristiani ci possiamo tutti ritrovare per ren-
dere presente il suo Regno».
MAROCCO, «LA CHIESA SI FA COLLOQUIO»

Da questo discorso emerge una Chiesa-lievito determinata «dal-


la capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e
compassione; dal modo in cui viviamo come discepoli di Gesù, in
mezzo a coloro dei quali noi condividiamo il quotidiano, le gioie, i
dolori, le sofferenze e le speranze». La missione, dunque, non passa
attraverso «il proselitismo, che porta sempre a un vicolo cieco, ma
attraverso il nostro modo di essere con Gesù e con gli altri». Il «modo
di essere» di questo incontro non è quello di «aderire a una dottrina,
né a un tempio, né a un gruppo etnico», ma è l’incontro stesso.
L’incontro con Gesù è «sapersi perdonati e invitati ad agire nello
stesso modo in cui Dio ha agito con noi, dato che “da questo tutti
sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri
(Gv 13,35)”».
85
L’incontro con gli altri ha la modalità del lievito: «La vita si gioca
con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con
chi ci troviamo». Il problema quindi non è quello di essere «poco
numerosi», ma quello di essere «insignificanti»: senza sapore, luce
spenta. Lievito, sale, luce: ecco le tre immagini usate da Francesco
per dire evangelicamente la vita del cristiano.
Al Papa tornano in mente le parole di san Paolo VI, che nell’En-
ciclica Ecclesiam suam scriveva: «La Chiesa deve venire a dialogo col
mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa
messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67). Commenta Francesco:
«Quando la Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal Signore, entra
in dialogo con il mondo e si fa colloquio, essa partecipa all’avvento
della fraternità, che ha la sua sorgente profonda non in noi, ma nella
paternità di Dio».
Questo dialogo diventa preghiera di intercessione per tutti, per
il popolo; preghiera che possiamo realizzare concretamente tutti i
giorni in nome della «fratellanza umana» che abbraccia e unisce
tutti gli uomini; «preghiera che non distingue, non separa e non
emargina, ma che si fa eco della vita del prossimo; preghiera di
intercessione che è capace di dire al Padre: “Venga il tuo regno”.
Non con la violenza, non con l’odio, né con la supremazia etnica,
religiosa, economica, ma con la forza della compassione riversata
sulla Croce per tutti gli uomini».
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

«Grazie a questa preghiera – ha proseguito Francesco – voi sma-


scherate e riuscite a mettere in evidenza tutti i tentativi di usare le
differenze e l’ignoranza per seminare paura, odio e conflitto. Per-
ché sappiamo che la paura e l’odio, alimentati e manipolati, destabi-
lizzano e lasciano spiritualmente indifese le nostre comunità».
Come si vede, Francesco assegna alla comunità cristiana, pro-
prio in virtù dell’impegno religioso, il compito di costruire la co-
munità nazionale. E questo impegno non è solamente una storia da
ricordare, ma soprattutto «una grande storia da costruire».
Poco prima della recita dell’ Angelus domenicale sono saliti
sull’altare quattro bambini: «Ecco il futuro! Il presente e il futuro!»,
ha detto il Papa in francese, presentandoli all’assemblea e lasciando
che restassero accanto a sé durante la preghiera mariana. Al termine
86
dell’incontro, mentre veniva intonato un canto, Francesco ha salu-
tato i leader del Consiglio ecumenico delle Chiese, che riunisce le
cinque realtà cristiane presenti nel Paese: cattolica, anglicana, evan-
gelica, greco-ortodossa e russo-ortodossa. Insieme animano Al
Mowafaqa («L’intesa»), Istituto teologico fondato nell’ottobre 2014
nei locali dell’antico Centro di documentazione La Source di Rabat:
aperto all’ecumenismo e al dialogo con la cultura e con l’islam, le
lezioni vi sono tenute da professori cattolici e protestanti.
A conclusione della mattinata papa Francesco ha pranzato con i
due vescovi del Marocco e alcuni membri del seguito nella Nunzia-
tura, di cui ha benedetto i locali recentemente ampliati e ristrutturati.
Nel primo pomeriggio si è recato nel Complesso sportivo
Principe Moulay Abdellah, intitolato al figlio cadetto di Moham-
med V e fratello di Hassan II. Qui ha celebrato in spagnolo la
Messa. Le lingue usate nella liturgia sono state anche l’arabo, il
francese e l’inglese.
La celebrazione è stata animata da 500 coristi. I 10.000 parteci-
panti hanno mostrato il volto cosmopolita di una Chiesa, quella ma-
rocchina, composta essenzialmente da stranieri: sono per lo più gio-
vani e in prevalenza dell’Africa centro-occidentale. Con loro erano
anche 700 studenti giunti dalle città universitarie del Marocco. 
Francesco ha preso spunto dall’atteggiamento del padre del fi-
gliol prodigo: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe
compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc
MAROCCO, «LA CHIESA SI FA COLLOQUIO»

15,20). L’accoglienza del padre contrasta con la chiusura del figlio


maggiore, che ormai aveva perduto suo fratello «nel suo cuore»:
«Nella sua incapacità di partecipare alla festa, non solo non ricono-
sce suo fratello, ma neppure riconosce suo padre. Preferisce l’essere
orfano alla fraternità, l’isolamento all’incontro, l’amarezza alla festa.
Non solo stenta a comprendere e perdonare suo fratello, nemmeno
riesce ad accettare di avere un padre capace di perdonare, disposto
ad attendere e vegliare perché nessuno rimanga escluso; insomma,
un padre capace di sentire compassione».
L’unico modo per venire fuori da questo nodo di rancore è quel-
lo di «guardare e contemplare il cuore del Padre» e ascoltare le sue
parole: «Tutto ciò che è mio è tuo», cioè – precisa il Papa – «anche la
mia capacità di compassione». Da qui nasce la fraternità. Non certo,
87
dunque, da una appartenenza di figli intesa come «una questione di
leggi e proibizioni, di doveri e di adempimenti», da «volontarismi,
legalismi, relativismi o integrismi», ma dall’assumere l’atteggia-
mento di compassione del Padre.

«Dobbiamo essere realisti esemplari»

Dopo la Messa e i saluti, il Pontefice si è trasferito all’aeroporto


di Rabat-Salé, dove è avvenuta la cerimonia di congedo. È stato
accolto da un delegato del Re all’ingresso del Salon Royal, dove si
è trattenuto per pochi minuti. Alle 17,15 l’aereo papale è decollato
alla volta di Roma.
Durante la conferenza stampa in volo Francesco ha fornito alcu-
ne chiavi di lettura del viaggio appena concluso. Rispondendo alle
domande, ha ricordato anche il viaggio ad Abu Dhabi. Ha espresso
la consapevolezza che la coscienza di tutti i credenti, sia­no essi cri-
stiani siano musulmani, cresce. È chiaro che la libertà di coscienza e
la libertà religiosa sono diritti inalienabili di ogni persona. Ma non
sempre è stato così. Francesco ha ricordato la crescita della consape-
volezza dei cattolici circa l’importanza della libertà religiosa, come
pure della necessaria condanna della pena di morte. Così «anche i
fratelli musulmani crescono nella coscienza» della libertà di culto e
della libertà religiosa.
IN VIAGGIO CON PAPA FRANCESCO

Il Papa è consapevole che il suo discorso e il suo approccio si


riferiscono a un futuro ancora non compiuto. Ha parlato dei «fiori»
che già si vedono: «I frutti non si vedono, ma si vedono tanti fiori
che daranno dei frutti. Andiamo avanti così».
Sa che ci saranno tante difficoltà a causa di «gruppi intransigen-
ti». Ma proprio per questo ha detto: «Non dobbiamo mollare!». Il
Papa parte dalla realtà e coglie i semi positivi che innaffia e dei quali
si prende cura. E prescinde da approcci ideali che, se ribadiscono i
princìpi, non aiutano a proseguire nel cammino. In questo senso il
suo atteggiamento è stato quello auspicato da Mohammed VI nel
suo discorso di accoglienza: «Dobbiamo dare prova di idealismo e
di pragmatismo, dobbiamo essere realisti esemplari».
Parlando dei ponti da costruire e dei muri da abbattere, France-
88
sco ha anche avvertito: «Coloro che costruiscono i muri finiranno
prigionieri dei muri che costruiscono. Invece, quelli che costruisco-
no ponti andranno tanto avanti». E ha citato lo scrittore Ivo Andrić,
nel suo romanzo Il ponte sulla Drina: «Il ponte è fatto da Dio con le
ali degli angeli perché gli uomini comunichino, tra le montagne e
le rive di un fiume, perché gli uomini possano comunicare tra loro.
Il ponte è per la comunicazione umana».
SULLA FRATELLANZA
UMANA
SULLA FRATELLANZA UMANA

UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO


DI ABU DHABI*

Felix Körner S.I.

Il 4 febbraio 2019 papa Francesco e l’imam Ahmad al-Tayyeb


hanno firmato ad Abu Dhabi una Dichiarazione d’intenti congiun-
ta. Il testo del Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale
e la convivenza comune1 merita di essere commentato sia dal punto di
90
vista della teologia cattolica sia dalla prospettiva degli studi islami-
ci2. Prima, però, è opportuno fare alcune osservazioni sul contesto.
Testi analoghi erano già stati firmati in passato. Fra essi spic-
cano le dichiarazioni conclusive dei quattro seminari del «Forum
cattolico-islamico» svoltisi nel 2008, nel 2011, nel 2014 e nel 2017.
Questa volta, però, diversamente dalle precedenti, a sottoscrivere la
dichiarazione non sono state le delegazioni, ma il Pontefice stesso e
un leader islamico. Quindi si tratta di parole di elevato spessore, e
non soltanto per la loro formulazione.

Chi ha firmato da parte musulmana?

Da quando, nel 1924, è stato abolito il califfato, non esiste più un


rappresentante dell’islam che abbia preminenza mondiale (almeno
nel mondo sunnita). Al-Tayyeb, dunque, non lo è. Tuttavia detiene
una delle cariche islamiche più importanti: è lo sceicco di al-Azhar;
in altri termini, è il Grande imam della Moschea-Università di al-
Azhar, un’istituzione molto influente sia sotto il profilo religioso sia

* Titolo originale: «Fratellanza umana. Una riflessione sul Documento di


Abu Dhabi».
1. «“Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” (Abu
Dhabi, 4 febbraio 2019)», in Civ. Catt. 2019 I 391-399.
2. Cfr A. Spadaro, «“Sentinelle di fraternità nella notte”. Il viaggio apostolico
di papa Francesco ad Abu Dhabi», ivi 2019 I 467-477.

© La Civiltà Cattolica 2019 II 313-327 | 4054 (18 mag/1 giu 2019)


UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI

sotto quello accademico, che si trova al Cairo ed è il cuore di una


rete educativa internazionale. Quella di Grande imam, che viene
designato dal governo egiziano, è una carica a vita.
Al-Tayyeb è nato nel 1946, ha effettuato la propria formazione
classica ad al-Azhar e possiede un dottorato europeo, ottenuto alla
Sorbona di Parigi. È diventato Grande imam nel 2010. Ha ripetu-
tamente auspicato una modernizzazione dell’islam. Il fatto che egli
si pronunci contro l’Illuminismo e la laicizzazione dello Stato va
inteso nel senso che per lui essi equivalgono al tentativo di esclu-
dere la religione dalla sfera pubblica e ad accettare che i governan-
ti controllino le comunità religiose. Al-Tayyeb è favorevole a una
dottrina islamica più aperta nei contenuti e nella forma: su questo
punto la sua posizione è indubitabile, dal momento che l’ha dimo-
91
strata coraggiosamente ospitando rinnovatori islamici al Cairo per
consultazioni, sebbene ciò gli abbia attirato critiche.
Tra Ahmad al-Tayyeb e papa Francesco si è instaurato un rap-
porto amichevole. Lo si era già visto con la visita del Grande imam
in Vaticano (23 maggio 2016) e con la visita del Papa al Cairo (28-
29 aprile 2017).

Un documento «in fieri»

Prima di leggere il documento, facciamo qualche osservazione sul-


la sua genesi. Quattro dichiarazioni di papa Francesco, nel corso degli
anni, mostrano che questo documento congiunto non è nato dal nulla.
Poco dopo la sua elezione, il Pontefice ha affermato che la Chiesa va
intesa come «un ospedale da campo»3. In altre parole, oggi la priorità va
ai tanti feriti. Successivamente, nella sua Esortazione apostolica Evan-
gelii gaudium (EG), Francesco ha guardato alla «città». Si può vederla,
ha scritto, come un luogo in cui abita Dio. Egli dimora tra i cittadini e
promuove tra loro la solidarietà e la fraternità (cfr EG 71). Durante il suo
viaggio apostolico a Gerusalemme nel 2014, recandosi in visita al Gran
Mufti, il Papa ha fatto risuonare il suo urgente appello in quattro punti:
«Rispettiamoci ed amiamoci gli uni gli altri come fratelli e sorelle! Im-
pariamo a comprendere il dolore dell’altro! Nessuno strumentalizzi per

3. Id., «Intervista a papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 461.


SULLA FRATELLANZA UMANA

la violenza il nome di Dio! Lavoriamo insieme per la giustizia e per la


pace!»4. Pochi giorni dopo, nella domenica di Pentecoste, Francesco ha
ricevuto il leader palestinese Maḥmūd Abbās e l’allora presidente israe-
liano Shimon Peres nei Giardini Vaticani e, sotto un cielo terso e lumi-
noso, ha ricordato a tutti i politici la responsabilità che hanno davanti
a Dio di spezzare la spirale dell’odio. Lo si potrebbe fare, ha detto, «con
una sola parola: “fratello”. Ma per dire questa parola dobbiamo alzare
tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre»5.
Questo è il retroterra che andrebbe tenuto presente nel leggere
il documento del 2019, anno in cui ricorre l’ottocentesimo anni-
versario dell’incontro tra Francesco di Assisi e il sultano ayyubide
al-Malik al-Kāmil.

92
Titolo e argomento del documento

Il titolo del documento verte «sulla fratellanza umana». Parlare


di «fratellanza» solleva una questione teologica: rientra nella tradi-
zione cattolica chiamare «fratelli» e «sorelle» le persone di altre fedi?
Gesù ammonisce esplicitamente dal fare un uso improprio della pa-
rentela per rivendicare privilegi: «Perché chiunque fa la volontà del
Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt
12,50). La Prima lettera di Pietro chiede ai cristiani: «Onorate tutti,
amate la fratellanza» (1 Pt 2,17).
Verso la fine della sua enciclica Pacem in terris (PT), Giovanni
XXIII ha rivolto a Cristo una preghiera pressante per la pace; poi
ha affermato: «In virtù della sua azione, si affratellino tutti i popoli
della terra» (PT 91).
Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes (GS), ha apprezzato
l’operato delle istituzioni internazionali come strumento di sviluppo e
di riconciliazione, dichiarando: «La Chiesa si rallegra dello spirito di
vera fratellanza che fiorisce tra cristiani e non cristiani, e dello sforzo
d’intensificare i tentativi intesi a sollevare l’immane miseria» (GS 84). E
la medesima Costituzione pastorale, riassumendo la propria proposta

4. Francesco, Visita al Gran Mufti di Gerusalemme, 26 maggio 2014.


5. «Invocazione per la pace» di Papa Francesco e dei Presidenti Shimon Peres e
Mahmoud Abbas nei Giardini Vaticani, 8 giugno 2014.
UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI

nelle parole di chiusura, afferma che la Chiesa «intende aiutare tutti


gli uomini del nostro tempo – sia quelli che credono in Dio, sia quel-
li che esplicitamente non lo riconoscono – affinché, percependo più
chiaramente la pienezza della loro vocazione, rendano il mondo più
conforme all’eminente dignità dell’uomo, aspirino a una fratellanza
universale poggiata su fondamenti più profondi, e possano rispondere,
sotto l’impulso dell’amore, con uno sforzo generoso e congiunto agli
appelli più pressanti della nostra epoca» (GS 91).
Già sei settimane prima, al termine della Dichiarazione Nostra
aetate (NA) sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cri-
stiane, il Concilio si era espresso con parole simili: «Non possiamo
invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di
comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati
93
ad immagine di Dio» (NA 5).
Da allora in avanti, la «fratellanza» ha assunto un ruolo di cate-
goria orientatrice nella dottrina sociale cattolica, spesso accanto alla
«solidarietà», come suo concetto apparentato, più facile da giustifi-
care sotto il profilo teologico.
Giovanni Paolo II ha affermato a Parigi che quello della frater-
nité non è affatto un retaggio esclusivo dell’Illuminismo. Ha sotto-
lineato il rango elevato che «libertà, uguaglianza, fraternità» hanno
nella cultura francese, per poi aggiungere: Au fond, ce sont-là des
idées chrétiennes6.
Nella sua enciclica sociale Caritas in veritate (CV) papa Bene-
detto XVI ha ricordato l’insegnamento di Paolo VI e lo ha riassun-
to come «l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, solidale
nella comune fraternità» (CV 13). L’espressione fraternité universelle
era già uscita dalla sua penna quattro anni prima, subito dopo la
beatificazione di Charles de Foucauld, che aveva dedicato la vita alla
testimonianza tra i musulmani e per il quale quell’espressione era
diventata un Leitmotiv: «Cristo ci invita alla fratellanza universale»7.
Parlare di fratellanza, in particolare verso i musulmani – «fratello
di tutti» è un’espressione tipica soprattutto della spiritualità francescana

6. Giovanni Paolo II, s., Santa Messa a Le Bourget, Parigi, 1° giugno 1980.
7. Benedetto XVI, Parole di saluto al termine della celebrazione, 13 novembre
2005.
SULLA FRATELLANZA UMANA

–, fa dunque parte integrante della tradizione cattolica da Giovanni


XXIII in poi. Ma questo come viene percepito dai musulmani? Essi,
a loro volta, usano formule simili, ma non le motivano con l’idea che
siamo tutti figli di Dio. Infatti, non chiamano Dio «Padre», perché il
termine appare loro troppo umano. Nel Corano, ne danno ragione
Adamo ed Eva: «O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una
femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a
vicenda» (Sura 49,13). Dalla comune discendenza di tutti gli uomini lo
stesso versetto deduce immediatamente la loro uguaglianza: la dignità
non è legata a una discendenza superiore, ma piuttosto al fatto che,
«presso Dio, il più nobile di voi è colui che più Lo teme».

94
Struttura del documento

Dopo aver esaminato il motivo fondamentale della fratellanza,


che appare fin dal titolo, ora rivolgiamo l’attenzione al testo. Com’è
strutturato? La prefazione lo individua sotto tre profili: quello teo-
logico, quello diagnostico e quello personale.
Il fondamento teologico dice che attraverso la fede in Dio le persone
percepiscono gli altri esseri umani come fratelli e sorelle; è a causa della
dignità donata da Dio all’intera creazione che siamo chiamati a tutelare
e a promuovere le creature nostre simili. Il tempo presente viene letto
come un momento di progresso positivo, ma anche funestato da espe-
rienze disumane di povertà e di guerra. Questo contrasto può spiegarsi
soltanto con un degrado sociale, etico e politico, che si è spinto fino
al terrorismo. Il contesto da cui trae origine il documento è personale:
scaturisce dal dialogo tra i due leader. È concepito come un invito ri-
volto a tutti i credenti affinché collaborino a una cultura del rispetto.
Segue il testo principale, a sua volta suddiviso in tre sezioni, che
potremmo descrivere come «orizzonte di responsabilità», «messag-
gio» e «concretizzazioni».

Orizzonte di responsabilità

Così come le altre due sezioni principali, quella dedicata al-


l’«orizzonte di responsabilità» si compone di due parti. Si avvale
dell’espressione «In nome di Dio...», presente nelle basmala islamiche
UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI

e in numerose formule cristiane bibliche e tradizionali. Chi parla in


questo modo dedica a Dio ciò che intende dire, ne richiede la pro-
tezione ed esprime l’intenzione che quanto verrà detto corrisponda
alla Sua volontà. Qui Dio viene invocato come Colui che ha creato
l’umanità e ha chiamato l’uomo a essere buono.
Dopo questa invocazione, l’espressione «in nome di...» viene uti-
lizzata altre 10 volte. Non soltanto i due autori sono consapevoli
di parlare davanti a Dio, ma vogliono anche rispondere delle loro
azioni sia davanti agli esseri umani nella loro sofferenza, sia davanti
agli esseri umani con i loro valori. L’ultima invocazione riassume
programmaticamente tutto questo in termini di un impegno in
prima persona: il «percorso» comune in futuro dovrà essere la cul-
tura del dialogo; la «condotta» dovrà essere di collaborazione comu-
95
ne; il «metodo e criterio» dovrà essere la conoscenza reciproca.
Letto in questo modo, il testo riecheggia l’invito rivolto da
Francesco, nella sua visita a Gerusalemme, «a comprendere il dolore
dell’altro»8. Dove si parla di «conoscenza reciproca», nel testo in ara-
bo si legge ta’āruf, termine che rinvia al versetto coranico già citato:
a causa della comune discendenza possiamo o dobbiamo «conoscer-
ci a vicenda» (Sura 49,13).

Messaggio

A questo punto, il documento sulla fratellanza fa risuonare il


suo appello. Tutte le persone che possono esercitare un’influenza
sul mondo dovrebbero ricordare che l’umanità è un’unica famiglia.
Quindi la distruzione prodotta dall’uomo deve terminare quanto
prima possibile: la distruzione a causa della guerra, quella dell’am-
biente, quella causata dal declino culturale e morale.
Ma il messaggio non si esaurisce in una lista di richieste. Segue
una parte analitica di grande importanza. Gli autori non si limitano a
riflettere su che cosa sia buono, ma si chiedono anche da dove venga il
male. Qui non troviamo superficiali condanne generalizzate; al con-
trario, papa Francesco e il Grande imam al-Tayyeb considerano i passi
positivi degli sviluppi attuali. Ma il loro sguardo – nella ricerca delle

8. Francesco, Visita al Gran Mufti di Gerusalemme, cit.


SULLA FRATELLANZA UMANA

fonti della sofferenza che l’uomo si autoinfligge –, prima di allargarsi


alle crisi politiche e all’ingiusta ripartizione dei beni, si concentra verso
l’interno, cioè verso la coscienza umana: molte decisioni odierne si
possono spiegare con il deteriorarsi del «senso di responsabilità».
A questa intuizione i due leader fanno seguire un’approfondita
argomentazione. Laddove la vita privata, quella pubblica e i pro-
cessi decisionali non vengono plasmati dalla consapevolezza della
responsabilità umana, le persone cadono in preda alla disperazione.
Ciò a sua volta può condurle a due conseguenze: o a smarrire ogni
riferimento religioso (viene in mente la sconfinata brutalità dei to-
talitarismi atei), o a dedicarsi a estremismi religiosi che le possono
rendere altrettanto distruttive9.
Alla diagnosi fa seguito la proposta di una terapia. I due pilastri
96
su cui al-Tayyeb e Francesco fondano la loro visione del futuro sono
la famiglia e la religione. Qui essi dichiarano che «le religioni non
incitano mai» alla violenza. L’affermazione può apparire ingenua;
di fatto, i due leader mostrano di sapere molto bene quanto sangue
sia stato sparso in nome della religione, e con quanta facilità. Ma
essi distinguono tra «la verità» della religione e la sua «strumenta-
lizzazione». E condannano l’abuso del nome di Dio per giustificare
la violenza con un argomento teologico penetrante e significativo:
«Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e
non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente».

Concretizzazioni

Sulla scorta di questa professione, il testo si avvia alla sua parte


conclusiva, costituita da due serie di attestazioni concrete, quelle
che abbiamo appunto chiamato «concretizzazioni». In primo luogo,
vengono presentate 12 tesi giuridico-politiche; poi i due leader in-
dicano come vorrebbero che il documento venisse utilizzato.

9. In questo contesto, accanto al termine «fondamentalismo», viene usata


una parola meno familiare, «integralismo». Essa designa una prospettiva religiosa
secondo la quale la propria religione è in grado di rispondere da sola a ogni
interrogativo e deve determinare ogni ambito dell’esistenza. All’opposto stanno
concetti come quello di «dialogo» e il riconoscimento dell’«autonomia delle realtà
temporali» (GS 36).
UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI

Che cosa dicono le 12 tesi? Le riassumeremo qui brevemente,


dapprima con un commento positivo, poi anche secondo una rilet-
tura critica.
1) Le religioni promuovono la fratellanza. Qui gli autori utiliz-
zano un’assonanza terminologica che esprime l’alternativa tra l’e-
goismo e quella solidarietà a cui invitano le religioni; si avvalgono
infatti del contrasto tra «la legge della forza e la forza della legge»
(qānūn al-qawm/qawm al-qanūn).
2) La libertà di religione e di credo va garantita a ogni essere
umano e può essere giustificata con la fede.
3) Soltanto l’interazione tra la giustizia e la misericordia conduce
a condizioni di vita umane.
4) I problemi del mondo possono essere risolti soltanto attraver-
97
so il dialogo.
5) Il dialogo interreligioso dovrebbe svolgersi in un incontro su
valori condivisi e promuovere il bene, evitando «inutili discussioni».
6) Tutti i luoghi di culto devono godere di una tutela giuridica
e religiosa. In nessun caso dovrebbero essere attaccati per presunti
motivi religiosi.
7) Anche da parte delle religioni il terrorismo va condannato
senza appello.
8) Tutti hanno uguali diritti. Gli individui non sono soggetto di
diritti a motivo della loro appartenenza a un determinato gruppo,
per esempio a una religione o a un’etnia: ciò infatti implicherebbe
un’altra categoria degradante, quella di «minoranza». Piuttosto, essi
hanno diritti perché sono cittadini.
9) Le culture differenti possono, anzi devono arricchirsi vicen-
devolmente. Ma occorre respingere anche quel culturalismo che a
partire da certe tradizioni vuole giustificare ciò che in realtà viola i
diritti umani. Tali diritti tuttavia non devono essere utilizzati nem-
meno per giustificare due pesi e due misure. Forse gli autori pensa-
no qui alle condanne degli attacchi palestinesi pronunciate mentre
allo stesso tempo si approvano gli insediamenti israeliani.
10-11-12) Le ultime tre tesi formulano diritti di determinate cate-
gorie di persone, vale a dire le donne, i bambini, gli anziani e i disabili.
I due leader concludono il loro testo guardando al futuro. In
proposito, dicono tre cose: c’è in primo luogo quello che «promet-
SULLA FRATELLANZA UMANA

tono»; quindi quello che «chiedono»; e infine quello che «auspica-


no». La loro promessa è di impegnarsi personalmente a diffonde-
re la Dichiarazione e i suoi contenuti; la loro richiesta è che essa
venga inclusa nei programmi di istruzione; e il loro auspicio è che
essa venga accolta in modo corretto, vale a dire come un invito
alla riconciliazione, come un appello a ogni coscienza, come una
testimonianza di fede in Dio, e infine come un gesto di prossimità
amorevole o, come viene detto letteralmente, un «abbraccio» tra
popoli nella loro diversità.

Un documento sotto attacco

La Dichiarazione di Abu Dhabi ha generato polemiche fin dalla


98
sua pubblicazione. C’è chi la elogia come un segno di comprensione
profondamente necessario, espresso al più alto livello, ma c’è anche
chi la critica. Abbiamo esaminato il documento insieme a studenti
e a esperti, musulmani e cristiani, a Gerusalemme e a Roma. Ora
presentiamo qui i punti più frequentemente criticati, rispondendo
alle obiezioni sollevate.
Qualcuno afferma che il documento non giustifica le sue affermazioni
con citazioni tratte dalle Scritture. Va tenuto presente che i cristiani non
riconoscono il Corano né come parte del loro canone né come punto
di partenza per giustificazioni teologiche. D’altro canto, i musulmani
vedono la Bibbia in modo analogo: riconoscono che Mosè, Davide e
Gesù hanno ricevuto un «libro» rivelato, che ha praticamente lo stesso
contenuto del Corano, ma ciò che oggi si trova nella Bibbia cristiana
non corrisponde fedelmente a quanto è stato rivelato (cfr Sura 2,75).
Il documento vuol essere «una dichiarazione comune di buone e leali
volontà». Eventuali citazioni esplicite delle Scritture di una o dell’altra
religione costituirebbero un ostacolo a questo fine. Tuttavia, il testo si
rivela in piena sintonia con la Scrittura.
Si dice che il documento ha senso soltanto se si presuppone una
teologia della creazione. Questa critica è dettata dal timore che il
dialogo interreligioso venga fondato su una mera teologia naturale,
ossia che si esprima soltanto sulla base di quanto si può ricavare dalla
natura e dalla logica. Ne resterebbero escluse la prospettiva futura
del genere umano, la redenzione e la novità entrata nel mondo at-
UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI

traverso l’alleanza di Dio con Israele e in Cristo. A questo propo-


sito, vanno fatte due osservazioni. Poiché gli autori hanno voluto
scrivere un testo che potesse essere accettato sia dai musulmani sia
dai cristiani, non è stata fatta menzione delle differenze tra le due
religioni. Tuttavia il documento si riferisce decisamente al destino
umano con il termine adeguato di «chiamata». In essa, il libero, per-
sonale e sempre nuovo agire di Dio sta in primo piano, così come la
nostra risposta individuale e libera.
Un’altra obiezione è che il documento ridurrebbe, con un atteggia-
mento illuministico, le religioni all’etica. Il messaggio delle religioni è,
per Francesco e al-Tayyeb, anche un chiaro orientamento dell’azio-
ne umana. Ma «il primo e più importante obiettivo delle religioni è
quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomi-
99
ni a credere». È vero, gli autori usano alcuni termini caratteristici
dell’Illuminismo europeo: si parla di «fraternità», «dignità umana»,
«diritti umani» e «cittadinanza». Tuttavia la «fraternità» di tutti gli
esseri umani non è soltanto un’idea illuministica, e può essere giu-
stificata anche su basi coraniche e bibliche, come abbiamo mostrato
sopra. Il fatto che i «diritti umani» vengano usati in modo norma-
tivo è un passo avanti importante. I musulmani a volte pensano di
dover respingere il carattere universalmente vincolante dei diritti
umani a causa di un malinteso: affermano infatti che Dio ha più
diritti degli esseri umani10.
Da un punto di vista teologico, si può precisare che proprio l’i-
dea di base dei diritti umani corrisponde alla volontà di Dio, perché
essi proteggono gli esseri umani da pretese di potere sui loro simili
proprio in quanto questi sono creature di Dio. Da parte islamica,
la «dignità» di ogni essere umano è spesso intesa alla luce del ver-
setto coranico in cui Dio dice: «Abbiamo onorato i figli di Adamo»
(karramnā, Sura 17,70). Ma soprattutto va sottolineata la menzione
della cittadinanza, che è molto importante nell’attuale discussione
giuridica islamica.

10. Cfr F. Körner, «Islam und Religionsfreiheit. Reibungspunkte, Schlüsseltexte,


Lösungswege», in M. Baumeister - M. Böhnke - M. Heimbach-Steins - S.
Wendel (eds), Menschenrechte in der katholischen Kirche. Historische, systematische und
praktische Perspektiven, Paderborn, F. Schöningh, 2018, 206.
SULLA FRATELLANZA UMANA

La Dichiarazione di Marrakesh (27 gennaio 2016) è stata il pri-


mo documento internazionale sottoscritto da studiosi islamici che
ha utilizzato il termine muwāṭana. Si tratta di un neologismo che
riecheggia in arabo il francese citoyenneté. Ahmad al-Tayyeb si è
espresso più volte in favore della muwāṭana, e quindi contro l’appli-
cazione moderna della regola coranica della dimma. Quest’ultima
prevede che ai membri di religioni come il cristianesimo venga ac-
cordata protezione contro pagamento di un tributo, ma non uguali
diritti (cfr Sura 9,29).
Il Grande imam sostiene che questa disposizione oggi non va
più applicata, perché proviene da un contesto giuridico e politico
superato. «Cittadinanza» è in effetti un termine moderno – usato
anche a prescindere dalla Rivoluzione francese –, che indica che è
100
possibile vivere la vita religiosa confidando nelle condizioni giu-
ridiche moderne, in un contesto, cioè, in cui ogni Stato dovrebbe
garantire a tutti i suoi cittadini gli stessi diritti di libertà, anziché
trattare le persone secondo la loro appartenenza a gruppi particolari.
Qualcuno ha affermato che il documento sarebbe «essenzialista», at-
taccando le formulazioni che contrappongono la «religione» nella sua
essenza alla sua errata interpretazione e all’abuso che se ne fa. In effetti
non esiste da nessuna parte una definizione indiscutibile di ciò che
«la religione» è allo stato puro o di ciò che sono i suoi «veri inse-
gnamenti», come li chiama il documento. Ma qui gli autori non si
propongono di descrivere il cristianesimo e l’islam sotto il profilo
storico o sociologico. Francesco e al-Tayyeb li presentano piuttosto
sotto l’aspetto normativo, si esprimono da teologi. I due leader vo-
gliono parlare come maestri della fede quando affermano: «Sbaglia
chi cerca di giustificare l’uso della violenza con il nome di Dio»11. Il
documento sulla fratellanza non vuole argomentare in termini filo-

11. Anche papa Benedetto XVI aveva parlato in questo senso ad Assisi,
dicendo: «La critica della religione, a partire dall’Illuminismo, ha ripetutamente
sostenuto che la religione fosse causa di violenza, e con ciò ha fomentato l’ostilità
contro le religioni. […] Questa non è la vera natura della religione. È invece il
suo travisamento e contribuisce alla sua distruzione. Contro ciò si obietta: ma da
dove sapete quale sia la vera natura della religione?». Papa Benedetto non rispondeva
al quesito, ma lo consegnava al «dialogo interreligioso». Cfr Benedetto XVI,
Intervento nella Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel
mondo, Assisi, 27 ottobre 2011.
UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI

sofici: piuttosto cerca chiaramente di evitare che la religione venga


strumentalizzata.
Si è detto pure che il documento è ambiziosamente rivolto alle «élites» e
ignora la base. È vero che l’inizio della parte principale si rivolge ai «lea­
der». Più avanti, però, quando i due autori si impegnano a diffondere
il documento, parlano anche di «livelli regionali» e di «organizzazioni
della società civile». E, soprattutto, alla fine del documento vengono
chiamati in causa i giovani, ed espressamente anche le scuole.
Il documento chiede tolleranza. Qualcuno ha affermato che si tratta
di un’istanza troppo modesta, perché ciò di cui abbiamo bisogno è la
libertà religiosa. Il documento sottoscritto da papa Francesco e dal
Grande imam al-Tayyeb in realtà propone atteggiamenti di ulterio-
re impegno esistenziale e di prossimità tra persone di fedi diverse: il
101
rispetto, lo scambio, il dialogo, la cooperazione e, più di ogni altra
cosa, la fratellanza. La libertà di religione poi viene alla ribalta come
«libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione» e succes-
sivamente come «libertà di essere diversi»; e a quel punto è come
avere indicato la libertà di cambiare religione, dal momento che si
condanna qualsiasi costrizione in materia religiosa. Quando Fran-
cesco si è rivolto, un mese dopo la firma della Dichiarazione di Abu
Dhabi, al popolo del Marocco, ha parlato di «libertà di coscienza» e
di «libertà religiosa»12.
Il documento – si dice – definisce «inutili discussioni» la dimen-
sione teologica del dialogo interreligioso. Questa espressione, infatti,
viene messa in contrasto con un dialogo che pone in primo piano
le comunanze spirituali ed etiche. Ciò da cui gli autori ovviamen-
te mettono in guardia è quella forma di «dialogo» che si esaurisce
nell’apologetica e nel dibattito. Un dialogo argomentato, soprat-
tutto tra interlocutori sperimentati, può di certo essere teologica-
mente fruttuoso; ed è abbastanza comprensibile che le persone, se
sperimentano la loro fede come fonte di gioia profonda, desiderino
la stessa gioia per i loro amici di altre fedi. Ma difficilmente l’autre
croyant13, l’altro credente, metterà in discussione la propria religione.

12. Cfr A. Spadaro, «“La Chiesa si fa colloquio”. Il viaggio apostolico di papa


Francesco in Marocco», in Civ. Catt. 2019 I 159-169.
13. Benedetto XVI, Esortazione apostolica Ecclesia in Medio Oriente, 2012,
n. 19.
SULLA FRATELLANZA UMANA

Quindi, quando esistono differenze, è sempre importante guardare


agli obiettivi, ai valori e alle intenzioni comuni.
Infine, si dice che il documento è una fraternizzazione islamo-cri-
stiana da cui restano esclusi i non credenti e i credenti di altre fedi. In
realtà, si può mostrare facilmente che questa impressione è dovuta a
un equivoco. Quando il testo dichiara che vanno protetti i luoghi di
culto, non fa riferimento soltanto alle moschee e alle chiese, ma an-
che ai «templi» (maʿābid14). Inoltre, i due autori auspicano che il loro
documento sia «un appello a ogni coscienza viva», ed esprimono la
speranza che il testo venga inteso come un invito alla riconciliazione
anche «tra i credenti e non credenti, e tra tutte le persone di buona
volontà». Così si collocano nella linea di Giovanni XXIII, che aveva
dedicato l’Enciclica Pacem in terris agli uomini di buona volontà.
102

La diversità religiosa nella storia della salvezza

C’è una frase della seconda concretizzazione che viene spesso


criticata da parte cristiana, talvolta con asprezza. La formulazione
vuole mostrare che la libertà di religione è giustificabile teologica-
mente. Nel passo si legge: «Il pluralismo e le diversità di religione,
di colore, di sesso, di razza15 e di lingua sono una sapiente volontà
divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani».
Dobbiamo esaminare questa affermazione secondo tre differen-
ti prospettive: a) come viene accolta da parte islamica? b) Quale
problema cristiano-teologico pone? c) La si può intendere come una
dichiarazione cattolico-teologica sensata?
a) Da parte islamica, il passo non arreca alcuna offesa; piuttosto,
esprime un’idea coranica. Per capirlo, occorre considerare due ver-
setti. Il Corano menziona espressamente la differenza di «linguag-
gi» e «colori» umani in quanto creata da Dio. In quale contesto?
Spesso il Corano parla di «segni di Dio»: in questo modo interpreta
per i suoi ascoltatori il mondo, e lo rende leggibile come creazione
e rivelazione. In ciò che accade nel mondo si può riconoscere l’ope-
ra potente di Dio. «E fan parte dei Suoi segni la creazione dei cieli

14. La traduzione ufficiale inglese rende questo termine con synagogues.


15. La traduzione ufficiale tedesca rende questo vocabolo con «etnia».
UNA RIFLESSIONE SUL DOCUMENTO DI ABU DHABI

e della terra, la varietà dei vostri idiomi e dei vostri colori» (Sura
30,22).
Ma la visione coranica della storia della rivelazione comprende an-
che il fatto che i vari libri rivelati sono stati trasmessi a uomini «pro-
feti», come Mosè, Davide, Gesù e Maometto, e che ogni libro istitui­
sce una «via» differente, anche se sostanzialmente identica quanto al
contenuto. Così, secondo la Sura, Dio si rivolge a Maometto parlando
delle confessioni apparentemente diverse degli ebrei e dei cristiani,
e dice del Corano: «E su di te abbiamo fatto scendere il Libro con la
Verità, a conferma della Scrittura che era scesa in precedenza […]. A
ognuno di voi abbiamo assegnato una via e un percorso. Se Dio avesse
voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Ma vi ha voluto pro-
vare con quello che vi ha dato. Gareggiate in opere buone» (Sura 48).
103
b) Il fatto che nell’ambito del genere umano ci siano persone
di pelle scura e di pelle chiara, oppure uomini e donne, continue-
rà probabilmente fino alla fine del mondo. In ciò si può vedere la
variopinta e feconda diversità della creazione di Dio. Ma il fatto
che nell’umanità ci siano musulmani e cristiani ha ovviamente altri
motivi e conseguenze. Popoli e persone si sono convertiti. Per alcu-
ni questo è accaduto in libertà, per altri no.
Ora, sussistono tensioni tra la confessione islamica e quella cri-
stiana, in particolare a proposito di Gesù: davvero egli è morto sulla
croce ed è risorto dai morti? È «a gloria di Dio» che lo professiamo
«Signore», anzi ci rivolgiamo a lui come «Signore e Dio» (Fil 2,11; Gv
20,28)? Su questo punto cristiani e musulmani non si trovano d’accor-
do. E se queste fondamentali differenze sono dovute semplicemente
a «una sapiente volontà divina», sembra contrario alla volontà di Dio
che i cristiani confessino la propria fede nella speranza che anche altri
possano riconoscere Cristo come Salvatore.
c) Nel Documento sulla fratellanza umana questa frase controversa
serve a giustificare la libertà religiosa. Quest’ultima può essere moti-
vata teologicamente anche attraverso altre vie: per esempio, spiegando
la fede come accettazione fiduciosa che avviene sotto forma di un «sì»
personale, e quindi liberamente16. Ricordiamo, per inciso, che anche il

16. Cfr Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae,


n. 10.
SULLA FRATELLANZA UMANA

Corano insegna che le persone non possono essere obbligate in que-


stioni religiose (cfr Sura 2,256).
Inoltre, la formulazione del documento può essere intesa come teo­
logicamente importante. Di fatto, essa segue da vicino la Dichiarazione
Nostra aetate: «La Chiesa esecra, come contraria alla volontà di Cristo,
qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per
motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione» (NA 5).
Pertanto, quando differenze religiose ed etniche vengono menzionate
nella stessa frase, questo non significa che vengano poste sullo stesso
livello, ma che le une e le altre diventano facilmente fonte di discrimi-
nazione e che noi siamo chiamati a prevenire tale pericolo.
Ma quando il Documento sulla fratellanza parla di «una sapiente
volontà divina», suggerisce qualcosa di più. Molte volte il governo
104
della storia da parte di Dio porta a situazioni che a noi paiono incom-
prensibili. Perché Giuseppe fu venduto in Egitto dai fratelli gelosi?
Perché Cristo è stato crocifisso? Perché non tutti riconoscono la pie-
nezza della salvezza in Cristo? Alla fine, Giuseppe rivelerà ai propri
fratelli: «Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita»
(Gen 45,5). Dio ha agito anche attraverso la gelosia di quei fratelli.
E sulla diversità delle religioni, sia Benedetto XVI sia Francesco
si pronunciano con un’affermazione significativa: quando le per-
sone di religioni differenti s’incontrano, questo può indicare per
entrambe le parti «purificazione e arricchimento»17. Ciò equivale a
riconoscere che la diversità religiosa ha un ruolo importante nella
storia della salvezza. A Rabat, Francesco ha messo in evidenza che
«si tratta di scoprire e accogliere l’altro nella peculiarità della sua
fede e di arricchirsi a vicenda con la differenza, in una relazione
segnata dalla benevolenza e dalla ricerca di ciò che possiamo fare
insieme»18.

17. Cfr Benedetto XVI, Discorso, 21 dicembre 2012; Francesco, Evangelii


gaudium, n. 250; cfr Segretariato per i non cristiani, L’ atteggiamento della
Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni (Riflessioni e orientamenti su dialogo e
missione), 1984, n. 21.
18. Francesco, Discorso nell’incontro con il popolo marocchino, le autorità, con la
società civile e con il Corpo diplomatico, Rabat, 30 marzo 2019.
LA RICEZIONE DEL DOCUMENTO
SULLA FRATELLANZA

Laurent Basanese S.I.

«Dialogo non è una formula magica», dichiarava papa Francesco


alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sezione San
Luigi, il 21 giugno 2019. In realtà, esige sforzi, incontri, «pazien-
za geologica» – secondo le parole del grande islamologo Georges
105
Anawati –, e soprattutto atti concreti.
Mentre il «Documento sulla Fratellanza umana per la pace
mondiale e la convivenza comune» del 4 febbraio 2019, firmato da
papa Francesco e dal Grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb,
è entrato nella sua delicata fase di ricezione, conviene ricordare due
elementi importanti.
Innanzitutto, il testo di Abu Dhabi è un’esortazione da mette-
re in pratica, soprattutto da parte delle persone o degli organismi
che possono agire sulla società, cioè «autorità, leader influenti, gli
uomini di religione di tutto il mondo, le organizzazioni regionali
e internazionali competenti, le organizzazioni della società civile,
le istituzioni religiose e i leader del pensiero». Visibilmente ciò che
auspicano papa Francesco e il Grande imam Ahmad al-Tayyeb è
che il «Documento sulla Fratellanza umana» non rimanga lettera
morta, ma venga recepito in leggi e riforme reali della mentalità e
della società.
In secondo luogo, non si tratta di un’ennesima «dichiarazione
islamo-cristiana»: le parole «islam», «cristianesimo», «dialogo isla-
mo-cristiano» d’altronde non compaiono in questo Documento.
Ma esso è indirizzato a tutti, ben oltre le appartenenze religiose: «Ci
rivolgiamo agli intellettuali, ai filosofi, agli uomini di religione, agli
artisti, agli operatori dei media e agli uomini di cultura in ogni par-
te del mondo, affinché riscoprano i valori della pace, della giustizia,
SULLA FRATELLANZA UMANA

del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza


comune, per confermare l’importanza di tali valori come àncora di
salvezza per tutti e cercare di diffonderli ovunque».

Alcuni frutti notevoli

Se il «Documento sulla Fratellanza» ha l’ambizione di avere


una portata universale che trascende le divisioni comunitariste, è
comunque radicato in un’ampia riflessione anteriore, al contempo
musulmana e cristiana, sul futuro dell’umanità.
In seguito agli attacchi terroristici, rivendicati nel nome dell’i-
slam, che hanno segnato l’inizio del XXI secolo, passando per le
rivoluzioni arabe del 2011 e l’apparizione dell’Isis sulla scena inter-
106
nazionale nel 2013, si sono in effetti moltiplicate assemblee di lea-
der musulmani, talvolta con cristiani, ebrei e rappresentanti di altre
confessioni, in tutto il mondo, nel tentativo di dare una risposta a
queste crisi sanguinose. Molto prima di poter percepire dei frutti
concreti del Documento di Abu Dhabi, erano stati programmati
altri incontri di alto livello, come la visita di papa Francesco in Ma-
rocco il 30 marzo 2019, dove il re Mohammed VI in persona ha
invitato a un «superamento» del classico dialogo interreligioso e a
promuovere l’educazione per far fronte alla violenza e ai radicalismi.
Punteggiando il suo testo di versetti coranici, un passaggio del
suo discorso di benvenuto merita di essere letto attentamente: «Il
dialogo tra le religioni abramitiche è manifestamente insufficiente
nella realtà di oggi». Nel momento in cui i paradigmi si trasfor-
mano, dovunque e soprattutto, anche il dialogo interreligioso deve
cambiare. Il dialogo incentrato sulla «tolleranza» durerà a lungo,
senza però raggiungere la sua finalità. Le tre religioni abramitiche
non esistono per tollerarsi a vicenda, per rassegnazione fatalista o
accettazione altera. Esistono per aprirsi l’una verso l’altra e per co-
noscersi, in un concorso valoroso a farsi reciprocamente del bene.
Ha detto Mohammed VI: «I radicalismi, siano essi religiosi o
meno, sono basati sulla non conoscenza dell’altro, sull’ignoranza
dell’altro, sull’ignoranza in generale. La “co-conoscenza” è una ne-
gazione di tutte le forme di radicalismo. Ed è questa co-conoscenza
LA RICEZIONE DEL DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA

che ci permetterà di affrontare le sfide del nostro presente tormen-


tato». Per far fronte ai radicalismi, ha proseguito, «la risposta non
è né militare né di budget; ha un solo nome: educazione. Il mio
appello per l’educazione è una requisitoria contro l’ignoranza: sono
le concezioni binarie e la non conoscenza che minacciano le nostre
civiltà. Mai la religione».
Il Documento di Abu Dhabi costituisce, tuttavia, una pietra mi-
liare notevole anche nelle relazioni interreligiose. In un certo senso,
invita a rinnovare in modo concreto il discorso e lo stile degli in-
contri interreligiosi, passando non solo dalle parole alle azioni, ma
anche dal «politicamente corretto» al sano confronto e alla vera co-
operazione, per ripensare tutti insieme la «fratellanza» – vale a dire
il futuro dell’umanità – «credenti e non credenti, e tutte le persone
107
di buona volontà», come dice il testo.
Prova della serietà dell’intenzione, il 25 febbraio, venti giorni
dopo il viaggio del Papa negli Emirati Arabi Uniti, una delegazione
del Paese del Golfo guidata dallo sceicco Abdallah Ben Zayed Al
Nahyan, ministro degli Esteri, ha riferito al Papa in Vaticano delle
prime decisioni frutto della Dichiarazione congiunta. Tra queste
decisioni, si può ricordare la Fondazione internazionale per la co-
esistenza, la Zayed International Fund for Co-existence, incaricata
di finanziare programmi educativi che promuovono il pluralismo
e la fratellanza. O ancora la costruzione, sulla Saadiyat Island di
Abu Dhabi, della Casa della Famiglia di Abramo, una moschea, una
chiesa, una sinagoga e un centro di formazione per commemorare
la storica visita di papa Francesco e del Grande imam Ahmad al-
Tayyeb, a cui verrà aggiunto un tempio indù su un terreno di oltre
100.000 metri quadrati lungo la strada tra Abu Dhabi e Dubai.
In questo stesso nuovo spirito di dialogo concreto e fraterno alla
ricerca della pace e della concordia, è stato istituito qualche mese
dopo, il 19 agosto, un «Comitato Superiore della Fraternità uma-
na», un gruppo di leader religiosi, studiosi dell’educazione e leader
culturali di tutto il mondo, incaricato di sostenere e promuovere le
riforme ispirate dal Documento di Abu Dhabi, anche presso le au-
torità nazionali e internazionali. Questo Comitato si è riunito una
prima volta a Roma l’11 settembre, data altamente simbolica, e una
seconda volta a New York qualche giorno dopo, il 20 settembre, in
SULLA FRATELLANZA UMANA

occasione dell’apertura della 74a Assemblea plenaria delle Nazioni


Unite. Il 5 dicembre scorso, sempre a New York, i membri del Co-
mitato hanno incontrato il Segretario generale delle Nazioni Unite,
António Guterres, e gli hanno consegnato un messaggio di papa
Francesco e del Grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb, nel
quale si propone che il 4 febbraio sia dichiarato «Giornata Mondiale
della Fratellanza Umana», e si chiede all’Onu di partecipare, assieme
alla Santa Sede e ad al-Azhar, all’organizzazione, in un prossimo
futuro, di un Summit mondiale sulla Fratellanza umana.
Malgrado le critiche inevitabili, da alcuni ambienti sia cattolici
sia musulmani, che rimpiangono l’ambiguità di alcuni termini o
sottolineano il rischio di sentimentalismo e irenismo, il «Documen-
to sulla Fratellanza» viene generalmente percepito come un evento
108
molto importante nella storia del dialogo tra popoli e culture, come
lo è stato anche l’incontro interreligioso di Assisi del 1986. D’altra
parte, va notato che la sua firma, esattamente 800 anni dopo l’in-
contro – in piena crociata, nel 1219 – di san Francesco con il sulta-
no al-Malik al-Kāmil a Damietta, è molto significativa.
Il Documento viene anche ripreso, commentato, integrato, in
un modo o nell’altro, come un notevole contributo al dialogo in-
terreligioso, persino come una pietra fondante per il futuro dell’u-
manità. Così la dichiarazione intitolata «Una fratellanza per la co-
noscenza e la cooperazione», firmata da 22 leader e intellettuali
musulmani il 9 luglio, considera il testo di Abu Dhabi «un evento
senza precedenti, a livello istituzionale, nella storia delle relazioni
tra cristiani e musulmani».
Allo stesso modo, nella conferenza Human Fraternity: A Jewish
Reflection for a Common Existence, l’8 novembre, presso la Pontificia
Università Gregoriana, Ronald S. Lauder, presidente del Congres-
so ebreo mondiale, ha dichiarato: «A nome della comunità ebrea
mondiale, posso dirvi che la Dichiarazione di Abu Dhabi è un do-
cumento internazionale determinante che noi, ebrei, rispettiamo
profondamente. Condividiamo i suoi valori fondamentali e appro-
viamo i suoi princìpi fondamentali». Il Corpo diplomatico accredi-
tato presso la Santa Sede ha organizzato anche importanti incontri
a Roma per sensibilizzare il suo personale e la sua rete, come l’am-
basciata del Giappone e quella della Repubblica Argentina, alla pre-
LA RICEZIONE DEL DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA

senza di leader religiosi, cristiani, ebrei, musulmani, indù, buddisti,


sikh.
Si potrebbe anche affermare che lo «spirito» del Documento al
tempo stesso provoca e invita a essere più prudenti nell’uso del vo-
cabolario quando si parla dell’«altro», del «diversamente religioso» e
della sua strumentalizzazione da parte della politica. Senza menzio-
nare esplicitamente il documento di Abu Dhabi, la «Dichiarazio-
ne della Mecca», firmata il 31 maggio 2019, alla fine della sessione
ordinaria dell’Organizzazione della cooperazione islamica, prende
di nuovo le distanze dalle politiche che usano la religione per fo-
mentare conflitti; riafferma il necessario rispetto delle differenze
culturali e religiose e indica anche il dialogo interreligioso tra gli
strumenti utili a contrastare discorsi violenti.
109
Qualche mese dopo, il 17 settembre, Muhammad Issa, segreta-
rio generale della Lega musulmana mondiale, ha ugualmente rico-
nosciuto, in occasione di una Conferenza internazionale sulla pace
a Parigi, che «l’islam politico rappresenta una minaccia e una (fonte
di) divisione nella società». Infine, durante l’XI Colloquio in Iran
tra il Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso e l’Islamic
Culture and Relations Organization (ICRO), l’11 e 12 novembre a
Teheran, sul tema «Musulmani e cristiani insieme a servizio dell’u-
manità», molti esponenti sciiti hanno espresso il desiderio di dare
il proprio contributo alla riflessione aperta dal «Documento sulla
Fratellanza».

Oltre il recinto delle «religioni abramitiche»

La prova, tuttavia, che il Documento non è destinato a rimanere


nel recinto delle «religioni abramitiche» è che lo stesso papa France-
sco ne ha promosso le intuizioni portandolo in Asia. Durante il suo
viaggio in Thailandia il 21 novembre, ne ha offerto persino una co-
pia al Patriarca supremo dei buddisti, Somdet Phra Ariyavongsaga-
tanana IX. Durante il suo discorso, ha insistito sull’importanza della
fratellanza umana per la pace e la convivenza, facendo riferimento
alla sua prima Esortazione apostolica Evangelii gaudium, mostrando
così la continuità del suo pensiero: «Quando abbiamo l’opportuni-
tà di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze,
SULLA FRATELLANZA UMANA

offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare


e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati
dalla divisione. Possibilità come queste ci ricordano quanto sia im-
portante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di spe-
ranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità».
Lo stesso messaggio è stato proferito dal Papa l’indomani – di
fronte al mondo accademico, nella Chulalongkorn University di Ban-
gkok, e alla presenza di 18 leader religiosi del Paese, rappresentanti
delle religioni tradizionali thailandesi, del buddismo, dell’islam, del
brama-induismo e sikhismo, e delle diverse confessioni cristiane –
con molte allusioni al «Documento sulla Fratellanza»: «Sono finiti i
tempi in cui la logica dell’insularità poteva predominare come con-
cezione del tempo e dello spazio e imporsi come strumento valido
110
per la risoluzione dei conflitti. Oggi è tempo di immaginare, con
coraggio, la logica dell’incontro e del dialogo vicendevole come via,
la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca
come metodo e criterio; e, in questa maniera, offrire un nuovo pa-
radigma per la risoluzione dei conflitti, contribuire all’intesa tra le
persone e alla salvaguardia del creato. Credo che in questo campo
le religioni, così come le università, senza bisogno di rinunciare alle
proprie caratteristiche peculiari e ai propri doni particolari, hanno
molto da apportare e da offrire; tutto ciò che facciamo in questo
senso è un passo significativo per garantire alle generazioni più gio-
vani il loro diritto al futuro, e sarà anche un servizio alla giustizia e
alla pace».
Lo stesso è accaduto pochi giorni dopo, il 25 novembre, in
Giappone, durante l’incontro con le autorità e il Corpo diplomatico
a Tokyo. Lì il Papa ha ribadito che «la nostra comune preoccupazio-
ne per il futuro della famiglia umana ci spinge ad assumere la cultu-
ra del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta;
la conoscenza reciproca come metodo e criterio», citando di nuovo
e direttamente il Documento di Abu Dhabi.

Ripensare fondamentalmente l’educazione

Se esiste un campo in cui è possibile agire concretamente per


cambiare le mentalità, immaginare insieme un nuovo futuro e la-
LA RICEZIONE DEL DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA

vorare per costruire un mondo vivibile per tutti in pace e nel ri-
spetto delle differenze culturali, questo è l’educazione. Perché, se
la fratellanza nella diversità è il cuore del messaggio portato dal
Documento, la formazione e l’educazione delle giovani generazioni
sono il respiro e i polmoni che infine consentiranno di vivere insie-
me e di respirare pienamente sulla Terra.
Il Re del Marocco ne è convinto: «Poiché Dio è amore», le reli-
gioni e le culture sono chiamate a interagire e ad aprirsi l’una all’al-
tra. Ed è estremamente significativo che la Zayed International Fund
for Co-existence degli Emirati Arabi Uniti sia stata creata proprio
per finanziare programmi di formazione che promuovano il plu-
ralismo e la fratellanza; che il Comitato Superiore della Fraternità
umana, istituito ad agosto, comprenda esperti di istruzione, pro-
111
fessori e diplomatici preoccupati per la pace, le culture e la colla-
borazione tra i popoli; e che papa Francesco sottolinei a Bangkok
il ruolo primordiale delle università, che possono offrire al mondo
«un nuovo paradigma per la risoluzione dei conflitti».
In questo sforzo «di immaginare con coraggio la logica dell’in-
contro e del dialogo vicendevole» a livello universitario, si può anche
citare la creazione, a Roma, poche settimane dopo la pubblicazione
del Documento, il 27 marzo, di un Gruppo di ricerca congiunto
tra il Centro studi interreligiosi della Pontificia Università Grego-
riana e il Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica sul tema: «Il
Documento sulla Fratellanza umana: riflessioni e sviluppi teologici,
filosofici e sociali».
Si può dire che la riforma dei sistemi educativi a livello mondiale
è e sarà il principale frutto del «Documento sulla Fratellanza» nei
prossimi anni. Il legame tra fraternità ed educazione è stato stabilito
dallo stesso Pontefice in occasione del suo discorso a Napoli, già
menzionato, il 21 giugno: «Come custodirci a vicenda nell’unica
famiglia umana? Come alimentare una convivenza tollerante e pa-
cifica che si traduca in fraternità autentica? Come far prevalere nelle
nostre comunità l’accoglienza dell’altro e di chi è diverso da noi
perché appartiene a una tradizione religiosa e culturale diversa dalla
nostra? Come le religioni possono essere vie di fratellanza anziché
muri di separazione?[...] Sogno Facoltà teologiche dove si viva la
convivialità delle differenze, dove si pratichi una teologia del dialo-
SULLA FRATELLANZA UMANA

go e dell’accoglienza; dove si sperimenti il modello del poliedro del


sapere teologico in luogo di una sfera statica e disincarnata. Dove
la ricerca teologica sia in grado di promuovere un impegnativo ma
avvincente processo di inculturazione».
In un certo senso, una formazione rinnovata, integrale e inclu-
siva sarà la risposta che la Chiesa cattolica darà per attuare il Docu-
mento: un sistema educativo che dialoghi con tutti, per la costru-
zione della pace mondiale e per il bene di società auspicate sempre
più giuste e fraterne, «e anche per la custodia del creato». Molto di
più: una formazione in cui il dialogo – una volta aggiornato – sarà
d’ora in poi assunto come metodo e criterio inevitabile di apprendi-
mento, in cui il cristianesimo, l’ebraismo, l’islam e le altre religioni
cercheranno la conoscenza reciproca e la coesistenza pacifica, in un
112
mondo che sarà domani ancora più multiculturale e multireligioso.
Innanzitutto, è necessaria una prima tappa per raggiungere
questo obiettivo ambizioso: passare da una mentalità aggressiva, di-
fensiva, identitaria e di conquista a uno spirito benevolo, propositi-
vo, aperto e coraggioso. L’apologetica dei manuali e il proselitismo
come unico metodo per andare incontro all’«altro» non hanno più
senso in un mondo che è cambiato considerevolmente ed è diven-
tato simile a un piccolo villaggio interconnesso e in perpetua effer-
vescenza.
Per quanto riguarda il cristianesimo e l’insegnamento come vie-
ne praticato nelle scuole e nelle Università occidentali, resta ancora
molto da fare per mettere in rete le conoscenze e lavorare insieme
in modo interdisciplinare, lontano dalle logiche autoreferenziali e
competitive. Affinché la teologia e il pensiero non sprofondino nel-
la decadenza, rifugiarsi nel passato e nel suo mondo non è certo la
giusta direzione: questo atteggiamento porterà a evitare il presente
e a non vivere le sfide di oggi e di domani.
Per quanto riguarda la riforma dei programmi di studio nell’i-
slam, il problema dei libri di testo è stato reso pubblico molto prima
dell’emergere dell’Isis e rimane cruciale. Alcuni testi, in particolare
quelli riguardanti la giurisprudenza, contengono sempre caricature
delle altre religioni e istigazioni alla violenza o persino all’odio verso
l’altro «diverso». Invitano gli adolescenti alla jihad e gli forniscono,
LA RICEZIONE DEL DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA

anch’essi, una visione unidimensionale della realtà, una distorsione


della storia, ma anche stereotipi sulle donne.
Vari Paesi a maggioranza musulmana hanno cercato, in questi
ultimi anni, di modificare seriamente i loro programmi scolastici
introducendo il pensiero critico e lo spirito di ricerca, il pluralismo
e la tolleranza. Ma molti di questi cambiamenti hanno provocato
una forte opposizione da parte dei conservatori e dei partiti islamici,
molti dei quali percepiscono questi cambiamenti come una forma
di sottomissione alle esigenze dell’Occidente e una violazione dell’i-
dentità musulmana.
Di conseguenza, ad eccezione del Marocco e della Giordania, i
tentativi di riforma scolastica nei Paesi a maggioranza musulmana
sono stati titubanti e superficiali. Finora le scuole non sono riu-
113
scite a formare le giovani generazioni al riparo dall’estremismo e
dall’ostracismo. Il card. Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia
dei Caldei, ha riconosciuto che il «Documento sulla Fratellanza»
è «un punto di riferimento essenziale», e ha ribadito recentemen-
te l’importanza di riformare l’istruzione scolastica in Iraq, e più in
generale in Medio Oriente, affinché i libri scolastici siano privi di
«ogni forma di odio», insieme all’invito a «sensibilizzare l’opinione
pubblica sui diritti umani e sui princìpi di cittadinanza e di ugua-
glianza».
La risposta della Chiesa al Documento di Abu Dhabi sarà es-
senzialmente pedagogica e interdisciplinare: costruire una nuova
alleanza tra scuola, famiglia e le migliori energie delle società, sia
religiose sia civili, per mettere al centro lo sviluppo integrale della
persona e la custodia del creato. Questo è infatti l’obiettivo del gran-
de evento mondiale che si terrà in Vaticano il 14 maggio 2020 e che
avrà per tema «Ricostruire il Patto Educativo Globale». L’iniziativa è
stata promossa da papa Francesco e lanciata in un Messaggio, pub-
blicato il 12 settembre 2019, che a sua volta richiama il «Documento
sulla Fratellanza». Essa vuole affermare pure che l’educazione non è
limitata alle aule scolastiche e universitarie. L’educazione, o meglio
la formazione, è una dimensione trasversale che tocca tutti gli am-
biti della vita e tutte le dimensioni: l’arte, lo sport, la letteratura, l’e-
conomia, la politica. Durante questa Giornata, che sarà soprattutto
l’inizio di un processo, i rappresentanti delle principali religioni, gli
SULLA FRATELLANZA UMANA

esponenti degli organismi internazionali, del mondo accademico,


economico, politico e culturale sottoscriveranno un’alleanza per un
«Patto Educativo Globale» rinnovato, per consegnare alle giovani
generazioni una Casa comune fraterna.

Una riflessione necessaria sulla diversità in un mondo plurale

Se le religioni possono contribuire a un Patto educativo globale


e alla formazione di una generazione che sia veramente aperta, ma-
tura e dialogante, la questione ben messa a fuoco nel «Documento
sulla fratellanza umana» è in effetti più ampia di una semplice rifor-
ma dei programmi scolastici: è culturale e interculturale.
Il rifiuto della fraternità, l’incitamento all’odio e alla violenza
114
proliferano non solo nelle scuole e nei corsi di religione, ma anche
in famiglia, nei raduni politici o al cinema, al lavoro, al mercato o
in strada. E questo dal Medio Oriente a Roma e dall’Asia a New
York. Da qui la necessità di ripensare l’alterità, «il diverso da sé», e di
riapprendere o d’inventare come vivere insieme, in modo diverso.
Per passare dall’odio alla semplice tolleranza e giungere a un
sincero vivere-insieme, le semplici leggi, le riforme unilaterali e
le misure coercitive sono insufficienti. È necessario accompagna-
re questi cambiamenti creando un clima, una cultura dell’incontro
che favorisce l’accettazione reciproca e promuove società pacifiche
e inclusive.
LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO

Damian Howard S.I.

Introduzione

Il 4 febbraio 2019, durante la visita apostolica di papa France-


sco negli Emirati Arabi Uniti, il Pontefice e il Grande imam di al-
Azhar hanno firmato insieme un documento dal titolo Fratellanza 115
umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Salutato come
un importante passo avanti nei rapporti tra la Chiesa cattolica e il
mondo musulmano, il documento propone «la riconciliazione e la
fratellanza tra tutti i credenti, anzi tra i credenti e i non credenti, e
tra tutte le persone di buona volontà» e delinea i princìpi che con-
tribuiranno a ottenere questa riconciliazione.
Dalla promozione del dialogo interreligioso dovrebbe giungere
un importante contributo a tale processo. Afferma il documento: «Il
dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleran-
za, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esseri umani
contribuirebbero notevolmente a ridurre molti problemi economi-
ci, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte del ge-
nere umano. Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’ampio
spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò
nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni;
significa anche evitare le inutili discussioni»1.
Un simile appello alle potenzialità del dialogo è soltanto una
pia aspirazione, o questa via potrebbe davvero essere trasformante?
Le riflessioni che seguono scaturiscono dall’esperienza «sul campo»
riguardo a quello che, nella pratica, potrebbe costituire un aiuto

1. Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza co-


mune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019.
SULLA FRATELLANZA UMANA

efficace per migliorare il dialogo in corso, per le sfide che affronta e


per superare gli ostacoli che si frappongono. Infatti, anche se sareb-
be sbagliato affermare che nel mondo moderno il rapporto normale
tra musulmani e cristiani è il conflitto, di certo non possiamo in
alcun modo essere soddisfatti di come attualmente si svolgono le
reciproche relazioni. Anche se saremmo in grado di fare fronte co-
mune in ogni parte del mondo per promuovere la pace e la giustizia
e per dare testimonianza della nostra fede in Dio, spesso invece ci
ignoriamo l’un l’altro, perpetuiamo gli stereotipi negativi, e in alcu-
ni casi adottiamo a vicenda un trattamento ingiusto.

La sfida del dialogo


116
Non tutto ciò che viene presentato come dialogo lo è davvero.
Per «dialogo» non si possono intendere due monologhi che casual-
mente si svolgono nella stessa stanza. Il dialogo non è dawa, non è
proselitismo. Ovviamente sia i cristiani sia i musulmani avvertono
un impulso missionario e desiderano trasformare il mondo in un
luogo dove tutti condividano la stessa fede nell’unico vero Dio. Ma
l’obiettivo del dialogo non è la conversione dell’altro. Nella cornice
dialogica io devo ascoltare le credenze altrui. So che la mia religio-
ne mi dà modo non soltanto di parlare con coloro che hanno deciso
di non condividerla, ma anche di ascoltare con attenzione ciò che a
loro volta essi hanno da dire.
Il dialogo non segue il percorso apologetico di chi cerca co-
stantemente di dimostrare che la sua posizione è quella giusta o
di salvare comunque la faccia. Per quanto sia naturale che tutti
cerchiamo di presentare le nostre credenze come razionalmente
giustificabili, d’altra parte in un mondo così complesso come il
nostro ci sono molti modi di essere razionali. Le nostre tradizio-
ni sono vive e dinamiche, non fossilizzate e statiche; dobbiamo
dedicare uno sforzo costante a rinnovarle e a ravvivarle. Anche il
dialogo, nella sua espressione più alta, può contribuire a tale pro-
cesso, ampliando l’orizzonte delle esperienze e delle prospettive e
consentendoci quindi di fare tesoro di quanto apprendiamo dagli
altri per essere creativamente fedeli alla rivelazione che abbiamo
ricevuto.
LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO

Il dialogo è un atto di comunicazione. In quanto tale, ciò che


dice una parte va recepito dall’altra, altrimenti entrambe hanno
fallito. Ciò significa che il dialogo richiede abilità e attenzione sia
nella fase di ascolto sia in quella di esposizione. Un atteggiamen-
to di ascolto attivo non ci è naturale: richiede un apprendimento
paziente. Il vero ascolto è un impegno faticoso. Significa prestare
piena attenzione a ciò che l’altro sta cercando di comunicare e, nel
frattempo, sospendere ogni tentativo di replica. Significa conce-
dere il beneficio del dubbio a chi stiamo ascoltando, presumerne
la sincerità e la coerenza, anche nel caso in cui, con rammarico,
dovessimo poi concludere che tali qualità erano assenti. Significa
stare ad ascoltare l’interlocutore mentre espone punti di vista – sulla
religione e su altre materie – riguardo ai quali siamo in disaccordo;
117
e tuttavia lo facciamo con pazienza e con serenità, fiduciosi che alla
fine vincerà la verità, perché essa è forte e potente di per sé, dato
che Dio è verità.
Un ascolto di questo genere richiede che sappiamo mantenere
un delicato equilibrio. Significa, da un lato, che io devo essere ab-
bastanza aperto agli altri da ascoltare senza cercare continuamente
di correggerli (o quantomeno di opporre le mie opinioni alle loro),
e, dall’altro lato, che devo assicurarmi che quanto l’interlocutore sta
dicendo mi giunga con un significato comprensibile. Se a un certo
punto mi mettessi in una posizione relativistica («ciò che dicono ha
un significato per loro, ma non per me»), avrei rinunciato al vero
ascolto e avrei consegnato l’altrui alterità all’insignificanza. Devo
farmi carico della verità che gli altri percepiscono.
Pensiamo di poter affermare che una persona di preghiera do-
vrebbe avere ben sviluppato in sé un ascolto di questo tipo. Se io
sono una persona di preghiera, ascolto Dio con pazienza (sebbene
non con una pazienza così grande come quella che Dio ha con me),
anche se la sua parola non mi è sempre immediatamente compren-
sibile. Ho fiducia nel fatto che quanto oggi mi lascia confuso, un
giorno schiuderà un’epifania di limpida verità.
Nel nostro ascoltare dobbiamo raggiungere un ulteriore equili-
brio, relativo a quella certa libertà interiore di cui tutti abbiamo bi-
sogno riguardo alla nostra identità. È difficile lasciare che l’altro sia
quello che è piuttosto che quello che vorremmo che fosse. Quando
SULLA FRATELLANZA UMANA

ascoltiamo, possiamo distinguere in noi l’azione di due desideri di-


sordinati. Da una parte, potremmo voler stabilire opposizioni polari
tra noi e l’altro, facendo apparente chiarezza su ciò che ci rende
diversi da lui; in questo caso ci mettiamo alla ricerca costante di
ciò che, essenziale per noi, a lui manca. Così si finisce per fare af-
fermazioni riduzionistiche, semplificazioni generiche: «Il problema
con l’islam/cristianesimo è...». Dall’altra parte, potremmo cercare
di ridurre l’altro alla nostra posizione, negandogli la possibilità di
affermare qualcosa di peculiare. A rischio di cadere a nostra volta
in una semplificazione eccessiva, vorremmo associare la prima ten-
denza ai cristiani e la seconda ai musulmani.
Se non ho ancora capito a quale paradigma si sta riferendo il mio
interlocutore, lo fraintenderò, forse ricorrendo anche all’accusa di
118
irrazionalità. Un esempio grossolano è il supporre, come facevano
alcuni cristiani in passato, che nell’islam Maometto debba svolgere
una funzione simile a quella che svolge Gesù Cristo nel cristia-
nesimo. L’epiteto «maomettano» attesta l’assurdità di questo tipo di
errore. Un esempio nella direzione opposta, che si pone a un livel-
lo concettuale leggermente superiore, è la critica che i musulmani
hanno riservato alla dottrina cristiana sulla Trinità. Intendiamoci:
non stiamo suggerendo che il dialogo ci imponga di assentire alle
dottrine di un’altra religione; affermiamo piuttosto che l’ascolto se-
rio ci obbliga ad approfondire in che modo esse riescano a convin-
cere persone sagge e intelligenti. A tal fine è necessario sondare in
profondità la logica che sta dietro a un paradigma diverso dal no-
stro. Non dobbiamo trarre la conclusione che l’altro è irrazionale. Se
proprio non possiamo farne a meno, dovremmo farlo a malincuore,
e soltanto al termine del confronto.
Il punto di svolta avviene quando qualcosa che l’altro dice mi
fa capire improvvisamente che dietro il suo modo di pensare sta
operando un altro paradigma, del tutto diverso dal mio, ma che
in realtà rivela profondi elementi in comune con il mio. Fin quan-
do ciò non accade, restiamo imprigionati nel nostro paradigma; il
meglio che sappiamo fare è cercare di adattare quello che sentiamo
alle nostre strutture di pensiero. Quando invece avviene la svolta,
improvvisamente ci investe un’ondata di significato che dà senso a
tutto ciò che gli altri hanno cercato di comunicare.
LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO

Facciamo un esempio concreto di questi diversi paradigmi in


azione. Molti cristiani moderni trovano quasi impossibile capire
perché i musulmani insistano tanto nell’affermare che il Corano è
di pura origine divina e che l’iniziativa o la paternità che lo hanno
generato non sono affatto umane. Essi dicono: «Questo è fonda-
mentalismo!». Eppure la teologia cristiana si è impegnata a fondo su
una linea non dissimile riguardo alla grazia che apporta la salvezza.
In effetti, è eretico affermare che gli esseri umani possano prendere
l’iniziativa riguardo alla loro giustificazione agli occhi di Dio: anche
il desiderio stesso della salvezza, infatti, è già un effetto della grazia.
Musulmani e cristiani possono avere un punto di vista diverso
sulla fonte dei loro libri sacri e sul concetto dell’integrità della natu-
ra umana, ma sia gli uni sia gli altri tendono un «cordone sanitario»
119
attorno al posto che l’azione di Dio occupa nel porre rimedio alle
carenze della condizione umana. Una volta che si coglie la differen-
za di paradigma, emerge una sorprendente comunanza, indubbia-
mente benefica per comprendersi a fondo.
In questo spirito, può essere interessante conoscere come il
«dialogo» si inserisca nel più ampio contesto di ogni religione. Se
indaghiamo la questione nel cattolicesimo contemporaneo, ci ren-
deremo conto di entrare nel regno di un dibattito particolarmente
vivace. Scopriamo con una certa sorpresa che per i cattolici il dialo-
go non è un fatto meramente strumentale, un mezzo per raggiun-
gere un fine (anche se esso ha i suoi fini), ma piuttosto manifesta
qualcosa di essenziale del rapporto degli esseri umani con Dio, e
anche con la stessa vita trinitaria di Dio. Il dialogo è un evento reli-
gioso e spirituale, un accesso alla forza della Parola creativa di Dio,
sempre presente attraverso lo Spirito Santo nella vita della Chiesa
e anche oltre. Il dialogo può aver luogo quando questo Spirito che
dà la vita è presente e attivo in entrambi gli interlocutori. Questo
è il vero motivo per cui ognuno può imparare dall’altro. E spiega
perché per i cattolici il «dialogo» non sia e non possa essere un atto
di proselitismo sotto altra forma.
Un’ulteriore complessità deriva dal fatto che se devo essere ef-
ficace nel dialogo, non mi basta padroneggiare l’arte dell’ascolto:
devo impegnarmi anche nel mio modo di comunicare, inquadran-
do ciò che dico in maniera tale da renderlo accessibile all’altro, che
SULLA FRATELLANZA UMANA

non ha ancora capito come, in quanto sto dicendo, sia attivo un


paradigma diverso dal suo.

Comunicazioni moderne

I buoni rapporti tra musulmani e cristiani oggi vengono mes-


si a repentaglio dall’evoluzione dei social media. È particolarmente
dannoso il modo in cui i personaggi deliberatamente distruttivi ri-
escono a sfruttare il potere dei media per incitare all’odio. Un pa-
store sconosciuto brucia, da qualche parte, un testo sacro e posta
un video di quel suo atto criminoso su un sito web. Per chi non sa
nulla del contesto politico o religioso in cui è avvenuto quel delitto,
è facile desumere, senza mezzi termini, che i cristiani in generale
120
hanno compiuto un chiaro atto di blasfemia.
Un altro esempio: non molto tempo fa, nell’East End di Londra
abbiamo assistito all’operato di estremisti di destra che insultavano i
fedeli musulmani fuori dalle loro moschee e che si autodefinivano
«vigilanti cristiani». Si tratta di terribili distorsioni della realtà, che
trovano diffusione e provocano danni in tutto il mondo. La promo-
zione del dialogo implica che tutti noi affrontiamo strategie delibe-
rate di travisamento e correggiamo coloro che si trovano coinvolti,
anche inconsapevolmente, in questa isteria artefatta.
Un altro problema riguarda la condizione attuale dell’autorità
religiosa. Le dinamiche della modernità hanno inferto un duro
colpo alla credibilità delle sue strutture tradizionali. Oggi il primo
porto a cui approdano le tante persone che vogliono approfondire
la conoscenza della loro fede è internet. Essa abbonda di sedicenti
«esperti» capaci di convincere i giovani che soltanto loro posseggo-
no l’interpretazione autentica della religione, anche quando, nella
migliore delle ipotesi, ne offrono un quadro parziale e in alcuni casi
profondamente distorto dalle invettive e dalle falsità che vi sono
mescolate.
Se ciò avviene per il cristianesimo e anche per l’islam, è ancora
più vero per quanto concerne la rappresentazione che viene data
delle loro reciproche relazioni. Forse a causa del loro apparente ano-
nimato le piattaforme dei social media sono particolarmente inclini
a coltivare il disprezzo, il risentimento e la denigrazione. Questo si
LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO

riscontra facilmente nel campo delle relazioni tra cristiani e musul-


mani. Oltre a diffondere bugie e stereotipi, i contenuti polemici e
animati dall’odio hanno l’effetto di banalizzare e di svilire il dialogo
per tutti. Ci è capitato di vederci proporre, da parte di studenti, le
loro dissertazioni accademiche per replicare a discorsi polemici di
nessun valore. I loro orizzonti intellettuali si erano così ristretti da
considerare del tutto normali le teorie cospirative, i pensieri distorti
e le letture forzate della storia e dei testi.
Riguardo ai mezzi di comunicazione, si pone un’ulteriore que-
stione, molto seria: quale credito dare alle fonti. Chi è in grado di
fornire informazioni autorevoli e di buona qualità a quanti ne sono
in cerca? Dov’è, per esempio, che un laico benintenzionato può
rintracciare la verità sul cattolicesimo, sull’islam, sull’insegnamen-
121
to della Chiesa riguardo all’islam e via dicendo? Ai cattolici non
mancano i documenti ufficiali: le encicliche papali, il catechismo, i
documenti del Concilio Vaticano II e delle Conferenze episcopali
ecc. Sono tutti strumenti preziosi, certo, ma non l’ideale sotto il
profilo dell’apprendimento della religione. I musulmani si trovano
di fronte allo stesso problema, con l’ulteriore difficoltà che per loro
non c’è un’autorità universale che possa farsi portavoce di tutti i
seguaci dell’islamismo.

Settarismo e diversità

Il dialogo, se vuole essere veramente utile a tutti, ci impone di


essere sinceri su quanto le nostre comunità religiose siano lacerate e
divise. Dobbiamo compiere almeno un passo in direzione dell’ecu-
menismo. Per molti di noi questo non avviene spontaneamente. Le
divergenze settarie possono indurre a prese di posizione aspre e ri-
sentite, che invece per lo più sono assenti nei rapporti interreligiosi;
pertanto, questa difficoltà non va sottovalutata. A nessuno piace at-
tirare l’attenzione sulle divisioni, siano esse tra cattolici e protestanti
o tra sunniti e sciiti. Tendiamo a guardarle con preoccupazione,
scorgendovi il sintomo di un fallimento.
Potremmo essere tentati di considerare la posizione teologica a
cui sinceramente aderiamo come l’unica fondamentale e autentica,
e in effetti non di rado chi s’impegna nel dialogo fa proprio così. Ma
SULLA FRATELLANZA UMANA

non possiamo permetterci di parlare come se rappresentassimo la


totalità della nostra comunità religiosa. Questo non soltanto è fuor-
viante, ma mette anche a rischio la nostra credibilità. Chi si trova
al di fuori ha il diritto di sapere che ci sono diversi punti di vista e
differenti tradizioni interpretative.
Anche all’interno delle nostre tradizioni, questo non è sempre
facile. Ovviamente c’è una grande diversità all’interno dell’islam
sunnita, come pure all’interno della Chiesa cattolica. Tale diver-
sità emerge anche nella varietà dei modi in cui valutiamo le altre
religioni: alcuni cattolici le vedono come strumenti con cui Dio si
rivolge ai non cristiani, mentre altri le considerano, nella miglio-
re delle ipotesi, tradizioni irrilevanti rispetto al piano di salvezza
di Dio. La Santa Sede fa da garante della legittima diversità nella
122
Chiesa, preoccupandosi di chiarire esplicitamente quando una de-
terminata posizione in materia dottrinale o morale abbia trasceso i
confini di ciò che è accettabile. Anche in questo caso, la distinzione
teologica può risultare molto sottile.
Abbiamo un altro motivo importante per essere onesti sulle no-
stre divisioni: esso ci aiuta a evitare quelle generalizzazioni inap-
propriate che danneggiano il nostro dialogo, addossando all’inte-
ra comunità colpe che in realtà andrebbero attribuite a un piccolo
gruppo o addirittura a un singolo individuo. Non sottolineeremo
mai abbastanza quanto sia importante far vedere ai cristiani il mon-
do musulmano in tutta la sua diversità, sia quella legittima sia quella
illegittima. È un elemento fondamentale della lotta contro la visio-
ne dell’islam come sinonimo di violenza, divulgata maliziosamente
a un pubblico ignorante. Quando i cristiani vengono perseguitati
in alcuni Paesi – di solito accade altrettanto ad alcune categorie di
musulmani – è facile interpretare tale vessazione come «i musul-
mani attaccano i cristiani» e generalizzare l’accaduto, come se rap-
presentasse in generale l’ostilità musulmana verso i cristiani. In quei
casi, le fotografie e le notizie che presentano musulmani intenti a
solidarizzare con i loro vicini cristiani fanno un bene straordinario,
smentendo le false generalizzazioni.
La comprensibile preoccupazione, da parte dei musulmani, di
presentare il loro mondo come un tutt’uno ha lasciato uno spazio
sempre più ampio alla necessità di superare le generalizzazioni sem-
LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO

plicistiche, e spesso errate, divulgate dai media e dalle lobby politi-


che faziose. Crediamo che uno dei concreti progressi compiuti dal
dialogo degli ultimi 20 anni in un Paese come il Regno Unito sia
stato il fatto che i musulmani oggi si sentono molto più a loro agio
nel discutere le proprie differenze interne di quanto non lo fossero
un tempo. Ciò si deve, in parte, a una maggiore attenzione dell’o-
pinione pubblica, e di conseguenza a una maggiore consapevolezza
e a una conoscenza più approfondita dell’islam.

Le esigenze del contesto

Ogni incontro tra uomini possiede una dignità. Tra i suoi


connotati c’è l’esigenza che non resti indebitamente condizionato
123
dall’intrusione di fattori contestuali provenienti da altre situazioni.
Si tratta, ancora una volta, di una sfida nell’era dei social media, in
cui le peculiarità di un contesto molto lontano possono essere fatte
rimbalzare su un altro in maniera dirompente. È difficile resistere a
questa tentazione nei casi in cui vengono compiute ingiustizie, op-
pressioni e persecuzioni. Possono levarsi voci insistenti sul fatto che
«noi» non possiamo trattare «loro» con equità nel nostro contesto,
se «loro» non trattano giustamente «noi» nel loro contesto. Portare
questo principio alle sue logiche conclusioni avrebbe conseguenze
perverse: verrebbero adottate universalmente le peggiori pratiche
del mondo. Il dialogo ci richiede di vigilare sul rispetto della digni-
tà in ogni contesto.
Ne consegue che il dialogo islamo-cristiano nel Regno Unito
sarà diverso da quello che deve avvenire in Giordania, in Pakistan,
in Nigeria, o anche in altri contesti che potrebbero apparire piutto-
sto simili, come per esempio quello degli Stati Uniti. E ciò implica
che chi deve praticare tale dialogo deve avere familiarità con le ca-
ratteristiche e le esigenze del contesto locale.
Questa attenzione al contesto deve portare anche ad apprezzare
l’opera che Dio ha svolto in un determinato luogo. Dio è sempre
attivo all’interno delle culture e delle società. La sua Parola pone
interrogativi e dà risposte, sfida e afferma, ammonisce e perdona.
La teologia cattolica parla di «inculturazione», sottolineando come
il Vangelo sia una realtà viva, che entra e trasforma la cultura uma-
SULLA FRATELLANZA UMANA

na dal di dentro, assumendo il frutto dell’opera di Dio già esistente


e risanando quanto è stato danneggiato dal peccato. Anche i mu-
sulmani possono pensare al modo in cui la parola di Dio, espressa
pure in quelle che per loro sono rivelazioni abrogate, ha plasmato
culture in tutto il mondo, con il risultato che esse oggi riescono a
offrire uno spazio di ospitalità spirituale alla fede musulmana anche
in Paesi dove la sua presenza è storicamente marginale2.
La giusta attenzione a un contesto specifico ci impone di chie-
derci non soltanto che cosa stia operando lo Spirito di Dio, ma an-
che quali siano gli scopi perseguiti dallo spirito maligno. Per questo
sono necessari saggezza e discernimento: la prima impressione può
essere fuorviante. Per esempio, a uno straniero – e anche a noi, che
nei nostri Paesi ci viviamo – la cultura occidentale contempora-
124
nea può sembrare anarchica, sprezzante di ogni legge. È così per-
ché le trasgressioni morali clamorose esercitano un enorme potere
sull’immaginazione. Di conseguenza, la nostra predicazione si tra-
duce in un attacco a tutto campo contro i mali della depravazione e
del libertinaggio. Tuttavia una conoscenza più profonda e più accu-
rata della cultura occidentale rivela che essa, lungi dall’essere senza
legge, è vincolata in modo disordinato a una certa concezione della
«legge-come-regola»3.
Gli occidentali moderni hanno una fiducia quasi messianica
nell’idea che un corpo normativo messo a punto correttamente li
proteggerà da ogni catastrofe, sia essa di natura medica, finanziaria
o agricola. Lo dimostra la cultura delle «caselle da spuntare» e della
costante riforma burocratica. A questo proposito, una predicazione
efficace non dovrebbe indugiare sulla presunta necessità di un le-
galismo ancor più accentuato, ma piuttosto suscitare nelle persone
una fame di verità e di bontà, di sincerità e di autenticità, ossia di
realtà che non si possono regolare o valutare quantitativamente. Il
dialogo si adegua.
Andando oltre, il nostro dialogo dovrebbe essere improntato
alla seguente domanda: «Che cosa stiamo cercando di realizzare

2. Cfr T. J. Winter, British Muslim Identity. Past, problems, prospects, Lon-


don, The Muslim Academic Trust, 2003.
3. Cfr Ch. Taylor, A Secular Age, London, Belknap, 2007, 738 (in it. L’età
secolare, Milano, Feltrinelli, 2009).
LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO

nel nostro dialogo in questo caso particolare?». Il dialogo non può


essere fluttuante, serve un ordine del giorno. Se la pensiamo diver-
samente, stiamo rifiutando di riconoscere che cosa sia un’agenda.
Alcuni cristiani possono cadere nel trabocchetto di ritenere che il
dialogo vada accettato quasi come un obiettivo in sé. Essi dovreb-
bero ricordare che un dialogo si dà sempre in quanto è legato alla
missione più ampia della Chiesa, messa al servizio del disegno di
Dio riguardo al mondo. Solo quando riflettiamo con onestà e chia-
rezza su ciò, potremo rispondere alle domande sul metodo da adot-
tare, sui quesiti da affrontare e sulle parti da coinvolgere, ovvero su
questioni che a volte nemmeno vengono poste.
Gli accademici impegnati nel dialogo devono affrontare una
sfida specifica riguardo alla loro motivazione. Loro malgrado, spes-
125
so si trovano impegnati in un dialogo per quelle che dovrebbero
essere ragioni secondarie e che invece, se viene loro attribuito un
ruolo predominante, possono portare ad ambiguità. Essi devono
fare un esame di coscienza: hanno avviato il dialogo per accrescere
il prestigio, a livello personale o per l’istituzione che rappresentano?
Per attirare finanziamenti? O per servire il bene comune? Gli ac-
cademici non possono sottrarsi totalmente a tali considerazioni più
ambigue; devono invece affrontarle onestamente, affinché esse non
rovinino i loro sforzi. Altre «agende nascoste» possono contenere
il sostegno di interessi di potere – religiosi o di altro tipo –, oppu-
re perseguire obiettivi onesti e lodevoli, come la promozione della
coe­sione sociale.
Insomma, è necessario che purifichiamo le nostre intenzioni.
Cristiani e musulmani si sono da tempo impegnati nell’analisi ap-
profondita dell’intenzione di chi crede, e devono farne una pratica
particolarmente intensa nelle reciproche relazioni. I nostri maestri
spirituali ci ricordano che nel cuore umano, sotto una nobile appa-
renza, si nasconde molta finzione. Se lo chiedano il missionario o
il da’i, che si adoperano instancabilmente per portare la gente alla
loro fede: a spingerli è davvero un amore sincero degli altri e della
loro salvezza? O di fatto a motivarli è la paura, oppure il desiderio di
cancellare l’alterità e di rendere l’altro uguale a sé? Anche in questo
campo è necessaria una rigorosa disciplina spirituale.
SULLA FRATELLANZA UMANA

Estendere il dialogo a livello popolare

A causa del nostro lavoro, ci siamo trovati a insegnare, in un


ambiente universitario, a cristiani e musulmani le caratteristiche
degli uni e degli altri e a riflettere sulle relazioni tra loro nel con-
testo europeo. È sempre sorprendente che questo tipo di istruzione
dia la maggior parte dei suoi frutti – anche nel settore terziario – nel
primo incontro tra i due gruppi. I cristiani, nutriti con una dieta di
disinformazione allarmistica sull’islam, si stupiscono nello scopri-
re che la stragrande maggioranza dei musulmani ha una radicata
avversione nei confronti del terrorismo. I musulmani, che spesso
hanno sentito commenti denigratori circa la decadenza in cui il
cristianesimo sarebbe in apparenza caduto, restano sorpresi di tro-
126 vare la Chiesa molto viva e tuttora capace di offrire una importante
riflessione sulle questioni sociali e politiche4.
Una delle nostre sfide di oggi, dunque, è come diffondere il
dialogo responsabilizzando le persone affinché apprendano e cam-
bino il loro atteggiamento. Infatti, il dialogo non deve essere una
questione elitaria, tra persone di ceto medio e istruite, ma dovreb-
be raggiungere anche la base. Una via relativamente semplice per
riuscirci è una solida istruzione degli adulti. Ci sono alcune perso-
ne che operano a questo livello, con sforzi che si possono definire
«eroici», dando corsi sull’islam nelle parrocchie e nelle sinagoghe,
e in questo modo influiscono sul processo di un concreto cambia-
mento culturale. La loro esperienza suggerisce che quello dei cri-
stiani che insegnano ad altri cristiani riguardo all’islam è un modo
efficace per fornire tale istruzione, a patto che il docente cristiano in
questione abbia una conoscenza sufficiente, sia corretto e conduca il
gruppo a un vero incontro con i musulmani.
Si tratta comunque di un incontro parziale, perché un musulma-
no, nel presentare la propria religione, avrebbe sempre il problema di
dover negoziare la differenza tra esposizione e dawa. Ma lo è anche
perché un cristiano competente spesso gestisce meglio il complesso

4. Ciò non vuol dire che le due religioni abbiano davanti sfide simmetriche:
per quanto la sofisticata Europa moderna abbia coltivato a lungo una repulsione per
il cristianesimo, questa non può uguagliare l’estensione dell’islamofobia che com-
promette la comprensione dell’islam.
LEZIONI DI DIALOGO ISLAMO-CRISTIANO

problema ermeneutico dei paradigmi contrastanti, di cui qui abbia-


mo parlato in precedenza. Questa istruzione degli adulti non solo è
molto richiesta, ma quasi subito fruttuosa nel promuovere una mi-
gliore comprensione, e persino empatia. Per esempio, si è riscontrato
parecchie volte che l’istruzione fondamentale sulla diversità islamica,
concentrandosi sulle origini storiche delle comunità musulmane nel
Regno Unito a partire dall’esperienza coloniale nell’Asia meridiona-
le, cambia radicalmente la percezione in positivo.
Il dialogo faccia a faccia è importante. Ma può sembrare artifi-
cioso e anche sterile se si concentra esclusivamente su questioni di
fede e di pratica religiosa. Non è un esercizio naturale e nemmeno
una priorità storicamente abituale nelle nostre religioni. Non sor-
prende, quindi, che sempre più in tutto il mondo esso risulti mi-
127
gliorato dal lavoro svolto fianco a fianco, in particolare in progetti
sociali a livello locale. Questo è strettamente collegato con la natura
stessa del rispetto: non stimo l’altro per le credenze che afferma,
ma per come conduce la sua vita, animata dalla sua fede. Lavorare
accanto a chi è mosso dal suo amore verso Dio suscita ammirazione
e stima. È allora che io posso interessarmi al rapporto tra la sua fede
e la sua vita.
In questa reciproca edificazione, la stima può costruirsi sull’a-
micizia e sulla fiducia. Quindi entriamo nel territorio di qualcosa
di nuovo che Dio stesso sta operando. Il dia del dialogo ci ha fatto
superare le vecchie categorie e ha forgiato un nuovo «noi». Questo,
forse, è il dialogo nella sua forma più alta e più bella. Un dialogo che
si fa veramente dono per coloro ai quali è stato concesso5.

Conclusioni

Siamo consapevoli di aver fatto ricorso, nello scrivere queste


riflessioni, ai termini «equilibrio» e «disciplina». Intendevamo così
ribadire una nostra convinzione profondamente radicata, secondo
la quale il dialogo non dev’essere colonizzato dalle agenzie laiche,
che lo strumentalizzerebbero per i loro motivi specifici, ma dev’es-

5. Cfr lo studio accurato di A. Ilgit, La disabilità come luogo di dialogo isla-


mo-cristiano, Trapani, il Pozzo di Giacobbe, 2018.
SULLA FRATELLANZA UMANA

sere innanzitutto una questione spirituale, religiosa, e in definitiva


un incontro tra esseri umani desiderosi di crescere come ascoltatori
della parola di Dio, cercando di dare un senso a ciò che Dio stesso
chiede loro di fare nel contesto in cui vivono.
Il dialogo proporrà esigenze concrete a tutte le persone coinvol-
te, ma le riporterà al contempo nel cuore stesso del loro percorso re-
ligioso e spirituale. Con la grazia di Dio, esse scopriranno di essere
compagni di cammino e potranno pregare affinché questo spirito
di fratellanza che condividono si riveli contagioso e trasformi il no-
stro mondo in un luogo di solidarietà e di riconciliazione.

128
LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO
DI PAPA FRANCESCO*

Diego Fares S.I.

Nell’itinerario di papa Francesco la fratellanza, l’essere fratelli, è un


valore trascendentale e ha carattere programmatico. Se «si passa oltre»,
dandola per scontata, o se la si utilizza con leggerezza, quasi che dire
«fratelli» bastasse a evitare le tentazioni dell’indifferenza, della buro-
129
crazia e dell’autoritarismo, significa che non se ne sono approfondite
a sufficienza la ricchezza e la capacità di generare dinamiche positive.
Utilizziamo volontariamente l’espressione evangelica della para-
bola del buon samaritano «passare oltre», perché, se la scusa del sacer-
dote e del levita per non accostarsi al ferito era formale – non contami-
narsi –, è bene tuttavia ricordare che la legge, pur proibendo, per
esempio, di «toccare» un cadavere, faceva eccezione per quelli dei fa-
miliari stretti1. Insistere su una fratellanza espressa in gesti concreti e
approfondirla consentono di superare false dicotomie2.
La fratellanza è il primo tema al quale ha fatto riferimento papa
Francesco nel giorno della sua elezione, quando ha chinato la testa
davanti alla gente e, definendo la relazione vescovo-popolo come
«cammino di fratellanza», ha espresso questo desiderio: «Preghiamo
sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, per-
ché ci sia una grande fratellanza»3.
Da lì in avanti questo cammino di fratellanza, da lui risoluta-
mente intrapreso, ha avuto molte tappe significative. La più recente
è il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la con-

* Titolo originale: «La fratellanza umana. Il suo valore trascendentale e


programmatico nell’itinerario di papa Francesco».
1. Cfr J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Brescia, Paideia, 1973, 248.
2. Cfr F. Körner, «Fratellanza umana. Una riflessione sul Documento di
Abu Dhabi», in Civ. Catt. 2019 II 313-327.
3. Francesco, Primo saluto del Santo Padre, 13 marzo 2013, in w2.vatican.va

© La Civiltà Cattolica 2019 III 114-126 | 4058 (20 lug/3 ago 2019)
SULLA FRATELLANZA UMANA

vivenza comune4. In questo documento, firmato ad Abu Dhabi, il


Grande imam e il Papa spiegano come tutto ciò su cui si sono intesi
in più di un anno di lavoro comune sia derivato da questo «valore
trascendentale»: «La fede porta il credente a vedere nell’altro un fra-
tello da sostenere e da amare»5.
La fratellanza è un vero «punto di partenza»: in tutti gli enti reali
c’è qualcosa che permette di pensarli, analogicamente, come «fratel-
li», sia se si guarda al mistero dell’origine comune, sia alla possibilità
di affratellarsi. In quanto punto di partenza, la fratellanza ha valore
programmatico, come afferma Christoph Theobald. Il teologo ge-
suita fa vedere che quando il Papa parla di una «fraternità mistica»
(Evangelii gaudium [EG], n. 92), lo fa «programmaticamente», e che
non si tratta di un dato ovvio, ma di una questione «assolutamente
130
“fondamentale”, una questione di “stile”»6. E sappiamo che «lo stile
cristiano non [è] questione di forma e di gusti, bensì di contenuto e
di annuncio del kerygma, quindi di pastorale e di dottrina»7.
Se consideriamo il «pontificato» di Francesco secondo il significa-
to di questo termine, vale a dire dei «ponti» che ha costruito, possiamo
affermare che quella prima richiesta di preghiere non è stata l’espres-
sione generica di un desiderio, bensì una domanda precisa, un vero e
proprio punto di partenza, del quale il Papa si è fatto carico e che poi
ha trasformato in gesti passo dopo passo. La scelta del nome «France-
sco» e l’incontro con il Grande imam di al-Azhar, nell’ottocentesimo
anniversario di quello di san Francesco con il sultano dell’Egitto, sono
fatti che non richiedono spiegazioni, ma piuttosto invitano a un tem-
po di contemplazione per approfondirne il significato.
Ci addentreremo nel tema della fratellanza attraverso quattro passi:
in primo luogo considereremo l’esperienza familiare; poi discernere-
mo il messaggio evangelico al riguardo; quindi faremo una riflessione
più approfondita da un punto di vista filosofico; e infine mostreremo
come essa aiuti a risolvere dicotomie a livello economico e sociale.

4. Cfr Francesco - Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla fratellanza umana


per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019.
5. Ivi.
6. C. Theobald, Fraternità. Il nuovo stile della Chiesa secondo Papa Francesco,
Magnano (Bi), Qiqajon, 2016, 60.
7. E. Bianchi, «Introduzione» a C. Theobald, Fraternità..., cit., 8.
LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO DI PAPA FRANCESCO

Storie di fratelli

Conversavamo a Roma, nella parrocchia di San Saba – il nu-


cleo romano di accoglienza per uomini rifugiati gestito dal Cen-
tro Astalli8 –, con due fratelli, non di sangue, ma amici: Morro,
gambiano, e Sheer, pakistano. Parlavamo un po’ di tutto: dei nostri
Paesi, del clima, di poco più di 2 milioni di abitanti del Gambia
(«Non siamo un Paese – diceva Morro, ridendo –, ma piuttosto una
provincia»), dei 220 milioni del Pakistan e dei 46 milioni dell’Ar-
gentina... E come sempre, io ho chiesto loro della famiglia, di quan-
ti fratelli avessero. La domanda li ha fatti sorridere e li ha messi un
po’ in imbarazzo.
Il massimo grado di «riassetto mentale» davanti a una domanda
che non rientra nei propri schemi l’avevo constatato quando, qual- 131
che sera prima, avevo domandato a un altro amico, Moustapha,
quanti fossero nella sua famiglia. Lui aveva cominciato a fare il con-
to, prima a mente e poi sulla punta delle dita: le mogli di suo padre
erano quattro, da sua madre aveva avuto cinque figli, dall’altra...
Non sapeva essere preciso, ma la somma totale era almeno 28 tra
fratelli e fratellastri. Ovviamente, egli conosceva bene i suoi quattro
fratelli da parte della madre, ma quelli da parte delle altre mogli un
po’ gli sfuggivano. E la differenza di età comportava che alcuni figli
nati dal primo matrimonio avessero una trentina d’anni più di lui.
Quella sera Morro, dal canto suo, mi ha detto che loro sono
cinque figli di sua madre, e poi ce ne sono altri quattro. Sheer ha
sorriso e mi ha detto che pensava che io non avessi capito che i mu-
sulmani possono avere diverse mogli e che la difficoltà di Morro a
dirmi quanti fratelli avesse fosse dovuta a ciò. Gli ho risposto che
sì, l’avevo capito. Ma mentre lo dicevo, mi sono reso conto che lo
capivo in astratto, perché il fatto di avere uno stesso padre con fra-
tellastri di altre madri è qualcosa che rivela una profonda differenza
esistenziale. Eppure si basa su una uguaglianza!
Possiamo spiegarlo con un esempio: quando si discutono que-
stioni teologiche tra musulmani e cristiani, tra ebrei e buddisti,
si comprende che il concetto ultimo di Dio è uno solo, ma si

8. Il Centro Astalli è la sede italiana del Servizio dei gesuiti per i rifugiati
( JRS).
SULLA FRATELLANZA UMANA

percepisce che le immagini – o non-immagini – e i sentimenti


di cui il concetto viene caricato creano una certa estraneità e
stabiliscono una notevole distanza. Quando parliamo di «fratelli»,
invece, le immagini e gli affetti che la parola evoca e la stessa
estraneità suscitano simpatia. Si capisce l’imbarazzo dell’altro per
una fratellanza di tanti fratelli di fronte a una società in cui pre-
valgono i figli unici. Le risonanze e le ripercussioni personali e
sociali sono infinite. Essere figlio unico può portare al desiderio
di avere molti «fratelli per scelta», come si chiamano gli amici,
oppure all’individualismo egoistico. Avere una grande quantità
di fratelli e fratellastri può portare a una chiusura tribale o a un
più ampio sentimento di parentela. La dinamica della fratellanza
è sempre luogo di decisione e di scelta libera e consensuale, in
132
base alla quale si è più o meno fratelli.

La famiglia introduce la fratellanza nel mondo


La famiglia è il «luogo dove si impara a convivere nella dif-
ferenza e ad appartenere ad altri» (EG 66). Nella vita familiare la
fratellanza è la relazione che inizia con l’arrivo del secondo figlio
e primo fratello. Come relazione è successiva alle altre – di cop-
pia, di paternità/maternità e di figliolanza –, ma quando avviene,
modifica le precedenti, e possiamo dire che, nel completarle in se
stesse, permette che si aprano a influenzare le relazioni econo-
miche, sociali, politiche e religiose. Il secondo figlio, stabilendo,
con la sua presenza, questa nuova relazione familiare, schiude la
porta a relazioni più ampie, spalanca la famiglia all’amore e alla
fratellanza sociale. E così tutti i successivi fratelli. Afferma papa
Francesco: «La famiglia è la relazione interpersonale per eccel-
lenza in quanto è una comunione di persone. Coniugalità, pa-
ternità, maternità, filiazione e fratellanza rendono possibile che
ogni persona venga introdotta nella famiglia umana»9.
Nell’esortazione apostolica Amoris laetitia (AL) il Papa dedica
una sezione speciale a «Essere fratelli», in cui dichiara: «La relazione
tra i fratelli si approfondisce con il passare del tempo, e “il legame di

9. Francesco, Discorso ai partecipanti all’incontro promosso dalla Federazione


Europea delle Associazioni Familiari Cattoliche (FAFCE), 1° giugno 2017.
LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO DI PAPA FRANCESCO

fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima


di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e
di pace. In famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana […].
Forse non sempre ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia
che introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima
esperienza di fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione fami-
liare, lo stile della fraternità si irradia come una promessa sull’intera
società”» (AL 194).
Come accade che l’amore fraterno apra la via perché pos-
sano darsi relazioni sociali rispettose della diversità? Ecco cosa
ha detto una madre in occasione della nascita del suo secondo
figlio: «E la cosa più importante è questa: il “secondo” conferma
quello che già sospettavamo (nonostante una grande paura...),
133
cioè che è possibile innamorarsi di un altro figlio con la stessa
passione e intensità riservata al primo».
Ciò che esprime questa madre è un’esperienza profonda del fatto
che l’amore non diminuisce tanto più, quanto più si distribuisce,
ma anzi accade il contrario. Come afferma lei stessa, non si tratta
di un’esperienza pura, cioè esente da timori. Come i padri trasmet-
tono ai figli quell’amore integro nella differenza, così quella stessa
differenza è l’origine dei conflitti tra i fratelli. Ma, come fa notare il
Papa, «l’unità alla quale occorre aspirare non è uniformità, ma una
“unità nella diversità” o una “diversità riconciliata”. In questo stile
arricchente di comunione fraterna, i diversi si incontrano, si rispet-
tano e si apprezzano, mantenendo tuttavia differenti sfumature e
accenti che arricchiscono il bene comune. C’è bisogno di liberarsi
dall’obbligo di essere uguali» (AL 139).
È importante soffermarsi su questa affermazione. Infatti essa
discerne l’inganno e la schiavitù che si nascondono dietro quel-
l’«obbligo di essere uguali» che tutti gli identitarismi danno per
scontato. Opponendosi a tale tentazione, il documento di Abu
Dhabi fonda questo concetto di libertà, dicendo: «[La] Sapienza
divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e
alla libertà di essere diversi»10.

10. Francesco - Ahmad Al-Tayyeb, Documento sulla fratellanza umana..., cit.


SULLA FRATELLANZA UMANA

Carattere esistenziale della fratellanza

Il punto decisivo sta nel carattere irrinunciabilmente esistenziale


della simultanea esperienza di uguaglianza e differenza che si dà
nella relazione di fratellanza. Le uguaglianze e differenze tra fratelli
sono tante quante i fratelli stessi; ma c’è una certezza che riempie
inevitabilmente di stupore, ed è che ognuno dei fratelli comprende
esattamente ciò che prova l’altro, quando dicono: «Siamo ugual-
mente figli degli stessi genitori e siamo differenti». Si arriva a com-
prendere i propri genitori quando si diventa padri; con i fratelli,
invece, la crescita nella fratellanza è costante e avviene alla pari.
Una peculiarità di quello che abbiamo chiamato «carattere esi-
stenziale» consiste nel fatto che la dinamica della fratellanza agisce da
134 dentro verso fuori, dal tutto verso le parti. I vincoli affettivi uniscono
prima il centro del nostro essere personale, che è l’essere figli, e poi,
in diversa misura, le parti. Per questo l’unità è così forte ed è capace
di rigenerare una frattura avvenuta a livello di idee, di sentimenti o di
scelte, rinviando sempre a quel centro personale-familiare.
Rispetto ai nostri fratelli, possiamo pensare diversamente, avere
sentimenti dissimili e compiere scelte di vita differenti, ma resta la
certezza che, se a qualcuno di questi livelli si genera un conflitto,
lo si potrà appianare – e, al limite, farsene carico, se non è possibile
risolverlo –, così da non spezzare completamente il legame fraterno.
Un esempio, che spiega questa dinamica di superamento, lo si
può vedere nelle liti tra fratelli: se esse contagiano i figli e i nipoti,
ciò non si verifica «automaticamente», come accade quando non
ci sono vincoli di sangue. Il legame tende a ricostruirsi anche col
passare del tempo e anche se ci sono stati allontanamenti tra i com-
ponenti di una famiglia. La sua logica è l’antidoto contro i virus
dell’accanimento, che sono ideologici, e pertanto astratti. La pre-
senza reale dell’altro e l’incontro faccia a faccia tendono a smorzare
– per la fragilità e il limite della carne – una violenza che i media
virtuali invece rafforzano.
Il carattere esistenziale della fratellanza, quindi, aiuta a relati-
vizzare le idee, almeno nel senso di non rassegnarsi al fatto che un
conflitto insorto da una disparità di vedute e di opinioni prevalga
definitivamente sulla fratellanza.
LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO DI PAPA FRANCESCO

Prolungamento dell’incarnazione, protocollo con cui verremo giudicati

In un messaggio alla professoressa Archer, presidente della Pon-


tificia Accademia delle Scienze sociali, il Papa desume i motivi fon-
damentali dell’importanza della fratellanza dalle parole del Signore:
«Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più
piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Da questa frase Francesco trae
due conseguenze fondamentali, che ha voluto indicare sin dall’ini-
zio del suo pontificato. La prima è: «“Nel fratello si trova il perma-
nente prolungamento dell’Incarnazione per ognuno di noi” (EG
179)». La seconda: «Infatti, il protocollo con cui saremo giudicati è
basato sulla fratellanza»11.
Pertanto il Papa pone la fratellanza in una feconda tensione tra
incarnazione e giudizio finale. Potremmo dire che la fratellanza – 135
farci prossimi come fratelli – ci colloca nel presente, prolungando
l’incarnazione del Signore, che proviene dal passato, e anticipando
il giudizio finale futuro.
Il prolungamento dell’incarnazione mediante la fratellanza si dà
a un livello che richiede un atto di libero arbitrio. Non si tratta
di domandarci: «Chi è il mio (fratello) prossimo?», bensì: «Di chi
mi faccio (fratello) prossimo?». Infatti, la fratellanza spirituale non
dipende dalla carne o dal sangue, ma dallo Spirito (cfr Gv 1,13) e
si realizza in un processo dinamico libero, quello di «avvicinarsi/
affratellarsi». La fratellanza in Cristo scaturisce da una figliolanza
comune, che è frutto dello Spirito, non della carne e del sangue. Se
accogliamo Cristo come fratello, ci viene dato «potere di diventare
figli di Dio» (Gv 1,12).
La fratellanza è – e sarà – il protocollo del giudizio finale, che
possiamo «anticipare» ogni giorno. La narrazione di quell’evento
conclusivo si apre a diverse chiavi di lettura. Una è quella di pen-
sare a che cosa dobbiamo fare per salvarci: aiutare i nostri fratelli,
imparando a riconoscere Cristo in loro. E trovando in questo ser-
vizio la possibilità di compiere atti trascendenti, ovvero quelli che
conferiscono il vero merito, l’unica moneta di scambio per guada-

11. Francesco, Messaggio alla professoressa Margaret Archer, Presidente della


Pontificia Accademia delle Scienze sociali, in occasione della sessione plenaria, 24 aprile
2017.
SULLA FRATELLANZA UMANA

gnarci il Cielo, se ci è concesso di esprimerci così, contrapponendo


questo atteggiamento fraterno a una realizzazione autonoma di sé.
Per entrare nel Cielo, quello che conta non sono gli atti volti a una
perfezione autoreferenziale, ma quelli di amore verso i nostri fratelli.
Dato che Cristo si è identificato con loro, ciò che facciamo per loro
ha valore assoluto. Ma questa lettura resta pur sempre incentrata sul
nostro merito.
Un’altra chiave di lettura si fonda su quello che il Signore ci dice
nella parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25,31-46). Qui dobbiamo fis-
sare lo sguardo non tanto sul «comandamento di compiere azioni buo-
ne verso i poveri», ma sulla rivalutazione che il Signore opera di cose
che, chi più chi meno, tutti già compiamo: dar da mangiare ai piccoli,
per esempio, è una cosa che in famiglia si fa naturalmente, così come
136
aiutare chi ha bisogno. Sebbene questo atteggiamento oggi venga mi-
nacciato – «aiutiamo gli immigrati a casa loro», si dice –, nessuno mette
in discussione l’atto così fondamentalmente umano che è aiutare.
Se comprendiamo che il Signore s’incarna nei poveri affinché
abbiamo la possibilità di amarlo concretamente, in ogni momen-
to, dando trascendenza ai nostri gesti più umani, tutto cambia. Il
Figlio unico e prediletto del Padre, dal momento che entra nella
storia come Figlio dell’uomo, vi entra come fratello. La fratellanza
è il rapporto familiare in cui la parità quanto a dignità si concilia
con la diversità e indica la scelta, da parte del Signore, di uno stile
che si può condividere liberamente. Come figli, dobbiamo essere
adottati. Come fratelli, ci viene offerto di affratellarci, e veniamo
accolti. In questo modo il Signore ci indica la fratellanza come la
realtà mediante la quale vuole che prolunghiamo, insieme, la sua
incarnazione e il suo ingresso nella nostra vita e nella nostra storia.
Quello di affratellarci è l’atto che più ci aiuta, e ci indica il
cammino per incontrarci con il Signore. Non si pone l’accento
soltanto sul «dare da mangiare», ma sul considerare l’altro come
un fratello, così che l’offrirgli il cibo nasca spontaneo, come in
famiglia, e trovi la sua giusta misura, che non può essere data da
alcun criterio quantitativo esterno.
In questo modo la fratellanza si rivela come l’ultima relazione
familiare, dopo quella coniugale, quella paterna/materna e quella
filiale. Ed è la relazione che, aprendo le precedenti, le suggella tutte
LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO DI PAPA FRANCESCO

con il suo marchio di amore vero (agapē e amicizia). L’amore di


possesso e l’amore fecondo possono essere assoluti soltanto in Dio.
L’unico Padre è soltanto il Padre del Cielo, e l’unico Sposo è Gesù.
Fratelli, invece, possiamo esserlo veramente tutti. Si richiede la no-
stra libertà: accettarci e amarci come fratelli. Ed è una relazione
nella quale possiamo crescere e includere tutti, come dice Paolo:
«Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi
infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù […]. Non
c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e
femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,25-28).
Inoltre, Dio, che non è oggetto di visione diretta, può essere
visto soltanto nell’alterità ben vissuta: «Chi infatti non ama il pro-
prio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv
137
4,20). Per questo il Signore ci offre un cammino per «vederlo», che
è quello di disporci esistenzialmente ad amare i fratelli che vedia-
mo12. La fratellanza è, pertanto, lo spazio del Regno, e in quello
spazio lo Spirito Santo può venire, abitare e agire. Egli ha bisogno
dello spazio della fratellanza, che ci uguaglia a Cristo, è scelta libe-
ramente grazie al discernimento, si sviluppa nel tempo e permette
agli uguali di essere diversi.

Desiderio di una vera fratellanza: le parabole del banchetto

In che modo il Signore risveglia in noi il desiderio di una vera


fratellanza? L’immagine più significativa è quella del banchetto, che
è presente in molte parabole evangeliche. Essa è connessa con la
fratellanza, perché, in fin dei conti, la relazione tra fratelli si gioca
nel sedersi assieme alla stessa mensa. Ne è il segno.
Nella parabola del padre misericordioso (Lc 15,11-32), il ban-
chetto offerto dal padre fa sì che si smascheri una fratellanza che nel
corso degli anni era divenuta distorta. Il fratello minore se n’era an-

12. «L’amore per la gente è una forza spirituale che favorisce l’incontro in
pienezza con Dio fino al punto che chi non ama il fratello “cammina nelle tenebre”
(1 Gv 2,11), “rimane nella morte” (1 Gv 3,14) e “non ha conosciuto Dio” (1 Gv 4,8).
Benedetto XVI ha detto che “chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi
anche di fronte a Dio”, e che l’amore è in fondo l’unica luce che “rischiara sempre di
nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire”» (EG 272).
SULLA FRATELLANZA UMANA

dato di casa senza curarsi del maggiore: aveva parlato soltanto con
il padre. E quando poi si converte, pensa ai salariati, non al fratello,
di certo prevedendo il conflitto con lui. Il fratello maggiore non
vuole partecipare al banchetto, non considera l’altro un buon figlio
del padre. Nessuno dei due accenna minimamente alla relazione
fra loro, ed è proprio su questo punto che invece insiste il padre:
«Questo tuo figlio», dice il maggiore; «Tuo fratello», replica il padre
con tenerezza. Il padre mette l’accento sulla fratellanza prima di
affrontare qualsiasi altro problema di giustizia o di idee.
Ricordiamo che il Signore narra la parabola a quelli che lo rim-
proverano di «mangiare con i pubblicani e i peccatori», mostrando
che lui mangia «con i fratelli». Sedersi alla stessa mensa è «il» segno
della vera fratellanza. Impedirlo, per qualsiasi motivo, significa ri-
138
creare l’atteggiamento del figlio maggiore della parabola.
Scegliendo di restare sotto le specie del pane e del vino, il Signo-
re non sceglie un oggetto materiale concreto che si possa isolare dal
suo significato profondo: venire mangiato in una mensa fraterna.
Il Signore sceglie il pane e il vino, perché veicolano la fratellanza,
che è il sedersi attorno alla stessa mensa e condividere lo stesso cibo.
A questo scopo egli lava perfino i piedi a tutti gli apostoli, anche a
Giuda. La dinamica della mensa è la più adatta a «rendere degni» i
partecipanti: degni in quanto fratelli uguali nella loro diversità.

L’ amicizia, tra amore familiare e amore di amicizia

Riuniti attorno alla mensa comune, il Signore dà il suo co-


mandamento: «Amatevi come io vi ho amato». Il «come» indica
in maniera fondamentale lo stile fraterno del Signore: amatevi
come fratelli. Afferma il Papa nell’esortazione apostolica Chri-
stus vivit (CV): «Se l’amore fraterno è il “comandamento nuovo”
(Gv 13,34), se è la “pienezza della Legge” (Rm 13,10), se è ciò che
meglio manifesta il nostro amore per Dio, allora deve occupare
un posto rilevante in ogni piano di formazione e di crescita dei
giovani» (CV 215).
Questo comandamento risveglia un particolarissimo desiderio
mimetico: quello che sorge quando si vede un fratello trattare con
amore un altro fratello. È il desiderio di imitazione più potente e di-
LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO DI PAPA FRANCESCO

sinteressato, del quale ci si può appropriare liberamente. Esercitando


questo amore fraterno, si cresce allo stesso livello come fratelli, e
così cresce l’intera famiglia.
La fratellanza definisce anche l’amicizia. Gli amici, si dice,
sono i fratelli che ci scegliamo liberamente. Se il vincolo con i
genitori dà il germe dell’unità di sangue, che prevale su tutte le
differenze abbracciandole come legittime, il vincolo dell’ami-
cizia con una persona estranea alla famiglia esprime e mette in
evidenza il carattere di libertà – vale a dire «spirituale» – della
relazione. La fratellanza si pone così tra i due amori – quello
basato sul sangue e quello basato sulla libertà –, affratellandoli,
trasformando il vincolo di sangue in un legame libero e incar-
nando il vincolo spirituale.
139
È questa la dinamica del circolo virtuoso che apre ed estende la
fratellanza a tutte le relazioni sociali.

La fratellanza consente agli uguali di essere persone diverse

È per questo che la «fratellanza» è la parola chiave, come sotto-


linea il Santo Padre. Lo è di certo, se si vuole superare la dicotomia
attuale, a livello economico, tra «il codice dell’efficienza – che ba-
sterebbe da solo a regolare i rapporti tra gli esseri umani entro la
sfera dell’economico – e il codice della solidarietà – che regolerebbe
i rapporti intersoggettivi entro la sfera del sociale»13.
Non basta parlare soltanto di «solidarietà», perché ci può esse-
re solidarietà senza fratellanza. Invece, la fratellanza comprende la
solidarietà, è un concetto più inclusivo. «Mentre la solidarietà è il
principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di di-
ventare eguali, la fratellanza è quello che consente agli eguali di
essere persone diverse. La fratellanza consente a persone che sono
eguali nella loro essenza, dignità, libertà, e nei loro diritti fonda-
mentali, di partecipare diversamente al bene comune secondo la
loro capacità, il loro piano di vita, la loro vocazione, il loro lavoro o
il loro carisma di servizio»14.

13. Francesco, Messaggio alla professoressa Margaret Archer…, cit.


14. Ivi.
SULLA FRATELLANZA UMANA

L’«uguaglianza» che rispetta e avvalora per davvero la diversità


è uguaglianza nella dignità, creaturale e personale, prima che in
qualsiasi altra cosa. Rispettare e far sentire l’altro come un fratello è
la base di qualsiasi relazione interpersonale e sociale, perché fa giu-
stizia, rendendo uguali nella dignità prima ancora dell’azione. Non
si dà una vera relazione sociale giusta fuori da questo atteggiamento
di fratellanza, la cui misura non è mai unilaterale, perché tutti i fra-
telli devono concordare su ciò che è «fraterno», partendo dalla loro
diversità accettata e rispettata.

La chiave per non spostare i problemi

Nelle polarizzazioni che attraversano la società attuale, al di là


140
del tema specifico oggetto di conflitto, il motivo di fondo consiste
nello spostare i problemi dall’ambito esistenziale – che è questione
di vita o di morte e che viene spesso differito – all’ambito ideolo-
gico, che si congela e si protrae all’infinito. In tanti suoi messaggi,
ma in particolare nelle encicliche e nelle esortazioni apostoliche, il
Papa dà il suo apporto per discernere i problemi principali da quelli
secondari. La fratellanza è una delle chiavi per definire il rapporto
con Dio e quello con gli altri: famiglia, comunità, Chiesa, politica.
La fratellanza rimanda a un solo Padre, o accettato per rive-
lazione secondo una teologia della creazione, oppure liberamente
atteso mentre si vive un atteggiamento concreto di amore fraterno
con chi ora abbiamo di fronte: il prossimo. Il Papa scrive nell’esorta-
zione apostolica Gaudete et exsultate (GE): «In mezzo alla fitta selva
di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di
distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci
consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti,
o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in
ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e biso-
gnoso, è presente l’immagine stessa di Dio» (GE 61).
La fratellanza non consente di spostare il problema di Dio all’am-
bito «ideale» o «cultuale»: lo ricolloca nell’ambito reale delle relazioni
di giustizia, misericordia e carità con i fratelli concreti. Per questo il
Papa nella Christus vivit incoraggia così i giovani: «Correte “attratti
LA FRATELLANZA NELL’ITINERARIO DI PAPA FRANCESCO

da quel Volto tanto amato, che adoriamo nella santa Eucaristia e ri-
conosciamo nella carne del fratello sofferente”» (CV 299).
La fratellanza costituisce il tessuto che consente alle nostre rela-
zioni sociali di rafforzarsi rispettando la diversità. Nell’ Amoris lae-
titia il Papa ci ricorda che «Dio ha affidato alla famiglia il progetto
di rendere “domestico” il mondo, affinché tutti giungano a sentire
ogni essere umano come un fratello» (AL 183).
La fratellanza non permette di dissociare Vangelo, lotta per la
giustizia sociale e cura del Pianeta. Perciò l’Evangelii gaudium parla
dell’«entusiasmo di vivere il Vangelo della fraternità e della giusti-
zia!» e dell’«assoluta priorità dell’“uscita da sé verso il fratello”» (EG
179). L’esortazione apostolica Gaudete et exsultate ricorda che Gesù
stesso «si è fatto periferia (cfr Fil 2,6-8; Gv 1,14). Per questo, se ose-
141
remo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci
precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita
oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì» (GE 135).
E l’enciclica Laudato si’ (LS) parla di «sora nostra matre Terra»
(LS 1) e di «fraternità universale» (LS 228), seguendo l’esempio di
san Francesco di Assisi: «Il suo discepolo san Bonaventura narrava
che lui [Francesco], “considerando che tutte le cose hanno un’origi-
ne comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava
le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella”»
(LS 11). La fratellanza è criterio orientativo del discernimento, che
«non è un’autoanalisi presuntuosa, una introspezione egoista, ma
una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a
vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli»
(GE 175).
Così vediamo, nell’itinerario di papa Francesco, che lo stile fra-
terno e i gesti concreti di fratellanza lo aiutano a risalire all’origine
stessa dei conflitti senza restarne invischiato. La fratellanza è l’atteg-
giamento che rende possibile trovare vie per superare ogni ostacolo.
Per questo occorre approfondire e rafforzare questo vincolo indi-
struttibile e insostituibile.
SULLA FRATELLANZA UMANA

LA TEOLOGIA NEL CONTESTO


DEL MEDITERRANEO*

Pino Di Luccio S.I. - Francisco Ramírez Fueyo S.I.

Lo scorso 21 giugno papa Francesco ha partecipato a un Conve-


gno intitolato «La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del
Mediterraneo». Il Convegno, organizzato nella sede della Sezione
San Luigi della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale
142
a Posillipo (Napoli), comprendeva un’analisi del contesto del Me-
diterraneo (il 20 giugno) – in modo particolare delle tensioni e dei
conflitti generati dalle migrazioni inarrestabili verso l’Europa da
Paesi dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente – e una proposta di
soluzioni (il 21 giugno). Papa Francesco il 21 giugno è intervenuto
con un discorso sulla tematica del Convegno, proponendo come
soluzione alle tensioni una teologia dell’accoglienza reciproca basa-
ta sul dialogo. Inoltre, ha fornito alcune applicazioni pratiche della
Veritatis gaudium, la costituzione apostolica che rinnova gli studi
ecclesiastici e il modo di studiare e di fare teologia.
Nelle pagine che seguono, i temi del discorso di papa France-
sco relativi alla teologia e agli studi ecclesiastici vengono collocati
nello sviluppo del suo pensiero. Poi vengono presentati alcuni pre-
supposti biblici per una teologia dell’accoglienza. Infine, vengono
suggerite proposte per praticare la riforma degli studi ecclesiastici
auspicata dalla Veritatis gaudium come esempio di attualizzazione
del discorso di papa Francesco1. 

* Titolo originale: «Teologia e rinnovamento degli studi ecclesiastici. Le indi-


cazioni di Francesco nel discorso di Posillipo».
1. Sulla stessa Costituzione apostolica, cfr P. Di Luccio - J. L. Narvaja, «“Veritatis
gaudium” e rinnovamento degli studi ecclesiastici», in Civ. Catt. 2019 II 272-283.

© La Civiltà Cattolica 2019 III 471-481 | 4062 (21 set/5 ott 2019)
LA TEOLOGIA NEL CONTESTO DEL MEDITERRANEO

Una teologia dell’accoglienza

In apertura al «discorso di Posillipo» (DP), papa Francesco ha


citato il Documento sulla fratellanza umana che aveva firmato
insieme al grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, nell’in-
contro di Abu Dhabi, il 4 febbraio scorso. Con questa citazione il
Papa ha esplicitato alcune domande che animarono quell’incontro
e la stesura del Documento: «Come custodirci a vicenda nell’unica
famiglia umana? Come alimentare una convivenza tollerante e
pacifica che si traduca in fraternità autentica? Come far prevalere
nelle nostre comunità l’accoglienza dell’altro e di chi è diverso da
noi perché appartiene a una tradizione religiosa e culturale diversa
dalla nostra?» (DP).
Riferendosi al Documento di Abu Dhabi, la teologia che papa 143
Francesco propone nel discorso di Posillipo viene presentata come
una teologia dell’accoglienza dello straniero. Per il Papa, la teologia
nel contesto del Mediterraneo non dovrebbe essere separata dall’e-
vangelizzazione e andrebbe praticata con il dialogo.
La finalità pratica – per l’evangelizzazione – della teologia è
una costante nel pensiero di papa Francesco. La cultura dialogica
dell’incontro come caratteristica della proposta teologica di Ber-
goglio compare presto nello sviluppo del suo pensiero. In un arti-
colo del 1989, intitolato «Necesidad de una antropología política:
un problema pastoral», egli indica come primo fine della pastorale
«l’invito alla concordia o all’amicizia politica, che […] risponde […]
all’aspirazione dell’incontro con l’Unico Bene che unisce gli uomi-
ni tra di loro». Per favorire l’incontro occorre risvegliare la capacità
del dialogo, e ciò suppone non solo «sentire», ma ascoltare. Sebbene
l’altro sia ideologicamente, politicamente, religiosamente o social-
mente sul «marciapiede di fronte», va sempre accolto: ha sempre
qualcosa di buono da offrirmi, e io ho sempre qualcosa di buono
da dargli.

Dialogo e discernimento

Per la comprensione della pratica del dialogo come caratteristica


di una teologia dell’accoglienza giova ricordare le parole conclu-
SULLA FRATELLANZA UMANA

sive del discorso di papa Francesco alla classe dirigente del Brasile
durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Río de Janeiro, il
27 luglio 2013: «Quando i leader dei diversi settori mi chiedono
un consiglio, la mia risposta sempre è la stessa: dialogo, dialogo,
dialogo. L’unico modo di crescere per una persona, una famiglia,
una società, l’unico modo per far progredire la vita dei popoli è
la cultura dell’incontro, una cultura in cui tutti hanno qualcosa di
buono da dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cam-
bio. L’altro ha sempre qualcosa da darmi, se sappiamo avvicinarci a
lui con atteggiamento aperto e disponibile, senza pregiudizi. Que-
sto atteggiamento aperto, disponibile e senza pregiudizi lo definirei
come “umiltà sociale”, che è ciò che favorisce il dialogo. Solo così
può crescere una buona intesa fra le culture e le religioni, la stima
144
delle une per le altre senza precomprensioni gratuite e in un clima
di rispetto per i diritti di ciascuna. Oggi, o si scommette sul dia-
logo, o si scommette sulla cultura dell’incontro, o tutti perdiamo,
tutti perdiamo. Per di qua va il cammino fecondo».
Il dialogo è menzionato tra i criteri proposti nel proemio della
Veritatis gaudium per il rinnovamento degli studi ecclesiastici e della
teologia, ed è esplicitamente menzionato nel documento di Abu
Dhabi. In quest’ultimo la fratellanza umana è promossa adottando
«la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come
condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio». Nel di-
scorso di Posillipo, in un primo approfondimento il Papa spiega che
il dialogo – con il quale si pratica la teologia dell’accoglienza – è una
modalità di evangelizzazione (da non confondere con il proseliti-
smo) che richiede la pratica del discernimento.
L’insistenza sul discernimento in questo discorso non dovreb-
be essere sottovalutata. Per papa Francesco, che è profondamente
segnato dalla tradizione ignaziana del discernimento, i teologi an-
nunciano innanzitutto l’amore di Dio donato a ogni persona, di
ogni lingua, popolo, nazione e religione. Il discernimento nel dia-
logo con il quale si annuncia la Parola di Amore rivelata nella vita
di Gesù ha lo scopo di riconoscere i «segni» e di accogliere i frutti di
questo Amore, che è dono gratuito, sorprendente e sovrabbondante
dello Spirito Santo.
LA TEOLOGIA NEL CONTESTO DEL MEDITERRANEO

Per il Papa, il fondamento della teologia contestuale è l’acco-


glienza dell’umanità abitata dall’Amore trinitario, rivelato dall’alto
della croce di Gesù e presente nelle pieghe della storia, soprattutto
nelle vicende dolorose di tante persone povere, scartate ed emar-
ginate. La rivelazione, nella storia umana, dell’amore di Dio Padre
attraverso la vita di Gesù e con il dono dello Spirito Santo implica
la capacità che ha ogni persona, di ogni popolo, lingua, razza e re-
ligione, di agire secondo il Vangelo della salvezza. Il discernimento
– con il dialogo – del dono dell’Amore di Dio nella creazione e nelle
creature, per mezzo dell’opera del suo Spirito, in questo senso è un
«metodo» praticato come operazione teologica, per evangelizzare e
per accogliere il Vangelo di Gesù, cioè la rivelazione della miseri-
cordia del Padre, nel dono dello Spirito Santo, per ognuno di noi.
145
Il «metodo» dialogico animato dal discernimento è descrit-
to nell’articolo «Servicio de la fe y promoción de la justicia», dove
Bergoglio individua tre momenti nell’elaborazione del Decreto IV
della Congregazione Generale XXXII della Compagnia di Gesù:
il confronto, le sperimentazioni per la «convivenza» pacifica, e l’in-
tegrazione. Questo processo è visto come un paradigma della presa
di coscienza dei cambiamenti nella Chiesa e delle novità apportate
dallo Spirito Santo: innanzitutto, l’ispirazione dall’alto; in un secon-
do momento – di entusiasmo – si sperimentano e si esaminano con-
cettualizzazioni che più tardi, in un terzo momento, saranno messe
in discussione e formulate con maggiore precisione ed equilibrio,
in costante dialogo sia con la realtà sia con l’ispirazione originaria.
La pratica della teologia dell’accoglienza in questo modo – cioè
con il dialogo fatto con il discernimento – ha lo scopo di accogliere
il regno di Dio e di favorire la costruzione di una società fraterna,
fondata sui princìpi evangelici della pace e della giustizia biblica.

Esempi di dialogo

Come un inciso nel discorso, papa Francesco a Posillipo ha ri-


cordato con alcuni esempi che il rinnovamento della teologia parte
dalla conoscenza – in profondità – di situazioni e di persone, «là
dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappre-
sentazioni delle persone e dei popoli». Per il Papa, i «simboli» dei po-
SULLA FRATELLANZA UMANA

poli sono – tra altri – figure e personaggi storici che i gruppi umani
e le società ricordano come modelli di vita. Sono figure e luoghi
religiosi che alimentano la fede e la pietà; monumenti che ricordano
la storia e le gesta dei padri; parabole e personaggi biblici e di altre
tradizioni religiose che racchiudono una ricca e profonda sapienza
spirituale; imprese e iniziative che hanno promosso lo sviluppo e il
benessere di una nazione ecc.
Il «simbolo», o il «paradigma», ha una funzione primordiale nel
processo di discernimento dialogico, ed è decisivo per cogliere il
«tutto» a partire dal concreto, l’universale dal particolare, il collet-
tivo dall’individuale. Questo modo di guardare la realtà prende le
mosse dall’azione dinamica dello spirito individuale che – in dialo-
go – guarda al Tutto mentre gli si rivela la Verità vivente non per
146
mezzo di semplici concetti, ma per mezzo di simboli. Già di per sé
lo sguardo alla Totalità evidenzia un punto di vista speciale, procede
orientandosi alla Totalità, ma sotto un aspetto determinato.
Francesco a questo proposito parla del dialogo 1) come metodo
di studio e di insegnamento, come modo per praticare la lettura di
alcuni testi e per capirne la composizione; e 2) come ermeneutica
teologica: in entrambi i casi, per «giungere là – come “etnografi spi-
rituali” dell’anima dei popoli». Lo studio «dialogico» dei testi delle
grandi tradizioni monoteiste non ha (solo) lo scopo di acquisire più
facilmente ed efficacemente conoscenze teoriche, ma di raggiun-
gere «come “etnografi spirituali”» l’anima dei popoli «per poter dia-
logare in profondità». Quindi il dialogo favorisce un’ermeneutica
teologica della storia che ha lo scopo di avviare processi di riconci-
liazione e di pace.

Ascolto, interdisciplinarità e lavoro in rete

Dopo aver fornito esempi di dialogo per una teologia pratica


dell’accoglienza, Francesco parla del compito evangelizzatore della
teologia, spiegando, da una parte, la conoscenza approfondita di
situazioni e persone «dove si formano i paradigmi», e riprendendo,
dall’altra, il tema dell’ascolto che aveva menzionato all’inizio del di-
scorso. L’ascolto, per la pratica di una teologia dell’accoglienza e per
l’evangelizzazione, è un presupposto, è complementare al dialogo
LA TEOLOGIA NEL CONTESTO DEL MEDITERRANEO

ed è necessario per il discernimento; è un metodo (di studio e di


esperienza) che ha come obiettivo la creazione di nuove narrazioni.
Ciò significa anche «ascoltare la storia e il vissuto dei popo-
li […] per poterne decifrare le vicende che collegano il passato
all’oggi e per poterne cogliere le ferite insieme con le potenzialità»
(DP). L’importanza del concetto di popolo – fedele – nel pensiero
di papa Bergoglio è in continuità con la linea teologica da lui so-
stenuta a Puebla, Santo Domingo e Aparecida. Il discernimento
che presuppone l’ascolto si fa in mezzo al popolo, partendo dalla
vita del popolo, dalla sua fede spesso semplice, tenendo conto delle
sue carenze e delle sue ricchezze. Lo Spirito Santo parla nella vita
di fede di un popolo.
«Ascoltare la storia e il vissuto dei popoli» include l’«ascolto» dei
147
contesti originari dell’annuncio del Vangelo. L’«ascolto» dell’attua-
lizzazione originaria della rivelazione della misericordia del Padre
permette di discernere l’attualità della parola di Dio. Quando, d’al-
tra parte, si ascolta l’esperienza e la cultura di un popolo e si cercano
vie per incarnare il Vangelo in tale popolo, si sta attualizzando lo
stesso processo che portò a evangelizzare per la prima volta le cul-
ture dei popoli del I secolo d.C.
Nel discorso di Posillipo papa Francesco parla dell’ascolto ne-
cessario per il discernimento, riferendosi ai criteri della Veritatis
gaudium, i quali, con l’introduzione spirituale, intellettuale ed espe-
rienziale nel cuore del kerygma (che è l’evangelizzazione) e con il
dialogo, rinnovano gli studi ecclesiastici e la teologia. Questi criteri
sono il lavoro interdisciplinare e il lavoro in rete.
Il dialogo come discernimento e annuncio del Vangelo com-
porta l’«ascolto dell’altro» e l’ascolto delle radici e del presente, con
il lavoro interdisciplinare e in rete. L’interdisciplinarità è così pre-
sentata come un metodo per interrogare la storia e il presente,
per ascoltare meglio, allo scopo di capire in profondità, da più
prospettive e chiamando in causa molteplici competenze, le radici
e il presente. D’altra parte, il lavoro in rete, come l’interdisciplina-
rità, si pratica con il dialogo e presuppone l’ascolto dello Spirito e
il discernimento del dono della comunione trinitaria nella storia
e nel presente.
SULLA FRATELLANZA UMANA

Fondamenti biblici della teologia dell’accoglienza

Con le indicazioni del proemio della Veritatis gaudium la teo-


logia nel contesto del Mediterraneo si delinea come una teologia
che proprio in tale contesto riscopre le sue radici bibliche. Esse
includono il dialogo, la comunione e la solidarietà, l’ospitalità e
l’accoglienza. Nella rivelazione biblica l’accoglienza fa parte della
coscienza storica del popolo di Israele, caratterizzata dall’espe-
rienza della migrazione e dalla consapevolezza di essere stato
straniero.
L’ospite, inoltre, nella rivelazione biblica è spesso manifestazione
della presenza divina. Gesù, nel Vangelo di Luca, propone come
esempio dell’osservanza della Torah – e dell’amore di Dio e del pros-
148 simo – un samaritano, che è uno straniero. Infine, il Vangelo espri-
me nella sua forma greca l’incontro e l’accoglienza di culture che
sono diventate mediazioni dell’evangelizzazione non soltanto dal
punto di vista linguistico, ma anche nella prospettiva dell’annuncio
del kerygma.
Il Vangelo continua a incontrare le culture e a evangelizzarle,
continua ad approfondire il kerygma nell’incontro e nel dialogo
con le culture, e continua a indicare negli stranieri e nei «lontani»
esempi «familiari» di evangelizzazione, testimoni dell’amore che
Dio Padre ha rivelato nella persona e nella vita di Gesù di Naza-
ret e reso vivo e attuale con il dono multiforme e creativo dello
Spirito Santo.
Una teologia dell’accoglienza che ascolta i contesti originaria-
mente «interpretati» dalla parola di Dio, e in cui originariamente
la parola di Dio è stata interpretata nella sua attualità e attualizza-
zione, non dovrà solo studiare e approfondire gli aspetti «culturali»
dell’accoglienza mediterranea, ma dovrà sviluppare la dimensione
teologica dell’accoglienza. A questo proposito il Patriarca ecumeni-
co di Costantinopoli ha specificato, nel suo messaggio al Convegno
di Posillipo, che il cristianesimo è espressione massima del concetto
di accoglienza dello straniero, «secondo l’insegnamento del nostro
Maestro e Salvatore».
LA TEOLOGIA NEL CONTESTO DEL MEDITERRANEO

Il primato del Vangelo e la storia

Il primo presupposto per la pratica di una teologia dell’acco-


glienza e per la riforma degli studi ecclesiastici è la consapevo-
lezza del primato del Vangelo della misericordia: «Innanzitutto,
occorre partire dal Vangelo della misericordia, dall’annuncio fatto
da Gesù stesso e dai contesti originari dell’evangelizzazione. La
teologia nasce in mezzo agli esseri umani concreti, incontrati
con lo sguardo e il cuore di Dio, che va in cerca di loro con amo-
re misericordioso» (DP).
Concretamente ciò comporta che nei percorsi degli studi di teo­
logia gli studenti abbiano la possibilità di trascorrere congrui pe-
riodi in ambienti nei quali possano fare esperienze concrete – per
esempio, in centri di accoglienza per profughi – e possano essere 149
aiutati a operare un’ermeneutica teologica di tali esperienze, elabo-
rando dissertazioni alle quali venga riconosciuto un adeguato ac-
creditamento di ECTS.
Il secondo presupposto di una teologia dell’accoglienza, defi-
nita da papa Francesco come «Pentecoste teologica», è «una seria
assunzione della storia in seno alla teologia, come spazio aperto
all’incontro con il Signore». Ciò vuol dire l’ascolto della storia come
ermeneutica delle radici e del presente, e come presupposto del di-
scernimento dell’attualità della parola di Dio nel presente. La con-
cretizzazione di questo presupposto non avviene necessariamente
moltiplicando le ore dei corsi di storia nel curriculum degli studi di
teologia, ma – per esempio – introducendo (o evidenziando) un
approccio storico nei corsi di dogmatica, di morale e di spiritualità
e favorendo lo studio dei contesti storici, letterari e teologici pro-
pri della rivelazione biblica, con soggiorni prolungati in Israele, nei
territori palestinesi, in Giordania e in Turchia, in Grecia e in Egitto. 

Libertà e strutture leggere e flessibili

Un ulteriore presupposto per il rinnovamento degli studi eccle-


siastici e per la pratica di una teologia dell’accoglienza è la libertà
teologica: «Senza la possibilità di sperimentare strade nuove non si
SULLA FRATELLANZA UMANA

crea nulla di nuovo, e non si lascia spazio alla novità dello Spirito
del Risorto» (DP).
A questo proposito, papa Francesco prima ricorda la «inesauribi-
le ricchezza del Vangelo», citando l’Esortazione apostolica Evangelii
gaudium, e poi fa una distinzione: «Fra gli studiosi, bisogna andare
avanti con libertà; poi, in ultima istanza, sarà il magistero a dire
qualcosa, ma non si può fare una teologia senza questa libertà» (DP).
La sperimentazione di strade nuove vuol dire la revisione dei
piani di studi, del computo degli ECTS attribuiti alle varie aree, ai
settori e ai singoli corsi, e la revisione delle discipline e delle materie
di insegnamento. La libertà teologica, per la teologia dopo la Ve-
ritatis gaudium, più che pensare liberamente e operare liberamente
scelte per rinnovare i piani di studio, vuol dire «sintonizzarsi con lo
150
Spirito di Gesù Risorto, con la sua libertà di andare per il mondo e
raggiungere le periferie, anche quelle del pensiero» (DP). Concre-
tamente, la libertà teologica si attualizza con il buon senso e colti-
vando la libertà interiore. 
Non ci può essere novità né innovazione fino a quando un do-
cente difende i propri corsi di insegnamento come proprietà pri-
vata, come baluardo del proprio riconoscimento e come occasione
per esprimere il proprio protagonismo. I presupposti per la riforma
degli studi ecclesiastici di cui parla papa Francesco si possono rea-
listicamente applicare in una facoltà teologica se in essa si danno o
si favoriscono i presupposti per la disponibilità al cambiamento e
alla conversione, stabilendo che la missione comune sia superiore
alle individualità e agli individualismi; la disponibilità alla collabo-
razione sia sincera e non guidata dalle logiche degli interessi e dei
vantaggi personali e dei gruppi di appartenenza; il protagonismo
non prevalga sul servizio agli studenti che è praticato con l’inse-
gnamento, con il dialogo e con la condivisione dei risultati delle
ricerche dei docenti.
Infine, l’ultimo presupposto che il Papa menziona per una «Pen-
tecoste teologica» e per il rinnovamento degli studi ecclesiastici è
quello di «strutture leggere e flessibili, che manifestino la priorità
data all’accoglienza e al dialogo, al lavoro inter- e trans-disciplinare
e in rete. Gli statuti, l’organizzazione interna, il metodo di inse-
gnamento, l’ordinamento degli studi dovrebbero riflettere la fisio-
LA TEOLOGIA NEL CONTESTO DEL MEDITERRANEO

nomia della Chiesa “in uscita”» (DP). Su questo presupposto papa


Francesco è molto esplicito: «Tutto deve essere orientato negli orari
e nei modi a favorire il più possibile la partecipazione di coloro che
desiderano studiare teologia: oltre ai seminaristi e ai religiosi, anche
i laici e le donne sia laiche che religiose». 
A proposito di libertà e di strutture leggere e flessibili, per un
apprendimento interdisciplinare e in rete può essere vantaggioso
favorire e moltiplicare gli scambi – con programmi Erasmus o si-
mili – tra studenti di teologia non solo di università europee, ma
delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia. Inoltre, favorire gli scambi
tra studenti e professori di università ecclesiastiche e facoltà teo­
logiche cattoliche e studenti e professori di università e facoltà
teo­logiche ortodosse e protestanti e università di altre confessioni
151
religiose può arricchire il dialogo con il quale, per la Veritatis gau-
dium, si rinnovano gli studi ecclesiastici e si pratica una teologia
dell’accoglienza. Scambi di questo tipo giovano per «riflettere la fi-
sionomia della Chiesa “in uscita”»; contribuiscono alla formazione
al dialogo con il discernimento, e possono promuovere «la priorità
data all’accoglienza e al dialogo, al lavoro inter- e trans-disciplina-
re e in rete».

Conclusioni

Il discorso di papa Francesco a Posillipo è sintetico. Esso offre


una «traccia» per elaborare una teologia contestuale dell’accoglien-
za e una teologia dell’accoglienza nel contesto del Mediterraneo.
Approfondire e sviluppare questa «traccia» è compito di biblisti,
storici e teologi, in collaborazione con docenti di altre discipline,
come la filosofia, la sociologia, l’economia ecc. La teologia dell’ac-
coglienza, che nel discorso di Posillipo papa Francesco propone
come una teologia contestuale e come una teologia adatta in parti-
colare al contesto del Mediterraneo, è una teologia del dialogo pra-
ticato con discernimento per conoscere in profondità le situazioni,
i popoli e le persone e per riconoscere in essi l’opera dello Spirito
Santo, in modo da accogliere il dono della pace e annunciare così
la venuta del regno di Dio.
SULLA FRATELLANZA UMANA

A questo proposito, per papa Francesco, gli studi di teologia non


si rinnovano facendo ricorso a categorie e strutture di pensiero che
sostituiscono gli impianti della scolastica decadente. La teologia si
rinnova partendo «dal basso», dalla conoscenza approfondita delle
grandi tradizioni religiose, dall’amicizia sincera con uomini e don-
ne di buona volontà appartenenti a culture diverse, dalla condivi-
sione della vita dei poveri, in cui è viva la presenza dello Spirito del
Risorto, dal discernimento della realtà, e discernendo nella realtà
– in una situazione concreta e in un contesto particolare – la pre-
senza dello Spirito, che rende attuale il Vangelo della misericordia.
A questa realtà la teologia e gli studi teologici vanno incontro e
rispondono in dialogo, in rete e con il lavoro interdisciplinare di
uomini e donne che amano la giustizia e la pace e appartengono a
152
popoli, culture e religioni diverse.
In conclusione, per il Papa la teologia dell’accoglienza – che si
dovrebbe riflettere nel rinnovamento degli studi ecclesiastici – è
una teologia del contesto, che cioè parte dall’ascolto e dal discerni-
mento di un particolare contesto; è una teologia nel contesto, cioè
dell’incontro e del dialogo con le forze che promuovono il bene in
un determinato contesto; ed è una teologia per il contesto, cioè una
teologia che in un determinato contesto, con la pratica dell’evange-
lizzazione e dell’accoglienza reciproca, opera per la costruzione di
una società tollerante e che ha a cuore la cura e la salvaguardia della
persona e del creato che la circonda.
«LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ»*

José Luis Narvaja S.I.

Di recente, in Francia, l’Alto consiglio per l’uguaglianza tra le


donne e gli uomini (Hce), in vista dell’annunciata revisione della Co-
stituzione, ha proposto di sostituire, nel motto nazionale della Re-
pubblica, la parola fraternité con adelphité, parola che deriva dal greco
153
e che significa «fraternità», ma privata della connotazione maschile,
propria del termine precedente. Altri, per evitare il neologismo, pro-
pongono semplicemente solidarité. E le polemiche tra chi è a favore e
chi è contrario a una o all’altra proposta non si sono fatte attendere.
Sollecitati anche dal dibattito che questa parola sta suscitando,
vogliamo riflettere sul suo significato a partire dal fatto che in un
recente Messaggio alla professoressa Margaret Archer, presidente
della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, papa Francesco
ha fatto riferimento proprio ai tre princìpi guida della Rivoluzione
francese: libertà, uguaglianza, fraternità1. Si tratta di tre ideali, a
cui gli esseri umani hanno a lungo anelato, proposti insieme, anche
se non si sono realizzati simultaneamente. Potremmo dire che alla
fine del XVIII secolo sia iniziato un processo di grande importan-
za nella storia dell’Occidente. In questo processo di manifestazione
e concretizzazione dei tre ideali, la fraternità è stato indubbiamente
quello meno sviluppato e – sottolinea Francesco – ha finito per
essere cancellata dal lessico politico-economico. Tuttavia, è pro-
prio essa il principio che dovrebbe regolare l’insieme delle proposte
della Rivoluzione.

* Titolo originale: «“Libertà, uguaglianza, fraternità”. Un’alternativa al neo-


liberalismo e al neostatalismo».
1. Cfr Francesco, Messaggio alla prof.ssa Margaret Archer, presidente della
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 24 aprile 2017, in w2.vatican.va

© La Civiltà Cattolica 2018 II 394-399 | 4030 (19 mag/2 giu 2018)


SULLA FRATELLANZA UMANA

Si può dire, riprendendo una simpatica espressione di Henri


Bergson, che libertà e uguaglianza «sono due sorelle che litigano»2
e che alla fine hanno bisogno di qualcuno che le accordi tra loro. È
questa la funzione della fraternità. Quegli ideali, desiderati a lungo
e raggiunti dopo molte sofferenze, hanno prodotto in realtà nuove
forme di disuguaglianza e di schiavitù, a causa della mancanza della
funzione regolatrice della fraternità, a lungo trascurata. Il problema
cruciale è che le forme autentiche di fraternità scaturiscono «dal bas-
so», da coloro che si sentono fratelli ed esprimono tale relazione in
un’uguaglianza e una libertà rispettose delle differenze e dei bisogni
dell’altro.

L’umanità è una famiglia


154

Alla base di questa consapevolezza della fraternità c’è un’unica


certezza: quella di avere un padre, dal momento che possiamo ri-
conoscere che siamo fratelli solo se riconosciamo un padre che ci
rende tali. I tentativi di prendere il posto del padre per costringere
gli uomini a vivere la fraternità scaturiscono, invece, «dall’alto». E
l’esito di questi tentativi sono state, tra l’altro, le molteplici forme
illegittime di fraternità in un ampio spettro che va dal comunismo
al liberalismo.
Papa Francesco sottolinea che in questo processo, che ha im-
piegato più di due secoli per svilupparsi, è giunto il momento di
dare spazio all’ideale della fraternità, in quanto non semplice ideale
della Rivoluzione francese, ma anelito naturale per l’uomo, che si
manifesta nei desideri profondi di una vita pacifica e nella società:
«La fraternità è una dimensione essenziale dell’uomo, il quale è un
essere relazionale. La viva consapevolezza di questa relazionalità ci
porta a vedere e trattare ogni persona come una vera sorella e un
vero fratello; senza di essa diventa impossibile la costruzione di una
società giusta, di una pace solida e duratura. E occorre subito ricor-
dare che la fraternità si comincia a imparare solitamente in seno alla
famiglia, soprattutto grazie ai ruoli responsabili e complementari

2. G. Galeazzi, «Il pensiero di papa Francesco», in Quaderni del Consiglio


Regionale delle Marche, n. 215, 2016, 302.
«LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ»

di tutti i suoi membri, in particolare del padre e della madre. La


famiglia è la sorgente di ogni fraternità e perciò è anche il fonda-
mento e la via primaria della pace, poiché, per vocazione, dovrebbe
contagiare il mondo con il suo amore»3.
La fraternità non è teorica, non può esserlo: ha bisogno di
essere incarnata, perché l’amore è un’arte e, come ogni arte, è
fatto di dettagli. È importante tradurre questa convinzione in
gesti concreti. Nel documento di Aparecida, nella cui redazione
Bergoglio ha avuto un ruolo centrale, troviamo i modi concreti
di incarnare la fraternità e come imparare a farlo a partire dai più
piccoli gesti: «È necessario educare e favorire nella nostra gente
tutti i gesti, le opere e i percorsi di riconciliazione e amicizia so-
ciale, di cooperazione e integrazione. La comunione raggiunta
155
nel sangue riconciliatore di Cristo ci dà la forza di essere co-
struttori di ponti, annunciatori di verità, balsamo per le ferite. La
riconciliazione è al centro della vita cristiana. È iniziativa propria
di Dio in cerca della nostra amicizia, che comporta la necessaria
riconciliazione con il fratello»4.

Una società di figli unici?

Questi gesti sono importanti, perché creano in noi un atteggia-


mento di uomini appartenenti alla cultura della fraternità: guardare
negli occhi, ricordare un volto, accarezzare un ammalato, ascoltare
quelli che soffrono, tutti gesti che implicano un incontro, il dimen-
ticare se stessi, e che esprimono il substrato esistenziale di quella
cultura.
Mentre è un elemento essenziale della vita dell’uomo, la pro-
posta di creare una società fraterna si fonda sulla relazione che Dio
ha stabilito con gli uomini. È l’amore di Dio che ci invita a vedere
gli uomini con i suoi occhi, gli occhi del Padre, e a riconoscere in
loro dei fratelli, e non dei nemici: «Non sono i criteri di efficienza,

3. Francesco, Messaggio per la XLVII Giornata Mondiale della Pace 2014.


4. V Conferencia General del Episcopado Latinoamericano y del
Caribe, Documento de Aparecida (29 junio 2007), n. 535. Su Aparecida e sul ruolo
di Bergoglio, cfr D. Fares, «A 10 anni di Aparecida. Alle fonti del pontificato di
Francesco», in Civ. Catt. 2017 II 338-352.
SULLA FRATELLANZA UMANA

di produttività, di ceto sociale, di appartenenza etnica o religiosa


quelli che fondano la dignità della persona, ma l’essere creati a im-
magine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27) e, ancora di più, l’essere
figli di Dio; ogni essere umano è figlio di Dio!»5.
«Nel fratello sta il prolungamento permanente dell’Incarna-
zione per ciascuno di noi» (Evangelii gaudium [EG], n. 179). In
questa linea, la proposta di Francesco va oltre il piano delle virtù
sociali: raggiunge la radice, l’essenziale dell’uomo, e da lì ci invita
a costruire la vita sociale. Questo appare con chiarezza quando il
Papa mette in relazione la solidarietà con la fraternità: «Mentre la
solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai
diseguali di diventare eguali, la fraternità è quello che consente
agli eguali di essere persone diverse. La fraternità consente a per-
156
sone che sono eguali nella loro essenza, dignità, libertà, e nei loro
diritti fondamentali, di partecipare diversamente al bene comune
secondo la loro capacità, il loro piano di vita, la loro vocazione, il
loro lavoro o il loro carisma di servizio»6.
La fraternità che cresce nel cuore non si realizza sotto la minac-
cia della punizione, ma nella consapevolezza che la propria felicità
dipende da quella del fratello e che la preoccupazione per l’altro e
per i suoi bisogni sorge spontaneamente. «Non è capace di futuro
la società in cui si dissolve la vera fraternità; non è cioè capace di
progredire quella società in cui esiste solamente il “dare per avere”
oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, né la visione liberal-indi-
vidualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione
stato-centrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono
guide sicure per farci superare quella diseguaglianza, inequità ed
esclusione in cui le nostre società sono oggi impantanate»7.
La proposta di costruire una società fraterna è quindi «un’alter-
nativa alle proposte neoliberale e neostatalista, entrambe guidate
dall’egoismo, dall’avidità, dal materialismo e dalla concorrenza sle-
ale». In questo modo «si formerà una nuova mentalità politica ed

5. Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale del rifugiato, 5 agosto


2013.
6. Id., Messaggio alla prof.ssa Margaret Archer…, cit.
7. Ivi.
«LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ»

economica che contribuirà a trasformare la dicotomia assoluta tra la


sfera economica e quella sociale in una sana convivenza»8.
L’invito del Papa a camminare in questa direzione ha le sue
radici nell’essenza dell’uomo, nella storia, nella cultura, ma fon-
damentalmente è la proposta del Vangelo, che Francesco ci ri-
corda, facendo proprie le parole del suo predecessore9: «“Cercate
anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose
vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33) è stata ed è tuttora un’e-
nergia nuova nella storia che tende a suscitare fraternità, libertà,
giustizia, pace e dignità per tutti. Nella misura in cui il Signore
riuscirà a regnare in noi e tra di noi, potremo partecipare della
vita divina e saremo l’uno all’altro «strumenti della sua grazia,
per effondere la misericordia di Dio e per tessere reti di carità e
157
fraternità»10.

Fraternità «dall’alto» o «dal basso»

Nel Martín Fierro, il poema epico argentino ed espressione


mitica nazionale, troviamo un insegnamento che è alla base di
questa proposta del Papa. Alla fine della seconda parte del poe-
ma, poco prima di accomiatarsi dai suoi figli, il gaucho Martín
Fierro canta: «Voglia Dio concedere / che questo Stato possa
migliorare; / ma nessuno dovrà dimenticare, / perché l’opera in-
trapresa abbia valore, / che la fiamma, se deve riscaldare, / deve
stare sempre sotto»11. Il fuoco, per riscaldare, deve sempre salire
dal basso. Le forme di fraternità imposte pretendono di partire
dall’alto e, come dimostra la storia, falliscono. Soltanto quelle
che nascono dal basso riescono a formare un popolo. Soltanto
quando viene riconosciuta un’autentica uguaglianza e un’auten-

8. Id., Discorso ai nuovi Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, 16 mag-


gio 2013.
9. Cfr Benedetto XVI, enciclica Caritas in veritate, n. 5.
10. Francesco, Messaggio alla prof.ssa Margaret Archer…, cit.
11. J. Hernández, Martín Fierro, Milano, La Civiltà Cattolica - Corriere del-
la Sera, 2014, 729-731.
SULLA FRATELLANZA UMANA

tica libertà, si può formare un popolo12 . E questo lo si ottiene


riconoscendosi fratelli.
Vorremmo terminare questa riflessione con la descrizione che
un altro scrittore argentino, Leopoldo Marechal, molto apprezzato
da papa Francesco, ha fatto della «città dei fratelli, Filadelfia»: «Fila-
delfia innalzerà le sue cupole e i suoi campanili sotto un cielo splen-
dente come il viso di un bambino. Come tra i fiori la rosa, come tra
gli uccellini il cardellino, come tra i metalli l’oro, così regnerà Fila-
delfia, città dei fratelli, fra le metropoli del mondo. Una moltitudine
pacifica e felice percorrerà le sue strade: il cieco vedrà la luce, chi
negò affermerà ciò che ha negato, l’esiliato calcherà il suolo natio, e
il dannato sarà infine redento. A Filadelfia i conducenti di omnibus
porgeranno la mano alle signore, aiuteranno i vecchi, e ai bambini
158
accarezzeranno le gote. Gli uomini non si calpesteranno fra loro,
non lasceranno aperta la porta dell’ascensore, non si ruberanno la
bottiglia del latte, non metteranno la radio a tutto volume. Gli agen-
ti di polizia diranno “Buongiorno, signore! Come sta, signore?”. E
non ci saranno investigatori né usurai, nessun ruffiano o prostituta,
niente banchieri, non un solo squartatore. Perché Filadelfia sarà la
città dei fratelli, e conoscerà i cammini del cielo e della terra, come
le colombe di rosea trozza che un giorno faranno il nido sui suoi
campanili svettanti, sui suoi aggraziati minareti»13.
Non si tratta di fare cose impossibili: si tratta piuttosto di fare
le cose di tutti i giorni con un cuore aperto, affinché questo cuore
diventi il ponte fra il cielo e la terra.
Infine, ci può essere di aiuto ricordare quello che predicava
sant’Agostino: «Ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per
amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correg-
gi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice
dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il
bene»14. Certo, se ami, puoi fare ciò che vuoi; l’unica cosa che non
puoi fare è non amare.

12. Cfr J. M. Bergoglio, «Prefazione» a J. Hernández, Martín Fierro, cit.,


V-XXX, in particolare IX-XIV.
13. L. Marechal, Adán Buenosayres, Firenze, Vallecchi, 2010, 342 s.
14. Agostino d’Ippona, s., Commento alla lettera di San Giovanni, Omelia 7,
8.
DOCUMENTI
DOCUMENTI

MESSAGGIO NATALIZIO DI PAPA PAOLO VI


SULLA FRATELLANZA FRA GLI UOMINI
22 dicembre 1964

La ricorrenza della festa, sempre cara e commovente, sempre tanto


umana e tanto sacra e misteriosa, del Natale, a cui subito fa seguito l’i-
nizio del nuovo anno civile, mette nel nostro animo, ancor più che sulle
nostre labbra, auguri, auguri copiosi, auguri stupendi, per voi tutti che
160
avete la bontà di ascoltare la nostra voce; per voi, figli e fratelli carissimi,
a cui una stessa fede e una medesima carità ci uniscono in una comune
letizia e ci rendono partecipi dell’onda immensa di sentimenti e di pen-
sieri che scaturisce dal mistero natalizio; per voi, uomini tutti, d’ogni età,
d’ogni paese, d’ogni opinione, ai quali, oggi, più che mai, sentiamo di
dovere la nostra stima, la nostra affezione e la nostra solidarietà.
Veramente il Natale fa a noi stessi sperimentare l’essenza della nostra
missione universale, ch’è quella di annunciare a tutti gli uomini la buo-
na novella; la buona novella che svela agli uomini la loro possibilità di
felicità, di pace, di salvezza; e perciò non mai come in questo giorno noi
ci sentiamo, ancor più che desiderosi, obbligati a rivolgere al mondo il
nostro messaggio augurale.
Quest’anno il nostro messaggio, il nostro augurio, è di fratel-
lanza. Di fratellanza, uomini che ci ascoltate; di fratellanza più vera,
più operante, più universale di quella che già unisce gli uomini fra
loro. Di fratellanza!
Noi abbiamo ancora nell’animo la vivissima impressione del
nostro recente viaggio a Bombay. Viaggio guidato da uno scopo
religioso, come si sa; ma esso ha assunto nello stesso tempo per noi
un incomparabile valore umano. Siamo andati forestieri e pellegrini
in un paese lontano e a noi sconosciuto; avremmo potuto rimanere
estranei ed isolati, e solo circondati dai nostri fratelli di fede. Ab-
biamo invece incontrato un popolo. Un popolo innumerevole; un

© La Civiltà Cattolica 1965 I 3-8 | 2749 (0000 1965)


MESSAGGIO DI PAPA PAOLO VI SULLA FRATELLANZA FRA GLI UOMINI

popolo festante e straripante; ci è parso che rappresentasse le ster-


minate genti dell’India immensa; e con esse quelle dell’Asia intera;
non cattolica, si sa, ma cortese, aperta, avida d’uno sguardo e d’una
parola dell’esotico visitatore romano, quale noi eravamo. Ebbene, vi
è stato un momento di comprensione, di fusione di spiriti. Che cosa
quelle folle esultanti abbiano visto in noi, non sappiamo. Noi ab-
biamo visto in esse un’umanità degnissima, connaturata con le sue
tradizioni culturali millenarie, non tutte cristiane, no, ma profon-
damente spirituali e sotto molti aspetti buone e gentili, antichissime
e giovani insieme, oggi sveglie e rivolte verso qualche cosa, che
lo stesso portentoso progresso moderno non può dare, forse può
impedire.
Un senso di profonda simpatia ci ha confermato allora ciò che il
161
cristianesimo dice da secoli, e che, l’evoluzione della civiltà va len-
tamente e gradualmente riconoscendo e proclamando: gli uomini
sono fratelli. I rapporti fra gli uomini diventano così facili e molte-
plici da doversi risolvere in amore. Le distanze sono così abbreviate
e quasi abolite, che l’amore deve diventare universale; la nozione di
prossimo, che già il Vangelo del Samaritano allargava oltre i confini
convenzionali, investe l’intera umanità: tutti sono nostro prossimo.
L’evidenza, da un lato, dei bisogni altrui si fa così palese e implo-
rante, e la possibilità di soccorrerli, dall’altro, cresce oggi in così
abbondanti proporzioni, che si fa luce lo scopo verso cui deve oggi
rivolgersi la costruzione della civiltà: organizzare la solidarietà fra
gli uomini, affinché nessuno manchi di pane e di dignità, e affinché
tutti abbiano come supremo interesse il bene comune. Il progresso
civile viene scoprendo come esigenza, come conquista, ciò che Cri-
sto, fattosi uomo come noi e nostro maestro, già ci aveva insegnato
dalle pagine, non mai pienamente comprese, non ancora universal-
mente applicate, del suo Vangelo: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8);
cioè uguali, cioè solidali, cioè obbligati a riconoscere in ciascuno
di voi riflessa l’immagine dello stesso Padre celeste, e a promuovere
scambievolmente il raggiungimento dei medesimi destini: la pie-
nezza umana e la figliolanza divina per la grazia, in questa vita, la
beatitudine eterna nella vita futura.
Oggi la fratellanza s’impone; l’amicizia è il principio di ogni
moderna convivenza umana. Invece di vedere nel nostro simile
DOCUMENTI

l’estraneo, il rivale, l’antipatico, l’avversario, il nemico, dobbiamo


abituarci a vedere l’uomo, che vuol dire un essere pari al nostro,
degno, di rispetto, di stima, di assistenza, di amore, come a noi stes-
si. Ritorna a risonare al nostro spirito la parola stupenda del santo
dottore africano: dilatentur spatia caritatis, che i confini dell’amore
si allarghino. Bisogna che cadano le barriere dell’egoismo; e che
l’affermazione di legittimi interessi particolari non sia mai offesa
per gli altri né mai negazione di ragionevole socialità. Bisogna che
la democrazia, a cui oggi si appella la convivenza umana, si apra ad
una concezione universale, che trascenda i limiti e gli ostacoli ad
un’effettiva fratellanza.
Noi sappiamo che queste concezioni hanno oggi larga risonanza
nel cuore dell’umanità; noi pensiamo che la gioventù specialmente
162
avverta che esse sono le verità dell’avvenire e hanno fondamento nel
processo irreversibile della civiltà; sono ideali, ma non sono utopi-
stiche; sono difficili, ma sono degne di studio e di azione. Noi siamo
per esse; noi siamo per la gioventù, che aspira a fare del mondo una
casa per tutti, non un sistema di trincee per una discordia implaca-
bile ed una lotta continua.
Ma sappiamo anche che queste belle concezioni sono facilmente
caduche. Albeggiano in date ore della storia, e subito si oscurano
per il sorgere di nubi contrarie. La via del vero progresso è faticosa
ed incerta. La resistenza umana nella ricerca dell’ottimo conosce
scoraggianti flessioni. L’uomo è instabile. La conquista della verità è
ardua. Il bene è difficile. L’odio è più facile dell’amore.
Per questo noi vorremmo mettere a disposizione del mondo l’i-
nesauribile e sempre attuale patrimonio di dottrina divina e umana
e di energia morale, proprio del cattolicesimo, per sostenere lo sfor-
zo degli uomini di buona volontà verso il benessere comune, verso
la pace universale, verso la fratellanza di tutti gli uomini. La nostra
offerta è sincera. La Chiesa sta meditandola nel Concilio Ecumeni-
co; la trae dal suo cuore pieno del nuovo amore, che Cristo ha ac-
ceso nel mondo; e la presenta in umile gesto amichevole alla libera
accettazione del mondo moderno, che non può rifiutarla se ama
veramente la propria salvezza.
Noi non ignoriamo gli ostacoli che continuamente si oppongo-
no alla fratellanza umana, e avvertiamo con dolore che adesso essi
MESSAGGIO DI PAPA PAOLO VI SULLA FRATELLANZA FRA GLI UOMINI

sono in una fase dialettica, che li pone in una più chiara evidenza, e
talora in una più pericolosa efficienza. Davanti all’incantevole soa-
vità del Natale non è possibile discorrere di questi ostacoli, che mo-
strano l’aspetto drammatico e pauroso della realtà storica contem-
poranea; ma non è tuttavia lecito tacerne la minacciosa presenza, in
un messaggio, come questo, di elementare sincerità.
Ci sia consentito di indicare fugacemente alcune forme concre-
te, fra le tante esistenti e possibili, nelle quali si manifesta l’opposi-
zione alla fratellanza fra gli uomini. Accenniamo appena, quasi per
esemplificare.
Primo: il nazionalismo, che divide i popoli opponendoli gli uni
agli altri, alzando fra loro barriere di contrastanti ideologie, di psi-
cologie chiuse, di interessi esclusivi, di ambizioni autarchiche, quan-
163
do non sia di avidi e prepotenti imperialismi. Questo nemico della
fratellanza umana oggi riprende vigore. Pareva superato, almeno
virtualmente, dopo la tragica esperienza dell’ultima guerra mon-
diale; esso risorge. Noi preghiamo governanti e popoli di vigilare,
di moderare questo facile istinto di prestigio e di emulazione; può
di nuovo essere fatale. Noi facciamo voti che sia da tutti sostenuta
ed onorata la funzione degli organismi sorti per unire le nazioni in
leale e reciproca collaborazione, per impedire le guerre e prevenire i
conflitti, per risolvere i contrasti con pazienti trattative e opportune
convenzioni, per far progredire la coscienza e l’espressione del dirit-
to internazionale, per dare insomma alla pace la sua stabile sicurezza
ed il suo dinamico equilibrio.
Altro ostacolo, rinascente anch’esso, il razzismo, che separa ed
oppone le differenti stirpi componenti la grande famiglia umana,
creando orgogli, diffidenze, esclusivismi, discriminazioni, e talora
oppressioni a danno del reciproco rispetto e della dovuta stima, che
devono fare delle diverse denominazioni etniche un pacifico con-
certo di popoli fratelli.
Così non possiamo non guardare con spavento un militarismo,
rivolto non già alla legittima difesa dei rispettivi paesi e al mante-
nimento della pace universale, ma teso piuttosto verso armamenti
sempre più potenti e micidiali, che impegnano colossali energie di
uomini e di mezzi, alimentano la psicologia di potenza e di guerra,
e inducono a fondare la pace sulla base infida e inumana del re-
DOCUMENTI

ciproco timore. Anche a questo riguardo osiamo augurare che le


guide dei popoli sappiano proseguire con cuore prudente e magna-
nimo sulla via del disarmo, e vogliamo generosamente prospettare
la devoluzione, anche se parziale e graduale, delle spese militari a
scopi umanitari, e non solo a vantaggio dei propri Stati, ma a bene-
ficio altresì dei paesi in via di sviluppo e in condizione di bisogno:
la fame e la miseria, la malattia e l’ignoranza implorano ancora soc-
corso; e noi non esitiamo a far nostro di nuovo, in questo giorno
di bontà e di fraternità, il gemito implorante delle folle, tutt’oggi
sterminate, di poveri e di sofferenti, bisognosi di sollecito e sostan-
ziale soccorso. Uomini buoni e generosi, che potete aiutare chi ha
fame, chi soffre, chi giace nella miseria e nell’abbandono, ascoltate
nella nostra voce quella divina ed umana di Cristo, nostro fratello
164
in ogni uomo indigente.
Potremmo dimenticare in questo triste elenco di ostacoli alla
fratellanza il classismo, ancora tanto aspro e forte nella società con-
temporanea; e lo spirito di partito e di fazione, che oppone ideolo-
gie, metodi, interessi, organizzazioni nell’intero tessuto stesso delle
varie comunità? Per un verso questi complessi e vastissimi fenomeni
sociali uniscono fra loro gli uomini aventi comuni interessi, ma,
per un altro verso, tanto spesso, scavano abissi incolmabili fra le
varie categorie umane, e fanno della loro opposizione sistematica
una ragione di vita, dando alla nostra società, estremamente evoluta
nella perfezione tecnica ed economica, il volto triste e amaro della
discordia e dell’odio. La società non è felice, perché non è fraterna.
Conosciamo le difficoltà enormi che sembrano rendere insolubili
i problemi della libera convivenza sociale. Ma quanto a noi non ci
stancheremo di predicare l’amore del prossimo, come basilare prin-
cipio d’una società veramente umana, e di sperare che la rettitudine
del pensiero e l’esperienza della storia portino a rivedere i principii,
da cui molte delle divisioni sociali traggono origine, e a cercare in
più umane e più vere formulazioni le norme della vita collettiva.
Anche per questa ricostruzione della società moderna secondo le
esigenze insopprimibili della pacifica convivenza, della mutua col-
laborazione tra le varie classi sociali e tra le diverse nazioni, e della
felicità del vivere insieme, il nostro antico Vangelo, aperto oggi alla
MESSAGGIO DI PAPA PAOLO VI SULLA FRATELLANZA FRA GLI UOMINI

pagina della pace in terra agli uomini di buona volontà, ha parole


nuove e vive da offrire alla fratellanza umana.
Ascoltando questo nuovo messaggio qualcuno forse si chiede-
rà: e la religione non è motivo di divisione fra gli uomini? la re-
ligione cattolica specialmente, cosi dogmatica, così esigente, così
qualificante, non impedisce una facile conversazione e una spon-
tanea intesa fra la gente? Oh, sì. La religione, quella cattolica non
meno d’ogni altra, è elemento di distinzione fra gli uomini, com’è
la lingua, la cultura, l’arte, la professione; ma non è per sé, elemento
di divisione. È vero che il cristianesimo, per la novità di vita che
porta nel mondo, può essere motivo di separazioni e di contrasti,
derivanti da ciò che di bene conferisce alla umanità; la luce splen-
de nelle tenebre; e diversifica così le zone dello spazio umano. Ma
165
non è suo genio lottare contro gli uomini; per gli uomini, se mai,
nella difesa di quanto è in essi sacro e insopprimibile: l’aspirazione
fondamentale a Dio, e il diritto di manifestarla all’esterno nelle for-
me dovute del culto. La Chiesa non può pertanto non esprimere
pubblicamente il suo rammarico quando tale incoercibile anelito
viene impedito, ostacolato, precluso; perfino punito dalla forza del
pubblico potere, che in questo caso pretende di invadere un campo,
che esula dalle sue competenze. A questo proposito, che esige ben
più ampia e ragionata risposta, noi possiamo in ogni modo ripetere
ciò che la Chiesa oggi va proclamando: la giusta e bene intesa li-
bertà religiosa; il divieto di trarre argomento dalle credenze altrui,
quando non siano contrarie al bene comune, per imporre una fede
non liberamente accettata, o per procedere a discriminazioni odiose
o a vessazioni indebite; il rispetto di quanto c’è di vero e di onesto in
ogni religione e in ogni umana opinione, nell’intento specialmente
di promuovere la concordia civile e la collaborazione in ogni sorta
di buone attività.
La verità rimane ferma, e la carità ne irradia il benefico splendo-
re. Questo è oggi più che mai il programma nostro, convinti come
siamo che il mondo ha bisogno di amore, ha bisogno di superare
in se stesso i vincoli dell’egoismo, ha bisogno di aprirsi a sincera,
progrediente, universale fratellanza.
DOCUMENTI

Ed è l’augurio che a voi facciamo, uomini retti e buoni che ci


ascoltate; e lo facciamo con gaudio e con speranza nel nome di colui
ch’è il «primogenito fra i molti fratelli» (Rom. 8,29), Cristo Signore!
In tale augurio, il nostro cuore si dilata in un universale ab-
braccio di paterna carità a tutti gli uomini, per la cui redenzione è
disceso in terra il Salvatore Divino. E, in particolare, ci rivolgiamo
ai nostri venerati Fratelli e figli dilettissimi, a quelli specialmente
per i quali la festività del Natale non può assumere espressione di
letizia e di serenità anche esterna, per le dolorose limitazioni a cui
sono tuttora soggetti. Ci rivolgiamo poi ai sacerdoti, ai religiosi,
alle religiose, in primo luogo ai dilettissimi missionari, di cui ben
conosciamo le ansie e le difficoltà.
Ci rivolgiamo ancora a tutte le famiglie cristiane, alla gioven-
166
tù generosa e promettente, all’innocenza dei bimbi, all’ardore de-
gli adolescenti. Comprendiamo nel nostro abbraccio i lavoratori e i
professionisti, con le loro logoranti e talora monotone attività quo-
tidiane; gli ammalati e i sofferenti, col loro bagaglio di pene, note
solo a Dio, che tutto comprende e rimunera; e, in particolarissimo
modo pensiamo ai poveri di tutto il mondo; le loro trepidazioni e i
loro sconforti suscitano eco di profondo dolore nel nostro animo.
Che il Nato Bambino porti ad essi la consolazione del suo amore e
la dolcezza di una rinnovata fiducia; e stimoli egli altresì tutti colo-
ro, che hanno possibilità e mezzi – in primo luogo gli uomini re-
sponsabili del pubblico bene – a unirsi in uno sforzo costruttivo, in
una concreta solidarietà, per venire incontro con mezzi nuovi, con
rimedi urgenti, con opportuni programmi alle immense necessità
dei poveri nel mondo, alle loro speranze, che non possono andare
oltre deluse.
Con questa pienezza di sentimenti noi rinnoviamo il nostro au-
gurio, ed effondiamo di gran cuore su tutti voi che ci ascoltate, e
su l’intera famiglia umana, la nostra confortatrice benedizione apo-
stolica, pegno e riflesso delle compiacenze del Divino Infante di
Bethlem.
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AI
PARTECIPANTI ALLA CONFERENZA
INTERNAZIONALE PER LA PACE
Al-Azhar Conference Centre
Il Cairo, 28 aprile 2017

Al Salamò Alaikum!
È un grande dono essere qui e iniziare in questo luogo la mia
visita in Egitto, rivolgendomi a voi nell’ambito di questa Conferenza
Internazionale per la Pace. Ringrazio il mio fratello, il Grande Imam
167
per averla ideata e organizzata e per avermi cortesemente invita-
to. Vorrei offrirvi alcuni pensieri, traendoli dalla gloriosa storia di
questa terra, che nei secoli è apparsa al mondo come terra di civiltà
e terra di alleanze.
Terra di civiltà. Fin dall’antichità, la civiltà sorta sulle rive del
Nilo è stata sinonimo di civilizzazione: in Egitto si è levata alta la
luce della conoscenza, facendo germogliare un patrimonio cultura-
le inestimabile, fatto di saggezza e ingegno, di acquisizioni mate-
matiche e astronomiche, di forme mirabili di architettura e di arte
figurativa. La ricerca del sapere e il valore dell’istruzione sono state
scelte feconde di sviluppo intraprese dagli antichi abitanti di questa
terra. Sono anche scelte necessarie per l’avvenire, scelte di pace e per
la pace, perché non vi sarà pace senza un’educazione adeguata delle
giovani generazioni. E non vi sarà un’educazione adeguata per i
giovani di oggi se la formazione loro offerta non sarà ben rispon-
dente alla natura dell’uomo, essere aperto e relazionale.
L’educazione diventa infatti sapienza di vita quando è capace
di estrarre dall’uomo, in contatto con Colui che lo trascende e con
quanto lo circonda, il meglio di sé, formando identità non ripiegate
su sé stesse. La sapienza ricerca l’altro, superando la tentazione di ir-
rigidirsi e di chiudersi; aperta e in movimento, umile e indagatrice
al tempo stesso, essa sa valorizzare il passato e metterlo in dialogo
con il presente, senza rinunciare a un’adeguata ermeneutica. Que-
DOCUMENTI

sta sapienza prepara un futuro in cui non si mira al prevalere della


propria parte, ma all’altro come parte integrante di sé; essa non si
stanca, nel presente, di individuare occasioni di incontro e di con-
divisione; dal passato impara che dal male scaturisce solo male e
dalla violenza solo violenza, in una spirale che finisce per imprigio-
nare. Questa sapienza, rifiutando la brama di prevaricazione, pone
al centro la dignità dell’uomo, prezioso agli occhi di Dio, e un’etica
che dell’uomo sia degna, rifiutando la paura dell’altro e il timore di
conoscere mediante quei mezzi di cui il Creatore l’ha dotato1.
Proprio nel campo del dialogo, specialmente interreligioso, sia-
mo sempre chiamati a camminare insieme, nella convinzione che
l’avvenire di tutti dipende anche dall’incontro tra le religioni e le
culture. In questo senso il lavoro del Comitato misto per il Dialogo tra
168
il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e il Comitato di Al-
Azhar per il Dialogo ci offre un esempio concreto e incoraggiante.
Tre orientamenti fondamentali, se ben coniugati, possono aiutare
il dialogo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità
delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un
dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere
l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, cultu-
ralmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico,
ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzio-
ne che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle
intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’u-
mano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di
verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare
la competizione in collaborazione.
Educare all’apertura rispettosa e al dialogo sincero con l’altro, ri-
conoscendone i diritti e le libertà fondamentali, specialmente quella
religiosa, costituisce la via migliore per edificare insieme il futuro,
per essere costruttori di civiltà. Perché l’unica alternativa alla civil-
tà dell’incontro è la inciviltà dello scontro, non ce n’è un’altra. E per
contrastare veramente la barbarie di chi soffia sull’odio e incita alla

1. «D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e


tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura,
ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero»: La nonviolenza: stile di una
politica per la pace, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2017, 5.
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO ALLA CONFERENZA DEL CAIRO

violenza, occorre accompagnare e far maturare generazioni che ri-


spondano alla logica incendiaria del male con la paziente crescita
del bene: giovani che, come alberi ben piantati, siano radicati nel
terreno della storia e, crescendo verso l’Alto e accanto agli altri, tra-
sformino ogni giorno l’aria inquinata dell’odio nell’ossigeno della
fraternità. In questa sfida di civiltà tanto urgente e appassionante
siamo chiamati, cristiani e musulmani, e tutti i credenti, a dare il
nostro contributo: «viviamo sotto il sole di un unico Dio misericor-
dioso. [...]
In questo senso possiamo dunque chiamarci gli uni gli altri fra-
telli e sorelle [...], perché senza Dio la vita dell’uomo sarebbe come
il cielo senza il sole»2. Si levi il sole di una rinnovata fraternità in
nome di Dio e sorga da questa terra, baciata dal sole, l’alba di una
169
civiltà della pace dell’incontro. Interceda per questo san Francesco di
Assisi, che otto secoli fa venne in Egitto e incontrò il Sultano Malik
al Kamil.
Terra di alleanze. In Egitto non è sorto solo il sole della sapien-
za; anche la luce policromatica delle religioni ha illuminato questa
terra: qui, lungo i secoli, «le differenze di religione hanno costituito
«una forma di arricchimento reciproco al servizio dell’unica comu-
nità nazionale»3. Fedi diverse si sono incontrate e varie culture si
sono mescolate, senza confondersi ma riconoscendo l’importanza di
allearsi per il bene comune. Alleanze di questo tipo sono quanto mai
urgenti oggi. Nel parlarne, vorrei utilizzare come simbolo il «Mon-
te dell’Alleanza» che si innalza in questa terra. Il Sinai ci ricorda
anzitutto che un’autentica alleanza sulla terra non può prescindere
dal Cielo, che l’umanità non può proporsi di incontrarsi in pace
escludendo Dio dall’orizzonte, e nemmeno può salire sul monte per
impadronirsi di Dio (cfr Es 19,12).
Si tratta di un messaggio attuale, di fronte all’odierno perdurare
di un pericoloso paradosso, per cui da una parte si tende a relegare
la religione nella sfera privata, senza riconoscerla come dimensione
costitutiva dell’essere umano e della società; dall’altra si confonde,

2. Giovanni Paolo II, Discorso alle autorità musulmane, Kaduna (Nigeria),


14 febbraio 1982.
3. Id., Discorso nella cerimonia di arrivo, Il Cairo, 24 febbraio 2000.
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senza opportunamente distinguere, la sfera religiosa e quella poli-


tica. Esiste il rischio che la religione venga assorbita dalla gestione
di affari temporali e tentata dalle lusinghe di poteri mondani che i
realtà la strumentalizzano. In un mondo che ha globalizzato molti
strumenti tecnici utili, ma al contempo tanta indifferenza e negli-
genze, e che corre a una velocità frenetica, difficilmente sostenibile,
si avverte la nostalgia delle grandi domande di senso, che le religio-
ni fanno affiorare e che suscitano la memoria delle proprie origini:
la vocazione dell’uomo, non fatto per esaurirsi nella precarietà degli
affari terreni, ma per incamminarsi verso l’Assoluto a cui tende. Per
queste ragioni, oggi specialmente, la religione non è un problema
ma è parte della soluzione: contro la tentazione di adagiarci in una
vita piatta, dove tutto nasce e finisce quaggiù, essa ci ricorda che è
170
necessario elevare l’animo verso l’Alto per imparare a costruire la
città degli uomini.
In questo senso, volgendo ancora idealmente lo sguardo al
Monte Sinai, vorrei riferirmi a quei comandamenti, là promulgati,
prima di essere scritti sulla pietra4. Al centro delle «dieci parole»
risuona, rivolto agli uomini e ai popoli di ogni tempo, il comando
«non uccidere» (Es 20,13). Dio, amante della vita, non cessa di ama-
re l’uomo e per questo lo esorta a contrastare la via della violenza,
quale presupposto fondamentale di ogni alleanza sulla terra. Ad at-
tuare questo imperativo sono chiamate, anzitutto e oggi in parti-
colare, le religioni perché, mentre ci troviamo nell’urgente bisogno
dell’Assoluto, è imprescindibile escludere qualsiasi assolutizzazione
che giustifichi forme di violenza. La violenza, infatti, è la negazione
di ogni autentica religiosità.
In quanto responsabili religiosi, siamo dunque chiamati a sma-
scherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva

4. «Furono inscritti nel cuore dell’uomo come Legge morale universale, va-
lida in ogni tempo e in ogni luogo». Essi offrono la «base autentica per la vita degli
individui, delle società e delle nazioni; [...] sono l’unico futuro della famiglia umana.
Salvano l’uomo dalla forza distruttiva dell’egoismo, dell’odio e della menzogna. Evi-
denziano tutte le false divinità che lo riducono in schiavitù: l’amore di sé fino all’e-
sclusione di Dio, l’avidità di potere e di piacere che sovverte l’ordine della giustizia
e degrada la nostra dignità umana e quella del nostro prossimo»: Id., Omelia nella
celebrazione della Parola al Monte Sinai, Monastero di Santa Caterina, 26 febbraio
2000.
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO ALLA CONFERENZA DEL CAIRO

sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura


all’Assoluto. Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la di-
gnità umana e contro i diritti umani, a portare alla luce i tentativi
di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a con-
dannarli come falsificazione idolatrica di Dio: il suo nome è Santo,
Egli è Dio di pace, Dio salam5. Perciò solo la pace è santa e nessuna
violenza può essere perpetrata in nome di Dio, perché profanerebbe
il suo Nome.
Insieme, da questa terra d’incontro tra Cielo e terra, di allean-
ze tra le genti e tra i credenti, ripetiamo un «no» forte e chiaro ad
ogni forma di violenza, vendetta e odio commessi in nome della
religione o in nome di Dio. Insieme affermiamo l’incompatibilità
tra violenza e fede, tra credere e odiare. Insieme dichiariamo la sa-
171
cralità di ogni vita umana contro qualsiasi forma di violenza fisica,
sociale, educativa o psicologica. La fede che non nasce da un cuore
sincero e da un amore autentico verso Dio Misericordioso è una
forma di adesione convenzionale o sociale che non libera l’uomo ma
lo schiaccia. Diciamo insieme: più si cresce nella fede in Dio più si
cresce nell’amore al prossimo.
Ma la religione non è certo solo chiamata a smascherare il male;
ha in sé la vocazione a promuovere la pace, oggi come probabil-
mente mai prima6. Senza cedere a sincretismi concilianti7, il nostro
compito è quello di pregare gli uni per gli altri domandando a Dio
il dono della pace, incontrarci, dialogare e promuovere la concordia
in spirito di collaborazione e amicizia.
Noi, come cristiani - e io sono cristiano - «non possiamo invo-
care Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di compor-
tarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad imma-
gine di Dio»8. Fratelli di tutti. Di più, riconosciamo che, immersi

5. Cfr Discorso nella Moschea Centrale di Koudoukou, Bangui (Repubblica


Centrafricana), 30 novembre 2015.
6. «Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il
legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene
della pace» (Giovanni Paolo II, Discorso ai Rappresentanti delle Chiese cristiane e Co-
munità ecclesiali e delle religioni mondiali, Assisi, 27 ottobre 1986: Insegnamenti IX, 2
(1986), 1268.
7. Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 251.
8. Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Nostra aetate, 5.
DOCUMENTI

in una costante lotta contro il male che minaccia il mondo perché


non sia più «il campo di una genuina fraternità», quanti «credono
alla carità divina, sono da Lui [Dio] resi certi che la strada della ca-
rità è aperta a tutti gli uomini e che gli sforzi intesi a realizzare la
fraternità universale non sono vani»9. Anzi, sono essenziali: a poco
o nulla serve infatti alzare la voce e correre a riarmarsi per proteg-
gersi: oggi c’è bisogno di costruttori di pace, non di armi; oggi
c’è bisogno di costruttori di pace, non di provocatori di conflitti;
di pompieri e non di incendiari; di predicatori di riconciliazione
e non di banditori di distruzione. Si assiste con sconcerto al fatto
che, mentre da una parte ci si allontana dalla realtà dei popoli, in
nome di obiettivi che non guardano in faccia a nessuno, dall’altra,
per reazione, insorgono populismi demagogici, che certo non aiu-
172
tano a consolidare la pace e la stabilità: nessun incitamento violento
garantirà la pace, ed ogni azione unilaterale che non avvii processi
costruttivi e condivisi è in realtà un regalo ai fautori dei radicali-
smi e della violenza. Per prevenire i conflitti ed edificare la pace è
fondamentale adoperarsi per rimuovere le situazioni di povertà e di
sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono, e
bloccare i flussi di denaro e di armi verso chi fomenta la violenza.
Ancora più alla radice, è necessario arrestare la proliferazione di
armi che, se vengono prodotte e commerciate, prima o poi verran-
no pure utilizzate. Solo rendendo trasparenti le torbide manovre
che alimentano il cancro della guerra se ne possono prevenire le
cause reali. A questo impegno urgente e gravoso sono tenuti i re-
sponsabili delle nazioni, delle istituzioni e dell’informazione, come
noi responsabili di civiltà, convocati da Dio, dalla storia e dall’avve-
nire ad avviare, ciascuno nel proprio campo, processi di pace, non
sottraendosi dal gettare solide basi di alleanza tra i popoli e gli Stati.
Auspico che questa nobile e cara terra d’Egitto, con l’aiuto di Dio,
possa rispondere ancora alla sua vocazione di civiltà e di alleanza,
contribuendo a sviluppare processi di pace per questo amato popolo
e per l’intera regione mediorientale.
Al Salamò Alaikum!
DISCORSO DEL GRANDE IMAM
AHMED AL-TAYYEB ALL’INCONTRO
INTERRELIGIOSO DI ABU DHABI
Founder’s Memorial, Abu Dhabi
4 febbraio 2019

Innanzitutto devo un ringraziamento ai dirigenti e al popolo


degli Emirati Arabi Uniti per avere ospitato questo storico even-
to che riunisce leader religiosi, studiosi, ecclesiastici, politici, intel-
lettuali, letterati e operatori dell’informazione. L’odierno incontro
173
internazionale, che si svolge nella buona terra di Abu Dhabi, in-
tende testimoniare davanti al mondo intero la proclamazione del
Documento sulla fratellanza umana e le sue richieste di diffondere
la cultura della pace e del rispetto per gli altri e per il benessere di
tutta l’umanità, vincendo la cultura dell’odio, dell’ingiustizia, della
violenza e del massacro. Esso chiama i capi del mondo, i dirigenti
politici, coloro che controllano il destino delle nazioni e le forze
militari ed economiche a intervenire immediatamente per arrestare
lo spargimento di sangue e la perdita di vite innocenti, per arresta-
re i conflitti e le contese, nonché porre immediatamente fine alle
guerre insensate che stanno degradando la nostra civiltà e alimen-
tano il focolaio di una terza guerra mondiale.
Appartengo a una generazione che si potrebbe definire «genera-
zione delle guerre», per tutta la paura, l’orrore e la sofferenza che ha
sopportato. Ricordo ancora ciò che la gente diceva alla fine della Se-
conda guerra mondiale sugli orrori di quel conflitto e la distruzione
e la devastazione che si era lasciato dietro. Nell’ottobre del 1956 ho
visto con i miei occhi il bombardamento dell’aeroporto della città di
Luxor, e ho sperimentato le notti passate nella totale oscurità, senza
chiudere occhio fino al mattino, e come ci rifugiavamo nelle grotte
per nasconderci al buio. A distanza di oltre sessant’anni la memoria
di quei tragici momenti è ben viva dentro di me. Dieci anni più
DOCUMENTI

tardi, nel 1967, la guerra tornò a infuriare, ancora più atroce delle
precedenti perché ne vivemmo per intero le drammatiche vicende.
Passammo i sei anni successivi nella cosiddetta economia di
guerra, e potemmo tirare un sospiro di sollievo soltanto quando
giunse la vittoria della Guerra di liberazione, che restituì la dignità
araba, ridandole l’orgoglio e la forza, ma anche la capacità di scon-
figgere l’ingiustizia e gli aggressori. In quei momenti pensammo di
esserci lasciati alle spalle l’epoca della guerra. Cominciava per noi
l’era della pace, della sicurezza e dell’operosità. Ma tutto cambiò an-
cora una volta quando ci trovammo ad affrontare un’altra esecrabile
guerra chiamata terrorismo, che ebbe inizio negli anni Novanta e
perdura tutt’oggi terrorizzando l’Oriente e l’Occidente.
Speravamo che il terzo millennio avrebbe posto fine alle ondate
174
di violenza e terrorismo e alla morte di uomini, donne e bambini
innocenti, ma le nostre speranze furono deluse per la terza volta
quando restammo sconvolti dall’attentato alle Torri gemelle di New
York, all’inizio del Ventunesimo secolo, che l’islam e i musulmani
hanno pagato a caro prezzo. Un miliardo e mezzo di musulmani
sono stati accusati del peccato commesso da un gruppetto di indi-
vidui. Quell’attacco è stato sfruttato al peggio, infatti i media in-
ternazionali ne hanno approfittato per descrivere l’islam come una
religione assetata di sangue e per ritrarre i musulmani come barbari
selvaggi che mettono a serio rischio le società civili e la stessa civil-
tà. I media hanno alimentato sentimenti di odio e di paura contro
l’islam e i musulmani nei cuori degli occidentali, inducendo in loro
una condizione di terrore non soltanto verso i terroristi ma anche
verso l’islam nel suo complesso.
Il Documento sulla fratellanza umana che oggi celebriamo da
questa buona terra è nato in un incontro generoso. Ero ospite del
mio caro fratello e amico papa Francesco a casa sua, quando uno
dei giovani presenti alla sua benedetta tavola lo ha suggerito. L’idea
è stata gradita e apprezzata da Sua Santità e io stesso l’ho sostenuta
con alcuni successivi colloqui dedicati alle condizioni del mondo,
alle tragedie che causano morti, poveri e bisognosi, alle disgrazie
che creano vedove, orfani, oppressi e che fanno fuggire dalle case,
dalla patria e dalle famiglie, e su ciò che le religioni divine possono
fare in soccorso di quelle sfortunate persone. Mi ha colpito che le
DISCORSO DEL GRANDE IMAM AL-TAYYEB AD ABU DHABI

preoccupazioni di Sua Santità e le mie fossero identiche e che cia-


scuno di noi avvertisse la santa responsabilità che Dio un giorno ci
chiederà conto di tutto questo. Il mio caro amico era compassione-
vole e afflitto per quelle tragedie umane; per tutte le persone, senza
distinzione, discriminazione o eccezione.
Il punto chiave che abbiamo condiviso è che le religioni divi-
ne sono innocenti riguardo ai movimenti e ai gruppi armati che
oggi vengono definiti terroristi, quali che ne siano la religione, l’i-
deologia, le vittime o i luoghi in cui praticano i loro abominevoli
crimini. Si tratta di assassini assetati di sangue che offendono Dio
e ne violano le leggi. Le autorità dell’Oriente e dell’Occidente de-
vono assumersi le responsabilità di rintracciare questi aggressori e
di affrontarli con forza, per proteggere dai loro crimini le vite delle
175
persone, le loro credenze e i luoghi di culto. Abbiamo anche con-
cordato sul fatto che tutte le religioni proibiscono lo spargimento
di sangue, e che Dio ha vietato l’assassinio in tutte le sue divine
rivelazioni: Mosè (la pace e la benedizione di Allah su di lui) lo ha
proclamato nei Dieci comandamenti sul monte Oreb, nel Sinai, di-
cendo: «Non uccidere, con commettere adulterio e non rubare». Poi
Gesù (la pace e la benedizione di Allah su di lui) ha detto la stessa
cosa su una montagna della Galilea, vicino a Cafarnao in Palestina:
«Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà uc-
ciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si
adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi
poi dice al fratello: “Stupido” sarà destinato al fuoco dell’inferno»
(Mt 5,21).
Venne Muhammad e, nel suo ultimo sermone dell’addio, an-
nunciò dal monte Arafat ciò che i suoi fratelli avrebbero a loro volta
annunciato dopo di lui, e aggiunse queste parole: «Popolo, ascol-
tate le mie parole, poiché io non so se mi sarà concesso di potervi
incontrare di nuovo. Fatene tesoro e portate queste parole a colo-
ro che oggi non sono presenti in questo luogo. Popolo, così come
custodite questo mese, questo giorno e questa città come sacri, allo
stesso modo guarderete la vita e la proprietà di ogni uomo come un
compito sacro. Ricordate che tra non molto incontrerete il vostro
Signore e che egli di certo vi chiederà ragione delle vostre azioni».
Disse anche: «Chiunque separi una madre da suo figlio, anche Allah
DOCUMENTI

lo separerà dai suoi cari nel Giorno della risurrezione». E ancora: «A


chi rivolgerà un’arma verso suo fratello, gli angeli attireranno una
maledizione su di lui, anche se è il suo vero fratello».
Questo tra decine di versetti del Corano che proibiscono di uc-
cidere e dichiarano che chiunque uccida un uomo, che non abbia
ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra,
sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato
uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità.
Come si vede, le parole divine sono univoche come lo è il loro
significato, e sono simili perfino i luoghi da cui le hanno pronun-
ciate quei venerabili profeti: il monte Sinai nel Sinai, una montagna
in Palestina e il monte Arafat presso Mecca, nella Penisola araba.
Da tutto ciò risulta chiaro come non sia vero che le religioni
176
sono causa e principale motivo di guerre. Lo dimostra quella stessa
storia che ha giustificato la rivoluzione della civiltà moderna contro
la religione e l’etica, escludendole dall’interferire nelle questioni del-
le società. Questa falsa pretesa si è sparsa come il fuoco tra la gente
e i giovani, soprattutto in Occidente. Da essa discende la diffusione
dell’ateismo, delle filosofie materialistiche, delle dottrine del caos e
dell’ostilità e della libertà senza limiti, e la scienza sperimentale ha
soppiantato la religione. Tuttavia, a più di tre secoli da quella rivolu-
zione contro Dio e le religioni divine, siamo giunti a una catastrofe
che è la tragedia dell’uomo contemporaneo, di cui soltanto un pre-
suntuoso potrebbe negare l’esistenza.
La verità che ci porta a respingere quella falsa affermazione è
che la prima ragione della crisi del mondo contemporaneo è pro-
prio l’assenza della coscienza umana e dell’etica religiosa, insieme
alle incontrollate tendenze materialistiche e atee, alle brame e alle
futili e sterili filosofie che hanno avvilito l’uomo e si sono fatte beffe
di Dio e dei suoi credenti. Allo stesso modo hanno disprezzato an-
che quegli elevati valori che sono l’unico mezzo per frenare l’essere
umano e domare il lupo che si porta dentro. Anche per le guerre
che sono state scatenate nel nome delle religioni e che hanno ucciso
sotto le loro bandiere non sono le religioni che vanno biasimate:
vanno piuttosto condannate le azioni sconsiderate di alcuni reli-
giosi, animati da motivi estranei alla fede che professavano, e di cui
hanno ignorato i principi. Sappiamo che certi religiosi interpretano
DISCORSO DEL GRANDE IMAM AL-TAYYEB AD ABU DHABI

i testi sacri in maniera distorta, ma non concorderemo mai sul fat-


to che la religione in sé, intesa in modo retto e sincero, possa mai
consentire che simili distorsioni vengano associate correttamente
a qualsiasi religione divina, né giustificare il tradimento delle loro
verità che impongono di comunicare la religione agli uomini così
come Dio l’ha rivelata.
Questa alterata comprensione dei testi religiosi non è limitata ai
libri sacri e al loro sfruttamento al servizio di scopi aggressivi, ma
spesso avviene nella sfera politica, per quanto riguarda i testi degli
accordi internazionali sul mantenimento della pace nel mondo. Essi
vengono letti in modo tale da giustificare guerre mosse contro Pa-
esi sicuri per distruggerli sopra la testa dei loro cittadini. Quando
vengono messe in atto simili politiche aggressive e avide, non c’è
177
scampo, perché chi le attua non si cura dei lutti, degli orfani e delle
vedove, affermando che si tratta soltanto di danni collaterali. Sono
esempi di cristallina chiarezza.
Noi in questo documento abbiamo esortato a «smettere di usare
il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrori-
smo e di oppressione». Abbiamo ricordato al mondo intero che Dio
non ha creato l’uomo per uccidere, torturare o imprigionare i pro-
pri simili. E Dio onnipotente non ha bisogno di coloro che incitano
alla morte o al terrore nel suo nome.
Sono certo che queste necessarie iniziative e attività finalizzate
all’attuazione della fraternità umana nella nostra regione daranno
frutto. Questo processo, grazie al cielo, è già iniziato, particolar-
mente in Egitto, dove qualche giorno fa sono state aperte nella nuo-
va capitale amministrativa una grande moschea e una cattedrale
vicine l’una all’altra, un passo storico per promuovere la tolleranza e
per consolidare la fratellanza tra le religioni. Questo progetto lun-
gimirante si deve al presidente della Repubblica araba dell’Egitto,
Abdel Fattah al-Sisi.
Voglio rivolgermi ora ai miei fratelli musulmani dell’Oriente,
chiedendovi di continuare ad accogliere dappertutto i vostri amici
cittadini cristiani. Sono nostri compagni nella patria, ma anche i
più intimi fratelli secondo il nostro Libro sacro. Il Corano spiega
questa amicizia dove Allah dice: «Perché tra loro ci sono uomi-
ni dediti allo studio e monaci che non hanno alcuna superbia» (Al
DOCUMENTI

Ma’idah 82). Il cuore dei cristiani, di tutti i cristiani, è pieno di


bontà, compassione e carità, ed è stato Dio a porre nei loro cuori
queste buone qualità. Il Santo Corano lo ricorda nel versetto di Al
Hadid: «Mandammo Gesù figlio di Maria, al quale demmo il Van-
gelo. Mettemmo nel cuore di coloro che lo seguirono dolcezza e
compassione» (Al Hadid 27).
Noi musulmani non dobbiamo dimenticare che la cristianità
ha accolto l’islam quando era una religione appena nata, e le ha ac-
cordato protezione nei confronti della tirannide dell’idolatria e del
politeismo, che cercava di assassinarla nella culla. Il Profeta (Pace
e Benedizione su di Lui) ordinò ad alcuni dei suoi compagni per-
seguitati: «Andate in Abissinia e troverete un re sotto la cui tutela
nessuno soffre ingiustizie». Quel re li accolse nel suo Stato cristiano,
178
li onorò e li protesse dai qurayshiti, sicché poterono poi fare ritorno
a Medina quando l’islam divenne più forte e meglio consolidato.
Un’altra parola ai miei amici cristiani in Oriente: voi fate parte
di questa nazione, ne siete cittadini. Non siete una «minoranza», e
spero che possiate liberarvi dalla consuetudine di impiegare questo
orribile termine. Siete cittadini con pieni diritti e doveri, e sapete
che la nostra unità è il solo baluardo che contrasta quelle trame che
non fanno differenza tra un cristiano e un musulmano.
Il mio messaggio ai cittadini musulmani in Occidente è di in-
tegrarvi positivamente nelle vostre comunità, in cui mantenete la
vostra identità religiosa e nel contempo rispettate le leggi di quelle
società e sapete che la sicurezza, in esse, è una responsabilità e un
compito religioso di cui Dio poi vi chiederà conto. Se una qualsiasi
legge violasse i vostri principi, ricorrete ai metodi legittimi che pos-
sono ripristinare i vostri diritti e proteggere la vostra libertà.
Vorrei anche dire ai giovani del mondo dell’Ovest e dell’Est: il
futuro vi sorride, e dovete munirvi di etica e di conoscenza. Dovete
fare di questo Documento una costituzione che riporta i principi
delle vostre vite, fatene il garante di un futuro libero dai conflitti e
dalle sofferenze. Fatene un patto per costruire il bene e distruggere
il male. Fatene la fine dell’odio e insegnate questo documento ai
vostri figli, perché esso prosegue la Carta di Medina e il Discorso
della montagna nel compito di custodire le caratteristiche comuni e
i principi morali dell’umanità. Lavorerò con il mio fratello Sua San-
DISCORSO DEL GRANDE IMAM AL-TAYYEB AD ABU DHABI

tità papa Francesco, per il resto delle nostre vite, utilizzando tutti i
simboli religiosi per proteggere le comunità e mantenere la stabilità.
Ora voglio elogiare l’Alleanza interconfessionale per comunità
più sicure che ha svolto un forum qui ad Abu Dhabi nel novembre
2018, con il supporto di Al-Azhar e del Vaticano, e a cui hanno
partecipato numerosi leader di varie confessioni per affermare la
comune responsabilità di proteggere la dignità dei bambini.
Desidero allargare i miei ringraziamenti a Sua Altezza Sheikh
Mohammed bin Zayed Al Nahyan, principe ereditario di Abu
Dhabi e vicecomandante supremo delle forze armate degli Emirati
Arabi Uniti, per il patrocinio che ha accordato a questa storica ini-
ziativa e per avere accolto questo Documento sulla fratellanza umana
che spero ristabilirà la pace tra le nazioni e risveglierà i sentimenti
179
di amore e di reciproco rispetto fra Est e Ovest, come pure tra Nord
e Sud.
Ringrazio inoltre Sua Altezza Abdullah bin Zayed bin Sultan
Al Nahyan, ministro degli Affari esteri e della cooperazione inter-
nazionale, e tutte le eminenti personalità che hanno organizzato e
diretto questo incontro in una maniera così onorevole.
Guidato dalle parole di Dio: «Non fare torto alle persone nelle
loro cose» ringrazio i due «militi ignoti» che si sono dedicati alla
preparazione del Documento sulla fratellanza umana, dal principio
fino alla sua presentazione qui, in questo evento mondiale. Si tratta
dei miei cari figli il giudice Mohamed Mahmoud Abdel Salam, ex
consigliere del Grande imam di al-Azhar, e monsignor Yoannis
Lahzi Gaid, segretario personale di Sua Santità papa Francesco.
Un grande ringraziamento a loro e a tutti coloro che hanno
contribuito al mirabile successo di questo incontro.
DOCUMENTI

DISCORSO DI PAPA FRANCESCO


ALL’INCONTRO INTERRELIGIOSO
DI ABU DHABI
Founder’s Memorial, Abu Dhabi
4 febbraio 2019

Al Salamò Alaikum! La pace sia con voi!


Ringrazio di cuore Sua Altezza lo Sceicco Mohammed bin
Rashid Al Maktoum e il Dottor Ahmad
Al-Tayyib, Grande Imam di Al-Azhar, per le loro parole. Sono
180
grato al Consiglio degli Anziani per l’incontro che abbiamo poc’an-
zi avuto, presso la Moschea dello Sceicco Zayed.
Saluto cordialmente anche il Signore Abd Al-Fattah Al-Sisi,
Presidente della Repubblica Araba d’Egitto, terra di Al-Azhar. Salu-
to cordialmente le Autorità civili e religiose e il Corpo diplomatico.
Permettetemi anche un grazie sincero per la calorosa accoglien-
za che tutti hanno riservato a me e alla nostra delegazione.
Ringrazio anche tutte le persone che hanno contribuito a ren-
dere possibile questo viaggio e che hanno lavorato con dedizione,
entusiasmo e professionalità per questo evento: gli organizzatori, il
personale del Protocollo, quello della Sicurezza e tutti coloro che in
diversi modi hanno dato il loro contributo «dietro le quinte». Un
grazie speciale al Sig. Mohamed Abdel Salam, già consigliere del
Grande Imam.
Dalla vostra patria mi rivolgo a tutti i Paesi di questa Penisola,
ai quali desidero indirizzare il mio più cordiale saluto, con amicizia
e stima.
Con animo riconoscente al Signore, nell’ottavo centenario
dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-
Kāmil, ho accolto l’opportunità di venire qui come credente asse-
tato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la
pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per
questo.
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AD ABU DHABI

Il logo di questo viaggio raffigura una colomba con un ramo-


scello di ulivo. È un’immagine che richiama il racconto del diluvio
primordiale, presente in diverse tradizioni religiose. Secondo il rac-
conto biblico, per preservare l’umanità dalla distruzione Dio chiede
a Noè di entrare nell’arca con la sua famiglia. Anche noi oggi, nel
nome di Dio, per salvaguardare la pace, abbiamo bisogno di entrare
insieme, come un’unica famiglia, in un’arca che possa solcare i mari
in tempesta del mondo: l’arca della fratellanza.
Il punto di partenza è riconoscere che Dio è all’origine dell’uni-
ca famiglia umana. Egli, che è il Creatore di tutto e di tutti, vuole
che viviamo da fratelli e sorelle, abitando la casa comune del creato
che Egli ci ha donato. Si fonda qui, alle radici della nostra comu-
ne umanità, la fratellanza, quale «vocazione contenuta nel disegno
181
creatore di Dio»1. Essa ci dice che tutti abbiamo uguale dignità e
che nessuno può essere padrone o schiavo degli altri.
Non si può onorare il Creatore senza custodire la sacralità di
ogni persona e di ogni vita umana: ciascuno è ugualmente prezio-
so agli occhi di Dio. Perché Egli non guarda alla famiglia umana
con uno sguardo di preferenza che esclude, ma con uno sguardo di
benevolenza che include.
Pertanto, riconoscere ad ogni essere umano gli stessi diritti è
glorificare il Nome di Dio sulla terra.
Nel nome di Dio Creatore, dunque, va senza esitazione condan-
nata ogni forma di violenza, perché è una grave profanazione del
Nome di Dio utilizzarlo per giustificare l’odio e la violenza contro
il fratello. Non esiste violenza che possa essere religiosamente giu-
stificata.
Nemico della fratellanza è l’individualismo, che si traduce nel-
la volontà di affermare sé stessi e il proprio gruppo sopra gli altri.
È un’insidia che minaccia tutti gli aspetti della vita, perfino la più
alta e innata prerogativa dell’uomo, ossia l’apertura al trascenden-
te e la religiosità. La vera religiosità consiste nell’amare Dio con
tutto il cuore e il prossimo come sé stessi. La condotta religiosa ha
dunque bisogno di essere continuamente purificata dalla ricorrente

1. Benedetto XVI, Discorso a nuovi Ambasciatori presso la Santa Sede, 16


dicembre 2010.
DOCUMENTI

tentazione di giudicare gli altri nemici e avversari. Ciascun credo


è chiamato a superare il divario tra amici e nemici, per assumere
la prospettiva del Cielo, che abbraccia gli uomini senza privilegi e
discriminazioni.
Desidero perciò esprimere apprezzamento per l’impegno di que-
sto Paese nel tollerare e garantire la libertà di culto, fronteggiando
l’estremismo e l’odio. Così facendo, mentre si promuove la libertà
fondamentale di professare il proprio credo, esigenza intrinseca alla
realizzazione stessa dell’uomo, si vigila anche perché la religione
non venga strumentalizzata e rischi, ammettendo violenza e terro-
rismo, di negare sé stessa.
La fratellanza certamente «esprime anche la molteplicità e la dif-
ferenza che esiste tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa
182
natura e la stessa dignità»2. La pluralità religiosa ne è espressione. In
tale contesto il giusto atteggiamento non è né l’uniformità forzata,
né il sincretismo conciliante: quel che siamo chiamati a fare, da cre-
denti, è impegnarci per la pari dignità di tutti, in nome del Miseri-
cordioso che ci ha creati e nel cui nome va cercata la composizione
dei contrasti e la fraternità nella diversità. Vorrei qui ribadire la con-
vinzione della Chiesa Cattolica: «Non possiamo invocare Dio come
Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli
verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio»3.
Vari interrogativi, tuttavia, si impongono: come custodirci a
vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una fratel-
lanza non teorica, che si traduca in autentica fraternità? Come far
prevalere l’inclusione dell’altro sull’esclusione in nome della propria
appartenenza? Come, insomma, le religioni possono essere canali
di fratellanza anziché barriere di separazione?

La famiglia umana e il coraggio dell’alterità

Se crediamo nell’esistenza della famiglia umana, ne consegue


che essa, in quanto tale, va custodita. Come in ogni famiglia, ciò

2. Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio


2015, 2.
3. Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane
Nostra aetate, 5.
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AD ABU DHABI

avviene anzitutto mediante un dialogo quotidiano ed effettivo.


Esso presuppone la propria identità, cui non bisogna abdicare per
compiacere l’altro. Ma al tempo stesso domanda il coraggio dell’al-
terità4, che comporta il riconoscimento pieno dell’altro e della sua
libertà, e il conseguente impegno a spendermi perché i suoi diritti
fondamentali siano affermati sempre, ovunque e da chiunque. Per-
ché senza libertà non si è più figli della famiglia umana, ma schiavi.
Tra le libertà vorrei sottolineare quella religiosa. Essa non si limita
alla sola libertà di culto, ma vede nell’altro veramente un fratello, un
figlio della mia stessa umanità che Dio lascia libero e che pertanto
nessuna istituzione umana può forzare, nemmeno in nome suo.

Il dialogo e la preghiera 183

Il coraggio dell’alterità è l’anima del dialogo, che si basa sulla sin-


cerità delle intenzioni. Il dialogo è infatti compromesso dalla fin-
zione, che accresce la distanza e il sospetto: non si può proclamare
la fratellanza e poi agire in senso opposto. Secondo uno scrittore
moderno, «chi mente a sé stesso e ascolta le proprie menzogne, ar-
riva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé,
né intorno a sé, e così comincia a non avere più stima né di se stesso,
né degli altri»5.
In tutto ciò la preghiera è imprescindibile: essa, mentre incarna
il coraggio dell’alterità nei riguardi di Dio, nella sincerità dell’in-
tenzione, purifica il cuore dal ripiegamento su di sé. La preghiera
fatta col cuore è ricostituente di fraternità. Perciò, «quanto al futuro
del dialogo interreligioso, la prima cosa che dobbiamo fare è pre-
gare. E pregare gli uni per gli altri: siamo fratelli! Senza il Signore,
nulla è possibile; con Lui, tutto lo diventa! Possa la nostra preghiera
– ognuno secondo la propria tradizione – aderire pienamente alla
volontà di Dio, il quale desidera che tutti gli uomini si riconosca-
no fratelli e vivano come tali, formando la grande famiglia umana
nell’armonia delle diversità»6.

4. Cfr Discorso ai partecipanti alla Conferenza Internazionale per la Pace, Al-


Azhar Conference Centre, Il Cairo, 28 aprile 2017.
5. F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, II, 2, Milano 2012, 60.
6. Udienza Generale interreligiosa, 28 ottobre 2015.
DOCUMENTI

Non c’è alternativa: o costruiremo insieme l’avvenire o non ci


sarà futuro. Le religioni, in particolare, non possono rinunciare al
compito urgente di costruire ponti fra i popoli e le culture. È giunto
il tempo in cui le religioni si spendano più attivamente, con corag-
gio e audacia, senza infingimenti, per aiutare la famiglia umana a
maturare la capacità di riconciliazione, la visione di speranza e gli
itinerari concreti di pace.

L’educazione e la giustizia

Torniamo così all’immagine iniziale della colomba della pace.


Anche la pace, per spiccare il volo, ha bisogno di ali che la sosten-
gano. Le ali dell’educazione e della giustizia.
184
L’educazione – in latino indica l’estrarre, il tirare fuori – è porta-
re alla luce le risorse preziose dell’animo. È confortante constatare
come in questo Paese non si investa solo sull’estrazione delle risorse
della terra, ma anche su quelle del cuore, sull’educazione dei gio-
vani. È un impegno che mi auguro prosegua e si diffonda altrove.
Anche l’educazione avviene nella relazione, nella reciprocità. Alla
celebre massima antica «conosci te stesso» dobbiamo affiancare «co-
nosci il fratello»: la sua storia, la sua cultura e la sua fede, perché non
c’è conoscenza vera di sé senza l’altro. Da uomini, e ancor più da
fratelli, ricordiamoci a vicenda che niente di ciò che è umano ci
può rimanere estraneo7. È importante per l’avvenire formare iden-
tità aperte, capaci di vincere la tentazione di ripiegarsi su di sé e
irrigidirsi.
Investire sulla cultura favorisce una decrescita dell’odio e una
crescita della civiltà e della prosperità. Educazione e violenza sono
inversamente proporzionali. Gli istituti cattolici – ben apprezzati
anche in questo Paese e nella regione – promuovono tale educazio-
ne alla pace e alla conoscenza reciproca per prevenire la violenza.
I giovani, spesso circondati da messaggi negativi e fake news,
hanno bisogno di imparare a non cedere alle seduzioni del mate-
rialismo, dell’odio e dei pregiudizi; imparare a reagire all’ingiustizia
e anche alle dolorose esperienze del passato; imparare a difendere
i diritti degli altri con lo stesso vigore con cui difendono i propri
diritti. Saranno essi, un giorno, a giudicarci: bene, se avremo dato
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AD ABU DHABI

loro basi solide per creare nuovi incontri di civiltà; male, se avre-
mo lasciato loro solo dei miraggi e la desolata prospettiva di nefasti
scontri di inciviltà.
La giustizia è la seconda ala della pace, la quale spesso non è
compromessa da singoli episodi, ma è lentamente divorata dal can-
cro dell’ingiustizia.
Non si può, dunque, credere in Dio e non cercare di vivere la
giustizia con tutti, secondo la regola d’oro: «Tutto quanto volete che
gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la
Legge ed i Profeti» (Mt 7,12).
Pace e giustizia sono inseparabili! Il profeta Isaia dice: «Praticare
la giustizia darà pace» (32,17). La pace muore quando divorzia dalla
giustizia, ma la giustizia risulta falsa se non è universale. Una giu-
185
stizia indirizzata solo ai familiari, ai compatrioti, ai credenti della
stessa fede è una giustizia zoppicante, è un’ingiustizia mascherata!
Le religioni hanno anche il compito di ricordare che l’avidità
del profitto rende il cuore inerte e che le leggi dell’attuale mercato,
esigendo tutto e subito, non aiutano l’incontro, il dialogo, la fami-
glia, dimensioni essenziali della vita che necessitano di tempo e pa-
zienza. Le religioni siano voce degli ultimi, che non sono statistiche
ma fratelli, e stiano dalla parte dei poveri; veglino come sentinelle
di fraternità nella notte dei conflitti, siano richiami vigili perché
l’umanità non chiuda gli occhi di fronte alle ingiustizie e non si
rassegni mai ai troppi drammi del mondo.

Il deserto che fiorisce

Dopo aver parlato della fratellanza come arca di pace, vorrei ora
inspirarmi a una seconda immagine, quella del deserto, che ci av-
volge.
Qui, in pochi anni, con lungimiranza e saggezza, il deserto è
stato trasformato in un luogo prospero e ospitale; il deserto è diven-
tato, da ostacolo impervio e inaccessibile, luogo di incontro tra cul-
ture e religioni. Qui il deserto è fiorito, non solo per alcuni giorni
all’anno, ma per molti anni a venire. Questo Paese, nel quale sabbia
e grattacieli si incontrano, continua a essere un importante crocevia
tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del pianeta, un luogo di
DOCUMENTI

sviluppo, dove spazi un tempo inospitali riservano posti di lavoro a


persone di varie nazioni.
Anche lo sviluppo, tuttavia, ha i suoi avversari. E se nemico della
fratellanza era l’individualismo, vorrei additare quale ostacolo allo
sviluppo l’indifferenza, che finisce per convertire le realtà fiorenti
in lande deserte. Infatti, uno sviluppo puramente utilitaristico non
dà progresso reale e duraturo. Solo uno sviluppo integrale e coeso
dispone un futuro degno dell’uomo. L’indifferenza impedisce di ve-
dere la comunità umana oltre i guadagni e il fratello al di là del la-
voro che svolge. L’indifferenza, infatti, non guarda al domani; non
bada al futuro del creato, non ha cura della dignità del forestiero e
dell’avvenire dei bambini.
In questo contesto mi rallegro che proprio qui ad Abu Dhabi,
186
nel novembre scorso, abbia avuto luogo il primo Forum dell’Allean­
za interreligiosa per Comunità più sicure, sul tema della dignità del
bambino nell’era digitale. Questo evento ha raccolto il messaggio
lanciato, un anno prima, a Roma nel Congresso internazionale sul-
lo stesso tema, a cui avevo dato tutto il mio appoggio ed incorag-
giamento. Ringrazio quindi tutti i leader che si impegnano in que-
sto campo e assicuro il sostegno, la solidarietà e la partecipazione
mia e della Chiesa Cattolica a questa causa importantissima della
protezione dei minori in tutte le sue espressioni.
Qui, nel deserto, si è aperta una via di sviluppo feconda che, a
partire dal lavoro, offre speranze a molte persone di vari popoli,
culture e credo. Tra loro, anche molti cristiani, la cui presenza nella
regione risale addietro nei secoli, hanno trovato opportunità e por-
tato un contributo significativo alla crescita e al benessere del Paese.
Oltre alle capacità professionali, vi recano la genuinità della loro
fede. Il rispetto e la tolleranza che incontrano, così come i necessari
luoghi di culto dove pregano, permettono loro quella maturazio-
ne spirituale che va poi a beneficio dell’intera società. Incoraggio
a proseguire su questa strada, affinché quanti qui vivono o sono di
passaggio conservino non solo l’immagine delle grandi opere in-
nalzate nel deserto, ma di una nazione che include e abbraccia tutti.
È con questo spirito che, non solo qui, ma in tutta l’amata e
nevralgica regione mediorientale, auspico opportunità concrete di
incontro: società dove persone di diverse religioni abbiano il me-
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AD ABU DHABI

desimo diritto di cittadinanza e dove alla sola violenza, in ogni sua


forma, sia tolto tale diritto.
Una convivenza fraterna, fondata sull’educazione e sulla giusti-
zia; uno sviluppo umano, edificato sull’inclusione accogliente e sui
diritti di tutti: questi sono semi di pace, che le religioni sono chia-
mate a far germogliare. Ad esse, forse come mai in passato, spetta,
in questo delicato frangente storico, un compito non più rimanda-
bile: contribuire attivamente a smilitarizzare il cuore dell’uomo. La
corsa agli armamenti, l’estensione delle proprie zone di influenza, le
politiche aggressive a discapito degli altri non porteranno mai sta-
bilità. La guerra non sa creare altro che miseria, le armi nient’altro
che morte!
La fratellanza umana esige da noi, rappresentanti delle religioni,
187
il dovere di bandire ogni sfumatura di approvazione dalla parola
guerra. Restituiamola alla sua miserevole crudezza. Sotto i nostri
occhi sono le sue nefaste conseguenze. Penso in particolare allo Ye-
men, alla Siria, all’Iraq e alla Libia. Insieme, fratelli nell’unica fa-
miglia umana voluta da Dio, impegniamoci contro la logica della
potenza armata, contro la monetizzazione delle relazioni, l’arma-
mento dei confini, l’innalzamento di muri, l’imbavagliamento dei
poveri; a tutto questo opponiamo la forza dolce della preghiera e
l’impegno quotidiano nel dialogo. Il nostro essere insieme oggi sia
un messaggio di fiducia, un incoraggiamento a tutti gli uomini di
buona volontà, perché non si arrendano ai diluvi della violenza e
alla desertificazione dell’altruismo. Dio sta con l’uomo che cerca la
pace. E dal cielo benedice ogni passo che, su questa strada, si compie
sulla terra.
DOCUMENTI

DOCUMENTO SULLA «FRATELLANZA


UMANA PER LA PACE MONDIALE
E LA CONVIVENZA COMUNE»
Founder’s Memorial, Abu Dhabi
4 febbraio 2019

Prefazione

La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da so-


stenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le
188
creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –,
il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salva-
guardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona,
specialmente le più bisognose e povere.
Partendo da questo valore trascendente, in diversi incontri do-
minati da un’atmosfera di fratellanza e amicizia, abbiamo condiviso
le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al li-
vello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeuti-
che, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello
della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle
in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle
ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del de-
grado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremi-
smo e di tanti altri motivi.
Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e
dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli
esseri umani, è nata l’idea di questo «Documento sulla Fratellanza
Umana». Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere
una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare
tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella
fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi
una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco

© La Civiltà Cattolica 2019 I 391-399 | 4048 (16 feb/2 mar 2019)


«FRATELLANZA UMANA PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE»

rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende


tutti gli esseri umani fratelli.

Documento

In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei
diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come
fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori
del bene, della carità e della pace.
In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di
uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se
avesse ucciso tutta l’umanità, e chiunque ne salva una è come se
avesse salvato l’umanità intera.
189
In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati
che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a
tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e be-
nestante.
In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati
dalle loro dimore e dai loro Paesi; di tutte le vittime delle guerre,
delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono
nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte
del mondo, senza distinzione alcuna.
In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la co-
mune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine
e delle guerre.
In nome della «fratellanza umana» che abbraccia tutti gli uomi-
ni, li unisce e li rende uguali.
In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integrali-
smo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze
ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uo-
mini.
In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani,
creandoli liberi e distinguendoli con essa.
In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della
prosperità e cardini della fede.
In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni
angolo della terra.
DOCUMENTI

In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i


musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattoli-
ca – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adotta-
re la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come
condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.
Noi – credenti in Dio, nell’incontro finale con Lui e nel Suo
Giudizio –, partendo dalla nostra responsabilità religiosa e morale,
e attraverso questo Documento, chiediamo a noi stessi e ai Leader
del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia
mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della
tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto pri-
ma possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente; e di
porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino
190
culturale e morale che il mondo attualmente vive.
Ci rivolgiamo agli intellettuali, ai filosofi, agli uomini di reli-
gione, agli artisti, agli operatori dei media e agli uomini di cultura
in ogni parte del mondo, affinché riscoprano i valori della pace,
della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e
della convivenza comune, per confermare l’importanza di tali valo-
ri come àncora di salvezza per tutti e cercare di diffonderli ovunque.
Questa Dichiarazione, partendo da una riflessione profonda sul-
la nostra realtà contemporanea, apprezzando i suoi successi e viven-
do i suoi dolori, le sue sciagure e calamità, crede fermamente che
tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano
una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori
religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie
materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani
e materiali al posto dei princìpi supremi e trascendenti.
Noi, pur riconoscendo i passi positivi che la nostra civiltà mo-
derna ha compiuto nei campi della scienza, della tecnologia, della
medicina, dell’industria e del benessere, in particolare nei Paesi svi-
luppati, sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e
apprezzati, si verificano un deterioramento dell’etica, che condizio-
na l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e
del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una
sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazio-
ne, conducendo molti a cadere o nel vortice dell’estremismo ateo e
«FRATELLANZA UMANA PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE»

agnostico, oppure nell’integralismo religioso, nell’estremismo e nel


fondamentalismo cieco, portando così altre persone ad arrendersi a
forme di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva.
La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intol-
leranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente,
quelli che potrebbero essere chiamati i segnali di una «terza guerra
mondiale a pezzi», segnali che, in varie parti del mondo e in diverse
condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crude-
le; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime,
vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si
preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai
di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione
mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del
191
futuro e controllata dagli interessi economici miopi.
Affermiamo altresì che le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la
mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle
quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della mag-
gioranza dei popoli della terra – hanno generato, e continuano a
farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando
crisi letali di cui sono vittime diversi Paesi, nonostante le ricchezze
naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano.
Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di
bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e
della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile.
È evidente a questo proposito quanto sia essenziale la famiglia,
quale nucleo fondamentale della società e dell’umanità, per dare alla
luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale e la
protezione familiare. Attaccare l’istituzione familiare, disprezzan-
dola o dubitando dell’importanza del suo ruolo, rappresenta uno dei
mali più pericolosi della nostra epoca.
Attestiamo anche l’importanza del risveglio del senso religioso
e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni,
tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti in-
segnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche,
egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte
le sue forme e manifestazioni.
DOCUMENTI

Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di


credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere
che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creato-
re che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il
dono della vita per custodirlo. Un dono che nessuno ha il diritto di
togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento, anzi, tutti de-
vono preservare tale dono della vita dal suo inizio fino alla sua mor-
te naturale. Perciò condanniamo tutte le pratiche che minacciano
la vita come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati,
il traffico di organi umani, l’aborto e l’eutanasia e le politiche che
sostengono tutto questo.
Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non inci-
tano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità,
192
estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue.
Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti
religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpreta-
zioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in al-
cune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui
cuori degli uomini per portarli a compiere ciò che non ha nulla a
che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici
ed economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti
di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla
violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco, e di smettere di usare
il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terro-
rismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in
Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi
tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e
nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di
essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato
per terrorizzare la gente.
Questo Documento, in accordo con i precedenti Documenti In-
ternazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle re-
ligioni nella costruzione della pace mondiale, attesta quanto segue:
– La forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni
invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori
della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convi-
venza comune; a ristabilire la saggezza, la giustizia e la carità e a ri-
«FRATELLANZA UMANA PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE»

svegliare il senso della religiosità tra i giovani, per difendere le nuo-


ve generazioni dal dominio del pensiero materialistico, dal pericolo
delle politiche dell’avidità del guadagno smodato e dell’indifferenza,
basate sulla legge della forza e non sulla forza della legge.
– La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della li-
bertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e
le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono
una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri
umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto
alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si con-
danna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione
o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che
gli altri non accettano.
193
– La giustizia basata sulla misericordia è la via da percorrere
per raggiungere una vita dignitosa alla quale ha diritto ogni essere
umano.
– Il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della
tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esse-
ri umani contribuirebbero notevolmente a ridurre molti problemi
economici, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte
del genere umano.
– Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spa-
zio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella
diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni; si-
gnifica anche evitare le inutili discussioni.
– La protezione dei luoghi di culto – templi, chiese e moschee
– è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leg-
gi e dalle convenzioni internazionali. Ogni tentativo di attaccare i
luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o
demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni,
nonché una chiara violazione del diritto internazionale.
– Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle perso-
ne, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo
panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche
se i terroristi la strumentalizzano –, ma è dovuto alle accumulate
interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di
povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è
DOCUMENTI

necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attra-


verso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e
anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini
internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Oc-
corre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e mani-
festazioni.
– Il concetto di cittadinanza si basa sull’uguaglianza dei diritti
e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per
questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il
concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminato-
rio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati
e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia
e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini
194
discriminandoli.
– Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile recipro-
ca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, af-
finché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro,
attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potreb-
be trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie
spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’O-
riente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi
che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal
conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante
prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che
sono una componente essenziale nella formazione della personalità,
della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare
i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una
vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evi-
tando l’uso della politica della doppia misura.
– È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna
all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inol-
tre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali
contrarie ai princìpi della propria fede e della propria dignità. È
necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trat-
tarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico.
Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i
costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per
«FRATELLANZA UMANA PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE»

modificare le leggi che impediscono alle donne di godere piena-


mente dei propri diritti.
– La tutela dei diritti fondamentali dei bambini a crescere in un
ambiente familiare, all’alimentazione, all’educazione e all’assistenza
è un dovere della famiglia e della società. Tali diritti devono essere
garantiti e tutelati, affinché non manchino e non vengano negati a
nessun bambino in nessuna parte del mondo. Occorre condannare
qualsiasi pratica che violi la dignità dei bambini o i loro diritti. È
altresì importante vigilare contro i pericoli a cui essi sono esposti
– specialmente nell’ambiente digitale – e considerare come crimi-
ne il traffico della loro innocenza e qualsiasi violazione della loro
infanzia.
– La protezione dei diritti degli anziani, dei deboli, dei disabili e
195
degli oppressi è un’esigenza religiosa e sociale che dev’essere garan-
tita attraverso rigorose legislazioni e l’applicazione delle convenzio-
ni internazionali a riguardo.
A tal fine, la Chiesa Cattolica e al-Azhar, attraverso la comune
cooperazione, annunciano e promettono di portare questo Docu-
mento alle Autorità, ai Leader influenti, agli uomini di religione
di tutto il mondo, alle organizzazioni regionali e internazionali
competenti, alle organizzazioni della società civile, alle istituzioni
religiose e ai leader del pensiero; e di impegnarsi nel diffondere i
princìpi di questa Dichiarazione a tutti i livelli regionali e interna-
zionali, sollecitando a tradurli in politiche, decisioni, testi legislativi,
programmi di studio e materiali di comunicazione.
Al-Azhar e la Chiesa Cattolica domandano che questo Docu-
mento divenga oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole,
nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, al fine
di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la
pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi.
In conclusione auspichiamo che:
questa Dichiarazione sia un invito alla riconciliazione e alla fra-
tellanza tra tutti i credenti, anzi tra i credenti e i non credenti, e tra
tutte le persone di buona volontà;
sia un appello a ogni coscienza viva che ripudia la violenza aber-
rante e l’estremismo cieco; appello a chi ama i valori di tolleranza e
di fratellanza, promossi e incoraggiati dalle religioni;
DOCUMENTI

sia una testimonianza della grandezza della fede in Dio che uni-
sce i cuori divisi ed eleva l’animo umano;
sia un simbolo dell’abbraccio tra Oriente e Occidente, tra Nord
e Sud e tra tutti coloro che credono che Dio ci abbia creati per co-
noscerci, per cooperare tra di noi e per vivere come fratelli che si
amano.
Questo è ciò che speriamo e cerchiamo di realizzare, al fine di
raggiungere una pace universale di cui godano tutti gli uomini in
questa vita.

Abu Dhabi, 4 febbraio 2019

Sua Santità Papa Francesco


196
Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AL POPOLO
E ALLE AUTORITÀ DEL MAROCCO
Esplanade de la Tour Hassan, Rabat
30 marzo 2019

Maestà,
Altezze Reali,
distinte Autorità del Regno del Marocco,
Membri del Corpo diplomatico,
197
cari amici Marocchini,
As-Salam Alaikum!
Sono felice di calcare il suolo di questo Paese, ricco di molte
bellezze naturali, custode di vestigia di antiche civiltà e testimone
di una storia affascinante. Desidero anzitutto esprimere la mia sin-
cera e cordiale gratitudine a Sua Maestà Mohammed VI per il suo
gentile invito e per la calorosa accoglienza che, a nome di tutto il
popolo marocchino, mi ha pocanzi riservato, in particolare per le
cortesi parole che mi ha rivolto.
Questa visita è per me motivo di gioia e gratitudine perché mi
consente anzitutto di scoprire le ricchezze della vostra terra, del vo-
stro popolo e delle vostre tradizioni. Gratitudine che si trasforma
in importante opportunità per promuovere il dialogo interreligio-
so e la conoscenza reciproca tra i fedeli delle nostre due religioni,
mentre facciamo memoria – ottocento anni dopo – dello storico
incontro tra San Francesco d’Assisi e il Sultano al-Malik al-Kamil.
Quell’evento profetico dimostra che il coraggio dell’incontro e del-
la mano tesa sono una via di pace e di armonia per l’umanità, là
dove l’estremismo e l’odio sono fattori di divisione e di distruzione.
Inoltre, auspico che la stima, il rispetto e la collaborazione tra di noi
contribuiscano ad approfondire i nostri legami di amicizia sincera,
per consentire alle nostre comunità di preparare un futuro migliore
alle nuove generazioni.
DOCUMENTI

Qui su questa terra, ponte naturale tra l’Africa e l’Europa, deside-


ro ribadire la necessità di unire i nostri sforzi per dare un nuovo im-
pulso alla costruzione di un mondo più solidale, più impegnato nello
sforzo onesto, coraggioso e indispensabile di un dialogo rispettoso
delle ricchezze e delle specificità di ogni popolo e di ogni persona.
Questa è una sfida che tutti siamo chiamati a raccogliere, soprattutto
in questo tempo in cui si rischia di fare delle differenze e del misco-
noscimento reciproco dei motivi di rivalità e disgregazione.
È quindi essenziale, per partecipare all’edificazione di una socie-
tà aperta, plurale e solidale, sviluppare e assumere costantemente e
senza cedimenti la cultura del dialogo come strada da percorrere; la
collaborazione come condotta; la conoscenza reciproca come me-
todo e criterio (cfr Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi,
198
4 febbraio 2019). È questa via che siamo chiamati a seguire senza
mai stancarci, per aiutarci a superare insieme le tensioni e le incom-
prensioni, le maschere e gli stereotipi che portano sempre alla paura
e alla contrapposizione; e così aprire la strada a uno spirito di col-
laborazione proficua e rispettosa. È infatti indispensabile opporre
al fanatismo e al fondamentalismo la solidarietà di tutti i credenti,
avendo come riferimenti inestimabili del nostro agire i valori che ci
sono comuni. In questa prospettiva, sono lieto di poter visitare tra
poco l’Istituto Mohammed VI per imam, predicatori e predicatri-
ci, voluto da Vostra Maestà, allo scopo di fornire una formazione
adeguata e sana contro tutte le forme di estremismo, che portano
spesso alla violenza e al terrorismo e che, in ogni caso, costituisco-
no un’offesa alla religione e a Dio stesso. Sappiamo infatti quanto
sia necessaria una preparazione appropriata delle future guide reli-
giose, se vogliamo ravvivare il vero senso religioso nei cuori delle
nuove generazioni.
Pertanto, un dialogo autentico ci invita a non sottovalutare l’im-
portanza del fattore religioso per costruire ponti tra gli uomini e
per affrontare con successo le sfide precedentemente evocate. In-
fatti, nel rispetto delle nostre differenze, la fede in Dio ci porta a
riconoscere l’eminente dignità di ogni essere umano, come pure i
suoi diritti inalienabili. Noi crediamo che Dio ha creato gli esseri
umani uguali in diritti, doveri e dignità e che li ha chiamati a vivere
come fratelli e a diffondere i valori del bene, della carità e della pace.
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AL POPOLO E ALLE AUTORITÀ DEL MAROCCO

Ecco perché la libertà di coscienza e la libertà religiosa – che non


si limita alla sola libertà di culto ma deve consentire a ciascuno di
vivere secondo la propria convinzione religiosa – sono inseparabil-
mente legate alla dignità umana. In questo spirito, abbiamo sempre
bisogno di passare dalla semplice tolleranza al rispetto e alla stima
per gli altri. Perché si tratta di scoprire e accogliere l’altro nella pe-
culiarità della sua fede e di arricchirsi a vicenda con la differenza,
in una relazione segnata dalla benevolenza e dalla ricerca di ciò
che possiamo fare insieme. Così intesa, la costruzione di ponti tra
gli uomini, dal punto di vista del dialogo interreligioso, chiede di
essere vissuta sotto il segno della convivialità, dell’amicizia e, ancor
più, della fraternità.
La Conferenza internazionale sui diritti delle minoranze reli-
199
giose nel mondo islamico, tenutasi a Marrakech nel gennaio 2016,
ha affrontato tale questione. E mi rallegro che essa abbia permesso
di condannare qualsiasi uso strumentale di una religione per di-
scriminare o aggredire le altre, sottolineando la necessità di andare
oltre il concetto di minoranza religiosa in favore di quello di cit-
tadinanza e del riconoscimento del valore della persona, che deve
rivestire un carattere centrale in ogni ordinamento giuridico.
Considero anche un segno profetico la creazione dell’Istituto
Ecumenico Al Mowafaqa, a Rabat, nel 2012, per iniziativa cattolica
e protestante in Marocco, Istituto che vuole contribuire alla pro-
mozione dell’ecumenismo, come pure del dialogo con la cultura e
con l’Islam. Questa lodevole iniziativa esprime la preoccupazione e
la volontà dei cristiani che vivono in questo Paese di costruire ponti
per manifestare e servire la fraternità umana.
Sono tutti percorsi che fermeranno la «strumentalizzazione delle
religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo o al fana-
tismo cieco e porranno fine all’uso del nome di Dio per giustificare
atti di omicidio, esilio, terrorismo e oppressione» (Documento sulla
fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019).
Il genuino dialogo che vogliamo sviluppare ci porta anche a
prendere in considerazione il mondo in cui viviamo, la nostra casa
comune. Pertanto, la Conferenza internazionale sui cambiamenti
climatici, COP 22, tenutasi pure qui in Marocco, ha attestato anco-
ra una volta la presa di coscienza di molte Nazioni della necessità di
DOCUMENTI

proteggere il pianeta in cui Dio ci ha posto a vivere e di contribuire


a una vera conversione ecologica per uno sviluppo umano integrale.
Esprimo apprezzamento per tutti i passi avanti compiuti in questo
campo e mi rallegro della messa in atto di una vera solidarietà tra
le Nazioni e i popoli, al fine di trovare soluzioni giuste e durature
ai flagelli che minacciano la casa comune e la sopravvivenza stessa
della famiglia umana. È insieme, in un dialogo paziente e prudente,
franco e sincero, che possiamo sperare di trovare risposte adeguate,
per invertire la curva del riscaldamento globale e riuscire a sradicare
la povertà (cfr Enc. Laudato si’, 175).
Ugualmente, la grave crisi migratoria che oggi stiamo affron-
tando è per tutti un appello urgente a cercare i mezzi concreti per
sradicare le cause che costringono tante persone a lasciare il loro
200
Paese, la loro famiglia, e a ritrovarsi spesso emarginate, rifiutate.
Da questo punto di vista, sempre qui in Marocco, lo scorso dicem-
bre, la Conferenza intergovernativa sul Patto mondiale per una
migrazione sicura, ordinata e regolare ha adottato un documen-
to che vuole essere un punto di riferimento per l’intera comunità
internazionale. Nello stesso tempo, è vero che resta ancora molto
da fare, specialmente perché occorre passare dagli impegni presi
con quel documento, almeno a livello morale, ad azioni concrete e,
specialmente, ad un cambiamento di disposizione verso i migranti,
che li affermi come persone, non come numeri, che ne riconosca
nei fatti e nelle decisioni politiche i diritti e la dignità. Voi sapete
quanto ho a cuore la sorte, spesso terribile, di queste persone, che,
in gran parte, non lascerebbero i loro Paesi se non fossero costrette.
Spero che il Marocco, che con grande disponibilità e squisita ospi-
talità ha accolto quella Conferenza, vorrà continuare ad essere, nella
comunità internazionale, un esempio di umanità per i migranti e i
rifugiati, affinché essi possano essere, qui, come altrove, accolti con
umanità e protetti, si possa promuovere la loro situazione e vengano
integrati con dignità. Quando le condizioni lo consentiranno, essi
potranno decidere di tornare a casa in condizioni di sicurezza, ri-
spettose della loro dignità e dei loro diritti. Si tratta di un fenomeno
che non troverà mai una soluzione nella costruzione di barriere,
nella diffusione della paura dell’altro o nella negazione di assistenza
a quanti aspirano a un legittimo miglioramento per sé stessi e per
DISCORSO DI PAPA FRANCESCO AL POPOLO E ALLE AUTORITÀ DEL MAROCCO

le loro famiglie. Sappiamo anche che il consolidamento di una vera


pace passa attraverso la ricerca della giustizia sociale, indispensabile
per correggere gli squilibri economici e i disordini politici che sono
sempre stati fattori principali di tensione e di minaccia per l’intera
umanità.
Maestà e Onorevoli Autorità, cari amici! I cristiani si rallegrano
per il posto fatto loro nella società marocchina. Essi vogliono fare la
loro parte nell’edificazione di una nazione solidale e prospera, aven-
do a cuore il bene comune del popolo. Da questo punto di vista,
l’impegno della Chiesa Cattolica in Marocco, nelle sue opere sociali
e nel campo dell’educazione attraverso le sue scuole aperte agli stu-
denti di ogni confessione, religione e origine, mi sembra significa-
tivo. Per questo, mentre rendo grazie a Dio per il cammino fatto,
201
permettetemi di incoraggiare i cattolici e i cristiani ad essere qui,
in Marocco, servitori, promotori e difensori della fraternità umana.
Maestà, distinte Autorità, cari amici! Vi ringrazio ancora una
volta, così come tutto il popolo marocchino, per la vostra acco-
glienza così calorosa e per la vostra cortese attenzione. Shukran bi-
saf! L’Onnipotente, clemente e misericordioso, vi protegga e bene-
dica il Marocco! Grazie.
TESTIMONIANZE
CONGRESSO EBRAICO MONDIALE

Ronald S. Lauder

«Lectio magistralis» del presidente del Congresso Ebraico Mondiale,


Ronald S. Lauder, Pontificia Università Gregoriana, 9 ottobre 2019

In qualità di presidente del Congresso Ebraico Mondiale, è per


203
me un motivo di orgoglio e un onore essermi unito a voi oggi in
questo luogo non lontano dal centro del cattolicesimo, il Vaticano.
Da ebreo, sono lieto di partecipare ai nobili sforzi tesi a com-
prendere più a fondo e incentivare la vicinanza tra due religioni an-
tichissime, che si sono sviluppate dallo stesso albero secolare. Come
individuo, è un piacere per me apportare il mio umile contributo
nel tentativo di promuovere l’armonia tra le principali religioni mo-
noteiste nel mondo - e tra tutti gli esseri umani che abitano il nostro
bel pianeta.
Cari amici, il 21esimo secolo ha conferito all’umanità una be-
nedizione senza precedenti. In tutto il mondo siamo testimoni del
progresso economico e tecnologico che ha dato inizio a un’epoca
con meno guerre - e meno povertà, fame e malattie di qualsiasi
altro periodo della storia. Negli ultimi decenni, miliardi di persone
sono uscite da una condizione di povertà estrema. Per la prima volta
nella loro vita, hanno avuto accesso ad acqua potabile, cibo nutrien-
te, assistenza sanitaria di base e alcune forme di fissa dimora. La
strada è lunga. Sono ancora in tanti a patire una scarsità vergogno-
sa. Sono ancora in tanti a non avere una casa o un lavoro - e alcuni
devono fare ancora i conti con la fame. Ma grazie al nostro Signore,
gli uomini e le donne di oggi sono riusciti a creare un ambiente
umano che fornisce a una parte significativa di umanità una parte
significativa dei loro bisogni primari.
TESTIMONIANZE

Ahimè, il 21esimo secolo mette anche l’umanità di fronte a


un’ardua sfida. Lo sviluppo economico va di pari passo con il decli-
no della spiritualità.
Le innovazioni tecnologiche hanno suscitato una profonda crisi
spirituale. Se da un lato siamo capaci di soddisfare più bisogni fisici
primari di tante persone, dall’altro non riusciamo a gestire le loro
necessità esistenziali ed emotive più recondite. Il declino della reli-
gione - e il fatto che non sia ancora stato trovato un suo surrogato
- lascia l’anima dell’uomo moderno affamata e assetata.
E nel frattempo, proprio davanti ai nostri occhi, le macchine
minacciano di sostituire l’essere umano. Lo sviluppo sta devastando
il pianeta e sta mettendo in serio pericolo il futuro del mondo.
La moderazione sta lasciando il passo all’estremismo, l’amore sta
204
lasciando il passo all’odio. Giorno dopo giorno osserviamo meno
comprensione, meno tolleranza, meno sensibilità e meno empatia.
Il terrore divampa - e così anche la persecuzione delle minoranze.
In effetti, in un’epoca in cui l’umanità dovrebbe - e potrebbe - unir-
si per il bene, spesso si frammenta, litiga e si lascia tentare dal male.
Grazie al cielo, l’oscurità è stata penetrata da un raggio di luce,
il Documento sulla fratellanza umana. Siglato il 4 febbraio scorso
ad Abu Dhabi, da sua Santità Papa Francesco e dal Grande Imam di
Al-Azhar, lo sceicco Ahmed El-Tayeb.
Questo documento ispiratore, presentato al mondo dalle guide
indiscusse della Chiesa cattolica e del mondo musulmano sunnita,
può essere paragonato a una sorgente di acqua nel deserto. Annun-
cia l’adozione della cultura del «dialogo come via; la collaborazione
comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e
criterio.» Invita i leader mondiali a «impegnarsi seriamente per dif-
fondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace.»
Enfatizza i valori «della pace, della giustizia, del bene, della bellezza,
della fratellanza umana e della convivenza comune - come àncora
di salvezza per tutti.»
Condanna il terrorismo - definito come un deplorevole feno-
meno non religioso che «minaccia la sicurezza di tutti i popoli e
dissemina il panico.»
Cari amici, in nome della comunità ebraica, posso dirvi che la
dichiarazione di Abu Dhabi è un documento internazionale di no-
CONGRESSO EBRAICO MONDIALE

tevole importanza che noi ebrei rispettiamo enormemente. Con-


dividiamo i suoi valori e abbracciamo i suoi principi fondamentali.
Lasciatemelo ripetere. Condividiamo i suoi valori e abbracciamo i
suoi principi fondamentali. Ammiriamo la visione illuminante che
esso rappresenta e rispecchia. Anche per noi, la dichiarazione sulla
fratellanza umana è una guida per un futuro migliore, che nutrirà
lo spirito umano, proteggerà l’ambiente e porterà con sé la promessa
che l’umanità di domani sarà più morale e più comprensiva.
Fratelli e sorelle, il libro del levitico ci dice: «Non ti vendicherai
né coverai rancore contro i figli del tuo popolo. Amerai, invece, il
tuo prossimo come te stesso.» Amerai il tuo prossimo come te stes-
so. Questo nobile comandamento della Bibbia stabilisce un legame
tripartito tra Dio, se stessi e gli altri. Secondo la legge di Dio, ognu-
205
no di noi deve trattare gli altri come tratterebbe se stesso.
Hillel il Vecchio fu presidente del Sinedrio; era uno studioso
ebreo eccezionale che predicava la tolleranza, la cooperazione e la
bontà d’animo. Quando un aspirante alla conversione gli chiese
cosa fosse l’ebraismo, lui rispose subito: «Ciò che non è buono per
te non lo fare al tuo prossimo. Il resto è commento. Vai e studia (la
Torah).»
Ama il prossimo tuo come te stesso è il comandamento uni-
versale in forma astratta. Ciò che non è buono per te non lo fare al
tuo prossimo è il comandamento universale in forma concreta. Si
completano a vicenda. La loro essenza è una sola: siamo tutti figli e
figlie di Dio.
E in quanto figli e figlie di Dio, siamo tutti fratelli e sorelle.
La fratellanza umana è l’essenza della nostra esistenza. La fratel-
lanza umanadovrebbe sempre guidare le nostre azioni. Il concetto
di fratellanza umana ha delle implicazioni immediate per il nostro
mondo e il nostro tempo.
In primo luogo, dobbiamo contrastare l’odio. Il razzismo è as-
solutamente inaccettabile. Dobbiamo sradicarlo. L’antisemitismo è
assolutamente inaccettabile. Dobbiamo eliminarlo. L’islamofobia è
assolutamente inaccettabile.
Dobbiamo cancellarla. Gli attacchi contro le comunità e i fedeli
cristiani sono assolutamente inaccettabili. Dobbiamo fermarli - ed
evitare che si verifichino di nuovo.
TESTIMONIANZE

Ma la campagna contro il razzismo, l’antisemitismo, l’islamo-


fobia e gli attacchi anti-cristiani sarà molto, molto più efficace se
restiamo uniti. I cristiani dovrebbero difendere ebrei e musulmani.
I musulmani dovrebbero difendere ebrei e cristiani. Gli ebrei do-
vrebbero difendere musulmani e cristiani. E tutti, insieme, dobbia-
mo opporci al razzismo.
Gli orribili episodi di Christchurch, della Nuova Zelanda, dello
Sri Lanka e di Pittsburgh devono servirci come avvertimenti. Que-
sti impongono a tutti noi di accettare la sfida - di unirci e di dare il
massimo per vincere la battaglia contro l’odio.
In secondo luogo, dobbiamo salvaguardare la libertà di culto.
Ognuno di noi ha il diritto di scegliere la propria fede - e di vivere
secondo essa. In un mondo contrassegnato da globalizzazione, im-
206
migrazione e società multiculturali, le persone praticano la propria
fede una accanto all’altra. Ecco perché dobbiamo fare di tutto per
rispettare le pratiche religiose altrui, concedendo a ogni uomo e a
ogni donna di professare la propria fede - e di ritrovarsi al cospetto
di Dio a proprio piacimento.
Ogni religione monoteista deve portare profondo rispetto per
le altre. Ogni religione monoteista deve proteggere le case di pre-
ghiera delle altre. E laddove i luoghi di culto sono uno accanto - o
di fronte - all’altro, dobbiamo mostrare tolleranza, prudenza e com-
prensione. Non dobbiamo permettere che una fede faccia del male
o calpesti le altre. I fedeli di tutte le religioni devono tenersi per
mano e affermare con chiarezza che la libertà di culto è universale
e assoluta, che può essere esercitata ovunque, in qualsiasi momento,
per il bene di tutti gli uomini e tutte le donne.
Infine, dobbiamo lottare per la pace. In ebraico, non c’è parola
più sacra di shalom. Salam, pax, pais, frieden, mir, amani. La profe-
zia degli antichi profeti è di pace. La profezia di Gesù è di pace La
profezia di Maometto è di pace. Il più grande desiderio del genere
umano è il desiderio di pace. E nella nostra era interconnessa - che
ha trasformato il mondo in un piccolo villaggio - la pace è possibi-
le. La pace è alla portata di tutti. Per proseguire il nostro cammino
verso la pace, però, dobbiamo essere coraggiosi e di buon cuore.
Dobbiamo occuparci delle ferite del passato - e fare del nostro me-
CONGRESSO EBRAICO MONDIALE

glio per curarle. Dobbiamo riconoscere sentimenti come il dolore,


la sofferenza, l’ingiustizia e la rabbia – e provare ad attenuarli.
Dobbiamo fare tutto il possibile per affrontare la terribile mise-
ria in cui vive molta gente in Asia, in Africa e nel Medio Oriente
- accrescendo la prosperità e la libertà. E dobbiamo cercare di porre
finire al conflitto in Terra Santa con la soluzione dei due stati. Dob-
biamo andare oltre l’egocentrismo, l’estrazione sociale e il nazio-
nalismo - e mostrarci solidali nei confronti di chi non ha tutto ciò
che noi invece abbiamo. Dobbiamo cercare di costruire un mondo
nuovo, fondato su collaborazione, umiltà e dignità. Non dobbiamo
lasciare che le nuove opportunità ci portino a erigere un’altra tor-
re di Babele. Non dobbiamo permettere a noi stessi di infliggere
all’umanità un altro diluvio universale. Dobbiamo ricordarci che,
207
dentro, siamo tutti Adamo ed Eva. I figlie e le figlie di Adamo ed
Eva. E in quanto figli e figlie di Adamo ed Eva, dobbiamo sfruttare
tutta la ricchezza che ci è stata donata per costruire un mondo di
pace e giustizia. Un mondo di fratellanza umana.
Grazie infinite - il Signore sia con tutti noi.
TESTIMONIANZE

VALORI CONDIVISI E MISSIONE


INTERRELIGIOSA

Adnane Mokrani

Il «Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la


convivenza comune», firmato da papa Francesco e Shaykh al-Azhar
Ahmad al-Tayyeb, il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi, durante la pri-
ma visita di un pontefice alla Penisola Arabica, la culla dell’islam.
208
Il documento è un modo per celebrare 800 anni dell’incontro tra
S. Francesco e il Sultano al-Kamil in Egitto. Il Papa ha voluto in
questa occasione visitare due paesi arabi a maggioranza islamica: gli
Emirati Arabi, all’estremo oriente del mondo arabo, e il Marocco,
all’estremo ovest. Effettivamente, il Papa ha visitato Rabat nei giorni
30-31 marzo 2019. Sul piano simbolico, il Papa, che porta il nome
del Santo, ha voluto incontrare due «sultani». È un abbraccio al mon-
do arabo dalle sue due estremità, in un momento storico molto dif-
ficile per tutta la zona. Il primo incontro tra Francesco e il Sultano
fu all’epoca delle crociate; anche l’incontro recente è in una epoca
piena di guerre e di conflitti, basti accennare alle guerre in Siria e
nello Yemen, e le grandi tensioni con l’Iran. Il messaggio rimane lo
stesso: andare controcorrente per parlare di pace e di diritti.
Il dialogo con i musulmani rappresenta una priorità per papa
Francesco, ciò si manifesta nei suoi viaggi, come il viaggio in Ban-
gladesh e l’incontro con i rifugiati rohingya. E si manifesta an-
che nei suoi documenti e discorsi, come nell’Esortazione apostolica
Evangelii Gaudium (2013), dove troviamo una posizione positiva e
coraggiosa riguardo l’islam: «Di fronte ad episodi di fondamenta-
lismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli autentici cre-
denti dell’islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni,
perché il vero islam e un’adeguata interpretazione del Corano si
oppongono ad ogni violenza (n. 253)».
VALORI CONDIVISI E MISSIONE INTERRELIGIOSA

Con il «Documento sulla fratellanza umana», il Papa ha volu-


to fare un passo avanti coinvolgendo una grande autorità religio-
sa islamica, Shaykh al-Azhar, per confermare quello che aveva già
detto nella sua prima Esortazione. Così la posizione iniziale del Papa
non può essere considerata come idealismo ingenuo, ma piuttosto
una visione condivisa e confermata dalla parte islamica. Si legge nel
Documento: «Dichiariamo – fermamente – che le religioni non in-
citano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità,
estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue.
Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti
religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazio-
ni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune
fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori
209
degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che ve-
dere con la verità della religione…»
L’insegnamento del Papa sull’islam gli ha dato una grande cre-
dibilità tra i musulmani, soprattutto per quelli che lavorano nel
campo del dialogo, ma anche tutti quelli che si sono sentiti offesi e
umiliati dalla confusione creata dal terrorismo e sfruttata dalle de-
stre populiste in tutto il mondo.
Il Papa cercava un interlocutore musulmano istituzionale e cre-
dibile, e l’ha trovato in al-Azhar, che è veramente una istituzione
millenaria, nata come moschea sciita fondata dal generale fatimide
siciliano, Jawhar, negli anni 970-972, contemporaneamente con la
fondazione del Cairo. Diventato sunnita sotto il regno di Saladino
nel 1171, per trasformarsi gradualmente al centro più importante
per gli studi islamici tradizionali che accoglieva e accoglie ancora
studenti proveniente da tutto il mondo islamico dal Maghreb fino
all’Indonesia.
Al-Azhar è anche un simbolo di unità nazionale egiziana e della
resistenza contro gli invasori, come è stato durante la campagna di
Napoleone Bonaparte nel 1798, che ha bombardato la moschea con
i cannoni, causando un massacro e la chiusura della moschea per un
anno intero. Nonostante al-Azhar sia stato criticato per il suo tra-
dizionalismo e conservatorismo, troviamo che tanti grandi pionieri
della riforma islamica erano azhariti come Muhammad Abduh (m.
1905); e tanti Grandi imam nel ventesimo secolo erano conosciuti
TESTIMONIANZE

per la loro sapienza e apertura, come Mahmoud Shaltout (m. 1963)


Abdel-Halim Mahmoud (m. 1978).
La crisi dell’istituzione sotto lo stato moderno post-coloniale
è cominciata dall’epoca di Nasser (m. 1970), e con la nazionaliz-
zazione degli Awqaf, un sistema di finanziamento popolare, che
garantiva l’autonomia e la libertà dell’istituzione. Così al-Azhar è
diventato debole e totalmente sottomesso allo Stato. Malgrado que-
sti fatti, al-Azhar ha conosciuto un periodo eccezionale di libertà
subito dopo la rivoluzione egiziana del 2011. In questa atmosfera di
transizione, al-Azhar ha creato al-Bayt al-Misri, la Casa egiziana,
come spazio di dialogo nazionale, in cui hanno partecipato intellet-
tuali di sinistra, liberali, copti, donne, fratelli musulmani ecc.… che
ha dato come risultato il «Documento sul futuro dell’Egitto» (2012),
210
un documento che si riflette in qualche maniera nel Documento di
Abu Dhabi.
Vediamo da vicino i contenuti del «Documento sulla fratellan-
za». Innanzitutto, è un documento che non si limita al discorso eti-
co e ai valori comuni, ma offre il quadro teologico generale che
sostiene i valori. Non si tratta solamente di etica, ma anche di fede
e di dottrina: «Noi, credenti in Dio, nell’incontro finale con Lui e
nel Suo Giudizio, partendo dalla nostra responsabilità religiosa e
morale, e attraverso questo Documento, chiediamo a noi stessi e ai
Leader del mondo…».
In questa ottica il cristianesimo e l’islam non solo condividono i
valori ma anche la fede in Dio e nella dignità umana, condividono
la stessa responsabilità davanti a Dio e gli uomini. L’islam e il cri-
stianesimo non sono due religioni opposte o in guerra, ma hanno
una base teologica ed etica solida, che permette dialogo, solidarietà
e missione comune nel servizio dell’umanità.
Dalla prefazione, si legge nella prima frase: «La fede porta il cre-
dente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare». Questo
implica che la mancanza di amore e di solidarietà feriscono la fede.
Il musulmano che odia il cristiano è meno musulmano, come il
cristiano che odia il musulmano è meno cristiano. Anzi, la formula
è più ampia perché parla di credenti in generale. La fede è un amore
espresso nella vita tramite la solidarietà. Un altro punto importante
nella prefazione è quello che si potrebbe chiamare la solidarietà co-
VALORI CONDIVISI E MISSIONE INTERRELIGIOSA

smica e l’ecologia integrale: c’è un rapporto di complementarità tra


«fratellanza umana» e «salvaguardia del creato», come «fratellanza
cosmica» tra tutte le creature.
Il legame tra teologia ed etica appare chiaramente tramite una
serie di «nel nome di…»: «In nome di Dio… In nome dell’innocen-
te anima umana… In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e
degli emarginati… degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli
esiliati… In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e
la comune convivenza… In nome della fratellanza umana… della
libertà… della giustizia e della misericordia». Il Documento parla
nel nome di Dio, della gente, in particolare gli oppressi e i deboli,
e dei valori comuni. Per dire che chi crede in Dio, deve credere
nell’essere umano e nei valori fondamentali della vita e della fratel-
211
lanza.
Tra i tanti argomenti che il Documento tratta c’è il legame forte
tra libertà, diversità e sapienza divina. Il pluralismo religioso è visto
come una cosa positiva che fa parte della Sapienza divina: «La liber-
tà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo,
di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di
religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente
volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa
Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di cre-
do e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di
costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa
cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non
accettano».
Il Documento sottolinea i valori dell’uguaglianza e della piena
cittadinanza: «Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei
diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia.
Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società
il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discrimi-
natorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi
isolati e dell’inferiorità». La relazione tra religione e spazio pubblico
è una questione presente tra le righe: la religione rappresenta una
coscienza etica e morale della società e nel mondo.
TESTIMONIANZE

UNIONE INDUISTA ITALIANA

Svamina Hamsananda Ghiri

Esprimo gratitudine per l’onore concessomi oggi di portare la


voce della tradizione induista in risonanza di un documento, quale
è quello firmato dal Santo Padre e dal Gran Imam Al-Azhar lo
scorso quattro febbraio ad Abu Dhabi, che ha un respiro veramente
212
universale.
La dichiarazione «Fraternità Umana per la pace mondiale e la
convivenza comune» è una testimonianza - di portata storica - che
esorta a una riflessione profonda più della metà della popolazione
mondiale: quella islamica e quella cristiana. Cionondimeno aspira a
essere condiviso attivamente, per sua stessa rivelazione, da uomini e
donne di tutte le religioni, in tutto il mondo, insieme alle Autorità,
alle organizzazioni della società civile, e a tutte le istituzioni scrupo-
losamente riportate nel documento.1
Questo documento fa il suo ingresso nella storia come una po-
tente testimonianza. Frutto di un lungo e complesso rapporto tra
Oriente e Occidente, non vuole rimanere confinato nel privilegiato
alveo del dialogo, ma vuole estendersi e coinvolgere dinamicamen-
te; vuole trasformarsi in strumento concreto per la pace: dal dialogo
all’operare insieme «gareggiando nelle opere buone», come esprime
il Corano.
Ecco dunque che da questo accorato appello, tutte le religioni
si sentono chiamate a unirsi responsabilmente, consapevoli del tre-
mendo sforzo che occorre operare per superare tensioni, ignoranza
e strumentalizzazioni.

1. «Sollecitando a tradurli in politiche, decisioni, testi legislativi, programmi


di studio e materiali di comunicazione».
UNIONE INDUISTA ITALIANA

Con un acume singolare, il testo fornisce una fotografia accu-


rata della società odierna: le sue conquiste, i suoi fallimenti e le sue
miserie. Per tale ragione, chiunque abbia a cuore il bene comune
non può che riconoscersi in tale analisi e avvertirne le medesime
preoccupazioni. La Dichiarazione è una chiara esortazione, uno ad
uno, ad essere coinvolti congiuntamente nelle risoluzioni dei gravi
problemi che lacerano la vita di molti nel presente e che si prospet-
tano come grande sofferenza nel vicino futuro.2 Prima di tutto, oc-
corre ricordare che le nostre fedi si fondano sull’amore per Dio, per
il mondo, per gli esseri. Le Scritture indù ci rammentano di essere
agenti fattivi nella costruzione del bene dimostrandolo in prima
persona con la perfetta sincronia di pensiero, sentimento e azione:

213
«Rare sono le persone che mettono in pratica ciò che dicono agli altri
di fare. Le persone hanno bisogno di rendere le loro azioni spirituali
offrendole al Signore. Parole ispiratrici devono essere seguite da un’a-
zione stabilita per il bene dell’umanità, anche se ciò comporta difficoltà
e sacrifici.»3

Nelle sacre Scritture indù si legge che in quest’epoca, denomi-


nata «kali-yuga», in cui prevalgono il male e il declino della giu-
stizia, della spiritualità ̀, della devozione e dell’altruismo, degno di
lode è quel ricercatore che adora il Signore con amore. Di fronte
alle avversità ̀, non bisogna perdere la speranza e gettarsi nella di-
sperazione. La via giusta consiste nell’agire sostenendo il dharma,
l’interrelazione tra gli esseri. L’essenza del dharma è la disponibilità
senza riserve a servire gli altri. Le Scritture sottolineano che aiutare

2. «Noi, pur riconoscendo i passi positivi che la nostra civiltà moderna ha


compiuto nei campi della scienza, della tecnologia, della medicina, dell’industria e
del benessere, in particolare nei Paesi sviluppati, sottolineiamo che, insieme a tali
progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che
condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del sen-
so di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione generale di
frustrazione, di solitudine e di disperazione, conducendo molti a cadere o nel vortice
dell’estremismo ateo e agnostico, oppure nell’integralismo religioso, nell’estremi-
smo e nel fondamentalismo cieco, portando così altre persone ad arrendersi a forme
di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva.»
3. Basant K. Gupta, Eterna bellezza. Versi scelti dal Rāmāyaṇa di Tulsīdās.
Ed. Laksmi, Savona.
TESTIMONIANZE

gli altri è il nostro dovere essenziale. Coloro che si sacrificano per


il bene degli altri sono degni di ammirazione da parte dei saggi e
dei santi.

«Un grande uomo è caratterizzato da tre virtù: il coraggio, la


compassione e il rispetto per le donne» (Rāmāyaṇa).

Parole queste che sembrano fare da eco a quelle della Dichiara-


zione in cui si sottolinea l’importanza dei diritti delle donne, dei più
deboli, dell’educazione. Come ignorare inoltre il sollecito esplicito
alla essenzialità della famiglia4, «primo essenziale nucleo sociale for-
mativo».
Alla prospettiva esemplare inneggiata nel documento è evidente
214
che corrisponda una denuncia diretta delle gravi afflizioni di cui la
società è vittima.
Nello scenario dipinto, emerge lapalissiano il ruolo che la pace e
la fratellanza devono svolgere, in quanto principi fondanti della te-
stimonianza religiosa. Il pluralismo pone le sue radici nella tolleran-
za e nel dialogo, ma non deve arrestarsi a questi soli valori bensì ha
il dovere di ampliare la consapevolezza e la percezione collettiva di
ciò che accomuna le fedi, i popoli, le culture evidenziando quanto
tale diversità sia invero il seme di grande prosperità umana, religiosa
e sociale. Ha il compito di accettare come ricchezza le peculiarità
delle differenti visioni teologiche come parte di quella eterogeneità
intrinseca agli esseri umani.
La cultura della pace e della non-violenza può avvenire solo
nella cultura del rispetto, dell’amicizia e della riconciliazione, nella
accettazione autentica e non nella mera tolleranza.
La cultura indiana afferma al contempo il pluralismo e la fratel-
lanza, nel principio di vedere l’unità nella diversità. Il Ṛg-veda affer-
ma che la Verità (Brahman), che è Una, i saggi chiamano con molti
nomi, ekaṃ sad viprāḥ baudhā vadanti. Dio, Shiva, Rāma, Kṛṣṇa,

4. «È evidente a questo proposito quanto sia essenziale la famiglia, quale nu-
cleo fondamentale della società ̀ e dell’umanità, per dare alla luce dei figli, allevarli,
educarli, fornire loro una solida morale e la protezione familiare. Attaccare l’istitu-
zione familiare, disprezzandola o dubitando dell’importanza del suo ruolo, rappre-
senta uno dei mali più pericolosi della nostra epoca.»
UNIONE INDUISTA ITALIANA

Allah, Buddha, e così ancora altri, sono tutti appellativi che persone
diverse utilizzano per cercare di descrivere una stessa Realtà, inde-
finibile e impronunciabile. Quell’Uno senza secondo, affermano i
Veda, è sorgente del mondo materiale, delle sue leggi, così come,
delle leggi spirituali che sostengono la sua armonia.
Sin dall’alba dei tempi, pace, prosperità, libertà e felicità sono
stati gli ideali e gli obiettivi dell’umanità, ma troppo spesso sono
stati traditi da egoismi e avidità generando conflitti, guerre e vio-
lenze e dolore indicibile.
Purtroppo anche se gli uomini non sanno mantenere gli equili-
bri, le religioni hanno il dovere di sostenere il loro ruolo educativo
nei principi di pace, giustizia, di solidarietà, di interrelazione.
E quindi ci uniamo con forza all’accorato appello:
215

«Noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per


incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di
smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio,
di terrorismo e di oppressione. Altresì dichiariamo – fermamente – che
le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di
odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento
di sangue.»5

Occorre combattere con forza quella piaga insita nel cuore


dell’uomo: l’uso strumentale delle religioni a favore dei poteri. Op-

5. «Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi,


dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomi-
ni di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del
sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha
nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici economici
mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le
religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di
smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terro-
rismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha
creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere
torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente,
non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato
per terrorizzare la gente.»
TESTIMONIANZE

porsi al terrorismo6, al fanatismo, alla strumentalizzazione delle re-


ligioni è un obbligo morale. È fondamentale ricordare sempre gli
esiti devastanti delle violenze cercando di dare forza e nuova linfa
ai valori positivi, anche richiamandosi alla dimensione salvifica ed
escatologica di ciascuna fede, che non può prescindere dalla pace e
dalla fratellanza.
Il celebre santo e mistico indiano Kabīr afferma:

«Tutti gli hindu perirono pronunciando il Nome di Rāma, e tutti i


musulmani si spensero con sulle labbra il nome di Allah. Ma soltanto chi
non vede differenza tra i due nomi diverrà immortale.»

Occorrerebbe saper apprendere dalla storia quanta sofferenza è


216
stata commessa in nome della follia visionaria di alcuni uomini,
con l’alibi della religione. Eppure, quasi per una malefica incapacità,
gli esseri umani sembrano più facilmente preda dell’obblio ciclico
che riconduce popoli e culture a ricadere nelle trappole medesime
dell’odio e della separazione.
Ne sono, purtroppo, un esempio in India le tragiche vicissitudi-
ni dell’annoso conflitto tra indù e musulmani; conflitto che i santi
e i mistici di entrambe le confessioni hanno cercato di spegnere
con inni all’amore, alla pace universale, all’unione, alla fratellanza,
all’amicizia. Voci queste ultime che, troppo spesso, infallibilmente
sono state coperte dal fragore delle bombe e dalla cecità di chi ha il
potere e la posizione per amplificare al contrario messaggi di intol-
leranza e incitamento alla sofferenza.

Seppure talvolta soffocate queste preghiere sono il seme della


speranza che ogni giorno, ogni uomo e donna di tutto il mondo,

6. «Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in


Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessi-
mismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma
è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di
fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario
interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di de-
naro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare
tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondia-
le. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.»
UNIONE INDUISTA ITALIANA

possono decidere di coltivare nel proprio cuore per non rassegnarsi


a chi afferma che l’odio è più forte dell’amore, per chi non accetta
che l’indifferenza sia migliore della fratellanza tra tutti gli esseri.
Desidero dunque concludere queste mie brevi riflessioni affi-
dando, ancora una volta al santo Kabīr, la voce della resilienza e
della possibilità di vedere la luce, sempre, oltre le tenebre.

«Non dissociate Hari da Allah, se non volete che la vacuità della


vostra fede vi trascini verso il più triste epilogo. È lo Stesso Dio che creò
l’Inferno e il Paradiso, che pervade tutti noi con la Sua Gloria. Abban-
donate dunque ogni rivalità di credo e raggruppatevi insieme per cantare
in coro le Sue virtù. Ammonisce Kabīr: Se volete salvarvi dal torrente
delle terrene afflizioni, rifugiatevi ai Suoi Piedi divini!
217
L’Allah che aleggia invisibile nella quiete della moschea, e l’idolo di
Rāma che troneggia tra fiori e offerte nel clamore del tempio, non sono
due diversi dèi. Fu uno stolto chi disse che Hari regna a levante, mentre
Allah risiede ad occidente! Cercate dunque il Signore nell’intimo di voi
stessi: Egli è Rāma ed Egli è Rahīm. Uomo o donna che siate, Egli è la
luce di ciascuno di voi, Egli è l’Infinito che impregna ogni mortale.7

7. Aa. Vv., Mistici indiani medievali (Classici delle religione) (italian Edition)
UTET.
TESTIMONIANZE

UNIONE BUDDISTA ITALIANA

Elena Seishin Viviani

La firma della «Dichiarazione sulla Fratellanza Umana per la


pace mondiale e la convivenza comune», ad opera di Sua Santità
Papa Francesco e del Grande Imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb
ha significato una tappa storica di estrema importanza per i va-
218
lori umani, quali elementi unificanti che appartengono a tutte le
religioni del mondo, ancor prima del loro differenziarsi sul piano
dottrinale.
Non parlo da buddhista né da esperta di relazioni internazionali,
ma da semplice essere umano che non può non condividere e cer-
care di praticare quei valori umani affinché le nostre società diven-
tino più compassionevoli, giuste ed eque. Purtroppo l’affermazione
secondo cui le religioni non siano sempre state vie di pace è un
dato di fatto incontestabile storicamente: dalle guerre di religione,
ai nefasti effetti derivanti dal concetto di guerre «giuste», dove lo
stesso ricorso alle armi da parte dei fedeli è legittimato «purché non
provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare», fino
ai fondamentalismi attuali, «la versione armata e agguerrita delle
religioni, capace di condizionare il quadro geopolitico e di minare
la convivenza democratica», vede coinvolte come protagoniste le
principali religioni del pianeta, Buddhismo incluso naturalmente.
Alla base di molti dei conflitti generati e giustificati dalle reli-
gioni sembrerebbe esserci quella che Habermas ha definito la «stra-
tegia di immunizzazione», adottata non solo nell’ambito delle reli-
gioni, ma anche in quello delle teorie scientifiche, per cui ognuna
di esse tende a dire di avere la Rivelazione assoluta.
In questo modo, la religione si immunizza rispetto a chiunque
voglia obiettare qualcosa in merito alle sue verità.
UNIONE BUDDISTA ITALIANA

Affermare di possedere la Verità con la V maiuscola, implica


automaticamente l’utilizzo di tale strategia perché non si permette
all’altro di dire: «No, non è vero».
Significa auto-fondarsi, e ciò è il substrato del fondamentali-
smo, perché se ciò può funzionare all’interno di uno stesso modello
culturale, quello stesso auto-fondarsi diventa fonte di divisione e
incomprensione, quando ci si confronta con l’esterno.
E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Affermare, ancora, che una religione che non ha un Dio, come
tende ad essere il Buddismo, non sia una religione, è una proiezione
di quella stessa mentalità secondo cui la fede c’è, perché c’è un Dio.
Non accettare o prendere in considerazione che ci potrebbe es-
sere una concezione analoga, ma diversa, e il momento germinale
219
del confitto. È più che comprensibile e giusto tenere conto delle
nostre culture, dei nostri simboli, delle nostre tradizioni, ma con-
temporaneamente e di fondamentale importanza aver sempre ben
chiaro che non sono un assoluto. Molto spesso siamo incapaci di
dire il nostro specifico religioso senza avere la pretesa di essere por-
tatori dell’unica verità. La nostra.
Come sua S.S. il Dalai Lama Tenzin Gyatso ha più volte rimar-
cato, vi sono quattro considerazioni da tener presenti nel cammino
per realizzare quella «Fratellanza Umana per la pace mondiale e la
convivenza comune» auspicata nel documento su cui siamo chia-
mati a riflettere in questa sede:

1. l’umanitarismo universale e essenziale per risolvere i problemi


globali
2. la compassione è il pilastro della pace
3. tutte le religioni del mondo sono già a favore della pace per-
ché tutte sono a favore dell’umanitarismo.
4. ogni individuo ha la «responsabilità universale»

Gli esseri umani, e per estensione tutti gli altri esseri viventi,
cercano innanzitutto la pace, il benessere e la sicurezza. La vita è
cara tanto a un animale quanto a qualsiasi essere umano; anche l’in-
setto più piccolo cerca di proteggersi dai pericoli che ne minacciano
l’esistenza. Ma per realizzare concretamente la felicità ci deve essere
TESTIMONIANZE

una combinazione di pacificazione interiore, giusto sviluppo eco-


nomico e, soprattutto, pace mondiale.
L’attuazione di tali obiettivi si concretizza con l’insorgere di un
sentimento di responsablilità universale, di una profonda preoccu-
pazione estesa a tutti, indipendentemente dalla fede, dal colore della
pelle, dal genere e dalla nazionalità, in una parola un sentimento di
fratellanza universale.
Adottare un approccio non egoistico alla vita per raggiungere
l’obiettivo prefissato comporta una trasformazione profonda della
nostra attitudine nell’affrontare i problemi creati a causa di incom-
prensioni, ma che possiamo risolvere proprio perché noi stessi li ab-
biamo causati: il conflitto tra ideologie, politiche o religiose ci fa
perdere di vista quell’umanità che è tesoro di tutti e che ci unisce
220
come un’unica famiglia.
Non dobbiamo mai dimenticare che le diverse religioni, ide-
ologie e sistemi politici del mondo dovrebbero avere obiettivo di
permettere agli esseri umani di raggiungere la felicità: la suprema-
zia dell’umanità rispetto al beni materiali e all’ideologia deve essere
sempre preservata. E rifuggire dall’uso degli altri per il nostro tor-
naconto personale ne è premessa indispensabile.
La ricerca della felicita ha spinto spesso gli esseri umani ad adot-
tare metodi il più delle volte crudeli e ripugnanti: la risultante di
azioni poco lungimiranti, orientate solo al proprio tornaconto per-
sonale, è stata l’ulteriore sofferenza inflitta ad altri esseri umani o
altri esseri viventi, e non ultimo anche a se stessi.
Occorre quindi un nuovo approccio che nasca da una nuova
visione della realtà.
Il mondo sta diventando sempre più piccolo – e sempre più in-
terdipendente – come risultato dei rapidi progressi tecnologici, del
commercio internazionale e delle relazioni transnazionali.
Dipendiamo profondamente gli uni dagli altri. Siamo così in-
terdipendenti, così interconnessi gli uni con gli altri, che senza quel
sentimento di responsabilità universale prodotto dalla comprensione
e dalla convinzione di appartenere tutti alla stessa grande famiglia
umana, non possiamo sperare di superare i pericoli che mettono a
repentaglio la nostra esistenza, prima ancora che la pace e la felicità.
UNIONE BUDDISTA ITALIANA

Oggi il problema di una singola nazione non può essere risolto


in modo soddisfacente unilateralmente, perché non riguarda mai
solo quella singola nazione; molto dipende anche dagli interessi,
dall’atteggiamento, dalla cooperazione delle altre. Un approccio
umanistico universale ai problemi mondiali sembra essere l’unica
solida base per la pace mondiale.
Che cosa significa? Cominciamo dal riconoscere, come abbia-
mo appena detto, che tutti gli esseri hanno a cuore la felicità e non
vogliono soffrire. Cosi facendo, diventerebbe moralmente sbagliato
e pragmaticamente stupido perseguire unicamente il proprio in-
teresse, dimenticandosi dei sentimenti e delle aspirazioni di tutti
coloro che ci circondano, membri della medesima famiglia umana.
La via più saggia sarebbe tenere in considerazione il prossimo
221
anche quando cerchiamo la nostra personale felicità. Nel Buddhi-
smo lo chiamiamo «interesse personale saggio» o, meglio ancora,
«interesse reciproco».
Nel Buddhismo si afferma anche che nascere come esseri umani
è di per sé un evento raro, ed è Saggio usare questa opportunità
nel modo più intelligente ed efficace possibile. Dobbiamo avere la
prospettiva corretta di questo processo universale affinché la pace e
la felicita dei ogni singolo individuo come quella di un gruppo non
siano agite a discapito del prossimo.
Deve irrompere una coscienza universale dentro gli angusti
spazi della coscienza individuale, senza che le differenze dottrinali
delle singole religioni siano messe in questione, facendo un passo
indietro, rinunciando alle rigidezze di una visione unilaterale.
Come ammoniva padre Ernesto Balducci: «Ci deve essere un
impegno a sollevare tutti gli uomini dall’ignoranza e dall’inerzia,
perché si facciano responsabili del proprio futuro. Nell’ordine delle
cose è scritta una richiesta: che l’umanità sia un soggetto unico del
proprio destino. È finita l’età dei popoli eletti ed è finita anche l’età
dei salvatori».
Ignoranza e inerzia rendono gli uomini indifferenti alla soffe-
renza o alla felicità gli uni degli altri e sono d’impedimento a di-
ventare quel «soggetto unico del proprio destino», che si realizza in
un autentico Spirito di cooperazione. Avidità e gelosia, egoismo e
individualismo non possono essere le motivazioni del nostro agire
TESTIMONIANZE

quando in gioco c’è la sopravvivenza non solo degli esseri umani,


ma dell’intero pianeta: perseguire e realizzare una convivenza ar-
monica altro non è altro che la conseguenza di un approccio spiri-
tuale sano. Ed è ormai chiaro a tutti che se l’umanità continuerà ad
affrontare le difficoltà soltanto con espedienti temporanei, le future
generazioni ne sconteranno le tremende conseguenze.
Aggressività e competizione, considerati mezzi efficaci per l’ot-
tenimento del proprio interesse personale hanno come effetto ine-
vitabile la belligeranza e sono attivati dalla ricerca degli oggetti del
desiderio e dell’attaccamento. Come possiamo disciplinare questi
«veleni» che, stando alla base di ogni problema al mondo, conduco-
no ad una visione distorta della realtà?
Come buddhisti siamo convinti che la compassione sia il tessuto
222
morale della pace nel mondo. È la sola risposta efficace alla soffe-
renza. Dovremmo sforzarci di coltivare in noi stessi una compassio-
ne imparziale e illimitata verso tutti gli esseri senzienti, dovremmo
nutrire in noi un sentire cosi vasto da abbracciare anche i nostri
nemici.
Sviluppare un sincero sentimento di vicinanza per tutti gli uma-
ni non è associato necessariamente a pratiche religiose tradizionali
né appannaggio di chi pratica una religione, ma un dovere di tutti
che prescinde dalla razza, dalla fede o dall’appartenenza politica.
Tutte le religioni condividono lo stesso messaggio, al di là delle
differenze dottrinali dovute alle circostanze e alle influenze cultu-
rali: non guardiamo alle differenze, ma a ciò che condividiamo, ov-
vero gli stessi ideali di amore, di essere di beneficio all’umanità gra-
zie alla pratica spirituale. Ed un posto speciale nella visone di tutte
le religioni è l’altruismo, a cui si educa attraverso precetti morali
per migliorare le funzioni della mente, del corpo e del linguaggio.
Contribuire al benessere dell’umanità ed allo sviluppo dell’amore e
della fratellanza è realisticamente possibile quando abbandoniamo
la pretesa di «convertire» gli altri al nostro punto di vista.
Purtroppo non bastano gli appelli a fermare il clima di diffiden-
za e di odio, ne il degrado morale in cui viviamo: è necessario agire
e non possiamo aspettare la prossima generazione per mettere in
atto questi cambiamenti. È questa generazione che deve sforzarsi di
UNIONE BUDDISTA ITALIANA

ridare vigore ai valori fondamentali trasformando il nostro modo di


impegnarci e praticare i valori umani e spirituali.
Occorre una presa di responsabilità di ogni singolo individuo
dal momento che i governi contemporanei non si vogliono fare
carico di queste responsabilità. È compito di ognuno di noi rendere
più forti le organizzazioni civili, sociali, culturali, educative e reli-
giose per contribuire a raggiungere questi obiettivi.
Oggi il dialogo interreligioso è più che mai una necessità, un
dovere a cui tutte le religioni e tutti i credenti sono chiamati: pren-
diamo atto della situazione in cui ci troviamo e senza l’illusione di
soluzioni preconfezionate, semplici e veloci che non tengano conto
delle differenze dottrinali, puntiamo dritti all’obiettivo di unificare
i cuori dando nuovo vigore ai valori umani fondamentali.
223
Termino offrendo a tutti un breve componimento di S.S. Dalai
Lama Tenzin Gyatso con l’augurio che sia di ispirazione per una
nuova attitudine interiore:
Ogni volta che incontro uno straniero
ho sempre la stessa sensazione:
Sto incontrando un altro membro della famiglia umana!
Questo atteggiamento
ha reso sempre più profondo
il mio rispetto e il mio affetto
per tutti gli esseri umani.
Possa questo desiderio spontaneo
rappresentare il mio piccolo contributo alla pace nel mondo.
Prego perché su questo pianeta la famiglia umana sia sempre più
comprensiva e altruista.
Questo è il mio appello, dal profondo del mio cuore, a tutti
coloro che non desiderano fa sofferenza e cercano una felicità du-
ratura.
TESTIMONIANZE

SIKHI SEWA SOCIETY

Harvinder Singh

Il presupposto fondamentale da cui si parte è l’uguaglianza di


fondo dell’essere umano, che porta al concetto di fratellanza uni-
versale. Fratellanza che va al di là della provenienza geografica e
dell’appartenenza culturale e, soprattutto, religiosa.
224
La religione è stata purtroppo spesso strumentalizzata da leader
carismatici che l’hanno utilizzata come leva per mobilitare le masse
e convincerle della necessità di un’azione che andava contro tutti i
dettami della religione che predicavano di voler sostenere. In India,
patria del Sikhismo, questa è purtroppo stata ed è tutt’ora una re-
altà viva e concreta. Persistono ancora violenze a stampo religioso
e omicidi che vengono giustificati con un becero discorso pseudo-
religioso.
Da questo substrato è appunto nato il Sikhismo, che ha cercato
di portare avanti i valori di fratellanza ed evitare inutili violenze re-
ligiose inserendo ad esempio nel Guru Granth Sahib Ji, Testo Sacro
Sikh, pensieri e parole di poeti e filosofi affiliati a denominazioni
religiose differenti tra loro.
I credenti Sikh portano avanti, sia in India che in ogni Paese in
cui si stabiliscono, una politica completamente in linea con quanto
espresso nel documento.
– Dialogo e scambio culturale, che si attua in particolare nell’a-
pertura del Gurdwara a chiunque e nei valori di ospitalità e apertura
nei confronti di chiunque vi entri. Vi sono gli aspetti della condi-
visione del cibo (il famoso Langar) e dello scambio di informazio-
ni. Specialmente e a maggior ragione all’estero, i Sikh sono infatti
sempre disposti a condividere gli insegnamenti, gli usi e i costumi
appartenenti alla loro religione a chiunque sia curioso di conoscerli.
SIKHI SEWA SOCIETY

Sono attivi anche nel tessuto sociale, impegnati a diffondere una


cultura della reciproca conoscenza che porti al rispetto.
– L’educazione delle giovani generazioni: i giovani Sikh non
sono lasciati a se stessi e vengono seguiti nelle varie fasi della crescita
non solo dalla famiglia, ma dalla comunità intera.
– Tolleranza: questo è un valore fondamentale, diffuso in India
in virtù della sua pluralità religiosa e sostenuto da pratiche quoti-
diane quali la condivisione del cibo e all’apertura del luogo più sacro
– il Gurdwara – a chiunque desideri entrarvi.
La comunità Sikh, dunque, non solo condivide pienamente i
punti espressi dal documento, ma li attua in modo attivo nella vita
quotidiana e in molti casi contribuisce a creare e diffondere una
cultura di conoscenza reciproca, tolleranza e pace. Il principio di
225
fratellanza è espresso nel servizio all’altro (seva), nell’apertura al dia-
logo e nel rispetto, e questo «altro» riceve lo stesso trattamento di un
qualsiasi membro della comunità, senza guardare al sesso o all’ap-
partenenza religiosa.
Ci si augura quindi che questo tipo di atteggiamento possa di-
ventare comune e condiviso da tutti, credenti e non, nel tentativo di
combattere la concreta e reale minaccia del terrorismo e della stru-
mentalizzazione della religione. Solo tramite l’educazione, la cono-
scenza e la fratellanza si può infatti arrivare a creare una maggiore
consapevolezza negli individui, affinché possano autonomamente
discernere e vedere quale sia il vero scopo della religione e capire chi
lo persegue per davvero.
RIVISTA QUINDICINALE DI CULTURA DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, FONDATA NEL 1850

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