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LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO
LA LETTERA AGLI EBREI
NUOVO
TESTAMENTO
COLLABORATORI

Paul Althaus t, Hermann W olfgang Beyer t,


Hans Conzelmann, Joachim Jeremias, Eduard Lohse,
Albrecht Oepke t, Karl Heinrich Rengstorf, Johannes Schneider,
Julius Schniewind t, Eduard Schweizer, Gustav Stahlin,
Hermann Strathmann t e Heinz-Dietrich Wendland
a cura di
GERHARD FRIEDRICH

VOLUME 9
LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO
LA LETTERA AGLI EBREI

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PAIDEIA EDITRICE BRESCIA


LE LEl TERE 1

A TIMOTEO E A TITO
LA LETTERA AGLI EBREI

Commento di
}OACHIM }EREMIAS
e
HERMANN STRATHMANN

Traduzione italiana di Grno CECCHI


Edizione italiana a cura di GIAN LUIGI PRATO

M. -~-.
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PAIDEIA EDITRICE BRESCIA


Titolo originale dell'opera:
Vie Briefe an Thimotheus und Titus. Der Brief an die Hebraer
-Obersetz und erklart von JOACHIM }EREMIAS und HERMANN STRATHMANN
Traduzione di Gino Cecchi
Edizione italiana a cura di Gian Luigi Prato
© Vandenhoeck & Ruprecht, Gi.ittingen 1936, 1968
© Paideia Editrice, Brescia 1973
È severamente vietata la riproduzione della traduzione del testo biblico, la quale è
di esclusiva proprietà delta Casa Paideia.
NUOVO TESTAMENTO
PIANO DELL'OPERA
in II volumi

I. Eduard Schweizer
Il Vangelo secondo Marco

2. Julius Schniewind
Il Vangelo secondo Matteo

3. K. H. Rengstorf
Il Vangelo secondo Luca

4. Hermann Strathmann
Il Vangelo secondo Giovanni

5. Gustav Stahlin
Gli Atti degli Apostoli

6. Paul Althaus
La Lettera ai Romani

7. Heinz-Dietrich W endland
Le Lettere ai Corinti

8. Beyer, Althaus, Conzelmann, Friedrich, Oepke


Le Lettere minori dell'apostolo Paolo

9. Joachim Jeremias - Hermann Strathmann


Le Lettere a Timoteo e a Tito; La Lettera agli Ebrei

ro. J ohannes Schneider


Le Lettere di Giacomo, Pietro, Giuda e Giovanni

I r . Eduard Lohse
L'apocalisse di Giovanni
LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO
Joachim Jeremias
INTRODUZIONE

Le tre Lettere pastorali {troviamo per la prima volta que-


sta denominazione in Paul Anton nel l 7 5 3) formano, e per
il contenuto e per il linguaggio, un gruppo a sé nell'insieme
delle Lettere paoline. Di tali Lettere, indirizzate ad una sin-
gola persona, fa parte anche quella a Filemone, che però si
differenzia dalle Lettere pastorali per il suo carattere privato.

r. Timoteo e Tito. Era l'estate del 49 (o 50 ), alcuni mesi


dopo la discussione di Paolo con Pietro (Gal. 2,II ss.) e Bar-
naba (Act. 15,36 ss.), quando all'Apostolo, rimasto solo a Li-
stra (Act. 16,1 ss.), giunse come un dono di Dio, Timoteo,
l'uomo che doveva restargli disinteressatamente (Phil. 2,20
s.) fedele :fino alla morte, in comunione di fede con lui. Sem-
bra che in un primo tempo quell'uomo, allora ventenne (v.
comm. a I Tim. 4,12), abbia accompagnato Paolo e Sila in
qualità di coadiutore missionario; ma ben presto l'Apostolo
gli affidò importanti incarichi autonomi (I Thess. 3,r ss.; I
Cor. 4,17; 16,ro s.; Act. 19,22; Phil. 2,19 ss.). Egli è nomi-
nato fra i mittenti in sei lettere (I e 2 Thess., 2 Cor., Phil.,
Col., Philm. ). Ha accompagnato Paolo a Gerusalemme alla
fine del terzo viaggio missionario (Act. 20,4) e poi gli è stato
vicino durante la prima prigionia a Roma (eol. I 'I ; p hilm.
I); il prigioniero isolato dice che l'amico disinteressato è
la sua consolazione (Phil. 2,19-23). Le Lettere pastorali mo-
strano l"evangelista', che doveva avere di poco superato i
trent'anni (2 Tim. 4,5), in una posizione direttiva di respon-
sabilità come rappresentante dell'Apostolo nella chiesa del-
12 Lettere pastorali: Introduzione

l'Asia Minore: Paolo investe lui e Tito (Tit. l,5) del servi-
zio gerarchico e li ordina (r Tim. 5,22), e Timoteo deve man-
tenere la disciplina nella chiesa a lui affidata (r Tim. 5,19 s.).
La 2 Tim. gli reca l'estrema preghiera dell'Apostolo prima
di essere messo a morte: «vieni da me più presto che puoi»
(2Tim.4,9 cfr.4,21); evidentemente Paolo gli vuole tra-
smettere in eredità l'opera della sua vita. Dopo il martirio
dell'Apostolo egli prosegue fedelmente il suo lavoro, insieme
ad uno dei principali dottori dell'ambiente paolino, l'ignoto
autore della Lettera agli Ebrei (Hebr. 13,23); è questa l'ul-
tima notizia che abbiamo di lui. La tradizione unanime ne
ha fatto, non senza un fondamento storico, il primo vescovo
di Efeso.
Tito, che sembra essere stato all'incirca coetaneo di Ti-
moteo (Tit. 2,6.7), ci è noto soltanto da quattro Lettere di
Paolo (Gal., 2 Cor., Tit., 2 Tim.) ed è strano che gli Atti
degli Apostoli non parlino di lui. Pagano di nascita (Gal. 2,
3) e convertito da Paolo (Tit. l,4), lo incontriamo per la pri-
ma volta nel 48 (o 49) d.C. come un membro della chiesa
antiochena e accompagnatore di Paolo nel viaggio al concilio
degli Apostoli (Gal. 2,1); era dunque collaboratore di Paolo
già prima di Timoteo. Durante il terzo viaggio è stato latore
ai Corinti della 'lettera delle lacrime', l'ultimatum dell' Apo-
stolo, e con la sua abilità è riuscito a riportare all'obbedienza
quella comunità, che Paolo dava già quasi per perduta (2 Cor.
2,13 ss.; 7,13 ss.; 8,6; 12,17 s.). Latore della seconda Let-
tera ai Corinti, egli ha poi preparato definitivamente la ve-
nuta a Corinto dell'Apostolo (2 Cor. 8,6.16-24). Soltanto
anni dopo lo incontriamo nuovamente (nella Lettera a Tito)
a Creta, dove Paolo lo ha lasciato ad organizzare la giovane
chiesa cretese (Tit. 1,5). Poco prima della morte dell'Apo-
stolo si recò in Dalmazia, evidentemente per incarico di Paolo
( 2 T im. 4, ro). Secondo la tradizione morì a 9 4 anni a Gor-
tina, vescovo dell'isola di Creta.
Ordine di successione delle Lettere. La situazione

2. Ordine di successione delle tre Lettere. Una base per sta-


bilire tale ordine è offerta dall'evoluzione degli indirizzi delle
Lettere. Le Lettere paoline più antiche hanno tutte senza
eccezione la formula introduttiva di saluto «grazia a voi e
pace»; nella Lettera a Tito è stato tralasciato «a voi», che
non si prestava ad un solo destinatario: «grazia e pace»; nel-
la prima Lettera a Timoteo il ritmo, disturbato da quell'ab-
breviazione, è ristabilito con l'aggiunta della parola éleos
('misericordia'), e così pure nella seconda. Pertanto la Let-
tera a Tito è probabilmente la più antica delle tre.

3. La situazione. Dalla Lettera a Tito veniamo a conoscenza


di una attività missionaria dell'Apostolo, insieme a Tito, nel-
l'isola di Creta ( l ,5 ). Paolo è tornato sul continente e si pro-
pone di passare l'inverno a Nicopoli (evidentemente Nico-
poli nell'Epiro, 3,12). La rTim. dà notizia soltanto di un
viaggio dell'Apostolo in Macedonia, cui deve aver preceduto
un periodo di attività a Efeso insieme a Timoteo ( l ,3 ). Il
maggior numero di notizie è contenuto nella 2 Tim.: Paolo
è in carcere (1,8) a Roma (1,17); la prigionia è molto dura,
ed egli è incatenato come un malfattore ( 2 ,9 ). Si è già svolto
un primo processo (4,16 s.), che gli è stato favorevole; ma
Paolo nutre dubbi sull'esito finale ( 4, l 8) e si aspetta fra breve
di essere messo a morte (4,6 ss.9.2 l ). Le notizie sul mantello
dimenticato a Troade (4,13 ), su Erasto rimasto a Corinto e
su Trofìmo ammalato a Mileto (4,20 ), indicano dove si è
svolta l'attività di Paolo prima della sua recente incarcera-
zione. Sulla dimora di Timoteo v. comm. a 4,19; sul pe-
riodo in cui è stata scritta la Lettera v. comm. a 4,2I.
Queste notizie non si possono fare concordare con quelle
che sono state tramandate negli Atti degli Apostoli e che
giungono fino al termine della prima prigionia romana; ciò
appare molto chiaramente ad es. in 2 Tim., la quale presup-
pone che, subito prima di essere incarcerato a Roma, Paolo
abbia operato in Grecia ed in Asia Minore, senza essere ac-
I 4 Lettere pastorali: Introduzione

compagnato da Timoteo. Perciò le notizie delle Lettere pa-


storali devono riferirsi all'epoca successiva alla prima pri-
gionia romana; e di fatto in nessuna fonte antica è detto che
Paolo sia stato messo a morte dopo la prima prigionia ro-
mana. (L'improvvisa conclusione degli Atti degli Apostoli
si spiega con tutta probabilità con il fatto che ai due libri
lucani doveva seguire un terzo, conclusivo). Invece, la prima
Lettera di Clemente, scritta intorno al 96, parla (5,7) di un
viaggio di Paolo in Spagna, che (ove non si desuma soltanto
da Rom. l 5 ,24.28) egli può avere compiuto solo dopo la sua
prima prigionia romana. La più importante testimonianza a
favore del fatto che Paolo sia stato rimesso in libertà e abbia
concluso la sua opera con un quarto viaggio missionario è
offerta dalle stesse Lettere pastorali, anche nel caso di una
loro inautenticità: perfino un falsificatore non avrebbe po-
tuto inventare il quadro esteriore delle Lettere in contrasto
con lo svolgimento effettivo degli avvenimenti, in un'epoca
in cui erano ancora in vita dei contemporanei dell'Apostolo
(l'unica seria difficoltà che si può opporre ad un'attività di
Paolo in Asia Minore dopo la prigionia romana è l'annuncio
dell'Apostolo [Act. 20,25.38] che la comunità di Efeso non
l'avrebbe più riveduto. Tuttavia queste parole potrebbero
riflettere semplicemente i timori dell'Apostolo, che egli ma-
nifesta in Rom. 15,31, e la pateticità di quel commiato; del
resto gli Atti degli Apostoli hanno conservato preannunci
del destino dell'Apostolo, che poi non si sono realizzati alla
lettera [21,n.13]).

4. Mentre la seconda Lettera a Timoteo, per la forma ed il


contenuto, è una lettera privata, la prima Lettera a Timoteo
e quella a Tito sotto l'aspetto formale si presentano come
scritti ufficiali. La resa di grazie a Dio, con cui si aprono re-
golarmente le altre Lettere (ad eccezione di Gal.), manca in
I Tim. e Tit.; in luogo di essa, I Tim. l ,3 ss. e Tit. l ,5 ini-
ziano con la ripetizione per iscritto di un incarico già dato
La caratteristica delle Lettere pastorali 15
a voce, come era d'uso nella corrispondenza ufficiale. Inol-
tre, in conformità al carattere ufficiale, alla fìne della I Tim.
mancano le comunicazioni personali, gli incarichi particolari
ecc. e i saluti, consueti nelle Lettere paoline; mentre in Tìt.
sono ridotti al minimo ( 3, r 2 ss. ). Anche il contenuto delle
due Lettere è ufficiale: in esse Paolo impartisce ampie istru-
zioni in virtù dei suoi poteri apostolici; ciò significa che I
Tim. e Tit. sono scritti ufficiali, destinati non soltanto alle
due persone alle quali sono indirizzate, ma a tutta la loro
comunità. Esse trasmettono a Timoteo e a Tito le istruzioni
dell'Apostolo, ma nello stesso tempo sono lettere creden-
ziali (Roller ), che mostrano alle comunità che i due delegati
dell'Apostolo sono autorizzati a guidare, in sua rappresen-
tanza, le chiese dell'Asia Minore e di Creta. Che poi anche
2 Tim. sia destinata pure alla comunità lo prova la frase ini-
ziale ed il plurale in quella finale.

5. La caratteristica delle Lettere pastorali è definita nel modo


più appropriato dal titolo che è stato loro dato. Esse sono le
uniche in tutta la Bibbia che contengano istruzioni ai 'pa-
stori' della chiesa per la cura delle anime. Ciò che esse dico-
no a proposito della gerarchia ecclesiastica, della retta pre-
dicazione, dell'ordinamento della vita cultuale delle comu-
nità, della guida e del mantenimento della disciplina eccle-
siale, della cura delle anime in tutti i ceti della comunità,
come pure degli erranti; in sostanza, tutto quanto in esse
vi è di assistenza spirituale e di consiglio ha un'importanza
generale anche per la gerarchia ecclesiastica di tutti i tempi.
Però la definizione 'Lettere pastorali' non ne esaurisce il
contenuto; infatti esse sono più che scritti personali (v. so-
pra 4), perché sono rivolti pure alle comunità. La prima Let-
tera a Timoteo e la Lettera a Tito contengono i più antichi
ordinamenti della vita ecclesiale sul piano del vangelo: ordi-
nano la distribuzione degli incarichi ecclesiastici e fissano
quanto si deve richiedere a coloro che sono investiti di un' au-
Lettere pastorali: Introduzione

torità gerarchica; danno istruzioni sul comportamento eccle-


siale dei membri della comunità nel servizio liturgico e nella
vita quotidiana; fìssano i confìni con le dottrine eretiche.
A questi ordinamenti comunitari, che a loro volta sembra-
no utilizzare in parte un deposito più antico, le Lettere pa-
storali debbono l'influenza che hanno esercitato anche in se-
guito. E infìne la peculiarità e l'importanza delle tre Lettere
consistono nel fatto che, anche nel caso che siano solo in
parte autentiche, sono gli ultimi scritti del grande Apostolo;
ciò vale soprattutto per la seconda Lettera a Timoteo, il
possente testamento spirituale di Paolo sulla via del martirio.

6. La questione del!' autenticità è oltre modo complicata per


le Lettere pastorali. Caratteristico delle difficoltà presentate
da questa questione è che la maggioranza degli studio-
si non sa decidersi né per una pura e semplice accettazio-
ne della tesi della non autenticità né per un'incondizionata
dichiarazione di autenticità, ma cerca rifugio in ipotesi che
tentano di mediare i due estremi. Per quel che riguarda in
primo luogo l'obiezione all'autenticità, non tutti i motivi ad-
dotti sembrano validi. Alcuni argomenti (ad es. la ripetizione
scritta in I Tim. l,3 ss.; Tit. l,5 ss. di incarichi già dati avo-
ce, o che in I Tim. 2 e 3 vengono date istruzioni che non so-
no destinate a Timoteo ma alle comunità) si basano sul non
riconoscimento del carattere ufficiale di I Tim. e Tit. (v. so-
pra 4); alcune differenze delle Lettere pastorali dalle Lettere
paoline più antiche sono dovute al loro carattere descritto
sopra (v. 5). Infìne, l'obiezione che le Lettere pastorali non
potrebbero essere paoline perché conoscono il ministero di
'presbitero', ignoto alle altre Lettere di Paolo, si può consi-
derare senza fondamento, ove siano giuste le nostre consi-
derazioni riguardo a ITim. 5,17. Le obiezioni all'autentici-
tà che devono essere prese sul serio, si fondano essenzial-
mente su quattro considerazioni. Primo, la loro assenza nel
canone di Marciane (intorno al 150) e nel più antico codice
La questione del!' autenticità 17
paolino che ci sia stato conservato, il P (scritto intorno al
46

200 ). Ma la loro assenza in Marciane non può essere dovuta


ad una non conoscenza delle Lettere, quanto piuttosto deve
attribuirsi al loro rifiuto da parte dello stesso Marciane (Ter-
tull., Mare., 5,21), giacché esse erano note forse già a Igna-
zio, e in ogni caso a Policarpo di Smirne. Per quanto riguar-
da poi P 46 , i primi ed ultimi 7 fogli sono andati perduti, per
cui non sappiamo che cosa venisse dopo il foglio 97 (I Thess.
5 ,2 8 ). Dato che le Lettere pastorali avrebbero da sole ri-
chiesto altri 8 fogli, è evidente che non era stato previsto il
loro inserimento nel codice; ma ciò non significa necessaria-
mente che esse non siano autentiche, perché la più antica
raccolta delle Lettere di Paolo si sarebbe potuta limitare alle
Lettere indirizzate alle comunità. Si potrebbe anche pensare
che l'amanuense di P 46 abbia fatto male i conti dei fogli che
gli erano necessari (infatti la seconda parte del codice con-
tiene un numero di righe per pagina maggiore che per la
prima parte); in questo caso sarebbe ricorso all'aggiunta di
tre fogli, cui avrebbero corrisposto tre pagine in bianco al-
l'inizio. Secondo, le obiezioni riguardano il carattere religio-
so e teologico delle Lettere pastorali. Da una parte, in esse
più che nelle altre Lettere paoline è posto l'accento sulla
'sana dottrina' della chiesa (I Tim. r,rn; 2 Tim. 4,3; Tit. l,
9; 2,1 ecc.); ripetutamente la parola 'fede' si avvicina al si-
gnificato di 'dottrina della fede' (ITim.4,r.6; Tit. l,13: la
fede diventa ortodossia). Inoltre, in queste Lettere è riser-
vato alla 'opere buone' uno spazio maggiore (I Tim. 2,10;
5,10; 6,18; 2 Tim. 2,21; 3,17; Tit. 2,14) che nelle altre Let-
tere di Paolo. I due fatti sembrano indicare una loro stesura
in epoca postpaolina: la chiesa si consolida dopo gli inizi
movimentati, la sua dottrina comincia a formarsi in una so-
lida entità, la sua etica diventa 'borghese' (M. Dibelius ). Ma
questa obiezione non tiene del tutto conto del carattere pe-
culiare delle Lettere pastorali, che si prefiggono soprattutto
lo scopo di ordinare la vita ecclesiale nella sua edificazione
r8 Lettere pastorali: Introduzione

interiore e nella lotta contro il settarismo. L'insistenza sulla


dottrina della fede come ferma norma, che del resto si trova
già occasionalmente nelle Lettere più antiche (ad es. Rom.
6,17; 16,17; oggettivizzazione della fede in Gal. l,23 ecc.),
si spiega con il largo spazio che viene ad occupare nelle Let-
tere pastorali la lotta contro le eresie. E per quel che riguar-
da le 'buone opere', che non sono assenti neppure nelle Let-
tere più antiche di Paolo (2 Thess. 2,17; 2 Cor. 9,8; Rom.
2,7; 13,3; Col. l,10; Eph. 2,10), esse non vanno assoluta-
mente intese nel senso della giustificazione per le opere, ma
sono piuttosto, come nella predicazione di Gesù ( v. la loro
pratica secondo I Tim. 5,16), ben precise 'opere di carità'
(questa è l'unica traduzione dell'espressione, che abbia un
senso), nelle quali si manifestano nell'uomo di Dio le forze
efficaci della vita nuova (2 Tim. 3,17). La loro menzione, re-
lativamente frequente nelle Lettere pastorali, si spiega con
l'obiettivo pratico di queste. Tuttavia sotto questo aspetto c'è
pur sempre una differenza tra ]e Lettere pastorali e le altre
Lettere paoline, differenza che appare anche nella cristologia,
che ha rapporti maggiori delle altre Lettere con la cristologia
dei primi tempi (il che, però, in parte si spiega con il ricorso
che le Lettere fanno in molti casi a detti e formule fisse; I
Tim. l,15; 2,5 s.; 3,16; 6,13; 2 Tim. 2,8 ecc.). Un peso mag-
giore delle prime due ha una terza obiezione all'autenticità
delle Lettere pastorali che si fonda sul loro vocabolario e stile.
In esse manca tutta una serie di parole e di locuzioni tipica-
mente paoline; altre locuzioni tipiche di Paolo sono usate con
un significato diverso, o in un modo differente per costru-
zione e frequenza; ma soprattutto qui appaiono 306 voca-
boli nuovi (un buon terzo di quelli usati complessivamente)
che non si trovano in Paolo ('pietà', 'pio', 'essere pio' tredici
volte, 'sana dottrina', 'riflessione'), e il lessico in complesso
assai ricco ha maggiori contatti con l'usuale linguaggio e-
levato del mondo ellenistico, e con la lingua della dottrina
sapienziale giudeo-ellenistica, della filosofia popolare e dello
La questione del!' autenticità I 9

stile aulico, di quel che non si verifichi generalmente in Pao-


lo. Lo stile è sobrio e pacato, in contrasto con quello mosso,
spesso precipitoso, delle rimanenti Lettere di Paolo; ampio
spazio è occupato da elenchi e da enumerazioni (indicati nel-
la nostra traduzione con dei numeri esponenti tra parentesi,
v. I Tim. 3,2 ss. 8 ss.; 2 Tim. 3,2 ss. ecc.); il numero degli
aggettivi è sorprendentemente elevato. Ma non bisogna so-
pravvalutare l'importanza di queste statistiche: ogni Lettera
paolina ha le sue particolarità; ad esempio nella Lettera ai
Romani ci sono 26r parole nuove; e specialmente nelle Let-
tere pastorali parecchie questioni si spiegano con il carattere
che è loro peculiare: un ordinamento comunitario richiede
necessariamente altre parole ed uno stile più concreto di
quanto non lo esigano preoccupazioni di cura d' anime, e si
ricollega più strettamente con antiche formule; e di fatto
questo collegamento appare in molteplici modi ( v. ad esem-·
pio la nostra nota preliminare ai capp. 2 e 3 della I Tim. e
le numerose virgolette nella traduzione). Inoltre, la lotta
condotta contro la gnosi obbligava a servirsi della sua termi-
nologia (v. comm. a I Tim. I,4; 6,20; Tit. r,r6) e a costruir-
si un vocabolario polemico. La maggiore presenza dello stile
aulico - a parte il fatto che se ne trovano alcune tracce nelle
Lettere anteriori (ad es. Phil. 3,20: «salvatore», cfr. quanto
diremo dopo il commento di 2 Tim. r,14) - si spiega se si
rileva che i passi nei quali più colpisce l'uso di tale stile
(Tit. 3,4; 2 Tim. r,ro) sono delle citazioni (v. comm. a Tit.
3,4). Però anche qui rimane da risolvere una seria difficoltà,
che è ancora accentuata da un'osservazione apparentemente
quasi insignificante, che però ha un'importanza non piccola.
Il numero medio delle lettere che compongono una parola,
nelle Lettere paoline più antiche va da 4,67 (Lettera a File-
mone) a 5,02 (prima Lettera ai Tessalonicesi); nelle Lettere
pastorali, invece, tale numero è di 5 ,26 in 2 Tim.; 5 ,5 8 in
I Tim. e 5,66 in Tit. (Roller). Questa constatazione indica
necessariamente che nelle Lettere pastorali la penna è stata
20 Lettere pastorali: Introduzione

maneggiata da una mano diversa da quella che ha scritto le


Lettere più antiche. Ma la più seria è una quarta obiezione,
della quale spesso non si tiene abbastanza conto. All'epoca
della stesura di 2 Tim. Paolo si trova in una prigionia molto
dura; è incatenato e viene trattato come un malfattore ( 2 ·
Tim. 2,9). Se ora si pone mente alle condizioni in cui nei
tempi antichi vivevano i prigionieri (essi erano ammassati
in celle senza luce, dove la sporcizia era insopportabile, e la
mortalità fra i carcerati era motivo di alte lamentele) e se
si pensa che, con l'antica tecnica della scrittura, la stesura
di una lettera della lunghezza di 2 Tim. richiedeva un fati-
coso lavoro, non di ore ma di giorni, si deve ammettere che
è estremamente improbabile che Paolo abbia scritto di suo
pugno in carcere la 2 Tim. Poiché, però questa Lettera non
può essere separata dalle altre due Lettere pastorali, ne con-
segue che tutte e tre non possono essere state scritte di pu-
gno dall'Apostolo.
D'altro lato, argomenti di grande peso depongono a favore
dell'autenticità delle Lettere come scritti di Paolo. a) In-
nanzi tutto vanno considerati certi aspetti formali. Nelle Let-
tere pastorali troviamo forme stilistiche tipicamente paoline:
ad es. in Christo Iesu (9 volte), cioè la trasposizione di Iesus
Christus in Christus Iesus, che nel Nuovo Testamento (ad
eccezione di Act. 24,24) è limitata strettamente al corpo del-
le Lettere paoline (27 volte); l'uso assoluto della parola
'vangelo' ecc. Ma è importante soprattutto l'osservazione
seguente: l'inizio e la fine delle Lettere paoline (il cosiddetto
formulario epistolare) mostrano notevoli divergenze dall'u-
suale formulario antico; e in più il formulario paolino ha
seguito nel corso degli anni un processo di formazione e di
trasformazione dei suoi aspetti peculiari. Già nella Lettera
più antica, la I T hess., troviamo il saluto finale, caratteristi-
camente paolino: «la grazia di nostro Signore Gesù Cristo
sia con voi» (IThess. 5,28); a partire dalla 2Thess. la for-
mula iniziale di saluto, anch'essa tipicamente paolina, ha la
La questione del!'autenticità 21

forma ampliata «da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo»


(2Thess. l,2); a partire da Gal. Paolo si definisce 'apostolo'
(eccettuate le Lettere ai Filippesi e a Filemone, in cui per
motivi comprensibili manca questo titolo); dalla I Cor. i
destinatari delle Lettere sono chiamati 'santi'; in Rom. per
la prima volta, e poi ancora in Eph., Paolo figura come unico
firmatario; infine Col. porta la nuova forma abbreviata del
saluto finale: «la grazia sia con voi» (4,18). È un argomento
molto probante per l'autenticità paolina delle Lettere pastora-
li che esse non soltanto mostrino i segni generali caratteristici
del formulario epistolare paolino (cfr. comm. a Rom. l,1-7),
ma che rispecchino esattamente i vari gradi di evoluzione
dello stesso, raggiunti nelle ultime Lettere precedenti: nelle
Lettere pastorali Paolo chiama sé apostolo (come in Gal.); egli
firma da solo (Rom. e Eph. ); la formula iniziale di saluto ha
la forma ampliata di 2 T hess.; e soprattutto il saluto finale
delle tre pastorali ha la forma abbreviata che si incontra per
la prima volta in Col.: «la grazia sia con voi». I vari gradi
di sviluppo del formulario epistolare paolino si connettono
con tale precisione con le Lettere pastorali, che non si può
evitare di collegare queste ultime con le precedenti Let-
tere di Paolo (Roller ). Pertanto l'ipotesi che esse siano una
falsificazione va considerata estremamente improbabile. Inol-
tre non si vede perché il presunto autore avrebbe redatto
addirittura tre lettere, anziché una sola ( Meinertz). b) Oltre
a queste caratteristiche formali di autenticità, se ne offrono
altre relative al contenuto delle Lettere pastorali. Mai, in
tutta la letteratura extra-paolina, appare così chiara la dot-
trina paolina come nelle nostre Lettere. Ciò che è detto in I
Tim. l,12-1;7 sulla misericordia di Dio, che si è manifestata
in Gesù Cristo e sul Salvatore, che è venuto per fare salvi
i peccatori; la fede in Gesù Cristo come l'uomo nuovo (I
Tim. 2,5); la giustificazione per la grazia (Tit. 3,7); il «solo
per la fede» (I Tim. l,16; 2 Tim. 3,15 ecc.) e la dura nega-
zione di qualsiasi giustificazione per le opere («non per le o-
22 Lettere pastorali: Introduzione

pere nella giustizia, che abbiamo compiute, ma secondo la sua


misericordia» Tit. 3,5 cfr. 2 Tim. l,9); l'amore come unico
fine di tutti i comandamenti di Dio (I Tim. l ,5 ); l'invito a
seguire pazientemente il fratello errante (2 Tim. 2,25 cfr.
2 Thess. 3,15); le parole sulla forza sostitutiva del dolo-
re (2 Tim. 2,10); tutto questo è dottrina paolina, quale la
ritroviamo soltanto nelle sue Lettere. Così si dica delle te-
stimonianze di se stesso (I Tim. l,12-16; 2 Tim. 3,10-12; 4,
6-8 ecc.) che nella loro umiltà, disponibilità alla sofferenza,
forza nella fede, parlano il vero linguaggio dell'Apostolo. c) A
questi rilievi si aggiungono poi considerazioni di altro genere:
la posizione verso lo stato (ITim. 2,1 ss.; Tit. 3,1) è quella
di Paolo; di martiri non si parla mai; l'avversione per il
dolore non è compresa nei vizi elencati in 2 Tim. 3,1 ss. Il tipo
della gnosi combattuta in queste Lettere ( v. ad es. I Tim.
l,11 e comm. a 2 Tim. 2,18: come in Col. ha tratti giudaiz-
zanti e non è ancora il docetismo) e l'assenza di ogni inte-
resse per il contenuto dei 'miti' gnostici, come anche il fatto
che coloro che insegnano la dottrina gnostica si trovano an-
cora dentro le comunità e che siamo soltanto all'inizio del
processo che porterà alla rottura con essi (v. comm. a Tit.
l,IO s.) stanno ad indicare che l'eresia è soltanto agli inizi:
nelle Lettere di Giovanni la rottura è già avvenuta e il
docetismo ha già fatto la sua apparizione. Ciò che è detto
sui ministeri della comunità colloca le Lettere vicino a Phil.
l , l ( v. prima di I T im. 3 ) e insieme alle Lettere più antiche
di Paolo, e prima della I Petr. e delle Lettere giovannee (v.
comm. a I Tim. 5,17) Il rito dell'imposizione delle mani
nell'ordinazione dev'essere antico, perché è stato ripreso dal
giudaismo, che però lo compiva soltanto in J'>alestina (v.
dopo il commento a I Tim. 4,16). Le formule cristologi-
che citate sono chiaramente antiche, per alcuni elementi
giudeo-cristiani ( 2 Tim. 2 ,8) e perché l'affermazione della
preesistenza appare in secondo piano. Non v'è la minima
traccia di una conoscenza degli Atti degli Apostoli e degli
La questione del!' autenticità 23

scritti giovannei. La figura di Timoteo non è per nulla idea-


lizzata (2 Tim. l,7 s.; 2,3.12.22), come ha fatto invece la
chiesa antica con la sua esaltazione degli uomini del periodo
apostolico. Ma soprattutto ci sono nelle Lettere pastorali
numerosi particolari storici (specialmente 2 Tim. 4,9-21; l,
5.15-18; 3,14 s.; Tit. 3,12-14), che non si possono assolu-
tamente considerare falsi: ad es., la preghiera di ritirare il
mantello lasciato a Troade in casa di Carpo (2 Tim. 4,13). Il
carattere unico della situazione e dell'intima relazione tra
il mittente ed il destinatario delle Lettere rimarrà sempre
l'argomento principale in favore della loro autenticità.
Si ha così un ben strano quadro: contro le considerazioni
che sembrano escludere che le Lettere pastorali siano state
scritte da Paolo stanno altri motivi di gran peso che depon-
gono a favore della loro autenticità. Se si vuole arrivare ad
una soluzione che tenga conto di tutti gli argomenti pro e
contro, occorre tener presente (dato che l'ipotesi frammen-
taristica, per cui sarebbero autentici soltanto 2 Tim. 4,9-22
e Tit. 3,12-15, non è di grande aiuto; v. alla fine di 2 Tim.)
che nell'antichità una lettera veniva composta in tutt'altre
condizioni di quelle moderne; per il genere di materiale su
cui si scriveva (papiro), l'insufficienza delle penne a can-
nuccia e dell'inchiostro e la lentezza della scrittura in lettere
maiuscole, scrivere era un lavoro molto faticoso, che ri-
chiedeva molto tempo; perciò, di regola soltanto lettere molto
brevi erano scritte di pugno dal mittente, ma non lettere
così lunghe come le Lettere di Paolo; ne abbiamo una con-
ferma in Rom. 16,22, secondo cui la Lettera era stata scritta
materialmente da Terzo. Ma anche la dettatura parola per
parola era estremamente faticosa e lenta, perché, data la
lentezza della scrittura, si doveva dettare non frase per
frase, ma addirittura sillaba per sillaba, per cui la dettatu-
ra parola per parola era usata ancor meno della scrittura di
proprio pugno. Pertanto, per scritti piuttosto lunghi, si
procedeva a questo modo: il segretario scriveva a senso
24 Lettere pastorali: Introduzione

il contenuto della lettera su tavolette di cera e componeva


la lettera sulla base di questi appunti; il mittente correggeva
lo scritto e lo firmava con i saluti; così ad esempio va inte-
so I Petr. 5,12 (v. ad l.). Quanto fosse diffusa la collabo-
razione di un segretario lo ha dimostrato la scoperta nel
1960 di quindici lettere di Bar Kochba: di queste 9 sono in
aramaico, 4 in ebraico e 2 in greco; e non soltanto le lettere
ma anche la firma sono diverse nella grafia; esse, dunque,
sono state dettate a vari scrivani e (ad eccezione forse di
una) firmate dallo stesso segretario a nome di Bar Kochba.
In base a questa constatazione si può supporre, già per le dieci
più antiche Lettere di Paolo, la partecipazione - non soltan-
to materiale - di compagni di viaggio di Paolo alla loro ste-
sura, come risulta del resto dal fatto che in quelle Lettere,
ad eccezione di Rom. e Eph., si fa sempre all'inizio il nome
di scrivani-collaboratori e che si parla in larga misura in pri-
ma persona plurale. La frequente citazione di Timoteo fra
questi scrivani-collaboratori ( v. sopra l) autorizza a pensare
che fosse proprio lui il principale collaboratore di Paolo
nella stesura delle Lettere più antiche dell'Apostolo. Perciò
si può supporre che la stesura delle Lettere pastorali sia
avvenuta nel seguente modo: sulla base di previe indica-
zioni a voce e con la costante partecipazione dell'Apostolo
esse furono scritte per suo conto; e si deve contare sulla pos-
sibilità che in questa occasione egli abbia dato al suo segre-
tario maggiore libertà, di quel che non avesse fatto prima di
allora. Ora il fatto che il collaboratore non fosse più Timo-
teo, ma un altro compagno di Paolo, un ellenista (v. comm.
a I Tim. l , l r.17; 6,15 s.; 2 Tim. 3,8 s.) pratico dell'inter-
pretazione giudaica della Seri ttura ( I T im. l , 9 s.; 2, l 3- l 5),
spiega le differenze delle Lettere pastorali da quelle più
antiche, scritte con la collaborazione di Timoteo, per vari
aspetti nel contenuto e completamente nel vocabolario (fare
dei nomi riguardo a ipotesi del genere è sempre pericoloso,
tuttavia secondo 2 Tim. 4,1 l s., dato che Luca è certamente
Il contenuto 25
escluso, sembra che possa trattarsi soltanto di Tichico che,
come sappiamo, godeva delle fiducia dell'Apostolo [Col. 4,
7-9; Eph. 6,21 s.], che aveva già messo gli occhi su di lui
per la guida della chiesa cretese [Tit. 3,12] ). Rimane ciò
che è veramente decisivo: anche dietro a queste Lettere, co-
me autore di esse, c'è la figura del grande Apostolo dei pa-
gani.
7. Tempo e luogo in cui furono scritte le Lettere. V. sopra
introd. 3, e comm. a 2 Tim. 4,2 l.
8. Il contenuto. Prima Lettera a Timoteo: l,1-2 saluti. I l,
3-20: messa in guardia contro i dottori della legge. II 2,1-3,
16: l'ordinamento della comunità. III 4,1-n: contro lepre-
tese ascetiche degli eretici. IV 4,12-6,2: istruzioni per la gui-
da della chiesa. v 6,3-19: errato e giusto atteggiamento verso il
denaro. 6,20.21: conclusione della Lettera. Seconda Lettera a
Timoteo: l,r.2: saluti. I l,3-2,13: esortazione a professare
la fede senza timori. II 2,14-4,8: i settari. III 4,9-18: la si-
tuazione personale dell'Apostolo. 4,19-22: conclusione del-
la Lettera. Lettera a Tito: l,1-4: saluti. r l,5-16: il ministe-
ro nella comunità e le sette. II 2,1-3,II: condotta di vita cri-
stiana. 3, l 2-15: conclusione della Lettera.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Commentari scientifici: H.J. Holtzmann, Die Pastoralbriefe kritisch


und exegetisch behandelt, 1880; B. Weiss, in: Meyer, Kritisch-exege-
tischer Kommentar ijber das NT XI 71902; G. Wohlenberg, in: Zahn,
Kommentar zum NT XIII 3 1923; M. Dibelius, in: Lietzmann, Hand-
buch zttm NT 13 21931 (riveduto da H. Conzelmann 31955); A.
Schlatter, Die Kirche der Griechen im Urteil des Paultts, 1936; C.
Spicq, Les Epìtres Pastora/es, 3 1947; B.S. Easton, The Pastora! Epi-
stles, 1947· Commentari di consultazione generale: F. Kohler, in: J.
Weiss, Die Schriften des NT, Bd. 2, 31917; Th. Haering, Die Pastoral-
briefe, 1928; A. Schlatter, Erlauterungen zum NT, Bd. 2, 4 1928; M.
Meinertz, in: Die Heilige Schrift des NT, a cura di Tillmann, 4 1931
(cattolico); P. Leo, Das anvertraute Gut (Die urchristliche Botschaft
xv) 1935; ]. Freundorfer, in: Das Regensburger NT 7, 1950 (catto-
lico). Eccellente la moderna traduzione di H. Menge, Die Heilige
Schrift des AT und NT, 81934. Sulla questione dell'autenticità: H.H.
Mayer, Uber die Pastoralbriefe, 1913; W. Michaelis, Pastoralbriefe
und Gefangenschaftsbriefe, 1930. Fondamentale: O. Roller, Das For-
mular der paulinischen Briefe, 1933·
LA PRIMA LETTERA A TIMOTEO

I saluti ( r,r-2)
1Paolo, apostolo di Cristo Gesù per ordine di Dio nostro salvatore e
di Cristo Gesù nostra speranza, 2 a Timoteo vero figlio nella fede:
grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù nostro
Signore.
l-2. Al suo fedele collaboratore Timoteo Paolo non ha dav-
vero bisogno di presentarsi come apostolo, cioè come inviato
di Gesù con pieni poteri; se lo fa ciò nonostante, è perché
la Lettera è destinata anche alle comunità, la cui guida è
stata affidata a Timoteo (v. sopra p. 14). Ma il titolo di
'apostolo' non è un titolo onorifico; molto acutamente Paolo
mette in rilievo il suo dovere di obbedienza: la sua missione
si fonda sul comando di Dio e di Gesù Cristo. Se qui Dio,
mutuando il linguaggio veterotestamentario (cfr. Ps. 2 5 ,5;
27,9; Abac. 3,18; Ecclus 51,1; inoltre Le. l,47; Iudae 25),
è chiamato 'nostro salvatore' (cfr. comm. a 2 Tim. l,10) e
Gesù Cristo 'nostra speranza', i due appellativi richiamano
alla redenzione finale, che è cominciata con la venuta di Ge-
sù: come tutta la predicazione evangelica, la predicazione di
Paolo si svolge nella visuale del compimento del mondo,
garantito da Gesù Cristo.
Gli indirizzi delle Lettere pastorali si caratterizzano per
un calore personale, che si esprime nel cordiale «vero figlio
nella fede». Paolo può definire così il suo rapporto con Ti-
moteo, perché ha portato alla fede e successivamente ordi-
nato al suo ufficio ( 2 Tim. l ,6) questo suo fedelissimo colla-
28 I saluti

boratore (Phil. 2,20). «Grazia, misericordia e pace» è il tri-


plice augurio di benedizione della prima e della seconda Let-
tera a Timoteo, e si differenzia dalla formula di saluto di
tutte le Lettere più antiche perché in luogo del consueto
'con voi' c'è la parola 'misericordia', che deriva da una for-
mula di benedizione giudaica (cfr. Gal. 6,16); come mostra
2 Io. 3, il triplice saluto era usuale nelle comunità cristiane
dell'Asia Minore. Non si può scorgere nella triplice formula
un argomento in merito alla questione dell'autore della Let-
tera, perché essa potrebbe essere stata scelta puramente per
un motivo ritmico: il singolare 'con te' in greco disturbe-
rebbe il ritmo della formula di saluto (v. introd. 2 ). La gra-
zia della divina benedizione, la misericordia che perdona e
la pace della comunione con Dio sono i tre beni salvifici che
ogni cristiano deve sempre chiedere a Dio, anche se pieno
di grazia.
PARTE PRIMA

DIFESA DAI DOTTORI DELLA LEGGE


(I ,3-20)

I. Timoteo deve affrontare gli eretici dottori della legge ( 1,3-II)


3 Ti ricordo l'esortazione che ti feci, quando partii per la Macedonia,

di rimanere a Efeso per ingiungere ad alcuni di non insegnare una


dottrina diversa 4 e di non occuparsi di miti e genealogie interminabili,
che portano solo a discussioni invece che all'educazione salvifica di Dio
nella fede. 5 Ma il fine di questa ingiunzione è l'amore con puro cuo-
re (1) e buona coscienza (2) e fede non finta (3). 6 Avendo deviato da
questa linea, alcuni sono finiti in chiacchiere vane, 7 desiderosi di essere
dottori della legge, senza comprendere né quello che dicono né quello
che sostengono. 8 Ma sappiamo che la legge è buona se se ne fa un uso
legittimo, 9 e cioè che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli ingiu-
sti e gli insubordinati, gli empi e i peccatori, i sacrileghi e i profanatori
(1- 4 ), i parricidi e i matricidi (5), gli assassini (6 ), 10 gli impudichi, i sodo-
miti (7), i mercanti di uomini (8 ), i bugiardi e gli spergiuri (9 ) e quan-
t'altro è contro la sana dottrina. 11 Così (insegna) la buona novella
della gloria di Dio beato, il cui annuncio egli mi ha affidato.
3-1 l. L'inizio della Lettera, con il rinnovamento dell'incari-
co già dato a Timoteo (cfr. Tit. l,5), si conforma al linguag-
gio ufficiale ( v. p. l 5 ). Quando Paolo era partito, aveva do-
vuto dire di no a Timoteo che avrebbe desiderato di andare
con lui. Ancora adesso non può rinunciare a lui a Efeso,
perché la chiesa nell'Asia Minore è minacciata da eretici, e
la Lettera vuole dargli il sostegno dell'autorità dell'Apostolo
nella sua lotta contro di essi. Questo brano costituisce il pri-
mo scontro con gli eretici, cui ne seguiranno molti altri (I
Tim. l,19 s.; 4,1-10; 6,3-21; 2 Tim. l,r5; 2,14-26; 3,1-9;
4,1-5; Tit. l,ro-16; 3,8b-II). L'eresia si manifesta in due
direzioni: da una parte finisce in vane speculazioni (vv. 4-6),
Timoteo deve affrontare gli eretici dottori della legge

dall'altra pretende l'osservanza di uno stretto legalismo (vv.


7-II ). Per quel che riguarda le speculazioni degli eretici, gli
esegeti nella chiesa antica erano divisi nell'interpretare i
'miti' e le 'genealogie' come idee giudaiche oppure gnosti-
che. Ambedue le spiegazioni in sé hanno del giusto, perché
l'eresia ha dei punti di contatto con la gnosi (I Tim. 4,3; 6,
20; 2 Tim. 2,18; Tit. l,16), ma anche degli aspetti giudaici
(Tit. l,10.14s.; 3,9). Per il nostro contesto si deve partire
dalla constatazione che Tit. l,14 parla di «miti giudaici» e Tit.
3,9 di «genealogie, discussioni e lotte intorno alla legge» (mo-
saica); perciò si deve supporre che con 'miti e genealogie' si
tratti di interpretazioni dell'Antico Testamento. Ora, questa
espressione doppia nella letteratura ellenistica serviva a de-
signare la storiografia mitologica; e questo è il motivo per
cui Filone intitolò i racconti storici della Bibbia fino alla
legislazione sul Sinai «Libro delle genealogie» (Genealogi-
kon ). In tal caso nel v. 4 i 'miti', che vengono nominati per
primi, indicano speculazioni sulla creazione. L'espressione
ellenistica 'miti e genealogie' significherebbe quindi specula-
zioni allegoriche sulla storia primitiva dell'Antico Testamen-
to. Ma Dio ha dato l'Antico Testamento non per delle 'chiac-
chiere', ma come 'educazione salvifica (questo dovrebbe es-
sere il significato della espressione polivalente oikonomia
theou) nella fede': un'importante affermazione fondamentale
dell'importanza dell'Antico Testamento per i cristiani, che
verrà trattata più estesamente in 2 Tim. 3,16 s. Come ogni
seria educazione, anche quella di Dio ha una chiara meta, che
si riassume semplicemente in una parola: 'amore'. Ma un a-
more attivo, tanto più nelle battaglie spirituali, ha bisogno
di una terra fertile in cui affondare le sue tre radici: un cuo-
re puro (1) una buona coscienza (2) e una fede sincera (3). Quei
teologi, contro i quali Timoteo deve intervenire, hanno tra-
scurato tutte queste condizioni; è questo il motivo per cui,
nonostante il loro sapere, la dottrina che predicano altro non
è che chiacchiere. In quanto 'dottori della legge' (un titolo di
I Tim. I,J-II 31
origine giudaica, che nel N.T. si trova soltanto altre due
volte: Le. 5,17; Act. 5,34) essi cercano fama, non solo nelle
sottigliezze della loro interpretazione della Scrittura, ma an-
che in un rigoroso legalismo (cfr. anche T it. l , l 4) e in un
ascetismo (I Tim. 4,3 ), che vogliono imporre alla comunità.
Questa loro posizione, che sostituisce all'amore l'osservanza
della legge, mostra come non abbiano capito il vangelo, non
ostante la loro presunzione. Infatti il legalismo significa mis-
conoscenza del significato del vangelo; certo, anche il cri-
stiano sa che la legge dell'Antico Testamento è rivelazione
salvifica di Dio (cfr. 2 Tim. 3,15-17; Rom. 7,12.16), ma essa
dev'essere usata 'secondo la legge'. Questo retto uso dei co-
mandamenti della legge veterotestamentaria si ricava dal ri-
conoscimento generale (è da notare che 9a esprime una ve-
rità di origine stoica) che le leggi non vengono emanate per
i giusti, ma per i rozzi peccatori, descritti nell"elenco dei
vizi' (una forma stilistica fissa, cfr. nelle Lettere pastorali
anche I Tim. 6,4 s.; 2 Tim. 3,2-5; Tit. 3,3 ). Stupisce in que-
sto elenco la presenza di delitti del tutto insoliti, come il
parricidio e il matricidio, e il commercio di uomini; ma essa
si spiega con il fatto che l'interpretazione rabbinica del 5°
comandamento del decalogo «onora il padre e la madre» (il
giudaismo ai tempi di Gesù seguiva la cosiddetta enumera-
zione 'riformata' dei ro comandamenti) richiamava i figli
adulti al dovere di prendere con sé i genitori anziani, di ve-
stirli e di nutrirli, e applicava 1'8° comandamento «non ru-
bare» anche al traffico di uomini. 'Parricidi e matricidi' so-
no dunque i trasgressori del 5° comandamento e 'mercanti
di uomini' i trasgressori dell'8° comandamento. Di fatto l'e-
lenco dei vizi enumera i trasgressori dei lo comandamenti:
i trasgressori dei comandamenti della prima tavola sono mes-
c-
si tutti insieme 4 ), mentre quelli dal 5° al 9° sono elencati
singolarmente (cfr. i numeri in esponente nella traduzione dei
vv. 9.10); l'espressione finale «e quant'altro è contrario alla
sana dottrina» si riallaccia al linguaggio della filosofia greca
32 L'esaltazione della misericordia di Gesù Cristo

dell'epoca, in cui 'sano' equivale a 'ragionevole, giusto'. Pe-


rò l'espressione, che è peculiare delle Lettere pastorali, 'sana
dottrina' (2Tim.4,3; Tit. l,9; 2,1; cfr. inoltre rTim.6,3;
2 Tim. l,13; Tit. l,13; 2,2.8 e l'immagine della malattia I
T im. 6 A) non vuole definire il vangelo come conforme alla ra-
gione, bensì è intesa in un senso antieretico: in contrapposi-
zione all'eresia, la pura dottrina del vangelo è detta 'sana'.
Il principio sviluppato nei vv. 9 s., che «la legge non è fatta
per il giusto», bolla di eresia il legalismo dei 'dottori della
legge' di Efeso. Chi è giustificato per Cristo è libero dalla
schiavitù della lettera della legge (Gal. 5,18 cfr. Rom. l0,4).
La proclamazione di questa libertà dalla legge è la parte cen-
trale del messaggio affidato in modo particolare all'Apostolo
(cfr. Eph. 3,8), che, in confronto alla rivelazione prepara-
toria della legge veterotestamentaria, svela l'escatologica glo-
ria di Dio beato (un attributo ellenistico di Dio, ripreso dal
giudaismo ellenistico) e beatificante.
La caratterizzazione degli eretici in questo brano è impor-
tante agli effetti della datazione della Lettera. l. Non ci tro-
viamo ancora di fronte alle grandi costruzioni dottrinali gno-
stiche. 2. L'eresia, come la forma più antica della gnosi (cfr.
Col. 2,16 ss.), è giudaizzante. 3. Gli eretici sono ancora den-
tro la comunità; soltanto in alcuni singoli casi comincia la
loro esclusione da essa (I Tim. l,20). Tutte e tre le caratte-
ristiche depongono per una datazione nei primi tempi del-
l'eresia (v. anche comm. a 2 Tim. 2,18).

2. L'esaltazione della misericordia cli Gesù Cristo ( 1,12-17)

12 Rendo grazie a colui che mi ha dato forza, Cristo Gesù nostro Si-
gnore, per avermi giudicato fedele e per avermi messo al suo servizio,
13 io che prima fui un bestemmiatore del suo nome (1), un persecuto-

re (2) e un nemico violento (della sua comunità) (3); ma ho ottenuto


la misericordia di Dio, perché (lo feci) per ignoranza, non possedendo
la fede. 14 Sì, la grazia di nostro Signore fu sovrabbondante (in me) con
la fede e l'amore che è in Cristo Gesù. 15 È parola certa e degna di fede
I Tim. r,r2-r7 33
che Cristo Gesù è venuto in questo mondo per salvare i peccatori, dei
quali io sono il primo. 16 Ma proprio per questo Dio ha avuto misericor-
dia di me, perché Cristo Gesù mostrasse in me per primo tutta la sua
longanimità ad esempio di coloro che avrebbero creduto in lui per la
vita eterna.
17 «Ma al re dei secoli,
immortale, invisibile, unico Dio,
onore e gloria
nei secoli dei secoli». Amen.

12-17. Con le ultime parole del brano precedente: «Così in-


segna la buona novella della gloria di Dio beato, la cui predi-
cazione egli mi ha affidato», Paolo si era richiamato alla sua
autorità apostolica, dando così espressione al grande miracolo
della sua vita; perciò non poteva fare a meno di interrompersi
per liberare il suo cuore traboccante in un inno di lode. È tut-
tora incomprensibile per l'Apostolo che Gesù, con la sua
chiamata sulla via di Damasco, gli abbia concesso la sua fi-
ducia, che è l'unica condizione che Dio esige dai suoi ammi-
nistratori (I Cor. 4,2 ); e gli abbia poi data anche la forza di
giustificare tale fiducia, a lui che ha bestemmiato il nome di
Gesù (1 ), ha perseguitato la sua comunità (2) e ha fatto flagel-
lare i membri di essa (3). C'è soltanto una spiegazione possi-
bile di questo miracolo: mi è venuta incontro la misericor-
dia, misericordia di cui non sono degno. Che Paolo, quando
ancora si chiamava Saulo, abbia peccato per ignoranza (Paolo
pensa alla distinzione veterotestamentaria tra peccare per
ignoranza e peccare per presunzione) e per incredulità, non
toglie nulla né alla colpa né al conseguente rimorso, ma può
soltanto spiegare la misura in cui è stata possibile una simile
misericordia. Paolo si colloca fra coloro per i quali vale la
parola di perdono e di assoluzione pronunciata dall'amore
del Salvatore dall'alto della croce: «Padre, perdona loro, per-
ché non sanno quello che fanno» (Le. 23,34). Ma non solo
nell'ora della sua conversione egli ha sperimentato l'inaffer-
rabile ricchezza della grazia, ma anche «con la fede e l'amore
34 L'esaltazione della misericordia di Gesù Cristo

che è in Cristo Gesù. La sua nuova vita nella comunione con


Cristo, che gli dà la forza per credere nel suo Signore e per
amare i fratelli, è, come la conversione, nient'altro che l'ef-
fusione di un'unica misericordia, che sfugge alla compren-
sione dell'uomo. Una formula ricorrente I Tim. 3,1; 4,9; 2
Tim. 2,n; Tit. 3,8 (cfr. Apoc. 21,5; 22,6) indica come Pao-
lo voglia riassumere in una citazione tutto quello che ha
detto sopra; nessuna parola può meglio riassumere il mira-
colo della sua vita, di quella detta a Zaccheo dal Salvatore:
«il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che è
andato perduto» (Le. 19,10). È questa l'esperienza che Pao-
lo ha vissuto sulla via di Damasco: egli faceva parte dei per-
duti, che giustamente erano caduti sotto l'ira di Dio; anzi,
egli era alla loro testa (I Cor. 15,9; Eph. 3,8). Si noti il pre-
sente «io sono il primo»; la colpa è stata annullata, ma
rimane come un impulso costante all'umiltà. Ed ecco ora la
cosa più grande: il disegno di Dio (l'espressione al passivo
«mi è stata concessa misericordia» sta in luogo di «Dio ha
avuto misericordia di me») in quest'atto di misericordia.
Quando il primo dei peccatori divenne il primo dei graziati,
quando Gesù Cristo diede a Paolo la dimostrazione della pie-
nezza della sua longanimità, Paolo divenne il prototipo di
tutte le future misericordie, fu mostrato al mondo quale ec-
cezionale caso limite di come gli uomini in futuro diverranno
beati per la fede edificata su Gesù (qui è presente l'immagi-
ne di Gesù come la prima pietra di un edificio, cfr. Rom. 9,
3 3 ). Così Paolo è una testimonianza vivente, irrefutabile,
che nessun uomo dev'essere considerato così perduto da non
poter essere raggiunto dalla misericordia di colui che è ve-
nuto per salvare i peccatori. Spontaneamente, questo inno
di esaltazione, questo pensiero alla propria conversione, ed
alle innumerevoli che seguiranno, si trasforma in adorazione,
in dossologia. Una formula di preghiera liturgica, che la co-
munità deve aver recitato spesso durante il servizio liturgico
e che deve essere derivata dal tesoro di preghiere della sina-
I Tim. z,z8-20
35
goga ellenistica precristiana, offre le parole giuste. L'adora-
zione delle comunità va al Re del tempo del mondo, che in
grazia, giudizio e nuova creazione fa trascorrere un'epoca
dopo l'altra fino al compimento del mondo, iniziato con la
venuta di Gesù. Egli è il donatore della vita ('immortale'),
egli è nella pienezza della luce, alla quale nessun uomo può
giungere ('invisibile'), egli è l'Unico. A lui spettano, onore
e gloria nell'eternità. A questo punto l'autore fa una pausa,
per consentire alla comunità di unirsi all'inno di lode con
il suo 'Amen'.

3. Combatti la buona battaglia ( r ,18-20)


18Queste sono le istruzioni che ti dò, Timoteo figlio mio, in armonia
con le precedenti profezie a tuo riguardo. Sostenuto da esse combatti
la buona battaglia, 19 avendo fede e buona coscienza. Alcuni, avendola
ripudiata, hanno fatto naufragio nella fede. 20 Tra di essi sono Imeneo
e Alessandro, che ho dovuto consegnare a Satana, perché imparino a
non bestemmiare.

18-20. Già l'espressione «queste sono le istruzioni», che ri-


prende i vv. 3 e 5, e poi tutto il contenuto di questo brano,
mostrano che esso è la continuazione dei vv. 3-1 I. Paolo ri-
corda a Timoteo l'ora della sua ordinazione (v. comm. a 4,
q), più precisamente - dato che evidentemente l'imposi-
zione benedicente delle mani veniva ripetuta ad ogni nuova
ordinazione (dr. Act. 13,3) -, l'ora del suo incarico a rap-
presentare Paolo a Efeso. Gli uomini dotati del dono della
profezia per opera dello Spirito Santo (sull'avvenimento dr.
Act. 13,1-3) danno a Paolo il diritto di trasferire a Timoteo
la responsabilità del lavoro a Efeso e debbono dare a Timo-
teo la gioia di portare tale responsabilità e di combattere la
buona battaglia, specialmente la lotta contro ogni falsifica-
zione del vangelo. È conforme al senso virile del cristiane-
simo di Paolo che egli prediliga le immagini tratte dal servi-
zio dei soldati; ed è per propria esperienza che egli definisce
Combatti la buona battaglia

soprattutto chi è investito di un ministero per la comunità


( cfr. 2 Tim. 2,3 .4; I Cor. 9,7) un soldato di Gesù Cristo, che
dev'essere armato tanto per sostenere una battaglia quanto
per sopportare i dolori. La sua arma più importante è la fede
e la buona coscienza (cfr. v. 5 ). Chi va in battaglia incerto
nella fede e con coscienza non pura è destinato a soccombe-
re: due esempi ammonitori illustrano la serietà della lotta.
I due uomini, di cui Paolo fa il nome (cfr. 2 Tim. 2,17; 4,
14), sembra siano stati collaboratori di Paolo e di Timoteo;
la loro rovina cominciò con il lassismo della loro condotta.
Divenuti preda delle passioni, la nave della loro vita era de-
stinata a fare naufragio e la loro fede a infrangersi; e quando
essi si lasciarono portare a bestemmiare ciò che è santo per
la comunità, Paolo si era visto costretto a «consegnarli a Sa-
tana», come già aveva fatto con l'incestuoso di Corinto (I
Cor. 5 ,5 ). Non si sa come ci si debba figurare nei particolari
questa consegna a Satana, ma è certo che qui Satana è imma-
ginato come l'esecutore della condanna, ed è probabile che
la consegna nelle sue mani avvenisse nella forma dell'espul-
sione dalla comunità (scomunica). Si era convinti che gli
esclusi sarebbero stati colpiti da pene nel corpo (cfr. I Cor.
11,30); in tutti i casi la condanna del v. 20 è intesa come pu-
nizione ecclesiastica, che non avveniva per motivi personali
ma per il bene della comunità, la cui vita interiore sarebbe
stata altrimenti distrutta dall'opera dei peccatori; e per il
bene degli stessi peccatori, cui si doveva impedire di peccare
ancora, e con la punizione da parte di Satana, dovevano es-
sere indotti a pentirsi.
PARTE SECONDA

L'ORDINAMENTO DELLA COMUNITÀ


(2,r-3,16)

In I Tim. 2-3 abbiamo il più antico ordinamento della chie-


sa cristiana, sorto da una imperiosa necessità pratica. In-
fatti, mentre agli inizi della missione paolina la vita comu-
nitaria si dispiegava liberamente per l'influenza determinante
dei doni dello Spirito, soprattutto quello della profezia e
quello delle lingue, ben presto sorsero degli inconvenienti
(come quelli che troviamo I Cor. n,12.14), donde il biso-
gno di fermi ordinamenti. L'ordinamento comunitario di I
Tim., il più antico del genere, è così il segno della progres-
siva conclusione del periodo dell'entusiasmo (cfr. I Cor. 14);
esso è diviso in due parti: il cap. 2 tratta del corretto servizio
liturgico (preghiere vv. 1-7; contegno degli uomini v. 8 e del-
le donne vv. 9-15); il cap. 3 tratta dei ministeri comunitari
(l'ufficio di guida della comunità vv. 1-7 e diaconato vv. 8-
13 ). Il modo in cui è ordinata la materia nella prima parte
lascia vedere che l'ordinamento della comunità è stato deri-
vato dal cosiddetto 'schema familiare' (v. anche Tit. 2,2-10 ),
cioè da quelle istruzioni sulla vita cristiana nella famiglia cri-
stiana, che troviamo nel Nuovo Testamento per la prima
volta in Col. 3,18-4,1 e Eph. 5,22-6,9 e poi in I Petr. 2,13-
3,9. Si confronti il modo in cui è ordinata la materia nella
prima parte dell'ordinamento in I Tim. 2 (superiori, uomini,
donne) con quello in cui è ordinata la famiglia in I Petr. (su-
periori, schiavi, mogli, mariti, tutti). Da che cosa sia stato in-
dotto il trasferimento dello schema dell'ordinamento familia-
re alla comunità è indicato da I Tim. 3,4 s. 12.15, dove la 'ca-
Il retto svolgimento del servizio liturgico

sa propria' è messa a confronto con la 'casa di Dio'. Dio è


un Dio dell'ordine (I Cor. 14,33); ciò vale tanto per la casa
cristiana, la famiglia, quanto per la casa di Dio, la comunità.
Anche nei particolari l'ordinamento comunitario utilizza ma-
teriale tradizionale ( v. comm. a 2, 5; 3, 2 e cfr. 2, 9- I 5 con
I Petr. 3,3-6). La conclusione innica in 3,16 gli dà il carattere
di un tutto autonomo.

I. Il retto svolgimento del servizio liturgico (2,1-15)

a) Le preghiere (2,1-7)
1 Raccomando, dunque, prima di ogni altra cosa, preghiere, orazioni,
suppliche, azioni di grazie, per tutti gli uomini (1 ), 2 per i sovrani (2)
e tutti coloro che sono costituiti in autorità (3), affinché possiamo con-
durre una vita quieta e tranquilla, con tutta pietà e onestà. 3 Ciò in-
fatti è buono e accetto a Dio nostro salvatore, 4 che vuole che tutti gli
uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità. 5 Infatti
«uno è Dio,
uno anche il mediatore tra Dio e gli uomini,
l'uomo Cristo Gesù,
6 che ha dato se stesso a riscatto di tutti»,

testimonianza nel tempo fissato.


7 diquesto (messaggio) Dio mi ha costituito predicatore e apostolo -
dico il vero, non mento -, dottore delle genti nella fedeltà e nella
verità.

1-7. In cima all'ordinamento della comunità sta l'orazione


pubblica in comune durante il servizio liturgico (più precisa-
mente durante la celebrazione dell'eucaristia, perché tali era-
no tutte le adunanze delle comunità dei primi tempi), come la
espressione più intima di una vivace vita comunitaria; essa ve-
niva subito dopo la spiegazione della Scrittura (Iust., apol., I,
67 ). I quattro vocaboli 'preghiere, orazioni, suppliche, rendi-
menti di grazie' vanno intesi come un tutto unico in quanto
l'orazione cristiana è volta in tutte le direzioni. La preghiera
di intercessione vale per tutti gli uomini (1 ), senza limitazio-
I Tim. 2,I-IJ
39
ne alcuna: nello spirito di amore di Gesù nessuno ne è e-
scluso. Vale anche per 'i sovrani' (il plurale sottolinea la va-
lidità generale della raccomandazione, che non si limita alla
persona di Nerone) (2) e per gli alti funzionari, ad es. i go-
vernatori delle province(3). La frase fìnale ('affinché') del v.
2b si rifà ad una formula, contenuta in papiri egiziani, in
cui si trova come motivazione di preghiere: cioè la comunità
deve motivare la sua intercessione con lo sguardo rivolto al-
la vita comunitaria «benedici i nostri concittadini, benedici
l'imperatore, affinché la nostra vita comunitaria prosperi se-
condo la tua volontà». In questa motivazione della preghiera
di intercessione c'è la fìducia della comunità che essa abbia
tanto valore agli occhi di Dio che Egli, nell'indirizzare la sto-
ria del mondo, si preoccupi della giusta prosperità della vita
comunitaria «nella quiete e nella tranquillità» (cioè, che es-
sa ottenga e conservi la pace) e nella compiacenza di Dio e
degli uomini («con tutta pietà ed onestà»). Nella preghiera
per le autorità appare in tutta la sua severità l'atteggiamento
cristiano verso lo Stato: in luogo dell'adorazione pagana del-
l'imperatore abbiamo la preghiera per l'imperatore e le altre
autorità, non solo come espressione di lealtà ma anche di un
interiore interessamento per le loro persone, come appare
già dalla sua collocazione («prima di ogni altra cosa») al v.
1 ( cfr. Rom. I 3,5 ). Questa preghiera per lo Stato ad opera
della comunità è indipendente dalla posizione politica del
singolo e dalla situazione politica; questa preghiera non per-
de di forza neppure se è formulata per uno Stato empio, per
uno Stato persecutore della comunità. Una tale preghiera,
che non esclude nessuno, è bene accetta a Dio; egli infatti è
il salvatore (cfr. 1,1), e il suo piano di salvezza è generale.
Tutti gli uomini (l'accento è posto sul tutti) devono essere
salvati dal giudizio dell'ira, «pervenendo alla conoscenza
della verità», cioè attraverso alla conversione (cfr. Hebr. 10,
26 ed anche 2 Tim. 2,25; 3,7). La certezza della comunità
che la volontà sal vifìca di Dio non esclude nessuno ( cfr. l' ac-
Le preghiere

cento posto su 'tutti' nei vv. l,4 e 6) è in nettissimo contra-


sto con la convinzione della sinagoga che Dio volesse per-
dere i peccatori e salvare soltanto i giusti, e in opposizione
alla gnosi, che prometteva la salvezza soltanto ai 'sapienti'.
La comunità ha questa certezza perché è stata ai piedi della
croce; è questo il significato della citazione dei vv. 5. 6 (cfr.
le virgolette nella traduzione), che suona come una profes-
sione di fede della comunità. La comunità confessa (nel dog-
ma fondamentale giudaico) l'unico Dio e (contro la molte-
plicità dei redentori a quell'epoca) l'unico mediatore, cioè
l'unico mediatore (della pace) tra Dio e l'umanità; la pro-
fessione di fede descrive la persona e l'opera di questo me-
diatore con le parole di Gesù in Mc. I0,45 par. Mt. 20,28: «il
Figlio dell'uomo è venuto ... a dare la sua vita a riscatto di
molti». Chi è? È l'uomo ( = il Figlio dell'uomo, v. Mc. 2,
IO), cioè il secondo Adamo, principio e signore della nuova
umanità redenta (Rom. 5,12 ss.; I Cor. 15,21s.45 ss.). Che
cosa ha fatto? Ha dato (le parole si richiamano a Is. 53) la
sua vita in espiazione per gli uomini divenuti preda della
morte. Questo sacrificio sulla croce è la 'testimonianza' (di
Gesù [ cfr. I T im. 6, l 3 ], di Dio, dei loro messaggeri? ), resa
a 'suo', vale a dire 'al giusto' tempo, cioè alla fine dei tempi
(Gal. 4,4). Figlio dell'uomo e servo di Dio, questa è dunque
la cristologia della fede antica. Nel nostro contesto l'accento
è posto sulla parola 'tutti' nel v. 6 (il resto è soltanto una ci-
tazione di contorno): per il fatto che Cristo si è consegnato
alla morte per tutti gli uomini, senza eccezione, la comunità
ha il diritto ed il dovere di impetrare senza limiti per l'uma-
nità non redenta. L'annuncio alle genti della rivelazione di
questa illimitata volontà salvifica di Dio è lo speciale com-
pito che Dio ha affidato all'Apostolo (Gal. 2,8; Eph. 3,1-13);
l'assicurazione, quasi un giuramento, «dico il vero, non men-
to», sottolinea con particolare forza la missione divina con-
tro qualsiasi dubbio, avanzato dai settari, sui poteri del-
1'Apostolo.
I Tim. 2,9-IJ

h) Il giusto servizio liturgico degli uomini ( 2,8)


8 Voglio dunque che gli uomini dappertutto preghino levando mani
san te (a Dio), senza ira né con tese.
8. L'elevazione delle mani, con le palme rivolte in alto come
coppe pronte a ricevere la benedizione divina, è un gesto di
preghiera pagano, giudaico (cfr. il «neppure gli occhi» di Le.
18,13 che va completato con «per non parlare delle mani»),
ma anche dei primi tempi cristiani. 'Dappertutto' (Mal. l ,1 l)
nel mondo dove Dio è adorato, secondo la sua volontà, le
'mani levate' debbono essere non soltanto esteriormente pu-
re, ma 'sante', cioè non macchiate dal peccato, in particolare
da quello dell'ira e della contesa. L'aveva già insegnato Ge-
sù: colui che prega dev'essere pronto a perdonare (Mt. 5,23
s.; 6,12; Mc. 11,25). Come può un uomo chiedere di essere
perdonato da Dio, se ha odio nel suo cuore e non vuole per-
donare? Come può nell'eucaristia, in cui veniva recitata la
preghiera di cui qui si parla (dr. comm. al v. l ) , farsi conce-
dere il perdono dei peccati se a sua volta rifiuta il perdono
ai suoi fratelli? Quello di cui parla l'Apostolo è lo speciale
peccato degli uomini, che è di ostacolo al loro servizio litur-
gico e alla loro vita di preghiera.

c) Il corretto contegno delle donne durante il servizio liturgico


(2,9-15)
9(Voglio) similmente che le donne siano in abito decoroso, adorne di
verecondia e modestia, e non con trecce e oro e gemme o in vesti lus-
suose, 10 ma, come si conviene a donne che fanno professione di pietà,
con opere di carità. 11 La donna ascolti in silenzio con piena sottomis-
sione. 12 Non permetto alla donna di insegnare né di prevalere sull'uo-
mo, ma stia in silenzio. 13 Infatti Adamo fu formato per primo, e poi
Eva. 14 E non fu sedotto Adamo ma fu Eva che si lasciò sedurre e
cadde in trasgressione. 15 Essa però si salverà diventando madre, pur-
ché essi rimangano nella fede, nell'amore e nella santificazione, con
modestia.
9-15. Anche la partecipazione delle donne al culto presenta
42 Il corretto contegno delle donne durante il servizio liturgico

qualche pericolo. Quello soprattutto della tentazione di ac-


cendere con un abbigliamento vistoso la concupiscenza del-
l'uomo, e per conseguenza di distrarre sé e l'uomo dal neces-
sario raccoglimento. Perciò l'ordine nella comunità esige ve-
recondia nel vestirsi delle donne, quando esse partecipano al
servizio liturgico comunitario («parole che non tendono a
soffocare, bensì a santificare, l'istinto naturale della donna
ad ornarsi», come scrive il Haering). Il vero ornamento di
una cristiana timorata di Dio, che l'adorna più dell'oro e
delle gemme, sono le opere dell'amore (v. al riguardo dopo
I Tim. 5,r6); cfr. I Petr. 3,3-6. Un secondo ammonimento è
quello che proibisce alle donne di prendere la parola, come
atto di culto (cfr. I Cor. r4,33b-36). Questo era un proble-
ma di grande attualità; mentre la sinagoga giudaica consen-
tiva alle donne soltanto di ascoltare, nelle comunità paoline
(a Corinto, ad es.) era invalsa l'usanza che durante il servi-
zio liturgico prendessero la parola anche delle donne dotate
del dono della profezia (I Cor. r l ,5 ); ma questa usanza ave-
va avuto pericolose conseguenze: si era constatato, infatti,
che tali profetesse facilmente trascuravano i loro doveri do-
mestici (cfr. Tit. 2,4 s.) e che le donne, inclini all'entusia-
smo, finivano con l'esagerare (ITim. 5,13), offrendo argo-
menti agli eretici (2 Tim. 3,6 s.). Era dunque necessario in-
tervenire energicamente contro tali insane tendenze eman-
cipatrici. Esse, dicono i vv. 13 s., sono contrarie all'ordine
divino della creazione, che obbliga anche la comunità cristia-
na (cfr. Mc. ro,6; I Cor. 14,34). Paolo, già nel fatto che A-
damo fu creato prima di Eva vede la volontà di Dio che la
donna sia subordinata all'uomo; in ciò egli segue la conce-
zione orientale, che si incontra spesso anche nel Nuovo Te-
stamento, che quello che è più antico vale di più (cfr. Col.
r,r5; Eph. r,4; Io. r,r ecc.). Pertanto una parità di diritti
tra l'uomo e la donna nel servizio liturgico equivale ad una
infrazione all'ordine posto da Dio nella creazione. Un secon-
do argomento tratto dalla Scrittura, quello del racconto del
I Tim. 3,I-I 3
43
peccato originale, porta alla stessa conclusione: fu Eva a la-
sciarsi sedurre dal serpente (Gen. 3,6 dr. 2 Cor. 11,3), per
cui la punizione di Dio per il peccato originale (Gen. 3,16)
è di fare dell'uomo il signore della donna. Inoltre, le stesse
parole di Gen. 3,16 indicano quale compito Dio abbia affidato
alla donna sposata: la maternità. Questo concetto è esposto
qui in un modo molto strano, perché è detto che la donna
<:<sarà salva generando figli, se (essi, cioè i figli) rimarranno
nella fede, nell'amore e nella santificazione con modestia»;
in altre parole la maternità è vista come un mezzo di salvez-
za, purché però si accompagni all'educazione cristiana dei
figli con l'esempio di una vita pia e pura. Questo passo ri-
prende idee tardo-giudaiche (le doglie del parto cancellano
la maledizione di Gen. 3,16; inoltre cfr. b. Ber. qa: «co-
me possono le donne farsi dei meriti? Facendo studiare nella
scuola i loro figli»). Questo richiamo ad idee giudaiche perde
quanto ha di strano se si ha ben chiaro in mente che tutto il
passo 2, r r - l 5 non è volto a impedire la collaborazione della
donna nella comunità, ma soltanto ad eliminare gli eccessi
pericolosi di una malintesa emancipazione, e in ultima ana-
lisi vuole dimostrare che l'ascesa degli eretici, contraria alla
creazione (I Tim. 4,3) è contraria all'insegnamento della
scrittura. È in gioco l'istituto del matrimonio ( Schlatter ). Per
primi vengono i doveri della donna verso la famiglia secondo
la volontà di Dio: ecco la soluzione cristiana del problema
della donna, in contrasto nettissimo con ogni fanatismo asce-
tico.
2. I ministri della comunità (3,1-13)
La prima parte dell'ordinamento comunitario (cap. 2) si era
occupata del corretto servizio liturgico; ora la seconda parte
(cap. 3) si occupa degli 'episcopi' (vv. l-7) e dei 'diaconi'
(vv. 8-13), cioè dei ministri della comunità. L'episcopato e
il diaconato (a parte il 'ministero 1 delle vedove) sono gli
unici ministeri (dr. comm. a 5, l 7) conosciuti nelle Lettere
44 I capi della comunità

pastorali; la mancata presa in considerazione dei carismatici


(apostoli, profeti e dottori, cfr. I Cor. 12,28) si spiega con
il fatto che qui si parla soltanto dei ministeri elettivi. Per la
questione dell'autenticità delle Lettere pastorali è importan-
te il fatto che nel Nuovo Testamento episcopi e diaconi sono
citati gli uni accanto agli altri, oltre che qui soltanto in Phil.
r,r. Ciò colloca le Lettere pastorali molto vicine nel tempo
alle Lettere più antiche di Paolo.

a) I capi della comunità ( 3,1-7)


1È giusto il detto: chi aspira all'ufficio di guida della comunità desi-
dera una funzione eccellente. 2 Perciò il capo della comunità dev'es-
sere irreprensibile (1), sposato ad una sola mogli~ (2), sobrio (3), pru-
dente (4), cortese (5), ospitale (6 ), atto all'insegnamento (7), 3 non dedito
al vino( 8 ), non violento( 9 ), ma benevolo(1°), pacifico( 11 ), disinteressa-
to (1 2 ), 4 bisogna che sappia governare bene la sua casa ( 13 ) e che tenga
sottomessi i figli con tutta onestà (1 4 ). 5 Se infatti uno non sa gover-
nare la propria casa, come potrà essere diligente per la comunità di
Dio? 6 Non deve essere neofita(1 5 ), affinché non monti in superbia e non
cada nella stessa condanna del diavolo. 7 Occorre infine che abbia una
buona riputazione presso quelli che non appartengono alla comuni-
tà (1 6 ), per non cadere in discredito e nei lacci del diavolo.

Chi sono gli episkopoi (letteralmente 'i sorveglianti') di


cui parla I T im. 3, r-7? La parola si incontra solo cinque vol-
te nel Nuovo Testamento: Phil. r,r per la prima volta, poi
I Tim. 3,2; Tit. r,7; Act. 20,28; I Petr. 2,25. È difficile che
possa derivare dal linguaggio ellenistico, dove significa fun-
zionario, capo contabile, cassiere; piuttosto trova corrispon-
denza in un uso giudaico. Infatti sappiamo dal Documento
Damasceno che le colonie della setta giudaica degli Esseni
avevano a capo uomini che portavano il titolo di 'sorveglian-
te' (mebaqqer); a proposito del 'sorvegliante' di una di quel-
le colonie il documento dice: «Egli deve istruire la gente sui
fatti di Dio ... , deve aver compassione di essa, come un pa-
dre dei suoi figli ... , come un pastore del suo gregge, deve
I Tim. 3,I-7
45
sciogliere tutte le catene con cui sono legati .. ., ed esaminare
chiunque voglia entrare nella sua comunità» ( l 3 ,7-rr ). Dob-
biamo ritenere simili i doveri dei 'sorveglianti' ( episko-
poi) delle primitive comunità cristiane ( v. Phil. l ,1 ); però
non è necessario dedurne una diretta dipendenza della chiesa
dagli Esseni, perché è presumibile che anche le comunità fa-
risaiche fossero organizzate in un modo analogo (cfr. Le. 14,
l ). L'episkopos non è un vescovo nel senso dell'episcopato
monarchico; né i testi esseni né le comunità neotestamentarie
conoscono tale ministero episcopale; come appare da Phil. l ,1
la traduzione più esatta è «capo della comunità». Dato che
gli episkopoi avevano anche funzioni spirituali (3,2; Tit. l,
9), si potrebbe dire che I Tim. 3,1-7 e Tit. l,6-9 sono i due
primi esempi di parroco nel Nuovo Testamento (cfr. anche
Mt. 18 ).

1-7. Con la formula già nota da 1,15 viene citato un detto,


nel quale si esalta l'eccellenza dell'ufficio di guidare una co-
munità come un incarico santo. Ma proprio per questo mo-
tivo esso pone molte esigenze; guai a coloro che si danno da
fare per riceverlo (cfr. Iac. 3,1 ). Se l'enumerazione di queste
esigenze appare a prima vista incolore e molto generica, di-
pende dal suo allineamento a schemi ellenistici di virtù (così
si spiega anche il fatto che gli elenchi di 3,1-7.8-13; Tit. l,6-
9; 2 ,2. 3 siano delle variazioni sullo stesso schema fonda-
mentale); però, ad un esame più attento, si vede che l'elen-
cazione riflette una ricca esperienza ecclesiale. Per primo vie-
ne un generico 'irreprensibile' (1): non deve esserci alcuna
macchia sul passato di un uomo che debba essere degno della
fiducia della sua comunità. Che cosa ciò significhi lo mostra-
no gli esempi che seguono: sulla sua vita matrimoniale (2)
non deve cadere l'ombra di nuove nozze seguite a un divor-
zio (così probabilmente si deve intendere l'espressione «spo-
sato a una sola moglie» [ITim. 3,2.12; Tit. l,6; dr. ITim.
5 ,9], che si ritrova in iscrizioni sepolcrali dell'epoca), nuove
I capi della comunità

nozze proibite da Gesù (Mt. 5,32 ecc.) e giudicate in Mc. 10,


r r par. come una forma camuffata di poligamia. Basti pen-
sare all'enorme aumento del numero dei divorzi nel periodo
imperiale. L'episcopo, poi, deve essere 'sobrio' (3), cioè chia-
ro nel giudizio (non tanto: moderato nel bere, cfr. 8 ), 'pruden-
te' (4 ) nelle sue decisioni, 'cortese' nel comportamento (5).
La sua casa deve essere aperta agli inviati della comunità
(3 Io. 8, ecc.), come anche ai poveri e ai bisognosi di aiuto
('ospitale' 6 ). Deve avere capacità e doti per insegnare (7).
Non deve essere assolutamente 'dedito al vino' (8) o 'violen-
to' (9 ), ma piuttosto deve essere per la comuntià un modello
di 'dolcezza' (1°), di 'pace interiore' (1 1 ) e di 'disinteresse' (1 2 ).
Ma soprattutto è indispensabile che la sua vita familiare sia
esemplare: a casa sua (13 ), specialmente nell'educare i figli ad
essere sottomessi ed onesti (' 4 ), egli deve aver dato buona
prova, se si vuole affidare alle sue cure paterne la casa di
Dio, la comunità con tutte le sue necessità spirituali e ma-
teriali (si noti che lo stato matrimoniale del capo della co-
munità è considerato come una cosa ovvia). Ma se le esigen-
ze poste all'episkopos sono tanto serie, equivarrebbe a in-
durre l'uomo in tentazione affidandone la responsabilità a un
convertito di recente (neophytos =piantato di recente 15 ), ma-
gari a motivo della sua elevata posizione sociale: è una tenta-
zione alla superbia, e se essa si impadronisce dello spirito del
capo di una comunità è all'opera lo stesso Satana, pronto a
esigere da Dio l'esecuzione della condanna (Apoc. 12,10).
Va detta, infine, ancora una cosa, che non può essere trascu-
rata prima di chiamare una persona ad esercitare il ministe-
ro: la buona riputazione presso gli estranei (16 ). Certamente
la comunità conosce il perdono, che è alla base del suo es-
sere; ma perdonare ed eleggere a capo sono due cose ben
distinte; perché il mondo per giudicare la comunità guarda
innanzi tutto al suo capo spirituale. Un passato macchiato
di colpe suscita chiacchiere malevole, senza contare che (co-
me la superbia) apre le porte a Satana, perché ha in sé il
I Tim. 3,8-r3 47
pericolo della ricaduta. Si noti che Paolo non fa parola, fra
le condizioni necessarie per l'esercizio del ministero, né di
talento organizzativo né di dono della parola facile e sua-
dente: egli chiede soltanto prontezza all'obbedienza verso
Dio.

b) I diaconi ( 3,8-13)
8Similmente i diaconi siano uomini degni (1), non doppi nel parlare (2),
moderati nell'uso del vino (3), non dediti a guadagni disonesti ( 4 ), 9 ma
serbino il mistero della fede in una coscienza pura (5). 10 Anch'essi
siano prima messi alla prova, e siano ammessi all'ufficio di diaconi
solo se li si troverà senza colpa. 11 Ugualmente le donne siano degne,
non maldicenti, ma sobrie, fedeli in tutto (6 ). 12 I diaconi siano spo-
sati a una sola moglie (7), governino bene i loro figli e la loro ca-
sa (8 ). 13 Coloro che adempiono bene il loro compito, acquistano un
grado onorevole e una grande fiducia nella fede in Cristo Gesù.

8 13. Oltre al ministero dell'episkopos le Lettere pastorali co-


noscono soltanto (cfr. comm. a 5, r 7) quello del diakonos (co-
me Phil. I,I) e della vedova. I diaconi ('servitori', 'aiutanti')
dovevano curare il servizio dei poveri e dei malati nella co-
munità. Il loro titolo è una novità assoluta per quell'epoca;
le definizioni delle cariche nel mondo circostante sono espres-
sioni di potere o di onore. La definizione di questo nuovo
ministero risale direttamente a parole di Gesù: egli stesso
aveva inculcato nella mente dei suoi discepoli che al suo se-
guito la vera grandezza consiste nel dovere di servire (Mc.
9,35), e si era presentato come modello nel servizio (Mc.
I0,45; Io. 13,1 ss.). Poiché i diaconi maneggiavano il dena-
ro della comunità, tra le loro doti - oltre alla dignità (1 ), la
:fidatezza nel parlare (2) e la moderazione nel bere (3) - è indi-
cata particolarmente la chiarezza nelle questioni di denaro (4 ).
L'esercizio dell'amore cristiano per incarico della comunità
presuppone che essi siano assolutamente meritevoli di fiducia;
perciò colui, cui esso è affidato, deve «serbare in una coscien-
za pura»( 5 ) il vangelo (chiamato mistero della fede', perché
I diaconi

Dio lo tenne nascosto [Rom. 16,25 s.; Col. l,26 s.], finché
non ruppe il silenzio in Cristo), cioè fare molta attenzione
a non rendere incredibile con scandali la buona novella.
Nulla è più dannoso alla fede che essere sostenuta da un uomo
non puro dalla coscienza gravata di colpe. Certamente, solo
Dio può misurare la fede di un uomo; tanto più deve essere
scrutinata e sottoposta ad un periodo di prova la condotta
in passato e la dignità morale degli uomini cui deve essere
affidato il compito di fiducia di un diacono. Certe condizioni
sono poste anche alle loro donne (6 ) (è possibile che al v. l l
si parli di diaconesse, cfr. Rom. 16,1-2); infatti, proprio l'at-
tività caritativa è un compito che richiede la collaborazione
delle donne. La moglie di un diacono dev'essere degna; non
deve cadere nel peccato della maldicenza, cui soggiace più
facilmente una donna; deve essere sobria nel giudicare (v.
comm. al v. 2) guardandosi dal falso entusiasmo; sotto ogni
aspetto essere degna di fede. Anche per i diaconi, ai quali
ritorna il v. 12, vale, come per i capi delle comunità, il prin-
cipio che devono essere «sposati ad una sola moglie» (7)
(verosimilmente, v. comm. al v. 2: proibizione di nuove noz-
ze di un divorziato) e che devono dare nella loro casa, spe-
cialmente nell'educazione dei figli, l'esempio di una famiglia
cristiana (8). Se tanto è richiesto altrettanto sarà dato in con-
traccambio; un diacono fedele riceve una grande ricompen-
sa: egli «si acquista un grado onorevole», cioè considera-
zione e fiducia della comunità (si potrebbe anche pensare ai
gradini che portano al trono celeste; l'idea che dei gradini
portino al trono celeste, come ad ogni trono regale, è fer-
mamente ancorata al mondo biblico, la conosciamo, ad esem-
pio, fin dal sogno di Giacobbe della scala che sale fino al
cielo, Gen. 28 ). E egli ottiene <<Una grande fiducia», cioè
(secondo l'uso neotestamentario della parola, che originaria-
mente vuol dire 'schiettezza') la gioia della testimonianza
impavida e della preghiera filiale, e soprattutto la fiducia
davanti a Dio nel giudizio dell'ultimo giorno. Felice chi è
I Tim. 3,r4-r6 49
stato fedele nel suo ministero: egli può guardare consolato
al giudizio di Dio; naturalmente non per i suoi meriti, ma
per la :fiducia nella fede in Cristo Gesù, che ha espiato a suf-
ficienza tutti i peccati che anche il più fedele ha su di sé in
sovrabbondanza.

3. La conclusione dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cristo


(j,14-16)
14Ti scrivo tutto questo, sperando di venire presto da te; 15 ma, nel ca-
so che dovessi tardare, perché tu sappia come ti devi comportare nella
casa di Dio, cioè nella chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della
verità. 16 Senza dubbio grande è il mistero della nostra fede, (cioè Co-
lui) «che
fu manifestato nella carne,
giustificato nello Spirito (1 ),
apparve agli angeli,
fu proclamato alle genti (2),
fu creduto nel mondo,
fu assunto in gloria (3)».

14-16. Prima di tutto, il :finale spiega perché Paolo abbia


scritto, quantunque abbia l'intenzione di recarsi presto da
Timoteo: potrebbero esserci dei ritardi nel viaggio. Ma si
potrebbe aggiungere un secondo motivo: l'ordinamento co-
munitario non è destinato soltanto a Timoteo, ma dev'es-
sere una direttiva costante per le comunità dell'Asia Minore,
che dovrebbero riflettere sulla grave responsabilità che pesa
su di lorò. La chiesa è infatti la casa del Dio vivo, che non
tollera che il suo santuario sia profanato (I Cor. 3,17). Essa
è stata posta da Dio nel mondo come una colonna, un fon-
damento sul quale ha ferma dimora nel mondo la rivelazione
di Dio in Cristo, l'unica verità. Questa unica verità, il mi-
stero della nostra fede (v. comm. al v. 9), è lui, soltanto lui,
del quale l'inno della comunità adorante canta: «manifesta-
to nella carne ... ».
La concluszone dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cristo

L'inno a Cristo (3,16), nel quale culmina tutta la Lettera,


comincia col presentare un problema di critica testuale. I
migliori testi hanno al principio il pronome relativo maschile
'il quale' (greco: hos): «grande è il mistero: (egli) che si è ma-
nifestato ... » allora tutto l'inno costituisce una frase relativa,
cui manca quella principale. La maggior parte dei testi occi-
dentali hanno il pronome relativo greco neutro ho, e in tal
modo collegano, correttamente sotto l'aspetto grammaticale,
l'inno a r6a: «grande è il mistero della nostra fede, il qua-
le ... ». La maggior parte dei testi seriori, invece, legge 'Dio'
(theos ); con questa lezione conosciuta da Lutero si ha una
fase principale corretta: «grande è il mistero: Dio si è ma-
nifestato nella carne ... ». Qui, come spesso in altri casi, vale
la regola di critica testuale: la lezione grammaticalmente più
difficile (nel nostro caso la prima) è quella originale; con
il tempo il testo è stato reso più facile. In tal caso, secondo
il testo più antico l'inno costituisce una unica frase secon-
daria, senza la principale, cui per lo meno si dovrebbe pre-
mettere 'Egli'; proprio per questo è chiaro che esso è stato
tratto dal contesto di un canto comunitario, che probabil-
mente era preceduto approssimativamente dalle parole: «sia
lode e gloria a lui, che si è manifestato ... ».
Anche la composizione stilistica merita attenzione; essa
è composto di sei righe parallele, ognuna delle quali comin-
cia con un passivo (con uguale finale in greco), che descrive
un'azione di Dio. Ogni coppia di righe è una contrapposi-
zione di concetti: carne-Spirito (1 ); angeli-genti (2); mondo-
gloria (3). Ognuna delle tre coppie contrappone dunque il
terreno al celeste in una successione chiastica ( terreno-cele-
ste; celeste-terreno; terreno-celeste). Questa constatazione è
importante ai fini esegetici, perché mostra che vengono esal-
tati in forma innica tre successivi avvenimenti della rivela-
zione di Dio in Gesù Cristo: sono tre avvenimenti, che co-
nosciamo dal cerimoniale vetero-orientale dell'intronizzazio-
ne di un re, di cui abbiamo una documentazione per l'Egitto
I Tmz. 3,r4-r6 5r

(E. Norden). Il cerimoniale dell'intronizzazione del re nel-


l'antico Egitto si componeva di tre atti: l. il nuovo re riceve
le proprietà divine in una solenne azione simbolica (esalta-
zione); 2. il re, ora divinizzato, è presentato agli altri dèi
(presentazione); 3. soltanto dopo la presentazione egli è in-
vestito della sovranità (intronizzazione). Questo antichissi-
mo cerimoniale si trasformò a poco a poco in una rigida
forma stilistica che sopravvisse ancora per poco tempo, fi-
no a quando l'usanza dell'intronizzazione cadde in disuso.
Questa forma stilistica dei tre gradi negli inni di introniz-
zazione si trova ad es. in Phil. 2,9-1 l, dove si succedono:
r. l'esaltazione (v. 9a), 2. la proclamazione del nome so-
pra tutti i nomi (v. 9 b ), 3. l'omaggio all'intronizzato, in
adorazione e professione di fede (vv. 10 s.). Un altro esem-
pio è offerto da Mt. 28,18-20: r. attribuzione dei poteri so-
vrani (v. l8b); 2. proclamazione (vv. 19.2oa); 3. dimostra-
zione della potenza (cfr. Mc. 16,17 s.) dell'intronizzato (v.
2ob; O. Michel). Si veda infine Hebr. 1,5-14, dove (ogni vol-
ta contrapponendo il Figlio agli angeli), si parla l. della ele-
vazione a Figlio di Dio, che gli angeli adorano (vv. 5-6); 2.
della proclamazione della gloria imperitura (vv. 7-12); 3. del-
l'intronizzazione (vv. 13 s.). Questa forma stilistica dell'inno
di intronizzazione è propria anche del nostro inno a Cristo,
il cui oggetto è l'intronizzazione di Gesù Cristo; essa si
compie in tre fasi: r. l'esaltazione del Fglio di Dio fattosi
uomo (prima coppia); 2. l'annuncio di questa esaltazione al
mondo celeste e terrestre (seconda coppia); 3.l'insediamen-
to di Cristo nella gloria (terza coppia). Ognuna di queste tre
fasi si compie nel cielo e sulla terra: la manifestazione di
Cristo è un avvenimento cosmico, onnicomprensivo. L'ese-
gesi deve partire da questa constatazione.

1. L 'es a 1t azione. La comunità professa Gesù Cristo


come colui che «fu manifestato nella carne, giustificato nello
Spirito». Si confrontano due avvenimenti, uno terreno e
52 La conclusione dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cristo

l'altro soprannaturale: quello terreno è l' «apparizione per


mezzo della carne», dove la parola 'carne' non significa
come per lo più nella letteratura paolina, l'empia essenza
dell'uomo naturale, ma, secondo il linguaggio veterotesta-
mentario, l'esistenza terrena di Gesù (così ad es. nelle for-
mule cristologiche affini Rom. r,3 s.; r Petr. 3,18); quello
soprannaturale è la «giustificazione per mezzo dello Spirito».
Con 'giustificazione' si potrebbe, secondo un linguaggio elle-
nistico (di cui però si hanno attestazioni soltanto nell'era
cristiana), voler dire l'esaltazione al modo di essere della
giustizia divina; ma è più probabile che, secondo il linguag-
gio biblico, si intenda dire che Dio mostra a tutto il mondo
come il Giusto colui che è stato crocefisso come un malfat-
tore. Concretamente, in ambo i casi, la giustificazione è la
risurrezione; questa è avvenuta 'nello Spirito' (di Dio), cioè
in forza dello Spirito di Dio, del quale Gesù è stato il por-
tatore, allo stesso modo che la risurrezione dei fedeli avverrà
«per mezzo dello Spirito» (Rom. 8,r r ). Con questa pubblica
giustificazione del Crocifisso nella risurrezione è cominciata
la sua intronizzazione. Segue 2. l'annuncio dell'esal-
tazione al mondo celeste e terrestre (presentazione): «ap-
parve agli angeli, è stato proclamato alle genti». Anche qui
si confrontano l'avvenimento celeste e quello terreno: gli
angeli adorano come loro Signore colui che sta per ascendere
in cielo, al quale d'ora innanzi saranno sottomessi (Phil. 2,
rr; Eph. r,2os.; rPetr. 3,22). A questa introduzione del
Glorioso nella sfera della sua sovranità celeste corrisponde
l'annuncio di lui alla sfera della sua sovranità terrestre; in-
fatti la predicazione del vangelo della redenzione per Gesì1
Cristo è la proclamazione ai popoli della terra dei suoi di-
ritti sovrani. Infine 3. l 'in t r o nizz azione: «creduto
nel mondo, fu assunto in gloria». Anche l'intronizzazio-
ne del Cristo glorioso è un avvenimento che abbraccia cie-
lo e terra: nel mondo celeste l'intronizzazione avviene con
l'accoglimento nella gloria di colui che è asceso in cielo e sul
I Tim. 3,I4-I6 53
trono alla destra di Dio; sulla terra egli estende la sua sovra-
nità dovunque vi siano uomini che si sottomettono nella
fede al messaggio di salvezza.
È la vigorosa cristologia della comunità primitiva quella che
è espressa nell'inno dell'intronizzazione, come la conosciamo
da Phil. 2 ,5-II; anche qui la comunità esprime la sua fede
nel Crocifisso, che è il Glorioso, che gli angeli adorano e
che d'ora innanzi è il Signore. Ma l'inaudito di questo mes-
saggio rimane il «manifestato nella carne». Che l'eterno Fi-
glio di Dio si sia fatto uomo, questo è il «grande mistero».
PARTE TERZA

LA LOTTA CONTRO LE PRETESE ASCETICHE


DEGLI ERETICI
(4,I-II)

Dopo l'inno gi01oso di lode al mistero divino, con cui si


conclude il brano sull'ordinamento comunitario, la Lettera
ritorna all'argomento della lotta di Timoteo contro i settari,
che aveva già trattato nel primo capitolo. L'ordinamento
della vita comunitaria e il mantenimento dell'unità della co-
munità contro false dottrine costituiscono i due principali
interessi della prima Lettera a Timoteo e della Lettera a Tito.
Ma mentre nel primo capitolo si era parlato deila dottrina
dei settari, nel quarto capitolo sono discusse le loro pretese
relative al modo di vita dei loro seguaci. Il vero modo di
vita cristiana non è il legalismo ascetico, come sostengono
gli eretici, ma è un camminare sotto la disciplina dello Spi-
rito: Timoteo deve attestarlo alla comunità con la parola e
con la condotta.

r. Le pretese ascetiche dei settari ( 4,r-5)

1 Lo Spirito dice chiaramente che negli ultimi tempi alcuni rinneghe-

ranno la fede, per seguire spiriti dell'errore e dottrine diaboliche, 2 se-


dotti da mentitori ipocriti, bollati a fuoco nella loro coscienza, 3 che
proibiscono il matrimonio e l'uso dei cibi che Dio ha creato perché
siano presi con rendimento di grazie dai credenti e da coloro che
hanno conosciuto la verità. 4 Perché tutto quanto Dio ha creato è
buono, e nulla va rigettato quando lo si prende con rendimento di
grazie; 5 infatti è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.

1-5. Questo brano inizia con una parola profetica dello Spi-
rito Santo. Dio stesso ha annunciato in modo inequivocabile
I Tim. 4,I-5 55
alla comunità, per mezzo delle parole di uomini carismatici,
che negli ultimi tempi l'apostasia farà il suo ingresso nella
comunità. La convinzione che il regno di Dio sarebbe giunto
dopo un periodo di lotte, dolori e apostasie era comune certez-
za della cristianità più antica, ed è espressa frequentemente
nelle parole profetiche ed ammonitrici che avevano un posto
fisso nella primitiva celebrazione cultuale. Nelle parole del
Signore di Mc. r 3 ,2 2 ed in quelle dell'Apostolo di 2 T hess.
2,3.rr-12; Act. 20,29-30; Apoc. 3,ro; r3, abbiamo esempi
del contenuto di tali profezie sul tempo delle apostasie; e
in Act. r r,27-28; r3,r-2; I Cor. 14, esempi di situazioni in
cui si levarono voci profetiche durante il servizio liturgico.
Ma qui l'Apostolo non si attende in un tempo lontano e in-
determinato l'adempimento di queste profezie; infatti, gli
element.i concreti dei vv. 3 e 7 provano che egli parla del pre-
sente della comunità. I settari sono i primi messaggeri del
mondo degli spiriti nemici di Dio, che cercano di distrug-
gere la comunità di Gesù. Come lo Spirito Santo ha preso
dimora nei battezzati nel nome di Gesù Cristo, così hanno
fatto gli spiriti maligni, per la diffusione delle loro dottrine.
'Dottrine diaboliche'? sì! Satana fonda una nuova religione.
Questa è la tentazione degli ultimi tempi. Due sono i segni
che stanno a indicare che gli eretici sono strumenti di forze
sataniche: r. la loro ipocrita e arrogante falsa pietà e 2. i lo-
ro vani sforzi per nascondere, sotto il velo di rigorose pre-
tese ascetiche, nelle loro coscienze il marchio dello schiavo
(invisibile, ma incancellabile): qui si intende parlare della
schiavitù di peccati nascosti, soprattutto (cfr. 6,3-ro) l'egoi-
smo e l'avarizia. Con ciò è pronunciata la più dura sentenza
che si possa immaginare contro i settari e i loro seguaci:
strumenti dei demoni. Ma nello stesso tempo la comunità
è rafforzata per superare le sue miserie interiori: l'apparizio-
ne di questi disturbatori della pace e l'apostasia di alcuni dei
suoi membri non avviene a caso, ma fa parte del piano sal-
vifico di Dio; anzi, l'una e l'altra cosa sono il segno che è
Le pretese ascetiche dei settari

prossimo l'ultimo intervento di Dio nella storia del mondo.


Apparentemente gli eretici sono sostenitori di una conce-
zione assai severa della vita; essi insegnano che la rinuncia
al matrimonio e l'astinenza da certi cibi sono la via per giun-
gere alla salvezza. Da questa duplice pretesa ascetica pos-
siamo dedurre qualcosa di più preciso sulla loro dottrina.
Tit. l,10-15 mostra che l'astinenza da certi cibi (si può pen-
sare, ad esempio, ad un'alimentazione di tipo vegetariano,
cfr. Rom. 14,1 ss.) deriva da prescrizioni giudaiche sui cibi
e le purificazioni; inoltre rTim. 5,23 suggerisce l'ipotesi che
venisse chiesta anche l'astinenza dal vino, forse a causa del
timore rituale giudaico che il vino potesse essere contaminato
da libagioni sacrificali agli dèi. Tutt'altra è l'origine del-
la proibizione del matrimonio, un'idea estranea al giudai-
smo (ad eccezione di Qumran), ma che si incontra in certi
ambienti gnostici ellenistici. In questi ambienti si sosteneva
una concezione dualistica del mondo, che distingueva a tal
punto tra il corpo e l'anima, la materia e il mondo spiri-
tuale, da vedere in tutto ciò che è terreno e naturale qual-
cosa di contrario a Dio, e nel distacco dell'anima da ogni
cosa materiale la via per riunirsi alla divinità. Però non si
deve assolutamente pensare a influenze gnostiche, può anche
essersi trattato di una conseguenza dell'entusiasmo cristiano
dei primi tempi, come ne vediamo a Corinto, ad esempio
(I Cor. 7, l ss. ), su cui avrebbe potuto influire l'errata inter-
pretazione di un detto di Gesù, quale quello di Mc. 12,25
(cfr. 2Tim. 2,18!). Perché qui l'Apostolo è tanto duro con-
tro i settari? Perché la loro dottrina e le loro pretese asce-
tiche intaccano ciò che vi è di più santo nella fede, il 'solo
per grazia'; quella che essi predicano è una redenzione fatta
da soli, una santità artificiale. Essi vogliono conquistarsi a
viva forza l'accesso a Dio e il diritto alla salvezza con l'a-
scesi e con opere legalistiche, e con il loro tentativo di auto-
redenzione, che vede il male nella natura anziché nel pec-
cato, disprezzano il perdono e la redenzione che ci sono stati
r Tim. 4,r-5 57
dati in Gesù Cristo. E disprezzano pure il santo ordine della
creazione, disposto da Dio, che ha istituito il matrimonio e
che ha creato i suoi doni affinché i suoi li ricevano con rico-
noscenza. A questa ascesi, più particolarmente alla proibi-
zione dei settari di fare uso di certi cibi e del vino, l' Apo-
stolo oppone con forza che tutto ciò che Dio ha creato è
buono. Una simile parola di fede sarebbe inconcepibile nel-
l'ambito del dualismo ellenistico, con il suo disprezzo del
mondo materiale, e nell'ambito del giudaismo, con le sue
innumerevoli prescrizioni sugli alimenti e le purificazioni.
Come è avvenuto che il cristianesimo primitivo abbia potuto
pensarla diversamente? Qual è la conoscenza della verità (v.
3) che autorizza i cristiani ad una simile apertura al mon-
do? La più chiara risposta si trova in Act. 10,9-16 sulla vi-
sione avuta da Pietro degli animali immondi. Il telo con i
quadrupedi, i rettili e gli uccelli, che è fatto scendere per le
quattro cocche, simboleggia nel linguaggio figurato della
Bibbia l'universo con i suoi quattro capi (cfr. Hebr. l,11-
12; i quattro capi del mondo Apoc. 7, r; 20 ,8 ), e le parole
della voce celeste: «ciò che Dio ha purificato non lo dire im-
puro» (Act. ro,15) annunciano a Pietro che la creazione di
Dio, ora che è stata redenta, è pura. Questa è la chiave
per l'interpretazione del nostro passo. La cristianità, sa che
è stata redenta con il battesimo nel nome di Cristo, dal vec-
chio mondo, guasto e succube di Satana e del peccato, e che
è stata trapiantata nel nuovo mondo, trasfigurato e santifi-
cato, della sovranità regale di Gesù Cristo (Col. l ,13 ), in cui
non v'è più nulla di impuro. Soltanto da questa certezza di
fede della redenta comunità salvifica di Gesù si può capire
che «tutto quanto Dio ha creato è buono». Nella prima crea-
zione tutto era buono ( Gen. l ,3 r ), finché il creato non fu
rovinato dal peccato; così anche nel nuovo creato, che è
subentrato grazie al nuovo Adamo, Cristo (Rom.5,12-21;
I Cor. 15,45-49), al quale la comunità appartiene per la fede
e il battesimo, tutto è buono. Quando si sa che in Cristo il
La retta pratica cristiana

vecchio è superato e che ognuno che gli appartiene è una


nuova creatura ( 2 Cor. 5, r 7 ), i doni di Dio possono essere
gustati con diletto. Questo libero uso dei doni di Dio è le-
gato solo ad una condizione: cibo e bevanda sono puri, se ven-
gono ricevuti con un'azione di grazie. Non meno di tre volte
(vv. 3.4.5) il testo si richiama esplicitamente alla preghiera
pronunciata a tavola come la condizione per il retto uso dei
mezzi che Dio ha dato per la vita; la preghiera a tavola era
una preziosa eredità del giudaismo, alla quale la cristianità
più antica si attenne più esattamente di quanto non l'abbia
fatto più tardi una generazione degenere. Come per i giudei,
anche per le prime comunità era un'usanza naturale che i
loro membri non mangiassero un pezzo di pane più grosso
di un'oliva e non bevessero un bicchiere di vino senza alzare
gli occhi verso colui che era la fonte di tutti i buoni doni.
Come Gesù ha coscienziosamente seguito l'usanza della lode
a Dio prima di mettersi a tavola e del rendimento di grazie
dopo il pasto (preghiera sul pane: Mc. 14,22; 6,4r; 8,6; Le.
24,30; sui pesci: Mc. 6,4I; 8,7; ringraziamento sul vino do-
po il pasto: Mc. 14,23), altrettanto coscienziosamente lo ha
fatto la cristianità più antica (sui cibi: Rom. 14,6; I Cor. IO,
30; sul vino: I Cor. ro,r6). Poiché il dono di Dio è santifi-
cato dalla sua parola (presumibilmente nella preghiera che
si recitava a tavola era incluso un detto scritturale come Ps.
2,4I, cfr. I Cor. 10,26) e dalla preghiera, non c'è posto nel-
la comunità per un'astinenza dettata da una legalistica dot-
trina di autoredenzione.

2. La retta pratica cristiana ( 4,6- u )


6Se tu esporrai queste cose ai fratelli sarai un buon ministro di Cristo
Gesù, nutrito delle parole della fede e della buona dottrina che hai
imparato. 7 Respingi però i miti profani e puerili. Esercitati invece
sempre più nella pietà. 8 Poiché
«gli esercizi del corpo servono a ben poco,
ma la pietà è utile a tutto
I Tim. 4,6-rr 59
perché ha la promessa della vita presente e futura».
9 Queste parole sono vere e degne di essere accolte. 10 Infatti noi fati-
chiamo e lottiamo per questo, perché speriamo nel Dio vivente, che è
il salvatore di tutti gli uomini, soprattutto dei credenti. 11 Questo devi
ordinare e insegnare.

6-1 r. A partire da 4,6 la Lettera torna a rivolgersi personal-


mente a Timoteo. Contro i settari egli deve incitare la comu-
nità al retto uso dei doni di Dio, dei quali fanno parte anche
il cibo ed il matrimonio, come è dovere del suo ministero.
Dalle sue parole la comunità deve riconoscere che il suo
predicatore si nutre della rivelazione di Dio nel vangelo (cfr.
Mt. 4,4; Io. 4,34), perché non c'è altra fonte di sapere spi-
rituale. I 'miti' (cfr. comm. a I,4), cui i settari danno tanto
valore (si tratta di speculazioni teosofiche [Tit. l,16] e di
dottrine fanatiche, da cui discende la loro ascesi [cfr. comm.
a 2Tim.2,18]), non solo sono inutili, ma empi, in quanto
vogliono sollevare il velo del mistero divino. Timoteo li de-
ve respingere inflessibilmente; le Lettere pastorali tengono
in poco conto le discussioni: «esércitati invece sempre più
nella pietà». Esiste anche un 'esercizio' cristiano, che qui è
contrapposto agli esercizi di ascetismo dei settari ( v. 3 ); esso
è la disciplina dello spirito nelle parole, la condotta, l'amore,
la fede, la purezza (v. 12). Certamente anche la vita cristiana
conosce l'astinenza nelle cose corporali, sia per rafforzare la
vita di preghiera (Mc. 9,29; rCor. 7,5) sia per un riguardo
verso i fratelli (I Cor. 8, l 3 ), sia come un freno morale (I
Cor. 9,27); ma questi 'esercizi' fisici (gymnasia), non saran-
no mai la via alla salvezza, come afferma il v. 9 in una cita-
zione (cfr. comm. a r ,15 ), originariamente intesa a non so-
pravvalutare l'importanza dell'atletica. Alla salvezza condu-
ce soltanto l'esercizio dello spirito, la disciplina dello spirito,
la pietà, perché ad essa è promessa la vera vita, e non sol-
tanto per l'eternità ma anche nel tempo presente. In vista
di questa promessa (conclude questo brano della Lettera)
sopportiamo volonterosamente la fatica e la lotta, poiché la
60 La retta pratica cristiana

nostra speranza non è fondata sulla forza e sulle opere uma-


ne, ma sulla promessa del Dio vivente, la cui volontà di sal-
vezza si estende a tutti gli uomini (cfr. 2 ,4 ): perciò, tanto
maggiormente i cristiani debbono confidare nella sua pro-
messa.
PARTE QUARTA

ISTRUZIONI A TIMOTEO
PER LA GUIDA DELLA CHIESA
(4,12-6,2)

Mentre nella parte dedicata all'ordinamento della comuni-


tà ( capp. 2 e 3) venivano date delle prescrizioni, valide per
tutti, sulla retta forma del culto e sulle doti che si dovevano
richiedere in coloro che fossero per essere prescelti all' eser-
cizio di un ministero ecclesiale, il brano 4,12-6,2 contiene
delle istruzioni a Timoteo sul modo di guidare, in rappre-
sentanza dell'Apostolo, la chiesa della provincia dell'Asia.
Si tratta, dunque, di direttive per la guida della chiesa. Do-
po alcuni versetti introduttivi, nei quali Timoteo viene am-
monito a non lasciarsi mettere in imbarazzo dalla sua gio-
vane età ( 4, l 2- l 6), seguono istruzioni sul modo di trattare
le persone secondo l'età (J,r.2), sul sostentamento delle ve-
dove e sull'ordinamento del ministero vedovile (5,3-16), sul-
la ricompensa in denaro da dare ai presbiteri e sull'applica-
zione della disciplina ecclesiastica nei loro confronti, oltre
che sulla loro scelta per l'ordinazione ( 5, l 7- 2 5 ), e infine sul-
1'attività pastorale presso gli schiavi (6,1-2). Si noti in quan-
ta evidenza vien messa, accanto alla vigilanza sui pastori della
comunità, la cura che un capo della chiesa deve avere soprat-
tutto pet i più poveri, le vedove e gli schiavi.

r. Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età


(4,12-16)
12 Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma tu sii di modello ai credenti

nelle parole, nella condotta, nell'amore, nella fede, nella purezza. 13 Fin-
ché non verrò io, dedicati alla lettura (della Scrittura) (1 ), all'esorta-
zione (2) e all'insegnamento (3). 14 Non trascurare il dono di grazia che
62 Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età

è in te, che ti è stato dato per intervento profetico, quando sei stato
ordinato con l'imposizione delle mani. 15 Prendi a cuore tutto questo e
dedicati interamente ad esso, affinché i tuoi progressi siano evidenti
agli occhi di tutti. 16 Vigila su di te e sulla dottrina, persevera in que-
ste disposizioni; così facendo, salverai te stesso e coloro che ti ascol-
tano.

I2-16. Timoteo appare qui come un uomo in giovane età.


È ammissibile ciò? Quando era stato chiamato a collabo-
rare con Paolo nell'estate del 49 o del 50 (Act. 16,r ss.)
Timoteo evidentemente (secondo I Cor. 16,ro-1 I) era an-
cora molto giovane; da allora erano trascorsi più di dieci an-
ni: dunque, all'epoca della I Tim. doveva essere sui trent'an-
ni o poco più. Del resto, in generale abbiamo delle idee er-
rate sull'età degli uomini del Nuovo Testamento. Gesù, al-
l'inizio della sua attività pubblica, ai primi dell'anno 29,
aveva circa 34 anni; i suoi discepoli dovrebbero essere stati
più giovani di lui. Giacomo, il fratello del Signore, che era
più giovane di Gesù (Le. 2,7 ), aveva appena trent'anni quan-
do gli apparve il Risorto (I Cor. r5,7). Paolo, invece, all'e-
poca della sua conversione ( 3 I h 3 d.C.) era già stato ordi-
nato scriba (ciò risulta, fra l'altro, dal suo diritto di voto nei
processi che comportavano la pena capitale, cui accenna Act.
26,ro ); dunque già allora doveva avere trent'anni, ed essere
sulla sessantina quando dettò r T im. La giovane età di Ti-
moteo ha fatto sorgere delle difficoltà nell'esercizio del suo
ministero di capo delle comunità dell'Asia Minore: da un
giovane nessuno accetta volentieri di ricevere insegnamenti,
per non parlare della disciplina; si aggiunga che normalmen-
te a capo delle comunità v'erano uomini relativamente an-
ziani (ITim. 5,17; Tit. I,5 cfr. 7). Ciononostante Timoteo
deve esercitare fiducioso il suo ministero al servizio del van-
gelo; alla sua giovane età egli deve cercare di supplire con
un'autorità giustificata interiormente, e cioè con un'esem-
plare condotta cristiana. È espresso desiderio dell'Apostolo
che, finché egli non sarà venuto a Efeso, Timoteo continui
r Tim. 4,r2-r6

nel suo ministero, senza preoccuparsi per la sua giovinezza,


e serva la comunità con la lettura degli scritti sacri ('scritti'
qui sono naturalmente quelli dell'Antico Testamento; que-
sto passo è la più antica documentazione della lettura del-
1'Antico Testamento durante il servizio liturgico cristiano),
l"esortazione' (=predicazione Act. 13,15; Hebr. 13,22) e
l'insegnamento (si deve pensare, ad esempio, alla prepara-
zione dei catecumeni). Egli è ben stato ordinato per il ser-
vizio della parola, su ispirazione di Dio; con l'ordinazione
gli è ben stato dato da Dio il carisma, la grazia del suo mi-
nistero. E i doni di Dio sono da Lui dati per essere usati.
Se egli riflette che l'autorità di chi è stato investito di un
ministero dev'essere un'autorità interiore, fondata e sull'e-
semplarità della sua condotta e sulla grazia del suo ministe-
ro, che è un dono di Dio reale e realmente efficace, compirà
dei progressi spirituali e la comunità si sottometterà a lui
volonterosamente. E Dio darà l'una e l'altra cosa ad un ser-
vitore della parola, che vigila su di sé e annuncia il puro
vangelo (cfr. Iac. 5,20): la salvezza della sua anima e la sal-
vezza di coloro le cui anime gli sono state affidate.

L'ordinazione dei primi tempi cristiani (4,I4) si riallaccia


al rito tardo-giudaico; altri modelli non ce ne sono. Nel tar-
do giudaismo si prescriveva al teologo (scriba) un determi-
nato corso di studi; soltanto quando aveva appreso il meto-
do di interpretazione della Scrittura e di tutto il deposito
della tradizione, egli poteva essere ordinato. L'ordinazione
avveniva (sul modello dell'insediamento di Giosuè da parte
di Mosè Num. 27,18-23; Deut. 34,9) nella forma dell'impo-
sizione delle mani da parte di tre scribi ordinati. Si era con-
vinti che il rito risalisse ininterrottamente a Mosè e che per
conseguenza scendessero sull'ordinato 'l'autorità e la sapien-
za' di Mosè. L'accoglimento di questo rito nelle comunità
cristiane dev'essere avvenuto nella Palestina, perché il tardo
giudaismo del tempo non conosceva ordinazioni se non nella
Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età

madre patria. Anche nei primi tempi l'ordinazione cristiana


era compiuta formalmente con l'imposizione delle mani ( cfr.
Act. 6,6: i sette; 13,3: missionari; I Tim. 4,14 e 2 Tim. 1,6:
Timoteo; I Tim. 5 ,22 ), che va tenuta distinta dall'imposizio-
ne delle mani per guarire (Mc. 6,5; 7,32 ecc.), per benedire
(Mc. ro,16), e per comunicare lo Spirito dopo il battesimo
(Act. 8,17-19; anche Hebr. 6,2). L'ordinazione era effettua-
ta in seguito a un'indicazione dello Spirito per bocca di uo-
mini dotati del dono della profezia (Act. J3,2-3; I Tim. l,
18; 4,14) e dopo una preparazione interiore di tutti i par-
tecipanti al rito (Act. 13,3): la chiamata di Dio e la quiete
dell'anima del chiamato erano le due condizioni necessarie
dell'ordinazione. Formalmente l'ordinazione avveniva con
l'imposizione delle mani sul chiamato al ministero ecclesiale,
probabilmente davanti alla comunità riunita, dopo una pre-
ghiera di intercessione (Act. 13,3). Secondo 2 Tim. 1,6 («con
l'imposizione delle mie mani») lo stesso Paolo ha ordinato
Timoteo (una certa contraddizione con I Tim. 4,14 verrebbe
a cadere se si rendesse - come è senz'altro possibile - l'e-
spressione È:n:lfrscni; 't'W\I xdpw\I 't'OU rcpscr~u't'splou non
con «imposizione delle mani da parte del collegio dei pre-
sbiteri», ma come traduzione letterale dell'espressione tec-
nica giudaica per esprimere l'ordinazione). Secondo Act. 13,3
sembra che l'imposizione delle mani fosse ripetuta ad ogni
nuovo incarico per un determinato servizio. L'ordinazione
non era una pura formalità od un atto simbolico, ma comu-
nicava la grazia del ministero; che sia Dio a darla (2 Tim.
l ,7 ), in questo passo è implicito con l'uso del passivo. Gli
ordinati, che già possedevano lo Spirito (cfr. Act. 6,3.5; 13,
l ), con la grazia del ministero ricevevano i poteri e la forza
per l'esercizio di quel servizio o incarico cui erano chiamati.
Che cosa doni la grazia del ministero è detto nel modo più
chiaro in 2 Tim. 1,7; come essa operi, in 2 Tim. l,8 1 •

I. V.E. Lohse, Die Ordination im Spi:itjudentum und im Neuen Testament, r95I.


I Tim. 5,3-8

2. Il modo corretto di trattare le persone secondo l'età (5,1-2)


1 Non riprendere duramente un vecchio (1 ), ma esortalo come un pa-

dre, tratta i giovani (2) come fratelli, 2 le donne anziane (3) come ma-
dri, le giovani (4 ) come sorelle, in tutta purezza.

1-2. Una vera comunità cristiana è una grande famiglia. Già


Gesù aveva chiamato i suoi discepoli e le sue discepole fra-
telli, sorelle, madri (Mc. 3,31-35) e aveva insegnato ai suoi
a considerarsi come una grande famiglia (Mc. 10,29 s.); lo
stesso sentimento di legame cordiale lo troviamo in Paolo,
quando dice della madre di Rufo (che forse era la moglie di
Simone il Cireneo [ cfr. Mc. I 5 ,2 l], quello che aveva por-
tato la croce) che è una madre anche per lui (Rom. 16,13).
Perciò anche un vero pastore d' anime deve considerare e
trattare come se fossero della sua famiglia i membri della
comunità che gli sono stati affidati: come degli uomini ai
quali è legato con lo stesso amore e la stessa tenerezza, che
lo legano ai suoi genitori e fratelli e sorelle. In tal modo non
accadrà che egli tratti un vecchio, che deve ammonire nel-
l'esercizio del suo ministero, irosamente e senza rispetto o
che vada incontro a una donna della sua comunità con pen-
sieri impuri.

3. Le vedove della comunità (513-16)

a) Il loro sostentamento ( 5 ,J-8)


3 Onora le vedove, che sono veramente vedove. 4 Ma se una vedova ha
figli o nipoti, essi prima devono imparare a praticare i loro doveri
verso la propria casa e a ricambiare il bene ricevuto dai loro genitori,
perché questo è accetto a Dio. 5 Ma colei che è veramente vedova e so-
la, spera in Dio e si dedica alle preghiere ed alle suppliche notte e gior-
no. 6 Ma quella che pensa ai piaceri, anche se viva è morta. 7 Racco-
manda loro anche questo, affinché siano irreprensibili. 8 Se qualcuno
non si prende cura dei suoi, soprattutto di quelli che vivono con lui,
ha rinnegato la fede ed è peggiore di un incredulo.
66 Le vedove della comunità: il loro sostentamento

3. Il v. 3 è la continuazione dei vv. I .2, e si occupa di un


quinto gruppo nella comunità, le vedove (seguono in 6,I, co-
me sesto gruppo, gli schiavi). L'esortazione (tradizionale)
<<Onora le vedove» si allarga nella più ampia esposizione
relativa alle vedove che ci sia in tutto il Nuovo Testamento
(v. 3-I6). Ma questo brano non riguarda tutte le vedove che
fanno parte della comunità, ma le 'vere vedove' (v. 3.5.I6);
questa espressione nel v. 5 ha addirittura la sua definizione
e nei vv. I I s. viene spiegata più estesamente: si tratta di ve-
dove senza parenti o altre persone che ne abbiano cura ( vv.
4 s.) che, rinunciando per l'avvenire a un nuovo matrimo-
nio, si sono unite a Cristo in un rapporto di fedeltà (vv.
II s.) e hanno consacrata tutta la vita alla preghiera (v. 5);
esse venivano mantenute dalla comunità (v. I6). Nella figura
di Anna Le. 2,36-38 descrive il tipo ideale di una di queste
'vere vedove'. Tanto l'indicazione che Anna era una profe-
tessa quanto le ampie notizie della Didascalia syriaca (prin-
cipio del nr secolo) sulle vedove fanno ritenere che proba-
bilmente queste oranti erano considerate delle carismatiche
(cioè chiamate e dotate dallo Spirito Santo); ma questo non
voleva dire che il loro stato potesse rimanere senza un ordi-
namento. Le doti particolari, indicate come condizioni ne-
cessarie per la loro elezione a 'vedove della comunità' (vv.
9 s. ), hanno dei punti di contatto con quelle che si esige-
vano negli episcopi e nei diaconi (r Tim. 3,I-I3; Tit. I,6-9);
qui come là si esige un matrimonio illibato (cfr. v. 9 con
I Tim. 3,2.12; Tit. I,6), un'ininterrotta condotta di vita cri-
stiana e una specchiata riputazione. Se ne deve dedurre che
le 'vere vedove' erano considerate investite di un partico-
lare ministero; è difficile, però, dedurre dal v. IO che il ve-
dovato avesse dei compiti diaconali, cioè fosse un perfezio-
namento del diaconato femminile (Rom. I6,I s.), o fosse ad-
dirittura la stessa cosa: anzi, la limitazione del ministero
alle sole donne anziane (v. 9) depone contro questa ipotesi.
Si parla soltanto della preghiera come compito di queste
I Tim. 5,3-8

'vere vedove' (v. 5 ). La minuziosità delle istruzioni e l' ac-


cenno a non felici esperienze in passato fanno pensare che
il vedovato fosse sorto da non molto tempo nell'Asia Mi-
nore. Questo brano della Lettera tratta prima del sostenta-
mento delle vedove da parte della comunità (vv. 3-8, cfr.
16), poi della loro scelta (vv. 9-16), e tradisce l'intenzione
di restringere il più possibile il gruppo delle 'vere vedove'.

4-8. L'esortazione «onora le vedove» fa espresso riferimento


al quarto comandamento - cfr. comm. a l,9 s. sull'interpre-
tazione del quarto (quinto) comandamento -. 'Onorare' non
significa soltanto portare rispetto ma include, come indicano
i vv. 4-8.16 e confermano i vv. 17 s., l'assistenza materiale.
Già la comunità primitiva curava questa assistenza alle ve-
dove (cfr. Act. 6,1; 9,39), che era il compito più urgente
nelle comunità ellenistiche, perché il mondo antico (ad ecce-
zione del giudaismo) non conosceva un'assistenza pubblica
e ordinata dei poveri. Ma ora l'aiuto da parte della comu-
nità dev'essere prestato soltanto alle 'vere vedove', perché
non sarebbe giusto far gravare sulla comunità l'onere del
mantenimento di vedove che abbiano dei discendenti; in tali
casi, invece, va ricordato insistentemente ai figli e ai nipoti
il dovere di gratitudine per l'amore di cui sono stati oggetto
e la volontà di Dio espressa nel quarto comandamento. Le
cose vanno diversamente con le 'vere vedove', e per esse
deve provvedere la comunità: la prima loro caratteristica è
l'isolamento in cui sono venute a trovarsi, cui si aggiunge
il fatto che la loro vita ormai è volta interamente a quella
eterna. Una vera vedova cristiana impara dal suo dolore,
disposto da Dio, e dal suo isolamento che cosa significhi la
speranza cristiana nell'immortalità; e quando un'anima, pro-
vata dal dolore e sola, si è abituata a pensare all'altra vita,
la preghiera diventa spontaneamente la sua principale forza
vitale, notte e giorno (cfr. Le. 2,37 che anch'esso fa prece-
dere la notte al giorno, secondo una espressione diffusa). Al
68 Le vedove della comunità: la loro scelta

contrario, una vedova che lenisce il suo dolore in una vita


sconsiderata, si è staccata da sola dalla comunità e ha perso
ogni diritto all'assistenza da parte di essa; pur vivendo, è
spiritualmente morta (Mt. 8,22; Apoc. 3,1 ). Ma, per quel
che riguarda l'assistenza alle vedove, vale incondizionata-
mente il principio che questo dovere va adempiuto in primo
luogo (come già era stato detto al v. 4) dai loro parenti: chi
trascura questo dovere rinnega, non solo a parole ma anche
nei fatti, la sua fede. Un uomo simile è peggio di un pagano,
che non conosce Cristo e non può perciò sapere che cosa sia
l'amore che Cristo ci ha donato e che vuole risvegliare in noi.

h) La loro scelta ( 5,9-16)

9 Una vedova può essere scelta (solo a queste condizioni): (1)non deve
avere meno di sessant'anni; (2) deve essere stata sposata una volta so-
la, 10 (3) e produrre testimonianza che ha fatto opere di carità: che ha
educato figli (1 ), che ha praticato l'ospitalità (2), che ha lavato i pie-
di dei santi (3), che ha alleviato le tribolazioni dei sofferenti (4 ), che
ha compiuto in ogni occasione opere di carità (5). 11 Rifiuta le vedove
giovani, perché quando le assalgono desideri che le allontanano da
Cristo vogliono sposarsi, 12 meritando d'essere condannate perché non
hanno mantenuto la loro prima promessa. 13 Inoltre, non avendo nulla
da fare, prendono ad andare in giro per le case; e non sono soltanto
oziose (1), ma ciarliere (2 ) e indiscrete (3), e fanno discorsi sconvenien-
ti (4). 14 Perciò voglio che le giovani (vedove) si sposino(1), abbiano
figli (2), curino la loro casa (3) e non diano all'avversario alcuna occa-
sione alla maldicenza (4 ). 15 Infatti già qualcuna si è sviata e ha segui-
to Satana. 10 Se una donna credente ha delle vedove (tra i suoi pa-
renti) le assista, perché non sia gravata la comunità, affinché questa
possa provvedere a quelle che veramente sono vedove.

9-16.Nella scelta di coloro che sono investite del ministero


vedovile occorre andare molto cauti. A tal fìne, una vedova
deve soddisfare alle seguenti condizioni: l. Come limite mi-
nimo di età sono indicati i sessant'anni, per essere certi della
sua esperienza e fidatezza: il ministero è riservato alle an-
I Tim. 5,9-r6

ziane (i sessant'anni erano considerati la soglia della vecchia-


ia), perché si erano avute delle delusioni con vedove più
giovani (vv. rr-r 5 ). 2. La vedova dev'essere stata «moglie
di un solo marito»; poiché al v. 14 alle vedove giovani è
consigliato espressamente di rimaritarsi, qui si conferma che
questa disposizione si riferisce a nuove nozze di persone di-
vorziate, e non diventate vedove (v. comm. a 3,2). 3. Infine si
deve avere un'attestazione che la donna, cui affidare il mi-
nistero vedovile, abbia compiuto opere di carità. Di queste
opere vengono dati quattro esempi: l'educazione dei fan··
ciulli(1), probabilmente orfani (v. quanto è detto qui dopo
l'analisi del v. r6); l'ospitalità(2), che aveva un'importanza
particolare, dato il grande numero di missionari pellegrinanti
nella chiesa dei primi tempi; il «lavare i piedi dei santi» (3),
intendendosi con ciò non la sola ospitalità (Le. 7,44), ma an-
che la disponibilità a rendere con spirito di abnegazione ser-
vizi umilianti (Io. 13,r ss.; Mc. r,7): infine la prontezza a
soccorrere gli afflitti (4 ). Il fatto che i cristiani, cui devono
«essere lavati i piedi», siano detti santi, non va inteso, come
del resto sempre in Paolo, senza peccati; i cristiani sono
chiamati santi in quanto 'santificati' (I Cor. r,2), vale a dire
in quanto uomini che, per il perdono concesso loro nel bat-
tesimo (ICor.6,rr; Eph.5,26), sono stati scelti da Dio (v.
Rom. r,7). I vv. rr-15 spiegano ampiamente i motivi della
prima condizione: il limite di età (v. 9). L'esperienza aveva
insegnato che per diversi motivi non era conveniente inve-
stire del ministero vedove giovani, che erano piuttosto nu-
merose dato che le donne si maritavano in età molto gio-
vane. Prima di tutto, ad una vedova giovane si presentava
facilmente la possibilità di rimaritarsi; e questo fatto di per
sé non era sconveniente: infatti il v. 14 consiglia alle vedove
giovani di passare a seconde nozze. Ma, poiché il ministero
vedovile era concepito come uno sposalizio con Cristo, che
di per sé implicava la rinuncia (con un voto?) ad un nuovo
matrimonio, una vedova, messa al servizio della comunità,
70 Le vedove della comunità: la loro scelta

che decidesse di rimaritarsi era esposta all'accusa di avere


mancato alla 'prima promessa', cioè alla parola data a Cristo.
Si doveva evitare che le vedove più giovani si venissero a
trovare in un conflitto di coscienza del genere. C'era poi un
altro motivo: si era constatato che, in una comunità messa
in agitazione dai settari, giovani investite del ministero ve-
dovile erano esposte facilmente a tentazioni, che arrecavano
danno al loro ministero. Se non avevano troppo da fare, esse
andavano in giro per le case (il testo è di difficile compren-
sione: se si potesse cambiare la lettera iniziale della parola
nel testo [ lanthanousin in luogo di manthanousin] allora si
leggerebbe: «ed esse, se non hanno niente da fare, vanno se-
gretamente in giro per le case»), e l'ozio (1) faceva nascere
il gusto del pettegolezzo (2) e di «immischiarsi curiose negli
affari altrui» (3) (il vocabolo in Act. 19,19 ha addirittura un
significato di magia, che forse ha anche qui; in tal caso si
dovrebbe pensare ad atti superstiziosi, esorcizzazione di ma-
lati e cose simili) e di dilettarsi in discorsi 'sconvenienti' (4 )
(forse formule magiche ecc.; la magia a quell'epoca imperver-
sava nel mondo mediterraneo). In qualche caso si era per-
sino verificato che giovani vedove cadessero sotto l'influenza
dei settari e avessero perso ogni ritegno, anche morale, ed
erano diventate preda del vecchio nemico maligno (cfr. 2
Tim. 3,6 s.). Perciò Paolo ordina che alle giovani sia pre-
cluso il ministero vedovile. Non mancava loro nelle comu-
nità l'occasione di accasarsi(1) e di adempiere ai doveri fa-
miliari dati da Dio alla donna (2-3 ). Così si tagliava corto ad
ogni maldicenza da parte degli avversari increduli (4 ). La
conclusione del brano sulle vedove ritorna sulla questione
del loro sostentamento. Anche per le vedove che stanno al
servizio della comunità vale quanto è stato detto al v. 4: è
dovere cristiano di ogni donna credente di prendersi cura
delle vedove che ha in casa sua o fra i suoi parenti, in modo
che l'assistenza della comunità sia esclusivamente prestata
a quelle che sono veramente sole. Questo brano dedicato
I Tim. 5,!)-I6 71
alle vedove è esemplare dell'assistenza cristiana alle vedove,
anche ai nostri tempi, soprattutto sotto un aspetto: l'assi-
stenza alle vedove da parte di una comunità viva non deve
limitarsi all'aiuto materiale a quelle che, essendo rimaste
vedove, sono chiamate alla totale dedizione a Cristo ed alla
preghiera per la comunità.

Le opere di carità (5,IO). Le Lettere pastorali, in confor-


mità con l'importanza che danno alla pratica cristiana, tor-
nano frequentemente a parlare delle opere di carità, che si
attendono dall'intera comunità (Tit. 2,r4; 3,8.r4), ma in
particolare dai suoi ministri (Tit. 2,7) e dai benestanti (I
T im. 6, r 8 ), come anche dalle donne e dalle vedove ( 2, IO;
5, IO). Per una retta interpretazione di questa espressione
occorre considerare che tutto il Nuovo Testamento, come
del resto i contemporanei di Gesù, facevano differenza tra
l'elemosina e le opere di carità (Act. 9,36; Hebr. r3,r6; I
Tìm. 6,18 ecc.). Gesù nel discorso della montagna in Mt. 6,
r-4 parla dell'elemosina, in 5,r4-r6 delle opere di carità. L'e-
lemosina consiste nel dare aiuto in denaro; essa fu praticata
fra i discepoli (Mc. r4,5; Io. r3,29) ed è elogiata in Tabita
e Cornelio (Act. 9,36; ro,2.4.3r). Gesù pone l'amore con
cui si rinunzia con gioia a qualcosa a vantaggio dei poveri,
al disopra dell'adempimento della lettera dei dieci coman-
damenti (Mc. ro,2r) e parla del «tesoro nel cielo» prodotto
dalle elemosine (Mc. ro,2r; Mt. 6,20). Chiede solo che l'e-
lemosina sia fatta in segreto, anzi che i suoi discepoli dimen-
tichino di averla fatta, perché all'atto non si mischi alcuna
idea di merito (Mt. 6,r-4). Le opere di carità (la traduzione
letterale 'opere buone' può trarre in inganno, perché può far
pensare che si tratti di opere meritorie) si distinguono dal-
l'elemosina in quanto non consistono in un dono di denaro,
ma richiedono l'impegno di tutta la persona. Come opere
di carità vengono nominate: dar da mangiare agli affamati e
da bere agli assetati (Mt. 25,35; 10,42; Iac. 2,r5 s.); dare
72 Gli anziani

ospitalità (Mt. 25,35; l0,40 s.; Rom. 12,13; I Tim. 3,2; 5,


lo; Tit. l,8; Hebr. 13,2; I Petr. 4,9; Iac. 2,25; 3 Io. 5,8,
dr. 10); vestire chi non è sufficientemente coperto (Mt. 25,
36; Act. 9,39; Iac. 2,15 s.); visitare gli ammalati, i carcera-
ti, coloro che non hanno nessuno (Mt. 25,36; Iac. l,27 dr.
2 Tim. l,16 s.), allevare gli orfani (Mc. 9,37; e proprio I
Tim. 5,10) e seppellire i morti (Mc. 14,8). Gesù considera
grande la benedizione per le opere di carità: le mette al di-
sopra del sacrificio rituale (M t. 9, l 3 ), e a Betania ha detto
ai suoi discepoli che le opere di carità sono ancora più im-
portanti dell'elemosina (Mc. 14,3-9 ). I pagani, che non sono
venuti in contatto con lui, saranno da lui giudicati nel giu-
dizio finale secondo le opere di carità che avranno compiuto
(Mt. 25,31-46). Gesù ha inteso difendere le opere di carità
dal pericolo che ad esse vada legata l'idea di merito e di
giustificazione, quando ha detto ai suoi discepoli che le ope-
re di carità devono essere compiute in modo che gli uomini
lodino il Padre che è nei cieli, e non chi le ha fatte (Mt. 5,
l 6); e ciò si ha quando gli uomini hanno la sensazione che
l'atto di amore è compiuto in contraccambio dell'amore di
Dio. Questa è la differenza decisiva rispetto ad ogni concezio-
ne meritoria delle 'buone opere': le opere di carità dei disce-
poli di Gesù non sono compiute per farsi dei meriti, ma na-
scono dalla riconoscenza dei figli di Dio. Soltanto così non so-
no opera degli uomini ma di Dio (dr. comm. a 2 Tim. 2, 2 l ) .

4. Gli anziani (5,17-25)


17 Quegli anziani, che governano bene, siano reputati degni di dop-

pio onore, soprattutto coloro che si affaticano nella predicazione e


nella dottrina. 18 Infatti dice la Scrittura: «non mettere la museruola
al bue che trebbia»; e ancora: «il lavoratore ha diritto alla sua mer-
cede». 19 Non accettare un'accusa contro un anziano se non sulla testi-
monianza di due o tre persone; 20 ma coloro che mancano riprendili
davanti a tutti, affinché anche gli altri ne provino timore. 21 Ti scon-
giuro davanti a Dio e a Cristo Gesù e agli angeli eletti di seguire queste
istruzioni senza prevenzioni, non facendo nulla per parzialità. 22 Non
I Tim. 5,r7-25 73
aver fretta a imporre le mani, e non farti partecipe dei peccati degli
altri. Mantienti puro. 23 Non continuare a bere solo acqua, ma prendi
anche un po' di vino a motivo del tuo stomaco e delle tue frequenti in-
disposizioni. 24 Vi sono uomini i cui peccati sono evidenti anche prima
di ogni giudizio; invece quelli di altri lo sono soltanto dopo. 25 Simil-
mente anche le opere di amore sono visibili a tutti, e quelle che non
sono tali non si possono nascondere.

v. r8: Deut. 25'4 e Le. ro,7; v. r9: Deut. 19,15

Il v. 17 presenta delle difficoltà, se si traduce presbyte-


roi, non con 'gli anziani' ma con 'presbiteri': «i presbiteri,
che presiedono bene, siano reputati degni di doppio onore»;
poiché qui nel significato di 'onore' secondo il v. 18 è in-
clusa anche l'idea di ricompensa, il v. 17 distinguerebbe
due gradi fra i presbiteri, a seconda della loro efficienza, il
che non è verosimile. La difficoltà è risolta se si riconosce
che la parola presbyteroi definisce non un ministero ma un
livello di età (come al v. l); a questo modo il v. l 7 diventa
assolutamente chiaro, in quanto dice che se quegli anziani,
cui è stato affidato un incarico, lo esercitano fedelmente, de-
vono avere una doppia ricompensa (in confronto, cioè, agli
anziani e alle vedove assistiti dalla comunità). Si risolve così
anche la difficoltà offerta dalla Lettera a Tito, nella quale
i nomi di presbitero e di episcopo si alternano indifferente-
mente (1,5 e l,7); anche in Tit. l,5 presbyteros indica una
età e non un ministero. Così infine, si spiega anche la man-
cata inclusione in I Tim. 3 del presbiterio fra i ministri
della comunità. Il fatto, che per lo più viene trascurato, che
in tutti e quattro i passi delle Lettere pastorali (I T im. 5, r.
17.19; Tit. r,5) la parola presbyteros indica una perso-
na di una data età, è di grande importanza per la data-
zione delle Lettere stesse e per la loro autenticità; infatti
l. neppure le altre Lettere paoline hanno la parola in que-
stione per definire un ministero; i ministri sono chiamati
diversamente (cfr. ICor. 12,28; Rom. 12,8; Phil. l,r; Eph.
74 Gli anziani

4,II ). Ma 2. ben presto dopo Paolo la parola presbyte-


ros, per indicare un ministro, è diventata d'uso comune
nella chiesa dell'Asia Minore (r Petr. 5,r s. [segna il passag-
gio al titolo]; Act. 14,23 [quantunque qui sia anacronisti-
ca]; invece 2 Io. r; 3 Io. l 'il vecchio' è probabilmente uno
pseudonimo scelto per ragioni politiche). L'uso della paro-
la presbyteros colloca, dunque, le Lettere pastorali insie-
me alle Lettere paoline più antiche e prima della Prima Let-
tera di Pietro e degli Atti degli Apostoli. Tit. l,5-9 mostra
che i capi delle comunità erano scelti fra gli anziani. Il pre-
sente brano regola la ricompensa da dare agli anziani che
sono al servizio della comunità (vv. l7-r8), l'applicazione
della disciplina ecclesiastica nei loro confronti (vv. I 9-2 r) e
(qualora si considerino i successivi versetti come facenti par-
te di questo brano) la scelta in mezzo a loro dei ministri
(vv. 22-25).

17-25. Un doppio 'onore' (rispetto e ricompensa v. r8) de-


v'essere dato a quegli anziani della comunità, cui è stato af-
fidato un incarico di presidenza, che esercitano fedelmente;
ciò va detto in modo particolare di coloro ai quali tocca an-
che il servizio della parola mediante la predicazione e l'in-
segnamento: dunque, la guida della comunità e l'evangeliz-
zazione non sempre erano affidate alla stessa persona. La
loro fatica va riconosciuta pubblicamente con il doppio del-
1' assistenza consueta. Il dovere delle comunità di mantenere
i loro capi ed i loro maestri è affermato qui l. con un'in-
terpretazione allegorica di una disposizione veterotestamen-
taria a protezione degli animali (Deut. 25,4 cfr. I Cor. 9,9)
e 2. con un detto, che già Gesù aveva ripreso (Le. lo,7 ).
Dalle accuse che Paolo si attirò a Corinto, per essersi gua-
dagnato da vivere con il lavoro delle sue mani (I Cor. 9)
vediamo quanto fosse naturale per le comunità paoline que-
sto dovere di provvedere al sostentamento dei loro ministri.
Oltre al regolamento della misura della ricompensa, era im-
I Tim. 5,I7-25 75
portante che Timoteo, come rappresentante dell'Apostolo a
capo di gruppo piuttosto numeroso di comunità, ricevesse
istruzioni sull'applicazione della disciplina ecclesiastica agli
anziani. Da un lato essi debbono essere protetti da insinua-
zioni avanzate con leggerezza sul loro conto: nessuna accusa
dev'essere accolta, che non sia fondata sulla testimonianza di
due o tre persone (Deut. 19,15 ). Se però il colpevole si o-
stina nel peccato, quantunque sia stato ammonito, gliene
deve essere chiesto conto severamente nell'assemblea della
comunità, per il bene della comunità stessa, che soltanto così
imparerà a temere il peccato.
E questa istruzione appare tanto importante all'Apostolo
da dover fare appello alla coscienza del suo delegato, con un
triplice solenne scongiuro, che gli rammenta la resa dei conti
nel giudizio finale (dr. 2 Tim. 4,1 ). Certamente l'applica-
zione della disciplina ecclesiastica in questo caso è doppia-
mente difficile, perché va fatta ad un uomo anziano o addi-
rittura a un capo della comunità; ma quando si tratta di un
peccato, non c'è posto per riguardi né simpatia, non per pi-
grizia né per carità: esso va punito perché la disciplina nella
comunità è infranta se non si comincia ad applicarla dalle
persone che sono più in vista e da coloro che sono investiti
di un ministero. Non è sicuro che i vv. 22-25 appartengano
a questo brano; ma è molto probabile che il filo conduttore
di essi sia la scelta degli ordinandi (recentemente da più
parti è stata avanzata l'idea che il v. 22 tratti della riammis-
sione dei penitenti, che non dev'essere accordata con troppa
fretta; ma l'imposizione delle mani come segno di riconci-
liazione è attestata soltanto nel III secolo). Timoteo, che qui
agisce come rappresentante dell'Apostolo nella guida della
chiesa ( cfr. comm. a Tit. l ,5 ), deve procedere all'ordinazio-
ne soltanto dopo un attento esame (sulla esortazione cfr. 3,
r ss.); l'elezione di una persona indegna lo farebbe corre-
sponsabile dei suoi peccati, cfr. comm. a 3,6-7 ). Ma soprat-
tutto «mantieniti puro»; chi deve esprimere un giudizio o
Gli schiavi

condannare altri, deve avere le mani pulite. Ciò però non


significa che egli debba avere falsi riguardi; sembra che i
settari (cfr. comm. a 4,3) esigessero l'astinenza dal vino, ma
Timoteo non deve cercare la purità in simili legalismi: dato
che lo richiede la sua salute, egli può tranquillamente bere
del vino, che nell'antichità era considerato un'ottima medi-
cina. Il v. 24 riprende il discorso del v. 22, indicando il mo-
tivo della cautela nella scelta degli ordinandi. Certo si han-
no casi in cui i peccati sono così visibili a tutti da equiva-
lere agli accusatori che si presentano nei tribunali; ma vi
sono anche peccati abituali (forse qui si pensa a peccati abi-
tuali d'ordine sessuale), che sono come degli accusatori che
si presentano in giudizio soltanto dopo che la causa è stata
aperta. Esattamente la stessa cosa avviene con le opere di
carità; talvolta esse sono palesi a tutti e tal'altra sono com-
piute di nascosto. Ma a lungo andare, né il male ( 24) né il
bene possono restare nascosti agli altri uomini; e proprio
per questo la coscienziosità nella scelta dei ministri è un
dovere così serio.

5. Gli schiavi ( 6,1-2)


1 Tutti coloro che sono sotto il giogo della schiavitù, considerino i loro

padroni degni di ogni rispetto, affinché non siano bestemmiati il nome


di Dio e la dottrina (cristiana). 2 Coloro poi che hanno padroni
cristiani, non li disprezzino, perché sono fratelli, ma li servano con
più impegno poiché sono cristiani e amati (da Dio), che si danno pen-
siero di fare del bene. Così insegna ed esorta.

l-2. Ora si passa a parlare degli schiavi (cfr. gli schemi fami-
liari in Col. 3,22-4,1; Eph. 6,5-9; I Petr. 2,18-25), che costi-
tuiscono il sesto gruppo nella comunità (cfr. comm. a 5,3).
Si danno due casi: I . i padroni sono pagani (v. I ) ; 2. sono
cristiani ( v. 2 ). Il padrone pagano non deve avere l'impres-
sione che la libertà dei figli di Dio li renda incapaci di ser-
vire. La conseguenza sarebbe che il padrone pagano parle-
I Tim. 6,I-2
77
rebbe con disprezzo del Dio e della dottrina dei cristiani;
infatti il mondo pagano giudica la fede dei cristiani dalla
loro vita. Il servizio come schiavi deve essere di fatto una
testimonianza del vangelo: questo è il motivo elevato del-
l'etica cristiana della schiavitù, che nobilita anche il servizio
più semplice. Se invece il padrone è un fratello cristiano,
c'è il pericolo che il servo scambi la parità religiosa con
quella sociale, invece di raddoppiare lo zelo nel servizio,
perché è un servizio reso a un fratello. Ma anche i padroni
hanno dei doveri particolari, è cioè quello di un amore fra-
terno nel fare del bene. Per i padroni come per i servi, per
chi è in alto come per chi è in basso, vale sempre lo stesso
principio: confermare la fede nei fatti. In questo non c'è
differenza tra gli uni e gli altri.
PARTE QUINTA

L'ERRATO E IL GIUSTO ATTEGGIAMENTO


VERSO IL DENARO
(6,3-r9)

r. L'atteggiamento errato ( 6,3-10)


3 Se qualcuno insegna altre dottrine e non si attiene alle sane parole

del Signore nostro Gesù Cristo e alla dottrina della nostra fede, 4 è su-
perbo, non comprende nulla, malato di questioni oziose e di litigi ver-
bosi, da cui nascono l'invidia (1 ), la discordia (2), le offese (3), i sospetti
malevoli (4 ), 5 le discussioni (5) di uomini dalla mente corrotta (1), che
privi della verità (2), stimano che la religione sia una fonte di gua-
dagno (3). 6 Certo, la religione è una grande fonte di guadagno per
chi si accontenta di quello che ha. 7 Infatti, nulla abbiamo porta-
to in questo mondo e nulla possiamo portarne via. 8 Siamo dun-
que contenti di avere di che nutrirci e coprirci; 9 poiché coloro che
vogliono diventare ricchi cadono nella tentazione e nell'inganno, in
molte voglie insensate e dannose, che sprofondano gli uomini nella
rovina e nella perdizione. 10 Infatti l'avidità di denaro è la radice di
tutti i mali; e alcuni, che si sono lasciati sedurre da essa, si sono
allontanati dalla fede e si sono lasciati sopraffare da tanti tormenti.

3-10.Per la terza volta (cfr. l,3-n; 4,1-n) la Lettera si


occupa degli eretici. In questo brano è indicato il motivo più
profondo del loro distacco dalla comunità: essi hanno tra-
scurato le parole di Gesù, che avrebbero potuto serbare sol-
tanto se fossero stati sani interiormente, e si sono estraniati
dalla dottrina della chiesa (letteralmente: dalla dottrina che
è conforme alla pietà). Ciò non è avvenuto perché (come
si sono immaginati i settari di tutti i tempi) abbiano avuto
una comprensione più elevata della cose (non c'è compren-
sione che superi le parole di Gesù e della sua chiesa), ma
per la loro presunzione, che si esprime nell'attaccamento
I Tim. 6,3-rn 79
morboso a questioni oziose e a litigi verbosi, che distruggo-
no ogni spirito di comunione. Chi è caduto in questo peccato
di superbia non può essere contento del successo del fratel-
lo (1); semina la discordia (2); quando manca di argomenti
ragionevoli ricorre alle ingiurie (3); ha in sospetto le ragioni
degli altri (4 ); dà sempre motivo a discussioni (5). E non c'è
da meravigliarsene: la superbia corrompe la mente (1) e ne-
cessariamente allontana dalla verità di Dio(2) (Rom. l,22);
e allora può darsi che gli uomini diventino talmente ciechi
da fare della religione un affare (3). La Lettera mette in evi-
denza con tagliente durezza questo peccato dei settari, che
evidentemente si facevano pagare caro il loro insegnamento
e sfruttavano i loro seguaci; questa è la cosa peggiore che
potessero fare: porre Dio al servizio del peccato. Certamen-
te la religione è una via sicura per giungere ad ottenere un
autentico profitto (cfr. 4 ,8): essa arricchisce non solo di be-
ni celesti, ma fa ricchi anche in questo mondo, perché la vita
dell'uomo pio è nelle mani beatificanti di Dio. Ma ciò av-
viene soltanto se egli si mantiene libero dall'avidità di de-
naro e si accontenta di ciò che Dio gli ha dato (autarkeia
è un'espressione stoica). Questo spirito di moderazione e
di giusto apprezzamento dei beni della terra si può già avere
con la semplice riflessione (corrente nell'etica biblica [lob
1,21; Le. 12,16-21], giudaica e greca) che veniamo nudi al
mondo e nudi dobbiamo abbandonarlo. «Stolto, stanotte ti
richiederanno la tua anima, e di chi sarà quello che ti sei
messo da parte?» (Le. 12,20). Chi ha il minimo necessario
per vivere (l'etica stoica giustamente non si è mai stancata
di ripeterlo) dev'essere soddisfatto e riconoscente. L'avidità
di denaro non solo è insensata, uccide l'anima. Anche nella
comunità c'erano dei ricchi (v. I7 ), che possono essere buoni
cristiani. Ma se un uomo si lascia prendere dal desiderio di
diventare ricco a tutti i costi, dalla auri sacra fames (Orazio),
apre le porte alla tentazione di non arretrare davanti a nes-
sun mezzo pur di fare denaro, sorgono desideri che vogliono
80 Appello a Timoteo e dossologia

assolutamente essere soddisfatti e la vita finisce nella rovina


eterna. «L'avidità di denaro è la radice di tutti i mali» scrive
l'Apostolo, citando un proverbio dell'epoca. Non che non ci
siano altre cause di peccato, ma l'avarizia è pericolosa in
modo particolare perché rende duro il cuore dell'uomo e lo
fa capace di tutto. La comunità ne ha fatto l'esperienza: l'a-
varizia è inconciliabile con la pietà cristiana. In chi ne è vit-
tima la fede si raffredda fino all'apostasia, e in luogo della
felicità che si era illuso di conseguire ha soltanto rimorsi.

2. Appello a Timoteo e dossologia ( 6,n-16)


11Ma tu, uomo di Dio, rifuggi da queste cose. Cerca invece la giusti-
zia (1), la pietà(2), la fede(3), l'amore( 4 ), la pazienza( 5 ), la mansuetu-
dine (6 ). 12 Combatti la buona battaglia della fede, conquista la vita
eterna, alla quale sei stato chiamato e nella quale hai fatto la tua bella
professione di fede alla presenza di molti testimoni. 13 Al cospetto
di Dio, che chiama alla vita ogni cosa, [zio Pilato,
e di Cristo Gesù, che ha reso la bella testimonianza sotto Pon-
14 ti raccomando di conservare il mandato, senza macchia e irrepren-
sibile, fino all'apparizione del Signore nostro Gesù Cristo, 15 che a suo
tempo sarà resa palese da colui che è
il beato e unico sovrano (1),
re dei re e signore dei signori (2),
16 il solo che possiede l'immortalità, e abita in una luce inacces-
che nessun uomo ha visto né può vedere (4 ). [ sibile (3),
A lui onore e potenza in eterno. Amen.

11-16. Un 'uomo di Dio', cioè un uomo che è al servizio di


Dio ed è uno strumento nelle sue mani (come gli 'uomini di
Dio' dell'Antica Alleanza, I Reg. 12,22 ecc.), non può che
fuggire la tentazione del denaro, come un grande pericolo.
Egli ha ben altra meta, incomparabilmente migliore. Egli
gareggia in questa nobile corsa (Paolo usa questa immagine,
che faceva battere il cuore di ogni greco, nella quale è espres-
sa la tensione di tutte le forze fisiche) per la giustizia (1 ),
I Tim. 6,n-I6 8r
(con gli uomini) e la pietà (2 ) (nei confronti di Dio), c1oe
per le tre grandi virtù cristiane, fede, amore e pazienza (la
stessa forma della triade anche in Tit. 2,2), alle quali se ne
unisce una quarta: la mansuetudine, cioè la capacità di sop-
portare i peccati e i difetti dei fratelli, con un amore che
mai si stanca di perdonare. A coloro che hanno gareggiato
con la forza che viene loro dalla fede, la palma della vittoria
è la vita eterna; e non si tratta di un traguardo irraggiun-
gibile, perché la chiamata di Dio è promessa del suo rag-
giungimento. Timoteo nel battesimo ha pubblicamente cor-
risposto a questa chiamata (non abbiamo notizia di una pro-
fessione di fede nell'ordinazione, come si è voluto dedurre
dal v. 12); Paolo glielo rammenta, con una formula di fede
articolata in due affermazioni. Timoteo ha confessato, con
la cristianità di tutti i tempi, la sua fede in Dio, «che chia-
ma alla vita ogni cosa», vale a dire nell'onnipotente creatore
e redentore; infatti, per i primi cristiani, nella confessione
della forza vitale di Dio non c'è solo la fede nella creazione,
ma anche la fede nella totale salvezza, giacché la stessa forza
della vita, Dio che ha creato gli esseri dal nulla, richiama
in vita i morti nello spirito e trasfigura i corpi peccatori de-
gli uomini dalla putrefazione allo splendore luminoso della
risurrezione. Timoteo ha fatto professione di fede in questo
Dio e nel modello dei credenti, nel Salvatore sulla croce,
che sotto Ponzio Pilato con la donazione di se stesso ha reso
la testimonianza che gli era stata affidata. Ora spetta a lui
serbarsi fedele a quella professione di fede e adempiere ai
comandamenti di Dio in una condotta di vita immacolata e
irreprensibile, fino all'apparizione di Gesù Cristo nella sua
gloria regale. Come in molte altre occasioni, anche qui la
mente dell'Apostolo trova riposo nell'adorazione di Dio. Lo
sguardo rivolto all'ora della pienezza dei tempi, egli prega
in un linguaggio solenne, con le parole di una dossologia di
fede, tratta dal tesoro di preghiere della sinagoga ellenistica;
essa esalta (contro la divinizzazione dell'uomo nel culto del-
82 Il buon uso dei beni del mondo

l'imperatore) l'onnipotenza del re di tutti i re, che è al di


e-
sopra di tutti i sovrani della terra 2 ) e (contro la 'conoscen-
za di Dio' degli gnostici) l'inavvicinabilità dell'Eterno, che
dimora nella luce di irraggiungibile purezza (3), la cui vista
nessun uomo può sopportare (4 ) - a meno che Dio stesso com-
pia il miracolo di concederlo agli occhi di coloro che sono
puri di cuore (Mt. 5,8).
Non si può considerare questa possente dossologia come
l'originaria conclusione della Lettera, per cui i vv. 17-19
sarebbero un'aggiunta successiva. Infatti le idee espresse in
6a-19 formano un tutto conchiuso: all'esortazione a guar-
darsi dall'avarizia (6,3-10), che culmina nell'appello rivolto
personalmente a Timoteo (vv. rr-16, cfr. specialmente il v.
l r ), fa seguito un'istruzione sul modo con cui Timoteo deve
indirizzare i ricchi al retto uso della loro proprietà.

3. Il buon uso dei beni del mondo ( 6,17-19)


17 Ai ricchi di questo mondo raccomanda di non essere superbi ( 1 ) e
di non riporre la loro speranza in ricchezze insicure (2), ma in Dio che
ci fa godere con abbondanza di tutto quello di cui abbiamo biso-
gno (3). 18 (Raccomanda loro inoltre) di fare del bene (1), di arricchirsi
di opere di carità (2), di dare di buon cuore (3), e di distribuire (agli
altri quello che hanno 4 ) 19 (insomma) di accumulare un buon tesoro per
il futuro (5), per conquistare la vera vita.

17-19. Superbia(1) e errata fiducia nel potere che dà la ric-


chezza nella società umana (2) è la particolare tentazione di
quelli che hanno. Troppo facilmente si dimentica che la pro-
prietà non è che un bene di questo mondo e che la sua con-
sistenza è insicura. I cristiani hanno qualcosa di meglio in
cui confidare: l'eredità di Dio, che concede in abbondanza
ai suoi figli tutto ciò di cui hanno bisogno. Non chi ha molto
è ricco, ma chi dà molto; la ricchezza offre la felice possibi-
e-
lità di rendere altri felici, sia con opere di carità 2 ) sia con
doni generosi (3-4 ; sulla differenza tra opere di carità e elemo-
sina v. quanto è detto sopra dopo 5,16). La benedizione di
I Tim. 6,20-2I

questo amore pronto al sacrificio è imperitura. Paolo si ri-


chiama chiaramente a parole di Gesù (Mt. 6,20; Le. 12,21)
quando parla del tesoro di capitali invisibili che l'amore ac-
cumula in cielo e che apre la porta alla vera vita (Le. 16,9).
Già questo richiamo a parole di Gesù mostra come non si
possa interpretare questo passo nel senso di un'idea non
paolina di giustificazione per i propri meriti; infatti non c'è
contraddizione tra l'affermazione che la bontà di Dio ricom-
pensa le opere di carità e quella di 2 Tim. 1,9 che non otte-
niamo la salvezza «per le nostre opere»: davanti all'enormi-
tà della nostra colpa non vale alcuna pretesa a ricompensa,
che volessimo avanzare a Dio (cfr. Le. l 7, IO).

La conclusione deUa Lettera ( 6,20-21)


20 Caro Timoteo, custodisci il deposito che ti è stato affidato, evitando

i discorsi inutili e le obiezioni di una pretesa 'scienza'. 21 Alcuni l'han-


no professata e si sono allontanati dalla fede. La grazia (di Dio) sia
con voi.

20-2 r. Nel finale l'Apostolo tira le somme di quanto ha scrit-


to nella Lettera. Ancora una volta si vede quale grave peri-
colo minacciasse le comunità ad opera dei falsi dottori, che
devono aver esercitato un notevole fascino sulla gente (v.
2 r ). La pura dottrina del vangelo è un deposito sacro ( v.
comm. a 2 Tim. 1,12), che colui che è incaricato del servizio
della parola deve difendere dalle falsificazioni degli eretici.
Questi chiamavano 'conoscenza' (gnosis) la loro teologia,
perché prometteva la conoscenza del mondo superiore; in
realtà questa cosiddetta 'conoscenza' è empia, perché non
viene dall'alto e si fonda su una valutazione eccessiva di sé e
da parte dell'uomo, che è ribellione alla rivelazione di Dio. Le
antitesi (obiezioni) della gnosi che vengono nominate non
hanno nulla a che vedere con le Antitesi di Marciane, scritte
intorno al 140; infatti la gnosi, contro cui si battono le Lettere
pastorali, è giudaizzante, mentre la gnosi di Marciane è
La conclusione della Lettera

aspramente antigiudaica. Piuttosto questo passo prova che


la parola 'antitesi', ripresa dalla retorica, già prima di Mar-
ciane veniva usata da oppositori della chiesa con il signifi-
cato di 'obiezioni all'ortodossia'. La Lettera termina con la
semplice formula cristiana di saluto, scritta di pugno dal
mittente (corrispondeva alla nostra firma); il saluto non è
rivolto soltanto a Timoteo, ma all'intera comunità («sia con
voi»). Nella parola 'grazia' si compendia l'intero contenuto
del vangelo («siete stati salvati per la grazia» Eph. 2,5 ); per-
ciò essa esprime quanto di meglio i cristiani si possano au-
gurare l'un l'altro.
LA SECONDA LETTERA A TIMOTEO

L'indirizzo ( 1,1-2)
1 Paolo, apostolo di Cristo Gesù (inviato) per volontà di Dio per (an-
nunciare la) promessa della vita, (che ci è stata donata) in Cristo Gesù,
2 al carissimo figlio Timoteo: grazia, misericordia, pace da Dio Padre

e da Cristo Gesù nostro Signore (sia con te).

r-2. Non a caso l'Apostolo nell'indirizzo della seconda Let-


tera a Timoteo, che formalmente corrisponde a quello della
I Tim., (v. comm. a I Tim. r,r s.), dichiara che la predica-
zione della promessa della vita è il compito che gli è stato
affidato da Dio. Infatti la 2 Tim. è il testamento dell'Apo-
stolo martire (4,6-8 ). In vista della morte, egli ha preso
sempre più chiaramente coscienza che la certezza della vita
eterna, donata e garantita in Gesù Cristo, è il nucleo essen-
ziale della predicazione del vangelo.

I. Esortazione a professare impavidamente la fede ( 1,3-2,13)

1. Rendimento di grazie ( 1,3-5)


3 Rendo grazie a Dio che servo come i miei antenati con pura co-
scienza, quando incessantemente mi ricordo di te nelle mie orazioni,
notte e giorno. 4 Ho un grande desiderio di vederti, memore delle tue
lacrime; quale gioia sarebbe, 5 se mi potessi nuovamente persuadere
di persona della tua fede schietta, che già prima abitò in tua nonna
Laide e in tua madre Eunice, e che, ne sono certo, abita anche in te.

3-5. Il rendimento di grazie della 2 Tim. mostra chiaramente


86 Si deve rendere testimonianza senza paura

che Paolo non si limita a seguire le antiche usanze epistolari


ponendo all'inizio ringraziamento e preghiera. Questi ver-
setti sono veramente impregnati di amore. Paolo rivolge lo
sguardo riconoscente a Dio, che è anche il Dio dei suoi pa-
dri, e che, come loro, serve con pura coscienza (cfr. Act. 24,
14-16); egli può affermarlo senza presunzione, considerando
la sua situazione di prigioniero e malfattore (2,9) agli occhi
del mondo. Quando egli prega (e lo fa anche in carcere 'in-
cessantemente' - vale a dire, regolarmente - di notte e di
giorno) ricordando a Dio le sue comunità e i suoi collabo-
ratori, egli si ricorda anche di Timoteo, di pieno cuore nel-
l'intercessione come nel ringraziamento. Egli desidera arden-
temente rivedere il suo fedele discepolo ancora una volta
prima di morire; e questa nostalgia pervade chiaramente l'in-
tera Lettera: vieni da me, prima che sia troppo tardi (4,9·
2 l ). L'ultimo distacco era stato doloroso; un nuovo incon-
tro, come servirebbe a rafforzare la fede! Anche Timoteo,
come lo stesso Paolo ha potuto sperimentare nella vita di
fede che benedizione sia una famiglia pia (il padre non è
nominato perché secondo Act. 16,1 era pagano); e Paolo sa
per esperienza come siano puri i motivi della sua fede, che
certamente si sarà conservata tale. (Paolo pensa alla preghie-
ra pronunciata in 4 ,9 e a cui fa accenno in l ,6 ss. ). Nell'im-
magine della 'dimora' della fede, cui Paolo ricorre, è impli-
cito che la fede è dono di Dio e non merito dell'uomo.

2. Si deve rendere testimonianza senza paura (1,6-14)


6Per questo motivo ti esorto a ravvivare la grazia di Dio che ti è
stata data per l'imposizione delle mie mani. 7 Infatti Dio non ci ha
dato uno Spirito di paura, ma uno Spirito di forza, amore e dominio
di sé. 8 Non arrossire dunque di confessare nostro Signore e di atte-
nerti a me, suo prigioniero, ma soffri con me per il vangelo, sostenuto
dalla forza di Dio,
9 (a) che ci ha salvati

e chiamati con santa vocazione,


- non per le nostre opere
2 Tim. r,6-r4

ma per sua libera decisione e la sua grazia -,


(b) che ci è stata donata in Gesù Cristo prima dei tempi,
w ma ora è stata manifestata con l'apparizione del nostro Salva-
(e) che ha distrutto la morte [ tore Gesù Cristo,
ed ha portato alla luce una vita immortale
per mezzo del vangelo, 11 al servizio del quale Dio mi ha posto
come araldo (1 ), apostolo (2) e maestro (3). 12 Qui sta anche la cau-
sa di (tutte) queste mie sofferenze, ma non me ne vergogno. Per-
ché so in chi ho posto la mia fiducia e sono certo che egli può custo-
dire il deposito a me affidato fino a quel giorno. 13 Tieni come norma
di sana predicazione quello che hai udito da me nella fede e nell'a-
more a Cristo Gesù. 14 Custodisci il prezioso deposito (a te) affidato
con l'aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.

6-14. Come in I Thess. 5,19 lo Spirito di Dio è paragonato


a una fiamma, così anche qui il carisma, la grazia del mini-
stero, è stata conferita a Timoteo nella sua ordinazione
(v. l'esposizione dopo I Tim. 4,16) con l'imposizione delle
mani da parte dell'Apostolo. La grazia conferita insieme al
ministero è un fuoco che cova sotto le ceneri, se non viene
riacceso continuamente con la preghiera, la fede e i fatti.
Timoteo tende ad essere ansioso, si scoraggia facilmente (cfr.
I Cor. 16,10 s.), e ciò non dev'essere. Lo Spirito di Dio, che
gli è stato conferito per l'esercizio del suo ministero, non ha
niente da spartire con lo scoraggiamento; i suoi doni sono la
fede piena di forza, l'amore per i fratelli e il dominio su se
stessi, che non arretra di fronte a nessuna audacia della fede.
Applicato alla situazione concreta ciò significa: non aver ti-
more di confessare la tua fede nel nostro Signore e fatti par-
tecipe delle mie sofferenze, come hai fatto negli anni della
mia prima prigionia (Phil. l,1; 2,19; Col. l,1; Philm. l).
Soltanto Luca è con me (2 Tim. 4,1 l ), vieni a Roma da me.
Già ci voleva del coraggio a confessare il Crocifisso in un
mondo ostile, incline allo scherno; ma ora una simile richie-
sta, fatta in un periodo di poco precedente la persecuzione
neroniana, presupponeva la disponibilità ad andare incontro
all'estremo sacrificio. Paolo lo sa, ma è prigioniero di Gesù
88 Si deve rendere testimonianza senza paura

e non dell'imperatore romano; perciò dichiararsi per lui si-


gnifica dichiararsi per Gesù, soffrire con lui è soffrire per il
vangelo, e più forte di ogni sofferenza è la forza di Dio che
aiuta a sopportare e a superare il dolore. Questa forza divina
è stata svelata e donata nella storia della salvezza: questa
affermazione è fatta in tre frasi relative (tratte dall'uso litur-
gico, v. nella traduzione a, b e c), ognuna delle quali è com-
posta di due frasi parallele e le cui tre parole principali (mes-
se in evidenza nella traduzione) sono poste alla :fine della
riga corrispondente. Nella prima frase (a) troviamo un am-
pliamento, che ricorre quasi con le stesse parole in Tit. 3,5 an-
che ivi in una citazione. a) Dio ha rivelato la sua volontà di
salvezza redimendoci e facendoci partecipi della redenzione
nella chiamata dal mondo alla santificazione (letteralmente,
«con una santa chiamata»). Un inciso richiama una delle
idee fondamentali della predicazione paolina: non perché ne
fossimo degni, ma per libera grazia regale; la salvezza è in-
stabile se si fonda sull'efficienza dell'uomo, ma è incrollabi-
le se si fonda sulla grazia di Dio. b) Questa chiamata di Dio
e la Sua grazia le riceviamo unicamente in Gesù Cristo; in
lui già ci è stata donata nell'eternità prima che il mondo
fosse: è la dottrina della preesistenza di Cristo, unita alla
dottrina della preesistenza dei beni della salvezza e del fatto
che la salvezza è stata decisa prima dell'esistenza del mondo
(Eph. I,4), che esprime la certezza della salvezza e l'esclu-
sione da essa di ogni elemento umano. Questa grazia divina
anteriore al mondo è stata proclamata a tutto il mondo in
Gesù Cristo, nella sua prima apparizione (soltanto qui nel
Nuovo Testamento la parola 'epifania' è applicata alla vita
terrena di Gesù invece che alla sua parusia, v. comm. a Tit.
3,4). e) Ma l'opera del Salvatore Gesù Cristo è consistita
nella distruzione della morte e nell'offerta della vita nel van-
gelo, che sono i doni tanto della prima quanto della seconda
epifania di Gesù (Dibelius). Questo vangelo che 'illumina'
la vita, per la grazia di Dio (il passivo «sono stato posto al
2 Tim. I,6-I4

servizio» vuole esprimere che si tratta di un'azione di Dio),


Paolo lo può proclamare come araldo (1 ), trasmettere co-
me inviato (2 ) e inculcare come maestro (3). Per questo mes-
saggio oggi deve subire l'onta di essere trattato come un de-
linquente ( 2 ,9 ); ma sopporta con gioia perché sa per una lun-
ga esperienza di vita cristiana che la sua fiducia in Cristo (è
possibile anche che qui voglia dire la fiducia in Dio) non sarà
delusa ed è certo che egli «può custodire il deposito che mi
ha affidato» (difficilmente si potrebbe interpretare: «che io
gli ho affidato»). Con questo 'deposito' (cfr. ITim. 6,20;
2 Tim. r,r4), che il suo Signore ha lasciato in buone mani
e al quale Egli stesso farà la guardia fino alla sua parusia,
si può intendere o l'anima (cfr. Sap. r5,8) oppure (cfr. I
Tim. 6,20; 2 Tim. 2,2) il vangelo, con maggiore aderenza al
v. r4. Timoteo, sull'esempio dell'Apostolo, deve esercitare
una continua sorveglianza, annunciare il messaggio e custo-
dirlo come un bene prezioso che gli è stato affidato. Queste
parole lasciano vedere che Paolo lo ha scelto come suo suc-
cessore.

«Gesù Cristo, nostro Salvatore» ( v. ro ). La parola greca


soter (salvatore), si trova nel Nuovo Testamento otto volte
come attributo di Dio e sedici volte come attributo di Cristo
(nelle Lettere pastorali, rispettivamente sei e quattro volte).
Il suo uso come attributo di Dio, che oggi suona strano alle
nostre orecchie, non ha in sé nulla di strano; si collega al-
l'uso dell'Antico Testamento greco (LXX), come appare nel
modo più chiaro in Le. I,47, dove l'espressione è presa da
Abac. 3,r8. Infatti negli scritti neotestamentari Dio è detto
il Salvatore, sempre con riferimento alla fine dei tempi:
come il Dio che ha dato inizio alla redenzione con la venuta
di Gesù, e che la donerà ai suoi nel giudizio finale ( v. comm.
a I T im. r , r ). Viceversa, costituiscono un problema difficile
quei passi in cui Gesù è chiamato salvatore; infatti nell'An-
tico Testamento il Messia non è mai detto il Salvatore, Gesù
Si deve rendere testimonianza senza paura

non chiama mai se stesso il Salvatore, e come attributo di


Gesù la parola non si trova mai negli strati più antichi della
tradizione neotestamentaria di provenienza palestinese; in-
vece la definizione di Gesù come il 'Salvatore' si affaccia,
prima timidamente e poi in misura sempre crescente, nel-
l'ambito ellenistico. E qui di fatto la parola era molto dif-
fusa come attributo dei molti redentori e salvatori nel paga-
nesimo di quei tempi: «Asclepio, dio e salvatore» è detto
in numerose iscrizioni del tempio di quel dio; «Serapide è
salvatore, Iside è portatrice di salute» insegnavano le reli-
gioni misteriche d'Egitto; «Kaisar soter» era l'espressione del
culto imperiale, con il quale venivano resi onori divini agli
imperatori romani. Ora, dato che nelle Lettere pastorali ri-
petute volte sono applicate a Gesù formule del culto dell'im-
peratore (ad es., 2 Tim. r,ro «l'epifania del nostro Salva-
tore» che ha «illuminato la vita», inoltre v. comm. a Tit. 3,
4) parve di poterne dedurre che la definizione di Gesù come
Salvatore fosse stata presa dal culto imperiale: in netta con-
trapposizione alla venerazione dei Cesari come salvatori, la
comunità professa nel suo re celeste il suo Salvatore. Tut-
tavia questa spiegazione è soltanto parziale; le radici della
definizione di Gesù come Salvatore sono più antiche. Da
Mt. r ,2 r sappiamo che le più antiche comunità di lingua
aramaica e siriaca interpretavano il nome Gesù (letteralmen-
te: «Jahvé è salvezza») come 'portatore di salvezza'; questa
interpretazione del nome di Gesù sarebbe all'origine della
attribuzione a Gesù del nome di Salvatore (soter) nei paesi
di lingua greca (le attestazioni più antiche sono Act. 5 ,3 r e
Phil. 3,20). Nelle terre di missione si conservò questo uso,
perché il nuovo attributo di Gesù rendeva comprensibile ai
greci ciò che significava per i giudei la parola Messia: il Cro-
cifisso è colui che ha soddisfatto la profonda attesa della
salvezza del mondo giudaico come di quello pagano, il Sal-
vatore del mondo.
2 Tim. r,15-r8 91
3. Dolorose esperienze dell'Apostolo,
ma anche un'esperienza di fedeltà ( l,15-18)
15 Tu sai che mi hanno voltato le spalle tutti quelli dell'Asia, fra i quali
Figelo e Ermogene. 16 Il Signore sia misericordioso con la famiglia di
Onesiforo, che mi ha confortato spesso e non ebbe vergogna delle mie
catene, 17 ma quando venne a Roma si premurò di cercarmi finché non
mi trovò. 18 Che il Signore gli conceda di trovare misericordia presso
il Signore in quel giorno. E quanti servizi mi rese a Efeso tu lo sai
meglio di me.

15-18.Nella memoria dell'Apostolo è rimasta una dolorosa


esperienza. Durante la sua prigionia, dalla quale era trascor-
so poco tempo (v. comm. a 4,13), tutti nella provincia del-
l'Asia (nell'Asia Minore occidentale, con capitale Efeso) lo
avevano lasciato solo; non che avessero apostatato dalla fe-
de_, ma avevano avuto paura, come i cristiani di Roma duran-
te la sua prima difesa {4,16). Sembra che la delusione sia
stata particolarmente amara nel caso di Figelo e di Ermo-
gene (essi sono conosciuti da Timoteo, ma per noi sono
sconosciuti); proprio da loro l'Apostolo si aspettava qualco-
sa di diverso. In queste parole è implicita la preghiera a
Timoteo di non lasciarlo solo anche lui. Però non è mancata
un'esperienza di commovente fedeltà. Onesiforo lo ha assi-
stito con abnegazione a Efeso (v. l 8); a Roma - dove la co-
munità cristiana, non senza colpa (cfr. 4,16), aveva eviden-
temente perduto i collegamenti con Paolo - lo ha cercato da
un ufficio all'altro e da un carcere all'altro finché non lo ha
trovato (v. l 7 ), poi senza paura è andato a trovarlo e lo ha con-
fortato con la sua assistenza e la sua fedeltà (v. 16). Nel frat-
tempo egli doveva essere morto; infatti la forma dell'augurio
per la famiglia di Onesiforo (v. 16 cfr. 4,19), che si discosta
dalla consueta formula di saluto, e la benedizione per lui
stesso (v. l 8 ), l'augurio di incontrarlo di nuovo beato nella
eternità, provano che i vv. 16-18 sono come un'iscrizione
sepolcrale per il fedele amico defunto. La ripetizione del-
la parola Signore al v. l 8 si spiega con il fatto che qui si
92 Sii mio compagno nel dolore

sono fuse due formule di augurio: «il Signore (Cristo) gli


faccia trovare misericordia» e «possa egli trovare misericor-
dia presso (Dio) il Signore». I vv. 16-18 sono un augurio di
benedizione, che affida il defunto (v. l 8) e i familiari in lutto
(v. l 6) all'eterna misericordia, fiduciosi nella promessa di
Cristo nel nuovissimo giorno.

4. Sii mio compagno nel dolore ( 2,I-7)


1 Tu dunque, figlio mio, rafforzati nella grazia, che (ti) è (data) in Cri-
sto Gesù, 2 e ciò che hai udito da me davanti a molti testimoni affidalo a
persone fidate, che siano capaci di insegnarlo ad altri. 3 Prendi con me la
tua parte di dolori, da buon soldato di Cristo Gesù. 4 Nessun soldato
che si è dato al servizio delle armi si interessa degli affari della vita
civile, per non dispiacere a chi lo ha arruolato. 5 Anche chi gareggia
nell'arena non ottiene la corona se non ha lottato secondo le regole.
6 L'agricoltore che fatica è il primo che ha diritto sui frutti. 7 Con-

sidera ciò che ti dico; il Signore ti farà comprendere ogni cosa.

1-7. Nuovamente ( cfr. l ,6-8) Paolo chiede coraggio nella fe-


de e prontezza nell'accettare i dolori. Si deve fortificare, con
virile decisione, 'nella grazia', cioè nello stato di grazia cri-
stiana. Timoteo dovrà trasmettere a discepoli fidati «quello
che ha udito», cioè la dottrina tradizionale apostolica che
gli è stata affidata nella sua ordinazione alla presenza di te-
stimoni (cfr. I Tim. 6,12). Egli deve dunque prepararsi alla
partenza, in modo che il lavoro possa continuare anche nel
caso della sua morte. Il suo posto, come combattente per
Gesù Cristo, ora è a Roma presso l'Apostolo prigioniero,
giacché la militia Christi non è fatta soltanto di difesa ed
attacco, di lotte e di battaglie, ma anche di prontezza ad af-
frontare le sofferenze, e soltanto la dedizione piena e incon-
dizionata di se stesso conduce alla meta eterna. Ciò è dimo-
strato con tre immagini, che incontriamo anche in I Cor. 9,7.
24 ss.: il soldato sul campo deve dedicarsi totalmente al suo
servizio, per non dispiacere al condottiero; il lottatore se
vuole ottenere il premio non deve rendere più facile la lotta
2 Tim. 2,8-IJ
93
eludendo le regole stabilite. L'agricoltore deve lavorare sodo
se vuole raccogliere i frutti. Paolo non applica a nessuno
queste immagini; e volutamente, perché per delicatezza non
vuole esprimere più chiaramente la sua preghiera. Timoteo
lo sentirà da solo, ed il Signore gli indicherà ciò che in que-
sto momento esige da lui: l'impegno con tutte le sue forze.

5. La comunione con Cristo nel dolore ( 2,8-13)


8Ricordati di
«Gesù Cristo
risorto da(i) morti,
(nato) dalla stirpe di Davide»,
così insegna il vangelo a me affidato, 9 per il quale soffro in catene
come un malfattore; ma la parola di Dio non è (per questo) incate-
nata. 10 Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, affinché anch'essi otten-
gano la salvezza per Cristo Gesù con la gloria eterna. 11 È vero il detto:
«Se siamo morti con (lui)
con (lui) vivremo;
12 se sopportiamo

regneremo insieme (con lui);


se (lo) rinneghiamo,
anch'egli ci rinnegherà;
13 (ma) se siamo infedeli

egli rimane fedele, poiché non può rinnegare se stesso».

8-13. Più energicamente di simili considerazioni generali par-


la l'esempio della passione di Gesù, che l'Apostolo ricorda
a Timoteo. Egli cita un'antica formula di professione di fede,
articolata in due membri, che ha contatti con Rom. I ,3-4 e
un'origine giudeo-cristiana (ciò risulta, per il contenuto, dal-
l'interesse alla discendenza davidica, e, per la forma, dall'as-
senza - semitizzante - dell'articolo prima di «seme di Da-
vide»). In questo antico credo si afferma la fede nel Risorto
come il Messia promesso (cfr. 2Sam. 7,12; Ps. 89,4-5). Nel
nostro contesto, l'accento (come dimostra la strana prece-
denza data alla risurrezione, diversamente da Rom. I ,3 s.)
è posto sulle parole «risorto dai morti». Il Salvatore vive.
94 La comunione con Cristo nel dolore

Il suo cammino verso la gloria è passato attraverso la pas-


sione e la morte; e questa è la via che devono percorrere
anche i suoi discepoli per ottenere la salvezza. Proprio
adesso Paolo ne fa l'esperienza su se stesso, nel momento
in cui per la predicazione del messaggio del Crocifisso deve
sopportare la prigionia e, ciò che è peggio e più umiliante,
la vergogna di essere trattato come un malfattore; ma - ag-
giunge giubilante - il vangelo non è incatenato! Con queste
parole Paolo dovrebbe aver pensato non tanto alla sua testi-
monianza del vangelo durante gli interrogatori in carcere
(Phil. 1,2 ss. cfr. 2 Tim. 4,17), quanto piuttosto all'attività
dei suoi collaboratori nelle Gallie e in Dalmazia (4,10 ).
Anche se già era corroborante la certezza che le sue soffe-
renze potessero essere un servizio reso al vangelo, la sua
prontezza ad affrontare il dolore ha un motivo più profondo,
e cioè che il suo soffrire va a vantaggio dei suoi fratelli.
Paolo pensa, come sappiamo da Col. l,24, alle misure che
Dio ha fissato per il tempo precedente il sopraggiungere del-
la parusia; in conformità con le parole di Gesù sulle cala-
mità che precederanno la fine dei tempi (Mc. 13,5-27 ), la
cristianità antica parlava della misura del peccato che pri-
ma dovrà essere colmata (I Thess. 2,16 dr. Mt. 23,32),
del numero fissato dei martiri che prima dovranno rendere
la testimonianza del sangue (Apoc. 6,1 l ), della misura sta-
bilita di pagani che prima dovranno trovare la salvezza
(Rom. 11,25) e anche della misura dei dolori di Cristo, che
dovranno essere sofferti prima della fine dal corpo di Cristo,
la sua comunità (Col. l,24). Se Paolo sottrae alcunché a
questa misura di dolori, soffre in sostituzione degli eletti;
le sue sofferenze e il suo martirio fanno parte, in questo
senso profondo, del compito che egli ha, come servo del
vangelo, di aiutare i suoi fratelli a salvarsi (ovviamente, la
stessa salvezza e lo splendore del corpo trasfigurato essi l' a-
vranno 'in Cristo Gesù'; questo pensiero rivolto al Signore
della comunità esclude qualsiasi idea di merito). Ancora più
2 Tim. 2,8-r3 95
in profondità nella comprensione paolina del dolore condu-
cono i quattro distici di un canto, che è citato con la for-
mula introduttiva nota dar Tim. l,15; 3,1; 4,9; Tit. 3,8, e
che è collegato a quanto precede con la parola 'sopportare'
(vv. lo.12). I primi due distici riportano parole di Paolo
(Rom. 6,8); i due ultimi un detto di Gesù (Mt. lo,33). L'in-
no è un'esaltazione del martirio. Dato che la forma stili-
stica di questo inno è assolutamente non greca e sicuramente
è di un autore giudeo-cristiano, e che nel contenuto esso se-
gue Rom. 6,8, non è da escludere che sia stato composto dal-
lo stesso Paolo. La prima riga parla di «morire con Cristo»
(cfr. Rom. 6,8) usando la preposizione greca syn, che espri-
me un'unione particolarmente stretta e che in Paolo è usata
per indicare, a differenza della vita che devono condurre i
cristiani nel tempo ( en Christo = in Cristo), l'unione sacra-
mentale al Signore, che avviene nel battesimo e la comu-
nione escatologica con lui nel mondo della luce (syn Christo
= con Cristo). Il martirio per Cristo (questo è quanto di
più profondo Paolo ha da dire sul dolore) è un «morire con
(syn) Cristo»; come il battesimo, esso unisce il martire con
il suo Signore: è l'inizio di quella comunione con Cristo nel
mondo celeste che ha il suo compimento, al momento della
parusia, nella trasfigurazione del corpo. Questo morire 'con
Cristo', perciò, garantisce il vivere 'con (syn) Cristo' nel
mondo trasfigurato. La sopportazione del dolore, dice la se-
conda frase, garantisce la partecipazione (syn) al governo
regale di Gesù sul mondo trasfigurato (Rom. 8,17; I Cor.
6,2; 15,24 s.; Apoc. l,6; 3,21; 5,10; 20,4; 22,5). Ma che
avviene se noi manchiamo? Se noi rinneghiamo Cristo rica-
dendo nel tempo del dolore (terza frase), nel giudizio finale
anch'egli ci dovrà rinnegare, come ha detto egli stesso in Mt.
ro,33. Ma se «saremo infedeli» (quarta frase) ... Qui muta-
no la costruzione della frase e il pensiero. Paolo non può dire
che «anch'egli sarà infedele». Egli rimane fedele. Queste
parole potrebbero voler dire che egli rimane fedele a se
Nessuna discussione inutile

stesso, dando esecuzione alla sua sentenza; ma non può


essere questo il senso. 'Fedele', detto di Cristo, esprime la
sua credibilità; se esso ha un secondo significato, è sempre
quello della perseveranza nella sua bontà (2 Thess. 3,3; Hebr.
2,17; cfr. il significato profano di pistos: 'colui del quale ci
si può assolutamente fidare'). Perciò sembra giusta la spiega-
zione di Lutero e di una parte degli esegeti moderni: egli ci
rimane fedele; o meglio: egli rimane fedele alle sue promes-
se (cfr. Rom. 3,3 molto affine al v. 13: «se alcuni diventano
infedeli, può la loro infedeltà abolire la grazia di Dio?»).
Per quante volte possiamo mancare e essergli infedeli, egli
potrà sempre perdonare. La logica si infrange contro l'amore
del Salvatore. Non si tratta di un lasciapassare per il pec-
cato e la caduta (lo prova la terza riga dell'inno) ma di un
conforto per la coscienza spaventata. Mentre chi cade inter-
rompe il legame con il suo Signore (riga 3 ), la fede che ha
mancato (riga 4) può fare appello alla fedeltà del suo Si-
gnore (Fridrichsen).

II. I settari ( 2,14-4,8)

1. Nessuna discussione inutile ( 2,14-21)


14 Rammenta tutto questo (ai membri della comunità) e scongiurali
davanti a Dio che non si lascino indurre in vane discussioni, che non
servono a nulla, se non a portare alla rovina coloro che le odono.
15 Sforzati di stare davanti a Dio come (cristiano) provato, come un

operaio che non ha di che vergognarsi e che presenta la parola della


verità rettamente. 16 Evita i discorsi profani e vuoti; i loro autori re-
grediscono sempre più nell'empietà, 17 e la loro parola si estenderà
come un cancro. Fra di essi ci sono anche Imeneo e Fileto, 18 che si
sono allontanati dalla verità, sostenendo che la risurrezione è già avve-
nuta, e hanno così sovvertito la fede di alcuni. 19 Ma il saldo fonda-
mento posto da Dio resiste, munito di questo sigillo: «Il Signore co-
nosce i suoi» e: «Eviti l'ingiustizia chi pronuncia il nome del Signo-
re». 20 In una grande casa non ci sono soltanto vasi d'oro e d'argento,
ma anche di legno e d'argilla, gli uni per usi nobili, gli altri per usi
vili. 21 Pertanto se uno si purifica da tale (sporcizia), sarà un utensile
2 Tim. 2,r4-2r 97
per usi nobili, santificato, utile al padrone, pronto ad ogni opera
buona.

v. 19: Num. 16,5; Is. 52,II (26,13)

Può stupire, considerando che Paolo pregherà fra poco


in questa stessa Lettera (4,9.2 l) Timoteo di venire il più
presto possibile a Roma, che con 2,14 inizi un ampio brano
contenente istruzioni sul modo di comportarsi con i settari
(dr. I Tim. 1,3 ss.; 4,1 ss.; 6,3 ss.; Tit. l,10 ss.; 3,9 ss.), che
turbavano le comunità dell'Asia Minore. Tuttavia occorre
riflettere che queste istruzioni valgono anche per i succes-
sori di Timoteo, che questi dovrà insediare prima della sua
partenza (2,2), e che Paolo deve contare sulla possibilità di
essere già morto quando arriverà il suo discepolo e amico.
Già da questo appare chiaro che la 2 Tim. è il testamento
dell'Apostolo (cfr. 4,6ss.).

14-18. Con la massima insistenza l'Apostolo ricorda ripetu-


tamente a Timoteo (cfr. vv. 16.23) di mettere in guardia le
comunità dall'entrare in discussioni con i settari. C'è poco
costrutto a discutere di formule religiose; anzi, l'esperienza
ha insegnato che con le discussioni non si riesce a conver-
tire gli avversari e gli altri invece spesso ne escono con una
grande confusione nella mente. Quello che importa non è la
superiorità nel discutere con gli avversari, ma la fedeltà nella
predicazione, mantenuta al cospetto di Dio. Non ci si deve la-
sciare irretire in quelle speculazioni gnostiche, che vogliono
sostituire al vangelo idee umane, e che sono 'empie', come
ogni discorso su Dio fatto senza inginocchiarsi davanti a
lui. Sarebbe ancora peggio, perché gli gnostici cresceranno
ancora di più nella loro empietà, e la loro dottrina si esten-
derà come un cancro; non ci si può rimediare con delle di-
scussioni. Anche Imeneo e Fileto hanno preso questa stra-
da; Paolo aveva già dovuto «consegnare a Satana» il primo
Nessuna discussione inutile

per le sue bestemmie (I Tim. l ,20) e ora sembra che egli sia
diventato uno dei capi della setta. È molto importante per
la conoscenza dell'eresia, contro cui si battono le Lettere
pastorali, la descrizione che qui viene fatta di uno dei punti
principali della dottrina di questi due uomini. Essi insegna-
no che «la risurrezione è già avvenuta», che cosa si debba
intendere con queste parole lo si può vedere forse dal rac-
conto di Ireneo sullo gnostico samaritano Menandro, un di-
scepolo di Simon Mago (su quest'ultimo v. comm. a Act.
8,20): questo Menandro, contro la fede cristiana nella ri-
surrezione, insegnava che il suo battesimo comunicava la ri-
surrezione e che i suoi discepoli non morirebbero più, ma
resterebbero immortali, senza invecchiare; oppure si può
pensare alla dottrina, di cui parlano gli Atti apocrifi di Paolo
(cap. 14), che la risurrezione avviene nei bambini oppure
attraverso la conoscenza di Dio. Anche nel brano in discus-
sione sembra che si tratti di una spiritualizzazione della dot-
trina sulla risurrezione, che potrebbe essersi richiamata alla
dottrina sul battesimo insegnata da Paolo (cfr. Rom. 6 A;
Col. 2,12; 3,1-4; Eph. 2,6; 5,14). Che questa dottrina aves-
se avuto una grande risonanza è comprensibile, perché suo-
nava male all'orecchio dei pensatori greci la dottrina cristia-
e
na sulla risurrezione ( I or. l 5; Act. l 7 '3 2); per la filosofia
popolare greca, fin da Platone, il corpo era la prigione del-
1' anima e la sede del male: perciò la risurrezione del corpo
era un controsenso per il pensiero greco. L'ostacolo era ri-
mosso con questa interpretazione della dottrina della risur-
rezione. Ma perché Paolo combatte questa dottrina con pa-
role così dure, trattandola da pettegolezzo frivolo, empietà,
incredulità? Perché erano in gioco decisive conoscenze di
fede; se, secondo il pensiero greco, si disprezzava il corpo,
si aprivano le porte all'autoredenzione, che vedeva la via
della salvezza nel distacco ascetico dal corpo (v. comm. a
ITim.4,3), oppure al cattivo uso del corpo (cfr. ICor.6,
12 ss.). Se poi al disprezzo del corpo si univa la fanatica il-
2 Tim. 2,I4-2I
99
lusione di vivere già ora nella pienezza della vita (cfr. I Cor.
4,8 ), ci si veniva a staccare totalmente dalla sequela del Cro-
cifisso e si sostituiva la theologia crucis con una entusiastica
theologia gloriae. Il v. 18 è importante ai fini della datazio-
ne delle Lettere pastorali. La gnosi ha cercato di evitare un
secondo ostacolo intellettuale per la comprensione greca, lo
scandalo della morte sulla croce del Redentore, e lo ha fatto
chiarendo che sulla croce non sarebbe morto il Figlio di Dio,
ma l'uomo Gesù (Cerinto; eretici della prima e della secon-
da Lettera di Giovanni) oppure un corpo apparente (doce-
tismo). Il fatto che questa teoria gnostica non appaia ancora
nelle Lettere pastorali è una prova della loro antichità, che
è confermata anche dai tratti giudaizzanti dell'eresia che esse
combattono (Tit. r,ro ss.; 3,9), che sono caratteristici della
gnosi più antica.

19-2 I. Ma la chiesa di Dio non è minacciata nella sua stabi-


lità dalla caduta di qualche suo membro; infatti rimane in-
crollabile il suo fondamento: il Signore conosce i suoi, cioè
coloro che si tengono lontani dall'ingiustizia nelle parole e
nei fatti. La certezza che l'Onnisciente sa distinguere i suoi
da coloro che si allontanano da lui, dà alla comunità la cal-
ma fermezza contro gli eretici. Che ci siano anche questi non
è cosa che debba stupire: in ogni grande casa ci sono, oltre
a vasi di metalli nobili per i giorni di festa, anche dei vasi
di legno e di argilla per raccogliere la sporcizia e la spazza-
tura. L'ha permesso Dio, anzi è nell'ordine divino della crea-
zione (Rom. 9,2 r ), che le comunità non devono discutere né
criticare, ma accettare obbedienti. Ogni loro membro deve
aver cura di tenersi pulito da qualsiasi sporcizia; fuori meta-
fora: è giunto il momento della chiara separazione tra la chie-
sa e il fanatismo. Questa 'pulizia' è la via perché i membri
della comunità diventino vasi utili, dei quali il padrone di
casa si possa servire. Un'importante, autentica idea paolina:
tutto quanto di bene noi facciamo è opera di Dio; egli sod-
100 La giusta via per la conversione degli erranti

disfa in noi le esigenze della legge (Rom. 8,4); ha preparato


le buone opere nelle quali dobbiamo camminare (Eph. 2,10 ).
Gli uomini devono pensare soltanto a essere strumenti utili
nelle mani di Dio, l'opera buona ha da farla egli stesso. «Se
c'è qualcosa di buono in me, viene tutto da te, Signore».

2. La giusta via per la conversione degli erranti ( 2,22-26)


22 Fuggi le passioni della gioventù; cerca piuttosto di seguire la giu-

stizia (1), la fede(2), l'amore(3) e la pace( 4 ) con coloro che invocano il


Signore con cuore puro. 23 Evita le dispute insensate e stupide, perché
sai che fanno (soltanto) nascere litigi. 24 Ora, un servo del Signore
non deve litigare, ma essere amabile con tutti( 1), pronto ad ammaestrar-
li (2), paziente (3). 25 Egli deve riprendere con mansuetudine gli avver-
sari (4 ) (e vedere) se Dio attraverso la penitenza non li faccia giungere
alla conoscenza della verità, 26 perché tornino a ragionare, una volta
(liberati) dai lacci del diavolo che li ha irretiti nella sua volontà.

22-26. Con le 'passioni della gioventù' che Timoteo deve fug-


gire (sulla sua giovane età v. comm. a r T im. 4, I2 ) non si
possono intendere soltanto quelle dei sensi; i versetti che
seguono fanno supporre che in esse vadano comprese la pas-
sionalità, la vanità, l'arroganza spirituale e altre simili. Ad
esse si contrappone la condotta di vita cristiana, che deve
essere soprattutto pacifica; essa, infatti, unisce i discepoli
di Gesù. Il rivolgersi a Gesù nella preghiera è, come I Cor.
r,2 ecc., la caratteristica dell'essere cristiani; ciò, per esse-
re autentico, deve essere fatto con la coscienza pura ( co-
me in I Io. 3,19 ss. ecc. 'cuore' sta per 'coscienza', un uso
che si spiega con il fatto che né l'ebraico né l'aramaico han-
no un vocabolo proprio per dire la 'coscienza'). Ancora una
volta è detto ( cfr. vv. r 4. r 6) che tale condotta di vita cri-
stiana esclude il piacere delle discussioni; un servo del Si-
gnore (Gesù) sa che la confutazione accesa degli avversari
non è la strada giusta per ottenere la loro conversione, ma
che lo è l'amore, che è amabile con loro(1), che è pronto a
rendere conto della propria certezza di fede (2), che una volta
2 Tim. 3,I-9 IOI

tanto può anche essere tollerante(3) e che riprende gli av-


versari con mansuetudine (4 ). Questo amore, che vince ogni
cosa, renderà perplessi gli apostati; più ancora, esso soltan-
to apre le porte all'opera di Dio. Infatti la battaglia per la
fede non si combatte soltanto fra gli uomini; ubriachi del
loro sapere gli gnostici sono caduti nei lacci di Satana e sen-
za volerlo diventano suoi strumenti (per la distruzione della
chiesa) come un animale preso vivo nella rete del cacciatore.
Soltanto qui appare chiaro il motivo per cui questo brano
mette in guardia con tanta insistenza dalle dispute e dalle
vane discussioni: l'appello alla ragione non è un'arma adatta
per la battaglia contro il vecchio nemico maligno; lo è invece
l'appello alla coscienza e alla fiducia che Dio può richiamare
alla penitenza anche coloro che, apparentemente senza spe-
ranza, si sono smarriti e ostinati e hanno già messo la testa
nel laccio di Satana. Infatti, soltanto Dio può mutare i cuori.
Un fedele pastore d'anime sa che il meglio che possa fare è
di preparare, con amore instancabile, la via a Dio per il suo
santo operato.

3. La degenerazione degli ultimi giorni (3,1-9)


1 Ma sappi che negli ultimi giorni sopraggiungeranno tempi difficili.
2 Gli uomini saranno egoisti (1 ), avidi di denaro (2), vanagloriosi (3), su-
perbi (4 ), bestemmiatori (5), disobbedienti ai genitori (6 ), ingrati (7),
sacrileghi (8 ), 3 senza cuore (9 ), implacabili ( 10 ), diffamatori ( 11 ), sfrena-
ti (1 2 ), indisciplinati (13 ), nemici del bene (1 4 ), 4 traditori (1 5 ), proter-
vi (16 ), pieni di sé (1 7 ), dati al piacere invece che a Dio (1 8 ). 5 Essi avran-
no l'apparenza della pietà, ma ne rinnegheranno la forza (1 9 ). Anche
da costoro tienti lontano; 6 ad essi appartengono coloro che si insi-
nuano nelle case e cercano di legare a sé delle donnette cariche di
peccati (1 ), trasportate da desideri di ogni genere (2), 7 che stanno sem-
pre ad imparare (3) e non giungono mai a conoscere la verità (4 ). 8 Co-
me Iannes e Iambres fecero resistenza a Mosè, anch'essi resistono
alla verità, uomini dalla mente corrotta che non hanno superato la
prova della fede. 9 Ma non andranno molto avanti, perché la loro stol-
tezza sarà palese a tutti, come fu già degli altri due.
102 La degenerazione degli ultimi giorni

r-9. Dal presente, l'Apostolo rivolge lo sguardo agli ultimi


giorni. Egli ricorda la fondamentale convinzione dell'attesa
neotestamentaria della fine dei tempi, di cui aveva parlato in
I Tim. 4,r ss.: che, cioè, il Regno di Dio viene attraverso al
dolore (Mc. r 3 ). Tra l'estrema, più grave tribolazione, che
precede la parusia, c'è l'allentamento di ogni vincolo morale,
descritto in un elenco di vizi che ne enumera r 9. La nostra
traduzione ha cercato di rendere il meglio possibile il modo
in cui è articolata l'enumerazione, con una successione divo-
caboli in certo qual modo affini. Questo elenco si differenzia
dall'elenco dei vizi di Rom. r,29-32 - che descrive i vizi pro-
pri del paganesimo - per il fatto che (come mostrano i vv. 5
e 6 ), contiene anche peccati che si diffonderanno all'interno
della cristianità. Da ciò esso trae la sua tremenda serietà.
Egoismo(1) e avidità di denaro(2) si insinuano come le ra-
dici di tutti i mali, presunzione contro Dio (3·5 ) e l'indisciplina-
tezza nei rapporti con il prossimo (6-17 ), compreso il più vi-
cino, ne sono la conseguenza. Si vuole vivere la vita che più
piace, indifferenti a Dio (18 ). E ciò avverrà (intenzionalmen-
te tale intima falsità è messa in rilievo alla fine dell'elenco,
come la cosa peggiore di tutto) sotto l'apparenza esteriore
della pietà (1 9 ). Già appaiono i primi segni di questi avveni-
menti alla fine dei tempi; per la comunità di Gesù non è
mai troppo presto per stare in guardia: le ultime parole del
v. 5 potrebbero contenere l'invito a negare la comunione con
il resto dei cristiani (cfr. 2 Io. r o) a coloro i quali si sono
messi per questa strada. Fra tali uomini ci sono i settari gno-
stici; la loro apparente pietà si mostra nel modo più chiaro
nella loro propaganda, rivolta di preferenza a donne aventi
un pesante passato ('"2 ), la cui miseria interiore le spinge, sì,
ad interessarsi di questioni religiose (3), ma che non hanno
la volontà di chinarsi alla severità del messaggio cristiano (4 ).
A questa propaganda condotta con motivazioni sleali e dub-
bie i settari uniscono una lotta accanita alla comunità, alla
quale appartenevano ancora poco tempo prima, e alla sua
2 Tim. 3,I-9 103
predicazione. È una vera resistenza al messaggio di Dio, co-
me quella che fu opposta a Mosè alla corte del Faraone dai
due maghi Iannes e Iambres; ma (ed è questo che dà forza
alla comunità) il destino di quegli oppositori della verità, i
cui colpi fallirono, si ripeterà con i settari. Le loro sobilla-
zioni, anche se potranno ottenere dei successi momentanei, so-
no già giudicate; la comunità lo sa, nella prospettiva della
fine dei tempi ( v. l) come nella retrospettiva della storia del-
la salvezza (vv. 8 s.). I nomi dei due maghi, Iannes e Iam-
bres, non si trovano nell'Antico Testamento; fanno parte
della leggenda tardo-giudaica di Mosè, elementi della quale
si ritrovano nel Nuovo Testamento (istruzione di Mosè nel-
la sapienza egiziana Act. 7,22; Mosè aveva 40 anni quando
apparve in pubblico 7 ,2 3; la legge data per mezzo degli an-
geli Act. 7,53; Gal. 3,ro; Hebr. 2,2; la nube avvolge gli
Israeliti I Cor. ro,2; la pietra dell'Oreb li segue I0,4; l'ar-
cangelo Michele si disputa con Satana la salma di Mosè I u-
dae 9 ). Ex. 7 ,1 l s. 22 racconta che savi e maghi egiziani ri-
peterono davanti al Faraone il miracolo di Aronne, che ave-
va mutato il suo bastone in un serpente; la leggenda colorì
questo racconto ed alla coppia di fratelli, Mosè e Aronne,
contrappose una coppia di fratelli, maghi egiziani: Iannes e
Iambres (la più antica attestazione è CD 5, l 8 s.: «lachne
e suo fratello». Probabilmente la leggenda originaria parlava
di un mago soltanto: 'Giovanni l'apostata' [mamre]; negli
ambienti di lingua ellenistica mamre fu trasformato in
Iam[b]res e inteso come nome proprio). Che in 2 Tim. 3,
8 gli eretici siano paragonati a questi due maghi egiziani ha
un profondo significato. Il Nuovo Testamento volentieri in-
terpreta 'tipologicamente' l'Antico Testamento, vede cioè
nelle figure e negli avvenimenti veterotestamentari delle pre-
figurazioni ('tipi') di ciò che avverrà alla fine dei tempi, che
è cominciata con Cristo. Ad esempio tutto il Nuovo Testamen-
to considera la generazione del deserto il 'tipo' della comunità
messianica di salvezza (I Cor. ro,1-13; Hebr. 3,7-4,13; Apoc.
104 La retta via nella sequela del!' Apostolo

r 5 ,3 ecc.). Come la generazione del deserto fu portata, sot-


to la guida del redentore Mosè mandato da Dio, dalla schia-
vitù nella Terra promessa, così la comunità cristiana è con-
dotta dalle tenebre, la miseria e il peccato sotto la sovranità
regale di Dio, da parte del Salvatore. E per questo motivo
il destino della generazione del deserto è un'ammonizione
(I Cor. ro,r-r3) e una consolazione (Apoc. r5,3; 2 Tim. 3,
9 ): modello del destino della comunità salvifica neotesta-
mentaria.

4. La retta via nella sequela dell'Apostolo ( 3,rn-17)


10 Tu invece mi hai seguito nella dottrina (1 ), nella condotta (2), nei

progetti (3), nella fede (4 ), nella longanimità (5), nell'amore (6 ), nella


pazienza (7), 11 nelle persecuzioni (8 ) e nei dolori ( 9 ) che ho subito ad
Antiochia, a !conio e a Listra. Quante persecuzioni non ho dovuto
sopportare! Ma il Signore mi ha salvato da tutte. 12 E tutti coloro che
vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati. 13 Ma
uomini cattivi e ingannatori andranno di male in peggio, seduttori e
sedotti. 14 Tu però resta fedele a ciò che hai imparato e che è dive-
nuto certezza per te; tu sai da chi l'hai appreso 15 e fin dall'infanzia
hai imparato la Sacra Scrittura, che ti può dare la saggezza che porta
alla salvezza attraverso alla fede fondata in Cristo Gesù. 16 Ogni Scrit-
tura proviene dallo spirito di Dio ed è utile per insegnare (1 ), confuta-
re (2), correggere (3), formare alla giustizia (4 ), 17 affinché l'uomo di Dio
sia nella condizione adatta, cioè preparato per ogni opera buona.

ro-17. Timoteo è sulla strada giusta. Da quando fu conver-


tito dalla predicazione missionaria dell'Apostolo, ne ha se-
guito l'esempio, non solo nella dottrina, ma anche nella con-
dotta di un missionario di Gesù Cristo (nella enumerazione
i membri 2-9 sono appaiati). Quale spirito di sacrificio avreb-
be chiesto l'essere un seguace del grande Apostolo, Timoteo
l'ha visto con i propri occhi subito dopo la sua conversione.
Quando Paolo giunse a Listra, la patria di Timoteo, nel pri-
mo viaggio missionario, era stato appena cacciato da Antio-
chia (in Pisidia; Act. r 3 ,50 ), a Iconio era sfuggito appena
in tempo alla lapidazione ( I4 ,5-6 ), e nella stessa Listra era
2 Tim. 3,ro-r7 105

stato lapidato, tratto fuori della città e là lasciato per morto


( 14, r 9); non a caso il primo viaggio missionario nelle Let-
tere di Paolo è ricordato quasi soltanto in relazione alle sue
sofferenze (Gal.4,r3s.; 2Cor. rr,25; 2Tim.3,rr). Da al-
lora sono trascorsi circa r 5 anni. Timoteo lavora nelle co-
munità dell'Asia Minore che un tempo Paolo aveva fondato
fra tante gravi persecuzioni; perciò anche adesso ha sempre
davanti agli occhi i sacrifici che esige la vocazione missio-
naria. Antiochia di Pisidia, !conio, Listra non sono che sta-
zioni della via crucis che l'Apostolo ha percorso ( 2 Cor. r r,
23-33 ecc.). Ma ogni stazione (prorompe riconoscente l'A-
postolo) è anche una testimonianza del possente aiuto del
Signore. Ciò che Paolo ha imparato, vale per tutti i disce-
poli di Gesù (questo 'tutti' è sottolineato inesorabilmente):
la sequela di Gesù percorre la via al Calvario. Certamente ci
sono altri che sanno come fare per sottrarsi al dolore, e che
dietro una maschera pia perseguono fini egoistici. Essi fa-
ranno ancora di peggio, ma la condanna è gia stata pronun-
ciata: seduttori sedotti (una frase proverbiale a quei tempi).
Timoteo deve comportarsi diversamente. La sua vita inte-
riore e l'esercizio del suo ministero poggiano su due fermi
sostegni: l'uno è la parola dell'Apostolo, il vangelo (Paolo
lo ammonisce a non dimenticare chi erano i suoi maestri);
l'altro è la Sacra Scrittura dell'Antico Testamento, che un
tempo aveva imparato dalla sua pia madre Eunice e da sua
nonna Laide ( r ,5) (l'usanza giudaica raccomandava di istrui-
re i bambini alla lettura della Sacra Scrittura fin dal quinto
anno di età [Pirqe Abot 5,21] ). Perché è tanto importante
che Timoteo fin dalla giovinezza abbia avuto familiarità con
l'Antico Testamento? Perché gli scritti dell'Antico Testa-
mento (per le comunità cristiane più antiche non esisteva
ancora nessuna raccolta di scritti neotestamentari) danno la
conoscenza della via che conduce alla salvezza. L'Antico Te-
stamento infatti non contiene soltanto la legge, che non vale
più per il cristiano (I Tim. r,9), ma fa anche conoscere la
106 La retta via nella sequela dell'Apostolo

retta condotta secondo la volontà di Dio. Naturalmente que-


sto secondo aspetto si svela soltanto a chi legge la Scrittura
nella fede in Gesù Cristo, come Paolo ha mostrato esemplar-
mente in Rom. 4 ecc., perché soltanto la fede preserva dalla
comprensione dell'Antico Testamento in un senso legalisti-
co. «Dunque l'Antico Testamento non ha senza il vangelo
la dignità di parola donatrice di salvezza» ( Schlatter ). Anche
per i cristiani l'Antico Testamento è documento ispirato del-
la rivelazione: ogni passo della Scrittura è «sorto dallo spi-
rare dello Spirito di Dio»; è veramente Dio che qui parla.
Perciò la parola dell'Antica Alleanza, letta alla luce del van-
gelo, rimane per la comunità della Nuova Alleanza e per i
suoi capi un insostituibile strumento divino di santificazione,
cioè per insegnare la volontà di Dio (1 ), convincere i pecca-
tori (2), rinfrancare e migliorare i pentiti (3), educare nella
retta condotta, quale Dio la chiede (4 ). Così la parola di Dio
fa sì che gli uomini di Dio siano «nella condizione adatta»,
cioè che siano pronti a diventare strumento di Dio nelle ope-
re di carità (v. comm. a rTim. 5,10): non è pensabile opera
buona per la quale non sia utilizzabile un uomo di Dio.

Il giudizio dell'Apostolo sul!' Antico Testamento in 3, r 5-


17 è quanto di più chiaro ci sia su questa questione negli
scritti neotestamentari. È patrimonio di tutto il Nuovo Te-
stamento: r. la convinzione che la parola veterotestamenta-
ria è operata dallo Spirito di Dio, è parola ispirata di Dio,
e 2. la certezza che soltanto la comprensione cristocentrica
e nella fede in Cristo dell'Antico Testamento ne schiude la
profondità e lo rende strumento di santificazione. Per quel
che riguarda l'ispirazione dell'Antico Testamento, il Nuovo
Testamento mostra certe differenze nella sua concezione.
Infatti nel Nuovo Testamento si riflettono le forme diverse
che il dogma dell'ispirazione aveva assunto nel giudaismo
palestinese e in quello ellenistico: mentre in Palestina si te-
neva conto della cooperazione degli strumenti umani di Dio,
2 Tim. 4,I-8

nella diaspora (Filone) si propendeva per una rigida ispira-


zione verbale che vedeva in essi solo una penna inerte nelle
mani dello Spirito. Gesù e Paolo sostengono la più elastica
concezione palestinese dell'ispirazione: essi fanno il nome de-
gli uomini, per mezzo dei quali Dio ha parlato (Davide: Mc.
r2,36s.par.; Mosè: Rom. ro,19; Isaia: Rom. ro,20), anzi
Gesù può a volte trovare nell'Antico Testamento, oltre alla
parola di Dio, anche delle parole puramente umane (Mc. ro,
5 par.). Viceversa in H ebr. incontriamo la stretta ispirazione
verbale del giudaismo ellenistico, estesa alla traduzione gre-
ca dell'Antico Testamento (LXX; cfr. comm. a Hebr. r,5-
14).

5. Esercita fedelmente il tuo ministero: il mio tempo sta per finire


( 4,1-8)

1 Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che giudicherà i vivi e

i morti, per la sua apparizione e il suo regno: 2 predica la parola (1 ),


insisti quando è tempo e quando non è tempo (2), riprendi (3), biasi-
ma (4 ), esorta('), con molta pazienza ed ogni genere di insegnamenti.
3 Perché verrà il giorno in cui (gli uomini) non sopporteranno più la

sana dottrina, ma, secondo quanto piacerà loro e nel desiderio di


aver solleticate le orecchie, si cercheranno dei maestri 4 distogliendo
l'orecchio dalla verità ma rivolgendolo ad ascoltare dei miti. 5 Ma tu
sii vigilante in ogni cosa (1 ), sopporta i disagi (2), compi il tuo lavoro
di predicatore del vangelo (3), adempi pienamente il tuo ministero (4 ).
6 Quanto a me, il mio sangue sta già per essere versato in libagione ed

è giunto il momento della mia dipartita. 7 Ho combattuto la buona bat-


taglia, sono giunto alla fine della corsa, sono rimasto fedele. 8 E ormai
è pronta per me la corona della giustizia che in quel giorno mi con-
segnerà il Signore, il giusto giudice, non solo a me ma anche a tutti
quelli che hanno atteso con amore la sua apparizione.

1-8. Le esortazioni a Timoteo si fanno sempre più urgenti.


In un appello solenne, la cui severità è accresciuta dal ri-
chiamo alla professione di fede (cfr. Act. I0,42; I Petr. 4,5;
Simbolo apostolico) Paolo lo mette di fronte all'inelluttabile
ro8 Esercita fedelmente il tuo ministero: il mio tempo sta per finire

esigenza di Dio e all'incorruttibile giudizio di colui che tor-


nerà per giudicare i vivi e i morti, ma anche per costituire il
suo regno della grazia. Sotto il segno di questa esortazione
solenne c'è l'ammonimento ad essere fedele al ministero.
Ora più che mai deve suonare alto l'appello del vangelo (1 ).
A tempo opportuno o inopportuno, piacciano o no agli uo-
mini il momento, l'ora e le altre circostanze, Timoteo deve
insistere (2), riprendere (3), punire i peccati senza paura (4 ),
portare la promessa consolante del messaggio evangelico (5).
E tutto questo con la pazienza amorosa, che tutto sopporta
e tutto spera e che trova sempre nuove vie per giungere al
cuore degli uomini. Questa fedeltà è ora necessaria più che
mai. Sta per cominciare il tempo in cui nella chiesa si tro-
verà insopportabile l'austera predicazione sul peccato e il
giudizio, sulla redenzione e la santificazione, perché essa non
si confà al naturale gusto degli uomini e questi vorran-
no udire discorsi ingegnosi, interessanti, sensazionali, co-
me le speculazioni gnostiche dei settari con le loro idee
sulla creazione e il peccato originale, sul corso degli eoni e
l'autoredenzione. Si troveranno in gran numero maestri per
solleticare le orecchie con questi discorsi. Ora si deve essere
vigilanti e riflettere che la caratteristica della giusta predica-
zione non è di piacere agli uomini ma di giungere alla loro
coscienza, anche se così la predicazione dovesse diventare
odiosa alle lore orecchie. Le inimicizie e i disagi sono inse-
parabili dal ministero se il predicatore ('evangelista' cfr. Act.
2 r , 8; Eph. 4, rr ), noncurante degli umori e dei gusti degli
uomini, vuole soltanto annunciare puramente ed integral-
mente il vangelo, con la fedeltà che Dio esige dai suoi ammi-
nistratori (I Cor. 4,2 ). Ma non solo la situazione della chiesa
richiede oggi questa piena fedeltà; lo richiede anche la situa-
zione in cui si trova l'Apostolo, che scrive il suo testamento
con lo sguardo fisso alla morte (v. 6), ritornando con la men-
te alla sua corsa vittoriosa (v. 7) e fiducioso nel giudizio del
suo Salvatore glorioso (v. 8 ). In due immagini, che travia-
109
mo anche nella Lettera ai Filippesi (2,17; r,23), l'Apostolo
parla al presente della sua fine, perché la sua condanna a
morte è attesa da un giorno all'altro. «Il mio sangue sta per
essere versato in libagione» è la prima immagine; la sua
morte è immolazione, perché come martire muore in o-
nore a Dio e perché la sua passione va a vantaggio dei
fratelli (v. comm. a 2,10). La seconda immagine è quella
della partenza. La sua morte è ritorno al Signore (Phil. r,
2 3 ), nella casa del Padre. In tutte e due le immagini c'è la
gioia di essere pronto a morire; Paolo muore volentieri per-
ché sa di «morire al Signore» (Rom. 14,8 ). Il consacrato alla
morte guarda indietro alla corsa che ha fatto: la gara è finita,
il traguardo è stato raggiunto. Come in un sospiro egli ag-
giunge: io ho tenuto fede (si deve tradurre così; 'tener fede'
è una locuzione fissa). Lo sguardo riposa sulla visione del
traguardo. Lì è pronta la corona della vittoria, che premia
la resistenza (cfr. Apoc. 2, 10 ). Paolo china il capo davanti a
Cristo, il giusto giudice, che nella parusia (non si intende
parlare della morte) gli metterà sul capo la 'corona della giu-
stizia': il fatto che il giusto dia la giustizia (Rom. 3,26), per
Paolo rimane fino all'ultimo l'unico dono inconcepibile di
salvezza (Gal. 5 ,5 ). Ma non solo per lui è pronta la corona.
È come se Paolo avesse paura che si cadesse nell'equivoco
che egli, per aver fatto qualcosa di speciale, riceverà un pre-
mio speciale. Perciò egli rivolge lo sguardo ai fratelli. La
stessa prqmessa vale per tutti coloro che hanno dato tutto il
loro amore a Gesù e attendono con gioia la sua parusia.

III. La situazione personale delt' Apostolo ( 4,9-18)


9Vieni presto, più presto che puoi. 10 Perché Dema mi ha abbando-
nato per amore di questo mondo ed è partito per Tessalonica, Cre-
scente per le Gallie, Tito per la Dalmazia. 11 Soltanto Luca è con me.
Porta con te anche Marco, che mi è utile per il ministero. 12 Tichico l'ho
mandato a Efeso. 13 Quando vieni portami il mantello che ho lasciato
a Troade in casa di Carpo, e anche i libri, soprattutto le pergamene.
IIO La situazione personale dell'Apostolo

14 Il fabbro Alessandro mi ha fatto del male assai; «il Signore gli ren-

derà secondo le sue opere». 15 Anche tu guardati da lui, perché si è


aspramente opposto alle nostre parole. 16 Durante la mia prima difesa
nessuno mi ha assistito, mi hanno abbandonato tutti; che non gliene
sia tenuto conto. 17 Ma mi ha assistito il Signore e mi ha dato forza
affinché la mia predicazione si compisse fino all'ultimo e potessero
udirla tutti i pagani, e così fui liberato «dalla bocca del leone».
18 Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà nel suo regno

celeste. A lui gloria nei secoli dei secoli. Amen.

v. 14: Ps. 62,13; v. 17: Ps. 22,22; Dan. 6,2r.28

9-18. Il brano finale è dominato dall'estrema preghiera, e-


spressa due volte a Timoteo (vv. 9.2 l) di venire al più presto;
altrimenti non troverà più in vita l'Apostolo. Paolo lo deside-
ra ardentemente. È solo, più di quel che Timoteo possa pen-
sare, e ha fatto amare esperienze con gli uomini (cfr. l,15;
4,16). L'ultimo tratto di strada è stato duro. Anche Dema,
il suo compagno e collaboratore durante la prima prigionia
romana (Philm. 24; Col. 4,14), è stato di quelli che hanno
preferito il loro benessere all'apparizione del Signore (v. 8),
e si è messo al sicuro a Tessalonica. Crescente, un collabo-
ratore finora sconosciuto, è partito per la 'Galazia': è diffi-
cile pensare alla Galazia nell'Asia Minore, piuttosto, con la
chiesa antica, si deve intendere le Gallie. Crescente avreb-
be dovuto fare il viaggio per incarico dell'Apostolo (la leg-
genda lo fa vescovo nelle Gallie). Tito (dr. in traduzione l ) ,
che da Creta era tornato da Paolo (Tit. 3,12), è andato in
Dalmazia, cioè nella provincia imperiale dell'Illirico (Iugo-
slavia), dove erano giunti già anni prima degli inviati forse
dalle comunità della Macedonia (Rom. 15,19). Nonostante
la prigionia dell'Apostolo la chiesa cresce: la parola di Dio
non è legata (2 Tim. 2,9). Luca, il 'caro medico' (Col. 4,14),
dei fidati, che Timoteo conosce, è l'unico che è con Paolo;
dunque Paolo può ricevere visite in carcere. Ma Paolo non
pensa a sé, ma al lavoro; il raccolto è grande e occorrono
III

operai. Perciò Timoteo deve condurre con sé Marco, che si


trova in Asia Minore, dove si era recato durante la prima
prigionia romana dell'Apostolo (Col. 4, IO). Paolo può ave-
re bisogno proprio di lui a Roma (da questa osservazione si
può forse dedurre l'esistenza di tensioni fra seguaci di Paolo
e di Pietro, per calmare le quali era particolarmente adatto
il :figlio spirituale, I Petr. 5,13, e interprete di Pietro? cfr.
introduzione al Vangelo di Marco). Quanto a Tichico Pao-
lo vuole rimandarlo in patria (cfr. Col. 4,7-9; Eph. 6,21 s.),
e cioè a Efeso nella provincia dell'Asia (Act. 20,4) (nel testo
il verbo 'mandare' è all'aoristo, ma dovrebbe trattarsi di un
aoristo proprio dello stile epistolare, che fa riferimento al
momento in cui la lettera arriva a destinazione; per cui si
dovrebbe leggere: «mando», e non: «ho mandato»); proba-
bilmente egli ha partecipato alla stesura della Lettera (v.
p. 2 5 ). Paolo suppone che Timoteo viaggerà via Troade-
Macedonia-Brindisi, perciò gli dice di portargli il suo mantel-
lo che, evidentemente non da molto tempo, ha lasciato a
Troade: l'inverno è alle porte e il carcere è freddo. Anche
dei libri Paolo ha lasciato a Troade; evidentemente inten-
deva tornarvi presto, prima di essere inaspettatamente fatto
prigioniero (v. comm. a l, l 5 ). Si potrebbe forse trattare di
lettere delle comunità, ed è possibile che potessero servirgli
per la sua difesa. Soprattutto ci tiene alle pergamene, cioè
rotoli contenenti forse uno o più libri della Bibbia, come il
Salterio e Isaia, nella traduzione greca (era prescritto che i
libri biblici fossero scritti su pergamena). Sono questi i te-
sori dell'Apostolo, che ben presto costituiranno la sua ere-
dità terrena. Nominando Troade, Paolo si sovviene di un
nemico particolarmente accanito, il fabbro Alessandro, dal
quale mette in guardia Timoteo. Dovrebbe trattarsi dello
stesso Alessandro, che aveva dovuto consegnare a Satana
(r Tim. l,20); sotto questo aspetto soltanto diventano com-
prensibili le parole di minaccia all'indirizzo di Alessandro.
Si noti bene che Paolo non usa l'ottativo deprecativo, ma
LI2 La situazione personale del!' Apostolo

il futuro di una cosa che avverrà certamente; non è dun-


que una personale irritazione che esprimono le sue parole.
La consegna a Satana di colui che una volta era stato un
membro della comunità, (v. comm. a ITim. 1,20) era avve-
nuta già da molto tempo, dopo che erano falliti tutti i ten-
tativi di indurre Alessandro a pentirsi. L'ultima parola è al
Signore (secondo Rom. 2,6 qui si intende Dio) nel giudizio
finale. Da Troade il pensiero dell'Apostolo torna a Roma, al
recente passato: qui egli ha dovuto fare un'amara esperienza.
Quando dovette comparire in giudizio la prima volta, rimase
solo davanti ai giudici: nessun membro della comunità cri-
stiana di Roma si era presentato per intervenire a suo fa-
vore, quantunque qualcuno avrebbe potuto fargli da patro-
no (difensore). Su un simile comportamento hanno eviden-
temente influito, oltre alla paura, antichi contrasti messi in
luce dalla Lettera ai Romani (cfr. però comm. ai: v. II). Ma
Paolo ha perdonato, come discepolo di colui che perdonò
prima di morire (Le. 23,34); egli lascia su questa terra ogni
amarezza. Gli uomini sono venuti meno, ma il Signore no
(la dossologia al v. 18 prova che anche qui si intende Dio);
Egli ha mantenuto la promessa di Gesù (Mc. 13,II; Mt. 10,
19 s.) ed è stato l'avvocato dell'Apostolo. La sua difesa aveva
fatto una profonda impressione: il processo fu rinviato, no-
nostante la gravità dell'accusa ('la bocca del leone'); ciò è
avvenuto per la causa del vangelo, dice Paolo. Egli è tanto
immerso nel suo ministero (kerygma ha qui il significato di
ministero della predicazione) che considera la sua difesa,
in una questione di vita o di morte, soltanto come occa-
sione per annunciare il vangelo. La conclusione della sua
predicazione è stata il messaggio ai suoi giudici e a tut-
ti quelli che erano presenti al processo. Dio gli ha dato
questa estrema occasione, affinché fosse interamente adem-
piuto il suo compito di predicare il vangelo «a tutti i pa-
gani». Per lui stesso l'aver evitato la condanna a morte
era stato soltanto un rinvio. Egli attende un secondo pro-
2 Tim. 4,r9-22 II}

cesso e ne vede l'esito chiaramente; una salvezza ben mag-


giore lo attende. Dio lo libererà da ogni male, come chiede
l'ultima frase del Padre nostro (che secondo il v. l 8, dun-
que, nell'ambiente paolino era intesa «liberaci dal male» e
non 'da Satana'), e al di là di ogni miseria di questa terra lo
porterà in salvo nel suo regno celeste. Il martirio gli aprirà
le porte della attuale gloria regale di Dio nel cielo, che è
l'anticamera del Regno del Salvatore che ritornerà sulla terra
trasfigurata (Phil. 3,20; I Cor. 15,25; 2 Tim. 4,1 ). Come
spesso in Paolo (Rom. 9,5; l l,33-36; Gal. 1,5; Phil. 4,20;
E ph. 3 ,2 l; I T im. l, l 7) anche qui la sola menzione della
potenza e della grazia di Dio diventa adorazione, dosso-
logia: «a Lui gloria nei secoli dei secoli», alla quale il letto-
re è invitato ad unirsi con il suo 'amen'.
Finale della Lettera (4,r9-22)
19Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesiforo. 20 Erasto è rimasto
a Corinto, Trofimo l'ho dovuto lasciare a Mileto malato. 21 Vieni, se
ti è possibile, ancora prima dell'inverno. Ti salutano Eubulo, Pu-
dente, Lino, Claudia e tutti i fratelli. 22 Il Signore Gesù Cristo sia
con il tuo spirito. La grazia sia con voi.

19-22. Seguono i saluti, per primi ai fedeli sposi Priscilla e


Aquila (Act. 18,2 s. 18.26; I Cor. 16,19; Rom. 16,3 s.), ai
quali una volta Paolo aveva salvato la vita, correndo egli
stesso un pericolo mortale (Rom. 16,4); poi alla famiglia del
fedele defunto Onesiforo (v. comm. a 2Tim. l,16-18). Il
confronto con l,18 (Onesiforo a Efeso) e Act. 18,24-26 (Pri-
scilla e Aquila talvolta a Efeso) fa supporre che Timoteo si
trovi ancora (r Tim. 1,3) a Efeso; anche l,15 lo fa pensare,
perché Efeso era la capitale della provincia dell'Asia (il no-
me di Efeso in 4,12 [invece che 'da te'] difficilmente si può
addurre a prova del contrario, considerando tutti i nomi di
località citati nei versetti vicini). Nel v .20 Paolo aggiunge
alcune notizie a quelle dei vv. lo-18. Erasto, forse il cassie-
re di Corinto nominato in Rom. 16,23 (cfr. Act. 19,22), è
Finale della Lettera

rimasto a casa sua; Trofìmo, una delle persone nominate in


Act. 20,4 (cfr. Act. 21,29), è ammalato a Mileto. Paolo dun-
que era stato da poco a Troade (v. 13) e Mileto, forse anche
a Corinto, senza essere accompagnato da Timoteo. La suc-
cessione in cui al v. 20 sono nominati Corinto e Mileto, fa
supporre che Paolo si trovasse in viaggio per Gerusalemme.
Per la seconda volta Paolo prega Timoteo di venire. Vedi
di prendere una nave ancor prima che sia chiusa la naviga-
zione nel Mare Adriatico (mare clausum: dall' r 1 novembre
al ro marzo= 17 settimane; secura navigatio: dal 27 mag-
gio al 14 settembre). È necessario affrettarsi: la condanna a
morte può essere pronunciata da un giorno all'altro. Questa
preghiera a Timoteo forse permette una datazione della Let-
tera. È difficile che Paolo abbia chiamato Timoteo nell'in-
ferno della persecuzione neroniana dell'autunno del 64; dun-
que la 2 Tim., ove sia autentica (v. al riguardo dopo il v. 22
e pp. 17 ss.) sarebbe stata redatta al più tardi nell'autunno
del 63. Seguono i saluti di fratelli nella fede di Roma; Lino
nell'elenco dei vescovi di Roma appare come il primo capo
di quella comunità, dopo Pietro. Un augurio di benedizione
ai suoi diletti collaboratori e alle comunità affidate ad essi
sono le ultime parole di mano dell'Apostolo, che si avvia
incontro alla morte.

6-2r. I vv. 6-21 con la loro semplice concretezza contrad-


dicono alla supposizione che le Lettere pastorali non siano
autentiche. Non è possibile, come si è cercato di fare, stac-
care dal contesto questi versetti, come fossero un frammento
di una Lettera autentica: il vocabolario e lo stile indicano
chiaramente che esse sono una parte costitutiva delle Lette-
re pastorali. La singolarità della situazione, che si riflette
particolarmente nel v. r 3, e la singolarità della relazione tra
lo scrivente e il destinatario, resteranno sempre, come ab-
biamo già detto a p. r 8, l'argomento principale a favore del-
1' autenticità delle Lettere pastorali.
LA LETTERA A TITO

La Lettera a Tito è probabilmente la più antica delle tre


Lettere pastorali (v. p. 12). Anche in essa sono predomi-
nanti i due grandi argomenti che hanno dettato la I Tim.:
l'ordinamento della vita ecclesiale e la lotta contro gli ere-
tici. Il primo è sviluppato in I ,5-9 (le qualità che si devono
esigere nei ministri) e 2,1-3,7 (regole della condotta di vita
cristiana); il secondo nelle affermazioni antieretiche che con-
cludono le due sezioni (r,ro-r6; 3,8-11).

L'indirizzo ( 1,1-4)
1 Paolo, servo di Dio e apostolo di Gesù Cristo, (inviato) per (il ser-
vizio della) fede degli eletti di Dio e per (divulgare) la conoscenza
della verità della nostra fede 2 nella speranza della vita eterna, che
Dio, il quale non mente mai, ha promesso (di donare) prima di tutti
i tempi 3 per poi rivelare a tempo debito la sua parola nella predica-
zione, che mi è stata affidata per ordine di Dio, nostro Salvatore,
4 a Tito, suo diletto :figlio nella comune fede. Grazia e pace (sia

con te) da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù, nostro Salvatore.

l-4. Il prescritto, steso in una forma molto concisa, spiega


più precisamente nei vv. rb-3 che cosa significano le pa-
role 'apostolo di Gesù Cristo'. Paolo, come apostolo, ha una
doppia missione: la conservazione nella fede delle comunità
e la diffusione della conoscenza della verità «della nostra
fede» (letteralmente: «che è tale secondo la pietà», dove
'pietà', come in I Tim. 6,3 dr. 3,16, significa la fede della
chiesa in contrapposizione alle dottrine degli gnostici giu-
II6 Insediamento dei capi delle comunità

daizzanti). Ma le due cose, la cura della vita comunitaria


nella fede e l'attività missionaria si svolgono nella prospet-
tiva del futuro di Dio: «nella speranza della vita eterna».
Questa speranza è ben fondata; già prima di tutti i tempi
(cioè prima che il mondo fosse) Dio ha formulato la promessa
della vita eterna, quando affermò la decisione della reden-
zione. Però soltanto nel vangelo, dopo il tempo del silenzio,
egli ha rivelato la promessa che era nascosta (dr. la stessa
contrapposizione dell'eterno consiglio e della sua rivelazione
in Gesù in 2 Tim. 1,9-10). Le voci dei profeti sono dunque
comprese nel tempo durante il quale Dio ha tenuta nascosta
la sua decisione; anche per Paolo soltanto Gesù Cristo è
- secondo l'espressione usata dal vescovo martire Ignazio -
da parola, con la quale Dio ha rotto il silenzio» (Mg. 8,2).
La predicazione (kerygma, v. comm. a 2 Tim. 4,17) Dio l'ha
istituita per manifestare a tutti gli uomini la sua promessa
della vita eterna svelata in Cristo: ai credenti, perché si ten-
gano fermi nella fede, ai non credenti affinché giungano alla
fede. Il v. 4 prova che Tito (come Timoteo, v. comm. a I
Tim. l,2) è stato convertito e probabilmente anche ordinato
da Paolo (su 'Salvatore' nei vv. 3 e 4 dr. comm. a I Tim.
l,1; 2Tim. l,ro; sulla benedizione al v.4 v. sopra p. 12).

I. Il ministero comunitario e il settarismo ( l,5-16)

l. Insediamento dei capi delle comunità ( 1 ,5-9)


5Ti ho lasciato a Creta per mettere in ordine ciò che restava ancora da
fare e insediare in ogni città degli anziani, secondo le istruzioni che ti
ho dato; 6 che ognuno di essi sia irreprensibile (1) sposato con una
sola donna (2), che i suoi figli siano credenti, e non li si possa accu-
sare di essere dissoluti o disobbedienti (3). 7 Perché un capo della co-
munità (episcopo) dev'essere irreprensibile, in quanto amministratore
di Dio, e non sia superbo (4 ), iracondo (5), dedito al vino (6 ), violen-
to (7), avido di illeciti guadagni (8 ), 8 ma ospitale (9), amante del be-
ne ( 10 ), saggio ( 11 ), giusto (1 2 ), pio ( 13 ), padrone di se stesso (14 ), 9 te-
nace nell'attaccamento all'insegnamento sicuro, conforme alla dot-
Tit. I,5-9 117

trina (1 affinché sia in grado di esortare nella s<1na dottrina e di


5 ),

confondere coloro che la contraddicono.


Sembra che Paolo si sia fermato a Creta soltanto per breve
tempo; ciò nonostante il cristianesimo aveva già preso piede
in più città. Perciò vi ha lasciato Tito con poteri straordinaria-
mente ampi, in qualità di suo rappresentante, affidandogli il
compito di grande responsabilità di dirigere la comunità. (La
mancanza del rendimento di grazie all'inizio della Lettera e la
ripetizione di un incarico già dato a voce fanno parte dello
stile ufficiale, v. pp. 14 s., dunque la Lettera è diretta anche
alle comunità ed è intesa a rafforzare l'autorità di Tito). Che
la scelta dei capi delle singole comunità tra 'gli anziani' (v.
comm. a I Tim. 5,17-25) non sia affidata alle stesse comuni-
tà, è dovuto al fatto che le comunità di missione erano state
costituite da poco tempo. In questa scelta Tito deve assicu-
rarsi di due cose: l'irreprensibilità personale ( 1, che cosa in-
tenda con questa parola è detto al v. 7) ed una famiglia esem-
plare. Il candidato dev'essere «sposato con una sola don-
na» (2, v. comm. a I Tim. 3,2: proibizione di nuove nozze di
divorziati) e i suoi figli si devono essere fatti cristiani, come
i genitori, e non debbono essere causa di una cattiva reputazio-
ne del padre con una condotta dissoluta e disobbediente, ren-
dendogli così impossibile l'esercizio del suo ministero(3). Il v.
7 chiama la carica, che devono rivestire gli uomini che saranno
scelti, con il nome di episcopo, ossia capo della comunità (v.
comm. a I Tim. 3,1 ); evidentemente a Creta non v'erano an-
cora diaconi. Il 'modello di parroco' (v. comm. a I Tim. 3,1}
ha contatti molto stretti con I Tim. 3,1-7; al v. 7b sono de-
scritti i sentimenti non cristiani che fanno disonore al mini-
stero (le ultime parole «non avido di illeciti guadagni» 8 pos-
sono riferirsi tanto all'esercizio di una attività poco pulita
quanto [ cfr. v. l l ] al pericolo di servirsi del ministero per
arricchirsi); e ad essi si contrappongono in 8 s. le rette inten-
zioni cristiane. La dote più importante è citata alla fine del
brano. La guida di una comunità va affidata soltanto ad un uo-
rr8 La lotta agli eretici

mo che abbia veramente a cuore una predicazione secondo la


dottrina tradizionale della chiesa (1 5 ). Altrimenti, come po-
trebbe predicare rettamente e confondere i settari che get-
tano la comunità nella confusione, e contro i quali, invece,
chi esercita il ministero deve ergersi come un baluardo?

2. La lotta agli eretici ( l,ro-16)


10 Infatti vi sono molti ribelli, ciarlieri, seduttori, specialmente fra i

circoncisi. 11 Bisogna chiudere loro la bocca, perché sconvolgono in-


tere famiglie insegnando ciò che non si deve per turpe interesse.
12 Uno di essi, proprio un loro profeta, ha detto: «i cretesi sono sem-

pre bugiardi, male bestie, ventri pigri». 13 Questa testimonianza è


vera; perciò riprendili duramente, affinché conservino una fede sana
14 e non diano retta a miti giudaici e alle prescrizioni di uomini che

voltano le spalle alla verità. 15 «Tutto è puro per i puri», ma per


coloro che sono macchiati e increduli nulla è puro, perché la loro
coscienza e la loro mente sono contaminate. 16 Infatti sostengono di
conoscere Dio ma nei fatti lo negano: esseri abominevoli, disobbe-
dienti e incapaci di qualsiasi opera buona.

10-16. Ora si passa a descrivere gli eretici, dei quali si era


parlato al v. 9. Essi rappresentano un serio pericolo per le
giovani comunità cretesi, ancora malsicure, perciò è il caso di
procedere contro di loro con ogni energia. Soprattutto si de-
ve interdire loro la partecipazione alle assemblee comunita-
rie. La descrizione è molto simile ai passi che trattano degli
eretici I Tim. 1,3-II; 4,1-II; 6,3-10; 2 Tim. 2,14-18 nelle
espressioni usate per caratterizzarli, ma è importante per il
riferimento che fa alla particolare situazione a Creta. L'ere-
sia dell'Asia Minore è venuta dietro all'Apostolo fino a Cre-
ta; qui come altrove si tratta di persone che contraddicono
la dottrina e l'ordinamento della chiesa, e la moralità delle
quali è giudicata molto male. Come in I Tim. 6,5 viene loro
rinfacciata specialmente l'avidità di guadagni: essi sanno ap-
profittare dei loro seguaci; quanto alle dottrine 'sconvenien-
ti' forse si deve pensare a magie di ogni genere (v. comm. a
I Tim. 5 ,13 ). A Creta i giudeo-cristiani sono apparsi i peg-
Tit. I,IO-I6

g10n e pm invadenti avversari; hanno preso del carattere


cretese tutti i vizi, enumerati in un esametro diventato pro-
verbiale, tratto da uno scritto di Epimenide di Creta (VI se-
colo a.C.) intitolato Teogonia (genealogia degli dèi): bugiar-
di, rissosi, amanti dei piaceri. Con questa gente non c'è altro
da fare se non riprenderli severamente senza debolezze, af-
finché la vista della loro miseria morale li riporti sulla retta
strada. La loro dottrina è caratterizzata sotto un duplice
aspetto: da un lato, essi danno retta a 'miti' giudaici, espres-
sione con la quale si dovrebbe pensare all'interpretazione del-
1'Antico Testamento nel senso di speculazioni gnostiche (v.
comm. a I Tim. l,4); dall'altro, essi esigono l'osservanza di
'prescrizioni umane', e cioè di prescrizioni giudaizzanti di
purificazione (caratteristica della gnosi più antica, v. comm.
a 2 T im. 2, l 8 ). Dunque l'essenza della loro dottrina è l'auto-
redenzione per mezzo della conoscenza di mondi superiori
e l'osservanza di prescrizioni rituali (v. comm. a I Tim. 4,1
ss. ). Il presente brano comincia dalle prescrizioni di purifi-
cazione, di fronte alle quali va fatta valere la semplice ma
pregnante affermazione che «tutto è puro per i puri», che nel
contenuto risale a Gesù (Mc. 7,15) ed era un possesso si-
curo delle comunità (Rom. 14,20 cfr. 14). Per chi è stato
purificato da Dio nell'acqua del battesimo (cfr. Tit. 3,5-7)
tutto ciò che Dio ha creato è puro. Egli fa parte del nuovo
ordine divino del mondo e può usare dei doni di Dio con
la libertà del cristiano (v. comm. a I Tim. 4,3-5 ). Viceversa,
se la mente e la coscienza sono macchiate, tutto è impuro
(non solo questo o quel cibo) e tutto è profanato e sporcato.
La purità è nella rinascita, non nelle cose della natura. Come
il legalismo ascetico dei settari, neppure la loro presunta co-
noscenza più elevata ('conoscere Dio' o 'conoscere' sono ti-
piche espressioni gnostiche) resiste al giudizio del vangelo.
Qui la pietra di paragone è la vita. Chi asserisce di conoscere
Dio e nello stesso tempo lo rinnega di fatto è abominevole
davanti a Dio (cfr. I Io. 2,4).
120 Le varie categorie della comunità

II. Le regole della condotta di vita cristiana ( 2,1-3,1 l)

i. Le varie categorie della comunità ( 2,1-10)


1 Ma tu insegna ciò che è conforme alla sana dottrina: 2 che i v e c -
chi (1) siano sobri, onesti, prudenti, sani nella fede, nell'amore, nel-
la perseveranza; 3 similmente le donne anziane(2) abbiano un
comportamento santo, non siano maldicenti né dedite al vino, maestre
nel bene, 4 per insegnare alle giovani (3) ad essere prudenti, e ad
amare il marito ed i figli, 5 ad essere riservate, caste, ad aver cura della
casa, ad essere buone, sottomesse al marito, perché non sia bestemmia-
ta la parola di Dio. 6 Esorta ugualmente i giovani (4 ) ad essere mi-
surati 7 in tutto, dando nella tua persona l'esempio di opere di carità
e portando nel tuo insegnamento integrità, gravità, 8 un insegnamen-
to sano, irreprensibile, affinché colui che è della parte avversa, non
trovando nulla di male da dire contro di noi, resti confuso. 9 Gli
schiavi (5 ) siano sottomessi ai loro padroni, compiacenti in ogni
cosa, non li contraddicano, 10 non li derubino ma mostrino buona
fedeltà in tutto, per rendere onore in ogni cosa alla dottrina di Dio,
nostro Salvatore.

I-Io. Le istruzioni sulla pastorale specifica in 2,I-ro si rivol-


gono direttamente alle singole categorie, non in quanto mem-
bri di una famiglia (come ad esempio fa Col. 3,r8 ss.), ma co-
me classi della comunità. Ogni membro della comunità ha il
santo dovere di essere di esempio alla comunità stessa con una
condotta cristiana, e di fare onore al vangelo davanti a quelli
che sono di fuori (Mt. 5,I6). L'uomo illuminato e maturo de-
ve incarnare l'atteggiamento essenziale del cristiano: fede, a-
more, pazienza. Le donne anziane, con la loro condotta ed il
loro consiglio devono essere 'maestre nel bene' alle donne più
giovani; spesso infatti un cuore giovanile non giunge senza
lotte e difficoltà ad avere una visione chiara delle cose e a
formarsi un giudizio prudente. Essere interamente sposa e
madre è il compito della donna giovane; dato che il peccato
della donna è odioso in modo particolare, essa deve guar-
darsi dal pericolo che la sua vita quotidiana possa indurre
il marito (evidentemente, come in r Petr. 3,r s., si pensa ai
Tit. 2,II-IJ I2I

matrimoni misti) a disprezzare il vangelo. La ponderazione è


la qualità del giovane cristiano che entra nella maggiore età,
e il giovane ministro gli deve essere di esempio, il primo ad
offrirsi quando ci sia da compiere un'opera di carità e a con-
fondere gli avversari, dentro e fuori la comunità, con la pu-
rezza, la gravità e una predicazione inattaccabile. Anche gli
schiavi, tanto disprezzati, partecipano interamente al com-
pito della comunità di rendere onore a Dio con la loro con-
dotta (I Tim. 6,1 s.); essi sono un gioiello del vangelo se,
con l'obbedienza e la fedeltà, si dimostrano dei redenti da
Dio, il Salvatore (v. comm. a 2 Tim. l,10 ).

2. Perché è· tanto importante la santificazione della vita quotidiina


( 2,n-15)
11 Perché la grazia di Dio, nella sua forza che procura salvezza a tutti

gli uomini, si è manifestata 12 per insegnarci a vivere in questo tem-


po sobri (1), giusti (2) e pii (3), rinnegando l'empietà e i desideri di
questo mondo, come uomini 13 che attendono la beata speranza, cioè
l'apparizione della gloria del grande Dio e del nostro Salvatore Gesù
Cristo, 14 che si è dato (alla morte) per noi, per «redimerci da ogni
iniquità» e «purificarci, per fare di noi un popolo eletto», zelante
nelle opere di carità. 15 Cosl tu devi parlare, esortare e riprendere con
ogni autorità. Che nessuno ti disprezzi.

v. 14: cfr. Ezech. 37,23 (Ps. 130,8; Ex. 19,5).

II-15. Il fatto che la nuova vita, di cui ha parlato 2,1-10,


debba essere visibile in tutti i membri della comunità, perfi-
no negli schiavi, è tanto importante perché (si veda la tradu-
zione data sopra) l'esperienza aveva insegnato che il mondo
resta interdetto, più che dalle parole, dall'evidenza di questa
nuova vita, e in certo qual modo intuisce che la grazia di Dio
offre realmente la salvezza a tutti gli uomini. La vita quo-
tidiana dei cristiani, . che diventa evidenza della grazia di
Dio, l'edificazione della comunità da parte di Dio, che è
predica di Dio al mondo! 3'4-7 parla dell'effetto salvifico
122 La santificazione della vita quotidiana

della grazia, che cancella le colpe, perdona e giustifica, gra-


zia che abbiamo ricevuto nel battesimo; questo brano (ricor-
rendo a concetti ben fermi nelle comunità) tratta dell'effetto
salvifico edificante della grazia di Dio manifestatasi in Gesù
Cristo. L'opera cominciata dalla grazia giustificante nel bat-
tesimo, si continua nella grazia edificante nella vita quoti-
diana dei cristiani. Il battesimo significava la rinunzia (il
participio aoristo dimostra che Paolo pensa ad una decisa
rottura con i peccati del passato) alla vecchia esistenza pec-
catrice. Empietà e desideri 'di questo mondo' erano i con-
notati di quell'esistenza (la parola 'mondano' è intesa in
senso giovanneo, cfr. I Io. 2,16: «tutto quanto c'è al mon-
do, concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e
superbia della vita»). Tutta la colpa che questa vita aveva
accumulato è stata coperta dalla grazia giustificante di Dio.
Ora la grazia edificante continua l'opera di Dio e ci aiuta a
condurre la nuova vita. Questa vita nuova è descritta in tre
modi con parole mutuate dall'ideale di vita dell'etica greca:
riguardo al proprio io, è una vita sobria; riguardo agli altri
uomini, una vita giusta; riguardo a Dio, una vita pia. Quello
che l'etica greca si attendeva invano dalle forze proprie del-
l'uomo diventa realtà quando è all'opera la grazia edificante
di Dio. Qui si scopre, nonostante l'identità dei vocaboli,
l'abisso che separa l'etica cristiana da quella non cristiana,
sia essa giudaica o greca: qui la forza portante della moralità
è l'esigenza della legge o della ragione o della coscienza, che
pone agli uomini un impossibile 'devi'. Il cristianesimo, in-
vece, conosce un nuovo motivo dell'etica, che dà la forza
per adempierne i precetti: «la grazia edifica». La ricono-
scenza del graziato figlio di Dio per il Suo perdono: ecco la
la nuova forza portante, attraverso alla quale si esplica la
grazia edificante di Dio come forza di santificazione. Tale
vita di santificazione è sostenuta dalla speranza nella paru-
sia; il Salvatore apparirà alla destra del Padre nella gloria
regale ed accoglierà i suoi nel suo regno (la traduzione: «che
Tit. 3,r-8a 123

attendono l'apparizione della gloria del nostro grande Dio e


Salvatore Gesù Cristo» è formalmente possibile; ma l'attri-
buzione a Gesù dell'appellativo tardo-giudaico 'grande Dio'
- LXX, Enoc, Filone, Flavio Giuseppe - sarebbe assolu-
tamente unica nel Nuovo Testamento). La frase conclusiva
mette in evidenza la duplice (cfr. comm. al v. r 2) operazione
della grazia di Dio come adempimento della promessa vete-
rotestamentaria di Ezech. 37,23: Gesù ha consegnato se stes-
so alla morte (cfr. Mc. I0,45) per «redimerci da ogni ini-
quità», che dominava la nostra vecchia vita, e per «purifi-
carci, per fare di noi il suo popolo eletto», capace e dispo-
nibile a compiere le opere di carità (su questa espressione
cfr. l'excursus dopo I Tim. 5,16). Tito deve diffondere que-
sto messaggio della grazia giustificante ed edificante di Dio,
e le comunità, alle quali va letta la Lettera, devono sapere
che l'autorità di questo messaggio non è sminuita per la
giovane età di chi lo predica (Tit. 2,6-7 cfr. I Tim. 4,12).

3. L'atteggiamento verso l'autorità e il prossimo (3,1-8a)


1 Rammenta loro che siano sottomessi (1) all'autorità ed ai magistrati,
obbedienti ai loro ordini (2), pronti ad ogni azione buona (al servizio
del bene comune) (3); 2 che non parlino male di nessuno (4 ) e siano
pronti alla pace (5), benevoli ( 6 ) e dolci con tutti gli uomini (7). 3 Non
è molto tempo, infatti, che anche noi eravamo insensati (1 ), ribelli (2),
smarriti (3), schiavi dei più vari desideri e piaceri (4 ), operanti con
malizia e invidia (5), odiosi (6 ) e odiandoci l'un l'altro (7).
4 «Ma quando apparve la bontà e la benevolenza per gli uomini

di Dio, nostro Salvatore,


5 egli ci ha salvato - non per le opere di giustizia che potessimo

ma per la sua misericordia - [aver compiute,


con il lavacro che dona rigenerazione,
cioè il rinnovamento per opera dello Spirito Santo,
6 che ha effuso in noi con abbondanza

attraverso Gesù Cristo nostro Salvatore,


7 affinché, giustificati per la sua grazia,

diventassimo eredi della vita eterna, nella quale speriamo».


sa È sicura questa parola, e voglio che tu sia categorico al riguardo, af-
124 L'atteggiamento verso l'autorità e il prossimo

finché coloro che hanno creduto in Dio procurino di adoperarsi in


opere di carità.

l-8a. Le istruzioni sulla condotta di vita cristiana trattano


per ultimo l'atteggiamento verso le autorità e il mondo circo-
stante. Questa questione, particolarmente importante per le
giovani comunità missionarie, era già stata oggetto dell'inse-
gnamento all'epoca della conversione dei Cretesi. Non solo si
deve obbedienza alle autorità imperiali e cittadine anche se pa-
gane (cfr. Rom. 13,1ss.; 1-2 ), ma i cristiàni hanno anche il do-
vere di promuovere efficacemente il bene comune (3). Anche
verso i pagani, per quanto essi possano offendere con denigra-
zioni, odio, scherni e torti personali, il cristiano deve mostrar-
si come un discepolo di Gesù, non parlando male di nessuno
( 4 ), non essendo litigioso (5) e sopportando le ingiustizie (6-7 ).

Questa indulgenza naturalmente è possibile soltanto con una


profonda umiltà e con una chiara conoscenza di se stessi ( v. 3 ),
e per la gratitudine dei figli di Dio che hanno avuto il dono
della grazia (vv. 4-7). Non era trascorso molto tempo da
quando la medesima lontananza da Dio dominava la loro
mente e il loro cuore, gli stessi desideri ed egoismi pecca-
minosi. I cristiani di Creta da poco convertiti non erano
molto migliori degli uomini dai quali oggi subiscono dei
torti; e se sono mutati non è opera loro ma azione meravi-
gliosa di Dio. - I versetti che seguono, come lascia supporre
la formula introduttiva all'inizio del v. 8, sono probabilmente
una citazione di un inno, nel quale in prima persona plurale
si rendevano grazie a Dio per la grazia data nel battesimo.
L'antitesi del v. 5a potrebbe essere un'aggiunta, inserita nel-
l'inno per esprimere l'idea fondamentale della predicazione
paolina con una citazione veterotestamentaria; infatti in 2
Tim. 1,9 troviamo, anche là in una citazione, un'aggiunta dal
contenuto esattamente uguale. Questo miracolo di Dio,
canta la comunità, è iniziato con la nascita e la morte in
croce di Cristo; la sua venuta costituisce la svolta nella sto-
Tit. 3,I-8a 125

ria dell'umanità, perché in Lui apparve, come una luce che


splende nelle tenebre, «la bontà e l'amore per gli uomini di
Dio, nostro Salvatore». Sono parole solenni, riprese dal mo-
do di esprimersi dello stile aulico: non c'è altra virtù, che
sia esaltata così spesso in un sovrano ellenistico come la :filan-
tropia, e che suoni così bene all'orecchio dei greci, in tali echi
dello stile aulico (':filantropia': solo qui nel Nuovo Testamen-
to; 2 Tim. l,IO 'epifania'; forse anche Tit. 2,13: 'il grande
Dio') si è voluto vedere un indizio addirittura decisivo della
non autenticità delle nostre lettere; ma a spiegare l'uso di
questo stile, che si allontana da quello generalmente usato,
è sufficiente l'osservazione che questo passo, come 2 Tim.
l,9 s., e anche Tit. 2,n-14, sono delle citazioni -. Questa
'benignità e benevolenza di Dio', signore celeste e re della co-
munità, manifestatasi in Gesù fatto uomo, non soltanto rap-
presenta la svolta nella storia dell'umanità, ma anche la svol-
ta in ogni vita veramente cristiana. La bontà di Dio ci ha
strappato alla rovina (nelle giovani comunità cretesi ognuno
ne aveva fatto la personale esperienza) senza la nostra coo-
perazione, soltanto per la sua misericordia: questa idea fon-
damentale della teologia paolina è espressa con estrema chia-
rezza. La salvezza ci è stata data nel 'lavacro della rigene-
razione' (palingenesia: il vocabolo specificatamente elleni-
stico, nella Stoa indica il 'rinnovamento' del cosmo dopo
l'incendio del mondo, e poi entra nel linguaggio comune:
il ritorno alla libertà dall'esilio può essere detto palingenesia;
l'espressione fu poi ripresa dal giudaismo ellenistico, ad es.
per indicare il 'ritorno alla vita' dopo la morte. La sua appli-
cazione al battesimo, che avviene per la prima volta in Tit.
3,5 si spiega con il fatto che già il giudaismo insegnava che
il proselita al momento della conversione era come 'un bim-
bo appena nato', 'una nuova creatura'. Il cristianesimo aveva
ripreso questo paragone: il battesimo fa come 'una nuova
creatura' [Gal. 6,15; 2Cor. 5,17], come un 'bambino appe-
na nato' [r Petr. 2,2] è un 'essere rigenerato' [Iac. l,18;
126 La disciplina ecclesiastica nei con/ronti degli eretici

I Petr. l,3.23; lo. l,12; 3,3-8; I Io. 3,9s.; 5,18]; a rendere


questa idea si prestava ottimamente la parola palingenesia
= 'rinnovamento in un'esistenza più alta', 'rinascita'). L'ac-
qua del santo battesimo, in cui Dio ci promette il suo per-
dono e la sua giustificazione ( v. 7 ), significa un rinnovamen-
to totale dell'uomo. «Il vecchio è passato; ecco che tutto è
stato fatto nuovo» (2 Cor. 5,17). Quando la rinascita è de-
scritta come un «rinnovamento per opera dello Spirito San-
to», che Dio «ha effuso in noi con abbondanza per Gesù
Cristo, nostro Salvatore», si esclude ancora una volta ogni
azione umana; non c'è alcuna rigenerazione che avvenga ad
opera dell'uomo. È Dio uno e trino, Padre, Figlio e Spirito
Santo, a compiere nel battesimo il miracolo della rigenera-
zione. Ma la grazia battesimale è ancora più grande: essa do-
na la promessa del battesimo. Dato che nel battesimo otte-
niamo la giustificazione per la grazia di Dio (anche questa è
un'affermazione tipicamente paolina), che ci ha procurato la
morte espiatrice di Gesù, possiamo osare sperare nella sen-
tenza assolutoria di Dio nel giudizio, e nella partecipazione
alla vita eterna. La riconoscenza per questa grazia di Dio nel
battesimo ci pone nella posizione giusta verso gli altri uo-
mini, che esclude ogni senso di superiorità e ogni duro giu-
dizio su coloro i quali sono ancora lontani dalla salvezza (v.
2 ), e ci dà la capacità di compiere le opere di carità. Il vero
amore attivo sorge esclusivamente da una profonda ricono-
scenza.

4. La disciplina ecclesiastica nei confronti degli eretici ( 3,8b-1 I)


Bb Questo è buono e utile per gli uomini. 9 Ma evita le dispute storiche
e filosofiche come le polemiche sulla legge: sono cose inutili e infrut-
tuose. 10 Quanto all'eretico, ammoniscilo una e due volte, e poi scac-
cialo (dalla comunità), u sapendo che un uomo simile è uscito di
strada e pecca, e si condanna da solo.

9-1 I. Come la prima ( l, rn- l 6) anche la seconda parte della


Tit. J,I2-I5 127

Lettera a Tito si chiude con un'osservazione sui settari. Per


la determinazione del genere delle dottrine nomistico-gno-
stiche v. comm. a I Tim. I,4 ss.; Tit. r,ro ss. Per il bene del-
la comunità, la cui vita nella fede è minacciata dagli eretici,
Tito deve applicare ai settari la più stretta disciplina eccle-
siastica. Prima, in uno spirito di pastoralità, deve ammonire
un settario due volte e richiamarlo alla penitenza, la prima
volta (secondo Mt. r8,r5-r6) a quattr'occhi, la seconda alla
presenza di uno o due testimoni. Se questi ammonimenti so-
no vani, il settario dev'essere escluso dalla comunità; tale
esclusione avveniva secondo Mt. r8,17 (dr. rTim. 5,20) in
una assemblea della comunità. In tale caso non è Tito a
pronunciare la sentenza, ma lo stesso interessato; perché se
è stato ammonito, e ciò nonostante continua a peccare, pecca
sapendo che cosa fa ed è giudicato nella propria coscienza
escludendosi da solo dalla comunità.

Conclusione della Lettera ( 3,12-15)


12Quando ti avrò mandato Artema o Tichico, affrettati a raggiun-
germi a Nicopoli: ho deciso di passare là l'inverno. 13 Prendi tutte
le disposizioni necessarie per il viaggio di Zena, il giurista, e di A-
pollo, affinché non manchino di nulla. 14 Anche i nostri debbono
imparare ad eccellere nelle opere di carità quando sia necessario, af-
finché (il loro cristianesimo) non resti senza frutti. 15 Ti salutano tutti
quelli che sono con me. Saluta coloro che ci amano nella fede. La
grazia sia con tutti voi.

12-15. Uno sconosciuto Artema oppure il ben noto Tichico


(Act. 20,4; Eph. 6,21; Col. 4,7-9; 2 Tim. 4,12; v. inoltre l'in-
troduzione, pp. 24 s.) dovranno fra non molto tempo sostitui-
re Tito, ed assumere la direzione della chiesa cretese. A Nico-
poli, quella situata in Epiro, lo attenderà Paolo; la scelta
di questa località sul Mare Adriatico fa supporre che i piani
futuri dell'Apostolo fossero rivolti all'oc,:idente. Ora venia-
mo a conoscenza di un altro motivo della Lettera: il viaggio
a Creta di due maestri cristiani, del giurista Zena e di Apol-
128 Conclusione della Lettera

lo, che conosciamo da Act. 18,24 ss.; I Cor. 1,12; 3'4 ss. 22;
4,6; 16,12; essi sono raccomandati all'aiuto ed alle cure del-
la comunità. Il modo in cui questa raccomandazione viene
presa ad occasione per esortare Tito ad educare le giovani
comunità in un fattivo amore, in cui non devono stare in-
dietro alle comunità giudaiche della diaspora, è caratteristico
del cristianesimo pratico delle Lettere pastorali. La Lettera
chiude con i saluti e l'invocazione della grazia (scritta di
pugno dal mittente, cfr. pp. 24 s.).
LA LETTERA AGLI EBREI

Hermann Strathmann
INTRODUZIONE

Una delle caratteristiche della Lettera agli Ebrei è che a se-


zioni di contenuto dogmatico, che hanno sempre un carat-
tere dottrinale, si alternano di continuo ampie istruzioni ed
esortazioni di carattere pratico-pastorale. Ma queste ultime,
a parte il capitolo finale, hanno un unico scopo, quello cioè
di richiamare con la massima energia al dovere di mantenersi
fermi nella confessione di Gesù, di perseverare fedelmente
nella fede cristiana che dà salvezza. Tutti gli sforzi dell'au-
tore della Lettera, dal cap. r al cap. 12, sono concentrati su
questo fine; e questo scopo ultimo traspare anche nel cap.
r 3 fra le righe delle numerose e particolareggiate esortazioni,
dove, minacciando e allettando, con esempi ammonitori e
incoraggianti, egli cerca di influenzare il lettore in questo
senso. Ma da questo quadro non restano affatto fuori le
sezioni dottrinali; al contrario, gli servono da fondamento.
Esse infatti non traggono origine da una mentalità teoriciz-
zante, ma perseguono anch'esse lo scopo pratico di offrire
un aiuto al lettore perché possa mantenersi deciso e sicuro
nel suo comportamento religioso. Una convinzione dottri-
nale, ordinata e ferma, per l'autore è la base di una dura-
tura decisione della volontà. Perciò queste sezioni dottrinali
non turbano l'impressione di compiutezza, che distingue
la Lettera agli Ebrei da quasi tutti gli altri scritti neotesta-
mentari, anzi l'aumentano. L'alternanza delle sezioni è ben
meditata; essa crea, per così dire, delle pause di respiro, in
cui si possono raccogliere le forze per una nuova ascesa,
finché nei capp. 9 e ro giungiamo alla esposizione della dot-
La Lettera agli Ebrei: Introduzione

trina del servizio sacerdotale di Gesù nel santuario celeste,


prima d'essere ancora una volta invitati a tenerci saldi senza
esitazioni alla confessione della speranza.

Lo scopo dell'autore appare chiaramente dalla struttura


della Lettera. Essa comincia con una dimostrazione della
superiorità del Figlio sugli angeli ( cap. l ), cui segue imme-
diatamente l'esortazione a non trascurare il messaggio della
salvezza portato da lui ( 2, 1-8 ), senza lasciarsi ingannare dalla
sua umiliazione terrena, che era anzi il presupposto per il
compimento della sua missione sacerdotale ( 2 ,8-1 8 ). Dopo
avere affermato di sfuggita la superiorità di Gesù su Mosè
( 3, 1-6) segue, riallacciandosi al destino della generazione di
Israele nel deserto, una nuova, accentuata e minacciosa
messa in guardia dall'incredulità, che sarebbe fatale (3,7-
4,13 ). Ad essa poi è contrapposta la confessione di Gesù
come il sommo sacerdote al modo di Melchisedec (4,14-5,
ro ); ma prima di svilupparne il significato, viene inserito un
brano di ammonimento, che pone davanti agli occhi con
forza ancora maggiore la gravità della caduta insanabile, e
di incoraggiamento nella visione della fedeltà di Dio alle sue
promesse (5,n-6,20). Soltanto ora comincia la vera e pro-
pria parte dottrinale della Lettera, che parla della superiorità
della posizione sacerdotale (cap. 7 ), del luogo del culto (cap.
8) e dell'opera di Gesù (9,1-10,18), come 'mediatore della
Nuova Alleanza', in confronto al sacerdozio veterotestamen-
tario. Possiamo considerare tutto quello che precede (capp.
1-6) una introduzione a questa parte centrale dottrinale della
Lettera, che l'autore affronta soltanto dopo un triplice avvio.
Ad essa segue ancora un'energica esortazione a perseve-
rare ad essere saldi nella fede ed un ammonimento sulle ro-
vinose conseguenze della caduta ( lo, l 9- l 2, 2 9); ma in mez-
zo a questa sezione troviamo il grande capitolo esemplifica-
tivo dei testimoni della fede nella storia d'Israele ( cap. l l ).
Come un segno fiammeggiante di pericolo, alla fine di que-
La Lettera agli Ebrei: Introduzione 133
sta parte ci sono le minacciose parole dell'Antico Testamen-
to: «Anche il nostro Dio è un fuoco che consuma». Il finale
è costituito dal cap. 13, con esortazioni particolari e una con-
clusione personale. La Lettera si può dunque riassumere nel
seguente schema formale: r. capp. l-6 introduzione; 2. 7, l-
10, 18 esposizione; 3. ro,19-12,29 deduzione; 4. cap. 13 fi-
nale.

È chiaro allora che la Lettera è indirizzata ad un gruppo


di lettori che sono in estremo pericolo di rigettare la fede in
Gesù come rivelatore e apportatore di salvezza. I lettori so-
no stanchi, le loro gambe vacillano. La loro tentazione è da
un lato la forma umiliante e dolorosa dell'apparizione terre-
na di Gesù (cap. 2 ); poi, le sofferenze che essi stessi deb-
bono sopportare in quanto cristiani; ( lo,32 ss.; 12,3 ss.) e
in ultimo la delusione per la mancata realizzazione della sal-
vezza finale (ad es. lo,36 s.; 3,14; 6,12). Al contrario, sem-
bra che la religione dell'Antico Testamento eserciti una forte
attrattiva su questo gruppo di persone; speravano forse, pro-
fessandosi per essa, di sottrarsi alla prova del martirio? Da
più parti, invero, singoli passi (spec. 3,12; 6,r.2) sono in-
terpretati nel senso che i lettori fossero piuttosto sul punto
di rinunciare a qualsiasi fede in Dio o addirittura di cadere
nel paganesimo; ma il modo in cui l'autore adduce le sue
prove, lo esclude. Esso infatti presuppone la fede in Dio e
nella parola di rivelazione dell'Antica Alleanza. Non avreb-
be senso nei confronti di materialisti, o anche di pagani pro-
vare che la fede cristiana è giusta fondandosi sulla superio-
rità di Gesù sugli angeli della fede veterotestamentaria. Per
i lettori è certa l'autorità di Mosè e del culto veterotesta-
mentario; un atteggiamento del genere sarebbe comprensi-
bile piuttosto in giudeo-cristiani. Il commento mostrerà co-
me i passi, che sembrano richiedere un'altra interpretazione,
in realtà non la richiedono affatto.
Il tentativo di identificare più precisamente il gruppo cui
134 La Lettera agli Ebrei: Introduzione

è destinata la Lettera incontra delle difficoltà. Innanzi tutto


non si può contare sul titolo tradizionale 'agli Ebrei': esso
è un'aggiunta posteriore che esprime l'opinione - tratta dal-
la stessa Lettera - che essa fosse indirizzata a cristiani di
origine giudaica. I lettori parlavano il greco, perché la Let-
tera è stata scritta originariamente in greco, come risulta
dalle sue caratteristiche linguistiche e dal fatto che essa uti-
lizza l'Antico Testamento nella traduzione greca dei LXX.
La pericolosa condizione religiosa dei lettori e alcune, sia
pure imprecise, allusioni al loro passato ( 6,ro; ro,32 s.; 13,
7 ), in particolare a precedenti persecuzioni da essi subite,
obbligano a pensare ad un gruppo di persone localmente
delimitato, che si potrebbe trovare a Roma; e concorrono
a questa ipotesi anche i saluti degli italiani (I 3 ,24) ed il
fatto che a Roma si trovano le prime tracce della Lettera
(nella rClem. del 95/96 d.C.). Si dovrebbe allora pensare
ad un gruppo di giudeo-cristiani all'interno della comunità
romana, che sarebbe contrapposta ai destinatari della Let-
tera con la sottolineatura di 'tutti' in r 3 ,24. Si tratta comun-
que solo di una supposizione.
Anche se la lettera è dunque destinata ad un determinato
gruppo di persone che si trovano in una data situazione, con
una precisa intenzione, tuttavia il fatto che le situazioni con-
crete non sono ben delineate dà la sensazione di un forte
divario dalle Lettere di Paolo. Se si esclude la conclusione
personale, tutta la composizione ha molto meno la forma di
una lettera che non di un trattato teologico-pastorale o di
una predica, come è detto anche in 13,22 che chiama lo scrit-
to una 'esortazione': ci si serve della forma stilistica della pre-
dica sinagogale ellenistica. Tuttavia, a motivo della conclu-
sione di tipo epistolare, senza la corrispondente introduzio-
ne, essa ha - per la forma - qualcosa di disunito ed enigma-
tico. Lontano dai destinatari, l'autore - abituato alla predi-
cazione - potrebbe aver scritto sotto forma di una esorta-
zione ciò che voleva dire ai lettori, ma poi alla fine, per dare
La Lettera agli Ebrei: Introduzione 135
una nota personale allo scritto, per così dire come se fosse
presente, l'avrebbe concluso come fosse una lettera. In ogni
caso, di fronte ad ipotesi di critica letteraria, questa suppo-
sizione merita la preferenza.

Da ciò dipende anche il destino della Lettera nella chiesa.


Infatti Hebr. è entrata nel N.T. solo in quanto presunta lette-
ra di Paolo, e tale fu considerata, soprattutto perché l'ultima
parte del cap. 13, con riecheggiamenti d'ogni genere, e spe-
cialmente con l'osservazione relativa a Timoteo ( 13,2 3 ), ri-
chiamava alla memoria l'Apostolo. Però anche il modo in
cui, ad es. all'inizio del cap. I, viene descritta la divinità del
figlio, il fatto che tutto il pensiero cristologico gravita attorno
alla morte espiatrice di Gesù ed alla sua elevazione nella
gloria celeste, il modo con cui si parla del suo patrocinio ce-
leste presso Dio, la stessa affermazione che la legge non fa
che ricordare i peccati ( 10,2 s.), questo e altro ancora ri-
chiama alla memoria affermazioni analoghe di Paolo. Di fat-
to deve esservi un qualche rapporto tra Paolo e la Lettera
agli Ebrei; le idee di Hebr. difficilmente possono essersi
formate indipendentemente da quelle paoline. Resta il fatto
che la Lettera non può essere stata scritta da Paolo; nono-
stante i punti di contatto i concetti religiosi di Hebr., il
suo stile e il suo modo di esprimersi sono assolutamente
differenti. L'autore non si annovera fra i testimoni originari
di Cristo e parla di sé in un modo che Paolo non avrebbe
potuto fare (2,3); per indicare la persona di Cristo usa e-
spressioni del tutto differenti da quelle usate da Paolo; il
concetto centrale del pensiero cristologico di Hebr., il
sommo sacerdozio di Cristo, è estraneo a Paolo; mancano
certi concetti tipici delle Lettere paoline; la legge mosaica
è vista dai due sotto un diverso punto di vista; infine affer-
mazioni quali quella sulla caduta irrimediabile ( 6 ,4 ss. ), non
hanno alcuna corrispondenza in Paolo.
r 36 La Lettera agli Ebrei: Introduzione

Ma se dunque la Lettera non è di Paolo, essa per il con-


tenuto e la forma suppone come autore una persona di grande
forza ed indipendenza spirituale, una persona piena di profon-
do pathos cristiano, cui la familiarità con la formazione teo-
logica e formale del giudaismo ellenistico della diaspora 1
consentiva di esporre le sue convinzioni in un modo incisivo.
Inoltre dev'essere stato una persona che amava occuparsi della
legislazione cultuale veterotestamentaria. Ora, come appren-
diamo da una notizia di Tertulliano, nel II secolo certi cir-
coli dell'Asia Minore facevano il nome di Barnaba, che ben
conosciamo dagli Atti degli Apostoli, come autore di questo
scritto. Tutto quanto possiamo dedurre dalla Lettera sul suo
autore si adatta ottimamente a questa tradizione. Soltanto
che tra lo spirito informatore di Hebr. e quello della Lettera
di Barnaba, che ci è pervenuta fra i Padri Apostolici, cor-
re una tale distanza, che quest'ultima non può essere sta-
ta scritta dall'amico e collaboratore missionario di Paolo,
il che è escluso anche per altri motivi. L'attribuzione a Bar-
naba, però, rimane una semplice supposizione; altre ipotesi
non valgono la pena di essere ricordate (Lutero pensava ad
Apollo di Act. 18 ).

Il periodo di composizione della Lettera si colloca tra la


persecuzione neroniana ( 10,32 s.) e la comparsa della Prima
Lettera di Clemente (95/96), che l'ha utilizzata. Manca ogni
allusione alla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito
(70); ora dopo il 70 sarebbe stato ovvio servirsi dell'avve-
nuta distruzione come prova dell'insufficienza del culto ve-
terotestamentario. Ma dato che la lettera si attiene alla Scrit-
tura sarebbe fuori luogo dedurre che essa debba essere stata
scritta prima del 70 dal fatto che l'autore non si sia servito

r. Essa appare dal tipo della sua esegesi, da numerosi particolari della stessa e
dall'uso di concetti e formule di ogni genere, che ricordano altre formule analoghe
di Filone d'Alessandria; cfr. ra; 8,I s. 5; IO,I.
La Lettera agli Ebrei: Introduzione r37
di questo argomento senza contare che in 8,4 s. sembra im-
plicita la persistenza del culto giudaico. Piuttosto, dato che
sembra che la persecuzione neroniana sia già lontana, si do-
vrebbe poter datare la lettera intorno all'8o.

La particolare importanza della Lettera nel quadro del


Nuovo Testamento risiede nella sua presentazione di Gesù
come colui che supera l'istituzione cultuale dell'Antico
Testamento. Paolo aveva insegnato che Gesù aveva su-
perato l'ordinamento salvifico nomistico dell'Antico Testa-
mento. Il fine religioso a cui tende Paolo, fariseo, ma anche
cristiano, è quello della giustificazione. I pensieri del cristiano
Paolo si sviluppano intorno all'idea centrale che questa meta
non può essere raggiunta percorrendo la via legalistica del
farisaismo («fa questo, allora vivrai») ma soltanto gratuita-
mente lungo la via della fede nella grazia di Dio, manifesta
in Cristo crocifisso: la legge non è una via alla salvezza, ma
serve soltanto alla preparazione negativa di questa via della
grazia. Ma la religione giudaica al tempo di Gesù si muove-
va in due direzioni: da un lato essa era una pietà legalistica,
che voleva piacere a Dio con una stretta fedeltà alla legge,
che determinava tutta la forma della vita; ma d'altro lato
era una pietà cultuale, legata al Tempio, che si sforzava di
assicurarsi il perdono e la comunione con Dio con l'aiuto del
sacrificio istituito da Dio stesso ( nell'ordinamento veterote-
stamentario della legge). Perciò il punto di vista paolino ne-
cessita di un'integrazione, quella cioè che vede in Gesù colui
che supera l'Antico Testamento anche come istituzione cul-
tuale di salvezza; ed è proprio quello che fa la Lettera agli
Ebrei. L'espressione significativa del fine religioso cui tende
il suo autore, è insita nel concetto di compimento, di più
esatto compimento nei riguardi della coscienza ( 9 ,9 ). Con-
cretamente tale concetto corrisponde a quelli di purificazio-
ne della coscienza, santificazione, redenzione, riscatto, remis-
sione dei peccati (9,9-15; rn,1-4). Tutto questo doveva pro-
La Lettera agli Ebrei: Introduzione

priamente compiere il culto sacrificale dell'Antico T estamen-


to, specialmente il sacrificio del sommo sacerdote nel gran-
de giorno della espiazione, ma non ne aveva la possibilità.
Come avrebbe potuto cancellare i peccati lo stesso sangue
di buoi e arieti ( I0,4)? L'Antico Testamento inteso come
ordinamento sacrificale non raggiunge il suo scopo così co-
me se lo si intende con il fariseo Paolo come via nomistica
alla salvezza. Per raggiungere il fine era necessaria una vit-
tima migliore, il sommo sacerdote neotestamentario che of-
friva se stesso come vittima; perciò l'interesse teologico
centrale dell'autore è di provare la sua superiorità e il
suo valore definitivo. Anche secondo la Lettera agli E-
brei l'ordine veterotestamentario fa vedere all'uomo soltan-
to la miseria del suo peccato, in quanto l'immolazione della
vittima dev'essere sempre rinnovata ( ro,1-3 ); ma l'immagi-
ne di Cristo della Lettera agli Ebrei mostra il sommo sacer-
dote celeste che con l'offerta espiatoria del suo sangue ci
ottiene una volta per sempre il perdono, aprendo così la
porta del santuario, l'accesso a Dio. Perciò l'Antico Testa-
mento come ordinamento cultuale è antiquato, superato, a-
brogato. Anche sotto questo aspetto Cristo è la fine della
legge: una spiegazione inevitabile per la completa chiarifi-
cazione dei rapporti della fede cristiana con la religione israe-
litico-giudaica.
Tra le Lettere del Nuovo Testamento nessuna come quella
agli Ebrei suscita un'impressione così strana nell'uomo d'og-
gi. Le idee cultuali, delle quali è intessuta, non hanno più al-
cuna risonanza in noi. Anche nel modo di utilizzare l'Antico
Testamento e in generale di addurre le prove a dimostrazio-
ne del suo assunto, l'autore è interamente figlio del suo tem-
po. Tuttavia le questioni e le miserie, contro cui si batte,
non sono affatto del suo tempo soltanto, ma accompa-
gnano la comunità cristiana nel suo cammino attraverso
i secoli. E anche la solenne severità con cui questo mae-
stro sconosciuto del I secolo, di altissima spiritualità, pone
La Lettera agli Ebrei: Introduzione r 39
davanti agli occhi dei suoi lettori la grandezza del fatto di
Cristo, che «ha trovato un'eterna redenzione» e «purifica
le nostre coscienze dalle opere morte per il servizio del Dio
vivente», così che «possiamo accedere con il cuore pieno di
gioia al trono della grazia»; la solenne severità con cui pone
davanti agli occhi dei suoi lettori l'estrema responsabilità
della loro decisione di rinnovarsi, e scongiura: «Non gettate
via la vostra fiducia»; il pathos profondo con cui incoraggia
sé e la sua comunità rivolgendo lo sguardo al «capo della
fede, che la porta a compimento», per sostenere con decisio-
ne virile la battaglia di cui si vedono i segni premonitori;
tutto questo non ha perduto nulla della sua efficacia e non
lo perderà, finché ci sarà una chiesa cristiana. Per non par-
lare delle incisive formulazioni di alcune idee, che sono en-
trate nel sangue della comunità cristiana. E coloro che si
occupano più da vicino della Lettera agli Ebrei saranno sem-
pre attratti in un modo particolare dal rigore austero del suo
atteggiamento.

Indichiamo alcune tra le opere esegetiche più importanti sulla Let-


tera agli Ebrei: tra le più antiche l'opera di F. Bleek, 3 voli. (r828-
r840), tra le più recenti: l'eccellente commentario di E. Riggenbach
2-3 ed. r922, che è uno dei migliori commentari della serie curata
dallo Zahn; H. Windisch (nel manuale di Lietzmann), 2 ed., r93r;
A. Seeberg, r9r2; Strack-Billerbeck, voi. 3, r926, 671 ss.; O. Holtz-
mann, Das NT, voi. 2, r926, 777 ss. Nella serie dei Commentari del
Meyer recentemente è apparso quello di O. Michel, 9 ed., 1955. Per
servirsi dell'opera di M. Kahler, Der Hebraerbrief in genauer Wie-
dergabe seines Gedankengangs, r88o (un po' troppo prolisso) e di
Th. Haering, Der Brief an die Hebraer, r925, non è necessaria la
conoscenza della lingua greca. Negli «Schriften des NT», 3 ed., r9r7,
r57 ss., G. Hollmann aveva curato la Lettera agli Ebrei. Le lezioni
di Lutero sulla Lettera agli Ebrei del r 5 r 7 / r 8 sono apparse in tra-
duzione tedesca ad opera di E. Vogelsang. Uno studio di E. Kase-
mann, Das wandernde Gottesvolk, Gottingen, r938, cerca di dimo-
strare che le idee della Lettera agli Ebrei sarebbero determinate in
modo decisivo dalla mitologia delle dottrine gnostiche sulla reden-
zione, cui l'autore avrebbe fatto ricorso per rendere chiaro il mes-
140 La Lettera agli Ebrei: Introduzione

saggio di Cristo al mondo ellenistico. William Manson, The Epistle


to the Hebrews, London 195 l, vuole giungere ad una migliore com-
presione della Lettera «by bringing the Epistle into dose integra-
tion with historical and doctrinal developments occurring within the
sphere of the world-mission of Christianity as inaugurated by Ste-
phen and his successors» (integrando più strettamente la Lettera con
gli sviluppi storici e dottrinali avvenuti nell'ambito della missione
della cristianità nel mondo, cominciata da Stefano e dai suoi successori).
H. Kosmala, Hebriier-Essener-Christen, Leida 1959· Secondo il cap. r
le idee fondamentali dell'autore della Lettera agli Ebrei e dei suoi
destinatari sono esseniche. Nell'ambito della teologia cattolica citia-
mo il Commentario di O. Kuss, nella serie dei Commentari di Re-
gensburg, 1955; inoltre C. Spicq, L'épitre aux Hébreux, 1952/53.
Secondo lo Spicq la Lettera agli Ebrei è opera del seguace di Filone,
Apollo, convertitosi al cristianesimo, destinata ad un gruppo di sa-
cerdoti giudei che, scacciati da Gerusalemme, si erano trasferiti ad
Antiochia, ma che erano in pericolo di ricadere nel giudaismo. F.
Schierse, Verheissung und Heilsvollendung, Miinchen 1955· La Let-
tera agli E. sarebbe la prima predicazione liturgica intesa a dare ad
una pietà liturgica un contenuto di speranza escatologica e della più
severa responsabilità.

Indice di alcune questioni di particolare importanza


Cfr. sul concetto di alleanza comm. a 7,20; 9,15 - sul concetto di
garante (mediatore) comm. a 8,6 - sul Figlio e gli angeli comm. al
cap. l - sulla evoluzione morale di Gesù comm. a 5 ,7 s. - sulla caduta
irreparabile comm. a 6,4-6; ro,26-31; 12,16 s. - sulla valutazione del-
la legge comm. a 7,11 s. - sul concetto di fede comm. a lo,38 e II,1 -
sul nome di Gesù comm. a 2,9 - sul concetto di vittima comm. a
9,14; I0,4 - sulla Lettera agli Ebrei e Filone comm. a 1,3; 4,13;
9,1 s. - sull'uso della Scrittura comm. a l,5-14; 4,1-10; 7,r-10; lo,5-
10; lo,37 s. - sul concetto di compimento comm. a 5,1-ro; 7,11 s. -
sul dolore come punizione divina comm. a 12,1-1 r.
PARTE PRIMA

INTRODUZIONE
(capp. r-6)

La superiorità del Figlio sugli angeli ( r,r-14)


1 Dio ha parlato un tempo molte volte e in molti modi ai padri attra-

verso i profeti, 2 ma alla fine di questi giorni ci ha parlato per mezzo


del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose, per mezzo del quale
ha creato anche i mondi. 3 Questi, che è splendore della sua gloria
e immagine della sua sostanza, e che sostiene tutte le cose con la
parola della sua potenza, ha compiuto la purificazione dai peccati e
si è assiso alla destra della maestà nel più alto (dei cieli), 4 di tanto
divenuto superiore agli angeli, quanto il nome che ha ereditato è
incomparabile al loro. 5 Infatti a quale degli angeli ha mai detto:
«Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato»? E ancora: «Io gli sarò
padre ed egli mi sarà figlio»? 6 E di nuovo, quando introduce il pri-
mogenito nel mondo, dice: «E lo adorino tutti gli angeli di Dio». 7 E
mentre agli angeli si rivolge così: «Egli fa gli angeli suoi come venti
ed i suoi servitori una fiamma di fuoco»; 8 al Figlio invece dice: «Il
tuo trono, o Dio, sussiste nei secoli dei secoli e lo scettro dell'equità
è lo scettro del tuo regno. 9 Hai amato la giustizia e hai odiato l'ini-
quità; perciò Dio, il tuo Dio, ti ha unto con olio di esultanza a pre-
ferenza dei tuoi compagni». 10 E ancora: «Tu, o Signore, al principio
hai fondato la terra, e i cieli sono opera delle tue mani. 11 Essi peri-
ranno, ma tu rimani. E tutti invecchieranno come un vestito 12 e
come un mantello li avvolgerai», come un vestito, «e saranno cam-
biati. Ma tu rimani lo stesso e i tuoi anni durano senza fine». 13 E a
quale degli angeli ha mai detto: «Siedi alla mia destra finché non ab-
bia posto i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi»? 14 Non sono
forse tutti spiriti incaricati di un ministero, mandati per il servizio
di coloro che debbono ereditare la salvezza?
Senza alcun saluto o una qualche introduzione di genere
epistolare, e senza il minimo accenno ad un rapporto perso-
nale con i lettori, l'autore comincia subito con l'esporre con
La superiorità del Figlio sugli angeli

parole concise, pregne di contenuto, l'onnicomprensivo si-


gnificato di Gesù come il Figlio di Dio; e lo fa in una succes-
sione artistica di frasi, ben studiate fino nei particolari for-
mali, in cui si sente la presenza di uno slancio enfatico. Que-
sta introduzione, sotto l'aspetto formale, caratterizza subito
l'autore come un uomo istruito del suo tempo, cui è fami-
liare un linguaggio artisticamente accurato. Nella traduzione
la costruzione del periodo è forzatamente disarticolata, per-
ché proprio quello che è un vantaggio nel testo originario,
cioè la stretta connessione e l'intreccio delle singole frasi,
nelle lingue moderne risulterebbe troppo pesante.

1-3. Per quel che riguarda il contenuto, in poche parole ci


è dispiegato dinnanzi agli occhi un grande dramma della sto-
ria della rivelazione e della salvezza, al cui centro sta il Fi-
glio. Si incomincia con la contrapposizione della definitiva
rivelazione di Dio, fatta in lui, con la precedente rivelazione.
Certamente essa c'è stata, ma appartiene all'oscura preisto-
ria. Per secoli, dal tempo di Malachia, Dio non aveva più
parlato (cfr. 2 Petr. r ,2 r ). La nuova rivelazione era riservata
«alla fine di questi giorni»; infatti l'apparizione del Figlio
inizia la fine dei tempi, in cui vivono l'autore e coloro che
come lui credono, il tempo cioè del grande e definitivo cam-
biamento e del trapasso nel mondo del compimento (cfr. 9,26
e I Petr. r,20; ICor. ro,rr). E sono essi ora (quale privi-
legio!) a ricevere la rivelazione, mentre allora lo erano i pa-
dri, ossia i predecessori d'Israele (l'autore poteva parlare di
loro come dei padri, senza giustificare la deduzione che per
questo motivo i lettori fossero dei giudeo-cristiani. Infatti la
comunità cristiana sapeva di essere il vero Israele e l'erede
della storia israelitica della salvezza; perciò anche Paolo, per
esempio, poteva parlare ai cristiani di origine pagana di Corin-
to dell'antico Israele come «dei nostri padri» [I Cor. ro,r] );
e quella rivelazione in ultima analisi era avvenuta in molti
singoli avvenimenti e in forme diverse, visioni, sogni o espe-
Hebr. I,I-I4 14 3

rienze particolari, e per mezzo di una pluralità di strumenti,


i profeti, fra i quali si dovrebbero includere anche uomini
come Mosè e Abramo ( Gen. 20,7 ). Questa era già una ric-
chezza, ma anche un segno di insufficienza. Ma tutto questo
appartiene al passato, perché ora, nella parola di Gesù, Dio
parla per mezzo di una persona che ha la posizione di Figlio
e pertanto può portare una rivelazione totale (cfr. Io. l,18).
Ma ci si può rendere conto dell'importanza di questi fatti
soltanto se si ha chiaro nella mente chi è questo Figlio; per-
ciò ora si accenna al suo rapporto con l'universo e con Dio,
poi al suo atto redentore e infine alla sua elevazione nella
gloria, per quindi dedurne il suo rapporto con gli angeli.
Prima di tutto Dio lo ha costituito, proprio perché è il Fi-
glio, erede dell'universo; la frase si riallaccia a Ps. 2,8, ma
estende l'eredità, dalle genti e dai confini della terra di cui
parla il Salmo, a tutto l'universo. Ma questo rapporto si rea-
lizzerà soltanto in futuro, quando non ci sarà alcuna sfera
dell'essere che non gli sarà assoggettata (cfr. I Cor. l 5 ,24 s.;
Phil. 2, IO); egli allora riceverà ciò che già gli appartiene.
Giacché questo Figlio non è come gli altri figli, che sorgono
nel tempo, ma per mezzo di lui Dio ha già creato i mondi,
l'universo, nella sua incommensurabile pienezza temporale e
spaziale (cfr. Io. l,3; ICor. 8,6). Il Figlio è dunque e me-
diatore e fine della creazione (dr. Col. l,16). Evidentemente
la parola ':figlio' è un'espressione figurata, che vuole illustra-
re la relazione essenziale esistente tra Gesù e Dio e che al
v. 3 è descritta in altri modi: splendore della sua gloria e
immagine della sua sostanza (con questa seconda espressione
si intende un'effigie ottenuta con un conio; quanto alla pri-
ma, la parola 'splendore' dovrebbe significare che il Figlio si
comporta con Dio come il riflesso con la fonte di luce che
lo produce). Queste due espressioni non vogliono descrivere
soltanto l'armonia esistente tra le due persone, ma anche la
sua ragione, che è nella loro misteriosa relazione essenziale;
infatti il riflesso non esiste senza la fonte di luce e l'effigie
144 La superiorità del Figlio sugli angeli

senza l'immagine dell'essere divino. Non è altro che una


conseguenza di questa indissolubile relazione vitale che ora
sia attribuito al Figlio anche il sostegno del mondo; egli so-
stiene l'universo per mezzo della sua parola, possente come
il 'sia fatto' del principio (cfr. ù,3). Affermazioni del tutto
simili fa Sap. 7 ,24 ss. sulla divina Sapienza, e con immagini
del tutto simili parla del Logos Filone di Alessandria, con-
temporaneo di Gesù: quando egli parla del Logos e del suo
rapporto con Dio, oppure con il mondo visibile e con gli uo-
mini, ricorre molto spesso a parole come immagine, impronta,
profilo, sigillo, calco, stampo. Anche le sue affermazioni sulla
posizione del Logos nei confronti del mondo hanno un suo-
no assai simile a ciò che leggiamo qui nell'introduzione della
Lettera agli Ebrei; ma questa analogia è soltanto apparente.
Infatti, con questi concetti e queste immagini Filone vuole
descrivere il rapporto del creato con l'eterno, del mondo dei
fenomeni con quello delle idee, e particolarmente dello spirito
umano con quello divino. Il mondo delle idee è per lui (in to-
tale conformità con la filosofia platonica) il prototipo del
mondo dei fenomeni, che procede da Dio per la mediazione
del Logos. Ma anche se esistono dei fili che collegano l'au-
tore della Lettera alla filosofia alessandrina, egli però non
descrive dei rapporti concettuali inventati dalla filosofia per
determinare le relazioni tra il mondo dell'esperienza e le sue
cause, che sono al di là di ogni esperienza; egli non parla di
un'idea, di un concetto filosofico, ma di una precisa figura
storica. Le espressioni 'filoniane' per lui non hanno un valo-
re cosmologico-speculativo, ma un significato teologico e sal-
vifico. Per lui il Figlio non è il mondo delle idee uscito da
Dio, che a sua volta è il prototipo del mondo dei fenomeni;
egli piuttosto lo sostiene con la sua parola creatrice. Egli de-
scrive, con formule che ha preso dalla filosofia alessandrina
della religione, l'appartenenza a Dio e l'opera divina del Fi-
glio (cioè di Gesù) come il misterioso centro del mondo, per
mezzo del quale Dio ci ha parlato alla fine dei giorni e che,
Hebr. I,I-I4 145
come è detto subito dopo, ha compiuto in un evento asso-
lutamente storico l'opera della redenzione: ha compiuto la
purificazione dai peccati. Come, non ci è ancora detto. Ma
l'espressione, tolta dal linguaggio del culto, è già indicativa
delle idee nelle quali si muove l'autore (cfr. 9,22 s.; ro,2).
Egli non parla dell'incarnazione, e non dice null'altro in-
torno alla vita di Gesù; solo questo: che egli (naturalmente
con la sua morte) ha compiuto la purificazione dai peccati.
Quantunque prima nel v. 2 si fosse detto che Dio ha parlato
attraverso al Figlio, qui però tutto il significato della sua vita
si esaurisce nel fatto della sua morte; infatti essa è descritta
come un fatto finalizzato. Questo modo di vedere corrispon-
de interamente a quello di Paolo. Non si parla della risur-
rezione, ma si passa subito all'elevazione nella gloria; in
ciò non c'è niente che debba stupire: Paolo procede nel-
lo stesso modo in Phil. 2,8 s. La risurrezione è implicita,
come un naturale presupposto, dato che si parla della ele-
vazione nella gloria, echeggiando Ps. no,r. È questo il
Salmo sul sacerdozio regale, al quale il cristianesimo primi-
tivo attribuiva un alto valore, proprio per la sua applica-
zione all'elevazione di Gesù nella gloria (cfr. Mt. 22,44; Mc.
16,19; Act. 2,34s.; 7,56; ICor. 15,26; Col. 3,1; Eph. l,
20; I Petr. 3,22; Apoc. 3,2r. In Hebr. questo Salmo ha ad-
dirittura un ruolo decisivo. Il Figlio siede accanto al Padre;
ciò esprime la sua partecipazione alla maestà ed alla regalità
di Dio. Il v. 4, poi, ne trae la conseguenza per il rapporto
di Gesù con gli angeli, svelando così il fine ultimo dei ver-
setti introduttivi: proprio seguendo la via della sua morte
e della sua elevazione nella gloria egli ha ottenuto una po-
sizione tanto migliore, più elevata di quella degli angeli ( an-
che qui non si può non pensare a Phil. 2,9 s.), come appare
anche dal nome di figlio di cui è insignito.

5-14. Della giustezza di questa conclusione il resto del capi-


tolo dà un'estesa dimostrazione fondata sulla Scrittura. Le
146 La superiorità del Figlio sugli angeli

citazioni sono tratte dalla Bibbia greca (LXX), e non da quel-


la ebraica. Questo è chiaro soprattutto nei vv. 6.7. La cita-
zione del v. 6 proviene da un'aggiunta dei LXX a Deut. 32,
43. La citazione del v. 7 si trova già nel testo ebraico, dove
però delle forze della natura, venti e fiamme si dice che Dio
fa ricorso ad esse per le sue necessità; esse sono, per così
dire, elevate al livello degli angeli. Il nostro testo, invece,
dice che Dio fa operare gli angeli come forze della natura;
si potrebbe quasi dire che essi vengono degradati a forze
della natura. Questo rovesciamento di prospettiva viene dai
LXX. Nei due versetti, dunque, è proprio la divergenza dal
testo ebraico che interessa l'autore ai fini della sua dimostra-
zione. Casi analoghi ricorrono spesso nella nostra Lettera
(cfr. specialmente ro,5-ro). Ciò prova non soltanto che l'au-
tore è abituato a leggere la Bibbia esclusivamente in greco,
ma anche che considera questo testo divinamente ispirato,
anche con le sue varianti scorrette. Per lui l'Antico Testa-
mento è una raccolta di enunciazioni di Dio; anche quan-
do si parla di Dio in terza persona, come ad esempio nei
vv. 6 e 9, è Dio che ha la parola. Pertanto la persona che
le ha trascritte, per esempio il poeta dei Salmi, ha un'impor-
tanza molto relativa: una sola volta la Hebr. cita un autore,
ma non come soggetto, soltanto come portavoce delle parole
di Dio (4,7 ). Anche un'altra volta un autore umano appare
come soggetto della citazione, ma proprio questo passo pro-
va come la sua identità sia indifferente all'autore della Let-
tera. Infatti ivi è detto: «Qualcuno ha attestato in qualche
punto» (1,6); non si potrebbe dire in modo più chiaro
quanto poco importante ne sia l'autore. Perché non è lui che
parla, ma Dio o lo Spirito (cfr. 3,7 ). Anche per questo mo-
tivo le citazioni sono introdotte impersonalmente con 'è det-
to' o 'dice' (mentre manca del tutto lo 'è scritto' molto fre-
quente in Paolo). L'autore ha ripreso questa concezione della
Scrittura dal giudaismo, particolarmente dal giudaismo elle-
nistico, nel quale era molto sviluppata l'idea dell'ispirazione,
Hebr. I,r-14 147

sulla falsariga di motivi già presenti in Platone. Questo giu-


dizio sulla raccolta degli scritti veterotestamentari natural-
mente non poteva non influenzare fortemente, nei singoli
casi, il modo di utilizzarla, perché ci si sentiva autorizzati a
servirsi di singole enunciazioni di Dio, indipendentemente
dal loro contesto storico. Si sviluppava così la cosiddetta
interpretazione allegorica della Scrittura, che trae le sue re-
gole non dal contesto ma da altre affermate convinzioni, a
conferma delle quali si ricorre liberamente alla Scrittura. Per
strano che sia tale procedimento per una mente formata sto-
ricamente, essa però corrispondeva alle idee e ai metodi ese-
getici di allora. Perciò anche il nostro autore non si com-
porta diversamente.
Abbiamo nel presente brano sette citazioni, di cui quella
centrale si riferisce agli angeli e le rimanenti al Figlio; di
queste ultime, le prime due riguardano la relazione tra il
Padre e il Figlio, mentre la terza riconosce al Figlio il diritto
all'adorazione degli angeli. Anche questa citazione va intesa
come riferita al Figlio, perché soltanto la successiva (v. 7) è
esplicitamente riferita agli angeli. Di quelle che seguono, le
prime due riguardano l'incrollabile posizione sovrana assi-
curata da Dio al Figlio, mentre la terza è rivolta alla sua
realizzazione finale, e corrisponde alla terza citazione: gli an-
geli di Dio gli testimoniano la loro venerazione, i nemici gli
vengono sottomessi con la forza. Nel versetto finale del ca-
pitolo ritorna l'idea, contenuta nella quarta citazione, della
posizione subordinata degli angeli. Anche questo capitolo,
dunque, è bene articolato.

La prima conferma del v. 4 è offerta da Ps. 2, 7. Nel-


1'inno canta il re d'Israele. Egli si sente sotto la sicura pro-
tezione di Jahvé contro i nemici, soggiogati ma sempre mi-
nacciosi; questa protezione gli permette di soffocare ogni re-
sistenza con la minaccia della definitiva rovina. Nel passo
citato qui il re si richiama ad un detto, con cui Dio lo ri-
148 La superiorità del Figlio sugli angeli

conosce come suo figlio. Il salmo fu riferito già dalla teolo-


gia giudaica precristiana al re salvifico della fine dei tempi
(cfr. Ps. Sal. 17,21 ss., I secolo a.C.); il cristianesimo primi-
tivo lo riferì a Gesù cfr. Le. 3,22 D; Aet. 4,25 ss.; 13,33;
Apoe. 12,5 ). Secondo il contesto, l'accento (a motivo del no-
me di figlio) è posto sulle prime parole della citazione; la
seconda parte è riportata perché faceva parte della consueta
citazione, ma non ha importanza nel presente contesto. Per- ~
ciò è del tutto errato domandarsi a quale momento si riferi-
sce l'avverbio 'oggi'; prescindendo da una simile domanda,
è difficile - nonostante Aet. 13,33 - che si possa pensare alla
risurrezione o all'esaltazione nella gloria, perché, secondo
l ,2 s., Gesù non ebbe la posizione di Figlio soltanto in se-
guito a tale esaltazione. Anche in 5 ,5 la stessa citazione si
riferisce ad un momento anteriore all'assunzione del suo mi-
nistero sacerdotale. Perciò la cosa più ovvia è che con la ci-
tazione si voglia ricordare il battesimo di Gesù, tanto più
che secondo una diffusa, e probabilmente originaria, lezione
di Le. 3,22 la voce dal cielo, udita in quella occasione, aveva
la forma di Ps. 2,7. La seconda citazione si riferisce origina-
riamente alla posizione della dinastia davidica, ma fu inter-
pretata messianicamente non soltanto dalla comunità cri-
stiana delle origini, ma già dal giudaismo; ciò avvenne senza
tener conto del contesto, nel quale si prevedono futuri pec-
cati di questo 'figlio', cioè dei re davidici, mentre Hebr. sot-
tolinea energicamente l'assenza di peccato nel sommo sacer-
dote veterotestamentario (cfr. 4, l 5 ). Tuttavia non si sen-
tì il bisogno di giustificare questa attribuzione messianica,
come non lo si era sentito nel caso di Ps. 2,7 e non lo si sen-
tirà in nessun altro caso del genere. La certezza che i passi
si adattano a Gesù è sufficiente. A nessuno degli angeli, dice
la domanda retorica del v. 5, è stato concesso questo attri-
buto. È vero che qualche volta nell'Antico Testamento gli
angeli sono chiamati figli di Dio (cfr. Gen. 6,2.4; Deut. 32,
43 LXX; Ps. 29,1; 89,7; lob l,6; 2,1; 38,7), ma i LXX, sui
Hebr. I,I-I4 149

quali si basa Hebr., per lo più hanno cancellato questa espres-


sione, oppure, dove l'hanno lasciata, forse non l'hanno attri-
buita agli angeli; inoltre è sempre estesa a tutti gli angeli,
e mai si attribuisce a un solo angelo un rapporto esclusi-
vo con Dio, quale quello espresso nelle parole citate. Un
rapporto che per volontà divina ('egli dice') rispetto agli an-
geli si esplica nel diritto a un'adorazione smisurata pari a
quella che solitamente spetta a Dio. Questo dice la terza
citazione, nella quale naturalmente viene trasferito al Fi-
glio ciò che nell'Antico Testamento è detto di Dio. La
prima metà del v. 6 può essere intesa nel senso che il 'di
nuovo' (in analogia col v. 5) indichi che si sta per fare una
nuova citazione, oppure che si voglia parlare di una seconda
entrata del primogenito nel mondo, naturalmente senza che
in precedenza si sia parlato di una prima. Ciò, però, po-
teva essere senza importanza se ogni lettore avesse sapu-
to di una seconda venuta del Figlio; ma in ogni caso in
questo passo per «introduzione del primogenito nel mon-
do» si intende il ritorno di Cristo alla fine dei tempi e non
la nascita di Gesù; per la forma grammaticale del verbo gre-
co l' 'introduzione' deve essere riferita al futuro. In quel fu-
turo, dunque, tutti gli angeli devono adorare il primogenito
(questo attributo è riferito a Cristo non in contrapposizione
agli angeli ma ai tanti 'figli', che egli deve portare alla sal-
vezza, cfr. 2,10): un'attesa che è credenza comune del cri-
stianesimo primitivo (cfr. Phil. 2,ro s.; Apoc. 5,13; Io. 5,
23; inoltre Mt. 16,27; 24,30; 25,31; 2 Thess. 1,7; Apoc.
19,14, dove gli angeli sono detti l'esercito celeste del Si-
gnore, che lo accompagna nel suo ritorno). Quanto è mo-
desto rispetto a lui il posto occupato dagli angeli! Essi non
stanno (per disposizione di Dio) al disopra della creazione,
ma in essa, mutabili come le forze che vi dominano. I due
passi biblici che seguono vi contrappongono l'immutabili-
tà della posizione sovrana del Figlio. Il primo è tratto an-
cora da un Salmo regale; infatti Ps. 45 è un canto nuzia-
150 La superiorità del Figlia sugli angeli

le in onore di un re israelitico, la cui sovranità è esaltata


con elevate parole. Certamente ad esso non si adatta l'in-
vocazione 'o Dio' al principio del v. 8 e nella seconda ri-
ga del v. 9; ma in tutti e due i passi essa risale ad un'errata
tradizione testuale, questa volta del testo primitivo, che di-
pende dalla tendenza dei giudei in familiarità con la Scrittura
(tendenza riscontrabile soprattutto in questa parte del Sal-
terio) a sostituire il nome di Dio, Jahvé, con altri nomi come
Dio o Signore. Ma proprio questa errata tradizione testuale,
passata anche nei LXX, rendeva questo passo molto prezioso
per il nostro autore; giacché colui che parla nel salmo è, sì,
il poeta o il cantore, ma per il nostro autore è Dio. E questi
ora si rivolge a un altro chiamandolo Dio. Chi altri potrebbe
essere se non il Figlio? La Hebr. non si perita di chiamarlo
(indirettamente attraverso un detto di Dio nell'Antico Te-
stamento) addirittura Dio, sia pure solo questa volta (cfr.
comm. a Rom. 9,5 e Io. 1,1). Lo stesso Dio, dunque, gli pro-
mette la durata eterna del suo trono e dichiara che egli stes-
so lo ha unto solennemente, proprio come si unge un re, per
insignirlo di questa dignità al cospetto dei suoi compagni,
gli angeli. Il Figlio è l'eterno re del mondo. In questo atto
solenne si deve vedere l'elevazione nella gloria, perché è
motivato con la prova morale sostenuta da Gesù ('perciò'
v. 9). È questa per l'autore di Hebr. un'idea importante (cfr.
5,7 s.), che qui è espressa con le parole che il suo scettro è
uno scettro di rettitudine, che egli ha amato la giustizia e
odiato l'iniquità. Dunque l'autore ha lo sguardo rivolto alla
vita di Gesù; però in questo contesto il passo del salmo lo
interessa soprattutto per l'affermazione che fa dell'eterno,
divino posto di Signore occupato dal Figlio. Se il finale del
passo metteva in rilievo questa dignità in confronto agli
angeli, la citazione seguente di Ps. 102 la contrappone alla
corruttibilità del mondo. È la stessa eternità e potenza di
Dio che è messa in luce in relazione alla sua creazione, che
è opera delle sue mani. Nell'autore c'è un sentimento di am-
Hebr. r,r-r4 r5r

mirazione per la sua grandiosità. Eppure essa è corruttibile:


non soltanto passa, ma Dio la rimuove; come un mantel-
lo liso, egli arrotola il firmamento con il suo ornamento
splendido di sistemi solari e il gioiello della via lattea e dello
zodiaco. Un quadro grandioso! Naturalmente anche questa
volta la Lettera applica queste frasi al Figlio, probabilmente
prendendo lo spunto dall'appellativo 'Signore' del v. ro. Es-
se diventano così una predizione del grande mutamento del
mondo, che egli apporterà restando fermo nella sua immu-
tabilità. Ma queste frasi non fanno che reiterare in forma
poetica ciò che era già stato detto al v. 2. Che ora, ancora
una volta (cfr. v. 3) e questa volta formalmente, ci si richiami
a Ps. l 10 non può stupire. Il Cristo siederà alla destra di
Dio fino alla sottomissione dei suoi nemici (cf r. I Cor. l 5,
2 5 ). È l'altra faccia della visione escatologica del v. 6. Come
era avvenuto là, Dio poteva bene parlare a questo Figlio, ma
soltanto a lui. Egli siede sul trono in una calma sovrana; gli
angeli invece, sono attivi nel mondo al servizio degli eredi
della salvezza futura. E in che modo lo siano ce lo dicono
in numerosi esempi l'Antico e il Nuovo Testamento (cfr. nel
Nuovo Testamento Mt. l,20; 4,II; 18,10; Act. 10,3.7.22;
12,7; 23,9; 27,23). Questa fede negli angeli era molto svi-
luppata nel giudaismo. L'autore volutamente esprime le sue
riflessioni in modo da far apparire gli angeli subordinati non
solo al Figlio, ma perfino ai credenti della· comunità cristia-
na; e lo fa perché queste riflessioni non gli sono state dettate
da un'inclinazione ad oziose teorizzazioni (come dimostra
l'ammonimento immediatamente successivo) ma perché per-
segue un preciso fine pratico-religioso. Egli vuole mitigando-
ne le punte affrontare determinate idee, che a quanto pare i
lettori hanno in mente, ma che non tendevano a speculazioni
sugli angeli o a un culto degli angeli, di cui parla la Lettera
ai Colossesi. Al contrario, per i lettori di Hebr. aveva una
grande importanza la collaborazione degli angeli nell'istitu-
zione dell'Antica Alleanza, che era una prova della gran-
152 Non lasciatevi sfuggire la nuova salvezza

dezza di quest'ultima; né la Hebr. Io contesta. Ma che im-


portanza può avere essa ai fini dell'atteggiamento verso il Fi-
glio e la rivelazione portata da lui, se il rapporto tra il Figlio
e gli angeli è quale è qui descritto? Piuttosto se ne può
trarre una deduzione del tutto differente: il che è fatto in
2,r-4.

Conseguenza: non lasciatevi sfuggire la nuova salvezza ( 2,1-Sh)


1 È necessario, pertanto, che ci applichiamo con maggiore attenzio-

ne agli insegnamenti che abbiamo ascoltato, per non andare alla


deriva. 2 Infatti, se le parole dette per mezzo degli angeli sono
diventate incrollabili, e se ogni trasgressione e disobbedienza ha rice-
vuto la giusta punizione, 3 come potremo sfuggirvi, se trascureremo
una tale salvezza? La quale, predicata anzitutto dal Signore (stesso),
ci fu poi confermata da coloro che l'avevano udita, 4 dandone testi-
monianza Dio (stesso) con segni e prodigi e ogni sorta di miracoli e
con doni dello Spirito Santo distribuiti secondo la sua volontà. 5 In-
fatti non ad angeli ha sottomesso il mondo futuro, di cui parlia-
mo. 6 Anzi qualcuno in un punto (della Scrittura) ha testimoniato
ciò: «Che cos'è l'uomo perché tu ti ricordi di lui, o il figlio del-
l'uomo perché tu ne abbia cura? 7 Per un momento l'hai abbassato
al disotto degli angeli, (ma poi) l'hai coronato di gloria e di onore,
sa.b tutti hai posto sotto i suoi piedi». Infatti, poiché gli «ha sotto-
messo tutto», non ha lasciato nulla che non gli sia soggetto.

r-8b. L'esortazion.e, con la quale comincia questo brano (v.


r ), si fonda sulla contrapposizione tra la rivelazione dell' An-
tico e quella del Nuovo Testamento (vv. 2-4), e questa con-
trapposizione a sua volta è fondata sulla posizione di Cristo
nel mondo. Soltanto qui è chiaro perché la Lettera agli E-
brei dia tanto valore alla superiorità del Figlio sugli angeli.
Nel v. 2 leggiamo di parole dette per mezzo degli angeli: so-
no parole di Dio, come in r , r s.; gli angeli non sono altro
che suoi strumenti. Al v. 3 a quelle parole è contrapposto
il messaggio della salvezza annunciato per mezzo del Signore.
Secondo la classificazione di r, r s., le parole degli angeli
fanno parte della rivelazione profetica; però questa non è
Hebr. 2,r-8b 153
intesa qui in tutta la sua ampiezza, ma è limitata alla legge
mosaica, come si deduce dall'osservazione sulla punizione
della sua trasgressione. Secondo il pensiero giudaico tutto
passava in secondo piano dinnanzi alla legge; l'avvenimento
della promulgazione della legge sul Sinai occupava viva-
mente l'immaginazione giudaica: l'Antico Testamento raccon-
ta di spaventosi fenomeni naturali che accompagnarono lari-
velazione sul Sinai ( cfr. Ex. r 9,r 9 s.; 20,r 8 ). Forse la teologia
giudaica ne trasse lo spunto per parlare di una cooperazione
degli angeli nel corso di quegli avvenimenti ( cfr. r ,7 ). Il
testo ebraico dell'Antico Testamento non ne parla ancora
ma, secondo il testo dei LXX di Deut. 33,2, v'erano in quel-
la occasione miriadi di angeli che scortavano Jahvé, e per il
giudaismo del tempo di Gesù questa era un'idea corrente:
Flavio Giuseppe la conosce (ant. 15,5,3) e la si ritrova nel
discorso di Stefano (Act. 7,38.53) e anche in Paolo (Gal.
3, r 9 ). Per la sensibilità giudaica, il ricorso al mondo degli
angeli con il suo splendore serviva a mettere nella giusta luce
l'importanza della legge (cfr. il racconto della natività, Le.
2 ). Una legge promulgata in una forma così solenne non po-
teva che essere 'ferma'; le sue disposizioni, in particolare le
pene minacciate in caso di disobbedienza, erano incondizio-
nate. Lo ha dimostrato l'esperienza di Israele, subito e poi
nel corso dei secoli. La forma del periodo del v. 2 mostra che
non c'è diversità di opinione al riguardo tra l'autore e i
suoi lettori. Ma, invece di dedurne (come forse i suoi let-
tori potrebbero essere inclini a pensare) che si debba pren-
dere la legge mosaica a norma della propria condotta reli-
giosa, l'autore consegue dalla dimostrata superiorità di Cri-
sto sugli angeli la nostra responsabilità, ancora maggiore e
più gravida di pericoli, nei confronti del suo messaggio, e
il nostro dovere di prestare la massima attenzione a ciò che
abbiamo udito, per evitare di passare oltre al porto della
salvezza, abbandonati alla corrente degli umani peccati, e
di avviarci alla caduta nella rovina. In questo passo si espri-
I 54 Non lasciatevi sfuggire la nuova salvezza

me la profonda severità dell'autentico pastore, che sa di es-


sere stato chiamato ad aver cura delle anime che gli sono
state affidate (cfr. 13,17); tale severità è confermata pure
dal fatto che egli sceglie una forma di ammonimento, che è
rivolto anche a se stesso e non soltanto ai suoi lettori. Egli
sa di dover lottare insieme ad essi, di non aver conseguito
il possesso dello Spirito una volta per sempre, ma di do-
verlo conservare con una decisione sempre rinnovata, e con
questa allusione alle sue personali responsabilità egli mira
ad attenuare la resistenza che il lettore potrebbe opporre alla
sua esortazione. Infine egli afferma che il lettore non deve
lottare da solo ma in comunione con quanti seguono la sua
stessa via. Quello che si è udito, sul quale è richiamata l'at-
tenzione dei lettori, non può essere che la parola che, se-
condo l,2, Dio ha pronunciato per mezzo del Figlio, quale
è predicata nella comunità cristiana. Il suo contenuto è la
salvezza: una salvezza di possente grandezza, perché non si
tratta di un possesso terreno come era la 'terra promessa'
agli Israeliti, ma del mondo che ha da venire (come è detto
al v. 5, cfr. 13,14), cioè dell'eterna salvezza. Quanto mag-
giore è l'offerta tanto maggiore è la responsabilità; un'indif-
ferente trascuratezza conduce diritto alla rovina. Perché an-
che il nostro Dio è un fuoco che consuma (12,29). Ma la
misura della responsabilità non deriva soltanto dalla gran-
dezza del bene della salvezza, ma anche dal modo in cui essa
ci è stata resa intelliggibile; in un modo, cioè, che dovrebbe
escludere qualsiasi dubbio e qualsiasi riserva. Secondo Deut.
19,15 (cfr. Mt. 18,16) una cosa è certa se è attestata da due
o tre testimoni. Ora, la salvezza è stata prima annunciata dal
Signore (un appellativo che è applicato a Gesù nella sua ap-
parizione terrena, come in l,10 era stata applicata a lui nella
sua posizione divina: il Gesù storico è l'eterno Signore). Non
dagli angeli, ma da lui stesso è stato proclamato il messag-
gio della salvezza, che poi è stato predicato da coloro che
l'hanno udito. L'autore non discute neppure l'idea, che per
Hebr. 2,r-8b 155
lui è inammissibile, che si possa fare differenza, e tanto
meno contrapposizione, tra il contenuto del messaggio di
Gesù e quello della predicazione dei suoi discepoli, nel senso
magari che egli abbia inteso predicare un moralismo escato-
logico con una salvezza distaccata dalla sua persona. Il mes-
saggio della salvezza è stato 'confermato' da coloro che l'han-
no udito, cioè è stato predicato in un modo tale, da dover
prestare loro fede. E ciò vale anche per l'autore; dunque egli
non fa parte dei testimoni auricolari della predicazione di
Gesù. Ma ciò non significa di per sé che egli appartenga ad
una generazione successiva: anche un contemporaneo, viven-
te fuori della Palestina (come ad esempio il levita cipriota
Barnaba), solo per questa via poteva avere appreso quello
che sapeva di Gesù. Ad ogni modo questa frase rende im-
possibile l'attribuzione della Lettera a Paolo; non tanto per-
ché qui potrebbe parlare un uomo della seconda generazio-
ne, quanto piuttosto perché Paolo ha affermato con la mas-
sima energia la sua autonomia dai primi apostoli: Gal. l,16 s.
e il presente passo si escludono a vicenda. Ma c'è stato an-
cora un terzo testimone, Dio stesso, con i suoi atti: qui si
parla di segni, perché indicano il quadro divino dell'avveni-
mento, di prodigi, per l'impressione fatta sugli uomini, di
dimostrazioni di potenza, perché sono possibili soltanto con
speciali elargizioni di potenza. Inoltre si parla dei doni dello
Spirito, che Dio distribuisce a suo giudizio, come rileva an-
che Paolo in I Cor. l 2. Questa valutazione del miracolo è co-
mune al cristianesimo delle origini; si trova specialmente in
Paolo, ma anche in Io. e altrove (cfr. ad es. Rom. 15,19; 2
Cor. 6,7; 12,12; Gal. 3,2; I Cor. 2,4 s.; 4,20; Io. 5,32.36;
8,18; lo,25.38; Act. 2,22; 5,12; 15,12 ecc.), ed è inconce-
pibile che si sia potuto parlare a questo modo, se non si è
potuto disporre di numerose esperienze del genere. Ci si può
rifiutare di prestar fede a questi testimoni? Chi lo fa, è
perché lo vuole; ma allora deve avere ben chiare le con-
seguenze che ciò comporta per lui: è assolutamente fuori del-
Non lasciatevi sfuggire la nuova salvezza

la salvezza, non può essere partecipe del mondo a venire,


perché il giudizio non tocca agli angeli, ma proprio al Figlio,
come è spiegato ai vv. 5-8. Si facilita la comprensione di
quello che segue se, contro la consueta ripartizione di questi
versi, essi vengono uniti, ad eccezione della terza parte del
v. 8, ai precedenti. Essi costituiscono il motivo conclusivo
dell'esortazione nel v. 3. L'autore ha parlato della salvezza;
adesso esprime lo stesso concetto parlando del mondo che
ha da venire, cioè del nuovo cosmo atteso dalla comunità,
perché la salvezza consiste precisamente nella partecipazione
ad esso. Chi vuole ottenerlo non può rivolgersi agli angeli,
perché essi comandano il mondo presente. Dio infatti ha
fissato i confini dei popoli secondo il numero dei suoi angeli,
dice il testo greco di Deut. 32,8. «Ad ogni popolo ha desti-
nato un principe angelico» (Ecclus 17,17). Così ad esempio
Dan. ro parla di angeli protettori del regno di Persia e della
Grecia. Questa idea degli angeli protettori si è affermata nel
giudaismo sotto l'influenza di idee religiose orientali, ma essi
non hanno alcuna autorità sul mondo che ha da venire, il cui
comando spetta al Figlio, che è l'erede di tutto ( l ,2 ); perciò
è così importante seguire il suo appello. Ma invece di dire
direttamente 'ma al Figlio', l'autore si serve di una citazione
di Ps. 8. Questo salmo, nel suo significato originario, non
parla del 'Figlio' ma dell'uomo, che è nulla di fronte alla
maestà del cielo stellato, quest'altra creatura di Dio; e come
è grande la bontà di Dio che ciò nonostante rivolge all'uomo
una cura particolare, anzi gli ha dato su questa terra una po-
sizione dominante quasi simile a quella divina: egli è 'il pic-
colo dio del mondo'. Ma parve al nostro autore che questo
salmo si adattasse in modo eccellente a Gesù, il Figlio di Dio
(cfr. I Cor. 15,27; Eph. l,22); la sua applicazione a Gesù
gli fu certamente suggerita dal fatto che nel v. 6 si parlava
del 'figlio dell'uomo'. Abbiamo qui una traccia della defi-
nizione messianica di Gesù, corrente nei Vangeli sinottici,
tratta da Dan. 7; definizione che presto cessò di essere usata
Hebr. 2,8c-I8 157
nella cristianità primitiva perché, già poco comprensibile al
mondo giudaico, era del tutto incomprensibile a quello gre-
co. (Si trova ancora alcune volte nel quarto vangelo, e in Act.
7,56; Apoc. r,13; J4,14). La citazione era molto utile all'au-
tore per la sua riflessione, perché egli non la riferiva, o non
la riferiva soltanto, alla creazione del mondo, ma (prendendo
nel suo significato più rigoroso il 'tutto' nell'ultima riga della
citazione) anche e soprattutto al mondo che verrà. Infatti,
quando (v. 8) è detto che nulla è escluso dall'assoggettamen-
to al Figlio, secondo il contesto ciò può significare soltanto
che non ne è escluso neppure il mondo che verrà. Egli è il
suo Signore, perciò attenetevi alle sue parole (vv. r e 3)! Ma
la citazione era importante per l'autore anche per un altro
motivo, e lo era proprio nella sua forma in greco. Questa
diverge dal testo ebraico, che parlava di un piccolo abbassa-
mento in confronto a Dio, mentre il testo greco parla di
una diminuzione in confronto agli angeli. Inoltre l'auto-
re intende il 'piccolo' in senso temporale. Ciò gli dà la
possibilità di discutere un'obiezione, che sente verrà avanzata
a quanto ha detto finora sulla posizione sovrana del Figlio
nei cieli: e cioè l'accenno all'umiliazione nella passione del
Gesù storico. Inoltre, la citazione indicava subito anche il
senso di questa umiliazione: proprio essa era il presupposto
della sua incoronazione con gloria e onore. Dunque la cita-
zione costituisce la transizione dalle affermazioni fatte finora
sul dominio del Figlio a quelle che seguono sull'umiliazione
di Gesù, avviandosi così al tema centrale della Lettera.

L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio


( 2,8c-18)

se Ma ora non vediamo ancora che «tutto è assoggetato» a lui. 9 Ve-

diamo tuttavia colui che «per un momento è stato abbassato al


disotto degli angeli», Gesù, per il patimento della morte «coronato di
gloria e di onore», affinché, per grazia di Dio, gustasse la morte
a vantaggio di tutti. 10 Conveniva, infatti, che colui per il qua-
L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio

le e per mezzo del quale sono tutte le cose, volendo condurre


alla gloria molti figli, rendesse perfetto, attraverso alle sofferen-
ze, chi doveva guidarli alla salvezza. 11 Perché tanto colui che san-
tifica quanto coloro che sono santificati provengono tutti da una
stessa origine. Perciò non si vergogna di chiamarli fratelli, 12 quando
dice: «annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo al-
l'assemblea». 13 E ancora: «porrò la mia fiducia in lui». E ancora:
«ecco, io e i figli che Dio mi ha dato». 14 Ora poiché i figli ave-
vano in comune la carne e il sangue, anch'egli alla stessa maniera
ne partecipò, per annientare con la morte colui che aveva il dominio
della morte, cioè il diavolo, 15 e riscattare coloro che per tutta la vita
erano tenuti in schiavitù dalla paura della morte. 16 Infatti, non è
certo degli angeli che egli si prende cura, ma è «del seme di Abramo»
che si prende cura. 17 Per conseguenza dovette diventare in tutto
simile ai fratelli, per divenire un misericordioso e fedele sommo sa-
cerdote nei loro rapporti con Dio ed espiare i peccati del popolo.
18 Avendo infatti egli sofferto e patito la tentazione, può venire in

aiuto a coloro che sono nella prova.

8c-9. Per il momento, così inizia il brano, non si vede ancora


nulla della condizione sovrana del Figlio alla fine dei tempi;
perciò tanto più chiara sta davanti ai nostri occhi la sua umi-
liazione, che giunge al suo livello più basso con la sofferenza
della morte. Ma non dobbiamo lasciarci confondere da ciò.
Piuttosto c'era in esso una profonda necessità divina. Vi al-
ludeva già il fatto che in questa umiliazione si compiva la pa-
rola della Scrittura del Ps. 8; ma essa si può provare anche
oggettivamente: conveniva a Dio, dice il v. IO. Questa affer-
mazione domina l'intero brano. I versetti che seguono (fino
al v. r 8) hanno soltanto il compito di mostrare in che misura
conveniva a Dio condurre alla meta per la via delle sof-
ferenze la guida della nostra salvezza. Doveva essere così,
tanto per la situazione oggettiva degli uomini da salvare (vv.
rr-15) quanto per la capacità soggettiva del salvatore (vv.
r 6-r 8 ); soltanto in questo modo egli è diventato idoneo al
sommo sacerdozio. Così si giunge all'idea con la quale l'au-
tore schiude a sé e ai suoi lettori la comprensione della per-
sona e dell'opera di Cristo. Se nel suo complesso questo
Hebr. 2,8c-I8 159
sviluppo delle idee è chiaro, esso offre però delle difficoltà
nei particolari. Queste cominciano subito col v. 9. Il v. 10
giustifica il v. 9 con le parole: «infatti conveniva a Dio ... ren-
dere perfetto attraverso alle sofferenze»; dunque la frase
principale del v. 9 dovrebbe anch'essa riferirsi alle sofferenze.
Questa infatti dev'essere la spiegazione. Però il v. 9 non sem-
bra affatto corrispondere a questa aspettativa; è vero che si
parla del dolore, addirittura due volte, la prima nella frase
principale e la seconda nella frase retta da 'affinché', ma l'af-
fermazione centrale è che vediamo Gesù coronato di gloria
e onore. Sembrerebbe che qui si parli dell'elevazione alla
gloria celeste concessagli in premio per aver sopportato i
dolori della morte; almeno questa è l'opinione comune, so-
stenuta sempre fino ad oggi nei commentari. Ma la succes-
siva proposizione finale, al termine del versetto, non concor-
da affatto con tale interpretazione; l'elevazione nella gloria
non è avvenuta affinché gustasse la morte: egli l'aveva già
gustata e per questo era stato elevato nella gloria. E non può
essere valida neppure la spiegazione che la morte avrebbe
ricevuto un valore salvifico universale soltanto con l'eleva-
zione nella gloria; un concetto del genere avrebbe dovuto
essere espresso in tutt'altro modo. Inoltre, proprio dopo il v.
8, ci si deve domandare: vediamo allora il Glorioso nel suo
splendore? E infine, se questo fosse il punto più alto dell'af-
fermazione fatta al v. 9, ci si dovrebbe attendere che i versetti
successivi tornassero in qualche modo sull'idea dell'eleva-
zione nella gloria. Ma ciò non avviene. La spiegazione usuale
della 'incoronazione di gloria e onore' con l'elevazione nella
gloria è tanto impossibile che uno dei più recenti esegeti si
rifugia nella supposizione che il testo sia stato corrotto. Ma
questa ipotesi è superflua perché l'espressione in questione
non significa affatto l'elevazione nella gloria. I concetti di
'gloria e onore' si riferiscono piuttosto alla dignità di Gesù
come sommo sacerdote; in 5 A s. essi sono esplicitamente u-
sati in tal senso. Essi derivano da Ex. 28,2: Mosè deve fare
160 L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio

a suo fratello Aronne una veste sacra a 'onore e gloria'. Se


interpretiamo il v. 9 in questo modo, tutto diventa subito
chiaro: vediamo l'umiliato Gesù insignito della dignità di
sommo sacerdote per le sofferenze della morte, cioè affinché
gusti la morte per tutti. La frase finale è dunque la spiega-
zione dell'espressione 'per il patimento della morte': essa non
ha il significato di ~perché egli aveva sofferto' ma quello di
«affinché egli soffra», e, per grazia di Dio, per tut-
ti. Nella morte di Gesù non v'era nulla di che scandaliz-
zarsi; anzi da essa dipendeva la salvezza di ognuno. Il pro-
posito salvifico è assolutamente generale; una sua limitazio-
ne, magari a Israele, va del tutto esclusa. E questa morte
non avvenne a caso o contro i piani di Dio, ma al contrario
avvenne 'per la grazia di Dio'. Una parte non indifferente
dei testi; con una facile modificazione delle lettere greche,
ha invece 'senza Dio'. Questa variante si richiamerebbe al
grido di Gesù in Mt. 27,46 cfr. Ps. 22,2; ma introduce nel
contesto un motivo che gli è del tutto estraneo, mentre 'per
grazia di Dio' consente il collegamento con il v. ro: è stato
Dio stesso ad aprire la via della salvezza. Questo è uno dei
principali punti fermi di tutta la predicazione cristiana delle
origini, la decisa barriera contro ogni interpretazione mito-
logizzante di Cristo (cfr. Gal. 4,4; 2 Cor. 5,19; Rom. 5,8; 8,
32; Io. 3,16; Mt. 11,25 ss.). Inteso così, il versetto si inse-
risce benissimo nel contesto generale; non viene delusa l'at-
tesa che l'idea dominante del v. 9 ritorni in seguito. Infatti
al v. 17 siamo riportati a tale idea dominante del sommo sacer-
dozio di Cristo: soltanto percorrendo la via della passione
egli poteva diventare sommo sacerdote. Questa è una giu-
stificazione atta a convincere quanti si sentono sconcertati
di vedersi dinnanzi agli occhi, invece del celeste sovrano, Ge-
sù sofferente e morente. Per la prima volta Gesù è chiamato
per nome. Sotto questo aspetto Hebr. ha delle forme che di-
vergono da quelle usate da Paolo. Il 'Gesù' puro e sempli-
ce, in Paolo si trova solo pochissime volte; in Hebr. è quasi
Hebr. 2,8c-I8 161

frequente come Cristo; l'espressione favorita di Paolo, 'Si-


gnore', è usata solo rare volte in Hebr., e mai l'intera for-
mula paolina 'nostro Signore Gesù Cristo'. Non che ci sia
una particolare intenzione in questa scelta di appellativi: è
soltanto un'abitudine, ma proprio per questa ragione, que-
sta caratteristica stilistica è uno dei tanti motivi per esclu-
dere che la Lettera sia di Paolo. Finora l'autore aveva par-
lato soltanto di 'Figlio'; se ora per la prima volta fa il nome
di Gesù, lo si dovrebbe attribuire al fatto che qui aveva mol-
to chiara davanti agli occhi la figura storica di Gesù nella sua
passione e morte.

ro-r8. La conclusione del v. 9, che la morte di Gesù per il


bene di ognuno era fondata nella grazia di Dio, necessitava
di una spiegazione. Per il momento il v. ro si limita a dire
che conveniva a Dio fare così, ma questa affermazione do-
veva essere ulteriormente motivata; il che avviene nei vv.
r I ss. Tuttavia anche il resto del v. ro è già formulato in
questa prospettiva; quando, infatti, l'autore chiama Dio lo
scopo di tutte le cose, e al tempo stesso il loro fondamento,
per mezzo del quale esiste ogni cosa, e quando dice di lui
che ha voluto condurre alla gloria molti figli, sembra che per
lui esista un rapporto fra le due affermazioni. Egli, cioè, vuol
dire che, come creatore, Dio non poteva rinunciare alla rea-
lizzazione dello scopo della sua creazione, vale a dire che gli
esseri creati ritornassero a lui. Ciò non sarebbe stato con-
forme al suo essere, non gli sarebbe convenuto; sarebbe sta-
to un rinnegare se stesso. Egli li deve condurre 'a sé', alla
gloria del regno celeste, del mondo che ha da venire. Certo,
non è purtroppo possibile che tutti siano salvi nella sua co-
munione; per questo motivo non si parla più di tutti, come
al v. 9, ma soltanto di molti, che sono chiamati figli perché,
secondo il v. r r, vengono tutti da lui. Ma almeno questi
molti li ha voluti salvare; tuttavia essi si trovano, per così
dire, in un'altra sfera d'influenza, dalla quale devono essere
162 L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio

fatti uscire. Questo è il compito della 'guida', che è nel con-


tempo autore della loro salvezza e condottiero delle schiere
dei salvati, che è alla loro testa quando abbandonano il re-
gno del male, la sfera d'influenza lontana da Dio. Questa
immagine espressiva del condottiero, che è anche il salva-
tore, si trova anche in Apoc. 3,15; 5,31 come già ha tradotto
Lutero. Se ora si dice che è convenuto a Dio condurre alla
meta questa 'guida' attraverso il dolore, cioè che diventasse
veramente il salvatore, non si è ancora spiegato perché la
liberazione era possibile soltanto alla fine del cammino della
passione; ma già si intuisce che la colpa è del regno del male,
in cui si trovano coloro i quali devono essere salvati. Ma Ge-
sù (ora improvvisamente egli diventa il soggetto della propo-
sizione, senza che se ne abbia la sensazione: Dio era in Cri-
sto) non poteva tralasciare di venire in loro aiuto perché essi
sono suoi fratelli, in virtù dell'origine comune (da Dio, cfr.
v. loa): la più elementare, e quindi la più efficace, motiva-
zione del comandamento dell'amore. Ma ora la loro relazio-
ne reciproca è descritta con un'espressione che, al di là del-
l'immagine della guida, dice più propriamente qual è il suo
contenuto: egli è il santificatore, essi sono i santificati. La
santità di Dio esprime la sua totale contrapposizione ad ogni
peccaminosità: l'una o l'altra. Se gli uomini debbono venire
'a Dio', dev'essere tolto loro ogni peccato. Nel culto vetero-
testamentario il sacerdote 'santifica' con i mezzi esteriori pre-
scritti dalla legge mosaica; ma colui che 'santifica' veramente
è Gesù, come si ripeterà poi. I cristiani sono coloro che per
mezzo di lui ricevono la capacità di entrare nella comunione di
Dio. Per il momento l'attenzione dell'autore si concentra sul-
la relazione fraterna esistente per la comune origine da Dio;
lo riconosce lo stesso Gesù, senza vergognarsi di questa sgra-
devole 'parentela', per quanto il carattere peccaminoso dei
suoi 'fratelli' gliene offrirebbe un motivo sufficiente. Ma a
dimostrazione di ciò non vengono citate parole (o esempi)
tratte dalla tradizione della vita di Gesù, ma dall'Antico Te-
Hebr. 2,8c-r8 16~

stamento, le parole del quale, se appena sembra che possano


adattarsi alla soluzione, vengono applicate con estrema disin-
voltura tanto a Cristo quanto allo stesso Dio. La prima cita-
zione è tratta dal Salmo 22, di cui è nota l'interpretazione
messianica della storia della passione (cfr. Mt. 27), che qui
è data per ammessa. Sembrerebbe che il v. 13 contenga due
citazioni, che sono unite da un 'e ancora'; in realtà le due
citazioni si trovano l'una accanto all'altra in Is. 8,17 s. Però
la prima si ritrova tale e quale anche nel salmo di ringrazia-
mento di Davide (2 Sam. 22,3); si può pensare perciò che
l'autore abbia avuto in mente tutti e due i passi della Scrittu-
ra. Comunque, con il primo si vuole dire che Gesù, come se-
condo Ps. 22 si unisce ai suoi fratelli nella lode a Dio, così
come loro è tenuto alla fede in Dio. Nella seconda citazione,
secondo il testo originario, il profeta parla di sé e dei suoi
figli come segni di Jahvé; la forma sconnessa che la frase ha
nella Lettera deriva anch'essa dai LXX. Presa come detto di
Gesù, deve confermare la stretta relazione di parentela esi-
stente tra Gesù e gli uomini, che stanno accanto a lui come
i molti altri figli di Dio, che Dio gli ha dato per salvarli.
Certo che allora egli doveva lasciare la sua esistenza cele-
ste per ridursi nella condizione in cui essi si trovavano, cioè
nell'esistenza corporea. 'Sangue e carne' dice Hebr.; Pao-
lo direbbe semplicemente 'carne'. Proprio a causa di que-
sta esistenza corporale, sensoriale, gli uomini sono in potere
del diavolo, cioè della forza del male, che è anche la potenza
della morte. Essi vivono; ma la loro vita non è degna di
questo nome, è piena di paura della morte e perciò è una
vera esistenza da schiavi; tale appare a Hebr. il sentimento in-
formatore della vita degli uomini prima di Cristo: più paura
della morte che gioia della vita. Qui la parola morte ha un du-
plice significato caratteristico: anzitutto la fine della vita cor-
porea, ma poi anche il contrario della 'salvezza' nel mondo che
ha da venire (vv 5 e r o): è dunque, per così dire la porta di ac-
cesso al male eterno. Queste idee hanno dei punti di contatto
r64 L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio

strettissimi con quanto Paolo dice della carne sede del pec-
cato e dei suoi effetti; infatti egli intende dire la stessa cosa
quando parla del peccato come dello stimolo della morte, il
peccato che trova posto e alimento nella carne (I Cor. 15,56;
Rom. 7 ,13 ss.). La figura del diavolo è l'incarnazione meta-
fisica della misteriosa sicurezza della potenza sopraffatrice
del male; è facile per l'autore metterla in tanta evidenza,
perché era corrente nel giudaismo vedere nel diavolo 'l'an-
gelo della morte'. Per la sua invidia è venuta nel mondo la
morte (Sap. 2,24); egli è l'assassino (lo. 8,44), lo stermina-
tore (ICor. lo,10; 5,5). Ora Gesù entra in questa sfera di
dominio della carne e del sangue, del diavolo e della morte,
nella quale si trovano gli uomini. E anch'egli muore. Ma la
sua morte ha il fine e l'effetto sorprendenti di infrangere il
potere del principe della morte. Come, non è detto chiara-
mente; si vuole forse dire che i peccati sono stati estinti e
reso inefficace lo 'stimolo della morte' (ICor. 15,50)? Op-
pure si allude alla discesa di Cristo nel regno dei morti che
non è riuscito a trattenere lui, l'innocente, per cui egli ha
potuto addirittura disputare al principe della morte la sua
preda e tornare vittorioso, alla testa dei liberati, dal regno
dei morti alla vita? 1 • La seconda idea non esclude la prima;
comunque l'autore intende dire che in questo modo è stato
rotto l'incantesimo della paura della morte, come la porta
dell'eterna rovina. Anche se rimane la morte del corpo, è
scomparso il terrore di essa. I tre versetti che seguono dan-
no ancora una giustificazione dell'idea del v. ro, partendo
sempre dalla forma esistenziale dell'uomo. Se si fosse trat-
r. Cfr. Barn. 5,6: «Egli ha preso su di sé quella sofferenza perché doveva apparire
nella carne per disarmare la morte e mostrare la risurrezione dei morti»; inoltre
Od. Sal. (rr secolo) 42,n: «L'inferno mi vide e si infiacchi; la morte sputò me e
molti con me, fui veleno e fiele per essa, scesi fino in fondo ad esso, tanto era
profondo l'abisso. I piedi e la testa gli diventarono senza forza, perché non po-
teva sostenere il mio volto; io creai fra i suoi morti la comunità dei viventi».
Questi passi, e numerosi altri, provano che idee del genere non erano estranee
a quei tempi.
Hebr. 2,8c-I8

tato di angeli non sarebbe stato necessario il cammino attra-


verso alle sofferenze; essi non hanno né sangue né carne e
non sono soggetti alla morte. Dunque l'autore non prende
in considerazione una redenzione del mondo degli angeli
(dr. Col. r,20 s.). Ma si tratta di uomini, poiché l'espres-
sione 'seme di Abramo' non limita a Israele l'azione salvi-
fica di Gesù, e il v. 9 aveva già affermato chiaramente la va-
lidità universale della morte di Gesù. L'espressione usata qui
si riferisce a tutti i cristiani presenti e futuri (essi sono il
vero Israele) ed è stata scelta soltanto per spiegare nuova-
mente l'umiliazione di Gesù mediante il rapporto di fratel-
lanza fra il salvatore e i salvati: Gesù attira a sé i suoi fra-
telli, il seme di Abramo attira a sé il seme di Abramo ( cf r.
Gal. 3,16.29). La prestazione dell'aiuto fraterno era però
soggetta a condizioni non soltanto oggettive, ma anche sog-
gettive: egli li doveva comprendere, nel loro stato misere-
vole della tentazione al peccato; ma questa comprensione si
può avere soltanto in base alla personale esperienza. Per-
correndo la via della sofferenza egli sperimentava quanto sia
difficile essere sempre obbedienti a Dio, e poteva così venire
in aiuto a coloro che subiscono le tentazioni. Si pensa qui
ad un'assistenza per vincere le tentazioni? Almeno per il mo-
mento no; il v. r8 è semplicemente una spiegazione del v.
r 7. Dunque si intenderebbe dire in che cosa consiste prima
di tutto questo aiuto: nell'espiazione. Gesù diventò un mi-
sericordioso sommo sacerdote che non si rifiutò di espiare
i peccati del popolo con la donazione della propria vita e
dargli così la salvezza. Qui sono totalmente assenti le idee
del v. r 4; il linguaggio è immediatamente religioso: l'uomo
sta davanti a Dio, da cui lo separa il peccato. Il servizio re-
so da Gesù è stato di eliminare questo ostacolo; la sua espe-
rienza personale glielo ha reso psicologicamente possibile.
Certamente, proprio per il fatto di avere egli stesso vinto la
tentazione che è insita nel dolore, egli è anche capace di aiu-
tare i fratelli a vincere la tentazione. Ma è l'altro aspetto che
166 Gesù superiore a Mosè

qui interessa. Per i destinatari di Hebr. la passione del 'Fi-


glio' è motivo di scandalo. L'autore vede in essa la conferma
dell'amore fraterno di Gesù, che fa salvi, e - in ultima ana-
lisi - della volontà salvifica di Dio. Paolo e Giovanni dicono
la stessa cosa (cfr. 2 Cor. 8,9; Io. 3,16). Ma Hebr. cerca di
sollevare un poco il velo che, nonostante tutto, ci nasconde
il cammino di Gesù; chi riesce a spiegarsi tutto questo, pen-
sa l'autore, cesserà di borbottare sull'umiltà di Gesù. Perciò
viene a buon punto l'esortazione con cui incomincia il cap. 3.

Gesù superiore a Mosè ( 3,1-6)

1 Dunque, fratelli santi, che siete partecipi di una vocazione celeste,


considerate bene l'apostolo e sommo sacerdote della nostra profes-
sione di fede, Gesù, 2 che è «fedele» a colui che l'ha costituito, come
lo fu «Mosè in tutta la sua casa». 3 Infatti, egli è stato ritenuto de-
gno di una gloria superiore a quella di Mosè, nella misura in cui
l'onore del costruttore di una casa è più grande di quello della casa
stessa. 4 Ogni casa infatti è costruita da qualcuno: ma colui che ha
costruito tutte le cose è Dio. 5 E «Mosè è stato fedele in tutta la
sua casa» come <mn servo», per rendere testimonianza a quello che
doveva essere poi annunziato; 6 Cristo, invece, lo è stato come un
figlio che sta al di sopra della sua casa. E la sua casa siamo noi, se
manterremo ferma fino alla fine la fiducia e la fierezza gioiosa della
speranza.

Per quel che riguarda la costruzione dei capitoli seguen-


ti, va rilevato che l'esortazione di 3,r, che segue consequen-
zialmente al cap. 2, è ripetuta alla fine del cap. 4: in 3,1 è
detto «considerate bene ... il sommo sacerdote della nostra
confessione» e nel cap. 4, richiamandosi ancora a Gesù come
sommo sacerdote, è detto «restiamo fermi nella confessione».
È ripetuto anche l'accenno alla capacità di patire insieme a
noi di colui che è stato tentato come noi (2,17). Perciò le
affermazioni sulle caratteristiche del sommo sacerdote (4,I4-
5, r o) dovrebbero collegarsi direttamente a 3, I. Invece, la
Hebr. 3,I-6

affermazione della fedeltà di Gesù come sommo sacerdote


(2,17) deve aver risvegliato il ricordo di Num. 12,7, dove si
parla della fedeltà di Mosè; e questo ha dato all'autore la
felice occasione di dimostrare la superiorità di Gesù su Mosè,
e poi riallacciarvi l'esortazione ai lettori di non attirare su
di sé il destino toccato alla generazione del deserto per la sua
incredulità al tempo di Mosè. Soltanto dopo è ripresa l'idea
di 2,17 s.; 3,1: perciò le affermazioni di 3,2-4,13 si presen-
tano come una lunga e ben meditata digressione, o meglio
come un lungo inciso.

r-6. L'esortazione è fatta in modo da esercitare la massima


impressione possibile con tutti i mezzi. Per la prima volta la
Lettera si rivolge direttamente ai lettori, e in un modo as-
sai solenne. Essi sono fratelli; vorranno forse abbandonare
questa comunione? Fratelli santi; non vorranno dunque rin-
negare ciò che già debbono al sommo sacerdote, cioè la ca-
pacità di salire fino al trono della grazia divina (4,16). Essi
fanno parte di coloro che sono chiamati a partecipare alla
salvezza celeste. Il loro bene è così grande, che non lo vor-
ranno dissipare. Sarebbe una cosa inconcepibile. Ma allora,
se la questione dell'umiliazione di Gesù è come l'ha descrit-
ta il cap. 2, debbono comportarsi diversamente; non possono
lasciarsi sviare. Piuttosto debbono prestare la massima atten-
zione all'apostolo e sommo sacerdote della nostra confes-
sione, cioè a colui al quale ci professiamo in quanto cristiani.
La parola 'professione', che si trova anche in 4,14 e lo,23,
potrebbe significare una formale professione di fede in Ge-
sù, resa forse durante la cerimonia del battesimo (cfr. rn,
I 3 ), senza che perciò qui e negli altri due passi si possano
trarre conclusioni sul suo significato. Non v'è mai stata una
formula di fede cristiana, in cui si parlasse di Gesù come
sommo sacerdote; tuttavia alcuni pensano che proprio qui
si alluda all'uso di questo attributo di Cristo nella preghiera
liturgica. L'insolita definizione di Gesù come apostolo, vale
168 Gesù superiore a Mosè

a dire inviato (di Dio, naturalmente), vuole ricordare che,


secondo r,2, Dio ci ha parlato attraverso a lui. L'attenzione
da prestare a Gesù gli è tanto più dovuta, in quanto egli si
mantiene fedele a Dio, il suo creatore, che gli ha attribuito
questo servizio. Va rilevato per inciso che l'autore, per quan-
to anche nel cap. r abbia avvicinato al massimo il Figlio a
Dio e l'abbia chiamato mediatore della creazione, tuttavia qui
non si perita di parlare della sua creazione da parte di Dio.
Quanto è detto ai vv. r.2a sembra quasi un'introduzione ad
affermazioni più precise sul sommo sacerdozio di Cristo, che
poi si trovano nei capitoli successivi; ma l'autore qui si sof-
ferma sulla fedeltà di Cristo. Anche Mosè aveva dato prova
di tale fedeltà secondo Num. 12,7, però soltanto nel testo
dei LXX: il testo originario non parla della fedeltà di Mosè,
ma dell'incarico affidatogli di dirigere tutta la casa di Jahvé,
cioè Israele. Ma, dice H ebr., da questo riconoscimento della
fedeltà di Mosè non si può dedurre che gli si debba prestare
la stessa totale attenzione che a Gesù. Piuttosto, la fedeltà
di Mosè è nominata soltanto per dimostrare il contrario. In-
fatti l'autore proprio dal passo di Num. 12,7 deduce la supe-
riorità di Gesù su Mosè. Per darne la dimostrazione egli si
serve del concetto di 'casa'. La posizione di Mosè certamente
era molto onorevole, gli era affidato il governo della casa;
però anch'egli non era che una parte di questa casa, e perciò
nell'onore sta molto indietro al costruttore di essa. Con ciò
viene dato per implicito, come un fatto naturale secondo r ,2,
che Gesù sia il 'costruttore' della 'casa' d'Israele (cfr. I Cor.
ro,4). Il v. 4b intende dire che con questa affermazione non
· dev'essere naturalmente sminuita la posizione di Dio come
creatore del mondo; in tal caso il v. 4b esprime soltanto un
concetto derivato. Oppure signifìca che Dio stesso ha as-
segnato a Gesù questa posizione (cfr. v. 2 inizio e r,2: «Dio
ha creato per mezzo di lui ... »). Mentre nel v. 4 per 'casa' si
intende l'edifìcio, il v. 5 vi comprende anche i domestici. La
superiorità di Cristo è dedotta dal fatto che Mosè è chiama-
Hebr. 3,7-4,I3

to servo, sia pure incaricato dell'importante compito di co-


municare al popolo le istruzioni divine ricevute nella tenda
dell'incontro; mentre sappiamo dal cap. r che Gesù è figlia,
e perciò non può fare parte dei domestici. Mosè, dunque, è
'nella' casa, Gesù invece 'sopra' di essa. Il versetto finale del
brano dà una svolta sorprendente a questa idea: la casa, di
cui si parlava nel passo di Num., era Israele; la casa sopra
la quale sta Gesù è la comunità cristiana. Questa ora occupa
la posizione privilegiata, che prima il concetto attribuiva ad
Israele. Naturalmente ad una condizione: che non falliscano
anch'essi. Ciò che distingue il cristiano è la grata e gioiosa
certezza del futuro compimento della salvezza, che occorre
tenere ferma contro ogni tentazione della fiacchezza. Quanto
ciò sia decisivo viene ora mostrato con l'esempio del destino
della generazione che ha attraversato il deserto ma non è
giunta alla meta: un motivo che domina le argomentazioni se-
guenti fino a 4,13.

Ammonimento a non perdere la promessa, come avvenne per la gene-


razione d'Israele nel deserto ( 3,7-4,13)

7 Perciò, come dice Io Spirito Santo: «Oggi, se udite la sua voce,


8 non indurite i vostri cuori come nella esasperazione, il giorno
della tentazione nel deserto, 9 dove i vostri padri (mi) tentarono,
mi misero alla prova pur avendo veduto le mie opere per quaranta
anni. 10 Per cui mi adirai contro questa generazione e dissi: hanno
un cuore sempre perverso; ma essi non .hanno riconosciuto le mie
vie, 11 sicché ho giurato nella mia ira: non entreranno nel mio riposo».
12 Badate, fratelli, che qualcuno di voi non abbia un cuore cattivo ed

incredulo, al punto di allontanarsi dal Dio vivo, 13 ma esortatevi a


vicenda ogni giorno, fin tanto che si può dire 'oggi', perché nes-
suno di voi 'si indurisca' lasciandosi ingannare dal peccato. 14 Poi-
ché siamo stati fatti partecipi di Cristo, alla condizione di re-
stare saldi sino alla fine nella nostra fiducia iniziale. 15 Quando si
dice: «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori come nella
esasperazione», 16 chi erano dunque coloro che, pur avendo udito, «esa-
sperarono» (Dio)? Non furono forse tutti coloro che erano usciti dal-
Ammonimento a non perdere la promessa

l'Egitto mediante Mosè? (1) 17 E contro chi «si è adirato per quaranta
anni»? Non forse contro quelli che avevano peccato e i loro «corpi cad-
dero nel deserto»? 18 E a chi «giurò che non sarebbero entrati nel suo
riposo» se non a quelli che avevano disobbedito? 19 E noi vediamo
che non poterono entrare per la loro incredulità. 1 Temiamo dun-
que che qualcuno di voi, pur rimanendo valida la promessa di «en-
trare nel suo riposo», pensi di essere arrivato tardi. 2 Perché anche
a noi, come a loro, è stata data la buona novella; ma la parola che
avevano udito non giovò loro affatto, perché non restarono in comu-
nione mediante la fede con coloro che l'avevano ascoltata. 3 Infatti
«entriamo nel riposo» noi che abbiamo creduto, secondo quanto egli
ha detto: «così ho giurato nella mia ira: non entreranno nel mio ri-
poso», benché 'le opere' fossero compiute sin dalla fondazione del
mondo. 4 Infatti ha detto in qualche parte circa il settimo giorno:
«E Dio si riposò il settimo giorno da tutte le sue opere». 5 E ancora
in quel punto: «Non entreranno nel mio riposo». 6 Poiché dunque è
acquisito che alcuni vi devono entrare, e quelli cui per primi era
stata data la buona novella non vi sono entrati a causa della loro
disobbedienza, 7 fissa di nuovo un giorno, un 'oggi', dicendo a Da-
vide dopo tanto tempo, come è stato detto (sopra): «Oggi, se udite
la sua voce, non indurite i vostri cuori». 8 Infatti se Gesù ( = Gio-
suè) li avesse portati in questo riposo, non avrebbe parlato in se-
guito di un altro giorno. 9 Resta dunque riservato al popolo di Dio
un riposo al settimo giorno. 10 Giacché chi «è entrato nel suo riposo»
anch'egli «si riposa dalle sue opere», come Dio dalle sue. 11 Affret-
tiamoci dunque a «entrare in quel riposo», affinché nessuno cada
imitando quell'esempio di disobbedienza. 12 Infatti la parola di Dio
è viva e forte e più tagliente di qualsiasi spada a doppio taglio, e
penetra fino alla divisione di anima e spirito, giunture e midolla, e
giudica i pensieri e le intenzioni del cuore. 13 E non c'è nessuna crea-
tura nascosta davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto davanti a
colui al quale dobbiamo rendere conto.

È consigliabile prendere in considerazione questo lungo


brano esortativo come un tutto unico, già per il solo fatto

r. Il testo greco della seconda parte del v. 16 letteralmente si dovrebbe tradurre:


«Ma non tutti coloro che ... erano usciti». Però questo 'ma' non ha senso dopo
la precedente frase interrogativa. Si dovrebbe dunque completare: «forse soltanto
alcuni?» e proseguire: «non [furono] piuttosto tutti...?». Forse il testo è corrotto
in questo punto. Perciò nella traduzione si usa omettere il 'ma'.
Hebr. 3,7-4,I3 171

che fìno a 4,II riecheggia di continuo la citazione iniziale da


Ps. 9 5. Ma ritornano continuamente anche i concetti fonda-
mentali del 'riposo' promesso, cui tende la generazione d'I-
sraele uscita dall'Egitto, e quello della incredulità, o della di-
sobbedienza, a causa della quale è stato negato ad essa di poter
raggiungere la meta. Se si vuol tentare di dare un' articola-
zione al brano, non lo si può fare attribuendo al cap. 3 la
funzione di presentare l'esempio di Israele e al cap. 4 quella
di mostrare come si debba applicare praticamente l'esempio
stesso, perché un'applicazione ai lettori si trova già in 3, 12-
14. Si potrebbe dire che il cap. 3 è una messa in guardia e il
cap. 4 un'esortazione; ma i due aspetti si intrecciano fra di
loro. Noi preferiremmo suggerire l'articolazione seguente:
in 3,7-14 i lettori, con la citazione di Ps. 95,7-11, sono messi
in guardia dal pericolo di cadere nell'incredulità; i vv. l 5- I 9
danno un'interpretazione del passo del salmo, per dimostrare
che il destino della generazione del deserto fu dovuto di fatto
alla sua caduta nell'incredulità. Ma (4,1-3a) la promessa, al-
la quale non si è creduto non giova né a noi né a loro. Tut-
tavia ( vv. 3b-5) il diritto della fede nel riposo promesso si
deduce dalla Scrittura in modo sufficientemente chiaro; e
più precisamente ( vv. 6-ro) quella promessa è tuttora valida
per noi. Da quanto precede dobbiamo con la massima serietà
trarre la conclusione pratica, perché non c'è modo di sfug-
gire alla minaccia di Dio ( vv. l l - l 4).

3,7-1 l. Per introdurre l'esortazione l'autore si serve di un


passo di Ps. 9 5, che è spiegato e applicato anche in seguito
quasi come un testo per una predica. Esso viene attribuito
allo Spirito (cfr. 9,8; 10,15), come precedenti citazioni era-
no state attribuite a Dio o al Figlio; si tratta di una differen-
za puramente formale. Però, proprio perché la parola è pa-
rola ispirata da Dio, essa è fuori dal tempo e l"oggi' del v. 7
- senza tener conto della data in cui il salmo è stato com-
posto - è riferito alla presente comunità cristiana, come ri-
Ammonimento a non perdere la promessa

sulta evidente in 4, 7. L'appello di Dio è valido indipenden-


temente dall'occasione per cui è stato rivolto la prima volta;
è questo il presupposto di ogni utilizzazione edificante della
Bibbia. Ps. 95 è un invito alla lode e all'obbedienza a Dio;
e alla fine contiene un ammonimento a guardarsi dalla di-
sobbedienza, che viene appoggiato con l'accenno al destino
dei padri del popolo, quando erano nel deserto. Il v. 8 allude
alla scena di Massa e Meriba, dove il popolo se la prese
con Mosè perché mancava l'acqua e domandò: «Jahvé è sì
o no in mezzo a noi?» (Ex. 17,1-7). In tal modo essi misero
Dio alla prova con la loro ribellione, e ciò «quantunque
avessero veduto le mie opere», cioè l'aiuto miracoloso nell'e-
sodo dall'Egitto, il nutrimento con la manna, ecc. Ma il pas-
so del Salmo collega questa scena a quella successiva al rien-
tro degli esploratori in Num. 14. Le difficoltà che si possono
framettere all'ingresso nella terra promessa danno fastidio
al popolo, che si rifiuta di seguire Jahvé. Preferiscono far
ritorno in Egitto. Ed ecco allora il giuramento di Jahvé (v.
r r ), con la conseguenza che l'intera generazione, indocile per
tutti i quarant'anni di migrazione nel deserto, non potrà
avanzare oltre, e non giungerà nel 'riposo', nella terra in cui
avrebbe dovuto prendere dimora. Nel Salmo, dunque, i qua-
ranta anni sono anni dell'ira di Jahvé. Ma l'autore della no-
stra Lettera ha modificato il testo greco dei LXX, inserendo
un 'per cui' all'inizio del v. ro, con la conseguenza che i
'quarant'anni' non vanno riferiti, come nei LXX, a «mi adi-
rai», ma alla frase «essi videro» (v.9). Si ha così l'impressione
che l'espressione «essi videro le mie opere per quarant'anni»
(v. 9 fine) voglia definire tale periodo di tempo un periodo
di aiuti prodigiosi; ma dal v. r 7 si deduce che questo non è
il pensiero dell'autore. Ma allora dobbiamo considerare le
'opere' (v. 9 fine), contrariamente al testo originario, come
degli atti punitivi; per cui possiamo tradurre liberamente:
«perciò hanno dovuto sopportare i miei castighi per quaran-
t'anni», cui fa da parallelo la frase «perciò mi adirai». In tal-
173
modo questa piccola modificazione testuale dell'autore non
sarebbe più riferita agli atti di benevolenza sperimentati dal-
la generazione nel deserto e scompare questo appello a un
sentimento umano di gratitudine. Le parole suonano molto
più aspre e dure: Dio parla. Essi odono la sua parola. Ma
invece di obbedirgli, come sarebbe naturale, essi chiedono
ed esigono da Dio, con un contegno provocante, la prova
della sua esistenza mediante l'aiuto immediato in ogni ne-
cessità. Se non dà questa prova, si allontanano da lui ... per
poi sperimentare che Dio non si lascia trattare in questo mo-
do e che la sua ira è una realtà.

3,12-19. Ora l'autore d'improvviso, ma richiamandone l'at-


tenzione con il vocativo, rivolge lo stesso appello ammo-
nitore ai suoi lettori. Il passo è uno di quelli che hanno
dato motivo di pensare che il pericolo che correvano i de-
stinatari della lettera non potesse essere quello di un'incli-
nazione alla religione giudaica, ma quello di una caduta nel
paganesimo, se non addirittura nella totale incredulità; ma
si è trascurato di considerare che le espressioni 'incredulità',
'allontanamento' dal 'Dio vivo' e 'disobbedienza' sono tutte
prese da N um. l 4. Come qui non si parla di passaggio ad
una religione pagana o all'ateismo, così le espressioni usate
nel nostro passo non possono essere forzate in un altro senso.
Esse potevano benissimo essere usate anche se i lettori, di-
ventati insicuri nella loro fede cristiana, si sentivano attratti
dalla religione giudaica; infatti, se uno si rifiuta di seguire
Dio su una questione decisiva in un momento decisivo, ci tro-
viamo di fronte a quell'atteggiamento fondamentale di infe-
deltà e di apostasia che, se non vi si pone rimedio in tempo,
ben presto si impadronisce di tutto il cuore che si incatti-
visce e finisce per essere inaccessibile ad ogni impulso buono,
se si insiste in questo atteggiamento. È questo l'effetto del
peccato, che riesce a tanto solamente perché fa intravvedere
all'uomo vantaggi illusori (cfr. Mc. 4,19). Perciò i lettori so-
174 Ammonimento a non perdere la promessa

no esorta ti ad incoraggiarsi a vicenda (cfr. lo, 2 5 ), :fintanto-


ché dura il tempo della grazia (cioè fino al momento del ri-
torno di Cristo), e a strappare la maschera al peccato. L'au-
tore insiste sulla mutua responsabilità: per lui non esiste un
cristianesimo privato dei singoli credenti, al contrario egli
apprezza altamente il valore pastorale della comunione cri-
stiana. Soltanto così si conserva la fermezza delle proprie
convinzioni, che è la condizione necessaria (come è implicito
nella frase) per poter entrare nel 'riposo', naturalmente in
un senso più profondo di quello che cercavano i padri nel
deserto. In luogo di questo concetto qui si dice: per essere
partecipi, in Cristo e con Cristo, della sua 'casa' e della sua
salvezza; ma vedremo presto come e perché un concetto non
è possibile senza l'altro, e tutti e due finiscono per dire la
medesima cosa. Nel v. 14 è chiaramente ripresa l'esortazione
del v. 6, perfino nella formulazione della condizione posta ai
lettori. Segue ora la spiegazione del salmo nei vv. l 5- l 9, in-
tesa come giustificazione di questa esortazione. La severità
con cui l'autore mette in guardia i lettori contro i pericoli
dell'incredulità e dell'apostasia, è confermata da ciò che rac-
conta di Israele Num. 14. L'esperienza salvifica di essere stati
tratti fuori dall'Egitto non li proteggeva dal peccato di ribel-
lione a Dio: un buon inizio non garantisce che non si finisca
nella rovina. Con la loro disobbedienza e incredulità (i due
concetti sono così intimamente legati fra di loro che l'autore
quasi non fa differenza tra l'uno e l'altro) attirarono su di
sé il giudizio dell'ira e «non poterono entrare». In Num. 14
si racconta che, dopo il giuramento di Dio di non farlo en-
trare nella terra promessa, il popolo cambiò parere: ora
essi cercavano di entrarvi; ma Jahvé non era con loro, e «ven-
nero gli Amaleciti e i Cananei... e li batterono». Indiretta-
mente i lettori sono messi in guardia dall'insanabile caduta
(cfr. 6,4ss.; ro,26; l2,16s.), in forma tale da dovere essi
stessi giudicarsi, infatti non possono rispondere se non affer-
mativamente alle incalzanti domande dell'autore.
Hebr. 3,7-4,I3 175

4,1-10. Traiamo dunque la conclusione giusta, valutando ap-


pieno la serietà della situazione e perciò con un senso di ti-
more; così continua l'autore in 4,1, includendo se stesso nel-
l'esortazione, contrariamente a 3,12. Ammonimenti e spie-
gazioni dei loro motivi si alternano di continuo in questo
brano, che ha lo stile di una predica. Gli Israeliti nel deserto
non arrivarono nel 'riposo'; dunque la promessa non è stata
adempiuta. Ma essa dev'essere adempiuta, perché Dio non
promette invano. Nella forma del vangelo si rinnova più pro-
fondamente la promessa veterotestamentaria; e anche la con-
dizione è sempre la stessa: la fede. Gli Israeliti, secondo
Num. 14, nel momento decisivo non prestarono fede all'as-
sicurazione che Jahvé avrebbe dato loro la vittoria sulle po-
polazioni della Palestina, dove avrebbero trovato 'riposo'.
Essi non furono all'altezza della situazione, e perciò non
giunsero alla meta; e quando tentarono di farlo, era 'troppo
tardi'. Pietro quando dubita non riesce a galleggiare sulle
onde; atti di eroismo li compie soltanto la fede. Neppure
la parola di un Mosè, anzi dello stesso Figlio, non può nulla
senza un'adesione personale; vale la regola che possiamo
ottenere il 'riposo' promesso solo con la fede. Quando ora
l'autore prosegue con le parole 'come ha detto' e ripete il
passo di Ps. 95,11 = 3,II, a prima vista si ha l'impressione
di una certa confusione, perché qui e fino al v. 5 non si parla
più della fede. Ma evidentemente l'autore non intende for-
nire ulteriori prove per dimostrare che la fede è necessaria;
ciò che ha detto finora lo ha chiarito a sufficienza. Egli vuole
piuttosto mostrare che la fede è possibile; e lo è perché non
si può dubitare dell'esistenza del riposo promesso. Egli lo
dimostra con la Scrittura; quando Dio giurò che non sareb-
bero entrati nel suo riposo, non è che tale riposo non ci
fosse ancora stato. Naturale che c'era, perché la creazione
del mondo era finita da tanto tempo. E che da questo fatto
si tragga a buon diritto questa conclusione, lo dimostra Gen.
2,2, certamente senza che con ciò sia messa in discussione la
r 76 Ammonimento a non perdere la promessa

verità di Io. 5,I7. Lo stesso giuramento di Ps. 95,II =Hebr.


3,u prova l'esistenza di questo riposo, perché lo presuppo-
ne. Perché, dunque, dubitare? Il diritto della fede al riposo
è certo. Ma (l'autore intuisce che stanno per domandarglielo)
è tuttora valida? Certamente, rispondono i vv. 6-9. Ritorna
l'idea del v. I: senza adempimento la promessa può restare
impossibile. Essa non è ancora compiuta. Perché essa ora si
compia, le parole di Ps. 95,7 s. =Hebr. 3,7 s., per le quali Da-
vide era servito da strumento, si rivolgono a noi con il loro
'oggi'. Però viene avanzata un'altra obiezione: il popolo è
stato portato nella terra promessa da Giosuè. No, si ri-
sponde; non si trattava del vero riposo. Altrimenti, come
avrebbe potuto Davide parlare in questo modo dopo tanti
secoli? Si ritorna allo stesso concetto di prima: il 'riposo'
rimane come una promessa non ancora adempiuta per il po-
polo di Dio, cioè il vero popolo, la comunità cristiana. Ed
esso è il vero sabato, il vero riposo del sabato, come dice
l'autore con un'espressione conosciuta dall'esegesi giudaica
del tempo, per dire la condizione :finale del mondo futuro.
Un'ultima preoccupazione viene dissipata nel v. IO: Gen. 2,
2, come il passo del salmo, parla del riposo di Dio, ma non
del nostro. Certamente, ci è detto, ma nel riposo di Dio ripo-
sa ogni inquietudine umana.
Questo genere di dimostrazione, seguito in 4,
I-IO, ha qualcosa di estraneo a noi; non perché verità reli-
giose vengano spiegate con parole ed esempi tratti dalla Bib-
bia. Lo strano per noi è la naturalezza con cui la promessa
della terra di Canaan è intesa come la promessa evangelica
della salvezza, come se questo ne fosse il vero e proprio si-
gnificato. Ancora più strano è il modo in cui la validità di
questa promessa, o meglio della promessa cristiana, viene
dimostrato con parole della Bibbia; specialmente con Gen.
2,2, che in realtà non ha alcun rapporto oggettivo con la
promessa stessa. Infatti, che cosa ha a che fare il riposo di Dio
dopo i sei giorni della creazione con la pienezza cristiana
Hebr. 3,7-4,I3 177

della salvezza? Oggi nessuno si sentirebbe autorizzato a ser-


virsi della Bibbia per questo genere di dimostrazioni. Ma a
quei tempi si pensava altrimenti, perché, a causa di una con-
cezione statica dell'ispirazione, si vedeva la Bibbia come
qualcosa di assolutamente astorico; cosa che per noi è im-
possibile. Eppure nemmeno noi possiamo rinunciare a inter-
pretare l'Antico Testamento partendo dal vangelo, e a vedere
inoltre nelle sue parole e nei suoi racconti un significato più
profondo, allusivo del periodo neotestamentario; solo che
noi non prenderemmo mai una parola staccata dal suo con-
testo come fa l'autore di Hebr., del resto assolutamente in
linea con lo spirito del suo tempo, ma faremmo più atten-
zione alle linee dello sviluppo storico. Ma anche in questo
senso, una 'interpretazione in profondità' dell'Antico Testa-
mento è espressione insostituibile del fatto che la fede cri-
stiana nella salvezza è sicura. Cambiano soltanto i modi di
portare delle prove, ma l'idea sottostante conserva la sua
immutabile verità.

1 1 - 1 3. Se secondo i vv. I - 1 o la promessa ha per noi una pie-


na validità ed un significato attuale, è naturale che nel v. I I
ritorni l'ammonimento del v. r. Esso si appoggia su un nuo-
vo richiamo al destino della generazione nel deserto: come
è detto letteralmente, «affinché nessuno cada in quell'esem-
pio di disobbedienza», cioè vada in rovina (cfr. 3, I 7). Que-
sto zelo, di cui parla il v. I I, non può essere difficile a chi
abbia chiara in mente l'essenza della parola di Dio, sotto
l'impressione delle precedenti affermazioni, poiché nel passo
citato del salmo si tratta in primo luogo di quella parola. Le
caratteristiche però che qui vengono messe in luce valgono
solo per essa. Questa parola non è impotente come la parola
umana; è come un essere vivente, perché Dio opera in essa.
«Come egli dice, così accade». Che sia piena di vita e di
forza, Israele l'ha imparato a sue spese: il giuramento si è
adempiuto (cfr. 3,19); ma essa pronuncia il suo giudizio in
178 Ammonimento a non perdere la promessa

base alla sua conoscenza del cuore umano, in quanto vi è di


più intimo, come lascia capire la parola del salmista: «sem-
pre errano nel loro cuore». Questa onniscienza della Parola
è paragonata ad una spada affilata, addirittura a doppio ta-
glio, che giunge a separare i legamenti più nascosti delle ar-
ticolazioni del corpo umano, e addirittura della vita perso-
nale dell'uomo. Non si può affermare con sicurezza che cosa
si intenda in particolare con l'azione della spada, che cosa
debba essere separato; tuttavia lo scopo del paragone è chia-
ro, come è detto subito dopo: per la parola nulla è segreto
di noi; essa conosce i punti in cui possiamo essere colpiti a
morte. E noi dobbiamo rendere i conti a questo 'critico'!
Quanto zelo ci vorrà, dunque, per far sì che non prendano
piede nel nostro cuore sentimenti di incredulità e di disob-
bedienza (cfr. 3,12). A lui nulla sfugge. Parole queste di
una gravità solenne, con le quali la fine del nostro brano
ritorna al suo inizio. Il modo in cui in 4,12 s. si parla della
parola aveva dei punti di collegamento nell'Antico Testa-
mento; già in Is. 49,2 e Sap. 18,14 la parola di Jahvé è para-
gonata ad una spada tagliente e Ier. 23,29 parlava di essa
come di una realtà a sé stante. In Sap. 7 ,22 la mobilità e
l'onniscienza della Sapienza, che sostanzialmente non è altro
che la parola di Dio ed è autonoma come questa, sono de-
scritte in un modo sotto certi aspetti simile a quello del nostro
passo. Inoltre Filone di Alessandria nella sua esegesi di Gen.
I 5 ha fatto una prolissa descrizione della forza tagliente, che
penetra in ogni cosa, della 'Parola', cioè del 'Logos'; ma egli
pensa a funzioni logiche. In realtà Filone, nella migliore del-
le ipotesi, porta un contributo soltanto formale alla spiega-
zione del nostro passo. In sé questo passo non ha nulla di
speculativo; non intende attribuire alla Parola compiti che
possa avere accanto a Dio o che le siano stati commessi da
Dio. Pensa soltanto alle parole della Bibbia, che sono ap-
punto parola di Dio. Il parallelo più vicino a questo passo
si trova nel modo in cui Paolo parla della Scrittura come di
1 79
una persona che parla autonomamente (cfr. Gal. 3,8.22). Che
la parola di Dio è 'viva' è detto anche in Act. 7,38 e I Petr.
r,23.

Gesù sommo sacerdote al modo di Melchisedec (4,14-5,10)


14 Avendo dunque un grande sommo sacerdote, che è penetrato nei cie-

li, Gesù Figlio di Dio, teniamo ferma la professione di fede. 15 Infatti


non abbiamo un sommo sacerdote che non possa compatire le nostre
debolezze, egli che è stato tentato in tutto, a nostra somiglianza, ad
eccezione del peccato. 16 Avanziamo dunque con fiducia verso il trono
della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia per un aiuto
a tempo opportuno. 1 Infatti ogni sommo sacerdote preso tra gli
uomini, è costituito a favore degli uomini per i loro rapporti con
Dio, affinché offra doni e sacrifici per i peccati; 2 (come uno) che
possa avere commiserazione per coloro che non sanno ed errano,
perché anch'egli è immerso nella debolezza. 3 Perciò deve offrire per
se stesso sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. 4 Nessuno
si attribuisce da sé tale onore se non è chiamato da Dio, come Aron-
ne. 5 Così neppure il Cristo si è attribuito la gloria di diventare som-
mo sacerdote, ma l'ha ricevuta da colui che gli ha detto: «Mio figlio
sei tu, io oggi ti ho generato», 6 come dice anche altrove: «Tu sei sacer-
dote in eterno secondo l'ordine di Mekhisedee». 7 Egli, che nei gior-
ni della sua carne, offrendo preghiere e suppliche con alte grida e
lacrime a colui che poteva salvarlo dalla morte, è stato ascoltato per
la sua pietà 8 e, pure essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle sue
sofferenze 9 e, reso perfetto, è diventato per tutti coloro che gli ob-
bediscono, principio di 'eterna salvezza', 10 chiamato da Dio sommo
sacerdote «secondo l'ordine di Melchisedee».

Il brano pone due condizioni fondamentali, alle quali il


sommo sacerdote deve conformarsi: la capacità di compa-
tire e la vocazione divina. Gesù le soddisfece ambedue. Del-
la sua capacità di compatire era già stata fatta parola in 2,17 s.,
cui seguiva in 3,1 l'incitamento a comportarsi nello stesso
modo. L'autore riprende queste idee (4,14-16), per mostra-
re in 5 ,1-3 nell'esempio del sommo sacerdote veterotesta-
mentario che si tratta realmente di una condizione fonda-
mentale per l'esercizio del sommo sacerdozio. Ma oltre a
180 Gesù sommo sacerdote al modo di Melchisedec

questa condizione (5,4) ce n'è un'altra, altrettanto impor-


tante: la vocazione divina, in contrapposizione ad ogni pre-
tesa umana di esercitare un ministero. Che anche questa se-
conda condizione sia soddisfatta in Gesù risulta da Ps. 2,7
e Ps. lI0,4(5,5-6). Quanto lontano fosse Gesù da ogni pre-
tesa arrogante all'esercizio del suo ministero lo prova il suo
comportamento nella passione; ma proprio attraverso ad es-
sa (cfr. 2,10) «fu reso perfetto» per diventare salvatore sa-
cerdotale, come lo conferma Ps. l lo A ( 5, 7- IO). La formula
«sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec», che si
trova in questo salmo, offre all'autore lo spunto per esporre
la superiorità del sommo sacerdozio di Gesù in confronto a
quello levitico nei capp. 7 ss.

4,14-16. Con un 'dunque', come se finora non avesse parlato


d'altro, l'autore si volge a ciò che ha detto in 2,17 s. su Ge-
sù il sommo sacerdote, per poi ripetere subito dopo anche
la conseguenza che ne aveva tratto in 3,r. Che al nome di Ge-
sù sia aggiunto 'Figlio di Dio' non è tanto per distinguerlo
dal Gesù nominato in 4,8 =Giosuè, figlio di Nun, quanto per
rafforzare il sentimento di venerazione per la sublimità di
questo sommo sacerdote, che proprio per questo è detto
'grande'. È nuova la notazione che egli è 'penetrato nei cie-
li'; allo stesso modo che il sommo sacerdote attraversa il
santuario per giungere al sancta sanctorum, così Gesù attra-
versa i cieli per giungere al trono di Dio, dove esercita il
suo ministero. Infatti la scena dell'azione sacerdotale di Ge-
sù è il cielo. Questa idea è molto importante per il nostro
autore (cfr. 6,20; 7,23-26; 8,1; 9,11; lo,12), perché essa
è un tratto essenziale della superiorità del sommo sacerdo-
zio di Gesù rispetto a quello levitico. Ma questa sublimi-
tà non intimidirà gli uomini? Egli non è troppo lontano
da noi? Il v. l 5 risponde a questa preoccupazione: possia-
mo star saldi in lui; nonostante la sua sublimità egli ci com-
prende, perché ha assunto sangue e carne (2,14) ed era e-
Hebr. 4,I4-5,Io 181

sposto a tutte le tentazioni a cui siamo esposti noi; natu-


ralmente con la sola eccezione che non cedette ad esse.
Questa osservazione di 4,15 sulle tentazioni subite da Gesù,
con l'espressione 'in tutto', va oltre l'allusione di 2,18; non
dobbiamo dunque pensare soltanto alle tipiche tentazioni
messianiche (cfr. Mt. 16,22 s.; 26,39-44). L'affermazione è
unica nel Nuovo Testamento; è vero che nei Vangeli non
mancano del tutto allusioni a tentazioni subite da Gesù an-
che dopo la scena della tentazione all'inizio della sua attività
pubblica (cfr. Le. 4,13: il diavolo si allontanò da Gesù «fì-
no ad un certo tempo»; Le. 22,28: siete rimasti con me «nelle
mie tentazioni»), ma non offrono propriamente un motivo
per immaginarci Gesù continuamente esposto a tentazioni.
Tanto più in rilievo appare il 'senza peccato', anche se non
è detto esplicitamente, come ovvio presupposto dell'essere
e dell'operare di Gesù (cfr. Mt. 3,14 s. e Mt. 19,16 con la
sua variante rispetto a Mc. 10,17). Già Is. 53,9 aveva par-
lato dell'assenza del peccato nel servo di Dio; che Gesù
avesse corrisposto a questa condizione era ferma credenza
di tutta la cristianità dei primi tempi. Era questa la base
della spiegazione della morte di Gesù in Paolo ( 2 Cor. 5 ,2 l ),
in I Petr. ( l,19; 2,22; 3,18), in Io. ( l,29; 8,46; I Io. 3,5) ,e
nella stessa Hebr. (7,26; 9,14). Dunque per il nostro autore
erano ugualmente importanti tanto l'assenza di peccato in
Gesù, a motivo dell'esercizio del suo servizio sacerdotale da-
vanti a Dio, quanto l'essere egli esposto alle tentazioni, a
motivo della sua affinità umana a noi. Questa seconda situa-
zione rafforza la fiducia nella sua volontà di salvezza. Am-
bedue ci consentono di accostarci con tanta maggiore confi-
denza a Dio, il cui trono - ora che il sommo sacerdote è
salito a lui - è un trono della grazia, nel quale riceviamo
un perdono misericordioso dei nostri peccati; una grazia che
ci dà un aiuto «finché c'è ancora tempo»; lo si può intendere
o nel senso dell"oggi' di 3,13 e 4,7 o di un rafforzamento
della nostra debolezza di fronte alle tentazioni, cfr. 2,18. A
182 Gesù sommo sacerdote al modo di Melchisedec

Cristo, dunque, siamo debitori della comunione con Dio.


Questo concorda interamente con quanto dice Rom. 5,1 s.:
per mezzo di Cristo abbiamo la pace con Dio e !"accesso'
alla grazia.

5,1-3.L'inizio del cap. 5 è stato inteso da molti come un rie-·


pilogo, come se i vv. l-4 volessero riassumere i diversi a-
spetti caratteristici del sommo sacerdote, la cui presenza in
Gesù verrebbe poi dimostrata ai vv. 5-10. Questo è esatto
per quel che riguarda la vocazione divina (v. 4). Ma nei vv.
l-3 tutto il peso grava sulla capacità di compatire del som-
mo sacerdote, della quale poi non si parla più (infatti il v. 7
non tratta affatto questa questione, ma esprime soltanto la
umana resistenza al dolore; viceversa la capacità di Gesù di
compatire è sottolineata in 4,15 con molta forza). Se 5,1 si
collega con un 'infatti' a 4,15, evidentemente è perché l'au-
tore ha sentito la necessità di giustificare la forte accentua-
zione da lui posta sulla capacità di Gesù di compatire; e lo
fa indicando in essa uno dei tratti essenziali del sommo sa-
cerdote veterotestamentario, che si deduce dalla sua origine
e dai suoi compiti. Egli deve presentare offerte incruente e
cruente per gli uomini (cioè per l'annullamento dei loro pec-
cati), quantunque anch'egli non sia che un uomo come loro,
'immerso' nella debolezza (nel senso di 4,15) come loro, e
perciò in grado di giudicare con comprensiva moderazione
coloro che peccano per ignoranza e per errore. La debolezza
appare proprio nel soggiacere della persona all'ignoranza ed
all'errore. Solo per i peccati involontari c'era il perdono (cfr.
Lev. 4,13; Num. 15,22-31; e al riguardo Act. 3,17). Ma per i
peccati «a mani levate», per il rifiuto del comandamento divi-
no, compiuto con chiara capacità di intendere e di volere, non
c'era alcuna possibilità di espiazione, ma soltanto lo stermi-
nio di Core; anche la Hebr. lo considera un caso incurabile
(cfr. 6,6; 10,26). Che il sommo sacerdote veterotestamen-
tario sia immerso nella debolezza lo conferma l'ordinamento
Hebr. 4,I4-5,ro

sacrificale dell'Antico Testamento, che lo chiama vittima im-


molata per i suoi peccati. Tutti i particolari esposti in questi
tre versetti sono in rapporto subordinato con il 'che possa
compatire' (v. 2), che perciò nella nostra traduzione abbiamo
messo in rilievo ('come uno'); a giusta ragione (dobbiamo
intendere) ciò è stato sottolineato con tanta forza in 4,15.
Soltanto di Gesù è detto: «senza peccato»; perciò egli non
doveva offrire sacrifici per sé (cfr. 7, 2 7).

4-10. Ma c'è una seconda condizione, anch'essa essenziale;


e l'autore passa a considerarla con un semplice 'e', analoga-
mente a quanto fa in 7,23 e 9,15. Questa seconda condi-
zione è, in contrapposizione ad ogni pretesa umana, la voca-
zione divina, come è confermato in Ex. 28,1 s. riguardo ad A-
ronne. Il diritto a compiere tale servizio davanti a Dio può
essere dato soltanto da Dio stesso. Che l'autore ora passi a
trattare di questo argomento, può essergli stato suggerito dal
fatto che Cristo non discende da Aronne. Si è forse arrogato
il diritto di compiere questo servizio? Contrariamente a
quanto fa con il tema della compassione, questa volta l'au-
tore dà la prova che Cristo soddisfa questa regola; è strano
però che, a conferma della vocazione divina di Gesù, egli si
richiami innanzi tutto a Ps. 2,7 (cfr. 1,5), che non parla
affatto di sacerdozio. Ma sembra che l'autore veda indi-
rettamente nel riconoscimento come 'Figlio' un conferi-
mento del sommo sacerdozio a Gesù: come tale, Gesù è fat-
to idoneo e chiamato ad esercitare questo ministero davanti
al trono di Dio. Nella successiva citazione di Ps. IIO, che
abbiamo già incontrato nel cap. l come salmo messianico,
questa vocazione divina trova espressione anche formale.
Benché sia vero che anche qui il Cristo non è chiamato pro-
prio sommo sacerdote, ma semplicemente sacerdote, tuttavia
questo sacerdozio è talmente speciale che l'anzidetta diffe-
renza può essere considerata senza importanza: infatti esso
esiste senza limiti temporali, e per la sua origine non è 'se-
I 84 Gesù sommo sacerdote al modo di Melchisedec

condo l'ordine' di Aronne, la cui dignità poteva essere tra-


sferita soltanto ai suoi discendenti; esso è al modo del mi-
sterioso re-sacerdote Melchisedec (Gen. 14,18) che, dato che
era re, se già sacerdote lo si può immaginare soltanto come
supremo 'sacerdote dell'altissimo Dio'. Che importanza ha
questo sacerdozio secondo 'l'ordine' o 'al modo' di Melchi-
sedec verrà spiegato diffusamente più avanti (cap. 7 ); per il
momento è sufficiente il fatto che Dio abbia chiamato così
Gesù. Con ciò è detto già che Gesù non ha estorto il posto
d'onore; il suo comportamento durante la sua esistenza ter-
rena dimostra, piuttosto, che egli si è opposto con la mas-
sima energia al conferimento di questa dignità. Infatti egli
elevò con tutti i segni della più profonda commozione (an-
che questo è una specie di sacrificio) le sue fervide preghiere
a colui che solo poteva salvarlo dalla morte, che pure aveva
deciso e doveva decidere di «renderlo perfetto attraverso
alle sofferenze,> ( 2, ro), cioè di condurlo al sommo sacerdo-
zio. Qui evidentemente si pensa alla scena del Gethsemani
(i termini 'gridare' e 'ascoltare' sono di Ps. 22,25). Se nei
racconti evangelici non si parla esplicitamente di 'alte gri-
da' e 'lacrime' di Gesù, questi tratti corrispondono all'idea
che ci si fa della scena, soprattutto a quella rappresentata in
Mc. 14,33. Essa mostra dunque quanto Gesù fosse lontano
dall'attribuirsi l"onore' del sommo sacerdozio, che compor-
tava il sacrificio; anzi, egli lo temeva, fu liberato dal timore
soltanto nella preghiera (Le. 22,43) e dovette imparare l'ob-
bedienza solamente 'dalle sofferenze'. Certamente egli era
'Figlio' e in quanto tale deciso ad obbedire; ma l'incarico
di diventare sacerdote era così gravoso che, nella lotta con
il dolore, dovette passo a passo 'imparare' l'obbedienza, con-
quistarla in ogni momento. Questo atteggiamento di obbe-
dienza giunse al suo culmine nella morte sulla croce. In tal
modo alla fine fu reso 'perfetto', espressione che non si rife-
risce alla sua perfezione morale e neppure alla sua elevazione
nella gloria, ma al fatto che soltanto per questa via poteva
Hebr. 5,rr-6,20

'giungere alla meta' di sommo sacerdote per tutti coloro che


lo obbediscono (l'autore nuovamente leva il dito ammoni-
tore), causa di eterna salvezza, come Dio stesso ha ricono-
sciuto in Ps. l I0,4. E così torniamo al tema iniziale, la cui
trattazione è per l'autore altrettanto difficile quanto impor-
tante. Per questo motivo, prima di affrontare finalmente il
tema, egli dedica ancora un brano ad un nuovo ammoni-
mento, fatto con la massima energia: 5,11-6,20.
Il brano testé trattato, specialmente 5 ,7 s., ha dato occa-
sione a discussioni sulla evo 1u zio ne mo r a 1e di G e s ù
secondo la Hebr. L'esegesi ha già rilevato che il termine
'perfezione' in 5 ,9 in ogni caso non va inteso come conclu-
sione di un'evoluzione 'morale-religiosa', al termine della
quale si consegue una personalità matura. Ma, anche se l'ob-
bedienza a Dio come tratto fondamentale del comportamen-
to di Gesù si incontra a sufficienza nel Nuovo Testamento
(cfr. specialmente Paolo: Phil. 2,8; Rom. 5,19; ma anche Io.
4,34; ro,18) e anche se Paolo sottolinea in modo particolare
l'obbedienza mantenuta nelle sofferenze della morte, in nes-
sun punto del Nuovo Testamento viene espresso con tanta
intensità come in Hebr. che anche per Gesù questo atteggia-
mento non è stato una cosa ovvia; che anzi la persistenza in
esso è stata possibile soltanto con una continua tensione mo-
rale. E mai, come qui all'infuori della scena del Gethsemani,
si sente con tanta forza quanto gli fu difficile rendersi dispo-
nibile al sacrificio, superando l'impulso naturale alla vita.

Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile ed esortazione a


sperare con piena fiducia ( 5,n-6,20)

11A questo riguardo avremmo molte cose da dirvi, ma difficili da


spiegarvi, perché siete diventati tardi a capire. 12 Infatti, mentre con
il tempo avreste dovuto diventare dei maestri, avete bisogno che vi
si insegnino di nuovo i primi elementi delle parole di Dio, e siete
giunti al punto di avere bisogno di latte e non di cibi solidi. 13 E
186 Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile

chi è ancora al latte non può ancora capire nulla del parlare nor-
male, perché è un bambino. 14 I cibi solidi, invece, sono per coloro
che sono maturi e, per l'abitudine, hanno i sensi esercitati a discer-
nere il buono dal cattivo. 1 Perciò, lasciando da parte la dottrina ele-
mentare su Cristo, tendiamo a ciò che è maturo, senza tornare sul-
l'insegnamento fondamentale del pentimento dalle opere morte e
della fede in Dio, 2 della dottrina sui battesimi, dell'imposizione delle
mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno. 3 E lo fare-
mo, se Dio lo permetterà. 4 Infatti è impossibile che coloro che sono
stati illuminati una volta, che hanno pure gustato il dono celeste e
sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo, 5 che hanno assaporato
la buona parola di Dio e le forze del mondo venturo, 6 e che tuttavia
sono caduti, siano rinnovati un'altra volta a penitenza, giacché cro-
cifiggono di nuovo per conto loro ed espongono al ludibrio il Figlio
di Dio. 7 Infatti la terra che beve l'acqua che cade spesso su di
essa e che produce piante utili a coloro per i quali è coltivata, partecipa
della benedizione di Dio; 8 ma quella che dà 'spine e rovi' è riprovata
e prossima a essere 'maledetta', e la sua fine è il fuoco. 9 Quanto a
voi, carissimi, anche se vi parliamo cosi, confidiamo che le cose va-
dano meglio e che siate più prossimi alla salvezza. 10 Infatti Dio non
è ingiusto, da dimenticarsi dell'opera vostra e dell'amore di cui avete
dato prova verso il suo nome, voi che avete servito e servite i santi.
11 Ma desideriamo ardentemente che ognuno di voi mostri la stessa

sollecitudine per il pieno compimento della speranza fino alla fine,


12 per non diventare pigri, ma imitatori di coloro che con la fede

e la perseveranza ereditano le promesse. 13 Poiché quando Dio fece


la promessa ad Abramo, non avendo nessuno più grande (di lui) per
cui giurare, «giurò per se stesso» 14 dicendo: «certamente io ti col-
merò di benedizione e ti moltiplicherò», 15 e così, avendo atteso pa-
zientemente, ha ottenuto il compimento della promessa. 16 Gli uomini
giurano per uno più grande di loro, e la garanzia del giuramento
pone fine ad ogni controversia fra di loro. 17 Perciò Dio, volendo
mostrare agli eredi della promessa l'immutabilità della sua decisione,
s'impegnò con giuramento, 18 affinché con due realtà immutabili, nelle
quali è impossibile che Dio menta, abbiamo un forte incoraggia-
mento, noi che abbiamo trovato il nostro rifugio nell'afferrarci alla
speranza che ci è offerta. 19 In essa abbiamo come un'ancora dell' a-
nima, sicura e ferma, e che «penetra all'interno del velo», 20 dove è
entrato per noi come precursore Gesù, diventato «in eterno» sommo
sacerdote «secondo l'ordine di Melchisedec».

Le due parti in cui si divide questo brano di prassi pasto-


Hebr. 5,n-6,20

rale hanno un tono totalmente diverso l'una dall'altra. La


prima (5,II-6,8) è piena di accuse e termina con la minaccia
di un giudizio severo; la seconda ( 6,9-20) si rinfranca in una
gioiosa e fiduciosa speranza. Le accuse sono dovute all'im-
maturità spirituale in cui i lettori si sono venuti a trovare
per loro colpa, e che potrebbe far dubitare se possa servire
a qualcosa la spiegazione di ciò che significa il sommo sa-
cerdozio di Gesù secondo l'ordine di Melchisedec ( 5, l r -I4).
Ma - ne consegue l'autore - proprio perché si tratta di una
condizione, della quale i destinatari della Lettera hanno la
colpa, vale la pena di cercare di portarli attraverso alle ve-
rità elementari ad una conoscenza matura? ( 6, r. 3 ). Oppure
questo ammonimento è già inutile? Perché se uno, nono-
stante la grazia che gli è stata data, cade, non c'è più nulla
da fare; è entrato nelle file dei nemici di Cristo ( 6,4-8 ). Tut-
tavia l'autore nutre fiducia che questa caduta irreparabile
per i lettori non sia avvenuta, né avverrà; la giustizia di Dio
non lo consentirà, in considerazione della zelo di carità, di
cui hanno dato prova (vv. 9.10). Ma ora allo zelo di carità
si deve aggiungere in pari misura un'incrollabile speranza
(vv. lr.12). Ciò dovrebbe essere possibile tanto più facil-
mente in quanto abbiamo in Abramo un provato modello,
il massimo appoggio nella parola e nel giuramento di Dio,
ed in Gesù un precursore che è un efficace sommo sacerdote
per noi nel luogo celeste della compiuta speranza ( vv. l 3-20 ).

5,u-6,8. Ora che è giunto al tema principale della Lettera,


l'autore è incerto se debba, o meno, cominciarne la tratta-
zione. Essa non si può esaurire con poche frasi, e lo dimo-
strerà dedicandole poi tre capitoli e mezzo (7,1-10,18). I-
noltre si domanda se riuscirà a spiegare quello che intende
dire. Il compito appare difficile; però per lui la difficoltà
non consiste tanto nei concetti da spiegare quanto nella con-
dizione dei lettori, che piuttosto bruscamente chiama spiri-
tualmente tardi a capire. Non sempre lo erano stati, ma lo
188 Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile

sono diventati dopo, e ciò aggrava l'accusa loro rivolta. Già


3,7 ss. prova che per loro era già passato troppo tempo sen-
za che si compisse la salvezza; sono delusi, e perciò diven-
tano indifferenti e sordi. Questo appare specialmente nella
discussione del significato della passione e della morte di
Gesù, che per loro è motivo di scandalo ( cfr. 2, ro ss.). Ma
non è una situazione naturale; già da tempo sono cristiani
e dovrebbero aver progredito al punto da poter insegnare
ad altri. Questa pretesa dell'autore va molto al di là della
capacità (di cui parla I Petr. 3,15; cfr. Col. 4,6) di dare in
ogni momento spiegazioni sul fondamento della speranza dei
cristiani. Forse la Lettera è diretta ad un gruppo ristretto in
una comunità locale, cui si potrebbero avanzare maggiori
esigenze? Ma l'autore poteva anche, in uno scritto indiriz-
zato a tutta quanta la comunità, parlare a questo modo, se
aveva in mente soprattutto il gruppo di persone chiamate a
dirigere la comunità. Comunque sia, i lettori deludono, per-
ché non hanno fatto alcun progresso spirituale; sono come
dei principianti nel campo delle conoscenze cristiane, ai quali
si debbano dare le nozioni più elementari, elencate in 6,1 s.
Peggio ancora, sono ritornati poppanti, ai quali si può dare
soltanto latte facilmente digeribile, perché non possono sop-
portare un'alimentazione solida. Anche nei vv. 13 s. l'autore
ripete l'immagine, allora corrente, ma (dato che si tratta di
insegnamenti) alla figura del cibo nel v. l 3 sostituisce quella
della dottrina (o linguaggio), in quanto ritiene i lettori inca-
paci di fare 'discorsi normali', come quelli che usano fare
gli adulti e li considera incapaci a capire come i bambini.
L'espressione che abbiamo tradotto con 'parlare normale'
nella traduzione di Lutero è resa alla lettera con 'parola della
giustizia'. Alcuni esegeti la interpretano nel senso del van-
gelo, dato che questo (tanto più secondo Paolo) tratta della
giustizia. Ma se l'autore chiama i lettori principianti e bam-
bini, non può voler loro attribuire la capacità di compren-
dere il vangelo, come Paolo in I Cor. 3,1 ss. la nega ai Corinti.
Hebr. 5,n-6,20

Egli vuol dire soltanto che fa loro difetto la capacità ad una


comprensione più profonda, come quella che debbono avere
gli adulti (v. 14), intendendo parlare della dottrina del som-
mo sacerdozio di Cristo. Essa viene paragonata al linguaggio
degli adulti, al 'parlare normale', in contrapposizione al bal-
bettio dei bambini piccoli; oppure, tornando all'immagine
del cibo, all'alimentazione solida degli adulti. Perché essa la
si può dare a questi, e soltanto a questi, lo dice il v. qb.
Cibi solidi ce ne sono molti, e non tutti hanno lo stesso va-
lore nutritivo o fanno bene alla salute; chi fa uso di essi de-
ve fare una scelta, cui servono i sensi, che però hanno biso-
gno di essere tenuti in esercizio; e questo si può avere sol-
tanto quando si è raggiunta l'età necessaria, cioè quando si
è 'adulti'. Così si sposta sensibilmente l'idea che dominava
:fin qui il paragone tra la dottrina più profonda e il nutri-
mento con cibi solidi; finora infatti si trattava della difficile
digeribilità di ogni cibo solido, ora invece si dice che oltre
al nutrimento adatto ce n'è anche di quello nocivo, addi-
rittura di velenoso. Fuori metafora ciò significherebbe: ol-
tre agli insegnamenti che fanno progredire gli uomini che
sono giunti alla maturità spirituale, ci sono anche le dottri-
ne eretiche; dunque state bene attenti! Ma questa è mani-
festamente un'idea che nasce spontaneamente dall'immagi-
ne generale, e che non è più discussa, quantunque in 1 3 ,9
si metta in guardia da dottrine non autentiche. Da lungo
tempo i lettori dovrebbero essere diventati persone adulte,
che sopportano l'alimentazione solida di un insegnamento
approfondito. Secondo il tempo che è trascorso, lo sono; ma
non lo sono sotto l'aspetto del loro sviluppo spirituale. La
conseguenza che ne trae l'autore è sorprendente. Infatti, in-
vece di tener conto del bisogno accertato in 5,12, egli dichia-
ra di voler fare 'perciò' proprio il contrario. 'Perciò', perché
per loro colpa non sono ancora pervenuti alla maturità spiri-
tuale, egli li esorta a camminare insieme a lui verso questa
meta; infatti, abbandonando la forma rude del rimprovero
Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile

in 5, l l- l 4, ora egli include anche se stesso fra coloro che


sono oggetto dell'esortazione (cfr. 2,1; 3,6; 4,n-16). Non
lascia ancora cadere del tutto l'immagine della contrapposi-
zione tra bambini e adulti, che riecheggia nell'espressione
'maturità' (solitamente tradotta: 'perfezione'); ma nella pa-
rola 'tendiamo' appaiono chiari i limiti che ora sono posti
all'immagine. Infatti, il fatto di maturare nella natura è con-
dizionato solo organicamente, e non anche moralmente; nel-
la vita personale, e specialmente in quella religiosa, non v'è
maturazione senza una decisione personale, cioè morale. La
crescita religiosa non è una cosa naturale; donde l'esortazio-
ne della Lettera. Per 'maturità' si può intendere secondo il
contesto soltanto la matura conoscenza della verità più pro-
fonda, quale si conviene ad 'adulti', e soprattutto la dottrina
del sommo sacerdozio di Cristo. In contrapposizione ad essa
la Lettera enumera le verità elementari, che sono dette con
una nuova immagine le fondamenta di un edificio, sulle quali
finalmente si può iniziare la costruzione. Questo fondamento
è costituito da tre gruppi di due verità ciascuno; le prime
due definiscono in senso positivo e negativo il nuovo atteg-
giamento interiore dell'uomo; le seconde (battesimo e impo-
sizione delle mani) l'avvenimento esteriore con il quale si
diventa membri della comunità; le ultime il punto finale
escatologico della vita cristiana. L'espressione 'opere morte'
non va intesa nel senso della esteriore giustificazione per le
opere; anche il giudeo diventato cristiano, nella peniten-
za non doveva allontanarsi soltanto da esse. In 9,14 la
stessa espressione significa genericamente i peccati dai quali
dev'essere purificata la coscienza. In 4Bsdr. 7,119 si parla di
'opere della morte' con lo stesso significato. Tutta l'opera
dell'uomo è peccatrice, lontana dal 'Dio vivo' e perciò è mor-
ta e porta alla morte. 'La dottrina dei battesimi' (al plurale)
dovrebbe mettere in rilievo la differenza esistente tra vari
battesimi, forse tra quello cristiano e iI battesimo giudaico
dei proseliti ed usanze simili in altri culti. L'espressione 'im-
Hebr. 5,rr-6,20

posizione delle mani' nel testo ongmario grammaticalmen-


te è strettamente unita al battesimo, per cui non si deve pen-
sare all'imposizione delle mani nell' 'ordinazione' (I Tim.
4,r4; 5,22; Act. 6,6; r3,3) o nelle guarigioni (Act. 9,I2),
ma a quella che veniva fatta durante il battesimo (Act. 19,5
s.; 8,18). L'autore della Lettera sembra presupporre nei nuo-
vi ammessi alla comunità una solida conoscenza dei principi
elementari, fra i quali sopratutto i sei qui elencati. Certa-
mente è strano che in questa elencazione non si parli affatto
di Cristo; ma poiché ciò è naturalmente inammissibile, si
deve dedurne che l'elemento specificamente 'cristiano' è im-
plicito in tutti e sei i punti elencati. Perciò questa enumera-
zione non esclude affatto la possibilità che i destinatari della
Lettera provenissero dal giudaismo; è vero che i giudei sa-
pevano della fede in Dio, della risurrezione e del giudizio;
ma anch'essi, come i pagani, quando diventavano cristiani,
avevano bisogno di essere istruiti anche su queste questioni,
perché ognuna di esse, dal punto di vista cristiano, assumeva
un volto totalmente nuovo. Si rende più facile la compren-
sione del v. 3 se si mette tra parentesi tutto quanto va da
«tendiamo a ciò che è ma turo» al v. l fino alla fine del v. 2 .
La possibilità per l'autore di giungere insieme ai suoi lettori
alla maturità della conoscenza più profonda della verità non
dipende dal suo e loro proposito, ma soltanto «se Dio lo per-
mette». Il fatto che il maestro e pastore, come la comunità
alla quale si rivolge, abbia presente questo condizionamento
del risultato della sua opera, non diminuisce la coscienza della
sua responsabilità, ma al contrario la accresce. Questo per-
messo di Dio non è così ovvio come si potrebbe pensare; è
sperabile che la sua pazienza non si sia ancora esaurita;
è sperabile che si sia ancora in tempo. È troppo tardi se
si è già caduti, nonostante la ricchezza spirituale ricevu-
ta. I vv. 4 s. hanno lo scopo di descrivere questa ricchez-
za. Con l' 'illuminazione' non si deve pensare genericamen-
te (si dica lo stesso di ro,32) alla conoscenza cristiana
r92 Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile

della salvezza (cfr. 2 Cor. 4,6; Eph. r,r8; I Petr. 2,9), ma ad


un avvenimento irripetibile che era stato particolarmente im-
portante per questa conoscenza, cioè al battesimo, per espri-
mere il quale l'espressione 'illuminazione' diventò ben pre-
sto usuale (si veda per la prima volta in Giustino); a ciò si
adatta bene l'accenno, che viene subito dopo, al ricevimento
del 'dono celeste' dello Spirito Santo, che secondo gli Atti
degli Apostoli avveniva regolarmente durante il battesimo.
I cristiani ricevono la prima caparra del futuro mondo cele-
ste (cfr. Rom. 8,23; 2 Cor. r,22; 5,5; Eph. r,14); di questi
doni celesti fanno parte anche le forze miracolose operanti
nella comunità (cfr. 2 A), per così dire i segni precursori del
mondo futuro in quello attuale. La 'buona parola di Dio' è
il messaggio salvifico del vangelo, che essi assaporano, insie-
me a tutte le 'forze' che accompagnano la predicazione, come
un cibo gustoso e nutriente. Per chi distoglie lo sguardo da do-
ni tanto ricchi dimostrando di non apprezzarli, non c'è nulla
da fare. Non v'è nulla di più alto che potesse essergli offerto;
come si potrebbe dunque indurlo a pentirsi? Ciò è tanto meno
possibile in quanto con il proprio comportamento esprime la
convinzione che il Figlio di Dio sia stato giustamente appeso
alla vergogna della croce. Egli prende partito per gli uccisori
di Gesù. Quale fine lo aspetti lo dice il paragone con il cam-
po che, per quanto sia stato coltivato e abbia ricevuto la
pioggia, dà soltanto spine e cardi: la fine è il fuoco del giu-
dizio. Questo soltanto è il punto di paragone. Invece passa
inosservato il fatto che ad essere buttato 'nel fuoco' non sia
il campo bagnato dalla pioggia, ma l'inutile sterpaglia che è
cresciuta su di esso. Ma non bisogna far troppo caso a que-
sta discordanza; in generale immagini simili non si possono
interpretare fin nei particolari. Ciò che l'autore vuol dire è
che il dono divino che resta senza frutti, che anzi produce
soltanto erbe spinose, si cambia in maledizione. I cristiani
che cadono sono perduti. (Nell'espressione «coloro per i qua-
li è coltivata» si vede a quali situazioni agrarie pensi l'au-
Hebr. 5,n-6,20 193

tore: economia latifondista con impiego di masse di schiavi).


Per una retta comprensione di questo passo tanto discus-
so sulla caduta irreparabile, è necessario notare prima di tut-
to che esso non parla di singoli peccati particolarmente gravi
come i cosiddetti peccati mortali della teologia medievale,
per i quali la disciplina della chiesa indica la via della peni-
tenza. Non si tratta qui di 'cadere' in singoli peccati, ma del-
la caduta vera e propria, della rinuncia a credere e a com-
portarsi di conseguenza (con questo non si nega che tale ca-
duta possa manifestarsi nel comportamento anche di fronte
a questioni singole, cfr. I Io. 5,16 e comm. a Hebr. ro,26
r2,r6). Questo è il pericolo che corrono i lettori, al quale si
oppone tutta la Lettera; anche I Tim. r, r 9 parla di un nau-
fragio nella fede. Cfr. le vergini stolte di Mt. 25,r-r2. C'è an-
cora modo di tornare indietro? L'autore della Lettera non lo
crede, non solo per motivi psicologici ma anche per motivi
teologici. L'incapacità soggettiva a una nuova penitenza è
un'impossibilità oggettiva della stessa. In essa si compie un
giudizio divino ( cfr. Rom. 9 ). Questa è l'ultima conseguen-
za dell'abbandonarsi ad una ottusa indifferenza. Colpa e giu-
dizio si includono a vicenda e del resto non sono separabili
nel peccato umano, cfr. Rom. r. Ma proprio da questo sguar-
do nell'abisso l'ammonimento dell'autore riceve il carattere
di un'estrema, conturbante severità. E proprio questo è il suo
scopo. Il passo non ha a che fare con persone agitate da preoc-
cupazioni sul loro destino salvifico, piuttosto mira ad argina-
re l'ottusità religiosa e la propensione a sottrarsi ad una chia-
ra e ferma decisione riguardo all'esortazione che ora viene
fatta, bisogna mettere un freno!

9-20. Adesso il tono cambia, 'Carissimi' l'autore chiama i let-


tori, per la prima e l'ultima volta in tutta la Lettera. È l'ansie-
tà dell'amore pastorale (dr. r3,r7) che lo ha indotto ad addi-
tare con tanta severità l'enormità del pericolo che corrono.
Egli ha voluto infondere loro un salutare spavento. Ma egli è
194 Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile

ancora fiducioso che le cose vadano meglio con essi, cioè la be-
nedizione secondo il v. 7 e non la maledizione secondo il v. 8.
Ma questa fiducia non si basa sulla loro capacità di resistenza
(che si sa disgraziatamente fin troppo debole), ma sulla giusti-
zia di Dio. L'autore sa che essi con i fatti hanno dato prova di
amore verso il nome di Dio, servendo i santi che sono di Dio,
cioè i cristiani, e che continuano a farlo. Un esempio di tale
servizio è la colletta di Paolo per i 'santi' di Gerusalemme
(Rom. 15,31); ma questo è soltanto un esempio e di che co-
sa qui si tratti non lo sappiamo. L'accento posto sul fatto
che il servizio di amore è stato compiuto verso il nome di Dio
sta forse ad indicare che i cristiani oggetto di tale servizio si
trovavano in difficoltà a causa della loro confessione di Dio,
cioè erano perseguitati per tale motivo. In ogni caso dev'es-
sersi trattato di prestazioni particolarmente notevoli (che una
comunità così povera come quella di Gerusalemme non sa-
rebbe stata in grado di offrire). Dio non lo può dimenticare.
Ciò non va inteso nel senso comune di 'ricompensa'; la 'ricom-
pensa' consiste nel fatto che egli non permette che essi si gua-
stino nel pericolo dell'apostasia. Se guardasse soltanto alla
fiacchezza della loro fede e della loro speranza, sarebbe peggio;
ma essi sono zelanti delle opere di amore, e Dio vuole venire
in loro aiuto. Ciò non ha niente a che fare con la giustificazio-
ne per le opere; ma c'è qualcosa di consolante nell'idea gene-
rosa che Dio, anche quando la fede e la speranza sono fiacche,
attribuisce tanto valore all'esercizio della carità da non ab-
bandonare gli uomini al loro destino (cfr. I Petr. 4,8; I Io.
3,18 s.). Tuttavia questa condizione è sempre imperfetta e
non può durare a lungo. Donde l'esigenza che ogni membro
della comunità, e non soltanto alcuni di essi, con lo stesso
zelo di cui danno prova nelle opere di carità si abbandonino
alla gioiosa confidenza della speranza. E questa non dev'es-
sere un passeggero impulso sentimentale, ma dev'essere con-
tinua fino alla fine. Se essi non compiono questo sforzo, fini-
ranno per cadere in uno stato di ottusità dello spirito, che li
Hebr. 5,n-6,20 195

porterà alla rovina. Pensate soltanto agli esempi dell'Antico


Testamento che mostrano come solo con la fede e la pa-
zienza (questi due concetti per Hebr. sono inseparabili
da quello di speranza), ma con esse realmente, 'ereditate la
promessa', cioè diventate partecipi del suo adempimento. Il
più famoso di questi modelli è Abramo. Il v. 15 prova che
egli è citato a conferma della verità del v. 12. La promessa
è quella di Gen. 12,1 s.; 15,5; 22,16 s. secondo cui Abra-
mo, benedetto da Dio, deve essere il capostipite di un gran-
de popolo. Passò molto tempo prima che ciò avvenisse, e
anche quando finalmente gli nacque Isacco non era stata sod-
disfatta che la prima condizione della promessa. Ma infine
egli ne ottenne il totale adempimento: Israele diventò un
grande popolo, non durante i suoi giorni trascorsi sulla ter-
ra, è vero, ma egli è presso Dio e vede ciò che avviene sulla
terra (cfr. Io. 8,56; Le. 16,22). Ma nel momento in cui no-
mina Abramo, l'autore si ricorda di una particolare circo-
stanza che rese possibile la perseveranza di Abramo: il giu-
ramento con il quale Dio, dopo l'offerta sacrificale di Isacco,
confermò la promessa già fattagli precedentemente (Gen.
22,16 s.). I versetti seguenti si soffermano su questa circo-
stanza, per spiegarla mediante l'analogia dei rapporti uma-
ni. Il senso del giuramento (nel quale, contrariamente a
Iac. 5,12, l'autore chiaramente non vede motivo di scan-
dalo) è il ricorso ad una, o meglio alla più alta potenza, cioè
Dio, quale garante dell'affermazione umana. Su questo pun-
to l'analogia non è del tutto esatta, poiché non c'è una potenza
più alta di Dio; tuttavia l'analogia vale nella misura in cui an-
ch'egli si serve del giuramento a garanzia della sua parola,
cioè della promessa. Quasi inavvertitamente, ma perciò tan-
to più significativamente per il modo con cui è utilizzata la
Scrittura, con l'espressione 'agli eredi della promessa' (cioè
la promessa della benedizione del popolo fatta ad Abramo),
in tutta la frase è sottinteso un significato cristiano. Perché
questi 'eredi' siamo 'noi', i cristiani, e la promessa è equipara-
19 6 Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile

ta alla 'speranza che ci è offerta': quella speranza nella quale i


cristiani si devono rifugiare, dopo aver rinunciato a ogni al-
tra cosa. Lo scopo di darci un 'forte incoraggiamento' facen-
doci balenare davanti agli occhi il bene di questa speranza,
Dio poteva conseguirlo tanto più sicuramente in quanto a-
desso questa assicurazione poggiava su un duplice fondamen-
to: quello della promessa (Gen. 12,1 s.; 15,5) e quello del
giuramento (Gen. 2 2) (a prescindere dal fatto che a propo-
sito di Dio non si può parlare né di menzogna né di viola-
zione alla parola data, Num. 23,19). La particolare insisten-
za sulle 'due cose' dovrebbe ricollegarsi alla disposizione che
esigeva come minimo due testimoni per dare credibilità ad
una deposizione resa in giudizio (Deut. 19,15, cfr. Mt. 18,
l 6; 2 Cor. l 3 ,1; I Tim. 5 ,19 ). Certamente anche questa è
una dimostrazione che per molti aspetti ricorda Filone di
Alessandria, e ha in sé qualcosa del metodo seguito dai rab-
bini e dagli scribi, perché in ultima analisi tutto è fondato
sulla veracità, o fedeltà alla parola data, di Dio. Ma questa
speranza garantita da Dio, in cui il cristiano confida, ha per
la sua anima la stessa importanza che ha un'ancora sicu-
ra per la nave minacciata da onde tempestose: non si strap-
pa, la corrente non la trascina; essa affonda in un terreno
inaccessibile a tutte le tempeste. Anche se la difficoltà e le
tempeste della vita possono sballottare qua e là la navicella
dell'anima, non possono però averne ragione. Essa, infatti,
è 'ancorata' all'interno del velo. L'autore a questo punto ab-
bandona questa immagine icastica, nota anche alla letteratu-
ra antica non cristiana e fatta propria dal simbolismo cristia-
no, per volgersi con un ardito passaggio ad un altro ordine
di idee, che gli consente di riprendere il tema del sommo sa-
cerdozio di Gesù. Il santo dei santi di cui parla, è il cielo;
là, dietro al velo, è entrato Gesù, e non lo si vede più. Ma
al di là del velo egli esercita il suo ministero per noi, come
il sommo sacerdote giudaico nel santo dei santi dell'arca del-
l'alleanza, come dice Ps. l I0,4 «secondo l'ordine di Melchi-
Hebr. 5,n-6,20 197
sedec». Però, definendo Gesù anche come il nostro 'precur-
sore', l'autore va già oltre le idee cultuali veterotestamen-
tarie; infatti a nessun israelita sarebbe potuta venire l'idea
di seguire il sommo sacerdote fin nel santo dei santi. Invece,
l'effetto del servizio sacerdotale di Cristo è proprio che an-
che 'noi' possiamo entrare nel santuario celeste, nella comu-
nione di Dio.
PARTE SECONDA

ESPOSIZIONE
( 7,r-rn,18)

La superiorità della posizione di Gesù come sommo sacerdote «se-


condo l'ordine di Melchisedec» in confronto al sacerdozio levitico
( 7,r-28)
1 Infatti questo «Melchisedec, re di Salem, sacerdote del Dio Altis-
simo, andò incontro ad Abramo, che tornava dalla sconfitta dei re,
e lo benedì». 2 E Abramo gli diede «la decima parte di tutto» (quello
che aveva preso come bottino). Se si traduce il suo nome, anzitutto
egli è re della giustizia, ma poi anche «te di Salem», cioè re del-
la pace. 3 Senza padre, senza madre, senza genealogia, senza prin-
cipio dei suoi giorni come pure senza fine della sua vita, assimilato
al figlio di Dio, egli rimane sacerdote in eterno. 4 Considerate dun-
que come è grande costui al quale «il patriarca Abramo diede la
decima parte del meglio del bottino». 5 Certamente anche quelli fra
i discendenti di Levi che assumono il sacerdozio, hanno l'ordine
secondo la legge di riscuotere la decima dal popolo, cioè dai loro
fratelli, quantunque anche questi siano usciti dai lombi di Abra-
mo. 6 Ma quegli, che secondo la genealogia non è dei loro, ha riscosso
la decima da Abramo e ha benedetto colui che aveva la promessa.
7 Ora, nessuno dubita che è l'inferiore ad essere benedetto dal supe-

riore. 8 Inoltre, qui sono uomini mortali che ricevono la decima, là


invece uno di cui si attesta che vive. 9 E anche Levi, che riceve la de-
cima, è stato per così dire sottoposto alla decima nella persona di
Abramo; 10 infatti era ancora nei lombi del suo antenato quando
«Melchisedec gli andò incontro».
11 Se dunque ci fosse stata la perfezione nel sacerdozio levitico (per-

ché per questo scopo il popolo ha ricevuto la legge), che bisogno


c'era che si oresentasse un altro sacerdote «secondo l'ordine di Mel-
chisedec», e· che non fosse detto secondo l'ordine di Aronne? 12 (Di
fatto, mutato il sacerdozio, è necessario che ci sia anche un muta-
mento di legge. 13 Poiché colui al quale si riferiscono queste parole
[Ps. II0,4] è di un'altra tribù, di cui nessun membro ha mai servito
Hebr. 7,I-28 199
all'altare. È noto infatti che nostro Signore discende da Giuda,
14

tribù di cui Mosè non ha detto nulla parlando di sacerdoti. 15 E ciò


diventa ancora più evidente se, a somiglianza di Mekhisedec, viene
costituito un altro sacerdote 16 che non lo è diventato secondo la legge
di una prescrizione (di discendenza) carnale ma secondo la forza di una
vita indistruttibile. 17 Di fatto di lui si attesta: «Tu sei sacerdote in
eterno, secondo l'ordine di Melchisedec». 18 Perciò da un lato è abro-
gata la precedente prescrizione per la sua debolezza e inutilità - 19 per-
ché la legge non ha portato nulla a perfezione - e dall'altro è intro-
dotta una speranza migliore, per la quale ci avviciniamo a Dio.
20 E poiché ciò non è avvenuto senza giuramento - gli altri infatti so-

no divenuti sacerdoti senza giuramento, 21 ma questi con giuramento


da parte di colui che gli dice: «Il Signore ha giurato e non se ne
pentirà: tu sei sacerdote in eterno» - 22 proprio per questo Gesù è
divenuto garante di una alleanza migliore. 23 Inoltre gli altri sono
divenuti sacerdoti in gran numero perché la morte impediva loro
di durare (in carica); 24 ma questi, poiché resta in eterno, ha un sa-
cerdozio imperituro (che non si trasmette mai ad un altro). 25 Perciò
può anche salvare per sempre coloro che per mezzo di lui avanzano
verso Dio, perché è per sempre vivente per intercedere per essi.
26 Tale infatti è il sommo sacerdote che ci voleva per noi, santo,
innocente, immacolato, separato dai peccatori ed innalzato al di so-
pra dei cieli, 27 che non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di of-
frire ogni giorno sacrifici, prima per le sue colpe e poi per quelle
del popolo; questo egli lo ha fatto una volta per tutte offrendo se
stesso. 28 La legge infatti costituisce sacerdoti uomini soggetti alla
debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla legge, costi-
tuisce il Figlio, che è perfetto in eterno.

Contenuto e articolazione del brano. Nel cap. 7 l'autore si


serve del concetto di sommo sacerdozio secondo l'ordine di
Melchisedec, sul quale era ritornato in 6,20, per dimostrare
l'incomparabile superiorità della posizione di Gesù come
sommo sacerdote sul sacerdozio levitico dell'ordinamento
cultuale veterotestamentario. Più oltre non va il significato
del riferimento a Melchisedec, di cui il cap. 7 non si occu-
perà più. Più tardi il movimento gnostico si è impadronito
anche di questa figura; ma l'influenza di vere e proprie spe-
culazioni gnostiche sulla Lettera agli Ebrei, che non è asso-
lutamente gnostica in tutta la sua problematica religiosa, è
200 La superiorità della posizionè sacerdotale di Gesù

per il momento troppo improbabile perché si possa servir-


sene a fini esegetici. La Lettera utilizza soltanto il testo bi-
blico, e l'intera dimostrazione si basa su Ps. l I0,4 e sul rife-
rimento a Gesù del passo, interpretato in senso messianico
(cfr. sopra a l,3): la vocazione di Gesù a sommo sacerdote
secondo l'ordine di Melchisedec da parte di Dio ha luogo nel
passo del salmo. Ciò non è dimostrato, è dato per ammesso
dall'autore. Con l'assoluta sicurezza della sua convinzione
cristiana l'autore, qui come dappertutto, mette al suo servi-
zio l'Antico Testamento; inoltre, la dimostrazione data in
questo brano, come in quelli che seguono, poggia interamen-
te sulla vitalità della concezione veterotestamentaria del sa-
cerdote. Che cosa significhi in confronto ad essa il sommo
sacerdozio secondo l'ordine di Melchisedec è l'oggetto del cap.
7; a tal fine l'autore inizia con l'enumerazione di quei tratti
che gli sembrano degni di nota nel racconto di Gen.14,17-20
su Melchisedec, dove quello che è taciuto è per Lui altret-
tanto importante di ciò che vi è detto (vv. l-3). Quindi egli
passa ad esporre ciò che se ne deve dedurre sulla grandezza
della posizione di questo enigmatico re-sacerdote in confronto
al sacerdozio della tribù di Levi ( vv. 4-ro ). Finora si era par-
lato soltanto dello stesso Melchisedec; ora l'autore volge la
sua attenzione al significato della vocazione di Gesù a som-
mo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec. Se infatti (co-
me è avvenuto) in Ps. ll0,4 è costituito un altro sacerdote
secondo l'ordine di Melchisedec, è implicito in questo fatto
un giudizio negativo, ma fin troppo giustificato, del sacerdo-
zio levitico e, nel contempo, dell'intero ordinamento della
legge veterotestamentaria che si basava su tale sacerdozio,
giacché il nuovo sacerdote costituito da Dio è del tutto estra-
neo a quell'ordinamento (vv. 11-19). La superiorità del nuo-
vo sacerdote appare positivamente nel fatto che, grazie al
giuramento con cui fu costituito secondo Ps. II0,4, egli è ga-
rante di un nuovo patto, più saldo (vv. 20-22), e che esercita
il suo ministero non per un breve periodo di tempo, come
Hebr. 7,r-28 20I

quei sacerdoti mortali, ma in eterno (vv. 23-25). Ma proprio


per questo egli prova la sua attitudine ad essere quel sommo
sacerdote di cui noi abbiamo bisogno (vv. 26-28).

r-ro. Il re-sacerdote Melchisedec. Le notizie riguardanti Mel-


chisedec provengono da Gen. 14, dove si racconta come A-
bramo abbia salvato con un colpo di mano suo nipote Lot
dalla violenza di Chedorlaomer, re di Elam, e dei suoi al-
leati. Questo capitolo ha suggerito agli esegeti dell'Antico
Testamento di avanzare le ipotesi più contradditorie, ma
ciò non ha alcuna importanza ai fini della comprensione
di Hebr. Essa infatti si basa semplicemente sul racconto
veterotestamentario, trattato secondo le regole esegetiche
dc;rlla teologia giudeo-alessandrina, di cui Filone è il rap-
presentante più significativo. Ciò appare in particolare dal-
l'interpretazione linguistica dei nomi e dall'approfittare del-
la circostanza che nel racconto biblico mancano dati sicuri.
L'autore trova giustificato questo procedimento esegetico a
motivo del genere particolare del suo concetto di ispirazione
che riconduce tutto quanto contenuto nella Scrittura il più
possibile direttamente all'intenzione di Dio, ed alla stessa for-
ma che egli vi ha impressa. Partendo da questo concetto, non
solo ogni particolare contenuto nel testo doveva avere il suo
significato nascosto, ma anche la mancanza di certe notizie,
che di per sé ci si potrebbe attendere, doveva essere voluta
intenzionalmente. I principi così esposti sono derivati solo
apparentemente dall'Antico Testamento, perché il loro ele-
mento fondamentale è la convinzione cristiana, la quale de-
termina tanto la scelta dei passi veterotestamentari, aj qua-
li si applica questo procedimento, quanto il contenuto che
ne risulta. Della :figura di Melchisedec vengono messi in par-
ticolare risalto quattro tratti caratteristici: r. egli benedice
Abramo e ne riscuote la decima; 2. il significato del nome;
3. la mancanza di un albero genealogico; 4.la sua eternità.
Quest'ultimo tratto, che per l'autore è il più importante (cfr.
202 La superiorità della posizione sacerdotale di Gesù

vv. 8.16.24 s.28 ), secondo lui consegue dal fatto che la Scrit-
tura non dice nulla né della sua nascita né della sua morte;
dunque, ne conclude, non se ne doveva parlare. Egli era ve-
nuto dall'eternità e vi ritornò, come lo stesso Figlio di Dio.
Dio gli aveva dato forma d'un tratto, come mostra il modo di
farlo apparire in Gen. 14 che indicava la sua eternità. Anche il
suo sacerdozio è eterno; è questa una deduzione che già il
poeta di Ps. l 10 sembra abbia tratta da Gen. 14· Perciò non
è casuale neppure il fatto che la Scrittura non faccia i nomi
del padre e della madre e non parli affatto di genealogia:
egli non ne aveva. Eppure era un sacerdote, benché ogni
sacerdote levitico debba innanzi tutto provare la sua di-
scendenza sacerdotale. L'autore non vuole naturalmente di-
re che Melchisedec sia stato una figura storica senza ge-
nitori né antenati; soltanto gli è assolutamente indifferen-
te la questione se si tratti di una figura storica nel senso che
usualmente si dà a tale espressione. Lo interessa soltanto il
modo in cui Dio con le parole della Bibbia, ha disegnato quel-
la figura simbolica. Il secondo dei tratti caratteristici indicati
sopra non viene più utilizzato in seguito; ma non si deve
dedurre che per l'autore sia meno importante: già in l,8-13
si è vista l'importanza che ha per lui la regalità del Figlio e
la legittimità della sua sovranità. Però nel presente contesto,
che tratta della superiorità del sacerdozio di Gesù su quello
levitico, non se ne poteva dedurre nient'altro. Al contrario,
il primo dei tratti caratteristici indicati sopra serve subito
nei vv. 4 ss. come punto di partenza per dimostrare la supe-
riorità del sacerdozio di Melchisedec; ma ciò viene provato
utilizzando nel contempo anche il terzo ed il quarto dei tratti
caratteristici di cui sopra. Secondo il primo, Melchisedec dà
la benedizione e riceve la decima, cioè esercita due dirit-
ti specificatamente sacerdotali (cfr. Num. 6,24 s.; 18,2 l ).
L'importanza della decima riscossa da Melchisedec viene mes-
sa in evidenza contrapponendola al diritto del sacerdozio
levitico di esigere le decime. Il v. 5 è dominato dalla sen-
Hebr. 7,r-28 203

saziane che in sé questo diritto era qualcosa di unico nel


suo genere: dei discendenti di Abramo esigono la decima da
altri discendenti di Abramo. Tuttavia si trattava di una pre-
rogativa che era stata concessa una volta per tutte alla tribù
sacerdotale. Ma qui è addirittura il primo patriarca, e con lui
la futura tribù sacerdotale, ad essere assoggettato al paga-
mento della decima; e per di più da uno totalmente estra-
neo. (Da questo modo di vedere, che considera valide in ogni
tempo le disposizioni della legge riguardo all'accesso al sa-
cerdozio, rimane del tutto fuori il fatto che la tribù di Levi
sorse molto più tardi l'epoca di Abramo e che quindi a quei
tempi una sua origine da lui non poteva entrare in questione).
Ma, come l'esazione della decima, anche la benedizione mostra
la grandezza del sacerdozio di Melchisedec. A chi sarebbe po-
tuto venire in mente di benedire Abramo, che già era stato
benedetto da Dio con la grande promessa (cfr. Gen. r2,2 s.)?
E se cionostante tale benedizione è stata data, quanto ec-
celso dev'essere stato colui che l'ha impartita. È vero che
non si trattava d'un comune sacerdote mortale, ma di uno,
del quale Dio attesta la vita eterna mediante il silenzio della
Bibbia sulla sua morte.
Tutta questa caratterizzazione del sacerdozio di .Melchi-
sedec, apparentemente tratta dal testo veterotestamentario,
in realtà è derivata dalle deduzioni (vv. II-r9), che si deb-
bono trarre dall'istituzione di un sommo sacerdote 'secondo
l'ordine', vale a dire secondo il modo di Melchisedec, per la
validità del sacerdozio levitico. Va notato al riguardo che in
questi versetti i concetti di 'sacerdozio', 'legge', e ancora 'al-
leanza' (vv. 22 ss.) si confondono fra di loro. L'istituzione
del sacerdozio è per l'autore il contenuto centrale della leg-
ge, che a sua volta costituisce la norma dell' 'alleanza' con-
clusa tra Dio ed Israele. Perciò il destino della legge dipende
interamente da quello del sacerdozio, per cui i due concetti
sono intercambiabili ( v. r 2 ). Questa relazione dei concetti di
legge e sacerdozio è particolarmente importante per la com-
204 La superiorità della posizione sacerdotale di Gesù

prensione della frase, inserita al v. I I, «per questo scopo il


popolo ha ricevuto la legge». Si sarebbe potuto dire altrettan-
to bene e più chiaramente: «soltanto per questo scopo (del
compimento) tutto il sacerdozio è stato istituito». La frase
giustifica dunque l'importanza attribuita al concetto di 'com-
pimento'.

II-12. Tra i vv. IO e II, per integrare il concetto, si deve


inserire come spiegazione: secondo l'ordine di questo Mel-
chisedec, cioè nel modo in cui egli è apparso nella storia (in
contrapposizione al modo in cui i sacerdoti aronniti hanno
ricevuto il loro ministero), è stato costituito, in Gesù, un al-
tro sacerdote: v. Ps. I ro,4. Ma con ciò si dichiara decaduto
il sacerdozio levitico e tutta l'organizzazione legale che ruota
intorno ad esso, l' 'alleanza' di cui parla il v. 22. E una si-
mile dichiarazione di decadenza aveva i suoi buoni motivi;
tale sacerdozio non otteneva lo scopo per cui era stato isti-
tuito, come basta a dimostrarlo il fatto che è stato abolito.
Lo scopo da raggiungere era il compimento. Questo termi-
ne è molto usato in Hebr. e con diversi significati: prima
di tutto esso ha un significato puramente formale, cioè «com-
piere» vuol dire portare qualcosa a buon fine; il che signi-
fica che il contenuto del concetto varia a seconda di ciò che
ci si prospetta come fine. Per Gesù secondo 2, ro e 5, 9 il
fine era il sacerdozio; secondo 7 ,2 8; I I ,40 e I 2 ,2 3 è la salvez-
za celeste cui giungono i credenti dopo la morte. Nel nostro
passo il valore del concetto si ricava da 9,9-ro,I8. Ciò che a-
vrebbe dovuto essere aggiunto dal sacerdozio e dalla sua o-
pera cultuale era il «compimento riguardo alla coscienza»,
la purificazione della nostra coscienza dalle opere morte,
cioè i peccati; in una parola, il perdono, affinché gli uomini
possano veramente giungere a Dio. Perché il sacerdozio le-
vitico non abbia potuto ottenere questo fine sarà spiegato
soltanto nel cap. 9; qui nel cap. 7 viene solo accertato il fat-
to, che però doveva essere decisivo per il destino del sa-
Hebr. 7,I-28 205

cerdozio levitico, perché nel conseguimento di questo fine


consisteva il sacerdozio levitico, o, come dice il v. l l, la leg-
ge. La legge, con al centro l'istituzione sacerdotale, doveva
ottenere questo perdono, ma fallì completamente allo scopo.
Non ha portato nulla alla perfezione; era debole e inutile,
come è detto ai vv. 18 s. Non restava altro da fare se non
metterla da parte.
Questa valutazione della legge si distacca in modo assai
particolare da quella paolina. Secondo Paolo, infatti, di per
sé la legge mosaica non poteva perseguire lo scopo di 'puri-
ficare le coscienze' o di procurare il perdono e di rendere
l'uomo capace di avvicinarsi a Dio. Al contrario. Il compito
della legge è stato quello di aumentare i peccati; con la legge
tutto doveva finire nella miseria del peccato. Essa suscita ira
(cfr. Rom. 5,20; Gal. 3,19 ss.; Rom. 4,15). Questa differenza
è dovuta al fatto che Paolo, in quanto fariseo, era abituato
a vedere nella legge soprattutto l'abbondanza dei coman-
damenti divini, della cui osservanza doveva preoccuparsi
l'uomo fedele. Viceversa l'autore della Lettera agli Ebrei
prendeva le mosse dal mondo cultuale: egli vedeva nel culto
il nucleo essenziale della legge. Ma il culto era un'istituzione
di salvezza e di espiazione, era inteso come un aiuto. Tutta-
via Paolo e la Hebr. finiscono per incontrarsi, perché tanto
per il primo quanto per la seconda il risultato religioso della
legge è stato negativo; e quando Hebr. lo,3 dice che il culto
veterotestamentario in ultima analisi non fece altro che ri-
chiamare alla memoria il peccato, perché non era riuscito ad
eliminarlo, si avvicina molto al modo di pensare di Paolo.
La conseguenza è in ambo i casi 'la fine della legge'.

l 3-19. Che non ci sia stata esagerazione nell'affermare il cam-


biamento della legge e del sacerdozio, secondo i vv. 13 s. si
ricava già dal fatto che 'nostro Signore' discende da Giuda
e non da Levi - l'appellativo di 'nostro Signore', che con
l'aggiunta di 'Gesù Cristo' è molto usato da Paolo, in Hebr.
206 La superiorità della posizione sacerdotale di Gesù

ricorre soltanto una seconda volta in 13,20 nella forma 'no-


stro Signore Gesù' (senza l'aggiunta 'Cristo'). Ma ciò non va
inteso nel senso che un sacerdozio tribale debba essere ora
sostituito da un altro, perché in tal caso si rimarrebbe nel-
l'ambito del finito e del perituro. Qui è del tutto esclusa l'i-
dea di un comandamento secondo la carne fondato su una
discendenza corporale: si tratta di un sacerdote di ordine più
alto, perché di vita imperitura. L'abolizione dell'antico sa-
cerdozio e della sua legge è dunque totale e fondamentale.
I due ultimi versetti di questa sezione ritornano all'introdu-
zione (v. 1 1 ) con la rinnovata affermazione della legittimità
oggettiva e della necessità di questa abrogazione, la cui giu-
stificazione è in fondo vista soltanto nella contemporanea
istituzione di qualcosa di meglio. Ci si aspetterebbe qui: un
sacerdozio migliore o una legge migliore, con cui si possa
raggiungere il fine perseguito invano dall'antico sacerdozio,
la 'perfezione'; e che l'autore abbia questo in mente lo mo-
stra l'espressione finale nel v. 1 9: «per la quale ci avvicinia-
mo a Dio», perché questa è la sospirata perfezione. Se poi
qui si dice che ci è offerta una 'speranza migliore' non si fa
altro che intrecciare all'idea del mezzo migliore (un sacerdo-
zio migliore) quella della meta da tanto tempo sospirata, che
ora viene raggiunta proprio con questo mezzo migliore.

20-2 5. Ma che questo nuovo sacerdote giustifichi questa at-


tesa, secondo i vv. 20-25 si deduce da due fatti. Il primo si
riferisce alla forma della sua costituzione. Infatti, secondo
Ps. 1 I0,4 la sua posizione, contrariamente a ciò che è avve-
nuto per il sacerdozio levitico, è rafforzata da un giuramento
di Dio, per il quale egli è diventato garante di un'alleanza
migliore. Il concetto di alleanza, che poi ricorre nei capitoli
seguenti, appare in Hebr. per la prima volta qui. Il termine
italiano non è del tutto esatto, in quanto fa pensare ad un ac-
cordo liberamente concluso fra due o più parti; il concetto bi-
blico, invece, è quello dello stabilirsi di un rapporto che può
Hebr. 7,r-28 207

avvenire anche con un atto di volontà unilaterale, come l'e-


manazione di una legge od una disposizione testamentaria,
ed è usato preferibilmente per esprimere lo stabilimento
da parte di Dio di un rapporto del genere (cfr. Ex. 19,5;
Deut. 5,2; 7,9; 9,II). Nel concetto di una tale alleanza so-
no incluse, oltre alle esigenti dichiarazioni della volontà di
Dio, anche le sue promesse (cfr. 8,6). Nel nostro passo si
parla senz'altro di un'alleanza 'migliore', quantunque non si
sia mai parlato esplicitamente di un'altra alleanza; ma soltanto
esplicitamente, perché l'altro termine di comparazione è l"al-
leanza' della legislazione del Sinai: sotto tale aspetto la pa-
rola 'alleanza' riprende soltanto quella di 'legge' del v. 19.
Ma purtroppo questa alleanza stabilita sul Sinai si dimostrò,
come abbiamo visto, insufficiente. I suoi istituti (sacerdozio
e culto) non bastarono ad assicurare l'adempimento delle
promesse, per cui doveva essere abrogata. Ciò non può acca-
dere con l'alleanza di cui Gesù è il garante (e perciò è 'mi-
gliore' ossia più forte), perché Gesù è stato confermato nella
sua dignità sacerdotale con un giuramento di Dio. Perciò
Dio non può lasciarlo decadere, come ha lasciato decadere
il sacerdozio 'secondo l'ordine di Aronne'. Ma grazie a que-
sto suo sacerdozio egli garantisce la realizzazione del patto
o delle sue promesse, perché egli può veramente eliminare
l'ostacolo dei peccati degli uomini. Altrettanto importante di
questo «fatto formale» della costituzione a sacerdote median-
te un giuramento, è lo speciale contenuto di questo giura-
mento, in quanto esso afferma esplicitamente l'eternità di
questo sacerdozio. I sacerdoti secondo l'ordine di Aronne
sono mortali; l'uno succede all'altro, perciò nessuno crea
qualcosa di integrale e di definitivo. Non così Gesù: grazie
alla sua eternità anche la sua funzione sacerdotale è ininter-
rotta, ed il suo risultato è una salvezza totale e duratura di
coloro che per essa arrivano fino a Dio. La funzione sacer-
dotale è definita con l'espressione 'per intercedere per essi'.
Questo è il compito del sommo sacerdote nel Tempio quando
208 La superiorità della posizione sacerdotale di Gesù

nel giorno dell'espiazione entra nel sancta sanctorum con il


sangue della vittima; e questo fa Gesù in cielo (dr. 4,14), do-
ve 'si presenta per noi al cospetto di Dio' (9,24) per sempre,
in quanto elevato alla gloria della vita celeste. In ciò consiste
essenzialmente il suo privilegio, come verrà dimostrato an-
che più avanti. La meta che verrà così raggiunta è secondo
il v. 25 la costituzione della comunione con Dio. Questo è
l'aspetto essenziale della salvezza (dr. v. 19 ), certamente con
la conseguenza che essa deve avere per tutto l'essere; ma in
prima luogo la meta è una meta totalmente e personalmente
religiosa: la comunione con Dio, e non un qualsiasi stato di
santità. La profonda severità dell'idea di Dio nella nostra
Lettera è espressa dal fatto che l'idea della salvezza è domina-
ta dall'attesa di poter essere con Dio; e l'incomparabile suc-
cesso di Gesù è di essere riuscito ad ottenerlo (la Lettera
cerca di chiarire la possibilità e la realtà del successo di Gesù
con la contrapposizione, all'ordinamento cultuale israelitico,
della realizzazione di Gesù). I mezzi concettuali, di cui si
serve Paolo, sono differenti. Ma su questo punto centrale
Paolo e la Hebr. sono pienamente concordi; infatti anche per
lui ciò che Cristo ha reso possibile è la concordia con Dio,
l'accesso a Dio, la comunione con Dio, che egli descrive con
espressioni molteplici.

26-28. I versetti conclusivi del capitolo costituiscono un rias-


sunto ed una conferma di quanto è stato detto prima, ma in
essi echeggiano già i temi del cap. 8 (il cielo come teatro del
servizio sacerdotale di Gesù) e del cap. 9 (il valore univer-
sale e imperituro del suo sacrificio). Però, che questi ver-
setti facciano tutt'uno con quelli che li precedono lo dimo-
stra il v. 28 nel quale nella contrapposizione tra legge e giu-
ramento ricorrono idee dei vv. 11-2 2. Il v. 2 6 è determina-
to da un senso di stupore davanti alla rappresentazione di
un sommo sacerdote eterno, che interviene incessantemente
al cospetto di Dio nell'intercessione sacerdotale per i pecca-
Hebr. 7,I-28 209

tori. Ma, si risponde, per quale motivo allora avremmo avu-


to bisogno di un altro? Per noi ci voleva un altro sacerdote
che potesse adempiere a questa funzione, e che perciò ne
soddisfacesse le condizioni necessarie. Un sommo sacerdote
che sia anch'egli un peccatore naturalmente non può farlo:
i suoi peccati lo tengono irrimediabilmente fra i peccatori;
egli non può entrare nel cielo. Come potrebbe venire a Dio
un uomo con le labbra impure? Ma in Gesù abbiamo un
sacerdote che non è peccatore. L'assenza di peccato nel som-
mo sacerdote della nuova alleanza non è dimostrata né dife-
sa, ma semplicemente affermata, allo stesso modo che in 4,
1 5, anche se con maggiore energia: egli era al fianco di Dio
e non aveva nulla a che fare con i peccati. Proprio per que-
sta ragione egli ha potuto abbandonare la comunità dei pec-
catori, nella quale era entrato 'per divenire misericordioso'
( 2, r 7 ), ed essere innalzato 'più in alto dei cieli', attraver-
sare i cieli ( 4, I4) fino al trono di Dio ( 8, r ). Inoltre ciò ha
avuto delle conseguenze per il compimento del suo sacri-
ficio. Il v. 27 poteva dare l'impressione che l'autore avesse
trascurato il fatto che il sommo sacerdote giudaico compiva
il doppio sacrificio, di cui qui si parla, non tutti i giorni, ma
soltanto una volta all'anno, nel grande giorno dell'espiazio-
ne; ma 9,7.25; 10,r.3 mostrano come egli abbia le idee
chiare al riguardo; solo che Gesù esercita la sua funzione co-
stantemente, cioè tutti i giorni. Per esercitare questa fun-
zione sacerdotale quotidiana, intende dire l'autore, non ha
bisogno di offrire i sacrifici che il sommo sacerdote offriva
nella sua funzione annuale; egli non offre sacrifici per i pro-
pri peccati, perché non ne ha; ed il sacrificio per il popolo
egli l'ha offerto una volta per sempre, offrendo se stesso.
Ciò gli ha reso possibile l'ingresso nel santuario celeste, in
cui ora si trova, 'per intercedere per essi (i peccatori)'. Per
quei sommi sacerdoti, costituiti dalla 'legge' secondo l'ordi-
ne di Aronne, il doppio sacrificio sempre rinnovato era ne-
cessario, perché essi erano uomini come gli altri, 'soggetti
210 La superiorità del culto celeste

alla debolezza', c1oe peccatori e, perciò, mortali. Invece, il


giuramento divino in Ps. II0,4 non ha innalzato al sommo
sacerdozio un uomo fra i tanti, ma il Figlio; questi, grazie
alla sua incarnazione può compatire le nostre debolezze (4,
r 5 ), ma non è soggetto ad esse. Perciò è stato 'portato alla
meta' perfetto in eterno, cioè 'costituito sacerdote'. Questa
è infatti la meta che gli è stata riservata (dr. 2,ro; 5,9).

La superiorità del culto celeste del sommo sacerdote neotestamen-


tario, che corrisponde alla superiorità della nuova alleanza ( 8, r -1 3 )
1 Il punto capitale di queste argomentazioni è che abbiamo un som-
mo sacerdote, che «si è seduto alla destra» del trono della Maestà
nei cieli, 2 ministro del santuario e del vero «tabernacolo, che Dio
- e non un uomo - ha eretto». 3 Infatti ogni sommo sacerdote viene
costituito per offrire doni e sacrifici. Perciò è necessario che egli abbia
qualcosa da offrire. 4 Invero, se egli fosse sulla terra, non sarebbe
neppure sacerdote, perché già ce ne sono che offrono doni secondo
la legge. 5 Questi prestano servizio a un'immagine e a un'ombra del
(santuario) celeste, come fu detto a Mosè, quando doveva costruire
il tabernacolo: «Vedi», si dice, «farai tutto secondo il modello che ti è
stato mostrato sulla montagna». 6 Ma ora egli ha ottenuto un mini-
stero eccellenti, in quanto è garante di una migliore alleanza, che
è fondata su migliori promesse. 7 Se infatti la prima fosse sta-
ta irreprensibile, non ci sarebbe stata ragione per cercarne una
seconda. 8 È, invero, biasimandoli che dice: «Ecco che verranno gior-
ni, dice il Signore, in cui stringerò con la casa d'Israele e la casa di
Giuda una nuova alleanza, 9 non come l'alleanza che strinsi con i
loro padri, il giorno in cui li presi per mano per trarli fuori dalla
terra d'Egitto. Perché essi non rimasero nella mia alleanza; e anch'io
li ho trascurati, dice il Signore. 10 Ecco l'alleanza che io stringerò con
la casa d'Israele dopo quei giorni, dice il Signore: metterò le mie
leggi nella loro mente e le inciderò nel loro cuore, e sarò il loro Dio
ed essi saranno il mio popolo. 11 E nessuno dovrà più istruire il suo
concittadino e nessuno il suo fratello, dicendo: 'Conosci il Signore',
giacché tutti mi conosceranno, dal piccolo al grande. 12 Perché perdo-
nerò le loro ingiustizie, e non ricorderò più i loro peccati». 13 Dicendo
Hebr. 8,I-IJ 2II

<<nuova» ha reso vecchia la prima. Ora ciò che diventa vecchio e vetu-
sto sta per scomparire.

Contenuto. Dopo aver mostrato la superiorità della posizio-


ne di Gesù come sommo sacerdote (cap. 7) e prima di dimo-
strarne la superiorità dell'operato (9,1-10,18 ), qui nel cap. 8
l'autore richiama l'attenzione sul luogo dove egli esercita un
culto più elevato, cioè celeste; infatti questo servizio può es-
sere apprezzato soltanto nel contesto del santuario, nel quale
ha luogo. Prima di tutto si accerta il fatto che il servizio ha
luogo nei cieli (vv. l e 2 ); non si potrebbe pensare ad un' al-
tra scena (ci è detto in seguito), perché il servizio terreno è
già compiuto dal sacerdozio levitico (vv. 3-6a). La fine del-
l'alleanza antica, secondo la quale si esercita il sacerdozio
levitico, è sigillata con l'affidamento a Gesù di un servizio
più elevato nel quadro di un'alleanza migliore, come confer-
ma lo stesso Dio per mezzo di Ier. 31,31 ss. (vv. 6b-13). Que-
sto schema delle due alleanze offre poi, in 9,1-10,18, il qua-
dro entro cui è data la dimostrazione della superiorità del-
l'attività sacerdotale di Gesù.

1-2. Quanto sia importante per l'autore l'ascesa di Gesù nel-


la gloria dei cieli, è già apparso ripetutamente nei capito-
li precedenti e sempre in rapporto con il carattere sacerdo-
tale di Gesù: questo sommo sacerdote ha attraversato i cieli
(4,14), è stato elevato più in alto dei cieli (7,26), è entrato,
in qualità di nostro precursore, all'interno del velo ( 6 ,19 ),
dopo avere dato luogo alla purificazione dai peccati siede
alla destra della Maestà di Dio 'nell'alto' (1,3) o 'nei cieli'
( 8,1 ). Ora si dice che questo è addirittura l'elemento princi-
pale di tutto il discorso. Già 7 ,2 5 s. aveva accennato al mo-
tivo di tale giudizio: egli ha il potere della perfetta salvezza,
perché - in quanto è il Glorioso - può sempre intervenire
a favore dei peccatori nella sua qualità di sacerdote. La stes-
sa idea qui viene ripetuta, dicendo che colui che siede alla
212 La superiorità del culto celeste

destra di Dio è il ministro del santuario e del vero tabernaco-


lo. Qui si pensa al servizio del sommo sacerdote nel giorno
della riconciliazione; esso si componeva di due azioni: immo-
lazione dell'animale sull'altare ed offerta del sangue nel santo
dei santi del tabernacolo, spargendolo davanti all'arca dell'al-
leanza. La seconda azione è quella che interessa soprattutto.
Allo stesso modo del sommo sacerdote levitico, anche Gesù
doveva compiere quest'azione nel tabernacolo; ma non in
quello che Israele portava con sé, costruito da uomini e perciò
manchevole e temporaneo, ma in quello vero, eretto dallo
stesso Dio, che solo merita questo nome; cioè il cielo è il luo-
go della presenza di Dio, davanti al quale Gesù offre il sangue
versato sul Golgotha, davanti al quale fa valere la forza e-
spiatrice della sua morte sacrificale. E lo fa nel luogo che
veramente importa, nella 'vera tenda', il vero santuario, in
confronto al quale il luogo del culto sulla terra non è che
una copia, un'ombra inadeguata. In essa, ne dobbiamo de-
durre, naturalmente poteva aver luogo soltanto un culto ina-
deguato. È degno di nota il fatto che l'autore non parli del
Tempio, ma dell'arca dell'alleanza; evidentemente egli parla
come uno studioso della Scrittura, e non in base ad un'espe-
rienza viva del culto nel Tempio. La legge mosaica non par-
lava del Tempio ma solo del tabernacolo, e l'autore, contrap-
ponendo il cielo come il vero tabernacolo a quello utilizzato
da Israele, si riallaccia (come mostra il v. 5) a Ex. 2 5, secondo
il quale Mosè dovette costruire il tabernacolo e le attrezzature
relative secondo un modello mostratogli da Dio sul monte Si-
nai. Più tardi la teologia giudaica vide in questo passo un'in-
dicazione del fatto che quelle costruzioni avrebbero continua-
to ad esistere in cielo; la filosofia ellenistico-giudaica, rappre-
sentata da Filone d'Alessandria, vi collegò facilmente la dot-
trina dell'idealismo platonico, secondo la quale il mondo me-
tafisico delle idee è l'unico veramente valido ed essenziale,
mentre il mondo fenomenico dell'esperienza sensoriale ne è
soltanto una copia imperfetta, ad un più basso gradino dell'es-
Hebr. 8,I-IJ 213

sere. Questo concetto riecheggia in Hebr., quando definisce il


tabernacolo e tutto l'edificio del culto veterotestamentario una
copia (8,5), un'ombra (8,5; 10,r), imitazione (9,9) di quello
che è essenzialmente vero in cielo, oltre che vero in futuro nel-
la nuova alleanza, che sostituisce quello imperfetto. Per valu-
tare rettamente il rapporto tra questi concetti di Hebr. ed il
pensiero filoniano occorre però considerare che tale pensiero
è stato adattato ad esprimere il rapporto di una successione
di fatti storici fra di loro. La contrapposizione tra l'antico
ed il nuovo ordinamento con l'aiuto di questi concetti con-
sente tanto di riconoscere un certo valore all'antico ordina-
mento quanto di rilevarne l'essenziale inferiorità e provvi-
sorietà temporale.

3-r3. I versetti che seguono intendono dimostrare che il fat-


to che Gesù compia il suo servizio nel santuario celeste è una
necessità oggettiva, partendo da un'esperienza di carattere
generale (v. 3). Ma in questo versetto stupisce che non si
parli del santuario, in cui sono fatti i sacrifici, ma di sacri-
fici che vengono offerti. Ciò dovrebbe portare logicamente
ad un'indagine sul sacrificio offerto da Gesù, di cui invece
si fa parola soltanto in 9,r2 ss.; nel presente passo quest'i-
dea è fuori luogo dal punto di vista logico. Sarebbe piutto-
sto da aspettarsi nel v. 3 che fosse detto ad esempio che ogni
sommo sacerdote (dunque anche Gesù) deve avere un san-
tuario, in cui poter offrire i suoi sacrifici. E come se avesse
scritto proprio così, l'autore prosegue nel v. 4 rigettando l'o-
biezione che Gesù avrebbe potuto compiere il suo servizio
sulla terra nel modo consueto, e rispondendo negativamente
perché il posto sulla terra è già occupato. Questo v. 4 è il
passo di tutta la Lettera che meglio può essere addotto a
sostegno dell'ipotesi che la Lettera debba essere stata scritta
prima della distruzione del Tempio nell'anno 70 d.C., in
quanto sembra presupporre che esistesse ancora il culto nel
Tempio. Se il Tempio fosse stato distrutto sembrerebbe ov-
214 La superiorità del culto celeste

vio dedurne l'impossibilità che Gesù offrisse sacrifici sulla


terra; ma non è questo il ragionamento da fare. L'autore pre-
senta la sua dimostrazione partendo dalla legislazione mosai-
ca, indipendentemente dal fatto che essa sia applicata o me-
no nel presente; il v. 4 non cesserebbe di essere valido anche
se il Tempio fosse stato distrutto e nessun sacerdote vi sacri-
ficasse. Ciò che gli interessa è che, secondo il comandamento
divino, nella Legge di Mosè vi devono, o dovrebbero esservi,
sulla terra dei sacerdoti che offrono il sacrificio. Dunque,
bisogna dedurne, per Gesù restava solo il cielo come luogo
del culto. Del resto il santuario terreno non potrebbe essere
preso in considerazione da lui, perché secondo Ex. 2 5 ,40 è
soltanto un'imitazione inadeguata del 'vero tabernacolo'. Il
servizio in quest'ultimo è superiore in quanto è più efficace, o
meglio è il solo efficace. Ma ciò non fa che rispondere al com-
pito di Gesù di essere garante di una migliore alleanza. Una
alleanza migliore di quella stretta da Mosè sul Sinai, vuol
dire l'autore, esige anche un servizio migliore; migliore, per-
ché si compie nel santuario più elevato, quello vero. Il si-
gnificato della parola garante è certamente quello di 'media-
tore', 'intermediario' tra due parti. Ma qui Gesù non svol-
ge un ruolo di un negoziatore che cerchi di stabilire un equi-
librio; attraverso alla sua mediazione sorge la Nuova Allean-
za, il nuovo ordine, stabilito da Dio, dei suoi rapporti con
gli uomini, solo in quanto grazie al suo intervento essa di-
venta realtà. Egli è 'mediatore' nella misura in cui (con l' ef-
ficacia del servizio sacerdotale compiuto in cielo) è garante
che l'attuazione di questa alleanza con le sue promesse di
salvezza non urterà nell'ostacolo dell'inclinazione dell'uomo
al peccato. Perciò la parola 'mediatore' qui assume il signi-
ficato di 'garante'. Qui viene attribuito a Gesù esattamente
lo stesso compito che in 7,22, al quale questo passo va equi-
parato, anche per il significato della parola 'alleanza'. Ma per-
ché questa Nuova Alleanza è migliore? Secondo 7 ,20.22 lo
era perché la condizione di Gesù come sommo sacerdote ga-
Hebr. 8,r-r3 215

rante è stata assicurata incrollabilmente con un giuramento


di Dio. Una migliore garanzia rende migliore l'alleanza. An-
che se questo concetto può essere inconsciamente presente
nel nostro passo, la superiorità della Nuova Alleanza qui è
esplicitamente giustificata soltanto con il fatto che il coman-
do divino l'ha fondata su migliori promesse; in che misura,
non è detto, ma lo si può dedurre indirettamente dalla suc-
cessiva citazione di Geremia. Infatti il fine immediato della
citazione, come prova l'introduzione (v. 7) e la conclusione
(v. r3), è quello di giustificare l'idea implicita nei vv. 6 e 7
che, con l'osservazione del v. 6b su Gesù come garante di
un'alleanza migliore, pronunciano sull'alleanza del Sinai un
giudizio di nullità, che è ben giustificato. Ne dà la prova il
noto passo di Geremia, perché con l'annuncio di una nuova
alleanza indirettamente esprime un'aspra critica dell'antica.
Questa critica è rivolta dopo l'inizio del v. 8 al popolo del-
l'antica alleanza, ma nel v. 7 all'alleanza stessa. Per l'autore
non c'è differenza tra l'uno e l'altra, perché l'insufficienza
dell'antica alleanza è dimostrata proprio dal fatto che non è
riuscita a portare il popolo a quella meta che ora gli pro-
mette la nuova alleanza. Dio stesso lo riconosce. La dimo-
strazione è esattamente dello stesso tipo che in 7, II: l' an-
nuncio divino della nuova alleanza prova la decadenza del-
l'antica. Però l'autore difficilmente avrebbe citato l'intero
passo di Geremia se per lui non avessero avuto una decisiva
importanza oggettiva le promesse contenute in questo passo.
Sono esse che fanno della nuova una migliore alleanza.
La citazione vede (v. 9) la caratteristica dell'antica allean-
za anzitutto nel fatto che i suoi risultati sono stati total-
mente negativi. Il popolo non obbedisce a Dio, e Dio si al-
lontana da lui: ma questo è avvenuto perché gli ordini del-
la volontà di Dio gli vennero dall'esterno, senza muoverlo in-
teriormente. Da una tale situazione (già intendeva dire la pa-
rola profetica profonda di significato, e l'autore non poteva
che confermarlo) non poteva sorgere nulla di buono. La
216 La superiorità del servizio sacerdotale di Gesù

nuova alleanza pone su una base totalmente diversa la rela-


zione tra Dio e l'uomo. Non si tratta di una nuova etica, giac-
ché i comandamenti di Dio sono immutabili. La nuova base
è costituita dal fatto che Dio stesso trasforma interiormente
gli uomini in modo tale che la sua volontà domina il loro
sentimento più intimo, e che egli riempie ognuno di essi del-
la conoscenza immediata della sua volontà. In tal modo nasce
l'autentica comunione con Dio. Ma l'estrema condizione, che
rende possibile tutto questo, non è una decisione umana, ma
divina, la decisione di perdonare. Così, già in questa parola
profetica, unica nel suo genere, la grazia divina del perdono è
indicata come il fondamento del rapporto religioso; quella
grazia divina del perdono, di cui è garante Gesù, chiamato a
sommo sacerdote da Dio stesso. In effetti questa 'alleanza' è
fondata su 'migliori promesse'. Per differente che sia la forma
con cui queste idee sono presentate, esse concordano total-
mente con quelle di Paolo in 2 Cor. 5,19.
L'importanza che è venuta ad avere per l'autocompren-
sione delle comunità cristiane questo passo di Geremia non
si può valutare più chiaramente che nel fatto che da esso il
Nuovo Testamento ha tratto il suo nome!

c
La superiorità del servizio sacerdotale di Gesù ( 9,1-ro,18)

Sguardo d'insieme ed articolazione del brano. Nella gran-


de sezione dottrinale della Lettera, che descrive la superio-
rità del servizio di Gesù come sommo sacerdote, il luogo
del suo culto ed il suo servizio (7,1-10,18), il brano relativo
al servizio (9,1-10,18) ne costituisce essenzialmente il nucleo
centrale, ed in esso i vv. 9,n-15 contengono nella forma più
concisa tutto quanto l'autore vuol dire sulle caratteristiche
e sul successo del servizio sacerdotale di Gesù. Ciò che è
Hebr. 9,I-IO,I8 217

detto qui sull'eterna significazione del sommo sacerdozio di


Gesù, sulla sua entrata nella tenda perfetta, sul carattere
unico del sacrificio, sul suo successo assoluto, e su Cristo
come garante della nuova alleanza, tutto riprende con evi-
dente chiarezza quanto era già stato accennato nei capp. 7 e
8 e ritorna ad ogni momento fino a 10,18. Ma in questi
versetti la dottrina di Hebr. sul sommo sacerdozio di Cri-
sto è raccolta come in un compendio. Il quadro dell'esposi-
zione di 9,1-10,18 è offerto dalla contrapposizione dell'an-
tica alla nuova alleanza, che l'autore ha sempre in mente fin
dal cap. 7. Perciò il pezzo centrale 9,11-15 è prima (a) pre-
parato in 9,1-10 da un richiamo all'istituzione cultuale del-
l'antica alleanza e del suo servizio sacrificale. L'autore resi-
ste alla tentazione di interpretarli nel loro senso più profon-
do e si limita ad indicarne la provvisorietà simbolica; l'anti-
ca istituzione cultuale non poteva avere un'efficacia più am-
pia già a causa dell'esteriorità dei suoi mezzi. Dopo che (b)
in 9, l 1-l 5 a questo servizio inadeguato è stato contrappo-
sto il pieno successo del servizio di Cristo, (c) in 9,16-22 dal
concetto di alleanza l'autore deduce la necessità della morte
cruenta per ottenere tale successo. E cioè, è detto ancora (d),
qui, dove si tratta di un fatto essenziale e celeste (in contrap-
posizione all'alleanza mosaica con le sue istituzioni-ombra),
era necessario un sacrificio così prezioso, ma anche irripeti-
bile, come quello del sangue di Cristo (9,23-28). Così (e) in
l0,1-4 le idee di 9,6-10 sono integrate da una nuova consi-
derazione, cioè che il culto sacrificale della legge era real-
mente insufficiente, come dimostra la continua ripetizione
del sacrificio. Perciò (f) fu abrogato per espressa volontà di
Dio e sostituito dal sacrificio di Cristo una volta per sempre
( 10,5-10 ). Che esso sia stato veramente irripetibile, perché
ha conseguito il fine per cui era stato compiuto, si ricava dal
fatto (g) che Cristo si è assiso alla destra di Dio, ed è con-
fermato da Ier. 31,33 (10,11-18).
218 L'istituzione cultuale del!' antica alleanza

a) L'istituzione cultuale dell'antica alleanza ed il suo servizio sacrifi-


cale secondo la loro provvisorietà simbolica ( 9,1-10)
1 Ora, anche la prima alleanza aveva delle istituzioni cultuali ed il
santuario, quello di questo mondo. 2 Infatti fu fatta una tenda, quella
anteriore, nella quale c'erano il candelabro e la tavola e i pani esposti:
essa era detta «il Santo». 3 Poi, dietro il secondo velo una tenda, il co-
siddetto «santo dei santi», 4 con l'altare d'oro dei profumi e l'arca del-
l'alleanza coperta d'oro da ogni lato, nella quale era l'urna d'oro
con la manna e la verga di Aronne, che era rifiorita, e le tavole del-
l'alleanza, 5 e su di essa i Cherubini della gloria che coprivano d'om-
bra il propiziatorio. Delle quali cose non è il momento di parlare detta-
gliatamente. 0 Essendo dunque così disposte le cose, i sacerdoti entrano
nella prima tenda in ogni momento per compiere il servizio cultuale,
7 ma nella seconda tenda entra una volta all'anno solo il sommo sa-
cerdote, non senza sangue che offre per le sue mancanze e per quelle
che il popolo ha commesso senza sapere né volere. 8 In tal modo lo
Spirito Santo mostra che non è ancora aperta la via al santuario, fin-
ché sussiste ancora la prima tenda. 9 Questa è una figura per il tempo
presente; secondo essa vengono offerti doni e sacrifici, che non posso-
no rendere perfetto nella coscienza chi compie il servizio sacrificale;
10 si tratta infatti - oltre (alle prescrizioni relative) agli alimenti, alle

bevande e ad abluzioni diverse (letteralmente: 'battesimi') - solo di


precetti esteriori di carne che sono stati imposti solo fino al tempo
dell'ordinamento autentico.
I·IO. Secondo 8,13 la prima alleanza appartiene al passato.
Tuttavia essa aveva un suo contenuto particolarmente vali-
do, e cioè il servizio cultuale secondo prescrizioni emanate
da Dio stesso e il santuario. L'autore, che giudica con una
mentalità ed un sentimento assolutamente sacerdotale, vi ve-
de qualcosa di grande, di solenne e di elevato. Naturalmente
ne sono evidenti i limiti: il santuario appartiene al mondo
terreno, quello vero è, secondo il cap. 8, nei cieli. Il primo
è dunque manchevole e transitorio come ogni cosa terrena.
Ciò nonostante l'autore si sofferma in devoto raccoglimento
su di esso e sui suoi particolari che enumera secondo Ex.
2 5 s. con un sentimento amoroso. Egli descrive non il Tem-
pio erodiano di Gerusalemme, nel quale non c'era più l'arca
dell'alleanza, e neppure quello salomonico, ma (come indica
Hebr. 9,I-IO 219

già la parola 'tenda') il tabernacolo secondo le indicazioni


della legge mosaica. Per lui è particolarmente importante che
si tratti di una tenda divisa in due settori; un velo la sepa-
rava dall'esterno. Soltanto il settore posteriore, separato da
un secondo velo, era il luogo della vera e propria presenza
di Dio. In esso si trovavano l'arca santa con le tavole della
legge, chiusa da un coperchio, e su di esso due figure ange-
liche che lo coprivano con le loro ali. «E là io mi rivelerò a
te e parlerò con te di sul propiziatorio, dal luogo fra i due
Cherubini sull'arca della legge ... » è detto inEx.25,22, cfr. Ex.
30,6. Perciò questo luogo è il 'santo dei santi'. Fra le noti-
zie sui vari oggetti ivi contenuti va rilevata quella secondo
la quale era d'oro anche l'urna contenente la manna, di cui
il testo originario ebraico non sa nulla, ma di cui parlano i
LXX. Anche del fatto che l'urna e la verga di Aronne si tro-
vassero nell'arca il testo ebraico non parla, e neppure ne par-
lano i LXX. In I Reg. 8,9 è detto anzi che soltanto le tavole
della legge si trovavano nell'arca. Ma stupisce più di ogni
altra la notizia data dall'autore che l'altare dei profumi si
trovava nel santo dei santi, quando invece era collocato nella
cella anteriore del santuario. Già la chiesa antica aveva rile-
vato questo errore, e una piccola parte dei manoscritti cercò
di correggerlo col semplice spostamento al v. 2 dell'altare dei
profumi. Forse questo errore si può spiegare con il fatto che
in alcuni passi di Ex. (ad es. 40,5.26) la notizia della collo-
cazione di quell'altare è poco chiara; e a uno studioso della
Scrittura che appartenesse al giudaismo della diaspora poteva
sfuggire un errore del genere. L'autore non enumera tutti que-
sti oggetti per una pignoleria erudita; tutto è per lui pieno
di un profondo simbolismo, ma egli rinuncia a descriverlo
per dedicarsi interamente alla questione del culto di cui ha
parlato il v. I. In esso i regolari servizi quotidiani dei sem-
plici sacerdoti sono distinti da quello particolare del sommo
sacerdote, che deve essere compiuto nel grande giorno della
riconciliazione: solo quest'ultimo interessa all'autore. Ai pri-
220 L'istituzione cultuale del!' antica alleanza

mi era espressamente vietato di entrare nel santo dei santi,


e lo stesso sommo sacerdote vi entrava soltanto una volta
all'anno «per espiare per gli Israeliti tutti i loro peccati», ma
soltanto i 'peccati per ignoranza' che non fossero stati com-
messi per ribellione cosciente ai comandamenti di Dio (cfr.
5 ,2). Al riguardo le disposizioni più precise si trovano in
Lev. 16. In quell'occasione dovevano venire immolati due
torelli, uno per il sommo sacerdote stesso e l'altro per il po-
polo; poi il sommo sacerdote doveva spruzzare con il dito il
sangue, prima dell'una e poi dell'altra vittima, sul coperchio
dell'arca che proprio per questo motivo fu chiamato 'propi-
ziatorio' (Lutero: 'sede della grazia'). Ma perché tutto que-
sto? Riflettendo su questo rito, l'autore vede nelle sue di-
sposizioni una segreta intenzione; bisogna imparare a leg-
gere tra le righe. Non sono disposizioni umane; sono conte-
nute nel canone, i cui scritti sono ispirati dallo Spirito di
Dio. Che cosa vuol dire l'autore? Nel v. 8 c'è un doppio
senso tutto particolare. Il primo: la sussistenza della tenda
anteriore indica che l'accesso 'al santuario', che è ciò che in-
teressa, cioè al santo dei santi, che perciò nel v. 8 è chiamate
semplicemente 'il santuario', non è ancora aperto. Ma, in se-
condo luogo, contrapponendo la tenda anteriore a quella po-
steriore il primo santuario viene contrapposto a quello fu-
turo, cioè a quello celeste, chiamato per brevità il santuario, e
indica così tutto il tabernacolo nella sua provvisorietà. La
tenda anteriore diventa un'indicazione simbolica del presente,
in quanto esprime la condizione che proprio nel presente,
con il servizio sacerdotale di Gesù e soltanto con esso do-
veva essere compiuta la vera espiazione, consentito l'accesso
al vero santuario, il vero accesso a Dio. E come sarebbe po-
tuto essere diversamente? prosegue il v. 9b. Il culto sacri-
ficale esteriore non può rendere perfetto 'nella coscienza'
chi offre il sacrificio; non può portarlo alla meta che cer-
ca, cioè comunione con Dio, perdono, rinnovamento nella
condizione che il cap. 8 ha descritto con le parole di Ier. 31,
Hebr. 9,r-IO 22I

3 l ss. Questo è il metro critico decisivo di ogni religione che


si fonda sul compimento di servizi cultuali, servizi esteriori:
esse non conducono l'uomo alla reale meta religiosa. Questa
idea del v. 9 è ancora meglio illustrata nel v. 10; le prescri-
zioni delle quali qui si parla sembra riguardino soltanto i
sacerdoti: per 'alimenti' si intendono le prescrizioni relative
all'uso da parte dei sacerdoti di determinate parti degli ani-
mali sacrificati (cfr. Lev. 10,12 ss.); quanto alle bevande si
potrebbe pensare al fatto che il sacerdote, che entrava nel
tabernacolo, doveva astenersi dal bere vino (Lev. 10,9 );
quanto infine alle abluzioni basti citare le prescrizioni impo-
ste al sommo sacerdote ed ai suoi assistenti in Lev. 16,24-28.
Ma forse l'autore pensa anche alle disposizioni relative al ce-
rimoniale, valide per tutti. Però non è del tutto chiaro il
rapporto in cui sono messe queste prescrizioni con le vittime
di cui si parla subito prima; infatti è possibile (diversamente
dalla nostra traduzione) interpretare il testo greco nel senso
che il culto sacrificale cerca di ottenere la perfezione nella
coscienza soltanto sulla base di prescrizioni su alimenti, be-
vande ed abluzioni cerimoniali di vario genere, e conside-
rare queste prescrizioni, in una aggiunta grammaticalmente
indipendente, come esteriorità che fanno parte soltanto del-
!' ambito della carne. Ma a questa interpretazione si oppone,
a parte le regole grammaticali, il fatto che l'efficacia del sa-
crificio non si basa assolutamente su prescrizioni del genere.
Queste piuttosto sono qualcosa di indipendente accanto ad
esse, anche se non lasciate all'arbitrio del singolo. Probabil-
mente l'autore ha voluto anche alludere che (alla lettera sol-
tanto il sacrificio, ma a senso anche tutte le restanti prescri-
zioni) sono 'regole della carne', che, cioè, toccano soltanto
l'essenza corporale dell'uomo e non anche il suo intimo, la
sua coscienza. L'effetto è soltanto esteriore, e non personale.
Il nostro autore non accoglie nessuna idea di una magia sa-
cramentale. Ciò nonostante esse sono state imposte da Dio,
ma solo provvisoriamente, finché non sarà introdotto l'ardi-
222 Le caratteristiche essenziali ed il successo del servizio di Gesù

namento migliore o autentico. Che importanza avevano in


quest'epoca di transizione è accennato in l0,3: tenere costan-
temente presente alla mente l'insufficienza della prima 'al-
leanza' con le sue disposizioni.

b) Le caratteristiche essenziali ed il successo del servizio di Gesù,


sommo sacerdote ( 9, II· 1 5 )
11 Ma Cristo, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attra-

verso la tenda più grande e più perfetta non fatta da mano d'uo-
mo, cioè che non appartiene a questa creazione, 12 e non per mezzo
del sangue di capri e di vitelli, ma per mezzo del suo proprio san-
gue, entrò una volta per tutte nel santuario, avendovi trovato un'e-
terna redenzione. 13 Se infattj il sangue di capri e tori e la cenere di
una vitella aspersa santifica gli impuri dando loro la purezza del
corpo, 14 quanto più il sangue di Cristo, che per uno Spirito eterno si
è offerto immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere
morte perché serviamo il Dio vivente. 15 E perciò egli è garante di una
nuova alleanza affinché, essendo intervenuta la morte per redimere le
trasgressioni della prima alleanza, coloro che sono chiamati ricevano
l'eredità eterna promessa.

II-14. Al culto sacrificale veterotestamentario che, a causa


della sua inadeguatezza, è un segno simbolicamente precor-
ritore del futuro, è ora contrapposto Cristo come sommo sa-
cerdote che ha compiuto quello che il primo non era in gra-
do di fare. Perciò si parla anzi tutto di Cristo come il som-
mo sacerdote dei beni futuri; sono i beni del mondo fu-
turo (2,5), la città futura (13,14), l'eredità eterna promessa
(9,15), cioè la pienezza della salvezza. Naturalmente ciò è
adesso soltanto qualcosa che ha da venire; ma, di fronte al
gioco d'ombre di questo tempo e della scena terrena, questi
beni possiedono l'autentica realtà, proprio come l'eterno ce-
leste è l'autentico vero in confronto al terreno transitorio,
nonostante ogni apparenza in contrario. Cristo è detto som-
mo sacerdote di questi beni perché con la sua attività di som-
mo sacerdote dà e garantisce la partecipazione ad essi. A
questo fine egli è apparso sul teatro della storia, e ha potuto
Hebr. 9,n-r5 223

farlo perché il luogo, i mezzi ed il successo della sua attività


sacerdotale rispondevano a tale scopo. Egli è proceduto fin
nel santo dei santi; qui, come nei vv. 8 e 24, si parla sem-
plicemente di 'santuario', perché ne è la parte più importan-
te. Ma questa è soltanto un'espressione :figurata della pre-
senza celeste di Dio. Infatti anche Cristo dovette, come il
sommo sacerdote aronnitico, attraversare una tenda, la tenda
anteriore; ma questa tenda anteriore era il cielo. Un taberna-
colo veramente più grande e più perfetto di quello costruito
faticosamente dalle mani dell'uomo! Egli non rimase nell'am-
bito del creato, ma attraversò i cieli (4,r4), giungendo cosi
nella 'vera tenda', di cui si è già occupato il cap. 8. Ma vi
giunse anche con un mezzo di espiazione incomparabilmente
prezioso: quello del suo sangue. Per questo il suo successo è
stato totale, come prova l'illimitata efficacia del suo sacrifi-
cio, offerto una volta per sempre, e non ogni anno. Egli ha
potuto compiere una eterna redenzione, o per meglio dire,
un riscatto eterno, come ora si passa a dire con un'immagine
tratta da un altro ordine di idee. Ma i vv. r3.r4 vogliono
rendere chiaro - con una contrapposizione all'effetto del mez-
zo cultuale veterotestamentario - che il sangue di Cristo po-
teva ottenere effettivamente questo successo. Come mezzo
di culto veterotestamentario è citata, oltre al sangue degli a-
nimali immolati nel giorno della riconciliazione, la cenere
della vacca rossa che, secondo Num. 19, serviva a cancellare
ogni impurità esteriore dovuta all'aver toccato un morto.
Nell'intenzione dell'autore, il fatto di citare proprio questa
cenere deve suscitare immediatamente nel lettore l'impres-
sione della insufficienza di un mezzo cosi strano per la purifi-
cazione. Ciò nonostante mezzi del genere hanno un effetto:
quello di 'santificare', cioè di rendere possibile il rimanere
vicino a Dio; soltanto, però, in un rapporto esteriore. L'ef-
fetto che deriva dal sangue sacrificale di Cristo è certamente
del tutto differente e sostanzialmente incomparabile, perché
in questo secondo caso si tratta dell'eliminazione di ostacoli
224 Le carqtteristiche essenziali ed il successo del servizio di Gesù

alla comunione con Dio, ostacoli interiori, che macchiano la


coscienza, dovuti al comportamento peccatore dell'uomo. La
coscienza è 'purificata' quando il peccato viene perdonato;
però i due effetti sono comparabili nella misura in cui anche
qui si tratta di rendere capaci di avanzare verso Dio (4,16),
così come il sacerdote è reso capace di avvicinarsi a Dio nel
servizio sacrificale. In questo senso, infatti, deve prima di tut-
to intendersi la parola servizio nel v. I4 ( cfr. 8,5; 9,r.6.9; ro,
2; 13,ro). Si tratta dello stesso successo del quale il v. 13
parla con la parola 'santificare'. Così l'autore - senza tener
conto della diversità dell'ostacolo da eliminare - può trarre
la conseguenza che un effetto del genere è da aspettarsi dal
sangue di Cristo molto più efficacemente che non dagli altri
mezzi cultuali. Per rendere chiaro tutto questo, il valore del
sangue di Cristo è ancora giustificato con la frase relativa in
v. 14, che definisce il sacrificio di Cristo un'altissima azione
di carattere personale: egli ha offerto se stesso; la sua morte
è stata opera sua. La vittima veterotestamentaria doveva es-
sere senza difetti nel corpo, Cristo era senza peccato (4,15).
Questa autoimmolazione fu resa possibile da uno 'Spirito
eterno', cioè dallo Spirito di Dio, che determinò il suo atteg-
giamento, lo innalzò nell'eternità e gli permise di operare
una 'redenzione eterna', di diventare un sommo sacerdote in
eterno. Secondo questo ragionamento, la pienezza della de-
dizione di se stesso, che ha tratto la sua forza dalla comu-
nione di natura con Dio, è ciò che dà il suo vero valore al
sacrificio di Cristo, cioè al suo sangue. La sua immolazione
è di un genere diverso da quelle compiute dal sacerdote ve-
terotestamentario. Muta il concetto di immolazione quando
viene applicato alla autoimmolazione di Cristo.
Le allusioni del v. 14 escono dunque dal quadro cultuale-
cerimoniale nel quale per il resto si muove l'autore. Il ca-
rattere decisivo della sua dimostrazione è dovuto al fatto che
per lui restano valide le idee sul valore e sull'efficacia del
sacrificio cruento; ma in quest'ordine di idee considerazioni
Hebr. 9,II-IJ 225

etico-personali, come quelle sopra citate, suonano come estra-


nee. Nel momento in cui il concetto di sacrificio materiale
cultuale viene applicato alla morte di Cristo, esso diventa
superato perché appare tutta la sua inadeguatezza. Ciò prova
che la fede in Cristo è precedente alle riflessioni qui presen-
tate dall'autore. La fede non è sorta da quel tipo di conside-
razioni, ma queste si aggiungono per giustificarla con l'aiuto
di idee e concetti veterotestamentari, la cui misura è tuttavia
insufficiente allo scopo. Non si poteva accertare che la morte
di Cristo aveva tale significato di sacrificio, sulla base di ca-
ratteristiche esteriori; ma la fede in Cristo cerca con l'aiuto
di questo concetto di rendere comprensibile la morte di Cri-
sto, come significativa e necessaria, e di liberarsi così da un
problema molto gravoso.

15. L'idea centrale dei vv. n-14 era che Cristo ha veramente
purificato le coscienze, oppure (il che per l'autore è la stessa
cosa) che ha reso perfetti secondo la coscienza (v. 9), ha ope-
rato l'eterna redenzione ed assicura il raggiungimento dei
beni futuri. La stessa idea è espressa nuovamente nel v. l 5,
questa volta riprendendo il concetto di Nuova Alleanza da
7,22; 8,6-13. Null'altro che la realtà di questa salvezza (se
non per ognuno, per coloro che vi sono chiamati da Dio)
era il senso della destinazione di Gesù a garante di questo
patto, cui egli era abilitato dalle superiorità di cui si è detto
sopra. È caratteristica l'osservazione nuova sulla morte di
Gesù, inserita nella frase conclusiva del v. l5h. Quando è
detto che la morte ha avuto luogo per redimere le trasgres-
sioni compiute sotto o durante la prima alleanza, cioè per
estinguere la colpa che ne è derivata, il concetto che informa
queste idee sembra discendere dal pensiero sul sacrificio di
riconciliazione compiuto dal sommo sacerdote; ma è strano
che ciò nonostante si parli della morte non come di un sacri-
ficio offerto ma di un fatto che ha avuto luogo. Ma ciò di-
pende dal doppio significato della parola greca per 'alleanza'
La morte di Cristo come sacrificio cruento dell'alleanza

(diatheke), che significa anche 'testamento'. Questo fatto


consente in seguito all'autore di dedurre dalla parola la ne-
cessità della morte di Gesù sotto un duplice aspetto. Il tra-
duttore può soltanto rendere questo doppio significato tradu-
cendo nei vv. 16 e 17 con 'testamento', e poi a partire dal
v. 18 nuovamente con 'alleanza'.

e) Già dal concetto 'testamento-alleanza' appare quanto fossero neces-


sari morte e sacrificio cruento, come dimostra la consacrazione del-
l'alleanza mosaica ( 9,16-22)
16 Infatti, dove c'è un testamento è necessario che sia constatata la

morte del testatore, 17 perché un testamento è valido solo dopo la


morte, poiché non ha effetto finché vive il testatore. 18 Perciò anche
la prima alleanza non è stata consacrata senza sangue. 19 Infatti dopo
che da Mosè fu proclamato a tutto il popolo ogni comandamento se-
condo la legge, egli prese il sangue dei vitelli e dei capri, con del-
l'acqua e lana scarlatta e issopo ed asperse il libro stesso e tutto il
popolo 20 dicendo: «Questo è il sangue dell'alleanza che Dio ha pre-
scritto per voi». 21 E allo stesso modo asperse di sangue anche la ten-
da e tutti gli oggetti del culto. 22 E secondo la legge quasi tutto è puri-
ficato con il sangue, e senza effusione di sangue non c'è remissione.

16-22. Il fatto che d'un tratto l'autore dall'idea di 'alleanza'


passi a quella di 'testamento' (la stessa parola aveva comune-
mente questo secondo significato presso i Greci fuori dell'a-
rea di influenza della Bibbia) è in certo qual modo preparato
dal v. 15, dove - allo stesso modo che in Paolo - la salvezza
futura era detta un'eredità. In quanto sono il vero seme di
Abramo, i credenti ricevono la promessa fatta al patriarca
(cfr. Gal. 3,18.29; Rom. 4,13 s.). Con la sua consueta agi-
lità mentale l'autore ora (sia pure soltanto per un momento,
nei vv. 16 e 17) utilizza il significato di 'testamento', per de-
durre da tale concetto la necessità della morte di Gesù. Per-
ché un testamento abbia intera la sua efficacia, il testatore
deve prima morire; prima di allora egli può revocarlo o ap-
portargli delle modificazioni. Certamente, se si volesse an-
dare più in profondità nell'analisi di questa figura si andreb-
Hebr. 9,I6-22 227

be incontro alle più grandi difficoltà; infatti Cristo non era


il testatario ma il garante di questo 'testamento': dunque,
quale sarebbe il bene che ci avrebbe lasciato in eredità, al
quale egli avrebbe rinunciato a nostro favore? I beni che
Cristo ci trasmette, proprio secondo Hebr. li trasmette in
quanto è il Vivente nel cielo. I credenti sono i suoi 'parte-
cipi' (3,14), come secondo Paolo i suoi 'coeredi' (Rom. 8,
17). Ma l'autore trascura tutte queste questioni; a lui inte-
ressa soltanto che per rendere valido un 'testamento' è neces-
saria una morte. Però, certamente a causa di queste difficol-
tà, egli non insiste su questa idea. Nel v. l 8 si parla nuova-
mente dell'alleanza. Ma, anche se assume la parola in questo
significato, l'autore ne viene a trarre la stessa conseguenza.
L'alleanza necessitava di una consacrazione; la consacrazio-
ne necessitava del sangue, imponendo così una morte. Lo si
vede negli avvenimenti relativi all'istituzione della prima
alleanza attraverso a Mosè. Qui si tratta dell'obbligazione
di Israele alla legge dell'alleanza di Ex. 24,2-8. È vero che qui
si parla soltanto di aspersione del popolo e non anche del
libro, della tenda e degli oggetti del culto; inoltre si parla
soltanto di aspersione con il sangue dei vitelli immolati in
precedenza, senza far parola dell'uso del resto di cui parla il
v. 19. Il tabernacolo e i suoi oggetti di culto, secondo Ex.
40,9 e Lev. 8,10-12, vengono consacrati non con sangue ma
con unguenti. Invece secondo Lev. 8,15.19 la consacrazione
espiatoria dell'altare è compiuta con sangue. Lana purpurea
ed issopo vengono usati secondo Lev. 14,4 nella purificazio-
ne formale dei lebbrosi, e secondo Num. 19,6 insieme con la
cenere della vacca rossa nel rito della purificazione. L'autore
ha dunque concentrato con una certa imprecisione diverse
prescrizioni, anche per l'influenza di uno sviluppo e di un am-
pliamento rabbinico di quanto tramandato nel testo biblico.
Ciò che lo interessa è il ruolo decisivo che ha avuto il sangue
versato nella conclusione dell'alleanza mosaica, come lo stes-
so Mosè aveva messo in rilievo nelle parole con le quali ave-
228 Per la consacrazione del santuario celeste

va accompagnato il gesto dell'aspersione. Il lettore ne deve


dedurre che naturalmente anche per la costituzione della se-
conda alleanza era necessario del sangue ed una morte. Ma
prima di passare, nel brano successivo, a trattare del suo
carattere particolare, l'autore si intrattiene più ampiamente
su quel che ha detto circa l'ineluttabilità del sangue, nel sen-
so che principalmente e non solo nella consacrazione di quel-
1'alleanza secondo la legge pressoché ogni cosa (cfr. però ad es.
Lev. 5, II - 1 3 ) è purificata con il sangue, per concludere con
l'affermazione categorica che non v'è remissione senza effusio-
ne di sangue. Pure in Lev. 17,1 1 è detto che il sangue, per la
vita che in esso è contenuta, serve all'espiazione ed a tale sco-
po è stato dato agli uomini. Da rilevare in questo versetto la
naturalezza con cui al v. 22 è fatto entrare il concetto di 'per-
dono' al posto di quelli di 'purificazione', 'aspersione', 'con-
sacrazione' (v. 18 ). Anche in quegli atti cruenti per il nostro
autore si trattava in sostanza di riti espiatori che tendevano
ad ottenere il perdono; ma quest'ultimo è un concetto che
esce fuori da una concezione puramente rituale, cultuale, per
elevarsi ad una sfera etico-personale.

d ) Per la consacrazione del santuario celeste della nuova alleanza era


sufficiente solo l'autoimmolazione cruenta di Cristo, ma questa do-
veva essere compiuta, e lo fu, una volta per sempre ( 9,2 3-28)
23 Era dunque necessario che le copie delle realtà celesti fossero puri-

ficate con questi mezzi, ma le realtà celesti dovevano esserlo con sacri-
fici più eccellenti di questi. 24 Infatti Cristo non entrò in un santua-
rio fatto da mano d'uomo, che è soltanto un'immagine di quello vero,
ma nel cielo stesso per apparire ora al cospetto di Dio in nostro
favore; 25 e neppure per offrire se stesso più volte, come il som-
mo sacerdote una volta all'anno entra nel santuario con un sangue
che non è il suo; 26 altrimenti egli avrebbe dovuto soffrire più volte
dalla creazione del mondo: ora invece si è manifestato una volta
per tutte alla fine dei tempi, per abolire il peccato con il suo sacri-
ficio. rt E come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, e
che dopo venga il giudizio, 28 così anche Cristo, dopo essersi offerto
una volta «per togliere i peccati di molti», apparirà una seconda volta
Hebr. 9,23-28 229

senza peccato a coloro che lo attendono per dare loro la salvezza.

23-28. Le idee dominanti di questa sezione ci sono già note


da quanto è stato detto in precedenza. Ad esempio, che la
tenda terrena ed il suo santuario sono considerate soltanto
delle copie di originali che si trovano in cielo (cfr. 8, 5 ); la
contrapposizione tra il santuario 'fatto con le mani' e quello
'vero', nel cielo (cfr. 9,u; 8,2); che Cristo ha attraversato
i cieli (cfr. 4,14) o, come è detto qui, è entrato nel cielo e
appare davanti a Dio per noi (cfr. 7,25). Anche la irripeti-
bilità del suo sacrificio, in contrapposizione al sacrificio rin-
novato ogni anno dal sommo sacerdote aronnitico, è già stata
messa in evidenza in 7,27 e 9,12. Ma in questa sezione trovia-
mo due novità: l'effettiva superiorità del sommo sacerdozio
di Cristo è trattata fino al v. 15. Ma per una completa cono-
scenza di un avvenimento non occorre soltanto affermarne
il senso, ma vederne anche la necessità. Dunque bisogna chia-
rire la necessità dell'immolazione di Cristo. Questa è la pri-
ma delle due idee nuove contenute in questa sezione. La
conclusione di un'alleanza esige del sangue; doveva essere
sangue di Cristo, il Figlio di Dio? Che non poteva essere al-
trimenti è ciò che dev'essere dimostrato. A tal fine l'autore
per il momento resta fermo all'idea della consacrazione di
un'alleanza e delle sue istituzioni; ora non è pensabile che
l'originale istituzione celeste fosse 'purificata' con il sangue
di vitelli e capri ecc., perché questi mezzi terreni non hanno
alcun potere in cielo. Qui era necessario un mezzo migliore,
celeste, il sangue del Figlio di Dio che si è offerto in sacri-
ficio 'per uno Spirito eterno' (9,14). Qui si astrae completa-
mente dal fatto che a rigore non si può assolutamente par-
lare di una 'purificazione', cioè di una cancellazione dei pec-
cati, del santuario celeste. Soltanto l'idea generale della con-
sacrazione o apertura può costituire l'elemento di compara-
zione; perciò l'autore abbandona subito quest'idea della con-
sacrazione dell'alleanza per rivolgersi nuovamente al con-
230 Per la consacrazione del santuario celeste

fronto con il servizio del sommo sacerdote nel giorno della


riconciliazione. Il pensiero quindi si sposta sensibilmente.
Ma anche se l'autore si prospetta Cristo come il celeste som-
mo sacerdote nel santo dei santi in cielo per presentarsi di-
rettamente al cospetto di Dio a favore dei credenti, si ha
sempre la stessa impossibiltà di ottenere qualcosa con quei
mezzi espiatori terreni: anche così, dunque, non rimane altro
che l'autoimmolazione di Cristo. Si aggiunga che questo sa-
crificio è stato concepito come unico, e anche per questo,
allora, doveva essere infinitamente più prezioso del sacrificio
ripetuto ogni anno dal sommo sacerdote veterotestamentario.
Ed effettivamente lo è stato, perché quelli si presentavano
con sangue altrui, con sangue di animali, ma egli si è presen-
tato con il suo sangue. Ma ora l'autore si rende conto di
un'obiezione, che porta alla seconda idea di questa sezione;
l'autore ha la sensazione che gli chiederanno con quale dirit-
to egli sottolinei tanto l'unicità del sacrificio di Cristo. È
stato veramente così prezioso da avere il suo pieno effetto con
l'unico sacrificio? L'autore risponde accennando al fatto sto-
rico dell'unicità della passione di Cristo; in passato non ce
n'è stata nessun'altra e per il futuro non c'è possibilità di una
sua ripetizione, perché questa unica passione ha avuto luogo
alla fine dei tempi. Soltanto allora il Figlio si è manifestato
'per abolire il peccato con il suo sacrificio'. Cancellazione dei
peccati (9,26), assunzione o eliminazione dei peccati (9,28;
l0,4), redenzione dai peccati (9,15), purificazione delle co-
scienze (9,14), santificazione (2,11 cfr. 9,13.14; 10,10), per-
fezione nei riguardi della coscienza (9,9), perdono (9,22; ro,
l 8) sono tutti concetti che esprimono la stessa cosa. Se nel v.
26 il sacrificio è definito unico ed irripetibile, nel v. 27 a spie-
gazione di questa unicità è portato ancora a confronto il de-
stino generale dell'uomo. Si muore solo una volta e la conclu-
sione finale è il giudizio. Così anche Cristo è morto soltanto
una volta; solo che la sua morte non è stata una morte comu-
ne, ma (come sappiamo da lungo tempo e come ora viene con-
Hebr. w,r-4

fermato con un richiamo al cap. 5 3 di Isaia sul servo di Dio


sofferente) è stata un'immolazione per cancellare i peccati di
molti. La comune morte degli uomini è il passaggio al giudi-
zio. Questa morte significa la salvezza dal giudizio. Certamen-
te Cristo apparirà ancora una volta, ma 'senza peccato'; e non
soltanto come apparve anche la prima volta 'senza peccati'
(4,15 ), ma anche, nel senso di 9,15, senza avere nulla a che fa-
re con il peccato. Egli verrà per portare la salvezza dal giu-
dizio a coloro che lo hanno atteso, per realizzare definitiva-
mente la loro salvezza. Così stanno le cose: la colpa è stata
riscattata una volta, e ciò vale per sempre. Qui si sente sot-
tintesa l'esortazione: consolatevi; aspettate anche voi.

e) n culto sacrificale secondo la legge si dimostrava insufficiente ap-


punto per la ripetizione dei sacrifici stessi ( rn,r-4)

1 La legge infatti possedendo soltanto l'ombra dei beni futuri e non

l'immagine stessa delle cose, con i sacrifici che offre incessantemente


ogni anno non può rendere perfetti coloro che vi si accostano. 2 Al-
trimenti non avrebbero forse cessato di offrirli, dato che i ministri
di questo culto, una volta purificati, non avrebbero più avuto co-
scienza del peccato? 3 Al contrario, con tali sacrifici si richiama ogni
anno il ricordo del peccato. 4 Invero è impossibile che il sangue di
tori e di capri tolga i peccati.

l-4. La dimostrazione del cap. 9 si basava sull'affermazione


dell'inadeguatezza dell'ordinamento cultuale veterotestamen-
tario. Il tabernacolo era la tenda o il santuario eretto da ma-
ni d'uomo (9,1 r.24), era soltanto un'imitazione, un'ombra
del vero santuario, quello celeste (8,2-5; 9,1r.24), al quale
veniva contrapposto. Ora l'autore riprende questa contrap-
posizione per dedurre dall'ordinamento cultuale istituito dal-
la legge la sua inadeguatezza. Tale ordinamento era già stato
chiamato in 9,8 a testimoniare contro se stesso, in quanto
nella disposizione della tenda l'accesso al 'santo dei santi' era
sbarrato dalla tenda anteriore, e ne era stato dedotto che di
2 32 Il culto sacrificale secondo la legge era insufficiente

per sé ciò additava una condizione in cui esso non sarebbe


più stato necessario. Ora l'autore riprende questo genere di
dimostrazione interpretando la ripetizione annua del sacrifi-
cio del grande giorno dell'espiazione (Lev. r6) come un'am-
missione della sua insufficienza; però non prende in conside-
razione il fatto che i nuovi sacrifici si riferivano ogni volta ai
nuovi peccati dell'anno trascorso. Indipendentemente da ciò,
la ripetizione del sacrificio è proprio la prova che non è stata
ancora raggiunta una condizione soddisfacente del rapporto
religioso, non più minacciata dal peccato dell'uomo. Allo sta-
to di ombra dell'intero ordinamento cultuale veterotestamen-
tario corrispondono anche sacrifici che sono soltanto un'om-
bra di quello vero, in quanto non possono avere un effetto
veramente positivo: quello, cioè, di 'rendere perfetti' coloro
'che vi si accostano', vale a dire di dare loro il perdono, di
cancellare i peccati, affinché si liberino dall'ansia della catti-
va coscienza e l"accostarsi' non sia soltanto un tentativo, ma
che da esso derivi una reale comunione con Dio: un tale ef-
fetto non lo hanno e non lo possono avere. Al contrario, in
luogo di scaricare la coscienza dei peccati, i sacrifici veterote-
stamentari li richiamano sempre alla memoria: un effetto del-
l'ordinamento cultuale fissato dalla legge che, se non raggiun-
ge la severità della visione paolina (secondo la quale la legge
persegue addirittura lo scopo di aumentare i peccati e di get-
tare gli uomini nella profondità della loro miseria), le si ac-
costa molto (cfr. sopra comm. a 7,II). L'affinità tra le due
concezioni è molto stretta, come può esserlo soltanto se sj
cerca di mettere in chiaro l'importanza della persona e dell'o-
pera di Cristo in contrapposizione all'istituto espiatorio del
sacerdozio veterotestamentario. In ultima analisi, certamen-
te, anche questo risultato negativo è, per l'autore di Hebr.
esattamente come per Paolo, un risultato positivo nella mi-
sura in cui risveglia o tiene sveglio il desiderio della reden-
zione e la disponibilità a ricevere ciò che Cristo ha portato.
Ma con i mezzi del cultù veterotestamentario non si poteva
Hebr. IO,J-IO
233
assolutamente provocare un risultato direttamente positivo;
infatti quei riti cruenti come avrebbero potuto annullare i
peccati, portare alla purificazione delle coscienze, al perdono
e all'accesso a Dio? Che ciò fosse impossibile dovrebbe se-
condo l'autore apparire chiaro ad ognuno, e perciò non vie-
ne ulteriormente dimostrato. La frase inserita qui con tanta
naturalezza significa niente di meno che tutto l'ordinamento
cultuale veterotestamentario si fonda su un'illusione; ma l'au-
tore non si sofferma a rispondere alla domanda spontanea di
come tale istituzione appaia in una legge ordinata da Dio, e
neppure all'altra domanda se questa critica della affermazio-
ne fondamentale sull'ordinamento cultuale veterotestamenta-
rio in Lev. r 7, rr («la vita del corpo è nel sangue e io ve l'ho
dato sopra l'altare affinché le vostre anime siano redente; in-
fatti il sangue è l'espiazione, perché in esso è la vita») non
intacchi la logica del procedimento di afferrare la persona ed
il successo dell'opera di Cristo valendosi proprio dei mezzi
visibili e concettuali offerti da quell'ordinamento cultuale
(cfr. sopra comm. a 9,14).

f) Perciò, secondo Ps. 40, l'ordinamento sacrificale veterotestamenta-


rio conforme alla volontà di Dio è stato abolito per mezzo di Cristo
e sostituito con il suo sacrificio una volta per tutte ( 10,5-10)
5 Perciò entrando nel mondo dice: «Non hai voluto né sacrificio né
oblazione, ma mi hai preparato un corpo; 6 non hai gradito né olo-
causti né sacrifici per il peccato. 7 Allora io ho detto: Ecco, vengo -
poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, Dio, la tua
volontà». 8 Prima dice: «Non hai voluto né ti sono stati graditi sacri-
fici ed oblazioni e olocausti e vittime per i peccati», che vengono
offerti secondo la legge; 9 poi ha detto: «Ecco, vengo per fare la tua vo-
lontà». Egli abolisce il primo per fondare il secondo. 10 Ed è in que-
sta 'volontà' che siamo santificati mediante !"oblazione' del 'corpo'
di Gesù Cristo una volta per sempre.

5-ro. Nel cap. 9 era stato detto ampiamente che, in luogo del-
l'inadeguato ordinamento cultuale veterotestamentario, nella
234 L'ordinamento veterotestamentario abolito da Cristo

nuova alleanza interviene il sacrificio più valido ed. irripetibi-


le di Cristo. Ciò avvenne, dice questa nuova sezione, secondo
la volontà di Dio. Questo è l'accento di tutta la sezione. La
prova è tratta da Ps. 40,7-9, i cui versetti sono citati come
parole di Cristo pronunciate al momento della sua incarna-
zione. Il Salmo è l'inno di ringraziamento di un fedele, che
loda Dio per l'aiuto ricevuto; il testo originario ebraico del
v. 5 ( =40,7a) dice: «Non ti piacciono sacrifici ed olocausti;
mi hai forato le orecchie», cioè: obbedienza è ciò che vuoi;
l'obbedienza è migliore dei sacrifici. Segue poi Hebr. 10,6, e
anche questa volta il testo originario di Ps-40,7 c.8 dice: «Al-
lora ho detto; ecco, vengo. Per me è scritto nel libro. È un pia-
cere per me, Dio, fare la tua volontà». La penultima frase
sembra voler dire che il fedele può leggere nel libro della
legge di Mosè come debba comportarsi per fare la volontà di
Dio. In complesso il senso è questo: il fedele promette a Dio,
in segno di ringraziamento per l'aiuto ricevuto, gioiosa obbe-
dienza nel senso di fedele adempimento della legge. La tra-
duzione greca dei LXX ha sostituito «mi hai forato le orec-
chie» con «hai preparato un corpo per me», un'espressione
dalla quale nel contesto non si può trarre alcun senso. Ma pro-
prio questa errata traduzione per il nostro autore è l'elemen-
to più prezioso della citazione, perché costituisce una nuova e
importante conferma delle osservazioni fatte intorno alle cita-
zioni del cap. r (cfr. sopra pp. 143 ss.). Infatti, come prova il
v. ro, l'autore comprende le parole della citazione nel senso
che Gesù vede in esse la volontà di Dio, che egli offra in im-
molazione il suo corpo. Questo era lo scopo per cui Dio gli
dette un corpo, lo scopo dell'incarnazione. Il v. 7 è la rispo-
sta di Cristo alla volontà di Dio espressa nella preparazione
del suo corpo: egli si dichiara pronto a venire nel mondo per
adempiere questa volontà di Dio. Naturalmente l'autore po-
teva trarre dalle parole del salmo questo significato soltan-
to omettendo le parole finali dell'ultimo periodo della cita-
zione ('è per me un piacere') che pure si trovano anche nei
Hebr. Io,5-Io 235

LXX. Cristo non può e non vuole sottrarsi alla volontà di Dio
che egli diventi un uomo e si offra in sacrificio, a quella vo-
lontà di Dio che è espressa chiaramente nel rotolo del libro,
cioè nelle profezie dell'Antico Testamento. Ciò che Dio vuo-
le, lo vuole anch'egli. Ma la volontà di Dio non è soltanto po-
sitiva, ma anche negativa: il culto sacrificale in vigore finora
dev'essere abrogato. È vero che ciò è strano, perché il culto
viene compiuto secondo la legge che Dio stesso ha dato. Si
potrebbe quasi dire che si tratti di un avvenimento rivoluzio-
nario; ma è Dio stesso che lo vuole. Anche se un tempo ha
ordinato nella legge il culto sacrificale, quando ha inviato Cri-
sto nel mondo la sua volontà era indirizzata alla redenzione
per mezzo di lui e rigettò pertanto il culto sacrificale. Perciò
Cristo abroga secondo le parole del salmo 'il primo', cioè que-
sto culto sacrificale, per fondare 'il secondo', la volontà di re-
dimere per mezzo di Cristo. Il contenuto di questa volontà è
la nostra santificazione, perciò la nostra elevazione alla comu-
nione con Dio attraverso l'unico sacrificio di Gesù Cristo
(dr. 2,11). Per la prima volta (e poi ancora soltanto in 13,8.
2 l) l'autore usa questo doppio nome, che per lui ha qualcosa
di solenne. Una volta conseguita la santificazione non c'è più
posto per il culto sacrificale di un tempo. Parlando di volon-
tà di Dio viene a perdere ogni significato la stessa domanda,
che potrebbe sorgere dal v. 4, se cioè sia possibile cancellare
i peccati con il sacrificio cruento di Cristo: era la volontà di
Dio, e ciò è sufficiente. Il modo in cui l'autore pone sulle lab-
bra di Cristo queste parole del salmo, senza preoccuparsi mi-
nimamente di dare una giustificazione di questo suo procedi-
mento, e il modo con cui le interpreta, è estremamente ardito.
Nelle sue mani, le parole del salmo diventano per così dire
l'eco di un dramma all'interno di Dio, al cui centro sta la de-
cisione di Dio di procedere alla redenzione per mezzo del-
l'autoimmolazione di Cristo. Il concetto di Dio dell'autore
è di un'ardita vivacità. È il concetto cristiano di Dio.
Il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile

g) Che il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile, perché è stato


pienamente efficace, si deduce dal fatto che, secondo Ps. uo,1 egli
si è assiso alla destra di Dio, ed è confermato da ler. 31,33 ( 10,
II·I8)
11E mentre ogni sacerdote si presenta ogni giorno e compie il suo
servizio e offre ripetutamente gli stessi sacrifici, che non possono
mai cancellare i peccati, 12 egli invece ha offerto un solo sacrificio
per i peccati e «siede alla destra di Dio» per sempre, 13 attendendo solo
«finché i suoi nemici saranno posti a sgabello dei suoi piedi». 14 In-
fatti con una sola immolazione ha reso per sempre perfetti coloro
che ha santificato. 15 Ce lo attesta anche lo Spirito Santo. Infatti dopo
aver detto: 16 «Questa è l'alleanza che stabilirò con loro dopo quei
giorni, dice il Signore, mettendo le mie leggi nei loro cuori e ponen-
dole nella loro mente» 17 (attesta:) «e dei loro peccati» e delle loro
trasgressioni «non serberò più memoria». 18 Ma dove queste cose so-
no perdonate non c'è più oblazione per il peccato.

r 1-18. L'unicità dell'autoimmolazione di Cristo era già stata


più volte messa in evidenza nei capp. 8 e 9 (cfr. 7,27; 9,12.
26.28 ). Poteva e doveva essere irripetibile perché aveva avu-
to un'efficacia assoluta: un'unica redenzione (9,12), una rea-
le cancellazione dei peccati (9,26.28) e proprio per questo
anche abolizione del culto finora in vigore ( 10,5-10 ). Dun-
que l'unicità del sacrificio di Cristo, come il rovescio e la
conferma della sua efficacia totale, è per Hebr. un tratto di
importanza decisiva. Perciò tutta l'attenzione dell'autore è
rivolta ancora una volta al sommo sacerdozio di Cristo in que-
sti versetti conclusivi del grande brano dottrinale che è al
centro della nostra Lettera (7,1-10,18). In primo luogo ritor-
nano le idee di l0,1-4, ma estese dal sommo sacerdozio al
sacerdozio in generale. L'autore si rappresenta espressiva-
mente il culto veterotestamentario, quale è prescritto dalla
legge: i sacerdoti, uno o l'altro che sia, stanno tutti i giorni
all'altare, offrendo sacrifici; ma è tutto vano perché i loro
mezzi di espiazione sono inadeguati. Il peccato rimane. È
già significativo che essi debbano stare in piedi, come schia-
vi pronti a sempre nuovi sacrifici (cfr. Le. 17,7-10). Già nel
Hebr. IO,II-I8
237
cap. r l'autore aveva contrapposto al Figlio assiso sul trono
della sua maestà nei cieli gli angeli inchinati reverenti o in
continuo movimento. Così qui il sacerdote sempre pronto al
servizio viene contrapposto a Gesù Cristo assiso all'eterna
quiete alla destra di Dio, con le stesse parole di Ps. IIO, uti-
lizzate già nel cap. l. La sua opera è compiuta con il suo uni-
co sacrificio. Ora può attendere fino a quando Dio deporrà
incatenati ai suoi piedi coloro che sono e vogliono rimanere
i suoi nemici, come ha promesso in Ps. II0,1 programmatica-
mente messianico. Ma questo è possibile perché con un unico
sacrificio ha ottenuto ciò che quelli, con tutti i mezzi a loro
disposizione, non hanno ottenuto e non potevano ottenere.
Egli ha resi perfetti coloro i quali sono santificati da lui. E
qual è questo fine di perfezione? Null'altro che la remissione,
come mostra la citazione di Ier. 31,33 s., a conferma definiti-
va. La citazione è a memoria, e perciò si discosta lievemente
da quella di 8,ro; inoltre l'autore, dopo la citazione in IO,
l 6, tralascia alcune righe per passare subito al finale sulla
remissione (cfr. 8,12). Queste, dunque, sono le parole che gli
interessano. Perciò le parole 'dice il Signore', che apparten-
gono alla citazione, non vanno considerate come continuazio-
ne di 'dopo che ha detto' del v. 15, mà tale continuazione an-
drebbe integrata all'inizio del v. 17. Il v. 16 è concepito sol-
tanto come un'introduzione, che deve rammentare l'essen-
za della nuova alleanza. Lo scopo che doveva essere raggiun-
to, e che è stato raggiunto grazie al sacrificio di Gesù Cristo,
è che Dio non serba più memoria dei peccati, cioè concede il
perdono. Che sia così lo ha attestato lo Spirito Santo stesso
nelle parole che ha ispirato al profeta. La fine del servizio sa-
crificale veterotestamentario è dunque la naturale deduzione.
Il versetto finale di questa sezione va rilevato perché, colle-
gato al v. 14, mostra chiaramente ancora una volta che, per
il nostro autore, santificazione, perfezione (nella misura in
cui si tratta dell'effetto del culto sugli uomini), remissione,
sono concetti equivalenti (v. sopra comm. a 9,26). Nella pa-
Il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile

rola 'remissione' è compreso tutto; anche Paolo non vuol di-


re altrimenti quando parla di giustificazione (cfr. specialmen-
te Rom. 4,5-7 ). Il cardine del rapporto religioso è l'interroga-
tivo sul perdono dei peccati, e Gesù vi ha dato risposta.
PARTE TERZA

DEDUZIONI
( ro,r9-r 2,29)

Ordinamento ed articolazione. Il tema del sommo sacerdo-


zio di Gesù era apparso per la prima volta in 2,9.17 s. Dopo
un'ampia esortazione di carattere pastorale, era ritornato in
4,14 ss., per essere ancora una volta interrotto, allo scopo di
dare il passo ad una nuova esortazione in 5, rr-6 ,2 o. Infine
da 7,1 a ro,18 esso è trattato in tutte le direzioni; questi
capitoli costituiscono così la vera e propria parte teoretico-
dottrinale della Lettera. Ma tutte le affermazioni teoretico-
dottrinali che hanno per oggetto la superiorità di Cristo sul-
le istituzioni salvifiche dell'Antico Testamento, in realtà so-
no estremamente pratiche; tutte servono soltanto al fine pa-
storale di dare ai destinatari della Lettera una rinnovata fidu-
cia nella verità cristiana della salvezza, e di mantenerli nella
comunità cristiana. Perciò è naturale che l'autore, dopo aver
accuratamente posto le basi conoscitive della convinzione cri-
stiana, si dedichi ora al compito pastorale: ora che per mezzo
di questo sommo sacerdote è aperto l'accesso al vero santua-
rio, entriamo in esso con fede gioiosa e atteniamoci senza in-
certezze alla professione della speranza. Le esortazioni pasto-
rali della prima parte hanno il loro coronamento in questi
capitoli.
Da essi si distacca così chiaramente la grande catena di e-
sempi della fede nel cap. l l, che ne deriva una tripar-
tizione chiara di questa terza parte. Nel resto del cap. ro
troviamo innanzi tutto (unito molto consequenzialmente a
quanto precede) l'incitamento ad «attenersi alla professione
Ora atteniamoci alla professione della speranza

della speranza» e a restare fedeli alla comunità (10,19-25). E


ciò tanto più in quanto l'apostata è minacciato dalla tremenda
severità del giudizio divino ( 10,26-3 l ). Incitamento e messa
in guardia si appoggiano ad uno sguardo al passato e ad uno al
futuro: all'esemplare condotta dei lettori durante un periodo
di persecuzioni in un tempo precedente ( 10,32-34) e alla ri-
compensa promessa alla fede perseverante ( lo, 3 5-3 9). Nel
cap. l l, poi si presenta una 'nuvola di testimoni' di questa
fede vista come l'elemento decisivo nel comportamento dei
fedeli di tutti i tempi. Essi particolarmente hanno conser-
vato la fede nonostante innumerevoli persecuzioni dolorose.
Perciò l'autore in 12,1-1 l si rivolge nuovamente ai lettori
invitandoli a non lasciarsi confondere nella loro fede dalle
sofferenze, attraverso alle quali essi vengono guidati (certo
con la migliore intenzione del loro Padre celeste), per poi in
12,12-29 concludere efficacemente questa parte con una rin-
novata messa in guardia dalla caduta irreparabile.

Ora atteniamoci alla professione della speranza


e restiamo fedeli alla comunità ( 10,19-25)
19Avendo dunque fiducia, fratelli, di entrare nel santuario per mezzo
del sangue di Cristo, 20 su una via nuova e vivente, che egli ci ha a-
perto attraverso al velo, cioè la sua carne, 21 e poiché abbiamo un
grande sacerdote 'a capo della casa di Dio', 22 entriamo con cuore
sincero nella pienezza della fede. Infatti i nostri cuori sono purificati
dalla cattiva coscienza e il nostro corpo è lavato in acqua pura. 23 At-
teniamoci senza esitare alla professione della speranza, perché è
fedele colui che ha fatto la promessa. 24 E facciamo attenzione gli
uni agli altri, per stimolarci alla carità e alle opere buone, 25 e non
disertiamo la nostra assemblea, come è abitudine di qualcuno, ma
incoraggiamoci (a vicenda), quanto più vedete che 'il giorno' si ap-
prossima.

19-25.Per la seconda volta dopo 3,12 l'autore si rivolge ai


suoi lettori con l'appellativo di fratelli, per esporre loro nei
vv. 19-21, come punto di partenza per la successiva esorta-
Hebr. Io,19-25

zione, l'importanza oggettiva del possesso religioso che deb-


bono a Gesù. I versetti non sono che il riassunto estrema-
mente conciso delle considerazioni svolte finora. Un tempo,
sotto la prima alleanza, non c'era alcuna possibilità di accede-
re al santuario (cfr. 9 ,8); ora abbiamo la possibilità di ac-
cedervi con gioiosa fiducia. Non che l'autore voglia dire
che ognuno ha questa fiducia, giacché deve continuamen-
te incoraggiarli ad averla (cfr. 3,6; 4,16; rn,22); ma ognuno
potrebbe e dovrebbe averla in base all'efficace mezzo di espia-
zione che è il sangue di Gesù. Con il sangue degli animali (il
mezzo di espiazione di cui disponeva) il sommo sacerdote po-
teva entrare nell'ombra del santo dei santi terreno; con il
sangue di Cristo essi entrano (esercitando i diritti di un som-
mo sacerdote) nel vero santuario, giungono alla comunione di
Dio. Lo stesso concetto è trattato al v. 20 con un lieve cam-
biamento dell'immagine, in quanto ora non si parla più del-
l'accesso, cioè del diritto di accedere, ma della possibilità
concreta di entrare nel santuario. Si tratta di una via che fi-
nora non esisteva, che ha aperto Gesù. L'insolita defini-
zione della via come vivente non può riferirsi al fatto che
porta alla vita, giacché questa definizione del fine della sal-
vezza, cara in modo particolare a Giovanni, non è usuale nel-
la Lettera, nonostante lo,38 e 12,9. Non vuol dire neppure
che essa è imperitura, perché l'autore avrebbe espresso que-
sta idea con il termine per lui solito di 'eterna'. Piuttosto la
via è chiamata così perché è aperta da uno che è sacerdote «se-
condo la forza di una vita indistruttibile» (cfr. 7,16), che in ul-
tima analisi è egli stesso la via. Ma il modo di esprimersi del-
l'autore non è molto chiaro, e ciò vale ancora di più per quel
che segue. Se è chiara l'osservazione che la via conduce 'at-
traverso al velo', cioè al santo dei santi che era separato dalla
tenda anteriore da un velo, è invece molto strano ciò che l'au-
tore dice subito dopo, e cioè che il velo, attraverso il quale
Cristo ha aperto la via, è la sua carne. Forse vuol dire che Ge-
sù, fintantoché era nella carne, non godeva ancora della di-
242 Ora atteniamoci alla professione della speranza

retta vicinanza di Dio; che la forza esistenziale umana costi-


tuiva per il suo diretto rapporto con Dio un ostacolo parago-
nabile al velo del santuario interno, che egli superò con la
sua morte. Ma qui si dice qualcosa di ben diverso, e cioè che
egli ci ha aperto la via attraverso la sua carne; infatti non si
deve affatto intendere che Gesù ci ha aperto la via per mezzo
della sua carne, cioè con l'offerta del corpo (cfr. lo, IO), con
la sua immolazione; l"attraverso' alla sua carne va inteso nel-
lo stesso senso dell"attraverso' il velo, cioè come l'ostacolo
da superare lungo la via di accesso al santuario. L'espressione
rimane oscura. Se comunque il v. 20 in sostanza non dice
nulla di nuovo, viceversa è importante che Gesù non soltan-
to abbia versato il sangue dell'espiazione (v. 19), ma piutto-
sto che noi abbiamo in lui un 'grande' sacerdote, cioè eminen-
te, perché entrato nei cieli (cfr. 4,14) ed è assiso in trono al-
la destra di Dio; un sacerdote che è posto alla testa della ca-
sa di Dio, vale a dire della comunità che gli si è mantenuta
fedele (cfr. 3,6), e che interviene presso Dio ad intercedere
per essa (cfr. 7,25; 9,24). Da questi presupposti ora è il mo-
mento di trarre le deduzioni necessarie. Nei vv. 22-25 troviaJ>
mo una triplice esortazione (fra i destinatari della quale l'au-
tore mette anche se stesso), fondata sui tre motivi di fede,
speranza e carità. Prima di tutto si tratta di fare uso del nuo-
vo accesso a Dio e di avvicinarsi 'al trono della grazia', come
dice 4,16, 'con cuore sincero', che si dona interamente, senza
secondi fini o riserve, e con la piena coscienza della fede. Ciò
che questo significa verrà ampiamente trattato nel cap. l r.
Per giustificare ancora di più questa esortazione, inoltre, è
messo in rilievo che ciò che oggettivamente è stato procurato
dall'opera di Cristo è anche soggettivamente dedicato ai let-
tori; e ciò è descritto paragonando ancora una volta i lettori
ai sacerdoti veterotestamentari. Questi venivano consacrati
con aspersione di sangue ed un bagno nell'acqua (Lev.8,6.30;
r 6,4 ). Quando i lettori diventarono cristiani, vennero a tro-
varsi sotto l'efficacia del sangue di Cristo; 'aspersi' con esso
Hebr. ro,r9-2J 243
vennero interiormente resi liberi dalla cattiva coscienza, vale
a dire che ricevettero il perdono; a ciò si aggiunge il battesi-
mo corporale. Del rapporto reciproco in cui stanno l'avveni-
mento interiore e quello esteriore l'autore non parla; egli non
prende neppure in considerazione la possibilità di ricevere
l'uno senza dell'altro. Egli non concepisce il battesimo 'misti-
camente' (come Paolo) ma, conforme a tutto il suo pensiero,
come un'azione cultuale, al modo delle purificazioni veterote-
stamentarie. La seconda esortazione, che succede immediata-
mente alla prima, è di attenersi alla professione della speran-
za. Dato che subito prima si era parlato del battesimo, e che
è da pensare che fin dai primissimi tempi esso fosse collegato,
sia pure minimamente, ad una qualche 'professione', si po-
trebbe vedere nell'espressione del v. 23 una qualche forma di
professione cristiana. Ma la sua definizione come professione
della speranza sarebbe strana, in quanto ci si attenderebbe
che il contenuto essenziale di una tale professione fosse l'e-
spressione della fede nella rivelazione e nella redenzione ope-
rata da Gesù (cfr. I Tim. 3,r6), e non proprio la speranza in
sé e per sé. Perciò si dovrà interpretare la nostra espressione
sulla scorta di I Petr.3,r5, cioè nel senso che i lettori non de-
vono mai cessare di professare la speranza nella salvezza cri-
stiana (cfr. 2,6b; 3,r); e possono farlo tanto più fermamente
in quanto è ferma la fedeltà di Dio, che ha fatto la promessa
(cfr. 6,r2 ss.). Ma l'autore non vede i suoi lettori come singo-
le persone; essi stanno in una comunità, che lega tutti con la
forza obbligante della responsabilità reciproca. Anche qui,
come in 4,r2 s., l'autore vuole inculcare questo concetto. Tra
gli elementi caratteristici di questa comunità sono l'amore e
le 'buone opere': un concetto sintetico per esprimere le azio-
ni moralmente valide che appaiono al di fuori dell'uomo che
le compie, e che sono inseparabili da un amore che meriti
questo nome. Esso è l'anima della comunità cristiana. Ciò no-
nostante, il pastore d'anime esperto sa che c'è bisogno di in-
citare continuamente ad esso i credenti. Per prestarsi recipro-
244 La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati

camente questo servizio i lettori debbono fare attenzione


l'uno all'altro. Il luogo di questo incitamento è l'assemblea
della comunità; perciò segue, in strettissima relazione gram-
maticale, l'esortazione a non disertarla, ma a frequentarla e
(questa è l'idea dell'autore) a non sottrarsi in essa al dovere
della reciproca promozione interiore. Un'ultima forte spin-
ta morale, come in generale nel Nuovo Testamento, è da-
ta dal richiamo al 'giorno', il giorno del Signore, di cui già
aveva parlato la profezia veterotestamentaria; quel giorno,
che sarà il giorno del giudizio, del cui approssimarsi i lettori
vedono molti segni, se tengono gli occhi aperti. Nel versetto
pulsa l'estrema tensione dell'attesa escatologica dei primi
tempi cristiani. L'astensione dalla regolare liturgia comunita-
ria che, come l'autore constata con dispiacere, per alcuni si è
già fatta un'abitudine, va attribuita non tanto all'inclinazio-
ne ad estraniarsi settariamente quanto all'indifferenza intima
per ciò che la comunità cristiana ha ed è. In tal caso le pro-
spettive sono brutte; incombe la minaccia della caduta irre-
parabile.

La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati ( 10,26-31)

26 Perché se noi pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la


conoscenza della verità, non c'è più sacrificio per i peccati, TI ma solo
un'attesa terribile del giudizio e dell' «ardore del fuoco» che « distrug-
gerà i ribelli». 28 Chi viola la legge di Mosè deve senza misericordia
«morire per la deposizione di due o tre testimoni». 29 E di qual sup-
plizio più atroce, pensate voi, non sarà degno colui che avrà calpe-
stato il Figlio di Dio e avrà stimato volgare ~<il sangue dell'alleanza»
nel quale è stato santificato e avrà oltraggiato lo Spirito della grazia?
30 Noi conosciamo infatti colui che ha detto: «A me la vendetta; sono
io che darò la retribuzione», e ancora: «Il Signore giudicherà il suo
popolo». 31 È terribile cadere nelle mani del Dio vivente.

26-3 r. Il v. 26 è unito a quanto precede a modo di sua giu-


stificazione. Ne consegue che per 'peccato volontario' non
Hebr. Io,2G-3I 245
s'intende una qualche ingiustizia compiuta nonostante la mi-
gliore volontà, ma l'indifferenza con cui ci si separa dalla co-
munione cristiana e dal suo intimo possesso, cioè la rinuncia
all'atteggiamento cristiano essenziale, il distacco dalla fede.
Ciò appare del tutto chiaro nel v. 29, giacché la prova addot-
ta nei vv. 28 s. per giustificare il giudizio, che è da aspettarsi
secondo il v. 2 7, è convincente soltanto se il comportamento
descritto al v. 29 ha lo stesso significato del 'peccare vo-
lontariamente' del v. 26. Quest'ultima espressione si ricolle-
ga alla prescrizione di Num.15,30, per la quale i peccati com-
piuti deliberatamente sono assolutamente imperdonabili (cfr.
sopra comm. a 5 ,2 ). Ma un simile peccato, 'con piena capaci-
tà d'intendere e di volere', è l'apostasia. Infatti colui che si
distacca dalla fede ha già prima ricevuto la 'conoscenza della
verità' (il concetto di 'verità', così frequente in Paolo e in
Giovanni, nella nostra Lettera si trova soltanto qui). Egli sa
che cosa significhino Cristo e la sua opera, ma ciò nonostan-
te non ne vuol sapere. Chi si lascia andare a tanto (ammoni-
sce l'autore) deve aver chiaro che per questo peccato non
si può più disporre di alcun sacrificio espiatorio. Cristo è sta-
ta l'ultima vittima. Per la colpevole, perché cosciente, ri-
nuncia a questa vittima non c'è più possibilità di espiazione;
rimane soltanto la tremenda prospettiva del giudizio di Dio,
che viene descritto in modi veterotestamentari come un fuo-
co vorace e divoratore. L'impossibilità di salvarsi in questo
caso non è derivata dall'incapacità soggettiva di una nuova
conversione, ma oggettivamente (in conformità al tipo cultua-
le delle considerazioni dell'autore) con il carattere definitivo
del sacrificio di Cristo. Che anzitutto secondo il v. 27 in tal
caso non ci si possa aspettare altro che il giudizio, è sol-
tanto una constatazione di fatto; ma che questa conseguenza
sia ben giustificata lo si ricava da un confronto con 2,2 dove
è detto che già l'infrazione volontaria della legge mosaica
comportava la pena di morte (cfr. ad es. Deut. 17,2-6). Ma
qui è più di Mosè, come abbiamo veduto in 3,1-6; si tratta
246 La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati

del Figlio di Dio, che l'apostata calpesta. Questi vede il san-


gue del Figlio di Dio, per mezzo del quale aveva conseguito
la capacità di entrare in comunione con Dio, come un sangue
comune, inutile. Non c'è alcun motivo di pensare qui all'eu-
carestia. La 'santificazione' è avvenuta attraverso al sacrificio
di Cristo, ma l'apostata non ha che derisione per il dono del-
lo Spirito, che come in Zach. 12,10 è chiamato Spirito della
grazia. Ai lettori dev'essere messo assolutamente in chiaro
che in questo caso la pena di morte corporale non è sufficien-
te, anche se l'autore non dice esplicitamente che cosa ci sia
da aspettarsi, ma si limita, con due citazioni della Scrittura,
a dire che Dio sarà il giudice. Questo è sufficiente! È il moti-
vo dell'errore, cui accenna il v. 31, senza descriverlo nei par-
ticolari. Entrambi i detti scritturali del v. 30 provengo-
no da Deut. 32; il secondo si trova anche in Ps. 135,14.
Non manca di colpire il fatto che la prima citazione, quan-
tunque diverga dal testo dei LXX, concorda con Rom. 12,19;
non è detto però per questo che l'autore della nostra Lettera
sia debitore alla Lettera ai Romani di Paolo. Nella seconda ci-
tazione va rilevato che oggetto del giudizio è lo stesso popo-
lo di Dio cioè, nella mente dell'autore, la comunità cristiana
(cfr. r Petr. 4,17; inoltre Mt. 10,28; Gal. 6,7).
Questa sezione, dopo 6,4 ss., è il secondo punto della Let-
tera in cui si parla della caduta irreparabile. In ambedue i
punti le affermazioni si corrispondono; non si tratta di singo-
li peccati del cristiano, sia pure di una certa gravità. Non si
tratta, perciò, neppure della possibilità od impossibilità di
una 'seconda penitenza' nel senso della disciplina penitenzia-
le cristiana. È molto più appropriato parlare dell'impossibi-
lità di una seconda conversione. Nel cap. 6 si diceva che essa
è impossibile perché il possesso religioso originario del cri-
stiano non può più essere ricostituito, ed il fatto di disprez-
zarlo, in particolare la profanazione del Figlio di Dio, porta
con sé il giudizio di condanna. In 10,26-31 gli stessi punti di
vista ritornano in altra forma. Tuttavia c'è una differenza: nel
Hebr. Io,32-39 247

cap. 6 v'è anche l'idea dell'impossibilità, in cui viene a tro-


varsi l'anima, di convertirsi una seconda volta, mentre nel
cap. ro si parla di un'impossibilità radicata nella situazione
oggettiva. Ma le due idee non si escludono, anzi si integrano
a vicenda.

Sguardo all'indietro e in avanti per rafforzare l'appello rivolto


( 10,32-39)

32Ricordatevi di quei primi giorni nei quali, dopo essere stati illu-
minati, avete sostenuto una dura lotta dolorosa, 33 ora esposti pub-
blicamente ad obbrobri e tribolazioni, ora compagni di coloro che
erano trattati a questo modo. 34 Infatti avete preso parte alle sof-
ferenze dei prigionieri, e avete accettato con gioia la rapina dei vostri
beni, sapendo di avere una proprietà migliore e duratura. 35 Non per-
dete dunque la vostra fiducia alla quale è riservata una grande
ricompensa. 36 Vi è necessaria la costanza, per compiere la volontà
di Dio e conseguire la promessa. 37 Infatti «ancora un poco, ben poco
tempo: colui che deve venire verrà e non tarderà. 38 Ma il mio giusto
avrà la vita per la fede. Se invece si tira indietro, la mia anima non
si compiace in lui». 39 Noi però non apparteniamo a coloro che si 'ti-
rano indietro' e periscono, ma a coloro che 'credono' e salvano l'anima.

32-39. Con lo sguardo minaccioso rivolto alle conseguenze fu-


ture e con solenne severità l'autore ha messo in guardia dal-
la caduta irreparabile. Ma potrebbero i lettori intendere real-
mente questo sviluppo? Come avevano iniziato felicemente,
anzi eroicamente, al tempo della loro conversione, quando
era stata appena data loro la luce della conoscenza cristiana!
Con la parola 'illuminazione' come in 6,4 è forse inteso diret-
tamente il battesimo. Certo che è passato molto tempo da al-
lora. Quanto non si può dire: tuttavia tutto sembra indicare
un periodo non troppo vicino. Com'era stato promettente
questo inizio! Esteriormente, per loro le cose si erano mes-
se male, perché erano tempi di gravi persecuzioni, le cui vit-
time erano state esposte pubblicamente fra dileggi e maltrat-
248 Sguardo all'indietro e in avanti

tamenti al divertimento della folla avida di spettacoli. A que-


sto riguardo non ci si può sottrarre al ricordo delle crudeli
rappresentazioni nei giardini imperiali al tempo della perse-
cuzione neroniana (fine luglio 64); solo che in tal caso sareb-
be da attendersi un accenno chiaro ai sanguinosi martiri in
quelle occasioni. Ma non ci sarebbe nulla da obiettare a que-
sto riferimento del passo alla persecuzione neroniana, con le
sue sofferenze e i suoi eroismi, perché l'accenno ai martiri può
essere contenuto in questo passo, a meno che non si voglia
arbitrariamente mitigare in modo inammissibile il suo si-
gnificato. Del resto anche 13,7 potrebbe accennare a martiri
del genere. Naturalmente i destinatari della Lettera non era-
no fra quelle vittime, che avevano dovuto sopportare prove
tanto severe; tuttavia l'autore poteva benissimo esprimersi
in questa forma, perché egli sottolinea ad ogni momento gli
strettissimi legami interiori fra il singolo credente e la comu-
nità, per cui esperienze simili fatte dalla comunità toc-
cano tutti i suoi membri. Ma coloro che personalmente non
vi erano stati destinati, non si sono tuttavia sottratti ai dove-
ri della comunione fraterna, con i quali si devono. intendere
aiuti di ogni genere, ed in modo del tutto particolare l'as-
sistenza dei carcerati. La gravità della persecuzione è sotto-
lineata anche dall'accenno alla confisca del patrimonio, che
i cristiani dovettero subire, perché non si può trattare di ra-
pine ad opera di singole persone o di saccheggi di massa. Tut-
to questo essi lo accettarono con gioia; volontariamente ri-
nunciarono al tempo nella certezza dell'eternità, alle ombre
di beni per beni migliori e reali. Con un caldo sentimento,
dal quale però traspare un senso di dolore per la differenza
tra quei tempi e quelli presenti, l'autore rivolge la memoria
a quei tempi eroici della comunità, alla gioiosa confidenza ed
alla fermezza di cui i lettori allora avevano dato prova. Ades-
so vogliono veramente rinnegare questo loro passato? Vo-
gliono abbandonare la loro fiducia come un oggetto diven-
tato inutile? Ciò non può e non deve essere. Insieme al
Hebr. w,32-39 249

passato rinuncerebbero al futuro, la certa speranza del qua-


le ne fece allora degli eroi. Come è grande la 'ricompensa'
che essi riceveranno, il ricco compenso per tutto quanto han-
no sofferto in passato (cfr. Rom. 8,18 s.). Naturalmente, per
poter considerare il bene promesso come cosa propria, è neces-
sario resistere e compiere la volontà di Dio che esige fedeltà.
Ma non è poi così difficile; siamo giunti già quasi alla meta.
Lo conferma (come pure che tutto dipende dalla costanza) la
parola profetica che ora segue, citata come sempre in base ai
LXX, ma in forma riassuntiva. La parte principale proviene
da Abac. 2. Nel testo originario l'annuncio della venuta im-
minente si riferisce ad una visione del profeta, che si adempi-
rà ben presto. A quanto pare già i LXX hanno riferito al Mes-
sia l'espressione 'colui che deve venire'. Così lo intende anche
l'autore della nostra Lettera, per il quale Abac. 2,3, senza te-
ner conto del contesto originario, è senz'altro una promessa
del prossimo ritorno di Cristo. L'accento posto sulla vicinanza
del giorno di tale ritorno è ancora rafforzato dalle parole 'ben
poco tempo', che provengono da Is. 26,20 LXX e sono an-
ch'esse usate dall'autore senza preoccuparsi del loro contesto
e significato originari. Ma con straordinaria libertà egli trat-
ta anche il resto della citazione, che è di Abac. 2,4. Prima
di tutto anche qui non è determinante per lui il significato,
del resto oscuro, del testo originario. Poi egli ha invertito
l'ordine delle due frasi del v. 38, ma soltanto così ottiene
che, contrariamente ai LXX, il 'tirarsi indietro' della seconda
frase si riferisca al giusto, e possa così essere utilizzato a
fini pastorali. Infine nel testo citato non si parla del 'mio'
giusto, ma soltanto del 'giusto', e viceversa della fede 'in me'.
Ma ciò che l'autore vuol mettere in rilievo non è l'oggetto
della fede ma la fede come atteggiamento personale. Il con-
cetto qui corrisponde a quello della costanza, dell'incrollabile
fermezza del v. 36. Si avvicina anche al concetto di fedeltà, di
quella fedeltà, però, di cui si dà prova a Dio e alla sua pro-
messa, attenendosi ad essa e facendosi determinare da essa
250 Sguardo all'indietro e in avanti

nel proprio comportamento. In tal modo nel concetto sono


compresi i due aspetti: la risposta affermativa alla promessa
divina e la fermezza con cui questa risposta è mantenuta in-
tatta, nella sicurezza del futuro. Il forte accento su questo se-
condo momento è caratteristico della particolarità del concet-
to di fede nella Lettera agli Ebrei. La si potrebbe chiarire ul-
teriormente con un confronto con Paolo, tanto più che anche
questi si richiama addirittura due volte (Rom. l,17; Gal. 3,
II) allo stesso passo di Abacuc; ma a quale scopo? Egli lo u-
tilizza come prova a favore della sua predicazione della giusti-
ficazione per la fede; invece il nostro autore non attribuisce
alcuna particolare importanza alla parola 'giusto', che potreb-
be essere sostituito altrettanto bene da 'fedele'. Per Paolo il
concetto di fede sta in contrapposizione a quello di giustifica-
zione per le opere; invece che ai suoi atti morali, che sono
pur sempre opere manchevoli, l'uomo si affida alla grazia di
Dio, cui egli si dona con fiducia. Per l'autore di Hebr. il con-
trapposto della fede è quell'atteggiamento che arretra davan-
ti alle difficoltà che gli si frappongono. Però la differenza tra
Paolo e l'autore di Hebr. non va vista-come una contraddi-
zione reciproca. Non è assolutamente il caso di parlarne.
Infatti, in Hebr., la prova dell'inadeguatezza della giusti-
zia giudaica attraverso il culto, è soltanto un parallelo della
critica paolina alla giustizia attraverso le opere. E per Pao-
lo una fede che non resiste nei tempi difficili rìon sarebbe de-
gna di questo nome. È uno stesso atteggiamento interiore che
viene illustrato da lati diversi in Hebr. e in Paolo. Questa di-
versità era la conseguenza della diversa problematica, in base
alla quale scrivevano Paolo e l'autore di Hebr. Paolo deve
scontrarsi con il farisaismo, il nostro autore deve dare forza
a 'ginocchia tremanti'. Il suo compito è di ottenere che i suoi
lettori si comportino in modo da resistere, come un tempo,
alle pressioni della loro epoca, e da non 'arretrare'. Perché
una fede mantenuta fermamente è la condizione perché il
giusto 'vivrà' che significa la stessa cosa di 'beneficiare del-
Hebr. II,I-40 251

la promessa' (v. 36) e 'salvezza dell'anima' (v. 39). Chi invece


non riesce a conservare questa ferma pazienza sarà respinto
da Dio. No, conclude l'autore, non è questo che vogliamo.
Egli finora ha cercato di convincere i lettori con calda insi-
stenza; ora lo seguiranno. Si unisce ad essi, o piuttosto unisce
essi a sé, nella professione che non è da noi tirarci indietro
per debolezza d'animo (con la prospettiva certa della perdi-
zione eterna) ma credere, con l'altrettanto sicura prospettiva
dell'eterna salvezza.
Questa sezione finale del cap. ro è tutta percorsa dal so-
lenne entusiasmo, dalla gioiosa prontezza a morire, dalla
trionfante fiducia della chiesa dei martiri.

Questa fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli di tut-


ti i tempi ( n,1-40)
1 Ora la fede è un restare con fìducia in ciò in cui si spera, una cer-
tezza di cose che non si vedono. 2 Sul fondamento di questa fede gli
antichi hanno ottenuto (da Dio) la loro testimonianza. 3 Per la fede
noi sappiamo che i mondi sono stati creati da una parola di Dio,
affinché dalle cose non percepibili provengano quelle visibili. 4 Per
la fede Abele offrì a Dio un sacrifìcio più pregevole di quello di Caino,
e in base ad essa fu dichiarato giusto, avendo «Dio» reso testimonian-
za «ai suoi doni», e per essa, benché morto, parla ancora. 5 Per la fede
Enoc fu rapito perché non vedesse la morte e «non lo si trovò
più perché Dio l'aveva rapito»; infatti prima di essere rapito ebbe
testimonianza «di essere piaciuto a Dio». 6 Senza fede, dunque, è im-
possibile piacergli, perché chi viene a Dio deve credere che egli è e
che ricompensa coloro che lo cercano. 7 Per la fede Noè, avvisato di
ciò che ancora non si vedeva, pieno di timore costruì un'arca per la
salvezza della sua famiglia. Per la fede egli condannò il mondo e fu
costituito erede della giustizia rispondente alla fede. 8 Per la fede
Abramo obbedì all'appello di «partire» verso un paese che doveva ri-
cevere in eredità, e «partì» senza sapere dove andava. 9 Per la fede egli
«soggiornò come straniero» nella terra della promessa come in un paese
straniero, abitando in tende con Isacco e Giacobbe coeredi della stessa
promessa; 10 aspettava infatti quella città ben fondata, di cui l'archi-
tetto e il costruttore è Dio. 11 Per la fede anche Sara, nonostante la
sua età, ricevette la forza di produrre discendenza, perché credette fe-
252 La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli

dele colui che aveva fatto la promessa. 12 Perciò da un solo uomo e sul
punto di morire nacquero discendenti «numerosi come le stelle del
cielo e come la sabbia sulla riva del mare, che nessuno può contare».
13 Nella fede sono morti tutti costoro, senza aver ricevuto l'oggetto

delle promesse, ma l'hanno veduto da lontano e l'hanno salutato,


confessando che erano «stranieri e ospiti sulla terra». 14 Infatti coloro
che parlano così mostrano di cercare una patria. 15 E se avessero
pensato a quella di dove erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di
ritornarvi. 16 Ma ora aspirano ad una migliore, quella nel cielo; per-
ciò Dio non si vergogna di chiamarsi loro Dio: infatti ha preparato
loro una città. 17 Per la fede «Abramo, messo alla prova, offrì Isac-
co», e offriva «l'unigenito», egli che aveva ricevuto le promesse,
18 cui era stato detto: «In Isacco avrai una discendenza che porterà il

tuo nome», 19 perché pensava che Dio può anche risuscitare dai morti.
Percui lo riebbe anche come un simbolo. 20 Per la fede Isacco be-
nedisse Giacobbe e Esaù perfino riguardo al futuro. 21 Per la fede Gia-
cobbe morente benedisse ognuno dei figli di Giuseppe e si prosternò
appoggiato alla punta del suo «bastone». 22 Per la fede Giuseppe in
fin di vita evocò l'esodo dei figli d'Israele e diede istruzioni riguard0
alle sue ossa. 23 Per la fede Mosè, dopo la sua nascita, «fu tenuto na-
scosto per tre mesi» dai suoi genitori, perché «videro» che il bam-
bino era «bello», e non ebbero timore dell'ordine del re. 24 Per la fede
«Mosè, divenuto grande», rifiutò di essere chiamato figlio della figlia
del Faraone, 25 preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio
piuttosto che conoscere le gioie passeggere del peccato, 26 consideran-
do una ricchezza maggiore dei tesori dell'Egitto <:<l'obbrobrio» di Cri-
sto». Egli aveva, infatti, gli occhi fissi alla ricompensa. 27 Per la fede
lasciò l'Egitto senza temere il furore del re; come se vedesse colui
che è invisibile, egli perseverò. 28 Per la fede celebrò la <:<pasqua» e
l'aspersione con il <:<sangue», affinché <:<lo sterminatore» non toccasse
i loro primogeniti. 29 Per la fede essi attraversarono il Mar Rosso
come una terra asciutta. Ma quando gli Egiziani cercarono di farlo,
furono inghiottiti. 30 Per la fede caddero le mura di Gerico. dopo
essere state circondate per sette giorni. 31 Per la fede Raab, la prosti-
tuta, non morì con gli increduli perché aveva accolto pacificamente
gli esploratori. 32 E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se
volessi raccontare di Gedeone, Barac, Sansone, Iefte, Davide, Samue-
le e dei profeti, 33 che per la fede sottomisero regni, esercitarono la
giustizia, ottennero il compimento delle promesse, chiusero la bocca
ai leoni, 34 estinsero la violenza del fuoco, sfuggirono al taglio della
spada, trionfarono sulle malattie, divennero eroi in guerra, respin-
sero gli eserciti stranieri. 35 Alcune donne riebbero i loro morti per
Hebr. II,I-40
253
la risurrezione. Altri invece subirono la tortura, rifìutando la libera-
zione, per avere una migliore risurrezione. 36 Altri ancora subirono
la prova delle derisioni e delle battiture, e perfìno delle catene e del
carcere; 37 furono lapidati, segati, uccisi di spada; vagarono ramin-
ghi coperti di pelli di capre e di montoni, bisognosi, oppressi, mal-
trattati; 38 essi, di cui il mondo non era degno, erranti per i deserti,
le montagne, le caverne e gli antri della terra. 39 E tutti costoro, ben-
ché avessero ricevuto una buona testimonianza per la loro fede, non
ottennero i beni promessi, 40 perché Dio aveva previsto una sorte
migliore per noi: essi non dovevano giungere alla perfezione senza
di noi.

rn.2. Il capitolo comincia con una definizione dell'essen-


za della fede, che però non ha lo scopo di abbracciarne tutte
le caratteristiche concettuali. Perciò non è consigliabile
parlare di una 'definizione' nel senso usato dalla logica. Una
'definizione' presuppone l'accertamento di tutti i caratteri di
un concetto. Ora, dato che qui si parla della fede nel suo sen-
so biblico, non potrebbe mancare l'indicazione del suo ogget-
to; invece si ha di mira soltanto l'atteggiamento spirituale
della fede, che è descritta mediante due formule, che non
sono affatto equivalenti. La prima (v. ra) riprende in una for-
ma estremamente concisa un'idea che sembra voler risponde-
re ad una certa riserva che potrebbe essere avanzata dai let-
tori. Questi erano stati più e più volte esortati ad una fede
da conservare nella ferma speranza nella promessa divina;
forse i lettori risponderebbbero con un sospiro: ma fino a
quando? Essi hanno sperato e sperato, e quanto hanno sof-
ferto! Sempre invano. Ma, dice ora l'autore, questa fede che
si afferra con ferma fiducia alla speranza della pienezza della
salvezza, che la promessa divina ci apre, e diventa la base
del comportamento, è di fatto l'atteggiamento decisivo del
fedele, da cui dipende tutto. Questo è l'atteggiamento che
Dio vuole e che approva con la sua testimonianza. Osservan-
do soltanto tutte le figure venerabili della storia primitiva
dell'umanità e della storia d'Israele, quali ce le descrive la
Bibbia, si vede che questa fede è sempre l'anima del loro
254 La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli

comportamento; di esse Dio testimoniò il suo compiacimen-


to, sia esplicitamente in parole, sia nei loro destini. Più avan-
ti, nel cap. 12, come ultimo esempio, il più eccelso, la figura di
Cristo coronerà l'elenco. Si tratta dunque di questa fede; uni-
tevi a questo coro!

1b.3. Ma la prima formula non era sufficiente per tutti gli


esempi addotti, più precisamente non per quello che doveva
aprire la serie. Non sempre si tratta di certezza della fede nel
futuro, e non sempre in quello sperato. Perciò l'autore ag-
giunge la seconda condizione, nella quale stupisce il carattere
oggettivo dell'espressione scelta che propriamente significa
dimostrazione, prova. Ora la fede non può essere una pro-
va, una garanzia della realtà di ciò che si crede. L'espres-
sione è stata scelta per dire che la fede possiede una in-
tima certezza o sicurezza, dipendente da una necessità obiet-
tiva. La seconda formula estende di molto l'ambito della
prima; infatti tutto ciò che è soltanto sperato è naturalmente
non ancora visibile, ma viceversa non tutto quello che non è
visibile è anche sperato. Perciò in certo qual modo tutti gli
esempi che seguono si possono ricondurre sotto la prima con-
dizione del v. r, ma non quello del v. 3. Qui si tratta infatti
di un fatto del passato, anch'esso però conoscibile soltanto
dagli occhi della fede. Sembra pertanto che la formula am-
pliata del v. rb sia stata aggiunta soprattutto per questo esem-
pio che anche sotto altri aspetti esce fuori dal quadro entro
cui sono contenuti gli altri esempi. Esso infatti è l'unico volto
non al comportamento del credente ma al contenuto di ciò
che è creduto, non alla conservazione della fede ma alla ve-
rità di fede. Questa differenza certamente è voluta e non pu-
ramente casuale, come si può riconoscere nella proposizio-
ne finale in 3b. Quando Dio creò il mondo con la sua
parola doveva essere dimostrato che non ciò che è percepibile
dai sensi, ma l'invisibile è propriamente vero, cioè che il
visibile deve ad esso la sua esistenza. La creazione del mondo
Hebr. n,r-40 255
con la parola di Dio è citata qui in primo piano non soltanto
e neppure perché è conoscibile soltanto alla fede, ma soprat-
tutto perché è la maggior dimostrazione del diritto della fede
nella realtà dell'invisibile, cioè nell'opera della parola divina.
Pertanto questo esempio, proprio nella misura in cui si di-
stacca chiaramente da tutti gli altri, ne costituisce un'appro-
priata introduzione.
La serie di esempi, che ora vengono elencati, segue fino al
v. 32 l'ordine cronologico; dopo di quel versetto quest'or-
dine non è più osservato strettamente. Essa va dagli inizi del
genere umano fino ai tempi dei Maccabei (dopo il r 70 a.C. ).
Abbiamo tre esempi tratti dalla prima era del mondo (vv. 4-
7 ); poi otto della storia dei patriarchi da Abramo a Giuseppe
(vv. 8-22 ); sette ancora del tempo di Mosè (vv. 23-31 ), ed in-
fine un cenno sulla moltitudine degli eroi della fede dal pe-
riodo dei Giudici al tempo della persecuzione religiosa siria-
ca con i suoi martiri (vv. 32-38). Una frase conclusiva, che
mette il destino delle persone fino allora nominate in rappor-
to con la comunità cristiana, prepara la strada ad un nuovo
appello ai lettori (vv. 39.40). L'autore non ha avuto in men-
te nessuno schema numerico. Stupisce in questa sezione che
l'Antico Testamento non dica affatto che le persone nomina-
te abbiano dato prova di fede nelle situazioni qui indicate;
viceversa il famoso passo di Paolo sulla fede di Abramo
(Gen. 15,6) non è utilizzato dall'autore. La fede di queste
persone l'autore la deduce dai giudizi pronunciati su di loro,
dal loro comportamento, dai loro successi, ma anche dalla
fermezza con cui sopportarono i loro dolori. In parte le no-
tizie date dall'autore provengono dalla tradizione extra-bi-
blica.

4-7. Gli esempi dei primi tempi del mondo riguardano Abe-
le, Enoc e Noè. Per nessuno di essi l'Antico Testamento par-
la di fede. Ad Abele, però, Dio rese testimonianza, in quanto
secondo Gen. 4A guardava con compiacimento i sacrifici che
La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli

gli offriva, e indirettamente, attraverso le parole rivolte a


Caino in Gen. 4,7, affermò che era giusto. Ma allora, ne dedu-
ce l'autore, egli deve avere avuto fede, conforme al principio
espresso esplicitamente nel v. 6. È stata proprio la fede, dun-
que, che diede al suo sacrificio un maggiore valore e che fece
sì che piacque a Dio; e Dio lo dimostrò inoltre con il fatto
che, secondo Gen. 4,10, il suo sangue, anche dopo la sua
morte, continua a gridare a Dio, come, secondo Apoc. 6,9 s.,
le anime dei martiri gridano vendetta a Dio. Infatti tale gri-
do presuppone la fede, cioè la fiduciosa speranza, o convin-
zione, che Dio udirà il grido ed esaudirà la preghiera. Come
la fede di Abele è dedotta dal fatto che Dio gli attesta che
egli è giusto, così quella di Enoc dal fatto che (non nel testo
originario ma in quello dei LXX) si afferma che è piaciuto a
Dio (Gen. 5,22.24). Fu questa la condizione per il suo rapi-
mento; ma questo era già di per sé una prova della sua fede,
perché esso gli aveva dato la possibilità di venire a Dio. Così
l'autore interpreta il rapimento. Chi vuole venire a Dio di-
mostra già di credere all'esistenza di Dio e che egli, per co-
loro che lo cercano, sarà il compensatore di tutto quanto
hanno sopportato, o a cui avranno rinunciato, per lui, cioè
per piacere a lui. E Dio tira a sé soltanto uomini così. Dun-
que il suo rapimento, tanto dal punto di vista di Dio quanto
da quello degli uomini, fu possibile soltanto per la sua fede.
Il terzo esempio è quello di Noè. Egli dimostrò la sua fede
con il fatto che, dopo l'annuncio del diluvio, costruì l'arca
della salvezza. Egli era dunque convinto che il diluvio sa-
rebbe avvenuto: la sua fede era sì in un evento futuro, ma
non tanto sperato quanto piuttosto temuto, ma comunque non
ancora visibile (sperato solo indirettamente, in quanto egli
attendeva la sua salvezza). Perciò il v. 7 si accosta alla formu-
lazione del v. rb. Questa fede nel prossimo diluvio e la conse-
guente costruzione dell'arca significa che egli considerava il
mondo, che con la sua solita leggerezza continuava la sua so-
lita vita, come condannato al giudizio. Questa fede era tanto
Hebr. rr,r-40 257

salda che egli non rifiutò di porsi in radicale opposizione al


mondo. Questo è un elemento essenziale dell'autentica fede,
perciò anche Noè ebbe la testimonianza che gli competeva.
Questa viene espressa con le parole che egli divenne erede
della giustizia rispondente alla fede. La parola 'giustizia'
richiama immediatamente alla memoria Paolo, ma il signi-
ficato è totalmente diverso da quello di Paolo allorché par-
la di giustificazione per la fede. Questa infatti significa la
grazia del perdono, per Hebr. invece equivale ad una con-
dizione effettiva di giustizia presente in tutta la condot-
ta di vita, uno degli aspetti essenziali della quale è di cre-
dere. È vero che la Scrittura si limita a dire che Noè era giu-
sto e perfetto, e perciò piacque a Dio (Gen. 6,9 LXX) e che gli
fu preannunciato il diluvio perché potesse salvarsi. Il giudizio
di giusto era dunque già pronunciato su di lui prima che egli
avesse avuto l'occasione, citata da Hebr., di dimostrare la sua
fede; ma per il nostro autore secondo i vv. 4 e 6 il riconosci-
mento della sua giustizia includeva già la sua fede. Egli è
chiamato erede di questa giustizia perché già il suo antenato
Enoc l'aveva avuta.

8-12. Mentre nei tre esempi precedenti, oltre al comporta-


mento nel quale appare la fede, ogni volta, secondo il
v. 2, è fatta indicazione anche della testimonianza che le
tre persone hanno ricevuto da Dio nella Scrittura, nei suc-
cessivi esempi l'autore si limita a dimostrare la fede dei per-
sonaggi citati come si ricava dal loro comportamento, salvo
a dire nel v. 39 che anche ad essi non mancò una buona testi-
monianza. Abramo dimostrò la sua fede prima di tutto obbe-
dendo ciecamente all'ordine di abbandonare la patria, nella
certezza che Dio avrebbe realizzato la promessa di dargli una
nuova patria. Egli non si lasciò sviare neppure dalla vita
insicura che dovette condurre nella terra promessa, come
uno straniero che non ha alcun diritto sulla terra; e neppure
dal fatto che anche a suo figlio ed al figlio di suo figlio le cose
258 La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli

non andarono meglio. Egli non avrebbe potuto, pensa l'au-


tore, tenere questo atteggiamento se non avesse avuto una
certezza del futuro, che gli consentiva di considerare senza
importanza le cose terrene. Egli non aspettava una città prov-
veduta di fondamenta, un insediamento definitivo e non co-
me fino allora una vita di nomadi, ma la città con le fondamen-
ta, l'unica che meriti questo nome. Le città terrene, anche se
fossero così saldamente costruite, in fondo non sono altro che
un accampamento di tende. Tutt'altra cosa è la Gerusalemme
celeste, la città futura, duratura (cfr. 13,14 s.). Il suo costrut-
tore è Dio, perciò è imperitura. Nello stesso rapporto sta an-
che il santuario celeste eretto da Dio, come il vero santuario,
con quello costruito da mani d'uomo (cfr. 8,2; 9,II ). È vero
che l'Antico Testamento non fa parola di tali pensieri di A-
bramo; ma, pensa l'autore, il suo comportamento non si può
affatto comprendere se non come una fiducia assoluta nelle
cose sperate. Ancora più ardite di tali considerazioni sulla fe-
de di Abramo sono quelle sulla fede di Sara. Infatti secondo
Gen. 18,10-15, quando già vecchia le fu promesso un figlio,
essa rise incredula. Ma ella ebbe un figlio come Dio le aveva
promesso (Gen. 21,1 s.), e semplicemente da questo fatto
l'autore consegue che deve aver creduto. Infatti, pensa l'au-
tore, altrimenti come avrebbe potuto Dio far avvenire questo
inaudito miracolo: una coppia di sposi che, secondo il decor-
so normale della vita da lungo tempo avevano perduto la ca-
pacità di procreare, avesse ancora un figlio e attraverso a lui
una discendenza innumerevole? Tanta vita straripante dalla
morte può riceverla soltanto una fede che accoglie con totale
confidenza la promessa divina.

r yi:6. Interrompendo la enumerazione ma, per quel si rife-


risce alla serie fino a Giuseppe, preparandola, l'autore intro-
duce adesso un'osservazione generale sui patriarchi, che ri-
chiama i vv. 9. lo: non solo la loro vita era stata conforme
alla fede, ma anche la loro morte. Infatti, anche quando mori-
Hebr. n,r-40 259
rono continuarono ancora a mostrare di porre la loro fiducia
nelle cose sperate. Essi non videro l'adempimento delle pro-
messe; soltanto da lontano salutarono, come l'emigrante, la
loro meta indistinta. Ma proprio per questo rimasero fermi
nella loro fede. Che essi concepissero così la loro situazione
trova espressione nel fatto che parlavano di sé come di stra-
nieri e di ospiti sulla terra; così Abramo, dopo la morte di
Sara, aveva detto agli Ittiti che si considerava come ospite
forestiero in mezzo a loro ( Gen. 2 3 A) ed anche Giacobbe
aveva detto al Faraone che la sua vita era stata quella di un
pellegrino (Gen. 4 7 ,9 ). Il nostro autore non vede la cosa sot-
to l'aspetto giuridico, ma in un senso più profondo: ognuno,
questo è il suo pensiero, parla soltanto di sé, in cui è vivace
la nostalgia di una patria al di là di questo mondo visibile;
se, infatti, avessero avuto in mente una patria nel senso na-
turale della parola, sarebbero certamente ritornati in Caldea,
di dove era venuto Abramo (Gen. l l ,28; 12,1-4). Ma essi
pensavano alla città che Dio aveva loro preparato; là, con
Dio, essi vedevano la loro vera patria, il luogo al quale appar-
tenevano. E Dio lo ha riconosciuto, chiamando se stesso nel-
la rivelazione a Mosè sull'Oreb il Dio di Abramo, d'Isacco e
di Giacobbe (Ex. 3,15 s.). Essi debbono entrare nella patria
celeste e vi entreranno, perché Dio non deluderà la loro fede.

17-22. Le osservazioni dei vv. 13-16 sostanzialmente non fan-


no che esprimere con altre parole ciò che era già stato detto
ai vv. 9 s. sulla vita dei tre patriarchi. Però era stato afferma-
to, ma non provato, che essi morirono in modo conforme alla
loro fede; e questo sembra ora essere l'idea comune, che lega
i tre patriarchi fra di loro: che tutti e tre sostennero la loro
fede con i fatti al cospetto della morte. Ciò è del tutto evi-
dente negli esempi di Isacco, Giacobbe e Giuseppe; quanto
ad Abramo non si tratta della sua morte, ma del fatto che egli
ha conservato la fede di fronte alla morte del figlio Isacco.
Infatti la prontezza a sacrificare il figlio, sotto questo punto
La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli

di vista è guardata come l'estrema e migliore dimostrazione


della fede di Abramo: tutte le speranze di Abramo erano ri-
poste nel figlio; Dio aveva promesso ad Abramo una grande
discendenza, che questi poteva avere soltanto attraverso a
Isacco, il suo unico figlio. Eppure lo portò egli stesso al sa-
crificio (Gen. 22). Come fu possibile? Forse che rinunciava
al compimento della promessa? Aveva perduto la speranza?
L'autore esclude assolutamente questa ipotesi; il fatto che
Abramo abbia compiuto l'atto di obbedienza a Dio dev'es-
sere spiegato nel senso che la sua fiducia nel compimento del-
la speranza, alimentata in lui dalla promessa di Dio, lo aiutò
a superare anche questo ostacolo quasi insuperabile: Dio a-
vrebbe ben richiamato in vita quel figlio che gli aveva sacri-
ficato. E così lo riebbe, come un simbolo della reale risurre-
zione futura. Isacco, Giacobbe e Giuseppe morirono nella
fede perché le benedizioni e le raccomandazioni che imparti-
rono prima di morire non avrebbero avuto alcun senso se non
fossero state sorrette dalla sicura fiducia nelle cose sperate,
cioè in quello che era annunciato nelle benedizioni. È vero
che la morte di Isacco è raccontata in Gen. 35,29 alcuni ca-
pitoli dopo quello che parla della benedizione dei suoi due
figli (Gen. 27); ma secondo Gen. 27,1 anche la benedizione
fu data quando egli era ormai vecchissimo e la sua vista si era
già oscurata. Quanto a Giacobbe è strano che non si parli
della benedizione dei suoi dodici figli ( Gen. 49 ), ma di quella
dei figli di suo figlio Giuseppe. L'espressione del v. 2 l b è
dovuta ad un'errata lettura da parte dei LXX del testo ebrai-
co, e non si trova neppure nella scena della benedizione ( Gen.
48) ma prima di essa (Gen. 47,31); apparentemente non vi
dobbiamo vedere un segno di debolezza fisica ma un'espres-
sione di preghiera di fede. L'osservazione relativa a Giuseppe
si basa su Gen. 50,24 s.: i suoi fratelli dovettero giurargli di
portare a suo tempo le ossa nella terra della promessa. Tanto
certo egli era del suo compimento. Egli «la vide da lontano
e la salutò».
Hebr. n,r-40

23-31. Come la vita di Abramo, anche quella di Mosè fu in-


teramente sotto il segno della forza della fede. Lo si vide già
subito dopo la sua nascita: secondo Ex. 2,2 sua madre lo ten-
ne nascosto tre mesi, perché aveva veduto che era bello. Co-
me avrebbero potuto i suoi genitori, si domanda l'autore, osa-
re minimamente di sfidare l'ordine del re (Ex. l,22)? Ciò fu
possibile soltanto per la fede. Da Ex. 2,2 l'autore deduce che
dalla figura del fanciullo i genitori avevano tratto la convin-
zione che Dio si proponeva qualcosa di particolare per mezzo
di lui, e si lasciarono guidare da questa fede, che era anche
certezza dell'aiuto divino. E Mosè più tardi, come supposto
figlio della figlia del Faraone avrebbe potuto avere alla corte
egiziana una vita comoda di piaceri (Ex. 2, IO); ma questo
sarebbe stato un peccato di rinnegamento del suo popolo e
di tradimento del suo incarico. Mosè respinse la tentazione
e scelse la parte del suo popolo maltrattato dagli Egiziani.
Anche questa decisione di Mosè, afferma ancora l'autore, fu
possibile soltanto per la fede, e cioè la fiduciosa certezza che
Dio ricompenserebbe questa sua condotta con la salvezza e-
terna (cfr. rn,34 s.). È strano che le tribolazioni che Mosè
prese su di sé siano chiamate l'obbrobrio di Cristo; che l'ob-
brobrio che il cristiano deve sopportare sia concepito come
obbrobrio di Cristo è comprensibile e se ne hanno echi nel
Nuovo Testamento (ad es. Hebr. 13,13; Act. 5,41; Rom. 15,
3; 2 Cor. l,5; Col. l,24; I Petr. 4,13); ma Cristo era anche
la guida segreta della storia veterotestamentaria. È questa
per il nostro autore una convinzione ovvia; e perciò poteva
chiamare obbrobrio di Cristo l'obbrobrio cui erano soggetti
coloro che si ponevano al servizio della causa di Dio, tanto
più che a questa idea sembra già alludere Ps. 89,51 s. Inoltre
anche i grandi atti compiuti da Mosè: l'abbandono dell'Egit-
to con il popolo, senza preoccuparsi dell'ira del Faraone (Ex.
l 2 ,5 l ), l'istituzione della pasqua con i suoi riti cruenti appa-
rentemente senza significato per salvare i primogeniti degli
Israeliti dall'angelo sterminatore che doveva annientare tutta
La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli

la primogenitura dell'Egitto (Ex. 12,12 s.), ma soprattutto


l'attraversamento del Mar Rosso (Ex. 14,16.21 s.); tutti que-
sti atti furono possibili soltanto con una fede che, come se ve-
desse davanti a sé con gli occhi del corpo ciò che nessuno
può vedere, si abbandonasse con incondizionata fiducia al-
l'aiuto promesso da Dio. Chi senza fede avesse osato cose si-
mili, come dimostra il destino che attendeva gli inseguitori
egiziani, doveva invitabilmente perire. E quando, all'inizio
della conquista della Palestina, Giosuè con le milizie israeli-
tiche per sette giorni girò intorno alle mura della fortezza di
Gerico, certamente questo atto dovette apparire come un ini-
zio pazzesco (Ios. 6,1 ss.). Ma Giosuè sapeva quello che fa-
ceva: egli costruiva sulla promessa di Dio e ne vide il compi-
mento. Gerico fu annientata. Restò soltanto una povera pro-
stituta pagana; indubbiamente Raab era una donna disprez-
zata da tutti, ma aveva un vantaggio su tutti gli altri: aveva
dato prova di fede, cioè fede che Dio aveva dato la terra a
Israele (Ios. 2,9). Soltanto per questo motivo aveva accolto
in casa sua pacificamente, cioè senza tradirli anzi tenendoli
nascosti, gli esploratori d'Israele. Questa fede fu la sua sal-
vezza.

32-40. Qui l'autore si interrompe: se egli continuasse in que-


sta elencazione, non finirebbe più. Con sguardo fuggevole
egli quasi scivola sugli atti eroici del tempo dei Giudici e dei
Re, e anche dei profeti come Elia ed Eliseo (v. 35 inizio: cfr.
I Reg. n,23; 2 Reg. 4,36), servendosi pure delle notizie con-
tenute nel Libro di Daniele (v. 33 fine, 34 inizio; cfr. Dan.
6,23; 3,23-25). L'annotazione del v. 33 sull'esercizio della
giustizia potrebbe richiamarsi a 2 Sam. 8,15: Davide esercitò
il giudizio e la giustizia su tutto il suo popolo; quella sul riac-
quisto delle forze dopo un periodo di debolezza (v. 34) forse
ricorda Sansone (Iud. 16). Tutto quanto di notevole la tradi-
zione biblica narra a proposito di queste figure, esse lo hanno
compiuto per la fede ( v. 3 3 inizio). L'autore lascia al lettore
Hebr. n,r-40 263

che conosce la Bibbia (questo è implicito) di vedere nei sin-


goli casi, come egli ha fatto negli esempi che ha portato, in
quale misura ci sia stato un atteggiamento di fede secondo
l l, l. Ma mentre negli esempi precedenti si trattava sempre
di azioni positive o di esperienze di salvezza, dalle quali si
può ricavare la fede degli attori, a partire dal v. 35 b il carat-
tere dell'elencazione cambia totalmente. Da ora in poi si trat-
terà soltanto di martiri e di persecuzioni; non sono fatti no-
mi, tuttavia i vv. 35 b.36 alludono evidentemente al martirio
di Eleazaro e dei sette fratelli con la loro madre al tempo
dei Maccabei (2 Mach. 6,18-7,42). Il destino finale di Zac-
caria è stato di essere lapidato ( 2 Chron. 24,2 l ), quello di
Isaia, secondo la leggenda giudaica, di essere segato (mart.
Is. cap. 5 ); l'uccisione dei profeti con la spada dovrebbe ri-
chiamarsi alla ferocia di Acab e di Gezabele (I Reg. l 9, ro).
Le osservazioni sulla vita instabile e dolorosa dei fuggiaschi
potrebbero riferirsi ad es. ad Elia (2 Reg. l,8; I Reg. 17,2;
18,4; 19,8) ma anche ad avvenimenti del tempo dei Macca-
bei (I Mach. 2,29 ss.; 2 Mach. 5,27). Trattando in tal modo
questi giusti, aggiunge l'autore non senza amarezza, il mondo
pronunciò da solo la sua condanna; ma essi attinsero la forza
per sopportare tanto soltanto dalla fede, cioè dalla fiduciosa
speranza nella promessa salvifica di Dio, nella 'ricompensa'
(v. 26). Ritornando ora sull'intero capitolo l'autore dichiara
ancora una volta, come all'inizio (v. 2), che Dio non ha ne-
gato ad un simile atteggiamento il suo riconoscimento ed il
suo elogio (anche se non è stata dimostrata la concessio-
ne di tale testimonianza in ogni singolo caso, perché ciò è
apparso superfluo). Che tale atteggiamento sia lodato da Dio
è naturale; tuttavia quegli eroi della fede una cosa non han-
no avuto: il compimento della promessa. Ma non perché la
loro fede sia stata un'illusione, bensì per un'intenzionale gra-
zia di Dio nei nostri confronti. Il compimento fu rimandato
affinché anche noi, i cristiani, ne partecipassimo. Il compi-
pimento significa la conclusione della storia terrena. Se il
Lottiamo tenacemente seguendo la guida di Gesù verso la meta

compimento della salvezza fosse già avvenuto in un tempo


anteriore, ne sarebbero stati esclusi gli uomini nati successi-
vamente. E Dio non lo voleva. Egli aveva previsto per noi
una sorte migliore di quella che altrimenti avremmo avuta;
ma anche di quella che gli antichi ( v. 2) hanno avuta: cfr. 8,
1-10,18. Per questa ragione hanno dovuto aspettare; ma
dunque debbono averci aspettato invano?

Lottiamo tenacemente, seguendo la guida di Gesù verso la meta. Non


lasciamoci confondere, ma sollecitare, dalle sofferenze ( 12,1-II)

1Poiché dunque siamo circondati da una tale nube di testimoni, depo-


niamo anche noi ogni peso ed il peccato che ci assedia, e corriamo con
tenacia la gara che ci è proposta, 2 con lo sguardo rivolto al capo della
fede, Gesù, che la porta a compimento e che, in luogo della gioia che
gli era proposta, sostenne il peso della croce, disprezzando la vergo-
gna, e «ora è seduto alla destra» del trono di Dio. 3 Pensate a colui
che ha sopportato «contro di sé» una simile opposizione «da parte dei
peccatori», affinché non veniate a mancare per stanchezza delle anime
vostre. 4 Giacché non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta
contro il peccato 5 e vi siete dimenticati dell'esortazione rivolta a voi·
come a dei figli: «Figlio mio, non trascurare la correzione del Signore
e non scoraggiarti quando ti riprende. ti Perché il Signore corregge co-
lui che ama e percuote chiunque riceve per figlio». 7 È per la vostra
«correzione» che voi soffrite. Dio si comporta con voi come con dei
«figli»: qual è infatti il «figlio» che il padre non «corregga»? 8 Se siete
esenti da questa correzione, di cui tutti sono partecipi, siete bastardi
e non «figli». 9 Del resto, se siamo stati sotto la disciplina dei nostri
padri secondo la carne e li abbiamo rispettati, non ci sottometteremo
forse molto di più al Padre degli spiriti per avere la vita? 10 Essi infatti
ci correggevano per pochi giorni a loro giudizio; ma egli lo fa per il
nostro bene, per aver parte alla sua santità. 11 Ogni correzione sul mo-
mento non è un motivo di gioia, ma di tristezza; ma più tardi porta a
coloro che sono stati educati da essa un frutto di pace e di giustizia.

l·l r. Già in l l ,40 era riapparso lo scopo pratico, che vuol


perseguire anche la dottrina teologica del cap. l r. Tale scopo
lo abbiamo già conosciuto in ro,35-39. Ora l'autore torna in-
teramente ad esso. Egli si serve, come anche Paolo aveva ca-
Hebr. I2,I-II 265

ro, di un'immagine della vita sportiva dei suoi tempi. Insie-


me ai suoi lettori egli si presenta come un corridore che par-
tecipa ad una gara di corsa della cui partecipazione, però, non
è dato loro di decidere a loro piacimento. Essi devono farlo,
perché Dio ha dato loro un compito da adempiere: una schie-
ra compatta, addirittura una nube di spettatori è intorno a
loro. Tutti i giusti, di cui ha parlato il cap. r r, che hanno la
prova della loro fede, i giusti perfetti ( 12 ,2 3 ), sono testimo-
ni del loro sforzo e attendono il risultato con molta tensione.
Un quadro veramente grandioso, simile a quello che trovia-
mo in Paolo (dr. I Cor. 4,9 ). Come deve incitare tutti l'idea
di questi spettatori! Perché essi vogliono veramente consegui-
re la vittoria. Il corridore si veste il più leggermente possibile;
niente pesi di cui si possa fare a meno; niente abiti che si av-
volgono intorno alle membra e ne ostacolano il libero movi-
mento; via tutto quanto trattiene e pesa. In sostanza tutto
questo è il peccato, cioè quanto si oppone a Dio. Esso va eli-
minato. Ma non tutto dipende da una buona partenza; que-
sta è avvenuta ( ro,32 ). Ora è necessaria la resistenza e la co-
scienza della meta. Il corridore non guarda a destra e a sini-
stra, ma a colui che è in testa, per emularlo. La nostra guida
è Gesù. Egli è corso avanti a tutti con una fede che ha supe-
rato ogni ostacolo, e con questa fede ha raggiunto il traguar-
do. Perciò è necessario avere fiducia 'fino alla meta' ( 3, r 4 ),
come egli ha fatto. Egli ha sopportato la vergogna e il tor-
mento della croce; e ha potuto farlo, perché ha creduto. Egli
mirava alla gioia celeste che Dio gli avrebbe dato; e gli è sta-
ta data. Siede alla destra di Dio, come era stato detto in Ps.
r ro,r. Questo intende dire l'autore quando chiama Gesù 'co-
lui che porta a compimento la fede'. La sua prova è stata più
difficile di quella di qualsiasi altro; non la sofferenza fisica era
la cosa peggiore, ma l'opposizione dei peccatori, che respin-
sero (finendo per rovinarsi in questa perfezione del loro odio)
il Figlio di Dio, l'Immacolato, il Misericordioso, che era ve-
nuto ad aiutarli. Ma anche il suo premio era più grandioso
Lottiamo tenacemente seguendo la guida di Gesù verso la meta

di quello di qualsiasi altro: il posto alla destra di Dio. A que-


sto dovete pensare; allora non rinuncerete a correre 'per la
stanchezza delle anime vostre'. Infatti in questa gara tutto di-
pende dall'atteggiamento interiore. L'immagine si sposta dal-
la gara ad una lotta mortale con il peccato. È il peccato che vi
vuole distogliere da quella che è la volontà di Dio; che vi
vuole indurre a rinunciare alla professione della speranza (IO,
2 3 ), alla professione per Gesù ( 3, r ; 4, r 4), che vi spinge a
cadere. È necessario resistergli, se necessario 'fino al sangue',
cioè dando la vita fisica. Gesù l'ha fatto. Però i lettori sono
stati finora esentati da questa prova estrema; finora non è sta-
to chiesto loro il martirio cruento. Questa affermazione non
contraddice ro,32-34, anche se in quell'occasione ci sono sta-
ti casi di martiri cruenti; si tratta infatti di avvenimenti mol-
to lontani nel tempo, ai quali purtroppo il comportamento
presente dei lettori corrisponde troppo poco. Certo, per la
loro fede debbono sopportare alcune cose spiacevoli; ma ciò
che si esige da loro è ancora sopportabile. Eppure non viene
loro in mente di valutare positivamente con Prov. 3,rr s. le
loro sofferenze, come aiuti di Dio per promuovere il loro per-
fezionamento interiore. Un atteggiamento insoddisfatto di ri-
fiuto e di scoraggiamento toglie alle sofferenze i loro frutti.
Esse diventano fruttuose se le consideriamo come mezzi di-
vini della nostra educazione, che ci pongono determinate esi-
genze; viste sotto questo aspetto esse diventano addirittura
una dimostrazione dell'amore paterno di Dio. La stessa cor-
rezione che un padre terreno impartisce a suo figlio (e in
quanto siamo uomini, nessun padre, che prenda sul serio i
suoi doveri di educare i figli, se ne potrà esimere), giustamen-
te intesa, non è altro che una conferma del suo amore per il
figlio, nel quale riconosce un vero figlio in questa cura di edu-
carlo, senza preoccuparsi d'altro o d'altri. Lo sappiamo tutti
per esperienza diretta, e perciò ci siamo comportati davanti
ai nostri padri con l'attenzione riverente che loro spetta,
quantunque essi intendessero educarci a diventare uomini ca-
Hebr. r2,r-II 267

paci per il breve tempo della nostra vita sulla terra, e quan-
tunque certamente qualche volta si sbagliassero. E non vo-
gliamo trarne le conseguenze per il comportamento da tenere
verso colui al quale non soltanto siamo debitori dell'esisten-
za corporale, come ai 'padri secondo la carne', ma che è anche
il 'padre degli spiriti', vale a dire l'origine ultima del nostro
essere spirituale, delle nostre anime? che non si sbaglia nella
scelta dei mezzi per educarci, ma opera veramente per il no-
stro meglio, in quanto persegue il fìne di renderci partecipi
della sua santità e di 'vivere', nel senso che questa parola me-
rita veramente di essere chiamata così, nel senso cioè della
vita eterna? Perché, se i cristiani sono stati già 'santifìcati'
con il sacrifìcio di Cristo ( 10,14.29 ), non lo sono stati per ri-
manere fermi nel loro comportamento morale, come erano
prima, ma anche praticamente per rimuovere i loro peccati e
diventare santi come è santo Dio. E se Dio si serve a tal :fine
del mezzo educativo delle sofferenze, ciò è certamente molto
scomodo per gli uomini, come lo è l'applicazione di ogni mez-
zo educativo, in quanto anche per i cristiani le sofferenze re-
stano tali; ma essi sanno anche apprezzarne il valore positi-
vo: esse sono il mezzo per portarci sempre più (come i frutti
che maturano a poco a poco) a corrispondere alle esigenze di
Dio. Questo è un frutto 'di pace'. La gioia interiore delFuo-
mo aumenta quanto più egli trova nel suo comportamento vo-
litivo la concordanza con la volontà di Dio.
Queste osservazioni sulle sofferenze dei lettori si riferisco-
no in primo luogo alle sofferenze causate dalle persecuzio-
ni alle quali sono sottoposti e che li demoralizzano; e tenen-
do conto di questo fatto già l'elencazione del cap. l r termina
con dei martiri sensazionali. E anche per questo motivo il
cap. 12 comincia con l'accenno all'esempio sublime di Cristo.
Ma queste osservazioni sono anche piene di profonda sag-
gezza e verità per ogni sofferenza umana; infatti per i cristia-
ni in ultima analisi tutto è sofferenza, anche ciò che non è oc-
casionato da un'umana ostilità religiosa, ed è una prova della
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia

loro fede. Perciò per essa vale sempre ciò che l'autore ha scrit-
to in principio: volgete lo sguardo a colui che ci ha precedu-
ti come guida della fede e l'ha sostenuta fìno alla meta: Gesù.
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia. Ultimi ammo-
nimenti sulla caduta irreparabile e sulle conseguenze fatali
( 12,12-29)
12 Perciò «rafforzate le mani cadenti e raddrizzate le ginocchia vacil-

lanti» e 13<<rendete diritte le strade per i vostri piedi», affinché lo zoppo


non si smarrisca, ma piuttosto trovi guarigione. 14 «Cercate la pace»
con tutti e la santificazione, senza della quale nessuno vedrà il Si-
gnore, 15 vigilando che nessuno si lasci sfuggire la grazia di Dio;
«che nessuna radice amara germogli ponendo degli ostacoli» e molti
siano contaminati da essa; 16 che non ci sia nessun fornicatore o
profanatore come «Esaù» che per un solo piatto «vendette la sua
primogenitura». 17 Sapete infatti che più tardi, quando volle avere la
benedizione, fu respinto, perché non trovò luogo per il cambiamento
di decisione, quantunque l'avesse cercato con lacrime. 18 Perché voi
non vi siete avvicinati a un monte che si possa toccare, a «fuoco
ardente, a nuvole tenebrose e a uragano, 19 e a suono di trombe e a
clamore di voci», così potenti che quanti l'udirono supplicarono che
non si parlasse più ad essi. 20 Infatti essi non poterono sopportare il
divieto: «sia pure un animale a toccare la montagna, sia lapidato».
21 E - così terribile era lo spettacolo - (lo stesso) Mosè disse: «Sono

pieno di timore» e di tremore. 22 Ma voi vi siete avvicinati alla mon-


tagna di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e
al festoso convegno di molte migliaia di angeli, 23 ed all'assemblea dei
primogeniti che sono iscritti nei cieli, e a Dio giudice di tutti e agli
spiriti dei giusti resi perfetti, 24 e a Gesù, garante della nuova allean-
za, e al sangue dell'aspersione che parla meglio di quello di Abele.
25 Fate attenzione a non resistere a colui che parla. Se infatti non tro-

varono scampo quelli, che respinsero colui che si proclamava sulla


terra, tanto meno scamperemo noi se ci allontaniamo da colui che
parla dai cieli. 26 La sua voce allora ha fatto tremare la terra, ora invece
ha fatto questa promessa: «Ancora una volta scuoterò non solo la ter-
ra, ma anche il cielo». 27 Questo «ancora una volta» significa il cambia-
mento di quanto sarà scosso, perché è stato creato, affinché rimanga ciò
che non viene scosso. 28 Dunque, ricevendo un regno incrollabile, sia-
mone riconoscenti, e serviamo Dio in un modo che gli sia gradito,
con riverenza e timore. 29 Infatti anche il nostro «Dio è un fuoco che
consuma».
Hebr. I2,I2-29

12-29. Ora è il momento di trarre le conseguenze di quanto


è stato esposto nella sezione precedente. Ci si aspetterebbe
che l'autore a questo punto dicesse all'incirca: «Dunque sof-
frite volontariamente. Credete e resistete con tanto maggiore
fiducia». Invece egli richiama i suoi lettori alla loro responsa-
bilità per i membri della comunità che sono in pericolo. La
forte accentuazione di questo motivo è uno degli aspetti
peculiari alla nostra Lettera (cfr. 3,12 s.; 10,23-25). L'autore
sa bene che l'incitamento a raccogliere tutte le proprie forze
interiori non può essere giustificato più efficacemente se non
con la responsabilità per gli altri. Così, appoggiandosi ad
un'espressione figurata del profeta Isaia, che si adatta all'im-
magine della gara di corsa (vv. I. 2), esorta i lettori a incorag-
giare coloro ai quali le forze stanno per mancare, e a compor-
tarsi come chi segue per così dire la pista in un terreno sco-
nosciuto, non volgendosi ora a destra ora a sinistra, ma pren-
dendo una retta direzione fino alla meta; altrimenti, chi già
li segue con difficoltà smarrirebbe la strada. Invece, una co-
munità che marcia in avanti avendo chiara la meta da rag-
giungere può dar forza anche al debole che cammina in mez-
zo ad essa. Il v. l 4 che esorta a cercare la pace e la santificazio-
ne sembra allontanarsi dalla strada seguita nei due precedenti
versetti. Ma sembra soltanto, perché il collegamento gram-
maticale tra il v. l 4 e il v. l 5 mostra che il primo indica due
condizioni che debbono essere soddisfatte se si vuole che ab-
bia successo la vigilanza alla quale i lettori sono incitati nel
v. 15. Se esercitata in modo rissoso e senza mantenere se stes-
si in una severa autodisciplina, questa vigilanza su altri sareb-
be vana, senza pensare che anche la propria salvezza per-
sonale non è possibile senza tale disciplina. Il dovere di ri-
spondere per gli altri membri della comunità viene affermato
con una nuova espressione biblica. Prima era stato detto:
nessuno si lasci andare; poi: nessuno devii dalla retta strada;
e ora: nessuno rimanga indietro, perché il risultato finale sa-
rebbe quello di non poter ottenere la grazia di Dio. Ma (ora
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia

viene abbandonata l'immagine della marcia comune) incom-


be un pericolo ancora peggiore. La comunità è un giardi-
no; vigilate perché non spunti un germoglio amaro (secondo
il testo ebraico addirittura velenoso) arrecando danni (il te-·
sto originario ebraico, qui come nel v. 13, è alterato dalla tra-
duzione greca usata dall'autore), così che (ora l'autore non
dice: tutto il giardino ne sia infestato e reso inutilizzabile, ma
cambia ancora una volta l'immagine) non sorga il pericolo di
una contaminazione non solo dei singoli membri ma dell'in-
tera comunità. A che cosa pensa l'autore lo mostra il ri-
chiamo all'esempio di Esaù: per soddisfare la voglia della go-
la egli vendette il suo diritto di primogenitura, cioè il diritto
alla benedizione che Isacco avrebbe dato al suo primogenito.
L'autore considera la perdita della benedizione come una con-
seguenza diretta della perdita della primogenitura. Egli passa
sopra all'importanza che ebbe nel fatto l'astuzia di Giacobbe;
la benedizione è stata ottenuta per concessione di Dio e, dal
fatto che Esaù abbia potuto comportarsi in tal modo, appare
che egli era un frivolo uomo del mondo, che non si preoccu-
pava di Dio. Per la tarda tradizione giudaica Esaù valeva co-
me esempio di grossolana impudicizia, ma l'Antico Testamen-
to non ne parla. Forse l'autore, quando chiama Esaù anche
'fornicatore', intende questa parola nel senso figurato bibli-
co (di Osea ad esempio), che esprime l'infedeltà a Dio. In tal
caso si avvicinerebbe molto alla seconda parola, cioè 'profa-
natore'. A voler invece spiegare letteralmente la parola for-
nicatore si ottiene un ammonimento isolato, che esce del tut-
to fuori dal contesto della frase, che vuole mettere in guardia
i lettori dal rinunciare al loro sublime possesso religioso in
cambio di vantaggi terreni: infatti la perdita sarebbe irrecu-
perabile. Questo concetto è espresso in primo luogo con l'e-
sempio di Esaù: egli aveva barattato il suo diritto di primo-
genitura, però dopo avrebbe ancora voluto la benedizione.
Ma la sua richiesta fu respinta, non, o non soltanto, da Isac-
co, ma da Dio. Il suo desiderio rimase insoddisfatto, «perché
Hebr. I2,I2-29

non trovò luogo per il cambiamento di decisione»; non il cam-


biamento della decisione di Isacco, nel senso che questi si fos-
se infine deciso a benedirlo, ma della sua decisione. L'autore
intende dare un esempio ammonitore di caduta irreparabile,
motivata non da Isacco ma da Esaù. La frase finale del verso
può essere: «quantunque avesse cercato la benedizione con la-
crime» (in tal caso l'accenno alla penitenza costituirebbe un
elemento eterogeneo) oppure: quantunque avesse cercato «il
cambiamento di decisione con lacrime». Questa seconda in-
terpretazione corrisponde al pensiero dell'autore. Certo, Esaù
diede prova di un certo 'cambiamento di decisione', come
provano le sue lacrime; e perciò l'autore non disse: «egli non
trovò alcun cambiamento di decisione», ma: egli non trovò
nessun spazio per esso, cioè nessuna possibilità di mutare con
esso il suo destino. Dio non si lasciò più convincere dalle la-
crime. Chi, come Esaù, si allontana con indifferenza da lui e
dalla sua benedizione per un godimento mondano, non ha più
accesso a Dio. L'osservazione, dunque, non si fonda su una
impossibilità psicologica, ma sull'impossibilità obiettiva, cioè
sull'inutilità, per volontà di Dio, di un cambiamento di deci-
sione. Quel che segue è consequenziale a questa annotazione;
infatti la seria minaccia del pericolo che incombe sui lettori è
illustrata in un modo che corrisponde assolutamente a quello
che è stato detto in 2,r-4; ro,28 s., contrapponendo cioè il
tipo della rivelazione mosaica alla pienezza salvifica di quella
cristiana. Ciò che quest'ultima offre è incomparabilmente mi-
gliore, addirittura insuperabile; perciò non c'è più salvezza
per chi la respinge. Là un monte sulla terra, che si sarebbe
potuto toccare con le mani (Ex. r9,r3); ma chi avrebbe osa-
to farlo! Sopra di esso si scatenavano spaventosi fenomeni na-
turali, e in mezzo ad essi la paurosa voce di Dio. Perfino Mo-
sè tremò, per non parlare della massa del popolo israelitico,
che indietreggiò piena di timore «Dio non parli con noi, ché
non abbiamo a morire» (Deut. 5,23; Ex. 20,19). Qui ancora
un monte, ma il monte Sion, il luogo della presenza della gra-
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia

zia di Dio e della salvezza (cfr. Is. 2); non dunque una zona
del terrore, ma una città accogliente, Gerusalemme, che lo
stesso Dio vivo ha edificato ( cfr. r r ,10 ), naturalmente nel
senso traslato di salvezza celeste (cfr. Gal. 4,26). Degli abi-
tanti della città celeste fanno parte le schiere festose degli
angeli (sul Sinai esse aumentavano ancora la paura, Deut. 33,
2 ); poi, anche se ancora in vita sulla terra ma già iscritti nei
libri del cielo come suoi abitanti (cfr. Le. l0,20; Phil. 4,3;
Apoc. 3,5; 20,12 ), tutti coloro che hanno ottenuto la primo-
genitura in quanto membri della comunità cristiana; poi
Dio stesso che con potere di giudice rende giustizia a tutti
gli oppressi (cfr. Ps. 68,6; Is. 30,18); e ancora le anime dei
giusti che sono già giunti alla meta, dei fedeli morti dell'epo-
ca precristiana (cfr.cap. II) e di quella cristiana; ma soprat-
tutto colui che li ha guidati alla meta (cfr. 10,14), il garante
della Nuova Alleanza, con il suo sangue destinato all'asper-
sione espiatoria, con il quale è entrato nel santuario celeste
per esercitarvi il suo mandato di sommo sacerdote (cfr. 9,12-
26). E questo sangue parla 'meglio' di quello di Abele.
Quello di Abele gridava vendetta ( cfr. r r ,4); il sangue di Ge-
sù, invece, grida perdono! Ma ora tutto dipende da come ci
si pone di fronte alla rivelazione, alla pienezza della salvezza
cristiana. Come si comportarono gli Israeliti? L'autore spiega
il ritirarsi timoroso del popolo come un segno di disobbe-
dienza, quantunque essi avessero detto a Mosè: «Parla tu con
noi, che ti ascolteremo; ma Dio non ci parli, ché non abbia-
mo a morire» (Ex. 20,19 ). La conseguenza di questo rifiuto
di Dio fu il tramonto nel deserto di quella generazione ( cfr.
3,7-19); eppure allora si trattava soltanto di una manifesta-
zione di Dio sulla terra, sul Sinai. Ma adesso egli parla dal
cielo, per mezzo del Figlio, che ci ha mandato di lassù (cfr. r,
2 ). Sarà quindi minore per noi la possibilità di evitare la pu-
nizione, se ci rifiutiamo di dargli scolta? Ciò che è in gioco
qui è il 'regno incrollabile', della cui venuta Dio stesso ha
parlato attraverso al profeta Aggeo. Quella parola è detta una
Hebr. 12,r2-29
273
promessa, quantunque l'autore l'interpreti come annuncio
della catastrofe cosmica della fine dei tempi, la cui misura
supera di gran lunga il terrore sul Sinai perché si estenderà
anche al cielo (cfr. r,rr s.). Ma Dio dice (e questo è decisivo
per l'autore) che ciò avverrà ancora una volta soltanto; ed è
questo il segno del regno incrollabile, del regno celeste della
pienezza che non passerà (cfr. Dan. 7,13), e che noi 'ricevia-
mo'. L'uso del presente da parte dell'autore serve ad espri-
mere il fatto che tale ricevimento è già sicuro, anche se futu-
ro. Ma questa prospettiva ci impegna alla gratitudine, che so-
la ci consente di servire Dio come a lui è gradito. Tutte le e-
sortazioni che si possono fare ai cristiani si riassumono in
questa: siate riconoscenti. L'etica della Lettera agli Ebrei ha
un titolo: «Della gratitudine». Essa naturalmente non signi-
fica confidenza, che anzi non si addice di fronte alla santità
maiestatica, che è uno dei caratteri essenziali del concetto di
Dio, tanto di quello cristiano quanto di quello veterotesta-
mentario (cfr. Deut. 4,24). La coscienza di ciò pervade tutte
le esortazioni della nostra Lettera, cui conferisce la loro so-
lenne severità.
EPILOGO
ESORTAZIONI PARTICOLARI
E CONCLUSIONE PERSONALE
(cap. 13)

Esortazioni particolari ( l 3,1-17)


1 Rimanga l'amore fraterno. 2 Non dimenticate l'ospitalità; infatti,

grazie ad essa alcuni senza saperlo hanno ospitato degli angeli. 3 Ri-
cordatevi dei carcerati, come se foste carcerati con loro, e di coloro
che sono maltrattati, essendo anche voi ancora in un corpo. 4 Il ma-
trimonio sia onorato da tutti e il letto coniugale sia senza macchia.
Dio giudicherà fornicatori e adulteri. 5 La vostra condotta sia senza
avarizia, contentandovi di ciò che avete oggi: egli stesso infatti ha
detto: «Non ti lascerò né ti abbandonerò». 6 Onde possiamo dire fidu-
ciosi: «li Signore è il mio aiuto; non avrò timore. Cosa potrà farmi
un uomo?». 7 Ricordatevi dei vostri capi che vi hanno esposto la parola
di Dio, e considerando l'esito della loro condotta imitatene la fede.
8 Gesù Cristo è lo stesso ieri ed oggi e in eterno. 9 Non lasciatevi

sedurre da dottrine varie e strane. È ottima cosa infatti che il cuo-


re sia reso forte dalla grazia, e non da alimenti, che non sono stati
di alcuna utilità a coloro i quali ne hanno fatto uso. 10 Abbiamo un
altare del quale non hanno diritto di mangiare coloro che servono
nella tenda. 11 Infatti i corpi degli animali, il cui «sangue» è portato
dal sommo sacerdote «nel santuario per l'espiazione dei peccati, sono
bruciati fuori dell'accampamento». 12 Perciò anche Gesù, per santifi-
care il popolo con il suo sangue, ha sofferto fuori della porta. 13 Uscia-
mo dunque «dall'accampamento» incontro a lui, portando il suo ob-
brobrio. 14 Perché qui non abbiamo una città stabile, ma cerchiamo
quella futura. 15 Per mezzo di lui, dunque, offriamo continuamente
a Dio «un sacrificio di lode», cioè «il frutto di labbra» che confessano
il suo nome. 16 Ma non dimenticate la beneficenza e la comunione dei
beni, perché Dio si compiace di tali sacrifici. 17 Obbedite ai vostri capi
e seguiteli, perché essi vegliano sulle anime vostre come chi ha da
renderne conto, affinché lo facciano con gioia e non con lamenti, cosa
che non vi sarebbe di alcun vantaggio.
Hebr.r3,1-r7 275

I-6. Questa sezione, dedicata ad esortazioni, si occupa nella


prima parte (vv. l-6) del comportamento morale, e nella se-
conda (vv. 7-17) del comportamento religioso dei lettori. Pri-
ma di tutto come regola fondamentale della vita delle comuni-
tà cristiane, è posto l'amore fraterno (cfr. I Thess. 4,9; Rom.
12,10; I Petr. l,22; 2,17; I Io. 3,23; 4,7; 5,1 s.). In 6,10
era stato esplicitamente riconosciuto che i destinatari della
Lettera avevano praticato in passato, e praticavano ancora
l'amore fraterno; ma non è superfluo che essi vengano esor-
tati a continuare a praticarlo. Al riguardo sono messi in evi-
denza due settori in cui esercitarlo: l'ospitalità e l'assistenza
ai perseguitati. In 10,32-34 si volgeva lo sguardo ad un pe-
riodo passato di persecuzioni; ma anche adesso ci sono fratel-
li carcerati e maltrattati. Naturalmente vengono gettati in car-
cere e maltrattati per la loro fede. I lettori si debbono com-
portare con essi secondo la 'regola aurea' (Mt. 7 ,12 ): «Fate
agli uomini tutto quello che volete che essi facciano a voi».
Mettetevi nella loro situazione, nella quale, del resto, potete
venirvi a trovare in ogni momento; saprete così che cosa do-
vrete fare. L'esercizio dell'ospitalità non era certo limitato a
coloro che erano costretti a fuggire a causa della loro fede,
ma per essi era importante in modo tutto particolare. Inoltre,
se Abramo e Lot non fossero stati ospitali, non si sarebbero
trovati nell'occasione di dare ospitalità a personaggi celesti
(cfr. Gen.18,3; 19,2 s.). Anche oggi vanno in giro per il mon-
do dei messaggeri celesti, anche se nella forma meno appari-
scente possibile. Questo è uno dei motivi dell'ospitalità, cui
può essere superiore soltanto quello di Mt. I0,40 (dr. 25,35.
38). L'etica della cristianità dei primi tempi ha poi considera-
to con buoni motivi particolarmente pericolosi due settori: il
rapporto fra i due sessi ed il rapporto con la proprietà. A que-
sti due generi di rapporti è rivolta l'esortazione del v. 4. Il
matrimonio deve essere in onore di tutti, anche dunque dei
non sposati. Dove l'esortazione è tenuta in seria considerazio-
ne è evitato ogni disordine nel campo della vita sessuale: non
Esortazioni particolari

soltanto l'adulterio, ma anche ogni altra impudicizia, come


chiarisce la minaccia aggiunta all'esortazione. Da essa appare
anche come sia rivolta non contro un disprezzo monastico del
matrimonio, ma contro la dissolutezza. Accanto ad essa (co-
me ICor. 5,10; 6,9s.; Eph. 5,5) sta l'ammonimento a guar-
darsi dall'avarizia. Essa era per il cristianesimo dei primi tem-
pi 'la radice di tutti i mali' (I Tim. 6,ro, dr. Mt. 6,19 ss.; 19,
r 6 ss.); l'avarizia non si mostra soltanto nel tenace attacca-
mento a ciò che si ha, ma anche nel desiderio del di più,
che deriva dalla preoccupazione per i bisogni materiali del-
!'esistenza. Perciò i lettori sono esortati ad accontentarsi di
quello che hanno e a combattere quella preoccupazione con il
ricordo dell'assistenza promessa da Dio. Le parole della Scrit-
tura, citate qui, non sono letteralmente quelle dell'Antico Te-
stamento (ma una volta si trovano in Filone); la citazione de-
v'essere il risultato dell'unione dei due passi citati nella tra-
duzione. Sulla fiducia in quelle parole si sviluppa il supera-
mento da parte dei cristiani delle preoccupazioni per la vita
materiale; l'autore esprime questo pensiero con le parole di
Ps. l l 8 ,6. Risulta inoltre che preoccupazioni del genere non
sono originate tanto da difficoltà obiettive quanto da ciò che
gli uomini si fanno l'uno contro l'altro. La sobrietà del giudi-
zio biblico è naturalmente ben lontana da ogni fanatismo. Il
superamento delle preoccupazioni per la vita, fondato sulla fi-
ducia nell'assistenza di Dio, libererà per conseguenza il cri-
stiano da ogni spirito di avarizia e di cupidigia.

7-17. La parte che si occupa del comportamento religioso dei


lettori incomincia col richiamare alla memoria i capi di un
tempo, e soprattutto la loro fine, e si conclude con un'esorta-
zione a seguire quelli di oggi (v. 17). Si tratta (secondo l'e-
spressione usata nel testo originario che non significa un mi-
nistero) di uomini stimati e in una posizione direttiva, che in
sé può essere di vari generi, molto diversi l'uno dall'altro, ma
che dovrebbe includere, secondo i vv. 7 e 17, soprattutto la
Hebr.r3,x-r7 277

predicazione e la pastorale. Se essi vengono additati, soprat-


tutto per loro morte, modello di fede, dovrebbe trattarsi di
martiri, forse durante la persecuzione neroniana (v. comm. a
l0,32-34). In quell'occasione essi, come i testimoni del cap.
II, hanno mostrato una fede che nulla poteva abbattere; ma
tale fede non faceva che rispondere all'immutabilità del suo
oggetto, Gesù Cristo, nel passato, nel presente e nel futuro.
I capi cambiano, il capo resta (dr. I Cor. 3,u; Apoc. l,17).
La solenne espressione liturgica è un'eco delle parole con
le quali Dio si fece conoscere a Mosè in Ex. 3,14. A que-
sta immutabilità di Gesù Cristo, però, deve corrispondere
la fermezza dei lettori. Perciò essi sono ammoniti a non la-
sciarsi portare fuori strada da dottrine, che non hanno altro
che una facciata variopinta, e la cui stranezza dovrebbe preoc-
cupare più che attrarre. Non si tratta di un'esortazione gene-
rica senza motivo; ce lo fa pensare la motivazione di essa nel
v. 9 b, secondo la quale sembra che chi insegnava quelle dot-
trine si proponesse il fine di ottenere un cuore fermo, cioè un
atteggiamento sicuro. Il fine è approvato dall'autore, ma non
i mezzi proposti per raggiungerlo; egli conosce soltanto un
mezzo: la grazia di Dio. Essa soltanto toglie l'inquietudine
del cuore e lo rende 'fermo'; su di essa si sviluppa l'atteggia-
mento sicuro della personalità cristiana. Invece sembra che
quei maestri volessero ottenerla con dei 'cibi'. Con cibi che si
mangiano? In tal caso si tratterebbe di pasti sacramentali, che
potrebbero essere in rapporto con sacrifici. Oppure con cibi
che non si mangiano? Allora si tratterebbe di prescrizioni sul-
l'astinenza dà certi cibi, ascetiche o puramente legalistiche.
L'esortazione che segue a sciogliersi dalla religiosità giudaica
farebbe pensare anche in 9 ha influenze esercitate dalla sina-
goga. La parola 'cibi' sembra indicare pasti cultuali; ma il ci-
barsi in comune di carni immolate non era conosciuto dalle
comunità fuori della Palestina. Inoltre non si mangiavano af-
fatto le carni degli animali immolati il giorno della riconcilia-
zione, a cui pensa l'autore. Dunque dovrebbe trattarsi di proi-
Esortazioni particolari

bizioni di certi cibi, come ne contiene la legge mosaica, o co-


me le ha trasformate l'uso giudaico rendendole forme este-
riori, in collegamento con inclinazioni ascetiche (cfr. I Tim.
4,3; Col. 2,21) per respingere il contatto con il mondo paga-
no (Rom. 14). Un comportamento il più possibile severo in
queste cose sembrava una prova di fermezza interiore (il
versetto si adatta perfettamente ai Lettori se essi propen-
dono per la religione giudaica, impressione che del resto
si ricava dalla argomentazione della Lettera); ma l'auto-
re respinge fermamente questa idea. Simili atti non hanno il
minimo valore religioso; essi non aiutano a compiere nessun
progresso. Perché dunque i lettori vogliono prestare ascolto
a dottrine che insegnano loro cose simili? Ciò che importa è
la grazia, che abbiamo nel sacrificio di Cristo. Naturalmente,
per poter partecipare ad esso, è necessario rompere i ponti
con il giudaismo. Questo concetto è illustrato con un'inter-
pretazione del sacrificio nel giorno della riconciliazione, che
vede in esso una rappresentazione simbolica del sacrificio di
Cristo. Il Golgotha è per così dire l'altare della comunità cri-
stiana, del quale essa mangia secondo il diritto sacerdotale.
Questa espressione della partecipazione al bene cristiano del-
la salvezza dovrebbe essere stata suggerita dall'usanza della
celebrazione eucaristica. Chi invece serve nella tenda, cioè se-
condo il culto veterotestamentario, non partecipa affatto a
tale bene. Infatti il sacrificio di Cristo corrisponde al sacrifi-
cio nel giorno della riconciliazione, il cui sangue è portato nel
santo dei santi. Ma ora l'autore. si ricorda che i corpi del-
le vittime secondo Lev. 16,27 erano portati fuori dell'ac-
campamento per essere distrutti, e così anche Gesù è morto
fuori della porta. Infatti il Golgotha (dove oggi si trova la
chiesa del Santo Sepolcro) era situato fuori le mura della cit-
tà di allora. La comunità giudaica espulse Gesù dal suo seno.
Allo stesso modo che i sacerdoti non potevano mangiare del-
le carni immolate il giorno della riconciliazione, che venivano
bruciate fuori della città, così la comunità cultuale giudaica
Hebr. r3,r-r7 279

non può aver parte con Gesù; nella storia della salvezza il suo
culto è stato sostituito dal sacrificio di Gesù. Il paragone non
è naturalmente del tutto esatto; gli animali destinati al sacri-
ficio erano immolati nel Tempio, ed il loro sangue vi era
sparso ad espiazione. Soltanto le carni degli animali morti e-
rano buttate fuori. Al contrario Gesù ha patito ed è morto
'fuori dalla porta'. Inoltre il parallelo non è esatto anche
perché nessuno poteva mangiare delle carni sacrificate nel
giorno dell'espiazione, mentre qui è dato per ammesso che i
cristiani 'mangiano di questo altare'. Ma l'autore passa sopra
a queste inesattezze, proprie di ogni paragone; a lui interessa
soltanto un punto: che il luogo del supplizio di Gesù è situa-
to fuori della porta (cfr. Io. 19,20; Mt. 21,39); coloro i quali
servono nella tenda, vale a dire la comunità cultuale giudaica,
con questo atto hanno mostrato che tra loro e la vitti-
ma espiatrice del Nuovo Testamento non c'è alcuna comu-
nione. L'invito a 'uscire dall'accampamento incontro a lui'
non può perciò significare altro che dev'essere compiuta la
separazione dalla comunità cultuale giudaica, le sue idee e le
sue forme religiose di vita. Il pericolo che viene alla comuni-
tà cristiana dal giudaismo definisce la concreta situazione pa-
storale della Lettera; la separazione dev'essere netta e chiara.
Se poi si è irrisi, ci si fa partecipi dell'obbrobrio di Cristo, co-
me l'ha già fatto Mosè (cfr. u,26). Ma che importa? Su que-
sta terra i cristiani sono pellegrini senza patria, come i pa-
triarchi dell'Antica Alleanza ( cfr. l l ,9-14) e come i patriarchi
indirizzano la loro attesa alla città futura, alla Gerusalemme
che è in alto (Gal. 4,26). Ma se debbono separarsi dalla co-
munità cultuale giudaica, hanno però anche la possibilità e il
dovere di offrire sacrifici a Dio; e l'autore sprona a farlo an-
che se stesso, insieme ai suoi lettori. Questo sacrificio cristia-
no è di due generi. Anzi tutto si tratta di un 'sacrificio di
lode', che non consiste però, come il sacrificio di lode del cul-
to veterotestamentario, in doni commestibili (Lev. 7 ,II ss.),
bensì nella lode del suo nome, che già Osea ( 14,3 LXX) chia-
280 Conclusione personale

mava in maniera figurata il frutto delle labbra; e neppure va


compiuto ogni tanto, ma senza interruzione. Comunque tale
lode avviene per la mediazione di Gesù, che con la sua
autoimmolazione ha creato il presupposto di questa manife-
stazione ininterrotta di gioia. Accanto a questo sacrificio di
lode adorante ecco l'esercizio pratico dell'amore, che anche
Phil. 4,18 chiama sacrificio accetto e gradito a Dio. La spiri-
tualizzazione del culto, alla quale già tendeva il profetismo ve-
terotestamentario, diventa realtà nella comunità cristiana (cfr.
Is. l,ro-17; Ier. 7,3-7; Mich. 6,6-8; Am. 5,21-25; Ps. 40,7
s.; 50,8-15; 51,17 s.; Deut. lo,12-20; I Sam. 15,22). Un si-
mile atteggiamento di fede l'hanno già avuto i capi defunti
della comunità, e ad esso esortano quelli che oggi sono anco-
ra in vita. Perciò questa sezione si chiude con l'esortazione a
seguirli. Essi faticano notte e giorno unicamente al fine di
salvare le anime di coloro che sono stati loro affidati. Ma
questa cura d'anime è della massima responsabilità, perché
Dio esige una resa dei conti. Questo non è detto per accen-
tuare la serietà del compito di questi capi; il pericolo l'autore
non lo vede in essi, ma nella comunità. Quale sarà il suo de-
stino se un giorno i loro capi dovranno confessare singhioz-
zando a Dio, come Gesù per Gerusalemme e, prima ancora,
Geremia: «Non hanno voluto» (Mt. 23,37; Ier. 6,10)? In
tal modo, riecheggia per l'ultima volta, sia pure in sordina,
quel tono minaccioso e severo, che l'autore aveva già la-
sciato risuonare con forza in 6,4-8; lo,26-31; l2,14ss.

Conclusione personale (I 3,18-21;)


18 Pregate per noi. Infatti siamo persuasi di avere una buona coscien-

za, sforzandoci di comportarci bene in ogni cosa. 19 Ma tanto più vi


scongiuro di farlo, affinché vi possa essere restituito al più presto.
2°Che il Dio della pace, «che ha tratto dai morti colui che mediante

il sangue di un'eterna alleanza è il grande pastore delle pecore», il Si-


gnore nostro Gesù, 21 vi renda perfetti in ogni bene, affinché com-
piate la sua volontà, operando in noi ciò che gli è gradito per
Hebr. IJ,I8-25 281

mezzo di Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
22Vi prego, fratelli, fate buona accoglienza a questa parola di esor-
tazione. Vi ho scritto infatti in breve. 23 Sappiate che il nostro fra-
tello Timoteo è stato liberato. Se arriverà abbastanza presto, verrò
da voi insieme a lui. 24 Salutate tutti i vostri capi e tutti i santi. Vi
salutano quelli d'Italia. 25 La grazia sia con tutti voi.

r 8-2 I. Anche l'autore di questa Lettera fa parte dei capi, che


si danno da fare per la comunità con la predicazione e l'atti-
vità pastorale. Tutto lo scritto dimostra come egli si conside-
ri tale; perciò non stupisce che, collegandosi direttamente al-
l'ammonimento del v. 17, egli chieda per sé le preghiere dei
lettori, come Paolo fa ripetute volte (ad es., Rom. 15,30; I
T hess. 5 ,2 5 ). È vero che egli dice 'per noi'; ma poiché subito
dopo nel v. l 9 continua con il singolare, si deve pensare che
egli parli soltanto di sé. La giustificazione di questo invito
con l'assicurazione della sua buona coscienza si spiega con
insinuazioni e sospetti, che potrebbero essere stati sollevati
su di lui. Nell'espressione «siamo convinti ... » c'è una punta
di riserbo; l'autore non parla alla leggera, perché anche dopo
un severo esame di coscienza egli giunge alla stessa conclu-
sione. Altrimenti non gli sarebbe possibile chiedere ai lettori
le loro preghiere. L'oggetto principale di questa preghiera de-
v'essere il pronto ritorno dell'autore fra i destinatari della
Lettera; dunque, già prima è stato attivo in mezzo ad essi. Ci
sono delle difficoltà che sono indipendenti dalla sua volontà;
di che genere siano, non possiamo saperlo: forse c'erano a
quel tempo delle persecuzioni. Per quale motivo egli desideri
tanto ritornare da loro lo dice l'augurio che segue. Lo muove
la cura per il loro progresso spirituale, che ci sia in essi ogni
cosa buona nell'adempimento attivo della volontà di Dio. Ma
egli non ripone la speranza nei proponimenti e negli sforzi
degli uomini ma nell'opera di Dio tra gli uomini. Infatti, come
Paolo, egli è dell'opinione che la volontà di compiere il bene e
l'azione volta a tale scopo in ultima analisi non sono che l' ope-
ra di Dio in noi (cfr. Phil. 2,13; IThess. 2,13; I Petr. 5,10).
Conclusione personale

Naturalmente 'per Gesù Cristo', al quale siamo debitori del-


la salvezza, e che può edificare su quest'opera di Dio. Dio,
infatti, è il Dio della pace, un'espressione usata anche da Pao-
lo per definire Dio nella sua totale volontà di salvezza (I
T hess. 5 ,2 3 ). Egli lo ha dimostrato traendo dai morti 'nostro
Signore Gesù (come è detto con un chiaro tono di calo-
re) con il sangue della Nuova Alleanza', cioè nel santuario
celeste, dove senza questo sangue non avrebbe potuto entra-
re e dove ora esercita il suo ministero sacerdotale di espia-
zione (cfr. 9,1l-ro,18 ). Questo è l'unico passo di tutta la Let-
tera in cui si parla esplicitamente della risurrezione di Gesù,
e se ne parla soltanto come dell'ovvia condizione previa della
glorificazione; altre deduzioni, di più ampia portata, non se
ne possono trarre. In questo versetto echeggia ancora una
volta ìl concetto fondamentale che informa questa Lettera;
ma proprio per questo Gesù è la 'guida della nostra salvezza'
( 2,ro ), o, come è detto qui, il 'grande pastore delle pecore'.
Is. 63,11 aveva presentato Mosè come un pastore, che insie-
me al suo gregge è salvato dalle onde del Mar Rosso; la sua
controfigura è Gesù in quanto 'grande' pastore, allo stesso
modo che in 4,14 era chiamato il 'grande' sommo sacerdote.
Dio lo ha innalzato nella gloria celeste come pastore alla testa
di un grande gregge, per il quale egli ha dato la vita per fedeltà
al suo servizio pastorale (cfr. Io. 10,15), ma continua ancora
a prendersi cura di esso. Se Dio lo ha fatto con l'intenzione
di 'portare molti figli alla gloria' (2,ro), perfezionerà l'opera
che ha iniziato (questo è il fondamento della fiduciosa pre-
ghiera dell'autore). È del tutto naturale, allora, che la pre-
ghiera sfoci in una lode: a Dio o a Cristo, ciò non ha impor-
tanza.

22-25. L'autore è giunto alla fine della sua 'parola di esorta-


zione', come chiama giustamente la sua Lettera; infatti anche
le parti dottrinali non intendono insegnare all'intelletto ma
influire sulla volontà dei lettori. Ma essi apriranno il cuore
Hebr. IJ,I8-25 283

alle sue parole? L'autore li prega di farlo, anche se (tenuto


conto dell'oggetto della Lettera) ha cercato di non dilungarsi
troppo (cfr. I Petr. 5,12). Segue una breve notizia su Timo-
teo, che evidentemente i lettori conoscono bene. Non si può
dire con certezza se qui si parla della liberazione di Timoteo
dal carcere o della sua 'partenza'; dal punto di vista gramma-
ticale è possibile anche la seconda ipotesi (dr. Act. l 3 ,3; l 5,
30.33; 16,36). In tal caso egli dovrebbe trovarsi in un'altra
località dalla quale si dirigerebbe verso l'autore non per la
strada più breve, e quest'ultimo nel frattempo ne avrebbe a-
vuto notizia a mezzo di messaggeri giunti direttamente da lui.
Ma ci si domanda se questo sarebbe stato un avvenimento
tanto importante da meritare che i lettori della Lettera ne
fossero informati. La notizia, riferita ad una precedente de-
tenzione in tempi di persecuzione, sarebbe più naturale. La
stretta relazione che lega l'autore a Timoteo mostra come an-
che l'autore della nostra Lettera sia vicino al gruppo paolino.
La definizione dei cristiani come 'santi', cioè consacrati da
Dio e accolti nella sua comunione, è corrente in Paolo. In
Dan. 7,18 ss. la parola è applicata alla comunità escatologica
di salvezza di Dio. I saluti da quelli d'Italia vanno intesi co-
me saluti di un gruppo di appartenenti ad una colonia italia-
na fuori della penisola a conoscenti in patria. La Lettera si
conclude con un augurio di grazia, come nelle Lettere paoli-
ne; soltanto che in queste ultime la formula è più completa.
La forma concisa di Hebr. 13,25 è identica a quella della fine
della Lettera a Tito. Si dice 'la grazia' senza ulteriori determi-
nazioni. Ce n'è solo una, quella che si trova 'sul trono della
grazia', che dà fermezza ai cuori; e lo scopo della Lettera è di
mettere in guardia contro il pericolo di perderla ( 4, l 6; l 3 ,9;
12,15).
Il tono di questo finale personale diverge da quello del re-
sto della Lettera. Esso ha veramente le caratteristiche di una
'lettera', cosa che non si può dire di tutto quanto lo precede.
Ma ciò non autorizza ad operazioni di critica letteraria. Anche
Conclusione personale

questa conclusione è fermamente collegata dal v. 20 a quanto


precede; la definizione della Lettera al v. 2 2 come parola di
esortazione è senz'altro ragionevole. L'espressione, per nulla
affatto comune, 'capi' collega anche il v. 24 con 13,7.17. Non
si vede perciò perché si dovrebbe considerare la conclusione
finale, o parti di essa, come aggiunta di un successivo redat-
tore. Se questi, come si è sostenuto, avesse voluto, magari
con un'annotazione come quella su Timoteo, dare alla Lette-
ra una colorazione paolina, non si vede perché non avrebbe
fatto un'aggiunta dello stesso genere anche all'inizio della
Lettera.
INDICE ANALITICO

Poiché i termini e i concetti caratteristici del testo biblico possono


essere ricercati facilmente negli strumenti più comuni dell'esegesi
biblica (concordanze, ecc.), si sono riportati in questo indice analitico
solo quelle voci su cui si è insistito particolarmente nella spiegazione
del testo. I numeri rimandano perciò alt' esegesi dei passi corrispon-
denti. Per evitare ripetizioni e per dare la possibilità di rintracciare le
connessioni che esistono tra i singoli concetti, vengono fatti richiami
alle voci affini {~ ~). Le parole seri tte tra virgolette si riferiscono
agli excursus, di cui v. l'indice a p. 29I.

Abramo: Hebr. 6,13 ss.; 7,1-IO; u,8 ss. Barnaba: Intr. Hebr.
17-19 battesimo: I Tim. 4,4; 2 Tim. 2,u.18;
alleanza, antica e nuova: Hebr. 7,7.8.20 Tit. 2,12; 3,5 ss.; Hebr. 6,I.2.4; IO,
ss.; 8,6 ss.; 9,I0.15.16 ss. 23 ss.; IO, 22.32
15-18; 13,21 benedizione [augurio di] (triplice): I
amore: I Tim. 6,u, 2 Tim. 2,23 s.; Tim. 1,2; 2 Tim. l,16-18
Hebr. I0,24. - per i fratelli: I Tim.
6,2; 13,I. - di Gesù (Cristo): Hebr. Carne: I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo';
2,u.16-18 Hebr. 2,14.15
angeli [dottrina sugli]: Hebr. 1,3.5-14. casa ( = comunità): Hebr. 3,3 ss.14; IO,
5b.6.14; 2,1 ss. 5.16-18 21
anziani, gli (designazione di età e di chiesa, disciplina della - : I Tim. 1,
ministero): I Tim. 5,17-25; 5,17 ss.; 20; 5,19 ss.; Tit. 3,19. guida ddla
Tit. 1,5 - : Intr. I Tim. 4,12-6,2
apostasia dalla fede: I Tim. 4,1 s.; 6,3 città, futura: Hebr. II,IO
ss. IO; 2 Tim. 2,12; Hebr. 3,I0.1I.12. compimento: Intr. Hebr.; Hebr. 7,7.8.
15-19; 6,4.6 ss.; I0,26 ss.; 12.4-12 ss. 11,12.18.19. - del mondo: I Tim. 1,
apparizione di Gesù Cristo: 2 Tim. 1,9 I.17
ascesi: I Tim. 4,2 ss. 7 ss. comunità (di Dio): I Tim. 5,1.2; Hebr.
attesa della fine [giudizio universale]: 4,9. assemblea della - : Hebr. IO,
I Tim. 4,1; 6,14 s.; 2 Tim. l,IO «Ge- 25. esclusione dalla ,.., : I Tim. 1,20;
sù Cristo, nostro Salvatore»; 2,IO; Tit. 3,IO. guida della - : I Tim. 3,1-
3,1 ss.; Hebr. l,I.2a; I0,25; 12,26.27 7; 3,1 ss.; Tit. l,5 ss. ordinamento
autorità~ Stato della ,.., : Intr. Tim. e Tit. nr. 5;
avarizia: Hebr. 13,5 Intr. r Tim. 2,1-3,16; I Tim. 3,15
286 Indice analitico
confessione (~ fede): I Tim. 2,5; 3, (=Cristo): Hebr. l,r.2a.5-14.5 ss. 14;
16 'L'inno a Cristo'; 6,13 s.; Hebr. 2,1ss.5ss.8c; 3,5; 5,4.8; 7,28; 10,29
10,23; 12,4. - di Cristo: 2 Tim. r, Filone di Alessandria: I Tim. l,4;
7 s.; 2,1 ss. 8; Intr. Hebr. 3,1 Hebr. l,3; 4,13; 6,16-18; 7,1-10;
conversione: Hebr. 10,30.32 Hebr. 8,5
coscienza: I Tim. 1,19; 2 Tim. 2,22 futuro (attesa del) ~ attesa della fine
costanza: Hebr. 10,35.38 s.
creazione [ordine della]: I Tim. 4,3 s.;
Gara (corsa): Hebr. 12,1ss.12.13
Hebr. 3,3.4; n,rb.3
cristologia: I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo' garante: Hebr. 8,6
croce di Cristo: 2 Tim. 2,18; Hebr. 12, genealogie (elenco delle generazioni):
I Tim. 1,4
2; 13,10
culto ~ liturgia sacrificale. - dell'im- Gerusalemme: Hebr. n,10; 12,22.
peratore (~ imperatore). del celeste: Hebr. 13,14
Tempio (~ Tempio) giudizio di Dio: Hebr. 6,1.2.7.8; ro,
cupidigia: 2 Tim. 2,22; Tit. 2,12; 3,3 25.26 ss. - universale~ attesa della
fine
Decima (riscossione della - , diritto giuramento: Hebr. 6,13 ss.; 7,23-25;
8,6
alla - ): Hebr. 7,5
demoni: I Tim. 4,1 s. giustificazione: I Tim. 3,16 'L'inno a
denaro [avidità di]: r Tim. 6,6 ss. 17 Cristo'; Hebr. 10,38
diacono (ministero diaconale): I Tim. giustlZla: 2 Tim. 4,8; Tit. 3,7; Hebr.
3,8 ss.; 5,3 n,7. - di Dio: Hebr. 6,10
donne (nel servizio liturgico): I Tim. gloria: I Tim. 3,16 'L'inno a Cristo';
2,9 ss.; 3,n; Tit. 2,3 ss. Hebr. 2,9
dualismo, ellenistico: I Tim. 4A glorificazione: I Tim. 3,16 'L'inno a
Cristo'; Hebr. l,2b.3. - di Gesù:
Eresia [eretici]: I Tim. l,3 ss. n; 2, Hebr. r,8.9; 2,9; 8,r.2; 9,23 ss.; 12,
15; Intr. 4,1-n; 4,r ss. 7; 5,23; 6,3 2; 13,21
ss. 20 s.; 2 Tim. 2,14 ss. 26; 3,6 ss.; gnosi, gnostici: I Tim. 4,;; 6,20 s.; 2
4,3.4; Tit. l,10 ss.; 3,9 ss. Tim. 2,16 ss. 26; 3,6 ss.; 4,3.4; Tit.
espiazione (mezzo di - , sacrificio di 1,14 ss.; 3,9 ss.; Intr. Hebr. 7,1 ss.
- ): r Tim. 2,6; Intr. Hebr.; Hebr. Golgotha: Hebr. 13,12
9,7 ss. rrb.12.22; 10,19.26 gratitudine: Hebr. 12,28
etica, cristiano: Tit. 2,12 grazia: I Tim. 6,21; 2 Tim. 2,r; Hebr.
4,16; 13,25. - di Dio: 2 Tim. 1,9;
Favole: I Tim. I,4; 4,7 Tit. 2,rr ss.; 3,3; Hebr. 2,9; 13,9. ,._,
e peccato~
fede: Intr. Tim. e Tit. nr. 6; I Tim.
1,19; 6,n; 2 Tim. l,5; 3,15; Hebr.
4,1 ss.; 6,r.2.12; lo,22 s. 38 s.; II,I Imperatore (culto dell'): 2 Tim. l,IO
ss.; r2 . 2. battaglia della - : I Tim. 'Gesù Cristo, nostro Salvatore'
6.12. confess'one della - : 2 Tim. impudicizia: Hebr. 13,4
4,1; l-lebr.3,1 incredulità: Hebr. 3,12.15-19
fedeltà di Dio e di Cristo: 2 Tim. 2,13; inno: r Tim. 3,16 'L'inno a Cristo'; 6,
l-lebr. 10.23 15 s.
fiducia: Hebr. n,ra.2 insegnamento, istruzione: I Tim. 4,13
Figlio dell'uomo: Hebr. 2,6. - di Dio inte-_·cessione: I Ti111. 2,1 ss.; 4,14 'L'or-
Indice analitico

dinazione nei primi tempi del cri- martirio ~ sofferenze


stianesimo'; 2 Tim. r,3; Hebr. r3,r8 matrimonio: Hebr. 13,4. proibizione
ss. del ...., : I Tim. 4,3
intronizzazione (riti di ...., = inno di maturità [perfezione] dei cristiani:
...., ): r Tim. 3,r6 'L'inno a Cristo' Hebr. 6,r.2.3
ira di Dio: Hebr. 3,IO.rr.r5-r9 mediatore: Hebr. 8,6
ispirazione: 2 Tim. 3,r5-q 'Il giudizio Melchisedec: Hebr. 5,6; Intr. 7,1 ss.;
dell'Apostolo sull'A.T.'; Hebr. 4,IO; 7,1-10
7,I-IO Messia [attesa messianica]: 2 Tim. l,
Israele: Hebr. r,r.2a; 2,r6-r8; 3,7 ss. IO 'Gesù Cristo, nostro Salvatore';
Hebr. 1,5 ss.; I0,37
Legge (di Mosè [ ~ ]): r Tim. 1,7 ss.; ministero, ministri: Intr. Tim. e Tit.
Hebr. 2,rs.; Intr. 7,r ss.; 7,7.8.u. nr. 5; Intr. I Tim. 3,1-13; I Tim. 3,
r2 ss. 20-22; 8,4; I0,3. dottori della 7.8 ss.; 4,r4 s.; 5,22 ss.; 2 Tim. 4,2
...., : r Tim. r,7 ss. fine della ...., ad ss. q; Tit. 1,6 s. ...., apostolico: I
opera di Cristo: Intr. Hebr. ...., e Tim. l,r.12; 2,7; Tit. l,r. ...., della
vangelo: I Tim. r,7 ss . ...., e peccato: predicazione: 2 Tim. 4,5; Tit. 1,3.
Hebr. 7,1r.r2 grazia del ...., : r Tim. 4,14 s.; 4,14
Lettera agli Ebrei: Intr. Hebr.; Intr. 'L'ordinazione nei primi tempi del
l,r-r4; 2,3b.9; 5,rr ss.; 6,3; 8,4; r3, cristianesimo'; 2 Tim. l,6
18.23. rapporti della ...., con Paolo: miracolo e segno ~
Intr. Hebr.; Hebr. 7,n.12.23-25; IO, misericordia di Dio: I Tim. l,13 s.
3.38; lr.7; 12,l mito: r Tim. 1,4
Lettera a Tito (~ Lettere pastorali): morte: Hebr. 2,14.15 . ...., come puni-
Intr. Tim. e Tit. nr. 2.34.5.6; Intr. zione: Hebr. I0,28 s. ...., di Gesù
Tit.; Tit. 3'4 Cristo: r Tim. 2,6; 2 Tim. 2,18; Tit.
Lettere a Timoteo: Intr. Tim. e Tit. 2,14; 3,4.7; Hebr. l,3; 2,8c.9.14.r5;
nr. 2.3+5.6; I Tim. l,2.n; 2 Tim. 2, 9,14 s. 16.17; lo,20; 13,12 . ...., sacri-
14; 4,21 ficale di Gesù: Hebr. 5,7 s. IO; 7,27;
Lettere pastorali (~ Lettere a Timo- 8,r.2; Intr. 9,1-10,18; 9,rr ss. 23 ss.
teo,~ Lettera a Tito): Intr. Tim. e Mosè (~ Legge): 2 Tim. 3,8; Hebr. 3,
Tit. nr. l-8; Intr. I Tim. 3,1-13; I 2 ss.; rr,23 ss.; 12,18-21
Tim. 5,17-25; 2 Tim. 2,18; 4,6-21
liturgia: Intr. Tim. e Tit. nr. 5; I Tim. Obbedienza (di Gesù): Hebr. 2,q s.;
2,2.8.9 ss.; 4,13 . ...., sacrificale (cul- 5,8.IO; I0,5
to veterotestamentario): Hebr. 7,27; onore: Hebr. 2,9
Intr. 8,1 ss.; 8,r.2+5; Intr. 9,1-IO, opere, buone: Hebr. I0,24. ...., di ca-
18; 9,1 SS. II S. 25; lO,l SS. 5 SS. II rità: Intr. Tim. e Tit. nr. 6; I Tim.
ss.; 13,IO ss . ...., di Gesù: Hebr. IO, 5,IO; 5,IO 'L'opera di misericordia';
5 ss. 29; 12,9.IO; 13,10 ss. ...., cri- 6,18 s.; Tit. 2,14; 3,8a; 3,14; Hebr.
stiana: Hebr. 13,15 6,IO; 13,16
logos: Hebr. 4,13 ordinazione: I Tim. 4,14 'L'ordinazio-
ne nei primi tempi del cristianesi-
Mani [imposizione delle]: r Tim. 4,14 mo'; 5,22; 6,12; 2 Tim. l,6
'L'ordinazione nei primi tempi del ospitalità: Hebr. 13,2.3
cristianesimo'; 5,22; 2 Tim. l,6;
Hebr. 6,r.2 Pace (cercare la ...., ): Hebr. 12,14
288 Indice analitico
Paolo, apostolo: Intr. Tim. e Tit. nr. 22.26; 10,l SS.
1.3+5.6; r Tim. l,12 ss.; 4,12; 2
Tim. l,I.2.3.15 ss.; 3,10 ss.; 4,9 ss. Redentore, redenzione (ad opera di
21; Tit. l,r.5; 3,12. predicazione di Cristo): I Tim. 4,3 s.; 2 Tim. l,9.10
- : I Tim. l,1; 2 Tim. l,II s.; 4,17 'Gesù Cristo, nostro Salvatore'; 2,18;
s. sofferenze, prigionia, martirio di Tit. l,2; 2,14; Hebr. l,2b.3; 9,14 s.
- : Intr. Tim. e Tit. nr. 3.6; 2 Tim. 28; 10,9.23
2,9 ss.; 3,n; 4,6-8.9 ss. relazione di rendimento di grazie: r Tim. 4'4
- con Timoteo: r Tim. l,2.18; 2 ricchezza: r Tim. 6,17. - spirituale:
Tim. l,3.14.15; 3,10 ss.; 4,r.9 ss. 21; Hebr. 6,4
4,6-2r. - autore delle Lettere pa- rimunerazione [concetto di]: Hebr. 6,
storali: lntr. Tim. e Tit. nr. 2.6 10; 10,35
parola di Dio: Hebr. 4,12 s.; 6,5; II, rinascita: Tit. 3,5 s.
lb.3 riposo [del sabato]: Hebr. 3,10.1r.14;
pazienza: I Tim. 6,n; Hebr. 6,12 4,1 ss.
peccato: Hebr. 2,14.15.16-18; 3,13; 6, risurrezione [dottrina sulla]: r Tim. 3,
7.8; 7,lI.12; 9,26; l0,26; 12,l SS. 16 'L'inno a Cristo'; 2 Tim. 2,18;
- e grazia: I Tim. l ,16. - e legge~. Hebr. 6,r.2. - di Gesù Cristo: 2
- e punizione: r Tim. 5,2r. - im- Tim. 2,18; Hebr. ra; 13,21
perdonabile: Hebr. 5,r. assenza di ritorno di Cristo: 2 Tim. 4,18; Tit. 2,
- (in Gesù): Hebr. 4,15; 5,3; 7,26; 13; Hebr. l,6; 9,28; 10,37
9,14. remissione del - (~ perdo- rivelazione di Dio (in Cristo): r Tim.
no): Hebr. 4,16; 5,1; 7,1r.12; 8,12; 3,16: 'L'inno a Cristo'; Tit. l,3;
9,14; 10,1 ss. l0.15-18.22.26. elenco Hebr. l,I.2a.14; lo,23; 12,25
dei peccati: r Tim. l,9.10; 2 Tim. 3,
2-5 Sacerdote, sacerdozio [sommo] di Ge-
penitenza: 2 Tim. 2,26; Hebr. 6,r.2.7. sù: Intr. Hebr.; Hebr. 2,8c.9.16-18;
8; l0,30; 12,17 3,1 ss.; 4,14 ss.; 5,1 ss.; 6,19; Intr.
perdono (~ remissione del peccato): 7,1 ss. lr.12.20 ss.; 8,1 ss.; Intr. 9,1-
I Tim. 2,8; Hebr. 9,22.26 10,18; 9,9.11 ss.; 10,3.11 ss. 20; 12,
perfezione: Hebr. 6,r.2.3 24; l3,2r. - levitico Hebr. l,5b; 4,
persecuzione dei cristiani (dei discepo- 14 ss.; 5,1 ss.; 6,20; Intr. 7,1 ss.; 7,1-
li): 2 Tim. l,8; 3,12; 4,21; lntr. 3.4 ss. 7.8.II ss. 20SS. 26ss.; 8,1.2; 9,
Hebr.; Hebr. 10,32 ss.; 13,7 6 s. 23 ss.; 10,3.II ss.
popolo di Dio: Hebr. 4.9 Sacra Scrittura ~ Scrittura, sacra
possesso: I Tim. 6,17; Hebr. 13,4 sacrificio (~ Liturgia): Hebr. 5,5; 9,
preesistenza di Cristo: 2 Tim. 1,9 26. - di lode: Hebr. 13,15
preghiera (formule di - , consuetudi- saluto [formula di]: lntr. Tirn. e Tit.
ne alla - ): I Tim. l,17; 2,1 ss. 8. nr. 2; r Tim. l,2; 2 Tim. l,16-18
- sulla mensa: I Tim. 4A salvatore: 2 Tim. l,10 'Gesù Cristo,
presbitero ~ anziani, gli nostro Salvatore'; Hebr. 2,10;9,28
prescrizioni sui cibi e sulle purificazio- salvezza in Cristo (messaggio di - ,
ni: r Tim. 4,3 s.; Hebr. 9,10; 13,9 attesa della - , fede nella - , piano
professione di fede ~ fede di - ): I Tim. 4,2; 2 Tim. l,9; 3,8;
promesse di Dio: Hebr. 6,13 ss.; 7,20- Hebr. 2a.5.9; 4,10; 6,5; 10,39; II,
22; 11,ra.2 Ia.2; 13,20 S.
purificazione dai peccati: Hebr. l,3; 9, sangue: Hebr. II,4. - nel sacrificio:
Indice analitico
Hebr. 9,18 ss. 25; 10,4. - di Gesù speranza: Hebr. 6,10 ss. 16-18.19; rn,
(Cristo): Intr. Hebr. 9,1-10,18; Hebr. 23; II,Ia.2
9,nb.12.23 ss.; 10,19 s.22.29; 12,24; Spirito di Dio: 2 Tim. 1,7; 3,16; 3,16
13,21 'Il giudizio dell'Apostolo sull'A.T.';
santi, i ( = cristiani): I Tim. 5,10; Hebr. 9,14. - santo: Tit. 3,5 s.;
Hebr. 13,24. - in Gerusalemme: Hebr. 3,7; 10,15-18. disciplina dello
Hebr. 6,10 - : .r Tim. 4,7 ss. doni dello - :
santificazione: 2 Tim. l,9; 3,16; 3,15- Hebr. 2,4
17 'Il giudizio dell'Apostolo sul- Stato e autorità: .r Tim. 2,1 s.; Tit. 3,
1'A.T.'; Tit. 2,13; Hebr. 2,u; 10,10. I S.
29; 12,9.10.14
santità di Dio: Hebr. 2,n Tabernacolo: Hebr. 8,5; 9,2-5.8.ub.
santuario ( = santo dei santi): Hebr. 12.23 ss.; 10,I ss. 20
9,8.ub.12.23 ss.; 10,1 ss.; u,10; 12, Tempio: Hebr. 9,2-5. culto del - :
24. accesso al - : Intr. Hebr.; Hebr. Hebr. 8,4
lo,19 tentazione: Hebr. 2,16-18; 4,15
Satana: I Tim. l,20; 4,1; Hebr. 2,14. testamento ( ~ Alleanza): Hebr. 9,15.
15 16 ss. - Antico e Nuovo ~ Scrit:
schiavi: I Tim. 6,1 s.; Tit. 2,9.IO tura, sacra
Scrittura, sacra [A.T. e N.T.]: 2 Tim. Timoteo: Intr. Tim. e Tit. nr. 1; I
3,15; 3,15-17 'Il giudizio dell'Apo- Tim. l,1 s.; 1,3.18; 4,12; 2 Tim. 1,6
stolo sull'A.T.'; Hebr. l,5-14; 4,10; ss.; 2,1 ss. 22; 3,10 ss.; Tit. 2,15;
Intr. 7,1 ss.; 7,1-10. esegesi della - Hebr. 13,22 s.
(prova scritturistica): I Tim. l,4.7; Tito: Intr. Tim. e Tit. nr. 1; Tit. l,4.
2,r3 s.; 2 Tim. 3,15-17 'Il giudizio 5; 3,12
dell'Apostolo sull'A.T.; Hebr. 1,5-
r4,5a; 3,7; 4,10; 6,16-18; Intr. 7,1 Umiliazione di Gesù: Hebr. 2,7.8c.14.
ss.; 7,1-10; 10,5.10. lettura della - : 15.16-18
I Tim. 4,13 uomo, uomini (nella liturgia): .r Tim.
segno e miracolo: Hebr. 2,4 2,8.13 ss.; Tit. 2,2
sequela di Gesù: 2 Tim. 3,12
Sinai: Hebr. 12,18-21 Vangelo: 2 Tim. 1,10. - di Gesù Cri-
Sion: Hebr. 12,22 sto: Tit. r,3. - e legge ~
sofferenze: 2 Tim. 4,6.18. - di Gesù vanità: r Tim. 6,4 s.
Cristo (vicarie): 2 Tim. 2,8 ss.; Hebr. vedove [ministero delle]: r Tim. 3,8;
2,8c.9 ss. 16-18; 5,7 s.; 9,26; u,24- 5,3 ss. 9 ss.
26; 13,12. - dei cristiani: 2 Tim. velo: Hebr. 6,19; 10,20
r,8; 2,1 ss. 8 ss.; 3,10 s.; Hebr. Io, verità: Hebr. 10,26
32 ss.; II,4.35b-38; I2,4-5 ss. II; 13, via, vivente: Hebr. 10,20
7 volontà di Dio (fare la - ): Hebr. 10,
sostentamento (dovere di - da parte 7 ss. 36
delle comunità): I Tim. 5,18
INDICE DEGLI EXCURSUS

L'inno a Cristo (I Tim. 3,16)


L'ordinazione dei primi tempi cristiani (I Tim. 4,14)
Le opere di carità (I Tim. 5,10) ....
Gesù Cristo nostro salvatore (2 Tim. 1,16)
Il giudizio dell'Apostolo sull'A.T. (2 Tim. 3,15-17) ......... .
INDICE GENERALE

LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO


Introduzione II

Indicazioni bibliografiche

LA PRIMA LETTERA A TIMOTEO

I saluti ( 1,1-2)
Parte prima
Difesa dai dottori della legge (1,3-20)
r. Timoteo deve affrontare gli eretici dottori della legge (1,3-u) 29
2. L'esaltazione della misericordia di Gesù Cristo (r,12-17) 32
3. Combatti la buona battaglia (r,18-20) ............ 35
Parte seconda
L'ordinamento della comunità (2,1-3,16)

r. Il retto svolgimento del servizio liturgico (2,1-15) 38


a) Le preghiere (2,1-7) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38
b) Il giusto servizio liturgico degli uomini (2,8) . . . . . . . . . . . 41
c) Il corretto contegno delle donne durante il servizio liturgico
(2,9-15) . . . . . . . . . . . . . . . . . .......... 41
2. I ministri della comunità (3,1-13) . ......... 43
a) I capi della comunità (3,1-7) .............. 44
b) I diaconi (3,8-13) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
3. La conclusione dell'ordinamento comunitario con l'inno a Cri-
sto (3,14-16) ...................... 49
Parte terza
La lotta contro le pretese ascetiche degli eretici (4,I-II)
I. Le pretese ascetiche dei settari (4, 1 -5)
2. La retta pratica cristiana (4,6-II) ..................... .
294 Indice generale

Parte quarta
Istruzioni a Timoteo per la guida della chiesa (4,12-6,2)

l. Timoteo non si lasci mettere in imbarazzo dalla sua giovane età


(4,12-16) ............... .......... 61
2. Il modo corretto di trattate le persone secondo l'età (5,r-2) 63
3. Le vedove della comunità (5,3-16) 65
a) Il loro sostentamento (5,3-8) 65
b) La loro scelta (5,9-16) 68
4. Gli anziani (5,17-25) ........... 72
5. Gli schiavi (6,1-2) . . . . . . . . . . 76

Parte quinta
L'errato e il giusto atteggiamento verso il denaro (6,3-19)

r. L'atteggiamento errato (6,3-10) ..


2. Appello a Timoteo e dossologia ( 6,1 r-16)
3. Il buon uso dei beni del mondo ( 6, r 7-19)
La conclusione della Lettera (6,20-21)

LA SECONDA LETTERA A TIMOTEO

L'indirizzo (1,1-2) 85
I. Esortazione a professare impavidamente la fede (r,3-2,13) 85
I. Rendimento di grazie (r,3-5) . . . . . ............ 85
2. Si deve rendere testimonianza senza paura ( r ,6-14) 85
3. Dolorose esperienze dell'Apostolo, ma anche una esperienza di
fedeltà ( I 'I 5- I 8 ) ....... 9I
4. Sii mio compagno nel dolore (z,r-7) 92
5. La comunione con Cristo nel dolore (2,8-13) 93
II. I settari (2,14-4,8) 96
r. Nessuna discussione inutile ( 2, 14-2 r) ........ 96
2. La via giusta per la conversione degli erranti (2,22-26) 100
3. La degenerazione degli ultimi giorni (3,1-9) . . . . . . . . 101
4. La retta via nella sequela dell'Apostolo (3,10-17) .......... 104
5. Esercita fedelmente il tuo ministero: il mio tempo sta per finire
(4,l-8) .................... ....... 107
III. La situazione personale dell'Apostolo (4,9-r8) 109
Finale della lettera (4,19-22) . . . . . . . . . . . . . . . . . l r3
Indice generale 295
LA LETTERA A TITO

L'indirizzo (r,r-4) .... rr5


I. Il ministero comunitario e il settarismo (1,5-16) ........ . rr6
I. Insediamento dei capi delle comunità (r,5-9) ...... . 116
2. La lotta agli eretici ( r, ro-r 6) ................ . 118
II. Le regole della condotta di vita cristiana (2,r-3,r r) ....... . 120
r. Le varie categorie della comunità (2,r-10) . . . . . ...... . 120
2. Perché è tanto importante la santificazione della vita quotidiana
(2,11-15) ........................................ . 121
3. L'atteggiamento verso l'autorità e il prossimo (3,1-8a) .. 123
4. La disciplina ecclesiastica nei confronti degli eretici (3,8b-u) 126
Conclusione della lettera (3,12-15) ................ . 127

LA LETTERA AGLI EBREI


Introduzione .. . . . . . . . . . . . . . . 131
Parte prima
Introduzione (capp. 1-6)

La superiorità del Figlio sugli angeli (r,1-14) ................ 141


Conseguenza: non lasciatevi sfuggire la nuova salvezza (2,r-8b) 152
L'umiliazione di Gesù, presupposto del suo sommo sacerdozio
(2,8c-r8) ......................................... 157
Gesù superiore a Mosè (3,r-6) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 166
Ammonimento a non perdere la promessa, come avvenne per la
generazione d'Israele nel deserto (3,7-4,13) .............. 169
Gesù sommo sacerdote al modo di Melchisedec (4,14-5,ro) .... 179
Ammonimento a guardarsi dalla caduta irreparabile ed esortazio-
ne a sperare con piena fiducia (5,rr-6,20) ................ 185
Parte seconda
Esposizione (7,1-10,18)
A. La superiorità della posizione di Gesù come sommo sacerdote
«secondo l'ordine di Melchisedec» in confronto al sacerdozio
levitico (7,r-28) .......................... 198
B. La superiorità del culto celeste del sommo sacerdote neotesta-
mentario, che corrisponde alla superiorità della nuova alleanza
(8,r-13) ....... 210
Indice generale

C. La superiorità del servizio sacerdotale di Gesù (9,r-ro,r8) 216


a) L'istituzione cultuale dell'antica alleanza (9,1-ro) . . . . 218
b) Le caratteristiche essenziali ed il successo del servizio di Ge-
sù (9,II-15) . . . . . . . . . ........................... 222
c) La morte di Cristo come sacrificio cruento dell'alleanza
(9,16-22) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ......... 226
d) Per la consacrazione del santuario celeste della nuova allean-
za era sufficiente l'autoimmolazione di Cristo (9,23-28) 228
e) Il culto sacrificale secondo la legge è insufficiente appunto
per la ripetizione del sacrificio stesso ( ro, l-4) . . . . . . . . . . . 23 l
f) L'ordinamento sacrificale veterotestamentario sostituito dal
sacrificio di Cristo una volta per tutte ( ro,5-ro) . . . . . . . . 233
g) Il sacrificio di Cristo è veramente irripetibile ( ro, II- l 8) 2 36
Parte terza
Deduzioni (ro,r9-r2,29)

Ora atteniamoci alla professione della speranza (ro,19-25) 240


La vendetta del giudizio di Dio attende gli apostati ( ro,26-3 l) 244
Sguardo all'indietro e in avanti ( ro,32-39) . . . . . . . 247
La fede è l'elemento decisivo nel comportamento dei fedeli
(u,1-40) ............. .............. 251
Lottiamo tenacemente seguendo la guida di Gesù verso la meta
(12,1-11) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 264
State in guardia affinché nessuno si sottragga alla grazia ( 12,12-29) 268
Epilogo
Esortazioni particolari e conclusione personale (cap. 13)

Esortazioni particolari (13,r-17) ... 274


Conclusione personale (13,18-25) 280
Indice analitico ....
Indice degli excursus
ABBREVIAZIONI DEI LIBRI BIBLICI

ANTICO TESTAMENTO

Gen. Genesis Cant. Canticum Canticorum


Ex. Exodus Sap. Sapientia Salomonis
Lev. Leviticus Ecclus Ecclesiasticus (LXX Sir.)
Num. Numeri Is. Isaias
Deut. Deuteronomium Ier. Ieremias
Ios. Io sue Bar. Baruch
Iud. Iudices Lam. Lamentationes
l{uth Ruth Ep. Ier. Epistula Ieremiae (Vg. Bar.
1,2 Sam. (=LXX r,2 Regnorum; Vg. c. 6) Daniel (Vg. c. 13 = Su-
1,2 Regum) , sanna; 14 =Bel et Draco)
1,2 Reg. (=LXX 3'4 Regnorum; Vg. Ezech. Ezechiel
3,4 Regnum) Dan. Daniel
1,2 Chron.( = Vulg. r,2 Paral.) Mal. Malachias
1,2 Par. r,2 Paralipomenon Os. Oseas
I,3 Esdr. r,3 Esdrae ( = Vulg. 3 Esdr. Am. Amos
[apocr.], Esdr. 1+n [= T. Mich. Michaeas
Mas. Esdr., c. r-ro; Neem. Ioel Ioel
c. rr-23])
Abd. Abdias
Tob. Tobias
Ion. Ionas
Iudith Iudith
Nah. Nahum
Esth. Esther
Abac. Abacuc
Iob Iob Soph. Sophonias
Ps. Psalmi Ag. Aggaeus
Prov. Proverbia Zach. Zacharias
Eccl. Ecclesiastes (hebr. Qohelet) I,4 Mach. I,4 Machabaeorum
Abbreviazioni dei libri biblici

NUOVO TESTAMENTO

Mt. Evangelium Matthaei 1,2 Thess. Ep. ad Thessalonicenses r,2


Mc. Evangelium Marci 1,2 Tim. Epistulae ad Timotheum 1,2
Le. Evangelium Lucae Tit. Epistula ad Titum
Io. Evangelium Ioannis Philm. Epistula ad Philemonem
Act. Actus Apostolorum Hebr. Epistula ad Hebraeos
Rom. Epistula ad Romanos Iac. Epistula Iacobi
I,2 Cor. Epistulae ad Corinthios r,2 1,3 Io. Epistulae Ioannis l ,3
Gal. Epistula ad Galatas 1,2 Petr. Epistulae Petri l ,2
Eph. Epistula ad Ephesios Iudae Epistula Iudae
Phil. Epistula ad Philippenses Apoc. Apocalypsis Ioannis
Col. Epistula ad Colossenses
STUDI BIBLICI
I. Lino Randellini, La Chiesa 14. O.Semmelroth e M.Zerwick,
dei Giudeo-cristiani, pp. 80, Il \faticano II e la parola di
L. 700 Dio, pp. 80, L. 800
2. Norbert Lohfìnk, Ascolta, I- 15. Charles Fr. D. Moule, Le o-
sraele. Esegesi di testi del rigini del Nuovo Testamen-
Deuteronomio, pp. 144, L. to, pp. 336, L. 3.000
r.300 16. Charles Harold Dodd, Secon-
3. Pierre Grelot, Riflessioni sul do le Scritture. Struttura fon-
problema del peccato origina- damentale della teologia del
le, pp. q4, L. r.300 N.T., pp. 160, L. r.700
4. Gerhard Lohfìnk, La conver- 17· Siegfried Herrmann, Il sog-
sione di San Paolo, pp. 120, giorno d'Israele in Egitto,
L. l.000 pp. 144, L. r.300
5. J osef Blinzler, Giovanni e i 18. Ernst Kasemann, Prospetti-
Sinottici, pp. 128, L. r.200 ve paoline, pp. 240, L. 2.500
6. Franz Mussner, Morte e re- 19. Giuseppe Ghiberti, I raccon-
surrezione, pp. 72, L. 800 ti pasquali del cap. 20 di Gio-
7. Philipp Seidensticker, Paolo vanni, pp. 176, L. r.800
l'apostolo perseguitato di Ge- 20. Ferdinand Hahn, Il servizio
sù Cristo, pp. 144, L. 1 .200 liturgico nel cristianesimo pri··
8. Rudolf Pesch, La visione di mitivo, pp. 130, L. r.500
Stefano, pp. 88, L. 800 21. Charles Harold Dodd, La
9. Charles Harold Dodd, Attua- predicazione apostolica e il
lità di San Paolo, pp. 176, L. suo sviluppo, pp. 120, L.
r.700 r.300
ro. Charles Harold Dodd, Le pa- 22. R. M. Grant, La formazione
rabole del regno, pp. 208, L. del Nuovo Testamento, pp.
2.000 208, L. 2.200
rr. Jacques Dupont, Le tentazio- 23. Giovanni Rinaldi, I canti di
ni di Gesù nel deserto, pp. Adonaj. Introduzione storico-
160, L. r.700 religiosa ai Salmi, pp. 160,
12. Alkuin Heising, La moltipli- L. 2.000
cazione dei pani, pp. uo, L. 24. Wolfhart Pannenberg, Cri-
I.000 stianesimo e mito. Nuove
13. Marco Adinolfì, La Turchia prospettive del mito nella
greco-islamica di Paolo e Gio- tradizione biblica e cristiana,
vanni, pp. 168, L. r.500 pp. 120, L. r.500
BIBLIOTECA DI CULTURA RELIGIOSA

r. Karl Priimm
Il messaggio della lettera ai Romani
pp. 214, L. r.500
2. J oachim J eremias
Gli agrapha di Gesù
Esaurito
3. Joachim Jeremias
Le parabole di Gesù
seconda edizione italiana riveduta
pp. 304, L. 3.500
4. J. Schildenberger
Realtà storica e generi letterari nell' A. T.
pp. 220, L. 2.000

5. Pietro Dacquino
Bibbia e tradizione
pp. 80, L. 500

6. Tosef Blinzler
Il processo di Gesù
pp. 480, L. 5.000

7. Luis Alonso Schokel


La parola ispirata
Esaurito
8. José S. Lasso De La Vega
Eroe greco e santo cristiano
pp. 104, L. I.200

9. Hugo Rahner
L'homo ludens
pp. 96, L. I.000

10. W. Knevels
Dio è realtà
pp. 308, L. 3.000

r r. Hans von Campenhausen


I padri greci
pp. 224, L. 2.000
12. Josef Rupert Geiselmann
Gesù il Cristo
I. Il Gesù storico
pp. 224, L. 2.000
13. James M. Robinson-Ernst Fuchs
La nuova ermeneutica
pp. 144, L. r.500
14. J. Alberto Soggin
Introduzione all'Antico Testamento, vol. I
Esaurito (in prep. la seconda ed.)
15. R. J. Ehrlich
Teologia protestante e teologia cattolica
pp. 302, L. 3.000
l 6. J. Alberto Soggin
Introduzione all'Antico Testamento, val. II
Esaurito (in prep. la seconda ed.)
l 7. Heinrich Schlier
Ri-flessioni sul Nuovo Testamento
pp. 496, L. 5.000
r 8. O. Cullmann e altri
Il dialogo è aperto
pp. 368, L. 3.000
r 9. Luis Alonso Schokel
Il dinamismo della tradizione
pp. 285, L. 2.500
20. Valdo Vinay
La riforma protestante
pp. 488, L. 4.000
2r. C. Harold Dodd
L'Autorità della Bibbia
pp. 304, L. 2.500
22. Autori vari
Rivelazione e morale
pp. 176, L. 2.000
2 3 . J oachimJ eremias
Le parole dell'ultima cena
pp. 368, L. 5.000
28. Valdo Vinay
Ecclesiologia ed etica politica in Giovanni Calvino
pp. 208, L. 2.000
Joachim Jeremias NOVITÀ
Le parole dell'ultima cena
pp. 368, Lire 5.000

L'opera è - come si sa - ormai classica nella disciplina ed è giunta in


Germania alla 5a edizione: lo Jeremias illustra l'origine e il valore del-
la Pasqua cristiana con rigore scientifico, esposizione affascinante, pro-
fondo senso religioso.

Heinrich Schlier
La lettera agli Efesini
traduzione di O. Soffritti
seconda edizione riveduta
pp. 520, L. 7.000
Come protestante ho letto con gioia e insieme con dispiacere il com-
mento di Heinrich Schlier alla Lettera agli Efesini, commento origina-
riamente destinato alla collana del Commentario (protestante) del Me-
yer. Frutto di un lavoro decennale, esso va senza dubbio annoverato
fra i più importanti commenti del nostro secolo e anche per i futuri
esegeti della Lettera agli Ef esini costituirà un limite non facilmente
superabile. ERNST Kii.SEMANN
« Theologische Literaturzeitung»

Joachim Jeremias
Le parabole di Gesù
seconda edizione italiana riveduta
pp. 304, L. 3.500
Rielaborazione accurata di un'opera che è già alla sua sesta edizione.
E davvero essa meritava il successo: tanto è illuminante la descrizio-
ne del contesto cultuale e religioso da cui le parabole evangeliche si
deducono; tanto è sicura l'interpretazione del loro messaggio.
«Il Regno», maggio 1967

PAIDEIA EDITRICE BRESCIA


Finito di stampare
dalla tipografia Paideia
Brescia, settembre 1973

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