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Perché al crepuscolo?
Perché non lo avevano lasciato lì al primo mattino, così che avesse tutta la
durata del giorno per camminare in quella fitta macchia?
Come arma per affrontare un orco gli era stato lasciato un coltello
arrugginito. E nulla da mangiare, neanche una bisaccia d’acqua. E con una
grossa palla di piombo incatenata al piede destro.
Il buio avanzava dal basso, dal sottobosco saliva lentamente verso le cime
degli alberi, tra le quali ancora si attardava qualche sprazzo di cielo.
Una belva
Sgranò gli occhi all’improvviso, rendendosi conto di essersi addormentato.
Doveva essere l’alba, perché un raggio di luce lo colpiva in faccia. Si
sollevò con cautela, scrutando il bosco in cerca di un animale da poter
cacciare, ma non scorse nulla.
Un abbaiare furioso.
S’alzò in piedi e vide un grosso cane bianco correre come una furia verso
di lui. Si fermò a pochi passi, abbaiando e ringhiando. Era un cane pastore,
ma di pastori non ce n’era l’ombra.
Furono a terra.
Giovanni impiegò più di qualche secondo a capire che il cane era morto.
Se lo scrollò di dosso e si accorse di essere completamente imbrattato del
sangue della bestia, trafitta dal bastone acuminato.
La vittima
Tolse la palla di piombo dalle radici in cui s’era infilata e s’incamminò tra gli
alberi tenendola in mano. Andò nella direzione dalla quale proveniva il
tintinnio del campanello.
Avrà avuto dieci, undici anni. Stava sdraiato a faccia in su. La bocca era
aperta. Gli occhi spalancati non guardavano niente. Non più. Non aveva
pantaloni né brache, gli erano stati strappati.
Quando la faccia del bambino fu così vicina alla sua e vide la sua pelle
liscia e bianca, gli occhi vuoti, le labbra livide, Giovanni Benforte pianse.
Quando uscì dal bosco, vide una casetta in lontananza e un uomo in piedi
che lo guardava.