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Boschi al crepuscolo

Perché al crepuscolo?

Perché non lo avevano lasciato lì al primo mattino, così che avesse tutta la
durata del giorno per camminare in quella fitta macchia?

Come arma per affrontare un orco gli era stato lasciato un coltello
arrugginito. E nulla da mangiare, neanche una bisaccia d’acqua. E con una
grossa palla di piombo incatenata al piede destro.

Non serviva solo a impedirgli di scappare, doveva servire a ritrovarlo


facilmente, dopo che fosse morto.

Giovanni Benforte aveva bisogno di bere. Ma era lucido abbastanza da


capire che era stato portato nel bosco a morire.

Se ci fosse stato davvero un mostro, avrebbero trovato i suoi resti grazie


alla palla. Se no, sarebbe comunque morto di stenti e il Governatore
avrebbe risparmiato il costo di due ciotole al giorno di sbobba scura.

Appena rimasto solo, spezzò la lama arrugginita, provando a forzare la


serratura della catena.

Il buio avanzava dal basso, dal sottobosco saliva lentamente verso le cime
degli alberi, tra le quali ancora si attardava qualche sprazzo di cielo.

Giovanni prese un grosso ramo caduto e con la lama arrugginita e


spezzata lo lavorò, fino a fargli una punta acuminata. Poi si accucciò sotto
un albero. Se fosse passato uno scoiattolo o qualche altro animale,
avrebbe potuto provare a cacciare.

Ma non si udivano animali.

Infine il buio salì fino al cielo e Giovanni si addormentò.

Una belva
Sgranò gli occhi all’improvviso, rendendosi conto di essersi addormentato.
Doveva essere l’alba, perché un raggio di luce lo colpiva in faccia. Si
sollevò con cautela, scrutando il bosco in cerca di un animale da poter
cacciare, ma non scorse nulla.

Poi sentì un suono che gli fece accapponare la pelle.

Un abbaiare furioso.

S’alzò in piedi e vide un grosso cane bianco correre come una furia verso
di lui. Si fermò a pochi passi, abbaiando e ringhiando. Era un cane pastore,
ma di pastori non ce n’era l’ombra.

Poi sentì il debole tintinnio di una campanella, in lontananza. Doveva


esserci un gregge di pecore.

Il cane voleva che Giovanni se ne andasse. Ma come poteva allontanarsi in


fretta, con una palla di piombo legata al piede?

Strinse il bastone in pugno e provò a camminare all’indietro trascinando la


palla. Ma quella s’incagliò tra due radici di una quercia.

Il cane perse la pazienza e s’avventò su Giovanni.

Furono a terra.

La bestia era grossa e pesante. Le zanne erano sulla gola di Giovanni, ma


non stringevano. Calore si diffondeva tra i loro corpi.

Giovanni impiegò più di qualche secondo a capire che il cane era morto.
Se lo scrollò di dosso e si accorse di essere completamente imbrattato del
sangue della bestia, trafitta dal bastone acuminato.

La vittima
Tolse la palla di piombo dalle radici in cui s’era infilata e s’incamminò tra gli
alberi tenendola in mano. Andò nella direzione dalla quale proveniva il
tintinnio del campanello.

Trovò il gregge in una piccola radura. Non c’era nessuno a guardarlo.


Attraversò lo spiazzo erboso, circondato da alberi. Trovò un sentiero.
La palla di piombo era pesante. Giovanni voleva bere, avrebbe dato un
occhio per una bottiglia di vino forte.

Imboccò il sentiero, ma si fermò dopo pochi passi.

Aveva trovato il pastore.

Avrà avuto dieci, undici anni. Stava sdraiato a faccia in su. La bocca era
aperta. Gli occhi spalancati non guardavano niente. Non più. Non aveva
pantaloni né brache, gli erano stati strappati.

La gola era squarciata.

Giovanni s’accovacciò accanto al piccolo cadavere. Restò immobile a


guardarlo per diversi minuti. Poi gli chiuse gli occhi.

Si tolse la giacca e la usò per coprirgli i genitali. Poi lo prese in braccio e


s’alzò i piedi, con un gemito di fatica.

Quando la faccia del bambino fu così vicina alla sua e vide la sua pelle
liscia e bianca, gli occhi vuoti, le labbra livide, Giovanni Benforte pianse.

Pianse camminando lungo il sentiero nel bosco, portando il peso di un


bambino e di una grossa palla di piombo. E quando non ce la fece più,
lasciò cadere la palla e continuò a portare il piccolo cadavere trascinando
la catena col piede destro.

Camminò per ore gemendo per il dolore e la fatica.

Quando uscì dal bosco, vide una casetta in lontananza e un uomo in piedi
che lo guardava.

Cadde in ginocchio e lo raccolsero così, Giovanni Benforte di nome e di


fatto: tanto stravolto dalla fatica da non riuscire a parlare, completamente
fradicio di sudore, la lingua e le labbra arse dalla sete. Continuava a
stringere il piccolo cadavere tra le braccia.

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