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Estate del 1997, mi pare.

Sto in villeggiatura presso un mucchietto di case


in mezzo ai monti: niente bar, niente ufficio delle poste, non c’è un medico,
un giornalaio, un tabaccaio. Un pugno di edifici classificato come frazione
di un paese che sta tante, tante curve di montagna più a valle. Un mio
carissimo amico ha una magione in questo avamposto in bilico sul confine
del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, versante marchigiano.

La proposta, rivolta a me e a un altro amico, è stata:

«Suoniamo alla messa di Ferragosto?»

Sì, perché in questo posto non hanno un forno che faccia il pane, ma una
chiesa dove sentir messa, quella sì.

Siamo tutti giovani, atei e mangiapreti. Ovviamente partiamo senza indugi.

Due settimane fuori dal mondo. Niente carnai in spiaggia, rave illegali o
pogo forsennato all’international rock-festival nel vattelappesca-shire.
Andiamo a scrivere musica per paesani cattolici.

Ci svegliamo al canto del gallo. Ficchiamo la testa sotto il cuscino e ci


rimettiamo a dormire. Facciamo colazione con calma. Portiamo gli
strumenti nella vecchia scuola abbandonata, arronziamo mezz’ora di prove
e poi a casa, che ormai s’è fatto tardi e la nonna ha buttato la pasta. A
digestione ultimata, il pomeriggio torniamo a fare brainstorming musicale.

Quello che esce fuori in questi 15 bucolici giorni è musica di un’altra era: 2
chitarre e un sintetizzatore che intrecciano arpeggi ipnotici degni del
krautrock più onirico.

La cosa più simile che abbiamo a una sezione ritmica è composta da un


esile tamburo. Per il paese gira questo ragazzino che è l’icona della peste:
mai sentito un essere umano così piccolo dire volgarità così grandi. Tra
una parolaccia e l’altra, però, la creatura picchia con insolita maestria una
darabukka di plastica rimediata chissà dove. Lo tiriamo dentro, un po’
perché siamo in piena fase condivisione, peace and love, un po’ perché
almeno la smette di interromperci.

È una situazione così, tutto avviene in modo naturale. Spesso le persone


entrano nella vecchia scuola per sentire cosa facciamo. A volte molliamo
tutto e ci abbandoniamo a un tramonto. Passato il tramonto basta fare 20
passi di numero per essere assorbiti dalla notte più nera e silenziosa che si
possa immaginare.

Viene il 15 agosto. Il nostro improbabile gruppo di musica sacra trasloca in


chiesa.

La funzione ha luogo. Noi facciamo il nostro e la circostanza ha un fascino


indiscutibile. La chiesa è un gioiellino medievale arroccato tra le montagne,
pieno zeppo di affreschi. E poi ci sono i nostri brani: a Roma neanche in
una chiusa col fumo più pestone avremmo tirato fuori roba così.

Forse perché ipnotizzati dalle nostre stregonerie musicali, i locali


apprezzano. Finita la messa, molti vengono a fare i complimenti.

Siamo più stupefatti che soddisfatti.

Mentre l’ultimo fedele sta abbandonando la chiesa e noi stiamo


rinfoderando gli strumenti, si avvicina il prete, che ancora indossa i
paramenti sacri. Con forte accento marchigiano e senza nessuna ironia
dice:

«Ma che roba era? Musica der Burundi?»

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