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Il soldato era alto, con spalle larghe e braccia come tronchi. Su un fianco
portava una spada, sull’altro un pugnale. Aveva la faccia dura di uno che
ha fatto tante battaglie.
«Ma chi è quello fijo de na mula?», chiese il soldato all’oste con voce
bassa e roca.
«E come faccio a non abbadarci, che strilla come no maiale nel giorno
dello sgozzamento? Riémpime sto bicchiere».
Mentre l’oste toglieva il tappo di sughero alla bottiglia, il soldato s’era già
girato verso l’ubriaco. Il suo grido fu un tuono:
«Aho! Dico a te, che ciancichi e te sbrachi! Abbassa lo tono della voce!»
«Ma chi sei, ma che cerchi? Ma tu lo sai che n’ho ammazzati cento co na
manata?».
«Attappa sta buca che tieni sotto lo naso», disse, «perché ce entra troppo
vino e ce ne esce troppa voce. Ossinnò ti faccio passare la notte nella
gattabuia. E se non dico lo vero non comando più le guardie de lo
Governatore»
Poi sbottò a ridere, piegandosi sulle ginocchia, perché trovava quello che
aveva detto molto divertente. Rise fino a vomitare.
Essere lucidi
Giovanni Benforte non era sempre stato ubriaco. C’era stato un tempo in
cui era svelto di mano e di cervello.
Poi c’erano state la galera, le botte e una moretta che l’aveva dimenticato e
aveva sposato un fornaio.
Non è che ricordasse molto altro della sua vita. Dovevano essere passati
molti anni, perché la sua pancia ora era più gonfia, i capelli erano caduti e
aveva una barba incolta e grigia. Aveva rughe intorno agli occhi e alla
bocca.
C’era una guardia grassoccia che lo aveva preso a calci diverse volte.
E c’erano state delle risate e qualcuno che aveva detto di non aver mai
visto nessuno più ubriaco di lui.
Non era sicuro che fossero trascorse esattamente due settimane, in realtà.
Potevano essere tre, forse quattro. Il giorno e la notte non avevano confini
precisi, in quel buio perenne. Il tempo era scandito solo dai due pasti
giornalieri, fatti di una sbobba scura, messa in una ciotola sul pavimento
della cella.
Aveva perlopiù dormito. Ora non voleva più dormire, voleva pensare.
Pazientò.
Si alzò.
Le sue un tempo erano mani abili. Ma ora era un alcolizzato e quando non
beveva le sua mani tremavano. E le sue gambe erano deboli perché non
camminava da due settimane. Il Signor Governatore voleva parlargli. A lui?
Un beone, un ladro, figlio di un falegname?
Quando la porta di uscita delle segrete si aprì, in cima alle scale, la luce fu
così abbagliante che Giovanni Benforte si coprì la faccia con le mani,
facendo tintinnare le catene.
Il cocomero
Con gli occhi chiusi vedeva scintille di luce balenare nel rosso. E
improvvisamente ricordò.
Era solo in casa e stava bevendo. S’era fatto una brutta ferita a una gamba
e c’era quel moscerino che continuava a ronzare e a posarsi sulla carne
viva. Aveva preso un pezzo di cocomero e se l’era messo accanto. Il
moscerino s’era posato lì. Poi ne erano arrivati altri.
Un Orco
C’era l’omone, il Capo delle Guardie, accanto al Signor Governatore.
«Si dicono delle cose su di te». Il tono di voce del Governatore era
annoiato.
«Si dice che sei uno delinquente. O almeno che lo fosti, prima di diventare
uno imbriacone. E si dice che ti vai vantando in giro per lo mondo, che dici
di sapere ammazzare cinquanta òmini co la sola forza de una mano.»
Giovanni rispose:
«È lo vero che metto tutta la mia forza e le mie capacità allo servizio di
Vossignoria, qualunque cosa comandi.»
Il Governatore sbadigliò:
«Mio Signore… »