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Dopo un’ora di viaggio, il vento che gli sferzava la faccia era diventato

insopportabile. Ma se guardava alle sue spalle, Antonio tornava a rendersi


conto di essere moto fortunato.

Il vagone merci in cui stava stipato insieme a dozzine di altre persone era
talmente sudicio e maleodorante che stare affacciati sulla soglia del
portellone era una benedizione. Nessuno parlava: chi rannicchiato a terra,
chi in piedi, ognuno se ne stava coi suoi pensieri. Si udivano solo lo
sferragliare del treno, il rombo del vento e, a intervalli regolari, colpi di
tosse secca da qualche punto, nel buio.

Tutti i vagoni avevano i portelloni spalancati, altrimenti il puzzo sarebbe


stato insopportabile. Antonio viaggiava col volto rivolto verso la coda del
treno, per non avere occhi e bocca spazzati dal vento o investiti dagli
insetti.

Ma i suoi pensieri non andavano al sudiciume del vagone, ai corpi


ammassati, né al vento in faccia: andavano al paesaggio, sempre identico
per tutto il tragitto.

La ferrovia attraversava immense distese di campi d’oro, interrotte qua e là


da qualche villaggio di contadini. Le coltivazioni d’oro si seguivano senza
soluzione di continuità da quando il treno aveva lasciato la stazione, in un
lento su e giù tra le colline punteggiate di baracche dove i braccianti
tenevano gli attrezzi da lavoro.

Ad un tratto lo sferragliare del treno iniziò a rallentare.

Quando il secchio pieno d’acqua arrivò nelle sue mani, Antonio fece come
tutti gli altri: tirò su il mestolo, bevve a grandi sorsate e poi passò tutto al
tizio alla sua destra. Stavano tutti in piedi, più o meno in fila, con le spalle al
treno e gli occhi all’infinita distesa di campi d’oro. Dopo aver tuffato il
mestolo nel secchio ed essersi asciugato la bocca su una manica, il tizio
alla destra di Antonio gli rivolse la parola:

«Te sei quello che sòna in giro pe i villaggi. Na volta sei venuto a Rocca
Bianca»

«Due volte», lo corresse Antonio squadrando il ragazzo per capire se lo


conosceva. Sò tre giorni di viaggio, da casa mia. Ci sò venuto d’estate,
quando faccio giri de alcuni giorni su pe le montagne». Poi fu distratto da
qualcosa che si muoveva in basso: un topo annusava la terra a un metro
da loro. Si girò a fissare ancora il tizio: era giovanissimo, sedici, diciassette
anni:

«Vieni da laggiù? Te la sei fatta a piedi?», gli chiese.

«Ho camminato quattro giorni! Sò passato da tutti i paesi lungo la costa


delle montagne e poi ho attraversato la vallata de giorno, pe evità li Spettri
Neri. Ho dovuto lascià mamma e na sorella. Al paese mio oramai ce sta
solo la miseria. Mi padre e mi fratello se l’è portati via la tosse.»

«La tosse?», chiese Antonio.

«La tosse, te credo! Indove abiti te nun c’é? Chi dice che è colpa del vento,
chi della pioggia, Mi padre diceva che sò li topi.»

«Li topi?»

«Diceva che lui l’aveva visto in guerra: che la gente pe nun morire de fame
se magnava li topi e poi s’ammalava. Ma nun lo so se è vero, mi padre
parlava sempre de la guerra…»

Il topo si avvicinò ad annusare la scarpa di Antonio.

I Signori
Ora davanti ai suoi piedi c’era un grosso ammasso di escrementi di cavallo.

La goccia di sudore che penzolava dall’arcata del suo sopracciglio cadde


finalmente dentro l’occhio: era salata e l’occhio iniziò a bruciare. C’era un
barroccio tirato da un mulo alla sua sinistra, alla sua destra una vecchia
signora col bastone tenuta sotto braccio dalla sua serva e, dietro di lui, una
massa di gente che si spostava confusamente attraverso il mercato.

Antonio doveva spostare il suo carico pesante, stava intasando il


passaggio.

Era una giornata fredda, ma il sudore gli colava lungo la schiena ed era
rosso in viso.
Se avesse pestato gli escrementi di cavallo avrebbe imbrattato il pavimento
delle case dei Signori. Diede uno strattone ai manici del pesante carretto
che trascinava per farlo muovere di due passi con uno slancio e, mentre
quello avanzava verso la sua schiena, saltò l’ammasso di letame.

«Permesso, permesso!», gridava per farsi largo: «Attenzione!».

La gente si spostava malvolentieri, oppure non lo sentiva perché distratta


da altro. E quando rischiava di essere investita gli gridava dietro
imprecazioni.

Antonio trascinava un carretto a mano di legno, carico di pacchi: ognuno di


questi era destinato alla casa di un Signore.

Non conosceva i nomi delle affollatissime stradine e doveva continuamente


fermarsi a chiedere indicazioni. E non tutti sapevano o volevano
rispondergli. Un uomo gli aveva fatto cenno di aspettare, che gli avrebbe
indicato la strada: ma non riusciva a smettere di tossire e Antonio lo lasciò.

Quando infine si fermò davanti all’ingresso che stava cercando, vide che
era un enorme portone, aperto su un vasto chiostro. Circondato da archi
finemente scolpiti, c’era un giardino in cui si incrociavano vialetti con
panchine, circondati da bassi cespugli potati e illuminati dal sole. Alle spalle
di Antonio il vociare confuso, gli zoccoli dei cavalli, le grida dei venditori;
dinnanzi a lui la calma irreale del giardino.

Fece tre passi in avanti, tirandosi dietro il carretto.

«Fermo là!». La voce spuntò dall’ombra dell’ingresso, seguita da un omone


che indossava una livrea rossa: «Andò vai co sto carretto?!»

«Devo fà una consegna», rispose Antonio.

«Embè, mica poi entrare da qua! C’è l’ingresso de servizio!»

«E dove sta?»

«Devi fa tutto il giro del palazzo. E sbrìgate a levà de mezzo sto coso»,
disse indicando il carretto.
L’ingresso di servizio era molto stretto e Antonio fu costretto a lasciare il
carretto fuori, incustodito. Trasportava merce di valore, ma non poteva fare
altrimenti. S’infilò per la stretta scala mettendosi sulla spalla destra il
pesante pacco che doveva recapitare. Ansimando giunse al secondo piano
e bussò a una piccola porta di legno scuro, l’unica che c’era.

Gli aprì una donnetta curva con indosso un grembiule immacolato.

«Devo consegnà sto pacco», le disse.

La donnetta non rispose, prese il pacco, lo posò sul tavolo alla sua sinistra,
tirò fuori un grosso coltello da cucina e tagliò lo spago che lo chiudeva. Aprì
il pacco e ne tirò fuori il contenuto: una statuetta alta più di un braccio che
raffigurava un gufo con le ali spiegate, il becco spalancato e gli artigli tesi,
come in procinto di afferrare una preda. La statua era interamente fatta di
oro.

La donnetta col grembiule posò la pesante statuetta sul tavolo con un


gemito e fece segno di aspettare. Poi si allontanò.

E dopo molti minuti, Antonio era ancora lì in attesa.

Non poteva aspettare oltre, in strada c’era il carretto incustodito, doveva


andarsene. Perciò entrò a cercare la donnetta.

Si accorse di essere dentro una cucina, la attraversò e sbucò in un vasto


corridoio lastricato di marmi, nel quale correvano file di statue d’oro. Dalle
pareti sputavano grossi candelabri d’oro e perfino il pavimento era
cesellato con intarsi d’oro tra i marmi.

La donnetta spuntò da una delle porte che affacciavano sul corridoio in


preda a un attacco di tosse. Gli fece cenno che la consegna andava bene,
avvicinandosi, poi lo spinse senza gentilezza, per farlo tornare indietro più
in fretta possibile: era sporco e sudato, non era conveniente che i Signori lo
vedessero in casa.

Sbattuto fuori della porticina da cui era entrato, Antonio si fermò un attimo.

Si sentiva sfinito, ma era solo la prima consegna, doveva farne altre otto.
Il Contratto
L’uomo col naso schiacciato stava seduto dietro un tavolaccio di legno tutto
graffiato. Da un lato c’era un grosso orologio, col quale controllava l’orario
di partenza e di arrivo dei facchini dall’altro c’erano fogli ammucchiati con
nomi e indirizzi. Stava rovistando in un cassetto.

Il sole era già scomparso dietro i palazzi e la stanzetta era illuminata solo
da una piccola lampada a gas sul davanzale della finestrella. Nell’alone
giallo emanato dal lumino, l’uomo col naso schiacciato pieno di porri
appariva quasi mostruoso.

Antonio non aveva idea di quanto avrebbe rimediato per quella giornata di
lavoro. Era stanco. E non sarebbe tornato a scaldare e riposare le ossa
dalla sua famiglia, nella sua casa. Non quella sera.

«Te la sei cavata», disse l’uomo col naso schiacciato: «Ciài messo tutta la
giornata, ma lo sapevo: vieni da fuori, nun conosci le strade… ». Gli mise
sotto il naso un foglio con un sacco di scritte e gli porse una penna: «Lo sai
scrive il nome tuo?», chiese guardandolo in faccia.

«Che è sto foglio?», disse Antonio rispondendo allo sguardo.

«Ce sta scritto che accetti il lavoro. Se l’accetti, devi firmà»

«Ma che devo accettà?», fece Antonio. «Ho già lavorato! Ho portato
statuette d’oro in giro pe tutta la città!»

«Questa era na giornata de prova!», ringhiò l’uomo col naso schiacciato.


«Ahó, nun me fa perde tempo! Se vòi il lavoro, firma: vieni qua tutte le
mattine, te dai da fà e a fine mese prendi cento lire, la paga base. Se nun
te sta bene, quella è la porta. Gambe e braccia forti nun me mancano. Hai
visto quanti ragazzi sò scesi dal treno?»

Un mese.

Era buio pesto. L’unico rumore erano i colpi di tosse dell’uomo sdraiato ai
suoi piedi. Antonio non aveva idea di chi fosse, lo aveva trovato lì disteso,
già sconquassato dai colpi di tosse.
Antonio aveva freddo, tremava avvolto in una copertaccia che non veniva
lavata da chissà quanto. Se ne stava rannicchiato in un angolo, come tutti
gli altri, imbozzolato, troppo stanco per pensare a un modo migliore per
scaldarsi. Al centro della vecchia stalla adibita a deposito stavano i carretti
e i pacchi da consegnare il giorno dopo.

Sperava di cavarsela con molto meno, invece prima di vedere i soldi


avrebbe dovuto restare in città un mese. E cento lire non erano molte.
L’uomo col naso schiacciato gliene avrebbe detratte una al giorno in
cambio dell’uso della coperta e di quell’angolo per dormire. E poi avrebbe
dovuto comprarsi da mangiare.

Dopo un mese di lavoro avrebbe riportato a casa forse quaranta, cinquanta


lire. E doveva anche comprarci il biglietto del treno, a meno che non se la
fosse fatta a piedi. Ma erano molti giorni di cammino attraverso i campi
d’oro; e di notte, nei campi d’oro, c’erano gli Spettri Neri che sorvegliavano,
pronti a uccidere chiunque si avvicinasse alle piante.

Forse avrebbe potuto trovare un percorso alternativo che lo riportasse a


casa aggirando i campi, ma mentre pensava queste cose il sonno l’ebbe
vinta e le palpebre di Antonio scivolarono giù.

La Tosse
Antonio si svegliò all’alba, come tutte le mattine. Ma non gli parve di aver
sentito le campane suonare.

Le campane suonavano sempre, a quell’ora.

Era in città ormai da due settimane.

Lavorava come una bestia, era sempre stanco. La sera, finito il turno,
mangiava un boccone rimediato e poi andava a rannicchiarsi nel solito
cantuccio nella vecchia stalla. Sempre nella stessa coperta sporca, come
tutti gli altri.

Quasi tutti avevano la tosse. Molti stavano sempre peggio.

Anche in strada, mentre portava il carretto in giro per le consegne,


incontrava sempre più gente che tossiva. La mattina precedente aveva
visto un uomo con le mani e la faccia viola crollare a terra in preda a un
accesso di tosse. Nessuno gli si era avvicinato per aiutarlo, era rimasto a
terra a tossire.

Mentre si stropicciava gli occhi, si chiese se fosse finalmente arrivata una


lettera da Adele. Gliene aveva scritte due, da quando era arrivato, ma non
aveva ancora ricevuto risposta.

Si alzò a sedere, scrollandosi la coperta di dosso. Solo altri due uomini si


erano alzati. Antonio si mese in piedi, prese la giacca e si avviò verso il
lavatoio per darsi una sciacquata. Quello che dormiva ai suoi piedi non si
muoveva. Gli diede un leggero calcetto chiamandolo per nome, ma quello
rimase immobile.

«È meglio se nun lo tocchi», disse una voce accanto a lui. Era il ragazzo di
Rocca Bianca, quello che aveva conosciuto durante il viaggio in treno. «Se
nun è morto cià già un piede nella fossa», disse.

La maggior parte degli uomini era rimasta stesa a terra e quasi tutti
tossivano o rantolavano.

Antonio e il ragazzo attraversarono la stalla e si affacciarono nella stanza


dove ogni mattina incontravano l’uomo dal naso schiacciato, che gli dava la
lista dei pacchi da consegnare.

Ma l’uomo dal naso schiacciato non c’era.

Allora uscirono in strada.

Davanti a loro passavano due uomini che ne portavano un terzo: uno lo


teneva per le braccia, l’altro per i piedi.

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