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Il vagone merci in cui stava stipato insieme a dozzine di altre persone era
talmente sudicio e maleodorante che stare affacciati sulla soglia del
portellone era una benedizione. Nessuno parlava: chi rannicchiato a terra,
chi in piedi, ognuno se ne stava coi suoi pensieri. Si udivano solo lo
sferragliare del treno, il rombo del vento e, a intervalli regolari, colpi di
tosse secca da qualche punto, nel buio.
Quando il secchio pieno d’acqua arrivò nelle sue mani, Antonio fece come
tutti gli altri: tirò su il mestolo, bevve a grandi sorsate e poi passò tutto al
tizio alla sua destra. Stavano tutti in piedi, più o meno in fila, con le spalle al
treno e gli occhi all’infinita distesa di campi d’oro. Dopo aver tuffato il
mestolo nel secchio ed essersi asciugato la bocca su una manica, il tizio
alla destra di Antonio gli rivolse la parola:
«Te sei quello che sòna in giro pe i villaggi. Na volta sei venuto a Rocca
Bianca»
«La tosse, te credo! Indove abiti te nun c’é? Chi dice che è colpa del vento,
chi della pioggia, Mi padre diceva che sò li topi.»
«Li topi?»
«Diceva che lui l’aveva visto in guerra: che la gente pe nun morire de fame
se magnava li topi e poi s’ammalava. Ma nun lo so se è vero, mi padre
parlava sempre de la guerra…»
I Signori
Ora davanti ai suoi piedi c’era un grosso ammasso di escrementi di cavallo.
Era una giornata fredda, ma il sudore gli colava lungo la schiena ed era
rosso in viso.
Se avesse pestato gli escrementi di cavallo avrebbe imbrattato il pavimento
delle case dei Signori. Diede uno strattone ai manici del pesante carretto
che trascinava per farlo muovere di due passi con uno slancio e, mentre
quello avanzava verso la sua schiena, saltò l’ammasso di letame.
Quando infine si fermò davanti all’ingresso che stava cercando, vide che
era un enorme portone, aperto su un vasto chiostro. Circondato da archi
finemente scolpiti, c’era un giardino in cui si incrociavano vialetti con
panchine, circondati da bassi cespugli potati e illuminati dal sole. Alle spalle
di Antonio il vociare confuso, gli zoccoli dei cavalli, le grida dei venditori;
dinnanzi a lui la calma irreale del giardino.
«E dove sta?»
«Devi fa tutto il giro del palazzo. E sbrìgate a levà de mezzo sto coso»,
disse indicando il carretto.
L’ingresso di servizio era molto stretto e Antonio fu costretto a lasciare il
carretto fuori, incustodito. Trasportava merce di valore, ma non poteva fare
altrimenti. S’infilò per la stretta scala mettendosi sulla spalla destra il
pesante pacco che doveva recapitare. Ansimando giunse al secondo piano
e bussò a una piccola porta di legno scuro, l’unica che c’era.
La donnetta non rispose, prese il pacco, lo posò sul tavolo alla sua sinistra,
tirò fuori un grosso coltello da cucina e tagliò lo spago che lo chiudeva. Aprì
il pacco e ne tirò fuori il contenuto: una statuetta alta più di un braccio che
raffigurava un gufo con le ali spiegate, il becco spalancato e gli artigli tesi,
come in procinto di afferrare una preda. La statua era interamente fatta di
oro.
Sbattuto fuori della porticina da cui era entrato, Antonio si fermò un attimo.
Si sentiva sfinito, ma era solo la prima consegna, doveva farne altre otto.
Il Contratto
L’uomo col naso schiacciato stava seduto dietro un tavolaccio di legno tutto
graffiato. Da un lato c’era un grosso orologio, col quale controllava l’orario
di partenza e di arrivo dei facchini dall’altro c’erano fogli ammucchiati con
nomi e indirizzi. Stava rovistando in un cassetto.
Il sole era già scomparso dietro i palazzi e la stanzetta era illuminata solo
da una piccola lampada a gas sul davanzale della finestrella. Nell’alone
giallo emanato dal lumino, l’uomo col naso schiacciato pieno di porri
appariva quasi mostruoso.
Antonio non aveva idea di quanto avrebbe rimediato per quella giornata di
lavoro. Era stanco. E non sarebbe tornato a scaldare e riposare le ossa
dalla sua famiglia, nella sua casa. Non quella sera.
«Te la sei cavata», disse l’uomo col naso schiacciato: «Ciài messo tutta la
giornata, ma lo sapevo: vieni da fuori, nun conosci le strade… ». Gli mise
sotto il naso un foglio con un sacco di scritte e gli porse una penna: «Lo sai
scrive il nome tuo?», chiese guardandolo in faccia.
«Ma che devo accettà?», fece Antonio. «Ho già lavorato! Ho portato
statuette d’oro in giro pe tutta la città!»
Un mese.
Era buio pesto. L’unico rumore erano i colpi di tosse dell’uomo sdraiato ai
suoi piedi. Antonio non aveva idea di chi fosse, lo aveva trovato lì disteso,
già sconquassato dai colpi di tosse.
Antonio aveva freddo, tremava avvolto in una copertaccia che non veniva
lavata da chissà quanto. Se ne stava rannicchiato in un angolo, come tutti
gli altri, imbozzolato, troppo stanco per pensare a un modo migliore per
scaldarsi. Al centro della vecchia stalla adibita a deposito stavano i carretti
e i pacchi da consegnare il giorno dopo.
La Tosse
Antonio si svegliò all’alba, come tutte le mattine. Ma non gli parve di aver
sentito le campane suonare.
Lavorava come una bestia, era sempre stanco. La sera, finito il turno,
mangiava un boccone rimediato e poi andava a rannicchiarsi nel solito
cantuccio nella vecchia stalla. Sempre nella stessa coperta sporca, come
tutti gli altri.
«È meglio se nun lo tocchi», disse una voce accanto a lui. Era il ragazzo di
Rocca Bianca, quello che aveva conosciuto durante il viaggio in treno. «Se
nun è morto cià già un piede nella fossa», disse.
La maggior parte degli uomini era rimasta stesa a terra e quasi tutti
tossivano o rantolavano.