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Mosé chiese alla ragazza del bar un altro caffè.

E chiese anche di versarlo


nella tazzina sporca. La stessa da cui aveva bevuto pochi attimi prima. La
indicò sul bancone e attese una risposta da lei, che non arrivò. Allora si
voltò verso la sala piegando i gomiti all’indietro sopra il corrimano di ottone
consumato dagli anni e dalle impronte. Vide il profilo di sua moglie
impresso sul fondovalle. Il viso fresco della donna spezzava la linea tra il
bosco e il tempio. Era seduta a un tavolino fuori e stava leggendo una
pagina di giornale, lasciando a distanza il mondo attorno. Lui compreso. Il
caldo si posava a ferita sulla pelle bagnata e Segesta era un luogo appeso
per sbaglio alla sua collina. Tra sole e terra. Mare e vento. Spazio e storie
di antichi. Bevve il secondo caffè e cercò i soldi nella tasca dei bermuda.
«Signorina…» disse José nel suo italiano incerto «…pago i due caffè e il
bitter bianco di mia moglie…»
La giovane digitò i numeri sulla cassa senza alzare gli occhi.
«…vorrei comprare anche questa tazzina se non le dispiace…»
«Non vendiamo tazzine signore…»
«Capisco, però vede, io sono un collezionista. Non di tazzine in verità. Solo
di buoni caffè. E se mi capita in giro per il mondo di berne davvero di
speciali, l’unico modo che ho di ritrovarne l’essenza nel tempo è portarmela
via, la tazzina intendo, prima che qualcuno la rigoverni.»
«Mi spiace signore, proprio non posso fare nulla…», alzò gli occhi la
ragazza finalmente.
Provò a ricordare dove lo avesse già visto. In televisione, su qualche rivista
o al teatro Massimo nella stagione passata.
«Sa quante ne ho di quelle tazzine sopra il camino nella mia casa di
Lanzarote signorina?»
Lo riconobbe. Uno dei risvolti di copertina di quel libro che aveva letto quasi
per fare un favore al padre aveva stampato il suo volto. Aveva insistito il
vecchio, e aveva avuto ragione lui stavolta. Quella storia di cechi simili a
zombie che sopravvivono a loro stessi, al loro male e alla bruttezza di tutti
gli uomini del mondo l’aveva inchiodata contro la spalliera del letto
allontanando il sonno per più di una notte.
Non disse più niente la ragazza del bar. Restò a guardarlo limitandosi ad
un gesto che forse significava che sì, la tazzina poteva prendersela e a lei
in cambio sarebbe bastato un cenno, anche il più lieve, che lui fosse
realmente lui, senza possibilità di errore o scambi di persona.
José colse il suo l’imbarazzo. Stese una banconota da cinquantamila lire
sul banco e sfilò una penna dalla borsa che portava a tracolla. Poi cercò
qualcos’altro in una delle tasche interne. Tirò fuori un libro e scrisse due
righe su una delle pagine bianche. Sorrise mentre lo spingeva in direzione
della ragazza.
«Vede signorina…», disse prendendo tra le mani la tazza, «…ne ho circa
milleduecento. Provengono dai luoghi più differenti. Facile ammettere che
la stragrande maggioranza sia italiana. Questa però è la prima che
appartiene alla sua terra. Lei mi ha regalato una grande gioia. E la ringrazio
della sua miscela che fa il paio col suo talento.»
Si voltò e uscì, mentre Pilar, la moglie il cui profilo tagliava in due la linea
del bosco e del tempio, chiuse il giornale che l’aveva rapita al mondo.
José ebbe la forza di guardarla mentre lei faceva altrettanto. Fu la donna a
parlare per prima: «andiamo a piedi, non mi va di prendere l’autobus.»
«È molto caldo, pensi di riuscire a farti una camminata così lunga?»
«Se ce la fai tu José, posso farcela anch’io.»
Lanciò un ultimo sguardo alla ragazza del bar mentre rispondeva a sua
moglie: «ho appena bevuto un caffè da sogno. Due caffè da sogno a dire il
vero. Potrei scalare l’Etna se volessi.»
«Ti sei preso il tuo trofeo?», chiese Pilar.
Le indicò la borsa con la mano.
Salirono al tempio con il passo lento ma incrollabile dei guerrieri anziani.
Sfiniti, guardarono di fronte la costruzione immobile immersa nel silenzio.
Non parlarono, girarono in tondo e ne squadrarono la maestosità da ogni
lato. Pilar estrasse la Nikon dalla fodera. Non riuscì a scattare foto perché
certi istanti non chiedono foto. Si respira e basta. Con i polmoni e con i
denti. Gli occhi nudi verso un punto, in mezzo ad altre migliaia da mettere a
fuoco. Le braccia della donna invece cercarono le braccia di lui. Rimasero
a fianco l’uno dell’altra, le scarpe nascoste nella polvere. Camminarono
ancora e raggiunsero il teatro. Si sedettero su uno dei gradoni in alto a
riposare le gambe e prendersi in faccia folate d’aria pigra che la sera
spingeva su a fatica dalla pianura. José apriva la bocca perché quel vento
si mescolasse alla saliva, che era come ridar forza agli ultimi residui di
caffè tenuti prigionieri tra gli incastri del palato. Attesero un custode che
venisse ad accompagnarli indietro, sulla strada che riportava al paese.
Attraversarono l’isola. Trascorsero i giorni seguenti tra Noto, Piazza
Armerina e Modica. Si spostarono di nuovo ad ovest poi, mangiarono
panelle in una via del centro di Ragusa e si fermarono nello slargo di mare
sotto la Scala dei turchi. A lui venne di nuovo voglia di caffè. Trovarono un
chiosco dalle parti di Lido Rossello, sedettero a un tavolo e José chiese a
Pilar che cosa avesse letto di così interessante sul giornale pochi giorni
prima in un bar fuori del parco di Segesta. Lei non fu sorpresa da quella
domanda. Prese la tazza di caffè dalle mani del marito e ne bevve un
sorso: «spero non sia destinata a diventare un altro dei tuoi trofei, perché
c’è il mio odore lì dentro che l’ha irrimediabilmente contaminata.»
Non disse niente lui, attese che la donna si allontanasse per nascondere la
tazzina in fondo alla sua borsa, senza chiedere di pagarla come sempre.
Non lo aveva mai fatto prima.
«Non hai risposto alla mia domanda di oggi Pilar…» le sussurrò nel buio
della loro stanza quella sera stessa.
«Un articolo delle pagine interne. Una cosa che non ha molta importanza, e
che non ti avrei mai riferito se tu non me l’avessi chiesto.»
«Già, e perché mai sono qui a farti di nuovo questa domanda allora?
Perché mi trovo costretto ogni volta ad invadere i luoghi nascosti della tua
vita?»
«Non sei un invasore José. È il tuo modo di sorprendermi e di corrermi
incontro. Anche io lo faccio con te. Uso un altro strumento, mi limito a
succhiare piano e un po’ alla volta certi tratti della tua sapienza.»
Alla fine rispose Pilar: «il giornale parlava di un concorso letterario a cui si
può partecipare inviando un racconto che tratti del caffè in qualche modo.
Vorrei che tu lo scrivessi.»
«Mi stai chiedendo di partecipare ad una specie di gara per dilettanti e
magari pagare anche l’iscrizione?»
«Perché non potresti farlo? Tu sei capace di inventare storie fantastiche.
Chi dovrebbe partecipare se non tu? Se vuoi pago io la quota.»
Scoppiò in una risata violenta, e rise ancora più forte ripensando alla faccia
di sua moglie che lo guardava mentre il re gli porgeva la pergamena del
Nobel nella grande sala da cerimonia al conservatorio di Stoccolma. Era
trascorso poco più di anno. Eppure gli parve di ricordare un avvenimento di
un’epoca lontana.
Ne scrisse cinquantanove José. Fino al giorno della sua morte.
«Ce ne sono abbastanza di quei racconti Pilar e non li ho mai consegnati al
mio editore…», le disse poche ore prima di spegnersi, «…ti ho riso in
faccia dieci anni fa e non avrei dovuto. Non compresi ciò che mi stavi
dicendo allora. Volevi che abbattessi il mio monumento, che parlassi di noi
e dei nostri vezzi - il caffè è uno di quelli -, e mi suggeristi di farlo usando in
segreto la mia scrittura. Fu inaspettata per me la tua richiesta, di quelle che
spostano d’improvviso il corso delle cose senza che tu abbia lucidità
sufficiente a coglierne la portata. Scrivo da una vita intera per liberare
milioni di prigionieri che ho dentro. È difficile strapparli alla loro galera,
ancora più dura è strisciare nel fango per andare a scovarli uno ad uno. Tu
mi richiamasti al dovere. Ero stanco e non seppi affrontarti. Peggio, mi
nascosi dietro la mia arroganza prendendomi gioco di te. Ti chiedo io, oggi,
di inviare un racconto del caffè ogni volta, finché magari non ci
concederanno una meritevole posizione sul podio. Sarà una giusta
ricompensa per entrambi.»
Lasciò in aria una striscia di fiato José e di lui non si ricordano altre parole.
Il vento frusta gli alberi della strada strappandone via foglie ancora fresche.
Si gonfia in lontananza l’oceano anche se la donna non sa più distinguerne
il suono. Il camino della casa di Lanzarote è sommerso dalle tazzine
sporche di José. Lei tira via lo strato di polvere che si è posato sopra,
accende il pc ed apre la cartella zippata che compare in alto sul desktop. Al
18 giugno di ogni anno traduce una nuova storia, s’inventa cenni di vita di
autori che non ci sono ed invia l’e-mail con allegato il file word al caffè
letterario in terra di Sicilia. Ogni anno José partecipa usando un nome
diverso. Non è mai entrato neanche a far parte dei selezionati per il gran
finale. Pilar ha ancora un passo da guerriero anziano, un giornale aperto
sul tavolo della cucina per farsi rapire al mondo quando le occorre, e una
valigia pronta, semmai qualcuno la invitasse a ritirare un premio da dividere
con l’uomo che più di tutti ancora oggi riesca sul serio a sorprenderla.

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