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Era partito la mattina dalla stazione. Dopo l’incontro notturno col Folletto,
aveva continuato a vagare tra i vicoli per sfuggire agli Spettri, che a un
certo punto lo avevano quasi accerchiato. Si era ritrovato a correre lungo il
fiume che attraversava la città e ancora una volta era stato salvato dal
sorgere del sole.
L’altro era a pochi passi dalla guardia: era il ragazzo di Rocca Bianca. Non
era morto di tosse, aveva gli occhi spalancati verso il cielo, una pozza di
sangue dietro la schiena e un’orrenda ferita in mezzo al petto.
Probabilmente aveva provato a entrare nella stazione e il soldato gli aveva
sparato.
Antonio gli aveva chiuso gli occhi e lo aveva trascinato a lato della strada.
Poi aveva scavalcato il cancello sprangato e si era incamminato.
Ogni tanto tirava fuori dalla tasca della giacca il fiore che gli aveva dato il
Folletto. Non ne vedeva uno simile da quando era bambino e andava a
giocare nella foresta: un piccolo giglio selvatico bianco. Ne prendeva
sempre per portarli a sua nonna.
A un tratto una luce folgorò le cime: un lampo serpeggiò giù dalle nuvole e
per un attimo Antonio vide le montagne cambiare colore.
Dopo qualche minuto, si rese conto che non poteva correre a perdifiato per
chilometri. Rallentò e, senza fermarsi, si tolse la giacca e il cappello per
non sudare troppo e prese un’andatura di corsa leggera. Avrebbe retto il
più a lungo possibile in una gara disperata contro il sole, che scendeva
sempre più rapido alla sua sinistra e aveva quasi raggiunto l’orlo dei monti
più alti. Lo scampanellio delle piante suonava come un allarme incessante
del suo passaggio.
Gli facevano male i piedi. Le vecchie scarpe avevano coperto troppi
chilometri, le suole erano lise e sotto la pianta destra stava per aprirsi un
buco. Lo avevano portato per anni su e giù tra i villaggi della sua terra,
dove andava a cantare canzoni nelle piazze o a vendere il formaggio nei
mercati. L’estate poi faceva lunghi giri su per i monti, per raggiungere i
borghi più nascosti: stava via quattro, cinque giorni di seguito e macinava
dozzine di chilometri per portare a casa un gruzzolo: nella bella stagione
anche i paesani più diffidenti lo accoglievano volentieri e si disponevano in
grandi cerchi nelle piazze per ascoltarlo. E lui cantava per loro canzoni che
raccontavano fatti che aveva sentito o di cui aveva letto da qualche parte.
Guardando avanti, però, si accorse che si stava avvicinando alla fine del
campo che stava attraversando.
Nell’oscurità
Non poteva essere solo, gli Spettri Neri si muovevano sempre in gruppo.
Antonio correva a perdifiato. Il buio non era ancora calato del tutto ma gli
Spettri lo avevano già trovato. Lo avrebbero inseguito per tutta la notte.
Antonio continuava a correre verso la foresta ma sapeva che gli avrebbero
tenuto dietro anche lì. Voltò per un attimo la testa e vide che erano tre, lenti
ma inesorabili. Antonio poteva solo continuare a correre, sperando di
mettere tanta distanza da non essere raggiunto prima del sorgere del sole.
Ma se fosse crollato prima? Camminava da due giorni, senza neanche
un’ora di riposo, le sue gambe avrebbero ceduto, pensava. E allora lo
avrebbero preso.
Faggi dalle grosse fronde si stagliavano grigi, alle loro spalle un’oscurità
profonda e densa. Antonio si guardò ancora alle spalle: gli Spettri
continuavano ad avanzare. Entrò nel bosco.
La seconda volta che aprì gli occhi si sentì molto debole e la nausea era
ancora più forte. Fece appena in tempo a voltare la testa per non vomitarsi
addosso, poi gli Spettri lo avvinghiarono ancora. E ancora perse i sensi.
Quando fu in grado di riaprire gli occhi, sentì che il cinguettio era diventato
più forte. E all’improvviso qualcosa balenò nella sua mente.
Per prima vide la luce dell’alba che entrava dalla finestra della cucina, poi
sentì il profumo dell’erba del prato bagnato di rugiada. E vide se stesso
correre intorno al tavolo coi bambini in braccio e anche sua moglie seduta
difronte che gli teneva una mano. Sentì il profumo della sua pelle mentre
facevano l’amore e quello del prato quando fioriva in primavera. Vide il
bambino che era stato mentre correva nei boschi, sentì le mani di sua
madre che lo accarezzavano, il sapore delle mandorle colte dagli alberi di
casa sua e il succo dissetante delle mele. Sentì il calore del latte delle
pecore mentre le mungeva, l’odore dello sterco e quello del camino nelle
sere d’inverno. Sentì il suono delle risate, le lacrime sulla pelle e tutte le
canzoni che aveva imparato e cantato.
Vide se stesso che rientrava in casa e i bambini che gli correvano incontro
per abbracciarlo.
Afferrò la mano che gli stringeva la gola. E quando la strinse, scoprì che
era fragilissima: il polso dello Spettro si sgretolò come fosse fatto di terra.
Un grido agghiacciante si levò dal fantasma e gli altri due si allontanarono.
Antonio si alzò con grande fatica, la testa che girava. Appena riuscì a
tenersi in piedi, osservò lo Spettro che gridava davanti a lui, mise una
mano dove doveva esserci il volto, afferrò qualcosa che doveva essere una
specie di teschio in putrefazione e strinse, sgretolando senza sforzo tutto
quello che c’era.
Essere vivi
L’ombra della faggeta era fredda, anche se il sole doveva ormai essere
alto. La foresta brulicava di vita. Una vacca bianca dalle lunghe corna lo
fissava con occhi neri, immobile. Antonio allungò una mano verso il suo
muso e la bestia si lasciò accarezzare. Si accucciò ai piedi di un albero e
attese, accanto alla vacca che brucava qualche ciuffo d’erba tra le umide
foglie morte che coprivano il sottobosco. Non voleveva addormentarsi, ma
le palpebre gli si abbassarono senza che se ne accorgesse.
Fu svegliato da una mano che gli stringeva la spalla. Questa volta era una
mano calda, umana.