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L’Orco si alzò in piedi e arrivò al Brutto.

Gli schiacciò la testa con il piede,


poi con gli artigli fece scempio del suo corpo.

Giovanni guardò l’Orco tirargli fuori le viscere e si voltò a vomitare.

Poco dopo, lo vide allontanarsi, barcollante, col falcetto infilato nella


schiena.

L’Orco camminò in direzione del bosco in fiamme e nessuno ne sentì più


parlare.

I guardiani
Era calata la notte.

Davanti al cancello c’erano tre soldati. Uno stava raccontando della sua
ultima visita al bordello. Gli altri due sembravano presi dal racconto, ma
uno si voltò verso il buio:

«Chi va là?», gridò. In una mano stringeva la lancia, nell’altra una lampada
a olio.

Dal buio emerse un’ombra.

Avanzava a passi lenti, stanchi. Man mano che si avvicinava appariva


sempre più orrenda e spaventosa.

«Fermo là!», gridò un altro dei soldati. «Fatti riconoscere!»

L’ombra si fermò ad alcuni passi di distanza da loro.

La fioca luce della lampada ne mostrò le sembianze bestiali.

La testa era un ammasso di capelli e una folta barba gli copriva la faccia.
Non aveva camicia né calzature e le brache erano luride e piuttosto
stracciate.

Stringeva in mano qualcosa di viscido che giocciolava in terra.


«Fatti riconoscere», gridò ancora una delle guardie.

«Io sò Giovanni Benforte, de nome e de fatto. Fui mandato dallo


Governatore a caccia dello Orco gigante che fa strage de bambini».

I soldati rimasero zitti.

«Io sò Giovanni Benforte de nome e de fatto. La bestia assassina è morta


e queste sono le sue viscere».

Sollevò davanti alla faccia dei tre soldati l’intestino gocciolante del Brutto. I
soldati si ritrassero inorriditi.

«E ora fateme passare, debbo parlare con lo Signor Governatore».

Non attese una risposta, avanzò in mezzo ai soldati.

Spinse il cancello ed entrò.

Una lampada si accese, qualcuno si mise a correre.

Un insolito vociare si diffuse nel cortile del palazzo.

Si raccolse un capannello di servi, stallieri e soldati.

«Che state a guardare!», fu l’urlo che scosse tutti.

Il Comandante delle Guardie del Governatore arrivò a passi lunghi e veloci.

«Tu, ubriacone e puzzolente de uno straccione! Come osi entrare nello


palazzo dello Signore tuo in codesto arnese?»

Giovanni si fermò a guardarlo.

Sollevò i visceri sanguinolenti che teneva nel pugno e disse fissando il


Capitano dritto in faccia:

«Lo mostro assassino è morto. Lo mostro vero».

Il Capitano rimase senza parole. Dovette pensare in fretta.


Se si fosse saputa la verità sarebbe scoppiata una rivolta.

Sguainò il lungo coltello che teneva sempre al fianco e in un attimo fu


addosso a Giovanni.

La lama era lunga, affondò nel ventre di Giovanni come fosse mollica di
pane.

Giovanni sussultò.

C’era stato un tempo in cui era un giovane rissoso, svelto a tirare pugni.

C’era stato un tempo in cui neanche un soldato grosso come quello lo


avrebbe colto di sorpresa.

Afferrò la testa del Capitano, schiacciandogli i visceri molli sulla faccia.


Quello provò a indietreggiare, ma Giovanni lo colpì con una violenta testata
sul naso.

Il soldato barcollò.

Giovanni si tolse la lama dalla pancia.

Il Capitano era cieco per il sangue gelatinoso sparso sulla faccia.

Giovanni lo afferrò per la giubba e gli infilò il coltello nel cuore.

Nessuno mosse un dito. Nessuno fiatò.

Giovanni avanzò fino al portone e bussò forte.

Nella tana della belva


Fiammelle dondolanti.

Il salone di ingresso del palazzo era pieno di torce e candele.


Giovanni stava sulla soglia con una mano sul ventre sanguinante. Tossiva.
Era sudicio, i pochi vestiti che aveva indosso erano ridotti a stracci. La sua
puzza arrivava a metri di distanza. Si sentiva vecchio e stanco.

Il Governatore stava ai piedi di una scalinata di marmo con una vestaglia.


Lo fissava impassibile.

«Vostra Signoria, lo assassino dei bambini è morto», disse Giovanni.

Il Governatore parlò:

«Sei venuto a riscuotere la ricompensa? Ebbene sei libero, Giovanni


Benforte. Porta li tuoi stracci maleodoranti lontano da questa dimora».

«Non venni qui a cercare ricompense, Vostra Signoria, venni a cercare… »

Il Governatore alzò una mano per comandare silenzio:

«Lo straccione imbriacone è venuto infine a cercare una morte che gli
faccia onore».

C’era stato un tempo in cui Giovanni Benforte raggirava i ricchi signori.


Apriva le loro borse con piccoli rasoi per farne sgorgare monete tintinnanti.
Seduceva le loro figlie in età da marito. Inventava canzoni su di loro con gli
amici all’osteria.

Sputò in terra:

«Lo onore è roba per i signori come Voi. Io venni a cercare una bambina.
Venni per riportarla alla casa sua».

«Quello che cerchi, qualunque cosa sia, sta allo piano superiore. Va’ a fare
quello che devi e infine porta la tua carcassa di moribondo lontana
abbastanza affinché non ne senta più lo puzzo mortifero».

Ogni scalino sembrava più alto del precedente.

La ferita nel ventre pulsava e buttava sangue. Giovanni aveva voglia di


lasciarsi cadere.
Arrivato al piano superiore attraversò una stanza. C’erano pavimenti lucidi,
mobili intarsiati e grandi quadri alle pareti. Giovanni lasciava impronte di
terra e sangue.

Arrivò a una porta chiusa.

La aprì.

Davanti a lui c’era un tavolino. Sopra c’erano due bottiglie di vino, una
vuota e l’altra mezza piena.

Quante settimane erano passate da quando era stato gettato nelle galere
del Governatore?

Da quanto tempo desiderava bere vino, così tanto da avere attacchi di


rabbia e crisi di pianto?

Oltre il tavolino con le bottiglie c’era una poltrona e sulla poltrona c’era un
uomo stravaccato.

Davanti alla poltrona c’era una bambina seminuda. Tremava.

Giovanni guardò le due bottiglie.

Afferrò quella vuota.

«Vattene», disse alla bambina. «Esci da qua subito».

L’uomo sollevò la schiena e si voltò verso di lui.

Non disse niente. Si chinò a raccogliere qualcosa a terra dietro la poltrona.

Quando si alzò, impugnava una lunga spada.

Era alto e aveva braccia lunghe e nervose. Puntò la spada verso Giovanni,
senza parlare, e si mosse verso di lui.

Ma inciampò.
Imprecò e di nuovo si rivolse a Giovanni. Barcollava, doveva essere del
tutto ubriaco. Ma in un attimo fu a alla distanza di un colpo di spada.

La bambina fuggì dalla stanza.

Giovanni lanciò la bottiglia vuota in faccia al Vicario Pontificio.

Lo centrò in pieno.

Quello cadde all’indietro.

Giovanni afferrò l’altra bottiglia, quella mezza piena. La teneva per il collo,
sottosopra, e il vino colò tutto fuori.

Quando arrivò sopra al Vicario, vide che teneva ancora la spada in mano.
L’agitò e colpì Giovanni facendogli un taglio che andava dalla bocca
all’orecchio.

Giovanni diede una bottigliata alla mano che impugnava la spada,


facendola volare via.

Poi si chinò sul Vicario e lo colpì in faccia diverse volte col fondo della
bottiglia.

Per qualche secondo il Vicario continuò a muoversi, a scatti.

Poi non si mosse più.

E Giovanni cadde a sedere a terra stremato.

Scese le scale insieme alla bambina.

Arrivarono nel cortile. C’erano persone tutto intorno.

«Qualcuno porti questa bimba alla casa sua», disse Giovanni.

Poi crollò carponi. E poi finì con la faccia a terra.

Mentre era in quella posizione, Giovanni pensò.


C’era stato un tempo in cui era un giovanotto svelto di mano. Sempre
pronto a fare a pugni. Abile con le chiacchiere.

C’era stato un tempo in cui sapeva come parlare a una ragazza, dove
rimediare soldi per pagare da bere a tutti, comprare regali e procurarsi vino
di annata buona.

Ora Giovanni Benforte era vecchio, ferito, seminudo, orrendo a guardarsi, il


lurido e puzzolente relitto di se stesso.

E per la prima volta in vita sua fu felice.

E quella fu la notte in cui Giovanni Benforte morì.

Eroi
Furono indetti festeggiamenti per la morte dell’Orco.

Fu mandata una lettera a Roma, in cui si spiegava come un mostro


sconosciuto, mai visto prima, folle e furioso, fosse riuscito a introdursi in
casa del Governatore e di come l’eroico Signor Vicario l’aveva affrontato,
perdendo infine la vita.

Il Governatore fece leggere un proclama, in cui dichiarava Gi

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