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Ettore Perrella

IL TEMPO ETICO
Ogni visione sarà [...] per voi come le parole d’un libro sigillato, che si dà ad uno che sappia leggere, cui si
dica: «Leggi qua». Questi risponderà: «Non posso, perché è sigillato». Se poi si darà il libro a chi non sa leggere,
dicendo: «Leggi qua», questi risponderà: «Non so leggere».

Is 29, 10-12
INTRODUZIONE
1. Capita spesso che un autore, pubblicando la seconda edizione d’un proprio volume, lo
modifichi, lo migliori o lo aggiorni in qualche passo. Non è questo però il caso della seconda
edizione del Tempo etico. Anche a prescindere dall’aggiunta della Seconda parte, ch’è stata
interamente scritta solo di recente, le modifiche che abbiamo dovuto compiere nella Prima
sono in realtà molto spesso una vera e propria riscrittura. Non potevamo, per i motivi che
spiegheremo fra poco, limitarci a migliorare o correggere questo o quel punto, ma rispettando
i limiti che ci si erano imposti nella prima versione, a causa d’una prudenza che allora c’era
parsa necessaria. Scrivere di psicanalisi comporta alcuni rischi. Molti ce n’eravamo già
assunti nella prima edizione, per esempio quello di considerare il pensiero di Freud a partire
dai presupposti, impliciti nella sua opera, d’una logica kantiana, e quello di sviluppare la
teoria della psicanalisi da un punto di vista trascendentale. Questa scelta non rientrava affatto
fra quelle «classiche» nella psicanalisi, né dal punto di vista freudiano, né da quello lacaniano,
anche per alcuni precedenti tentativi assai discutibili di riverniciatura fenomenologica della
psicanalisi stessa (ci riferiamo naturalmente a Binswanger). Il pericolo era perciò allora che,
alla lettura, non risultasse chiaro quanto, nel nostro volume, fosse determinato da
un’articolazione effettivamente psicanalitica del problema del tempo, e quanto, invece,
provenisse da una sorta di mascheramento filosofico di questa problematica. È vero che Il
tempo etico non è mai stato concepito come un libro «per psicanalisti», perché il pubblico al
quale è rivolto è sempre stato molto più vasto; ma è vero pure ch’esso è ancora meno un libro
«di divulgazione». Di solito, quando si scrive di psicanalisi, lo si fa in uno di questi due modi:
rivolgendosi all’interno o all’esterno d’un campo di sapere già costituito. Ed era proprio
questa la prospettiva che, sin dal primo momento, avevamo rifiutato. Per noi la psicanalisi era
tutt’altro che un sapere già dato; essa era invece un sapere che richiedeva, per non essere
falsificato a causa del contrasto fra la verità rilevata nell’esperienza e le forme teoriche
determinate dalla tradizione, una continua ricostituzione non solo delle sue formulazioni
teoriche, ma anche dei limiti del suo campo. Ora, considerare la psicanalisi in questo modo
significava riesaminare il sapere psicanalitico a partire da un punto esterno ad esso, cioè
inserire il problema del carattere scientifico della psicanalisi all’interno della vexata quaestio
della fondazione delle scienze.

2. Dove poteva situarsi questo punto d’enunciazione «esterno» alla psicanalisi, dal
momento che l’oggetto del libro era per noi il tempo, cioè uno dei temi più essenziali della
teoria psicanalitica? Certo non nella filosofia, tanto più che, attualmente, essa non è molto di
più che un esercizio critico od ermeneutico sulla storia della filosofia. Questa chiusura
implicita dell’interrogazione filosofica sembra procedere spesso dall’incapacità tutta moderna
di considerare il pensiero come un atto di pensiero, vale a dire come quell’atto senza il quale
ogni altro sarebbe una mera funzione meccanica, quindi una finzione (una sembianza) d’atto,
e niente di pertinente a un’assunzione etica del fare. Si trattava per noi, prima di tutto, sette
anni fa, di lasciar essere il nostro tentativo di fondazione della psicanalisi (tentativo che
proprio per questo potevamo definire solo come trascendentale) nell’ambito d’alcuni campi di
sapere – la psicanalisi e la filosofia – nei quali tutto sembrava portare a un misconoscimento
dei dati reali che determinavano il nostro tentativo.

3. Tutti questi motivi, dicevamo, ci avevano indotti a dar prova di prudenza, insinuando,
invece che dichiarando, e lasciando intendere, invece che manifestando quale fosse la nostra
prospettiva: considerare la psicanalisi non come un campo precostituito, ma come il modo in
cui, nella modernità, era tornato a porsi un problema di pensiero molto antico, ed anzi
inaugurale nella storia della filosofia: quello della costituzione etica dell’atto. Proprio per
questo scrivemmo Il tempo etico in modo tale che potesse ancora essere letto come un libro
«lacaniano», benché redatto in termini che non evocavano immediatamente il lacanismo. Il
nostro riferimento a Lacan era dunque una mera sembianza? Nient’affatto. La nostra prudenza
era determinata soprattutto dalla situazione italiana, in quegli anni, della «psicanalisi
lacaniana» (non riusciamo a scrivere queste parole se non fra virgolette). Ad essa, infatti, per
scelta e formazione, l’autore del volume apparteneva come analista, pur sentendosene
separato da molte cose, soprattutto da alcune tendenze di questo movimento, il quale,
nonostante le apparenze, aveva compiuto (e forse compie ancora) una sconcertante – e per
niente «lacaniana», se ci riferiamo a Lacan – semplificazione dei dati e dei problemi
dell’esperienza analitica. È vero infatti che Lacan ha contribuito alla teoria della psicanalisi –
ancora una volta nonostante le apparenze – compiendo una sua decisa semplificazione,
consentita dall’assunzione teorica del primato del significante; ma è vero pure che questa
semplificazione, la cui importanza clinica è stata imprescindibile, finiva per creare, per lo
stesso Lacan, una lunga serie di contraddizioni, che egli ha sempre riconosciuto ed articolato.
Le ha anche risolte in modo radicale? Rispondere a questa domanda importa meno che
sottolineare ch’essa dovrebbe orientare una seria lettura dei suoi testi, i quali invece
solitamente vengono utilizzati più per trovare delle soluzioni che per porsi degl’interrogativi.
Lo scopo che ci prefiggevamo allora era perciò d’illustrare alcuni punti essenziali
dell’insegnamento di Lacan a partire da un punto d’enunciazione non lacaniano: non
lacaniano, se per lacanismo s’intende quella palude del tutto-è-possibile alla quale
l’insegnamento di Lacan ha consentito d’avere, dieci o vent’anni fa, una sembianza
psicanalitica; ma non lacaniano neppure se per lacanismo s’intende l’assunzione coerente,
nella lettura dei testi di Lacan, dei loro principi teorici. E questo per il fatto che, nonostante la
grande affidabilità di quest’ultimo modo di leggere Lacan, esso non ci pareva garantire alcuna
soluzione dei problemi ch’egli aveva lasciato in sospeso. Infatti interpretare un sistema a
partire dalla sua grammatica consente di comprendere perfettamente tutto ciò che ne fa parte,
ma non consente di comprendere affatto ciò che quel sistema, per poter essere tale, ha dovuto
necessariamente escludere da sé. Per esempio, nel caso delle lingue, è evidente ch’esse
s’impoveriscono tutte le volte che non sono sollecitate ad evolversi dal fatto che in esse
vengono tradotti testi scritti in altre lingue, o da quella traduzione ch’è implicita nella parola
di ciascuno, tutte le volte ch’essa deve esprimere dei contenuti di pensiero che non sono
scontati nel sistema grammaticale e sintattico della lingua utilizzata. Per noi, scrivendo la
prima versione di questo volume, si trattava in effetti anche d’un problema di traduzione, cioè
di rendere comprensibile l’insegnamento di Lacan nella lingua italiana, cioè nei termini della
cultura italiana, che sono così diversi da quelli della cultura francese. Ma questa traduzione
comportava inevitabilmente, secondo il vecchio motto, un tradimento, cioè un nostro
necessario porci fuori dal campo lacaniano.

4. Nella prima stesura di questo volume dovevamo quindi sostenere la generale validità
dell’insegnamento di Lacan, ma nello stesso tempo inserire la psicanalisi all’interno d’una
cultura come quella italiana, che in definitiva non se n’era mai appropriata, e per di più
dovevamo farlo tenendo conto della problematica epistemologica e filosofica della fondazione
delle scienze. Ciò comportava, nella stesura, una difficoltà anche stilistica (abbiamo cercato
ora di smussare alcune asperità sintattiche del testo, snellendo ovunque il giro delle frasi), la
quale difficoltà si traduceva immediatamente anche in una difficoltà di lettura. Il volume,
nella forma che aveva nella sua prima edizione, richiedeva infatti, per essere inteso nelle sue
vere coordinate, una lettura duplice. Per un verso esso poteva essere considerato
un’esposizione «prudente» dell’insegnamento di Lacan; per un altro, invece, esso doveva
essere letto in controluce, a partire dalle sue conclusioni: lacaniane, senza dubbio, ma senza
dubbio anche solo parzialmente lacaniane. Il «tradimento» del quale parlavamo poco fa
consisteva infatti in questo: la nostra esposizione dell’insegnamento di Lacan non era affatto
priva di tendenziosità, e questo non solo perché, dopo tutto, Il tempo etico non è mai stato un
libro «su Lacan», ma un libro «su Freud» letto attraverso Lacan, ma soprattutto perché, in
quest’uso strumentale – anche se, crediamo, strumentale nel modo migliore –
dell’insegnamento dell’analista francese, avevamo lasciato da parte alcuni aspetti ed alcune
tematiche, privilegiandone altri che a noi, dal nostro punto di vista, parevano essenziali. Ad
esempio avevamo sottolineato la problematica etica, lasciando in disparte la funzione dei
mathèmes e della topologia; oppure avevamo sviluppato il tema del primato del significante,
ma lo avevamo ricondotto, in termini ben poco lacaniani, ad un primato della significazione
che avevamo articolato in termini kantiani, quindi in relazione ad una struttura di ragione che
indubbiamente è quella di Freud, molto più che quella di Lacan; e non avevamo affatto
dichiarato, per l’ottimo motivo che allora non avevamo alcun motivo per farlo, che la nostra
impostazione avrebbe potuto entrare prima o poi in contrasto, almeno in alcuni punti, con
quella di Lacan.

5. Negli anni immediatamente successivi all’uscita del Tempo etico molte cose sono
cambiate nella situazione della psicanalisi in Italia. L’ultimo di questi cambiamenti – il più
preoccupante – è l’approvazione d’una legge sull’esercizio delle psicoterapie la quale, se
applicata, si tradurrebbe immediatamente in un ostacolo assoluto per l’esercizio della
psicanalisi. Nello stesso tempo, il lacanismo veniva perdendo in Italia quella coloritura
«trasgressiva» che aveva avuto negli anni precedenti, e si affermavano tendenze più
direttamente ed autorevolmente collegate con la Scuola fondata dallo stesso Lacan. Entrambi
questi mutamenti richiedevano da parte nostra una maggiore determinazione nel dire quello
che pensavamo: prima di tutto per tentare di sottrarre con la maggior chiarezza possibile la
psicanalisi all’ambito dei saperi «psico-», cioè – per dire le cose come le vediamo – ad una
delle più disgustose fognature della modernità, all’apertura della quale senza dubbio la
psicanalisi ha dato un contributo essenziale (come non riconoscerlo?), ma nei limiti della
quale essa non può rimanere senza perdere ogni contatto con le sue vere matrici culturali ed
etiche; in secondo luogo, come abbiamo già accennato prima, per non avvalorare il
pregiudizio lacaniano, che in definitiva resta un pregiudizio transferale, secondo il quale
l’insegnamento di Lacan conterrebbe la soluzione di qualunque problema che si ponga nella
pratica analitica. Ora, non si può continuare a credere che il lacanismo abbia potuto produrre
frutti spesso eccellenti, ma spesso anche scadentissimi, senza che i motivi di questa
contraddizione stessero anche nelle contraddizioni interne all’insegnamento di Lacan.
Scrivemmo così La formazione degli analisti e il compito della psicanalisi, nel quale
mettemmo per la prima volta in rilievo questa contraddizione, prendendo anche le distanze su
almeno un punto da Freud – il mito della paternità come viene esposto in Totem e tabù – e su
almeno un punto da Lacan – la teoria dei mathèmes –, non senza aver precisato d’altra parte il
concetto di senso, che Lacan oppone sempre a quello di significazione, attraverso lo sviluppo
d’alcune osservazioni di Lacan, ma non di altre, che invece trovavamo contraddittorie con le
prime. La nostra precisazione del concetto di senso nella Formazione ci ha costretti perciò,
nella revisione del Tempo etico, a modificare radicalmente tutti i punti in cui questa parola
ricorreva nella prima edizione, nella quale ci eravamo attenuti molto fedelmente alla
concezione lacaniana del senso, ed eravamo caduti perciò a nostra volta nelle stesse
contraddizioni che successivamente avevamo individuato, su questo tema, nei suoi testi. Di
conseguenza abbiamo dovuto completamente riscrivere più d’un capitolo, oltre a mutare tutti i
passi nei quali ricorreva la parola «senso» nella prima edizione. La prima parte di questa
seconda edizione del Tempo etico è quindi ovunque una riscrittura della prima, riscrittura che
però, sul problema del senso, s’esprime in termini del tutto differenti dalla prima versione.
Tuttavia, nonostante queste modifiche a volte davvero radicali, abbiamo cercato sempre di
rispettare quanto più potevamo la struttura del testo precedente, come crediamo d’essere
riusciti a fare tutte le volte che i suoi contenuti non ci sembrassero in contraddizione con i dati
e i risultati emersi successivamente, nella Formazione e nel Mito di Crono, i due volumi che
costituiscono per un verso la conseguenza delle premesse poste nella prima edizione del
Tempo etico, per un altro il presupposto di quella parte del Tempo etico che ora viene
pubblicata per la prima volta. Abbiamo voluto comunque rispettare, nella nuova formulazione
della prima edizione di questo volume – la Prima parte di questa seconda edizione –
l’impostazione generale che avevamo dato allora al nostro lavoro, senza modificare in nulla le
sue linee generali. Il lettore potrà notare perciò che c’è una notevole differenza
d’impostazione (anche se attualmente, crediamo, non di stile) fra la Prima e la Seconda parte.
Nonostante questo inconveniente, abbiamo preferito rispettare il nostro lavoro precedente, sia
perché in esso c’erano tutti i presupposti dei due successivi volumi, sia – e soprattutto –
perché ci pareva e ci pare ancora necessario, quando ci si occupa di psicanalisi, partire dalla
sua tradizione, anche quando si modificano alcuni suoi presupposti essenziali. Riconosciamo
facilmente che oggi potremmo affrontare in modo completamente diverso – e a nostro avviso
più rigoroso – tutti i temi toccati nella Prima parte, ma far questo non ci pare particolarmente
urgente, e comunque richiede come condizione preliminare, per i motivi ora elencati, la
ripubblicazione riveduta della prima stesura.

6. Il terzo volume di quella che ormai si veniva configurando come una vera e propria
trilogia, Il mito di Crono, ritorna sulla problematica clinica, che nel Tempo etico aveva avuto
solo una trattazione estremamente schematica e sommaria. In questo volume sulla clinica
abbiamo sviluppato, dal punto di vista strettamente psicanalitico, i principi fissati da noi già in
precedenza, principi che possono riassumersi nel predominio dell’etica sulla psicopatologia,
vale a dire nel fatto che una psicopatologia trascendentale può essere fondata coerentemente
solo a partire da una concezione non patologica e non fantasmatica dell’azione (quella che,
nella Formazione, avevamo precisato sotto il titolo dell’agone), se non si vuole che la clinica
stessa resti un’ideologia camuffata da sapere scientifico. Crediamo d’aver dimostrato qui che
la stessa clinica psicanalitica classica, per le modalità nelle quali s’è storicamente precisata,
spesso a partire dalla clinica psichiatrica, non è in grado, in mancanza d’una fondazione
trascendentale, di dimostrare né che cosa è patologico, né quale possa essere un’uscita
articolata eticamente dalla patologia.
Comunque sia valutato questo nostro tentativo (nel momento in cui redigiamo la seconda
edizione di questo volume, Il mito di Crono non è ancora in libreria), una cosa è evidente: è
venuto del tutto a cadere, per noi, ogni motivo di conservare quella prudenza che ci aveva
guidati nella prima stesura del Tempo etico. Il mito di Crono potrà interessare o essere
completamente rifiutato: comunque sia, ciò che verrà accettato o rifiutato è il risultato del
nostro modo di considerare la psicanalisi, determinato, certamente, dalla tradizione della
psicanalisi, ma anche e soprattutto da una nostra assunzione di questa tradizione, e quindi
anche da una scelta che noi vi abbiamo operato, sottolineando alcuni principi ed alcuni
concetti, ma mettendone altri in discussione (soprattutto mettendo in discussione il
riferimento freudiano al campo delle scienze fisiche e quello lacaniano al campo delle scienze
congetturali).
Decidendo in questo modo della nostra posizione all’interno di questa tradizione, noi ci
siamo anche privati di quegli alibi dei quali ci eravamo serviti in un primo tempo, dal
momento che abbiamo rinunciato del tutto alla menzogna, che allora avevamo finto di non
intendere come tale, secondo la quale «in psicanalisi» le cose starebbero in un modo oppure in
un altro. Questa menzogna ci era servita, sette anni fa, in termini prudenziali, per non esporci
troppo in quanto dicevamo (essa era quindi una sorta di tributo pagato alla convenzione
psicanalitica). Invece ora essa è divenuta del tutto inutile e fuorviante, dal momento che non
possiamo più tacere quanto sappiamo benissimo, vale a dire che le cose non stanno
assolutamente in nessun modo «in psicanalisi», se non perché coloro che se ne occupano,
come psicanalizzanti o come psicanalisti, fanno sì che stiano in un modo o nell’altro. Il
problema non è affatto di sapere se, nell’esperienza della psicanalisi, i dati si strutturino
immediatamente, cioè automaticamente, in questa o in quella maniera, ma è di sapere come
noi li vediamo e come noi ci sentiamo implicati in essi. Se infatti non fosse necessario
impostare il problema della stessa definizione della psicanalisi in questi termini, nulla
d’essenziale distinguerebbe la psicanalisi stessa da qualunque forma di psicoterapia, ed essa
sarebbe perfettamente situata nel campo dei saperi «psico-». L’impostazione del terzo volume
della nostra trilogia, Il mito di Crono, dunque, non era più né freudiana né lacaniana.
Qualcuno forse potrebbe trarne la conseguenza che essa, di conseguenza, non è più neppure
psicanalitica (e questa supposizione potrebbe forse non essere nemmeno del tutto illogica):
per dire se qualcosa ha a che fare o no con la psicanalisi, bisogna vedere prima di tutto che
cosa s’intende che sia la psicanalisi, e non è affatto detto che il nostro modo di considerare
l’esperienza inaugurata da Freud sia quello più diffuso fra gli psicanalisti. Ma questo non ci
pare un motivo sufficiente per pensare che il torto sia nostro e la ragione degli altri.

7. A questo punto merita qualche parola di commento l’impostazione stranamente kantiana


che hanno assunto i nostri tre volumi. Certo, nel Tempo etico eravamo partiti da
un’esplorazione dell’Analitica trascendentale come primo passo essenziale per comprendere
la logica che sta alla base dei concetti di fondo della psicanalisi. Ma allora non avevamo
affatto previsto che il Tempo etico sarebbe stato alla Critica della ragione pura come la
Formazione sta alla Critica della ragione pratica e Il mito di Crono alla Critica del giudizio.
Beninteso, non stiamo affatto paragonando i nostri tre volumi con quelli di Kant; stiamo solo
dicendo che l’oggetto di ciascuno dei nostri è, nell’ordine, esattamente lo stesso di ciascuna
delle tre critiche, anche se, per Kant, la Critica della ragione pratica procede da principi del
tutto distinti da quelli gnoseologici che stanno alla base della prima Critica, e la terza
interviene poi come necessaria articolazione delle prime due. Invece il nostro percorso, pur
avendo compiuto cronologicamente le stesse tappe di quello di Kant – prima il problema della
conoscenza, poi l’etica, infine il giudizio – era logicamente del tutto capovolto rispetto a
quello kantiano, perché solo nel terzo volume della nostra trilogia noi abbiamo chiarito quali
sono, secondo noi, i fondamenti reali della psicanalisi, e questo all’interno d’un problema
della fondazione del sapere scientifico che si poneva per noi, a differenza di quanto non
accadesse per Kant, a partire da un orizzonte etico. Anche per questo motivo siamo stati
costretti non solo a rivedere la prima edizione del Tempo etico, ma anche ad integrarla con la
Seconda parte, che ancora una volta sta alla Prima nello stesso rapporto in cui la Dialettica
trascendentale kantiana sta all’Analitica.

8. Se infatti nella prima edizione ci eravamo occupati solo dell’Analitica trascendentale,


escludendo in questo modo dal nostro orizzonte il problema dei limiti della ragione, affrontato
da Kant nella Dialettica trascendentale, diveniva essenziale per noi, dopo l’uscita della
Formazione e del Mito di Crono, considerare anche questo problema. Nella Seconda parte del
Tempo etico abbiamo affrontato due argomenti che, in apparenza, non hanno alcuna relazione
immediata con la psicanalisi, e che invece riguardano i presupposti della fondazione d’una
«scienza nuova», cioè d’una scienza fondata soggettivamente: nel primo libro abbiamo
trattato il problema del cogito (al quale del resto lo stesso Lacan s’era riferito più volte,
quando s’era interrogato sullo statuto epistemologico della psicanalisi), tentando di precisare
qual è il significato che noi diamo all’aggettivo «trascendentale»; nel secondo libro, invece, ci
siamo posti il problema della relazione fra trascendentale e trascendente, in termini
sicuramente molto diversi da quelli in cui esso era stato posto da Kant, dal momento che la
trascendenza è per noi, semplicemente, l’apertura al fondamento metafisico d’un’etica,
apertura essenziale in questo fondamento proprio perché è essenziale in ogni impostazione
trascendentale del pensiero. In questo modo Il tempo etico, ch’era il primo volume della
nostra trilogia, è diventato, pur continuando ad essere il primo dei tre nell’ordine nel quale si
succedono, anche l’ultimo, vale a dire quello nel quale abbiamo potuto trarre le somme della
nostra esplorazione del rapporto fra soggettività e scientificità, com’è possibile compierla da
quel punto d’osservazione privilegiato ch’è l’esperienza analitica.
9. Dobbiamo ricordare comunque che il senso della nostra operazione complessiva non
riguarda affatto la sola pratica analitica. La psicanalisi, pur essendo per noi un punto di
partenza, non è comunque l’unico obiettivo. Essa, senza dubbio, è una scienza che aspetta
d’essere fondata come tale, in quanto ad essa non può essere attribuito lo statuto generalmente
(epistemologicamente) riconosciuto alle scienze. Questo fatto, pur avendoci facilitato il
compito di pensare il problema della fondazione delle scienze in termini diversi da quelli
epistemologici generalmente accettati, non sarebbe stato sufficiente ad uno sviluppo del
pensiero d’una fondazione soggettiva generale delle scienze – di quella che abbiamo chiamato
vichianamente scienza nuova – se altri presupposti, non più esclusivamente psicanalitici, ma
anche filosofici, non ci avessero sostenuti nel nostro intento.

10. D’altra parte la pratica analitica è un punto d’esperienza privilegiato anche per far
emergere come la posta in gioco non solo nella psicanalisi e nelle scienze (cioè nelle scienze
«umane», o congetturali, ed in quelle «esatte»), ma anche nelle più diverse pratiche, non sia
affatto concepibile, se non in relazione ad un intento e ad una volontà soggettiva (cioè alla
volontà di soggetti assunti concretamente e singolarmente come tali; il cogito in realtà opera
una fondazione del sapere solo generalmente soggettiva, in quanto il suo soggetto non è
determinato da altro che dal fatto di pensare, del tutto a prescindere, come vedremo, dal
contenuto del pensiero). Ciò significa che, se per un verso noi potevamo solo subordinare la
nostra soluzione del problema della fondazione delle scienze (e della psicanalisi) ad un
criterio metafisico, per un altro dovevamo anche subordinare il criterio metafisico ad
un’assunzione concretamente formativa della soggettività.
Quest’ordine di riflessioni, evidentemente, non coincide né con quello psicanalitico
classico, né con quello filosofico, almeno nel significato che ha acquisito il termine
«filosofia» dopo Cartesio. La scienza nuova, se di per sé è un campo problematico
infinitamente più vasto di quello della psicanalisi, è anche un campo d’interrogazione
filosofica, ma filosofica solo se intendiamo la filosofia in funzione della concreta formazione
soggettiva, com’essa era intesa forse sempre prima del cristianesimo. Per esempio, in Platone
la filosofia aveva immediatamente il compito di formare dei soggetti concreti – i cittadini; è
questo il campo problematico originario della Politeía –: e qui si vede come il nostro progetto
di fondazione soggettiva delle scienze verta su un’apertura del pensiero la quale ha anche un
risvolto immediatamente politico (in senso etimologico).

11. Il fatto d’aver esplorato l’assunzione soggettiva del cogito nella fondazione d’una
ragione trascendentale ci ha posto anche, in modo inaspettato, il problema della religione: da
intendere non come assunzione dogmatica di credenze, lo statuto soggettivo delle quali
sarebbe d’altra parte estremamente discutibile, dal punto di vista della psicanalisi, e anche da
quello della filosofia e della teologia, ma come concreto esser-legato del soggetto a un
assoluto che gli si manifesta come tale nella sua stessa Parola (intesa come manifestazione del
principio logico della parola, cioè come lógos, invece che come semplice significazione). Da
questo punto di vista, ancora una volta, la nostra interrogazione è assai poco «psicanalitica»
(se assumiamo il termine «psicanalisi» nel suo significato classico, freudiano e lacaniano), ed
anche assai poco «filosofica» (se assumiamo il termine «filosofia» in senso storicistico). Se
quindi, nel nostro percorso, noi abbiamo toccato molti campi di sapere attualmente costituiti
come differenti ed autonomi, è pur vero che noi li abbiamo attraversati secondo una
prospettiva che non è quella generalmente riconosciuta oggi a nessuno di questi campi: né a
quello psicanalitico né a quello filosofico, né a quello religioso né a quello educativo.

12. Presentando questa seconda edizione del Tempo etico, noi dobbiamo anche presentare
l’intera nostra trilogia, per la quale forse potremmo osare di suggerire questo titolo, Critica
della ragione scientifica, nonostante il coraggio – al limite della sfrontatezza – ch’è
necessario oggi per dare ad uno scritto, sia pure in tre volumi, un’intestazione così ambiziosa
(soprattutto se si tiene conto del fatto che la nostra Critica era nata, in un primo momento, con
ambizioni esplicite molto più modeste). Questo titolo, comunque, può essere mantenuto, a
patto che lo si assuma con un po’ d’ironia. Senza ironia, del resto, non saremmo riusciti a
scrivere neppure un solo paragrafo di questi tre volumi. Ce ne voleva veramente molta per
fingere di trattare un problema particolare della psicanalisi mentre stavamo, in realtà,
disegnando la pianta d’un sistema generale del sapere non meno ambizioso – almeno nelle
proporzioni... – della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Del resto l’ironia non ha mai
nuociuto alla filosofia, dal momento che anzi questa è sorta, con Socrate, proprio
dall’assunzione ironica del «so di non sapere». Il nostro sistema – per quanto aperto e, ci pare,
per nulla hegeliano – ci si è venuto disegnando quasi nostro malgrado, man mano che il
lavoro procedeva. Esso comunque non ha niente a che vedere con la descrizione d’una visione
del mondo. Nella migliore delle ipotesi esso consiste invece nel giornale d’un viaggio verso
l’apertura, il quale, sotto i titoli del tempo (della ragione «pura»), della formazione (della
ragione «pratica») e della clinica (del giudizio), non è che la descrizione d’un’avventura di
pensiero, speriamo non tanto inaspettata da risultare, a cose fatte, intempestiva, ma certamente
non calcolata preliminarmente «a tavolino». I nostri tre volumi sono nati in modo discontinuo,
facendo sé che noi stessi ci rendessimo conto del loro senso ultimo soltanto retroattivamente,
vale a dire soltanto secondo quello schema temporale di rideterminazione del passato che
avevamo proposto già nella prima edizione di questo Tempo etico.

13. Il carattere – per niente ricercato, e (almeno lo speriamo) per niente joyciano – di work
in progress della nostra Critica dovrebbe garantire almeno l’autenticità della necessità di
pensiero che ci ha costretti al sistema. In realtà questi tre volumi sono nati lentamente,
attraverso un lavoro preliminare sempre molto più attento al particulare d’una concreta
problematica formativa che alle concezioni generali. Il nostro lungo testo triadico, come ora si
presenta, reca tracce evidenti del progressivo precisarsi delle sue ipotesi fondamentali in
primo luogo in un seminario di psicanalisi da noi tenuto a Padova, in secondo luogo in alcuni
articoli preliminari usciti solitamente in riviste di psicanalisi, anche se spesso concepiti già in
vista d’un eventuale sviluppo successivo, e in terzo luogo nella prima stesura del Tempo etico.
Soltanto nella Formazione il nostro percorso ha iniziato a distanziarsi dalle premesse
immediatamente orientate dalla nostra pratica d’insegnamento della psicanalisi, inducendoci
solo nel Mito di Crono e nella seconda parte del Tempo etico ad anticipare per iscritto i temi
dei nostri seminari o interventi in articoli o convegni. Del resto, noi abbiamo potuto rendere il
nostro lavoro almeno in parte autonomo dalle singole occasioni d’esposizione orale solo
perché, nel frattempo, l’uscita dei primi due volumi «faceva peso» nell’ascolto che ci veniva
destinato (e questo, a dire il vero, del tutto a prescindere dal fatto che il peso fosse pro o
contra quello che dicevamo). A un certo punto abbiamo dovuto percorrere la nostra strada
anche a prescindere dall’ascolto che potevamo ottenere da molti nostri confrères, perché
restare nei limiti del loro concetto di psicanalisi avrebbe finito per impedirci di pensare. Che
si prenda pure quel che ora stiamo dicendo come una confessione (anche se, nonostante le
apparenze, non si tratta di superbia o sciocca presunzione). Non neghiamo affatto che i nostri
confrères ci sono stati utilissimi, in un primo momento, proprio per i limiti che il loro ascolto
ha imposto alla nostra riflessione; e non neghiamo neppure che, quando questi limiti hanno
smesso, per noi, d’essere produttivi, non abbiamo esitato nemmeno per un attimo a superarli,
andando per la nostra strada; insomma non neghiamo che, nel nostro percorso, c’è stata una
tattica, oltre che una strategia. Neghiamo invece con estremo vigore d’essere stati noi gli
autori del «programma politico» sottostante alla «battaglia». Questo programma ci si è
letteralmente imposto come necessario. Ci si potrebbe chiedere: come necessario a che cosa?
Semplicemente, ad esistere come «noi» in un universo di discorso, che certo non è prima di
tutto quello psicanalitico (ma ch’è stato per noi anche, e nonostante tutto, quello
psicanalitico), il quale non era, e non è, strutturato in modo tale da favorire l’esistenza, al suo
interno, d’alcun «noi».

14. Sentiamo comunque doveroso ringraziare coloro che, ascoltandoci con interesse – o
magari, talvolta, con malcelato disinteresse –, in dodici anni – tanti ce ne sono voluti per
scrivere questi tre volumi, anche se materialmente essi sono stati scritti in un tempo molto più
breve –, ci hanno dato non solo l’occasione, ma anche la possibilità d’articolare il nostro
pensiero in modo tale ch’esso potesse essere inteso (o frainteso, ma è lo stesso). Com’è noto,
chi impara di più, nell’insegnamento, è l’insegnante. (Cogliamo l’occasione per ringraziare
Franco Borghero, il cui lavoro sul teorema di Lorentz ci è stato utile nella Seconda parte).
Beninteso, riconoscendo l’importanza che ha avuto per noi l’ascolto d’altri, non neghiamo
affatto d’essere stati soli, in questo tempo ed in questo percorso, anzi d’aver voluto essere soli.
Ammettiamo però che il senso della nostra solitudine s’è radicalmente rideterminato per il
fatto ch’essa si poteva disegnare sullo sfondo d’una collaborazione – qualche volta fruttuosa,
qualche altra stentata, ma in ogni caso essenziale –, la quale ci ha consentito di fare della
nostra solitudine un problema: certo, com’era sempre stata essenzialmente (come, anche nella
mera patologia, è la solitudine di chiunque), ma con in più la consapevolezza della necessità
di tradurre questo «essenzialmente» nella sovraessenzialità d’un lavoro concreto ed esposto
alle mille piccole prove del reale. Non bisogna disprezzare nulla, soprattutto non bisogna
disprezzare le nostre piccole miserie, e nemmeno, a ben vedere, le nostre piccole viltà. Le une
e le altre, infatti, sono necessarie a pensare, perché non si può pensare soltanto in relazione
all’assoluto, anche se, per pensare, abbiamo il dovere di lasciare aperta proprio la strada del
confronto con l’assoluto, confronto ch’è di gran lunga più essenziale d’ogni altro con coloro
le cui miserie e le cui viltà sono anche le nostre, dal momento che anche noi, per pensare,
parliamo.

15. Dopo i ringraziamenti, sono necessarie delle scuse. La nostra trilogia, triadicamente
strutturata senza che lo sapessimo prima ancora che fosse conclusa, nonostante le sue
involontarie aspirazioni sistematiche, non è affatto uno scritto sistematico. Infatti il senso del
nostro percorso ci si è rivelato solo man mano che procedevamo. Per questo motivo alcuni
temi che avrebbero dovuto o potuto essere affrontati ad una certa svolta della nostra
esposizione si trovano trattati in altri luoghi. L’intera clinica avrebbe potuto essere trattata alla
fine della prima parte del Tempo etico, ma si trova invece sviluppata a parte nel Mito di
Crono, come una vera e propria critica del giudizio, come del resto è più giusto che sia. La
differenza fra il senso e la significazione avrebbe dovuto essere trattata – com’era stata trattata
nella prima versione, ma in termini del tutto inadeguati – nella Prima parte del Tempo etico,
ma è stata invece precisata nella Formazione. Abbiamo cercato di sopperire a questi e ad altri
simili inconvenienti introducendo nel testo alcuni rinvii interni fra un volume e l’altro. Queste
«imperfezioni sistematiche» dipendono da un ben preciso motivo strutturale. Il nostro
percorso rimane moderno almeno in questo: non abbiamo potuto evitare di partire da quel che
«c’era già» (la psicanalisi) per giungere a quel che «non c’era più», e che doveva tornare ad
essere di nuovo. Questi tre volumi, di conseguenza, sono stati scritti contro corrente, almeno
contro la corrente che oggi porta ogni contenuto di pensiero ad essere al tempo stesso
minimizzato e generalizzato dai mezzi di comunicazione che, mentre lo trasmettono, lo
filtrano o lo svuotano. Alla lunga, un meccanismo come questo finisce per cancellare ogni
traccia del senso del sapere. Noi non abbiamo potuto lavorare, all’inizio, che con dei
frammenti, ricostituendo, come in un mosaico, la figura d’un sapere e soprattutto d’una
saggezza che un giorno avevano reso possibile – almeno ci pareva – la costruzione di quei
monumenti di pensiero che noi tutti continuiamo ad ammirare, anche se abbiamo dimenticato,
e continuiamo a dimenticare, perché siamo costretti ad ammirarli. In un certo senso, abbiamo
dovuto tentare di restaurare questa saggezza d’un tempo. Non sappiamo – e del resto non
c’importa molto saperlo – se questo restauro è riuscito o è storicamente attendibile. Forse
nessun restauro lo è, forse ogni restauro, anche quello più filologico, non può essere che una
falsificazione. Ma, quand’anche così fosse, questo non dimostrerebbe forse che quella
saggezza che possiamo attribuire ad una remota antichità è ancora possibile, anche nel nostro
tempo di detriti e di cancellazioni?

16. La prima versione di questa Introduzione, che non abbiamo ripubblicato, iniziava con
queste parole: «Chiunque, nel nostro tempo, s’inoltri ancora sui sentieri che portano, per i
lunghi raggiri delle diversioni moderne, ad accostarsi a ciò ch’è più vicino, incontra prima o
poi sulla sua strada l’invenzione freudiana, come nei tempi antichi avrebbe incontrato
filosofia e teologia. Dante si fece condurre per mano da entrambe sino alla visione di Dio; noi,
che non abbiamo dei, e non ci consoliamo per averli perduti, dobbiamo accontentarci di
meno». Oggi rileggiamo queste parole con simpatia, quasi con tenerezza, come accade
quando si riconsidera il «giovanile errore» da una maturità conquistata più tardi, e non senza
fatica. Quelle parole iniziali, che lasciavano ancora trasparire tutti i pregiudizi della
modernità, erano comunque orientate bene. Come? Nella nostalgia. Noi avevamo nostalgia
dei tempi in cui filosofia e teologia potevano condurre qualcuno a vedere, con i propri occhi
viventi, l’indescrivibile Triade divina. Come avremmo potuto credere, allora, che proprio la
psicanalisi – o meglio, precisiamo, quello che la psicanalisi era per noi – ci avrebbe portati,
in meno d’un decennio, ad assumere seriamente – cioè senza nostalgia – il problema di Dio?
Il fatto poi di non aver avuto nessuna visione neppure lontanamente paragonabile a quella
descritta da Dante non significa che non abbiamo mai assistito ad una teofania. Poche cose
sono più comuni, e pochissime sono più ambigue, almeno nella nostra cecità, delle teofanie.
Certo, tutto sta ad intendere che cos’è una teofania. Comunque lo si voglia assumere – e certo
lo si può assumere in più modi –, il fatto che ora noi, nei nostri tre volumi, poniamo il
problema di Dio in termini non atei merita qualche attenzione. Come interpretare questa
svolta che ci ha portati, dal parlare di Dio nel modo della nostalgia, come nella prima edizione
del Tempo etico, a parlarne del tutto seriamente nella seconda edizione, vale a dire a farne un
problema reale – e forse il più reale – del pensiero?
Il problema di Dio è, prima di tutto, quello dell’impensabile. Ma come assumere la
relazione decisiva fra il pensiero e l’impensabile? È questa la vera domanda filosofica, sempre
riproposta, e che sempre si riproporrà, ogni volta che il pensiero sarà davvero tale. A nulla
serve porre questa relazione come una relazione esteriore, cioè porre l’impensabile come il
limite costitutivo del pensiero. Se l’impensabile fosse soltanto questo, esso sarebbe già un
pensato. In questo modo il pensiero di Dio (dell’impensabile) coinciderebbe con il pensiero
delle significazioni limite: fallo e Nome del Padre. Persino nella teologia Dio è stato pensato
quasi sempre proprio in questo modo. Ma questo non è il pensiero di Dio – né
dell’impensabile –, perché è invece il modo d’essere essenziale dell’ateismo teologico.
L’impensabile non coincide con il limite del pensiero (e tanto meno con quello della
significazione), perché esso è invece il reale che consente al pensiero di pensarsi. Nella
seconda parte di questo volume, abbiamo cercato di mostrarlo a partire dal cogito, che non ci
è affatto apparso come il primo passo della dimostrazione ontologica dell’esistenza di Dio –
come credono Cartesio e gli storici della filosofia –, ma come il presupposto logico del
concreto atto di cogitare, e quindi della stessa soggettività. Se dunque abbiamo accettato di
chiamare Dio questo impensabile, nonostante la confusione che ciò può far insorgere con
l’ateismo teologico, è stato perché chiamarlo, semplicemente, l’Impensabile non avrebbe fatto
che aumentare la stessa confusione che volevamo eliminare, la quale deriva dalla sostituzione,
nel pensiero, dell’apertura del pensiero con il pensiero dell’apertura. Certo, il pensiero
dell’apertura contiene un riferimento all’apertura, ma la realtà dell’apertura è negata proprio
dal fatto ch’essa è soltanto pensata. Compito del pensiero è invece pensare l’apertura non in
quanto pensiero, ma proprio in quanto apertura (e proprio a questo proposito abbiamo potuto
riutilizzare la determinazione platonica dell’al di là dell’essenza, e correre il rischio di
scandalizzare i bempensanti tornando a chiamare Dio quest’impensabile).
Ma pensare l’apertura in quanto apertura, e non in quanto pensiero, è anche la sfida etica
fondamentale del pensiero: etica non in quanto – ancora – contenuto d’un’etica, ma etica
perché questa sfida ci chiama direttamente e inderogabilmente ad interrogarci sul senso della
nostra azione. È per questo che il nostro «sistema» di fondazione d’una scienza è in realtà, in
ultima istanza, il progetto d’un’ascesi (in senso etimologico: come allenamento soggettivo e
formativo all’apertura di pensiero nell’azione). Ciò comporta che la scienza nuova va intesa,
prima ancora che come un sistema dei saperi, come una concreta e soggettiva interrogazione
del sapere. Ne consegue che questa interrogazione del sapere implica l’assunzione soggettiva
non solo del pensiero, ma anche dell’azione, e non solo dell’azione, ma anche del suo senso,
vale a dire della sua relazione con un assoluto. Questa relazione, comunque la si voglia
intendere, non può essere definita che come religiosa, se chiamiamo religione il legame fra la
soggettività e l’assoluto, e fra l’essenziale ed il sovraessenziale. Non facciamo alcuna fatica
ad ammettere che non abbiamo la minima idea di come possa concretamente definirsi una tale
posizione religiosa del soggetto nel pensiero e nell’azione, dal momento che non crediamo
affatto sufficiente, oggi, definirla attraverso un’iscrizione simbolica dovuta ad una professione
di fede. Dopo tutto, neppure nelle religioni rivelate è data la minima garanzia sulla posizione
realmente religiosa di nessuno. Il campo del giudizio assoluto, anche nella religione, è del
tutto sottratto alla nostra esperienza, e rinviato ad un Giudizio che, per forza di cose, è
identificato con la chiusura dei Tempi. Ma questa chiusura dei Tempi e questo Giudizio
assoluto sono le condizioni reali sia del tempo, sia del giudizio, senza le quali nessun soggetto
sarebbe, perché togliere quest’apertura all’assoluto significherebbe anche togliere ogni
sostegno etico al pensiero. Un’etica non può fondarsi in un sistema che sia chiuso su se stesso
senza divenire semplice convenzione. Questo è il vero mysterium che dodici anni di lavoro (e
certamente non solo di lavoro, ma soprattutto di vita) ci hanno imposto di pensare. Si
ammetterà facilmente che il progetto d’una scienza che includa questo punto di fuga
sull’assoluto assomiglia ben poco alla scienza quale è stata concepita negli ultimi quattro
secoli della nostra storia. Da questo punto in poi, tutto è da costruire. In fondo, non abbiamo
fatto che un bilancio, dando l’indicazione d’una direzione, al tempo stesso nuova ed
antichissima, lungo la quale procedere. Come procederemo, e con chi procederemo – se, come
speriamo, procederemo con qualcuno – ci è del tutto ignoto. Ma non è questo che conta.
Conta solo d’avere la forza e la leggerezza necessarie per proseguire lungo il cammino più
enigmatico, proprio perché è il cammino di noi stessi.
PARTE PRIMA

LA RAGIONE FREUDIANA
Vanità delle vanità, dice l’Eccesiaste, vanità delle vanità. Tutto è vanità. Quale profitto ritrae l’uomo da tutta
la penosa fatica che dura sotto il sole? Una generazione va e una viene, ma la terra rimane sempre ferma.
Splende il sole e il sole tramonta, correndo verso la sua sede, da dove torna poi a risplendere di nuovo. Il vento
va verso mezzogiorno e poi gira verso settentrione e, girando e rigirando, sui suoi giri torna il vento. Tutti i fiumi
vanno verso il mare, ma il mare non ne è mai pieno; nel luogo dove i fiumi vanno, tornano sempre ad andare.
Tutte le cose stancano, l’uomo non riesce a discorrerne, l’occhio non si sazia di vederle e l’orecchio non è mai
pago d’ascoltarle. Quello che è stato è pure quello che sarà; ciò che s’è fatto si tornerà a fare ancora, perché non
c’è nulla di nuovo sotto il sole. Di qualche cosa si dice: «Vedi, questa è nuova», invece è una cosa ch’è già stata
nei tempi passati, che furono prima di noi.

Ecle 1, 2-10
Libro primo

L’INCONSCIO
1. Soggetto trascendentale e soggetto diviso

17. Se per filosofia intendiamo quella universitaria, che, secondo una citazione di Heine
particolarmente cara a Freud,

con berretti da notte e cenci ottura


alla mole del mondo ogni fessura,

non c’è dubbio che nulla è più lontano dalla filosofia della psicanalisi. La questione, del resto,
potrebbe sembrare del tutto oziosa. È discutibile se, dopo Nietzsche e Heidegger, esista
ancora qualcosa come una filosofia. Perché dunque gli analisti dovrebbero preoccuparsene?
Ma la filosofia non è sempre stata quella che oggi s’insegna nelle università. In linea di
principio, nella sua concezione inaugurale – platonica ed aristotelica –, essa è tutt’altro che
questo. È invece l’interrogazione intorno a quei principi primi della conoscenza il cui
problema si pone a qualunque soggetto sia preso dallo stupore (thayma) dell’essere di ciò che
è. Ora, questo livello minimo (eppure difficilissimo) d’interrogazione filosofica non è affatto
estraneo, se non agli intenti, almeno all’esperienza dell’analisi. Le domande di fondo che ogni
soggetto si pone in essa – e che si riassumono tutte nei grandi enigmi del sesso e della morte –
non sono altro che versioni possibili ed infinitamente variate della questione filosofica di
base. L’unica differenza tra il filosofo e l’analizzante sta nel fatto che, mentre il primo ritiene
solitamente che la passione della conoscenza sia del tutto disinteressata, «teoretica», il
secondo si rende conto invece del fatto che, per lui, nella propria passione, è in gioco
l’esistenza, e la sua stessa capacità di vivere. Tutta l’intensa attività fantasmatica che
caratterizza la vita del nevrotico non è altro che un arrovellarsi attorno a quest’enigma di
fondo: quale senso ha il mio essere? Si suppone solitamente che, a questa domanda, solo le
religioni possano – anzi debbano – dare una risposta. Esse in realtà lo fanno, ma in due modi
diversi, e del tutto contrastanti: aprendo il campo dell’eventualità d’una risposta, e quindi
lasciando aperto lo spazio della problematica etica ed ascetica, oppure richiudendolo con una
risposta anticipata, ma venendo meno, in questo caso, al loro compito essenziale ed alla loro
verità. Ogni volta che trovare la risposta serve a togliere senso alla domanda, la religione
diventa, infatti, una forma d’ateismo. Sul problema del senso, invece, la filosofia, più
modestamente, ma spesso mantenendo un riferimento del tutto esplicito alla religione,
formula delle ipotesi. Comunque, la filosofia occidentale ha quasi sempre negato che fra
significazione e senso vi sia una radicale differenza, e questo ha comportato che, all’interno
del campo filosofico, l’astrazione concettuale o formale ha finito per prevalere sulla
problematica concreta e quotidiana dell’esistere.
La psicanalisi, come la scienza, invece, finora è sempre stata agnostica. Alla domanda sul
senso essa si rifiuta – e non senza validi motivi – di dare una risposta. Infatti non potrebbe
darla senza venire meno al proprio compito, uscendo dai limiti che la definiscono, e
diventando altro da quel che è. Tuttavia, nel campo della psicanalisi, le cose non sono affatto
così semplici. La scienza, per esempio, può facilmente escludere dalla propria competenza un
problema come questo, dal momento ch’essa è definita da una fuorclusione della soggettività
sulla quale sono fondati tutti i suoi successi. Ma la psicanalisi non ha il diritto di considerarsi
omologa alla scienza, perché non può non occuparsi di ciò di cui si occupa chiunque la
pratichi, e non può ignorare il fatto che il soggetto che si rivolge ad essa lo fa proprio per
cercare una risposta alla domanda essenziale del suo esistere, domanda ch’egli non ha potuto
formulare in altri campi (né in quello filosofico, né in quello religioso). La psicanalisi è
sempre, per così dire, l’ultimo tentativo che compie chi non si rassegna a dimenticare che in
questa domanda è in gioco, per lui, qualcosa d’essenziale.

18. È evidente, allora, che la soluzione agnostica è del tutto inadeguata al compito della
psicanalisi. Essa non può «fare come se» non sussistesse il problema, dal momento che, se
così facesse, non escluderebbe dalla propria interrogazione, come la scienza, qualcosa che
sarebbe del tutto inessenziale, ma proprio il cuore della propria esperienza. La scienza, infatti,
è sempre scienza dell’oggettivo. La psicanalisi si vorrebbe invece – per lo meno, è la
scommessa di Freud – scienza del soggettivo. Ma una simile scienza è possibile? Certamente
no, se si lasciano inalterati i presupposti epistemologici della scienza classica. La psicanalisi
non può accontentarsi di fare del soggetto il proprio oggetto: quest’«oggetto» sarebbe allora
un oggetto fittizio, un falso oggetto. Il suo oggetto invece è il soggetto, proprio in quanto
soggetto. Ci troviamo dinanzi, qui, ad un antico problema filosofico, sul quale ritorneremo
nella Seconda parte del volume. Ma fare oggetto di scienza il soggetto in quanto soggetto
implica che s’includa fra i dati del problema anche il soggetto della scienza. Ne consegue che
la psicanalisi esula necessariamente dai limiti di questa: per la psicanalisi il soggetto della
proposizione teorica non è indifferente come lo è per la scienza. Ciò significa che non c’è
falsificazione possibile (nel senso della scienza) d’una proposizione analitica, anzi che
qualunque proposizione analitica è falsa (dal punto di vista scientifico) se si prescinde dal suo
valore soggettivo.

19. All’inizio del nostro secolo, una triplice rottura s’è prodotta nel sapere scientifico
inaugurato tre secoli prima da Galilei. La relatività, la meccanica quantistica e la psicanalisi
segnalano, per strade diverse, la stessa irruzione, in esso, d’un reale inatteso. Per quanto
diverse nei loro oggetti e nelle loro dottrine, queste tre teorie appaiono congruenti nel fatto
d’assicurare un limite al sapere oggettivo e di farlo funzionare per produrre (almeno nei primi
due casi) una diversa oggettività. Questo limite è infatti quantificato e misurabile, perché
oggettivo, per Einstein e per Planck, è quantificabile ma non misurato, cioè misurante perché
soggettivo, per la psicanalisi. La velocità della luce (c) e la costante di Planck (h) sono le
misure d’un invalicabile, non incidentale, ma costitutivo, all’interno delle rispettive teorie,
cioè d’un impossibile a sapere. All’inizio di questo secolo ci fu un vivo dibattito attorno alla
questione se la costante di Planck esprimesse una misura della nostra ignoranza di soggetti o
la misura d’un’indeterminazione reale degli eventi. Certo, sembra difficilmente concepibile
che un oggetto naturale sia realmente indeterminato. Ma allo stesso modo si potrebbe dire che
la velocità della luce non è solo un limite alle nostre possibilità di conoscenza del cosmo, ma
anche allo spiegarsi di quest’ultimo nello spazio-tempo. In un caso e nell’altro il soggettivo
(cioè il nostro non sapere) è identico al reale. L’apporto di Freud in questo contesto consiste
nell’aver notato come ogni sapere

comporte d’ombre une morne moitié,

come ogni sapere (ogni soggettivo) sia, in sé, un reale, e quindi un non sapere (un
«inconscio»). Il fatto che questo reale non sia mai espresso in una costante numerica dipende
dal reale stesso di quel non reale che è il soggettivo, ch’è misurante, quindi non misurabile. Il
soggettivo (cioè il non reale, das Nichtreale, come s’esprime Freud) non è altro che
l’indeterminazione reale della misurazione. Di conseguenza il sogno, che fu anche freudiano,
di una riduzione alla quantificazione del soggettivo, in termini fisico-chimici, è destinato a
rimanere tale. Del soggettivo, cioè della misura, non ci sarà misura: il misurante non può che
rimanere immisurato.

20. «Pánton khremáton métron estìn ánthropos», «l’uomo è misura di tutte le cose». Basta
tradurre métron con «unità di misura» perché sorga l’equivoco umanistico: ecco «l’uomo»
divenuto un oggetto, privilegiato perché vale come unità di misura, ma che è pur sempre un
oggetto del mondo. Ma significa questo il detto di Protagora? Esso continua: «Di quelle che
sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono». Come si possono misurare
le cose che non sono? Non dovremmo essere più greci per intendere che cosa significa che
l’uomo (cioè il soggetto) è métron, misura, di tutte le cose? Difficilmente un greco avrebbe
pensato a un’asticciuola di legno, a proposito del métron. Il metro poetico è molto più vicino
alla natura della cosa: l’uomo è il metro del poema delle cose, è il loro tempo. Ecco perché
questa misura non può essere misurata. Essa è, di per sé, l’atto di misurare, è il tempo stesso
della misurazione. Ora, di questo tempo e di questa misura (in senso musicale) non si dà
misurazione, per lo stesso motivo per cui non ci si può fare un concetto del tempo. Kant lo ha
dimostrato una volta per tutte: spazio e tempo non sono concetti, perché sono invece il
presupposto (la «forma pura») d’ogni concettualizzazione.

21. Il presupposto d’ogni possibile scientificità della psicanalisi è kantiano. Benché né


Freud né nessun altro analista dopo di lui abbiano mai creduto necessario approfondire la
questione, è urgente, se si vuole evitare di fraintendere in senso psicologistico qualunque
enunciato teorico psicanalitico, a cominciare dalla metapsicologia freudiana, fare un bilancio
di ciò che Freud, che lo sapesse o no, doveva a Kant. È tutt’altro che un problema
storiografico. Si tratta infatti del fondamento stesso della psicanalisi, cioè della sua
«scientificità». La «scientificità» della psicanalisi, a causa della posizione chiave che vi
occupa il soggetto, può essere solo una scientificità sui generis, perché la psicanalisi non può,
come la scienza, respingere fuori dai suoi confini la questione del proprio fondamento
soggettivo. Essa non potrà risultare scientifica finché non si dimostrerà trascendentale.

22. Ora, si potrebbe chiedere, il soggetto di cui parla la filosofia e quello di cui si occupa la
psicanalisi sono lo stesso? Atteniamoci per il momento alla nuda esperienza: il soggetto della
filosofia è sempre il soggetto in quanto tale, il soggetto trascendentale del cogito; quello della
psicanalisi invece è questo o quel soggetto, isterico od ossessivo, perverso o psicotico, anzi
questo o quel singolo soggetto, precisamente determinato e irripetibile, con un nome e una
storia che sono suoi e di nessun altro.
Tuttavia le cose non sono così semplici, perché la psicanalisi non sarebbe neppure sorta se,
nell’orizzonte della scienza occidentale, non si fosse delineata la possibilità di considerare
ogni determinato soggetto come soggetto agli stessi principi che regolano l’azione del
soggetto «in quanto tale». Al di fuori di quel concetto di ragione che s’è sviluppato in
Occidente fin dal XVII secolo, un’«analisi dell’anima» (come se l’anima, cioè il soggetto,
fosse un composto chimico: è questo che significa la parola «psicanalisi») non sarebbe stata
concepibile. A questo si aggiunga che il soggetto della psicanalisi assomiglia ben poco a
quello della filosofia: esso è prima di tutto diviso, non solo in una coscienza e in un inconscio,
ma anche in molteplici istanze (io, es, superio), le quali ne rendono possibile una
raffigurazione sia pure metaforicamente spaziale. Il soggetto della filosofia è invece
adimensionale, puntiforme, unitario. Il soggetto trascendentale non comporta nessuna
divisione, ma, in quanto soggetto trascendentale, è del tutto identico ad ogni altro soggetto.
Certo, la fenomenologia s’è sforzata di reintegrare tutta la dimensione spaziale, cioè in
definitiva corporea, all’interno di questo soggetto, ma ciò non ha fatto apparire al suo interno
alcuna divisione paragonabile alla Ichspaltung freudiana. Com’è possibile allora sostenere
che, nonostante queste differenze, il soggetto diviso della psicanalisi non solo possa, ma
anche debba essere considerato dal punto di vista trascendentale? Eppure questo è necessario,
abbiamo detto, per dare alla psicanalisi una fondazione ch’essa non potrebbe ricevere da
nessuna scienza regionale, e quindi nemmeno da se stessa. Vice versa, com’è possibile
considerare il soggetto trascendentale dal punto di vista della sua divisione? Eppure, senza
questo, la stessa filosofia resterebbe incapace di spiegare la cosa più fondamentale del
soggetto, la sua temporalità, il che risulterà evidente già ad una prima lettura della Critica
della ragione pura. Infatti anche Kant parte, nella sua opera, da un soggetto diviso: diviso non
certo fra una coscienza ed un inconscio, ma fra sensibilità ed intelletto. Tutto il problema della
prima Critica sarà di mostrare come i «due ceppi» della conoscenza possano entrare in
relazione fra loro (e non è senza importanza notare che nella filosofia trascendentale il tema
della corporeità terrà sempre il luogo di ciò che, nella psicanalisi, sarà determinato come
l’inconscio).

23. Partiamo, per affrontare la questione, da qualcosa di fondamentale nella pratica


analitica, anzi dalla cosa più fondamentale, la sua regola. Questa regola prescrive, com’è noto,
a chi s’appresta a fare un’analisi, di «dire qualunque cosa», cioè d’«associare liberamente»
delle rappresentazioni o delle parole. Ora, qual è lo statuto dell’associazione? Porre questa
domanda (che Freud non si pose mai esplicitamente) significa rimettere in discussione alcuni
dei concetti di fondo della psicanalisi. Infatti, che relazione c’è fra l’associazione libera e il
concetto? In apparenza, cioè dal punto di vista psicologico, nessuna. Ma non si spiega così
come Freud, in un passo del testo sull’Uomo dei lupi, possa usare una volta – sia pure
attenuandola con un sit venia verbo – la curiosa espressione «concetto inconscio», e questo
proprio a proposito d’un’associazione (della serie pene-feci-bambino). Quest’associazione, è
evidente, non è affatto casuale (l’associazione cosiddetta libera, del resto, è sempre
determinata, anzi surdeterminata), e quindi ha effettivamente un valore concettuale. Ora, che
cosa c’è in comune fra gli elementi in apparenza disparati della serie? Il concetto
(«inconscio») di qualcosa di piccolo che può staccarsi dal corpo, dice Freud. L’associazione,
per quanto possa essere in apparenza casuale, cioè «libera», presuppone sempre qualcosa
nell’ordine del concetto. Freud insiste per esempio sul fatto che, quando l’associazione
avviene per somiglianze meramente esteriori, per esempio foniche, è sempre all’opera anche
un legame più difficile da evidenziare, ch’è sostanziale perché, in ultima istanza, è
concettuale. Ora, come Heidegger ha ammirevolmente posto in luce nella prima Critica, la
stoffa di cui è fatto il concetto è, già in Kant, il tempo.

24. Il tempo, dice Kant, non è rappresentazione, perché esso è reale (wirklich). Ma di che
reale si tratta? Precisamente di quello della divisione del soggetto: il tempo è il reale del
soggetto in quanto soggetto diviso. Esso «ist also wirklich nicht als Objekt, sondern als die
Vorstellungsart meines selbst als Objekts anzusehen», «dev’essere dunque realmente
considerato non già come oggetto, bensì come il modo di rappresentazione di me come
oggetto». Il tempo dunque non è mera rappresentazione, ma un alcunché di reale (una forma
pura dell’intuizione) soltanto per il fatto che il soggetto non può sapere nulla di sé come
soggetto. Il soggetto kantiano è quindi, contrariamente a quanto solitamente si crede, tutt’altro
che trasparente a se stesso; esso anzi non può conoscersi se non come oggetto, e non può
sapere nulla di se stesso se non come d’un alcunché d’estraneo. In altri termini, il soggetto che
sa (che «pensa») non sa affatto, immediatamente, di sapere (di «pensare»); il valore di
fondamento del cogito non dipende da una presunta identità fra il pensare e il sapere di
pensare ma, come ha mostrato Husserl, dal fatto che non c’è cogitatum senza cogitans. Il
soggetto, in quanto uno, non si dà, per Kant, se non alla fine d’un percorso assai lungo e
complesso: infatti, conoscendosi come oggetto, il soggetto sa, sì, qualcosa, ma qualcosa che
aspetta ancora di venire riferito a «se stesso». Diciamo pure che il soggetto della coscienza è,
per se stesso, inconscio, e che, prima di sapersi uno, deve venire a sapere di sé come oggetto.
L’impossibilità che ha il soggetto di sapere e di sapersi «nello stesso tempo» (háma) fonda il
tempo come un alcunché di reale. Il soggetto è dunque cosciente, ma solo d’un oggetto, e
questa impossibilità di conoscere altro che oggetti lo definisce come incapace di coscienza
rispetto a se stesso in quanto conoscente. Il tempo, dice Kant, è l’effetto del «modo in cui
l’animo viene modificato dalla propria attività». Un vero e proprio principio
d’indeterminazione è già all’opera a questa prima e decisiva svolta della Critica. Cercheremo
di mostrare come l’intera teoria freudiana sia deducibile, in modo puramente trascendentale,
da questo primo principio.
25. Ora, per Kant, proprio il tempo fonda il concetto, perché dà ad esso la capacità di
rendere conto del reale. Se il concetto è più che mera rappresentazione, ciò è dovuto al tempo,
perché il tempo gli cede quel reale ch’esso trae a sua volta dall’impossibilità del soggetto di
conoscersi in quanto conoscente. Solo grazie a questo vero e proprio principio
d’indeterminazione sarà possibile riferire le parvenze, le Erscheinungen, ad «oggetti», cioè ad
unità sintetiche di rappresentazioni. Un oggetto non è affatto un semplice accumulo di
rappresentazioni. Il concetto di albero non è la somma di tutte le rappresentazioni che posso
avere d’uno o di mille alberi, ma è quel qualcosa d’unitario che rende riconoscibile ogni
albero come, appunto, un albero. Vedremo presto che questo qualcosa d’unitario (il concetto)
non è altro che il significato del significante «albero».

26. Ma che ne è, a questo livello, del soggetto determinato, singolare, di cui si occupa la
psicanalisi? Il soggetto dell’estetica trascendentale è ancora un soggetto «in quanto tale», che
non è determinato da nient’altro che dalla sua divisione, ed è quindi rigorosamente identico a
qualunque altro soggetto. Bisogna attendere l’analitica trascendentale perché si ponga la
questione d’una determinazione ulteriore del soggetto, e questo a partire dalla formazione del
concetto nel suo riferimento all’esperienza, poiché non c’è che l’esperienza a poter
determinare un soggetto in quanto tale come quel singolare soggetto, assolutamente distinto
da ogni altro.

27. Ora, tale divisione, che certamente non ha nulla a che vedere con la Spaltung di cui
parla Freud, nel suo darsi temporalmente, si produce secondo un ritmo ternario. Ma
procediamo per ordine. È nel capitolo sulla deduzione dei concetti puri dell’intelletto che ci si
fa innanzi il legame essenziale fra concetto e temporalità come espressione della capacità del
soggetto (in quanto soggetto diviso) di progettarsi in un’apertura temporale. Le tre sintesi
rispondenti rispettivamente all’intuizione, all’immaginazione e al concetto definiscono infatti
i tre momenti fondanti della temporalità. Ma è la terza sintesi, quella «della ricognizione delle
rappresentazioni nel concetto» che qui c’interessa più da vicino. A questo proposito scrive
Kant: «Se nel contare io dimentico che le unità ora presenti ai miei sensi sono state da me
aggiunte gradualmente l’una all’altra, non potrò conoscere la produzione di una pluralità
attraverso questa successiva addizione di un’unità all’altra, e quindi non potrò neppure
conoscere il numero: tale concetto, difatti, consiste unicamente nella coscienza di questa unità
della sintesi».
Che cosa significa questo? Notiamo innanzi tutto che non a caso l’esemplificazione del
modo in cui la genesi del concetto procede dal tempo è tratta dal contare: infatti si tratta
proprio della natura matematica della conoscenza. Contare significa saper aggiungere un uno
a una somma predeterminata, tenendo fermi insieme la somma già effettuata (nella sintesi
della riproduzione), l’atto d’effettuarla (in quella dell’apprensione) e la possibilità di ripetere
l’operazione (in quella della ricognizione). Ora, proprio da questa terza sintesi scaturisce il
concetto come tale, per esempio quello di numero. Ma importa notare come, per Kant, l’unità,
la Einheit, proceda non certo dalla rappresentazione, che è di per sé molteplice e
indeterminata, ma dall’atto stesso in quanto espressione, nel concetto, dell’uno del soggetto,
cioè della sua divisione. E proprio qui è in gioco la possibilità di sussunzione di
rappresentazioni sotto concetti, dunque il passaggio dal registro della rappresentazione a
quello del concetto (e quindi del significato). I livelli ai quali Kant si riferisce sono
precisamente quello della Vorstellung – che in quanto tale è un alcunché di molteplice ed
indeterminato – e quello dell’unità che vi s’introduce col concetto. Ora, com’è possibile, si
chiede Kant, passare dal primo al secondo livello? La sua risposta è, a questo proposito,
definitiva: l’unità viene al concetto dal soggetto in quanto sottoposto al tempo, cioè in quanto
soggetto diviso. Vedremo poi che solo grazie al significante questo punto d’identità del
concetto s’introduce nel molteplice indeterminato delle rappresentazioni e che, quando la
molteplicità delle rappresentazioni è ridotta sotto l’unità del concetto, è perché l’unità che
v’introduce il soggetto fa precipitare all’interno della molteplicità delle Vorstellungen quel
momento d’identità che è il concetto e che il significante in quanto tale viene ad appuntare.

28. Ora, questa unità del concetto proviene, dice Kant, dall’identità dell’«io penso», cioè
dalla «coscienza una», la quale «riunisce in una rappresentazione il molteplice». Ma la
coscienza è una, per Kant, solo grazie all’impossibilità del soggetto di conoscersi in quanto
conoscente, quindi grazie alla sua divisione. Di fatti una coscienza che non fosse solo
coscienza d’oggetti, ma anche perfetta coscienza di se stessa, non sarebbe affatto una
coscienza, ma sarebbe l’assoluto, vale a dire l’Uno stesso. In questo modo, ad esempio, era
stata spiegata la capacità del soggetto della conoscenza di conoscersi come conoscente, e non
solo come conosciuto, dal neoplatonismo (vi ritorneremo). Ma Kant è un erede troppo diretto
dell’empirismo inglese e della teologia scolastica per far intervenire così immediatamente la
sfera del divino (dell’assolutamente Uno) nel processo della conoscenza. Egli scrive invece:
«Questa coscienza può essere spesso assai debole, cosicché noi la connettiamo soltanto
nell’effetto – e non già nell’atto stesso, cioè immediatamente – con la produzione della
rappresentazione. Ma, nonostante queste differenze, dovrà pur sempre ritrovarsi una coscienza
– quand’anche le manchi una coscienza precisa – e senza tale coscienza i concetti, e con essi
la conoscenza degli oggetti, risulteranno del tutto impossibili». È proprio perché tale
coscienza è «oscura» (è cioè coscienza di rappresentazioni, e non del proprio atto) che questo
atto potrà fondare l’unità delle rappresentazioni nel concetto. La coscienza di questo atto
dev’essere «assai debole», come dice Kant, proprio perché la coscienza dell’atto viene
sussunta dalla coscienza del concetto. Se così non fosse, infatti, la coscienza «una»
coinciderebbe in qualche modo, come nel neoplatonismo, con la coscienza assoluta. Quindi
l’oscurità della coscienza – la necessità della sua dimenticanza del proprio atto – è un effetto
della sua finitezza, la quale si manifesta nell’alternanza degli atti di coscienza, vale a dire nel
tempo e nella costituzione temporale del concetto. A fondare l’unità delle rappresentazioni nel
concetto è ciò che la coscienza dimentica – il suo atto –, come se l’instaurarsi del concetto si
compisse per compensare quella presa su di sé che il soggetto, in quanto soggetto di
rappresentazioni, non può avere. È la scissione del soggetto, vale a dire la sua costitutiva
finitezza, a mettere in moto l’intero processo di formazione del concetto. La coscienza «una»
è tale solo nella propria divisione (nella propria finitezza). Essa è una coscienza proprio
perché la sua coscienza non è affatto una, vale a dire assoluta: quell’unità che il soggetto non
può che ignorare in se stesso viene ritrovata, ma dalla parte dell’oggetto, nel concetto. La
mancata presa del soggetto su di sé si trasforma nella presa della coscienza sull’oggetto, presa
in cui consiste il concetto (il Begriff). Infatti il concetto è già al lavoro nella determinazione
dell’oggetto in quanto uno, in quanto quell’ «x indeterminata» che fonda l’unità delle
rappresentazioni nel concetto. In altri termini, in Kant, l’unità dell’oggetto è prodotta dalla
divisione del soggetto, in quanto questa divisione produce quell’unità del concetto che
consente di riferire ad un solo reale la molteplicità delle rappresentazioni soggettive.

29. Dicendo questo, tuttavia, non abbiamo ancora precisato come s’effettua il passaggio,
nodale nel percorso della Critica, dalla molteplicità della rappresentazione all’unità del
concetto, passaggio affidato all’intervento dello schema trascendentale. È necessario insistere
che questo è, per noi, il momento decisivo, perché proprio in esso il soggetto trascendentale
(uno perché diviso, ma indeterminato) comincia a determinarsi nella concretezza della propria
esperienza. Soltanto in seguito a questa determinazione il soggetto trascendentale della
filosofia e il soggetto diviso della psicanalisi potranno cominciare a non apparirci più
reciprocamente incongruenti.
30. È degno di nota il fatto che questo momento è affidato alla funzione della capacità di
giudizio (Urteilskraft), che, come Kant tiene a sottolineare, è una capacità non insegnabile. La
capacità di giudizio è la facoltà di sussumere rappresentazioni sotto concetti secondo regole
determinate. Non si darà perciò una regola della sussunzione sotto regole o, per meglio dire,
questa regola non è altro che la stessa capacità di giudizio, che non potrà, di conseguenza,
adeguarsi a nessuna regola di cui già non disponga. La capacità di giudizio, cioè
l’ininsegnabile, non è che la reversione sul soggetto di quel principio d’indeterminazione che
sta alla base di tutto il percorso della Critica, e che la stessa divisione soggettiva impone
all’intero processo di formazione dei concetti.

31. Il punto difficile del giudizio è, per Kant, quello dell’articolazione di rappresentazioni
(sensibili, molteplici) sotto concetti (non sensibili, individuali e quindi numerabili).
L’elemento medio che consente l’articolazione di questi due livelli è quell’entità bifronte che
egli chiama schema trascendentale: sensibile come un’immagine e tuttavia uno come un
concetto. Lo schema è infatti sì un rappresentazione, ma non la rappresentazione d’un
oggetto, che sarebbe mera parvenza, bensì la rappresentazione d’un’attività del soggetto:
precisamente di quella che consiste nel trovare un’immagine a un concetto, attività propria di
ciò che Kant chiama Einbildungskraft. Per esempio: «Il concetto di cane indica una regola
secondo cui la mia capacità di immaginazione può tracciare universalmente la figura di un
animale, quadrupede, senza essere ristretta ad un’unica figura particolare, offertami
dall’esperienza, oppure ad ogni immagine possibile, che io sia in grado di raffigurare in
concreto. Questo schematismo del nostro intelletto, a riguardo delle apparenze e della loro
semplice forma, è un’arte nascosta nelle profondità dell’anima umana: difficilmente
impareremo mai dalla natura le vere scaltrezze di quest’arte, in modo da poterle presentare
senza veli. Possiamo dire soltanto questo: l’immagine è un prodotto della facoltà empirica
della capacità produttiva di immaginazione; lo schema di concetti sensibili (come quelli delle
figure nello spazio) è un prodotto – e per così dire un monogramma – della capacità pura a
priori di immaginazione, mediante il quale e secondo il quale le immagini risultano per la
prima volta possibili».
Tre conseguenze, tutte della massima importanza per il nostro assunto, provengono dal
modo in cui Kant considera il problema: lo schema trascendentale è una determinazione
temporale; esso si riferisce ad un’attività del soggetto ch’è un suo movimento; esso costituisce
infine l’unico modo di sussunzione di rappresentazioni sotto concetti, sussunzione che
coincide, come vedremo, con lo schiudersi della possibilità della significazione, cioè con la
messa in rapporto d’un significante con il suo significato.

32. Anche se, nella Critica, non è mai questione del linguaggio in quanto tale, il problema
della ragione è quello del linguaggio. Ma Kant è troppo poco moderno per dare al linguaggio
tutta l’importanza che ad esso sarà riconosciuta da Nietzsche, da Heidegger, da Freud. Il
linguaggio in quanto tale non pone, per Kant, un problema metafisico. Esso è e resta uno
strumento del pensiero. È tuttavia evidente che la complessa deduzione delle categorie e tutta
l’operazione di deduzione trascendentale del concetto in generale punta verso il problema
della significazione. E, come abbiamo visto, lo schema trascendentale è il punto in cui la
sensibilità (l’esperienza) e l’intelletto (l’a priori) si saldano, rendendo possibile una
fondazione della conoscenza. La scissione fra la volontà e l’intelletto dunque non esclude un
momento di scambio, d’intreccio o, per meglio dire, di saldatura fra questi due fattori. Ora, se
questo è possibile, è perché entrambi i fattori sono costituiti temporalmente.

33. La problematica dell’essenza temporale dello schema viene affrontata da Kant a partire
dall’esigenza di trovare l’immagine-schema per ognuno dei concetti puri dell’intelletto (le
categorie). Dal momento che tali concetti provengono dalla pura spontaneità dell’intelletto e
non ricevono alcun apporto da parte della sensibilità, un’immagine sensibile che corrisponda
loro a livello dello schema potrà essere tratta esclusivamente dalla forma pura delˇ«senso
interno» del soggetto, cioè dal tempo. Così ad esempio «lo schema della sostanza è la
permanenza del reale nel tempo», e quello della quantità è il numero in quanto «unità della
sintesi del molteplice di una intuizione omogenea originale». Ma qual è il reale che viene
determinandosi nel tempo sino a rendersi disponibile per essere messo nell’immagine-schema,
se non quello che il soggetto stesso si offre, potendosi rappresentare solo come oggetto,
quindi nella sua divisione? Quando Kant fa del «permanere del reale nel tempo» lo schema
della sostanza, o del numero quello della quantità, non è proprio il soggetto il metro di questa
permanenza, il metro di tale numerazione? Ritroviamo qui la determinazione fondamentale
del soggetto della metafisica come pánton khremáton métron.

34. Nello schema non abbiamo dunque una mera rappresentazione, un’immagine sensibile,
che sarebbe ogni volta singolare e al tempo stesso molteplice. Lo schema resta tuttavia
rappresentazione, ma rappresentazione, prima che d’un oggetto, d’un’attività del soggetto,
d’un suo concreto fare, d’una sua azione. Ma se la rappresentazione d’un’azione ha, rispetto
alle altre rappresentazioni, il privilegio di poter essere una, è solo perché la rappresentazione
d’un’azione del soggetto è immediatamente anche azione soggettiva di rappresentare. Come
non c’è cogitans senza cogitatum, così non c’è azione rappresentata che non sia
immediatamente anche azione di rappresentare. Nello schema, a differenza che nella
rappresentazione, rappresentazione ed azione sono lo stesso. L’immagine-schema del cane
non è la rappresentazione (l’immagine) di questo o quel cane, tanto più che senza l’immagine-
schema del cane nessuna immagine sarebbe mai riconoscibile come immagine-d’un-cane. Ma
come può un soggetto fare questo, a prescindere dalle immagini d’un cane che non gli sono
ancora disponibili, perché non sono possibili prima dell’elaborazione dello schema? Non c’è
che una soluzione possibile, ed è questa «l’arte nascosta nelle profondità dell’anima umana»:
prima ancora di giungere a rappresentarsi un cane, il soggetto deve, per così dire, diventarlo.
L’identità del soggetto con lo schema non vale insomma solo per i concetti puri dell’intelletto
(dove la cosa sembra andare da sé), ma anche per i concetti di oggetti dell’esperienza. È solo
nel diventare-cane che il soggetto può esprimere l’esser-cane come un alcunché di uno e non
di molteplice. Il termine «arte», che misteriosamente Kant impiega qui, è al suo giusto posto,
proprio perché si tratta d’un modo della mímesis. Vedremo nella Seconda parte del volume
che quest’«arte nascosta» non è che il necessario passaggio, nel determinarsi delle essenze (e
quindi delle significazioni), per il sovraessenziale.

35. La significazione è prodotta solo da questo doppio aspetto dello schematismo, ch’è al
tempo stesso rappresentazione d’un’azione e azione del rappresentare. Infatti proprio grazie a
questo doppio valore dell’immagine-schema sarà sempre possibile riconvertire una
rappresentazione in azione. Riconvertire una rappresentazione in azione è ciò che si chiama
comprendere; convertire un’azione in rappresentazione è ciò che si dice apprendere. Senza
questa doppia possibilità, aperta dallo schema, non ci sarebbero né concetti né significati.
«Dunque gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le vere ed uniche condizioni per
procurare a tali concetti una relazione con oggetti e quindi un significato [Bedeutung]». La
determinazione temporale non vale, come abbiamo visto, solo per i concetti puri
dell’intelletto. Il tempo è sempre, per così dire, la stoffa della significazione. Infatti i concetti,
anche nel caso in cui sono riferibili ad oggetti d’esperienza, si «riempiono», cioè acquistano
significato, solo grazie al loro partecipare a un’esperienza la quale è per definizione
temporale: quella con cui il soggetto, che «fa l’oggetto» della propria esperienza, dà
significazione non tanto al concetto, come s’esprime Kant (il concetto è già di per sé
significato), ma precisamente alla parola o alle parole che lo rappresentano, cioè ai
significanti. Siamo giunti così nel punto in cui il soggetto trascendentale è virtualmente
identico al soggetto del linguaggio, cioè al soggetto dell’esperienza in generale, e
dell’esperienza analitica in particolare.
Un’ultima osservazione, per concludere. S’è vero, com’è vero, che la rappresentazione
d’un’azione è un’azione – perché, se così non fosse, non ci sarebbe alcuna possibilità di
riferire dei significati a dei significanti, e quindi di formare dei concetti –, dobbiamo dedurne
forse che l’azione rappresentata e l’azione del rappresentare sono la stessa azione?
Sicuramente no, perché l’azione di rappresentare e l’azione rappresentata sono evidentemente
differenti, se non in quanto l’azione di rappresentare è realmente un’azione, quanto lo era
quella rappresentata. L’azione di rappresentare sta realmente al posto di quella rappresentata.
Il soggetto d’entrambe le azioni è lo stesso, anche se, anzi proprio perché, è il soggetto
d’azioni differenti, e quindi un soggetto temporalmente strutturato: l’azione rappresentata sarà
radicalmente diversa dall’azione reale, e tuttavia sarà in qualche modo, in quanto azione,
anche identica ad essa. Ciò significa che l’identità soggettiva è determinata dalla disidentità
degli atti soggettivi, vale a dire dalla scissione stessa che costituisce il soggetto, ma senza
affatto ridurlo ad essere identico a questa scissione, perché, se così fosse, qualunque soggetto
sarebbe il soggetto qualunque della filosofia trascendentale, e verrebbe quindi a cadere ogni
distinzione reale fra il soggetto trascendentale e il soggetto concreto, ed anche fra ciascun
soggetto concreto e ciascun altro.
II. Significante e rappresentazione

36. Perché Jacques Lacan, nel corso del suo insegnamento, potesse attirare l’attenzione
degli psicanalisti sull’importanza essenziale del linguaggio nella loro pratica, bisognava che
l’invenzione freudiana subisse, nelle sue mani, un certo spaesamento. Se si considerano opere
fra loro contemporanee come gli ultimi scritti di Freud e gli scritti psichiatrici di Lacan, si
sente subito che appartengono a generazioni e a culture diverse. Dietro Freud c’è il sapere
ottocentesco, dietro Lacan la Parigi dei primi decenni del secolo. Il «ritorno a Freud»,
compiuto da quest’ultimo negli anni Cinquanta, al quale dobbiamo che la psicanalisi faccia
ancora questione nella cultura del nostro tempo, presuppone una distanza. I contatti fra il
giovane Lacan e il vecchio Freud si riducono a questo: il primo invia al secondo la sua tesi
sulla paranoia, il secondo risponde al primo con una cartolina postale di ringraziamento.
Per quanto ci riguarda, come potremmo non sentire che fra noi e Lacan c’è la stessa
distanza che separava lui dal vecchio Freud? Per leggere i suoi scritti, cioè per non ridurli ad
un sistema (d’altra parte vi si presterebbero ben poco), noi dobbiamo far subire ad essi lo
stesso spaesamento che subirono quelli di Freud quando vennero letti da lui con gli strumenti
che gli forniva la cultura francese della metà del secolo; in altri termini, noi dobbiamo leggerli
con i nostri strumenti, e tenendo conto dei nostri problemi. Lacan è stato un uomo del suo
tempo. Non si avverte mai, in tutto ciò che ha scritto o detto, nessun indizio di quel disagio
che distingue sempre i grandi inattuali. Egli non è stato solo colui che ha messo la psicanalisi
sulle basi d’esperienza che ad essa competono, è stato anche un rappresentante dell’epoca che
fu sua, con tutta la grandezza e tutte le scaltrezze di quell’epoca. Larvatus prodeo: questo
vecchio motto potrebbe essere di Lacan, dal momento che egli, del suo tempo, è stato quasi un
simbolo, riassumendone nella propria persona – nella propria «maschera» – tutta la grandezza
e forse tutti i limiti. In quei giorni d’inverno del 1980 nei quali egli sciolse l’Ecole freudienne
de Paris, l’istituzione che aveva fondato meno di vent’anni prima, era difficile sfuggire alla
sensazione che stava concludendosi un’epoca, a dire il vero in modo malinconico, e con
auspici non proprio entusiasmanti sul futuro.

37. Senza dubbio, già Freud aveva messo al centro dell’esperienza psicanalitica il
linguaggio. È noto quale importanza abbia, nel saggio del 1915 sull’Inconscio, la distinzione
fra rappresentazione di cosa (Sachvorstellung) e rappresentazione di parola (Wortvorstellung),
che gli offre la possibilità di concepire il rapporto fra la memoria inconscia e la memoria
preconscia in un modo diverso da quello meccanicistico della doppia inscrizione. La tesi di
Freud è ben nota: una rappresentazione inconscia è una rappresentazione di cosa, alla quale
viene rifiutato il legame con la rappresentazione di parola corrispondente, che fornirebbe la
sovraccarica necessaria per farla diventare cosciente. Ma, se Freud esita ad accogliere
l’ipotesi della doppia inscrizione, non è solo a causa della sua scarsa eleganza, è anche perché
deve distinguere un processo inconscio da uno conscio in un modo più preciso di quanto non
sarebbe la semplice sottrazione dell’attributo coscienza. Il suo vecchio studio sull’afasia gli
fornisce qui i termini Sachvorstellung e Wortvorstellung.
Tuttavia, nonostante l’importanza indiscutibile del fatto che Freud ponga così in rilievo la
funzione del linguaggio, non è possibile identificare la rappresentazione di parola con ciò che,
da Lacan in poi, in psicanalisi si chiama significante. Le due nozioni non si sovrappongono.
Che cos’è infatti un significante? Certamente nulla che possa dirsi dell’ordine della
rappresentazione. La nostra prolusione kantiana ci sarà qui d’aiuto per operare delle
distinzioni. Senza una lettura attenta della prima Critica tutto lo sforzo di Freud per concepire
l’inconscio in rapporto al linguaggio ed al soggetto si svuota e s’appiattisce. Ora, la
rappresentazione è sempre, essenzialmente, ripresentazione, è l’apparire una seconda volta di
qualche cosa che fu già presente. La rappresentazione di parola non è altro che il riapparire
d’una parola, d’un significante. Dunque la Wortvorstellung non è affatto il significante, ma il
suo rappresentarsi, la sua immagine. Che cos’è allora un significante? Per rispondere a questa
domanda, prima che alla tematica della rappresentazione, converrà riferirsi alla semiologia,
per distinguere il significante dal segno.

38. Quando Ulisse, nell’Odissea, sbarca con i suoi compagni nell’isola di Circe, si reca
prima di tutto sul suo punto più alto per guardarsi attorno, e di là scorge un filo di fumo. Ne
deduce che c’è qualcuno che abita quell’isola. Il filo di fumo implica subito un soggetto (un
uomo o un dio, dice Ulisse): esso rappresenta un soggetto. Ma il filo di fumo non è affatto la
rappresentazione del soggetto (questo soggetto non è mai stato presente ad Ulisse, e non si
ripresenta come filo di fumo). Il filo di fumo è solo l’anello visibile d’una serie causale che
implica la presenza d’un soggetto. Diciamo ch’esso è segno d’un soggetto (un indice, avrebbe
detto Peirce). A differenza del segno, un significante, che pure può sempre valere come
segno, non è un indice, e l’essenziale in esso non è il suo rientrare in una catena causale al cui
principio si trovi un soggetto. Esso non è neppure necessariamente una parola. Può essere
qualunque cosa rappresenti un soggetto, ma – è questo l’essenziale – «per un altro
significante», come diceva Lacan, sottolineando che ce ne vogliono almeno due perché
significante ci sia, mentre questo non vale per il segno. Lo scricchiolio d’un cancello può
essere segno, per un cane, del ritorno a casa del padrone, ma non è un significante, perché il
cane non dispone del secondo significante per cui il primo possa rappresentare un soggetto.
Per il cane si tratta solo di relazioni determinate, cioè d’associazioni fra rappresentazioni. Un
significante invece è tale quando è inserito in un sistema di significanti (per esempio in una
lingua o in un codice). Il registro del significante presuppone quello della rappresentazione, e
lo presuppone in due sensi diversi, non solo perché un significante rappresenta un soggetto,
ma anche perché il significante è capace d’essere rappresentato, anzi non esiste, in concreto,
cioè nella nostra esperienza, se non come rappresentato (se non in quanto pronunciato o
scritto).

39. Per poter significare qualcosa, un significante deve staccarsi dal mormorio continuo
della lingua, dal gioco ondulato della lallazione e della cantillazione sul quale si viene
profilando, per assumere la sua identità di significante. Ontogeneticamente, sappiamo che un
significante assume questa identità per via della ripetizione d’un gruppo di fonemi: «ma-ma»,
certo, non è un significante, finché non viene a distinguersi da «pa-pa», cioè finché non ci
sono due significanti, ma senza l’oggetto sonoro «ma-ma» nessun significante potrebbe
sorgere mai. Ora, dove trova quest’oggetto sonoro la sua identità di significante?
Precisamente nella ripetizione del gruppo di fonemi in cui consiste: dire «ma-ma» è dire «ma»
e aggiungere che non è detto per caso. Il significante giunge dunque alla sua identità per via
della rappresentazione di se stesso. Qualunque significante, d’ora in poi, sarà caratterizzato
dalla sua identità, che permetterà di non confonderlo mai con un altro significante; questa
identità sarà assicurata però solo dalla sua possibilità di rappresentarsi nei modi più diversi,
ma in ogni caso scrivendosi. La scrittura è sempre una «rappresentazione di parola».
Ora, la scrittura non è una semplice rappresentazione del significante. Essa è anche la
condizione primaria dell’instaurarsi del significante, perché senza di essa questo non avrebbe
alcuna consistenza. Per scrittura bisogna intendere qui ogni modo possibile di rappresentare il
significante: non solo la scrittura propriamente detta, ma anche la messa in atto sonora,
vocale, del significante è una sua «rappresentazione» (la lallazione e la cantillazione, quindi,
sono rappresentazioni «di significante» senza significante). Molte cose infatti possono variare
nella rappresentazione del significante, salvo quel tratto identico che lo áncora a se stesso
all’interno d’un sistema (per esempio d’una lingua) e che è il significante nel senso proprio
del termine. Esiste quindi un rapporto strettissimo, ma anche una differenza essenziale, fra il
significante e la parola concreta, realizzata, pronunciata, cioè fra il significante e la sua
rappresentazione. La rappresentazione d’una parola non è il significante (la parola è anzi la
rappresentazione d’un significante), ma propriamente, come la scrittura, la sua immagine.
Nel testo di Freud tuttavia non s’incontrano solo i termini Sachvorstellung e
Wortvorstellung, né l’uno né l’altro dei quali possono coincidere con il significante
propriamente detto; vi ricorre anche un termine, Vorstellungsrepräsentanz, «rappresentante
della rappresentazione», che più precisamente esprime ciò che indichiamo col termine
«significante».

40. «Rappresentante della rappresentazione» è la sola traduzione possibile del termine


Vorstellungsrepräsentanz, che sarebbe errato tradurre, come talvolta s’è fatto, con
«rappresentante rappresentativo». La Vorstellungsrepräsentanz non è affatto
«rappresentativa», cioè non è una rappresentazione: è il rappresentante (il sostituto, il
Vertreter, cioè il luogotenente) della rappresentazione (della Vorstellung). È ciò che è
rappresentato ad essere «rappresentativo», non ciò che rappresenta. Ma che cos’è questa
rappresentazione (Vorstellung) ch’è rappresentata (repräsentiert) dal significante (poiché di
questo si tratta)? Certamente, un significante «rappresenta un soggetto», abbiamo detto. Ma
lasciamo da parte per un attimo questa considerazione. Partiamo dal più ovvio: un significante
ha un suo significato. Il rappresentante della rappresentazione è il significante in quanto
s’articola con un significato. Il significato (che già Saussure identificava col concetto) è del
registro della Vorstellung, della rappresentazione, perché è una sintesi di rappresentazioni: il
significato (il concetto) è ciò che riduce ad unità e identità la serie altrimenti indefinita delle
rappresentazioni d’un determinato oggetto. Ma abbiamo visto ch’è il soggetto in quanto uno
(cioè in quanto diviso) a cedere all’oggetto quell’essere-uno con cui l’oggetto stesso
s’individua nel concetto. Abbiamo visto altresì che la formazione del concetto comporta un
lungo e tortuoso percorso, con il quale la sensibilità (l’esperienza) e l’intelletto (il soggetto in
quanto tale) si scambiano le loro prerogative: il soggetto riconoscendosi solo come oggetto
nel tempo, l’oggetto essendo riconosciuto solo grazie all’unità che trae dal soggetto. Dire che
un significante rappresenta un concetto (o un significato) e dire che esso rappresenta un
soggetto («per un altro significante»), è dire, rigorosamente, lo stesso.

41. Con questo abbiamo riassunto, grazie alla fondamentale analisi kantiana, la formazione
del significato, cioè del concetto. Resta ancora da spiegare la formazione del significante.
Perché un significante sia tale è essenziale che, come oggetto, esso sia identico, quindi
riconoscibile come uno. Dobbiamo supporre insomma che ci sia un concetto della parola
«sedia», il quale ci permette di comprendere un enunciato che la contenga, come c’è un
concetto di sedia, il quale ci consente di sapere che possiamo sederci ogni volta che ne
vediamo una; dobbiamo supporre inoltre che questi due concetti entrino in una stabile
relazione reciproca. Chiameremo significazione questa relazione.

42. Se ne deduce che non possiamo situare il significante, nella metapsicologia freudiana,
al livello delle rappresentazioni (di parola o di cosa), ma che possiamo situarlo solo al livello
dei loro rappresentanti. Ora, quale sarà lo statuto di questi rappresentanti della
rappresentazione? La risposta a tale quesito possiamo trovarla nel testo di Freud, ma sotto un
altro titolo, e precisamente all’interno di ciò che egli chiama il «punto di vista economico».
Ciò che distingue la rappresentazione dal suo rappresentante è infatti il risparmio
d’investimento consentito dal secondo. Questo è particolarmente evidente là dove Freud parla
dei mezzi espressivi mimici, cioè di quella che chiama la «mimica rappresentativa»
(Vorstellungsmimik). Ciò avviene nel capitolo del Motto di spirito dedicato al comico. La
questione che Freud cerca di risolvere qui è: per quale motivo ridiamo di movimenti giudicati
incongrui ed eccessivi, come quelli dei clown, dei saltimbanchi e dei mimi? Freud risponde:
perché, misurando quel movimento con quello che sarebbe stato sufficiente per noi, otteniamo
un risparmio d’investimento energetico: «Io ho acquistato la rappresentazione di un
movimento di una certa ampiezza eseguendo o imitando questo movimento, e così facendo
ho, nelle mie sensazioni d’innervazione, appreso un metro per questo movimento». E dunque
come movimento corporeo che ci si presenta un primo abbozzo di significante, che resta
tuttavia ancora rappresentazione mimica. Il termine «metro» è, qui, nodale: vi ritroviamo il
soggetto come métron, come misura d’un movimento e d’uno sforzo. Ma la questione va ben
oltre i limiti della problematica del comico, e Freud aggiunge in una nota: «Il ricordo di
questo dispendio d’innervazione resterà l’elemento essenziale della rappresentazione di
questo movimento, e vi saranno sempre nella mia vita psichica modi di pensare nei quali la
rappresentazione si identifica con questo dispendio e solo con esso. In altri contesti può
accadere che questo elemento sia sostituito da altri, per esempio dalle rappresentazioni visive
dello scopo del movimento, dalla rappresentazione di parola, e in certi tipi di pensiero astratto
basterà, invece del contenuto pieno della rappresentazione, un semplice segno». Il processo di
formazione del significante procede dunque – parallelamente al processo di formazione del
concetto in Kant – in tre tappe essenziali: prima di tutto abbiamo un movimento effettuato
realmente, realmente ripetuto, nel quale il soggetto si pone come il metro dello sforzo
effettuato (il soggetto si dà qui come rapporto di forze); in un secondo tempo invece questo
movimento non viene più effettuato, perché viene rappresentato (esso si ripresenta nella
repraesentatio, ed è essenzialmente un movimento ricordato); infine anche questa
rappresentazione, che è ancora una specie d’azione, viene eliminata, resa superflua, grazie
all’intervento del significante, cioè del rappresentante della rappresentazione. Il
rappresentante della rappresentazione, cioè il significante, è il sostituto d’un movimento o
d’un’azione che il soggetto non compie.

43. Ora le nostre ipotesi, se sono esatte, dovrebbero aiutarci a comprendere meglio ciò che
Freud, nell’ultimo capitolo del saggio sull’Inconscio, afferma sul rapporto fra linguaggio e
rimozione. Ma per fare questo dobbiamo ancora trarre alcune conseguenze dal principio che
abbiamo stabilito, quello della natura essenzialmente motoria della rappresentazione. In primo
luogo è evidente che, proprio a partire da questo collegamento con il piano motorio, l’avvento
del significante produrrà da un lato un risparmio d’investimento, dall’altro anche una rinuncia
pulsionale. Il rappresentante della rappresentazione è sempre, per Freud, una
Vorstellungsrepräsentanz des Triebes, ed in quanto tale è in questione nel meccanismo della
rimozione. Il significante, mentre consente un risparmio d’investimento, provoca proprio per
questo la rinuncia a quel piacere che Freud chiama Bewegungslust, il piacere che
s’accompagna al movimento. In secondo luogo, proprio per l’instaurarsi di questa rinuncia,
ch’è anche una via più breve per giungere alla meta senza effettuare il dispendio necessario,
s’apre per la prima volta il campo dell’inconscio. L’instaurarsi della Vorstellungsrepräsentanz
coincide così in definitiva con ciò che Freud chiama la rimozione originaria (Urverdrängung),
che non è da intendere come la rimozione d’un significante – infatti senza rimozione non ci
possono essere significanti da rimuovere –, ma come quella della Bewegungslust
corrispondente a ciò che verrà a prodursi come significante. La rimozione originaria si
distingue dunque da tutte le successive rimozioni perché è la condizione d’esistenza, e non la
conseguenza dell’esistenza del significante. L’inconscio sarà d’allora in poi il campo negativo
del movimento, cioè il campo del movimento non effettuato. Di esso faranno parte ad
esempio tutti quei significanti che resteranno estranei al soggetto, perché egli non avrà potuto
o voluto tradurli in movimento (in rappresentazione o in azione).
Ora, che senso ha parlare dell’inconscio come d’un movimento negativo? Un movimento
negativo, in realtà, non sarà il contrario d’un movimento. Il movimento non effettuato e
l’azione non compiuta, perché corrispondente ad un «significante rimosso», saranno tuttavia
effettuati, ma in modo che il soggetto non potrà riferire il proprio movimento a quel
significante, e quindi riconoscere entrambi come propri. Il suo movimento sarà non effettuato
(in relazione al significante rimosso), eppure effettuato indipendentemente dalla sua
coscienza. Esso sarà diventato una formazione dell’inconscio (un sogno, un lapsus, un atto
mancato, un sintomo). Ma con le formazioni dell’inconscio il soggetto, senza saperne nulla,
diventerà a sua volta il rappresentante delle rappresentazioni dalle quali è escluso, cioè
diventerà un significante, e in quanto tale sarà condannato – come dimostra ogni nevrosi – a
farsi significante per un altro. Per un altro significante? Diciamo, più esattamente, per un altro
soggetto, che però egli assumerà solo come significante (è questo il meccanismo del
transfert).
Naturalmente un soggetto è tutto, ma non un significante. Di fatti questa riduzione del
soggetto, nella quale s’esprime la necessità del transfert (di ciò che Freud chiama il
controinvestimento), è precisamente l’errore – etico – in cui consiste la nevrosi. Su questo
punto essenziale, tuttavia, non possiamo che rinviare alla sezione del Mito di Crono che
abbiamo dedicato a questi concetti essenziali. Ritorniamo invece a quanto accennavamo poco
fa, per trarne una terza conseguenza: la possibilità di distinguere una «parola piena» da una
«parola vuota». Senza dubbio solo la prima, consentendo al soggetto di prendere parte alla
significazione del significante, gli consente di trovare posto nella sua verità, e quindi di
dissolvere un sintomo, mentre la seconda, portatrice d’un significato al quale il soggetto non
ha accesso, coincide in definitiva con la messa in atto della significazione rimossa, cioè con la
ripetizione di quel movimento dal quale il soggetto è escluso (in altri termini, con la
formazione dell’inconscio).

44. Il linguaggio in quanto tale, costituito com’è da significanti, cioè da rappresentanti


d’una rappresentazione che non viene effettuata, si riduce al non senso, cioè alla mera
indifferenza dei sensi. Il linguaggio in quanto tale, se prescindiamo dal movimento
soggettivo, è il non senso. Infatti esso tende irresistibilmente a sostituire il soggetto, perché è
fatto per risparmiargli un movimento, e diventa così, quando l’esperienza del senso non venga
a ravvivarlo, quella moneta consunta che «ci passiamo in silenzio» della quale parla
Mallarmé. Il linguaggio diventa allora rumore, infinito brusio del non senso.
«Non senso», qui, non significa affatto assenza d’informazione; non si tratta di «rumore»
nel senso della teoria dell’informazione. Frasi perfettamente significative e messaggi ben
costruiti possono essere del tutto privi di senso quando un soggetto non li abita. Una macchina
può trasmettere un messaggio a un’altra macchina: ma basta questo perché il messaggio abbia
un senso e una significazione? Il linguaggio tende irresistibilmente a divenire automatico,
com’è giusto che sia, dal momento che il risparmio d’investimento che esso ci consente
consiste proprio in una desoggettivazione. Anche le nostre menti tendono a funzionare in
modo automatico, perché anch’esse subiscono il parassitismo del linguaggio. Se fossimo solo
gli ospiti d’un discorso che si produce in maniera automatica, difficilmente potremmo
pretendere d’essere soggetti, perché saremmo solo assoggettati all’automatismo del
linguaggio. Ora, che si tratti di «automatismo mentale» (Clérambault) o di «macchine per
influenzare» (Tausk), esiste un caso in cui il linguaggio in quanto tale tende a prendere il
sopravvento sul soggetto. È la psicosi. E non a caso Freud ricorre ad essa tutte le volte che
deve considerare i meccanismi del significante (per esempio nelle pagine decisive del saggio
sull’Inconscio). Il linguaggio in quanto tale, infatti, è la psicosi. Ed è precisamente questo
d’una progressiva psicotizzazione della nostra relazione col linguaggio il dato maggiormente
preoccupante che l’esperienza clinica ci sottopone quotidianamente. Dobbiamo osservare
tuttavia che un linguaggio totalmente automatico non sarebbe affatto un linguaggio, perché
nessun significante è un significante se non significa qualcosa – anche come mera
significazione – per qualcuno. Dobbiamo tenerlo presente, sia per dare una valutazione esatta
della psicosi, sia per non tradurre l’intera metapsicologia freudiana in un assurdo
meccanicismo.
III. Linguaggio e psicosi

45. La prima caratteristica che Freud, nel saggio sull’Inconscio, riconosce al modo in cui
l’uso del linguaggio viene a modificarsi nella psicosi è che «il modo di espressione diventa
spesso oggetto di una cura particolare, diventa “ricercato”, “affettato”». E ciò che spesso i
testi psichiatrici chiamano «manierismo schizofrenico», il quale consiste in definitiva nel fatto
che, come s’esprime Freud, la Wortbeziehung (la «relazione di parola») prende il sopravvento
sulla Sachbeziehung (sulla «relazione di cosa»), che cioè il significante prende il sopravvento
sul significato. Per esempio, da una relazione di somiglianza fra due significanti la psicosi
dedurrà che c’è somiglianza anche fra i loro significati. Il prevalere della «relazione di parola»
sulla «relazione di cosa» comporta che le parole siano «trattate come cose»; la psicosi di
conseguenza supporrà che i significanti siano radicati direttamente nel reale delle cose. Questa
supposizione del resto non è così folle da non essere stata talvolta difesa filosoficamente. Il
mito della lingua «vera», cioè tale da esprimere direttamente nel simbolico il reale delle cose
significate, infatti è attestato più volte, per esempio nei commenti medioevali al passo della
Bibbia sulla distruzione della torre di Babele. Poco importa dove una tale lingua venga
situata. Che si tratti dell’ebraico o della Grundsprache di Schreber, la sua funzione è proprio
questa di tradurre senza mediazioni il reale. La lingua originaria è, naturalmente, quella
«vera», scelta da Dio; essa è caratterizzata dal fatto che, dovendo essere quanto meno
possibile arbitraria (cioè dovendo esprimere il reale in modo quanto più possibile diretto e
motivato), finisce spesso col diventare asemantica (cioè col far prevalere il non senso sulla
significazione).
Esprimere il reale nel linguaggio porta all’evacuazione della significazione. C’è solo un
modo perché possa dirsi del reale, nel linguaggio, ed è la verità. Ma la verità non è
immediatamente la traduzione del reale nel linguaggio, è invece l’emergenza del non reale
(cioè del soggettivo) in primo luogo nell’enunciazione d’un enunciato, in secondo luogo, e
fondamentalmente, nel senso che acquisterà l’enunciato (con la sua enunciazione). Non
possiamo soffermarci qui sulla differenza essenziale fra la determinazione di verità d’un
enunciato attraverso la sua enunciazione e la sua determinazione di verità attraverso il senso.
Il senso, a differenza del valore di verità che un enunciato acquista per la sua enunciazione,
non è una determinazione che riguardi il soggetto della ragione «pura»; esso invece dipende
interamente dalle condizioni concrete e non riproducibili della soggettivazione
dell’enunciazione. Se ad esempio ammettiamo che l’enunciato «oggi piove» è vero solo s’è
vero che oggi piove, questa verità non dipende minimamente dal senso ch’eventualmente
quest’enunciato acquisterebbe per chi lo pronunciasse o udisse: esso potrebbe essere «vero»
pur rimanendo insensato (cioè una «parola vuota»). Il senso, dunque, pur essendo una
determinazione fondamentale del linguaggio, e addirittura una sua determinazione originaria,
senza la quale non ci sarebbe linguaggio, riguarda le condizioni pratiche dell’enunciazione,
cioè presuppone, perché la determina, la concreta individuazione del soggetto. Ma noi non
siamo ancora giunti, qui, a porci trascendentalmente il problema di tale individuazione, in
quanto stiamo operando solo in base ai princìpi più generali della soggettivazione, del tutto a
prescindere dall’individuazione. Del resto né Kant né Freud hanno effettivamente compiuto
una fondazione trascendentale dell’individuazione soggettiva, e questo perché sia la
metafisica sia la psicanalisi si sono mosse all’interno d’una tradizione nella quale il singolare
è sempre stato pensato come accidentale, e non come un momento trascendentalmente
decisivo. In questo volume perciò non ci occuperemo del problema del senso, che abbiamo
affrontato nella Formazione degli analisti, e dovremo limitarci ad affermare la necessità d’una
fondazione trascendentale dell’individuazione, tema che invece abbiamo trattato nel Mito di
Crono. Ma anche il problema dell’individuazione soggettiva è di stretta pertinenza clinica,
non perché l’individuazione sia necessariamente patologica, ma proprio perché, al contrario,
la clinica dev’essere ripensata come il campo di formulazione del giudizio sulle singolarità
soggettive, prima ancora che sui «disturbi» di queste singolarità.

46. Naturalmente, è solo apparente il paradosso per cui la psicosi, mentre cerca
d’individuare un’impossibile lingua del reale, finisce col mettere in rilievo la funzione del
significante nella sua autonomia ed arbitrarietà. Il modo in cui ciò accade è del tutto evidente
nelle Memorie di Schreber. Egli infatti non s’accontenta della Grundsprache, e deve supporre
una lingua ancora più fondamentale di questa, una lingua che sarebbe davvero al di qua delle
lingue (dei significanti) e che, con le parole del suo tempo, chiama la Nervensprache, la
«lingua dei nervi». Per intendere il peso e la portata di questo concetto, basta aprire le
Memorie alla prima pagina, dove leggiamo questo postulato di fondo: «L’anima umana è
contenuta nei nervi del corpo»; postulato ingenuo, forse, dal punto di vista filosofico, e
tuttavia fecondo, dal momento che da qualcosa di molto simile partì in definitiva lo stesso
Freud quando, nella prima pagina del Progetto, scommise nella partita impossibile di fondare
una «psicologia scientifica», trattando la res cogitans come se fosse extensa, e subordinandola
perciò al «punto di vista economico» e alla quantificazione.
Ora, per Schreber, i «nervi», in quanto «contengono l’anima», parlano anche una lingua
fuori-lingua, la quale è né più né meno che una lingua inconscia: «Oltre al linguaggio umano
abituale vi è anche una specie di lingua dei nervi [Nervensprache], di cui l’uomo sano di
regola non è consapevole. Secondo il mio parere, il modo migliore per farsi una
rappresentazione di essa è di ricordare quei procedimenti con cui l’uomo cerca d’imprimere
certe parole nella sua memoria secondo una successione determinata».
Questo brano è molto importante per il nostro assunto, per via del paragone che Schreber
istituisce fra la Nervensprache e la memorizzazione d’un testo. Schreber argomenta: così
come, quando ad esempio impariamo una poesia a memoria, possiamo ripetere fra noi le sue
parole senza che queste vengano pronunciate («ripetute in silenzio»), cioè effettivamente
rappresentate (e da questo si deduce che le parole debbono avere una sostanza diversa da
quella concretamente fonica di cui le rivestiamo), dev’esserci un equivalente «nervoso» delle
nostre parole, che è propriamente la Nervensprache: lingua di parole non rappresentate, non
«eseguite», non pronunciate o, per essere più esatti, lingua nella quale le parole sarebbero
rappresentate non arbitrariamente, ma realmente, perché esisterebbero solo nella loro «vera»
rappresentazione (nella loro scrittura «nervosa»).
Ma il riferimento all’«imparare a memoria» è importante anche per un altro motivo. Come
notava Bergson, imparare a memoria un testo non significa accumulare più tracce mnestiche
di esso, ma acquisire un comportamento, cioè uno schema motorio. Ed è proprio questo che
intende Schreber quando parla della Nervensprache, come risulta dall’episodio degli «uccelli
miracolati», il quale ci consentirà ora di compiere il passo decisivo dalla lingua unica al
«manierismo schizofrenico», cioè dalla più totale subordinazione del simbolico al reale,
all’estremo sganciamento del significante dalla significazione.

47. Sedendo nel parco dell’ospedale in cui è ricoverato, Schreber è assillato da frasi che gli
giungono – egli sostiene – dagli uccelli. Ora, si chiede, come avviene questa trasmissione di
parole della quale nessuno, oltre a lui, è consapevole? La sua teoria è questa: dal momento
che tali parole non sono in effetti pronunciate dagli uccelli (in questo caso anche gli altri le
udrebbero), gli uccelli devono essere stati «miracolati», devono cioè aver assunto in sé per
miracolo frammenti di nervi di defunti. Tali nervi sono caratterizzati dal fatto d’essere
supporto d’una traccia che, come per tutti i nervi umani, è una traccia di parole. Le parole che
tali nervi portano inscritte, nella loro Nervensprache, si trasmettono per una vibrazione (cioè
con un moto ritmico) direttamente ai nervi di Schreber. Va da sé che gli uccelli non hanno
alcuna consapevolezza di ciò che significano le parole che essi trasmettono: le parole
pronunciate dai pappagalli – aveva scritto già nel Cinquecento Benedetto Varchi – non sono
vere parole, ma parole rappresentate.
Incominciamo quindi ad intendere: con la lingua degli uccelli ci troviamo precisamente al
livello della Wortvorstellung. Proprio questo offre a Schreber la possibilità di difendersi dal
bombardamento incessante delle frasi «imparate a memoria» (cioè meramente rappresentate)
degli uccelli. Essi infatti, pur non avendo, essendo uccelli, alcuna consapevolezza del
significato delle parole, sono però «straordinariamente sensibili alle assonanze». Sorpresi da
queste ultime (per esempio Santiago/Carthago, Ariman/Ackermann ecc.), essi dimenticano il
seguito di quel che dovebbero «snocciolare» e «improvvisamente passano ad una sensazione
autentica». Tutto ciò ci consente d’intendere qual è la funzione e l’importanza del
«manierismo schizofrenico»: si tratta, per il soggetto, di sviluppare la «trappola
dell’assonanza» (come s’esprime Schreber), per difendersi da un enunciato proveniente
dall’esterno.

48. Parallelamente e inversamente a questo processo di valorizzazione del significante a


scapito del significato, si verifica nella psicosi un processo ben noto di sgretolamento della
struttura grammaticale e sintattica della frase. Il discorso tende ad interrompersi secondo linee
di discontinuità, o faglie, che sono segnalate nell’enunciato da qualche particella
grammaticale (se ne trovano numerosi esempi in Schreber). In effetti, che cos’è la
grammatica? Essa non modifica il significato delle parole, benché possa determinarlo (frasi
grammaticalmente identiche possono avere significati del tutto diversi), ma determina
sicuramente la significazione complessiva della frase. «Pietro batte Paolo» è sintatticamente
identico a «Paolo batte Pietro», e anche le significazioni grammaticali delle due frasi sono
identiche (in entrambe qualcuno batte un altro), ma la significazione complessiva della
seconda è l’inverso di quella della prima. Che cosa le distingue allora? Evidentemente,
l’ordine delle parole. Nella lingua italiana la grammatica vuole che il primo sostantivo
esprima il soggetto e il secondo l’oggetto. Non sarebbe così in latino, dove la presenza dei
casi rende la significazione della frase molto più indipendente dall’ordine delle parole di
quanto non accada in italiano. Quest’ordine tuttavia non è del tutto indifferente per la
significazione, perché in latino la prima parola della frase è, per così dire, maggiormente
sottolineata, e viene posta in rilievo come centro concettuale dell’enunciato. Dunque la
grammatica esprime una significazione, e lo fa spesso senza ricorrere a significanti
rappresentabili, ma direttamente con la rappresentazione dei significanti rappresentabili (ad
esempio con il loro ordine), vale a dire con modalità che sono proprie della Vorstellung (oltre
che, naturalmente, con l’uso di prefissi, suffissi ecc., i quali però fanno già parte del registro
del significante). La grammatica riguarda insomma il modo in cui i significanti vengono
presentati. La presentazione dei significanti decide della significazione della frase. Ma la
presentazione del significante nella catena dell’enunciato è solo un modo della
rappresentazione: la Darstellung dei significanti è solo un modo della loro Vorstellung. In
altri termini, la grammatica è un sostituto del gesto. Di fatti, quando parliamo, costruiamo
facilmente frasi grammaticalmente scorrette, senza che questo riduca minimamente la
chiarezza di quello che diciamo, perché il gesto e l’intonazione – in breve la rappresentazione
delle parole – suppliscono alle imprecisioni della costruzione grammaticale. Del resto la
grammatica non acquista regole precise se non quando una lingua viene usata per scrivere.
Essa è quindi un modo della scrittura, che supplisce all’assenza del locutore, cioè del soggetto
parlante, del soggetto della Vorstellung e della Vorstellungsmimik. La grammatica è il luogo
d’emergenza del soggetto dell’enunciazione, e perciò non è altro che uno stile divenuto
regola.

49. L’idea d’una lingua materna non è contrapposta, come si crede di solito, a quella d’una
lingua morta, ma a quella di lingua gramatica. «Chiamiamo lingua volgare quella che
impariamo, senza nessuna regola, imitando chi ci nutre», scrive Dante. Già per lui, quindi,
l’apprendimento della lingua (materna) avviene per via imitativa – dunque nel registro della
Vorstellung –: la lingua delle parole rappresentate, «imitate» (la «lingua degli uccelli») è
quella delle mere rappresentazioni di parola, cioè di «parole» che non hanno ancora acquisito
in modo stabile un valore semantico, perché solo il gesto corporeo e l’intonazione (insomma
la Vorstellung) determinano la loro significazione, che può essere ancora del tutto
indeterminata nell’enunciato. La significazione, dunque, dipende anche dal gesto, il quale
verrà poi rappresentato, ma solo nel suo valore di significazione, dalla grammatica e dalla
sintassi. Ma la grammatica e la sintassi, in quanto sono espressioni del gesto, dipendono in
definitiva dal senso dell’enunciazione, il quale è in ultima istanza la partecipazione del
soggetto a un movimento. Fa perciò immediatamente parte della significazione d’una frase
tutto ciò che, nell’enunciato, esprime il gesto, quindi anche tutto ciò che esprime la sua
enunciazione. Ma il senso e l’enunciazione non sono affatto lo stesso. L’enunciazione è una
riduzione del senso ad un’unica determinazione, che non è più di senso, ma già di
significazione. Tener conto dell’enunciazione d’un enunciato significa in definitiva soltanto
tener conto di chi e di quando lo enuncia, cosa ch’è possibile fare benissimo restando nei
limiti della significazione. Il senso d’una frase invece non è affatto significabile nella frase
stessa, neppure attraverso la sintassi o la grammatica. Esso sarà soltanto realizzabile (e non
solo rappresentabile) nello stile, ch’è una funzione molto più complessa di quella della mera
costruzione sintattica. La sintassi, abbiamo detto, è uno stile divenuto regola, cioè divenuto un
tratto di significazione.
Il significato d’una frase è dunque determinato dalla sua enunciazione, e questo è vero
tanto per quei significanti che sono provvisti d’una significazione la quale muta a seconda
delle condizioni dell’enunciato (gli shifters e in generale le particelle dotate di valore
grammaticale), quanto per le condizioni materiali dell’enunciazione stessa. Ad esempio, è
evidente che la parola «fallo» ha significati molto diversi se ad enunciarla è un maestro che
sgrida un bambino svogliato, un arbitro durante una partita, o uno psicanalista nel corso d’un
convegno. La cornice materiale dell’enunciazione (l’aula scolastica, il campo sportivo o la
sala del convegno) è letteralmente inclusa nella significazione dell’enunciato. Ne consegue
che, quando le condizioni dell’enunciazione non sono note, dobbiamo precisare con delle
nuove significazioni la significazione dei significanti ambigui.

50. Ora, in che cosa consiste la disgregazione della struttura grammaticale negli enunciati
psicotici? Certamente non in una scorrettezza grammaticale, cioè non in una trasgressione
della regola. La trasgressione – consapevole o no – implica comunque un certo
riconoscimento della regola. Né la psicosi né la poesia sono caratterizzate dalla trasgressione
della grammatica o di qualche altra regola. In realtà, la trasgressione della regola
grammaticale ha ancora un valore grammaticale. Tanto la grammatica quanto la sua
trasgressione partecipano dello stile, e lo stile è tale anche quando è pessimo: non perché lo
stile e la grammatica siano la stessa cosa, ma perché la grammatica è la riduzione dello stile a
regola, vale a dire è una significazione dello stile. La destrutturazione grammaticale degli
enunciati psicotici corrisponde in realtà all’assentarsi del soggetto della loro enunciazione
anche dal loro enunciato. La destrutturazione stessa è il segno del soggetto, solo che in questo
caso il soggetto è segnalato come assente. In effetti, la destrutturazione grammaticale non è
che la grammatica dell’enunciato psicotico.

51. Quella che, nella psicosi, è stata chiamata talvolta «l’insalata di parole» veniva spiegata
da Freud come il risultato d’una censura che non si cura più di nascondere le proprie tracce. Il
testo nevrotico, anche qualora presenti quelle falsificazioni, quelle sfasature e quegli
anacronismi che sono gl’indizi dell’opera della rimozione, ha sempre cura di serbare una certa
credibilità, come l’opera dell’interpolatore d’un testo. Ciò invece non accade nell’enunciato
psicotico. Tuttavia le conclusioni di Freud sull’intervento d’una censura che non nasconde il
proprio operato vanno motivate. Infatti, a chi non vengono nascoste queste tracce? Un
discorso è sempre fatto a qualcuno. Ma a chi si rivolge l’enunciato psicotico? È questo il
punto: se la «censura» è, in esso, così allo scoperto, è perché non c’è nessuno a cui il suo
operato debba essere nascosto, è perché non c’è un destinatario dell’enunciato psicotico. «Lo
stile è l’uomo», diceva Lacan, riprendendo un celebre motto, ma aggiungeva: «Quello cui ci si
rivolge». E proprio questo soggetto «cui ci si rivolge» che, nella psicosi, manca. O, per
meglio dire, è il soggetto psicotico stesso colui al quale l’enunciato è rivolto. Il soggetto
psicotico non è altro che il destinatario d’un enunciato proveniente da un altro.

52. Dobbiamo valutare, in questo contesto, la struttura temporale della frase dal punto di
vista della sua significazione. E evidente che questa si determina retroattivamente: ogni
elemento che viene ad aggiungersi nella catena del sintagma ha l’effetto di determinare il
significato di ciò che precede (e parallelamente ogni elemento precedente determina il
significato dei significanti seguenti). Non possiamo comprendere una frase se non riusciamo a
ritenerla, cioè a rappresentarcela come un tutto in praesentia. Ogni sintagma dotato di
significazione ha questo andamento retroattivo, che procede inglobando anelli di retroazione
in altri anelli di livello superiore. La messa in funzione della grammatica implica così che la
frase, prima ancora di venir pronunciata, sia rappresentata come un tutto unitario e concluso,
che dunque il suo svolgimento temporale sia anticipato in una rappresentazione spaziale. La
grammatica è quindi, propriamente, la spazializzazione del tempo. Pronunciare una frase
grammaticalmente corretta è possibile solo se, al momento d’iniziarla, sappiamo già, sia pure
confusamente, come la concluderemo. Dire che il processo primario non obbedisce alle leggi
della grammatica (quindi che ignora il tempo e la negazione), come fa Freud, significa allora
sostenere che non ha rappresentazioni d’attesa, ma catene metonimiche libere ed
infinitamente complicate. Il detto psicotico quindi non fa parte del processo primario (come
non ne fa parte il racconto d’un sogno), ma ne riproduce l’andatura nel processo secondario.

53. Se consideriamo gli esempi dei quali Freud, nel testo del 1915 che stiamo in qualche
modo commentando, si serve per mettere in risalto un «tratto ipocondriaco» della schizofrenia
come «linguaggio d’organo», vediamo che proprio una distinzione linguistica gli consente di
rendere conto della differenza fra sostituzione isterica e uso psicotico del linguaggio: nella
prima a permettere la sostituzione sarebbe un’«analogia delle cose» (Sachähnlichkeit), nella
seconda, invece, un’analogia fra le parole. Ma di che si tratta, propriamente, qui? Perché un
comedone dovrebbe essere un sostituto inadeguato della vagina, mentre una borsa avrebbe
un’«analogia di cosa» con essa, secondo l’esempio che fa Freud? Il ricorso alla «realtà della
cosa» non ci può soddisfare: quanto alle cose, non ci sono analogie. Eppure quell’impressione
di stranezza della quale parla Freud, a proposito della sostituzione schizofrenica, è innegabile.
Ora, a che possiamo attribuire questa differenza?
Essa ci diventerà subito evidente se consideriamo la costituzione soggettiva d’una «cosa».
La relazione isterica è dettata da una relazione soggettiva: non tanto da una somiglianza delle
cose, quanto dal fatto che le cose saranno pensate come Sachen, come cose-per-un-soggetto.
Per la psicosi la cosa varrà invece come Ding, come la cosa presa nella sua estraneità, senza
che alcun rapporto possa venirsi a stabilire fra essa ed il soggetto. Un comedone è, sì, come la
borsa, una cavità, ma una cavità preclusa e inoccupabile. Nella psicosi s’interrompe quel
lavoro continuo di tessitura il quale fa della relazione fra un soggetto e dei significanti un
intreccio di rappresentazioni e ripresentazioni complesse e stratificate, che i significanti
appuntano ed indicano, ma senza poterlo mai davvero manifestare. Lacan, nel suo seminario
sulle Psicosi, si serve d’un esempio di grande evidenza per esprimere questa differenza: la
pace della sera. Tutti noi, più o meno – egli dice –, sappiamo, per averla sperimentata tante
volte, che cos’è la pace della sera, e questo ci consente d’intenderci quando usiamo queste
parole. Nella psicosi proprio questa sintesi di rappresentazioni che noi brevemente
appuntiamo con queste parole non può compiersi. Ora, possiamo chiederci che cos’è, in
concreto, questa sintesi soggettiva di rappresentazioni che il linguaggio appunta, ma che solo
la poesia, quando è riuscita, sa esprimere nello stile d’un enunciato. Il significato
dell’espressione «la pace della sera» non ci consegna affatto l’esperienza di ciò che
quest’espressione significa, cioè non ci consegna automaticamente il suo senso. Se non
abbiamo sperimentato quella sensazione di calma dolorosa e dolcissima che talvolta ci
sorprende quando incomincia a scendere la sera, e sappiamo che un giorno è finito, e che
forse esso non è stato vano, e ci riconciliamo perciò con il nostro trascorrere e con la nostra
morte, se non abbiamo provato tutto questo, certo, potremo parlare della pace della sera, ma
quest’espressione sarà, per noi, semplice flatus vocis. Pronunciando quelle parole, resteremo
estranei al loro significato, che pure esse conservano intatto. La differenza fra il senso e la
significazione consiste allora in questo, che la seconda è prodotta da un’esperienza
generalmente soggettiva, mentre il primo in un’esperienza singolarmente soggettiva. Se non
abbiamo mai avuto questa seconda esperienza, potremo avere il vuoto concetto della «pace
della sera», ma non saremo in grado di risolvere questo concetto in rappresentazione (in un
movimento soggettivo, quindi in senso). Saremo semplici tramiti di questo significato e di
queste parole, che però resteranno mute per noi, perché non abbiamo memoria di che cosa sia
veramente la pace della sera. Queste parole avranno per noi significato, ma non senso.

54. Ora, non è affatto detto che tutte le volte che c’imbattiamo nelle parole «la pace della
sera» esse riattualizzino in noi la sensazione alla quale si riferiscono. Esse, infatti, contengono
la loro significazione, non il loro senso. Ora, la significazione è la conseguenza del
collegamento fra un significante ed un significato, ed un significato è un concetto, che non
può costituirsi senza un’esperienza. Ma la significazione non ci costringe affatto a
riattualizzare in noi quest’esperienza, come invece fa il senso. Solo l’arte (in particolare la
poesia) favorisce la riattualizzazione della memoria nell’esperienza, e quindi la produzione di
senso. Se per esempio rileggiamo i primi sei versi dell’ottavo canto del Purgatorio – forse la
più perfetta realizzazione poetica della pace della sera – saremo quasi costretti dal ritmo e
dalla musica dei versi, oltre che dal loro significato, a riattualizzare in noi questa esperienza
(che pure la poesia da sola non sarà sufficiente a creare dal nulla, se non l’avremo
conosciuta). Proprio questa dimensione poetica del linguaggio è preclusa alla psicosi. La
psicosi è il linguaggio in quanto tale, abbiamo detto. Possiamo aggiungere ora ch’è il
linguaggio senza la poesia, cioè il linguaggio ridotto alla sua insensatezza.
IV. La parola poetica

55. Senza dubbio i progressi che la linguistica e la semiologia hanno consentito di


compiere a molte scienze congetturali, e soprattutto alla psicanalisi, sono stati
importantissimi. Essi hanno avuto però l’inconveniente di far pensare che si potessero
spiegare in termini linguistici o semiologici dei fatti che in fondo continuavano a rimanere
enigmatici. Ogni dato linguistico è un dato soggettivo, ed ogni dato soggettivo è un dato
linguistico. Ciò non significa però che linguaggio e soggettività siano termini equivalenti. Il
linguaggio può essere considerato in due modi: o come un fatto generalmente soggettivo, la
cui complessità richiede un approccio trascendentale, cioè fondato su un principio
d’autoevidenza soggettiva, o come un fatto meramente linguistico, assunto nella sua
autonomia. Non è lo stesso: la prima assunzione è infatti quella metafisica, mentre la seconda
è quella operata da una scienza congetturale, la linguistica, che si occupa del proprio oggetto
assumendolo nella sua oggettità, del tutto a prescindere da una fondazione metafisica del
proprio metodo. La linguistica contemporanea, per esempio, ha pensato di potersi occupare
della poesia, che senza dubbio è un fatto linguistico. Ma, in quanto scienza regionale, non
fondata metafisicamente (trascendentalmente), essa non poteva concepire la poesia che come
un fatto oggettivo, e di conseguenza non poteva far altro che cercarla nelle poesie. Le ha
analizzate, passate al setaccio, studiate al microscopio, ed ha trovato che cosa? Soltanto delle
parole. Ma la poesia, ch’è fatta di parole, contiene qualcosa di più delle parole. Nessun
linguista, se il suo sapere non è fondato trascendentalmente, può pensare che la poesia sta
dappertutto, salvo che nelle poesie, e che le parole con cui sono fatte le poesie sono le stesse
con cui è fatto ogni altro enunciato, e non ci dicono nulla su che cos’è la poesia.
La linguistica allora ha spinto più avanti la propria ricerca, ed ha trovato che le parole con
cui sono fatte le poesie hanno qualcosa di particolare: sono metaforiche. Questo, molto
spesso, non è falso. Perciò la linguistica ha concluso che la metafora è l’essenza della poesia,
dimenticando che usiamo in continuazione metafore che non sono poesia, e che molte poesie
non sono metaforiche. Quando si sono accorti di questo, i linguisti hanno compiuto
un’ulteriore distinzione: ci sono metafore poetiche e metafore che non lo sono. Dunque,
l’essenziale, della poesia, è la metafora... purché sia poetica. Ma in base a che cosa possiamo
sostenere che una metafora è poetica? A questa domanda la linguistica non può rispondere,
perché può mostrare chiaramente quali sono le articolazioni interne d’un testo, ma non può
dirci nulla su quali sono i suoi effetti su di noi.

56. I migliori linguisti contemporanei hanno fatto molto per smentire la definizione antica
della metafora come similitudine abbreviata. Certo, questa definizione è errata: non esiste
prima una similitudine che poi viene abbreviata in metafora. Ma questo non vuol dire che la
metafora non abbia nulla a che vedere con la similitudine. Esiste una metafora che, sin dal
primo momento, è carica d’una similitudine. Una similitudine è un giudizio: «Questo è simile
a quello». Ma che significa «è simile»? Quando diciamo che una goccia d’acqua è simile ad
un’altra diciamo una sciocchezza (due gocce d’acqua, nel reale, non sono affatto simili), o una
mera banalità (perché esse sono simili solo in quanto vengono assunte da noi nella loro
generalità, e non singolarmente). Se invece, come Orazio, diciamo che Omero è simile ad un
fiume, questo è un giudizio complesso, che ci costringe a trovare, fra cose tanto diverse come
un fiume ed un poeta, un tratto di similitudine: cosa non facile, perché ne possiamo trovare
molti, o nessuno. Ma proprio per questo, vedendo Omero attraverso il fiume e il fiume
attraverso di lui, vediamo cose che prima non avremmo mai visto. Il giudizio di similitudine,
quindi, ci costringe a un lavoro di decifrazione delle somiglianze. Ma a questo punto la
similitudine è già diventata metafora, per quanto diluita.
57. Traiamo, per comodità d’esposizione, un esempio di metafora dal testo inaugurale sulla
questione, la Poetica d’Aristotele, e svolgiamo la sua similitudine. Tale metafora, per poter
essere intesa come tale, richiede che si sappiano due cose: che lo scudo è l’attributo d’Ares, e
che la coppa è quello di Dioniso. Solo allora «lo scudo di Dioniso» potrà intendersi come una
metafora della coppa. Se ne deduce, dice Aristotele, una similitudine, che in realtà è una
proporzione (in senso aritmetico):

coppa : Dioniso = scudo : Ares.

La «similitudine» dunque implica piuttosto un’identità: la proporzione esprime, col segno


d’uguaglianza, l’identità fra due rapporti, quello fra la coppa e Dioniso e quello fra lo scudo
ed Ares. Si tratta qui, evidentemente, di due rapporti di rappresentanza: la coppa sta per
Dioniso, è la Vorstellungsrepräsentanz che ci facciamo d’un dio; la coppa, insomma, è il
significante (metonimico) di Dioniso. L’esempio scelto da Aristotele punta diritto al cuore del
problema, e qui il problema è: come può accadere che la metafora produca, pur essendo fatta
soltanto di parole (di significanti) qualcosa che va al di là del significante e del suo rapporto
col suo significato? In fin dei conti, quando incontriamo una metafora, noi riusciamo ad
intendere che cosa essa significa. Questo è solo un effetto di significazione. Ma la metafora
non è soltanto questo. Essa è molto di più, perché ci schiude degli orizzonti nuovi, e ci mostra
come evidenti delle cose che prima ignoravamo. Una metafora, in altri termini, contiene più
sapere di quello che otterremmo semplicemente sommando le significazioni, esplicite ed
implicite, che la compongono, come i trattatisti dell’età barocca – Emanuele Tesauro, per
esempio – hanno visto molto meglio dei linguisti d’oggi. Così nella metafora, pur banale, che
abbiamo citato poco fa, quella del «fiume» dei poemi omerici, non troviamo solo la somma
del concetto di fiume e del concetto che ci facciamo dei poemi omerici, ma un giudizio
estremamente complesso: «I poemi omerici scorrono come qualcosa di naturale, come se non
fossero stati composti da un uomo, ma creati da un dio; essi contengono molte imperfezioni,
come i fiumi trascinano molti detriti, e tuttavia sono pieni d’una loro forza, e per questo sono
essenziali per il nostro sapere, e vitali per la nostra esperienza...». Potremmo continuare
ancora a lungo, ed estrarre dalle poche parole contenute nella metafora oraziana un’intera
filosofia del poetare e del vivere. Questa ricchezza enorme, che giace addormentata in essa, è
ancora un effetto di significazione, o proviene dal senso che, come per miracolo, ci viene
schiuso da una metafora, se solo ci lasciamo condurre dalle sue parole nel labirinto delle
significazioni ch’essa cattura e, al tempo stesso, rende vive?

58. Sarebbe del tutto inutile obiettare che «lo scudo di Dioniso» non è poi un gran che,
come metafora. Infatti proprio qui sta l’interesse dell’esempio. Non siamo distratti
dall’essenziale, e l’essenziale, nell’esempio, è la significazione. In altri termini, per ora,
possiamo trascurare il problema di vedere se davvero la metafora e la poesia si implicano a
vicenda. Nella metafora, abbiamo due significazioni, chiuse dietro una sola parola, «scudo»:
quella di «scudo» e quella di «coppa». «Scudo», nell’espressione «lo scudo di Dioniso», non
ha solo il significato di «scudo», dal momento che lo scudo di Dioniso è, propriamente, la
coppa: possiamo dire allora che il significato di «scudo», nella metafora in questione, è anche
il significante «coppa», con il suo significato. C’è metafora quando un significante, oltre a
rappresentare il suo significato, rappresenta anche un altro significante. Questa
determinazione duplice d’un solo significante produce un sovrappiù di sapere: con la metafora
non apprendiamo solo che la coppa rappresenta Dioniso come lo scudo Ares; se si trattasse
solo di questo potremmo dire: «La coppa d’Ares»; anche questa sarebbe una metafora, ma
oscura, forzata, quasi come un indovinello o una freddura, perché, mentre il vino può servire
davvero per difendersi, uno scudo non può servire per bere. La seconda è allora una metafora
morta, in quanto produce una significazione vuota o, nella migliore delle ipotesi, solo
stupidamente comica. Borges, in un suo scritto sulle saghe islandesi, dà un lungo elenco
esilarante di queste metafore forzate: «Frecce del mare», le aringhe; «Maiali delle onde», le
balene; «Gamba della scapola», il braccio, e avanti per sei pagine. Qui cominciamo a capire
che distinguere una buona metafora da una cattiva è possibile in base a qualcos’altro che a
un’ineffabile essenza che chiamiamo «poesia».

59. Ma che significa dire che la significazione d’una parola include quella d’un’altra?
Significa, per esempio, che la significazione di «coppa» e quella di «scudo» sono identiche,
non in generale – perché esse restano due significazioni perfettamente distinte –, ma che lo
sono da un solo punto dì vista: quello della difesa che questi oggetti consentono. Ora, come
possiamo definire un aspetto individuabile ed ineliminabile d’una significazione? Vedremo
nella seconda parte di questo volume che l’unico termine disponibile è «ipostasi». Nel
concetto di coppa e nel concetto di scudo sono incluse due ipostasi che coincidono
perfettamente, per l’ottimo motivo che, in realtà, sono una sola. Una metafora è dunque
sostenuta da questa identità delle due ipostasi (che invece non interviene nella metafora «la
coppa d’Ares»). Una significazione può valere per un’altra, può sostituirla, cioè può diventare
il suo significante, solo a partire dall’esistenza d’un’identità ipostatica. Anche «la coppa
d’Ares» è possibile, come metafora, in quanto la proporzione individuata da noi stabilisce già
una prima identità ipostatica (quella della relazione fra un Dio e l’oggetto che lo rappresenta).
Ma, da sola, questa identità non è sufficiente a produrre alcun senso metaforico. Questo
invece si produce solo nel primo caso, cioè per «lo scudo di Dioniso». Una buona metafora si
distingue dunque da una metafora forzata quando è fondata non solo sull’identità ipostatica
inclusa nella relazione fra due significanti e due significazioni, ma anche su una seconda
identità ipostatica fra queste due significazioni, mancando la quale la metafora sarà ancora
comprensibile, ma solo a fatica, e non produrrà alcun senso nuovo.
Una metafora consiste quindi nella metamorfosi della significazione prima (che però non
viene cancellata) in una significazione seconda (che tuttavia si viene a profilare solo sullo
sfondo della prima). Quando però la metafora produce effettivamente un senso nuovo, questo
effetto realmente metaforico è consentito solo da una duplice identità ipostatica delle
significazioni poste in relazione in essa. Solo questo spiega per quale motivo per tutti noi è
molto più facile comprendere il significato d’una metafora, che comprendere perché è così
facile comprenderlo. La metafora, infatti, non fa che mettere in evidenza, nella lacuna di
significazione in cui consiste (lacuna prodotta dalla caduta del secondo significante, sostituito
dal primo), l’identità delle due ipostasi comuni. Noi infatti siamo costretti, per colmare questa
lacuna, a compiere un lavoro di soggettivazione della significazione delle parole che formano
la metafora, lavoro che ci risparmieremmo se l’espressione di partenza non fosse metaforica.
Infatti, quando riusciamo a sciogliere una metafora nei suoi elementi costitutivi, possiamo
constatare ch’essa si risolve in un giudizio (ad esempio: «Bere è un modo per difendersi»).
Da questo punto di vista, dunque, la descrizione tradizionale della metafora, che noi stessi
abbiamo adottato poco fa, secondo la quale una metafora è data dal fatto che un significante
significa un altro significante, è solo apparentemente adeguata all’essenza della metafora.
Solo se teniamo conto dell’identità delle due ipostasi ci diviene chiaro invece per quale
motivo una metafora contiene un significato maggiore della somma dei significati dei due
significanti di partenza. Infatti, per intendere il significato d’una metafora, noi dobbiamo
prima di tutto soggettivare realmente i contenuti concettuali delle due significazioni, in
secondo luogo dobbiamo isolare da essi la loro ipostasi comune, e in terzo luogo dobbiamo
articolare in un giudizio (o, molto spesso, anche in più giudizi) il contenuto della metafora.
Portare a termine questo processo attraverso delle significazioni è in realtà un lavoro molto
complesso, che ci viene del tutto risparmiato dalla metafora, nella quale noi troviamo la
soluzione del problema prima ancora che la sua formulazione (del resto possiamo non
accorgerci neppure del fatto che una metafora è la soluzione d’un problema, e tuttavia
comprenderla perfettamente). Ma noi troviamo già questa soluzione solo perché nella
metafora l’ipostasi è direttamente evidenziata nella sua presenza dal nostro lavoro di
decifrazione, senza il quale non c’è in effetti alcuna metafora, anche se un testo la contiene.
Una metafora, quando viene compresa, cioè soggettivata, abbraccia nella sua realtà di
significazione la realtà soggettiva di molti giudizi, i quali però possono anche non essere
formulati chiaramente da noi. Comprendere una metafora equivale a formulare questi giudizi,
anche se formularli in effetti, paradossalmente, come dicevamo, non è affatto indispensabile
per comprenderla. La metafora, per così dire, ci regala, attraverso la presenza reale
dell’ipostasi comune alle due significazioni, l’essere di questi giudizi che non formuliamo,
perché essa provoca in noi un reale movimento soggettivo, producendo effettivamente un
senso. Il senso della metafora equivale ai giudizi non formulati. Potremmo forse giungere a
dire che l’essere stesso (la funzione della copula) è il prodotto della metafora, e che lo stesso
principio d’identità (A = A) è un effetto metaforico, prima ancora che un principio logico.
Una metafora insomma si potrebbe paragonare ad una scorciatoia, con la quale noi
abbreviamo moltissimo il percorso della serie di giudizi che sarebbero necessari ad intenderla,
e con la quale, nello stesso tempo, riusciamo a giungere contemporaneamente a tutte le
conclusioni di questi giudizi, che pure non sono stati formulati. Una metafora è quindi un
effetto assolutamente manifesto d’entropia negativa, dal momento che, con uno sforzo
ridottissimo, essa ci fa guadagnare un sapere molto articolato e molto vasto.
Ora, un significante come può divenire un significato? E come possono le due ipostasi
comuni dei due significanti in gioco nella metafora (uno solo dei quali è rappresentato
realmente nel testo) essere presenti, come abbiamo detto, nell’enunciato metaforico? In un
certo senso, è lo stesso problema con il quale ci siamo confrontati implicitamente poco fa,
notando il carattere di significazione della costruzione grammaticale e sintattica. In entrambi i
casi, ci troviamo di fronte a dei significanti irrappresentabili, perché sono già
rappresentazioni, ma divenute identiche a sé come lo sono i concetti. Non c’è verso che la
linguistica possa venire a capo di questo problema, dal momento che ignora la differenza fra il
significante in quanto tale e il significante in quanto rappresentato (Saussure, è vero,
riconosce che il significante in sé non è meno concettuale del suo significato, ma questa
osservazione non viene affatto sviluppata nel suo Corso). In realtà, la significazione è l’atto di
mettere in rapporto due entità che sono solo concettuali, il significante ed il significato,
rappresentando tutto ciò con la pronuncia o la trascrizione del significante. Dunque la
significazione è un’azione, ma è un’azione che non viene eseguita. Non abbiamo bisogno di
difenderci per sapere che cos’è uno scudo: basta la parola «scudo», pronunciare o pensare la
quale è veramente un’azione minima, per arrivare dove vogliamo nell’enunciato, e questo è
sufficiente in pratica per dire qualunque cosa nel linguaggio, cioè per dire nella parola vuota,
in cui non abitiamo.
Ma un significante, nella metafora, come può stare al posto d’un significato, accanto al
significato del significante effettivamente rappresentato nell’enunciato? Lo può perché un
significante ed un significato in quanto tali a loro volta sono soltanto azioni che non vengono
compiute. Ciò che viene agito in effetti è solo la rappresentazione delle parole. Sia il
significante sia il significato sono solo delle grandezze «immaginarie» in senso matematico,
come quel numero !-1 che non esiste, e con il quale, comunque, possiamo calcolare. Perciò
una significazione può valere come significante allo stesso modo in cui la mancanza di segno,
in un sistema, è già un segno. Ma tutto questo non produce ancora l’effetto concretamente
soggettivo della metafora (tutto questo infatti vale indifferentemente per una «buona» o per
una «cattiva» metafora). In realtà, nel numero «immaginario» dell’identità che viene creata
dalla metafora – sia di quella fra un significante ed un altro, sia di quella fra le due ipostasi dei
loro significati –, questa identità (cioè questa !-1) è concretamente realizzata dal nostro
movimento soggettivo, che può essere un movimento vano (nel caso della «cattiva» metafora,
per esempio nelle cosiddette freddure) o un movimento che produce senso, quando la
metafora è effettivamente tale.

60. Chiamiamo metaforizzante la significazione che, nella metafora, vale come significante
(ad esempio la significazione di «scudo») e metaforizzato quella che funge da significato (il
significante «coppa» con il suo significato). Dire «lo scudo di Dioniso» non significa solo,
come dire «la coppa d’Ares», che fra l’oggetto e il dio c’è un rapporto di rappresentanza,
significa anche qualcosa di più: dal momento che lo scudo è un’arma, cioè uno strumento di
guerra (mentre la coppa si usa nei conviti), e che Ares è il dio della guerra (mentre Dioniso è
quello dell’ebbrezza e della pace), dire «lo scudo di Dioniso» significa anche dire che la
coppa è per Dioniso ciò che per Ares è lo scudo, e che quindi il vino è un’arma che consente
di difendersi dai dolori della vita. Questo significato ci è reso presente dall’ ipostasi, che
possiamo indicare come «arma di difesa», comune sia al significato di «coppa», sia a quello di
«scudo». S’è vero che dietro lo scudo vediamo profilarsi una coppa, è anche vero che questa
coppa si trasforma in un’arma: questa metamorfosi è compiuta quasi miracolosamente dal
lavoro che ci porta ad isolare l’ipostasi comune alle due significazioni. Dioniso, così, cessa
d’essere un dio molle ed inoffensivo, per diventare un guerriero del piacere. «Lo scudo di
Dioniso» ci dà un’idea di Dioniso. Che cosa succede invece con la metafora reciproca, «la
coppa d’Ares»? Dietro la coppa, si profila lo scudo, ma questo scudo non può riconvertirsi in
coppa, perché non può servire per bere (non esiste che una sola ipostasi comune alle due
significazioni, quella che possiamo indicare come «rappresentanza d’un dio»). In quest’ultimo
caso la significazione di significazione (la metafora) non produce nessuna significazione in
più rispetto alla mera relazione di sostituzione d’una significazione con un’altra, mentre nel
primo caso la metafora mette in rapporto due significazioni che s’illuminano a vicenda. In
altri termini, il giudizio che possiamo estrarre da «la coppa d’Ares» è solo quello di
similitudine, perché nessuno scudo potrà mai servire per inebriarsi, mentre dalla prima
metafora possiamo trarre, come abbiamo visto, una serie abbastanza lunga e articolata di
giudizi diversi, dai quali ci viene dato un nuovo insegnamento, che non avremmo sospettato
nella rappresentazione convenzionale d’un Dioniso con la coppa: che c’è un coraggio del
piacere, una divinità dell’ebbrezza, una forza dell’abbandono, e che tutto questo è Dioniso,
che tutto questo è un dio. Noi moderni non potremmo capire neppure che questa è una
metafora se non sapessimo qualcosa di mitologia. Ma il nostro sapere mitologico è un sapere
morto, vuoto. Gli antichi dei non sono per noi che meri nomi. Ed ecco che di nuovo la
metafora, mettendo al lavoro il nostro sapere vuoto, produce un sapere che non sapevamo
d’avere. La metafora, anzi, pare costringerci a riempire di noi le parole, ad abitare il
linguaggio. Essa, in realtà, crea dal nulla un nostro nuovo modo d’essere noi stessi, cioè
produce senso. Una vera metafora, anche quando è convenzionale, è sempre capace d’avere
su di noi questo effetto, è sempre capace d’introdurci al senso di quello che diciamo o che
sentiamo.
Certo, questa costrizione non è assoluta. Il fatto che ci sia una metafora non ci costringe
affatto a comprenderla, ma si limita ad invitarci a farlo, facilitandoci il compito. Tuttavia
questa facilitazione si traduce per noi immediatamente in un acquisto, in termini d’entropia
negativa, di sapere: l’automatismo stesso delle significazioni e dei loro rapporti produce in noi
un senso, a condizione che accettiamo di far risuonare in noi la metafora. Questo automatismo
alla rovescia, quindi, va spiegato. Come può accadere che l’intreccio delle significazioni
c’inviti a soggettivare la significazione di quello che udiamo o che leggiamo? Ciò è possibile
solo se il senso e la significazione sono registri distinti, ma contigui.

61. Contrariamente a quanto si crede di solito, e a quanto noi stessi avevamo pensato prima
di scrivere La formazione degli analisti, il senso d’una proposizione non è affatto incluso in
essa (se così fosse qualunque metafora sarebbe immediatamente trasparente per chiunque,
mentre invece certamente non è così). Ma in che rapporto è il senso con la verità d’una
proposizione? Una frase come «questo cerchio è quadrato» ha una sua significazione, ma
certo non può essere vera: una stessa figura geometrica non può essere nello stesso tempo due
figure diverse; non possiamo farci un’immagine-schema d’un «cerchio quadrato», e non
possiamo concepire nulla che abbia entrambe queste determinazioni. Una proposizione non
vera è comunque dotata di significazione (se così non fosse non potremmo neppure dire che
non è vera). Ma il senso non è identico con la verità, per esempio con la non contraddittorietà
d’una proposizione. Nulla esclude che l’espressione «cerchio quadrato», la quale è
geometricamente e logicamente falsa, possa esprimere qualche verità in un certo contesto o in
una certa situazione d’enunciazione. Ma, se può esprimerla, non acquista forse anch’essa una
sua verità?
Possiamo iniziare ora a precisare che, se la verità non necessariamente produce senso, il
senso produce sempre verità. Quest’affermazione, poi, non è affatto contraddittoria come
potrebbe sembrare. Il termine «verità», infatti, ha in essa due significati diversi (si tratta
insomma d’un caso d’omonimia): la prima volta esso indica la verità astratta (per esempio
geometrica o logica) della significazione della frase assunta a prescindere dalla sua
enunciazione; la seconda invece indica la verità che si produce in una singola enunciazione
(per esempio le parole «cerchio quadrato», se le utilizziamo per indicare la contraddittorietà di
qualcosa, acquistano una loro verità). Ma con questo non siamo usciti d’un passo dalla
significazione: abbiamo solo ampliato il campo grammaticale – se così possiamo esprimerci –
che la determina. Tutto ciò, comunque, non ha ancora nulla a che vedere col senso. Per poter
parlare di senso, bisogna che un’espressione ne sia dotata per qualcuno, cioè dobbiamo
riferirci non soltanto alla generica situazione dell’enunciazione della proposizione, ma anche
alla concreta ed in definitiva non solo linguistica esperienza di chi la enuncia o la sente
enunciare.
Tuttavia le cose non sono così semplici, perché non possiamo stabilire una linea di confine
precisa fra la significazione, intesa come concetto linguistico, e il senso, inteso come concetto
psicologico. Una proposizione vera è infatti tale solo in base a dei criteri di riferimento (a
degli assiomi). Ma la logica formale ha potuto assiomatizzare i propri criteri di verità solo
perché ha fuorcluso dal proprio campo il soggetto concreto dal quale o al quale è enunciata la
proposizione. Questa fuorclusione, per la scienza classica, è non solo possibile, ma anche
doverosa; tuttavia, benché sia certamente utilissima nel campo delle scienze, ha il suo prezzo:
la regionalizzazione delle scienze e la cancellazione del problema del loro fondamento (è
questa la «crisi delle scienze europee» segnalata a suo tempo da Husserl). La psicanalisi,
invece, se per un verso ha seguito i principi delle scienze classiche, rifiutando perciò
d’affrontare come un problema di propria pertinenza il tema del fondamento trascendentale
della verità ch’è in gioco nella sua esperienza, per un altro vuol essere proprio la scienza della
soggettività: per lo meno è in questo modo che Freud presenta la propria teoria, riferendosi al
campo delle scienze esatte, mentre Lacan tenterà di dimostrare che la psicanalisi è una scienza
congetturale. Ma una scienza della soggettività che non fosse soggettivamente fondata
sarebbe una falsa scienza, come la psicanalisi stessa è inevitabilmente per ogni epistemologia
che parta dal concetto classico di scienza (a questo proposito le opinioni di Popper e quelle di
Husserl, per esempio, coincidono). La psicanalisi si trova perciò al cuore d’una
contraddizione che ha ereditato da una parte dal suo riferirsi all’orizzonte della scienza,
dall’altra dal fatto d’essere una teoria e una pratica della concreta soggettività. E non a caso
questa contraddizione si manifesta direttamente nella concezione che la psicanalisi, con
Lacan, s’è fatta del senso (la stessa che noi stessi avevamo adottato prima della Formazione),
considerandolo per un verso come un momento del tutto soggettivo, e quindi come un fattore
di verità soggettiva, per un altro come un’area d’intersezione fra il simbolico e l’immaginario,
e quindi come una sorta d’area imprecisa di significazione, nella quale il senso stesso viene
facilmente confuso con l’indeterminato associarsi delle rappresentazioni inconsce, che invece
di per sé hanno tanto poco senso che il loro prevalere è anche il prevalere dell’insensatezza.
A differenza di quanto avevamo fatto noi stessi nella prima edizione di questo volume, non
possiamo sostenere che un enunciato è dotato di senso quando ha una significazione
astrattamente vera, cioè vera per quel soggetto qualunque che la stessa filosofia ha potuto solo
supporre astrattamente, o che per la psicanalisi è il non meno astratto soggetto rappresentato
dal significante. La formula di Lacan «un significante rappresenta un soggetto per un altro
significante» di per sé non determina in nessun modo il soggetto rappresentato, per quanto
numerosi siano i significanti che lo rappresentano. Assunto per il versante del significante,
anzi, il soggetto resterà sempre indeterminato, un buco nella significazione, tanto che l’effetto
dell’analisi, per Lacan, dovrebbe essere proprio d’insegnare a tollerare questa
indeterminazione che, in ultima istanza, cioè nel reale, è identica alla morte. Eppure non c’è
dubbio che l’esperienza della psicanalisi non riguarda certo questo soggetto qualunque,
perché riguarda invece il soggetto concreto, individuato da una storia, da una patologia e da
un desiderio.
Ora, per questo soggetto, che certo è anche, ma non solo, un soggetto qualunque, non è
affatto possibile distinguere astrattamente la verità della significazione d’un enunciato dal
senso che questo può avere per lui, dal momento ch’egli stesso, con la sua verità e con la sua
menzogna – diremmo con la sua carne, se questa parola non fosse troppo arcaica – è in
definitiva il punto assiomatico essenziale, benché del tutto enigmatico, della verità di quanto
afferma. Non basta quindi che una proposizione metta astrattamente in azione o in
movimento un soggetto perché possiamo dire, come avevamo fatto noi stessi in precedenza,
ch’essa è dotata di senso (cioè che mette realmente in azione il soggetto).
Una sia pur minima esperienza della clinica psicanalitica c’insegna che la verità astratta e
vuota non ha alcuna incidenza sulla decisione soggettiva, e che essa non è affatto sufficiente a
sbloccare, per esempio, nessuna inibizione (nessun agorafo-bico riuscirà ad attraversare una
piazza perché sa razionalmente di non correre nessun pericolo a farlo; egli, infatti,
attraversando la piazza, corre un altro pericolo, che per lui è molto più reale dell’atto
insignificante d’attraversarla). Tuttavia non possiamo neppure distinguere nettamente fra la
significazione ed il senso se, facendolo, non li articoliamo in qualche modo, perché, se
potessimo farlo, non potremmo neppure giungere a comprendere quali sono i motivi d’una
fobia o d’un’inibizione.

62. Dobbiamo quindi distinguere una verità di significazione, la quale è parziale, perché
definita solo dall’adeguamento d’una proposizione ad alcune regole logiche formali (e per
questo è sempre dimostrabile, ma non necessariamente soggettivabile), da una verità di senso,
che invece è per definizione soggettiva, del tutto indipendentemente dal fatto che la
proposizione sia vera o falsa nella sua significazione. Nel contempo, però, abbiamo visto che
queste due verità non sono totalmente indipendenti, e non possono esserlo perché, se lo
fossero, noi dovremmo rinunciare alla prospettiva trascendentale, che consiste nel derivare
tutti i differenti modi della verità da un unico principio soggettivo, e perché, se rinunciassimo
a questa prospettiva, molti fatti ci resterebbero inesplicabili, per esempio il motivo per cui un
testo poetico, benché sia fatto solo di parole e di significazioni, ci facilita il compito
d’assumere soggettivamente la sua significazione, dandogli un senso. È evidente d’altra parte
che la verità che interessa alla psicanalisi non è affatto quella della significazione, ma quella
del senso. Si può constatare ad una semplice lettura dell’Interpretazione del sogni, per
esempio, come la mancata distinzione fra queste due significazioni della parola «verità»
costringa Freud a dei veri tours de force dimostrativi, che del resto non riescono minimamente
a fondare la psicanalisi se non come una scienza eventuale.
63. Ora, abbiamo visto che la poesia è un modo per facilitare l’assunzione delle
significazioni nel senso. La metafora stessa, anche se non è «poetica» – e quella da cui siamo
partiti come esempio, «lo scudo di Dioniso», pur essendo dotata d’un suo senso, se
l’interpretiamo, è certamente ben poco poetica –, pare costringerci a un sapere che non
sapevamo. Quando però troviamo una metafora che ci sorprende, è perché essa ci dona un
sapere che non sapevamo d’avere, e riconosciamo qualcosa che non conoscevamo. Ora,
com’è possibile riconoscere qualcosa che non si conosceva? Lo è solo ad una condizione
temporale: che sia possibile acquistare un passato diverso da quello che credevamo d’avere,
e che tuttavia è più nostro, più vero, e più attuale dell’altro. Non è un sofisma, come potrebbe
sembrare, e vedremo più avanti che la stessa efficacia della psicanalisi si può spiegare solo se
ammettiamo che il tempo si produce e riproduce continuamente, nelle sue tre dimensioni,
dall’atto soggettivo. In realtà, non stiamo dicendo nulla di straordinario. Infatti riconoscere
come nostra un’esperienza che non abbiamo fatta è quel che si dice comprendere. La vera
significazione del termine «comprendere» dev’essere riferita al prodursi del senso. La
difficoltà del compito dell’insegnamento, per esempio, è tutta racchiusa in quest’esigenza. E
un bravo insegnante colui che rende manifesto, nel suo operare, il senso di questo stesso
operare, aprendolo a coloro che lo ascoltano e facendolo divenire immediatamente il loro.
Esistono dei modi per favorire questa comprensione, esistono addirittura delle tecniche per
aggirare l’inerzia della significazione e per produrre il senso. La retorica, quando ancora
esisteva, era uno di questi. Freud ne studiò accuratamente un altro, il motto di spirito (tutto il
libro sul Witz può essere riletto alla luce di questo concetto del senso come verità). Un terzo
modo è quello che abbiamo scelto come guida, la poesia. Cerchiamo di comprendere ora in
che cosa essa consiste.

64. È proprio vero che la poesia è necessariamente metaforica, come la linguistica ha


sostenuto spesso, almeno a cominciare da un famoso saggio di Jakobson? A dire il vero,
questa ci pare una generalizzazione ingiustificata. Un esempio potrà farci da guida anche qui.
Consideriamo il frammento 140 V. di Alceo:

La grande sala rifulge di bronzo,


tutto lo spazio s’orna per Ares
d’elmi lucenti, e dai cimieri ondeggiano
bianchi pennacchi equini,
ornamento alle teste degli uomini;
tutt’intorno disposti nascondono i chiodi
lucenti scrinieri di bronzo, riparo al dardo robusto,
e vi sono corazze di lino nuovo,
concavi scudi gettati per terra;
e accanto spade cicladiche e poi molte cinture e tuniche.
Dimenticarle, queste armi, non dobbiamo
dopo che demmo inizio a quest’impresa.

Colpisce subito, in questo frammento, la totale mancanza d’ogni metafora, anzi d’ogni
figura retorica. C’è solo la possibilità d’una metonimia, nel caso che, per «Ares», s’intenda
«guerra». Ma per i greci la guerra e il suo dio sono la stessa cosa. Concediamo pure, tuttavia,
che questa sia una metonimia, cioè che qui una parola ne sostituisca un’altra. Per il resto
abbiamo solo un elenco d’oggetti. La poesia arcaica concedeva molto spazio a simili elenchi,
che a noi paiono del tutto impoetici (si veda il catalogo delle navi in Omero, per esempio), e
che invece gli antichi sembravano apprezzare molto. Dobbiamo dire allora che questo testo
d’Alceo non è poesia?

65. Prima di tentare di rispondere a questa domanda, dobbiamo chiarire un punto. Fra tutti
gli studiosi di retorica (antichi e moderni) non c’è mai stato accordo sullo statuto della
metonimia. Anche a voler trascurare tutti coloro per i quali la metonimia in realtà sarebbe una
sineddoche («la parte per il tutto», come recita la formula), essi sono d’accordo solo sul fatto
che al nocciolo della metonimia c’è un rapporto di contiguità, mentre al nocciolo della
metafora c’è un rapporto di somiglianza. Ma, posta così, la distinzione è più apparente che
reale. Una metonimia (o sineddoche) come «beviamo un bicchiere» in realtà ha la stessa
struttura della metafora, benché la sostituzione si effettui per contiguità (il bicchiere al posto
del vino) invece che per somiglianza: in entrambi i casi una parola ne sostituisce un’altra. Ma
questa distinzione è più apparente che reale, dal momento che nemmeno fra la coppa e lo
scudo c’è alcuna effettiva somiglianza. La vera somiglianza – anzi identità – nella metafora
«lo scudo

Libro secondo

IL PROBLEMA DELLA VERIFICA


I. Psicanalisi e medicina

111. Sappiamo ancora che significa fare? Conosciamo ancora la sapienza dei gesti, la consumata
abilità delle mani, la leggerezza del tocco, la grazia del segno, la profondità del respiro che, con il
fare, si trasmette a una cosa, la quale poi ne serba a lungo – o forse addirittura per sempre – la
memoria? Sappiamo ancora tutto questo, in un modo che non sia nostalgia? Quando il fare era
poíesis, non si cercava la poesia in nient’altro che nel fare. Il poeta era un artigiano delle parole,
come l’artigiano era un poeta del fare. Queste antiche sapienze, ormai spazzate via da quella che
chiamiamo produzione, ci stanno per sfuggire. Ma la volgarità che c’invade sarebbe ancora poco
preoccupante se riguardasse solo i manufatti. In fin dei conti, anche la civiltà industriale ha finito
per creare prodotti «validi esteticamente». Ma appunto, viviamo circondati come non mai da oggetti
gradevoli, confortevoli anche nel loro aspetto. Ma questa piacevolezza industriale è solo estetica,
non è più etica come poteva essere, un tempo, la linea semplicissima d’un vaso. E questa decadenza
non è affatto estetica, perché è, nel significato più vasto del termine, culturale. All’accumulazione di
sapere non corrisponde nessuna vera cultura, perché la cultura non è fatta di sapere, ma di simboli,
di miti condivisi. Oggi non c’è più nulla che si condivida, perché sembra che nulla ci divida. Anche
lamentarsene è spiacevolmente moderno. Lamentarsi di quanto s’è perduto non ci restituisce
l’oggetto della nostra nostalgia. Forse rende solo questa perdita sempre più ineluttabile. I nostri
saperi moderni, «le magnifiche sorti e progressive», non sono che sterminate sabbie mobili nelle
quali affondiamo ogni giorno di più, e forse tanto più profondamente quanto più recalcitriamo.
Possiamo pensare di stabilire qualche punto fermo in questa vasta incultura, trasformando in cultura
il nostro stesso naufragio? Ma che altro dobbiamo sforzarci di pensare, se non l’impensabile, di
proporre, se non l’improponibile, di volere, se non l’impossibile? Se la psicanalisi non può servire a
questo, che importa della psicanalisi? E può servire forse a qualcos’altro, se non riesce in questo?

112. Come l’arte del poeta antico, o dell’antico artigiano, la psicanalisi è una pratica, non una
tecnologia. Una pratica, vale a dire una tecnica. Il tekhnítes è l’artista, colui che sa nel suo fare. La
tecnologia, invece, è solo l’applicazione d’un sapere. Possiamo definire la tecnologia come quella
forma di prassi (vale a dire d’azione sul reale attraverso il linguaggio) che non ha, col soggetto,
alcuna relazione, perché non gl’impone nessuna decisione essenziale. Così la pubblicità è una
tecnologia, perché non s’incarica d’altro che di sapere quali sono i modi migliori per ottenere un
certo effetto di convincimento. La politica invece è una pratica, perché non può evitare di porsi la
questione dei propri fini e dei propri fondamenti soggettivi. C’è da chiedersi, certo, se esiste ancora
qualcosa come una politica. In fin dei conti la politica è, etimologicamente, il governo della pólis,
cioè d’un luogo in cui tutti i cittadini possono incontrarsi. Ma in fin dei conti chi sa che non sia
proprio lo sviluppo dei mezzi di comunicazione a ristabilire in futuro, in un mondo divenuto d’un
tratto troppo piccolo, una dimensione politica? Chi sa se proprio le sabbie mobili nelle quali adesso
sprofondiamo non potranno servirci come fondamento, domani? Per ora, la tecnologia sta alla
pratica come la scienza sta al sapere filosofico in generale, e riproduce, nella prassi, quella
fuorclusione del soggetto che definisce la scienza rispetto agli altri saperi.

113. La scienza ha sempre operato una vera e propria fuorclusione del soggetto. La sua stessa
passione della soggettività la spingeva in questa direzione e, se non avesse seguito quest’impulso,
essa avrebbe certamente mancato il suo obiettivo. Del resto soltanto grazie a questa fuorclusione si
poteva porre la questione del soggetto, che è la questione moderna kat’exokhén È possibile che un
giorno risulti che uno dei successi maggiori della scienza sia stato di dare al soggetto un
fondamento nel reale. Di fatti, abbiamo definito il soggetto come un non reale: soggetto è ciò che,
per il fatto stesso di porsi, s’esclude da un reale che fuorclude. È per questo che il concetto stesso di
soggettività è essenzialmente moderno; è per questo che esso andrebbe riformulato ed integrato,
vale a dire fondato nel suo stesso reale (quello che non siamo riusciti per ora a ipotizzare se non
come movimento, anche se non sappiamo ancora come movimento di che cosa). Parallelamente e
inversamente, il reale che la scienza fuorclude è appunto il soggetto. Perciò è solo grazie alla
scienza che s’è posta una questione del soggetto, come distinta da quella del reale: effetto di
dimenticanza, senza dubbio, dell’antica, implicita identità fra il soggetto pensante e il reale del
mondo.
Ora, il reale del non reale soggettivo è ciò che la psicanalisi ha chiamato l’inconscio, a proposito
del quale abbiamo detto che per un certo rispetto coincide col campo dei significanti. L’inconscio è
quel sapere che il soggetto esclude da se stesso. Ne consegue che ogni passo compiuto in direzione
d’un progresso nel linguaggio – di quel che Freud chiama il progresso nella Geistlichkeit – si
traduce in un ampliamento del sapere dal quale il soggetto è escluso. Ogni progresso di questo tipo
si paga quindi in termini di sintomo. Il sintomo è il farsi significante del soggetto. Per il soggetto
l’unica vera malattia è appunto il linguaggio.

114. Che cos’è una malattia per un soggetto? Questo problema, che senza dubbio dovrebbe
essere centrale nella medicina, è stato paradossalmente fuorcluso proprio da questa, e tanto più
radicalmente quanto più successo essa otteneva grazie alla scienza. Modernizzandosi, la medicina
ha dimenticato d’essere una pratica (ossia una tecnica), cioè di doversi occupare di soggetti, e non
d’oggetti fisici (dal punto di vista fisico, infatti, non esiste nessuna malattia). Dal momento che la
psicanalisi non a caso è sorta dalla medicina, chiedersi che ne è del rapporto fra la medicina e il
soggetto è essenziale per definire il rapporto che la psicanalisi deve o non deve avere con la scienza.
La medicina, dunque, è una tecnologia o una pratica? Sono ben rari i casi nei quali un medico –
figura che tende del resto sempre più a sbiadire negl’ingranaggi dell’apparato specialistico e
tecnologico – si sente chiamato a prendere decisioni che abbiano un significato etico. Certo, dei
problemi soggettivi rimangono, ma tendono sempre di più ad essere confinati ai margini
dell’effettivo campo d’interesse medico, nell’area della cosiddetta deontologia. Infatti la medicina è
attraversata da un’interna linea di divisione. Da una parte è indagine scientifica propriamente detta,
e condivide perciò lo statuto sperimentale della scienza, dall’altra, come clinica, è tuttavia una
pratica, chiamata giorno per giorno non solo a confrontarsi con soggetti singoli e determinati – la
cui storia può difficilmente rientrare nei limiti dell’anamnesi –, ma anche decidere su questioni
essenzialmente etiche, persino della vita e della morte. E indubbio che, come prassi, la medicina
trova nel suo riferimento alla scienza una difesa, se non un alibi, che la mette al riparo dall’angoscia
di confrontarsi con simili problemi. Se un tempo la religione poteva farlo assai meglio di quanto
oggi non faccia la scienza, è perché condivideva con le varie pratiche quella stessa situazione di
credenza e di linguaggio che invece la scienza ha definitivamente modificato. Ma la scienza
oggettiva non è in grado in nessun modo – a meno di non fondarsi trascendentalmente – di trovare
una soluzione ai problemi, etici e storici, con i quali la medicina è chiamata a confrontarsi nella sua
esperienza quotidiana. Essi sono respinti perciò dalla medicina come «falsi problemi», come
effettivamente sono dal punto di vista della scienza. Sfortunatamente tale punto di vista non è
minimamente quello del soggetto. Per la scienza, per esempio, ha perso significato persino la
distinzione, un tempo ovvia, fra la vita e la morte; tuttavia il loro confine è incancellabile per ogni
soggetto. Considerare «falso» un problema che non sia scientificamente impostato e argomentabile
significa allora inevitabilmente misconoscere tutto ciò che, nella medicina, dovrebbe essere pratica
e non tecnologia, cioè quello che in essa è propriamente medicina.
Ora, proprio di questi «falsi» problemi s’è occupata, sin dal suo sorgere, la psicanalisi, in primo
luogo di quelli posti dall’isteria. La questione dei rapporti fra medicina e psicanalisi è quindi
complessa. Che i medici, nella quasi totalità dei casi, si ritengano giustificati nel non capirci niente
non risolve certo il problema. Nelle sue attuali condizioni, niente è più lontano dalla psicanalisi
della medicina, non solo perché questa crede di trovare nella scienza un riferimento che la conforti
come tecnologia, ma perché, a differenza della scienza, essa misconosce, nella sua prassi,
l’essenziale del suo oggetto, l’imprescindibile elemento soggettivo d’ogni «caso» di cui si occupa.
Mentre sarebbe difficile negare alla ricerca medica lo statuto di scienza, è invece attualmente
impossibile riconoscere alla medicina nel suo esercizio terapeutico uno statuto di pratica. Ma questo
non significa nemmeno ch’essa possa considerarsi una tecnologia rigorosa. I suoi successi non
devono trarci in inganno a questo proposito. Misconoscendo l’essenziale del proprio oggetto – il
soggetto – essa non può definirsi una tecnologia, cioè un’applicazione rigorosa della scienza.
Naturalmente, un medico potrebbe obiettare che l’oggetto della medicina non è il soggetto, ma la
malattia, e che, rispetto a questa, la clinica moderna è perfettamente in grado di mettere in atto delle
procedure scientifiche. Ma questa risposta non elimina il problema. Che cosa sia malattia resta un
problema che riguarda comunque qualcosa d’essenziale per il soggetto: il senso della sua stessa
esistenza. «In natura» non ci sono malattie. La stessa nozione di «malattia» implica un giudizio
soggettivo e una valutazione che, in definitiva, è di ordine etico.

115. È diventato un luogo comune affermare che la psicanalisi non ha niente a che fare con la
medicina. Questo luogo comune andrebbe rovesciato. Bisognerebbe dire invece che la psicanalisi è,
oggi come oggi, l’unica medicina rigorosa, l’unica medicina scientifica, perché soltanto essa può
ancora avere qualche idea su che cosa sia la malattia per un soggetto e può, perciò, prendersene
cura. Non è affatto detto, d’altra parte, che essa debba occuparsi solo delle malattie d’origine
«psicologica», come si dice dimenticando che tutte le malattie sono «psicologiche» perché sono
malattie di soggetti. Infatti, in che cosa consiste una malattia? Qual è lo statuto, logico e
fenomenologico di quest’oggetto di quotidiana esperienza che chiamiamo malattia? Ci diciamo
malati quando non riusciamo più a compiere azioni che siamo abituati a compiere, o siamo costretti
a compiere azioni che non siamo abituati a compiere, e crediamo di poter attribuire queste
circostanze a cause esterne al nostro essere. Un neonato che non cammina non è un paralitico, un
uomo non va dal medico perché non può partorire, un vecchio non si sente malato se non può
correre i cento metri. Ci sentiamo malati quando, confrontando ciò che pensiamo d’essere con le
nostre azioni, troviamo una differenza inesplicabile fra queste e la nostra idea d’essere in un certo
modo. Su questi temi semplicissimi il ricorso alla scienza ha provocato nelle nostre opinioni tanta
confusione che dobbiamo ricorrere ai cosiddetti primitivi per comprendere la logica di ciò che
chiamiamo malattia. Di fatto, dinanzi a cose come le malattie, siamo dei primitivi noi stessi. È noto
che, per la mentalità primitiva, non esistono malattie, ma solo malefici. La malattia è la volontà di
qualcuno di rendere impotente la nostra volontà. E poco importa che il qualcuno, qui, sia soltanto
supposto. E soltanto rispetto a questa supposta volontà (d’un estraneo, d’un altro) che possiamo
definire rigorosamente che cos’è una malattia.
L’«inconscio» non è che un nome moderno, come il cancro, di questa volontà di qualcun altro.
Alla base del concetto stesso di malattia troviamo quindi che il soggetto suppone l’opera d’un altro.
Certo, questa supposizione è oggettivamente falsa, ma oggettivamente è falsa anche l’idea della
malattia. La malattia esiste solo soggettivamente (per un soggetto) e consiste nel supporre l’azione
d’un altro soggetto. Con questa supposizione d’un soggetto rientriamo nel campo d’esperienza della
psicanalisi. Supporre che un altro soggetto voglia qualcosa da noi è ciò che, con una parola ormai
trita, la psicanalisi chiama transfert. Diciamo quindi che, a voler essere rigorosi, tutte le malattie
sono da transfert.
Certo, ci si potrebbe obiettare che la malattia non è interpretabile solo magicamente, come
effetto d’un maleficio. Essa è anche una figura del male, e può avere perciò uno statuto
fondamentalmente etico. Ma è evidente che, se compiamo questo passo al di fuori della concezione
transferale della malattia, usciamo anche dal campo dell’assunzione, da parte della psicanalisi, dei
pregiudizi nevrotici (fra i quali rientra senza dubbio anche il concetto di malattia come maleficio)
come giudizi generalmente validi. Si tratta senza dubbio d’un passo necessario, ma che rientra
nell’ideologia oggettivizzante della scienza ancora meno di quanto non vi rientri il pregiudizio
nevrotico.

116. La distinzione fra malattie «psichiche» e malattie «organiche» è dunque soltanto


approssimativa e provvisoria. Le malattie non sono né una cosa né l’altra, perché sono sempre e
soltanto soggettive. Contrariamente a quanto di solito si crede attualmente, la psicanalisi potrebbe
essere una parte della medicina, se una medicina rigorosa esistesse nello statuto attuale della
scienza. Freud, nel 1918, fa un’affermazione che, col tempo, è divenuta anche più vera: «Negli
ultimi decenni tale addestramento [medico] è stato criticato con piena ragione per il modo
unilaterale con cui orienta lo studente nei campi dell’anatomia, della fisica e della chimica, mentre
non riesce a chiarirgli il significato dei fattori psichici nelle diverse funzioni vitali, come pure nelle
malattie e nel loro trattamento. Questa deficienza nell’istruzione medica si rende più tardi evidente
come lacuna clamorosa del medico. E ciò non si mostrerà soltanto nella mancanza d’interesse del
medico per i più avvincenti problemi della vita umana, sana o patologica che sia, ma lo renderà
altresì maldestro nel trattare con i suoi pazienti, talché perfino i ciarlatani e i “guaritori” avranno su
di essi un effetto maggiore del suo». Si tratta dunque essenzialmente d’un compito educativo. È
perché non esiste un’educazione che sia all’altezza del suo compito che non esiste una medicina
degna del proprio oggetto. Ed è perché non esiste una scienza che non fuorcluda il soggetto che non
esiste, oggi, una vera educazione. Il compito fondamentale e ineludibile d’una psicanalisi che voglia
essere tale mi pare debba essere, prima ancora che curarsi di questo o quel malessere, l’invenzione
d’un’educazione che sia all’altezza della modernità.

117. A differenza della medicina, la psicanalisi può rivendicare per sé lo statuto di pratica. Essa
non misconosce l’oggetto di cui si occupa – oggetto ch’è identico, nel suo statuto, al soggetto che la
scienza fuorclude – e non ignora (o non dovrebbe ignorare) quali sono le cause e i mezzi della
propria efficacia. Tuttavia, s’è assolutamente evidente che nessuno potrebbe dimenticare che la
psicanalisi è una pratica, il problema di dare una spiegazione, in termini scientifici, della sua
efficacia è molto più complesso e variegato. Affinché la psicanalisi possa essere veramente
scientifica (nel senso delle scienze oggettive), cioè una prassi che applichi in modo coerente un
metodo scientifico dall’inizio alla fine del proprio percorso, dovrebbe essere soddisfatta una
condizione supplementare, come del resto Freud non rinunciò mai a pensare che potesse avvenire,
quando per esempio prospettava che un giorno la neurofisiologia progredisse tanto da rendere
ragione in termini propriamente scientifici, cioè fisico-chimici, dell’efficacia della psicanalisi.
Sappiamo tuttavia che, in quasi un secolo d’esistenza della psicanalisi, ben pochi passi sono stati
compiuti in questa direzione, e che anzi la possibilità d’una simile convergenza fra scienza e
psicanalisi sembra essersi ulteriormente allontanata. La psichiatria s’è specializzata sempre di più
come una tecnologia, fino a sostituire l’impalcatura della nosografia classica con una sorta di tabella
dell’efficacia farmacologica, mentre la psicanalisi è rimasta sola ad occuparsi del soggetto. Essa si
trova così in una situazione simile a quella d’un tecnico delle comunicazioni che disponga
d’informazioni adeguate solo sul punto iniziale e su quello terminale d’un circuito, senza poter
verificare in nessun modo che cosa accade lungo il percorso. L’analista agisce con la parola
affinché, nel reale del sintomo, si producano degli effetti che resteranno comunque in gran parte
indeterminati, perché non potranno mai essere note tutte le leve che sono messe in azione
dall’interpretazione.
Naturalmente sarebbe ingenuo credere che tale situazione d’indeterminazione nella relazione
causa-effetto sia per la psicanalisi solo un incidente di percorso, o una limitazione fortuita della sua
efficacia. Anche dal punto di vista strettamente scientifico sappiamo che delle forme
d’indeterminazione sono non solo previste, ma accettate come un principio basilare dalla fisica.
Nella meccanica quantistica il principio d’indeterminazione esprime la funzione d’un atto di
misurazione che rimanda immediatamente all’esistenza d’un soggetto. Tale limite è non solo
ineliminabile, ma costitutivo, e niente lascia credere che la psicanalisi possa un giorno mettersi in
condizione d’occludere la faglia che costituisce il suo campo d’esperienza. Il sogno d’una totale
scientificizzazione della psicanalisi è destinato a rimanere tale, così come quello d’una riduzione in
termini non probabilistici della meccanica quantistica.

118. S’impone allora in modo sempre più pressante il compito di reinterpretare in termini
rigorosi i fondamenti dell’efficacia della psicanalisi. La teoria analitica ha cercato fin dal primo
momento, fin dal Progetto d’una psicologia scientifica di Freud, di risolvere questo problema. Lo
stesso concetto d’inconscio corrisponde né più né meno che a questa faglia che s’apre,
nell’esperienza analitica, fra la causa e l’effetto. L’inconscio freudiano non è altro, rigorosamente,
che l’indeterminazione con cui una causa giunge ad avere alcuni effetti, ad essere efficace.
L’inconscio è il nome stesso del soggetto preso nel suo reale, nella misura in cui il soggetto non è
soltanto ciò di cui la psicanalisi si occupa (il suo oggetto), ma anche ciò attraverso cui deve
necessariamente passare la sua azione. Contrariamente a quanto si crede di solito, la teoria lacaniana
del significante non ha affatto allontanato la psicanalisi dal metodo della scienza, ma le ha fatto
compiere un passo decisivo verso di essa. Il significante è in effetti ciò che «rappresenta un
soggetto»: grazie ad esso l’indeterminazione soggettiva nella relazione causa-effetto si riduce
all’indeterminazione nella relazione fra significanti. Senza sapere nulla del soggetto (è per
definizione che dell’inconscio non si sa nulla), l’analista sarà in grado così di dirigere la propria
azione in base al concatenarsi dei significanti. L’efficacia della pratica analitica diventa allora –
entro limiti, e a condizioni che saranno da precisare, perché nessuna significazione potrà esprimere
nulla di veramente soggettivo, se si prescinde dal senso e dalla parola – qualcosa di effettivamente
controllabile e verificabile. La psicanalisi continuerà ad essere una pratica, non una tecnologia, ma,
come pratica, sarà rigorosa, e saprà rendere ragione dei propri risultati, fondando il proprio
intervento su qualcosa di meno vago dell’intuito.
Abbiamo considerato finora il linguaggio, nel suo rapporto col soggetto. Dobbiamo ora
incominciare a vedere come proprio questo rapporto giustifichi gli effetti della pratica analitica. Se
dunque abbiamo considerato il linguaggio nella sua relazione alla significazione, dobbiamo ora
incominciare a considerarlo in relazione alle condizioni d’efficacia dell’esperienza analitica, cioè
alla sua verità.
II. L’efficacia della psicanalisi

119. L’epistemologia contemporanea è ben lontana dall’aver preso atto dell’efficacia della
psicanalisi e dei presupposti che ne rendono ragione. Del resto la riflessione sulla scienza potrebbe
farlo soltanto se fosse impostata trascendentalmente. Ma, quand’anche lo sia, come lo è quella
husserliana, sorge subito un problema: la psicanalisi stessa si richiama proprio ai criteri di quelle
scienze «regionali» che più di tutte avrebbero bisogno d’essere fondate filosoficamente (e proprio
per questo lo stesso Husserl non riconosce affatto la scientificità della psicanalisi). D’altra parte
l’esperienza analitica non ha assolutamente un’impostazione sperimentale, e persino le spiegazioni
classiche degli psicanalisti sono, sul tema dell’efficacia della loro pratica, macchinose ed incerte.
Solo una corretta teoria del soggetto e del significante può spiegare (erklären) questa efficacia,
rendendone ragione in termini scientifici. Ma, come cercheremo di mostrare, la scientificità che
cosé si raggiunge è tale da rimettere in discussione i presupposti stessi della scienza, almeno di
quella classica (e del resto anche molti dei concetti fondamentali della fenomenologia). Il soggetto è
un oggetto che la scienza classica non può darsi. Ogni supposta scienza oggettiva del soggetto –
ogni psicologia – non può essere altro che l’applicazione d’un metodo scientifico ad un oggetto del
tutto inesistente per la scienza. È proprio per questo che, come la formazione medica, anche quella
psicologica è esattamente il contrario di quella che si richiederebbe per un analista, anche se
un’attuale legge italiana sembra riservare proprio a medici e psicologi la pratica della psicoterapia.
La psicanalisi, benché sia nata dal tentativo di fondare una «psicologia scientifica», non è
psicologia, perché non s’illude di poter giungere ad una conoscenza oggettiva del soggetto. Ora,
può esserci una scienza del soggetto? Nulla è meno reale, meno oggettivabile, meno misurabile di
esso. Di fatti non c’è soggetto se non rappresentato. Lo statuto ontologico di questo ente che
chiamiamo soggetto è soltanto ipotetico (finché esso non venga fondato trascendentalmente).
«Ente» è del resto un termine del tutto inadatto a designare il soggetto, poiché un ente, un qualcosa
che è, è tale solo per un soggetto. Ciò che chiamiamo soggetto non è altro, a ben vedere, che la
differenza costitutiva che sussiste fra l’essere e l’ente, che la «differenza ontologica». Certo, ci si
potrebbe obiettare che tutto questo è filosofia, ed effettivamente è cosé. Ma questa filosofia è
assolutamente necessaria a rendere i risultati dell’analisi un po’ meno confusi e misteriosi di quanto
non risultino di solito.

120. La psicanalisi agisce sul reale del sintomo attraverso i significanti. Il solo strumento che si
concede per agire è la parola. Soggetto del resto è ciò che si suppone come denominatore comune
della catena dei significanti, ed è operando delle modificazioni in questa catena che la psicanalisi
produce i suoi effetti. Ora, le parole sono significanti, ma rappresentati (Wortvorstellungen), e
perciò materiali e corporei. La parola è «corpo sottile», ma è pur sempre corpo e, nella pratica
dell’interpretazione analitica, molto spesso l’elemento decisivo non è quello semantico, ma proprio
quello rappresentativo. Ciò che conta è l’equivoco, l’intonazione, la scansione, il ritmo. Ciò che
conta non è tanto la catena dei significanti – la quale, di per sé, sarebbe indefinita –, quanto il punto
in cui questa s’annoda o s’interrompe. Se il soggetto è rappresentato (repräsentiert) dai significanti
della catena, è perché questi sono a loro volta presentati (darstellt) nella forma di tempo propria a
quel soggetto. Dal momento che il soggetto è rappresentato dai significanti, sarà possibile agire su
di esso solo attraverso i significanti della catena, ma nel punto in cui questa s’interrompe. È proprio
questo infatti il punto in cui si ha un’emergenza decisiva del soggetto. Per la sua stessa natura, il
linguaggio tende irresistibilmente a desoggettivarsi e a funzionare automaticamente. A questo
portano anche quelle vere e proprie funzioni di desoggettivazione che sono la fuorclusione, la
rimozione, la sconfessione e la denegazione. Il soggetto non può che cancellarsi nel significante che
lo rappresenta, per riprodursi altrove, nel luogo d’una mancanza di significante, anzi nel luogo d’un
significante che manca. Il soggetto non è, in definitiva, altro che questo significante che manca nella
catena. Allungarla non servirà a rendere questo limite meno reale, perché non esiste nel campo dei
significanti (cioè nell’assolutamente altro) il significante il cui significato sia il soggetto, e proprio
questo richiede quel supplemento alla significazione ch’è il fantasma.
Ricordando tutto questo, comunque, dobbiamo notare che non ci siamo ancora avvicinati d’un
passo ad una soluzione del problema di quale sia il reale del soggetto. Lacanianamente – e tutto ciò
che ora abbiamo detto è ripreso essenzialmente dall’insegnamento di Lacan – sembrerebbe che il
reale del soggetto, in fin dei conti, non sia altro che quello della mancanza, anzi quello d’un buco
nel campo dei significanti. Ma, se potessimo accontentarci di questa soluzione, come spiegheremmo
l’insistenza di Lacan sul tema dell’etica della psicanalisi? In che modo potremmo considerare la
psicanalisi stessa come un’esperienza in primo luogo etica? Senza dubbio in nessun modo, perché
tutto ciò che individuerebbe il soggetto sarebbe solo da mettere in conto alla significazione (cioè
precisamente a ciò che non individua il soggetto) o al fantasma (cioè precisamente a ciò che lo
individua solo nella patologia).

121. Prima di porre direttamente la questione dell’efficacia della psicanalisi, cerchiamo di


chiarire come intendere il termine «efficacia». In senso generale, per efficacia intendiamo la
capacità d’avere effetti. Ma, detto questo, bisognerà subito chiarire che non tutti gli effetti d’una
pratica analitica possono considerarsi effetti della sua efficacia. In particolare non dobbiamo
confondere questa efficacia con la scomparsa dei sintomi. Quest’ultima infatti non decide nulla
circa il fatto che un’analisi sia efficace o no, cioè che produca davvero degli effetti «analitici». Già
definire che cosa intendiamo con quest’ultimo termine richiede l’esplicitazione d’un concetto della
psicanalisi in base al quale valutare gli effetti d’una singola analisi. La questione, come si vede, non
è da poco. Per affrontarla, possiamo partire dal celebre aforisma di Freud, da quel «wo es war soll
ich werden» al quale egli sembra affidare il compito di definire non solo il mezzo, ma anche il fine
dell’analisi.
Come intendere, in questo contesto, tale aforisma? Notiamo prima di tutto che la sua struttura
dipende da una duplice opposizione: es/ich e war/werden. Si tratta di mettere al posto del soggetto
neutro, es, cioè del soggetto in quanto tale, in quanto «significante mancante» non determinabile e
non reale, l’«io», il soggetto in quanto s’identifica, cioè si riconosce, in alcuni significanti che lo
determinano come quel singolo soggetto. Tuttavia non possiamo determinare questo io, nella
seconda topica freudiana, come un semplice effetto d’identificazione immaginaria. Ci sembra
invece più esatto dire che l’io è il soggetto assunto come reale. In altri termini, la distinzione della
prima topica fra inconscio e coscienza viene a raddoppiarsi, nella seconda, con una distinzione fra
es ed io, con la quale i rapporti fra reale e non reale della soggettività vengono capovolti. Infatti l’io
che deve divenire là dove era es non può essere assunto come un’entità statica. Freud non vuol certo
dire che l’analisi debba prosciugare l’inconscio, benché la metafora dello Zuiderzee sembri lasciarlo
credere. Tanto meno possiamo pensare che l’io (cioè il soggetto determinato) possa rimpiazzare l’es
(cioè il soggetto in quanto tale). Se così fosse, la domanda «chi sono?» troverebbe in effetti la sua
risposta definitiva e, del soggetto, esisterebbe un nome dotato di significato, perché il soggetto
troverebbe il significante che lo rappresenterebbe proprio in quanto soggetto. «Ich werden» sembra
dunque da intendere nel senso d’una processualità del divenire-io. Questo divenire è assegnato
all’io come compito etico (soll). L’analisi è quel percorso in cui, dove es era, dove era il soggetto
indeterminato, il soggetto come non reale, deve divenire l’io, cioè il soggetto reale e determinato.
Ciò significa che il reale dell’io non sta nel suo essere – cioè nelle sue identificazioni immaginarie,
o magari simboliche –, ma proprio nel suo divenire, che è, naturalmente, un processo temporale.
L’io, infatti, che cosa deve divenire? La risposta è evidente: «Io devo [soll ich] divenire io [ich
werden]». «Là dove era es, io devo divenire io». L’io, il soggetto reale, il soggetto nel suo divenire
temporale, il soggetto nel suo movimento, è qui assunto in una fondamentale duplicità: come
soggetto del compito e come oggetto del divenire. L’io deve dunque staccarsi da se stesso – vale a
dire riconoscere la divisione che lo costituisce – per divenire – per prodursi – là dove es era.
Producendosi nel luogo d’un essere che ci si offre come un essere stato, l’io assume il suo compito
etico: quello di divenire, invece che di essere. Ma di divenire, senza dubbio, quello ch’era già.
Un’analisi, per dirla in termini nietzschiani, è un modo per «divenire quello che si è».
122. È subito evidente che la posta in gioco in tale processo è etica, prima che terapeutica. Ma la
portata etica della massima freudiana si dispiega nel tempo, fra un war dell’essere che non è più e il
soll werden d’un io che diviene o diverrà. Con questo, è posta in primo piano la dimensione
temporale nella quale si deve dispiegare il compito analitico. Tuttavia, per valutare appieno la
portata di senso della frase di Freud, dobbiamo ricorrere ad un’interrogazione della legge del
divenire d’un’analisi, alla sua regola fondamentale. Essendo fondamentale, riguardando dunque il
fondamento, il Grund, della pratica analitica, questa regola dovrà contenere in sé anche la
formulazione della causa – del Grund – della sua efficacia. Ora, se consideriamo questa regola, la
prima cosa che balza agli occhi è che la sua formulazione non ci viene affidata da Freud. Egli si
limita a dire che essa dev’essere enunciata all’inizio d’ogni trattamento, ma non come debba venire
formulata. È come se l’enunciazione della regola dicesse più del suo enunciato. Se l’enunciato della
regola può variare, è perché l’enunciazione non può essere contenuta in un enunciato, o meglio è
perché l’enunciato della regola non enuncia altro che la regola dell’enunciazione, che il dovere
dell’enunciazione. La regola non prescrive altro che di dire. Non ci viene detto che cosa dovremo
dire, ma che dovremo dire «qualunque cosa». L’ipotesi di fondo sulla quale riposa la pratica
analitica è che il dire conta più del detto. L’effetto che essa si propone di raggiungere, e raggiunto il
quale sarà stata efficace, sarà quello d’una causa che la regola individua in un dire.

123. All’orizzonte della psicanalisi – Freud ne ebbe sempre la più acuta consapevolezza – sta il
problema scientifico ed epistemologico della causalità. Quando Freud sceglie di considerare il
sogno come oggetto di Deutung, d’interpretazione, è perché ha già scommesso sulla determinazione
d’un fatto psichico che, come il sogno, sembrava abbandonato al dominio del caso. Ma non appena
il soggetto viene sottoposto ad un tentativo d’interpretazione causale, non appena all’alea della sua
libertà si sostituisce la determinazione della relazione causale, si produce uno strano
capovolgimento nei dati del principio di causalità, poiché esso, come non reale e non determinato,
viene considerato come un reale ed un determinato (si passa, come abbiamo detto, dalla coscienza
all’incoscio nella prima topica, dall’es all’io nella seconda). Freud giunse addirittura a negare la
possibilità stessa della casualità d’un atto psichico. Di fatti, che cos’è il caso? Non ci appare forse
casuale l’evento del quale ignoriamo le cause? Ora, la scienza muove i suoi passi proprio da quel
principio di ragione sufficiente (nihil est sine ratione), che nega la casualità. È vero tuttavia che la
scienza stessa ha dovuto ammettere, con la meccanica quantistica, anche un altro principio, quello
d’indeterminazione; ed è vero inoltre che la teoria della relatività, ponendo la velocità della luce
come un limite non oltrepassabile, ci lascia liberi di supporre che tutto ciò che accade «ora», cioè
prima che a noi ne giunga notizia attraverso la luce, è del tutto libero da ogni principio di ragione.
«Nulla è senza ragione», eppure dobbiamo ammettere ch’esiste, a livello atomico, o a livello
cosmico, un margine di curiosa libertà degli eventi. Certo, questa «libertà» è tale solo rispetto ad un
soggetto, poiché, se disponessimo di tutti i dati necessari per calcolare la traiettoria d’ogni particella
o ciò che succede in corpi celesti molto lontani da noi, questa curiosa libertà, questo curioso arbitrio
che dobbiamo riconoscere alla materia (proprio mentre la psicanalisi sembra negarlo al soggetto)
svanirebbe immediatamente. Ma appunto, noi (noi soggetti) non potremo mai disporre di questi
dati, perché, per poterne disporre, dovremmo modificare la traiettoria che vogliamo prevedere, o
dovremmo disporre d’una velocità infinita. La teoria della relatività e il principio quantistico
d’indeterminazione concedono alla materia una libertà ch’è tale solo in rapporto alla possibilità
d’un soggetto di venirne a sapere. Detto in altri termini, queste teorie fisiche sono la conseguenza
dell’assunzione d’un principio ch’è l’esatta reciproca di quello in base al quale la psicanalisi nega al
soggetto ogni indeterminazione. Esse riconoscono al reale nella sua forma più bruta – la materia –
quella libertà che la psicanalisi nega al soggetto. Ma la libertà della materia dipende solo dalla
nostra impossibilità di sapere, mentre la determinazione del soggetto (del soggetto nel reale, cioè
dell’inconscio) dipende solo dalla nostra possibilità di saperne, attraverso il linguaggio, ch’è sempre
determinato. Tuttavia il principio d’indeterminazione e la teoria della relatività non esprimono solo
una misura della nostra ignoranza, ma anche un’indeterminazione reale dell’oggetto, allo stesso
modo in cui il linguaggio non costituisce solo uno strumento per accedere al reale del soggetto, ma
è anche essenziale per comprendere qual è questo reale.

124. Il punto vivo del problema si percepisce ogni volta che Freud affronta il «problema del
metodo». Il metodo della psicanalisi è semplicemente quello assicurato dalla Grundregel, dalla
regola fondamentale. Ora, qual è il fondo, il Grund (la causa) su cui riposa tale regola? Chiarire
questo è il passo decisivo per intendere quale concetto di causalità sta alla base della ragione
analitica, e qual è il corrispettivo, in essa, di quel principio d’indeterminazione attraverso il quale la
libertà s’introduce, con la fisica contemporanea, nel luogo meno adatto, in apparenza, per riceverla.
Ma questo, dal momento che ogni principio di causalità (o di ragione) è solidale con un modo di
prodursi del tempo, ci porterà per la prima volta fuori dalla concezione classica, kantiana, del tempo
(anche se abbiamo già suggerito la necessità di tale trasformazione dell’idea del tempo). Finora
abbiamo visto che non c’è nulla, in Freud, che non sia compatibile con la ragione classica e con la
critica kantiana della ragione pura. Ora dovremo incominciare a constatare che cosa invece,
nell’esperienza analitica, ci allontana dalla concezione kantiana del tempo inteso come tempo
assoluto, e quindi come identico, nel suo principio, con il principio di causalità.

125. La formulazione della Grundregel coincide con l’introduzione dell’ipotesi dell’inconscio.


Senza l’introduzione della regola, il concetto d’inconscio non avrebbe nessuna consistenza. È infatti
l’applicazione della regola a creare lo spazio – di causalità – in cui tale ipotesi trova la sua validità.
Infatti che cos’è, in definitiva, tale regola? E che cosa significa la formulazione d’una regola «del
fondamento» che prescrive di dire qualunque cosa, e perciò impone il metodo dell’abolizione
d’ogni metodo? Significa prima di tutto che ci troviamo di fronte ad un modo d’intendere il tempo
ch’è completamente diverso da quello previsto dalla ragione classica, sorretta dal principio di
ragione sufficiente, cioè dal principio di causalità. Prescrivere al soggetto che intraprende un’analisi
di dire qualunque cosa equivale, come Freud afferma chiaramente, ad invitarlo a sospendere le
«rappresentazioni d’attesa» con le quali egli, in quanto parla, e prima di parlare, passa al vaglio
d’una prima critica ciò che, come si dice, gli «viene in mente». Il punto decisivo del funzionamento
della regola non è però, come si crede in una vulgata della psicanalisi la cui trivialità è divenuta
assordante, d’abolire con questo la funzione della censura, ma proprio di farla emergere. L’azione
della regola infatti non è consentita dalla possibilità di dire tutto, ma proprio dall’impossibilità di
farlo. Il soggetto è invitato a sospendere le proprie rappresentazioni d’attesa, cioè le proprie
anticipazioni su quanto sta per dire, ma è invitato a farlo solo perché si mettano in funzione quelle
rappresentazioni d’attesa delle quali egli solitamente non è consapevole. L’analisi comincia quindi
costituendo il campo dell’ignoranza del soggetto nei confronti della propria parola (aprendo il
campo dell’«inconscio»).
Dobbiamo osservare tuttavia che porre come regola l’abolizione della regola non abolisce la
regola, ma la fa emergere nella sua necessità. Si tratta d’un criterio essenziale d’impostazione della
pratica analitica, perché esso riguarda la funzione della legge. Può esserci una legge che preveda la
sospensione o addirittura l’abolizione della legge? Proprio questo infatti prescrive la regola
fondamentale dell’analisi. Ora, non è difficile trovare un altro esempio di validità di questo
principio. Per quanto certamente Freud non ci abbia mai pensato in questi termini, e per quanto
strano possa sembrare affermarlo, la legge dell’abolizione della legge è né più né meno che la legge
cristiana dell’amore. La posizione paolina sulla legge esprime la primarietà della legge dell’amore
su tutte le altre leggi, le quali possono venire sospese, o addirittura abolite, ma solo in quanto sono
già incluse nella prima. Non diciamo tutto questo, beninteso, per fare di Freud un cristiano. Egli non
lo era da nessun punto di vista, e non solo per le sue origini ebraiche. Ma proprio questo rende
sorprendente il fatto che la logica introdotta nella pratica analitica dalla regola fondamentale è
esattamente la stessa che viene introdotta nella «nuova alleanza» dalla legge dell’amore. Avremo
modo in seguito di ritornare su questo punto essenziale. Per ora ci basti notare il fatto che questa
identità (e non somiglianza) di struttura ha l’effetto immediato ed evidente di porre al cuore
dell’esperienza analitica un amore del quale bisognerebbe cercare di precisare la natura, anche se
esso è rimasto sempre velato nella teoria analitica (con la sola eccezione, del resto solo parziale, di
Lacan, che per primo ha parlato d’un «desiderio dell’analista», mettendolo in conto ad un «amore al
di là della legge» che comunque è in stretta relazione con il concetto cristiano dell’amore).

126. L’elemento determinante nella pratica analitica sta nel fatto che il testo associativo che
s’ottiene con l’imposizione della regola fondamentale, testo pieno di discontinuità e di lacune, può
venire «interpretato»: si attribuirà così ad una causa la presenza di tali interruzioni. Qui si pone
allora il problema della verifica. Proprio di questo punto ci si è serviti per negare alla psicanalisi lo
statuto di scienza: «Testa vinco io, croce perdi tu», come suona la formulazione scherzosa che di
questa obiezione dà Freud in Costruzioni nell’analisi. Per sottoporre a verifica l’ipotesi
dell’inconscio bisogna quindi che ci facciamo una rappresentazione chiara di come viene ad
introdursi tale ipotesi nella pratica. Né il sintomo, né il lapsus, né il sogno sono utilizzabili al fine
d’una dimostrazione di ciò che qui c’interessa. Un sogno, certo, è interpretabile. Ma quando lo
avremo interpretato – aggiungendo così al testo del suo contenuto manifesto il testo che ne
esprimerebbe il significato –, che cosa ci consentirà di verificare se il contenuto del secondo testo
può in qualche modo rispondere del contenuto del primo? Freud, nell’Interpretazione dei sogni,
tenta in mille modi di compiere questa verifica. Ma è del tutto evidente che l’interpretazione non
può essere garantita in nessun modo s’è vero che, com’egli stesso ammette, persino la memoria del
sogno è «senza garanzia». È proprio questo il problema, ed è facile vedere che, se pensiamo il
tempo come identico, nel suo statuto, al concetto della causalità, secondo la formulazione kantiana,
cioè se lo pensiamo come tempo assoluto, ciò non può dimostrarsi. Per poter verificare che il
secondo testo traduce realmente il primo dovremmo disporre d’una regola, ben diversa dall’unica
che abbiamo, che spiegasse come il testo del sogno s’è formato dai pensieri del sogno (il primo
testo dal secondo), dimostrando che ciò doveva accadere necessariamente. Ma nessuna
interpretazione analitica può dimostrare tale necessità: dopo tutto abbiamo solo la possibilità di
dimostrare che cosa ci è venuto in mente, cioè qual è stata la regola di formazione del testo
interpretante (è con questo, infatti, che operiamo). In tale regola, quale verifica è inclusa, per
esempio, circa il testo del sogno? Soltanto quella che dimostra che, a partire da quelle associazioni,
quell’interpretazione appare possibile. Ma un’interpretazione possibile non necessariamente è anche
vera e, se il problema della causalità stesse in termini così semplici, nulla distinguerebbe la
psicanalisi da qualunque forma d’ermeneutica, e in definitiva neppure da qualunque delirio
d’interpretazione.

127. Una supposizione o un’ipotesi non può valere come legge o regola del fondamento se non
può essere verificata. L’interpretazione analitica non può esserlo in nessun caso, perché l’inconscio,
che sta all’origine della formazione del sogno, non può venire direttamente interrogato, dal
momento che sognare e interpretare sono funzioni soggettive molto diverse, e che l’inconscio non è
un secondo soggetto che starebbe dietro il primo. Il tempo del sogno sfugge necessariamente alla
verifica. Tentarla sarebbe come voler provare sperimentalmente la legge della caduta dei gravi in
una situazione in cui non fosse possibile misurare il momento iniziale della caduta stessa. Che cosa
garantisce allora che l’interpretazione analitica è corretta? Freud si pone questo problema
nell’Interpretazione dei sogni, incontrando difficoltà molto evidenti. Lo risolve tuttavia con
l’introduzione d’un assioma. Che cosa garantisce, egli si chiede, che le associazioni «libere» del
soggetto riportino proprio nello stesso luogo da cui proveniva il sogno? E la risposta è: nulla. Tale
garanzia non ci potrà mai essere. Tuttavia dobbiamo ammettere, egli dice, che, per quanto le strade
delle associazioni libere possano essere diverse da quelle percorse dal sogno nella sua formazione,
alla base sia del sogno, sia delle associazioni successive, ci sono gli stessi complessi associativi. La
distanza temporale fra il momento del sogno e quello dell’interpretazione è posta perciò come
irrilevante (Freud analizza, per esempio, dei sogni della sua infanzia). Tuttavia egli insiste sul fatto
che nessuno potrà mai analizzare il sogno d’un altro. Queste due affermazioni – inutile negarlo – si
contraddicono in modo lampante. Infatti il soggetto del sogno e quello dell’interpretazione non sono
lo stesso soggetto se non per convenzione, mentre la convenzione (l’assioma) esclude che siano lo
stesso soggetto due persone diverse. Ora, perché non dovrei interpretare io un sogno di Freud? Per il
semplice motivo che, se lo facessi, in base alle mie associazioni, quel sogno cesserebbe d’essere di
Freud, per divenire mio. Alla base dell’interpretazione sta dunque né più né meno che un assioma,
in base al quale s’assume che il soggetto del sogno e quello dell’interpretazione (che associa
liberamente in base alla regola fondamentale) sono lo stesso soggetto. La regola fondamentale,
come in precedenza l’ipnosi, dovrebbe consentire d’avere accesso al soggetto del sogno (al soggetto
dell’inconscio). Ma che questo accada realmente non è e non potrà mai essere verificato. In
apparenza questo assioma è la conseguenza dell’ipotesi dell’inconscio, ma in realtà esso ne è la
causa.
Ora, questo assioma comporta una messa fra parentesi di tutto il tempo trascorso fra il momento
del sogno e quello dell’interpretazione: le lancette sono, per così dire, riportate indietro o, più
precisamente – ma è lo stesso –, il sogno è considerato contemporaneo alle associazioni di chi lo
interpreta. Freud giunge a dire che, anche quando le associazioni procedono per somiglianze
meramente esteriori (per esempio foniche), è sempre possibile stabilire che, alla loro base, esistono
anche legami più profondi. Ma questa è appunto un’ipotesi, garantita solo dal fatto che non potrà
mai essere verificata. L’assioma di cui si tratta, che ha struttura concettuale identica a quella del
principio d’indeterminazione quantistico e a quella della teoria della relatività, riposa, come queste
due teorie fisiche, su un’impossibilità di sapere. La possibilità di sapere (dell’inconscio nella catena
dei significanti) si fonda sull’impossibilità di sapere (dell’inconscio in quanto tale). Proprio questa
impossibilità dà all’assioma, il quale esprime un vero e proprio principio di ragione insufficiente, la
sua base nel reale, insomma la sua validità.

128. Se per un verso, come abbiamo visto, lo statuto dell’inconscio – del reale soggettivo – è
omologo a quello del reale nella meccanica quantistica, possiamo dire tuttavia che lo statuto
dell’interpretazione analitica è invece omologo al processo logico seguito dalla teoria della
relatività, anche se Freud non seppe – o non volle – esprimere questo statuto con la stessa chiarezza
con cui Einstein formulava negli stessi anni quello della propria teoria. Non si tratta, qui, di
segnalare superficiali analogie fra la psicanalisi e le due teorie fisiche in questione, ma di notare una
convergenza di metodo (psicanalisi-relatività) e d’oggetto (psicanalisi-meccanica quantistica).
Quando Freud scarta – senza darne, bisogna dire, dei validi motivi – il problema della verificabilità
delle associazioni libere come strumento d’interpretazione, è perché ha implicitamente, e forse
senz’averne una precisa consapevolezza, adottato un procedimento, omologo a quello einsteiniano,
che consiste nel considerare un’impossibilità soggettiva come un’impossibilità reale. Così come non
è possibile, in fisica, parlare d’eventi contemporanei in assoluto, perché non esiste nessuna velocità
infinita che consenta la trasmissione istantanea d’un’informazione, allo stesso modo non è possibile,
in psicanalisi, confrontare il sistema interpretante col sistema interpretato. E così come
quell’impossibilità, nella teoria della relatività, esprime le determinazioni reali dell’oggetto nella
quadridimensionalità dello spazio-tempo, allo stesso modo in psicanalisi quest’impossibilità
esprime il reale di quel tempo mancante che chiamiamo l’inconscio. L’argomentazione è identica
nelle due teorie, e non solo simile. Certo, questa identità ha dei limiti, poiché, a differenza della
psicanalisi, le due dottrine fisiche, pur introducendo un elemento soggettivo come costitutivo
dell’oggettività, concernono pur sempre delle oggettività. Di conseguenza la velocità della luce e la
costante di Planck sono delle quantità determinate e misurabili, mentre la psicanalisi concerne
l’elemento soggettivo in quanto tale, e di conseguenza non è in grado di compiere delle misurazioni.
Benché omologa alle due teorie fisiche ad essa contemporanee, la psicanalisi non rientra negli stessi
limiti concettuali di scientificità. Essa è estranea alla scienza dell’oggettività anche nelle sue forme
post-classiche e, per essere considerata una scienza, richiede che venga messo a punto un concetto
di scientificità di maggiore estensione, cioè di confini più vasti di quelli che tutt’oggi vengono
riconosciuti alla scienza.

129. Che cosa ha permesso a Freud d’assumere, come assioma implicito che fonda la possibilità
stessa dell’interpretazione analitica dei sogni, che questa è possibile tramite le associazioni dello
stesso soggetto che ha sognato, e non d’un altro? La risposta a questa domanda può sembrare ovvia,
ma non è affatto così, e Freud se ne rende perfettamente conto. Distinguiamo un tempo t0 , nel quale
l’autore del sogno raccoglie le sue associazioni cosiddette libere sul contenuto manifesto del sogno,
verificatosi necessariamente in un tempo precedente, t-1. L’assioma che potremmo chiamare
dell’identità del soggetto del sogno pone che tale soggetto sia lo stesso al tempo t0 e al tempo t-1.
Questo, ripetiamo, non è affatto ovvio, è anzi proprio il contrario del principio dell’unità del
soggetto, che invece si fonda sull’esclusione del tempo t0 come tempo oggettivo: la concezione
unitaria del soggetto implica che i sogni non abbiano un valore soggettivo, per cui lo stesso
soggetto, in t0, non può riconoscersi autore del sogno, anche se non avrà difficoltà ad ammettersi
responsabile d’un’azione compiuta in un tempo ancora precedente, t-n, ma da sveglio. Tutto il
movimento dell’argomentazione freudiana induce a smentire la supposizione che il soggetto, in t0 e
in t-n sia lo stesso, perché pone che in qualunque momento, compreso t0, egli sia già differente da se
stesso, cioè sia già diviso. Perché mai un soggetto che, in quanto dotato d’un inconscio, non sa, per
così dire, quel che fa in ciascun momento, dovrebbe sapere che cosa significasse un sogno che
ricorda d’aver sognato mentre dormiva? Alla concezione del soggetto diviso sembra accompagnarsi
dunque un assioma contrario, per cui il soggetto diviso sarebbe stranamente unitario nel tempo.
Proviamo ad esprimere questo secondo assioma in una formula: S0 (il soggetto al tempo t0) è
differente da se stesso, in quanto esso è in realtà anche identico ad A, cioè al suo «inconscio»; ma S-
1 è stranamente posto come identico a S0, certamente perché è ancora identico ad A. L’inconscio
infatti «ignora il tempo». Abbiamo dunque due livelli soggettivi, uno esplicito, in cui il soggetto è
determinato dal tempo, ed uno per così dire sotterraneo, nel quale il soggetto è sottratto a questa
determinazione:

S-n ... S-1, S0, S1 ... Sn


____________________________________

Sembra dunque che Freud faccia ritornare dalla finestra quell’unità del soggetto che aveva già
cacciato dalla porta. Solo che il soggetto unitario è adesso l’inconscio. Ma le ipotesi di Freud
sull’inconscio, abbiamo visto, sono interpretabili in due modi, attribuendo all’inconscio stesso il
valore dell’istante sovratemporale, cioè della differenza dell’atto da se stesso, la quale genera il
tempo, oppure considerandolo equivalente al campo dei significanti. Perché dunque il mio
inconscio dovrebbe essere distinto da quello d’un altro? Se seguissimo sino in fondo la costruzione
freudiana, dovremmo dedurne che chiunque potrebbe interpretare il sogno di chiunque, cosa che
invece Freud esclude perentoriamente (mentre non sarebbe stata esclusa da Jung).

130. Ma questa esclusione non può essere giustificata da Freud. Se prendiamo sul serio la sua
ipotesi, non possiamo soggettivare l’inconscio, e quindi non possiamo distinguere l’inconscio d’un
soggetto da quello d’un altro. Parlare dell’inconscio come dell’inconscio di qualcuno significa
concepirlo come una memoria, come un contenitore di tracce. Gli epistemologi che hanno trovato
non scientifico il metodo d’interpretazione proposto da Freud non avevano torto, dal punto di vista
della scienza. Freud tuttavia ammette con un vero e proprio assioma che S-1 sia identico a S0, in
quanto entrambi insistono su A, e nasconde l’introduzione di quest’assioma (certo, anche ai propri
occhi) facendolo passare come una conseguenza dell’ipotesi dell’inconscio, il che non è
assolutamente vero, perché, se lo fosse, tale ipotesi perderebbe tutta la sua coerenza. Non resta altro
da fare, in questa situazione, che assumere l’assioma come tale, cioè come arbitrario.

131. Dobbiamo ormai dare un contenuto più preciso a quest’assioma. Ciò ch’esso esprime,
infatti, non è detto chiaramente dicendo che S-1 e S0 sono lo stesso soggetto. Bisogna considerare
che, se S-1 e S0 sono considerati identici, è perché sono considerati in qualche modo coincidenti t-1 e
t0. Ciò che l’assioma pone non è che il soggetto resti immodificato nel tempo (questo sarebbe
contrario a qualunque evidenza, ed anche all’articolazione kantiana dalla quale siamo partiti), ma
ancora più radicalmente (e in modo forse ancora più antikantiano) che t-1 e t0 non sono momenti
distinti d’un tempo irreversibile e assoluto. L’assioma, che ci pare così arbitrario ed assurdo
all’interno d’un tempo assoluto, cioè del tempo il cui principio è quello di ragione sufficiente,
richiede la messa in funzione d’un differente principio di causalità e d’un’altra forma del tempo.

132. Il processo temporale con il quale abbiamo a che fare nell’interpretazione analitica non è
quello, unidirezionale, della fisica classica, il quale è solidale con il principio di ragione sufficiente,
perché non è un tempo in cui il passato determina un futuro (t-1 > t0 > t1), mentre il presente non
determina affatto il passato. Le ben note parole conclusive della Traumdeutung, nella quali, con un
po’ d’ironia, Freud ammette che i sogni possono essere profetici, ma solo perché il futuro di ciascun
soggetto tende a riprodurre il suo passato («passato, presente, futuro, legati al filo del desiderio»),
rendono conto del fatto ch’egli doveva percepire chiaramente che l’esperienza nella quale si
muoveva richiedeva una forma di tempo diversa da quella classica. Il «filo del desiderio» infatti non
è la freccia del tempo, cioè la causalità che agisce sempre e solo in una direzione. Esso non lega il
futuro al presente e questo al passato con una determinazione univoca e unidirezionale; lega invece
il futuro al passato, ma ad un passato che è, per così dire, soltanto la retroazione del presente. Il
fatto che il soggetto sia identico, in quanto tale, al tempo, non implica che il tempo soggettivo sia
identico a quello della fisica. Ciò comporterebbe anzi quella stessa fuorclusione del soggetto che
definisce la scienza classica. Fra i tre tempi costitutivi del soggetto non potremo stabilire legami di
determinazione unidirezionale (t-1 > t0 > t1), ma rapporti molto più complessi, che potremo
rappresentare ripiegando la freccia del tempo in questo modo:

Ognuno dei tre tempi, nello schema, appare attraversato due volte dalla freccia, e solo questo rende
conto della possibilità dell’interpretazione analitica, in quanto tale duplicità corrisponde alla
duplicità del soggetto, alla sua divisione. Il passato è, qui, una retroazione del presente, perché esso
sussiste nella memoria. Ma la memoria non è una trascrizione immutabile, è movimento a sua volta.
Essa, come diceva Freud, è «senza garanzia»: se il passato determina il presente, è soltanto perché
ne è a sua volta determinato. Il ricordo non è che un perceptum privo della perceptio. Se dunque,
come nella temporalità classica, il passato determina il presente, è perché a sua volta esso è
determinato e causato dal presente. Senza questa possibilità di rideterminazione soggettiva (di
risoggettivazione) del passato – senza la possibilità di fare del passato un futuro anteriore –
resterebbe inesplicabile non solo la verità dell’interpretazione analitica, ma anche l’efficacia della
psicanalisi.

133. Quando ci eravamo serviti dell’esempio del ricordo d’un verso di Dante per mostrare qual è
la differenza fra la memoria in generale e la memoria linguistica, avevamo affermato che soltanto il
pregiudizio dell’assolutezza del tempo rendeva necessario supporre questa memoria. In effetti, per
eliminare del tutto il problema della memoria nel senso della trascrizione e della traccia, basta
considerare ogni singolo istante come la scaturigine del tempo. Se così non fosse, del resto, il tempo
non avrebbe durata. La memoria è la proiezione, sull’ascissa del tempo assoluto, della libera
invenzione d’un passato ch’è prodotta dall’atto soggettivo. Non c’è memoria inconscia nel senso
della traccia, perché la memoria non è altro che un momento dell’atto soggettivo, non è altro che la
durata sulla quale si commisura il movimento del rappresentarsi del soggetto come oggetto, cioè il
movimento del tempo. Tutta l’esperienza dell’analisi ci dissuade dall’intendere il passato come una
morta esteriorità, cioè come un indeterminabile già determinato. Il passato non è sottratto alla
possibilità d’azione soggettiva, perché esso non ha esistenza se non per un soggetto. Esso non
sussiste mai come identico, ma è la retroazione del modo in cui un soggetto si pensa, così come il
futuro è la sua proiezione.
Sta qui l’essenziale d’una nozione fondamentale in Freud, quella di Nachtrag. Non dobbiamo
intendere la retroazione soggettiva, grazie alla quale un evento passato è suscettibile d’acquisire per
un soggetto significazioni sempre diverse, al modo d’un semplice meccanismo di feed-back. Un
meccanismo biologico o meccanico a feed-back è pur sempre progressivo nel tempo: la retroazione
s’intende qui soltanto come riferita ad una direzione nello spazio. La retroazione freudiana, il
Nachtrag, è invece immediatamente una retroazione nel tempo. Non si tratta insomma soltanto d’un
problema di significazione, ma anche di senso, perché la memoria fa parte integrante del pensiero (è
una delle sue condizioni), ma solo in quanto il pensiero fa parte integrante e costitutiva dell’atto
soggettivo. È vero infatti che qui stiamo articolando il rapporto fra passato, presente e futuro in
termini di pensiero, cioè in termini cartesiani, come ci assicura del resto anche il fatto che il tempo
è rappresentato, nel nostro schema di partenza, come un asse cartesiano, per quanto ripiegato su se
stesso (e questo certo in modo per niente cartesiano). Nonostante questa piegatura, le frecce ricurve
che collegano t-1, t0 e t1 possono ridursi a due segmenti delimitati da tre punti su un asse
cartesiano, se noi trascuriamo il fatto che ci stiamo riferendo a un tempo soggettivo, e continuiamo
a pensare il tempo nei termini classici dell’unidirezionalità. Se ciò è possibile, è perché le sei frecce
del nostro schema sono ancora la freccia dell’asse cartesiano di partenza, che però s’è ripiegato su
se stesso, rendendo possibile rappresentare, oltre alla contiguità progressiva dei tre tempi, anche una
contiguità fra il primo e il terzo, senza passare per il secondo. Il nostro vettore non riposa più su un
piano, ma sulla superficie d’un cono: solo in questo modo noi possiamo congiungere t-1, a t1 lungo
una sua sezione circolare e congiungere t0 ad essi in modo tale che sia possibile giungere da
ciascuno dei tre punti a ciascun altro indifferentemente passando o non passando per il terzo.
Vedremo più avanti che questa modificazione dello schema ci consentirà in primo luogo
d’articolare il carattere non temporale dell’istante, come Platone afferma nel Parmenide, con la
durata soggettiva della temporalità, e in secondo luogo di rendere la nostra concezione della
temporalità congruente con la teoria della relatività. Entrambe le cose saranno essenziali per
mostrare come una teoria scientifica ed una teoria filosofica possano essere articolate insieme in un
discorso terzo, che le include entrambe, ma può esprimere anche l’una o l’altra attraverso diverse
riduzioni (chiameremo questo discorso terzo, con Vico, «scienza nuova»).

134. Tutto, nella concezione freudiana del Nachtrag, lascia intendere che la psicanalisi agisce in
una reversione temporale che non sarebbe rappresentabile in nessun modo se non assumessimo i
due presupposti che abbiamo isolato poco fa: la continuità del tempo e del non tempo e la non
contraddittorietà, a differenti livelli di discorso, fra una teoria fisica e una teoria filosofica
all’interno d’un concetto allargato di scientificità. Se infatti il passato fosse definitivamente
determinato e definitivamente immodificabile, a nulla varrebbero gli sforzi dell’analisi per sottrarre
un soggetto al suo sintomo. È ciò di cui ogni soggetto, all’inizio d’un’esperienza analitica, non si
stanca di chiedere ragione all’analista: com’è possibile rimediare a una mancanza che ha le sue
radici nel passato? Com’è possibile avere ora ciò che allora non fu dato? Se il sintomo trova le sue
radici nel passato – e Freud insiste su questo punto: ogni nevrosi è lo sviluppo e la ripresa d’una
nevrosi infantile originaria, con la sola eccezione delle «nevrosi attuali» –, come si può rimediare a
questo? Per produrre un effetto sul reale del sintomo è forse sufficiente rendere coscienti dei moti
pulsionali inconsci, la cui origine affonda in un remoto passato, e che restano fissati agli eventi di
quel remoto passato? L’esperienza dimostra che questo effetto, a certe condizioni, può prodursi. Il
sintomo, del resto, è uno stato soggettivo nel quale l’azione del soggetto è difficoltosa o impossibile
(le leve e i meccanismi dell’azione, infatti, sfuggono al suo controllo). Passare dal modo inconscio
al modo cosciente del sapere significa sbloccare gl’ingranaggi dell’azione, e perciò guarire una
nevrosi. Ora, come sarebbe possibile questo, se non si potesse modificare lo statuto del passato?
Come sarebbe possibile questo, se il passato non fosse, in quanto depositato nei movimenti attuali
del soggetto, cioè nella sua memoria, ancora indeterminato, quindi determinabile nachträglich,
come Freud non si stanca di ripetere?
Ma agire significa sempre rideterminare il passato e predeterminare il futuro. Agendo ora (in t0),
non solo escludo dal futuro tutta una serie di possibilità, determinando t1, ma escludo dal passato
tutta una seconda serie di possibilità causali, che vi erano ancora aperte come sentieri sospesi. La
rappresentazione d’un storia passata determinata e non più determinabile ha la sua giustificazione
solo entro una teoria unitaria del soggetto e in una concezione classica del tempo (del tempo
rettilineo, e non ricurvo). Ma aprire di nuovo le strade del passato, rideterminando un tempo t-1, il
quale a sua volta agirà nuovamente sul tempo presente e sul tempo futuro, è la strada del tempo
ritrovato, è la strada poetica del mito, ma è anche la strada dell’azione soggettiva, eticamente
fondata. Infatti potrebbe sembrare che la retroiezione del tempo esprima solo un pensiero mitico.
Ma la psicanalisi dimostra – lo dimostra in effetti, pur non essendo affatto una teoria soltanto
mitica, perché è invece una teoria fondata sulla scienza, anche se riguarda i limiti della scienza –
che questo non è affatto vero. Certo, l’esperienza freudiana ci riporta verso un antico sapere e verso
un’antica saggezza. Ma essa è, fra i saperi del nostro tempo, in una posizione privilegiata, perché
solo essa potrà consentirci di considerare il mito, la filosofia e la scienza come momenti distinti
eppure convergenti e non contraddittori, perché esprimibili tutti all’interno d’una sola teoria:
suggestiva come il mito, precisa come la scienza, e fondata trascendentalmente come la filosofia.
III. L’interpretazione

135. L’unico modo per affrontare il problema della verifica in psicanalisi è tener conto dei dati
della situazione analitica, ch’è caratterizzata non tanto dalla presenza del transfert – il quale si
manifesta anche in molte altre situazioni –, quanto dalla presenza, nella relazione di transfert,
dell’analista, cioè di qualcuno che saprà sottrarvisi. Il transfert in definitiva consiste nella volontà
nevrotica di far sapere all’altro, cioè di diventare, come soggetto, il significante che manca all’altro
per essere un soggetto senza divisione (non ci risulta invece che sia mai vero il contrario, cioè che
l’analizzante voglia trarre dall’analista ciò che gli manca per raggiungere il proprio ideale:
quest’eventualità, se si realizzasse, escluderebbe qualunque lavoro d’analisi, e anche qualunque
amore, e ci pare del tutto lontana da ogni evidenza clinica). Nel transfert ci troviamo senza dubbio
nel registro del fantasma. La molla di questo amore – il quale è così poco disinteressato da essere
concepito in termini di scambio – è infatti il tentativo di raggiungere in due quanto il soggetto
nevrotico sa bene che, da solo, non potrebbe ottenere: l’eliminazione della propria divisione
soggettiva. Naturalmente, si tratta d’un obiettivo irraggiungibile perché esclusivamente
fantasmatico; infatti un soggetto senza divisione non sarebbe affatto, visto che la divisione stessa
non è accidentale, ma costitutiva della soggettività (ed è proprio ciò che si deve imparare in
un’analisi). L’analista dovrà dimostrare questa verità all’analizzante, sottraendosi alla propria
posizione impossibile di sostegno immaginario, e facendogli accettare la divisione che lo
costituisce.

136. Se l’analista dimostrasse, nell’analisi, di fare gran conto del sapere che gli viene donato, e
quindi ammettesse di mancarne, non farebbe che stabilizzare la nevrosi dell’analizzante. Ma egli,
benché sia un soggetto diviso come chiunque altro, non può averne bisogno, ed è a questo – a
questo non volerne – che deve prepararlo la sua formazione analitica. L’enunciato della regola
fondamentale è ambiguo; per un verso significa: «Qualunque cosa tu dica, non m’ingannerai»; ma
per un altro potrebbe tradursi con un: «Qualunque cosa tu dica, non m’importa». L’ambiguità
dell’enunciato della regola è quindi, in realtà, una vera e propria contraddizione: l’analista non sa
che farsi del sapere che gli viene imposto nel transfert, e tuttavia non solo lo accetta, ma addirittura
lo sollecita. La regola fondamentale è in quanto tale la regola d’una divisione. Essa esprime come
regola, come abbiamo già notato, l’abolizione d’ogni regola, e rende perciò eticamente inderogabile
l’amore. L’amore da transfert, nella sua contraddittorietà – da una parte amore reale, ma dall’altra
amore considerato solo come strumento –, è in effetti reso possibile, e addirittura inevitabile,
proprio dall’enunciazione della regola fondamentale, la quale prescrive come legge l’abolizione
d’ogni legge (la regola, naturalmente, impone l’amore nella sua verità, non l’amore fantasmatico,
ma la distinzione fra il secondo e il primo sarà effettuata solo alla fine dell’analisi). Si potrebbe
obiettare, e non a torto, che l’enunciazione della regola non basta a creare dal nulla un amore che
già non ci sia: infatti il sintomo nevrotico è già strutturato in modo transferale. Per l’analista si tratta
solo di mettere in funzione in relazione all’analisi una struttura ch’è già perfettamente articolata e
funzionante.
Ma che struttura è quella che la formulazione della regola d’abolizione delle regole impone alla
situazione analitica? Non possiamo rispondere se non ch’è la struttura dell’amore assunto nella sua
verità, nonostante la negazione di questa verità che, per via dello scambio, è contenuta nel transfert.
Infatti l’analista è realmente presente nell’analisi, anche se non è effettivamente situato nel fantasma
dell’analizzante e nel transfert. La sua posizione è quindi da una parte menzognera (nel transfert),
dall’altra del tutto veritiera (nel suo desiderio di psicanalista). Ne consegue che l’amore da transfert
si viene a disegnare sullo sfondo, all’inizio dell’esperienza del tutto implicito, ma poi man mano
sempre più evidente, dell’amore vero dell’analista, cioè d’un amore che dà senza chiedere nulla in
cambio: certo con il limite essenziale del compenso economico, senza il quale assolutamente nulla
distinguerebbe il desiderio dell’analista dall’amore cristiano. Può sembrare del tutto paradossale
dire questo, perché nulla sembrerebbe più lontano da quello che comunemente è ritenuto essere
l’amore cristiano del desiderio d’un analista, ma proprio di questo si tratta. Potremmo dire
addirittura che il desiderio dell’analista è una caricatura dell’amore cristiano, se invece non ne fosse
piuttosto una riduzione. Imponendo l’amore come principio dell’abolizione della regola, ponendolo
quindi al di sopra del «dire liberamente», l’enunciazione della regola fondamentale apre infatti
automaticamente – e magari senza che neppure l’analista ne sia chiaramente consapevole – lo
spazio di quest’amore, il quale è mascherato dall’amore da transfert (e quindi reso più facilmente
tollerabile, sia per l’analizzante, sia per l’analista), ma costituisce anche l’unico sostegno reale della
relazione transferale. Di conseguenza non c’è molto da stupirsi del fatto che certamente ben pochi
analisti si riconosceranno nell’immagine che di loro qui stiamo abbozzando, abituati come sono a
pensarsi circondati più dall’odore dello zolfo che da quello dell’incenso. Ma si rassicurino pure: che
la loro posizione sia diabolica o santa non è affatto deciso, dal momento che può essere definibile
sia in un modo, sia nell’altro, e che in definitiva ciascuno di loro dovrà necessariamente decidere,
nel corso dell’analisi, come vorrà o potrà determinare la propria. Di fatto, quest’ambiguità è
indispensabile, dal momento che l’analista non potrebbe essere circondato solo dall’incenso senza
divenire, con questo, un membro onorario dell’esercito della salvezza, invece che l’analista che
dev’essere, e che invece egli, se non parlasse in nome della verità dell’amore, non riuscirebbe a
sottrarsi dalla propria posizione di sostegno immaginario della struttura nevrotica senza provocare,
con questo, l’interruzione, e non la conclusione, dell’analisi (d’altronde mettere in rilievo questo
aspetto della relazione analitica – questa «santità» dell’analista – è stato senza dubbio un merito di
Lacan, che per primo ha introdotto nella teoria analitica la funzione del «desiderio dell’analista»,
concependolo come equivalente al suo «non volerne» del sapere che l’analizzante gl’impone
nell’analisi; Freud, invece, senza dubbio ne voleva sapere, in nome della «causa», come ci si
esprimeva nel linguaggio del tempo, e i suoi più manifesti insuccessi terapeutici dipesero appunto
da questa volontà di sapere). Ma che di fatto quest’ambiguità sia necessaria allo svolgersi
dell’analisi non significa che, eticamente, la posizione dell’analista possa continuare ad essere
ambigua a sua volta, se assunta di per sé (cioè nella relazione fra l’analista e la psicanalisi), e non
nel transfert (cioè nella relazione terapeutica). Credere possibile evitare la formulazione d’un
giudizio etico sulla posizione dell’analista significherebbe infatti rinunciare a vedere alcuna
differenza fra la psicanalisi e le psicoterapie, cioè fare dell’intera esperienza analitica un’esperienza
di finzione.

137. Con il non volerne sapere da parte dell’analista siamo approdati a quello che possiamo
chiamare il grado zero dell’interpretazione. Qualunque cosa faccia l’analista nell’analisi – e, da
questo punto di vista, meno fa e meglio è, almeno quando si tratta di nevrosi –, il suo essere lì è
sufficiente a significare questo non volerne sapere. Quando Freud dice che l’analisi deve svolgersi
continuamente in un regime di Versagung, questo non significa affatto, come s’è sempre creduto,
che si debbano lasciare insoddisfatte le domande (le domande d’amore) dell’analizzante, o che esse
si debbano «frustrare». Versagen non significa affatto frustrare, come si traduce di solito,
orientando tutto il percorso dell’analisi nel vicolo cieco della sequenza frustrazione-aggressione-
regressione. Versagen non significa frustrare, ma ver-sagen, «disdire», cioè venire meno a una
promessa. La Versagung non consiste insomma nel rifiuto di soddisfare a una domanda ma, proprio
al contrario, nel rifiuto di fare una domanda. Questo rifiuto, questo no che l’analista deve opporre
alla complicità che pure, con la sua stessa presenza, ha suscitato, è, dicevamo, il grado zero
dell’interpretazione. Il famoso «silenzio» dell’analista è solo questo, poiché il suo stesso tacere è già
un’azione. Il movimento dell’interpretazione coincide in definitiva con il sottrarsi dell’analista dal
posto in cui lo ha collocato l’analizzante nel transfert. Certo, questo sottrarsi – questo grado zero
dell’interpretazione – non è la cosa essenziale, nell’analisi, perché esso è un atto analitico, e non un
mero disinteresse, solo se si profila sullo sfondo della presenza reale dell’analista stesso.
Se infatti versagen significa venir meno a una promessa, questo non significa certo che l’analista
sia un mentitore (benché ci sia della menzogna nel suo prestarsi all’impostazione transferale
dell’analisi). Alla fine dell’esperienza può capitare che l’analizzante gli rimproveri proprio d’aver
mentito, ma si tratta solo d’un momento, nel corso dell’abbandono della posizione transferale. In
realtà, nella formulazione della regola fondamentale – contraddittoria, come dicevamo – sono
contenute anche due promesse: una – quella davvero essenziale – è che l’analista desidera che
l’analisi si svolga, e che quindi è preparato a non cedere su questo suo desiderio; l’altra – del tutto
inclusa nel transfert – è invece che basta dire «qualunque cosa» perché analisi ci sia. Ora, questo
secondo contenuto della regola è senza dubbio falso. Non basta dire «qualunque cosa» per far
avanzare un’analisi. Una formulazione più precisa della regola dovrebbe affermare che non si può
sapere, prima di dire, che cosa avrà l’effetto di produrre questo avanzamento. Ma la formulazione
della regola è generica proprio per lasciar essere, nell’ambiguità dell’analisi, l’ambiguità della
posizione nevrotica (e la possibilità dello sviluppo del transfert). Se infatti l’analista ascolta il
soggetto che gli fa una domanda – e ogni domanda è sempre, in un modo o nell’altro, una domanda
d’amore –, questo non è forse un segno evidente del fatto che tale amore è, come lo sono tutti i
sentimenti, assolutamente reciproco? Inoltre, se qualcuno gli domanda qualcosa, è perché l’analista,
per il fatto stesso di porsi come tale, s’è già messo nella posizione dell’amante. E giustamente
Lacan ricorda, nel seminario sul Transfert, che il primo movimento dell’analisi consiste nel far
passare l’analizzante dalla posizione dell’amato (in quanto l’analista è lì per occuparsi di lui) a
quella dell’amante (vale a dire in quella transferale). Il primo passo nella direzione dell’amore è
quindi certamente dell’analista, e non dell’analizzante.
Ma di che amore si tratta, quando diciamo questo? Certamente non dell’amore da transfert.
L’amore dell’analista – vale a dire il suo «desiderio» – consiste in definitiva nella sua volontà di far
emergere il desiderio e l’amore dell’altro nella sua verità. Si tratta dunque d’un amore che non
vuole niente dall’amato, se non che egli non s’inganni sul proprio desiderio, e che appunto per
questo non è in contraddizione, come sembrerebbe a prima vista, con il non volerne sapere, da parte
dell’analista, dell’amore da transfert. Se l’amore dell’analizzante per l’analista (l’amore da
transfert) fosse un amore vero, il non volerne sapere da parte dell’analista sarebbe indizio d’un
inganno intollerabile, che farebbe dell’intera esperienza analitica una menzogna terapeutica. Se così
fosse, la psicanalisi sarebbe tutt’altro che eticamente fondata. In realtà l’amore da transfert, pur
essendo un vero amore, non è affatto un amore vero, perché si fonda sull’ambiguità delle
significazioni. Per esempio l’analizzante, nella situazione instaurata dall’analisi, penserà che
l’amore è incluso necessariamente nella significazione, per il fatto stesso che egli viene ascoltato,
«qualunque cosa dica», dal suo psicanalista, e penserà pure che questo amore necessario è destinato
a lui, in quanto è lui che parla. Solo perciò risponderà a quest’amore che attribuisce – al tempo
stesso a torto ed a ragione – all’analista, mettendosi ad amarlo. Ma l’errore logico, qui, è del tutto
evidente, perché l’analizzante scambia (certamente, come la regola fondamentale gli consente di
fare) l’amore vero dello psicanalista per un amore patologico. Tutto ciò è straordinariamente
evidente nei casi d’isteria, nei quali bastano pochi mesi d’analisi perché tutto si svolga come se
fosse l’analista ad aver bisogno dell’aiuto dell’analizzante, e non vice versa. Ma le significazioni
sono sufficienti a produrre solo la sembianza d’un amore, cioè un amore «da transfert», il quale,
certo, sarà sostenuto in ultima istanza dall’amore vero dell’analista, ma solo a condizione che questa
verità si camuffi nei tratti che ad esso vengono imposti dai termini elettivi del fantasma e del
transfert, secondo la formula dello scambio nevrotico: «Io ho quel che ti manca».
Certo, la sembianza d’un amore è pur sempre un amore effettivo, fondato in ultima istanza sulla
verità dell’amore, senza il quale l’analista non sarebbe altro che un impostore. Questa sarebbe
infatti la sua vera posizione, se egli si limitasse a tollerare un amore che non condivide, anche se
«per il bene» dell’analizzante. Se così non fosse, quel «po’ di criminalità» che Freud riteneva
necessario per svolgere questo lavoro sarebbe invece un’effettiva criminalità morale, la quale, anche
a prescindere dal giudizio che si potrebbe dare su di essa, non spiegherebbe affatto come accada che
le analisi funzionino, dal momento che nessun nevrotico, nonostante l’amorosa illusione sulla quale
si sostiene sempre il suo sintomo, riuscirebbe ad illudersi fino al punto di non riconoscere una totale
impostura. D’altra parte un analista non potrebbe nemmeno formulare la regola dell’abolizione
d’ogni regola se non fosse già nella posizione della verità d’un amore che, contrariamente all’amore
da transfert, non chiede nulla in cambio per quel che dà. Naturalmente, essere meccanicamente in
questa posizione non è affatto difficile per lui, perché la sua stessa professione ve lo situa. Crediamo
tuttavia che questa meccanicità non basti mai a compiere un atto analitico. Infatti, se bastasse, si
potrebbe imparare a praticare la psicanalisi all’università, e questo certamente non accade. La
professione può servire soltanto a velare agli occhi dell’analista (molto più che a quelli
dell’analizzante, se non alle prime battute) il fatto d’occupare la posizione dell’amante, e non, come
si crede di solito, quella dell’amato. In definitiva la stessa Versagung, in analisi, è in funzione della
verità di questo amore, il quale fa anche del silenzio dell’analista un «atto analitico», cioè un atto
etico. Ora, nessuno tollererebbe questa Versagung se non gli fosse ben chiaro che, se da una parte
essa pare l’indizio del non mantenere una promessa, dall’altra è invece il segno manifesto d’una
fedeltà.

138. In realtà anche il presunto silenzio dell’analista, se teniamo conto del fatto che viene a
profilarsi sullo sfondo della sua presenza, è già un atto d’enunciazione. Si tratta d’un’enunciazione
che risulta tanto più pura quanto meno può confondersi con un enunciato. Per la maggior parte della
durata d’un’analisi, un analista non fa che sottolineare con la sua sola presenza, scandita da pochi
tratti di linguaggio meramente fatici, d’occupare un punto d’enunciazione. Ma non può esserci
un’enunciazione senza enunciato, e anche il mero silenzio, nella situazione di dialogo in cui
consiste un’analisi, ne sottintende uno. Qual è dunque l’enunciato di quello che abbiamo chiamato il
grado zero dell’interpretazione? Semplicemente questo: «Tu lo dici!». Il punto esclamativo, qui, è
essenziale. L’interpretazione di grado zero non è altro che un punto esclamativo posto accanto
all’enunciato dell’analizzante, che serve a sottolinearne l’enunciazione. Essa segnala il ridursi della
significazione a un movimento soggettivo e, per quanto questo movimento, a volte, possa sembrare
poco rilevante, è pur sempre grazie ad esso che un’analisi è efficace.

139. Da quanto abbiamo detto fin qui risulta che l’interpretazione analitica non ha niente a che
fare con l’interpretazione ermeneutica, perché non punta affatto a rilevare un’altra significazione,
dietro quella apparente d’un enunciato, ma punta in primo luogo a metterne in rilievo
l’enunciazione. Che nel nostro tempo si sia giunti a teorizzare l’infinità delle significazioni possibili
d’un testo, e quindi la liceità di tutte le sue interpretazioni, non è che un sintomo della modernità,
perché una significazione infinita non è più una significazione, e un’interpretazione qualunque non
è affatto un’interpretazione. Freud parla certamente d’un «ombelico del sogno», d’un punto in cui la
rete delle significazioni diventa così fitta che non è più possibile, né utile, seguirne la trama. Ma
questa è l’abolizione della significazione, non la sua moltiplicazione. E proprio per questo
dall’«ombelico del sogno», com’egli dice, si leva, «come un fungo dal suo micelio», il desiderio
onirico. Questo non significa che il desiderio del quale si tratta nel sogno sia un desiderio insensato.
Significa invece che il luogo del soggetto, fra le significazioni, è solo quello che non può essere
definito attraverso di esse.

140. Nessuna esperienza è più favorevole di quella analitica a mettere in rilievo la differenza
sostanziale fra la parola piena e la parola vuota. Questa distinzione, introdotta per la prima volta da
Lacan negli anni Cinquanta, è essenziale per intendere l’azione dell’interpretazione. L’unica verità
soggettiva che si possa articolare attraverso il linguaggio è quella della parola che si riempie di
senso. Ma qui la parola non è affatto identica al significante. Un’espressione come «il cielo è
azzurro» sarà immediatamente ritenuta vera, ma certamente non è più vera o più falsa di «il cielo è
rosso» o «il cielo è nero». Ritenere che il cielo sia azzurro è semplicemente una convenzione
linguistica, che la percezione e la pittura hanno mille volte smentito. Ciò nonostante, in quanto
parlanti, continuiamo ancora stupidamente a credere vero che «il cielo è azzurro». Solo in rari
momenti della nostra esistenza quest’espressione è stata vera e, quando lo è stata, l’azzurrità del
cielo non ci ha lasciati affatto indifferenti. Dante, per descrivere non un cielo azzurro, ma la verità
di quest’azzurrità, cioè lo stupore di qualcuno dinanzi ad essa, non s’è limitato a dire: «Il cielo è
azzurro», ma ha detto:

Dolce color d’orïental zaffiro.


Costringendoci a vedere nell’oriente la pietra preziosa, e nella pietra il cielo, e in tutto ciò la
dolcezza, egli ci fa sentire la verità di quest’azzurrità, ne esprime il senso direttamente nelle
significazioni, attraverso il suono delle loro rappresentazioni. Ma, parlando dell’interpretazione in
psicanalisi, non siamo giunti ancora a porci il problema del senso, perché abbiamo parlato solo della
funzione dell’enunciazione.

141. La regola fondamentale, che prescrive di dire «qualunque cosa», non significa che basti
questo per fare un’analisi. Significa invece che qualunque cosa – qualunque parola «vuota» – può, a
certe condizioni, risultare vera («piena»). La funzione dell’interpretazione è proprio questa di
favorire l’inveramento della parola vuota, consentendo al soggetto di venirla ad abitare. Ora,
abbiamo già descritto un grado zero dell’interpretazione, che consiste nella sottolineatura
dell’enunciazione. La funzione dell’enunciazione ha senza dubbio un valore essenziale quanto alla
verità. Il «tu lo dici!» implicito nell’interpretazione «di grado zero» ha senza dubbio un effetto di
produzione di verità. Ma di che verità si tratta qui? Non c’è dubbio: soltanto di quella della
significazione, non di quella del senso, che invece è la verità soggettiva essenziale. La parola vuota
consiste in definitiva nell’enunciato di cui si dimentica l’enunciazione. Ciò significa che entro la
parola «piena», della quale parla Lacan, dobbiamo distinguere, come funzioni del tutto differenti,
un’espressione dell’enunciazione nella parola, ed un effetto di senso. Per ora, tuttavia, limitiamoci
ad articolare la prima di queste due funzioni.
La relazione fra enunciazione ed enunciato è talmente radicata che ci sono enunciati la cui
significazione può restare indecisa in mancanza di dati sulla sua enunciazione. Ciò nonostante
siamo così assuefatti a pensare in termini d’enunciato che dimentichiamo facilmente che, ciò che
stiamo dicendo, lo stiamo appunto dicendo, e lo stiamo dicendo a qualcuno. Riusciamo persino a
dimenticare che lo shifter «io» non ha nessuna significazione al di fuori delle condizioni concrete
dell’enunciazione, o che, per meglio dire, la sua sola significazione consiste nel rinviare al soggetto
dell’enunciazione. Ma anche questo rinvio viene solitamente dimenticato. Chi si ricorda, ogni volta
che dice «io», che «io» è qualcosa d’altamente problematico, perché in realtà designa,
nell’enunciato, solo un buco? Chi non crede invece che «io» sia un oggetto del mondo come tutti gli
altri, e non pensa d’essere identico con quest’oggetto del mondo? Chi non confonde, in altri termini,
l’«io» come pronome con l’«io» come identificazione immaginaria?
Mettere in rilievo l’enunciazione d’ogni enunciato è senza dubbio una funzione essenziale
dell’analista, sulla quale Lacan ha avuto ottimi motivi per insistere. Un conto è tuttavia la verità
raggiungibile attraverso la funzione dell’enunciazione, un altro è la verità che riguarda il prodursi
reale del soggetto. La verità dell’enunciato «oggi piove» dipende senza dubbio dalla situazione
della sua enunciazione. Ma non basta dire questo per farne un enunciato nel quale si manifesta
qualche verità soggettiva. In realtà l’unica verità soggettiva che possiamo ricavare
dall’enunciazione è quella che fa del soggetto un semplice buco fra le significazioni, vale a dire un
indeterminato. L’insegnamento di Lacan è stato spesso interpretato in modo tale da porre come
scopo dell’analisi il confronto del soggetto con questa indeterminazione ultima del suo essere, nella
quale non è possibile individuare altro reale del soggetto che la morte. Certo, se questa
interpretazione è stata possibile, ciò non è accaduto senza che ce ne fossero motivi nello stesso
insegnamento di Lacan, molti elementi del quale, tuttavia, come abbiamo cercato di mostrare nella
Formazione e nel Mito di Crono, restano contraddittori con la prospettiva di quest’interpretazione.
Come abbiamo già detto, noi non pretendiamo di sviluppare tutto l’insegnamento di Lacan, il cui
merito principale è, secondo noi, quello di costringerci a percepire molti problemi della pratica
analitica, e non quello di risolverli. Dobbiamo dunque entrare in contraddizione non solo con le
posizioni di Lacan, ma anche con quelle che noi stessi avevamo sostenuto nella prima edizione di
questo volume, quando avevamo affermato che la sottolineatura dell’enunciazione, già
nell’interpretazione «di grado zero», è sufficiente a produrre il senso dell’enunciato. Questa ipotesi,
oggi, ci pare del tutto falsa. Il «tu lo dici!» sottolinea, certo, che il soggetto dell’enunciazione è
differente da quello dell’enunciato, e che non si parla mai se non si parla a qualcuno; ma né la prima
né la seconda sottolineatura dà una risposta alla domanda: chi parla? Limitarsi alla funzione
dell’enunciazione, per spiegare che cosa caratterizza l’interpretazione analitica, significa ridurre la
psicanalisi ad una pratica il cui scopo sarebbe solamente la produzione della rassegnazione del
soggetto all’insensatezza del suo esistere. Beninteso, non vogliamo negare che l’esistenza
soggettiva, assunta di per sé, è effettivamente insensata (in fin dei conti non c’era bisogno della
psicanalisi per accorgersi di questo). Vogliamo solo sottolineare come tale riconoscimento sia un
punto di partenza sulla strada della saggezza, non la meta ultima. Di fatti questa insensatezza, in
ultima istanza, non spiega niente. Non spiega, per esempio, il fatto che si parli e che, per parlare,
non basta allineare dei significanti, perché la parola non è la chiacchiera, e perché, senza la parola,
non ci sarebbero neppure dei significanti. In altri termini, la «parola vuota», come la definisce
Lacan, non è affatto la Parola, ma è l’effetto della dimenticanza, nella produzione d’enunciati, della
loro enunciazione.
Abbiamo detto ch’è sufficiente ricordarsi che non c’è enunciato senza enunciazione perché la
parola sia «piena», cioè sia un termine di verità per il soggetto. Ma la verità che possiamo
raggiungere attraverso l’enunciazione, nei modi articolati da Lacan, è ancora la verità del non senso
soggettivo, e non è affatto la verità del senso, la quale non è contenuta nelle parole, come invece vi
è contenuta la significazione (con la sola eccezione dell’enunciazione). Ma il fatto che sia il senso
sia l’enunciazione sono esterni alla significazione, perché rientrano in due differenti atti soggettivi
connessi con la significazione, ma non identici ad essa, non significa che senso ed enunciazione
siano la stessa cosa. L’enunciazione, infatti, pur essendo esterna alla significazione, come il senso, è
un fattore di significazione, mentre il senso non dipende minimamente dalla significazione, se non
dal punto di vista fattuale, e ne è anzi la matrice (su questo punto rimandiamo il lettore alle pagine
della Formazione che abbiamo dedicato al senso). Potremmo forse giungere a dire che
l’enunciazione ha lo stesso compito e la stessa funzione che ha in Kant lo schematismo
trascendentale: dare unità alla molteplicità delle rappresentazioni da una parte, e alla singolarità del
concetto dall’altra. Si tratta d’un problema logico ch’è sempre stato essenziale nella metafisica, e
per considerare il quale occorre anche tener conto del concetto d’ipostasi, cioè della possibilità d’un
concetto – in quanto tale uno – d’essere determinato da elementi differenti, ma tutti ineliminabili da
esso.
L’esperienza della psicanalisi serve a risvegliare il soggetto dal suo «sonno ontologico». Essa gli
ricorda che altro è l’oggetto ed altro è il soggetto, che altro è la significazione ed altro il senso.
Proprio per questo tale esperienza merita d’essere definita un’esperienza trascendentale. Ma lo
merita, beninteso, solo s’è in grado di dischiudere al soggetto il senso della sua parola. Certo, non si
tratta affatto d’un compito semplice, e non perché nell’esperienza dell’analisi non si produca mai
del senso (ciò infatti accade molto spesso, ed anzi il compito essenziale dell’interpretazione ci pare
proprio quello di stimolare o sottolineare questa produzione), ma perché la stessa teoria classica
della psicanalisi tende a dimenticare che il senso non è semplicemente un compromesso fra il
simbolico e l’immaginario, come afferma Lacan e come noi stessi avevamo creduto in precedenza,
ma è appunto la produzione del reale della soggettività, che a nostro avviso non è affatto la morte
(benché l’accettazione della morte sia un momento essenziale nell’esperienza del senso).

142. Dal fatto che, per il solo effetto del dispositivo analitico, qualunque atto dell’analista (anche
il suo astenersi dall’agire) ha il valore d’un’interpretazione, sia pure «di grado zero», non si può
dedurre che egli possa limitarsi, per svolgere il suo compito, a tacere ed annuire. A volte è
sufficiente ch’egli ripeta, in chiave esclamativa, le stesse parole dell’analizzante, perché queste,
ch’erano vuote per quest’ultimo, acquistino una significazione del tutto differente. Può capitare, ad
esempio, che un analista ripeta parola per parola la frase detta dall’analizzante, e che ciò provochi le
più vive rimostranze di quest’ultimo. Una volta, in una situazione come questa, un analizzante
protestò, affermando che non aveva detto quello che io dicevo; quando gli feci osservare che avevo
ripetuto la sua frase parola per parola, mi rispose: «Ma, se lo dice Lei, significa un’altra cosa».
Certamente aveva ragione, dal momento che il soggetto dell’enunciazione d’una frase ne determina
la significazione, e quindi la può modificare. Eppure tutto questo non ha ancora nulla a che vedere
con il senso di quello che si dice. Naturalmente, non pretendiamo affatto che ogni interpretazione
giunga a far emergere del senso dal detto dell’analizzante (tanto più che il senso può prodursi
benissimo anche a prescindere dall’interpretazione). In realtà, perché ci sia interpretazione, è
sufficiente che l’enunciato e l’enunciazione dell’analista rimandino il soggetto al suo enunciato ed
alla sua enunciazione, mostrandogli che differenza passa fra ciò che egli dice e ciò che credeva di
dire. Un’interpretazione che vada al di là di quello che abbiamo chiamato il suo «grado zero» dovrà
consistere allora in un enunciato che costringa il soggetto ad assumersi, attraverso la sua
enunciazione, la significazione del proprio. Come si vede, l’interpretazione non ha niente a che
vedere con la «spiegazione» (anche se nulla impedisce che possa essere anche questo).

143. Un’interpretazione consiste senza dubbio in un enunciato il cui soggetto dell’enunciazione è


l’analista. Ora, in che modo questo enunciato può rimandare l’analizzante all’enunciazione del
proprio? In primo luogo osserviamo che l’enunciato interpretante è una frase, dotata di
significazione, che però non deve avere una significazione di per sé autonomamente conclusa. Se
fosse così, ci troveremmo di fronte ad una semplice battuta di conversazione. Anche se
prescindiamo dal senso, l’interpretazione dovrà estrarre dall’enunciato dell’analizzante delle
significazioni che vi erano incluse senza che egli fosse consapevole della loro portata.
Naturalmente, già una decifrazione di questo tipo è possibile solo perché l’analista non è
semplicemente uno specialista del linguaggio, ma è un soggetto concreto, che agisce non solo in
modo «professionale», ma anche in base ad un suo desiderio «di psicanalista» che non è affatto
estraneo al suo desiderio soggettivo. Per il momento, però, possiamo ancora prescindere da questo
aspetto del problema, anche s’è del tutto essenziale. Limitiamoci invece a dire che l’enunciato
interpretante dovrà modificare il contesto dell’enunciato dell’analizzante, facendo apparire la sua
necessaria incompiutezza. Come si vede, già in un atto come questo c’è una violenza che potrebbe
difficilmente essere tollerata, se non fosse compensata dalla consapevolezza della verità etica
racchiusa in questa stessa violenza.

144. Attraverso l’interpretazione l’analizzante si troverà ora ad essere il soggetto d’un enunciato
differente da quello che credeva di pronunciare o d’aver pronunciato, e quindi non potrà più
coincidere col soggetto del quale credeva di parlare, con il «se stesso» che credeva d’essere.
Tuttavia egli non dovrà identificarsi con un’altra significazione, come accadrebbe se si trattasse
d’un’interpretazione ermeneutica. Egli coincide ora con il suo mancare a se stesso, cioè con un
significante mancante. Non crediamo tuttavia che questo sia il massimo che si possa raggiungere in
un’analisi. Infatti il significante mancante con il quale l’analizzante, a un certo punto della sua
analisi, è costretto a identificarsi (cosa che provoca sempre quella fase più o meno blandamente
depressiva che precede sempre la fine d’ogni analisi), è lo stesso significante la cui mancanza egli
aveva tentato di colmare nell’altro cui si rivolgeva nel transfert (in definitiva non c’è che un
significante mancante). Perciò anche in questo caso l’interpretazione, consistendo in un sottrarsi
dell’analista dal posto ch’era parso occupare nel transfert, è un segno del suo «non volerne sapere».
Solo che l’analizzante, questa volta, a differenza che nell’interpretazione «di grado zero», non potrà
limitarsi a cercare un’altra significazione con la quale rimediare alla mancanza – al non sapere –
dell’altro, perché coinciderà con una mancanza che nessun significante potrà eliminare.

145. Ma le cose non sono affatto così semplici. Perché questo effetto dell’interpretazione si
produca bisogna che l’analista sappia bene da dove parla nel discorso dell’analizzante, cioè da dove
giungeranno a quest’ultimo le sue parole. L’analista, nell’interpretare, dovrà tenere conto del
transfert (per interpretare, diceva Freud, bisogna aspettare che il transfert si manifesti come
resistenza). Infatti, per aver effetto, un’interpretazione deve giungere al soggetto come una risposta,
cioè deve giungergli dallo stesso soggetto al quale egli si rivolgeva nel transfert. Solo così
l’interpretazione avrà un vero effetto di capovolgimento della situazione transferale: se nel transfert
l’analizzante era preoccupato solo di colmare la domanda che supponeva venirgli dall’analista («che
vuole da me?» è la domanda nella quale può condensarsi tutto il problema del rapporto fra un
analizzante e il suo analista), con l’interpretazione l’analista dovrà dare prova d’aver fatto suo quel
sapere che gli è stato fornito, ma utilizzandolo per mettere il soggetto di fronte all’inutilizzabilità di
questo stesso sapere, cioè dinanzi al fatto che nessun sapere sarà mai sufficiente a dare una
significazione al soggetto (a dire il suo vero nome).
Il soggetto si produce come un effetto di frangia del discorso che lo supporta, nel luogo in cui
questo discorso s’interrompe. Proprio per questo l’interpretazione ha sempre la funzione del taglio.
Introducendo delle discontinuità nel discorso dell’analizzante, l’analista fa sé che questi vi si
produca come soggetto proprio là dove la catena dei significanti e delle significazioni s’interrompe.
Con questo, tuttavia, stiamo descrivendo la funzione dell’interpretazione soltanto in negativo, dal
momento che il soggetto che si produce, come nota Lacan, come un buco nelle significazioni, è il
soggetto il cui solo reale è la morte. Il che solitamente – vale a dire: tutte le volte che il soggetto in
analisi non si sostenga su qualcos’altro che per lui conti di più della psicanalisi stessa – ha l’effetto
di costringerlo, alla fine della propria esperienza d’analisi, ad identificarsi di nuovo, del tutto
immaginariamente, con alcuni significanti-stendardo che possano rappresentarlo, sia pure in mera
finzione, in quella che altrove abbiamo chiamato la «mascherata» degli psicanalisti.

146. Abbiamo visto che il movimento dell’interpretazione coincide con il sottrarsi dell’analista
dal posto in cui viene collocato nel transfert. L’interpretazione consiste in un «tu dici il vero» che
costringe il soggetto a prendere atto del luogo soggettivo dal quale viene la sua parola. Questa
situazione di Versagung per il soggetto non è sufficiente però, da sola, a rendere conto del
procedere d’un’analisi. Nulla lascia credere che il nevrotico potrebbe sopportarla molto a lungo, se
non vi si aggiungesse una condizione supplementare, che non solo gliela renda tollerabile, ma anche
gli offra una possibilità d’accesso a ciò verso cui tende, nonostante il suo dir di no: il luogo della
propria verità. Nel caso in cui questa seconda funzione non dovesse rivelarsi, l’effetto di Versagung
dell’interpretazione produrrebbe inevitabilmente un’interruzione dell’analisi: a meno che il fascino
della psicanalisi – vale a dire la sembianza della quale essa si circonda – non veli ai suoi occhi
questa Versagung, consentendogli d’identificarsi nei significanti-stendardo dei quali parlavamo
poco fa (e a questo punto è del tutto inutile formulare un giudizio morale su una situazione come
questa, che si verifica anche troppo spesso).
Ora, se l’analista non facesse altro, nelle analisi, che venir meno alla propria posizione
inaugurale, perché mai un soggetto dovrebbe accettare di continuare per anni un’esperienza di mera
Versagung? Per compensare la Versagung del «non volerne sapere» da parte dell’analista bisogna
che intervenga un altro movimento – quello al quale prima abbiamo accennato sotto il titolo del
senso –, affinché il soggetto sappia che l’analista non è lì per niente, ma per svolgere realmente un
suo compito etico. Del resto l’analista s’è assunto implicitamente, già con la mera formulazione
della regola fondamentale, la funzione di garante del discorso dell’analizzante, alla quale funzione
egli dovrà rimanere fedele fino all’ultimo se non vuole in primo luogo provocare l’interruzione
dell’analisi, e in secondo luogo, ma ancora più gravemente, venir meno al proprio compito,
trasformando la pratica analitica in una truffa (o in una psicoterapia, il che, a dire il vero, non
sarebbe molto tanto meglio). Ma c’è qualcosa su cui un analista non potrà mai cedere, c’è almeno
una promessa che non potrà mai disdire. Egli deve venir meno alla posizione che gli viene
assegnata nel transfert, ma non all’impegno che ha preso accettando una domanda d’analisi, non al
suo desiderio d’analista. L’atto analitico è allora quello in cui si realizza il non volerne sapere
dell’analista, ma a patto che questo non volerne sapere si mostri come il corrispettivo d’un desiderio
essenziale. L’analista dovrà intervenire non solo come colui che non ne vuole sapere, ma anche
come colui che non è disposto a cedere sul proprio desiderio. Giungiamo ora finalmente a porre il
problema del senso dell’interpretazione, problema la cui trattazione finora abbiamo rinviato, ma che
dovremo adesso affrontare nelle sue giuste coordinate, che sono quelle dell’eticità della posizione
analitica.
IV. La verifica

147. Possiamo tornare adesso ad affrontare il problema della verifica, dal quale eravamo partiti
per la nostra esplorazione (del resto ancora incompleta) del concetto analitico d’interpretazione.
Questo ci consentirà di considerare meglio che relazione possiamo stabilire fra psicanalisi e scienza.
Quanto abbiamo detto fin qui dovrebbe bastare a dimostrare, se ve ne fosse bisogno, che la verifica,
quando si tratta della soggettività, non può avvenire nelle stesse modalità che assume nelle scienze.
Infatti l’interpretazione analitica d’una prima significazione (per esempio del testo d’un sogno) non
produce una seconda significazione, la quale esprimerebbe il significato della prima, e potrebbe
perciò essere verificata o falsificata. L’interpretazione non produce i suoi effetti per la
significazione che rivela. Perché mai, del resto, il fatto di venire a sapere per esempio la
significazione d’un sintomo dovrebbe dissolverlo? Tutto dimostra che non è questo che accade e
che, perché questo sapere si produca, bisogna che la posizione del soggetto si sia già modificata. A
dissolvere il sintomo non è il fatto che il soggetto viene a sapere la sua significazione, ma il
modificarsi del rapporto fra lui e i significanti che lo rappresentano, quelli in cui e con cui egli può
dire di no, nella rimozione, a qualcosa che sarebbe, per lui, impossibile tollerare. Se così non fosse,
nell’analisi non sarebbe necessaria nessuna translaborazione (Durcharbeitung), cioè non si
dovrebbero considerare e riconsiderare più volte gli stessi problemi, passando più volte per gli stessi
punti nodali. Ora, se Freud insiste sulla funzione del tempo nell’analisi, è proprio perché il tempo
stesso è il suo principale strumento. La stessa interpretazione non avrebbe alcun effetto se avvenisse
in un tempo sbagliato. Quante volte, nel corso d’un’analisi, non scompaiono dei sintomi senza che
si sappia bene perché questo succede? E quante volte, invece, dei sintomi non resistono a tutte le
possibili «interpretazioni»? Se accade questo, è perché l’interpretazione non è, in quanto tale, una
significazione – benché agisca proprio al livello del significato –, ma un atto, anche nel caso in cui
sveli qualche significazione. L’interpretazione è l’atto nel quale si realizza il non volerne sapere
dell’analista come rovescio del suo desiderio. Qual è ora l’apporto di questa constatazione ad una
soluzione del problema che stavamo affrontando, quello della verifica? Un atto di che cosa può
decidere?

148. Per cercare di risolvere questo problema, e quindi di considerare che cosa sarebbe una
scienza che includa la psicanalisi, dobbiamo a questo punto precisare meglio che cosa intendiamo
con il termine «verità», riprendendo quanto abbiamo già accennato prima. Non possiamo assumere
la verità nello stesso modo quando si tratta d’un teorema matematico, quando si tratta d’una legge
fisica e quando si tratta d’un enunciato soggettivo. Nel primo caso risulta vero tutto ciò che viene
dedotto da assiomi determinati, in modo non contraddittorio con essi. La matematica è un sistema
formale che prescinde da ogni assunzione psicologica e anche da ogni verifica empirica. Essa opera
una duplice fuorclusione nelle proprie premesse: da una parte quella del soggetto (come tutte le
scienze), dall’altra quella dell’esperienza. Ma già nella fisica la situazione è molto diversa, dal
momento ch’essa opera, come la matematica, la prima fuorclusione, ma non opera certo la seconda.
Una legge fisica non potrà mai essere considerata vera finché non verrà verificata da alcuni
esperimenti (o falsa finché altri esperimenti non la falsificheranno). La verità nella fisica è
formulabile nei termini d’un accordo fra un reale ed un sistema di riferimento matematico. E
proprio qui le cose iniziano a complicarsi, visto che ogni esperimento include necessariamente un
soggetto che lo compie. Se lo sforzo kantiano era valso a creare un terreno ampiamente comune
all’empirico e al matematico in quella zona intermedia ch’è il soggettivo a priori, all’inizio del
nostro secolo si sono verificate nell’imponente edificio della filosofia a priori delle crepe che hanno
tolto validità universale ai principi kantiani. Sia pure al prezzo di fuorcludere il reale (la Cosa in sé)
dalla possibilità della conoscenza, Kant era riuscito a fondare in base ad un ridotto numero di
principi (lo spazio, il tempo e le categorie) una perfetta congruenza di soggettività ed oggettività. La
conoscenza fisica veniva esclusa dal reale in quanto tale, ma poteva valere come conoscenza a
priori ed induttiva insieme d’oggetti («giudizi sintetici a priori»).
Con la relatività e con la meccanica quantistica si sono rivelati tuttavia degli oggetti fisici
(l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo) i quali mettono in discussione questa concordanza
fra il soggettivo e l’oggettivo, ed anche alcuni dei principi kantiani, come quello d’un tempo e
d’uno spazio assoluti. Ciò ha aperto una crisi dei principi scientifici, che s’è conclusa con una
riduzione delle pretese della scienza alla verità. In fisica, ormai, s’intende come vero soltanto ciò
che non è stato ancora smentito dall’esperienza. Lungi dall’aspirare ad una verità universale, la
scienza s’accontenta di produrre errori che possono provvisoriamente valere come verità. Nel
campo delle scienze fisiche, la teoria formale della verità – quella che vale nella matematica e nella
logica – entra in conflitto con un suo limite, imposto dalla presenza della misurazione e quindi, in
ultima istanza, del soggetto che misura. Certo, nella fisica questo soggetto è del tutto indeterminato,
e continua ad essere fuorcluso; esso continua però ad essere presente attraverso la misurazione che
lo rappresenta (il soggetto è ancora, come nel detto di Protagora, métron). La fisica continua ad
essere una scienza esatta solo perché il soggetto è rappresentato dalla misurazione. Inoltre questo
statuto «provvisorio» della verità diventa tanto più instabile quanto più ci si allontana dal campo
della matematica (per esempio nella biologia). Husserl ha avuto il grande merito di porre il
problema della frammentazione – della «crisi» – delle scienze, dovuto alla «dimenticanza», in esse,
del problema della loro fondazione, problema che pure era stato posto da Cartesio, all’inizio dello
sviluppo delle scienze, con l’argomento del cogito. Grazie a Husserl sappiamo comunque che il
terreno delle scienze formali non è necessariamente inassimilabile a quello del pensiero
trascendentale, e che una fondazione trascendentale delle scienze, in linea di principio, non è affatto
impossibile (anche se questo, naturalmente, non significa che si debba condividere in tutto
l’impostazione husserliana del problema epistemologico).

149. All’interno di questo divorzio fra il soggettivo a priori e la conoscenza oggettiva


(scientifica) dobbiamo situare ora la psicanalisi. Questa, come abbiamo visto, sebbene non limiti,
come credeva Freud, la validità della concezione del tempo come forma a priori della conoscenza,
modifica senza dubbio la concezione classica del tempo assoluto ed uniforme, in modo del tutto
parallelo a ciò che accade nella fisica con la teoria einsteiniana. Con la relatività, alla
rappresentazione lineare del tempo (e alla rappresentazione uniforme dello spazio) s’è sostituita una
loro rappresentazione elastica, la quale, benché non sia per noi intuitivamente evidente, è
logicamente deducibile da esperimenti, cioè da dati oggettivi risultati evidenti all’intuizione (si
vedano i paradossi apparenti del viaggiatore che arriva a destinazione più giovane di quanto non
fosse alla partenza e dell’automobile che s’accorcia entrando nel garage). Ma nel campo apertosi
alla scienza in seguito all’invenzione freudiana anche questa possibilità di verifica è del tutto
assente. Husserl, ad esempio, benché non ignori l’apporto psicologico della teoria freudiana, non ne
condivide – e, bisogna dire, con ottimi motivi – l’impostazione epistemologica. Di conseguenza
riduce i dati di fatto esposti da Freud (le formazioni dell’inconscio) a dati psicologici, tentando
d’inserirli nella sua costruzione trascendentale d’una teoria della conoscenza. Ma ciò, se per un
verso segnala l’inadeguatezza, da noi già ammessa, dei presupposti epistemologici freudiani, che
sono ancora, nonostante tutto, fondamentalmente positivistici, segnala anche un’insufficienza della
fenomenologia trascendentale husserliana ad includere nella propria teoria i dati emersi nella teoria
freudiana, i quali in realtà non erano affatto psicologici. Dal punto di vista trascendentale, d’altra
parte, la stessa parola «inconscio» è solo una contradictio in adiecto, perché fenomenologicamente
un atto psichico – che sia cosciente o non cosciente – è sempre definibile come coscienza-di-
qualcosa.
La contraddizione fra i due punti di vista – quello psicanalitico e quello trascendentale – è allora
insanabile? Tutto ciò che stiamo articolando in questo volume tende a rispondere di no, dal
momento che noi vogliamo fondare trascendentalmente la teoria psicanalitica. Ma ciò è possibile
solo a due condizioni, che ora iniziano a chiarirsi, profilandosi al nostro orizzonte: la prima è
rivedere, nel loro statuto logico, alcuni concetti di fondo della psicanalisi (per esempio quello
d’inconscio); la seconda è riconsiderare il presupposto metafisico di base della stessa
fenomenologia: quello secondo il quale l’atto soggettivo sarebbe esaustivamente definibile come un
atto di coscienza.

150. Il sogno, come oggetto d’interpretazione, è un oggetto molto diverso da quelli della scienza,
dal momento che non ha nessuna esistenza oggettiva (a dire il vero non lo ha neppure negli studi
fisiologici e psicologici sulle fasi del sonno: in questi si sa che si sogna, ma non si sa niente del
sogno nel suo statuto soggettivo). Ed è proprio per questo che Freud riesce, nel 1899, a riassumere i
risultati delle proprie ricerche precedenti (ch’erano state anche neurofisiologiche) in un’ottica
completamente diversa da quella della fisica o della fisiologia. Egli abbandona completamente il
terreno dell’oggettività. Occuparsi del sogno è occuparsi del soggetto in quanto tale, quindi d’un
«oggetto» che ha solo un’esistenza soggettiva, e che di conseguenza si sottrae ad ogni osservazione
e misurazione. Questo significa allora che dobbiamo abbandonare il terreno del concetto scientifico
di verità, e ogni riferimento oggettivo nel senso della scienza. Non dobbiamo invece abbandonare
affatto la prospettiva d’una fondazione trascendentale dell’interpretazione del sogno, che è del tutto
compatibile con quell’atto di pensiero – il cogito – che sta alla base della stessa impostazione
fenomenologica, dal momento che l’intera interpretazione, come abbiamo visto, è traducibile in
termini di costituzione soggettiva cosciente, e non certo inconscia (se così non fosse non ci sarebbe
nessuna interpretazione del sogno). Alla psicanalisi spetta il compito di produrre una scienza del
soggettivo in quanto soggettivo. Ma questo compito è realizzabile solo se viene a modificarsi lo
statuto di oggettività del soggetto in quanto oggetto di conoscenza, e questo in modo non
contraddittorio con quello kantiano, benché con una diversa articolazione logica, resa necessaria dal
modo di pensare il tempo che nel nostro secolo s’è imposto, benché per strade diverse, sia nella
fisica, sia nella psicanalisi. Se invece volessimo, come Freud auspicava, mantenere a tutti i costi un
rapporto immediato – cioè non mediato trascendentalmente – della psicanalisi con la scienza
dell’oggettivo, ridurremmo la teoria freudiana a psicologia, e quindi a pseudoscienza. Infatti una
scienza del soggettivo, la quale consideri il soggetto in termini di mera oggettività, è
necessariamente una falsa scienza, dal momento ch’è una «scienza» interamente costruita su un
falso presupposto. La psicanalisi sarà una scienza solo se abbandonerà del tutto il terreno
dell’oggettività scientifica, cioè solo se saprà prodursi in una «scienza nuova».

151. Per distinguere la verità dalla menzogna – non dall’errore, perché la verità soggettiva si
contrappone all’errore così poco che può esserne anche un risultato –, è necessario includere la
presenza del soggetto fra i dati della verifica, e quindi disporre d’una nozione di soggettività che,
come abbiamo visto, non è formulabile nei limiti della ragione pura, perché il soggetto non è
soltanto soggetto della conoscenza, ma è anche soggetto dell’azione. Nelle pagine precedenti, per
esempio, abbiamo rinviato un’articolazione della distinzione fra significazione e senso, che
abbiamo tuttavia presupposto molte volte, e lo abbiamo fatto tutte le volte che l’esame dei
meccanismi generali della significazione e della conoscenza ci spingeva a considerare anche le
condizioni singolari, cioè concretamente soggettive, dell’atto. Infatti il soggetto della conoscenza è
incapace di rispondere completamente della propria verità, la quale non è totalmente definibile
come verità del sapere, ma dev’essere anche considerata come la verità etica in base alla quale un
soggetto agisce e giudica la propria azione.
Ora, l’oggetto della psicanalisi non è il soggetto indeterminato della filosofia, è invece il
soggetto concreto e determinato dell’esperienza. Se quindi restiamo nei limiti della ragione «pura»,
non possiamo fondare la psicanalisi che come una pseudoscienza, perché non riusciamo neppure ad
includere interamente in questa scienza il suo oggetto. La psicanalisi è quindi quella scienza che
può essere tale soltanto a condizione di fondarsi su basi diverse da quelle della scienza. Si pone
allora il problema di vedere se per caso la psicanalisi non sia condannata alla sorte di divenire
irrimediabilmente un’ideologia (una «filosofia» nel senso deteriore). È indiscutibile che questa
tendenza s’è fatta sentire, nella sua pur breve storia, molte volte, e che nella psicanalisi non c’è
avanzamento teorico che non tenda a irrigidirsi prima o poi – e più prima che poi – in un discorso
vuoto, cioè in mera ideologia. Separato dalla sua enunciazione, qualunque enunciato teorico
psicanalitico viene falsificato, e finisce per esprimere non ciò che è, ma ciò che ci piacerebbe che
fosse. Questo è accaduto anzi in modo tanto più marcato quanto più «vere», e quindi anche quanto
più soggettive, erano le teorie di partenza: prima con Freud, la cui opera imponente è stata ben
presto banalizzata in termini di psicologia, poi con Lacan, il cui insegnamento ha prodotto attorno a
sé, come un effetto di frangia, cumuli di chiacchiere assurde. È evidente infatti che, se spingere la
teoria psicanalitica solo nella direzione dell’oggettività genera il delirio scientifico, spingerla solo
nella direzione della soggettività non può che generare un’ideologia da quattro soldi. La maggior
parte di quanto passa attualmente per psicanalisi rientra in uno di questi casi.
Tuttavia non è sufficiente ricordarsi della funzione dell’enunciazione per sfuggire al pericolo di
trasformare la psicanalisi in una pseudoscienza. Questa trasformazione, per esempio, è stata ed è
ancora il rischio della migliore tradizione lacaniana, rischio sul quale ci siamo già soffermati, a
proposito della teoria del mathème, nella Formazione (vi ritorneremo quando prenderemo in
considerazione il concetto lacaniano di scienza congetturale). Per ora, ci basti ricordare quanto
abbiamo già affermato: l’enunciazione è una condizione di significazione, e non di senso, e perciò,
quando utilizziamo questo concetto, restiamo ancora al di qua del prodursi effettivo e singolare
della soggettività, il quale richiede un’impostazione etica, prima ancora che epistemologica, della
teoria. Possiamo tuttavia già vedere come il passaggio dal modo kantiano di considerare il tempo
secondo uno schema unidirezionale al modo che s’è imposto nel nostro secolo, in seguito alla
formulazione delle teorie d’Einstein e di Freud, comporti anche l’esigenza di ridisegnare
completamente le linee fondamentali della «critica della ragione». Dalla «ragione pura» noi siamo
continuamente rimandati alla «ragione pratica», e non possiamo quindi considerare come
indipendenti le fondazioni delle loro rispettive «critiche».

152. Ogni singola esperienza d’analisi non è affatto un esperimento che debba verificare o
falsificare una teoria. In apparenza quindi il problema della verifica – e della scientificità – non si
pone nella pratica. Ma questo solo in apparenza. Infatti, che cos’è un’analisi riuscita? Chi può
decidere che un’analisi lo è? E in base a che cosa lo si decide? Se come punto di riferimento
assumiamo il benessere del soggetto, imbocchiamo la via senza uscita della terapia. Ma non sono
gli effetti terapeutici che decidono dell’analiticità d’un’esperienza analitica, perché anche pratiche
diverse, come tutte quelle basate sulla suggestione, possono avere effetti terapeutici. Per poter
parlare d’una verifica sia in termini generalmente teorici, sia in termini concretamente empirici, ci si
trova dinanzi sempre allo stesso ostacolo: non possiamo dare nessuna definizione di ciò ch’è da
considerarsi vero finché restiamo nei limiti della ragione pura. Quando l’oggetto d’una verifica è il
soggetto, l’unico elemento determinante è quello soggettivo, e non quello oggettivo, che, se
interviene, interviene solo perché dipende logicamente, anche se non oggettivamente, dal primo. Ma
la verità che ha statuto soggettivo, e non oggettivo, è prima di tutto la verità etica, e non la verità
conoscitiva. Il fondamento della ragione analitica «pura» ha quindi uno statuto etico. La
conseguenza della caduta della concezione classica d’uno spazio e d’un tempo assoluti è di porre, al
cuore della ragione pura, la ragione pratica. Ne consegue che l’inclusione del soggetto fra gli
oggetti della scienza richiede un ampliamento decisivo dello stesso concetto di scienza, richiede
cioè la fondazione d’una scienza «nuova», che includa in sé anche il principio dell’eticità.
V. Il principio di ragione insufficiente

153. «E al tempo in cui faceva il poeta, mise insieme un’Arte per liberare l’animo dal dolore, al
modo stesso che i malati vengono curati dai medici. E apprestata una casa a Corinto, sulla piazza, vi
pose un’insegna, nella quale era scritto che egli aveva la capacità di curare a mezzo di discorsi
quanti soffrissero dolore dell’animo, e curava i pazienti, facendosene dire le cause». Questo testo
delle Vite dei dieci oratori pseudoplutarchee si riferisce a colui ch’è stato forse, molto prima di
Freud, il primo psicanalista, il sofista Antifonte. La succinta descrizione della sua attività
psicoterapeutica ci dà un sorprendente squarcio su ciò che avrebbe potuto essere la psicanalisi se i
greci l’avessero coltivata. In effetti, essi ne ebbero certamente l’intuizione (i dialoghi di Platone
spesso acquistano movenze analitiche), anche se non poterono mai delineare i contorni d’una
pratica simile a quella inaugurata da Freud, il che dimostra come questa abbia nella scienza il suo
presupposto essenziale. Del resto, i greci sapevano troppo bene che significa vivere per avere
effettivamente bisogno d’una psicanalisi, e forse fu proprio l’arte a risparmiare loro gli sviluppi
della tecnica d’Antifonte: non avevano bisogno d’un «metodo catartico» coloro che praticavano la
catarsi, con la tragedia, in un rito solenne e collettivo. Il mito e la tragedia permisero forse loro di
raggiungere a volo quegli stessi effetti che noi dobbiamo inseguire zoppicando.

154. Ciò che colpisce nel brano che abbiamo citato è quel «facendosene dire le cause». Se
cancellassimo queste parole, scomparirebbe tutta l’impressione che lo Pseudo-Plutarco stia
descrivendo qualcosa di simile a uno psicanalista. Infatti proprio questa fiducia nella forza della
causalità definisce l’azione analitica: una volta che ne sono divenute note (coscienti) le cause, il
sintomo scompare. È inutile nascondere che quest’idea, la quale sta alla base di tutte le concezioni
freudiane, dal metodo ipnotico alla psicanalisi propriamente detta, appare a prima vista quasi
magica. L’efficacia della psicanalisi sembra potersi ricondurre ad una sorta di capacità della
ragione. La fede nella forza della causalità è la fede in quel principio di ragione che sta alla base
della scienza classica, e che solo la scienza di questo secolo ha incominciato a mettere in
discussione. Tutto lo sforzo che abbiamo compiuto in questi ultimi capitoli è consistito nel tentativo
di rendere concepibile l’efficacia della psicanalisi (quindi la verità racchiusa nel suo metodo) al di
fuori di questa fede nella ragione sufficiente.
Certo, l’insistenza di Freud sulla necessità, in analisi, della Durcharbeitung – quindi del tempo –
dimostra che la sua fede nella ragione non era così assoluta come risulterebbe dal principio
dell’efficacia terapeutica dello svelamento delle cause patogene. È pur vero tuttavia che Freud non
trasse mai esplicitamente dalla necessità della translaborazione le conseguenze teoriche che
abbiamo creduto di doverne trarre noi. Per lui, questa necessità della ripetizione non introduce nulla
di sostanzialmente estraneo al principio di ragione classico, e viene ricondotta alle resistenze
opposte dal soggetto. Del resto, come avrebbe potuto pensare altrimenti? Non aveva visto forse i
sintomi delle grandi isterie disgregarsi improvvisamente, per effetto dell’ipnosi, come le mura di
Gerico crollarono ad uno squillo di tromba? E che cosa annunciava quello squillo, se non un altro
trionfo della ragione? Una volta che la causa fosse divenuta cosciente, il sintomo come avrebbe
potuto persistere? Poi Freud, lentamente, s’accorse che le cose non erano così semplici, perché le
cause supposte erano solitamente delle inconsce fantasie di desiderio. Ciò richiese una profonda e
difficile rielaborazione dei dati dell’esperienza. Circa vent’anni più tardi, un’altra crisi s’aprì
nell’esperienza della psicanalisi, in seguito alle difficoltà sempre crescenti che i soggetti
opponevano alla cura e all’interpretazione, ed ecco Freud costretto a formulare l’ipotesi d’una forza
che s’oppone all’analisi, per la quale il soggetto rifiuta il proprio bene: la pulsione di morte.

155. La psicanalisi deve assegnarsi il compito di porre le basi d’una scienza nuova, che possa
fondare le diverse scienze come parti d’un progetto unitario di sapere. Ora, nella psicanalisi, cioè al
cuore di questa possibile convergenza delle scienze in un’unica scienza che sia del soggettivo,
troviamo una ragione il cui principio è diverso dal principio di ragione sufficiente. Se così non
fosse, infatti, nulla distinguerebbe la psicanalisi da una psicologia, e quindi non ci sarebbe nessun
motivo di pensare alla fondazione d’una scienza «nuova». Abbiamo detto che una fondazione delle
scienze – prima di tutto della psicanalisi – dovrebbe avvenire in modo trascendentale; ma notare
questo non basta a definire una scienza «nuova», perché, se così fosse, nulla distinguerebbe
quest’ultima dalla filosofia, segnatamente dal progetto fenomenologico husserliano. Per farci una
prima idea d’un principio di ragione che sia diverso da quello di ragione sufficiente, possiamo
chiamarlo principio di ragione insufficiente, riprendendone l’idea da Robert Musil, che lo ha già
formulato, con profondo umorismo, ma non senza un’altrettanto profonda serietà, con queste
parole: «È sempre l’azione successiva che conta». Questa formulazione si trova nell’Uomo senza
qualità, nei dialoghi fra Ulrich ed Agathe. Il problema è: in base a che cosa si decide d’agire, se «il
primo atto non è mai decisivo; decisivo è soltanto quello che si compie dopo»? Non abbiamo alcun
modo di dominare queste serie infinite, conclude Musil, desolatamente. Di fatti il suo romanzo
sarebbe rimasto inconcluso, tributo pagato alla modernità da un autore affascinato dal mito arcaico
della ierogamia. Ciò che noi osiamo pensare – in termini, bisogna dire, per niente moderni – è che
proprio perché «decisivo è soltanto quello che si compie dopo» ci può essere in primo luogo una
fondazione etica dell’atto soggettivo e in secondo luogo una fondazione trascendentale delle
scienze, e più in generale dei campi di sapere, come quello della filosofia, in una scienza «nuova»,
che sia la scienza della fondazione, oltre che la fondazione della scienza: progetto che certamente
apparirebbe stupidamente ricorsivo se questa ricorsività apparente non fosse proprio il principio
d’ogni fondazione trascendentale, come garantisce il principio cartesiano e husserliano dell’identità
del cogitatum e del cogitare.

156. «È sempre l’azione successiva che conta», dice Musil. E Freud, con altrettanto umorismo:
«Tutto si chiarirà nel corso degli eventi». Citiamo, perché ne vale la pena, con maggiore ampiezza.
Si tratta dell’obiezione che veniva mossa all’uso che gli psicanalisti fanno dell’inconscio per
spiegare tutto come più fa loro comodo: «Croce vinco io, testa perdi tu». In Costruzioni nell’analisi
(1937), il testo decisivo su questo tema, Freud va dritto al cuore del problema. Si tratta di capire che
valore hanno, in analisi, il sì e il no. Essi non sono affatto indifferenti. Abbiamo visto che ad un sì
(Bejahung) o ad un no (Verwerfung, Verdrängung, Verleugnung, Verneinung) si può ridurre il
problema del rapporto che il soggetto ha con ciò che lo sostiene ma tende a cancellarlo: il
linguaggio. Il sì e il no non sono indifferenti, ma non sono neppure decisivi. Ciò che decide della
verità d’una costruzione (e a fortiori d’un’interpretazione) non è semplicemente dire sì o no – il sì o
il no della significazione –, ma l’effettivo sì o l’effettivo no, cioè la trasformazione reale che
l’interpretazione produrrà nel modo in cui il soggetto parlerà ed agirà (e la parola, qui, non è
semplice significazione, ma è già un modo dell’azione: in altri termini, siamo già nel registro del
senso). Il semplice pronunciare un «sì» o un «no» non è affatto decisivo. «Solo il proseguimento
dell’analisi», dice Freud, «può permetterci di valutare se la nostra costruzione era esatta o
inutilizzabile. Alla singola costruzione attribuiamo solo il valore d’un’ipotesi in attesa di verifica,
conferma o confutazione. Non rivendichiamo per essa autorità alcuna, non pretendiamo dal paziente
un immediato consenso, né ci mettiamo a discutere con lui se a tutta prima la ricusa».
Ora, non è proprio questo il concetto di verifica che, nel nostro secolo, ha finito per prevalere
nella scienza? È questo, ma con una differenza: nella scienza non si ritiene vera un’ipotesi finché
questa non è comprovata da qualche esperimento. Ciò nonostante, nessuno scienziato può
pretendere che la verità d’una teoria sia definitiva. In psicanalisi, invece, non ci sono esperimenti. In
che cosa, allora, la costruzione, per riprendere il termine freudiano, si distingue
dall’interpretazione? Per il fatto che nella prima prevale la problematica causale. Una costruzione è
un’interpretazione causale, mentre non necessariamente l’interpretazione lo è. Tuttavia, alla base
d’ogni interpretazione (cioè d’ogni atto dell’analista), c’è una costruzione, quindi anche un
dispositivo di ragione ed uno schema causale (senza il quale l’interpretazione sarebbe del tutto
arbitraria). Riponiamo allora la domanda: quale verifica è possibile in analisi? Adesso sappiamo che
questa domanda esprime la questione trascendentale stessa: com’è possibile che la conoscenza, in
generale, non sia un’illusione? Ma questa domanda ora la esprime includendo nel principio di
ragione anche il principio dell’eticità, perché in analisi non si tratta della conoscenza in generale,
ma della conoscenza come strumento o modo dell’azione soggettiva. La risposta di Freud è la stessa
che dà Musil: la verifica sta «in quel che viene dopo». Curiosa verifica, in effetti, visto che pare
rinviata all’infinito.

157. Ora, continua Freud, la verifica effettiva d’una costruzione s’otterrebbe nel caso in cui
questa fosse confermata dall’affiorare d’un ricordo. Ma ancora una volta: che cosa può confermare
un ricordo, visto che la memoria stessa «è senza garanzia»? E inoltre: «Ci capita abbastanza
frequentemente di non riuscire a suscitare nel paziente il ricordo del rimosso. In sua vece, se
l’analisi è stata svolta correttamente, otteniamo in lui un sicuro convincimento, circa l’esattezza
della costruzione; ebbene, tale convincimento, sotto il profilo terapeutico, svolge la stessa funzione
di un ricordo recuperato». Tale convincimento è dunque la verifica? Ma tutto sta a vedere che cosa
intenderemo, qui, per convincimento. Infatti, da quando in qua la verità è misurata dalla
convinzione di qualcuno? E separare il vero dalla ferma opinione non è stato forse, or sono ormai
due millenni e mezzo, il primo passo della filosofia? Avremmo ottenuto un bel risultato davvero se
tutto lo sforzo d’un’analisi dovesse risolversi in un convincimento. È solo il convincimento di
Freud – ancora saldo nel momento in cui lo mette decisamente in discussione – nel carattere
uniforme del tempo, e nel coincidere del tempo con il principio di causalità nei termini della ragione
sufficiente, che gli fa fare questo passo falso di chiamare convincimento una posizione soggettiva
che non ha nulla a che vedere con la ferma opinione. Freud è tanto «convinto» del fatto che il tempo
irreversibile, causale, ha un valore del tutto universale, che non indietreggia neppure di fronte
all’evidenza: anche se nessun ricordo viene a confermare la costruzione, un buon «convincimento»
gli equivale. Dunque questo convincimento consiste in un sollevamento della rimozione, in un Sé
magari non pronunciato, ma proprio per questo ancora più effettivo, ad un contenuto rimosso. Ma
allora questo presunto convincimento non è minimamente un’opinione, perché è invece il
riconoscimento soggettivo del valore delle significazioni prodotte dall’analisi (dall’analista e
dall’analizzante), un soggettivo venirle ad abitare. Ed è questo a dissolvere il sintomo, non il
semplice ricordo, e tanto meno il prendere coscienza d’una causa. Tutto il concetto di causalità che
sta alla base dell’esperienza analitica dev’essere riconsiderato a partire da questo.
Ora, come possiamo chiamare questo riconoscimento del valore soggettivo di alcuni significanti?
Non si tratta soltanto di riconoscere il fatto che la loro significazione è determinata anche dalla
situazione della loro enunciazione, perché il soggetto dell’enunciazione è determinato, sì, come un
soggetto in un tempo, ma questo soggetto è un soggetto ancora del tutto indeterminato, e questo
tempo può ancora essere pensato come un momento cronologico del tutto indipendente dalla
concreta logica soggettiva nella quale ci si trova a parlare o ad operare. Se un’interpretazione può
avere questo effetto di svelamento, facendo cadere una rimozione, quindi sostituendo un no con un
sì, ciò non può dipendere da nulla che abbia soltanto un valore generale. Di conseguenza il valore
soggettivo di verità d’un’interpretazione non può dipendere da nulla che abbia soltanto un valore
generale o, come nel caso dell’enunciazione, un valore generalmente singolare, cioè il valore d’una
singolarità che è soltanto un caso d’una generalità. Il valore di verità d’un’interpretazione
dev’essere invece prodotto da un concreto accadere soggettivo, da un evento che riguardi quel
soggetto in quel momento, cioè da un evento che costituisca il soggetto come un soggetto differente
da quello che era prima, anche se questo nuovo soggetto non può che realizzare, prendendone atto,
una verità precedente, e così antica che essa può essere pensata spesso solo come un remoto mito (è
questo per esempio il significato ultimo della parola unheimlich, alla quale Freud ha dedicato un
bellissimo articolo).
Come possiamo chiamare, allora, questo valore soggettivo, cioè costitutivo d’una verità
soggettiva al tempo stesso nuova ed antichissima? Non c’è che una risposta: questo valore è il
senso, in quanto il senso, a differenza della significazione, non è riproducibile, perché non è
minimamente contenuto nelle parole, ma è invece un contenente del soggetto e delle sue parole.
Alcune parole, pronunciate come semplici significazioni, si trovano, in seguito all’interpretazione
(che ora acquista un significato nettamente differente da quello che ad essa abbiamo attribuito in
precedenza), e magari anche a prescindere dall’interpretazione dell’analista (dal momento che
anche l’analizzante può interpretare ciò ch’egli stesso dice), a segnalare d’un tratto senza veli e
senza generalizzazioni di significazione che il soggetto s’è prodotto in un modo completamnte
differente da quello in cui credeva d’essere. Il senso è l’istante dello svelamento, istante per niente
numerabile nella sequenza indifferente dei momenti cronologici, perché costituisce un tempo
nuovo, cioè una nuova sequenza di momenti cronologici e di significazioni.

158. Freud, quindi, non riesce a percepire l’evidenza del fatto che né il riaffiorare alla coscienza
d’un ricordo, né la ferma «convinzione» sono la causa del dissolversi del sintomo, perché sono in
realtà solo un’altra conseguenza, come il dissolversi del sintomo, del prodursi d’un modo d’essere
soggettivo differente dal precedente. Tuttavia era sufficiente togliere al tempo la sua presupposta
coincidenza con il principio di ragione classico per risolvere anche immediatamente il problema
dell’interpretazione e della verificabilità d’una costruzione. L’interpretazione e la costruzione
consistono, come abbiamo visto, in una produzione di tempo soggettivo. Ma in quest’affermazione
il termine «tempo» dev’essere inteso non secondo la significazione di «tempo uniforme e
cronologico», ma come forma qualitativa, cioè ritmica, d’un movimento soggettivo. Più volte Freud
è giunto a percepire il valore fondamentale del ritmo, ma non s’è mai sforzato d’intendere che cosa
lo distingue da una semplice scansione del tempo cronologico. Del resto, come avrebbe potuto, se
anche le indicazioni dei musicologi solitamente, su questo punto, sono vuote e generiche?
Certamente, il ritmo è la misura d’un tempo. Ma il ritmo non misura il tempo allo stesso modo in
cui lo misurano gli orologi. Del resto il nostro modo consueto d’intendere il tempo come un’entità
uniforme, che si produce del tutto indipendentemente dagli eventi che in essa si verificano, è
prodotto solo dal fatto che lo pensiamo in base al modello del moto uniforme (per esempio
oscillatorio). Quando il modello del tempo era il moto degli astri, prevaleva invece, come in Grecia,
una concezione ciclica del tempo (aión).
Ma il ritmo non è affatto la divisione d’un tempo uniforme in tratti d’uguale durata, tant’è vero
che il ritmo e il «tempo musicale» (cioè il valore di durata delle note), sono cose del tutto distinte, e
che non hanno quasi nessuna relazione reciproca. Il ritmo è piuttosto il prodursi del tempo, e
consiste essenzialmente, come affermava un musicista che non amiamo, ma che ha detto delle cose
molto giuste sulla musica, semplicemente nell’accadere d’un evento. Il problema del ritmo sembra
così difficile da affrontare proprio perché, nella tradizione occidentale, ci si è sempre sforzati di
definirlo in relazione al tempo cronologico, mentre bisognerebbe fare evidentemente il contrario,
cioè pensare il tempo cronologico come una riduzione del ritmo (allo stesso modo in cui è possibile
pensare la significazione come una riduzione del senso). Infatti senza eventi ritmici non avremmo
mai potuto pensare a qualcosa come un tempo. Il tempo kantiano, assoluto, è una finzione che
poteva essere concepita solo in base all’idea d’un mondo fisico omogeneo alla rappresentazione
dello spazio propria della geometria euclidea. Solo nella misura in cui si poteva supporre che il
reale obbedisse ai principi di questa geometria il tempo poteva valere come tempo assoluto, cioè
relativo ad un osservatore che potesse essere contemporaneamente presente in tutti i punti dello
spazio infinito. Solo a partire da quella divinizzazione del mondo fisico, segnalata a suo tempo da
Koyré, la quale è stata a dire il vero più la causa che l’effetto del successo della scienza galileiana, il
tempo poteva valere come un assoluto.
Ora, la fisica del nostro secolo ha infranto questo cosmo vitreo ed uniforme. Eppure tutti noi
tendiamo ancora a credere che il tempo abbia un valore assoluto, tanto più che i progressi delle
comunicazioni non fanno che rafforzare questo pregiudizio. Perciò ci resta difficile pensare dei fatti
d’esperienza comunissimi come quelli ritmici. In un tempo assoluto non può esserci ritmo. Il ritmo
infatti non consiste nella divisione meccanica del tempo, ma nella sua accentuazione. È
l’accentuazione che produce il tempo. Ma il tempo assoluto, in base al quale crediamo ancora di
poter regolare il nostro agire, non conosce accentuazioni, perché è uniforme per definizione. Il
tempo, per noi, non è più sacro, non è più l’aión, che Eraclito raffigurava come un bambino che
gioca con gli astragali. La divinizzazione del mondo fisico, la quale sta alla base dei successi della
scienza moderna, ha avuto il curioso effetto di desacralizzare questo mondo, e il tempo stesso.
159. Sul ritmo ci siamo soffermati ampiamente nella Formazione, alla quale rinviamo il lettore.
Qui ci limitiamo semplicemente a segnalare che la differenza fra tempo musicale e ritmo, alla quale
abbiamo accennato poco fa, si può dimostrare con il metronomo, il quale certamente divide il tempo
in tratti uguali, senza però che questo serva a definire nessun ritmo, come non può definirlo nessuna
macchina. Esistono, certo, organetti, carillons e computers che producono suoni molto simili alla
musica, che forse sono musica – nel caso di quella elettronica –, ma solo in quanto è possibile
intervenire dall’esterno determinando un ritmo. Per creare un ritmo, occorre stabilire una
disuguaglianza fra le parti del tempo. Non c’è ritmo senza un’alternanza fra tempi «in battere» e
tempi «in levare», cioè senza un’alternanza di tensione e distensione, la quale, anche se potesse
essere prodotta meccanicamente, sarebbe ritmica solo in quanto ad essa questo valore verrebbe dato
dall’ascoltatore. Così il metronomo non ci dice se stiamo eseguendo un valzer o una mazurka, un
tempo in 4/4 o in 12/8. Ciò che decide del ritmo perciò non è il metronomo, ma il movimento
soggettivo e corporeo dell’esecutore (o dell’ascoltatore), cioè un’alternanza di tensione e
distensione corporee. Ora, proprio quest’alternanza è cronogenetica, è generatrice di tempo. Il
tempo soggettivo è quello d’un lavoro, cioè d’un movimento del corpo. Che i nostri tempi di lavoro
siano misurati su quegli orologi naturali che sono il giorno e la notte, o l’inverno e l’estate, lo
conferma: la differenza fra il giorno e la notte non è una distinzione cronometrica, ma è la
distinzione fra un tempo dell’azione e un tempo del riposo. E proprio in riferimento a questo tempo
qualitativo, ritmico, dev’essere intesa la funzione del tempo in quell’esperienza soggettiva ch’è
l’analisi.

160. Ora, in questo tempo ritmico, qual è lo statuto del passato? Il ritmo tende a ridurre la
differenza fra i momenti costitutivi del tempo. Trascinati dal ritmo, tendiamo a dimenticare la
durata, e il tempo non ci si offre che come una continua reiterazione dei suoi elementi
qualitativamente differenti. Al limite, l’accentuazione ritmica produce un annullamento del tempo
come durata, come accade in certe esperienze estatiche. Ritmicamente, il passato non è altro che
una funzione della crescita della tensione corporea, che una memoria corporea dell’eccitamento. Se
ora proviamo a riferire queste considerazioni al tempo come durata, possiamo constatare che anche
in questo caso il passato non è altro che una funzione di memoria, e che la memoria si riduce in
definitiva ad essere espressione d’un accrescimento della tensione stessa. In realtà il tempo assoluto,
causale, è solo un’astrazione e un’estrapolazione che riusciamo a compiere fingendoci ugualmente
presenti a noi stessi in tutti gl’istanti del tempo. Il tempo assoluto è una negazione del tempo o, per
meglio dire, una traduzione del tempo in termini di significazione. Possiamo pensare equivalenti
tutti gl’istanti del tempo perché li pensiamo tutti come ugualmente presenti. Ma li pensiamo tutti
ugualmente presenti perché il presente stesso ci sfugge, perché noi ci assentiamo dal presente, e
perché dimentichiamo che l’istante non è mai presente, perché non è ancora tempo, e che il presente
non è affatto l’istante, ma il prodursi della durata.

161. Ora, se questo, e solo questo, è il tempo soggettivo, che ha ben poco a che fare con quel
tempo assoluto sul quale regoliamo i nostri orologi, tutto il problema della causalità soggettiva
risulta reimpostato. Abbiamo già avuto modo di considerare come questa si distenda in una
determinazione complessa e retroattiva, ch’è quella alla quale Freud sembra riferirsi ogni volta che
usa il termine Nachtrag. Il Nachtrag, la retroazione, è il concetto che interviene nei suoi scritti tutte
le volte che in essi si tratta dell’azione del passato sul presente. Il passato non determina nulla se
non nella misura in cui su di esso sono modellate le nostre attese future e le nostre azioni presenti.
Ora, quest’azione può avvenire in due modi: o nella significazione o nel senso. Nel primo caso il
tempo ci si offre paradossalmente come un’entità statica, cioè semplicemente come la
significazione del tempo. Questa riduzione è sicuramente molto utile, ma assicura solo una
soggettivazione vuota dell’azione. Il soggetto si produce qui, in altri termini, non nel suo reale, ma
solo in quanto rappresentato (da qualsiasi significazione che lo determini, ma non nella sua
singolarità). Nel secondo caso, invece, il soggetto è determinato nel suo reale: in quello della sua
parola e della sua azione, insomma in quello della parola e dell’azione che sono di lui non in quanto
egli rientra in una generalità, ed è quindi assoggettato ad una legge o ad una regola che non lo
riguardano se non come una generalità, ma in quanto egli è ciò attraverso cui si compie quell’azione
o è pronunciata quella parola: che sono realmente sue, e tuttavia non gli appartengono. Infatti il
soggetto, se viene rappresentato, è determinato solo in una generalità, e quindi non nel suo reale.
Tuttavia quella parola e quell’azione sono realmente sue, in quanto egli è il campo in cui quella
parola e quell’azione sono. Esse, di conseguenza, non lo rappresentano affatto, perché in realtà
fanno molto di più: lo fanno divenire nel suo essere e nella sua verità, cioè nel reale che lo mette in
relazione con un assoluto del quale il linguaggio non è che una riduzione (anche se, senza il
linguaggio, è del tutto impossibile pensare a un assoluto).
Ora, il passato, in quanto è realmente passato, non può causare nulla. Può farlo solo in quanto è,
in realtà, ancora presente: o nelle significazioni della nostra memoria, o nel senso del nostro volere.
Il passato ha effetti solo in quanto è in praesentia. Ma questo presente, che non è affatto un istante,
anche se ruota attorno all’istante, cioè al non tempo, è realmente il tempo, perché coincide in effetti
con la tensione o con la distensione d’un’attesa. Il tempo, in altri termini, è essenzialmente solo il
presente, in quanto il passato e il futuro non sono altro che i poli della tensione, o della distensione,
grazie alle quali il presente viene a prodursi come durata e nella durata.
Se ora torniamo al tema della verifica dell’interpretazione o della costruzione, vediamo che
questa verifica non consiste nel controllo, che sarebbe del tutto impossibile, della realtà di qualcosa
che apperterrebbe ad un tempo passato, perché il tempo passato non ha altra realtà che quella del
suo prodursi attuale (infatti non avremmo alcun modo di confrontare un presente che è con un
passato che non è più), ma avviene piuttosto nella direzione d’un futuro, cioè in relazione a quanto
ci aspettiamo, perché lo desideriamo, lo vogliamo o lo temiamo. Infatti il Nachtrag consiste nel
fatto che il ricordo d’un’esperienza passata acquista, alla luce d’un’esperienza presente, anzi attuale
(cioè con riferimento ad un atto), una significazione nuova o un nuovo senso, in relazione ad
un’attesa che concerne il futuro. Il passato, insomma, non è altro che una specie di futuro, non è
altro che il futuro pensato come già trascorso, che un futuro anteriore (anteriore al presente), allo
stesso modo in cui il futuro non è altro che un presente o un passato che non sono ancora avvenuti.
Il futuro anteriore è, di fatti, il tempo verbale soggettivo kat’exokhén, perché proprio questo tempo
verbale è quello della memoria e dell’attesa. Naturalmente, non è affatto lo stesso se questa
proiezione retroattiva s’effettua nella dimensione della significazione o se invece s’effettua in quella
del senso. E la differenza consiste in questo: nel primo caso il presente è cancellato nella sua natura
temporale, perché l’esperienza del tempo tende a tradursi nella significazione del tempo (il tempo
tende a divenire mero tempo verbale), mentre solo nel secondo, cioè quando si tratta del senso, noi
riusciamo realmente ad intendere che siamo nel tempo, perché riusciamo ad intendere che siamo
anche al di fuori del tempo (al di fuori del tempo nell’istante).
Purtroppo, per articolare dettagliatamente questo punto dovremmo aver già messo in rilievo che
relazione può esserci fra il senso e l’interpretazione, cosa che non abbiamo ancora fatto, dal
momento che non abbiamo ancora affrontato il problema della determinazione etica dell’atto
soggettivo. Ma, anche se ci atteniamo alla sola significazione, possiamo già vedere che l’azione
dell’interpretazione può modificare il presente d’un soggetto (vale a dire il suo sintomo) solo
perché, causalmente parlando, ne modifica il passato. Finché pensiamo il tempo come identico,
nella sua univocità, con il concetto classico della causalità, secondo il quale la direzione della
causalità è univoca, perché va, come il tempo assoluto, solo dal passato verso il futuro, e non vice
versa, ci resta inesplicabile qualunque risultato dell’esperienza analitica.

162. Nulla c’impedisce però di seguire un’altra strada, quella delineata nel nostro schema triplice
del tempo. Possiamo modificare nachträglich il passato perché questo non è che un movimento nel
percorso che il desiderio compie per figurarsi come soddisfatto. Il fattore decisivo della verifica
d’un atto soggettivo è nella direzione del futuro, dunque del desiderio, dunque della ragione
«pratica». Con questo, siamo giunti di nuovo al limite della ragione «pura», cioè della ragione
linguistica, cioè al limite del campo delle significazioni. Per restare fedeli al nostro intento
trascendentale, abbiamo dovuto restringere il campo della ragione «pura», ammettendo che questa,
da sola, non è in grado di garantire nulla quanto alla verità, quando questa è concretamente
soggettiva (diverso è evidentemente il caso quando si tratta del soggetto inteso generaliter). La
fondazione d’una scienza nuova, che sia anche una scienza del soggetto, e quindi includa il
problema del fondamento delle scienze oggettive, problema ch’è di natura metafisica, richiede che
la ragione «pratica» si venga a radicare nel cuore della ragione «pura», nel punto in cui questa
dovrebbe rispondere del proprio fondamento e della propria verità. In questo modo non abbiamo
fatto altro che estendere il principio vichiano dell’identità del vero con il fatto, e quindi dell’identità
della verità con l’azione. Ma non siamo ancora giunti ad una conclusione decisiva circa il
fondamento scientifico della psicanalisi; abbiamo solo ottenuto d’introdurre la psicanalisi entro una
scienza, molto più generale sia della psicanalisi, sia delle scienze classiche, la quale è scienza del
fondamento soggettivo d’ogni scienza possibile, e dunque è un sapere trascendentale, il quale ha
però il suo centro di gravità, a differenza di quanto accade in Kant e nella fenomenologia, non nella
rappresentazione o nel sapere, ma nell’azione, quindi non nella ragione «pura», ma nella ragione
pratica.

163. La ragione «pura», che procede per concetti, è organizzata in modo temporale. Ma, ogni
volta che si tratta del soggetto dell’esperienza concreta, non possiamo pensarlo come
semplicemente immerso nel tempo come un oggetto è immerso nello spazio. Per la fisica
contemporanea, del resto, non sarebbe esatto nemmeno dire che un corpo è immerso nello spazio.
Infatti un oggetto fisico genera un campo, e non ci sarebbe alcuno spazio se non ci fossero dei
campi d’azione di forze. Sono gli oggetti a generare lo spazio. Lo stesso possiamo dire per il tempo:
il soggetto non è immerso nel tempo, ma lo genera. Il soggetto è cronopoietico, ma lo è solo in
quanto soggetto della propria azione (e da questo punto di vista la conoscenza è solo un modo
dell’azione). Con questo, la concezione kantiana dei rapporti fra ragione pura e ragione pratica è
profondamente modificata, perché esse non poggiano più su basi diverse, come accadeva nell’opera
di Kant. È la ragione pura a fondarsi su un fondamento pratico, senza il quale essa è una ragione
tronca, parziale, che moltiplica i propri oggetti all’infinito senza riuscire a fonderli nell’unità
d’un’azione, cioè nell’unità d’una soggettività pratica. La «crisi delle scienze europee» dipende, in
ultima istanza, forse proprio da questa incapacità della ragione pura, dalla quale perciò dipendono
anche molte altre cose, ad esempio tutte quelle che Freud riunisce sotto il titolo del Disagio nella
civiltà. Ma il disagio nella civiltà non dipende dalla civiltà, dipende invece dal modo in cui la civiltà
s’è definita, nel destino dell’occidente, come dimenticanza del proprio fondamento soggettivo,
come dimenticanza del principio della sua stessa azione. La psicanalisi, purché la s’intenda come
scienza del soggettivo in quanto soggettivo (e non del soggettivo generaliter), anticipa
implicitamente la scienza nuova del fondamento soggettivo (trascendentale) dell’azione, e perciò
dovrà esplicitamente promuovere la fondazione di questa scienza nuova.
Senza dubbio, se questo è il suo compito, tutto ciò che finora s’è storicamente determinato come
psicanalisi è infinitamente inadeguato ad esso, anche se Freud dimostra chiaramente d’aver avuto
almeno qualche presagio di questo destino della propria invenzione. Di fatto il progetto freudiano
dell’estensione della psicanalisi alla connessione (Anwendung) con le altre scienze era insostenibile
a partire dai presupposti oggettivistici dai quali egli stesso aveva preso le mosse. Le conseguenze di
questa inadeguatezza del fondamento al progetto è stata la «psicanalisi applicata», cioè uno dei
prodotti più scadenti della modernità. Ma la psicanalisi, in quanto deve a sua volta divenire come
ich là dove, forse, era già da principio, potrà essere orgogliosa anche dei propri errori e delle proprie
insufficienze, se gli uni e le altre la porteranno a consacrarsi al compito più ambizioso che la
ragione umana possa porsi, anzi al compito impossibile per definizione: vale a dire all’unico che la
ragione non possa evitare d’assegnarsi.
Libro terzo

IL SOGGETTO E L’OGGETTO
I. Caducità

164. Sils-Maria è un villaggio sospeso fra due laghi e circondato da monti. Dalle sue
ultime case si staccano sentieri che, costeggiando i laghi, e qualche volta diventando impervi,
offrono vedute a ogni passo diverse delle vette circostanti e del verde dei prati. Il paesaggio
non è così drammatico come ci si attenderebbe che fosse per avere ispirato Zarathustra, e
corrisponde, meglio che agli abissi di Nietzsche, alle visioni allegoriche piene di luce morale
che ne trasse Segantini. Dà molto da pensare che Nietzsche abbia potuto falsificare così
questo paesaggio. E tuttavia, quando ci s’inoltra per quei sentieri che ci isolano da tutto il
resto, si comprende che furono scelti bene i versi incisi su una lapide, quasi in mezzo al lago:

Uomo, sii attento!


Che dice la profonda mezzanotte?
«Io dormivo, dormivo» –,
«Da un sonno profondo mi sono risvegliata: –
«Profondo è il mondo
«E più profondo che nei pensieri del giorno.
«Profondo è il suo dolore –,
«Piacere, più profondo ancora di sofferenza:
«Dice il dolore: perisci!
«Ma ogni piacere vuole eternità –,
«vuole profonda, profonda eternità!».

Poiché la mezzanotte è il sogno della luce, come la profondità lo è dell’abbaglio.

165. Piacere e desiderio possono indicarsi, in tedesco, con una sola parola: Lust. Il
desiderio vuole eternità, come il piacere, perché è il contrario del tempo. Ora, come chiamare
il tempo del desiderio e del piacere? Lo chiameremo, come Nietzsche, ritorno? Ma questo
ritorno «vuole eternità», egli dice. Il ritorno e l’eterno non sono altro che il tempo, in quanto
esso vive del suo contrario, dell’attimo attorno al quale ruota ogni durata. Il tempo, in realtà, è
forse solamente l’illusione del nostro desiderio inappagato. Quello che noi chiamiamo
desiderio, in quanto è per propria natura inappagato, non è che il rovescio indefinitamente
protratto del tempo, la nostalgia che il tempo ha del suo riposo nell’eterno, grazie alla quale
«ritorna». Noi soggetti, in fondo, non siamo che il conato del tempo ad arrestarsi in se stesso,
non siamo altro che gl’ingorghi del tempo. In noi il tempo trabocca fuori da se stesso, verso
l’eternità. È il bordo di quest’abisso che chiamiamo coscienza.

166. Finora abbiamo considerato il soggetto soltanto come soggetto della conoscenza. Il
problema trascendentale («com’è possibile che la conoscenza non sia un’illusione?») ci si è
presentato come il problema del rapporto che il soggetto ha col linguaggio e con la
significazione. La stessa significazione, in quanto include in Sé, per definirsi, le condizioni
soggettive dell’enunciazione, non è altro che una semplificazione dell’atto soggettivo, il quale
non può essere espresso, come abbiamo visto, soltanto in termini di conoscenza, perché
nessuna considerazione gnoseologica potrà rendere conto del reale radicarsi del soggetto nella
propria decisione, cioè nel proprio atto (magari solo in quello della conoscenza). La verità,
anche se ci limitiamo a quella vuota della significazione, si produce necessariamente in
relazione al tempo, anche se, in questo caso, si tratta solo d’un tempo di significazione, quindi
negato nella sua realtà costitutiva.
Ma abbiamo visto pure che la sola significazione non ci consente di risolvere il problema
della verifica, quando si tratta d’un che di soggettivo. La verità ci si è determinata come
quella d’un’azione, cioè come quella d’un concreto fare soggettivo, d’un atto di dar senso.
Ora, questa donazione di senso, nella quale soltanto abbiamo creduto di poter fondare la verità
soggettiva, quindi l’orizzonte di possibilità d’una scienza nuova, cioè d’una scienza della
quale il soggetto sia al tempo stesso il soggetto e l’oggetto, ci è parsa definibile solo sulla base
(sul fondamento, sul Grund) d’una ragione pratica. Osservando questo, abbiamo rovesciato la
prospettiva kantiana, ma anche più generalmente filosofica, perché la filosofia ha quasi
sempre creduto di dover fondare l’etica sul principio della conoscenza, anche se forse al
tempo dell’apertura della metafisica il movimento epistemologico era proprio quello contrario
(si trattava cioè di fondare una teoria della conoscenza come strumento dell’azione). Questo ci
pare in ogni caso il movimento essenziale del pensiero di Socrate, Platone ed Aristotele.
Comunque non è un caso che l’impianto socratico e platonico dell’etica sia sempre stato
interpretato dalla filosofia moderna come un impianto di tipo conoscitivo, secondo il quale
sarebbe impossibile conoscere il bene e non desiderarlo. Se la nostra ipotesi è esatta, la
filosofia moderna avrebbe addirittura rovesciato i termini dell’impostazione antica del
rapporto fra conoscenza ed etica. In realtà – è questa, ci pare, la posizione di Socrate –
conoscere il bene è già una conseguenza del desiderarlo. Tuttavia quasi nulla rimane di questa
impostazione originaria nel luogo comune della filosofia secondo il quale il desiderio desidera
il proprio appagamento come un grave «desidera» scendere verso il basso. La scienza ha
abbattuto la prima metà di questo pregiudizio: un grave non tende affatto verso un «luogo dei
gravi» che sarebbe «in basso». Non esiste alcun «basso» o «alto» assoluto. La cosmologia
galileiana e newtoniana, infatti, ha imposto l’esigenza di fondare la morale su qualcosa di
diverso da una supposta natura delle cose, tanto più che la stessa legge della gravitazione si
limita a dar forma matematica all’enigma della forza di gravitazione, della quale in realtà non
sappiamo nulla, né che cosa sia, né come si trasmette. Ma non per questo il parallelo etico-
conoscitivo è stato smantellato. A partire dal crollo del modo kantiano d’intendere le forme
pure dell’intuizione – lo spazio e il tempo – come forme assolute, s’è posta in modo sempre
più pressante l’esigenza di fondare la morale su qualcosa di diverso dalla conoscenza, tanto
più che la scienza non è mai un sapere della Cosa stessa. Ma la morale contemporanea non è
riuscita a trovare (e forse neppure a cercare) un fondamento che la sostenesse all’altezza del
discorso scientifico, il quale d’altra parte, con la teoria della relatività e con la meccanica
quantistica, non ha fatto che allargare indefinitamente il campo dell’enigma (cioè del reale)
del quale si occupa la scienza, dando alla materia uno statuto di mera probabilità, ed alla luce
due statuti diversi, entrambi veri dal punto di vista scientifico, eppure reciprocamente
contraddittori (teoria corpuscolare e teoria ondulatoria della luce). Molte delle più recenti
proposte, nel campo dell’etica, soprattutto quando partono da un’impostazione che tenga
conto dei metodi e dei principi della scienza, come accade soprattutto nella filosofia
anglosassone, sembrano infatti condannare l’etica all’infondatezza, attraverso la descrizione
delle sue forme «relative». Ma in questo modo la scienza non fa che mettere allo scoperto il
tradizionale luogo comune filosofico, perché fondare una morale sulla conoscenza porta
inevitabilmente ad un errore nella conoscenza, dando agli ideali relativi d’un’epoca lo stesso
valore che ad essi viene negato per il fatto stesso di considerarli relativi.

167. È del tutto evidente ch’è impossibile impostare qualunque etica attenendosi ai criteri
della scienza classica. Una legge morale è prescrittiva, e una morale che fosse solo descrittiva
cesserebbe, con questo, d’essere una morale, per diventare subito una psicologia, una
sociologia o un’economia. Perciò quasi tutte le morali prodotte dal nostro tempo sono state,
per usare ancora un termine nietzschiano, solo una forma di «nichilismo incompiuto», che ha
rispolverato versioni precritiche dell’etica senza neppure tentare di giustificarle, come si
faceva un tempo, in base a principi dati per universali od oggettivi. Solo la critica nietzschiana
(la «genealogia della morale») era in grado di far funzionare la mancanza di fondamento
d’ogni enunciato morale come un filtro che mettesse in evidenza la vera volontà legiferante, la
quale, per Nietzsche, è l’unica a sopportare la propria mancanza di fondamento, e che proprio
per questo – proprio perché la sopporta – ha valore di fondamento. La profezia nietzschiana
del superuomo è quella dell’avvento d’una volontà che si sa accettare come non necessaria, e
che proprio per questo diviene fondatrice di valori. In realtà, nei cent’anni che ci separano
dalle passeggiate di Nietzsche a Sils-Maria, il superuomo è rimasto un ideale vuoto, mentre
proprio il nichilismo incompiuto ha continuato a proliferare nelle ideologie moderne.
L’ipotesi dalla quale prendiamo le mosse è allora che la psicanalisi sia (sia implicitamente, e
debba diventare esplicitamente) l’etica che la scienza non ha potuto finora formulare.
Certamente, perché quest’ipotesi non paia irrispettosa per la tragica grandezza del pensiero
di Nietzsche, occorre subito aggiungere che, da questo punto di vista, la psicanalisi, per noi, è
soltanto un punto di partenza, perché quel che c’importa in essa non è la contingenza delle sue
vicende, storicamente quasi sempre misere, ma quel nucleo di verità, spesso misconosciuto
dagli analisti stessi, senza tenere conto del quale non si comprenderebbe neppure come essa
possa avere anche un minimo effetto nella propria pratica.

168. È noto quali oscuri rapporti abbiano legato Freud alla memoria di Nietzsche.
Determiniamoli come il luogo d’un debito non riconoscibile. L’ammirazione del primo per il
secondo è fuori discussione, ma Nietzsche è il solo autore di cui Freud affermi d’essersi
proibito la lettura, come se da essa avesse da temere un pericolo essenziale. In Nietzsche,
Freud ha certamente compreso su quale abisso egli stesso era sospeso, e ne ha distolto lo
sguardo. In compenso la figura di Lou, come un messaggero inquietante, lo legò a una
memoria nei cui recessi egli si rifiutò di frugare (si vedano le lettere scritte ad Arnold Zweig
su una biografia di Nietzsche progettata da quest’ultimo). Che cosa amò Freud in questa
donna, che senza dubbio amò, se non un velo gettato sull’abisso? Ce n’è giunta almeno una
testimonianza bruciante: il breve, splendido testo del 1915 sulla Caducità. In nessun altro suo
scritto Freud ha saputo toccare i vertici d’una saggezza che, nel nostro tempo, sembra solo un
remoto ricordo.

169. Scritto per una miscellanea d’argomento goetheano, questo articolo rievoca una
situazione del 1913, «una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura», in compagnia
d’un poeta giovane ma già famoso (senza dubbio Rilke) e d’un enigmatico «amico silenzioso»
(quasi certamente Lou). Sulla scena fluttua vagamente l’ombra di Nietzsche, evocata, in modo
quasi casuale, dalle parole «un eterno ritorno». Il poeta sembra essere afflitto dalla caducità di
tutto ciò ch’è bello, ma Freud non condivide la sua tristezza.

A thing of beauty is a joy for ever,

egli sembra dire. Siamo nel 1913, l’ultimo anno prima della guerra. Il testo viene redatto al
colmo del suo svolgimento. La caducità non è solo quella delle fioriture, indefinitamente
consegnate al loro «eterno ritorno», ma quella d’una storia e d’un’epoca. Freud, tuttavia,
insiste: «Il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto per il suo
significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle, e per questo è
indipendente dalla durata temporale assoluta».
Freud non ha mai espresso tanto chiaramente l’etica che fu sua, e che vorremmo fosse
anche la nostra. Il valore della bellezza è una funzione del suo senso per il soggetto. Ciò però
non ne fa qualcosa di relativo (di caduco), come sarebbe necessariamente se il tempo fosse un
tempo assoluto. Qui Freud s’accorge che il tempo è solo una funzione dell’atto, e che proprio
per questo esso mette il valore al riparo dalla caducità, perché la caducità, la Vergänglichkeit
(la transitorietà), è tale solo in un tempo assoluto, mentre noi non abbiamo nessuno strumento,
se non delle astrazioni, per supporre che il tempo lo sia. Il valore è invece l’espressione
dell’assoluto d’un tempo relativo, dell’eternità del transitorio in quanto transitorio,
dell’«eterno ritorno». Qui Freud è più vicino a Nietzsche di quanto non lo fossero Rilke e
l’«amico silenzioso», ed esprime compiutamente il concetto di quello che chiameremo il
tempo etico.
170. Ma stranamente il giovane poeta e l’«amico silenzioso» restano indifferenti
all’argomentare di Freud. «Doveva essere stata la ribellione psichica contro il lutto a svilire ai
loro occhi il godimento del bello», dice Freud. Era l’incapacità d’accettare una perdita e di
portare a termine un lutto il motivo dell’inclinazione melanconica d’entrambi, la quale
impediva loro di sentire la gioia del bello, a causa della sua caducità. Sta dunque in questa
incapacità d’elaborare un lutto anche l’origine della loro incomprensione e del loro rifiuto
della concezione etica freudiana, basata su un assoluto temporale ch’è funzione della sua
stessa transitorietà. È nella natura del desiderio di rifiutare il tempo e la caducità. «Ma perché
questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso resta per
noi un mistero sul quale, per il momento, non siamo in grado di formulare nessuna ipotesi».
Potremo forse formularne una a partire dalla concezione del tempo che abbiamo chiamato
retroattivo, se riusciremo ad individuare in esso l’origine di quel rifiuto del lutto al quale
possiamo ridurre, come cercheremo di mostrare, il concetto del patologico.

171. In questo terzo libro affronteremo quindi il patologico sub specie di desiderio. Si
tratta, nella ragione «pratica», del soggetto in quanto desiderante, in quanto mancante d’un
mitico oggetto perduto. Questo sarà essenziale per risolvere il problema della verifica, perché
non c’è il minimo dubbio che l’oggetto ha, per ogni soggetto, un valore di causa. Quella
causalità il cui concetto abbiamo dovuto rinunciare a cercare nella determinazione oggettiva
della scienza e nella determinazione soggettiva del linguaggio, inizierà a svelarcisi solo nella
determinazione del soggetto da parte dell’oggetto del suo desiderio.
II. Dalla Cosa all’oggetto

172. Una cosa si costituisce, kantianamente, come un oggetto per noi, il che, naturalmente,
lascia del tutto irrisolto il problema di sapere, «in sé», quale natura abbia. Ma anche un
soggetto, pur non essendo certamente una cosa, «in sé» non è meno inconoscibile. Lo spazio
logico dell’inconscio si apre a partire dalla constatazione del fatto che anche un soggetto può
essere considerato come Cosa. Certo, dal punto di vista della metafisica kantiana una simile
prospettiva è del tutto priva di senso. Questo dipende senza dubbio dal fatto che l’assunzione
filosofica della soggettività riguarda il soggetto in quanto tale, non il soggetto concreto e
determinato psicologicamente e patologicamente. Ma dal punto di vista dell’esperienza
concreta della soggettività un soggetto non è meno enigmatico e meno inconoscibile della
Cosa stessa.

173. Quando un bambino rompe un giocattolo per capire, vedendo «com’è fatto dentro»,
che cosa consenta ad esso d’essere quel che è – per esempio, se si tratta d’un giocattolo
meccanico, che cosa consenta che s’effettuino quei movimenti i quali, proprio perché
automatici, gli sembrano vitali –, solitamente non trova altro che ingranaggi, che non gli
svelano minimamente il segreto della cosalità della Cosa, tanto più che essi, dopo la rottura,
sono definitivamente sconnessi e privi d’ogni relazione reciproca. Essi sono divenuti delle
morte «cose», cioè dei meri oggetti, del tutto privi di quella sembianza che gli avevano fatto
credere vivo il suo giocattolo. Quel «dentro» è divenuto un «fuori», tanto che, nel bambino, la
speranza di sorprendere un barlume dell’in sé della Cosa è stata completamente delusa.
Una Cosa è senza dubbio sempre un enigma, ma quella che noi siamo nel nostro reale
soggettivo non si può smontare e distruggere per vedere «com’è fatta dentro». In fondo, che
ne sappiamo? Le cose potrebbero anche vivere, e pensare, e parlare, magari in nostra assenza,
come i giocattoli in un celebre balletto. In fondo, ci sono pensieri che neppure noi
confessiamo a nessuno, e neppure noi possiamo vederci come ci vedono gli altri. Se fosse
possibile uscire da noi stessi (non essere noi stessi) e vederci (ed essere noi stessi al tempo
stesso), allora sarebbe possibile sapere che cos’è una Cosa. Ma siccome questo non è
possibile, non è possibile neppure sapere con certezza che un tavolo, o una sedia, o una cosa
qualunque non sono dei soggetti. Quando pensiamo in termini oggettivi, non facciamo che
percorrere una strada più lunga per estorcere a una cosa il suo segreto. Ma la cosa che
interroghiamo è in fondo, in ultima istanza, la Cosa che noi siamo. In fondo, ogni oggetto è
come uno specchio che ci sta dinanzi, osservando il quale cerchiamo di capire come ci vede
un altro. Ciò che il bambino vuole estorcere, violentemente, alla cosa, quando rompe il suo
giocattolo, è una risposta alla domanda: «Chi sono?». Un oggetto, dunque, nella sua cosalità,
è un equivalente del soggetto, è una sua metafora. Non è un oggetto d’uso, ma un enigma nel
quale si presentifica al soggetto l’enigma che egli è per se stesso, e che l’avanzamento del
sapere non fa che rendere più acuto, ma perciò anche più doloroso e tagliente. L’oggetto non
sta semplicemente dinanzi al soggetto nella sua fissità (non è un Gegenstand), ma rimanda al
soggetto la sua stessa domanda (esso è un Gegenüber, per riprendere la distinzione fatta una
volta da Heidegger).

174. Possiamo, a questo punto, riprendere il nostro schema delle quattro strade del no e di
quella del sé, per vedere com’è possibile, su di esso, precisare e fissare alcune tappe
importanti del mito freudiano della genesi dell’oggetto, la quale è, al tempo stesso, la genesi
del soggetto. Questa coincidenza è perfettamente compatibile con l’impostazione almeno
implicitamente kantiana dei concetti fondamentali di Freud (il sapere è sapere d’oggetti, non
di Cose, ma il problema della Cosa è proprio ciò che rende eticamente inevitabile e vitale
l’interrogazione sulla natura delle cose, e soprattutto di quella Cosa ch’è il soggetto stesso).
Tuttavia, abbiamo visto che, kantianamente, sarebbe del tutto impossibile parlare d’una
«genesi» del soggetto, e questo per un motivo logico preciso: dal punto di vista filosofico – in
questo caso dal punto di vista trascendentale; quest’impossibilità sarebbe ancora più evidente
se dessimo un’impostazione fenomenologica al nostro tema – il problema del venire ad essere
d’un soggetto è del tutto improponibile in termini genetici, perché del soggetto stesso non
sappiamo nulla di più di ciò che egli sa, e della sua genesi non sappiamo nulla, se non nella
misura in cui egli ce ne parlerà: ed è del tutto evidente che potrà farlo solo miticamente, vale a
dire solo proiettando in un remoto passato – che in realtà è un passato al di fuori del tempo –
il proprio desiderio essenziale, quello che si manifesta nella sua passione per il fondamento (è
questa passione, infatti, che si manifesta in ogni mito dell’origine). Ora, proprio questo è lo
spazio di retroazione del mito freudiano della genesi della soggettività. Non si tratta
minimamente d’una teoria «scientifica» – vale a dire psicologica – della genesi. Se così fosse,
saremmo sul terreno dell’errore epistemologico essenziale di creare una scienza
incompatibile, nelle sue modalità, con l’oggetto del quale si occupa, e quindi d’una falsa
scienza (com’è quasi sempre quella che oggi viene chiamata psicologia). Siamo invece
propriamente sul terreno del mito soggettivo.
Ora, qual è la funzione del mito, nel pensiero (per esempio in Platone)? È d’indicare la
strada, e non una qualsiasi, ma quella dell’articolazione fra il dicibile e l’indicibile, fra
l’essenziale ed il sovraessenziale. Potremmo dimostrare che il mito della genesi del soggetto e
dell’oggetto, che stiamo riprendendo da Freud, potrebbe tradursi in termini rigorosamente
metafisici, se lo articolassimo in questa prospettiva, come tuttavia non faremo: in primo luogo
per lasciare al lettore la possibilità di giungervi da sé, in secondo luogo per non perdere ogni
contatto con la tradizione della psicanalisi, cosa che non vogliamo e non possiamo fare,
perché non vogliamo minimamente dar adito ad uno stupido equivoco, facendo pensare che in
queste pagine si tratti «solo» di filosofia. Certo, si tratta anche di filosofia, ma d’una
«filosofia» necessaria a pensare la pratica della psicanalisi nella sua verità costitutiva.
Perciò non scriveremo una «fenomenologia psicanalitica», che certo potrebbe essere
scritta, a condizione di mutare molte cose (nella psicanalisi e nella fenomenologia), e
preferiamo – come sempre in questi tre volumi della nostra Critica – partire dalla tradizione
della psicanalisi per mostrarne le contraddizioni, assumendocele: in primo luogo al fine
d’evidenziare come una fondazione trascendentale della teoria analitica sia necessaria alla
psicanalisi, e in secondo luogo per tracciare le linee generali d’un concetto nuovo di scienza.
Infatti questa fondazione non riguarda solo la psicanalisi, ma tutti i saperi che oggi vengono
ritenuti scientifici, benché siano tutti in contraddizione, più o meno diretta, con i presupposti
epistemologici d’ogni scienza, in quanto sono fondati proprio sulla dimenticanza del
problema della fondazione. Perciò la nostra fondazione trascendentale della psicanalisi
richiede né più né meno che la fondazione d’una scienza «nuova», la quale sia riducibile per
un verso alla metafisica, per un altro alle singole scienze.

175. La relazione con l’oggetto è quindi la prima possibilità che il soggetto ha di


conoscersi. L’identificazione, secondo Freud, è la prima forma di relazione oggettuale. «Io
sono ciò che conosco», potrebbe dire, se sapesse parlare, quello pseudosoggetto che abbiamo
rappresentato con la massa gelatinosa che avanza rotolando lungo il fianco inclinato del reale.
«Io sono il seno», avrebbe detto, parlando al posto d’un ipotetico poppante, il dottor Freud.
Infatti, che cosa può essere il mondo – «se stesso» compreso –, per un infans, se non un
emisfero roseo e morbido che s’avvicina, come un disco volante luminoso, fino ad occludere
tutto il suo orizzonte? Non l’état c’est moi, direbbe, se potesse parlare, his majesty the baby,
ma «io sono il seno». Solo che, non sapendosi affatto come distinto dal seno, non potrebbe
dire alcunché. Stiamo ancora parlando dell’io reale del nostro mito d’allora. L’immenso disco
volante s’avvicina, e non esiste più nulla, se non questa fusione, questo qualcosa di tiepido
che passa da un seno che non è un seno ad una bocca che non è una bocca. Freud, quando
esemplifica l’autoerotismo che attribuisce all’infans con l’immagine d’una bocca che
bacerebbe se stessa, si riferisce certamente a questo momento zero del suo mito del soggetto.
Infatti può baciare se stessa solamente una bocca che non è una bocca, perché è ancora una
parte indistinta d’una Cosa che non ha ancora imparato a conoscersi.

176. Ma il reale ha le sue leggi. Il nostro poppante, a un certo punto, sarà sazio, e muoverà
la testa orizzontalmente, per allontanare la bocca dal capezzolo, come facciamo noi per dire
no. Continuare a poppare sarebbe, ormai, spiacevole. Bisogna dire di no, sputare (ausstossen)
o, se vogliamo, fuorcludere l’oggetto. Ecco che siamo già nel primo tempo del mito: l’io reale
non è più un io reale, è divenuto un io-piacere. Tutto il piacere è dentro, mentre l’oggetto è
fuori, scartato come dispiacere, Unlust. L’oggetto, con questo primo distacco, s’è già
costituito come diviso dal soggetto, come un oggetto che non deve più esistere, dunque come
identico al reale. Il disco volante roseo e morbido s’allontana, e il nostro amico poppante può
adesso addormentarsi, soddisfatto d’essere lui tutto il piacere che ha avuto, e diventando a sua
volta, proprio perché s’addormenta, identico al reale. Tuttavia non molto più tardi si sveglierà,
perché il suo reale è quello d’un non reale, vale a dire è quello d’un soggetto, sebbene soltanto
in via di formazione: egli sarà nuovamente affamato, e cercherà qualcosa per soddisfare il suo
appetito, ma non vedrà più il disco rosa del seno. Comincerà ad agitarsi, come per cercarlo,
ma inutilmente. Perciò sarà invaso dall’Unlust, dal dispiacere che, prima, aveva sputato, con
la differenza che ora non può più sputarlo. Non che non ci provi, certamente, anzi è per questo
che piange e che si agita. Vuole sputarsi fuori da se stesso, perché il suo dispiacere, il suo
«oggetto cattivo», ora è lui stesso. Sua maestà non ha ancora imparato che si può sputare solo
ciò che viene da fuori, e non ciò che ci costituisce come noi. Con questo, siamo già nel
secondo tempo del mito. Che ne farà ora, il poppante, del suo dispiacere? Cercherà
d’eliminarlo di nuovo, ma in assenza del seno. Si soddisferà perciò (questa è l’idea di Freud)
con il ricordo, e tenterà di rimuovere lo stimolo allucinando la soddisfazione.

177. Freud dà un nome particolarmente espressivo a quel reale di cui sua maestà l’io-
piacere non sa nulla, ma che lo determina, inviandogli stimoli spiacevoli. È die Not des
Lebens, l’urgenza del vivere. Infatti, d’aver bisogno di riempire lo stomaco, sua maestà l’io-
piacere non sa nulla, sa soltanto che qualcosa non va nel suo palazzo. Si agita «per» evitare lo
stimolo, saremmo indotti a dire (in realtà il suo stesso agitarsi è già lo stimolo). Scrive Freud:
«L’eccitamento prodotto dai grandi bisogni fisici cercherà uno sfogo nella motilità». Ma non
cambierà nulla, finché la torta rosea e volante non sarà ricomparsa nel suo orizzonte. Ora,
dobbiamo supporre che sua maestà se ne ricordi. Lo stimolo non cessa, perché non proviene
dall’esterno, quindi la risposta motoria è, di per sé, del tutto inadeguata. Che non sia uno
stimolo esterno significa, dice Freud, che «non è una forza d’urto momentanea, bensì una
forza continua» (teniamo a mente questa distinzione, perché essa ci consentirà di tradurre la
differenza dell’interno e dell’esterno in una differenza di costituzione temporale, e
quest’ultima ci darà la chiave del concetto freudiano di pulsione).
A dire il vero, sua maestà inizia a desiderare il seno solo in quanto se ne ricorda. «È un
moto di questo tipo che chiamiamo desiderio; la ricomparsa della percezione è l’appagamento
del desiderio e l’investimento pieno della percezione, a partire dall’eccitamento di bisogno, è
la via più breve verso l’appagamento di desiderio [...] l’atto di desiderio sfocia quindi in
un’allucinazione. Questa prima attività psichica mira dunque a un’identità di percezione, vale
a dire alla ripetizione della percezione che è collegata al soddisfacimento del bisogno».
L’allucinazione servirebbe dunque a rimuovere (verdrängen) lo stimolo (siamo nel secondo
tempo dello schema). Ma non si può rimuovere uno stimolo che viene dal reale. Quindi lo
stimolo, di per sé, non è ancora desiderio.

178. Prima di parlare di desiderio e d’oggetto di desiderio bisogna dunque tener conto
dell’urgenza del vivere, la quale si fa sentire come stimolo. Già qui il problema si complica.
Possiamo infatti distinguere il desiderio dal bisogno; ma che statuto daremo a quest’ultimo, in
rapporto allo stimolo? Non tutti i bisogni, infatti, hanno quei rappresentanti psichici che
chiamiamo stimoli. Se abbiamo bisogno di mangiare, avvertiamo uno stimolo che chiamiamo
appetito. Ma, se abbiamo bisogno di vitamine, non abbiamo alcuno stimolo che ci avverta di
questo. Anche gli animali conoscono stimoli che consentono ad essi di soddisfare alcuni
bisogni, ma non tutti. L’animale non può sapere che, per vivere, bisogna nutrirsi; sa solo che,
mangiando, fa cessare uno stimolo, e che questo è piacevole. Il piacere sembra essere dunque,
in ultima istanza, il terreno di coltura dell’urgenza del vivere. Non possiamo pensare il piacere
come lo zuccherino che la vita dà ai viventi per indurli a desiderare di vivere, e quindi non
possiamo pensarlo come un premio (Lustgewinn, come scrive Freud). Non è la vita che
concede il piacere, ma il piacere che, essendo per definizione Lust, volontà di piacere, vuole
vivere.

179. Torniamo ora alla costruzione freudiana. Abbiamo visto che, per parlare di desiderio,
dobbiamo attendere che il ricordo d’un precedente soddisfacimento venga «investito» come
via più breve (allucinatoria) per il soddisfacimento d’un bisogno. Scopo di tutto il «processo
primario» – dell’io-piacere – è dunque di produrre ciò che, con fulminante intuito, Freud
chiama identità di percezione. Non si tratta di ritrovare una seconda percezione identica alla
prima, ma proprio quella, senza la cui persistenza – «allucinatoria», dice Freud – non ci
sarebbe modo di valutare l’identità di due percezioni differenti. Desiderare è quindi possibile
sempre e solo a partire dalla memoria e dall’arresto del tempo ch’essa produce. Infatti non si
tratta di desiderare che si produca ancora qualcosa d’analogo a ciò che s’era prodotto in
precedenza, ma si tratta di tenere ferma la percezione piacevole. Il Lust vuole eternità, «vuole
profonda, profonda eternità». Ma «eternità» qui non significa assenza di tempo, perché, se il
tempo non ci fosse, non ci sarebbe neppure il bisogno, e quindi non ci sarebbe nessuna
mancanza da colmare; significa invece «eterno ritorno», e quindi negazione del tempo, nel
fluire del tempo. Desiderare è sempre desiderare contro il corso del tempo. Il desiderio
coincide, in definitiva, con la sua retroazione. Infatti se non ci fosse, nel tempo, una volontà
d’arrestarsi, cioè se il tempo non fosse una serie indefinita d’istanti, ciascuno dei quali è non
tempo, non ci sarebbe nessun desiderio (certo, qui stiamo parlando come se il tempo avesse
un’esistenza sua propria, distinta dall’esistenza soggettiva, ma lo stiamo facendo per coerenza
con il mito freudiano che stiamo tentando d’illustrare).
Ora, possiamo dire che il Lust-ich del nostro mito abbia un’esperienza del tempo? Senza
dubbio no. Se «la via più breve» per l’appagamento dello stimolo è, per il processo primario,
l’allucinazione d’una prima, sempre identica esperienza di soddisfacimento, ciò non accade
per qualche misteriosa capacità dell’infans che noi adulti, in quanto parlanti, avremmo poi
perduto; accade invece perché il processo primario (l’«inconscio») «ignora il tempo»; è
proprio perché non c’è tempo che, al ripresentarsi dello stimolo, si produce un’allucinazione:
la seconda esperienza non è una replica della prima, è ancora quella. Qui il tempo non s’è
ancora dispiegato nelle sue tre dimensioni soggettive, e perciò non può esistere ancora
un’esperienza del passato. Dobbiamo supporre dunque che il Lust-ich non conosca il tempo,
vale a dire che il suo tempo sia fuori del tempo, come un eterno presente nel quale non può
esserci nulla di ciò che noi chiamiamo desiderio. Se Freud parla di desiderio in questo
momento del suo mito, è perché proietta l’esperienza dell’io (di «sua maestà») su coordinate
che implicano il tempo, anzi un tempo assoluto. Freud prende la carta per il territorio, e
proprio per questo gli appare in funzione fin d’ora un desiderio, e un desiderio che non è uno
qualunque, ma che è il desiderio «dell’inconscio», quello «indistruttibile». L’inconscio che
ignora il tempo e la contraddizione è costituito da moti di desiderio indistruttibili, dice, con
una vera e propria contradictio in adiecto. Se infatti non c’è il tempo, come può esserci un
desiderio, per di più «indistruttibile», il quale può essere motivato solo da una mancanza che,
senza il tempo, sarebbe inconcepibile? L’affermazione di Freud, logicamente del tutto
insostenibile, è motivata solo dal fatto che ha proiettato l’inconscio su una mappa che ha le
coordinate del tempo assoluto. Se invece consideriamo il territorio, e non la mappa, ci
accorgiamo subito che non può esserci nessun desiderio «nell’inconscio», perché in esso non
può esserci nessuna mancanza; non può esserci nessuna mancanza perché in esso non può
esserci tempo; e non può esserci tempo perché, come abbiamo visto, l’inconscio non è il
soggetto, ma il campo di quei significanti che rappresentano il soggetto senza significarlo.
Tuttavia, in questo «errore» di Freud è contenuta molta verità. Infatti il non tempo dell’io-
piacere può essere definito come non tempo solo in relazione al tempo; però non al tempo
assoluto della fisica, ma al tempo concreto, cioè alla durata del presente. Il non tempo dell’io-
piacere è l’istante, che solo consente, pur non avendo natura temporale, di farci durare nel
tempo, cioè nel suo trascorrere. Infatti, se il presente ha una sua durata, è perché, come dice
Freud, fra percezione e coscienza c’è un intervallo. L’inconscio non è altro che
quest’intervallo, grazie al quale la coscienza sorge al posto della percezione. Dire dunque che
il processo primario tende a produrre un’«identità di percezione» ha senso solo se ci riferiamo
ad un tempo assoluto, poiché ciò che ci appare come identità di percezione è solo la
cancellazione della percezione, il suo svanire nella nostra coscienza, cioè nella durata del
presente in cui viviamo. Ma questo svanire della percezione è l’in sé della percezione, al cui
posto sorgerà la coscienza. Possiamo comprendere quindi il non tempo dell’io piacere non
come un momento situabile nella genesi della soggettività, nei termini d’una mitica storia
della sua formazione, ma come un momento strutturalmente sempre ripetuto e ripetibile della
struttura temporale concreta (cioè non assoluta) della soggettività. Il non tempo dell’io piacere
è l’istante non temporale attorno al quale verte ogni concreto presente esperienziale: e non
d’un io-piacere, che nessuno ha mai potuto osservare e percepire, ma proprio del nostro
concreto e temporale io di soggetti parlanti.

180. Tuttavia questa soddisfazione a poco prezzo, che Freud chiama allucinatoria e che
invece è solo la durata della percezione in se stessa, è anche una soddisfazione
insoddisfacente, perché non serve ad eliminare lo stimolo. Infatti il tempo della percezione e il
tempo dello stimolo non sono lo stesso. Il primo è per definizione tempo identico al desiderio
(è piacere, quindi il non tempo in cui riposa il tempo, è la sua retroazione). Il secondo è invece
die Not des Lebens, è l’effetto prodotto da un altro tempo, che include e genera la mancanza;
ed è l’effetto d’un altro percorso, che tenta d’eliminarla, ma così la rinnova. Lo stimolo è
l’anello terminale d’una catena causale che possiamo descrivere in termini fisiologici, e che
dunque obbedisce ad un tempo assoluto ed oggettivo. È vero comunque che questo tempo ci
pare oggettivo solo perché i processi organici si svolgono tutti nelle medie dimensioni;
vedremo in effetti che, se ci riferiamo all’infinitamente grande o all’infinitamente piccolo,
neanche questo tempo è assoluto come ci pare di solito, e che perciò è possibile costruire uno
schema temporale che rappresenti «al tempo stesso» il tempo soggettivo e quello oggettivo.
Ma in ogni caso è dalla sfasatura di questi due tempi – anche se essa sussiste solo
soggettivamente – che viene l’impossibilità, per «sua maestà», di spegnere lo stimolo col solo
desiderio e col suo appagamento allucinatorio. Quest’ultimo è sempre possibile, ma ciò
significa soltanto che il desiderio, in quanto desiderio, tende ad appagarsi di se stesso, quindi
a perpetuarsi, ad essere «desiderio di desiderio», in quanto, in sé, è sempre piacevole
nonostante la mancanza, è sempre Lust, piacere e desiderio insieme, per quanto spiacevole sia
desiderare senza soddisfacimento.
Infatti stiamo parlando pur sempre d’un desiderio che presuppone la mancanza. Ma un
desiderio che partisse dalla mancanza si spegnerebbe quando questa fosse eliminata. In realtà
possiamo constatare facilmente in ogni nostra esperienza che la soddisfazione del desiderio
non solo non toglie la mancanza, ma la ricrea immediatamente, e addirittura l’amplifica: a
nessuno «mancherebbe» niente se il desiderio non gl’imponesse d’impadronirsi dell’oggetto
che desidera. Il desiderio, quindi, viene prima della mancanza, ed anzi la produce. Ci
troviamo qui di fronte a un meccanismo che fa del desiderio un’entità bifronte: da una parte
esso è un meccanismo che spinge il soggetto a creare e ad inventare, da un’altra è invece un
meccanismo di produzione di mancanza, e quindi di colpevolezza. Il desiderio d’un oggetto
mancante è anzi sempre entrambe le cose al tempo stesso. Siamo quindi costretti ad
ammettere che il «puro» desiderio, cioè il desiderio in quanto tale, nella sua determinazione
essenziale, non è affatto desiderio di ciò che manca, ma desiderio di creare dal nulla ciò che
ancora non è. Il Dio cristiano, ad esempio, non desidera solo eliminare la morte ed il peccato
– la mancanza – dalla propria creazione, ma, prima ancora che ci fosse mancanza, ha
desiderato creare, accettando di pagarne il prezzo proprio in termini di mancanza: non solo la
creatura, a differenza del creatore, sarà necessariamente, di per sé, manchevole, ma anzi viene
lasciata ad essa la libertà di peccare, quindi, ancora una volta, di mancare. Il desiderio in
quanto tale, perciò, non presuppone affatto la mancanza, perché la mancanza si sperimenta nel
tempo, mentre il desiderio è piuttosto il rovescio – la retroazione – del tempo. Fra il desiderio
in quanto tale (quello che chiameremo etico) e il desiderio nella mancanza (che invece
chiameremo patologico) c’è dunque la stessa relazione che intercorre fra il senso e la
significazione: il desiderio «in quanto tale», ch’è presente, almeno come mero orizzonte,
anche nel desiderio patologico, si soddisfa già nella rappresentazione di se stesso a se stesso, e
proprio in questa relazione costitutiva fra il desiderio etico e quello patologico sta l’origine
dell’attività fantasmatica. Questa pare del tutto inclusa nel desiderio patologico, e senza
dubbio lo è, ma produce una soddisfazione, sia pure nell’insoddisfazione, che in qualche
modo è più forte della soddisfazione reale dello stesso desiderio patologico perché, a
differenza di questa, non ha limiti (è per questo che nei sogni, nei quali non possiamo far altro
che desiderare, i nostri desideri sono sempre soddisfatti: lo sono già per il fatto di dover essere
significati; rappresentare un desiderio in quanto desiderio significa rappresentare la sua
soddisfazione, dal momento che la mancanza in quanto tale non è rappresentabile).
Eticamente, è senza dubbio colpevole accontentarsi, per soddisfare il desiderio «in quanto
tale», di moltiplicare i desideri patologici. Ma questa colpa gravissima – si tratta né più né
meno che della blasfemia, cioè della conseguenza ultima dell’idolatria – è pur sempre il
prodotto della differenza costitutiva fra il desiderio patologico e il desiderio etico che lo
genera, sebbene riducendosi. Notarlo, tuttavia, non serve certo a minimizzare questa colpa;
serve, invece, solo a sottolinearla.
Ma «sua maestà» l’io-piacere – per esempio l’io che siamo nel sogno –, non elimina affatto
il risorgere dello stimolo spiacevole rimuovendolo, e continuando a dormire (poiché, come
nota Lacan, seguendo Freud, il desiderio principale è quello di dormire; ma questo non
significa, qualunque cosa ne pensassero Freud e Lacan, che il desiderio principale – fra quelli
patologici – e il desiderio fondamentale – il desiderio «in quanto tale» – siano la stessa cosa,
perché, se lo fossero, non ci sarebbe affatto desiderio). Possono rimuoversi solo gli stimoli
che hanno origine interna, e dunque soggettiva, non quelli prodotti dall’«urgenza del vivere»,
cioè non quelli esterni ed «oggettivi». Quest’ultimo termine deve essere scritto fra virgolette,
perché l’oggetto di cui stiamo parlando, in questo momento del mito freudiano della
costituzione del soggetto, non s’è ancora formato, e quindi nulla può essere ancora veramente
«oggettivo». Esso sarà davvero tale solo quando si sarà saldato al reale, perché sarà scivolato
all’esterno del soggetto.

181. L’io-piacere della rimozione (l’io dormiente, se vogliamo raffigurarcelo in qualche


modo), l’io del secondo tempo del nostro schema quaternario, può rimuovere il dispiacere,
attingendo al piacere del suo funzionamento, il quale genera l’allucinazione (per esempio il
sogno). Ciò non toglie però che, dalla parte del reale e dello stimolo (della Not des Lebens),
permanga il dispiacere, perché quest’ultimo dipende da una catena causale e da un tempo ch’è
identico con essa (che quindi è un tempo assoluto). Ma il soggetto in quanto Lust-ich ignora
questo tempo. Solo quando un esterno gli si è costituito come Unlust, in seguito all’espulsione
o fuorclusione del dispiacere, lo stimolo gli apparirà come proveniente da un esterno, ma da
un esterno con cui ora l’«io» coincide, in quanto il reale (il dispiacere), che prima era stato
fuorcluso, continua a ritornare dalla parte dello stimolo. Quando lo stimolo gli si manifesta
come interno (ad esempio come fame), il soggetto è invaso dal reale che aveva chiuso fuori da
se stesso, e finisce col coincidere con questo reale, per il fatto stesso di non poterlo più
fuorcludere. L’infans che piange e si dimena in preda a un appetito o ad un dispiacere non è
altro che questo punto di reale. Perciò il dolore ha sempre il privilegio di realizzarci
soggettivamente (mentre il piacere tende a cancellarci), ma di realizzarci solo
nell’abbrutimento. Esso, cioè, ci realizza soggettivamente solo nella desoggettivazione (e
questo non è che uno dei molti apparenti paradossi dello statuto temporale della soggettività):
infatti un soggetto che soffrisse soltanto cesserebbe d’essere un soggetto, come cesserebbe
d’esserlo un soggetto che non potesse far altro che godere. Ma naturalmente è proprio grazie
alla logica costitutiva della soggettività che né il primo né il secondo caso si daranno mai,
perché c’è un piacere anche nel dolore, ed un dolore anche nel godimento.

182. Lo stimolo appare dunque come una minaccia di cancellazione, perché il soggetto non
si riconosce che nel suo piacere, cioè nell’ingorgo, nella stasi del tempo (la quale, beninteso,
non è affatto identica all’istante, dal momento che, se mai, è l’effetto del ritornare del tempo
su se stesso, per ritrovare, nella durata, l’atemporalità che lo costituisce nell’istante). Il
soggetto, la cui forma pura è il tempo, si riconosce, in quanto desiderante, nella stasi del
tempo, cioè nella retroazione del tempo, la quale si risolve in un ritardo del tempo su se stesso
(in un presente). Tuttavia, nella seconda fase del nostro schema, non possiamo ancora parlare
neppure d’un vero desiderio patologico, perché stiamo seguendo la genesi (logica, è vero, e
per niente cronologica) del desiderio come rovescio della genesi temporale (ma sempre non
cronologica) del soggetto. A quest’altezza dell’«albero del sì e del no» non possiamo ancora
parlare d’un vero desiderio patologico – anche se possiamo già parlare d’un desiderio in
quanto tale –, perché non possiamo ancora parlare d’un vero soggetto (né d’un vero oggetto).
E qui si vede che, come il senso precede logicamente, benché segua di fatto, la significazione,
il desiderio «in quanto tale», cioè il desiderio etico, precede la chiusura della soggettivazione,
benché l’etica sia solo una conseguenza ultima dell’azione d’un soggetto già perfettamente
formato e articolato. Dunque in questo momento, nel quale la soddisfazione del Lust si separa
dall’insistenza d’Unlust dello stimolo, è compiuto un passo fondamentale verso la
costituzione dell’oggetto, e d’un oggetto separato dal soggetto, esterno ad esso e proprio
perciò reale. L’oggetto reale è l’oggetto «cattivo» del quale hanno spesso parlato gli
psicanalisti. L’oggetto «cattivo» non è tanto quello che viene sputato come Unlust (che non è
ancora un oggetto), quanto quello che manca alla nostra soddisfazione (naturalmente, dal
punto di vista kleiniano, quest’oggetto «che manca» può essere benissimo introiettato). Con
questo, fra il primo e il secondo tempo del mito, s’è operato un capovolgimento: ciò ch’era
stato sputato come dispiacere si trova ora all’interno dell’io, e ciò che manca – l’oggetto –
non è che l’io-piacere ch’è andato perduto in seguito all’invasione da parte dello stimolo.
Cercando il seno, l’infans cerca «se stesso», cioè la sua soddisfazione. Il seno è lui stesso, ma
non più nel senso dell’«io sono il seno» del Lust-ich. L’oggetto interviene anzi qui come un
sostituto del soggetto, quando il soggetto è desoggettivato dallo stimolo, cioè invaso dal reale.
La prima condizione per poter parlare d’un oggetto è quindi che questo intervenga al posto
dell’io, come piacere. D’ora in poi, ricercando un oggetto, cioè desiderando, ogni soggetto
cercherà «se stesso». Non si comprende nulla di che cos’è un desiderio se non si comprende
che l’oggetto tiene, per il soggetto, il luogo di se stesso nel campo del reale. Sta in questa
relazione costitutiva fra il soggetto e l’oggetto la prima condizione di possibilità del
narcisismo, ma anche la prima condizione di possibilità della scelta oggettuale «per
appoggio» (i due tipi di scelta oggettuale sono quindi non alternativi, ma necessariamente
complementari). Soltanto a questo punto, quando l’oggetto viene individuato come il
rappresentante, nel reale, del soggetto, quest’ultimo può porsi come soggetto d’un vero
desiderio patologico. Soltanto a questo punto l’oggetto causa desiderio, e quindi entriamo nel
terzo momento del mito della genesi della soggettività.

183. Infatti, a partire dal momento in cui l’oggetto sarà stato ritrovato – in cui il pianeta
morbido e roseo si ridisegnerà nell’orizzonte di dispiacere dell’infans – il piacere di nuovo
ottenuto, ed ottenuto realmente attraverso la soddisfazione non solo del desiderio (che «in
quanto tale» tenderebbe a soddisfarsi a prescindere dall’oggetto), ma anche dello stimolo,
restituirà all’ich il suo piacere. Ma un’altra parte di questo piacere resterà, per così dire,
attaccata all’oggetto, perché nessuna soddisfazione può mai essere totale, cioè del tutto
atemporale. L’oggetto si costituisce così come oggetto «buono», cioè come oggetto
desiderabile in quanto tale, perché contiene una parte del soggetto, vale a dire il resto della
sua soddisfazione. L’oggetto causa di desiderio non è che lo scrigno che contiene il «cuore»
del soggetto, il suo stesso piacere, ma che contiene anche quanto manca al soggetto per essere
«totale», vale a dire del tutto soddisfatto.
Naturalmente, questa supposizione è erronea, perché l’oggetto conterrebbe tutto ciò che
manca al soggetto per essere totale solo se il tempo ed il reale non avessero già determinato, a
prescindere dall’oggetto, un desiderio che non è altro che il rovescio del tempo, che insomma
è lo scarto fra il tempo ed il reale. Nessuna soddisfazione oggettuale potrebbe mai, neppure
astrattamente, essere totale, a meno che non cancellasse il soggetto stesso, rendendolo
identico al reale. Ma il soggetto non può essere identico al reale se non nella morte, e non
nella morte considerata eticamente, ma nella morte considerata naturalmente (ammesso che
naturalmente, cioè fisicamente, abbia ancora un senso parlare di morte). Ora, nessuna lingua
riferisce la parola «morte» alla mera situazione naturale di dissoluzione del corpo fisico (se
non finché esiste ancora un corpo morto che ricordi nel suo aspetto il corpo ch’era stato vivo).
Eppure spesso nell’etica della psicanalisi proprio quest’assoluta cancellazione naturale della
soggettività è stata ritenuta il fondamento reale del desiderio etico, come se la morte avesse
qualcosa a che fare col reale (si vedano a questo proposito le nostre considerazioni, nel Mito
di Crono, a proposito delle posizioni di Lacan sull’etica). E qui si vede come la psicanalisi
stessa abbia condiviso finora lo stesso errore che caratterizza la posizione patologica della
soggettività, cioè come, su questo punto, essa sia rimasta ferma al pregiudizio della nevrosi,
limitandosi a denevrotizzarlo, vale a dire a privarlo d’ogni prospettiva d’attesa: e questo, a
dire il vero, non ci pare affatto un progresso sulla nevrosi stessa.

184. Quando desideriamo, anche se desideriamo solo ciò che ci pare mancarci, andiamo
alla ricerca della nostra verità di soggetti. Ma un conto è desiderare in relazione a degli oggetti
(cioè desiderare nel fantasma, vale a dire degli oggetti sessuali), un altro è desiderare
eticamente, cioè farlo in relazione al senso ed all’azione. Questo non significa comunque che
il desiderio patologico possa sussistere senza un desiderio etico. Ciò non può mai accadere,
neppure nelle situazioni eticamente più colpevoli, per esempio nella perversione. Ci potrebbe
essere una totale perversione solo se potesse non esserci altro desiderio che quello patologico:
ma abbiamo visto che quest’ultimo si viene a definire, nel nostro mito di formazione
soggettiva, solo in un momento successivo a quello in cui si definisce un desiderio in quanto
tale, il quale però non è ancora in relazione con un oggetto di desiderio, ma solo con uno
stimolo reale, vale a dire con il dispiacere ed il dolore in quanto tali. Il desiderio patologico,
quindi, non è che una riduzione necessaria del desiderio «in quanto tale», come la
significazione non è che una riduzione del senso, anche se né il desiderio etico né il senso
potrebbero sussistere de facto senza il desiderio patologico e senza la significazione: questa
preminenza de facto dipende proprio dalla preminenza del reale e del tempo sulla soggettività,
e può tradursi nella inevitabile finitudine del soggetto stesso, che non potrebbe esserci se non
fosse delimitato, e più tardi individuato, come un soggetto. Certo, essere un soggetto lascia
aperta a qualunque soggetto la prospettiva dell’uno, che è, per lui, una prospettiva eticamente
trascendente, grazie alla quale nessun desiderio patologico potrà mai esaurire né il suo
desiderio, né la sua reale individuazione. Ma questo non significa certo che quest’apertura non
possa essere rimossa, come ci testimonia il nostro schema «del sì e del no».
Desiderare è sempre, anche nel caso del desiderio patologico, e persino in quello della
perversione, cercare «la verità in un’anima e in un corpo», come scrisse Rimbaud. Solo che
non necessariamente l’oggetto causa del desiderio patologico dovrà essere dotato d’un’anima
e d’un corpo. Quando, nella Recherche, il Narratore scopre lo scintillio del tramonto sui
campanili di Martinville, ha l’impressione che quel bagliore fuggevole contenga qualcosa, e
che lo inviti ad andarla a prendere. L’oggetto causa di desiderio è descritto al massimo della
sua evidenza quando è descritto al minimo della sua complessità. Ma, al minimo della sua
complessità, l’oggetto causa di desiderio è già un oggetto duplice, in quanto vale già per
qualcos’altro ch’è supposto contenere e poter dare: qualcos’altro che non è affatto racchiuso
nel suo contenuto immediatamente sessuale, come tutto il romanzo di Proust testimonia, dal
momento ch’esso non è altro che la cronaca della trasformazione d’un desiderio sessuale in
desiderio etico, vale a dire nel desiderio fondamentale: quello di trascendere, nel tempo, ed
attraverso il tempo, il tempo stesso.
III. Dal soggetto all’oggetto

185. Il nostro desiderio è sempre, nella sua essenza, nostalgia di qualcosa che sappiamo
d’aver avuto, un giorno, senza poter dire quando, ed anzi è una nostalgia così fondamentale
che tutte le nostre nostalgie ne saranno soltanto delle immagini sbiadite ed imperfette. Negli
oggetti del nostro desiderio sembra che ci si prometta qualcosa di tanto prezioso e di tanto
fragile che il desiderio stesso è sempre accompagnato dalla coscienza della caducità.
Desiderando, sappiamo di desiderare ciò che abbiamo perduto e che all’infinito torneremo a
cercare, perché non c’impadroniremo mai di quell’oggetto essenziale, e sappiamo perciò che
non potremo mai smettere di cercarlo, pur essendo introvabile, dal momento che, senza tale
ricerca, la nostra stessa esistenza ci sembrerebbe vuota. Sappiamo bene che il desiderio, da
questo punto di vista, è illusione, ma sappiamo pure che niente è più dolce, persino più vero di
quest’illusione. La verità dell’illusione è infatti il desiderio, purché le nostre mani siano
abbastanza delicate da non cancellare le tracce di questa verità nella nostra illusione, e di
questa illusione nella nostra verità. Qualunque oggetto di desiderio, infatti, reca la traccia
sottile della divisione che ci costituisce, e che nessun appagamento potrà mai cancellare.

186. L’oggetto causa di desiderio dev’essere concepito nella sua duplicità. Da una parte
esso è un involucro – mera sembianza, mera parvenza –, dall’altra è ciò che l’involucro è
supposto contenere e promettere. Questa duplicità d’un esterno e d’un interno corrisponde
esattamente alla duplicità soggettiva d’un interno e d’un esterno. L’involucro – la dóxa,
potremmo dire con una parola greca che ben si presta a definire lo splendore degli oggetti che
desideriamo – promette qualcosa d’essenziale, ch’esso mostra senza rivelarla, e perciò è la
sembianza da cui prolifera la selva immaginaria. Ma non dobbiamo credere d’aver capito che
cos’è l’oggetto del desiderio solo perché crediamo d’aver capito che cos’è l’immaginario. A
questo livello della costituzione dell’oggetto – siamo ancora all’altezza del secondo bivio
dell’«albero del sì e del no» –, non possiamo ancora parlare dell’immaginario come
specularità; evocare nozioni come quella di narcisismo non ci servirebbe, perché stiamo
ancora parlando della condizione preliminare di qualunque narcisismo. Il Lust-ich ha ceduto
all’oggetto una parte del Lust che lo costituiva, ma l’oggetto qui è un equivalente, non
un’immagine, del soggetto. Così, per esempio, ci lasciamo sfuggire l’essenziale ogni volta che
riconduciamo il bello alla dóxa dell’immagine. Il bello non è l’immaginario; al contrario,
l’immaginario si presta così spesso a supportare la dimensione estetica proprio perché è in
relazione al bello attraverso l’oggetto. Ma la bellezza non è che una promessa: come i
campanili di Martinville sembrano contenere qualcosa d’essenziale, così ogni oggetto di
desiderio appare «bello» – ma bisognerebbe dire, più esattamente, desiderabile – per ciò ch’è
supposto contenere. E ciò ch’è supposto contenere è né più né meno che il piacere che il
soggetto ha perduto. Dobbiamo dunque distinguere nettamente, nell’oggetto, ciò che appare –
la sembianza, la dóxa – da quanto vi è contenuto: la causa di desiderio, l’oggetto propriamente
perduto. Come ognuno, nascendo, ha perduto quella parte di sé – quell’involucro – che lo
aveva avvolto nella sua vita fetale, e che diventa d’allora in poi una sorta di prototipo
dell’oggetto perduto (la «lamella», della quale parla Lacan nel suo mito del desiderio), così
l’oggetto, in quanto ci si manifesta, è solo l’involucro che contiene l’oggetto propriamente
perduto: il piacere al quale il soggetto, per esistere individuatamente, deve rinunciare. Ma ciò
che nel soggetto era l’involucro, nell’oggetto è il contenuto. L’oggetto perduto, che il suo
involucro splendente racchiude e promette, non è che il niente al quale si riduce il soggetto
per non poter essere, nel reale, altro che una mancanza e un non reale. Il niente è l’oggetto
radicale. Di qui proviene il carattere necessariamente delusorio del desiderio patologico, in
quanto tutto ciò che lo suscita è soltanto un involucro che promette di rivelare un oggetto che
poi si svelerà soltanto come un niente. Tuttavia, come abbiamo già accennato, non crediamo
affatto che tutto il desiderio patologico si riduca a questo niente, perché non è impossibile
ch’esso si traduca eticamente, come non accadrebbe se il desiderio fosse solo illusione, cioè
se non fosse fondato su un desiderio non fantasmatico (su un desiderio «in quanto tale»).

187. Stiamo parlando di quella tappa essenziale, nella costituzione del soggetto, che
deciderà dello strutturarsi del desiderio nel fantasma. Tuttavia, anche per motivi di chiarezza
espositiva, rinviamo ad un prossimo capitolo la trattazione di questo concetto. Riprendiamo
invece l’essenziale della genesi dell’oggetto nella dialettica del sì e del no, ricordando che, di
questa dialettica, stiamo seguendo solo una delle possibilità – quella negativa –, mentre
l’esposizione della parte affermativa è rinviata alla Formazione, volume nel quale ci siamo
soffermati lungamente sulla funzione dell’agone, contrapponendolo al fantasma. L’eticità del
desiderio infatti non è inclusa soltanto nel fantasma; è inclusa anche in esso, ma solo a
condizione che il desiderio fantasmatico (patologico) sia accompagnato (come non può non
essere, per la stessa funzione dialettica dell’«albero») da un desiderio etico, che concerne
anche l’accettazione, e non solo il rifiuto, della determinazione soggettiva.
Abbiamo visto che ad un primo livello – quello della fuorclusione con la quale il reale si
costituisce come esterno al soggetto – l’oggetto è l’oggetto «cattivo», l’abiectum al quale
s’oppone il Lust-ich come luogo di tutto ciò ch’è «buono». Abbiamo visto ancora che, al
secondo livello, quello della rimozione, piacere e dispiacere vengono a disporsi sia sul
versante soggettivo, sia su quello oggettivo, perché il Lust-ich cede all’oggetto una parte di
piacere, e assume in sé come rimossa una parte dell’Unlust, del reale, dell’oggetto. Ciò che
l’oggetto promette, diventando un iniectum, è dunque la possibilità d’annullare la divisione
del soggetto. La condizione linguistica di questa illusione – poiché di questo si tratta – è il
transfert, cioè la possibilità del controinvestimento come strumento della rimozione. La
nostalgia dell’oggetto in quanto oggetto perduto non è che il desiderio di sopprimere il tempo.
Ma la divisione è l’essere del soggetto, e il tempo è la sua forma pura. Il desiderio patologico
resterà quindi non solo necessariamente vano, ma includerà sempre una nostalgia del non
essere (sopprimere il tempo in modo solo negativo condurrebbe solo alla morte che prima
abbiamo chiamato naturale). Questa prossimità fra il desiderio patologico e la nostalgia del
non essere è ciò ch’esprime il mito freudiano della pulsione di morte. In Lacan, al contrario,
come ci pare d’aver mostrato nel Mito di Crono, questa prossimità delle due funzioni
pulsionali si traduce in una loro identità all’interno del desiderio sessuale. E questa ci pare una
decisione teorica che di solito spinge la psicanalisi precisamente nella direzione contraria a
quella che qui stiamo tentando di promuovere.

188. Abbiamo detto che l’oggetto è, a quest’altezza dell’«albero», un equivalente del


soggetto. Come dobbiamo intendere quest’affermazione? Certo non nel senso del significante.
L’oggetto, qui, non è affatto un significante del soggetto: solo nel quarto stadio, cioè
all’ultimo bivio del nostro schema, l’oggetto diventerà un vero e proprio rappresentante del
soggetto. Per ora l’oggetto, benché rappresenti il soggetto, ma solo in quanto ne assume
alcune caratteristiche, non è un significante, e non lo è per il semplice motivo che il Lust-ich
non è ancora, propriamente, un soggetto. In altri termini, il Lust-ich desidera l’oggetto proprio
perché non lo percepisce affatto come distinto da sé. È vero comunque che, in questa fase
decisiva, nella quale l’oggetto diventa un sostituto del soggetto, si apre per il Lust-ich un
orizzonte del tutto nuovo; l’oggetto acquista adesso una sua identità, che prima non aveva: il
«soggetto» ha ceduto ad esso la sua unità (poiché non c’è dialettica se non fra momenti
d’articolazione dell’unità nella molteplicità), e l’unità caratterizza in primo luogo il soggetto,
sia pure nella sua indeterminazione, determinandolo solo con l’uno della sua divisione. In
quanto tenente luogo del soggetto, l’oggetto si definirà come un oggetto, nonostante la sua
divisione fra dóxa e contenuto di piacere (o forse proprio a causa di tale divisione). Esso sarà
quindi per la prima volta un oggetto individuato.
Ora l’oggetto, riconosciuto desiderabile in quanto tale, cioè in quanto separato, potrà di
nuovo mancare, mettendo nuovamente in questione l’equilibrio raggiunto nel momento
secondo. Se poniamo che l’oggetto sia ancora il seno – dal momento ch’è necessario illustrare
in qualche modo questi processi, i quali, essendo meramente logici, rischiano di divenire
irrappresentabili –, quest’oggetto, riconosciuto come un alcunché d’esterno, anche se non
d’estraneo, al soggetto, può ora venire a mancare, dal momento ch’esso è collegato all’altro, e
non al soggetto che desidera. Infatti il principio d’identità soggettiva, «io sono il seno», qui
non può più entrare in funzione, perché il seno come oggetto causa di desiderio ha cambiato
statuto, diventando per la prima volta una parte del corpo della madre. Il piano di separazione
fra l’ich e l’esterno ora – cioè nel terzo momento del mito – non passa al di là, ma al di qua
del seno. L’oggetto, così, viene riconosciuto come una parte non del soggetto, ma dell’altro.
Tuttavia l’altro non è semplicemente quel corpo cui il seno sta attaccato (la madre), perché è
anche quella parte di sé che il Lust-ich ha dovuto rimuovere, e che crede di poter ritrovare, per
transfert, in un altro. Il transfert è, a questo livello, quel meccanismo di sostituzione in base al
quale noi cerchiamo in un altro ciò che noi stessi gli abbiamo ceduto.
Alla fine del secondo tempo della costituzione dell’oggetto, e come sua risultante, s’apre
dunque per il soggetto il luogo d’un esterno che non è più semplicemente, come nel primo
tempo, il reale, cioè l’illimitato e l’indifferente, ma è un esterno analogo al soggetto, benché
ne sia distinto. L’oggetto è, abbiamo detto, un equivalente, un tenente luogo del soggetto (non
un suo significante). Dobbiamo aggiungere ora ch’è un suo tenente luogo nell’altro.
Ontogeneticamente ciò significa che l’infans «scopre» ora che esso è una parte dell’altro, e
che soltanto l’altro potrà concederglielo o negarglielo. Una parte essenziale del soggetto – il
suo piacere essenziale – sarà dunque per così dire chiusa nell’altro. È importante notarlo,
perché questo dimostra che la costituzione dell’oggetto causa di desiderio è del tutto inscritta
per un verso nella struttura fantasmatica, per un altro in quella del transfert, in quanto l’una e
l’altra sono in realtà la stessa struttura, ma descritta da due diversi punti di vista: quello della
realizzazione del desiderio sessuale (nel fantasma) e quello della relazione privilegiata che il
soggetto ha con un altro (nel transfert). Ora, l’oggetto causa di desiderio, a questo livello
dell’articolazione logica che stiamo estraendo da Freud e da Lacan, non è altro che una
funzione di questa duplice struttura, e quindi non può essere estratto in nessun modo da essa
senza divenire, con questo, un concetto del tutto inadeguato ad indicare l’oggetto del
desiderio, perché il desiderio stesso è invece una funzione molto più generale, che riguarda
tutti e quattro i modi del dir di no, e soprattutto la Bejahung, il dir di sì, che è il riferimento
ultimo d’ogni eticità. Ma questo significa che il concetto psicanalitico d’oggetto causa di
desiderio è estratto essenzialmente dalla struttura nevrotica (ci troviamo infatti all’altezza
della rimozione), e ch’è presente anche nelle altre strutture cliniche solo nella misura in cui
queste, essendo strutture di soggetti parlanti, assumono almeno alcuni tratti essenziali della
nevrosi: il fantasma, il transfert e l’oggetto causa di desiderio. Anche su questo punto,
tuttavia, non possiamo che rimandare al Mito di Crono.

189. Come possiamo raffigurarci ciò che, per l’ich, a questo stadio, non dello sviluppo ma
della costituzione logica del soggetto e dell’oggetto, è l’altro? Infatti non possiamo ancora
pensarlo come un altro soggetto, dal momento che neppure l’ich è ancora un soggetto
perfettamente costituito. Diciamo che, per ora, bisogna concepire l’altro come un semplice
luogo, precisamente come quel luogo in cui viene a prendere posto l’oggetto, quindi come un
luogo esterno al soggetto, benché vi si situi quell’oggetto che contiene una parte essenziale di
lui (il suo piacere fondamentale). È questa la prima determinazione decisiva dello spazio, non
d’uno spazio assoluto, geometrico, ma d’uno spazio di movimento. La genesi costitutiva del
desiderio come attività soggettiva e quella della significazione e del senso, che abbiamo
considerato in precedenza, sono divise qui solo per necessità espositiva. In realtà il percorso
logico (e non cronologico) di formazione del soggetto e dell’oggetto coincide con il percorso
dal senso (che possiamo situare sul nostro «albero del sì e del no» lungo l’asse della
Bejahung) alla significazione (che invece possiamo situare lungo i quattro assi del dir di no).
Certo, nel mito che qui stiamo esponendo non appare subito evidente che si tratta anche
della formazione del linguaggio. Nell’esposizione dell’«albero del sì e del no» il linguaggio
s’opponeva al soggetto come un tutto già costituito nella sua astrazione, come realmente
accade per ogni infans (beninteso, solo dal nostro punto di vista, e non dal suo). Ma dobbiamo
dire che, se teniamo conto della sua genesi logica, il linguaggio comincerà a delinearsi nella
sua autonomia solo al quarto livello (a quello della Verneinung). Ma perché questo spazio
possa aprirsi bisogna prima di tutto che esso si delinei, per l’ich, come uno spazio di senso.
Questo è vero a tutti e quattro i bivi dello schema. Nel momento del quale stiamo parlando,
successivo all’intervento della rimozione (ma non abbiamo ancora parlato della sconfessione),
l’altro non è ancora divenuto il luogo dei significanti (cosa che avverrà solo nel quarto
momento). Prima di divenirlo, dicevamo, l’altro dovrà essere uno spazio percorribile, aperto
all’azione dell’ich, quindi al suo movimento. È anche perché il soggetto può trovare la sua
soddisfazione nell’oggetto, come se questa vi fosse racchiusa, che lo spazio dell’altro – per
esempio il corpo della madre – potrà apparirgli come uno spazio-per-lui. Ciò accade però solo
se l’altro si rivolge all’ich come a un soggetto, prima ancora che la sua soggettivazione sia
compiuta. Senza quest’assunzione preliminare della soggettività dell’infans, non ci potrebbe
essere alcun soggetto parlante. Ma d’altra parte non ci sarebbe alcun infans se, attorno a lui,
non ci fossero già dei soggetti parlanti. La considerazione descrittiva e la considerazione
strutturale mettono in rilievo delle serie causali diverse, eppure complementari, che almeno
per ora non possiamo affatto inquadrare in un’unica concezione o in un’unica teoria, che sia
poi riducibile ad uno dei due modi di considerare il soggetto: quello strutturale (lacaniano) e
quello genetico (freudiano).
Possiamo osservare tutto ciò nel momento cruciale che ora stiamo considerando. Le cure
parentali hanno l’effetto di creare per l’ich uno spazio disponibile di soddisfazione e di
desiderio. L’altro è, a questo livello, il luogo d’un desiderio che il soggetto può riconoscere
proprio: il proprio desiderio è, per il soggetto, prima di tutto il desiderio dell’altro. Invece nei
casi in cui l’altro (per esempio la madre) non si rivolge all’infans come ad un soggetto
risultano disturbi molto gravi dell’assunzione soggettiva del compito etico, e questo in modi
diversi ai diversi livelli dello schema. Vedremo anzi, quando delineeremo lo spazio della
clinica, che le quattro forme patologiche fondamentali corrispondono proprio ai quattro modi
del dir di no. Per quanto riguarda il momento della rimozione, del quale ora ci stiamo
occupando, e del quale abbiamo già sottolineato che coincide con il momento della
formazione transferale, visto che il transfert non è altro che il rovescio della rimozione (il
controinvestimento), dobbiamo osservare che il fattore essenziale nel prendersi cura, da parte
dell’altro, dell’infans, è che questo prendersi cura appaia con una determinazione di senso, e
non solo di significazione.
La prevalenza della parola vuota, cioè della mera significazione, comporta infatti anche la
prevalenza dell’impostazione transferale dell’azione soggettiva, ponendo le basi d’uno
sviluppo patologico di tipo nevrotico, perché in questo caso l’infans non potrà giungere a
concepire l’altro come un soggetto che, nonostante la propria divisione costitutiva, pronuncia
una parola che lo impegna eticamente. Il soggetto quindi non potrà assumersi eticamente la
fides nella propria parola, ma continuerà a rimanere legato ad un altro soggetto che dovrà
dimostrargli di mantenere la propria (ed è questo il nucleo etico essenziale nell’etiologia della
nevrosi). Invece al bivio precedente il prevalere della parola vuota, ma in questo caso
palesemente negata nell’esperienza concreta del soggetto, rende possibile il ricorso ad
un’impostazione delirante e persecutoria.

190. Solo il fatto che i genitori si rivolgono all’infans già come ad un soggetto offre a
quest’ultimo quella base di certezza sulla quale, in seguito, egli si sosterrà soggettivamente.
Tuttavia bisogna dire che questo non basta ad evitare una nevrosi, se non vi si aggiunge
un’impostazione realmente etica della relazione fra i genitori e il figlio, nella quale non siano
presenti solo la significazione ed il fantasma, ma anche il senso ed un giusto criterio d’azione.
Il desiderio come identico alla sua soddisfazione che, seguendo Freud, abbiamo dovuto
ipotizzare già al primo stadio della costituzione soggettiva è, al bivio della rimozione, il
desiderio dell’altro. Il desiderio dell’altro (dell’altro cui il soggetto si rivolge, in definitiva del
soggetto supposto nel transfert), dal nostro punto di vista, è identico al desiderio inconscio.
L’inconscio, in definitiva, non è che un’ipotesi, la quale consente d’attribuire al soggetto il
desiderio dell’altro (e questo è solo un modo per dire che il soggetto è determinato da questo
desiderio, «inconscio» o «dell’altro»). Infatti l’altro, benché non si definisca ancora, qui,
come il luogo d’un linguaggio che sia già perfettamente autonomo ed automatico nel suo
funzionamento, è pur sempre il luogo dal quale giunge all’infans la parola: parola ancora in
gran parte priva d’una precisa significazione, ma che proprio per questo costituisce il campo
di possibilità delle sostituzioni linguistiche (la lallazione e la cantillazione), campo nel quale
viene a funzionare il meccanismo del controinvestimento (o del transfert).
Dobbiamo tuttavia distinguere nettamente l’altro come luogo di senso (senza il quale non
ci sarebbe significazione) dall’altro come luogo delle significazioni (benché queste siano, per
ora, soltanto eventuali). Il senso è, in ultima istanza, identico alla soddisfazione del soggetto e
identico all’azione motoria con la quale questa soddisfazione sarà raggiunta (tuttavia
dobbiamo sempre ricordare che si può parlare propriamente di senso, in modo descrittivo,
solo quando la significazione è già funzionante in modo autonomo: la lallazione e la
cantillazione sono una produzione di senso «allo stato puro», ma certamente solo per noi che
parliamo, e non per l’infans).
Attraverso il prendersi cura del corpo del bambino, la madre ne determina il corpo come
campo d’un’azione soggettiva che in principio è solo l’azione della madre stessa, ma diverrà
man mano anche l’azione del bambino. L’altro può essere dunque definito, prima ancora che
come il luogo delle significazioni, come il campo d’un’azione soggettiva che sola dà senso
alle significazioni. I significanti (per esempio quelli della lingua) potranno prendervi posto
solo perché un campo di senso s’è già delineato, sebbene si tratti, in principio, d’un senso
privo d’una chiara significazione. Se dunque dal punto di vista descrittivo dobbiamo dire che
non c’è senso senza significazione, dal punto di vista causale dobbiamo dire che il senso è la
condizione prima della significazione, nonostante il fatto che, senza significazione, il senso in
quanto tale sarebbe del tutto identico al non senso. Ma il senso senza significazione (ad
esempio il non senso delle lallazioni infantili) è identico alla soddisfazione del soggetto. Il
senso senza significazione è il movimento che struttura la soddisfazione che dobbiamo
supporre, sebbene solo in via d’ipotesi, a colui ch’è destinato ad essere un soggetto.

191. Una volta che l’oggetto s’è costituito come tenente luogo del soggetto nel campo
dell’altro, s’apre la possibilità d’una vera e propria Versagung del desiderio. L’oggetto, ora,
può realmente venire sottratto (dall’altro). Entriamo così definitivamente nel terzo tempo del
nostro mito, quello che abbiamo individuato sotto la rubrica della sconfessione. Quando
l’altro mancherà al desiderio del soggetto, questi non potrà più, come prima, allucinarne la
mancanza o supplirvi con la risorsa del fantasma. Dovrà invece procurarsi il proprio oggetto
con un’azione concreta. Possiamo situare in questo terzo tempo del mito anche il gioco, sul
quale Freud ha riflettuto in modo esemplare in quel passo di Al di là del principio di piacere
nel quale considera quello d’un bambino con un rocchetto che, dal lettino in cui era lasciato
solo, faceva scomparire, gettandolo via, per farlo poi ricomparire tirando il filo cui era legato.
L’assenza dell’altro consente al bambino d’investire un oggetto qualunque – un semplice
rocchetto legato ad un filo –, come un oggetto che, scomparendo e riapparendo, si fa supporto
d’una significazione soggettiva.
192. Infatti, di che cosa si tratta in questo gioco? Facendo scomparire il rocchetto (questa
parte del gioco era più spesso ripetuta da sola) il bambino lo fuorclude, lo «getta via» nel reale
di ciò che per lui non ha significazione. Tuttavia non si può parlare, qui, d’un’effettiva
fuorclusione (anche se il gesto del gettare via è ricalcato sull’Ausstossung originaria), dal
momento che si tratta d’un gioco (e quindi d’una «finta» fuorclusione). L’oggetto che viene
lanciato con un lungo fort («o-o-o») di soddisfazione viene poi salutato con un gioioso da al
suo ricomparire. Freud ritiene giustamente che il gioco consiste nella ripetizione
dell’esperienza della separazione dalla madre, e che, inscenandola, il bambino cerchi di
rendersene in qualche modo padrone, sconfessando il dispiacere che questa separazione gli
provoca. Ma questo è possibile solo grazie all’intervento d’un oggetto (il rocchetto, o «tutti i
piccoli oggetti di cui riusciva ad impadronirsi») che, certo, non ha nulla a che vedere con il
vero oggetto del suo desiderio, perché non contiene nessuna soddisfazione, e rappresenta il
bambino (o la madre) solo nel modo del repräsentieren. Ora, se il rocchetto può rappresentare
tanto il bambino quanto la madre, è perché il bambino che gioca s’è già identificato con la
madre. Con la sconfessione, il soggetto si rappresenta come in un teatro, perché s’è già
collocato, attraverso quello che Lacan chiama lo stadio dello specchio, in uno spazio scenico,
nel quale egli è un oggetto per l’altro come l’altro è un oggetto per lui. Possiamo già dire, a
questo punto, che l’oggetto è diventato un significante, se non altro perché si fa supporto della
presenza o dell’assenza di chi ne è rappresentato (di fatti il bambino è già in grado d’articolare
alcune parole).
Tuttavia non è questo l’essenziale, nel gioco. Ciò che conta in esso, come dicevamo, è
l’alternarsi d’una presenza (da) e d’un’assenza (fort). In questo semplice alternarsi oppositivo,
il significante entra per la prima volta in funzione come mero significante, dunque del tutto a
prescindere dalla realtà dell’oggetto che lo supporta (a differenza delle prime parole dei
bambini, che sono invece avvolte d’un’aura d’indefinitezza, e sono ancora molto vicine
all’assunzione d’un comportamento motorio). Qualunque oggetto può servire a fare questo
gioco. L’oggetto diventa così per la prima volta un oggetto del tutto indeterminato. A
differenza di quanto accade con le prime parole infantili, che sono ancora dei comportamenti
motori, attraverso il gioco del fort e del da, dell’assenza e della presenza, il significante entra
per la prima volta in questione solo per la differenza che lo costituisce. L’oggetto, con questo,
ha cessato d’essere quel montaggio complesso e affascinante dal quale dipende (e che
comprende) la soddisfazione del soggetto; esso è diventato il semplice supporto d’un’azione
che il soggetto esegue come se fosse un altro, dal momento che, nel gioco, non fa che ripetere
per proprio conto l’azione che, in un primo momento, aveva solo subìto. Nei confronti della
propria azione, il soggetto – e qui per prima volta possiamo togliere le virgolette fra le quali
finora abbiamo sempre implicitamente racchiuso questa parola – è ora già diviso. Egli compie
quest’azione per sconfessare qualcosa di se stesso. Con questo, abbiamo fatto il passo
decisivo per entrare nel campo del linguaggio in quanto sostituto del soggetto e
determinazione dell’assolutamente altro nella sua indifferente autonomia.

193. Di fatti, racconta Freud in una nota, «un giorno la madre era rimasta fuori casa per
parecchie ore, e al ritorno venne accolta col saluto “Bebi [=il bambino] o-o-o!”, che in un
primo momento parve incomprensibile. Ma presto risultò che durante quel lungo periodo di
solitudine il bambino aveva trovato un modo per farsi scomparire lui stesso. Aveva scoperto
la propria immagine in uno specchio che arrivava quasi al suolo, e s’era accoccolato in modo
tale che l’immagine se n’era andata “via”». Con questa variante del gioco, il bambino compie
un salto decisivo: diventa egli stesso il rocchetto, l’oggetto come significante. E naturalmente
è essenziale che il gioco si svolga dinanzi ad uno specchio, quindi in una situazione nella
quale egli può percepirsi come un altro. Lo stadio dello specchio è infatti un momento
essenziale dello sviluppo del soggetto in relazione all’oggetto. È grazie alla «scoperta» della
propria immagine speculare che il bambino può percepirsi come un oggetto fra altri e come un
oggetto per altri. Lo specchio viene quindi ad essere una figura, un’incarnazione dell’altro.
Ma nel passaggio dall’altro come poteva essere percepito, come spazio di senso e di
movimento, nel secondo momento del mito, al modo in cui esso viene colto ora in uno
specchio, cioè in uno spazio solo virtuale, compiamo lo stesso passo che separa l’oggetto di
desiderio dall’oggetto indeterminato del fort. L’altro stesso diventa qui un altro del tutto
indeterminato, nel quale il soggetto può percepirsi come un oggetto qualunque. E soltanto il
fatto che qui si tratta d’un gioco può dar senso alla separazione del fort e del da (se così non
fosse, questo gioco non sarebbe affatto piacevole, e quindi non sarebbe affatto un gioco). Nel
momento dello stadio dello specchio – ch’è decisivo nel passaggio dal secondo al terzo tempo
del mito della genesi dell’oggetto – l’immaginario si sviluppa rendendosi autonomo dalla
sembianza che aveva circondato l’oggetto causa di desiderio nel tempo precedente,
«liberando» l’oggetto stesso dal suo valore di desiderabilità. Qui l’immaginario e il reale si
separano, e da questa separazione si produce il simbolico (il significante), come una terza
dimensione del tutto indipendente dalle prime due. Il bambino, dinanzi allo specchio, acquista
finalmente un corpo, ma questo corpo non è più, come prima, il campo dei suoi movimenti,
che continuava in qualche modo nel corpo dell’altro, ma diventa un corpo solo suo, che però è
solo un corpo immaginario, anzi solo l’immagine d’un corpo.
Il registro dell’ideale – che tanto peso ha nello sviluppo delle perversioni – si specifica ora
come sostituto della sembianza dell’oggetto di desiderio, mentre il soggetto si precisa come
sostituto del contenuto della sembianza, come sostituto dello stesso piacere che egli aveva
attribuito all’altro, quindi come sostituto di quel «niente» che è contenuto dall’oggetto causa
di desiderio. Il soggetto diventa qui un sostituto del niente. Se l’oggetto era, già nel tempo
precedente, un tenente luogo del soggetto, ora è il soggetto che, con un ulteriore
capovolgimento dialettico, si porrà come un sostituto dell’oggetto. Egli verrà a situarsi nel
posto dell’oggetto, si porrà cioè come oggetto per un altro. Quando questo processo sarà
compiuto, saremo entrati finalmente nel quarto tempo della genesi dell’oggetto, nel quale
l’oggetto varrà non più semplicemente come un significante binario, la cui significazione si
riduce alla presenza ed all’assenza, ma come significante del limite della significazione.

194. Nel quarto tempo l’oggetto, ch’era ancora una componente imprescindibile dell’ich
nel primo tempo, ch’è divenuto oggetto causa di desiderio nel secondo, ed oggetto qualunque,
perché mero supporto d’una significazione, nel terzo, diventa quell’oggetto privilegiato che la
psicanalisi indica come fallo. Lacan diceva che l’oggetto causa di desiderio non può
specularizzarsi se non come fallo. L’oggetto causa di desiderio, infatti, non è specularizzabile,
perché non può entrare nel luogo dell’altro, senza perdere con questo tutta la sua sembianza
ed il suo contenuto (cioè senza divenire un oggetto qualunque). Ma nel soggetto, nonostante
l’abbandono da parte dell’altro, rimane pur sempre qualcosa che viene desiderato dall’altro
stesso che l’ha abbandonato. Questo qualcosa, in quanto rappresenta il soggetto per il
desiderio dell’altro, è appunto il fallo, vale a dire quel pezzo del suo corpo immaginario che fa
parte, come significante del soggetto, del campo stesso dell’altro, il quale ora s’è costituito,
per effetto della funzione della denegazione, come il luogo delle significazioni vuote ed
automatiche. Il fallo rappresenta in definitiva quella parte del corpo immaginario del soggetto
ch’è ridotta allo statuto del significante. Il fallo, in altri termini, non rientra più, in quanto tale,
nel campo della soggettività, ma sottopone questo campo all’alterità vuota della
significazione.

195. Di fatti già nella variante speculare del gioco del rocchetto s’era compiuto uno
scambio dei ruoli. Nel gioco del rocchetto il bambino gettava via il proprio oggetto (la
madre), ma s’identifica anche con la madre che abbandona lui stesso; in altri termini il
rocchetto rappresenta l’oggetto: indifferentemente l’oggetto che la madre è per il figlio e
quello che il figlio è per la madre. Invece nel gioco davanti allo specchio questa prima
sovrapposizione dei ruoli viene modificata. Il bambino è ancora l’oggetto che scompare
(come prima il rocchetto), ma il dolore dell’abbandono, che prima veniva sconfessato, viene
ora denegato. Il bambino non ha più bisogno d’un oggetto qualunque che lo rappresenti come
abiectum; egli stesso, anzi l’immagine con la quale s’è identificato, è quest’oggetto. È
quest’oggetto per l’altro, ma solo in quanto ora l’altro (lo specchio) fa parte di lui, perché
anche lui è divenuto un altro. Nel primo gioco si trattava d’una ritorsione dell’abbandono; nel
secondo invece il bambino si soddisfa perché ha assegnato alla propria immagine speculare il
ruolo dell’oggetto, ed egli può godere di quest’oggetto, ma solo perché è diventato l’altro,
cioè ha denegato il proprio corpo di movimento, per darsi un corpo ch’è solo un’immagine.
Certo, se il gioco continua ad essere un gioco, è perché anche ora, sollevandosi ed
abbassandosi, il bambino continua a compiere un movimento ed a produrre un senso. Ma
questo senso si produce proprio nella cancellazione del senso, cioè nella riduzione del
soggetto a significazione. Infatti il soggetto del gioco dinanzi allo specchio non è il corpo che
si leva e si ripiega, ma è solo un punto di vista, il quale, certamente, senza l’atto concreto del
levarsi e del ripiegarsi, non avrebbe alcuna consistenza, anche se proprio questa concreta
corporeità del gioco viene denegata nello stesso gioco che la produce. Infatti, perché il gioco
sia soddisfacente nel suo senso, bisogna che la presenza reale del corpo del bambino venga
denegata: il gioco funziona solo se il soggetto che vede non ha nessuna relazione col corpo
che si piega e che si leva. Ma d’altra parte il gioco non sarebbe tale se fosse solo un vuoto
meccanismo di significazione. Il corpo stesso, con il suo movimento, dev’essere nascosto,
come il burattinaio non dev’essere visibile dietro i burattini. Con questo, il soggetto s’è
consegnato totalmente al linguaggio, dimenticando che, se ha potuto farlo, è solo perché nella
parola c’è qualcosa di più che la significazione.

196. Ora, dove possiamo situare il punto di vista, con il quale il soggetto è identificato
come con l’altro? Non c’è il minimo dubbio: al di là dello specchio. Guardarsi allo specchio,
infatti, non significa stare a vedere quali figure si profilano su una superficie riflettente,
significa invece stabilire una doppia equivalenza: lo spazio virtuale vale come un equivalente
di quello reale (lo rappresenta), ma solo perché, guardando verso lo specchio, noi in realtà
guardiamo dallo specchio verso il mondo. Chi si guarda allo specchio lo fa per vedersi come
soltanto un altro può vederlo. Ma con questo lo spazio reale – lo spazio di movimento – è per
così dire scorporato. Attraverso il prevalere del linguaggio in quanto tale (del linguaggio
come automatismo di significazione), lo spazio di senso e di movimento è divenuto uno
spazio meramente rappresentato, anzi la mera rappresentazione d’uno spazio. Lo spazio
misurabile, quello del nostro affaccendarci quotidiano, lo spazio della significazione, è in
realtà al di là dello specchio. In questo spazio il soggetto non ha altro statuto che quello d’un
significante. Egli è divenuto un soggetto qualunque, del tutto indeterminato. Nella patologia, è
proprio quel che accade nella melanconia, nella quale, grazie al prevalere della denegazione,
lo stesso corpo viene ad essere negato, svuotato e ridotto a mera immagine virtuale ed
illusoria.

197. Ma non c’è bisogno d’essere melanconici per pensare che il fallo è una parte del
corpo del tutto specularizzata. Dobbiamo concepire il fallo come quell’oggetto di desiderio
privilegiato in cui il soggetto ripone non più semplicemente la sua soddisfazione, ma la sua
soddisfazione in quanto adempimento del desiderio d’un altro ch’egli stesso è divenuto (è per
questo che il fallo è il significante del limite delle significazioni). In questo significante ora si
significa l’essere proprio del soggetto. Ma l’unico essere che il soggetto possa riconoscere
proprio nel fallo è quello della mancanza. Riducendosi a mero significante, il soggetto si nega
come soggetto, e diviene identico alla mera mancanza d’un significante (anzi ad un
significante mancante, come dice la formula di Lacan). Il fallo è quindi il significante d’una
mancanza che, al tempo stesso, significa la significazione in quanto tale, dal momento che la
significazione non fa altro che evocare un oggetto mancante proprio in quanto mancante. Il
soggetto del significante è allora il soggetto il cui movimento è denegato in significazione, è
insomma il soggetto sostituito dal linguaggio. Dunque è il linguaggio stesso che ora s’oppone
al soggetto come l’altro, ed è ad esso che il soggetto avrà il compito di restituire, col suo sì e
col suo no, il senso che ha perduto.
IV. Oggetto, rappresentazione, pulsione

198. Il filo della nostra argomentazione ci condurrebbe a questo punto ad affrontare senza
altri indugi il tema del fantasma, perché è in esso che il desiderio soggettivo si determina,
consentendo una prima individuazione, sebbene solo patologica, del soggetto, che prima
invece, nel nostro mito genetico, s’individuava solo nella sua divisione, cioè nella sua
mancanza, e quindi s’individuava solo nell’indeterminazione. Il soggetto è determinato dal
proprio desiderio, perché ciascuno si riconosce prima di tutto in rapporto a quello che
desidera. In definitiva, non c’è altro che il desiderio a determinare l’essenza soggettiva (in
questo Spinoza aveva certamente visto giusto). Certo, dobbiamo distinguere qui una
determinazione patologica (fantasmatica), nella quale il soggetto si determina non come una
mera mancanza, ma sicuramente sempre come mancante dell’oggetto che desidera, da una
determinazione etica, che per ora possiamo mettere in relazione al desiderio «in quanto tale»,
e che possiamo situare lungo l’asse del dir di sé nel nostro «albero del sé e del no». A
determinare il soggetto non è, naturalmente, un desiderio qualunque, ma solo il desiderio
«soggettivo», in quanto quest’ultimo è strutturato prima di tutto dal fantasma, grazie al quale
il soggetto desidererà alcune cose, mentre molte altre lo lasceranno indifferente o gli parranno
inessenziali o del tutto inaccettabili.
Tuttavia, pur avendo distinto il desiderio «in quanto tale» dal desiderio fantasmatico,
dobbiamo aggiungere subito che questa distinzione non è una contrapposizione, dal momento
che entrambi i desideri determinano all’azione, benché lo facciano in modi molto diversi, e
molto diversi soprattutto eticamente. Ognuno può desiderare questo o quello, ma solo alcune
cose lo inducono veramente ad agire. Certo, nel fantasma, il soggetto riceve questa
determinazione solo passivamente. È ciò che la psicanalisi esprime qualificando il fantasma
come inconscio; ma è anche ciò che può consentirci d’iniziare a constatare che differenza
essenziale c’è fra una determinazione etica ed una determinazione fantasmatica, pur essendo
la seconda solo una riduzione della prima. Il soggetto, in quanto determinato dal fantasma,
non sa quello che vuole (da questo punto di vista il desiderio è «cieco», perché esprime solo
una determinazione passiva del soggetto), ma trova inevitabilmente quel che cerca (e invece
da quest’altro punto di vista possiamo constatare come il desiderio sia sempre, anche nella sua
forma patologica, in una relazione immediata con il principio stesso dell’azione). Per quanto
riguarda la psicanalisi, comunque, dobbiamo sottolineare come il concetto d’inconscio lasci
del tutto aperta, perché non impostata, la problematica etica del desiderio. Per la psicanalisi,
finora, il desiderio è stato al tempo stesso il principio della colpa e il principio dell’eticità, e
occorre aggiungere che il concetto d’inconscio sembra fatto apposta per lasciare indeterminata
questa contraddizione, la quale del resto finisce per generare delle vere aporie, come quelle
segnalate da noi nella Formazione attorno al concetto lacaniano di «desiderio dell’analista».
Tuttavia, prima d’affrontare la questione del fantasma, sarà necessario chiarire almeno due
punti preliminari: il rapporto fra il desiderio ed il linguaggio, ed il rapporto fra il desiderio e la
pulsione. È indispensabile farlo, in primo luogo per poter situare il fantasma sul piano
dell’esperienza, dal momento che il desiderio è il desiderio del soggetto parlante, e quindi
inevitabilmente rappresentato dal significante; e in secondo luogo per poter articolare, nella
teoria analitica, il rapporto fra l’assunzione etica e l’assunzione metapsicologica del concetto
di desiderio.

l99. Dal confronto fra la genesi dell’oggetto causa di desiderio, come abbiamo cercato
d’esporla, nelle sue linee essenziali, nei capitoli precedenti, e l’«albero del sé e del no», che
avevamo proposto in precedenza, risulta il curioso quanto apparente paradosso che abbiamo
già segnalato: benché in entrambe le esposizioni il percorso soggettivo sia rigorosamente lo
stesso, abbiamo visto che, per la strada del desiderio, giungiamo, nell’ultimo stadio – quello
della costituzione fallica dell’oggetto – al punto da cui eravamo partiti nel primo stadio
dell’«albero del sé e del no»: il significante appare, in entrambi i momenti, del tutto vuoto
nella sua autonomia. Tuttavia, già quando abbiamo introdotto lo schema «del sé e del no»
abbiamo osservato che la genesi soggettiva è descrivibile solo miticamente, vale a dire
proiettando già sul «primo» momento il nucleo di ciò che dobbiamo produrre come
insegnamento definitivo del mito. Questo non significa, beninteso, che il mito sia del tutto
inutile. Infatti attraverso questa proiezione sul «primo» tempo si apre né più né meno che lo
spazio del senso che ha per noi il fattore essenziale che, con il mito, dovremmo «spiegare».
Un mito, in definitiva, non spiega nulla, ma attualizza il senso di ciò che va spiegato.
Dobbiamo ancora notare che esso, creando un «primo» tempo, cioè un tempo originario, ci
pone in diretta relazione con l’origine. Il «primo tempo» – il tempo dell’origine – non è il
tempo più antico, è invece il tempo che, nel suo sottrarsi, continua ad essere attuale, perché
contiguo ad ogni altro tempo della storia. Il mito, insomma, presentifica l’istante, cioè il non
tempo ch’è il tempo dell’origine. Ciò che accadde «in principio» è, in realtà, ciò che
continuamente accade ancora, ma solo perché il mito mette in relazione questo
«continuamente» con quel principio. È per questo che ogni mito è una formulazione nelle
significazioni della relazione fra il sovraessenziale e l’essenza.
In effetti, il linguaggio sussiste certamente prima del soggetto, ed è già costituito nel
momento della fuorclusione. Ma non è ancora questo il problema essenziale. Il fatto è che la
fuorclusione, come abbiamo cercato di mostrare nel Mito di Crono, produce, in modo molto
più radicale di quanto non faccia la denegazione, uno svuotamento della significazione,
perché la priva d’ogni rapporto con il senso. Qui stiamo parlando, però, d’una fuorclusione
«seconda», la quale, beninteso, non si distingue in nulla dalla «prima», perché è la «prima»
stessa, che però consideriamo ora nel momento in cui interviene non più, geneticamente, «in
principio», ma attualmente e su un soggetto già costituito. La fuorclusione, se dunque è per un
verso il più arcaico e «primitivo» dei modi del dir di no, è per un altro anche una delle
modalità del dir di no che tutti noi utilizziamo continuamente per respingere dalla nostra
coscienza qualcosa che ci disturba o che, semplicemente, non ci è utile. I quattro modi del dir
di no non hanno solo un valore mitico nella genesi della soggettività, ma hanno anche (ed anzi
fondamentalmente) un valore clinico, in quanto costituiscono i fattori determinanti delle scelte
patologiche. Questi quattro modi, se per un verso si succedono, per un altro verso possono
coesistere, in varie combinazioni, costituendo quell’assortimento patologico che la diagnosi
ha il compito di decifrare, per guidare l’analista nel lavoro dell’analisi.
Dobbiamo avere chiaro dinanzi a noi, per non ricadere nella concezione ingenua dello
sviluppo, che questi schemi genetici sono ricostruibili solo a cose fatte, e che il presupposto
d’ogni loro utilizzazione è che si sappia che già il loro punto iniziale contiene implicitamente
tutto ciò che poi lo schema estrae ed articola da quell’inizio. In altri termini, il momento
cronologicamente originario, nel quale il soggetto «incomincerebbe», non è né
rappresentabile né individuabile nello schema: lo schema intero, con le sue quattro fasi, è lo
schema di questo cominciamento del soggetto. Il soggetto, del resto, non è altro che questo
cominciamento. Tutto ciò che non incomincia, perché è già dato, è necessariamente esterno al
soggetto; tutto ciò che il soggetto già possiede gli si contrappone infatti necessariamente come
un alcunché d’estraneo. Ciò che si ha – l’oggetto – è necessariamente estraneo, dal momento
che non si può avere qualcosa se non a condizione di non esserlo. Possedere qualcosa implica
necessariamente l’accettazione d’una perdita.

200. Il vero paradosso dell’oggetto, in base al quale esso si determina come un oggetto
trascendentale, e dunque come un corrispettivo del soggetto, è che non lo si può avere se non
a condizione d’aver accettato di perderlo. Ciò non è vero solo per gli oggetti concreti della
nostra esperienza, ma anche per l’oggetto causa di desiderio. La ragione pratica è la ragione di
questo paradosso. Nel momento stesso in cui abbiamo ciò che desideravamo, cessiamo di
desiderarlo. Soltanto la distanza, o l’impossibilità d’impadronirsene, o di conservarlo dopo
essersene impadroniti, consente ad un oggetto di provocare il desiderio di qualcuno. Di qui la
natura strutturalmente delusoria del desiderio. Del resto l’unico modo d’impadronirsi per
sempre d’un oggetto causa di desiderio, facendolo divenire un iniectum, è la sua distruzione.
In ogni modo, l’oggetto è condannato a svanire. Ogni presa di possesso dell’oggetto si traduce
in una sua distruzione, e riconverte nuovamente l’oggetto in abiectum. Naturalmente, la
soluzione di questo paradosso dell’avere non sta affatto, come qualche volta ritiene
l’imbecillità contemporanea, nell’essere, ed è proprio questo che s’esprime in psicanalisi col
concetto di fallo e con quello di castrazione. Essere quello che non si può avere non garantisce
affatto dalla perdita che definisce l’oggetto come oggetto di desiderio. Del resto essere
l’oggetto è incompatibile con la determinazione soggettiva, non perché questa scelta non
venga effettuata – essa lo è sempre, nelle nevrosi e nelle perversioni –, ma perché appunto si
tratta d’una scelta patologica, perché fondata sulla dimenticanza del fatto che il soggetto che
scelga di determinarsi come oggetto per un altro dimentica che lo fa identificandosi con
l’oggetto proprio in quanto è un soggetto. La psicanalisi ha sempre notato che il proprio
essere si contrappone radicalmente al soggetto come un assolutamente altro e che la propria
determinazione gli si contrappone altrettanto necessariamente come ciò che lo rappresenta e
dunque lo esclude (gli si contrappone insomma come il significante, che lo rappresenta, ma
senza significarlo). Per la psicanalisi «classica», non c’è via d’uscita dal paradosso dell’avere
se non nel paradosso del linguaggio: ogni volta che proviamo a determinare l’essere del
soggetto, ritroviamo soltanto un essere di significazione, che non è affatto un essere
soggettivo. Chiamiamo quest’antinomia, che ritroveremo come antinomia della ragione
pratica, antinomia dell’avere e dell’essere. Dobbiamo tuttavia notare subito che essa è, come
tutte le altre antinomie, solo apparente. Essa è fondata clinicamente, vale a dire sulla
dimenticanza, che la psicanalisi ha finora condiviso con la patologia, del fatto che il soggetto
non è determinabile se non illusoriamente attraverso il fantasma, e che questo però non
significa che sia del tutto indeterminabile in altri modi. Su questo punto, sul quale d’altronde
ritorneremo presto, rinviamo ancora una volta alla Formazione degli analisti.

201. In conseguenza di quanto abbiamo detto prima, l’altro assume due figure opposte
eppure, in qualche misura, intercambiabili. Al primo livello dell’«albero del sé e del no», cioè
rispetto alla funzione fuorclusiva, ciò che si contrappone al soggetto – ciò che il soggetto
fuorclude – gli si contrappone come un reale a un non reale: ciò ch’è fuorcluso è il reale, è
l’assolutamente non simbolizzato. All’ultimo livello accade invece il contrario: ad esser
denegato è esattamente quel ch’è stato simbolizzato; la denegazione esprime anzi quella
negatività ch’è costitutiva della significazione: il significante nullifica quello che rappresenta.
Proprio per questo la significazione s’oppone al soggetto come un assolutamente altro. Di
conseguenza anch’essa varrà per il soggetto, allo stesso titolo di ciò che veniva rigettato nella
fuorclusione, come un reale. È anzi questo il senso più comune che si dà, nel discorso
corrente, al termine «reale», perché solitamente non riconosciamo come reale altro che la
necessità della significazione.

202. Ora, nel rapporto d’esclusione che c’è fra il soggetto e l’altro, che ruolo svolge
l’oggetto? È necessario precisarlo, se vogliamo articolare la genesi del soggetto a quella
dell’oggetto, come dobbiamo fare, perché solo l’implicazione reciproca di questi due processi
può rendere ragione dell’identità trascendentale (e della contraddittorietà di fatto) del
desiderio e del tempo. L’oggetto, abbiamo visto, non è un significante: non lo è in quanto tale,
benché inizi a diventarlo nel terzo momento della sua genesi, e benché lo sia a pieno titolo nel
quarto. Non è un significante, e tuttavia è proprio in quanto rappresentante del soggetto che
tende inevitabilmente a diventarlo, in quanto ha una funzione di cardine essenziale fra il
soggetto e l’altro. L’oggetto è quella parte dell’altro che può essere soggettivata, o quella
parte del soggetto che può essere alienata. Ma questo in modi diversi nelle quattro fasi del
processo di costituzione del soggetto e dell’oggetto.

203. Nella prima fase, quella della fuorclusione, è una parte del soggetto che viene
alienata: dall’originario Real-ich si stacca una parte che, in quanto dispiacere, viene a
costituire il reale come esterno al soggetto. Nella seconda fase non è invece l’oggetto a subire
una rimozione, ma una parte del soggetto, che viene a costituirsi come il suo inconscio
(«rimozione originaria»), mentre l’oggetto viene soggettivato, in quanto il soggetto gli cede
una parte del proprio piacere. Nella fase della sconfessione l’oggetto, già costituitosi come
equivalente del soggetto, viene di nuovo respinto nell’altro (è il movimento del fort), ed
acquista così la funzione di significante di base, di significante binario, il quale ha la sola
funzione di segnalare una presenza o un’assenza; il soggetto viene introdotto così
nell’automatismo dell’indefinito ripetersi delle sostituzioni significanti e nel loro libero gioco.
Infine, nel quarto momento, quello della denegazione, cioè della significazione in quanto tale,
l’oggetto, come significante, è nuovamente risoggettivato, benché nel modo della
rappresentanza. Esso acquista immediatamente, come fallo, valore di significante: al tempo
stesso di rappresentante del soggetto (perché è come fallo, cioè come oggetto del desiderio
dell’altro, che il soggetto si significa come ciò che manca all’altro) e come limite del campo
della significazione (perché il soggetto come mancanza costituisce un buco in questo campo).
Entrambe queste determinazioni dell’oggetto fallico (oggetto del desiderio dell’altro;
significante del limite della significazione) rientrano nel concetto dell’essere soggettivo, cioè
nel suo paradosso. È ciò che l’esperienza della psicanalisi ha segnalato sotto il titolo della
castrazione. La castrazione, nel suo concetto, esprime in definitiva proprio l’impossibilità
soggettiva d’essere e di significarsi al tempo stesso. L’angoscia di castrazione, che tanto peso
ha nella clinica psicanalitica, non dipende tanto dalla fantasmatica che vi si collega, quanto
dal fatto che la castrazione stessa significa che il soggetto, se assunto solo dal punto di vista
della significazione, è un impossibile. La mancanza di cui si tratta nella castrazione, di
conseguenza, non è tanto quella del fallo – infatti il fallo è già il significante d’una mancanza
–, quanto quella d’un senso nel quale il soggetto possa fondarsi senza divenire, per questo, a
propria volta un impossibile (una mera mancanza).

204. Il momento cruciale per la determinazione dell’oggetto in quanto oggetto di desiderio


è tuttavia il secondo, perché è qui che l’oggetto, non valendo ancora come significante, si
determina già come oggetto perduto e perciò come causa di desiderio. Ora, non è possibile
determinare l’oggetto causa di desiderio come significante, benché proprio nell’orizzonte
delimitato dal significante esso venga a prendere posto come non significabile. Il seno non è
la mammella. Questa interviene, biologicamente, ad esempio, come quel tratto che definisce
la classe dei mammiferi, ed è passibile solo d’un’assunzione significante. Il seno come
oggetto causa di desiderio, invece, non è affatto la mammella, ma la condizione di possibilità
d’un’azione (il ciucciare), attraverso la quale si soddisfa un desiderio. L’oggetto ha solo la
consistenza che gli viene dal fatto d’essere il supporto d’un’azione; esso è il piacere che il
soggetto trae dalla propria azione, in quanto si rappresenta questo suo piacere come un
alcunché di separato. L’oggetto è piacere rappresentato: rappresentato come separato, dunque
come sostanza. La sostanza (hypokeímenon, substantia) non è che il soggettivo (subiectum)
rappresentato come sussistente oggettivamente, quindi al di fuori del soggetto. Ma il piacere,
in quanto rappresentato come oggetto, dà all’oggetto di desiderio uno statuto differente da
ogni oggetto come mero Gegenstand. Il Gegenstand sta di fronte al soggetto come un mero
supporto d’un uso. L’oggetto causa di desiderio sta invece di fronte al soggetto come
l’oggettivazione del suo piacere. Il piacere (Lust) è sempre desiderio d’un più piacere (mehr
von Lust, per usare il termine freudiano, o plus de jouir, per usare quello lacaniano). L’oggetto
di desiderio è propriamente la rappresentazione di questo «più». Esso è l’equivalente,
nell’oggetto, della costituzione temporale del soggetto. Come il soggetto è temporalmente
costituito perché, per dirla con Kant, non può essere conosciuto se non come oggetto, così
l’oggetto si pone come oggetto di desiderio perché, in quanto oggetto, è l’equivalente d’un più
piacere soggettivo. L’oggetto è il più piacere che il soggetto ricava dalla propria azione,
rappresentato come separato da lui. Il soggetto è definito temporalmente proprio perché si può
rappresentare solo come oggetto. Il più piacere soggettivo può essere rappresentato per il
soggetto come oggetto solo perché il piacere, in virtù del suo «più» costitutivo, è una funzione
d’accrescimento temporale. L’oggetto è dunque, nella sua sostanza, piacere, ma è il piacere
che non abbiamo ancora conseguito.

205. Oggetto di desiderio è dunque la rappresentazione d’un piacere possibile. Ma poiché


il piacere è la sostanza che il soggetto, in quanto Lust-ich, riconosce propria, l’oggetto vale
come la rappresentazione che il soggetto si fa della propria sostanza come d’un tempo ancora
a venire. Chiamiamo piacere la sensazione dell’arresto del tempo (il piacere «vuole profonda,
profonda eternità»). Certamente, questo arresto è sempre e solo possibile: possiamo pensare il
piacere solo come a venire; un piacere ricordato è sempre e solo il ricordo d’un piacere (per
quanto piacevole, ma per un’altra ragione, possa essere questo ricordo). L’unica obiezione che
si possa fare a questa osservazione è ch’è possibile non limitarsi a ricordare un piacere
trascorso, ma riprovarlo come attuale. Con questa obiezione, senza dubbio giusta, passiamo
però dal registro della significazione a quello del senso. Ma, quanto alla significazione, il
piacere non è che attesa d’un più piacere a venire, e d’un piacere concepito soltanto come
recupero di possibilità temporali perdute. Il futuro, diceva Freud, si modella sempre a
immagine del passato. Il futuro è appunto un passato che ci rappresentiamo come ancora
possibile. In altri termini, il più piacere (il piacere che non abbiamo ancora conseguito) è
identico al tempo, in quanto tempo «perduto», e tuttavia pensato come tempo «ritrovato».
L’oggetto di desiderio, cioè l’oggetto perduto, non è altro che tempo, e il desiderio d’un
«oggetto perduto» non è, per dirla con il titolo di Proust, che la «ricerca» di questo «tempo
perduto». Tuttavia pensare come ritrovato questo tempo nel piacere a venire non significa
ancora ritrovarlo. In realtà, l’esperienza proustiana della «memoria involontaria» non riguarda
il piano della significazione, e quindi il tempo cronologico ed unidirezionale, ma l’esperienza
del senso, e quindi il tempo realmente soggettivo, perché produce, attorno al non tempo
dell’istante, e nella durata del presente, l’«eterno» ritorno del piacere passato: «eterno» non
perché duri per sempre, ma solo perché l’istante è già eterno, in quanto è un tempo
atemporale; e «ritorno» non perché ritorni nulla di quel tempo passato, ma solo perché il
passato non è affatto passato, ma è puro presente, e quindi, al tempo stesso, puro, «eterno»
avvenire.

206. Non a caso avevamo tratto proprio da Proust una rappresentazione particolarmente
efficace dell’oggetto causa di desiderio. La luce del tramonto che accende e trasfigura i
campanili di Martinville all’orizzonte ne opera una vera e propria transustanziazione, che è
una sustanziazione. Nell’accensione del tramonto, i due campanili cessano d’essere quello che
erano – meri Gegenstände – per divenire l’involucro prezioso d’un oggetto causa di desiderio,
nel quale il soggetto (il Narratore) si rappresenta, si mette innanzi il tempo che ha «perduto»,
ma lo fa da un punto di tempo che è già al di fuori del tempo, benché l’oggetto causa di
desiderio possa lasciare intravvedere questo «fuori dal tempo» solo in un tempo futuro. La
visione di questa trasfigurazione dell’oggetto rappresenta al soggetto la sua stessa sostanza:
l’essenza del soggetto gli si offre, nella nostalgia, come sostanza d’un oggetto. Ma la sostanza
d’un oggetto non è che una condizione (uno stato) del soggetto. Per converso il fatto che il
desiderio inviti il soggetto ad «andare a prendere», nell’oggetto, la propria sostanza, fa
dell’oggetto un nome della caducità del soggetto. Nella sembianza dello scintillio è riposto
qualcosa. Questa non è un’esperienza, ma una certezza, che il soggetto trae dal fatto di
ritrovare nella sembianza di quell’accensione lontana (all’orizzonte) il più vicino. Ciò che
quello scintillio sembra promettere non è altro che la radice del soggetto, la sua prossimità a
se stesso. La distanza fra il soggetto e l’oggetto è la distanza fra il soggetto e se stesso.
«Raggiungendo» quello scintillio all’orizzonte il soggetto raggiungerebbe se stesso.
L’orizzonte materializza infatti, all’esterno del soggetto, il limite della sua visione, cioè la sua
divisione. Tuttavia l’oggetto patologico non può che disdire la sua stessa promessa, perché la
realizzazione effettiva del desiderio non sta affatto «al futuro», ma sta «fuori dal tempo», nel
tempo i ritrovato dell’assoluto soggettivo che si produce nell’opera: non nell’opera scritta,
beninteso, ma nell’opera morale d’essere dove il desiderio, cioè il contrario del tempo,
c’invita ad essere; opera della quale lo scritto non è che la perpetuazione temporale e, per così
dire, la riproduzione (l’«eterno» riprodursi).

207. Riprendiamo l’esempio dell’accensione d’un riflesso solare che abbiamo tratto da
Proust, modificandolo quanto basta per mettere in rilievo l’aspetto decisivo, nell’azione del
soggetto, dell’attrazione che l’oggetto opera su di lui. Supponiamo dunque che, mentre ci
stiamo bagnando in mare, al tramonto, il sole accenda sulle onde quei barbagli fugaci che,
osservati da terra, appaiono sempre e solo vicino all’orizzonte, mentre, se noi saremo in
acqua, ci appariranno singolarmente vicini, tanto da farci credere che basti allungare la mano
per poterli afferrare. Naturalmente, non essendo il riflesso altro che il prodotto
d’un’interazione fra la luce solare e la nostra presenza, avanzare nella direzione del riflesso
non servirà a renderlo più vicino, e la distanza fra noi e questo scintillio resterà costante,
nonostante il nostro procedere nella direzione del riflesso. La nostra impossibilità
d’avvicinarci ad esso è un’immagine che può raffigurare bene il rapporto fra il soggetto e
l’oggetto causa di desiderio, in quanto questo rapporto è l’esternarsi del rapporto che il
soggetto ha con se stesso. Se il riflesso è per definizione irraggiungibile, è perché esso non ha
solo un’esistenza oggettiva, ma anche soggettiva. Ciò non significa però che sia solo
un’illusione. Il riflesso è un fatto fisico oggettivo, ma il cui prodursi dipende dall’esistenza
d’un punto di percezione, e quindi d’un soggetto. Due soggetti messi in posizioni differenti
nell’acqua vedrebbero lo stesso riflesso dirigersi verso se stessi, ma nessuno di loro potrebbe
vedere né ciò che vede l’altro, né il riflesso «in sé». L’oggetto è dunque, nella sua sembianza,
il segno d’un limite costitutivo della soggettività, cioè dell’impossibilità, per ogni soggetto,
d’essere altro da quel che è. Ora, proprio su questo limite si produce quel moto che
chiamiamo desiderio. Se infatti solo per un attimo abbiamo l’illusione d’avvicinarci a toccare
il riflesso (d’avvicinarci a toccare noi stessi), quest’illusione non solo non spegnerà il
desiderio, ma anzi lo renderà più vivace, quanto più vicini crederemo d’essere alla
realizzazione della nostra illusione. Ciò significa però che anche nel desiderio più illusorio è
contenuto un fondo di verità, che tuttavia non dipende dal desiderio patologico, ma da un altro
desiderio, che lo rende possibile e lo fonda.

208. Se ora tentassimo di raffigurare in un grafico questo approssimarsi del soggetto,


attraverso l’oggetto, a «se stesso», e di farlo servendoci di coordinate di tempo e di spazio
assoluti, non potrebbe risultarne altro che un avvicinamento asintotico e un’approssimazione
infinita. L’integrale di questa funzione rappresenterebbe il godimento prodotto dall’illusione
di questo approssimarsi. Naturalmente, il fatto che il godimento, a differenza del desiderio
patologico, non sia solo illusorio, dimostra, come del resto la funzione asintotica ci consente
di confermare, che anche l’illusione del desiderio, come abbiamo detto poco fa, contiene della
verità. Ma un godimento prodotto da un desiderio in gran parte illusorio non può contenere
una risposta definitiva a quale sia il reale del soggetto, come spesso ha creduto la psicanalisi.
Per quanto reale possa essere, il godimento è pur sempre in ultima istanza illusorio, come
testimonia il suo statuto temporale di finitezza. Possiamo anzi dire che la relazione fra
desiderio e godimento è inversamente proporzionale alla relazione fra illusione e verità: il
desiderio, pur essendo illusorio, ha un fondo di verità soggettiva; il godimento, pur essendo
reale, ha un limite che ne dimostra il fondamento illusorio. Un godimento che non fosse
affatto illusorio, in realtà, sarebbe un godimento mortale (lo ha perfettamente intuito la
sensibilità romantica).
Come quindi abbiamo distinto un desiderio patologico da un secondo desiderio, che lo
rende possibile, così possiamo distinguere un godimento patologico da un secondo
godimento, che fondi anche la possibilità del primo. Il godimento patologico implica, a
differenza del piacere, un riferimento ad un tempo assoluto, cioè ad un tempo divenuto un
elemento linguistico. Il godimento patologico proprio per questo tende a divenire godimento
fallico, cioè un godimento al limite dell’approssimarsi del soggetto al suo stesso svanire. In un
mito esposto nelle Metamorfosi d’Ovidio, il godimento maggiore è supposto essere quello
femminile, quello non fallico. Schematizzando, potremmo dire allora che il godimento «al di
là del fallo», cioè quello femminile (che del resto non è una prerogativa delle sole donne), è
un godimento più «vero» di quello fallico?
Il fallo è l’oggetto di desiderio passato al limite del suo approssimarsi al soggetto,
«specularizzato», cioè passato in significante. Ma appunto, esso è un significante privilegiato,
perché è il solo significante che si costituisca come integrale dell’infinita possibilità di
sostituzione dei significanti e quindi della indefinitezza della significazione. Il fallo è il
significante che rappresenta il soggetto per la totalità dei significanti. Ma la totalità dei
significanti non è numerabile, perché la loro serie è indefinita. Perciò il fallo è il significante
unico che rappresenta questa indefinitezza, la quale d’altra parte non è un’infinitezza (il fatto
che la totalità dei significanti non sia numerabile non significa che essa sia infinita, dal
momento che il significante ha effetti di significazione solo perché produce delle quantità
finite di significazione). Per questo il fallo è un significante irrappresentabile (ogni sua
immagine non è la sua scrittura, ma una sua riduzione). Il fallo è (con il Nome del Padre) il
solo rappresentante della rappresentazione che non possa mai essere rappresentato. Esso è
dunque nel campo dei significanti (nell’assolutamente altro) ciò che il soggetto è nel reale:
mera funzione di taglio, mero limite. Ma il godimento al di là del fallo può essere il
godimento non illusorio (il godimento «vero») solo miticamente, perché nel reale ogni
godimento «non fallico» è rapportato al godimento fallico, sia pure nel suo superamento (il
fantasma erotico femminile dello sradicamento del pene dal corpo maschile dimostra che il
godimento femminile contiene la consapevolezza di questa verità, ma non questa stessa verità,
perché se così fosse non ci sarebbe alcuna sessualità femminile). Il godimento «vero», come
abbiamo cercato di mostrare nella Formazione e nel Mito di Crono, non è il godimento «al di
là del fallo», il quale è se mai una traduzione nelle significazioni di questa verità, ma il
godimento prodotto dall’esperienza del senso (e non dall’esperienza della significazione). Da
questo punto di vista il godimento fallico e quello «al di là del fallo» sono ugualmente lontani
da tale verità, o ugualmente vicini ad essa.

209. Ora, che relazione c’è fra oggetto e rappresentazione? E che relazione possiamo
stabilire fra il desiderio (e l’oggetto causa di desiderio) e il senso? Queste due domande ci si
pongono fin dal momento in cui ci siamo proposti l’articolazione reciproca della genesi
dell’oggetto rispetto al soggetto e della genesi del soggetto rispetto al significante. Torniamo
dunque al nostro esempio-guida del riflesso come specimen dell’oggetto di desiderio nella sua
costituzione temporale e spaziale. Nel momento in cui ci occupiamo dell’oggetto causa di
desiderio, la forma dello spazio, che in un primo momento ci appariva irrilevante nella
determinazione del soggetto, appare invece essenziale. La distanza fra il soggetto ed il riflesso
è irriducibile, sia perché è costitutiva dell’oggetto, sia perché proprio tale distanza fra il
soggetto e l’oggetto, la quale esprime spazialmente la distanza fra il soggetto e se stesso, apre
lo spazio della divisione soggettiva. Ma non c’è nessuno spazio oggettivo nel quale il soggetto
possa essere diviso. La divisione soggettiva è in realtà una divisione temporale. La distanza
spaziale materiale fra il soggetto e l’oggetto del suo desiderio è dunque l’effetto del
manifestarsi della distanza temporale fra il soggetto e se stesso. Lo spazio è, per così dire, il
presentificarsi del tempo. Naturalmente, non stiamo parlando, qui, dello spazio
tridimensionale rappresentabile con assi cartesiani, ma dello spazio dell’esperienza soggettiva
del desiderio. Se l’impossibilità del soggetto a conoscersi se non come oggetto è il tempo,
l’impossibilità del soggetto a desiderare, se non rispetto a questa impossibilità, è lo spazio.
Resta evidente tuttavia che, se noi vogliamo dare una rappresentazione fedele di questo spazio
di desiderio, non possiamo farlo con uno spazio neutro ed assoluto. L’arte è l’unica
manifestazione dello spazio che possa rappresentare il desiderio realizzandolo. I diversi modi
nei quali l’arte ha tentato di riprodurre uno spazio che non è quello della geometria, ma è
quello dell’esperienza, e quindi del desiderio, non fanno che dimostrare che la verità di questa
rappresentazione-realizzazione non sta nelle mere significazioni spaziali, ma nel concreto
attuarsi di queste significazioni nella dimensione del senso, cioè del concreto fare arte. Da
questo punto di vista potremmo anzi considerare l’unità dello spazio-tempo, e la sua relatività
rispetto alla velocità, nella fisica del nostro secolo, come un approssimarsi – sia pure nelle
sole significazioni – della fisica stessa alla verità della costituzione soggettiva sia dello spazio,
sia del tempo. Del resto non è un caso che l’esempio che abbiamo scelto come guida, quello
ottico del riflesso, abbia messo la luce al centro della nostra riflessione.

210. Ora, questo riflesso fugace, mobile secondo il nostro stesso movimento di desideranti,
è oggetto o rappresentazione? Dicendo che l’oggetto di desiderio s’avvolge necessariamente
in un involucro che abbiamo chiamato di sembianza, abbiamo detto ch’è rappresentazione.
Ma quando abbiamo aggiunto che questo involucro importa solo per quello ch’è supposto
contenere, abbiamo risposto ch’è oggetto. In realtà, è sufficiente un riflesso perché la
distinzione classica fra oggetto e rappresentazione sia messa in questione. Un riflesso è
rappresentazione: per due soggetti diversi esso si produce in due luoghi diversi; in uno stesso
specchio o nello stesso istante, due soggetti diversi vedranno immagini diverse. Ma ciò non
significa che questa rappresentazione sia qualcosa di meramente «soggettivo», poiché la
soggettività stessa, qui, è produzione d’oggettività. La luce «in sé» non è altro, come
«oggetto», che «rappresentazione». Se la determiniamo quantitativamente, essa si darà come
una certa emanazione di particelle (fotoni), che di per sé non ha niente di luminoso. La luce
«in sé» ha solo la consistenza che le viene dall’essere misurata o percepita. L’in sé del
soggetto non è altro che la Cosa, ma la Cosa, in sé, è appunto ciò che sfugge alla misurazione,
è insomma l’impossibile a sapersi. Proprio per questo la luce è stata una figura del reale già
molto prima che la fisica ne determinasse la natura paradossale, con la teoria dei quanti.

211. È evidente a questo punto che non potremo determinare l’oggetto di desiderio né
come oggetto né come rappresentazione. Esso si dà in entrambe queste determinazioni al
tempo stesso, e benché, come causa di desiderio, cioè in quanto oggetto, non sia oggettivabile
(non sia specularizzabile), come rappresentazione non è rappresentabile (non è scrivibile). Ciò
comporta che, rispetto ad esso, in quanto oggetto e in quanto rappresentazione, il significante
è del tutto inessenziale (benché sia del tutto essenziale per desiderare). Il fatto che la
rappresentazione dell’oggetto causa di desiderio sia irrappresentabile implica che,
ripresentandosi nella propria rappresentazione, esso si comporti sé come un oggetto, ma non
come causa di desiderio (ad esempio, un desiderio ricordato è solo il ricordo d’un desiderio, e
non è più affatto un desiderio). Il fatto invece che la sua oggettività non sia oggettivabile
comporta che non possiamo farci un concetto dell’oggetto causa di desiderio. Significandolo,
lo significhiamo come oggetto, ma non come oggetto di desiderio. Il concetto dell’oggetto di
desiderio non si distingue in nulla dal concetto dell’oggetto come Gegenstand. L’oggettività
degli oggetti è quel che rimane della loro oggettualità d’oggetti causa di desiderio quando il
desiderio è caduto, cioè quando ci siamo fatti un concetto dell’oggetto. La rappresentazione e
il concetto dell’oggetto in quanto causa di desiderio non sono rispettivamente né una
rappresentazione né un concetto. La prima è il desiderio stesso in quanto desiderio ripetibile,
il secondo è il fantasma, in quanto supporto del desiderio e luogo d’emergenza dell’oggetto.
In altri termini, non possiamo far sorgere l’oggetto causa di desiderio come un significato del
nostro enunciato, ma nello stesso tempo non possiamo che farlo sorgere al limite della
significazione della nostra enunciazione. È per questo motivo che non possiamo significare
l’oggetto causa di desiderio in quanto tale: nominandolo, facendone una significazione, lo
riduciamo ad uno statuto d’oggettività, privandolo del suo valore di causa.
Con questo, però, non abbiamo affatto risposto alla domanda che ci eravamo fatti in
precedenza sulla relazione da stabilire fra il desiderio e il senso. In realtà, per articolare con
precisione questo punto, dovremmo affrontare il problema dell’eticità. Abbiamo visto già
molte volte che non possiamo neppure definire i limiti d’una gnoseologia psicanalitica se non
partiamo, invece che arrivare, dalle condizioni dell’eticità. Se ora torniamo a porci il
problema della relazione fra il desiderio e il senso, oltre a rimandare a quella parte della
Formazione ch’è dedicata, sotto il titolo dell’agone, proprio a questo argomento, non
possiamo che rispondere, in termini riassuntivi, che il desiderio di noi che parliamo si
distingue dal mero istinto sessuale solo per il fatto che la parola stessa, delimitando confini e
condizioni di soggettività i quali non sono affatto prevalentemente istintuali, trasforma la
stessa sessualità (e quindi lo stesso desiderio) in un’entità di natura spirituale. Non troviamo
un termine più adatto per determinare ciò che intendiamo dire, nonostante i mille malintesi
ch’esso potrebbe far sorgere, e nonostante il fatto che la significazione di questa parola punta
esattamente nella direzione contraria a quella che ha sempre percorso la psicanalisi. Chi ha
letto gli altri due volumi della nostra trilogia sa bene che questa contraddizione è per noi
inevitabile, e sa altrettanto bene perché lo è. Se infatti non partissimo dal senso per porci il
problema della significazione, e dallo pneyma (dallo spiritus, cioè dal soffio) per porci quello
del piacere e del godimento, condanneremmo la psicanalisi a non essere altro che un sapere
regionale non fondato, e non distinguibile dal sapere zoppicante d’ogni psicoterapia. Sulla
distinzione fra parola e significante, tuttavia, torneremo più avanti, perché essa è essenziale
per comprendere come noi intendiamo il problema del fondamento e della fondazione d’una
scienza nuova.

212. Una notevole parte delle opere di Freud è costituita da scritti che non hanno valore
pratico immediato, e possono apparire mera speculazione. Che posto ha questa rispetto alla
pratica della psicanalisi? Senza dubbio essa ha una funzione di spaesamento. La speculazione
freudiana, quando, in testi come Al di là del principio di piacere e L’uomo Mosè, sembra
allontanarsi dalle esigenze (ma mai dalle risultanze) della pratica analitica, ha il compito di
mostrare come l’uso terapeutico sia solo un’applicazione della psicanalisi, mentre
quest’ultima, comunque la si voglia definire, ha non solo il diritto, ma anche il dovere
d’avventurarsi nelle regioni meno familiari. Che cosa ha spinto Freud a scrivere un testo come
Al di là del principio di piacere? Che cosa lo ha indotto a dare tanto rilievo a nozioni come
quella di pulsione? La pulsione è una mera ipotesi, così come, del resto, l’inconscio. Nessuno
l’ha mai potuta osservare o misurare. Come l’inconscio è l’ipotesi che serve a rendere
spiegabili quei fatti d’esperienza che sono le sue formazioni (i sintomi prima di tutto), così la
pulsione è l’ipotesi che serve a rendere spiegabili quelle che potremmo chiamare le
formazioni del desiderio. Ma che cos’è la pulsione, e qual è la funzione che questo concetto
deve svolgere nella logica della metapsicologia freudiana? La definizione più pregnante
datane da Freud è la seguente: «La “pulsione” ci appare come un concetto limite tra lo
psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine
all’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura della richiesta di lavoro che
viene rivolta allo psichico a causa della sua connessione con il corporeo». Questo passo
fondamentale merita d’essere commentato. Ne emergono due determinazioni della pulsione.
In primo luogo, essa è un concetto limite fra «psichico» e «somatico»; occuparsene significa
dunque inevitabilmente porsi uno dei problemi fondamentali della filosofia, quello della
connessione fra res extensa e res cogitans; la pulsione è un rappresentante psichico
(psychischer Repräsentant) del corpo. In secondo luogo essa è la misura (Mass) d’una
quantità di lavoro (Arbeit), essa è dunque dell’ordine dell’energia. Queste due determinazioni
della pulsione sono, come si vede, di registro diverso: essa per un verso appare come un
concetto energetico (come «forza costante»), per un altro agisce «nello psichico». Queste due
caratteristiche corrispondono, nella pulsione, alla duplicità dei livelli che essa ha il compito di
mettere in relazione.

213. Come si vede, la pulsione ha, nel testo di Freud, la stessa funzione di collegamento fra
res extensa e res cogitans che Cartesio aveva dovuto affidare all’improbabile compito della
ghiandola pineale. Ora, qual è lo statuto del corpo nel pensiero di Freud? Per rispondere a
questa domanda conviene ancora riferirsi al mito del Lust-ich. Abbiamo visto come, per
Freud, nel Real-ich originario venissero a costituirsi un interno ed un esterno una prima volta
in base alla separazione fra il piacere e il dispiacere, una seconda volta in base alla possibilità
di sfuggire al dispiacere o all’impossibilità di farlo. Solo in questo secondo momento (che
coincide con quello della rimozione) si possono isolare, fra gli stimoli che l’organismo riceve,
quelli che hanno carattere pulsionale, cioè quelli dai quali non è possibile la fuga. Gli stimoli
pulsionali, essendo espressione d’una forza costante e non d’una forza d’urto momentanea
(come quelli provenienti dall’esterno), hanno, per l’organismo, carattere imperativo, e proprio
per questo esigono d’essere soddisfatti. La pulsione è dunque espressione del reale del corpo:
essa manifesta presso lo psichico (cioè presso il non reale, il soggettivo) l’esistenza del
corporeo; è ciò grazie a cui lo psichico (il non reale) è dotato tuttavia d’un suo reale.
L’impossibilità della fuga è il manifestarsi del reale del corpo, cioè del suo carattere
materiale. La pulsione manifesta al soggetto (al non reale) il suo carattere di Cosa. Si spiega
così come, per Freud, il nucleo dell’inconscio (il rimosso «originario») sia costituito
essenzialmente da rappresentanti pulsionali (l’inconscio, infatti, non è che l’esser Cosa del
soggetto).

214. Dobbiamo ammettere tuttavia che le precedenti considerazioni non ci fanno avanzare
d’un passo circa la questione della pulsione, cioè circa il problema del rapporto fra psichico e
somatico, fra soggettivo e «cosale». Del resto da un punto di vista trascendentale
l’impostazione data da Freud al problema della pulsione risulterebbe totalmente inaccettabile,
dal momento che il corpo viene considerato qui come una mera materialità non soggettivata,
la quale si soggettiverebbe però, con la pulsione, solo attraverso la mediazione d’un punto di
soggettività meramente supposto (l’«inconscio»). Conviene perciò affrontare il problema per
un altro versante. È possibile che la chiave per intendere la natura, singolarmente ambigua,
della nozione di pulsione, stia nel suo collegamento essenziale con la rimozione. Torniamo
dunque al nostro Lust-ich, ch’è determinato dall’esigenza d’evitare il dispiacere, espellendolo
da sé. Quando quest’espulsione non è possibile, l’io-piacere, abbiamo visto, ricorre alla
rimozione. Ma poiché la rimozione è rivolta sempre e soltanto agli stimoli interni (per quelli
esterni è sufficiente la fuga), si pone il problema di capire come lo stimolo pulsionale, il cui
soddisfacimento è sempre e per definizione piacevole, possa talvolta risultare spiacevole.
Freud risponde che ciò accade quando il soddisfacimento d’una pulsione provoca
l’insoddisfazione d’un’altra pulsione. È dunque escluso dal reale dell’organismo che tutte le
pulsioni possano essere soddisfatte al tempo stesso. C’è, fra le pulsioni – ed è probabile che
anche per questo Freud abbia sentito il bisogno d’introdurre la nozione di pulsione di morte –,
una necessaria discordanza, che rende inevitabile l’esito della rimozione.
Ma che cos’è che viene rimosso, quando una pulsione subisce questo destino? Non certo la
pulsione in quanto tale, ma la (Vorstellungs-)Repräsentanz des Triebes, il «rappresentante
(della rappresentazione) della pulsione». Ora, abbiamo già avuto modo di soffermarci
lungamente su ciò che dobbiamo intendere per «rappresentante della rappresentazione»: esso
è il significante, in quanto dotato d’un significato. Per giungere ad intendere che cos’è la
pulsione, dobbiamo considerarla non come un dato naturale, ma nella sua connessione col
significante. Ciò che viene rimosso è il rappresentante della rappresentazione della pulsione.
Che Freud introduca fra parentesi il termine Vorstellung in questo contesto deve farci
riflettere: la pulsione ci appare qui come ciò che è rappresentato dalla Vorstellung della quale
il significante è Repräsentanz.
Ora, avevamo visto che ciò che viene rappresentato – per esempio nella Vorstellungsmimik
–, è l’oggetto in quanto tale. Beninteso, perché si produca questo processo, grazie al quale il
significante acquista significato, bisogna che ci sia già significante. Ma questo non elimina ciò
che abbiamo a suo tempo stabilito come un principio: che appropriarsi d’un concetto, cioè del
significato d’un significante, comporta di divenire la cosa attraverso la sua rappresentazione.
Che cosa sarà allora il «rappresentante (della rappresentazione) della pulsione»? Esso è quel
significante che rappresenta la rappresentazione che il soggetto si fa della pulsione. La
pulsione cade dunque nel posto della Cosa che il soggetto è chiamato a rappresentare per
farne un oggetto per lui. Ma che cos’è questa Cosa? E come possiamo definire «Cosa» la
pulsione?

215. Teniamo ben fermo che la pulsione interviene nel posto dell’oggetto, che ha statuto
d’oggetto, benché quest’affermazione appaia paradossale, e contrasti fortemente con ciò che
Freud dice dell’oggetto della pulsione, che, rispetto alla pulsione stessa, è l’elemento più
variabile. Di fatti l’oggetto della pulsione (che è l’oggetto del desiderio) e la pulsione come
oggetto non sono necessariamente lo stesso. Ma in che modo possiamo concepire la pulsione
come un oggetto? Che cosa è meno oggettivo od oggettuale della pulsione? Se questa
affermazione ci pare così paradossale, è perché siamo abituati a pensare l’oggetto come ob-
iectum, come ciò che ci sta di fronte, e difficilmente ci accorgiamo che il nostro stesso corpo
è, per noi, un oggetto. Di fatti, non ci sono oggetti se non di percezione. Ora, se rinunciamo
per un attimo al primato che siamo abituati a dare alla vista come percezione in base alla
quale costituire oggetti, ed al pregiudizio secondo il quale i «sensi» sarebbero quei cinque che
corrispondono ai buchi principali che s’aprono nel corpo e nell’involucro che lo definisce,
possiamo accorgerci che non è a questo livello della percezione – cioè della sensibilità – che
ci si manifesta l’esigenza pulsionale. Questa, quale che sia il bisogno pulsionale in questione,
ci si presenta invece come una percezione interna, a livello di ciò che un tempo si sarebbe
chiamato il «senso interno». Non percepiamo solo oggetti esterni, percepiamo anche il nostro
corpo come oggetto: non solo lo percepiamo specularmente, ma lo percepiamo anche
immediatamente e direttamente; possiamo toccarlo e vederlo, e possiamo anche sentire alcuni
stimoli – piacevoli o dolorosi – da quella parte di esso che non possiamo vedere, cioè dal suo
interno. Esiste quindi, per il soggetto, un oggetto che è il corpo, e che non è necessariamente
un oggetto esterno, un Gegenstand, perché ad esso mancano quelle caratteristiche che ci fanno
concepire un oggetto come uno. Un mal di pancia non ci fa percepire il nostro intestino come
un oggetto nettamente distinto dal nostro fegato o dai nostri polmoni; il desiderio sessuale non
ci fa pensare una parte determinata del nostro corpo come sede o fonte esclusiva di questo
stimolo. A differenza dagli oggetti esterni, l’oggetto che il corpo è per ciascun soggetto è non
uno, o per lo meno è non uno solo in apparenza. In realtà, quando lo stimolo diventa
insopportabile (cioè quando non possiamo dimenticare d’averlo), non siamo altro che questo
stimolo. Il dolore ci annulla come soggetti, e ci riduce a non essere altro che questo dolore,
come il desiderio sessuale, quando è all’apice della sua intensità, ci riduce a non essere altro
che questo desiderio. Anche quest’oggetto in definitiva è dunque uno, nella misura in cui
coincide col soggetto (in definitiva, stiamo parlando di ciò che la fenomenologia chiama Leib,
«corpo proprio», come solitamente si traduce). Ciò significa allora che dobbiamo pensare il
corpo non in base alla nostra esperienza speculare (che include tutto ciò che ne sappiamo
grazie alle nostre conoscenze linguistiche), ma come l’oggetto che il soggetto è per se stesso,
nel suo venire a conoscere e nel suo venirsi a conoscere. Se il soggetto si conosce come
qualunque oggetto esterno è perché conoscere qualunque oggetto implica che egli si conosca
nel conoscerlo. La conoscenza «esterna» e quella «interna» sono la stessa conoscenza, anche
se questa conoscenza si compie solo grazie ad una differenza che la costituisce.
Ora, lo stimolo pulsionale (quello cui non si può sfuggire) non è altro che il manifestarsi
del soggetto a se stesso. Non sussiste dunque un reale problema dell’articolazione dello
psichico con il somatico, dell’«anima» con il «corpo». Lo psichico e il somatico, il soggettivo
e il corporeo sono la stessa cosa (bisognerebbe tenerne conto per ogni tentativo
d’interpretazione delle cosiddette malattie psicosomatiche). Il corporeo non è altro che il
manifestarsi del soggetto, come oggetto, a se stesso, non è altro che il «per sé» del soggetto,
nei due modi in cui ciò può accadere: come dispiacere o come piacere, come dolore o come
godimento. Del resto è immediatamente evidente che questi modi non sono due per caso: il
secondo è quello del desiderio (della ragione pratica), mentre il primo è quello del sapere
(della ragione pura). Infatti, nella sua essenza, il sapere è sempre dolore.
V. L’antinomia della ragione pratica

216. Molto tempo è passato, nella storia della psicanalisi, prima che ci si accorgesse che
l’attività fantasmatica, che sin dal primo momento Freud aveva messo in rilievo come fattore
determinante nella psicogenesi della nevrosi, non era solo l’effetto d’un’immaginazione
libera, perché posta al servizio del principio di piacere, ma anche un momento cruciale nello
strutturarsi del soggetto, in quanto il fantasma è il regolatore dei rapporti che il soggetto
determinato, cioè rappresentato dal significante, ha con l’oggetto del suo desiderio. Se infatti
l’importanza del fantasma non è mai sfuggita agli psicanalisti, essendo un elemento d’assoluta
evidenza nella clinica, molto meno facile era per loro determinare le cause di questa
importanza, perché esse dipendono essenzialmente dalla natura autocontraddittoria dello
statuto del soggetto, che, in quanto soggetto, può cogliersi tuttavia, nella rappresentazione,
solo come oggetto. Abbiamo visto che, da questo semplice principio kantiano, è possibile
dedurre a priori, quindi senza far ricorso all’esperienza se non come illustrazione di questa
deduzione, i momenti essenziali della teoria freudiana. Dovremo ora dedurne il fantasma
come fattore d’individuazione, grazie al quale il soggetto indeterminato, il soggetto qualunque
dell’esperienza trascendentale, può iniziare a determinarsi come soggetto singolare,
patologico.

217. Abbiamo già detto nei capitoli precedenti che, nella teoria freudiana e lacaniana,
l’oggetto causa di desiderio si configura come correlato soggettivo nel non soggettivo
(nell’assolutamente altro). Questo, però, non ci rende ancora ragione del fantasma e della sua
funzione, almeno finché non ricordiamo che la natura del non soggettivo (dell’altro) è
essenzialmente linguistica, perché il non soggettivo (il reale) che sta alla base del soggetto
(del non reale) è in primo luogo il campo dei significanti. Da questo paradosso per cui il
linguaggio si dà, per il soggetto patologico, cioè determinato dai meccanismi del transfert e
della rimozione, come il suo stesso reale (il che non significa che il lunguaggio sia il reale del
soggetto, dal momento che lo è solo del soggetto patologico), dipende essenzialmente il
carattere immaginario del fantasma. Infatti, che cos’è l’immaginario? È l’elemento terzo che
annoda assieme il reale ed il linguaggio. L’immaginario consiste insomma nel tentativo
necessario, da parte del soggetto, di considerare il linguaggio come reale e il reale come
linguaggio. Intendere l’immaginario come il semplice predominio dell’immagine è possibile
solo a partire dalla nozione ingenua dell’immagine come mera parvenza. Ma l’immagine non
sarebbe concepibile neppure nella sua parvenza (cioè come immagine di qualcosa) se non si
costituisse come traccia d’un’attività soggettiva. Lungi dal poter ridurre l’immaginario alla
semplice, «libera» produzione delle immagini, dobbiamo ricondurre le immagini all’attività
soggettiva, cioè alla capacità soggettiva d’entrare in relazione con oggetti. La capacità di farsi
immagini è il fattore decisivo della possibilità soggettiva d’aver accesso alla significazione,
come attesta la funzione imprescindibile dello schema trascendentale. Il fantasma è un frutto
fondamentale della capacità soggettiva d’immaginazione, cioè dell’assunzione soggettiva del
linguaggio.

218. Ma definendo il fantasma come l’apparato regolatore del rapporto fra il soggetto e
l’oggetto non siamo ancora riusciti ad esprimerne la caratteristica essenziale, che è la sua
capacità d’individuazione soggettiva. Per rendere ragione di questa funzione, dobbiamo
partire dalla constatazione del fatto che il linguaggio s’oppone, in quanto tale, cioè nel suo
astratto automatismo, al soggetto, cioè che gli si oppone come un altro e come un non
soggettivo (come un reale). Finché restiamo sul piano della significazione, il soggetto (il non
reale) non può che definirsi come una mancanza in questo altro. Per riprendere un’espressione
di Lacan, il soggetto è un significante mancante: mancante, s’intende, nel luogo dei
significanti. Ciò porta alla conseguenza che il soggetto, così determinato, è in realtà un
indeterminato, è il mero (astratto, generale) soggetto della conoscenza, che può conoscere
tutto fuorché se stesso come soggetto. Il soggetto si coglie a sua volta solo come oggetto. Ora,
se questa è la chiave della deduzione kantiana della gnoseologia, è vero anche che questa
deduzione riguarda semplicemente il soggetto qualunque della filosofia, cioè il soggetto
assunto nella sua generalità, non il soggetto singolare dell’esperienza. Se vogliamo
determinare quest’ultimo nella significazione, possiamo farlo solo a partire dal fatto che tale
soggetto singolare è rappresentato nell’altro, perché vi è riconosciuto e nominato.
Ma che concetto possiamo farci di questo essere chiamato nell’altro? Serviamoci
dell’ambiguità con cui, nella lingua italiana, ci si presenta il verbo «chiamare»: «chiamare»
significa sia rivolgersi ad un soggetto come soggetto, nella dimensione dell’invocazione e
dell’appello, sia dare un nome. Queste due determinazioni, in effetti, coincidono almeno in
parte. Il nome proprio del soggetto non lo individua minimamente nella sua soggettività, e si
limita a renderlo riconoscibile come soggetto giuridico distinto da altri soggetti giuridici.
«Chiamare» tuttavia significa anche riconoscere. Dar voce, evocare, significa costituire nel
campo dell’essente ciò che non vi era. La voce, in quanto appello all’essere, crea «dal nulla»
quello che non era. La vocazione soggettiva dipende dunque dall’essere chiamato del soggetto
ad occupare un suo posto nell’altro e per l’altro. È questa la funzione essenziale di quell’altro
primario che è per ogni soggetto la madre. La madre è chi insegna a parlare, è chi chiama ad
essere un soggetto. Tale vocazione essenziale del soggetto è significata e rappresentata
dall’assegnazione del nome, ma non coincide con essa. Il fatto d’essere individuato da un
nome proprio assegna al soggetto un posto nell’essente. Ma il nome proprio può solo rinviare
a tale vocazione, non esprimerla. Il vero nome del soggetto non è il suo nome proprio, ma la
vocazione stessa che lo ha esposto alla luce del simbolico, è l’attesa a riempire la quale esso è
stato «chiamato».

219. Di fatti, la formula per cui «il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro», a
condizione di saperla intendere, è vera alla lettera. Il soggetto, nel suo venire al mondo, non è
determinato solo dal linguaggio in quanto tale. Il linguaggio in quanto tale è anche un
«sistema simbolico», è il linguaggio in quanto espressione del desiderio d’un altro. Persino
quel complesso di regole, di obblighi, di convenzioni, di abitudini, di proibizioni, che
possiamo individuare come legge, in quanto assegna a ciascuno dei compiti, positivi o
negativi, può essere considerato come identico al «desiderio dell’Altro». Quest’altro che
s’esprime nella legge, certo, non ha figura, a meno che non l’acquisti nella maschera del
tiranno (ma ogni tiranno è un trasgressore della legge). Quell’intima contraddittorietà, che
abbiamo riconosciuto al soggetto come tratto saliente della sua struttura, è costitutiva anche
dell’altro in tutte le sue figure, poiché il soggetto non può giungere ad assumere la propria
parola se un altro non gliel’ha concesso in precedenza, riconoscendolo soggetto.
Ma, finché restiamo nel piano delle mere significazioni, e trascuriamo il fatto che chiamare
ad essere un soggetto è prima di tutto un atto d’amore, questo stesso riconoscimento finisce
per chiamare il soggetto ad un posto che non ha scelto, quello d’una mera mancanza. L’atto
stesso che lo consegna alla sua dignità di soggetto lo umilia a non essere che lo strumento,
tanto più asservito quanto più in rivolta, del desiderio dell’altro. La vocazione soggettiva è
dunque, al tempo stesso e necessariamente, vocazione ad un asservimento. La madre stessa,
con cui abbiamo tratteggiato una figura immaginabile dell’altro, è infatti, in sé,
necessariamente divisa. Per un verso è l’altro che dona, è l’altro cui il soggetto deve il proprio
essere; ma per un altro è la figura stessa del destino, la quale, consegnando il soggetto al
proprio essere, lo consegna anche, con questo, alla propria morte ed al proprio
assoggettamento. La vocazione con cui il soggetto è chiamato ad essere nella sua
indeterminazione (nella sua libertà), lo consegna anche, e con lo stesso gesto, alla sua
determinazione e alla sua morte. Poiché non c’è altra determinazione soggettiva nel
significante che la morte.
Naturalmente questa duplicità dell’essere chiamati può venire mitigata o tradotta in molti
modi, se l’amore che il soggetto riceve non è misconosciuto dai genitori stessi nelle modalità
che provocano delle risposte patologiche. Occorre dire del resto che la psicanalisi non ha mai
riflettutto sulle condizioni della non patologia, se non nei termini d’un compromesso
accettabile fra le patologie. Nel Mito di Crono ci siamo soffermati a lungo su questo
paradosso, in base al quale la psicanalisi, che dovrebbe prendersi cura della salute soggettiva,
non è stata in grado neppure di pensare quali sono le condizioni di possibilità di questa salute.
Ma una pratica di formazione soggettiva che tragga dalla patologia la sua stessa nozione di
superamento della patologia è inevitabilmente condannata a riprodurre, attraverso la sua
azione, la patologia di partenza, limitandosi a produrre poche modifiche secondarie, del resto
non sempre troppo rassicuranti, perché contraddittorie con la stessa prospettiva etica
inaugurale della psicanalisi. Qui si vede chiaramente che il nostro tentativo di fondazione
trascendentale della teoria analitica parte da un’esigenza tutt’altro che esterna al campo
d’esperienza della psicanalisi.

220. Ora, è in rapporto al desiderio dell’altro, cioè al significato che avrà avuto per un altro
preliminarmente, in base al posto che sarà venuto ad occupare nel suo desiderio, che il
soggetto si determina, situandosi nel fantasma. Divenire soggetto, infatti, implica di doversi
situare in relazione ad un complesso di rapporti, e ad una serie di significanti, che sono quelli
che, per l’altro (per esempio la madre), rappresentano il soggetto. Prima ancora
d’incominciare ad esistere, un bambino è già determinato in qualche modo da un’attesa, oltre
che da un sistema simbolico. A definire il suo destino non basta il fatto di venire alla luce in
un mondo ch’è già determinato dal linguaggio. Bisogna che, nel linguaggio, alcuni
significanti appaiano, per il desiderio dell’altro, privilegiati, in quanto rappresentanti del
nascituro o dell’infans. Ora, tale determinazione del destino soggettivo nella vocazione
sarebbe assolutamente immodificabile se non intervenisse un fattore (paterno) di separazione,
per assicurare al soggetto un margine d’indeterminazione, in mancanza del quale la vocazione
soggettiva consisterebbe in uno schiacciamento della soggettività, in una sorta d’assurda
programmazione del soggetto. Naturalmente, anche la funzione del padre non è soltanto
quella d’introdurre una separazione fra il soggetto e il desiderio dell’altro (della madre).
Anche su questo punto non possiamo però che rinviare al Mito di Crono.

221. La perversione ha il privilegio di rivelarci, molto più immediatamente del sintomo


nevrotico, la struttura del fantasma, poiché l’azione perversa è appunto la sua messa in atto.
Abbiamo detto che possiamo considerare il fantasma come un modo di situarsi, in rapporto
all’oggetto, nell’altro. Questo «nell’altro» dobbiamo riferirlo a entrambi i lati della
rappresentazione fantasmatica, sia all’oggetto sia al soggetto: il fantasma è il modo con cui il
soggetto si rappresenta, assieme al suo oggetto, nell’altro. Ciò significa, come ricordava
Lacan, che il soggetto è esterno al fantasma, ma che, rappresentandovisi, vi si nomina e vi
s’individua (sia pure come mera soggettività patologica), non solo nella determinazione
passiva che l’altro stesso, con il proprio desiderio, gli assicurava in principio, ma anche in
base ad un desiderio ch’è soltanto suo, benché sia in relazione immediata con il desiderio
dell’altro. Vediamo che cosa questo comporta in concreto.
Se assumiamo la coppia esibizionismo-voyeurismo come filo conduttore
dell’argomentazione, vediamo che lo scopo dell’esibizione è di produrre nell’altro, a sua
insaputa, un desiderio, è cioè di farsi complice del desiderio dell’altro, al di là delle resistenze
che questi (ad esempio la donna cui l’esibizione è destinata) potrebbe opporvi. Quel che
importa qui non è ciò che viene esibito, ma che l’esibizione catturi il desiderio dell’altro a
dispetto del suo rifiuto. Perché ciò accada è essenziale che l’altro soggetto sia sorpreso non
tanto dall’esibizione, quanto dal proprio desiderio. Ora, dove si situa, dove si rappresenta, nel
fantasma, il soggetto perverso? Non certo nell’oggetto dell’esibizione, per esempio nel fallo.
Egli si rappresenta piuttosto, notava Lacan, nel taglio, nell’aprirsi istantaneo di ciò che farà
emergere l’oggetto destinato a catturare il desiderio dell’altro. Se l’altro soggetto sarà vittima
di questa seduzione, il soggetto perverso avrà raggiunto, per lo meno nell’istante
dell’esibizione, ch’è il perno temporale attorno al quale ruota tutta la scena, quel che si
prefiggeva: aggirare la propria divisione. Eticamente, senza dubbio, questa non è una modalità
raccomandabile. Infatti la messa in atto perversa determina il soggetto solo come mancanza
(nel «taglio», come dice Lacan), e lo condanna perciò alla perpetua reiterazione del suo gesto.
Fra l’altro, questo testimonia che il reale del soggetto non può essere soltanto negativo (la
morte), perché, se così fosse, l’analisi non potrebbe concludersi che nell’instaurazione d’una
vera e propria perversione: per niente sessuale, ma psicanalitica (e non è affatto escluso che
proprio a questo risultato portino molto spesso le analisi «lacaniane»). Tuttavia il fatto che
l’istante della sorpresa sia, sebbene nella riduzione fantasmatica, il perno d’efficacia, se così
possiamo esprimerci, dell’azione perversa, ci mette sulla buona strada: anche un’azione del
tutto patologica come quella perversa ha una sua efficacia (come ogni sintomo ed ogni
formazione dell’inconscio), perché non mobilita solo i meccanismi automatici della
significazione, ma anche la forma temporale del senso (cioè instaura un ritmo), per quanto
essa possa essere misconosciuta nella sua riduzione fantasmatica. Una fenomenologia
dell’atto patologico o del sintomo potrebbe facilmente dimostrare che la patologia non è
affatto il contrario della salute soggettiva, ma solo una sua riduzione, vale a dire, in sostanza,
un’indebita semplificazione linguistica dei dati del problema etico dell’individuazione
soggettiva.

222. Tutto ciò è ancora più chiaro nel caso del voyeur. Infatti, che cosa cerca quest’ultimo?
Non certo di vedere qualcosa che, in altre situazioni, potrebbe osservare molto meglio. Anche
stavolta si tratta di sorprendere l’altro a sua insaputa, rendendolo involontario complice del
desiderio del soggetto (la situazione è quindi capovolta rispetto all’esibizionismo). Si tratta, in
altri termini, d’essere nell’altro. Come Lacan dice molto bene, il voyeur s’identifica con gli
spiriti indiscreti che popolano l’aria. Che cos’è ch’egli si sforza di vedere, anzi
d’intravvedere? Non certo la donna in questione: egli non vuole semplicemente vederla, ma
vederla senza essere visto. Vedere l’altro senza essere visto è infatti un modo per assistere
alla propria scomparsa, o per essere presente alla propria assenza. «Essere nell’altro»
significa dunque essere e non essere al tempo stesso. Per questo è così essenziale la
dimensione temporale dell’attimo, per questo è così importante intravvedere: si tratta di
passare per un passaggio impossibile, quello che permetterebbe ad un soggetto d’uscire da se
stesso per vedersi come un altro lo vedrebbe. E qui si comprende molto bene quali sono i
motivi del fascino che la perversione esercita su chiunque. La perversione è infatti a un solo
passo dal porsi, nei confronti della legge, nella situazione eticamente più giusta (il che certo
non modifica il suo statuto patologico).

223. Il perverso (come il soggetto di qualunque fantasma) si sforza di compiere il miracolo


d’essere «al tempo stesso» se stesso e l’altro, di rendere possibile questo impossibile, questa
difficile ékstasis. È questo il fondo essenziale d’ogni rappresentazione fantasmatica, ed è
questo il motivo per cui il desiderio è sempre necessariamente desiderio d’abolire il tempo
(l’ékstasis del godimento è necessariamente la sospensione del tempo). Infatti essere e non
essere al tempo stesso, essere il soggetto e l’altro, cioè assistere alla propria scomparsa,
significa necessariamente abolire quella divisione per cui un soggetto non può conoscersi se
non come un oggetto. Scopo del desiderio in quanto desiderio d’un oggetto, cioè in quanto
desiderio patologico, strutturato dal fantasma, è di rendere reversibile la stessa condizione a
priori dell’esistenza soggettiva. Lo scopo del desiderio fantasmatico è quindi a un passo
dall’eticità, come dicevamo, perché lo scopo ultimo dell’etica è sempre stato in definitiva di
fondare la soggettività, nella sua singolarità, su un fondamento che non sia di mera, casuale
singolarità; ma esso è anche a un passo dalla morte, perché essere e non essere al tempo stesso
porta proprio alla cancellazione del soggetto, quando questa cancellazione non è indizio d’una
relazione più essenziale di quella che il soggetto ha con se stesso. Perciò ancora una volta
questo «essere a un passo da», eticamente, è solo un’aggravante. Essendo «a un passo da»
questa meta, il fantasma, agendo solo in base alle significazioni e alle loro indefinite
sostituzioni, quindi in base al meccanismo del transfert, in realtà non fa che allontanare il
soggetto dalla meta alla quale, pure, è così vicino.

224. Ora, non c’è azione che non possa ricondursi, attraverso il desiderio, alla struttura del
fantasma, tanto che non possiamo affatto escludere che anche dietro quelle che sono
perfettamente articolate eticamente, e che quindi non sono considerabili come determinate dal
fantasma (come ad esempio ogni atto analitico), abbia agito, e magari continui ad agire, anche
una determinazione fantasmatica: non possiamo escluderlo, come non possiamo escludere
neppure da un atto del tutto sintomatico, come abbiamo visto, un filo conduttore che non sia
affatto fantasmatico. Di conseguenza quanto prima abbiamo detto a proposito della
perversione è estendibile ad ogni altra azione, anche non perversa. La perversione, in quanto
posizione patologica, non è affatto determinata dal sostegno fantasmatico che ha l’atto
perverso, perché per esempio un soggetto nevrotico non è certo meno determinato
fantasmaticamente di quanto non lo sia uno perverso. Ognuno, infatti, è colui che è, nel modo
della significazione, anche perché è il soggetto determinato da un’azione ch’è strutturata da
un fantasma, dal momento che proprio il fantasma decide di volta in volta che cosa il soggetto
patologico desidera, e quale desiderio lo induce ad agire. Il fantasma esprime, per così dire, la
ragione stessa (la misura) della ragione pratica, e a nessuno è concesso di non essere in nessun
modo un soggetto patologico, anche al colmo della più perfetta azione etica.
Se però ci atteniamo, come qui stiamo facendo, al solo piano della significazione, pur
riconoscendo che nessun comportamento soggettivo è interamente spiegabile entro questi
limiti, dobbiamo ammettere che qualunque regolamentazione del desiderio s’imbatte qui nella
sua difficoltà principale: quella di non poter fondare un oggetto di desiderio che sia
necessariamente desiderabile. Dal punto di vista della struttura del fantasma, infatti, non c’è
nessuna differenza fra il desiderio del sommo bene platonico e l’oggetto del desiderio
perverso. Entrambi resteranno patologici, perché in entrambi il soggetto cercherà la stessa
uscita impossibile, la stessa ékstasis dalla sua divisione, e la cercherà per una strada che lo
porterà solo a confermare la stessa chiusura dalla quale tenta d’uscire. Non stiamo dicendo,
naturalmente, che fra il sommo bene e l’oggetto della perversione non c’è alcuna differenza
(anche se spesso gli psicanalisti sono giunti a formulare proprio questo). Non lo stiamo
dicendo perché in realtà il sommo bene platonico non è affatto, qualunque cosa ne pensino gli
psicanalisti, un oggetto di desiderio: non lo è perché, essendo «sommo», esso è precisamente
quel non oggetto che rende tutti gli oggetti desiderabili solo in quanto ne partecipano; non lo
stiamo dicendo, inoltre, perché neppure l’oggetto del desiderio perverso sarebbe desiderabile
se non partecipasse, sia pure in modo parziale, sia pure nella negazione, di quel «sommo»
bene (partecipazione che, ben lungi dal rendere la perversione accettabile, la rende eticamente
condannabile).
Tuttavia la difficoltà alla quale ci stiamo riferendo s’è presentata ogni volta che un’etica è
stata fondata su un principio gnoseologico. Neanche Kant, che pure ha spostato in modo
decisivo l’accento della riflessione etica dall’oggetto (dal bene) al soggetto (alla legge), è
riuscito a dare una soluzione di questo problema. Ponendo a principio dell’etica la massima
dell’universalizzazione possibile d’ogni massima etica, la Critica della ragione pratica non
otteneva altro risultato che quello di concludere che il desiderio è sempre e in generale
colpevole, perché sempre e in generale s’oppone alla legge nella sua forma più universale:
quella dell’impossibilità di togliere la divisione costitutiva del soggetto. Dall’impostazione
kantiana non poteva che derivare immediatamente il principio dell’etica idealistica, secondo il
quale la libertà soggettiva è identica alla più assoluta sottomissione alla legge. Kant non
poteva estrarre dalla propria critica altro che i contenuti che l’avevano determinata, vale a dire
i principi etici più tradizionali: per dirla con Proust, ancora il Simposio, ma in versione
prussiana, con crauti e senza gigolos.
Ciò non significa affatto, tuttavia, che il Simposio di Platone sia da considerare come un
altro exemplum di quest’insufficienza dell’impostazione etica filosofica. Non è possibile farlo
perché in esso la mancanza dei crauti, e la presenza dei gigolos, sono un indizio sicuro del
fatto che l’etica platonica si muoveva su tutt’altra strada, anche se non è affatto facile dire su
quale. Lacan giunse a trovare nel Simposio addirittura un presagio dell’etica della psicanalisi:
il che non è affatto falso, ma non per i motivi che glielo facevano credere. Che Platone faccia
esporre a Diotima una concezione etica che effettivamente dà grande rilievo alla mancanza,
anche se solo per contrasto con la ricchezza dell’espediente, non significa necessariamente
che proprio questa fosse l’idea di Platone: non significa questo perché il Simposio è forse, fra
tutti i suoi dialoghi, quello più manifestamente aporetico. In esso non troviamo affatto una
teoria dell’amore che Platone ci presenti come propria; troviamo invece molte, e
contraddittorie, teorie dell’amore, fra le quali non è immediatamente evidente quale fosse
quella che Platone condivideva (ammesso che sia esposta nel testo), e che certamente il
filosofo fece benissimo a riservare al cuore del proprio insegnamento, ed a non consegnare
alle mani profane d’un lettore qualunque, anche se, beninteso, essa dovrebbe essere
ricostruibile attraverso un’attenta lettura del dialogo. Infatti quel che, nel Simposio, è così
evidente da accecare, è il senso che l’amore aveva per Platone. Ma certo ricostruire
dall’evidenza indimostrabile d’un senso una teoria non è facilissimo. Comunque non
arriveremo mai a comprendere quale fosse la sua finché continueremo ad attribuire a lui le
nostre opinioni. Tutte le opinioni, sembra dirci Platone, possono contenere un po’ di verità, su
questo tema, ma ciascuno deve trovare la propria, anche se ciò non significa che tutte siano
equivalenti. L’ultima verità sull’amore dov’è riposta, allora? Certamente l’elogio che
Alcibiade fa di Socrate ci fa avvicinare molto alla possibilità di rispondere a questa domanda,
ma questo non significa necessariamente che la contenga. Infatti troppe sono le contraddizioni
anche di questo brano perché sia possibile intenderlo diversamente che nei termini d’un mito.
In ogni caso, comunque stiano le cose quanto al Simposio di Platone, una cosa è sicura:
un’etica che si limiti a negare il desiderio viene meno al suo compito, ch’è d’esprimere la
legge costitutiva del desiderio, non la legge che proscrive o prescrive questo o quel desiderio.
Tale legge costitutiva del desiderio – è questa l’ipotesi che ora siamo costretti a formulare –
non è enunciabile però nei limiti della ragione pratica, la quale, essendo il campo dell’azione
soggettiva, non ci consente di decidere una volta per tutte quali azioni siano giuste e quali
ingiuste. Ciò non significa che non si possa saperlo in assoluto (se così fosse non ci sarebbe
nessuna etica); significa invece che lo si può sapere solo di volta in volta, esprimendo un
giudizio su ciascuna di esse, e non un giudizio generale, ma un giudizio ogni volta singolare,
che tenga conto del senso che quell’azione ha per chi la giudica. Ciò significa allora che per
noi la ragione pratica coincide con il campo del giudizio, e che di essa deve occuparsi una
clinica che sia una «critica del giudizio», mentre la ragione etica, la quale equivarrebbe al
campo di cui si occupa la seconda critica kantiana, dev’essere accuratamente distinta dalla
ragione pratica: non perché il campo della prima e quello della seconda siano distinguibili
attraverso un confine netto e valido una volta per tutte, ma proprio perché non lo sono in
assoluto e in via preliminare. La clinica (la «critica del giudizio») ha invece il compito di
distinguere, nel campo della ragione pratica, che cosa è determinato dall’errore patologico (la
patologia non è altro che una semplificazione erronea, almeno perché semplifica) e che cosa
invece è determinato da un’impostazione trascendentalmente ed eticamente fondata della
scelta soggettiva. Per distinguere dunque un principio dell’eticità dal principio della ragione
pratica dovremo riuscire a concepire un desiderio che sia al di là del fantasma, pur non
potendo mai e in nessun modo essere del tutto afantasmatico.
225. Quale che sia il desiderio che si struttura nel fantasma, la sua funzione è
l’individuazione del soggetto desiderante, e solo perciò determinato. Abbiamo già visto che
l’individuazione e la determinazione soggettiva sono operazioni differenti. La prima è già
compiuta, attraverso la divisione soggettiva, dal significante (per esempio dal nome), ma in
essa il soggetto non si dà che come mera mancanza. La determinazione è invece compiuta dal
fantasma, ma solo in maniera patologica. Individuare attraverso una determinazione è la
prospettiva etica della stessa ragione patologica, che tuttavia, anche nella patologia, punta al
compito etico. Quest’ultimo consiste allora nella ricerca d’un’individuazione che proceda
attraverso una determinazione non solo patologica, e per realizzarsi richiede il funzionamento
d’un principio dell’azione che non sia fantasmatico (quello che altrove abbiamo chiamato
l’agone).
Il desiderio nel fantasma, cioè il desiderio patologico, esprime fondamentalmente la rivolta
del soggetto a ciò cui si deve, cioè la rivolta, in ultima istanza determinata eticamente, del
soggetto nei confronti del significante. Infatti non dobbiamo dimenticare che quel luogo
dell’altro che, per il soggetto, è inaccessibile, se non attraverso i meccanismi patologici, vale a
dire meramente linguistici, del transfert, è, nella sua determinazione ultima, il campo dei
significanti, dai quali il soggetto è rappresentato nel modo della Repräsentanz. Ora, in quanto
meramente rappresentato dai significanti, il soggetto è escluso dalla significazione. La sua
esclusione dall’assolutamente altro è in primo luogo la sua esclusione dalla significazione, ed
è a questa esclusione che il fantasma cerca di rimediare. Qui è perfettamente evidente che
anche il fantasma ed anche la patologia sono determinati eticamente, in quanto il problema
etico dell’individuazione nella determinazione non è risolvibile in termini di significazione,
ma solo in termini di senso. Ora, il fantasma (e il transfert) sono sulla strada del senso, ma lo
cercano nella regione del significante. Transfert e fantasma cercano quindi quel che non può
trovarsi: un equivalente del senso nella significazione. In definitiva l’esclusione dal senso è,
per il soggetto, l’esclusione dal proprio movimento e dalla propria soddisfazione soggettiva.
Perché quindi questa esclusione viene accettata, o addirittura ricercata? Evidentemente perché
nutre l’illusione della durevolezza (a differenza del senso, ch’è ricco, ma non riproducibile, la
significazione è povera, ma riproducibile). Il desiderio del soggetto si soddisfa nel fantasma
solo in quanto il fantasma consente di dare una risposta, benché illusoria e provvisoria, al «chi
sono?» con il quale s’inaugura, nella significazione, l’interrogazione soggettiva sul senso
dell’esistere. Questa domanda, benché formulata qui solo in termini di significazione, vale a
dire d’appropriazione dell’essere (e solo per questo patologicamente), è tuttavia una domanda
non solo corretta, ma anche eticamente doverosa, purché l’essere soggettivo non ne venga
determinato come una proprietà del soggetto. L’esser proprio è infatti l’essere di ciò in cui
l’avente coincide con l’avuto. Ora, questa coincidenza non è possibile che nella morte
naturale, vale a dire nella perfetta identità fra il soggetto e l’oggetto, ch’è pensabile solo come
totale cancellazione del soggetto. Ma questa identità non è pensabile che in un pensiero che la
nega proprio in quanto la pensa. L’essere, quindi, non ha niente a che vedere con la morte,
almeno con la morte intesa in modo naturale.
Ora, il fatto che la morte sia stata concepita dalla psicanalisi (e dalla modernità) solo in
questo modo è un indizio innegabile della patologia nei confini della quale l’una e l’altra
rimangono, dal momento che pensare la morte negando la sua impensabilità significa
immediatamente e logicamente escluderla dal presente, condannandosi all’incapacità più
assoluta d’elaborare il lutto della propria finitezza: la morte non è affatto una determinazione
del futuro, ma è il limite presente d’ogni istante; per intenderla radicalmente dobbiamo dire
ch’essa è la finitezza grazie alla quale siamo temporalmente. Il nostro può essere, certamente,
un essere-per-la-morte, ma già in questo «per» è contenuto quel superamento del limite della
finitezza essenziale che fa del nostro essere un essere soggettivo (e non naturale od oggettivo).
Ora, elaborare il lutto della propria finitezza significa anche superare questa finitezza, come
elaborare il lutto per la morte di qualcuno significa anche superare la naturalità di questa
morte, con un sé che fa mutare il suo statuto, trasformandola da fatto casuale in atto
eticamente necessario della sua e della nostra libertà. L’incapacità tutta moderna d’elaborare il
lutto è un’incapacità colpevole, in quanto, lungi dal non saper riconoscere la morte come un
che di reale, essa non sa riconoscere la vita come un che di diverso dalla morte.
È per questo che la soddisfazione del desiderio patologico (fantasmatico) è stata quasi
sempre percepita come colpevole (con la sola eccezione di quelle culture – crediamo che ce
ne siano, o almeno che ce ne siano state – nelle quali essa è la condizione preliminare per
l’assunzione soggettiva del senso dell’azione). Il fantasma è infatti, di per sé, la trasgressione
della legge fondamentale, quella della divisione (temporale) del soggetto, e quindi della
relazione necessaria fra l’essere e la morte. Nel fantasma e nel transfert questa divisione viene
invece tradotta in termini spaziali, cioè di mera significazione della divisione. Proprio per
questo motivo Freud notava che gli uomini preferiscono confessare le proprie colpe che
ammettere i propri fantasmi. Il grande mito del peccato originale forse non è altro che un mito
del fantasma, che esprime in termini etici la colpevole preferenza soggettiva della
determinazione spaziale alla determinazione temporale, vale a dire della determinazione
attraverso la significazione alla determinazione attraverso il senso. Infatti proprio questa
preferenza è l’opus diabolicum della tentazione. Che cosa dice il mito? Che c’è un frutto
proibito, grazie al quale s’acquista la conoscenza «del bene e del male», conseguendo la quale
si potrebbe poi giungere ad essere l’assolutamente altro («eritis sicut dii»). Ma proprio
questo voler essere l’altro è la colpa, poiché il soggetto ha chiesto d’essere liberato dei limiti
del proprio essere proprio a quella conoscenza dei limiti («del bene e del male») ch’è la
conoscenza nella significazione. Di conseguenza il suo desiderio viene esaudito, ed il soggetto
si trasforma nell’assolutamente altro: non nel suo creatore, ma nel linguaggio stesso, e proprio
questo, d’allora in poi, lo terrà prigioniero del bisogno. Il peccato originale, insomma,
consiste nel credere che Dio e l’assolutamente altro siano la stessa cosa. Questo peccato, in
definitiva, è l’ateismo stesso.
Ora, la rivolta contro il limite al quale il soggetto deve il proprio essere, perché senza di
esso non sarebbe, non può venire evitata rassegnandosi all’opportunismo del significante (è
come dire che non basta non peccare per salvarsi, perché ci può essere un modo colpevole
anche di non peccare). In quest’opportunismo, ch’è l’insidia etica fondamentale della
modernità, il soggetto viene meno definitivamente al proprio compito etico, e quindi alla
verità del proprio desiderio. In virtù della divisione soggettiva e della capacità
d’individuazione soggettiva del desiderio, il fantasma non esprime solo la rivolta del soggetto
contro il significante, ma fa di questa rivolta un primo passo, benché del tutto insufficiente e,
da sé solo, colpevole, sulla strada del principale dovere del soggetto. L’antinomia della
ragione pratica significa anche questo: che il primo dovere che la legge impone al soggetto è
quello della trasgressione della legge (e certo ciò non significa che basti trasgredire la legge
per essere giustificati). In questo senso, come s’esprimeva l’Apostolo, la legge fu fatta per
indurre al peccato. Ma la soluzione di quest’antinomia prevede inevitabilmente la traduzione
della rivolta contro il significante, la quale non può svolgersi che grazie al significante stesso
(e proprio questo è l’opus diabolicum), nell’atto, che invece traduce la legge della
significazione nella legge del senso (in quella dell’amore nella sua verità).

226. L’antinomia della ragione pratica sta nel fatto che, ogni volta che proviamo a
determinare l’essere del soggetto, troviamo solo la sua determinazione da parte dell’altro, cioè
la sua determinazione attraverso il significante. Il fantasma è appunto un tentativo d’uscire da
quest’antinomia, perché esso è il tentativo del soggetto di farsi rappresentare nel campo dei
significanti da qualcos’altro che da un significante. Ora, abbiamo detto che il desiderio
fantasmatico o patologico è inadeguato a risolvere un’antinomia che, dopo tutto, è l’effetto
della divisione costitutiva del soggetto. Naturalmente, non avremmo potuto qualificare come
patologico il desiderio del fantasma se la soluzione che esso prospetta fosse veramente tale.
Alla base del fantasma deve sussistere dunque un errore, benché un errore che possiamo fin
d’ora prevedere necessario, perché coincide con il primato della significazione. Ora, il
primato della significazione genera la prevalenza dell’insignificanza, vale a dire il «libero»,
benché ciecamente determinato, gioco dei significanti, il quale è la condizione del transfert,
cioè della sostituzione d’una significazione rimossa con un’altra (controinvestimento). Il
desiderio patologico non è tale solo perché esprime il passivo essere determinato all’azione
del soggetto da parte dell’oggetto del suo desiderio. Esso è patologico anche nel senso della
psicopatologia, come dimostra il fatto che la struttura del desiderio fantasmatico non è altro
che la struttura transferale che sta alla base del sintomo nevrotico. La patologia soggettiva (la
psicopatologia), nella quale s’esprime la determinazione del soggetto da parte del fantasma, è
allora il campo della ragione pratica. La ragione pratica è la ragione patologica. Essa esprime
perciò non solo la ragione del fantasma, ma anche quella del sintomo.

227. Che cos’è, infatti, un fantasma? È la rappresentanza della rappresentazione che un


soggetto si fa della propria soddisfazione. Proprio grazie a questo doppio aspetto, di
rappresentanza e di soddisfazione, esso dovrebbe assolvere al suo difficile compito di dare
espressione al soggetto nell’altro. Ma la rappresentanza d’una soddisfazione non è ancora una
soddisfazione. La mera attività fantasmatica include, certo, una soddisfazione, ma una
soddisfazione soltanto e necessariamente preliminare, e quindi rimandata, e perciò condannata
all’insoddisfazione (anche quando il fantasma venisse realizzato, come accade nella
perversione). Benché dunque il fantasma non sia che la rappresentazione dell’essere più
intimo e più segreto che un singolo soggetto attribuisce a se stesso, questo essere continuerà
ad apparire al soggetto come separato. Attraverso il fantasma, la divisione fra il soggetto e
l’altro non è affatto abolita, benché il fantasma prometta proprio tale abolizione, ma è anzi
confermata. «Eritis sicut dii» è una promessa mantenuta, ma mantenuta soltanto al prezzo
della morte. La soddisfazione che il fantasma rappresenta, essendo soltanto rappresentata, è
una soddisfazione infinitamente rimandata. Attraverso di essa, il soggetto della ragione pratica
è determinato all’azione, ma ad un’azione che può essere solo inibita o mancata. Nella nevrosi
e nella perversione questo carattere necessariamente delusorio del fantasma provoca
comportamenti opposti: il nevrotico cercherà nel sintomo la rimozione del fantasma, e la
pagherà al prezzo di non poter avvertire che come sofferenza la sua soddisfazione; il perverso
la cercherà invece nella messa in atto del fantasma, ma al costo di condannarsi alla fatica di
Tantalo d’un’azione che sarà per lui sempre da ricominciare. Il desiderio strutturato dal
fantasma è un desiderio strutturato da un’illusione. Inseguendo il proprio fantasma, il soggetto
otterrà tutto, ma non quella reale individuazione che cercava nella propria determinazione.
L’accesso all’assolutamente altro è infatti, nel fantasma, solo rappresentato, e il fantasma
assolve alla sua funzione di rappresentarvi il soggetto solo in quanto il fantasma stesso rimane
irrealizzato, cioè solo finché esso rimane una mera rappresentanza della rappresentazione
d’una soddisfazione.

228. L’etica ha mille volte denunciato questo carattere delusorio del desiderio, presentando
la prospettiva della rinuncia come l’unica attraverso la quale sarebbe possibile sottrarsi a tale
delusione. Solo in un al di là, solo dopo la morte, la ricongiunzione del soggetto con l’altro è
stata ritenuta concepibile. Tale soluzione, ch’è quella adottata dall’ateismo teologico, ha
tuttavia l’inconveniente per niente trascurabile di non essere affatto una soluzione
dell’antinomia. Qui, è ancora una volta un fantasma a promettere l’uscita dal fantasma:
proiettando nell’al di là la ricongiunzione del soggetto e dell’altro, viene utilizzata proprio la
forza di convinzione del fantasma, che non fa altro che promettere, in un modo o nell’altro,
questa ricongiunzione. Ma l’ateismo teologico è tutt’altro che religioso nel senso proprio del
termine, perché Dio, nel senso proprio del termine, è tutt’altro che l’altro.
La religione ha invece sempre percepito che questa non era la soluzione del problema
dell’antinomia, ma solo una sua riformulazione. Nei grandi testi religiosi – in quelli della
Bibbia prima di tutto – si trovano invece le tracce più consistenti della vera soluzione
dell’antinomia, dalla quale non si può uscire solo attraverso la rinuncia al desiderio, per il
semplice motivo che anche questa è imposta ancora dal desiderio. Risolvere l’antinomia della
ragione pratica comporta invece che il soggetto persista nel suo desiderio. Il fantasma è
illusione, ma un’illusione necessaria. Non volersi illudere su questa possibilità di
ricongiunzione è ricadere ancora una volta nell’illusione, perché rinunciare al desiderio
comporta ancora che un desiderio imponga questa rinuncia. Nei Vangeli è perfettamente
dimostrata l’insufficienza di questa soluzione. Frasi come questa: «A chi ha sarà dato, ed avrà
anche in sovrappiù; ma a chi non ha sarà tolto anche quel che ha» (Mt 13, 12); o come questa:
«Chi vuole salvare la propria vita la perderà, ma chi perde la vita a causa mia la troverà» (Mt
16, 25), esprimono proprio l’inadeguatezza del concetto volgare della ricompensa.

229. La legge, dunque, non si limita a proscrivere il desiderio patologico, ed è a sua volta
attraversata dalla scissione soggettiva, nel modo dell’antinomia della ragione pratica. Alla
legge scritta si contrappone quella non scritta, alla legge mosaica si contrappone quella
dell’amore. Ora, se la prima prescrive di rinunciare alla colpa fondamentale di voler essere
l’altro, la seconda prescrive anche di non rinunciare a questa volontà. «Eritis sicut dii» non è
solo la promessa diabolica del peccato originale; è anche la promessa divina della redenzione.
L’eletto, il giusto, non è colui che rinuncia, ma colui che rinuncia senza rinunciare. Il giusto è
colui che lotta contro Dio, e che riesce a vincerlo. Abramo, Giacobbe, Giobbe, sono figure
della lotta del soggetto per la difesa del proprio desiderio, quand’anche ciò comportasse di
lottare con Dio stesso. C’è dunque una trasgressione della prima legge che non solo non è
colpevole, ma è la forma più ardua e difficile di giustizia. Avremo modo di tornare sulla
vicenda d’Abramo che, nella lettura fattane da Kierkegaard, costituisce la parabola più
stringente e puntuale di che cosa può essere un desiderio non fantasmatico, il quale traduca il
desiderio fantasmatico in un atto d’amore. Limitiamoci dunque ad evocare, per concludere
provvisoriamente la nostra trattazione dell’antinomia della ragione pratica, la straordinaria
figura della lotta notturna di Giacobbe con l’angelo. L’angelo è l’incarnazione mitica più
perfetta e suggestiva della parola di Dio, cioè della parola che crea, ma anche della parola che
uccide e che punisce. La parola, però, non è il significante, anche se, senza parola, non c’è
significante (non basta che ci sia significante perché ci sia parola).
Per ognuno, prima o poi, giunge il momento di lottare con l’angelo, di rinunciare a ciò che
ha di più caro e più segreto, e di strappare le proprie radici più profonde. Ma solo pochi
sapranno uscire vittoriosi dalla lotta, ed ottenere di nuovo quello cui hanno rinunciato. Solo a
pochi riesce di riavere il loro vero nome di soggetti, di superare con un salto preciso ma
leggero il paradosso che ogni azione pone a ogni soggetto. Quella che abbiamo chiamato
l’antinomia della ragione pratica è l’antinomia che la ragione pura è per se stessa, essendo la
ragione d’una divisione. Proprio per questo la sua soluzione è inscritta nel compito
impossibile che la ragione assegna a se stessa. E tuttavia la soluzione dell’antinomia non
rientra nei limiti della ragione pratica, cioè della ragione determinata dalla relazione fra il
soggetto ed un oggetto. Occorrerà passare attraverso il sacrificio dell’oggetto, perché il
soggetto possa ritrovare ciò della cui perdita è un effetto, e perché impari a distinguere, nel
sentiero ricurvo dell’antinomia, il circolo vizioso del ritorno, il circulus vitiosus deus che
guida i suoi passi, oltre l’accettazione della perdita, verso l’affermazione gioiosa della
Necessità.
VI. Per una clinica

230. La psicopatologia è un’invenzione moderna: la curiosa idea che le anime possano


ammalarsi come s’ammalano i corpi non poteva essere pensata che da soggetti che credevano
d’essere degli oggetti del mondo. Certo, anche molto prima dell’affermarsi della scienza
esistevano psicosi, nevrosi e perversioni, ma queste forme patologiche, benché fossero
perfettamente descritte, come lo sono nei nostri trattati, venivano pensate come effetti di
disordini naturali o morali, oppure – ma è lo stesso – come il risultato d’influenze diaboliche.
Esistevano i sintomi, ma non per questo esisteva una psicopatologia. Questa, però, oggi esiste
senza dubbio, perché noi crediamo che ci sia, dal momento che la psichiatria, la psicologia e
la psicanalisi hanno fatto sé che lo credessimo. Eppure, dal punto di vista strettamente
scientifico, non esiste nessuna malattia. La malattia esiste solo per la ragione pratica, che
preferisce pensare come un difetto momentaneo un’entità scomoda ed enigmatica che
potrebbe essere pensata in un modo più radicale solo al di fuori dai limiti di questa ragione.
Diciamo che una pianta s’è ammalata quando non produce più frutti e muore; ma la malattia
d’una pianta è spesso la salute d’un’altra. Diciamo malato un organismo perché non svolge
più le sue normali funzioni; ma ammalandosi esso svolge una funzione altrettanto vitale, ch’è
quella di trasformarsi, attraverso la morte, in un altro organismo o in qualcosa che a noi pare
privo di vita. Quando però dobbiamo definire che cos’è la malattia mentale, il nostro compito
è molto più difficile, e perciò ci guardiamo attorno imbarazzati. Infatti siamo sicuri, pensando
che vi sia, d’essere nel giusto, eppure non sappiamo dire perché lo siamo. Ora, come mai
Freud, che pure ha dato un contributo imprescindibile alla fondazione della moderna
psicopatologia, notava che la normalità, in fondo, non è altro che una specie di media
aritmetica fra le patologie? Forse che la malattia mentale non esiste, come hanno sostenuto
alcuni psichiatri, o forse essere un soggetto è già, di per sé, una malattia? O addirittura la
ragione pratica stessa, in quanto tale, lo è? Dovremmo allora guarire dalla ragione pratica,
insomma dal nostro stesso desiderio patologico?

231. L’unica vera «malattia mentale» è il linguaggio, nella misura in cui crediamo che ci
risparmi d’impegnarci nella nostra parola. Il linguaggio è il vero agente patogeno di cui il
soggetto «s’ammala». Eppure senza questa malattia non esisterebbero soggetti. È certo che il
modo più sicuro per guarire un malato è di farlo morire. Dovremmo dunque guarire dal
linguaggio? Naturalmente questi sono paradossi, ma paradossi che si pongono, che lo si
voglia o no, ogni volta che consideriamo la malattia come un’entità naturale. Eppure una
gastrite o un raffreddore non hanno più entità oggettiva d’una fobia o d’un delirio. Il vero
scopo della medicina dovrebbe essere di curare i soggetti. Perché non dovremmo sognare
ospedali nei quali qualcuno si prendesse cura di noi, invece che soltanto delle nostre ossa rotte
o dei nostri virus? Nei quali essere malati potrebbe essere dolcemente istruttivo, visto che
niente è più istruttivo della malattia? La malattia è un ripiegarsi del corpo su se stesso, è la
pietà che il corpo ha per se stesso. Anche la malattia «mentale» potrebbe essere questo, un
ripiegarsi della mente, per ascoltare, in se stessa, una voce dimenticata, lontanissima, e che
pure mormora qualche verità essenziale. Questa voce che giunge dall’esterno, anche quando
sembra essere l’invasione del soggetto da parte del linguaggio, tiene il posto della voce
segreta del soggetto, perché in definitiva dice le stesse cose che egli non può dire, in quanto
sarebbe troppo penoso ammettere di saperle. Pur essendo sempre l’indizio d’una mancata
soggettivazione, la malattia «mentale» è comunque un indizio di salute, e questo è vero anche
per i deliri più gravi e generalizzati. Di fatti, quando pensiamo d’essere ammalati, è perché
stiamo guarendo. Quelle che chiamiamo le malattie mentali non sono altro che i sintomi d’un
tentativo di guarigione dalla malattia vera, ch’è la desoggettivazione nel linguaggio.
232. Ora, rispetto a queste poche, schematiche considerazioni, quale dovrebbe essere lo
scopo della psicanalisi? Guarire i sintomi, in queste condizioni, significa in realtà, se questa
guarigione non è l’effetto d’un rapporto davvero nuovo fra il soggetto, il suo sapere e la sua
azione, soltanto confermare il soggetto stesso nella sua malattia, o radicarlo ancora più di
prima nelle vanità delle significazioni, arricchendole, se mai, soltanto di qualche stendardo
immaginario (per esempio quello della «causa» della psicanalisi). Certo, finora quest’ultima,
sia pure tentennando, è stata ben consapevole delle particolarità del suo compito. Non si
troverà mai un analista degno di questo nome che ammetta che il suo dovere è semplicemente
di ricondurre i soggetti alla normalità, perché gli analisti sanno meglio di chiunque altro
quanto sia problematico questo concetto. Ma, in fondo, la poca chiarezza che vige su di esso
in psicanalisi, e che ha fatto sé che venisse praticamente abbandonato, deriva da una diplopia
del terapeuta, sempre fisso con un occhio al soggetto ed al suo desiderio, e con l’altro alla
legge del linguaggio e delle convenzioni. Ma il groviglio si scioglie solo se rinunciamo a
mantenere entrambi questi punti di vista inconciliabili. Normalità può essere,
soggettivamente, solo essere in grado, soggettivamente, d’abitare il linguaggio, cioè agire
attraverso o nonostante il linguaggio. In altri termini, normalità, per un soggetto, è essere in
grado di correre il rischio di stabilire da sé che cosa, per lui, debba intendersi come normalità.
Condurre a questo punto un soggetto è lo scopo della pratica analitica. Quando questo scopo è
raggiunto, il compito dell’analisi può e deve dirsi esaurito.

233. Certo, non sempre o assai di rado ci sono condizioni soggettive ed oggettive tali da
permettere di giungere realmente a questo punto. Inoltre, credere che il compito della
psicanalisi s’esaurisca qui sarebbe come credere che quello della medicina sia soltanto di
curare le malattie, senza preoccuparsi di prevenirle. È evidente invece che, senza una
compiuta educazione sanitaria, il compito della medicina sarebbe disperato, e che dunque il
compito educativo fa parte a tutti i titoli di quello della medicina. Ora, perché l’educazione
non dovrebbe rientrare fra i doveri della psicanalisi? Ma, si dirà, questo è assai più difficile,
perché l’educazione, che riguarda la capacità dei soggetti d’abitare il linguaggio, è piuttosto
un problema che coinvolge la p¢lis nel suo complesso. E tuttavia perché mai Platone avrebbe
pensato a suo tempo d’affidare la p¢lis ai filosofi, se non fosse stato per questo? Esiste forse
un compito più alto di quello veramente politico che consiste nel regolare il rapporto che i
soggetti hanno con il linguaggio, cioè con la città nel suo complesso? Certo, è molto più
semplice, per gli psicanalisti, chiusi nel loro studio, occuparsi di coloro che li vanno a trovare,
senza pensare a quali siano le coordinate generalmente politiche della loro azione. Forse non è
possibile che facciano di più. Ma perché non dovremmo pensare ad una psicanalisi che
riconosca anche il proprio compito politico? Non sto affatto parlando d’una «applicazione»
della psicanalisi alla politica. Una politica ripassata in psicanalisi sarebbe un altro trionfo
dell’oscenità contemporanea, e questa oscenità ci è stata, fino ad ora, risparmiata (benché non
ci sia stata affatto risparmiata quella contraria, per fortuna molto più innocua, della psicanalisi
ripassata in politica). Sto parlando invece della possibilità che gli analisti pensino
concretamente il proprio compito in termini politici, vale a dire in rapporto alla città.

234. La psicanalisi è sorta in un certo momento della storia, e sicuramente cesserà


d’esistere in un altro. C’è da augurarsi solo che finisca per il fatto d’avere esaurito il proprio
compito, e non per motivi esterni che la cancellino, o per una sua incapacità di sostenere il
confronto con la sfera politica. Oggi che una legge prevede, per chiunque si occupi di
qualcosa di «psico-», una preparazione universitaria, questo pericolo è ben poco astratto, e
non è difficile prevedere che la psicanalisi scomparirà, in Italia, entro pochissimi anni, se essa
non verrà del tutto ripensata e riformulata in termini che non siano psicologici. Certo, la
psicanalisi dovrebbe tendere verso il suo esaurimento, perché il suo scopo è la propria fine,
come lo scopo di ciascuna singola esperienza analitica è di mettere in grado un soggetto di
fare a meno dell’esperienza analitica. Ma per potersi esaurire in questo modo essa dovrebbe
prima niente meno che divenire il nucleo di pensiero d’una scienza nuova, ed avere perciò
anche qualche effetto realmente politico. Con quello che oggi significa quest’ultimo
aggettivo, bisogna riconoscere che quanto proponiamo ha i tratti d’un’ambizione così sfrenata
che potrebbe apparire folle superbia se fosse sufficiente, per mantenere la psicanalisi
all’altezza delle sue premesse, essere più modesti nelle proprie pretese, dal momento che
tutto, nella politica e nella psicanalisi, oggi sembra andare precisamente nella direzione
contraria a quella che auspichiamo. Naturalmente, per poter pensare le cose in questi termini,
occorrerebbe concepire il compito della psicanalisi in una prospettiva molto diversa, molto
più vasta di quella che gli psicanalisti adottano di solito. Tale prospettiva politica, nel senso
sopra accennato, era tuttavia già quella di Freud. Scritti come Psicologia delle folle e analisi
dell’io o Il disagio nella civiltà non avrebbero avuto alcun senso al di fuori di tale prospettiva.
Ma perché la psicanalisi possa farla propria, divenendo davvero una forma di quella «grande
educazione» della quale parlava Nietzsche, è indispensabile prima che ogni analista rifletta su
quali sono i presupposti logici e le conseguenze pratiche della propria azione. A questo, ed a
nient’altro che a questo, tende la nostra ipotesi di fondazione trascendentale della teoria
analitica.

235. Se, come abbiamo proposto, la psicanalisi potrebbe essere l’unica medicina rigorosa,
perché l’unica che non fuorcluda dal campo della propria esperienza l’oggetto di cui una
medicina rigorosa deve prendersi cura, vale a dire il soggetto, resta da dimostrare che la
clinica psicanalitica può essere dedotta a priori dal presupposto trascendentale che abbiamo
fissato sin dall’inizio come quello dell’impossibilità per il soggetto di conoscersi se non come
oggetto. Ciò significa che resta da dimostrare che una clinica possa essere dedotta da un’etica.

236. Il senso di quella che abbiamo chiamato l’antinomia della ragione pratica si chiarisce
se la consideriamo in termini di lutto. S’è dell’oggetto perduto che si tratta nel desiderio
patologico, questo desiderio è sempre la conseguenza d’un lutto. Ma abbiamo visto che in
realtà l’oggetto perduto, nelle quattro tappe della sua costituzione, è solo una metafora
dell’appartenenza del soggetto a se stesso. Perciò il lutto di cui si tratta nel desiderio non è
davvero il lutto per l’oggetto, ma è più precisamente il lutto, che il soggetto deve elaborare,
della morte di cui vive per la propria divisione. Thanatos ed Eros sono i nomi che hanno
trovato in Freud queste funzioni fondamentali: la tendenza del soggetto a risanare la propria
divisione appare come Eros, la persistenza di questa divisione anche in ogni atto teso a
superarla si configura invece come Thanatos.

237. Entrambe le pulsioni, per Freud, possono essere ricondotte allo stesso principio
d’inerzia, che agisce però a livelli diversi: la pulsione sessuale si configura come un voler
persistere della vita in se stessa, la pulsione di morte come una sua volontà di tornare a un
livello di minore complessità. Entrambe le pulsioni non sarebbero così altro che la memoria
d’uno stato dell’essere. Ma è subito evidente che solo in un tempo assoluto questa memoria ha
una sua ragione d’essere. Se invece consideriamo il tempo non come la causa, ma come
l’effetto della divisione soggettiva, vediamo che «pulsione» diventa un termine subito caduco,
perché diviene inutile tutto l’armamentario dei concetti energetici. Come in fisica non ci si
stupisce del fatto che un corpo, se non è determinato da forze esterne, tende a mantenere
indefinitamente il suo stato di quiete o di moto, anche senza nessun apporto energetico (e
questo è spiegabile solo se non esiste un sistema di riferimento assoluto: un corpo in moto non
è in moto assolutamente, ma solo rispetto ad un altro sistema di riferimento), così non ci
dovrebbe essere bisogno di particolari concetti energetici per spiegare ciò che appare come
pulsione solo perché è riferito ad un sistema meccanico di forze. Che il movimento richieda
uno sforzo – e quindi si contrapponga alla quiete – è un’idea che dipende dal privilegio che
hanno acquisito i sistemi statici di riferimento nelle nostre rappresentazioni dei movimenti.
Ma questo privilegio della statica è un effetto di linguaggio, poiché l’unica stasi è quella
introdotta dal significante, in quanto esso ha esattamente la funzione di far risparmiare al
soggetto del movimento.
Ciò non significa tuttavia che si debba rinunciare al concetto di pulsione, come non si deve
rinunciare al concetto d’inconscio per il fatto che abbiamo constatato come esso si riferisca in
definitiva agli effetti che ha sul soggetto il meccanismo generale ed insensato della
significazione quando questa è separata dal senso. L’importante è ricordarsi che l’uno e l’altro
corrispondono alle ipotesi che Freud formulò per spiegarsi alcuni fatti clinici. In una scienza
nuova della soggettività, dedotta in modo trascendentale, questi concetti potrebbero forse
divenire superflui. Comunque sia, è certo che essi sono un supporto importante, per l’analista,
quando riflette sulla propria esperienza, mentre non è affatto certo che altri concetti, anche se
trascendentalmente fondati, sarebbero, per lui, altrettanto utili. Non c’è dubbio comunque che
questa facilità è rischiosa, perché gli analisti sono continuamente indotti a dimenticare la
natura ipotetica di questi concetti, sostanzializzando così delle formulazioni che hanno
un’utilità prima di tutto operativa. Gli analisti si comportano spesso come dei matematici che
credessero che i numeri immaginari esistono davvero, perché vengono usati nei calcoli. Certo,
essi esistono come scritture, ma non esiste nessuna entità reale che corrisponda ad esse.
Percorrere questa strada, che poi è quella che fa della psicanalisi un sapere regionale e del
tutto separato dal campo della scienza, porta la teoria analitica a divenire un vero e proprio
delirio scientifico, perché viene dimenticata del tutto la prospettiva teorica ed etica nella quale
essa viene ad operare.

238. Ora, che ne sarebbe del concetto di lutto se provassimo a pensare in termini non
statici? Come potremmo pensare la perdita se provassimo a pensare il tempo non come una
funzione uniforme, e dunque assoluta, ma come una funzione retroattiva? Se il passato è una
proiezione del presente, in quanto, nel presente, il soggetto si divide da se stesso, è evidente
che l’oggetto perduto e il tempo sono la stessa cosa. L’oggetto perduto, cioè l’oggetto del
lutto, è ciò che rappresenta al soggetto la sua divisione. Il passato non è altro che la
percezione della divisione costitutiva del soggetto, pensata come irreversibile, mentre il futuro
non è altro che la percezione della possibilità d’una reversione di tale irreversibilità. Il lutto e
il desiderio sono i due tempi d’uno stesso processo, e sono due conseguenze parallele della
divisione soggettiva. Ma mentre il desiderio apre ad una soggettivazione del tempo (nel tempo
lineare il futuro è il tempo della soggettivazione, perché il futuro è il non reale, dunque il
soggettivo), il lutto è il tempo come reale, dunque come non soggettivo (perché nel tempo
lineare il passato è immodificabile, e quindi totalmente desoggettivato). Certo, stiamo
escludendo da questa considerazione sia la nostalgia del passato, sia l’accettazione della
morte, con le quali però usciamo dal tempo della significazione, per entrare nel vero senso
della temporalità. Ma entrarvi non significa di certo escludere il lutto e il desiderio dal proprio
orizzonte etico, perché anche nel tempo lineare della significazione il senso della temporalità
lascia una traccia consistente nella consapevolezza della caducità. Anche nella concezione
lineare, in ogni caso, il tempo s’apre in relazione al desiderio, e quest’apertura si paga in
termini di lutto.
Ma come intendere, in questo contesto, il presente? Esso è il tempo della divisione, che si
sperimenta come angoscia se lo si pensa come la soglia del divenire reale del futuro (cioè del
suo divenire passato), ma si sperimenta come gioia ogni volta ch’è invece il passato a
risoggettivarsi, ogni volta che al soggetto riesce di riscattare il passato, pensandolo come
ancora eventuale. Quest’ultimo pensiero – senza dubbio il più difficile da pensare nelle
coordinate d’un tempo assoluto – è la più alta forma del dir di sé, la più ardua risoluzione del
lutto. Questo pensiero è, per così dire, la pietra di paragone del senso. Elaborare un lutto
significa soggettivare la perdita, dire di sé a quel ch’è stato in quanto è stato, volerlo ancora di
nuovo. L’elaborazione del lutto è amor fati. Ma essa richiede una difficile opera e una
complessa ascesi. La ragione pratica, cioè quella patologica, è la ragione all’interno delle cui
coordinate la risoluzione del lutto è impossibile.

239. Dobbiamo concepire la clinica psicanalitica non come l’indice più o meno ragionato
dei quadri sintomatici e delle indicazioni e controindicazioni terapeutiche, ma come la mappa
dei tentennamenti, delle esitazioni e degli smarrimenti della ragione pratica posta dinanzi
all’antinomia, che la costituisce, fra la inevitabilità della perdita e la inevitabilità del
desiderio, cioè del rifiuto della perdita. Dobbiamo considerare la clinica come la descrizione
non solo induttiva, ma anche deduttiva, in senso trascendentale, delle impossibilità che la
ragione pratica incontra nell’elaborazione del lutto che la definisce come ragione desiderante.
La clinica psicanalitica dev’essere, per così dire, la fenomenologia dell’illusione della ragione
pratica. Per questo, come abbiamo accennato in precedenza, essa è il campo privilegiato del
giudizio (la clinica deve contenere una «critica del giudizio»). L’impostazione trascendentale
appare decisiva per mettere la clinica psicanalitica al riparo dall’arbitrarietà che sarebbe, per
essa, l’assunzione d’un qualunque modello di normalità. Infatti, in mancanza d’una
fondazione trascendentale, la clinica avrebbe da opporre, alla ragione pratica, cioè alla ragione
del sintomo (al fantasma), solo un altro sintomo ed un altro fantasma, cioè una qualunque idea
– o ideologia – di che cosa sarebbe, per il soggetto, un bene (in senso patologico).

240. Infatti, in nome di che cosa agisce la psicanalisi, visto che non può fondarsi su un
desiderio proprio da opporre al desiderio del soggetto, il quale si significa nel sintomo, e visto
che non può fondarsi su nessuna idea precostituita di norma e di normalità? La sua azione,
anche terapeutica nel senso più ristretto, deve necessariamente fondarsi su un’etica, che
tuttavia la psicanalisi non può prendere a prestito. La clinica dev’essere dedotta dall’etica
della psicanalisi, e l’etica della psicanalisi dev’essere dedotta dall’etica tout court, perché la
psicanalisi non è una metafisica. Ma l’etica e la metafisica sono, come le scienze, benché a un
diverso livello, parti della scienza nuova della soggettività. Proprio per questo anche la clinica
dev’essere fondata trascendentalmente. Infatti, che cos’ha da opporre l’analisi alla ragione del
sintomo? Che cosa, per esempio, ci autorizza a dire che il lavarsi le mani cento volte al giorno
è un sintomo ossessivo? Certo, il soggetto stesso avverte questa sua abitudine come una
costrizione incomprensibile. Eppure egli ha tutte le ragioni per continuare a lavarsi, dal
momento che lo sporco che si sforza di cancellare non è di quelli che l’acqua possa togliere.
L’isterico ha ragione, a sua volta, a voler gridare la propria verità, nella menzogna dalla quale
è circondato, e lo psicotico a volersi creare un mondo più sopportabile, nel quale orientarsi,
benché solo attraverso il delirio.

241. Eravamo partiti, all’inizio di questo libro, dalla rievocazione dello scritto freudiano
sulla Caducità. Avevamo visto che Freud vi evoca il concetto nietzschiano dell’eterno ritorno.
Tale evocazione, tuttavia, nello scritto di Freud, è riportata, come per un effetto di
spostamento, e quindi di censura, su qualcosa d’inessenziale ed anzi, in fondo, d’erroneo. Di
fatti, l’eterno ritorno non ha nulla a che vedere con il ripetersi delle stagioni: il ritorno delle
fioriture primaverili non è affatto eterno, ma è solo una ripetizione ciclica perfettamente
concepibile in un tempo unidirezionale. Freud non poteva essere un così cattivo conoscitore di
Nietzsche da pensare che l’eterno ritorno fosse questo. A partire da quanto abbiamo invece
supposto in queste pagine, appare evidente che il termine nietzschiano è molto più adatto ad
indicare proprio il concetto freudiano dell’elaborazione del lutto. «Il valore di tutta questa
bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva,
non ha bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta».
La concezione etica della caducità che Freud adotta consiste nell’accettazione della caducità
come condizione di qualsiasi valore eventuale. Ora, è proprio questo l’«eterno ritorno»: dir di
sé (dar senso) alla mancanza come condizione della «trasvalutazione», cioè dell’invenzione di
valori. Ciò che ritorna, nell’eterno ritorno, non è tanto un tempo senza fine, ma proprio il più
caduco, l’istante, perché l’istante è già l’eternità. Freud, in questo breve scritto, ha una ragione
da opporre al patologico solo perché dimostra di riuscire a trasformare il lutto della caducità –
della necessaria finitudine soggettiva, quindi della divisione del soggetto – in una strana ma
tranquilla gioia, che implica non solo l’accettazione della perdita (che sarebbe mera
rassegnazione), ma anche la propria riaffermazione. Nell’«eterno ritorno» ciò che viene
ritrovato «eternamente» è l’oggetto del lutto, cioè l’oggetto perduto in quanto identico, come
abbiamo sostenuto, al tempo come «tempo perduto».
Ora, è sullo sfondo di questa ardua possibilità etica che dobbiamo misurare l’insufficienza
della ragione pratica, cioè del patologico, nei quattro modi del dir di no alla perdita nei quali
prende forma il prevalere del linguaggio sul soggetto. Fuorclusione, rimozione, sconfessione e
denegazione costituiscono ora per noi un vero e proprio filo conduttore trascendentale in base
al quale dedurre brevemente le quattro forme patologiche fondamentali: le psicosi, le nevrosi
da transfert, le perversioni e le psiconevrosi narcisistiche. Quanto accenneremo dunque su
questa quadripartizione clinica di fondo non aspira certo ad esaurire il campo vastissimo della
patologia, ma solo a situare le sue configurazioni essenziali rispetto alla quadripartizione dei
modi del dir di no, sui quali ci siamo soffermati in precedenza. Per uno sviluppo della parte
clinica del nostro percorso rimandiamo invece alla Formazione e soprattutto al Mito di Crono.

242. Mettendo la fuorclusione a capo del problema delle psicosi, riprendiamo l’essenziale
della tesi di Lacan, compendiata in una celebre formula: «Perché la psicosi si scateni, bisogna
che il Nome del Padre, verworfen, fuorcluso nel luogo dell’Altro, vi sia chiamato in
opposizione simbolica al soggetto». Ciò significa che nelle psicosi il sistema simbolico tende
a ridursi al linguaggio in quanto tale. Il soggetto potrà dunque sostenersi nel linguaggio finché
continuerà a «dire quel che dicono tutti»; ma, nel momento in cui sarà sollecitato a prendere la
parola, nel senso della parola che impegna, non troverà nulla che possa sostenerlo in questo
compito e non potrà segnalare la propria presenza reale di soggetto in un universo simbolico.
Lo scatenamento della psicosi (l’inizio del delirio) corrisponde al momento in cui, in
mancanza della possibilità d’intervenire soggettivamente con la propria parola, la
significazione in quanto tale sarà sollecitata a rendere ragione d’un senso. La significazione
messa al posto del senso è il delirio psicotico. Il delirio è psicotico (nettamente distinguibile in
questo dalle produzioni deliranti che possono riscontrarsi nelle nevrosi) ogni volta che l’altro
è supposto volere far sapere qualcosa al soggetto, ogni volta che al soggetto s’imporrà di fatto
una significazione.

243. Nella nevrosi questa situazione è esattamente rovesciata. Qui non è l’altro che vuole
far sapere al soggetto, ma al contrario il soggetto che vuole far sapere, che vuole imporre
all’altro – segnatamente a quell’altro che meglio può incarnare per lui questa funzione: il
soggetto supposto sapere del transfert – una significazione: quella che, come soggetto, egli
suppone di dover necessariamente avere per l’altro. Questa volontà d’imporre una
significazione costituisce la chiave di volta del transfert. Il termine «nevrosi da transfert»
(Übertragungsneurose), con cui Freud riunì la nevrosi d’angoscia, l’isteria da conversione e
la nevrosi ossessiva, esprime il fatto che il transfert costituisce non solo l’elemento comune,
ma anche quello determinante della struttura di queste nevrosi (il transfert è infatti, come
abbiamo già accennato, il meccanismo che consente la rimozione).

244. Nel passaggio dalla struttura psicotica a quella delle nevrosi da transfert abbiamo
assistito ad un ribaltamento dei ruoli fra il soggetto e l’altro riguardo alla funzione del sapere:
nella psicosi è l’altro che vuole far sapere al soggetto, nelle nevrosi da transfert accade
precisamente il contrario. Un ribaltamento analogo si produce nel passaggio dalla struttura
della nevrosi da transfert a quella perversa. L’aforisma freudiano secondo il quale la nevrosi è
la negativa della perversione dovrebbe intendersi nel senso d’un simile ribaltamento di
struttura. Mentre per il soggetto, nella nevrosi da transfert, è sempre un altro a detenere, come
soggetto supposto sapere, il segreto dell’essere del soggetto, per cui tutta l’azione soggettiva
consisterà nella domanda all’altro, nella perversione l’altro è ridotto a semplice pretesto
dell’azione. L’altro della perversione non ha in sé nulla di soggettivo, e non è che il muto
supporto d’un’azione.

245. Se nella distinzione fra psicosi, nevrosi e perversioni abbiamo finora adottato la
classificazione nosografica più comune in psicanalisi, raccogliere in un quarto gruppo le
psiconevrosi narcisistiche come nettamente distinte sia dalle psicosi sia dalle nevrosi da
transfert è invece prendere posizione su un punto molto controverso, e sul quale Freud stesso
appare estremamente cauto. Eppure proprio Freud, nel 1923, considerava la melanconia come
una forma di psiconevrosi narcisistica, distinta appunto dalle nevrosi da transfert e dalle
psicosi (su questo punto ci siamo soffermati molto più lungamente altrove). Abbiamo già
visto che l’essenziale nel delirio psicotico è che una significazione viene imposta al soggetto
da un altro che vuole far sapere qualcosa, e che perciò la situazione espressa nel delirio
psicotico è esattamente inversa rispetto a quella manifestata nel sintomo nevrotico, nel quale è
invece il soggetto che vuole far sapere all’altro e che si fa carico d’esprimere per lui una
significazione che gli mancherebbe. Possiamo constatare facilmente, invece, che nel delirio
melanconico è del tutto assente questo predominio della significazione. Non c’è, qui, un altro
che vuole far sapere al soggetto, né ci sono quei disturbi del linguaggio che caratterizzano le
psicosi. Al contrario, la struttura del delirio melanconico è simile a quella del sintomo
nevrotico, perché è ancora il soggetto che ha qualcosa da far sapere ad un altro. Consiste in
questo quella «costellazione psichica di rivolta» della quale parla Freud in Lutto e
melanconia. L’aspetto rivendicativo e aggressivo del delirio melanconico, nonostante
l’autodenigrazione, è del tutto manifesto. L’autopunizione melanconica è sempre anche una
punizione per qualcuno. Ora, se nella psicosi la mancanza fondamentale riguarda un
significante fuorcluso, la mancanza nella melanconia riguarda invece l’oggetto (sta in questo
il perno dell’interpretazione freudiana). Qualcuno e non, come nella psicosi, un significante, è
venuto a mancare al soggetto, e il soggetto, non potendo elaborare il lutto di questa perdita, è
costretto a denegarla (e già qui il meccanismo della Verneinung si dimostra fondamentale
nella melanconia). Egli lo fa mettendosi nel posto dell’oggetto perduto («l’ombra dell’oggetto
è caduta sull’io»), e rivolgendo a se stesso tutti i rimproveri e le accuse che avrebbe dovuto
rivolgere all’oggetto.
Libro quarto

LA RAGIONE ETICA
I. I maestri e gli allievi

246. Difficilmente riusciamo a capire perché i pittori, per il semplice fatto d’usare dei colori,
cioè delle sostanze minerali, fossero iscritti, nel medioevo, nelle corporazioni dei medici e degli
speziali. La materia è, per noi, l’ultima cosa dell’arte. È probabile che i pittori d’oggi non
sappiano neppure con che cosa sono preparati i colori che escono, squillanti, dai tubetti, a una
leggera pressione delle dita, e che i nomi esotici e affascinanti che portano non li rimandino più,
come indizi preziosi, ma che hanno perso ormai ogni contorno preciso, alle loro origini remote e
leggendarie. Un tempo, quando queste sostanze erano ancora oggetti di natura (polveri, pietre da
macinare, estratti di tronchi o d’insetti mai visti, perché esistevano solo in regioni lontanissime),
i gialli e i bruni ricordavano immediatamente le terre con cui venivano preparati, i neri facevano
subito pensare al fumo od alla vite, mentre gli azzurri meritavano i nomi preziosi d’oltremare e
cobalto, come i rossi i nomi pomposi di vermiglione e carminio. Nelle botteghe dei pittori
continuavano ad affluire i prodotti dell’oriente, le gomme trasparenti e profumate, le colle per
preparare le quali si cuocevano pelli, e tutte le sostanze con le quali si producevano le vernici,
con ricette segrete. Nelle botteghe, i discepoli macinavano, filtravano, sciacquavano le polveri, le
impastavano con oli profumati, stendevano le imprimiture candide sulle tele e sulle tavole,
s’esercitavano a copiare col carbone, sui muri (perché la carta costava), i modelli dei maestri.
Leonardo fu educato in una di queste botteghe. Il rapporto fra scienza e pittura, in lui, ci resta
incomprensibile se non teniamo conto di questo. Il campo delle scienze naturali dovette
aprirglisi, in principio, come un riflesso del sapere delle pietre e degli erbari. Le rocce che
compongono i fondali dei suoi quadri e i paesaggi remoti, velati dalla nebbia, sui quali si
profilano i sorrisi silenziosi e le mani aperte in gesti enigmatici delle sue figure non sono ancora
oggetti di natura come noi li intendiamo, perché sono concrezioni di senso. I muscoli, i tendini,
le ossa dell’anatomia degli artisti non sono meccanismi come appaiono a noi, ma linee di forza,
depositi di sensazioni e movimenti. La natura era il tempo, e la pittura, figlia del tempo, generò
le scienze naturali. L’anatomia non nacque dalla medicina, ma dall’esigenza di rappresentare il
corpo in movimento in pittura; la geometria non si sviluppò nelle scuole, ma nelle botteghe dei
pittori. Un’esperienza viva del corpo (del senso) generò dal suo seno quelle scienze che ora,
perduto ogni rapporto con la loro origine lontana, seguono ormai ciascuna la sua strada.

247. Nelle botteghe, nonostante il fatto che si seguissero delle modalità d’insegnamento del
tutto artigianali, la fedeltà ai maestri necessariamente inclusa in questo tipo di trasmissione non
impedì mai agli allievi migliori d’innovare e d’inventare, ma sempre su basi solidissime, creando
forme nuove e straordinarie. Non ci si sentiva obbligati ad essere dei geni, perciò non ci sono
mai stati tanti geni come nei secoli in cui la pittura s’eseguiva in modo artigianale. Poi, nel
secolo dei lumi, alle botteghe si sostituirono le accademie, che pretendevano d’insegnare l’Arte:
segno indiscutibile del fatto che l’arte era ormai una cosa del passato. Ciò comportò che non ci
furono più maestri, né allievi, ma solo scuole. Si cominciò a dire che bisognava imparare l’arte
dalla natura, dimenticando che anche la natura era figlia dell’arte (e ci volle Oscar Wilde per
riscoprirlo). Perciò i maestri da imitare furono ormai soltanto quelli del passato. La scuola,
l’accademia, è l’esatto contrario della bottega. Gli allievi stavano a bottega per aiutare e
imparare, cioè imparavano facendo, che poi è l’unico modo d’imparare; nelle accademie, invece,
si sarebbe dovuto imparare per fare, un domani, qualcosa di mai fatto. Così l’arte, lentamente, si
spense. Certo non sono mancati i pittori, ma s’è spenta la tradizione dell’arte: quella profonda,
muta, sotterranea corrente dalla quale era stato possibile attingere i movimenti consumati e
sapienti della grande pittura.

248. Quando Freud cominciò a porsi il problema della trasmissione della psicanalisi, fu subito
evidente che le strutture della cultura ufficiale – le università – non sarebbero state adatte a
questo scopo, e non soltanto per l’ostilità con cui accolsero le teorie psicanalitiche. Trattata come
un sapere qualunque, la psicanalisi si sarebbe irrigidita subito in una fissità mortale. Per la sua
natura bifronte, derivante dal fatto d’essere il frutto più maturo della modernità, ma anche il
prodotto inatteso d’una saggezza antica, la psicanalisi si trovò d’improvviso ad essere l’unico
sapere del nostro tempo che non potesse rientrare nei consueti schemi di trasmissione dei saperi
moderni. Freud affrontò immediatamente questo problema, riunendo ogni mercoledì sera attorno
ad un tavolo i suoi allievi. Più tardi, con l’estendersi del «movimento», questa prima soluzione
divenne inadeguata. Nacque così l’associazione che avrebbe dovuto garantire, dopo di lui, la
trasmissione dell’esperienza. Ma proprio all’interno di questa avvennero le prime rotture (Adler,
Jung). L’associazione, tuttavia, resistette. Un’associazione, comunque, non è il luogo più adatto
per insegnare qualcosa. Le associazioni, come le corporazioni medievali, servono a garantire
gl’interessi d’un gruppo ed a sancire le modalità d’accesso al gruppo stesso, non a garantire la
formazione degli allievi. La corporazione degli speziali non poteva assicurare, a Firenze, la
formazione dei giovani pittori; per questo ci volevano le botteghe degli artisti. Per una legge
interna all’organizzazione del sapere, per la psicanalisi vale un principio analogo. Quando, agli
inizi degli anni Cinquanta, Lacan cominciò a tenere, dapprima nel suo studio, il Seminario, fu
subito chiaro che questo, ch’era sorto sul modello della collaborazione d’un maestro con una
cerchia, in principio ristretta, d’allievi, introduceva nell’istituzione fondata da Freud un elemento
di rottura che questa dimostrò di non essere in grado d’assorbire. Fu così che la «bottega» di
Lacan fu costretta a sua volta a diventare istituzione. È difficile che la psicanalisi, sottoposta
com’è a due esigenze contrarie – da una parte quella corporativa, dall’altra quella formativa –,
riesca a far fronte ad entrambe nello stesso tempo. I problemi dell’istituzione non sono quelli
della formazione. Si aggiunga a questo che, installando nel cuore della modernità quel qualcosa
d’arcaico che la definisce, la psicanalisi accende facilmente delle cieche passioni, non fosse che
per gli effetti del transfert. Quando l’amore s’immischia nelle istituzioni, le istituzioni diventano
selvagge. La psicanalisi non ha ancora risolto questo problema fondamentale della sua
trasmissione.

249. Zarathustra aveva alcuni allievi, ma un giorno si stancò di loro. Decise d’abbandonarli, e
disse loro di dimenticarlo, anzi di vergognarsi di lui. Aggiunse che ripaga male il proprio
maestro chi rimane sempre un allievo, e se ne andò verso i monti. Freud non fece mai questo, né
lo fece Lacan. Anche quando sciolsero le loro associazioni e le loro scuole, lo fecero per
rifondarne delle altre. In effetti, gli analisti non sono saggi antichi, responsabili solo di se stessi e
della loro parola. La psicanalisi è ancora troppo una professione per permettere ai maestri di
comportarsi in questo modo. Sta di fatto che né Freud né Lacan né nessun altro ha mai detto:
vergognatevi di me, dimenticatemi. Freud diceva: io solo posso dire che cos’è o non è
psicanalisi. Più modestamente, invece, Lacan diceva: sta a voi decidere se volete essere
lacaniani; per me, io sono freudiano. In effetti, la psicanalisi, se vuol essere tale, non può essere
che freudiana.

250. Ciò non significa che, da Freud, Lacan non si sia distaccato in nessun punto, tutt’altro.
Lacan ha reinventato la teoria di Freud. In questo, s’è dimostrato ottimo allievo. Forse perché,
personalmente, non ha mai avuto a che fare con Freud? Ci sono maestri ai quali è meglio non
avvicinarsi troppo, come la farfalla alla fiamma, per non bruciarsi le ali. Un vero allievo sa
rifiutare il maestro, «vergognarsi di lui». Lacan, comunque, non è sempre freudiano.
Consideriamo la fobia, per esempio. Su questo argomento Lacan s’è distaccato nettamente da
Freud, e perciò esso mostra chiaramente come il suo insegnamento non sia mai consistito in un
semplice restauro. Qui egli non è indietreggiato dinanzi al compito d’indicare le insufficienze
della teoria freudiana. È preferibile mostrarlo a partire da un caso non esposto da Freud, ma da
una sua allieva, Helene Deutsch. È infatti sempre nell’opera dell’allievo che risaltano meglio le
eventuali lacune delle teorie del maestro, ogni volta che il primo si prova ad applicarle senza
reinventarle, come teorie divenute mere significazioni, e che hanno perduto ogni rapporto con le
condizioni in cui furono formulate originariamente.

251. Esponiamo brevemente il caso, sulla traccia dei dati forniti dalla Deutsch. È da notare
prima di tutto che la fobia di cui si tratta è stata solo un episodio limitato nel tempo, benché
molto importante, nella storia del soggetto. Essa era sorta un giorno d’estate in cui egli, a sette
anni, giocava col fratello maggiore dinanzi alla loro casa in campagna. Durante il gioco, il
fratello lo aveva afferrato alla vita e, come in un’aggressione sessuale, tenendolo sotto di sé, gli
aveva detto: «Io sono il gallo e tu sei la gallina», provocando in lui una ribellione sproporzionata
all’offesa. Da qui proviene la fobia per le galline, ma non immediatamente: dapprima si tratta per
lui solamente d’evitare d’incontrarne in presenza del fratello maggiore, che non si lascia sfuggire
l’occasione di ripetergli: «Tu sei la gallina». Gradualmente, sostiene Helene Deutsch, ciò lo
porta ad una vera e propria fobia delle galline, destinata a durare due anni, fobia particolarmente
fastidiosa nella casa in cui vive il bambino, in campagna, e quindi letteralmente assediata da
questi oggetti di risibile orrore. La fobia tuttavia dilegua come per incanto non appena il fratello
maggiore si trasferisce in città per compiere i suoi studi, pur riaccendendosi ad ogni suo ritorno.
Essa svanisce in parte soltanto con l’adolescenza, quando il soggetto, dopo un tentativo
miseramente fallito d’imitare il fratello nella seduzione della governante – francese, com’era di
rigore a quel tempo –, è trasferito in collegio, e definitivamente più tardi, quando sceglierà
oggetti di desiderio del suo stesso sesso, con la precisazione necessaria ch’egli doveva assumere,
nei loro confronti, un ruolo sempre ed esclusivamente «attivo». L’analisi condotta dalla Deutsch
è motivata da questa scelta sessuale, ed è sollecitata dalla famiglia del giovane. Molto in breve, è
questa la storia del soggetto, fino all’inizio dell’analisi.

252. Fermiamoci per un attimo a considerare i primi elementi che emergono dalla vicenda
così come ci è esposta dalla Deutsch. Sembra potersi rilevare in primo luogo che l’aggressione
da parte del fratello abbia posto il soggetto dinanzi ad un problema per risolvere il quale egli
assumerà prima il sintomo fobico, poi la sua scelta oggettuale. È evidente ch’è la seconda, dopo
il fallimento d’un primo tentativo d’identificarsi con il fratello, a rendere il primo superfluo.
Notando questo, ci limitiamo ad osservare la presenza di relazioni ancora astratte, e ciò, benché
c’insegni poco, c’insegna comunque qualcosa di sicuro. Qual è, infatti, il problema? È facile da
intendere, e la Deutsch, naturalmente, su questo punto non s’inganna affatto: è proprio quello
posto al soggetto dalla frase del fratello. Ma meno semplice e più fondamentale sarà intendere
che cosa essa avrà significato per lui. Limitarci a rilevare che queste parole, mettendo il soggetto
in una posizione «passiva», lo ponessero dinanzi all’esigenza di «accettare la castrazione», come
si dice in un gergo ormai divenuto triviale, ci porterebbe a mancare l’essenziale, che in questo
caso è capire perché questo problema della castrazione – che senza dubbio è centrale in questa
come in ogni nevrosi – venga ad appuntarsi proprio su questo significante «gallina», elevando
l’innocua bestiola al ruolo d’oggetto d’orrore.
La Deutsch crede di poter interpretare questo fatto in un modo ch’è molto prossimo a quello
adottato da Freud nell’analisi di Hans (alla quale del resto essa si riferisce esplicitamente, ma
senza la ricchezza e la contraddittorietà che caratterizzano i casi clinici di Freud, e che ne
costituiscono per noi l’impareggiabile fascino). La Deutsch commenta in questi termini: «La
scena con il fratello rappresentava per lui l’atto sessuale fra il gallo e la gallina, cioè fra lui e il
fratello, e il grido "non voglio essere la gallina" significava "io respingo il desiderio passivo
omosessuale". La fobia della gallina, come l’analisi rivelò, era solo uno sviluppo successivo di
questo rifiuto». La fobia sarebbe dunque una difesa da un pericolo interno. Certo, non possiamo
negare che una certa evidenza depone a favore di questa ipotesi (che del resto è stata quella di
Freud a un certo punto della sua riflessione). Tuttavia questo ridurre in termini di difesa tutta la
problematica d’una nevrosi è un modo assai discutibile d’intendere l’affermazione di Freud
secondo la quale la nevrosi è la negativa della perversione. È sufficiente notare che l’aggressione
da parte del fratello, mettendo il soggetto in questa posizione «passiva», valeva per lui come una
«minaccia di castrazione»? E, soprattutto, una simile ipotesi riesce a spiegare davvero ciò che
avvenne? Per motivare l’insorgere della fobia la Deutsch è costretta ad introdurre a questo punto
un’ipotesi supplementare, cioè a supporre che quanto il soggetto rifiutava a livello cosciente con
tanta veemenza fosse in realtà proprio ciò che desiderava il suo «inconscio». Il sintomo fobico
esprimerebbe dunque la difesa non dal fratello, ma da questo desiderio inconscio. La molla della
fobia sarebbe allora, secondo la Deutsch, «il rifiuto conscio del ruolo passivo inconsciamente
desiderato».
Ma non c’è forse qualcosa di poco credibile in una simile ipotesi? L’interprete non semplifica
forse un po’ troppo le cose, modellandole sulla propria teoria per farvele rientrare? E non c’è
forse, oserei dire, qualcosa di disonesto in questa semplificazione? L’inconscio qui diventa un
alibi per far ammettere al soggetto qualunque cosa sembri utile all’interprete per facilitare il
proprio compito. In psicanalisi, proprio per questo giocare con una significazione almeno doppia,
il pericolo di cadere in questa disonestà teorica è continuo: ciò che non è possibile a un livello
cosciente, viene contrabbandato come inconscio (l’inconscio, tanto, «ignora la contraddizione»),
e in questo modo è possibile far dire a chiunque qualunque cosa (è la ben nota obiezione alla
quale Freud si preoccupò di rispondere in Costruzioni nell’analisi). Eppure non sembra esserci
assolutamente nulla, in questo caso, che faccia pensare ad un desiderio «passivo omosessuale»,
tanto che persino quando la scelta sarà caduta su oggetti dello stesso sesso il soggetto manterrà in
modo accentuato la sua posizione «attiva». Ma appunto, si dirà, proprio per mascherare il
«desiderio passivo». Perché, allora, non mascherarlo meglio, scegliendo degli oggetti femminili?
Inoltre, se tale rifiuto era cosciente, come sostiene la Deutsch, perché non bastò un atto di
volontà cosciente a risolvere il problema? Tutto sta a dimostrare che, quando rifiuta di «essere la
gallina», il soggetto stesso non sa che cosa rifiuta, o per lo meno crede di rifiutare proprio questo
– semplicemente d’«essere la gallina» –, mentre gli sfugge del tutto il significato che ciò ha per
lui. Se non ignorasse proprio questo, non ci sarebbe ragione d’elevare la gallina al ruolo
d’oggetto fobico.

253. Ogni volta che facciamo dell’inconscio un luogo psichico, ogni volta che lo
consideriamo come interno, e non esterno, al soggetto, ci esponiamo al rischio d’una disonestà
teorica, ed esponiamo la psicanalisi ad accuse ben giustificate di scarsa scientificità. Tutta la
costruzione della Deutsch dà l’impressione d’essere un’impalcatura macchinosa e pesante, che le
serve soltanto per estrarre dalla vicenda quel che vuole trovarci: la teoria freudiana.
Interpretando la fobia nei termini che abbiamo riportato, quelli della difesa da un desiderio
inconscio passivo, la Deutsch è fedele alla lettera della teoria di Freud, ma si lascia sfuggire ciò
che, in essa, è essenziale. Se infatti risaliamo al testo chiave di Freud sull’argomento, quello
sull’analisi del piccolo Hans, troviamo certamente enunciata tale teoria, ma troviamo anche che
completamente diverso è l’impatto che la presenza reale di Freud ha nell’analisi. È noto che
questa si svolse in condizioni assai particolari, poiché in un primo momento era il padre stesso di
Hans ad avere la funzione d’analista (con risultati, bisogna dire, assai poco felici, dal momento
che il minimo che possa dirsi è che un padre deve fare il padre, e non l’analista dei suoi figli).
Quando poi Hans viene condotto da Freud, ecco che questi gli dice: «Molto prima che tu
nascessi, io sapevo...», mettendosi così direttamente nel posto del «soggetto supposto sapere».
Da quel momento in poi le cose vanno meglio. Ma che cos’è accaduto? In questa fase, Hans ha
trovato quello che cercava: un soggetto che si frapponesse fra lui e il desiderio dell’altro (della
madre), dice Lacan, cioè un soggetto che garantisse per lui del suo essere al mondo. Certo, la
frase di Freud non è ancora un’interpretazione; è solo l’enunciazione d’una regola. Ma questo è
stato sufficiente per dare al significante paterno quella solidità che il padre di Hans, che pare
addirittura affascinato dalla fobia del figlio, non aveva. Un soggetto è venuto, per Hans, a
rispondere della significazione, ed è questo che ha reso inutile il sintomo, spogliando il
significante «cavallo» delle risonanze che aveva acquisito per il bambino. Quando Lacan pone, a
differenza di Freud, l’accento sul fatto che, nella fobia, si tratta sé di difendersi, ma non da un
desiderio inconscio, coglie l’essenziale della posizione di Freud, cioè l’enunciazione, più che
l’enunciato, della sua teoria. Nella fobia non si tratta di difendersi dal desiderio inconscio del
soggetto, ma più semplicemente dal desiderio dell’altro, in questo caso della madre, dice Lacan.
L’inconscio di Hans, non è che il discorso della madre. «L’inconscio è il discorso dell’Altro» è
vero, ancora una volta, alla lettera.

254. Se la Deutsch non ci avesse fornito sul suo caso altri dati, che appariranno preziosi per
intendere il motivo dell’insorgere della fobia della gallina, non potremmo riuscire a saperne di
più. Tuttavia, è evidente anche per lei che l’aggressione da parte del fratello non avrebbe mai
avuto l’effetto che ebbe se il significante «gallina» non avesse già rivestito per il soggetto un
significato particolare. Solo riferendoci a dei fatti precedenti l’aggressione da parte del fratello
maggiore potremo situare con precisione il valore di questo significante per quel bambino.
Questi fatti, messi in luce dall’analisi stessa, riguardano la madre, che da sempre s’occupava del
pollaio. In questa sua mansione essa compiva il gesto – abituale, mi si dice, per coloro che
s’occupano di galline – di tastare loro il didietro per verificare la presenza dell’uovo. Dalla
gallina, quindi, risaliamo all’uovo e, anche se nemmeno stavolta riusciremo a sapere che cosa «è
nato prima», non è indifferente vedersi delineare con chiarezza, nell’emblema pennuto dello
starnazzante volatile, questo enigma essenziale, che riguarda non solo ciò che la madre s’aspetta
(l’uovo, appunto), ma la nascita e l’inizio del soggetto. Infatti, dietro il sintomo, si delinea niente
meno che questo enigma, con quello che comporta per il soggetto nella sua relazione con il
significante. La domanda in apparenza insensata – «è nato prima l’uovo o la gallina?» –
nasconde niente meno che una questione metafisica: qual è la causa prima? Come si può pensare
una causa che non sia causata a sua volta? E come possiamo pensare d’aver iniziato ad esistere?
Dunque, siamo in pieno principio di ragione. Ma, se nihil est sine ratione, se tutto ha una
causa, qual è la causa di tutto? Impostando il problema in questo modo, resterà sempre almeno
un punto che non verrà suturato da nessuna risposta. E questo punto è esattamente il soggetto. «È
nato prima l’uovo o la gallina?» significa, ancora una volta: «Chi sono io, nella mia natura
essenziale? Come posso trovare il significante che mi rappresenti proprio in quanto soggetto?».
Ed ecco che un fantasma fornirà, se non la soluzione, almeno un tentativo di risposta: «Io sono
colui che ti dà quello che vuoi». L’uovo è ciò che attende la madre, esso è l’oggetto della sua
domanda, ma rappresenta anche il soggetto quanto all’enigma del suo essere al mondo. Pensiamo
all’uovo metafisico che pende al centro della nicchia a forma di conchiglia della pala di Brera,
con cui Piero simbolizzò nel modo più poetico ed enigmatico insieme il soggetto del dipinto (la
Concezione, appunto), per incominciare a comprendere qual è la posta in gioco, in un bambino
di sette anni, al quale vengono rivolte queste parole in apparenza vuote: «Tu sei la gallina». Ogni
bambino è un filosofo. Quando si parla di sesso e di sessualità, non bisogna mai lasciarsi
sfuggire l’essenziale, e l’essenziale, nel sesso, è l’enigma di fondo, l’enigma della sfinge: «Da
dove vengono i bambini?». Freud non cessò di chiederselo, e sta qui tutta la differenza fra lui e la
sua fedelissima allieva. Probabilmente, come ogni brava comare, quest’ultima credeva di
saperlo.

255. Fu certamente sull’abbrivo delle sue prime curiosità sessuali che il bambino s’interessò
al gesto sapiente e materno al punto di voler ripetere con la madre, per gioco, lo stesso rituale. Il
precedente gioco ci rivela dunque la ragione di ciò che sarebbe stato poi il sintomo del soggetto,
messosi, allora sé, a fare la gallina, e non senza piacere, al punto da constatare con stupore che le
uova un po’ meno appettibili che s’era messo a deporre nei posti più impensati della casa non
suscitassero nella madre lo stesso entusiasmo di quelle dei volatili. Che cosa dunque fa sì che lo
stesso soggetto che tanto di buon grado aveva accettato di farsi gallina per la madre rifiutasse
invece con orrore le gallesche pretese del fratello? Non c’è dubbio che, nel momento
dell’aggressione da parte di costui, è questo complesso gioco di desideri e di complicità con la
madre che viene risvegliato, ma con la differenza che la scena evocata non è più quella idilliaca e
campestre fra la madre e la gallina, ma quella, altrettanto campestre, benché meno idilliaca, fra la
gallina e il gallo. Ma non era questa l’inscenazione del gioco fra il bambino e la madre. In
quest’ultimo caso ci si muove al livello della domanda d’amore da parte della madre, e il
desiderio del bambino è di soddisfarla. La madre vuole l’uovo? Ed eccola servita. È il desiderio
della domanda dell’altro che qui entra in funzione, cioè la pulsione anale. La madre è l’altro
onnipotente con cui il soggetto può credere, nel fantasma, che possa stabilirsi un rapporto
perfetto, fatto della corrispondenza precisa del desiderio proprio e della domanda di lei. Ma,
quando è il fratello ad aggredirlo, è su tutt’altro piano che il problema è impostato. Ciò ch’è
chiamato in causa dall’aggressione sessuale è ciò che accade fra il gallo e la gallina: ciò che la
madre desidera, e non ciò che domanda. Non siamo più al livello della pulsione anale, ma a
quello della problematica fallica. La madre, se desidera, non può desiderare che al di là del
soggetto. Il suo dono diventa ora vano, perché ciò che la madre desidera (il fallo), egli non può
darglielo. Ma la madre, se desidera, manca di qualcosa. Il problema della castrazione quindi
interviene, eppure non è tanto della castrazione del soggetto che si tratta, quanto di quella
dell’altro, vale a dire della madre. Proprio rispetto alla mancanza dell’altro il soggetto ora è in
panne, perché non può colmarla, e colmarla sarebbe essenziale per lui, perché solo così potrebbe
assicurarsi dell’altro, onnipotente solo finché non manca di nulla, se non di ciò che domanda, ma
improvvisamente pericoloso e mostruoso se desidera, perché, se l’altro desidera qualcosa oltre
lui stesso, il soggetto è perduto. Il patetico grido: «No, non voglio essere una gallina», rivela
quindi un pericolo ben maggiore di quello che sarebbe rappresentato da un desiderio «passivo»
(al quale il soggetto era sottostato di buon grado quando s’era trattato della madre) od
«omosessuale» (che invece avrebbe accettato tanto bene che proprio questo avrebbe reso più
tardi del tutto superflua la sua fobia infantile): ciò che il soggetto teme, ciò che la frase del
fratello minaccia, non è che lui sia messo in una posizione passiva, ma che lo sia la madre; non è
che lui sia castrato, ma che lo sia la madre. La protesta: «No, non voglio essere una gallina», non
è fatta a nome proprio, ma a nome di lei. Ed anzi è lei stessa a parlare con le parole del figlio –
ancora una volta «l’inconscio è il discorso dell’Altro» –, dando espressione per l’ultima volta a
quel rapporto perfetto che il soggetto avrebbe voluto conservare e che adesso invece crolla, sotto
le parole del fratello, come un castello di carte. Quando il fratello gli dice: «Tu sei la gallina»,
non è lui, ma la madre, l’oggetto dell’insulto. E certamente non sono le umiliazioni che subiamo
a farci soffrire di più, perché possiamo pur umiliarci, se ciò che amiamo è salvo, ma gl’insulti
che vengono rivolti a chi amiamo, perché vi cercavamo come in un porto sicuro, benché forse
illusoriamente sicuro, un riparo dalle tempeste della vita e un velo steso sulla mancanza di senso
del nostro stesso esistere: mancanza di senso di cui la gallina, col suo prodotto prezioso e
sferoidale, è l’emblema che d’ora in poi sventolerà sotto gli occhi di questo bambino di sette
anni.

256. Di tutto questo, la Deutsch, almeno nel breve resoconto che ha dato di quest’analisi,
sembra non avere avuto il minimo sentore. Eppure, non c’è dubbio ch’essa appartiene alla
generazione migliore degli psicanalisti, al piccolo numero di coloro che poterono godere
dell’insegnamento e dell’aiuto diretto di Freud. Certo, non sempre il primo e il secondo ebbero
l’esito migliore, come avvenne nel caso di Viktor Tausk, l’analisi del quale Freud impose alla
Deutsch d’interrompere. Ma sono vecchie storie, complicate avventure delle anime. Chi
oserebbe esprimersi su eventi così intimi e sfuggenti, sui quali non abbiamo sufficienti elementi
per poter formulare un giudizio? Chi può dire che cosa spinse il padre della psicanalisi a fare il
vuoto attorno a Viktor Tausk, salvo a rimpiangere, dopo il suo suicidio, che egli non ne avesse
dato le motivazioni, rendendosi utile, anche così, alla «causa»? Lasciamo che cali il sipario,
ancora una volta, su questa vicenda dolorosa e inquietante. Torniamo invece all’analisi esposta
dalla Deutsch. Qui disponiamo d’elementi precisi per esprimerci, perché l’analista stessa ce li
fornisce con chiarezza ammirevole. Infatti bisogna ammirare l’esposizione d’un’analisi da cui
risultano (come risultano dai casi clinici di Freud) anche le insufficienze dell’operazione
analitica. Le insufficienze segnalate nell’esposizione del caso sono, finora, teoriche. Furono
anche insufficienze dell’analisi? Che conseguenze può aver avuto, sul concreto svolgimento di
questa, il misconoscimento, da parte dell’analista, di quelle relazioni, anzi di quegli abissi di
senso, che abbiamo creduto di poter scorgere dietro il racconto, in apparenza lineare, della fobia
infantile? Quella che abbiamo chiamato prima disonestà teorica, e che consiste nel farsi
dell’inconscio un alibi attraverso il quale, senza possibilità di verifica, il pregiudizio dell’analista
può farsi valere come verità interpretativa, è anche una disonestà nella pratica? Per quanto
riguarda questo caso è difficile dirlo. L’articolo della Deutsch si dilunga soprattutto su quanto
riguarda la fobia infantile, mentre ben poco ci viene detto sull’effettivo svolgersi dell’analisi, se
non che a un certo punto il soggetto la interrompe perché «dall’analisi, la sua narcisistica
autoglorificazione uscì alquanto malconcia», per riprenderla poco dopo perché non sapeva più
«dove sbattere la testa». La sua analista si dimostra alquanto soddisfatta dei duri colpi inferti al
narcisismo di lui – come se lo scopo dell’analisi fosse la mortificazione del narcisismo – e del
sogno con cui egli «celebrò il suo ritorno» e la sua resa. Nella soddisfazione dimostrata dalla
Deutsch è anche percepibile un’ombra di sadismo, notare il quale l’avrebbe aiutata ad
interpretare meglio di quanto non fece il sogno del ritorno.

257. Ecco il testo del sogno: «Ha appena spento il lume sul comodino e si sta mettendo a
dormire. Sente allora una pressione sul collo, una sensazione come di soffocamento alla gola;
una sagoma pesante grava sul suo corpo, gli schiaccia il torace; lui reagisce, cerca di difendersi;
lottano a denti stretti, cadono sul pavimento; continuano a lottare, sempre tirandosi e spingendosi
a vicenda. Egli riesce infine a raggiungere l’interruttore della luce: lo gira. Appena in tempo per
vedere dileguarsi una figura femminile, vestita di nero, e rendersi conto essere stata lei il suo
avversario. Sente le forze abbandonarlo e sa che sta per morire. Riconosce nell’avversario un
giovane medico. Dice: “Mi sono suicidato”, e pensa fra sé: “Non merito di meglio”. Nel
contempo sa che l’altro l’ha ucciso, e tuttavia dichiara d’essersi suicidato. Infine pensa: “Com’è
stato gentile da parte mia assumermene la responsabilità”. Infine si sveglia».
La Deutsch interpreta il sogno, sulla base d’un racconto di Hoffmann, venutole in mente non
si sa bene perché, come un conflitto fra due parti dell’io. Tuttavia un po’ meno letteratura e un
po’ più analisi di quello che si chiama a torto il controtransfert le sarebbe forse servito per
accorgersi che la donna in nero (che egli «interpretò correttamente essere io», dice la Deutsch), e
il «giovane medico» incontrato il giorno prima, «un tale che sapeva essere un omosessuale
aggressivo-sadico, il quale torturava e sfruttava le sue vittime», nel sogno sono la stessa persona.
L’analista, qui, sembra non far caso a questa identificazione di lei stessa con questo personaggio
e commenta tranquillamente: «Queste associazioni mostravano chiaramente l’identificazione del
paziente con il giovane amico». Il «sogno del ritorno», se teniamo conto dell’elemento del tutto
esplicito che contiene, e che invece la Deutsch trascura completamente, appare allora come una
sfida che il soggetto fa all’analista ritornando in analisi, sfida che essa si lascia completamente
sfuggire (almeno nel rendiconto) e che si conclude persino con uno sberleffo abbastanza pesante
rivolto indiscutibilmente a lei: «Com’è stato gentile da parte mia assumermi la responsabilità del
mio assassinio».
Naturalmente, nessun assassinio qui s’è consumato davvero, e non c’è niente di cui si
potrebbe accusare l’analista, se non d’essersi lasciata sfuggire l’essenziale. La cosa più probabile
è che la «terapia» sia proseguita modificando le difese del soggetto solo quanto bastava per
accontentare l’analista e la famiglia. Non ci sono «assassini d’anime» se non nel delirio di
Schreber. Ma in tali condizioni è davvero difficile che ci sia stata analisi, cioè che il soggetto
abbia avuto qualche sentore di quale fosse il problema del quale, con il suo sintomo, cercava una
soluzione, e che si sia fatta un’idea di quale fosse la sua singolare verità.
258. Certamente l’insufficienza al proprio compito manifestata dall’analista in quest’analisi
non è imputabile semplicemente a qualche errore teorico. Le lacune della teoria della fobia che la
Deutsch qui adotta non spiegano affatto perché essa si lasci sfuggire l’interpretazione, che a noi
appare così ovvia, del sogno del ritorno in analisi. Tuttavia non basterebbe nemmeno ricorrere al
solito «qualcosa d’inanalizzato» per spiegare la cecità della Deutsch dinanzi al messaggio
inequivocabile che questo sogno le invia, e che essa ricopre con la sua «interpretazione»
arbitraria e intempestiva sulla base di Hoffmann. Il sadismo del quale viene accusata nel sogno, e
del quale d’altronde si può trovare conferma nel modo stesso in cui essa parla del suo paziente
nel testo, non sembra affatto essere qualcosa dell’ordine d’un sintomo, ma la conseguenza
inevitabile della posizione ch’essa s’è assunta accettando di svolgere un’analisi sollecitata dalla
famiglia del soggetto, e soprattutto della propria «volontà di guarire». Il desiderio di guarire, qui,
si mostra per quel che è: mero sadismo, perché mero misconoscimento della soggettività
dell’altro. La posizione dello psicanalista è eticamente inaccettabile, se non si fonda su una
precisa volontà etica, su un desiderio «al di là del fantasma». Ma la volontà di guarire è ancora il
desiderio patologico, e non può produrre altro che patologia.
II. Il desiderio al di là del fantasma

259. L’esposizione dell’analisi della zoofobia infantile riportata dalla Deutsch ci ha permesso
di constatare ciò che, in fondo, sapevamo già: fondarsi su un’etica a priori, che sospenda tutti i
contenuti morali – prima di tutto quelli terapeutici –, è, per la psicanalisi, essenziale, per
giustificare non solo la sua esistenza, ma anche l’efficacia della sua pratica. Non c’è una
disonestà teorica che non sia, al tempo stesso, una disonestà nella pratica. Uno psicanalista
occupa un posto difficilmente tenibile senza una precisa posizione etica. Ora, in mancanza
d’ogni riferimento ad una morale precostituita, che cosa gli consentirà d’orientarsi nel suo atto?
L’esempio riportato prima ci dimostra come sia facile per lui scivolare, con l’alibi dell’intervento
terapeutico, in una posizione falsa, che non solo rende il suo atto eticamente insostenibile, ma
costituisce anche un ostacolo insormontabile all’effettivo svolgersi dell’analisi. Un’etica della
psicanalisi non può essere un’etica precostituita. Essendo compito della psicanalisi far emergere
il desiderio del soggetto in ciò ch’esso ha d’irriducibilmente singolare, qualunque ricorso ad
un’etica del generale sarebbe fuorviante. L’etica della psicanalisi dev’essere, come quella
kantiana, fondata a priori, cioè in modo trascendentale, ma non potrà mai essere costruita, come
quella kantiana, con un’operazione d’universalizzazione, perché la psicanalisi non può ignorare
che la verità con la quale ha a che fare non è mai universale, in quanto è quella singolare d’ogni
soggetto.
Ora, la verità di cui si tratta nella psicanalisi è sempre una verità nel tempo, perché è funzione
in primo luogo, nella significazione, del gioco del detto con il dire, cioè delle condizioni
dell’enunciazione non meno che di quelle dell’enunciato, e in secondo luogo perché questa verità
è in relazione al senso dell’azione. Per tener conto di questo, un’etica della psicanalisi dovrebbe
essere quindi un’etica «vuota», priva di contenuti precostituiti, di regole di comportamento o
«massime». Ma un’etica siffatta sarebbe ancora un’etica, o sarebbe una mera astrazione, che
consentirebbe di nuovo a dei contenuti ideologici d’infiltrarsi nel cuore stesso dell’esperienza
analitica? Ed è concepibile un’etica priva di contenuti e di riferimenti ad un «bene» o ad una
scala di valori già costituita? Abbiamo parlato prima d’una disonestà teorica. Ma in base a che
cosa abbiamo potuto usare questo termine? Se lo abbiamo fatto in base ad una qualunque idea
precostituita di ciò che per un analista sarebbe, invece, onesto, questa espressione ricadrebbe
nella nostra stessa critica. E che senso può avere parlare d’un concetto del tutto vuoto ed
indeterminato d’onestà analitica? Esiste un modo di dedurla a priori?

260. Il concetto d’onestà rimanda ad una regola. Stiamo dunque supponendo l’esistenza d’una
regola a priori che sarebbe una regola vuota dell’eticità. Il contenuto di tale regola sarebbe
semplicemente di vietare l’applicazione di qualsiasi sistema predeterminato di regole. Il sistema
s’oppone qui alla regola a priori come qualunque contenuto linguistico s’oppone alla
soggettività. Qualunque sistema di regole è un elemento linguistico, che s’oppone alla
soggettività dell’operazione trascendentale. Ora, è chiaro che la messa tra parentesi d’ogni
contenuto linguistico dato non potrebbe avvenire senza essere regolamentata a sua volta. La
regola dell’eticità analitica non è altro che la regola dell’abolizione d’ogni regola. Il rispetto di
tale regola è l’onestà analitica. Proprio dall’esclusione d’ogni determinazione linguistico-formale
viene alla regola dell’eticità il suo carattere formale: la stessa formalità della regola (la sua
vuotezza di contenuto determinato) vale qui come garanzia della sua apertura possibile ad una
fondazione trascendentale. L’onestà analitica è la pura formalità dell’eticità. Ma questo non
significa affatto, come talvolta s’è inteso, che l’eticità analitica sia un’eticità formale, perché
un’etica meramente formale sarebbe la mera forma d’un’etica, e perché la forma d’un’etica non
sarebbe affatto un’etica, ma un vuoto contenuto linguistico. La formalità dell’eticità deve
consentire invece l’instaurazione d’un’eticità sostanziale, benché non determinata. Unico scopo
della formalità è infatti di consentire alla soggettività di prodursi nella sua indeterminata
determinatezza, cioè come libera soggettività.
Il concetto della formalità dell’etica, in psicanalisi, si manifesta nel non volerne sapere
dell’analista, cioè nel suo sottrarsi, in quanto soggetto determinato, patologico, alla situazione
analitica. L’effettività dell’etica è invece l’area del desiderio dell’analista. L’onestà analitica
impone all’analista di non desiderare alcunché nella propria azione, cioè di non attendersi
dall’altro niente più che il rispetto dell’impegno che s’è liberamente assunto domandando
l’analisi. Ciò non significa che l’analizzante sia del tutto indifferente all’analista, come sarebbe
se la formalità dell’eticità desse luogo a un’eticità meramente formale; significa invece che
l’impegno etico dell’analista comporta l’assunzione da parte sua dell’amore nella sua verità, cioè
la sola assunzione non patologica dell’amore. È evidente che ogni altruismo ed ogni volontà di
guarire, per esempio, indurrebbero l’analista – che consideriamo qui come il soggetto a priori
dell’esperienza, in quanto la sua presenza reale è l’unica condizione perché ci sia analisi – a
trasgredire la regola dell’eticità della propria posizione, e perciò a venir meno alla propria
funzione e al proprio compito. L’amore vero non è quello che vuole il bene dell’altro, perché il
bene dell’altro è tuttavia un bene determinato, e quindi patologico, prima ancora che per l’altro,
per il soggetto stesso che lo vuole. Ogni amore comune, ogni altruismo, è, abbiamo visto, mera
patologia. L’amore vero è volere non il bene, ma l’alterità dell’altro, cioè la sua verità.
Naturalmente, ciò che ora abbiamo detto non significa che l’analista possa essere l’unico
soggetto, nell’analisi, ad assumersi questo compito etico. Se c’è analisi, c’è perché anche
l’analizzante, magari senza saperlo, è nella stessa posizione del suo psicanalista. Se tuttavia
abbiamo parlato della posizione etica dell’analista, e non di quella dell’analizzante, è perché solo
il primo è eticamente tenuto a rispondere della propria posizione (ne è responsabile). Questo non
significa tuttavia che l’analizzante non abbia alcuna responsabilità nella propria analisi: se da un
punto di vista meramente formale è così, perché non potrebbe esserne ritenuto moralmente
responsabile, in quanto, se lo fosse, non sarebbe un analizzante, da un punto di vista sostanziale
egli è invece tenuto quanto l’analista a restare fedele alla propria parola, anzi lo è tanto che,
quando l’analisi sarà conclusa, sarà possibile considerarla come un’esperienza integralmente sua.
Paradossalmente, non ci può essere analisi senza analista, ma l’unico analista senza il quale
veramente non ci può essere analisi non è colui che svolge la funzione d’analista, ma l’analista
ch’è già implicitamente incluso nella posizione dell’analizzante, cioè l’analista che questi potrà
divenire al termine della propria esperienza. Se così non fosse, infatti, la psicanalisi non sarebbe
mai potuta sorgere.

261. Non occorre andare molto lontano per cercare quale sia la determinazione della regola
formale dell’eticità nell’analisi. L’abbiamo definita la regola della sospensione d’ogni regola. Ma
tale regola era stata da noi già formulata. Essa non è altro che la regola fondamentale, la
Grundregel, la regola vuota che fonda l’esperienza analitica, nella sua interezza e nella sua
complessità, come un’esperienza descrivibile in termini trascendentali: e questo significa che
essa è un’esperienza già fondata trascendentalmente. La regola fondamentale, che in un primo
momento ci era apparsa come regola del fondamento, ci appare ora, per il versante non della sua
enunciazione, ma del suo enunciato, come la regola dell’eticità, cioè della ragione etica.
Naturalmente, non diciamo affatto che basti l’enunciazione della regola fondamentale, con il suo
enunciato, per garantire che l’analista sia all’altezza del proprio compito etico. L’enunciato e
l’enunciazione della regola non garantiscono nulla quanto all’attuazione della regola stessa. La
regola serve solo per un verso ad aprire all’atto dell’analista lo spazio di libertà, cioè di non
determinazione, che sarà necessario a fare di esso un atto analitico, e non un atto patologico, e
per un altro a costringere l’analizzante a fare della propria decisione d’iniziare un’analisi una
regola che abbia per lui un valore etico, e che quindi lo impegni soggettivamente in modo reale,
e non solo formale.
La ragione etica è, per così dire, la ragione pratica pura, cioè la ragione pratica in quanto la
sua prassi non è determinata a parte obiecti, ma a parte subiecti, in quanto è determinata non
oggettivamente, ma trascendentalmente. Certo, in apparenza la regola fondamentale è formulata
come una semplice regola tecnica, e proprio per questo funziona tanto per l’analista (che può
anche non pensare di compiere un atto trascendentalmente fondato per compierlo), quanto per
l’analizzante (che può facilmente assumersi un impegno di significazione, ma non potrebbe
invece affatto assumersi un impegno di senso, dal momento che a definire la patologia è proprio
l’incapacità di distinguere chiaramente il senso dalla significazione). La regola fondamentale,
rispetto alla ragione pura, è quindi, nel suo enunciato, solo una regola dell’enunciazione. Ora, per
il versante della sua enunciazione, essa instaura, rispetto alla ragione pratica, la menzogna
dell’analista, cioè il transfert, che in definitiva, come abbiamo visto nel caso di Freud con il
piccolo Hans, è addirittura provocato dall’analista. In questo modo la regola lascia che tutti i
contenuti ideologici, cioè tutti i contenuti di linguaggio e di significazione, si proiettino nella
situazione analitica, assimilando il detto che in essa si produce a qualunque altro detto (a
qualunque altra parola vuota: e questo comporta che la formulazione della regola facilita o
addirittura rende possibile lo sviluppo del transfert). D’altra parte, per il versante del suo
enunciato, essa instaura, almeno formalmente, rispetto alla ragione etica, la verità dell’analista,
cioè la sua onestà, proprio perché esclude ogni altra regola dallo spazio dell’analisi.
Tuttavia questa eliminazione è ancora meramente formale, finché questa formalità non è
realmente riempita dall’eticità soggettiva reale dello psicanalista (e, nel senso specificato poco
fa, anche dell’analizzante). Dimenticare che l’analista è un soggetto determinato, vale a dire
anche un soggetto patologico, comporterebbe chiedergli d’essere una «pura» eticità. Questo
impedirebbe allora di fondare davvero eticamente la pratica analitica, la quale invece non
sarebbe fondata in nessun modo se si pretendesse ch’esistesse un’etica della psicanalisi la quale
potesse non essere fondata trascendentalmente, in base ai presupposti generali della soggettività,
e non a quelli particolari della psicanalisi. La psicanalisi stessa non avrebbe mai potuto sorgere
se essa non fosse un aspetto storicamente determinato d’una pratica etica generalmente possibile,
anche a prescindere dalla psicanalisi e dall’enunciazione della sua regola. La regola
fondamentale non è che una riduzione in termini di significazione della legge costitutiva
dell’eticità dell’atto soggettivo. L’antinomicità delle funzioni dell’enunciato e dell’enunciazione,
riproducendo nella regola quella che abbiamo chiamato l’antinomia della ragione pratica, la
risolve nel passaggio dalla ragione pratica – cioè dalla ragione patologica – alla ragione etica.
Ma ripetiamo ancora che questo passaggio non è affatto garantito né dalla mera enunciazione, né
dal mero enunciato della regola, perché, se la ragione pratica è l’antinomia della ragione pura
elevata a principio dell’azione, la ragione pratica «pura», cioè la ragione etica, è invece
l’antinomia della ragione pratica elevata a principio dell’eticità.

262. Ora, è subito evidente in che modo la funzione della regola fondamentale si distingue,
fino ad opporvisi, dalla formulazione della massima morale nella Critica della ragione pratica.
Quest’ultima doveva essere universale, quindi non contraddittoria con se stessa: così una
massima che consentisse la violazione dell’istituto del deposito non potrebbe valere come
massima, perché annullerebbe l’istituto stesso del deposito, senza il quale la regola non avrebbe
alcun motivo d’essere. Ma in quanto regola universale, cioè regola del dover essere della
causazione soggettiva in generale, secondo il principio di ragione sufficiente (nihil est sine
ratione), essa poteva valere solo come regola o massima di determinati contenuti linguistici, e
per niente come regola dell’azione in quanto tale. ll soggetto che provasse a regolamentare la
propria azione in base alla massima kantiana dell’universalità necessaria della massima non
troverebbe dinanzi a sé che l’astratta regola, la regola linguistica, che prescrive il comportamento
del soggetto indeterminato della ragione pratica, e quindi del soggetto della legge, e non il
comportamento del soggetto concreto dell’esperienza patologica ed etica. L’implicita apertura
trascendentale della regola fondamentale sta invece nel fatto ch’essa formula come legge
l’abolizione della legge, cioè prescrive l’imprescrivibile, vale a dire l’amore. Da questo punto di
vista l’etica della psicanalisi non è che uno degli sviluppi possibili dell’etica cristiana
(l’abolizione delle leggi in nome d’una seconda legge, ch’è quella dell’amore, è il principio
stabilito da Paolo relativamente al rapporto fra l’etica e la legge). Certo, a proposito della
psicanalisi, tale riferimento all’etica cristiana appare sicuramente inatteso. La psicanalisi è stata
fondata da qualcuno che cristiano non era certamente, ed è stata fondata nei termini dell’ateismo,
e non certo in quelli della religione. Per quanto riguarda questo problema rinviamo comunque
alla Formazione e al seguito di questo volume, e ci limitiamo ad osservare che questa curiosa
contraddizione è tale soltanto in apparenza, dal momento che l’ateismo può essere considerato
proprio come un prodotto del cristianesimo (almeno di certo cristianesimo).
Invece l’etica kantiana è un’etica della generalità, che può essere rispettata rigorosamente alla
sola condizione di rinunciare all’azione nel modo della delega. Infatti, ogni volta che fosse
interrogata sull’eticità della singola azione soggettiva, la massima kantiana resterebbe muta. Essa
può dire solo quale sia la regola dell’azione del soggetto in generale, ma non ha nulla da dire sul
singolo atto soggettivo, stabilendo così, come regola della soggettivazione dell’atto,
semplicemente la desoggettivazione. Ma il soggetto «in generale» è solo quello rappresentato dal
significante, e non è affatto il soggetto dell’azione. L’etica deve esprimere però la ragione
dell’azione del soggetto, non la ragione della sua desoggettivazione nel linguaggio, tanto più che
l’etica s’oppone proprio a tale desoggettivazione. Il soggetto dell’azione non è mai il soggetto in
generale, rappresentato dal significante; esso è invece il soggetto temporalmente determinato,
quello che, con l’azione, è chiamato a dar senso alle significazioni che utilizza, vale a dire a
soggettivarle. Del resto, se non ci fosse una necessaria discordanza fra il soggetto linguistico,
universale, della legge, e il soggetto temporale dell’azione, non ci sarebbe nessun problema
etico. L’etica comporta infatti il paradosso che un’azione prescritta in generale dalla legge può
diventare, in casi singolari, contraddittoria con la legge stessa (e proprio qui s’apre lo spazio
della seconda legge e quello del rapporto etico, e non semplicemente giuridico, del soggetto con
entrambe).

263. Troviamo inscritto tale paradosso dell’azione al cuore stesso dell’etica. Infatti la prima
legge, in quanto enunciato, dà luogo, come ogni enunciato, per la sua enunciazione, ad
un’antinomia. L’antinomia della ragione pratica diviene, in relazione alla legge, il paradosso
tragico. Esso consiste in questo: che quell’azione che sarebbe in generale prescritta dalla legge
diventerebbe, se fosse compiuta, contraddittoria con una seconda legge che, della prima,
esprimerebbe lo spirito. L’esempio più chiaro del paradosso tragico, come contrasto insanabile
fra legge scritta e legge non scritta, è la figura d’Antigone. Ma le due leggi non sono
contraddittorie se non perché manifestano l’antinomia della legge (di qualunque legge)
nell’azione: nessuna azione è veramente – eticamente – tale, se non mette in questione la
relazione del soggetto con la legge. Un’azione che fosse una mera esecuzione non soggettiva
della legge non avrebbe alcun valore etico. La «seconda» legge, infatti, non vieta e non prescrive
nulla, che non sia già inscritto nella giustezza dell’atto, vale a dire nel senso dell’azione. Il
paradosso tragico consiste in questo, che l’applicazione della prima legge comporta la
trasgressione della seconda. Ma il paradosso tragico è il paradosso stesso dell’azione: agendo, il
soggetto si determina necessariamente come singolare, e quindi come altro rispetto al soggetto
qualunque della legge. Assoggettandosi alla legge, egli viene meno alla generalità della legge
(alla seconda legge), che s’esprime per lui come dovere del proprio esser soggetto. Ora, se
l’antinomia della ragione pratica è il paradosso tragico, lo scioglimento di quest’antinomia
nell’azione è la catarsi, senza la quale non ci sarebbe tragedia, ma solo il tragico. La psicanalisi
dovrà essere intesa per questo anche con riferimento alla sua determinazione di «metodo
catartico». La sua etica può essere tragica solo se c’introduce in questa dimensione.

264. A differenza della massima kantiana, ch’escludeva l’autocontraddittorietà della regola, la


regola fondamentale della ragione etica è esplicitamente e formalmente autocontraddittoria ed
antinomica, poiché prescrive d’abolire ogni prescrizione. Ma prescrivere d’abolire ogni
prescrizione significa prescrivere d’abolire ogni prescrizione meno una: quella, appunto, della
regola stessa che prescrive questo. La struttura è, come si vede, la stessa del paradosso
d’Epimenide, la paradossalità del quale è, tuttavia, solo apparente. Quando Epimenide, cretese,
dice che tutti i cretesi mentono, mente (e allora tutti i cretesi non mentono, dunque lui dice il
vero ecc.) o dice la verità (e allora tutti i cretesi mentono, dunque lui mente ecc.)? Niente di tutto
questo. L’antinomia qui si dà soltanto finché ignoriamo la distinzione dei tipi logici (Russell),
cioè finché ignoriamo che altro è Epimenide come soggetto dell’enunciato, incluso, come
cretese, fra i bugiardi («tutti i cretesi»), altro è Epimenide come soggetto dell’enunciazione della
sua frase. «Tutti i cretesi mentono», in bocca ad un cretese, significa: tutti i cretesi sono bugiardi,
ed anche io, Epimenide, lo sono; ma in questo momento, nel dire questo, io non sono
l’Epimenide che mente, benché cretese e quindi bugiardo (perché determinato dai significanti
che mi rappresentano; perché soggetto patologico e soggetto dell’enunciato); in questo momento,
io sono il soggetto di ciò che sto dicendo, e ciò che sto dicendo è vero; in quanto soggetto
dell’enunciazione, io non sono Epimenide, io non sono io. Ogni antinomia formale si scioglie
immediatamente se teniamo conto della distanza fra l’enunciato e l’enunciazione, come facciamo
sempre quando parliamo (infatti, quando parliamo sappiamo bene se chi dice «mento» sta
mentendo o no).
Con queste osservazioni sul rapporto fra l’enunciato e l’enunciazione non siamo ancora
entrati, però, nell’effettiva possibilità d’agire eticamente. Il fatto che l’antinomia della ragione
pratica sia solo apparente, in realtà, non garantisce alcuna uscita effettiva dalla ragione
patologica, e quindi dal sintomo. Per uscire dalla patologia non basta che l’io si produca come
differente da se stesso, tanto più che la divisione dell’io è anzi una caratteristica generale della
patologia. Perché quest’uscita sia effettiva, bisogna che l’antinomia sia davvero sciolta, e ciò non
è possibile finché restiamo nel registro della significazione, dal momento che in questo essa non
può che riproporsi, subito dopo essere stata tolta. Il problema etico non può essere risolto in
negativo, affermando che cosa non è il soggetto, ma dev’essere risolto anche in positivo: non
nella significazione, tuttavia, ma nel senso dell’azione. Proprio per questo l’etica della psicanalisi
deve fondarsi, in modo generale, sulla generalità d’un’etica trascendentale. Se infatti questo non
accade, gli stessi risultati dell’analisi, rimanendo sospesi all’effetto di significazione, restano
reversibili, e questo non può che produrre dei problemi notevoli nella trasmissione della
psicanalisi, come tutta la sua storia testimonia.

265. La regola dell’abolizione d’ogni regola dunque non abolisce se stessa. Essa ha un
soggetto della sua enunciazione (l’analista) e un soggetto del suo enunciato (l’analizzante). In
quanto rivolta al secondo, essa significa: di’ senza seguire alcuna regola, e questo ti consentirà
d’accorgerti che invece, anche senza volerlo, seguirai le regole del significante, le quali ti
determinano come soggetto patologico. Ma il soggetto dell’enunciazione della regola è solo un
soggetto linguistico, e non è affatto identico al soggetto ch’è obbligato a rispettare la regola
ch’enuncia linguisticamente. Ciò significa che, se vogliamo impostare un’etica della psicanalisi
davvero fondata eticamente, dobbiamo necessariamente passare dal soggetto dell’enunciazione
al soggetto reale, perché limitarsi alla soluzione formale dell’antinomia non garantisce nulla
quanto alla soluzione effettiva dell’antinomia stessa. Se non teniamo conto di questa distinzione
– e lo stesso Lacan, che pure ha introdotto nel campo della psicanalisi tali concetti, a questo
proposito non ne tiene conto in nessun modo, perché questa distinzione non rientra affatto
nell’impostazione strutturale ch’egli dette al proprio insegnamento –, non possiamo far altro che
accreditare come una posizione etica una sedicente etica della psicanalisi che invece non è altro
che una mera sembianza. Se dunque questa fondazione non avviene, la stessa regola
fondamentale diventa un enunciato vuoto, «tecnico», privo d’ogni valore etico, e la verità stessa
della psicanalisi diventa un’illusione, per quanto formalmente articolata e motivata. A questa
illusione si ridurrebbe infatti la psicanalisi ogni volta che l’analista non si ritenesse determinato
quanto l’analizzante dall’enunciato della regola fondamentale. Certo, il contenuto della regola,
cioè il suo enunciato, quando il soggetto di questo enunciato è l’analista, non può essere: di’
senza seguire alcuna regola; infatti il compito dell’analista non è quello di dire, soprattutto non è
quello di dire qualunque cosa gli capiti di pensare; la reciproca dell’enunciato della regola, in
quanto lo riguarda come analista, gl’impone non di dire, ma d’ascoltare senza seguire alcuna
regola (è l’«ascolto fluttuante» che consigliava Freud), e dunque d’ascoltare senza pregiudizi.
Naturalmente l’osservanza di questa regola sarebbe tanto impossibile per l’analista quanto lo è
per l’analizzante, se il primo non avesse avuto una particolare formazione che ve lo prepari (è
questa la funzione dell’analisi cosiddetta didattica).
Tale preparazione, certo, sarà sempre e necessariamente imperfetta. Un «perfetto» analista
sarebbe un soggetto del tutto indeterminato, una semplice ipotesi di soggetto. Questo, almeno
come ideale, è stato sostenuto, segnatamente da Lacan, il quale, dinanzi alla teoria secondo la
quale l’analisi doveva concludersi con un’identificazione con l’io dell’analista, ha affermato che
invece un’analisi didattica dovrebbe piuttosto produrre dei soggetti, al limite, privi di io. Ora, è
evidente che, se assumessimo quest’affermazione alla lettera, senza tenere conto delle esigenze e
dei tempi della sua enunciazione, ne ricaveremmo un assurdo: un soggetto «senza io», un
soggetto non determinato dal significante, sarebbe un soggetto inconscio a se stesso, sarebbe
dunque il contrario d’un soggetto. Di conseguenza, se per un verso l’imperfezione dell’ascolto da
parte dell’analista – o, per meglio dire, il difetto dell’eticità dell’analista – appare come
accidentale, cioè come un limite meramente occasionale, per un altro dobbiamo riconoscere che
questo limite dell’eticità è costitutivo dell’eticità stessa, e che un’eticità per così dire illimitata
sarebbe, nel suo concetto, contraddittoria con l’esigenza etica. L’eticità della posizione
soggettiva non consiste infatti nell’esclusione dalla scena analitica – o più in generale da quella
dell’azione soggettiva – della patologia; consiste invece nella traduzione della stessa patologia in
eticità: traduzione che non si realizza davvero contrapponendo, come troppo spesso si fa nel
campo lacaniano, un desiderio dell’analista astratto, perché inteso come una mera funzione
dell’analisi, ad un suo desiderio soggettivo che sarebbe, in quanto tale, necessariamente
sintomatico. Infatti non ogni desiderio patologico è immediatamente sintomatico, dal momento
che a definire la patologia come limite dell’eticità non è la patologia stessa, ma appunto il limite
dell’eticità. Il problema dell’etica della psicanalisi non si risolve quindi delineando un astratto
ideale dell’analista colto nella sua funzione – perché proprio quest’ideale si realizza di fatto nella
sintomatologia degli analisti, cioè nell’inciampo nel campo della psicanalisi in estensione –, ma
fondando l’etica della psicanalisi in un’etica generale, cioè trascendentale, della quale l’etica
della psicanalisi sia soltanto una figura: parziale, limitata e storicamente determinata.

266. Torniamo per un attimo a quanto abbiamo affermato in precedenza, cioè al fatto che,
come soggetto, l’analista non può né deve aspettarsi nulla dall’analizzante. Se questo non
aspettarsi nulla, se questo non volerne sapere fosse illimitato, l’analista sarebbe del tutto
indifferente alla situazione in cui si trova. Ma abbiamo visto che il suo non volerne sapere non è
questo, e che la presenza reale dell’analista, proprio in quanto soggetto, conta quanto il non
volerne sapere, per il progredire dell’analisi. Come può conciliarsi allora questo non volerne
sapere con la presenza reale dell’analista stesso, cioè con il suo desiderio? Se egli non s’aspetta
nulla dall’analizzante, neppure la sua guarigione, se quindi non gli domanda nulla, se non il
rispetto del suo stesso impegno nell’analisi, ciò non significa poi che non manifesti nessun
desiderio soggettivamente ma non patologicamente suo nell’analisi che dirige. Un desiderio che
sia al di là del fantasma, che quindi non sia patologico, deve pur essergli supposto, se non si
vuole che il «desiderio dell’analista» sia una mera finzione teorica. Ma che cosa può essere un
desiderio al di là del fantasma, cioè un desiderio che non sia determinato da un oggetto? È
evidente infatti che, se il desiderio patologico non è necessariamente sintomatico, un analista
come soggetto non può essere privo d’un suo desiderio patologico (fantasmatico); ma è evidente
altresì che quest’ultimo desiderio non deve manifestarsi nell’analisi, perché, se questo avvenisse,
sarebbe lo stesso analista ad uscire dalla situazione che rende analitica con il suo modo d’essere
soggetto.
267. Diciamo con una prima approssimazione che il desiderio dell’analista, cioè il desiderio al
di là del fantasma, è il corrispettivo soggettivo dell’enunciazione della regola fondamentale, e
che da esso dipende l’«ascolto fluttuante», cioè la capacità dell’analista d’ascoltare senza seguire
alcuna regola, se non quella di non seguirne nessuna. In abstracto, cioè dal punto di vista delle
significazioni, il desiderio dell’analista è desiderio di nessun oggetto, perché è desiderio di
nient’altro che d’attenersi alla regola. Attenersi alla regola è l’«oggetto» del desiderio dello
psicanalista. Si tratta, ben inteso, d’un oggetto del tutto particolare, perché ciò che la regola
enuncia è l’indeterminazione (la libertà) del soggetto. L’oggetto del desiderio dello psicanalista è
il soggetto preso non come oggetto, ma proprio come soggetto, e proprio questo basta a garantire
che il desiderio, dal punto di vista etico, non è affatto identico al desiderio patologico. Questo
non significa tuttavia che il desiderio dell’analista sia un desiderio «opposto» a quello
fantasmatico, perché, se così fosse, ci troveremmo ancora di fronte ad un desiderio fantasmatico.
Il desiderio al di là del fantasma è desiderio di soggettività, e non un desiderio di qualcosa.
Certo, la soggettività, nell’altro, è pur sempre qualcosa, finché quest’altro non è pensato nelle
sue vere coordinate, che non sono affatto quelle terapeutiche. Se restiamo fermi a queste, nulla
distingue il desiderio «dell’analista» dal desiderio fantasmatico (patologico). Come dobbiamo,
allora, pensare l’alterità dell’altro?
Non possiamo dire che l’analista non desidera nulla dall’analizzante, che il «desiderio
dell’analista» è una «x» del tutto indeterminata. Un desiderio siffatto sarebbe un non desiderio,
sarebbe semplice mancanza di desiderio. L’analista non s’aspetta nulla dall’analizzante, neppure
la sua guarigione, neppure il suo benessere; tuttavia desidera qualcosa, e lo desidera tanto
fortemente che, senza questo suo desiderio, non ci sarebbe nessuna analisi. Egli desidera che
l’altro «divenga io dove es era», cioè che sviluppi le premesse della propria soggettività al di là
delle proprie determinazioni patologiche. Una volta che abbiamo sospeso tutti gli oggetti di
desiderio e tutte le regole extra-analitiche, resta questo «oggetto» di desiderio, ch’è la
soggettività in quanto tale (la formula di Lacan, secondo la quale il desiderio dell’analista
sarebbe desiderio di produrre la pura differenza, fuori metafora, significa questo). In questo
desiderio si riuniscono le opposte determinazioni della funzione dell’analista: il suo non volerne
sapere e la sua volontà che l’analisi proceda, il suo sottrarsi al posto che gli è assegnato nel
transfert ed il suo determinare il transfert con la sua stessa presenza. Enunciando la regola,
l’analista ha pronunciato un sé fondamentale, ha dato la propria parola, ha promesso qualcosa.
Ha promesso di fare tutto ciò ch’è in suo potere perché l’altro giunga dove dice di voler
giungere, cioè alla fine dell’analisi. L’analista s’è impegnato nella propria fides – nella propria
parola –, e perciò deve risponderne. Il suo desiderio di soggettività è, al tempo stesso, fedeltà a se
stesso ed alla propria parola. Ma mantenersi in questo desiderio comporta che anche l’altro,
l’analizzante, faccia altrettanto, adempiendo a sua volta all’impegno assuntosi col domandare
l’analisi. Il desiderio dell’analista, in altri termini, non è un desiderio assoluto, anche se, per
essere fondato, deve radicarsi in un desiderio assoluto (a parlare del quale non siamo ancora
giunti). Esso è quindi determinato e messo in funzione dalla domanda dell’analizzante, che lo
determina come desiderio non assoluto, ma «di psicanalista».
Tuttavia, dicevamo poco fa che la stessa alterità dell’altro (dell’analizzante) dev’essere
pensata in termini diversi da quelli oggettuali, se vogliamo che il desiderio dell’analista sia
effettivamente diverso da quello patologico, come dobbiamo fare se vogliamo fondare la
psicanalisi come qualcosa di diverso da una psicoterapia. Non troviamo altra soluzione di tale
problema che questa: l’alterità dell’altro – cioè il desiderio patologico, divenuto sintomatico,
dell’analizzante – dev’essere, per l’analista, soltanto una figura del proprio desiderio patologico.
In altri termini, nel «desiderio dell’analista» non può esserci nulla d’«altruistico» (altrimenti non
usciremmo d’un solo passo dal desiderio patologico), perché l’alterità dell’altro non è, per
l’analista, che una figura dell’alterità del proprio desiderio patologico rispetto alla sua base etica.
Ciò significa, per quanto paradossale possa sembrare affermarlo, che l’analista e l’analizzante
non sono affatto, dal punto di vista trascendentale, due soggetti differenti, ma sono soltanto due
maschere (due personae, in definitiva due ipostasi) della soggettività in quanto tale. Ciò di cui si
prende cura un analista non è l’alterità dell’altro, perché se così fosse non saremmo ancora nella
psicanalisi, ma è la soggettività in quanto tale, cioè in quanto si manifesta anche nella patologia,
ed anzi non si manifesta affatto se non si manifesta anche nella patologia. Se quindi vogliamo
effettivamente fondare la psicanalisi in modo trascendentale, cioè davvero a prescindere dalla
patologia, possiamo farlo solo tenendo conto della patologia e del suo superamento; dobbiamo
supporre in altri termini che, come c’è, dal punto di vista descrittivo, una riduzione del senso in
significazione, del desiderio in quanto tale in desiderio patologico, e del soggetto etico in
soggetto determinato linguisticamente, così, per un altro verso e in un altro percorso (stavolta
realmente etico), c’è anche la possibilità – e il dovere – di rovesciare questa riduzione,
ritraducendo la significazione in senso, il desiderio patologico in desiderio etico e la soggettività
determinata dal linguaggio in libera soggettività.
Naturalmente, sappiamo benissimo che ciò che ora stiamo dicendo non rientra affatto nella
tradizione della psicanalisi, perché stiamo parlando in termini metafisici, più che psicanalitici
(anche se nei termini d’una metafisica ridotta all’essenziale): ma non è possibile fare altrimenti,
perché fondare un sapere è possibile solo trascendendo i limiti del campo di quel sapere, e quindi
passando da quest’ultimo al campo della metafisica, del quale fa parte il problema
epistemologico. Ma passare dal campo del singolo sapere a quello della metafisica non significa
affatto uscire dal campo della scienza, se a quest’ultimo termine diamo il valore che abbiamo
dato usando le parole «scienza nuova».

268. Solo nel tempo l’antinomia della ragione pratica può divenire il fondamento d’un’azione
etica. Quest’ultima non è l’azione legale, che obbedisce alla generalità d’una regola, ma è quella
che comporta la complementarità fra l’esigenza soggettiva di singolarità (che in termini legali si
darebbe inevitabilmente come trasgressione) e l’esigenza dell’adeguamento ad una regola. Ma
adeguarsi alla regola qui non comporta adeguarsi ad una generalità. Significa invece obbedire
alla regola dell’adeguamento ad una singolarità, cioè alla regola che impone ad ogni soggetto
d’attenersi alla propria verità, vale a dire al proprio compito etico. Essendo questa, come ogni
verità, tale solo nel tempo – nel tempo retroattivo, cioè nel tempo dell’azione –, questo tempo,
che abbiamo distinto dal tempo lineare del principio di ragione sufficiente, ha una relazione
essenziale con l’eticità. Il tempo retroattivo non è un tempo fisico, ma etico, passibile tuttavia di
determinarsi parzialmente come tempo lineare o assoluto, e quindi anche come tempo fisico,
riducendosi a queste determinazioni. Si vede allora come, mettendo la ragione pura a capo della
nostra esposizione (per una comodità di procedimento dipendente dalle abitudini della nostra
tradizione di pensiero), abbiamo compiuto in realtà anche un cammino retrogrado, risalendo
dagli effetti alla causa. Si vede in altri termini che il principio della conoscenza è etico, mentre
ogni etica che si volesse fondata sul principio della conoscenza, vale a dire direttamente in
termini epistemologici, è inevitabilmente condannata ad arrestarsi dinanzi all’antinomia della
ragione. Se, come crediamo, la psicanalisi ha permesso questo capovolgimento della prospettiva
gnoseologica, la sua esperienza ha un senso metafisico che non può essere ignorato senza che
questo comporti la vanificazione degli stessi presupposti di partenza della psicanalisi. Questa,
insomma, deve essere fondata in modo metafisico, se non vogliamo che si riduca periodicamente
ad una psicoterapia.

269. L’arte dell’analista è un’arte del tempo. Se, con l’enunciazione della regola, che dà inizio
all’analisi, egli mente, è perché mentirebbe ancora di più se non mentisse. Se dicesse
all’analizzante, all’inizio dell’analisi, ciò che questi deve scoprire solo al suo termine, cioè che
non ha nulla da chiedere a nessuno, e tanto meno a quello sconosciuto ch’è per lui l’analista, se
gli comunicasse questa verità del tutto astratta, perché fuori del tempo, e quindi questa falsa
verità, egli mentirebbe e verrebbe meno al proprio compito, e l’altro non potrebbe che andare via
da lui, per cercare da qualche altra parte quel che non gli è stato dato. Se invece l’analista, alla
fine dell’analisi, continuasse ad occupare come all’inizio il posto che gli è stato dato nel
transfert, mentirebbe ancora una volta. L’analista, dunque, desidera, ma sa che cosa significa
attendere. La sua abilità consiste nel ritardare la verità quel tanto ch’è necessario perché questa
non diventi menzogna, e nell’anticipare la menzogna quanto basta perché essa possa liberare, al
momento opportuno, la verità che conteneva.

270. Ma bisogna guardarsi dal considerare questa che abbiamo chiamato l’arte dello
psicanalista come l’abilità artificiale di qualche saper fare. Non c’è nessun bisogno che un
analista s’accorga di questo doppio movimento nel momento in cui lo effettua. Egli non deve far
altro che innescare, enunciando la regola, la situazione analitica, e seguirla sino al suo esito
naturale. Egli deve solo limitarsi a non fare da ostacolo al doppio movimento, e questo non
dipende da lui, dalla sua volontà, o dalle sue intenzioni, ma soltanto dal suo desiderio al di là del
fantasma, cioè dal modo in cui avrà fatto i conti con il proprio desiderio patologico. In definitiva,
ciò dipende da come egli avrà affrontato la propria esperienza d’analisi e da come riesce a
mantenersi soggettivamente nell’apertura ch’essa ha prodotto: insomma dalla sua ascesi
soggettiva. Questo non significa, come abbiamo visto, ch’egli si sia spogliato di tutto il suo
desiderio patologico, che se ne sia «purificato». Portare a termine un’analisi non significa affatto
liberarsi dal fantasma, ma solamente averlo attraversato, acquisendo così la capacità di non
lasciarsi ingannare e fuorviare, nell’azione, dal proprio desiderio patologico. La catarsi cui
l’ascesi analitica deve portare è così poco una purificazione dal fantasma, che solo rimanendo
fedele al suo fantasma un soggetto può avere accesso al desiderio al di là del fantasma, in quanto,
come il desiderio sintomatico contiene un’apertura al desiderio patologico, così il desiderio
patologico contiene un’apertura al desiderio etico (la contengono entrambi perché non sono,
entrambi, altro che riduzioni del desiderio etico). Attraversare il fantasma significa separarsene, e
separarsene comporta rinunciare all’oggetto del fantasma, cioè all’oggetto patologico,
elaborando il lutto della sua perdita. Ma questa rinuncia all’oggetto non è ancora una catarsi, se
non contiene in sé, in un modo che tenteremo di precisare, anche le condizioni del suo
ritrovamento.
III. L’insufficienza dello psicanalista

271. Chi sono gli psicanalisti? Per rispondere a questa domanda, in quasi un secolo di
psicanalisi, è stato prodotto solo qualche abbozzo di teoria. Gli psicanalisti non sono stati in
grado di dire che cosa ha comportato, per loro, l’essere giunti in quella posizione, e quali
modificazioni l’occuparla ha provocato nel loro essere soggettivo, cioè nello statuto del loro
desiderio. L’unico tentativo compiuto in questo senso da Lacan nel 1969, con l’istituzione della
passe, s’è risolto in un insuccesso, dal momento che da questa procedura non è stato prodotto
neppure un rigo che ci dicesse qualcosa di nuovo e d’essenziale su questo tema. Gli analisti, che
sono stati fin troppo disponibili a dire la loro su tutto, non sono mai stati in grado di dire
assolutamente nulla su se stessi. L’unica cosa che si sappia di sicuro, come dato universalmente
accettato, è che, per giungere ad occupare la posizione d’analista, bisogna aver sperimentato in
prima persona un’analisi. Ma su quali poi debbano essere gli effetti d’un’analisi la confusione
delle lingue è completa. Il minimo che ci si possa attendere da chi ha compiuto un’esperienza
soggettiva come quella analitica è che dimostri un poco di saggezza. In fondo, è quanto gli
analisti chiedono ai loro analizzanti. Ma uno sguardo anche solo superficiale a quasi un secolo di
storia della psicanalisi ci dà ben poche occasioni di constatare, da parte degli analisti, esempi di
saggezza. La storia del movimento psicanalitico è piena di beghe e di rancori personali, di
politiche da corridoio, di colpi di mano, d’astuzie e di stupidità, di follie e persino di suicidi.
Perché nasconderlo? Il re è nudo, tutti lo sappiamo, anche se osiamo dircelo soltanto di
soppiatto, quando non siamo in scena.

272. Certo, le vicende e le miserie personali degli psicanalisti non sono quelle della
psicanalisi. Cerchiamo dunque un’occasione in cui poter osservare, con occhio il più possibile
scevro da passioni, gli psicanalisti al lavoro. Dobbiamo, certamente, escludere i loro studi. Qui
ognuno di loro è solo con il suo analizzante. Non possiamo fidarci nemmeno degli analizzanti,
che hanno tutto il diritto, per i noti motivi del transfert, di vedere nei loro analisti quello che
meglio credono. Andiamo invece ad assistere ad un congresso di psicanalisti. Ce ne sono molti,
di tutte le tendenze, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Occupiamo una poltrona un po’ in
disparte, e stiamo ad osservare. La situazione sarà molto simile a qualunque congresso
scientifico o professionale. I relatori s’avvicenderanno al microfono, terranno le loro relazioni,
più o meno interessanti, più o meno intelligenti, poi seguirà un dibattito, più o meno
coinvolgente o striminzito. Niente di particolare, dunque, che distingua questo da un congresso
di dentisti o d’ingegneri navali. Ma se affiniamo lo sguardo, e se cerchiamo di cogliere, al di là
degli enunciati dei discorsi, quei minuscoli indizi in cui si tradisce sempre qualcosa della verità
d’un soggetto, se facciamo attenzione al gesto, o al tono della voce, incomincerà a profilarsi
subito una differenza fra un congresso di psicanalisti e un congresso di qualsiasi altra categoria
di professionisti, una differenza d’altronde più quantitativa che qualitativa, la quale consiste nel
fatto che tutti quei fattori di prestanza, di gerarchia, di prestigio, che nei congressi scientifici e
accademici vengono apparentemente minimizzati, se non altro per buona creanza, e perché, in
fondo, minimizzarli è sottolinearli anche più fortemente, qui saranno del tutto manifesti. Il leader
si lascia subito individuare chiaramente: egli parla a voce alta, scandendo le parole, di preferenza
in piedi, fieramente, sicuro dell’attenzione dovutagli dall’uditorio. Attorno a lui, gli intimi, i
fedeli, volteggeranno con garbo, cercando di far notare il loro non volersi far notare, esponendo
con chiarezza (in piedi o seduti, per loro è facoltativo), ma mezzo tono più in basso (l’attenzione
dell’uditorio è sempre molto alta). Poi verranno gli altri: man mano che si scende nella gerarchia
rispettati, riconosciuti, tollerati (il tono della voce e l’attenzione in sala calano
proporzionalmente). È chiaro che questi ultimi non hanno accesso a «colà dove si puote». Dove
«si puote» che cosa? Se qualcuno sa bene su che fragili basi è fondato il potere, è lo psicanalista.
Ma le istituzioni analitiche sono seconde solo alla chiesa e all’esercito nella formalità della
gestione del potere, e non sono seconde a nessuno nell’accanimento con cui queste formalità
vengono fatte valere.

273. Come valutare tutto questo? Sospendiamo ancora il giudizio. Cerchiamo invece di
valutare quei gesti abituali ai quali è impercettibilmente affidata la riconoscibilità non sociale ma
individuale d’un soggetto; cerchiamo di valutare quei piccoli sintomi ai quali affidiamo il
compito d’inviare messaggi cifrati ai nostri simili, almeno a quelli che hanno orecchie per
intendere. Di solito, per non scoprirci troppo, cerchiamo di minimizzare e mascherare questi
sintomi. Ci si aspetterebbe che gli analisti, che sono gli psicanalizzati, siano particolarmente
esperti in quest’arte. Invece è proprio il contrario, non solo non sono immuni da tali piccoli
sintomi, ma li ostentano e li sottolineano. Essi hanno per loro valore di significanti. Gli
psicanalisti si fanno rappresentare dai loro sintomi come da trofei di guerra, come da cicatrici di
vecchie battaglie.

274. Certo, abbiamo scherzato. Ma era solo per dire che chi cercasse negli psicanalisti segni
di particolare distinzione rispetto ai comuni mortali resterebbe deluso. Gli analisti non sono che
comuni mortali un po’ più comuni degli altri. Questo «un po’ più», per il quale Freud coniò il bel
termine di «narcisismo delle piccole differenze», è tutto quello che li distingue. Allora, sarebbero
questi gli effetti dell’analisi? Saremmo ingiusti a voler giudicare gli analisti a partire da qui.
Nessuno ha mai pensato che l’analisi debba sfornare degli uomini perfetti. Con l’analisi si
diviene quello che si è, non quello che non si è mai stati. Essa esalta le qualità dei soggetti, ma
spesso anche i loro difetti: le loro vanità, le loro ingenuità, le loro debolezze. Gli analizzati non
sono affatto immuni dall’inconscio e dalle sue formazioni: sogni, lapsus, sintomi, transfert;
anche gli analisti, insomma, dimenticano, ed hanno, qualche volta, orrore di sapere. Non sempre
sono all’altezza del loro compito e della loro esperienza. E come non comprenderli? Come
potrebbero vivere se non dimenticassero? Di qui la circostanza inevitabile che solo raramente la
psicanalisi è stata all’altezza del suo compito. E questo non solo è comprensibile, ma è forse
addirittura necessario. Tuttavia, se sopportiamo che tutti gli altri dimentichino, tolleriamo male
che dimentichi anche chi è più vicino a quel sapere essenziale che chiamiamo l’inconscio. Ma è
un errore. Senza quel particolare tipo di stupidità che viene agli esseri parlanti dal meccanismo
del significante, non potremmo più nemmeno pensare. Da questa stupidità, gli analisti non sono
più al riparo degli altri.

275. Quest’orrore di sapere che li caratterizza, come tutti i comuni mortali, forse solo un po’
più degli altri comuni mortali, non si manifesta soltanto nelle loro debolezze e vanità. Ha effetti
anche più gravi, perché rischia in continuazione di far sparire dalla loro esperienza
quell’equilibrio vitale che ne fa un’esperienza etica, e non più patologica. Il doppio movimento
è, di tutti i movimenti, il più difficile. Per i ginnasti, alle parallele o agli anelli, la cosa più ardua
è la conclusione dell’esercizio, è lasciare l’attrezzo e toccare terra di nuovo. Finché si volteggia a
corpo libero nel vuoto, è facile essere eleganti ed aerei nei gesti, ma quando si salta e si deve
toccare terra, la goffaggine è quasi inevitabile, perché qui, dal movimento libero, si deve passare,
nell’attimo dell’impatto con il suolo, alla stasi. Ma l’impatto stesso crea un altro movimento
opposto al primo. Il principio fisico della reazione che risponde ad ogni azione ha le sue leggi, e
tenderebbe a rilanciare l’atleta verso l’alto. Il salto finale è un doppio movimento, perciò non ho
mai visto un ginnasta concludere perfettamente il proprio esercizio. Per quanta perfezione si
possa dimostrare, l’impatto può essere soltanto mascherato, non è mai davvero eliminato. Agli
analisti, come ai santi e agli artisti, s’impone di continuo un problema del genere: come toccare
terra dopo il volo? Il momento decisivo è questo dell’impatto. Come far volare ancora dei piedi
che stanno saldi in terra? Come essere leggeri anche sul suolo?
276. Quindi non c’è da stupirsi se gli analisti sono continuamente risospinti nella goffaggine
umana, se cedono di continuo, senza grazia, al loro desiderio patologico, con la volgarità di chi
trasforma il dramma del tempo talvolta in una terapia, talaltra in una frode. Questi due esiti sono
uguali e contrari: un po’ più d’altruismo e di volontà di guarire, ed ecco l’analista trasformarsi in
un professionista; se invece eccede in senso contrario, se fa della necessaria menzogna una
posizione di comodo, se si lascia andare, soltanto per un attimo, per tirare il respiro, a fare la
commedia, eccolo divenuto un farabutto. In un caso e nell’altro, per i professionisti e i farabutti,
l’esperienza è fallita, e il doppio movimento, ammesso che sia stato tentato, s’è concluso assai
miseramente. La cosa più seccante in tutto questo è che nessuno può sentirsene immune. Infatti,
se ci si sentisse così, se si cessasse d’avvertire il rischio assoluto del doppio movimento, si
cadrebbe, con questo, più in basso non solo dei professionisti, ma anche dei farabutti. Un analista
che non avesse anche orrore del suo atto, anche orrore della sua verità e della sua finzione,
sarebbe solo un’oscena incarnazione dell’anima bella. Non possiamo dunque eliminare
quest’orrore dallo psicanalista senza perdere, con questo, tutto il resto. Non possiamo concepire
un analista perfetto perché, se fosse perfetto, non sarebbe analista. In altri termini, si può
mancare di tutto, non della mancanza. Questo non significa però che basti la mancanza per essere
analista.

277. Che relazione dobbiamo porre ora fra tutto questo e l’interpretazione, cioè l’atto
analitico? Un doppio movimento, per essere tale, deve contenere in sÌ non solo il volo, ma anche
la caduta. L’insufficienza dello psicanalista è una componente necessaria dell’atto analitico. Un
esempio, un breve resoconto d’una seduta d’analisi, lo può dimostrare. Una giovane donna, che
da qualche anno faceva la sua analisi con me, prese un giorno, in seduta, senz’alcun motivo
apparente, ad insultarmi. Niente di strano, certo, con quella che si chiama un’isteria. Avrei potuto
sorvolare (anche se questo, con l’isteria, è sempre molto rischioso) se questi insulti non
m’avessero riguardato da vicino. Tutto ciò che facevo, essa diceva, era squallido: il mio lavoro,
l’arredamento del mio studio, anche i miei seminari. Sapevo bene, da ciò che in tutto il tempo
precedente m’aveva raccontato di se stessa, che lei avrebbe potuto difficilmente evitare
d’assimilare il mio successo panciuto di professionista ad un mondo borghese che aveva ottimi
motivi per disprezzare. Certo, io non ero solo – non lo credo – un professionista panciuto
(benché fossi entrambe le cose), ma in definitiva lei, di me, che poteva sapere?
Allora, avrei dovuto scusarla? Sentii che qualcosa me l’impediva. Certo, sapevo bene che alla
sfida isterica bisogna sempre rispondere, che il soggetto aspetta solo di dimostrare all’altro la sua
impotenza, e che quindi è perduto, ai suoi occhi, chi non raccoglie il guanto. Tutto ciò lo sapevo,
ma questo mio sapere non mi servì. Urgeva, certo, «un’interpretazione», ma non era con quel
mio sapere che avrei potuto fabbricarla, fingendo uno sdegno che non avessi sentito. Del resto,
fingere non mi servì, nÌ mi sarebbe servito. Certamente, sapevo anche che lei non credeva sino in
fondo a tutto ciò che diceva; ma non per questo le sue offese erano meno taglienti: le aveva
scelte anzi con tale oculatezza che non uno dei suoi insulti era caduto nel vuoto. Chi dice che,
nonostante il transfert, e per quanto all’oscuro possa essere su chi sia il suo analista, un
analizzante non sappia, forse senza sapere di saperlo, con chi ha a che fare veramente? Si badi
bene, ciò ch’è in questione qui è proprio l’essere dell’analista: non il suo desiderio, in quanto
strutturato da un fantasma, ma il suo desiderio al di là del fantasma, cioè quel desiderio che lo
definisce come soggetto etico, non come soggetto patologico. Soltanto in questo senso le accuse
della giovane mi chiamavano in causa, e proprio per questo sapevo che dovevo intervenire (se si
fosse trattato soltanto d’un mio sintomo, non ci sarebbe stato niente d’insolito: la prima cosa che
fa qualunque isterico è mettere in analisi il suo psicanalista). Se avessi creduto anche per un
attimo, con la scusa del transfert, che queste accuse non fossero rivolte veramente a me, avrei
commesso un errore imperdonabile. Mi dimostrava il contrario, d’altra parte, il fatto che ognuna
delle parole con cui quella giovane, solitamente sempre molto gentile, m’insultava, mi colpiva a
fondo, mettendomi con le spalle al muro della più pura evidenza. Quell’accusa di squallore, per
esempio. Non c’è forse davvero qualcosa di squallido in ciò che fa sempre un analista? In quel
suo limitarsi ad ascoltare – ed in modo «neutrale»! – dove sarebbe molto più dignitoso coprirsi il
capo con un manto, come Agamennone nel dipinto antico? Non c’è forse qualcosa d’impudico in
questa sua volontà d’ascoltare? Mi sentii raggelare. Ciò che avvertii in quel momento ha solo un
nome: vergogna. E fu proprio questo a salvarmi (e a salvare l’analisi). In fondo, se potevo
vergognarmi di ciò che lei diceva, se potevo riconoscere ch’era tutto vero, proprio questo mi
dimostrava che non era, invece, tutta la verità. Se potevo sentire vergogna non ero perduto, non
ero ancora un professionista. E fu questo a darmi la possibilità d’indignarmi. In quanto
professionista meritavo i suoi insulti, ma in quanto me – in quanto soggetto etico, insomma – la
cacciai fuori in malo modo. Lei reagì cercando di colpirmi: il dramma era al suo culmine, tanto
più ch’io non fingevo affatto d’essere furibondo: lo ero veramente, anche se, beninteso, stando
nella mia parte di psicanalista, m’assumevo pure la finzione d’esserlo. La spinsi energicamente
verso l’uscita. Allora lei si rannicchiò in un angolo e mi guardò atterrita. Mi pregò di non
cacciarla, perché «non aveva nessun altro». Era chiaro che questa donna m’aveva messo alla
prova, ed anche che l’avevo superata. Ma se non mi fossi vergognato prima e poi adirato
davvero, se ne sarebbe accorta. Allora avrebbe avuto ragione di considerarmi squallido, e la sua
analisi sarebbe diventata impossibile. Certo, avrebbe potuto continuare, come l’analisi dell’uomo
di cui parla Helene Deutsch. Ma se io non mi fossi presentato a quell’appuntamento, se non
avessi capito che in esso suonava, per me, l’ora della verità, quest’ora non avrebbe più potuto
suonare per lei, se non a condizione d’abbandonare l’analisi. Infatti, era la mia verità che aveva
voluto mettere alla prova, e la mia verità passava per la mia vergogna.
IV. L’ascesi analitica (prima parte)

278. Il breve frammento d’analisi che abbiamo appena esposto c’insegna prima di tutto, e con
ogni evidenza, che l’analista non agisce con il suo sapere o con il suo saper fare. Questo sapere
gli è certo indispensabile per reperirsi nel suo atto, ma l’atto, in cui consiste l’interpretazione,
non proviene da lì. Certo, l’analista è preso, nell’analisi, come una mera astrazione, cioè nel suo
«disessere». Ma questo non significa che il suo essere debba – e tanto meno possa – non avere
alcuna funzione. In definitiva, se egli agisce, nel transfert, col suo non volerne sapere, cioè per
quello che non è – e questo mostra all’analizzante quanto si fosse ingannato su di lui –, è proprio
per quello che è che agisce nell’interpretazione. Ma che cosa definisce un analista come tale?
Non possiamo rispondere a questa domanda chiamando in causa la funzione ch’egli svolge
nell’analisi, poiché questa funzione è duplice, ed è riferibile per un verso al suo «disessere», per
un altro al suo essere. Ora, se possiamo definire il suo «disessere» negativamente, quindi in base
a delle mere determinazioni linguistiche, per definire il suo essere dobbiamo riferirci invece alla
sua concreta soggettività, cioè al rapporto fra il suo desiderio patologico e il fondamento di
questo suo desiderio patologico, fondamento che possiamo pure chiamare desiderio «etico», ma
con l’avvertenza che nessun desiderio è etico in quanto tale, perché anzi il desiderio «in quanto
tale» – quello che, nel nostro mito della genesi dell’oggetto di desiderio, abbiamo dovuto
presupporre come preliminare al desiderio patologico – acquista uno statuto etico solo
retroattivamente, allo stesso modo in cui il senso, pur essendo da un certo punto di vista
preliminare alla significazione, non è definibile come senso se non a partire dal superamento
della significazione.

279. Quali sono dunque le condizioni trascendentali di possibilità d’essere analista? Quale
trasformazione deve compiersi nello statuto trascendentale d’un soggetto perché questi possa
svolgere tale funzione? Già nella ragione pratica abbiamo definito l’essere d’un soggetto in base
a un desiderio che egli può riconoscere proprio. Ma il desiderio nel quale s’esprime e nel quale
consiste l’essere di ciascuno (e l’essere dell’analista, da questo punto di vista, non è che un caso
particolare, nell’ambito della problematica generale dell’individuazione soggettiva) non è il
desiderio fantasmatico o patologico. Abbiamo definito invece il desiderio dell’analista (che,
ancora una volta, non è che una figura del desiderio etico) come desiderio di soggettività. Proprio
questo desiderio, che sarebbe al di là del fantasma, definisce il passaggio dalla ragione pratica,
cioè dal patologico, alla ragione etica. L’analisi è il processo temporale in cui si compie tale
passaggio. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per divenire analista, è dunque
d’aver portato a termine un’analisi. Non abbiamo ancora spiegato, tuttavia, come l’analisi può
produrre questi effetti soggettivi, e quali sono i meccanismi decisivi della sua azione. Ma porre
questo problema significa chiedersi quali sono gli effetti dell’analisi sul desiderio patologico, e a
quali condizioni essa può dirsi terminata.
A questo punto è necessario notare tuttavia che l’impostazione che stiamo dando ora al nostro
interrogarci è induttiva, e non deduttiva. Posto che l’analisi può produrre un analista, e che un
analista è tale solo in base ad un’impostazione etica della sua azione, ci stiamo chiedendo in che
cosa consiste questa impostazione. Tuttavia, quando avremo risposto a questa domanda, non
avremo solo definito la posizione etica dello psicanalista, ma avremo anche incominciato a
delineare i tratti della posizione etica di qualunque soggetto nella propria azione. L’etica della
psicanalisi, infatti, per noi, non è che una determinazione particolare dell’etica, e invece non è
un’etica propria alla sola esperienza analitica (l’etica d’un’esperienza non si differenzia in nulla,
infatti, dalla deontologia, e per la psicanalisi la deontologia non può che essere una conseguenza
particolare dell’impostazione etica che l’analista dà alla propria azione soggettiva, perché se così
non fosse non ci sarebbe alcuna differenza fra praticare la psicanalisi e praticare qualsiasi altra
professione).
280. Per poter essere considerata una, quindi effettivamente terminata, un’analisi deve
configurarsi come un processo alcune fasi del quale devono essere ben definite ed individuabili.
Qualunque processo temporale è determinato da un percorso che riunisce insieme, secondo
alcune leggi di coerenza, un inizio ed una fine. Per determinare le condizioni finali
dell’esperienza analitica è conveniente dunque cercare d’articolarle a partire da quelle iniziali.
Tali condizioni sono state già esposte da noi a proposito della formulazione della regola
fondamentale. Quest’ultima, in quanto regola d’abolizione di tutte le regole, e quindi regola
meramente formale, non è tuttavia sufficiente a determinare le condizioni iniziali d’un’analisi.
Bisogna infatti che la sua enunciazione venga preceduta da un atto, veramente fondante, la cui
iniziativa non è dell’analista, ma del soggetto che intende affrontare l’esperienza: la domanda
d’analisi. La domanda d’analisi è la condizione primaria di possibilità dell’avviarsi
dell’esperienza analitica. Per quanto infatti, in psicanalisi, l’offerta preceda la domanda, perché
nessuno può domandare un’analisi se non sa ch’essa esiste, e che qualcuno la pratica, la
formulazione della domanda è la condizione prima – benché ancora meramente formale –
dell’inizio dell’analisi. Ma la funzione di tale domanda è meramente formale solo in apparenza.
In realtà, formulando, anche nelle sole significazioni, e quindi nella parola vuota, tale domanda,
il soggetto promette d’impegnarsi nel lavoro che sta per iniziare e, così facendo, si pone già,
sebbene in modo «inconscio», nella posizione dello psicanalista. Se l’analizzante non fosse in
questa posizione, sia pure del tutto astrattamente, fin dalla prima seduta, nessuna analisi potrebbe
mai dirsi finita, perché nessuna sarebbe mai veramente cominciata. Cominciare un’analisi
comporta già una decisione etica, per quanto implicita essa possa essere. Per fare un’analisi non
è sufficiente averne una vaga intenzione, bisogna anche volerlo. L’analista può intervenire solo
dando il cambio, con il suo desiderio, al desiderio iniziale del soggetto, come s’è implicitamente
determinato nella sua domanda. In altri termini, il desiderio dell’analista, che abbiamo definito
come desiderio di soggettività, è in principio, per l’analista, il desiderio di quell’altro ch’è per lui
chi domanda un’analisi. In questo, il desiderio dell’analista è un desiderio «dell’altro» come ogni
desiderio.
Ma abbiamo visto che l’analizzante, se certamente è un altro per l’analista, è anche un altro
ch’è figura, persona, ipostasi del desiderio patologico. In altri termini, la situazione analitica non
è altro che un’inscenazione (purché non diamo a questo termine nessun valore di finzione) della
divisione costitutiva della soggettività. È su questo sfondo che bisogna intendere sia la
fenomenologia dell’analisi nel suo percorso, sia la problematica propriamente etica ch’esso pone.
Ora, se l’analista non può non avere un concetto di che cos’è un’analisi, per averne fatto
esperienza già almeno una volta (il che però non gl’impedisce d’affrontare ciascuna analisi come
fosse la prima, o forse addirittura l’unica), non possiamo invece in nessun modo attribuire tale
consapevolezza all’analizzante. Chi domanda un’analisi non sa, nÌ può sapere, che cosa
domanda, dal momento che non possiamo considerare come vero sapere le informazioni che egli
può avere assunto sull’analisi stessa. Queste non derivano dalla sua esperienza e, vere o false che
siano, non hanno altro statuto che di pregiudizio, nÌ hanno altro valore che di transfert.

281. È dunque escluso logicamente e a priori che, in una domanda d’analisi, venga
domandata proprio un’analisi, dal momento che chi formula questa domanda non può avere, di
quanto chiede, altro che un concetto linguistico, e non un’esperienza. Qualunque idea il soggetto
si sia fatto su che cos’è un’analisi, quest’idea è determinata da un sapere vuoto, cioè da alcune
informazioni, alle quali il soggetto avrà dato un senso, ma solo con il suo desiderio, cioè con il
suo fantasma; quindi questo sapere è necessariamente estraneo al senso dell’analisi, se non per il
versante del transfert. In altri termini, s’è vero che, come abbiamo visto, è l’analista stesso ad
installarsi, con l’enunciazione della regola, nel posto del soggetto supposto sapere, è anche vero
ch’egli non vi si può installare se non nel fantasma dell’altro, che già di per sÌ possiamo definire
come disposizione al transfert, e che quindi è un fattore del tutto preliminare all’analisi.
Qualunque cosa domandi chi domanda un’analisi, domanda appunto qualcosa. Il desiderio che lo
spinge a formulare la domanda è il desiderio d’un oggetto, è dunque un desiderio patologico. La
domanda d’analisi può essere formulata per esempio come domanda di terapia. Il soggetto
domanda che ci si prenda cura di lui. Si può domandare un’analisi come si domanda un farmaco
a un medico. Si domanda sempre per ottenere qualcosa, si domanda quello che vogliamo che ci
venga dato. Ora, una domanda formulata in questi termini non è ancora una domanda d’analisi.
Perché un’analisi inizi veramente è necessario che questa domanda cambi di statuto, cioè che il
soggetto sappia di domandare qualcosa che non gli verrà dato; che sappia che l’analista non potrà
essere per lui altro che una guida, e che perciò dovrà essere lui stesso a darsi quello che domanda
all’analista. Non si può parlare d’una domanda d’analisi se il soggetto non sarà in qualche modo
al corrente di questa condizione del lavoro analitico, e non l’avrà accettata.

282. Diventa chiaro a questo punto come la domanda d’analisi presenti già il soggetto nella
sua divisione. Per un verso, in quanto domanda, egli è il soggetto della ragione pratica, cioè il
soggetto del fantasma e del transfert; per un altro, invece, è un soggetto completamente diverso,
che ha già accettato, benché senza saperlo veramente, di non avere nulla da domandare ad un
altro. In definitiva il soggetto è già arrivato, domandando un’analisi, nella posizione soggettiva
nella quale si ritroverà, nella migliore delle ipotesi, alla fine dell’esperienza. Infatti un’analisi
finisce nel momento in cui il soggetto è ormai certo di non avere più nulla da domandare, è cioè
certo del fatto che nessun altro potrà valere per lui come rappresentante dell’altro in quanto tale.
In un certo senso, sebbene solo in perfetta astrazione, l’analisi è già terminata nel momento in
cui può cominciare (e in questo senso Lacan diceva che la guarigione è la domanda d’analisi; ma
questo «in un certo senso» deve avere tutto il suo peso; dovranno passare solitamente alcuni anni
perché il soggetto possa sapere veramente ciò che aveva saputo solo astrattamente nel momento
iniziale, cioè il fatto che la realizzazione del suo desiderio può dipendere solamente da lui
stesso). Il momento iniziale e quello terminale dell’analisi coincidono dunque nel fatto che in
entrambi il soggetto sa che ciò che domanda non può essergli dato, tuttavia con questa
importante differenza, che mentre nel momento iniziale questo è solo un sapere astratto, cioè un
sapere non soggettivo, un sapere che, per il soggetto, non ha senso, perché esso non corrisponde
a nessuna esperienza reale, nel momento finale il soggetto invece saprà questo in ben altro modo;
il suo sapere sarà un vero sapere, dotato di tutto il senso di cui alcuni anni d’esperienza
soggettiva lo avranno riempito. Ora il soggetto sa come, all’inizio, era solo il suo analista a poter
sapere, che cos’è un’analisi. Certo, il fatto d’aver usato la parola «senso» a proposito del
riconoscimento soggettivo del lavoro svoltosi nell’analisi può sembrare eccessivo, dal momento
che nulla garantisce che l’esperienza dell’analisi stessa sia formulabile, alla sua conclusione,
effettivamente in tali termini. Diciamo con una prima approssimazione che, per poter ricorrere al
termine «senso» senza esitazioni, dobbiamo supporre che non solo l’analizzante ha compiuto
sino in fondo la propria esperienza, ma ch’è anche in grado di formularla teoricamente, vale a
dire secondo una teoria che sia, per lui, soggettivamente, e non solo matemicamente articolata.
Probabilmente lo scopo che Lacan si prefiggeva nella passe era proprio di dimostrare
quest’articolazione, la quale è l’unica a poter rendere conto, in termini di dimostrazione, del fatto
che qualcuno è davvero nella posizione dello psicanalista.

283. Il soggetto della ragione etica è già incluso implicitamente nel soggetto del fantasma
della ragione pratica, allo stesso modo in cui questo è implicitamente incluso nel soggetto della
ragione pura e della conoscenza. Quelli che per comodità espositiva abbiamo considerato come
tre distinti soggetti non poggiano, in realtà, su basi diverse, o su facoltà diverse, ma sono lo
stesso soggetto, lo stesso soggetto diviso, cioè lo stesso soggetto temporale. Come il soggetto
patologico è in realtà già contenuto nel soggetto della conoscenza, cioè della ragione pura,
perché il desiderio è il contrario del tempo; e come la ragione pratica non è che un tentativo di
risolvere l’antinomia che la definisce, ma i cui presupposti sono nella divisione del soggetto della
ragione pura; così il soggetto etico, quello il cui desiderio è al di là del fantasma, è incluso
implicitamente nel soggetto del fantasma e della ragione pratica. Il principio dell’azione etica è
l’antinomia della ragione pratica, ribaltata nel doppio movimento nel quale si realizza il concetto
della ragione etica.

284. L’antinomia della ragione pratica, nella sua prima figura, consiste in questo, che ogni
determinazione acquisita dal soggetto nel modo dell’avere rimane una determinazione negativa,
mentre ogni determinazione acquisita da lui nel modo dell’essere comporta una rinuncia. Questa
tuttavia, come abbiamo già avuto modo d’osservare, è solo la conseguenza della divisione
costitutiva del soggetto. Non c’è soggetto se non rappresentato dal significante, ma il
significante, che rappresenta il soggetto, gli si oppone proprio per questo come un altro. Nel suo
essere, il soggetto è dunque mera mancanza di significazione. Egli potrà acquisire una
significazione soltanto a condizione di sottomettersi alla legge del significante, e quindi di
«disessere». Essere comporta per il soggetto la perdita della significazione: avere significazione
comporta invece la perdita dell’essere, segnatamente di quella parte essenziale del suo essere
ch’è la sua soddisfazione, raccolta in quanto tale nell’oggetto di desiderio. Il «disessere»
soggettivo comporta dunque il sacrificio d’una soddisfazione. E ciò che la psicanalisi, sin dal
primo momento, ha designato col termine «castrazione». Il concetto di castrazione può ridursi
sinteticamente a questo, che il soggetto non ha accesso all’ordine del significante e della legge se
non al prezzo della rinuncia ad una soddisfazione essenziale. Il mito dell’incesto è la figura del
desiderio fondamentale del soggetto di riunire in sÌ entrambe le determinazioni dell’essere e
della soddisfazione. Il mito dell’incesto è il mito d’un soggetto che sarebbe nell’altro senza
perdita, cioè senza cancellarvisi. Ma ciò che la legge interdice – l’incesto – è ciò che per il
soggetto è strutturalmente impossibile. Il soggetto dunque non può sottrarsi al sacrificio
dell’oggetto, alla rinuncia alla sua soddisfazione, se non per rinunciare al proprio essere, come
chi, aggredito da ladri a mani armate, non può scegliere di conservare la borsa se non al prezzo
di perdere la vita. L’antinomia della ragione pratica è questa scelta impossibile. Ora, il soggetto
che qui deve scegliere è determinato dal tempo. La soluzione della ragione pratica, quella del
fantasma, invece prescinde dal tempo. Essa può essere quindi solo una soluzione immaginata. La
realizzazione del fantasma produce, in effetti, solo la ricaduta nella necessità della rinuncia (ch’è
la soluzione nevrotica) o nella ripetizione illimitata del passaggio all’azione (ch’è la soluzione
perversa).

285. La soluzione nevrotica, quella della rinuncia alla realizzazione del desiderio, è
certamente illusoria. Nessun desiderio può restare realmente insoddisfatto, poiché il desiderio è
l’essere del soggetto, e il soggetto non può mai rinunciare realmente al proprio essere. Il sintomo
è il compromesso cui giunge la nevrosi fra la tendenza alla soddisfazione del desiderio e la
necessità della rinuncia: il desiderio non sarà realizzato, ma si soddisferà nel sintomo, benché
soltanto nel dispiacere. La soluzione perversa è invece delusoria. Il desiderio si soddisferà nella
messa in atto, concedendo un piacere al soggetto; ma ogni soddisfazione del desiderio è parziale,
perché l’oggetto del desiderio non è il piacere raggiunto, ma un «più piacere» (mehr von Lust)
che resta sempre al di là della soddisfazione ottenuta. La soluzione perversa è condannata perciò
alla reiterazione infinita dell’azione, la cui stessa ripetizione significherà per il soggetto la sua
insoddisfazione, e troverà ben presto un limite nelle reali possibilità soggettive di disporre
d’oggetti di piacere.
Ora, che cosa ha da opporre l’analisi a queste due soluzioni, tutte le volte che risultino
insoddisfacenti per il soggetto? Essa promette la dissoluzione del sintomo (o la rinuncia
all’azione perversa). Ma che ne è del desiderio e del fantasma, sui quali il sintomo si sostiene?
L’analisi non può estinguere né il primo né il secondo. Freud esprimeva questo parlando
dell’indistruttibilità delle pulsioni, e proponeva una soluzione diversa, la Bändigung,
l’imbrigliamento o addomesticamento delle pulsioni, strumento privilegiato della quale è la
sublimazione. Ma qualsiasi addomesticamento della pulsione comporta una rinuncia,
l’accettazione d’una perdita (nella formula freudiana: il riconoscimento della castrazione), cioè
l’elaborazione del lutto per la perdita dell’oggetto in cui è racchiusa l’essenza del soggetto.
Quale che possa esserne l’esito, il lavoro d’analisi deve passare comunque attraverso la rinuncia
non ad un oggetto qualsiasi, ma a quello nel quale il soggetto ha illusoriamente riposto il proprio
essere, al nucleo della sua stessa essenza soggettiva. In ogni analisi abbastanza avanzata il
soggetto si troverà prima o poi dinanzi alla necessità di questa perdita, cioè dinanzi alla necessità
di privarsi, per poter sopravvivere, proprio di quella parte di sÌ che gli appare come la più
preziosa, e senza la quale non potrebbe vivere. Ogni analisi pone prima o poi il soggetto dinanzi
a quello che abbiamo chiamato il paradosso tragico, di doversi sottomettere ad una legge ch’è
contraddittoria con se stessa, perché è per un verso la condizione del desiderio, e per un altro
l’ostacolo alla sua realizzazione. Ora, se questo paradosso tragico non comportasse una
soluzione – una catarsi –, il lavoro dell’analisi sarebbe del tutto vano, in quanto la sua funzione
sarebbe semplicemente di rendere accettabile una rinuncia che fino alla sua conclusione era stata
rifiutata. Una volta impostato il problema in questi termini, appare tuttavia evidente non solo che
questo esito sarebbe vano, perché nessun soggetto vi si rassegnerebbe, ma sarebbe oltre tutto
colpevole, perché in esso il soggetto si lascerebbe eventualmente convincere ad accettare questa
perdita soltanto da un’illusione: non più da quella del fantasma, ma da quella dell’ideale d’una
causa, la quale non sarebbe meno menzognera per il fatto d’agitare il vessillo della verità
soggettiva.
V. Abramo, o il doppio movimento

286. Ci sono alcuni luoghi del mito che i pittori hanno prediletto da sempre, anche per motivi
solo figurativi, perché offrivano loro più occasioni di manifestare le astuzie e gli splendori
dell’arte. Eppure la pittura è in sé la meno adatta delle arti ad esprimere il mito. Il mito è
narrazione, e la pittura non narra. Essa può solo inscenare o rappresentare un’azione, che
tuttavia, nella pittura, è per sempre sospesa. Questo non significa però ch’essa sia fuori del
tempo. La pittura dimostra che, come il silenzio può diventare musica, anche un’apparente
immobilità può essere un momento dell’azione.
Il sacrificio d’Abramo è uno di questi luoghi prediletti. Eppure, la pittura che può dirci
d’Abramo? Essa può rappresentare soltanto un assassinio sospeso. Una mano di vecchio è levata,
e stringe un coltello. Il volto del vecchio è sempre inespressivo. Nessun pittore ha mai neppure
tentato di descrivere, nel volto d’Abramo, la sua anima, e questa è la prima grandezza della
pittura (cosé la narrazione biblica non ci dice niente di ciò che Abramo pensa, e si limita ad
esporre degli eventi). Un ragazzo è legato e stranamente tranquillo, come non avesse altro da fare
che dare occasione all’artefice di manifestare la propria bravura nel trattamento del nudo. La luce
scivola sul suo corpo, ch’è diventato luce a sua volta. Soltanto Caravaggio è riuscito a dipingere
il grido soffocato d’Isacco. La scena, sullo sfondo d’un paesaggio serale, profondamente sereno,
è la mera rappresentazione d’un macello. Isacco viene scannato come una pecora o un vitello.
Ma noi possiamo ancora comprendere il suo dolore e il suo stupore; invece non possiamo
comprendere Abramo, che stringe con una mano il collo di suo figlio e con l’altra leva in alto la
lama. Intanto, dall’esterno, compare un’altra mano, a intimare un arresto.

287. Chi dice che la pittura non può rappresentare il tempo? Essa fa molto di più, perché
rappresenta l’azione, che addirittura è la scaturigine del tempo. In un dipinto, rigorosamente, non
accade nulla. La pittura, infatti, assolutizza il tempo, in questo modo azzerando, ma non
annullando il tempo dell’azione. Noi però percorriamo con gli occhi la superficie della tela, e
leggiamo nel tempo anche il tempo azzerato dell’azione dipinta, riproducendolo in noi, o meglio
inserendo noi stessi in quel tempo azzerato ch’è il tempo dell’origine. Vediamo prima Isacco. Il
suo corpo occupa il primo piano, è offerto in sacrificio persino al nostro sguardo. Questo corpo
ci affascina. I pittori hanno preferito un Isacco adolescente. Il corpo infantile è un corpo ancora
astratto. Per esempio, noi non possiamo identificarci con le vittime ignare d’una strage degli
innocenti. Invece, dobbiamo comprendere Isacco, dobbiamo fare nostro il grido che gli spalanca
la bocca, in una smorfia ch’è ancora più di stupore che di vero dolore. Poi volgiamo lo sguardo
verso Abramo, avvolto in ampi drappi, che lasciano nudi, offerti al nostro sguardo, solo la mano
e il volto inespressivo. Abramo non sembra, invece, addolorato. Tutto ciò che il suo viso deve
esprimere è la risoluzione, e questa è espressa nel modo migliore già dalla sola mano. Perciò il
suo volto, anche se non appare velato, o di scorcio, non deve esprimere nulla. La mano levata
dice già tutto quello che deve dire: un attimo, e s’abbatterà sul corpo del ragazzo. Eppure
quest’attimo può essere infinitamente e crudelmente protratto dalla pittura solo perché è un
attimo sospeso nella storia o, per meglio dire, è l’istante in cui la storia continua a ritornare e ad
essere attuale per noi tutti. L’altra mano, quella che intima la sosta, quella che l’angelo sporge
verso Abramo, esprime invece un altro tempo, ch’è la sospensione del tempo. È solo grazie ad
essa – alla presenza dell’angelo – che quest’azione sospesa può valere per sempre come una
figura del tempo assunto nella sua originaria purezza, cioè nella sua originaria atemporalità.

288. La pittura, dunque, non solo non è incapace di dare espressione al tempo, ma esprime il
tempo nelle sue tre dimensioni e nel loro implicarsi ed esplicarsi. Il tempo è l’explicatio
dell’azione. Sulla tela vive non solo un tempo, ma il tempo nella sua triadicità. La pittura,
proprio in quanto è pittura, ci dice qualcosa che il racconto deve invece tacere: che tutto il tempo
è sospeso al gesto omicida d’Abramo, che quella mano levata, che sta per ricadere, contiene tutto
il tempo della storia. Da essa viene la memoria, il passato, il desiderio, e tutto ciò che Abramo
sta uccidendo; da essa viene il futuro, l’attesa, l’apertura; da essa dipende anche quell’altra mano
che le impone d’arrestarsi, e che non sarebbe comparsa se Abramo non avesse già deciso
d’infliggere il colpo mortale. Persino il capro con le corna ricurve che s’intravvede poco più
lontano è stato creato dal nulla dallo scatto della mano d’Abramo.

289. Come la pittura, il racconto biblico sottolinea questa funzione della triadicità nel
racconto. Esso ci dice che Abramo impiegò tre giorni per giungere al monte Moriah.
Kierkegaard, che ci ha lasciato il commento più luminoso e dolente di questa parte della Bibbia,
e ch’è stato l’unico ad avere la forza non di guardare nell’anima d’Abramo, ma solo di vedere
che tutta la vicenda non può essere compresa se non teniamo conto del tempo prima del
sacrificio, perché quel tempo è il tempo dell’angoscia, non ci ha detto perché quei giorni
dovessero necessariamente essere tre. Forse che l’Onnipotente non avrebbe potuto prescrivere un
luogo più vicino al sacrificio, o un luogo più lontano? Ma, se leggiamo il testo, capiamo, senza
sapere perché, che tre giorni sono il tempo giusto per Abramo, che quei giorni non avrebbero
potuto essere di più o di meno senza che questo rendesse tutta la vicenda insensata.

290. Il primo giorno Abramo partì. Egli non disse nulla del motivo del viaggio, né a Sara, né
al suo servo, né ad Isacco. Egli doveva obbedire. Il Signore gli aveva detto d’andare, di prendere
il figlio atteso per tanti anni con una fede che tutto faceva sembrare assurda, e d’offrirglielo in
sacrificio su quel monte. Ed ecco, Abramo è partito. Come ha potuto farlo cosé tranquillamente,
e senza suscitare i sospetti di nessuno? Eppure noi sappiamo che cosa fosse Isacco per lui.
Questo figlio era la promessa del tempo. Ricordiamo: Abramo era già vecchio, e la promessa che
gli aveva fatta il suo Signore, d’essere il capostipite d’una stirpe che sarebbe durata per sempre,
questa promessa in cui Abramo aveva creduto fermamente, sino a farsi come un’acqua tersa ad
ogni volere del suo Dio, non era ancora adempita. Abramo, vecchio, tuttavia non dubitò. Sua
moglie dubitò, e rise, quel giorno che i tre visitatori, che si recavano a Sodoma, le annunciarono
che, dopo un anno, avrebbe concepito, come se la notizia di quel concepimento dovesse legarsi,
per qualche misterioso motivo, con l’annuncio della distruzione della città perversa. Sara dubitò,
ma non Abramo. Quando suo figlio nacque, quel figlio era ben più che un figlio, era il segno che
il Signore aveva tenuto fede alla promessa, perché Abramo non aveva mai dubitato, ed aveva
creduto all’incredibile. Eppure il primo giorno Abramo prese con sé suo figlio, il coltello che
veniva usato solo nei sacrifici, caricò la legna sul dorso d’un mulo e partì. Il primo giorno è
dedicato all’obbedienza, cioè all’adeguamento del soggetto alla Parola. Se il Signore dice ad
Abramo d’andare, di prendere con sé il figlio e d’offrirglielo in sacrificio su quel monte, chi è
Abramo per mettere in discussione il suo volere? Avrebbe forse dovuto difendere le proprie
ragioni e le ragioni d’Isacco, come in un tribunale, presso l’Onnipotente, avrebbe forse dovuto
ricordargli che Isacco era la sua promessa, come se il Signore potesse dimenticare? Abramo
tacque. Prese con sé suo figlio e partì.

291. Il secondo giorno, Abramo continuò il suo viaggio, con passo uguale e fermo. Non
doveva ritardare il momento conclusivo. Come avrebbe potuto giungere in ritardo alla chiamata?
Come avrebbe potuto lui, Abramo, imporre una dilazione al suo Signore? Forse che il suo
Signore non sapeva che cosa Isacco fosse per Abramo: tutto il suo desiderio, e tutto il senso della
propria esistenza? E ancora, forse che il Signore non s’era accorto di chiedere al suo servo di
trasgredire la legge, perché un assassinio, anche s’è richiesto da Dio, resta un assassinio, e
l’uccisione d’un figlio è, fra tutti gli assassini, il più tremendo? Ma Abramo sapeva troppo bene
che la Parola conta più della legge, anche più della legge del Signore. Inoltre, forse che il
Signore ignorava che stava chiedendo ad Abramo d’uccidere, in Isacco, la sua stessa promessa?
No, certamente il Signore non poteva esigere questo da Abramo. Egli ne era sicuro. Colui che
aveva mantenuto la sua promessa quando nessun altro, se non il solo Abramo, vi avrebbe ormai
creduto, non poteva venir meno alla propria promessa. Il Signore è fedele alla propria Parola, e la
fede d’Abramo non poteva mutare, anche se la Parola del Signore pareva mutare. Questa Parola,
dunque, Abramo non poteva discuterla. Egli poteva solo sperare. Il secondo giorno, perciò,
Abramo fu certo che il Signore non gli avrebbe mai chiesto in effetti d’uccidere il figlio della
propria promessa. Egli continuò il viaggio con passo tranquillo, anzi gioioso, leggero.
Eppure, dobbiamo chiederci: questa sicurezza d’Abramo non era forse già una colpa? Perché
mai il Signore avrebbe dovuto tenere fede alla propria Parola? Perché mai non avrebbe potuto
mutarla? Forse che Abramo poteva far valere, contro la Parola del Signore, una legge più alta?
Questa stessa certezza era dunque, per Abramo, una colpa, era rifiutarsi alla chiamata del
Signore, dire di no al suo appello. Dunque la grandissima virtù della speranza poteva essere
colpevole. Abramo affermava se stesso ed il suo desiderio contro la Parola del Signore, e si
figurava di capire che cosa l’unico Dio poteva o non poteva pretendere da lui, anzi osava
addirittura imporgli il proprio pensiero, insegnargli che cosa fosse giusto. Il secondo giorno, con
la sua speranza, Abramo marciò contro la Parola del Signore che amava più di tutto come contro
un nemico.

292. Ma non affrettò il passo. Se si fosse affrettato, allora il Signore non gli avrebbe più
chiesto suo figlio in sacrificio. Infatti che cos’era suo figlio, per Abramo, se non il segno della
promessa? Affrettandosi, egli lo avrebbe comunque perduto. Dunque, Abramo non aveva, in
realtà, nessuna scelta, avrebbe dovuto uccidere in ogni caso suo figlio, anche se avesse scelto di
salvargli la vita. Il terzo giorno, Abramo continuò il suo viaggio con lo stesso passo misurato, per
non giungere al monte né troppo presto, né troppo tardi. Continuò il suo viaggio obbedendo alla
Parola nell’accettare di trasgredire la legge, e ribellandosi alla Parola nel rifiutarsi d’essere un
assassino, sperando sempre che il Signore non gli avrebbe chiesto davvero la vita di suo figlio,
ma pronto ad ucciderlo se il Signore non lo avesse fermato.
Il primo giorno era stato il giorno della rassegnazione: Abramo sapeva che, dinanzi alla Parola
del Signore, che vale più della legge, poteva solo chinare la testa ed obbedire. Il secondo era
stato il giorno della rivolta: Abramo sapeva che il Signore gli chiedeva d’uccidere suo figlio
proprio perché, contro quell’uccisione, egli avrebbe sempre gridato, dal fondo di dolore del suo
essere, il suo no. Il terzo giorno, Abramo comprese che proprio per questo doveva dire sé
all’assurdo, ma conservando in sé, con il suo dolore, tutta la sua rivolta, continuando a gridare il
suo no tanto più forte quanto più s’approssimava il momento in cui avrebbe dovuto vibrare, e
senza ormai esitare, il proprio colpo.

293. Per tutto il viaggio, Abramo continuò a tacere. Quando furono in prossimità del monte,
Isacco gli chiese dove fosse l’agnello per il sacrificio. Abramo rispose che il Signore stesso
avrebbe provveduto, procurandolo. Commentando queste parole, Kierkegaard tocca il punto più
alto del suo testo. Abramo, infatti, non poteva dire la verità; dirla sarebbe stato mentire: infatti
era sicuro che il Signore non gli avrebbe chiesto di compiere davvero il sacrificio. Ma non
poteva neppure dire una menzogna, perché allora avrebbe tradito Isacco, e l’avrebbe perduto.
Perciò disse che il Signore stesso avrebbe provveduto, procurando loro l’agnello per il sacrificio;
cioè, come nota Kierkegaard, egli rispose senza rispondere, e disse tutto senza dire nulla; egli
rispose, dice Kierkegaard, nel modo dell’ironia, e formulando un enigma. Ma per chi questa
frase è un enigma? Certo non per Isacco, che può credere che sia davvero così, come in effetti
sarà quando il caprone con le corna impigliate in un cespuglio sarà preso e offerto in sacrificio.
Questa risposta è un enigma per Dio. Con queste parole, Abramo ha dimostrato al suo Signore,
come più tardi avrebbe fatto Giacobbe, di non essere meno forte di lui. Dicendo queste parole,
Abramo ha già effettuato il doppio movimento, perché è riuscito ad andare in fondo al suo
dolore, accettando di perdere Isacco, ma trovando, in fondo al suo dolore, la gioia della propria
Parola. Abramo, lottando contro se stesso, ha vinto Dio. Egli non può ancora sapere che il
Signore non gli chiederà d’uccidere suo figlio veramente. Sa però che gli sarebbe stato restituito,
quand’anche avesse dovuto ucciderlo, perché lui, Abramo, non aveva vacillato o esitato
nemmeno per un attimo.
Certo, quella Parola – ironica, come dice Kierkegaard – era veramente la Parola d’Abramo?
Diciamo piuttosto ch’era la Parola che costituiva Abramo nella sua giustizia. Le parole che noi
pronunciamo, le parole piene di significazione, ma non di senso, perché non decidono della
nostra vita, o della vita degli altri (ch’è ancora la nostra), ci appartengono. Ma non è così per la
Parola che ci costituisce. Se, pronunciando questa, Abramo ha vinto Dio, è perché questa Parola
non apparteneva a lui, in quanto Abramo apparteneva ad essa. Abramo ha mantenuto una Parola
che non aveva data, perché in fondo era stato chiamato alla promessa, al patto e all’alleanza. E
proprio in questo sta la sua grandezza (tutti gli ebrei, tutti i cristiani e tutti i musulmani sono,
ancora oggi, «figli d’Abramo»). La Parola, infatti, non è il significante, perché lo rende possibile,
come il senso non è la significazione, perché senza di esso non ce ne sarebbe nessuna. E la
Parola vale più della legge, perché solo la Parola può confermarla o superarla. Se dunque,
pronunciando quella Parola, Abramo ha vinto Dio, è perché, in essa, anche Dio ha vinto se
stesso. E non a caso, nel Vecchio testamento, l’episodio del sacrificio d’Isacco è la figura
principale dell’incarnazione e del sacrificio del Lógos.

294. Così, quando tutto fu pronto per il sacrificio, Abramo si trasformò. Egli odiò Isacco, dice
Kierkegaard, perché Dio gli aveva chiesto d’ucciderlo, e mostrare ad Isacco compassione,
mentre levava in alto il coltello, sarebbe stato ucciderlo due volte. Quest’odio, dunque, crebbe
dal più profondo del suo amore. Solo grazie a quest’odio Isacco fu salvo, ed Abramo poté
riavere, dopo averlo perduto, il figlio che dava senso alla sua vita.
VI. L’ascesi analitica (seconda parte)

295. La parabola biblica, così come abbiamo cercato di riprenderla da Timore e tremore, è la
più perfetta esposizione di quello che, con il termine di Kierkegaard, abbiamo chiamato doppio
movimento. Il doppio movimento, il quale è la capacità di porre fine al volo e ricadere, senza che
questa ricaduta sia solo una brusca interruzione del primo movimento, o il quale, detto fuori
metafora, è la capacità di rinunciare all’oggetto del proprio desiderio, ma in modo tale da poterlo
ritrovare, non è che il rovescio dell’antinomia della ragione pratica, è anzi questa stessa
antinomia, ma considerata nel tempo, quindi in riferimento alla sua traduzione nei termini
dell’esperienza etica. In ogni analisi giunge un momento decisivo, nel quale il soggetto si troverà
dinanzi a questa scelta: dover rinunciare, anche soltanto per poter vivere, a qualcosa che per lui è
essenziale, o accettare di vivere una vita che però, dopo questa rinuncia, gli appare vuota ed
insensata. Ora, il sintomo e, più essenzialmente, l’organizzazione fantasmatica del desiderio
risultano inaccettabili al soggetto, perché gli si sono rivelati come una semplificazione, in gran
parte erronea, perché fondata solo su criteri linguistici scambiati per criteri soggettivi, della
problematica etica. Egli deve quindi creare o lasciar essere una diversa organizzazione del
proprio desiderio, la quale però non potrà più stare nei limiti della patologia e del fantasma. Il
soggetto deve dunque rinunciare all’illusione della realizzazione del suo fantasma fondamentale,
dal momento che la funzione di quest’ultimo non è affatto di consentire una realizzazione del
desiderio patologico che vi è strutturato o formulato, ma è invece di consentire una
determinazione soggettiva che, pur essendo al di là delle determinazioni linguistiche, è effettuata
in ultima istanza solo attraverso di esse.
Tuttavia non si rinuncia ad un fantasma, perché questo comporterebbe rinunciare ad ogni
determinazione linguistica. Ora, il fatto che tale determinazione linguistica non sia eticamente
sufficiente non significa ch’essa sia evitabile. Un’analisi, dopo tutto, non può e non deve
produrre solo una desoggettivazione. Deve invece produrre una diversa soggettivazione, cioè una
soggettivazione al di là del fantasma, eppure non del tutto afantasmatica. Per questo il desiderio
di guarire, come qualunque altro desiderio patologico che un analista possa nutrire nei confronti
del proprio analizzante, se non viene tradotto eticamente, esclude che la terapia possa diventare
un’analisi, e in definitiva anche che si verifichi qualcosa di più che un semplice riarrangiamento
del sintomo.

296. L’esempio d’Abramo ci ha mostrato come sia possibile rovesciare il fantasma facendo
leva sulla divisione del soggetto. Il doppio movimento non sarebbe pensabile, infatti, se il
soggetto non fosse diviso. Dunque proprio ciò che rende necessario il fantasma e il desiderio
patologico consente d’uscire da entrambi, ma senza abbandonarli. Infatti che significa, in questo
caso, «uscire»? Non si «esce» dal desiderio patologico più di quanto non si possa uscire dal
tempo o da se stessi. Ed è proprio questo il punto. Il desiderio «in quanto tale» non è che
desiderio d’uscire dal tempo e da se stessi, e il desiderio patologico non è che una riduzione –
proprio per questo insoddisfacente – di questa pretesa del desiderio. Ora, è appunto impossibile
uscire da questo desiderio d’uscire dal tempo. L’analisi non può produrre l’eliminazione del
fantasma, ma può produrre invece una separazione dal fantasma, che si realizza nel suo
attraversamento. L’analisi è la messa alla prova, nel transfert, di tutti i paradossi e di tutte le vie
senza uscita in cui il soggetto viene a trovarsi per il fatto di pensare possibile la realizzazione del
fantasma, cioè la riduzione in termini di significazione del desiderio «in quanto tale». Tuttavia,
questa che abbiamo chiamato separazione dal fantasma non può nÌ deve comportare una rinuncia
alla formulazione linguistica, vale a dire fantasmatica, del «proprio» desiderio, perché nessun
desiderio sarebbe «proprio» di nessuno se questa riduzione non intervenisse. È certamente questo
il punto più difficile da pensare e da descrivere. In un tempo assoluto, non possiamo pensare la
separazione dal fantasma se non come rinuncia alla sua realizzazione. Solo in un tempo
retroattivo possiamo comprendere la separazione dal fantasma come riaffermazione e non come
negazione del desiderio «in quanto tale», il quale prende forma nel fantasma.

297. In ogni analisi, in una fase abbastanza avanzata del lavoro, si produce una situazione
nella quale il soggetto, avendo acquisito consapevolezza dell’illusorietà dei propri meccanismi
fantasmatici, pensa di potervi rinunciare, e che questo non solo non gli costerà molto, ma gli
aprirà nuove possibilità di vita. Si tratta dell’espressione d’una configurazione soggettiva
fondamentalmente maniacale. L’analista dovrà quindi non incoraggiare questa tendenza, dal
momento che ben presto il soggetto s’accorgerà che, a rendergli quella rinuncia accettabile, anzi
addirittura desiderabile, era stato soltanto il permanere della situazione analitica, con il conforto
fantasmatico ch’essa ancora gli offriva. Ora, la natura artificiale della situazione analitica
smentisce che questa rinuncia possa essere effettivamente soddisfacente. In realtà questa
soluzione è stata solo un altro prodotto del transfert. Il soggetto si trova così a dover passare,
dalla precedente impostazione maniacale, ad un momento depressivo più o meno chiaramente
riconoscibile. L’attraversamento di questa fase depressiva è sempre indizio certo del fatto che
l’analisi è entrata nella sua svolta conclusiva. Possiamo perciò a questo punto abbozzare una
divisione, in realtà più concettuale che descrittiva, delle tappe fondamentali del percorso
analitico.

298. Il momento preliminare necessario è quello della domanda d’analisi. La domanda non è
ancora l’analisi, benché sia il suo presupposto indispensabile. Il momento della domanda è
dunque idealmente distinto dall’inizio effettivo dell’analisi, come un «momento zero» da un
«momento uno». Nella maggior parte dei casi esso è anche realmente, cioè cronologicamente,
distinto dal momento iniziale. Dobbiamo tuttavia riconoscere alla domanda d’analisi, in quanto
presupposto necessario dell’analisi, il valore di momento cruciale del suo percorso.

299. Il momento primo è quello dell’effettivo inizio dell’analisi. Esso coincide idealmente con
l’enunciazione della regola da parte dell’analista e col manifestarsi del transfert. Naturalmente,
non c’è nessuna necessità di pensare questi due elementi come coincidenti anche nel tempo. È
sufficiente supporre che solo a partire dal manifestarsi del transfert come resistenza, e quindi a
partire dal momento che l’analista deve attendere per poter «interpretare» (per riprendere un
suggerimento freudiano), l’enunciazione della regola apparirà per quello ch’è in effetti, cioè, per
quanto strano possa sembrare affermarlo, una prima interpretazione, come fra l’altro dimostra il
fatto che non c’è un enunciato unico della regola fondamentale. Che quest’enunciazione sia già
un’interpretazione è del tutto evidente, del resto, anche dall’esempio freudiano al quale ci siamo
già riferiti («molto prima che tu nascessi, io sapevo»).

300. L’interpretazione, che beninteso non può essere isolata come una fase cronologica del
percorso analitico, in quanto lo scandisce dall’inizio alla fine, può essere considerata tuttavia
come un momento secondo, per così dire «fuori serie», del suo percorso. L’interpretazione
consiste in quel movimento con il quale l’analista si sottrae alla domanda transferale
dell’analizzante, la quale d’altra parte è il nucleo del suo sintomo. Occorre tuttavia, perché
l’interpretazione abbia effetto, che questo sottrarsi dell’analista sia raddoppiato, ed in modo
sensibile per l’altro, da un dir di sì al desiderio che si lascia intravvedere dietro il sintomo.
L’interpretazione, come del resto già l’enunciazione della regola, e come ogni atto dello
psicanalista, ha lo statuto del doppio movimento. Nella prima parte dell’analisi, cioè fino al
momento di quella svolta depressiva che abbiamo già segnalato, nell’interpretazione
predominerà il non volerne sapere, cioè il sottrarsi dello psicanalista. Nella parte conclusiva il
fattore determinante dell’interpretazione sarà invece la presenza reale dell’analista, cioè il suo
desiderio (naturalmente, stiamo solo schematizzando).
301. Abbiamo già determinato come terzo momento quella configurazione depressiva nella
quale l’analizzante viene precipitato ad una certa svolta dell’analisi. Il soggetto, che aveva
esordito nel transfert attribuendo all’altro, come sapere, la significazione che sentiva mancargli,
ha ora scoperto che l’altro non ha questo sapere e che perciò non può darglielo. L’analizzante è
dunque consapevolmente ora dov’era solo astrattamente nel momento primo. Il sapere della
mancanza dell’altro è adesso del tutto esplicito per lui. Ma ciò non significa anche ch’esso abbia
effettivamente prodotto per l’analizzante la significazione mancante. Il primo moto che questo
sapere provocherà nel soggetto può essere compendiato in questi termini: visto che tu non hai
questo sapere, e quindi non puoi darmelo, non ha più importanza che io te lo chieda, quindi che
continui l’analisi. Ci sono analisi che s’interrompono effettivamente a questo punto. Ciò dinanzi
a cui il soggetto recalcitra, in questa fase necessariamente benché di solito moderatamente
depressiva, è l’assunzione dell’assurdo del doppio movimento. Egli recalcitra alla ripetizione
della domanda d’analisi, a chiedere ciò che ormai sa davvero che non gli verrà dato. In
definitiva, anche senza saperlo, recalcitra al passaggio dall’amore da transfert, cioè dall’amore
rivolto ad un oggetto fantasmatico, che l’analista avrà incarnato per lui fino a quel punto, ad un
amore che possiamo definire vero, perché è l’amore nella separazione, il cui concetto coincide
con quello del desiderio al di là del fantasma. Di fatti, in questa fase particolarmente delicata e
fruttuosa dell’analisi, capita spesso che il soggetto «scopra» all’improvviso che sta parlando a
qualcuno in carne ed ossa, e che lo scopra, bisogna dire, con un certo imbarazzo. E tutto questo
non facilita il suo compito, poiché, se prima poteva parlare ad un generico qualcuno, la cui
assenza era sottolineata nella situazione analitica persino dalla posizione del soggetto sul divano,
ora deve parlare di sé a qualcuno che in un certo senso rimane, per lui, un estraneo. È comunque
a partire da questo punto di svolta che l’interpretazione cambierà di senso, e che la presenza reale
dell’analista sarà privilegiata rispetto al suo sottrarsi. Ciò che l’analista deve far intendere
all’analizzante, in questo momento essenziale dell’analisi, è che la significazione ch’egli cercava
come propria nel transfert era in realtà un sostituto del senso. Il fantasma stesso, in altri termini,
non è che l’effetto della sostituzione del senso, ch’è rimasto estraneo, per quanto riguarda alcuni
momenti essenziali della formazione del soggetto, alla sua esperienza, con una significazione che
definirebbe l’essere del soggetto per un altro. Possiamo anzi dire che in questa sostituzione si
compendia il significato ultimo dell’impostazione nevrotica.
Dobbiamo ammettere tuttavia che questo è il momento meno facile e più problematico
dell’analisi. Non crediamo affatto, per esempio, che sia sufficiente, per superarlo, fare appello
all’insensatezza della significazione, facendone un principio. Ciò produce a nostro avviso sempre
e solo uno svuotamento della posizione soggettiva, il quale viene poi compensato con il
riferimento, che rimane, nonostante le apparenze, solitamente ideale, allo stendardo della
«causa» analitica. Non c’è dubbio che il lacanismo ha fomentato spesso questa concezione della
fine dell’analisi. Ciò ha costituito senza dubbio un progresso, sotto molti rispetti, ma ha anche
coltivato un’illusione, che ci pare particolarmente insidiosa, perché travestita da mancanza
d’illusioni: quella che l’analista, proprio perché analista, avrebbe una chiave speciale per
accedere al campo della verità. Ma la verità prodotta dall’insensatezza delle significazioni è una
verità del tutto vuota. Essa è solo la verità del non senso: verità che si raggiunge a così poco
prezzo che ci si chiede se, per ottenere tanto conformismo (perché proprio in questo essa si
risolve), siano davvero necessari lunghi anni d’analisi.
Certo, questa interpretazione della conclusione dell’analisi non è priva d’appigli nella teoria
dello stesso Lacan, il quale tuttavia, rispetto a molti suoi seguaci, ha il merito di sapersi
contraddire. Come abbiamo già detto, noi non pretendiamo affatto d’essere rimasti fedeli in tutto
al suo insegnamento. Ci pare anzi giusto sottolineare che anch’esso, come tutte le cose, è
determinato dagli equivoci e dai pregiudizi del tempo in cui fu tenuto, e che non è più il nostro.
Ignorare che quanto poteva apparire – e magari anche essere – vero nel 1960 non è più
necessariamente vero anche nel 1990 porta inevitabilmente a situare l’insegnamento di Lacan in
una posizione atemporale, nella quale esso finisce per divenire una visione del mondo. E la
psicanalisi può essere tutto, ma non una visione del mondo. Qualunque cosa ne pensasse Freud,
d’altra parte, la psicanalisi non può nemmeno rientrare in una visione del mondo – anche se
«scientifica» – senza divenire, così, un’ideologia. E noi abbiamo bisogno di tutto, tranne che
d’un’altra ideologia. Se abbiamo impostato il nostro lavoro in termini trascendentali, è stato
soprattutto perché questo ci pareva l’unico metodo sicuro non per evitare ogni ideologia – il che
equivarrebbe ad evitare del tutto il linguaggio –, ma solo per non far dipendere dall’ideologia, e
quindi dal pregiudizio, e quindi dal transfert, e quindi dalla patologia, qualche punto essenziale
della teoria analitica.
Tuttavia dicevamo che questo momento conclusivo dell’analisi è quello più difficile, perché
mai come in esso si rivelano i limiti del potere dello psicanalista. Egli non può creare dal nulla –
e neanche dal linguaggio – quello che non c’è, tanto più che l’analisi, in quanto tale, è il luogo
meno adatto per produrre un’esperienza del senso, nonostante quanto prima abbiamo detto, sul
fatto che produrre o sottolineare il senso dev’essere lo scopo ultimo dell’interpretazione.
Nell’analisi infatti il senso tende a ridursi al non senso del giuoco fra le significazioni. Proprio
qui si vede quanto sia essenziale, per l’analista, essere non solo un analista, ma anche qualcuno,
vale a dire un soggetto ben determinato, nelle sue passioni e magari nei suoi pregiudizi (quindi
tutt’altro che un «non io»), perché soltanto questo potrà consentirgli di riconoscere il senso di ciò
che viene detto, e in questo modo di lasciarlo essere. Solo a partire da questo riconoscimento
s’aprirà all’analizzante il campo nel quale potrà affrontare, se vorrà farlo, il problema del senso
del proprio esistere. Non è detto che tutti gli psicanalizzati ci si provino, anzi spesso proprio il
fatto d’essere in analisi vela loro questo problema.
Ma queste sono ancora solo delle considerazioni minime, e per niente esaustive. L’essenziale
non è che l’analista sia anche un soggetto in carne ed ossa, e non una mera incarnazione
dell’ideologia psicanalitica; è invece che abbia una sua teoria, vale a dire che tenga aperto per se
stesso il problema del senso del suo esistere. E proprio qui si pongono le domande più brucianti:
infatti nulla esclude che sia psicanalitica anche l’esperienza di chi si ferma – nella sua analisi o
nella sua teoria – al di qua del problema del senso. La psicanalisi è nata sulla base di
quest’ambiguità, tutta moderna, grazie alla quale il semplice giuoco delle significazioni veniva
scambiato per senso della proposizione (tutta l’opera di Freud è determinata da quest’ambiguità).
Ma nel momento in cui si distinguono, come noi stiamo facendo, i due campi – quello della
significazione e quello del senso – come due campi contrapposti, anche se necessariamente
articolati, bisogna pure distinguere come due campi contrapposti, anche se necessariamente
articolati, la psicanalisi intesa come psicoterapia, e la psicanalisi intesa come pratica etica. Nulla
esclude che una psicoterapia possa essere anche una pratica etica. Ma questo non significa che si
debba abbandonare al caso il fatto che l’analisi lo sia. D’altra parte, non ogni pratica etica è
anche una pratica analitica. E proprio qui s’apre il problema di quella che abbiamo chiamato la
«scienza nuova» delle connessioni essenziali fra l’etica ed i singoli campi del sapere.

302. A partire dalla svolta di cui abbiamo parlato e dal suo superamento l’analisi acquisterà
un andamento sempre più stringente e al soggetto si porrà in modo più pressante l’esigenza d’una
separazione da compiere. Il momento conclusivo dell’analisi («momento quattro») è proprio
questo della separazione. Non necessariamente nÌ prima di tutto dall’analista. È questo, per il
soggetto, il momento in cui uccidere «Isacco» e, come dice Kierkegaard, ognuno deve decidere
in solitudine che cosa, per lui, sia da intendere come «Isacco». Kierkegaard notava che sono due
le condizioni per poter effettuare il doppio movimento: «Concentrare tutta la sostanza della vita e
tutto il significato della realtà in un solo desiderio», e «concentrare il risultato di tutta la propria
fatica di pensiero in un solo atto di coscienza». Perché il doppio movimento possa effettuarsi è
necessaria questa singolare contractio, ch’è resa particolarmente difficile dal fatto che «Isacco» è
raramente una cosa, un’idea o un ideale, mentre solitamente è invece un altro soggetto. In altri
termini, separarsi dal fantasma comporta separarsi da quell’altro che, per il soggetto nevrotico,
incarnava l’altro del suo desiderio, da quell’altro il cui discorso (e il cui sintomo) era, per il
soggetto, «il discorso dell’Altro», cioè il suo «inconscio». «Separarsi dal fantasma» è un modo
molto astratto e necessariamente vuoto per indicare ciò che, per il soggetto, si presenta come una
lacerazione, nella quale occorre strapparsi da colui o da colei cui il soggetto aveva affidato per
così dire le chiavi della propria esistenza, con un’operazione che non è affatto indolore neppure
per l’altro. Serge Leclaire, in un libro meritorio, aveva rilevato che, per condurre a termine
un’analisi, c’è un bambino da uccidere, che cioè bisogna uccidere una certa rappresentazione
narcisistica di sé. Questo è vero in termini anche più concreti di quanto non appaia in questa
formulazione. Credo che a determinare dei sintomi, cioè delle formazioni reali, non possano
essere che delle relazioni altrettanto reali. Il «bambino da uccidere» nella maggior parte dei casi
non è affatto solo una rappresentazione ideale, è anche qualcuno di concreto (un marito o una
moglie, un padre o una madre, qualche volta un figlio), separarsi dal quale significherà accettare
di «metterlo a morte», in modo, bisogna dire, solitamente neanche troppo metaforico. Nessun
nevrotico sarà mai in grado di compiere questo che eticamente è e resta un assassinio, finché non
avrà l’assoluta certezza che accettare di compierlo sia anche l’unico modo di tentare di ridare una
possibilità d’esistenza anche all’altro. E qui si vede che quanto dicevamo attorno all’amore nella
sua verità è del tutto essenziale per intendere anche il mero procedere dell’analisi verso il suo
momento conclusivo. Certo, c’è qui la certezza solo d’un tentativo. Nulla può garantire infatti
che l’altro riuscirà a sopravvivere (eticamente, s’intende) alla separazione, così come Abramo
non può avere la certezza che Isacco gli sarà restituito realmente. Ma perché il movimento possa
riuscire, perché il soggetto possa ricevere di nuovo l’oggetto del suo amore, in termini questa
volta etici, e non più sintomatici, bisogna che accetti di correre il rischio assoluto che la
separazione risulti, per l’altro, mortale.

303. Non so quanti, in questa sorta di fenomenologia schematica e necessariamente molto


parziale del movimento dell’analisi riconosceranno l’immagine che hanno potuto farsi del suo
percorso, per esperienza diretta o indiretta. Ciò che mi pare di dover sottolineare, e che del resto
lo stesso termine «ascesi» dovrebbe rendere percettibile, è che ci s’ingannerebbe a vedere nel
sintomo semplicemente il risultato d’un inganno della ragione, cioè d’un suo limite, dunque il
prodotto d’interessi solo immaginari ed ingannevoli. Nulla di reale può sorgere dal fantasma, se
il fantasma non partecipa già del reale. Il sintomo, ch’è la cosa più reale che ci sia per un
soggetto, non può crescere che sul terreno più reale, quello dei rapporti e delle relazioni fra il
soggetto e gli altri. Così, non è nemmeno il passato a determinare i sintomi. Nulla di passato può
determinare veramente qualcosa, se non perché questo passato è ancora presente. Nella
nosografia schematica che abbiamo presentato in precedenza non ha trovato posto una nozione
che Freud utilizzò molto, in principio, per poi lasciarla cadere gradualmente: quella di nevrosi
attuale. Le nevrosi attuali erano, per il primo Freud, quelle determinate quasi meccanicamente da
situazioni di mancato appagamento, per esempio del desiderio sessuale. Più tardi Freud s’accorse
che il transfert aveva una funzione essenziale anche in questi casi. La nevrosi attuale sembra
allora scomparire dalla clinica psicanalitica. Oggi possiamo forse dire che, se le nevrosi attuali
non meritano di figurare al fianco delle altre categorie nosografiche, è perché la nevrosi è sempre
attuale, esprime sempre qualcosa d’irrisolto nei rapporti concreti che il soggetto, attualmente, ha
con altri soggetti, e soprattutto con quell’altro ch’è per lui il linguaggio, con tutto ciò che
comporta e che racchiude: illusioni ed attese irrealizzate, promesse mai mantenute, amori
dimenticati.
Nulla di ciò ch’è stato scompare dalla superficie dell’essere senza lasciare traccia, nulla di ciò
ch’è stato può cancellarsi per sempre. Il linguaggio non è che la traccia lasciata dal tempo nella
nostra necessaria, ma non per questo innocente, dimenticanza della sua natura. Esso non è che
movimenti, desideri e amori raggelati e deserti. Il linguaggio, al quale dobbiamo che ci sia un
soggetto, perché dietro il linguaggio insiste una Parola che lo costituisce, è una traccia, ormai
vuota del soggetto che dovrebbe percorrerla, ma che ogni soggetto può, anzi deve, percorrere di
nuovo.
VII. La riconciliazione e la parola

304. Qual è dunque il risultato d’un’analisi portata sino in fondo, passata attraverso tutte le
fasi di quel movimento le cui tappe abbiamo tentato, benché solo schematicamente, di delineare?
Che cosa distingue un soggetto che ha attraversato l’analisi, che ne ha compiuto il percorso,
effettuandone il doppio movimento? Il primo risultato dell’ascesi analitica è una riconciliazione
(il termine è già in Freud, è la Versöhnung). Quale che sia il mutamento che il doppio
movimento produce nel desiderio del soggetto, cioè nel passaggio dal desiderio patologico al
desiderio etico, questo mutamento produce la riconciliazione, che consiste nel fatto che ora il
soggetto può dire di sì (bejahen) al linguaggio, cioè al suo altro, e in particolare a quella parte
dell’altro che riconosce sua (al suo «rimosso»). La riconciliazione non è un’accettazione
dell’altro nel suo complesso, e quindi del linguaggio in quanto tale, ma d’una parte del
linguaggio, cioè di quelle significazioni nelle quali il soggetto ora può riconoscersi, ma solo per
il fatto di riconoscere d’esservisi già riconosciuto.
Ma che cosa consente questa riconciliazione? Se non è l’instaurarsi d’una nuova illusione –
ma se così fosse non potremmo certo dire che l’esperienza analitica è stata veramente un’ascesi
soggettiva –, solo il fatto di dir di sì alla propria parola, in quanto questa non è però intesa come
una semplice significazione, ma come l’espressione d’un volere soggettivo, cioè d’un desiderio
accettato nella divisione che lo costituisce, e trasvalutato dalla riconciliazione, che ne fa un
desiderio non più patologico, ma etico.
Lacan usa, a questo proposito, un’espressione che può costituire un enigma se non
l’intendiamo in base al dir di sì, quando sostiene che l’analisi deve produrre un’identificazione al
proprio sintomo. Nessuno, nell’ascesi analitica, è chiamato a divenire un altro. Il soggetto deve
«divenire io dov’era es», l’analisi è un modo per «divenire quello che si è». Ma questo dir di sì –
questa fedeltà, questa fides alla propria parola e al proprio desiderio, per quanto patologico e
riconosciuto impossibile – comporta anche una separazione dal proprio desiderio, oltre che una
fedeltà ad esso. Il desiderio s’esercita sempre contro il tempo e contro la figura estrema del
tempo, la morte. Riconciliarsi con la propria parola è dunque riconciliarsi con la propria morte e
con la propria necessaria finitezza, elaborando il lutto della propria scomparsa. Il desiderio che
ha subìto questa trasformazione è quello che abbiamo chiamato il desiderio «al di là del
fantasma».

305. Se l’antinomia della ragione pratica appare, in relazione alla legge, come paradosso
tragico, la soluzione di questo paradosso, possibile solo attraverso il doppio movimento,
consiste, per così dire, in una catarsi senza catastrofe. Nella tragedia, il momento della catastrofe
è un mezzo necessario alla presentazione drammatica per raffigurare il momento della perdita.
Se tuttavia togliamo alla tragedia il suo momento drammatico, cioè il fattore identificatorio dello
spettatore con l’eroe, attraverso le passioni di phóbos ed éleos (timore e compassione) delle quali
parla Aristotele, quel che ne resta è il doppio movimento e la catarsi. Freud, quando utilizzava il
termine «metodo catartico» per designare quella che sarebbe stata poco dopo la psicanalisi,
sapeva che cosa diceva. La catarsi, il cui concetto coincide col doppio movimento, cioè con il
ricevere di nuovo ciò cui avevamo rinunciato, è il tragico privato del suo momento drammatico.
Questo non significa tuttavia che l’etica della psicanalisi debba essere un’etica tragica. Se infatti
sosteniamo che si tratta di raggiungere una catarsi senza catastrofe, diciamo pure che nulla,
nell’analisi, ci consente di pensare a quest’ultima. Del resto l’esperienza dell’analisi evoca più la
commedia che la tragedia. Ma una catarsi senza catastrofe è né più né meno che un’esperienza
del senso. La catarsi senza catastrofe in definitiva non è altro che la catarsi musicale. Nella
Formazione torneremo più dettagliatamente sulla connessione fra la musica e il senso. Per ora ci
basti delineare l’area del compito, che spetta all’esperienza analitica, d’aprire al soggetto uno
spazio di senso, specificando che quest’area non ci pare affatto aperta dal semplice ricorso
all’insensatezza delle significazioni.
306. Possiamo utilizzare, per determinare meglio il desiderio che abbiamo chiamato al di là
del fantasma, attribuendolo all’analista, una breve frase di Lacan. Questa frase non è stata
pronunciata in un momento qualunque, ma poco prima della sua morte, in uno dei suoi ultimi
seminari, del quale è, del resto, la frase conclusiva. Essa suona così: «On peut se contenter d’àtre
Autre comme tout le monde, après une vie passée à vouloir l’être malgré la loi». La frase ha
un’apparenza sibillina. L’enigmaticità dello stile di Lacan dipende dal fatto ch’egli non ci
consegna tutti i passaggi con cui giungere a determinare una significazione priva d’ambiguità di
quel che dice. Per giungervi dovremo ricostruire questi passaggi, e non ci riusciremo se non
sapremo comprenderli, per averli trovati in noi stessi. Che significa dunque, in questa frase di
Lacan, nella quale egli sembra consegnarci il senso più riposto del proprio insegnamento, «être
Autre comme tout le monde» e «vouloir l’àtre malgré la loi»? Cerchiamo d’arrivarci attraverso
un’analisi interna della frase.
Il suo soggetto è on, è il puro soggetto nella sua astrazione e nella sua indeterminazione, è
chiunque in quanto soggetto, completamente a prescindere dalla sua storia ed anche dal suo
nome. Questo soggetto è designato in quanto preso nella sua relazione fondamentale con
l’«Altro», ch’è definito qui, nella sua forma radicale, come l’Altro dal soggetto per eccellenza: la
morte. «Être Autre comme tout le monde» – come l’insieme di tutti gli altri on – significa
dunque, semplicemente, «andarsene». La morte è infatti, per tutti e universalmente («tutti gli
uomini sono mortali»), l’unico modo perché il soggetto possa coincidere con l’Altro; un modo,
certo, persino derisorio, da quando Epicuro ha insegnato che non c’è ragione di temerla, perché
dove c’è la morte non c’è il soggetto e vice versa. «Essere Altro» esprime dunque un
impossibile. Ora, il desiderio, abbiamo visto – l’esempio del bambino e del giocattolo dovrebbe
averlo sufficientemente illustrato –, è proprio desiderio di superare quest’impossibile, e proprio
per questo è sempre e comunque delusorio. Solo la morte, eliminando uno dei due termini
(l’essere, il soggetto), elimina anche la loro relazione d’esclusione. «On peut...» dice Lacan: «ci
si può accontentare d’essere Altro come tutti dopo una vita passata a volerlo essere malgrado la
legge». L’ ultima parte della frase dice a quale condizione si può accettare di «andarsene».
Quest’ultima parte della frase contiene dunque – a questo punto ciò diventa evidente – la risposta
che cercavamo, poiché è di se stesso che Lacan sta parlando, è della propria vita, nel momento in
cui, concludendo il suo Seminario, questa vita gli può apparire come un tutto. È dunque
l’essenza del suo desiderio ch’egli ci confida, del suo desiderio di psicanalista. Ma lo fa con
queste parole: «Vouloir l’être malgré la loi».

307. Il desiderio dello psicanalista dunque non è, nella sua essenza, meno trasgressivo, meno
contrario alla legge degli altri desideri (di quelli patologici). Ora, «essere Altro» è la sostanza che
viene espressa dal mito dell’incesto. Il desiderio al di là del fantasma non è, qui, che il desiderio
patologico fondamentale, quale viene ad esprimersi nel mito edipico. Il desiderio di Freud, a
leggere fra le righe L’interpretazione dei sogni, è già perfettamente delineato nel più antico dei
sogni ch’egli vi riporta, quello noto col titolo Persone con becchi d’uccello. La fantasia della
morte della madre, dietro la quale Freud rileva la fantasia incestuosa, attraverso l’associazione
uccello-vögeln, viene però messa in scena con la mediazione d’un’illustrazione della Bibbia di
Philippson (l’edizione bilingue che il padre gli aveva regalato), tratta da un rilievo egizio.
L’amore di Freud per i libri ed il sapere e la sua passione per l’archeologia si stagliano sullo
sfondo dei due massimi enigmi che l’esistenza pone ad ogni soggetto, quello della sessualità e
quello della morte, enigmi nei quali si nascondono le domande di fondo: da dove vengo? Dove
vado? E, in una parola: chi sono? Tutto ciò che sarà la psicanalisi è già perfettamente delineato
in questo sogno. La psicanalisi non sarà che lo sviluppo, infinitamente complesso e laborioso, di
quest’immagine onirica.
In una lettera a Wilhelm Fliess del primo gennaio 1896, Freud scriveva: «Io nutro
segretamente la speranza d’arrivare [...] al mio primo obiettivo, la filosofia, perché questa fu la
mia originaria ambizione, prima di sapere per quale fine fossi al mondo». La psicanalisi, nel
desiderio di Freud, non è altro che l’elaborazione scientifica d’un fantasma, precisamente di
quello con il quale egli aveva sempre cercato di dare una risposta al problema di sapere «per
quale fine fosse al mondo», cioè al problema del senso del proprio essere soggettivo. In questo la
psicanalisi non fa che continuare, sul terreno della scienza, il grande sogno della filosofia, come
L’interpretazione dei sogni in fondo è solo il proseguimento, su un terreno scientifico, del primo
sogno che Freud ricordi d’aver fatto.
Certo, ci si potrebbe chiedere se basta «accontentarsi d’essere Altro come tutti», vale a dire
morire, per pretendere d’aver dato una soluzione al problema del senso dell’esserci. Dopo tutto,
della morte non sappiamo nulla; essa, per noi, è totalmente «inconscia». Ma questo non significa
che l’inconscio è una figura del reale equivalente alla morte, dal momento che esso, come
abbiamo visto, è soltanto un’ipotesi. A differenza dalla morte? Dopo tutto, appunto, dicevamo,
della morte non sappiamo nulla.
Ma ne siamo proprio sicuri? Se il tempo passa, non è forse perché ogni istante del tempo è per
noi una morte passeggera? Ogni istante non è forse un non tempo senza il quale non ci sarebbe
alcun tempo? Se questo è vero, dobbiamo anche ripensare la morte come una condizione, e non
soltanto come un limite del tempo. Su questo tema ritorneremo nella Seconda parte di questo
volume.

308. Il «desiderio dell’analista» dunque non è un desiderio misterioso, un’essenza singolare e


sfuggevole che contrassegnerebbe gli psicanalisti e nessun altro, perché esso è semplicemente il
desiderio che ha subìto la trasvalutazione di divenire, da patologico, etico. Questo desiderio, che
abbiamo riconosciuto come desiderio «di soggettività», quindi di separatezza, non è affatto,
essenzialmente, una determinazione professionale. Chiunque abbia portato sino in fondo
un’analisi – che occupi o no la posizione di psicanalista – dev’essere in grado di situarsi in
questa posizione soggettiva. È ciò che Lacan esprimeva dicendo che l’analisi didattica è l’analisi
finita. Ma dobbiamo supporre che anche chi, pur non avendo mai affrontato un’analisi, è riuscito
ugualmente a situarsi in questa posizione, a giungere a questa saggezza, «è un analista»? Per un
verso è così, ma sotto un altro rispetto certamente no. Dobbiamo intanto osservare che, se il
desiderio dell’analista – ma diciamo meglio, per evitare ogni malinteso a questo proposito, il
desiderio al di là del fantasma, cioè il desiderio etico – non fosse raggiungibile anche senza
un’analisi, qualcosa come una psicanalisi non avrebbe mai potuto sorgere. Il desiderio «dello
psicanalista» è solo una particolare configurazione del desiderio etico, che si raggiunge
attraverso una vera e propria ascesi soggettiva.
Ma le figure di questo desiderio proliferano nella storia del pensiero. La psicanalisi non è che
una forma moderna dell’ascesi, quella storicamente possibile nelle condizioni sociali e culturali
che il progetto della scienza ha imposto all’occidente. Essa è l’unica ascesi soggettiva possibile
in quel regime di fuorclusione del soggetto ch’è nato con la scienza (o da cui è nata la scienza).
Di questa fuorclusione la psicanalisi conserva in sÌ una traccia decisiva. Lo psicanalista è il
saggio divenuto, in seguito a tale fuorclusione del soggetto, professionista della soggettività.
Professare la psicanalisi, infatti, significa, per così dire, far professione di soggettività. Che
l’essere soggetto sia potuto divenire, a un certo punto della nostra storia, una determinazione
professionale è indizio certo del fatto che in questa storia dev’essere stato toccato il punto più
basso, eticamente, della relazione fra il soggetto ed il linguaggio. Da questo punto di vista, la
psicanalisi è il colmo della modernità, perché occupa il punto più basso della décadence. Far
professione di soggetto comporta infatti che anche la determinazione della singolarità, in se
stessa, sia divenuta un che di generale, che sia divenuta insomma una determinazione linguistica.
Da questo punto di vista «accontentarsi d’essere Altro come tutti» può essere davvero rischioso,
dal momento che non assicura alla soggettività nessun altro orizzonte di fondazione possibile che
il massimo della desoggettivazione.
309. Per un altro verso, tuttavia, è pur vero che questa determinazione linguistica della
psicanalisi mantiene come suo orizzonte la soggettività, e si pone come compito l’affermazione
della soggettività. Bisogna riconoscere allora che l’orientamento tremendo, perché in definitiva
totalmente privo di qualunque speranza, dell’etica di Lacan è per un certo aspetto in
contraddizione, benché possa sembrare paradossale affermarlo, con l’orientamento essenziale
della psicanalisi. Ciò che stiamo dicendo non deve sorprendere, né sembrare un’affermazione
irrispettosa per Lacan. Infatti la psicanalisi stessa, finora, non è stata altro che il campo d’una
contraddizione, dovuta alla persistenza, nella modernità, d’una questione che la modernità
sembrava aver perduto i mezzi per formulare. Naturalmente, se la questione continua a porsi, è
solo perché questi mezzi non sono stati ancora del tutto perduti. Non c’è nessuna fuorclusione
che sia davvero totale perché, se ci fosse una fuorclusione totale, non ci sarebbe nemmeno
nessuna fuorclusione. Ma riconoscere questo significa assegnare alla psicanalisi il compito di
pensare questa fuorclusione, quindi di «superare» la modernità, vale a dire il campo di questa
fuorclusione. Del resto ci si potrebbe chiedere a questo punto se le forme della trasmissione e
dell’organizzazione della psicanalisi, come si sono venute determinando nel nostro tempo, al di
fuori del quale certamente non ci sarebbe mai potuta essere nessuna psicanalisi, siano le migliori
per giungere al risultato che l’esperienza si prefigge di raggiungere. Quel ch’è certo è che esse
sono state le uniche possibili finora. Ma l’esistenza stessa della psicanalisi potrebbe, in
definitiva, aver modificato o modificare in seguito queste condizioni, e dunque rendere possibili
altre forme di trasmissione e d’organizzazione dell’esperienza analitica. La caducità del modello
unitario proposto da Freud con la fondazione d’un’Associazione internazionale che vegliasse
sullo sviluppo della psicanalisi è stata dimostrata almeno dal contributo di Lacan. La stessa
Scuola fondata da lui, e sciolta nel 1980, ha dimostrato di non essere in grado d’evitare del tutto
quegli effetti d’irrigidimento, dunque di desoggettivazione dell’esperienza, ch’è il principale
inconveniente di tutte le istituzioni.
Naturalmente, non può essere nostro compito, qui, tentare di fare previsioni su quelle che
potrebbero essere le modalità della trasmissione della psicanalisi e della sua organizzazione
sociale. Vorremmo solo insinuare un dubbio: non dovremmo forse pensare che, come lo scopo
d’un’analisi è di portare il soggetto al punto in cui potrà anche fare a meno dell’analisi, lo scopo
della psicanalisi, in quanto movimento organizzato in modi istituzionali, debba essere proprio la
fine della psicanalisi, cioè la guarigione dalla modernità? La psicanalisi non avrebbe esaurito il
suo compito nel momento in cui avesse effettivamente realizzato a scala sociale lo scopo che si
prefigge, individualmente, di raggiungere con ogni trattamento? Non sarebbe insomma quello di
raggiungere la dissoluzione di se stesso un compito che il movimento analitico dovrebbe
assumersi, in quanto coincidente con il compito che s’è dato per il fatto stesso d’esistere?

31O. Freud non era affatto lontano dall’immaginare per la psicanalisi un avvenire nel quale la
sua diffusione fosse talmente generale ch’essa sarebbe praticamente venuta a coincidere con
l’educazione in quanto tale. Una volta che questo risultato fosse raggiunto, l’esistenza stessa
d’un movimento analitico sarebbe impossibile e la psicanalisi, con questo, avrebbe realizzato il
suo progetto. Finora, invece, l’uso della psicanalisi è stato confinato alla sola applicazione
terapeutica, e bisogna dire che anche in questo campo limitato le sue possibilità sono state
sfruttate molto parzialmente. Ma la terapia è solo una delle possibili applicazioni dell’invenzione
freudiana. Tutto ciò che ha a che fare con l’educazione nel senso più ampio del termine, con la
pólis nel suo complesso, cioè con il rapporto che i soggetti hanno con il linguaggio, è un
possibile campo d’applicazione della psicanalisi. Ma perché un simile compito possa essere
magari anche solo fantasticato in termini che non risultino grotteschi, dobbiamo smettere di
pensare che la psicanalisi sia soltanto quella pratica, un po’ misteriosa ed un po’ ambigua, che si
svolge fra una persona stesa su un divano e un’altra che l’ascolta seduta su una poltrona. Per
pensare che la psicanalisi possa essere qualcosa di più di questo dobbiamo tuttavia prima
staccarci dall’idea che essa sia una professione, con tutti i problemi di riconoscimento e di
garanzia, e i rituali spesso francamente comici che questa dimensione collettiva comporta
quando è staccata da un quadro simbolico nel quale tali rituali esprimano un senso ben
riconoscibile. Il quadro professionale è stato finora l’unico in cui la psicanalisi ha potuto
inscenare la sua azione e tentare di farsi riconoscere. Ciò non significa ch’essa debba
necessariamente e per sempre rimanere fedele a tale quadro. Perciò all’immagine sempre un po’
comica dello psicanalista come professionista delle anime vorremmo contrapporre l’immagine
senza immagine del «cavaliere della fede», delineata da Kierkegaard in Timore e tremore.

311. Colui che ha effettuato il doppio movimento, che ha attraversato la rassegnazione


infinita, che ha accettato di perdere l’oggetto del proprio desiderio essenziale in modo da poterlo
ritrovare, che ha compiuto il «salto nell’infinito», ma in modo da poter ricadere con i piedi
saldamente piantati sulla terra, è chiamato da Kierkegaard cavaliere della fede. Il cavaliere della
fede ha, nel suo aspetto, ben poco di cavalleresco; nessun segno esteriore lo distingue dall’uomo
del mondo, dall’uomo ch’è perfettamente a suo agio nella pólis. «I cavalieri dell’infinito sono dei
ballerini che non mancano d’elevazione. Saltano in aria e ricadono; passatempo non sgradevole
né spiacevole a vedersi. Ma, ogni volta che ricadono, non possono ritrovarsi subito sulle loro
gambe, vacillano un istante, in un’esitazione che mostra quanto essi siano estranei al mondo.
Quel vacillare è più o meno sensibile, a seconda della bravura; ma neppure il più abile fra loro
può dissimularlo. È inutile guardarli mentre sono in aria; basta vederli al momento in cui toccano
il suolo. Allora è possibile riconoscerli».
Gli analisti sono stati, finora, nella migliore delle ipotesi, cavalieri dell’infinito. Con lo
scherzo sul congresso degli psicanalisti abbiamo solo cercato d’osservarli nell’attimo della
ricaduta, nel loro vacillare. Quel loro essere come tutti gli altri, ma un po’ più di tutti gli altri, è il
segno indiscutibile del loro vacillare. Il loro «narcisismo delle piccole differenze» è il segno che
il loro doppio movimento non è perfettamente riuscito. «Ma ricadere in modo tale che si paia, al
tempo stesso, dritti e in moto; trasformare in marcia il salto della vita; esprimere lo slancio nella
più comune andatura, ecco ciò di cui è capace soltanto il cavaliere della fede, ecco il prodigio
unico». Riusciranno gli psicanalisti – diciamo meglio, gli psicanalizzati, cioè tutti coloro che
avranno condotto sino in fondo la loro ascesi analitica – a raggiungere questa perfezione? In
verità, è davvero difficile ch’essi riescano a non distinguersi in nulla dagli uomini della città e
della finitezza, finché si porranno il problema contrario di farsi riconoscere. Finché la psicanalisi
resterà una professione, gli psicanalisti non saranno cavalieri della fede, ma resteranno soltanto,
nella migliore delle ipotesi, cavalieri dell’infinito, sempre un po’ goffi nel loro ricadere nel
finito, cioè nel loro aggirarsi nella pólis. Ma finché non avranno assunto su di sÌ il compito che
spetta loro nella città, e non avranno assolto sino in fondo a questo compito, essi non potranno
che continuare ad assumersi la loro professionalità e quindi la loro goffaggine, consapevoli della
verità di quei versi, citati una volta da Freud, nei quali si dice ch’è giusto sforzarsi d’arrivare
zoppicando dove non si può giungere d’un volo.
PARTE SECONDA

LA SCIENZA NUOVA
Quando lo vidi, crollai come morto ai suoi piedi, ma egli pose la sua destra su di me e disse: «Non temere. Io
sono il primo, e l’ultimo, e il vivente; fui morto, ma ecco: io sono vivo per i Tempi dei Tempi, e possiedo le chiavi
della morte e degl’inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, cioè quello che ora è e quello che deve avvenire in
seguito [...]».

E il messaggero che avevo scorto in piedi sul mare e sulla terra levò la mano destra al cielo e giurò per colui che
vive nei Tempi dei Tempi, che ha creato il cielo e ciò che in esso esiste, la terra e ciò che in essa esiste, il mare e ciò
che in esso esiste: «Non ci sarà più tempo. Anzi nei giorni del suono del settimo messaggero, quando questi inizierà
a squillare, sarà consumato il mistero di Dio, com’egli ha annunciato ai propri servi, i profeti [...]».

E io vidi la città santa, la Gerusalemme nuova, mentre discendeva dal cielo, da presso Dio, preparata come una
sposa che s’è abbellita per il suo sposo. E udii una voce potente che parlava dal trono: «Ecco la tenda di Dio tra gli
uomini. Egli porrà le sue tende con loro. Essi saranno il suo popolo e Dio stesso sarà con loro, e asciugherà ogni
lacrima dai loro occhi, e la morte non esisterà più; né lutto, né grida, né sofferenza esisteranno più, perché le cose di
prima sono scomparse». Poi colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuova ogni cosa». E disse ancora:
«Scrivi, perché queste parole sono fedeli, e dicono il vero». E mi disse ancora: «È fatto. Io sono l’alfa e l’omega, il
principio e la fine. A chi ha sete darò, senza chiedere nulla in cambio, dalla fonte dell’acqua della vita. Il vincitore
avrà questo in eredità: io sarò Dio per lui, ed egli sarà figlio per me. Però quanto ai pavidi, ai non fedeli, ai
depravati, agli omicidi, ai fornicatori, agli stregoni, agl’idolatri e a tutti i falsi, la loro sorte sta nello stagno che arde
di fuoco e di zolfo, ch’è la seconda morte».

Ap 2, 17-19, 10, 5-7, 21, 2-8


LIBRO PRIMO

IL COGITO
I. Scienza congetturale e scienza nuova

312. Nel seminario del 5 febbraio 1964, Lacan propone di definire la psicanalisi come una
«scienza congetturale del soggetto». Ci troviamo di fronte, qui, ad una svolta importante del suo
insegnamento. Infatti il Seminario di quell’anno, I quattro concetti fondamentali della
psicanalisi, si svolge immediatamente dopo la «scomunica» da parte dell’Internazionale, ed è
una diretta conseguenza dell’esclusione definitiva di Lacan dall’Associazione fondata da Freud.
Si comprende facilmente perché Lacan, in questa situazione, abbia preferito cambiare
l’argomento del Seminario (che avrebbe dovuto essere dedicato ai Nomi del Padre), allo scopo
d’insistere sui concetti essenziali nella tradizione psicanalitica. Si tratta evidentemente, per lui, di
fondarla, o rifondarla, a monte dell’Associazione che aveva appena rifiutato di riaccoglierlo nel
suo seno, e di far questo tenendo conto dei termini della cultura di quegli anni. Proprio per
questo Lacan dedica i primi seminari a situare l’invenzione freudiana rispetto ai principi primi
del sapere scientifico, e tenta di giustificare la teoria psicanalitica facendo ricorso alla fondazione
metafisica di questo sapere, cioè al cogito cartesiano. A proposito del modo in cui Freud presenta
il concetto d’inconscio, Lacan dice: «Egli afferma ch’esso è costituito essenzialmente non da
quanto la coscienza può evocare, presentare, individuare o far uscire dal subliminale, ma da
quanto è ad essa, per essenza, rifiutato. E Freud come chiama questo? Con lo stesso termine con
il quale Cartesio designa quel che poco fa ho chiamato il suo punto d’appoggio: Gedanken,
pensieri. Ci sono pensieri in questo campo dell’al di là della coscienza, ed è impossibile
rappresentare questi pensieri se non nella stessa omologia di determinazione nella quale si trova
il soggetto dell’“io penso” in relazione all’articolazione dell’“io dubito”. Cartesio coglie il suo
“io penso” nell’enunciazione dell’“io dubito”, non nel suo enunciato, che invece si trascina
ancora dietro tutto quel sapere da mettere in dubbio». Lacan, quindi, traduce il cogito cartesiano
nei termini d’una verità articolata attraverso il sostegno che l’enunciazione offre all’enunciato,
fondandolo. Non è un caso, del resto, che proprio in questo Seminario Lacan inizia a percorrere
quella strada che lo porterà ad insistere sulla funzione della topologia e dei mathèmes nella teoria
psicanalitica. Come abbiamo già rilevato nella prima parte di questo volume, quindi, Lacan
fonda la verità della psicanalisi sugli stessi presupposti sui quali la filosofia trascendentale fonda
la propria (sul cogito), ma non lo fa minimamente negli stessi termini. Senza dubbio, infatti, la
fondazione della «scienza congetturale», come quella della filosofia trascendentale, avviene a
partire dall’esperienza soggettiva, ma il soggetto, per Lacan, nonostante la funzione dei
Gedanken, resta indeterminato (22 gennaio), in quanto non è affatto il soggetto nel quale il
cogitans e il cogitatum sono un punto d’inaggirabile identità, com’era per Husserl, ma è la scena
vuota – e proprio per questo reale – nella quale i «pensieri» – in realtà i significanti – s’alternano
secondo una logica che sfugge del tutto al controllo della coscienza. La fondazione della
«scienza congetturale» avviene dunque sulla base d’un cogito che non fonda in nessun modo il
pensiero come contenuto ineliminabile della soggettività, ma avviene sulla base del rapporto fra
l’enunciato e l’enunciazione del cogito, in quanto il «dubbio» cartesiano è identificato alla
seconda. Lacan dunque, se per un verso si riferisce esplicitamente alla fondazione metafisica del
discorso scientifico, per un altro rifiuta del tutto l’impostazione metafisica di questa fondazione,
e parla del cogito negli stessi termini in cui la «scienza congetturale» psicanalitica parlerebbe di
qualunque altra cosa, assumendolo non tanto come pensiero, quanto come un enunciato limitato
e fondato dalla sua enunciazione. Ciò non va da sé. Per quanto infatti nessun pensiero possa
essere definito tale finché non venga enunciato, non è possibile sovrapporre immediatamente il
pensiero ed il rapporto fra enunciato ed enunciazione, dal momento che nulla assicura a
quest’ultimo d’avere la natura d’un pensiero.

313. Il soggetto del cogito, per Lacan, è essenzialmente il luogo d’una mancanza, alla quale
tuttavia egli vuole dare un valore ontologico. Il terzo seminario (del 29 gennaio) inizia infatti
proprio ponendo il problema della funzione ontologica della mancanza. L’inconscio stesso è una
béance, dice Lacan, e «noi potremmo dirla preontologica». L’inconscio «non è né essere né non
essere, è invece qualcosa di non realizzato». Lo statuto ontologico dell’inconscio è «così fragile
sul piano ontico», perché esso «è etico». Il modo in cui Freud articola la propria dimostrazione
nella Traumdeutung è determinato in modo implicitamente cartesiano, perché il punto
d’articolazione teorica fondamentale non è la verità, ma la certezza. «“Io non sono sicuro,
dubito”. E chi non dubiterebbe a proposito della trasmissione del sogno quando, in effetti, è così
manifesto che c’è un abisso fra ciò ch’è stato vissuto e quanto viene riferito? Ora – proprio qui
Freud mette l’accento con tutta la sua forza –, il dubbio è la base della sua certezza». Il dubbio,
infatti, non elimina affatto il pensiero del sogno, perché ne fa parte. Ad una struttura
metalinguistica, nella quale il dubbio metterebbe in questione e per così dire fra parentesi
l’enunciato di partenza, Lacan sostituisce una struttura linguistica, articolata in enunciato
(l’enunciato di partenza) ed enunciazione, ch’è la condizione d’esistenza dell’enunciato stesso.
«Proprio a questo posto egli [Freud] chiama, non appena ha a che fare con altri, l’“io penso”
attraverso il quale si rivelerà il soggetto. Insomma egli è sicuro che questo pensiero è lì, tutto
solo, grazie al suo “io sono”, se così possiamo dire, non appena – è questo il salto – qualcuno
pensa al suo posto». E proprio qui «si rivela la dissimmetria tra Freud e Cartesio», in quanto solo
per il primo il soggetto è «a casa sua» nell’inconscio, «e proprio perché Freud ne afferma la
certezza avviene il progresso con cui egli ci cambia il mondo».
Riconsideriamo ora l’articolazione stringatissima che Lacan dà alla propria riflessione.
Cominciamo dall’inizio. L’inconscio non ha uno statuto ontologico od ontico ben saldo, dice
Lacan. In effetti, come potrebbe? L’inconscio è sì, per Freud, il reale del soggetto, ma il soggetto
è appunto non reale, come abbiamo già visto. Ora, parlare del reale del non reale non serve certo
a creare una gratuita antinomia. Le due determinazioni contraddittorie corrispondono infatti a
due diversi piani di discorso. Il soggetto come non reale è il soggetto vuoto (cioè indeterminato,
se non come mero punto d’identità fra cogitans e cogitatum) della filosofia, in quanto esso viene
assunto, attraverso la scienza e la stessa significazione della parola «soggetto», nella riflessione
analitica (e la vuotezza di questo soggetto, si badi bene, non viene affatto dal valore
trascendentale del cogito, ma solo dall’utilizzazione di quest’ultimo nei termini della logica
formale); il soggetto come reale è invece l’articolazione ipotetica di questo stesso soggetto, nella
sua determinazione etica. In questo secondo piano di discorso non ci troviamo affatto ad un
livello di riflessione ontologica perché gnoseologica (come in apparenza – e spiegheremo meglio
nel prossimo capitolo perché diciamo in apparenza – nel cogito cartesiano); ci troviamo invece di
fronte al soggetto determinato della patologia. Freud, in altri termini, parte dalla patologia, e
quindi dal soggetto della ragione pratica; considera la patologia a partire dal soggetto
gnoseologico della scienza e, per poterla spiegare in termini scientifici, aggiunge al soggetto
«vuoto» della gnoseologia la determinazione supplementare, ma sempre e solo ipotetica,
dell’inconscio. In altri termini Freud, rispetto alla filosofia, compie un giro in più, reso
necessario dal fatto che la stessa filosofia, da Cartesio a Kant, non era riuscita a far coesistere il
soggetto della ragione pratica con quello della ragione pura se non grazie ad un artificio logico
(quello del valore universale della massima etica, lo stesso che rende impossibile a noi
sottoscrivere i principi dell’etica kantiana). Il concetto d’inconscio, che corrisponde a quello di
reale soggettivo, è in realtà sostenuto proprio da questa incapacità della metafisica classica di
farsi un unico concetto del soggetto della conoscenza e del soggetto dell’eticità. Essa formula la
propria teoria a partire da una scelta gnoseologica, e non da una scelta etica. E sarebbe
sufficiente rinunciare a questa decisione fondamentale per rendere i fatti dei quali si occupa la
psicanalisi spiegabili anche in termini compatibili con una vera e propria fenomenologia etica
della soggettività, che includa anche la gnoseologica come un propria problematica, sempre
fondata eticamente. Ciò significa che il concetto d’inconscio è certamente riferito al reale della
soggettività, ma solo sulla base d’una preliminare derealizzazione – scientifica e filosofica –
della soggettività. Infatti la scelta della metafisica di considerare la soggettività etica a partire
dalla gnoseologia porta immediatamente a pensare il soggetto come un indeterminato (il soggetto
conoscente, infatti, non può essere determinato che come indeterminato, dal momento che ogni
ulteriore sua determinazione avverrebbe a spese della sua funzione conoscitiva).
Ora, se il soggetto torna ad essere un punto di reale, se cioè la sua problematica viene
impostata eticamente, prima che gnoseologicamente, il concetto d’inconscio finisce per avere
solo un’utilità pratica, ma non ha alcun bisogno – né alcuna possibilità – d’essere fondato
ontologicamente. Questa riformulazione trascendentale del problema, che abbiamo tentato
d’articolare nella prima parte di questo volume, è cruciale, dal punto di vista d’una fondazione
della teoria analitica. Infatti l’indiscutibile utilità pratica del concetto d’inconscio, come tutte le
utilità di questo mondo, ha un suo prezzo, dal momento che, se noi dimentichiamo che
l’inconscio è soltanto un’ipotesi giustificata dai presupposti metafisici della scienza classica,
rischiamo continuamente di dare a questo concetto un peso di reale che rischia di trasformare la
psicanalisi in un’ideologia del desiderio vero, cioè in una forma di gnosi a buon mercato (lo
stesso Lacan si riferisce alla gnosi il 29 gennaio, in un contesto nel quale il riferimento filosofico
più preciso sarebbe stato forse al neoplatonismo; la gnosi, in realtà, non è una filosofia, ma una
visione del mondo, e come tale può essere preziosa, se è fondata su valide basi filosofiche, o può
diventare un’ideologia da quattro soldi del «tutto è permesso» quando queste basi, come accade
quasi sempre, sono fragili).

314. Contrariamente a quanto stiamo cercando di fare in questo volume, Lacan, pur partendo
dall’assunzione ontologica della mancanza, traduce il riferimento cartesiano in un riferimento
descrittivo, coerentemente con il punto di vista delle «scienze congetturali», soprattutto della
linguistica e della psicanalisi, ma in un modo che rimane del tutto estraneo ai presupposti logici
della metafisica. Lacan non vuole fare della metafisica. Egli vuole fondare la psicanalisi nel
cogito solo nella misura in cui il cogito stesso, nella sua assunzione metodologica, è il
presupposto essenziale della fondazione delle scienze. Ma questo a dire il vero è un modo molto
riduttivo d’intendere l’articolazione cartesiana, che riguarda la fondazione della conoscenza,
prima ancora che la fondazione delle scienze. Il problema che incomincia allora a delinearsi è il
seguente: a quali condizioni il cogito può essere davvero il presupposto metodologico d’una
scienza? Non basta riferircisi più o meno implicitamente perché la scienza sia davvero fondata in
termini di verità, come dimostra tutta l’epistemologia del nostro secolo. Per collegare il sapere
scientifico al cogito, infatti, è necessario costruire una fenomenologia, nella quale siano
perfettamente articolati i passaggi logici trascendentali che consentono di giungere dal cogito al
contenuto di verità delle singole scienze. In questo volume, e negli altri due che lo
accompagnano, noi non abbiamo preteso di tradurre la teoria analitica in una «fenomenologia
dell’inconscio» (espressione che del resto è una vera e propria contraddizione in terminis), ma
abbiamo solo voluto mostrare da una parte la necessità d’una fondazione trascendentale della
psicanalisi, dall’altra quelle che ci paiono essere le condizioni di possibilità d’una
«fenomenologia trascendentale» che dev’essere necessariamente una parte della «scienza
nuova», se si vuole che questa fondi metafisicamente ed epistemologicamente le singole scienze
all’interno d’una concezione metafisica coerente e tuttavia non chiusa. Ma appunto: la «scienza
nuova», di per sé, non è affatto una fenomenologia trascendentale. Una fenomenologia può e
deve farne parte, ma non è di questa che noi ci stiamo occupando. Ci stiamo invece occupando
dei presupposti di questa eventuale fenomenologia, e fra questi presupposti il cogito ha senza
dubbio un posto fondamentale, a condizione che noi lo situiamo nella sua giusta funzione
metafisica, prima ancora che metodologica. Il cogito infatti è la condizione d’ogni
fenomenologia. Di conseguenza esso può venire interpretato in maniera fenomenologica (come
fa Husserl, commentando Cartesio), ma il contenuto e la natura della fenomenologia dipendono
dal modo in cui il cogito stesso sarà stato inteso e fatto valere a monte della stessa deduzione
fenomenologica. La fenomenologia, in altri termini, non è una filosofia prima (lo è solo in Hegel,
ma su presupposti del tutto differenti da quelli validi nella linea Cartesio-Kant-Husserl). Certo, ci
si potrebbe obiettare che il cogito è un principio assolutamente semplice, e che quindi a partire
da esso si può costruire un’intera filosofia prima, cioè un’intera metafisica, la quale di
conseguenza potrebbe essere interamente fenomenologica. E sarebbe così effettivamente se fosse
del tutto evidente che il cogito ha la natura d’un principio. Ma ciò è del tutto discutibile. Cartesio
credeva che l’avesse, ed ha costruito sul fondamento del cogito una filosofia ch’è tutt’altro che
fenomenologica. In realtà – da questo punto di vista Lacan ha visto certamente giusto –, se il
cogito fosse realmente il principio d’una metafisica, esisterebbe un discorso che conterrebbe e
formulerebbe il suo stesso principio. Ciò, logicamente, è stato dimostrato impossibile dal
teorema di Gödel. Nessun sistema matematico, linguistico o logico può essere riferito al tempo
stesso ad oggetti esterni ad esso e ad esso stesso. Se il cogito avesse il valore d’un principio, esso
sarebbe duplice, perché dovrebbe essere inteso separatamente come principio e come principiato,
come cogitans e come cogitatum, cioè sarebbe per un verso un oggetto della fenomenologia, per
un altro il suo principio. Ma il cogito esprime invece il fatto che cogitans, cogitatum e cogitatio
sono necessariamente collegati. Concepire invece il cogitans come differente dal suo cogitatum
non farebbe che riaprire la porta ad una serie di posizioni di tipo sofistico (le stesse che Platone,
come vedremo più avanti, aveva demolito nel Carmide). Il cogito esprime il fatto che non c’è
pensato senza pensante, ma non dimostra affatto che il pensante ed il pensato, benché siano
necessariamente collegati, sono lo stesso, perché, se lo fossero, non ci sarebbe alcun pensiero.
Dobbiamo quindi prima di tutto intendere il cogito nel suo effettivo valore di fondamento,
perché altrimenti richiamarsi ad esso non serve a fondare alcunché. Il cogito, se assunto solo in
modo formale, separatamente dalla sua deduzione trascendentale, è un mero sofisma: dal
semplice fatto di pensare non si deduce alcuna certezza, se questo pensiero non è un pensiero
trascendentale, cioè se non pensiamo in una prospettiva metafisica. Ora, è proprio al di fuori di
questa prospettiva che il cogito viene assunto solitamente sia dalla scienza, sia dalla filosofia dei
manuali. Dedurre il sum dal cogito, in base all’infelice formula del cogito ergo sum, la quale
s’incontra del resto, in Cartesio, soltanto di sfuggita, è un mero errore logico, che non può che
introdurci nella «cattiva infinità» d’una deduzione condannata a ripetersi, in modo formale, e per
niente trascendentale, senza portare, con questo, a nessuna fondazione d’una scienza.

315. Ma prima di venire a considerare in che modo Lacan utilizza il cogito, proprio nei
termini di questa «cattiva infinità», nel Seminario sull’Identificazione, vogliamo soffermarci
brevemente su un altro punto del suo Seminario sui Quattro concetti. Lacan non distingue
chiaramente, qui, lo statuto ontologico dallo statuto ontico: accenna ad entrambi, ma solo per
dire che il concetto d’inconscio è «debole» da entrambi i punti di vista. Ora, dal punto di vista
trascendentale la differenza ontico-ontologica è assolutamente fondamentale, in quanto in essa
s’esprime la differenza fra l’essere e l’ente. Evidentemente l’inconscio non ha nulla a che fare
con l’essere – benché determini l’essere soggettivo – e non è un ente, perché è solo un’ipotesi
esplicativa. L’inconscio è l’ipotesi supplementare che s’è resa necessaria per pensare l’essere
dell’ente soggettivo a partire dalla sua riduzione ontologica (o più semplicemente: a partire dalla
finzione scientifica in base alla quale il soggetto sarebbe considerabile come qualunque altro
oggetto di sapere). L’inconscio è il supplemento concettuale impostosi per il fatto che la
psicanalisi ha sottoscritto la semplificazione inclusa nella riduzione ontologica, la quale
semplificazione contiene un clamoroso errore d’impostazione epistemologica del problema della
soggettività, anche se naturalmente questo errore ha prodotto degli effetti imprescindibili: per
esempio la psicanalisi stessa, che non sarebbe potuta sorgere se non sulla base di questo errore.
Questo supplemento ch’è l’inconscio, sebbene tenda a mettere in rilievo la verità – prima di tutto
etica – d’ogni fatto soggettivo, resta comunque vincolato all’errore di partenza, perché ne
dipende. In realtà, considerare il soggetto eticamente, prima che gnoseologicamente, significa
considerarlo a partire dalla differenza ontico-ontologica, dimenticata la quale il cogito stesso non
è che una formula vuota.
316. Torniamo ora a Lacan, che nel Seminario sull’Identificazione s’è soffermato lungamente
sul cogito. Nel testo di Cartesio, egli dice il 15 novembre 1961, il cogito ergo sum è molto più
fluido e sfuggente di quanto non lasci intendere la formula mille volte ripetuta. Tuttavia
all’impostazione data da Cartesio al problema dell’essere del soggetto si può fare, dice Lacan,
l’obiezione che «“io penso” non è un pensiero. Naturalmente», egli continua, «Cartesio ci
propone queste formule al termine d’un lungo processo di pensiero, ed è sicuro che il pensiero di
cui si tratta è un pensiero di pensatore. Direi anzi che non è necessario esigere questa
caratteristica (“è un pensiero di pensatore”) perché si possa parlare di pensiero. Un pensiero,
insomma, non esige minimamente che si pensi al pensiero». Lacan, qui, torna sull’antico
problema filosofico della fondazione della conoscenza, possibile solo se il conoscente può
conoscersi anche come conoscente, e non solo come conosciuto, problema che sta a monte di
quello del cogito e dell’intera fenomenologia trascendentale. Platone e Plotino lo avevano
affrontato molto prima ch’esso fosse ripreso da Cartesio e da Kant. Questi autori lo hanno
certamente risolto in modi diversi (del resto lo hanno anche affrontato da punti di vista e con
formulazioni molto differenti). Ciò che pare caratterizzare l’intervento di Cartesio è la reductio
di questa problematica, attraverso il dubbio metodico, al tratto non altrimenti determinato del
pensiero in quanto tale. L’intervento di Lacan ci pare contrassegnato invece dall’assunzione di
questa problematica non dal punto di vista del pensiero, ma da quello del linguaggio. Lacan,
abbiamo visto, non considera il cogito come un pensiero, ma come un enunciato, e quindi
sovrappone senza resti l’atto in cui esso consiste con l’atto di costruire su di esso una teoria della
conoscenza (la quale, come dimostra Husserl, avrebbe anche potuto essere molto diversa da
quella elaborata da Cartesio). Ma l’«io penso», inteso come enunciato, sia pure nella
considerazione della sua enunciazione, non ha alcun valore di fondazione. Questo valore non
viene, in Cartesio, né dall’enunciato né dall’enunciazione della teoria filosofica, ma proprio
dall’atto di cogitare, perché solo in quest’ultimo la cogitatio offre a se stessa una prova del tutto
evidente del proprio essere, perché questo essere è indiscutibilmente incluso in essa (un cogitare
«non essente» non potrebbe neppure illudersi di cogitare, e un cogitare che solo s’illudesse non
potrebbe illudersi tuttavia sul proprio essere). Ciò che costituisce il nucleo della prova di
Cartesio è dunque che nella cogitatio è certamente incluso un cogitans ed un cogitatum, ma del
tutto a prescindere dall’oggetto sul quale verte il pensiero. Certo, questa prova si manifesta
come tale solo in Cartesio (e più tardi in Kant e Husserl), ma essa agisce nel pensiero di
chiunque, dando al pensiero stesso, che in realtà è la cosa più sfuggente che vi sia, la forza d’una
certezza indiscutibile. La grandezza straordinaria di Cartesio, anche a prescindere dalla sua
costruzione filosofica, sta nell’aver saputo cogliere questo punto d’implicazione assolutamente
necessaria, nel cogitare, fra la cogitatio, il cogitans e il cogitatum. Tolta questa consapevolezza,
e se prescindiamo dal valore storico del pensiero di Cartesio, del cogito non rimane che la sua
assunzione semplificatrice da parte della scienza, assunzione che ha finito per creare, anche
grazie ai successi della tecnologia, l’orizzonte sconfortante della riduzione strutturalistica, in
base alla quale noi continuiamo a pensare al linguaggio come ad un che d’autonomo (e non c’è
dubbio che la psicanalisi, soprattutto quella lacaniana, ha molto contribuito al successo di questa
riduzione).
L’obiezione di Lacan alla formula del cogito sorvola completamente sulla divaricazione che
c’è fra il cogito e la concezione filosofica generale di Cartesio, e tende ad estrarre dalla certezza
del cogito la certezza d’una teoria psicanalitica, riferibile però a dei soggetti psicologicamente
determinati: qualunque soggetto determinato, infatti, per Lacan, è riducibile in ultima istanza al
soggetto indeterminato del cogito. La lettura che Lacan fa del cogito è quindi determinata dalla
contraddizione fondamentale della sua concezione del soggetto: il reale del soggetto determinato
(del soggetto psicologico) è la sua indeterminazione (il soggetto del cogito); ma, se il reale del
soggetto è la sua indeterminazione, il reale del soggetto è un mero nulla, anzi, come abbiamo
visto, è solo la sua morte «naturale». La settimana successiva infatti Lacan dice: «Questa
formula sembra implicare che il soggetto dovrebbe necessariamente pensare in ogni istante per
assicurarsi d’essere. Basta forse che pensi d’essere, perché giunga ad essere pensante?». Per
Lacan, Cartesio introduce «di contrabbando» l’«io» del cogitare nella propria conclusione. C’è
dunque un «vacillamento», dice Lacan, nell’articolazione logica cartesiana, il quale
vacillamaneto può essere considerato in due modi: o segnalando il carattere alternante del
rapporto fra il pensare e l’essere (e a questo proposito Lacan fa i nomi di Brentano e Tommaso
d’Aquino), o sottolineando il carattere sfuggente di questo «io», il quale fa diventare
l’affermazione di Cartesio un «io penso ed io non sono», invece che quel monolito che sembra
essere il cogito ergo sum e sul quale sarebbe possibile erigere il complesso edificio d’un sapere
generale e indiscutibile.
Tutto ciò, bisogna dire, ha ben poco a che vedere col senso filosofico della fondazione
cartesiana, la quale non riguarda minimamente l’essere di nessun soggetto assunto nella sua
complessiva singolarità personale, ma riguarda solo l’essere del soggetto della conoscenza,
rispetto al quale essere la determinazione singolare della soggettività – vale a dire la
determinazione psicologica – appare del tutto irrilevante. Lacan parla invece dell’essere del
soggetto concreto e determinato, il quale, egli dice, non emerge nel pensare, ma nel cessare di
pensare, perché solo qui il soggetto si delinea nel suo reale muto ed enigmatico: lo stesso che
farà supporre a Lacan, molti anni più tardi, che «ci si può accontentare d’essere Altro come tutti,
dopo una vita passata a volerlo essere malgrado la legge». La morte si profila insomma
all’orizzonte dell’articolazione di Lacan come il fondamento reale, ma proprio per questo del
tutto inesprimibile, della soggettività. In altri termini Lacan, come ha sempre fatto la psicanalisi,
vuole estrarre dalla filosofia una determinazione soggettiva che in essa non è affatto contenuta (e
che non vi è contenuta non per una generale necessità insita nella riflessione filosofica, ma per
una scelta filosofica ch’è proprio quella di Cartesio, anche se i suoi presupposti sono molto più
antichi). In questo modo, una concezione psicanalitica del soggetto può formularsi solo con un
vero gioco di prestigio. Il concetto psicanalitico (anche freudiano) di soggetto proviene da una
correzione che non è affatto filosofica (né Freud né Lacan vogliono essere filosofi), e che perciò,
per dire le cose come stanno, non ha alcun valore filosofico, della concezione filosofica della
soggettività, assunta come punto di partenza. In questo modo la psicanalisi rimane a metà strada
fra una filosofia che non può rifiutare, per non divenire una psicologia ingenua e banale, ed una
pratica efficace, ma la cui efficacia non è motivabile se non facendo ricorso ad una teoria che
filosoficamente è non solo discutibile nei suoi fondamenti essenziali, ma del tutto inconsistente.
Certo, l’inconsistenza filosofica della teoria analitica produce un sapere che la filosofia non
aveva mai prodotto (nonostante il tentativo husserliano), e del resto l’onestà di Freud e di Lacan
ha sempre ammesso questo zoppicamento della psicanalisi, ma lo ha sempre ammesso – e
proprio questo è il problema – come necessario, come se per risolvere un problema bastasse
riconoscere che c’è. In realtà, il problema è molto più grave di quanto non sia dato di vedere se
lo assumiamo solo come un problema di definizione della soggettività. Infatti una teoria come
quella della psicanalisi, che si propone di dare ragione d’una pratica nella quale deve mettersi
alla prova la verità inclusa nell’azione di ciascuno, non può ridurre questa verità alla morte e
all’indeterminato senza venire meno non solo a dei criteri logici, il cui rispetto pure si potrebbe
esigere, ma anche al compito ed al destino ch’essa s’è assunto, assumendosi così il compito di
rendere evidente e trasmissibile, anche al di fuori dei limiti regionali della propria pratica, quali
sono i principi della sua azione e della sua teoria.

317. Ma torniamo al Seminario di Lacan. Nonostante ciò che a lui pare illusorio nella
deduzione cartesiana dell’essere dal cogito, l’atto fondante di Cartesio, proprio in quanto atto,
non è affatto insensato, egli dice. Il fatto stesso che Cartesio faccia appello ad un Dio garante
della verità della propria deduzione, richiamandosi allo schema anselmiano della prova
ontologica della sua esistenza, testimonia dell’esigenza, per lo stesso Cartesio, di far valere quel
tratto unico, einziger Zug, che «potrebbe essere sostituito a tutti gli elementi di ciò che
costituisce la catena significante». L’esigenza della quale Cartesio testimonia è quindi proprio
questa che associa al soggetto in quanto determinato dal significante la funzione del tratto
numerico, dell’1. Il 10 gennaio 1962, infatti, Lacan ritorna sul cogito, proprio per chiedersi se la
deduzione dell’essere dal pensare produce un movimento infinito. Lacan, naturalmente, risponde
di no, nonostante il fatto che ad ogni nuovo pensiero l’essere del soggetto sembra riprodursi
come in un giuoco di specchi, e lo fa richiamandosi al suo articolo sul Tempo logico – perché
evidentemente il problema che qui stiamo affrontando è proprio quello dello statuto temporale
del cogito –, nel quale aveva dimostrato che bastano «tre oscillazioni esitanti» perché i soggetti
di cui si tratta nel giuoco ch’è esposto in quell’articolo possano avere «con certezza e per così
dire pienamente figurate, attraverso la scansione della loro esitazione, le limitazioni di tutte le
possibilità contraddittorie». Di conseguenza anche il giuoco dell’«io penso» con l’«io sono» non
è infinito, dice Lacan. Ma dov’è il limite? Il limite compare, egli dice, da una parte, in senso
matematico, attraverso la funzione dell’1 come significante del soggetto, vale a dire dell’«io
penso», dall’altra attraverso il numero immaginario !-1 come significante dell’«io sono», vale a
dire di quel quid ch’è il soggetto prima di pensarsi. Questi due numeri, infatti, dice Lacan,
possono costituire una serie che «converge su un valore perfettamente costante, che si chiama un
limite».

318. Naturalmente non seguiremo Lacan nella complessa articolazione del suo Seminario, e
nella costruzione matematica della serie. Ci fermiamo invece qui per chiederci prima di tutto
questo: il passaggio al limite nella serie ch’egli ha costruito, matematizzando i termini della
formula cartesiana, dimostra veramente che la relazione fra il cogito ed il sum, quale Lacan la
descrive, non va nella direzione della «cattiva infinità»? Crediamo di no. Matematicamente,
certo, l’infinità di cui si tratta nel passaggio al limite è perfettamente calcolabile. Ma il problema
non è questo. È invece di comprendere se, dando per scontato che nel cogito si tratti veramente
della funzione d’un’enunciazione, Lacan non stia deducendo dall’articolazione cartesiana
qualcosa che non è incluso affatto nel pensiero di Cartesio – se non perché Cartesio ha descritto
il suo pensiero, e quindi lo ha effettivamente enunciato –, ma ch’è incluso invece solo
nell’interpretazione di Lacan. La dimostrazione che Lacan dà della finitezza nel rapporto fra il
pensiero e l’essere nei termini della funzione del significante 1 (che del resto non ha che una
relazione secondaria con l’Uno in quanto tale, cioè con quell’Uno che, secondo Platone, nel
Parmenide, è al di là dell’essenza, e che quindi ha poco – ma non niente – a che vedere con la
significazione, sia pure con quella dell’1) è tutta inclusa già nella sua decisione di considerare il
cogito non come un atto di pensiero – benché di tanto in tanto Lacan stesso riconosca che proprio
di questo si tratta –, ma come un enunciato. Ora, se una cosa è chiara in Cartesio, è che il cogito
non ha nessuna relazione con l’enunciato in cui s’esprime e tanto meno con la sua enunciazione,
se non per l’atto con cui egli scrive le sue Meditazioni, chiedendo ai dotti del suo tempo
d’esprimere il loro parere a proposito della sua dimostrazione. Questo, certo, è un atto di
fondazione d’una filosofia, o meglio ancora di fondazione d’una concezione della verità che
poteva servire – e di fatto è servita – come una rete di sicurezza generalmente, ma proprio per
questo artificialmente valida, per tutti i pensatori e gli scienziati dei secoli successivi. Ma l’atto
di fondazione di questa concezione non ha nulla a che vedere con l’atto della dimostrazione
dell’identità del pensiero e dell’essere in cui consiste il cogito. Se il cogito è qualcosa di più che
un sofisma, ciò non dipende affatto, come sembra credere Lacan, dalla possibilità di dimostrare
che dalla serie infinita, benché convergente, che se ne può dedurre, si può giungere ad un limite,
perché a questo limite si può giungere né più né meno che da qualunque enunciato, nella misura
in cui qualunque enunciato contiene, da qualche parte, un nome del soggetto che lo enuncia, e
quindi è passibile d’una traduzione numerica analoga a quella che Lacan propone per il cogito
ergo sum. Se il cogito è qualcosa di più che un sofisma, ciò dipende invece dal fatto che c’è un
pensiero, del tutto indipendente dalla sua formulazione filosofica formale, e dal fatto che questo
pensiero, quale che sia – anche se fosse un mero fantasticare irragionevole, come Cartesio stesso
ammette – non solo fa presupporre, ma include, che lo si sappia o no, che lo si dica o no, l’essere
del soggetto.
Beninteso, non stiamo minimamente contrapponendo il pensiero alla sua formulazione
linguistica; stiamo dicendo invece che c’è, nel pensiero – anzi in ogni pensiero –, qualcosa che
comunque non «entra» nella sua formulazione linguistica, in quanto questa formulazione, di per
sé, non contiene alcun pensiero, almeno fino a quando non venga ripensata, come dimostra
d’altra parte il fatto che la semplice formulazione vuota del cogito, vale a dire la formula
semplicemente pronunciata da chi non pensi affatto alle parole che pronuncia, non dimostra nulla
quanto a nessuna fondazione soggettiva della verità nell’essere. Il problema, insomma, non è di
ridurre tutto nei termini della significazione, perché la significazione non può che portarci avanti
all’infinito, anche se in questo tendere all’infinito si producono dei limiti e delle chiusure, senza i
quali del resto non ci sarebbe neppure nessuna significazione. In realtà approssimarsi ad un
limite non è molto, quando invece, nella prospettiva della fondazione d’un sapere, il compito è di
superarlo. Certo, è stupefacente che persino delle semplici significazioni vuote, come le lettere
usate in matematica, possano riempirsi d’un contenuto reale. Ma questo non significa che questo
contenuto sia loro. La cosa davvero stupefacente è che la mera formalità della significazione può
contenere del vero, anche se essa non lo contiene affatto di per sé, perché il tratto 1 che possiamo
graffiare su una superficie non contiene nulla, se non una morta traccia dell’atto di graffiare, che
certo non è un atto soggettivo, se noi non sappiamo che graffiare può essere un modo di contare.
Difficile non è tracciare un segno, ma contare, perché contare significa estrarsi da se stessi e dal
proprio atto, ed estrarre il nostro atto da esso stesso, fino a renderlo un 1, cioè un significante. La
cosa davvero stupefacente è che ci sia un significante, cioè una creazione di significanti,
nonostante il fatto che, da un altro punto di vista, non c’è soggetto che non sia determinato ad
essere dal significante, che pure crea. Infatti nessun significante è un significante se noi
prescindiamo dall’assunzione soggettiva del significante come significante. Un libro chiuso non
contiene significanti, contiene solo delle pagine macchiate d’inchiostro. Eppure quelle macchie
possono divenire dei significanti. Nessun significante preesiste come significante al soggetto che
vi si può situare, dandogli senso, o semplice significazione. Ma questo non significa, come tutta
la clinica dimostra, che bastino dei significanti per creare un soggetto. Il reale del soggetto non è
il significante, e tanto meno quell’insignificabile che viene a numerarsi come un «io» – e quindi
come un buco – nella catena dei significanti, perché nessun soggetto è questo buco, dal momento
che invece ogni soggetto è l’ipostasi di quanto, in questo buco ch’è la sua forma vuota di
soggetto, concretamente passa in ogni azione che sia determinata soggettivamente. Il soggetto,
insomma, nella continuità del suo darsi – grazie alla quale io oggi sono «lo stesso» ch’ero ieri o
trent’anni fa, anche se il mio io d’oggi assomiglia ben poco al mio io d’allora –, è la forma di
tempo permanente, e quindi in ultima istanza atemporale, delle azioni che vengono compiute «da
lui». Non stiamo dando però una definizione ricorsiva del soggetto. In realtà sarebbe molto più
esatto dire che le azioni d’un soggetto vengono compiute da quel qualcosa che gli consente di
continuarsi a pensare come «sé», nonostante le mille differenze del suo io, cioè da quel qualcosa
che noi dobbiamo pensare come l’unico vero reale di questo ente discontinuo e sfuggente che noi
chiamiamo soggetto.

319. Ritorniamo ora al concetto lacaniano di «scienza congetturale», e chiediamoci che


relazione può esserci fra essa e quella che noi abbiamo chiamato scienza nuova. Certamente non
si tratta della stessa cosa. Se possiamo dirlo con un po’ d’umorismo, le ambizioni di Lacan sono
molto più modeste delle nostre. La scienza congetturale di Lacan si limita a «dire il vero»: non
solo a descriverlo, ma ad articolarlo nella sua struttura. Tuttavia, il punto di vista strutturale è
limitato – strutturalmente, per l’appunto – ad una sola dimensione del reale: quella sincronica. È
del tutto evidente d’altra parte che nessuna teoria psicanalitica può essere solo sincronica, dal
momento che niente è più strutturalmente temporale dell’esperienza analitica, cioè
dell’esperienza soggettiva (e tutte le esperienze sono soggettive). Ma che significa
«strutturalmente temporale»? Una struttura è fatta per durare nel tempo contro il tempo. La
parola «struttura» proviene, naturalmente, dall’architettura: la struttura è ciò che la fa durare
come se il tempo non passasse. Certo, esistono anche strutture temporali – per esempio quelle
verbali o musicali – che noi siamo abituati a pensare in praesentia, come se occupassero uno
spazio, in quanto siamo abituati a pensare il tempo sul modello spaziale. In realtà, il tempo non è
affatto una struttura, perché esso è strutturante. Noi possiamo pensare la struttura d’una frase o
d’un pezzo musicale come se fosse un’architettura, ma solo perché una struttura temporale è la
traduzione grammaticale o sintattica d’un’idea di fondo che non è temporale. Una struttura
temporale è invece il configurarsi – il prender forma – d’un movimento originario che, certo, può
farsi anche attraverso dei significanti – cioè attraverso dei pezzi d’un sistema sincronico –, ma
solo se questi tratti spazializzabili non sono niente più che lo strumento dell’azione. L’azione
stessa, invece, non è spaziale, anche quando prende forma spazialmente. Un esercizio ginnico, ad
esempio, è strutturato temporalmente, anche se in relazione ad uno spazio. La sua forma è
dunque spaziale o temporale? Noi siamo abituati ad intendere la forma come quanto rimane
fermo d’un movimento anche al di là del suo divenire temporale. Ciò dipende certamente anche
dalla parola latina che adoperiamo per indicare la forma. Il termine greco eídos invece è riferito
direttamente al prender-forma immediato nella nostra visione della permanenza. La forma –
l’eídos – ci si fa innanzi avvolgendoci, in quanto esprime un che d’assoluto. Ma questo assoluto
è spaziale? Diciamo invece ch’esso è atemporale. L’eídos è il manifestarsi spazio-temporale
d’un assoluto atemporale ed aspaziale. Le «idee» abitano in un mondo ch’è «al di là del cielo»:
quindi al di là del tempo e dello spazio. Le idee, che esprimono le essenze, «in sé», abitano nel
luogo ch’è al di là dell’essenza, non nel luogo essenziale, perché l’essenza del luogo deve
anch’essa «abitare» in un luogo. Certo, né il tempo né lo spazio sono concetti. Ma anche se
prescindiamo dal fatto che solo Kant lo ha dimostrato, resta che spazio e tempo sono forme della
nostra intuizione, e che quindi «in sé» non possono essere pensati né spazialmente né
temporalmente. «In sé», kantianamente, infatti, lo spazio e il tempo non possono essere pensati
(essi sono impensabili, come ogni Cosa in sé). Ma l’impensabile stesso non è forse una
determinazione apofatica del sovraessenziale?

320. Ora, come intende Lacan la funzione del tempo nella struttura? È importante chiedercelo,
perché egli ha sempre insistito sulla sua funzione. L’articolo sul Tempo logico è l’esempio più
evidente di questo. Tuttavia non è un caso che, nella prima edizione d’un volume che si chiama
Il tempo etico, noi non avessimo fatto il minimo accenno a questo testo di Lacan, che dopo tutto
è il suo contributo essenziale sulla funzione del tempo in psicanalisi. Come si spiega questo? Si
spiega molto semplicemente attraverso il fatto che il tempo del quale parla Lacan, quando espone
il valore di verità della funzione temporale nell’esempio guida del suo articolo, in realtà non ha
niente a che fare con il tempo (almeno con il tempo come noi lo intendiamo). Può sembrare
paradossale affermarlo, ma non lo è affatto: la dimostrazione del valore strutturante della
temporalità procede infatti in quel testo attraverso la messa in funzione d’un artificio logico la
cui concreta inattuabilità è indizio di quanto dicevamo, cioè del fatto che, in questo scritto, non si
parla affatto del tempo. In realtà, nessun direttore d’un carcere può liberare uno dei suoi
prigionieri, se non è costretto a liberarlo per una decisione dell’autorità giudiziaria, e, se volesse
assurdamente farlo, non si servirebbe certo d’un gioco sadico-enigmistico come quello che ci
espone Lacan, per di più considerando – ed anche questo ci pare molto indicativo – i tre soggetti
in questione come delle mere «macchine per pensare», cioè senza tenere in nessun conto la loro
angoscia, che certo non favorirebbe minimamente le loro capacità di deduzione logica, le quali
invece dipendono tutte, nell’apologo, dalla totale assenza d’angoscia in ciascuno dei tre. E
prescindiamo pure dal fatto che, nell’esempio di Lacan, c’è una sola soluzione possibile: nessuno
dei tre verrà liberato, perché essi non potranno che giungere contemporaneamente alla stessa
conclusione.
Che cosa possiamo dedurre allora da tutto questo? Semplicemente che il tempo logico, vale a
dire il tempo come fattore logico, non è affatto il tempo nella sua realtà soggettiva, ma è solo un
tratto di significazione, cioè un dato che non ha, essenzialmente, un valore temporale, come la
precedenza d’alcune parole su altre in una frase non ha un valore propriamente temporale, ma un
valore grammaticale o sintattico, e quindi solo di significazione. Certo, nel Tempo logico Lacan
ci espone quella che in altri secoli si sarebbe chiamata un’allegoria. Ma questo non elimina il
problema. Quel ch’è certo è che Lacan sa fin troppo bene che, con la sola struttura, non si spiega
niente che sia veramente soggettivo, e questo ci fa capire perché il suo insegnamento abbia via
via sempre più sottolineato la funzione di ciò che non è significante. Lacan ha quindi messo in
gioco una sorta di margine o di limite della struttura, al di là del quale far intervenire il non
significante, vale a dire il reale. Naturalmente ogni struttura, per essere tale, deve avere un limite.
Ma proprio questo è il problema. Che una struttura non possa che essere limitata è indizio del
fatto che essa si sostiene non su se stessa, ma su qualcosa che la produce. Credere, come ha fatto
lo strutturalismo (ed ora non parliamo di Lacan), che la struttura sia un primum movens,
significa, filosoficamente, rifiutarsi di porre il problema della fondazione della conoscenza, e
questo può avere come effetto solo l’elaborazione d’una scienza limitata proprio perché
strutturalmente impostata. Questa scienza, proprio perché limitata da una decisione radicale (da
un rifiuto radicale), che sta alla base della sua impostazione e della sua formulazione, non potrà
che lasciar «tornare» quell’indeterminato che fuorclude con il proprio rifiuto d’una fondazione. Il
ritorno di quanto viene fuorcluso è sempre un delirio. La scienza strutturale, nonostante
l’importanza di molti effetti che ha prodotto, resta una pseudo-scienza, anzi un delirio
scientifico, perché è inevitabilmente una scienza che non è in grado di formulare nulla di preciso
sui propri limiti. In questo modo, per esempio, abbiamo visto nei decenni passati che il metodo
strutturale della linguistica veniva esportato tranquillamente in altri campi, consentendo di
costruire delle sedicenti semiologie di qualsiasi cosa, le quali meritano molto bene il titolo di
deliri scientifici. Naturalmente, dicevamo, non è questo il caso di Lacan, che non fa dipendere le
strutture delle quali parla da altro che da un reale insensato e infigurabile, il quale è la radice
oscura delle cose, il vero hypokeímenon, cioè il vero subiectum della struttura stessa. Ma questo
subiectum, abbiamo visto, in ultima istanza non è altro che la morte. Lacan, certo, non fu mai un
ideologo – anche se per molti egli è ancora oggi proprio questo –, ma non lo fu solo perché ebbe
il coraggio di pensare sino in fondo la contraddizione che il suo pensiero continuamente
smentiva, ma solo per riformularla ad un altro livello di consapevolezza. Il soggetto concreto, per
Lacan, non è altro che un buco nella struttura muta e cieca del linguaggio, sostenuto
nell’illusione del suo essere solo da un reticolo d’elementi non meno illusori della sua certezza
d’essere un soggetto.
A dire il vero lo strutturalismo, in generale, non è che una versione ridotta del neoplatonismo.
Esso suppone infatti, come il neoplatonismo (ma bisognerebbe fare delle eccezioni, per esempio
Damascio), l’esistenza d’una materia bruta originaria, che in realtà non è altro che l’originario
non essere – la morte o l’insensatezza originaria –, senza però che nessuna emanazione venga a
rischiararla. Esistono solo delle strutture, che però non sono frutto di nessun intervento divino od
ideale, ma sono mere concrezioni casuali, le quali consentirebbero soltanto d’illudersi che, sulla
materia cieca del non essere, abbia influito una formalizzazione. Se guardiamo in fondo allo
strutturalismo, e soprattutto alle sue forme più nobili, non possiamo non vedere che ci troviamo
di fronte ad una concezione realmente apocalittica, che ha però la caratteristica di porre
l’apocalissi come preliminare alla struttura, e la creazione come una conseguenza solo illusoria
di questa distruzione originaria. L’apocalissi strutturale è un’apocalissi senz’apocalissi, vale a
dire una distruzione senza rivelazione. Che si sia potuto pensare in questi termini, per di più
quasi sempre senz’accorgersene (e certamente non è questo il caso di Lacan, che invece ha
teorizzato quest’apocalissi), dà molto da pensare. Quale distruzione originaria sta realmente alla
base della modernità? Che abisso minacciava e minaccia la nostra civiltà, perché si sia potuti
giungere a falsificare così radicalmente la realtà delle cose e di noi stessi? Non diciamo tutto
questo in difesa dei buoni sentimenti, tanto più che questa distruzione «originaria» è forse
proprio il frutto dei buoni sentimenti. In realtà, nessuna distruzione è originaria. D’originario,
nella distruzione, non c’è che la colpa. Credere dunque che la distruzione sia all’origine di tutto
significa scontare la pena d’un delitto che non si riconosce d’aver commesso. Dev’esserci
dunque un delitto, del quale la cultura moderna sta scontando la pena.
Ma torniamo a Lacan. La sua concezione, dicevamo, non è affatto assimilabile a
quest’apocalittica meschina e capovolta. La grandezza di Lacan – la sua grandezza umana, se
vogliamo – è anzi del tutto evidente. Ci vuole infatti una grandezza veramente eroica per riuscire
a pensare, come Lacan ha fatto, il nucleo di reale della soggettività utilizzando, per farlo, solo
delle parole che avevano già perso tutto il peso dell’esperienza soggettiva che le aveva fondate e
alimentate. Ma questa è una grandezza che non si trasmette. Quando si trasmettono, le teorie di
Lacan diventano mere parole vuote, pezzi d’un puzzle che, messi insieme con maggiore o minore
inventiva, non disegnano altro che la figura d’un’illusione di verità ch’è già franata
nell’insensatezza prima ancora di venire formulata. C’è qualcosa di veramente tragico in questo:
non nell’etica della psicanalisi, come credeva Lacan, con uno di quegli slanci d’imperdonabile
ottimismo che sono uno dei tratti più straordinari della sua grandezza, ma nel fatto che tutti i
nostri pensieri – ed ora non ci riferiamo soltanto a Lacan ed alla sua scuola, ma a noi che
tentiamo ancora, nonostante tutto, di continuare a pensare – siano sospesi su un abisso che non è
affatto il loro reale luogo originario (perché nessun pensiero emergerà mai dall’abisso, se
l’abisso non sarà stato pensato), ma è il nostro, vale a dire quello della nostra cecità.
Senza dubbio, queste considerazioni non avrebbero alcuna funzione in questo libro se lo
stesso Lacan non avesse pagato, come tutti noi senza dubbio facciamo di continuo, il prezzo
della cecità della quale viveva la sua stessa straordinaria veggenza, creando un movimento
d’analisti che si riferivano al suo insegnamento e dai quali tutto dimostra ch’egli non s’aspettava
niente più che la sopravvivenza insensata di qualche vuota forma del proprio insegnamento. Ma
questa trasmissione ha uno scopo solo se qualcuno può venire ad abitare queste forme. E tuttavia
abitare una forma già data significa tradurla e reinventarla. Ora, proprio questo noi dobbiamo
fare, se vogliamo raccogliere la sfida di Lacan e quella di Freud. Abitare queste forme è possibile
solo se in esse noi impariamo a vivere, cioè solo se riusciamo ad utilizzarle in un progetto che
non può avere più i limiti, e la forma, e la struttura, di quello di Freud e di quello di Lacan:
progetto del quale noi – noi che pensiamo e parliamo – dobbiamo assumerci per intero la
responsabilità, senza ricorrere al riparo d’una «causa» che può ripararci soltanto dal nostro
rischio e dalla nostra verità.
Certo, la scienza congetturale che secondo Lacan la psicanalisi dovrebbe essere può
trasmettere molto facilmente delle vuote forme. Ma questa trasmissione non garantisce niente
quanto alla sopravvivenza della psicanalisi: intendiamo dire della psicanalisi nella sua
prospettiva etica originaria, perché invece garantisce benissimo la trasmissione della psicanalisi
come sapere vuoto delle stampelle illusorie (come terapia). Ma questa scienza congetturale ha il
dovere – come tutte le altre scienze, congetturali o no – di tendere verso la propria fondazione,
vale a dire di fondarsi in quel pensiero che non a caso si chiama metafisico. Lacan, dicevamo,
non voleva essere un filosofo; del resto, negli anni del suo insegnamento, mettere la psicanalisi
all’ombra d’un progetto filosofico avrebbe significato squalificarla in partenza, o condannarla a
un’esistenza quasi catacombale. Lacan, invece, ha preferito il successo, e l’ha ottenuto. Ha scelto
bene? Crediamo di sé. Senza il suo successo, la psicanalisi sarebbe divenuta oggi, e forse
irrimediabilmente, un mero fregio della psichiatria. Senza la rilettura che Lacan ha fatto di Freud,
probabilmente, oggi nessuno sarebbe più in grado di leggere Freud, e soprattutto di pensare che
la soggettività è determinata prima di tutto eticamente. Sta qui, se non la chiave, certamente la
conseguenza della grandezza di Lacan: il quale non vuol essere un filosofo, ma conosce e
commenta i filosofi; è strutturalista, ma insiste nel dire che il tempo è essenziale nella
conduzione delle analisi; tende a fare dell’inconscio il reale della soggettività, invece che
un’ipotesi, ma dissolve questo reale nelle figure transitorie del linguaggio.
Lacan, per noi, è un enigma, e dire questo significa ammettere tutto il nostro amore: forse non
tanto per lui – perché a lui non dobbiamo che l’amore che dobbiamo a chiunque –, quanto per il
nostro destino. Lacan, quindi, che non voleva essere un filosofo, leggeva e rileggeva i filosofi,
anche se non li leggeva «filosoficamente». Noi, invece, vogliamo forse esserlo? Senza dubbio
no, se per filosofia s’intende quella che s’insegna nelle università, la quale pare aver perduto
ogni collegamento con il compito etico inaugurale del pensiero. Certo, noi vogliamo essere quel
che siamo stati destinati ad essere: degli psicanalisti. Ma che c’importerebbe d’essere degli
psicanalisti se il fatto d’esserlo non solo non ci consentisse, ma addirittura c’impedisse di far
fronte al nostro compito, ch’è quello di risolvere, come sappiamo e possiamo, l’equazione della
quale prima di tutto noi siamo l’incognita?
II. Dal cogito alla prova ontologica

321. Ci siamo soffermati su quanto afferma Lacan attorno al cogito soprattutto perché
richiamarci al significato che l’atto cartesiano di fondazione della certezza del sapere ha assunto
in psicanalisi era essenziale, per noi, al fine di chiarire, meglio di quanto non abbiamo fatto in
precedenza, anche quale significato noi diamo all’aggettivo «trascendentale». Si tratta in altri
termini di considerare più dettagliatamente che rapporto possiamo stabilire fra l’impostazione
filosofica ed epistemologica trascendentale e la scienza nuova, la quale dovrebbe rispondere, dal
punto di vista epistemologico, dei metodi delle singole scienze in relazione ai loro oggetti, ma
soprattutto, dal punto di vista metafisico, del compito etico di queste singole scienze, vale a dire
del rapporto che in esse s’instaura fra i contenuti di sapere e la soggettività. La scienza nuova
non dovrebbe essere affatto una scienza delle scienze, ma un modo di far scienza in una
prospettiva etica. Solo per questo essa dovrebbe lasciar essere al proprio interno le singole
scienze ed i singoli campi del sapere, dando ad essi un’unica, benché aperta, impostazione
epistemologica, la quale dipenderebbe immediatamente da un’unica interrogazione soggettiva
(metafisica) sul senso del far scienza. Certo, un progetto molto simile è stato tentato a suo tempo
da Husserl, ma noi abbiamo già accennato di tanto in tanto al fatto che, se l’operazione
husserliana di fondazione trascendentale delle scienze formali ci pare d’importanza
imprescindibile, ciò non significa che noi accettiamo totalmente le premesse e le conseguenze
della fenomenologia trascendentale. In particolare, ciò che distingue dalla fenomenologia la
nostra impostazione, come s’è venuta delineando finora, è il principio della prevalenza della
problematica etica su quella gnoseologica. Non che nella fenomenologia manchi
un’impostazione etica del problema gnoseologico e di quello epistemologico; ma questa
impostazione vi è presente solo in modo implicito, perché Husserl non mette mai in discussione
la tradizionale prevalenza filosofica della gnoseologia sull’etica. Il fatto d’aver pensato ad una
scienza nuova a partire dall’esperienza analitica invece che a partire dalla filosofia o dalle
scienze matematiche ha indotto invece noi a rovesciare i termini di questa prevalenza, ed è
proprio per questo che la nostra impostazione si distingue non solo da quella husserliana, ma
anche da quella cartesiana e da quella kantiana.
Tuttavia che cosa significa, che cosa comporta e in che modo è sostenibile questo primato
dell’etica sulla gnoseologia? A dedurlo come necessario, nella Prima parte di questo volume,
siamo giunti, per così dire, solo in negativo: partendo dai dati della teoria analitica classica, ci
siamo man mano esposti, volendola fondare secondo i principi di ragione (cartesiani e kantiani)
impliciti nelle sue formulazioni originarie, ad osservare com’essa fosse fin dal primo momento
parzialmente in contrasto con quegli stessi principi che pure la guidavano, almeno se questi
principi vengono assunti radicalmente, vale a dire come veri principi gnoseologici, e non come
accomodamenti metodologici parziali d’un’esperienza che sarebbe aperta in una presunta
immediatezza alla verità di cui si occupa. Nessuna esperienza è aperta «ingenuamente» a
nessuna verità: è quanto abbiamo cercato di mostrare a proposito dei presupposti kantiani della
teoria di Freud, presupposti che sono al tempo stesso la condizione e il limite della teoria
freudiana, e di conseguenza anche della psicanalisi in generale. È tempo di dirlo apertamente: ciò
ha comportato una modificazione del nostro assunto di partenza, il quale in un primo momento
poteva sembrare solo psicanalitico, mentre a questo punto ci si dimostra come essenzialmente
metafisico; non perché sia diventato metafisico dopo essere stato psicanalitico, ma perché ogni
impostazione metodologica scientifica è sempre – anche quella freudiana – metafisica. Il
problema del metodo non è un problema scientifico, ma è un problema metafisico, perché
dipende dal problema metafisico della fondazione delle scienze. Il nostro compito, nella prima
parte di questo volume, è stato di mostrare quale fosse la proficua contraddizione dell’implicita
metafisica freudiana (cioè dell’impensato della teoria freudiana). In questa seconda parte noi
dovremmo invece «risolvere» questa contraddizione, e farlo nell’unico modo possibile, ch’è
quello d’interrogarci sui presupposti metafisici del problema del metodo: non solo della
psicanalisi, ma delle scienze in generale. La psicanalisi, da questo punto di vista, ha avuto solo il
privilegio scomodo d’indurci a mettere in evidenza la problematica etica come problematica
fondamentale in ogni scienza e in ogni campo del sapere, e fondamentale non semplicemente
perché, come recita un vuoto umanesimo, in ogni scienza e in ogni campo del sapere sarebbe in
gioco – lo diciamo con la dovuta ironia – il destino dell’uomo (impostare il problema in questi
termini significherebbe infatti lasciare del tutto inalterato il rapporto filosofico fra gnoseologia
ed etica), ma perché un’etica è in realtà già implicita anche nella definizione filosofica d’una
ragione «pura» come ragione della conoscenza. La metafisica kantiana stessa, in altri termini,
avrebbe «dimenticato» d’essere fondata eticamente, e questa dimenticanza «ritornerebbe», come
si dice in psicanalisi, nell’impossibilità, per Kant, di formulare il passaggio dalla ragione «pura»
alla ragione «pratica» altrimenti che come una dipendenza non articolabile della seconda dalla
prima. Ora, questa «dimenticanza» non è affatto propria solo di Kant (o di Cartesio, o di Freud),
ma è quella dimenticanza «originaria» che, secondo Nietzsche, ripreso in questo da Heidegger,
ha determinato l’intera storia della metafisica. Ciò che ci proponiamo di fare in questa seconda
parte del Tempo etico quindi non è tanto di smentire la realtà di questa «dimenticanza», ch’è
senza dubbio effettiva, quanto di mostrare che cosa, nonostante essa, rimane ancora vivo, anche
nella metafisica, dell’impostazione etica originaria del problema della conoscenza (per esempio
in Platone, ma anche in molti altri autori). Che infatti questa dimenticanza non sia stata assoluta
viene dimostrato dal «ritorno», nella metafisica, come problemi irrisolti e ogni volta rinviati, di
ciò che «allora» fu dimenticato, e che in realtà continua ad essere dimenticato ogni volta di
nuovo per il fatto che il pensiero, per una decisione che ha definito ciò che noi chiamiamo la
tradizione occidentale, è stato supposto essere totalmente incluso nelle significazioni che lo
espongono, nonostante il fatto che la filosofia ha spesso insistito sull’ineffabilità del più
essenziale, perché essa non ha quasi mai distinto chiaramente il senso dalla significazione.
Compiere tale distinzione comporta allora anche aprire la possibilità di considerare la stessa
storia della metafisica come una storia non della dimenticanza, ma della memoria di quella
problematica etica originaria; ed anche qui la psicanalisi ha il privilegio scomodo di dimostrare
questa memoria: di dimostrarla proprio perché essa è sorta – come pratica, e per niente come
astratta teoria filosofica – proprio sul terreno di quella dimenticanza, che del resto ha finora
condiviso, tanto che il nostro stesso tentativo di restaurare questa memoria in una scienza nuova
– ch’è in realtà una scienza antichissima, anzi la più antica delle scienze – s’è formulato in un
primo momento (nella prima edizione di questo volume) ancora nei termini di quella
dimenticanza. È vero tuttavia che la problematica etica, attraverso la riformulazione del concetto
di senso, è emersa in primo piano nella Formazione e nel Mito di Crono, ed è altrettanto vero che
proprio questa sua evidenza ci costringe ora, nel preparare una seconda edizione del Tempo
etico, ad aggiungere agli argomenti che avevamo già svolto in un primo momento (i quali
corrispondono grosso modo alle tematiche dell’Analitica trascendentale kantiana) anche degli
argomenti differenti, dei quali, nella prima stesura, non avevamo affatto creduto di doverci
occupare, e che corrispondono invece alle tematiche della Dialettica trascendentale. Ma anche da
questo punto di vista noi dobbiamo procedere in modo inverso a quello seguito da Kant nella sua
Critica. Se in questa, infatti, la Dialettica trascendentale si fondava sui risultati dell’Analitica, per
noi è vero invece il contrario: i risultati della prima parte del nostro lavoro attendono d’essere
fondati dialetticamente sui loro presupposti metafisici (infatti in un primo momento li avevamo
fondati solo retoricamente, cioè limitandoci ad indicare l’esigenza della formulazione di tali
presupposti, formulazione che tuttavia, allora, non avevamo né voluto né potuto effettuare).

322. Fra questi presupposti, abbiamo detto, il cogito cartesiano ha una funzione essenziale, dal
momento che esso sta alla base d’ogni riflessione trascendentale. Il valore trascendentale del
cogito sta nel fatto che esso per la prima volta dimostra, nel pensiero, che il pensiero può essere
fondato indiscutibilmente, al di là d’ogni facile scetticismo, in una certezza. Che questa
dimostrazione sia evidente, tuttavia, non significa che nei testi di Cartesio da essa vengano
dedotte anche tutte le conseguenze, con assoluta chiarezza e senz’ambiguità. Potremmo anzi dire
che è quasi una legge del pensiero che esso proceda dapprima in una quasi totale oscurità dei
principi che lo guidano, oscurità che si viene via via chiarendo solo nelle sue successive
articolazioni. Il detto d’Anassimandro, per esempio, non contiene meno verità dei dialoghi di
Platone o della Fenomenologia dello spirito di Hegel, dal momento che in definitiva tutti i veri
pensatori hanno pensato sempre e soltanto lo stesso pensiero, per quanto in modi ogni volta
diversi e diversamente articolati (se così non fosse, infatti, non ci sarebbe nessuna storia del
pensiero). Ciò non toglie tuttavia che nei dialoghi di Platone o nella Fenomenologia dello spirito
si trovano mille nozioni, o mille verità, che non si trovano affatto nel detto d’Anassimandro. La
storia del pensiero è un percorso lunghissimo e infinitamente complesso, ma è un percorso ch’è
definito sempre dallo stesso tentativo, dichiarato da Kant all’inizio della prima Critica, di
pensare l’impensabile. In realtà, che cos’altro distingue il vero pensiero dal semplice pensare a
qualcosa, se non proprio questo confronto diretto con l’impossibile a pensare, vale a dire con il
limite costitutivo del pensiero? È questo il terreno arduo, e smisuratamente ambizioso, che noi ci
troviamo di fronte (tutt’altro, quindi, che un semplice problema «regionale», che potrebbe
tranquillamente rimanere irrisolto, come quello del fondamento teorico della teoria
psicanalitica). Lo dichiariamo subito, perché è necessario ammettere che, a questo punto,
l’orizzonte della nostra impresa – orizzonte, ripetiamo, smisuratamente ambizioso, forse
addirittura colpevolmente ambizioso – è molto più vasto di quello della psicanalisi: molto più
vasto, certo, com’era sempre stato anche prima che lo dichiarassimo (e com’è sempre stato anche
per coloro che, come Freud e Lacan, non hanno mai voluto dichiararlo). Chi pensa, infatti, pensa
sempre e solo in quest’orizzonte smisurato, indipendentemente dal fatto di riferirsi a questo o a
quel contenuto di pensiero. Così il pensiero della teologia medioevale resta filosofico e
metafisico, anche se ai Padri o ai Dottori della chiesa importava ben poco della filosofia nella
significazione che si dà oggi a questa parola, dal momento che pensavano invece solo in una
prospettiva pratica ed etica (o addirittura liturgica), imposta loro dalla propria religione e dal
proprio posto nella Chiesa. Allo stesso modo anche il pensiero d’un Galilei o d’un Newton ha un
risvolto metafisico, nella misura in cui né il primo né il secondo s’è mai limitato ad esplorare
questo o quel problema fisico, ma ha anche tentato di comprendere quali fossero i principi di
conoscenza che gli consentivano d’occuparsene. Perché, allora, per la psicanalisi non dovrebbe
valere lo stesso principio?

323. Ma, per tornare a Cartesio, è del tutto evidente che anche nei suoi scritti, come in tutti gli
scritti dei veri pensatori, sono rintracciabili orientamenti di discorso che talvolta sono
reciprocamente discordanti, anche se tutti assieme, con le loro necessarie implicazioni, e con i
loro eventuali contrasti, formano quell’insieme indiscutibilmente unitario e ben riconoscibile che
noi chiamiamo la sua filosofia. Se tuttavia continuiamo a leggere i testi di Cartesio è perché, al
loro interno, troviamo ancora qualcosa d’impensato – d’impensato, certo, non solo per noi, ma
per lo stesso Cartesio –, che possiamo tentare di pensare. Se quindi ora parliamo di Cartesio, non
lo facciamo nei termini della storia della filosofia. La filosofia non ha storia, o per lo meno ne ha
una soltanto come campo di sapere, del resto definito in modi spesso molto diversi, nelle diverse
epoche, a seconda di ciò che s’intende per «storia» e per «filosofia». La filosofia, se l’assumiamo
radicalmente, cioè come pensiero del limite del pensiero, cioè dell’impensabile, non ha storia,
perché la sua storia è sempre attuale: noi possiamo servirci di testi filosofici scritti in qualunque
tempo, se questo ci è utile a comprendere i nostri problemi attuali. Del resto, nonostante la storia
e la filologia, non abbiamo nessuno strumento che ci consenta di dimostrare quali erano
realmente le intenzioni di coloro che scrissero quei testi, e questo non solo perché né la storia né
la filologia sono scienze esatte, ma per l’ottimo motivo ch’esse non possono esserlo perché
neppure nessuno di noi, quando scrive, sa esattamente che cosa sta dicendo, anche se può sapere
– o credere di sapere – quali sono le sue intenzioni nel farlo. Chi può dire, per esempio, oggi, di
comprendere davvero che cosa Platone ed Aristotele «intendessero dire» nelle loro opere,
quando sappiamo bene ch’esse erano determinate anche stilisticamente dal pubblico al quale si
rivolgevano: per Platone prima di tutto coloro che rimanevano estranei al suo insegnamento, per
Aristotele, invece, coloro che vi partecipavano? Questo non significa che sia inutile occuparsi
storicamente della filosofia, perché la storia, come «scienza congetturale», è sempre in grado di
far progredire la nostra conoscenza. Ma essa non fa progredire tanto o soprattutto la nostra
conoscenza del passato, quanto quella del presente, dal momento che il passato, in quanto è
passato, è per noi del tutto inaccessibile. Se noi ce ne occupiamo, è perché quel passato ci
costituisce, e quindi non è nulla di trascorso, ma è una retroazione del presente, in relazione ad
un futuro.

324. Nel testo delle Meditazioni si possono individuare almeno due linee di pensiero che
certamente a Cartesio non apparivano inconciliabili come appaiono a noi. Secondo la prima, il
valore del cogito non dipende affatto dal contenuto del pensiero: «Io sono una cosa che pensa,
cioè che dubita, che afferma, che nega, che conosce poche cose, che ne ignora molte, che ama,
che odia, che vuole, che immagina, anche, e che sente. Poiché [...], sebbene le cose che sento ed
immagino non siano forse nulla fuori di me e in se stesse, io sono tuttavia sicuro che quelle
maniere di pensare, che chiamo sensazioni ed immaginazioni, per il solo fatto che sono modi di
pensare, risiedono e si trovano certamente in me». Ciò significa che lo statuto di certezza del
cogitare non dipende affatto dalla sua modalità, e tanto meno dalla sua verità assunta come
preliminare ed assoluta. Tuttavia proprio l’indiscutibile verità della coincidenza del pensare e
dell’essere – essere che certamente non è tutto incluso nel pensare, ma che, quando v’è incluso,
coincide col pensare (mentre non coincide affatto col dire di pensare) – orienta Cartesio a dare
valore di verità al pensare chiaramente (ed è questa la seconda linea di pensiero che si manifesta
nel suo testo). «In questa prima conoscenza non si trova nient’altro che una chiara e distinta
percezione del fatto che io conosco; percezione la quale, a dire il vero, non sarebbe sufficiente
per assicurarmi che essa è vera se potesse mai accadere che si trovasse esser falsa una cosa che
io concepissi così chiaramente e distintamente. E pertanto mi sembra già che io possa stabilire
come regola generale che tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto
distintamente sono vere». Chiunque, oggi, può ammettere facilmente che quest’ultima deduzione
non è affatto scontata, dal momento che la chiarezza e l’evidenza del fatto di pensare, le quali
fondano la verità di questo fatto, non possono comportare immediatamente anche la verità del
contrario, cioè che tutte le rappresentazioni e tutte le concezioni chiare e distinte siano vere (è
ben noto del resto come proprio a partire da questa posizione cartesiana s’apra per la prima volta,
nella storia del pensiero, lo spazio della follia intesa come difetto del pensiero, il che significa
che il pensiero ch’è incluso nella follia viene fuorcluso dal pensiero ch’è incluso nel cogitare, al
fine di garantire l’identità fra la verità da una parte e la chiarezza delle distinzioni di pensiero
dall’altra).
Ora, Cartesio come può non essersi accorto di questa duplicità? Essa infatti attraversa tutta la
sua riflessione, impostata per un verso come una vera e propria ascesi soggettiva (dalla quale
dipende il fatto ch’egli compie un vero e proprio atto di fondazione del metodo scientifico),
dall’altra come una vera e propria negazione sistematica del valore di quest’atto (dalla quale
negazione deriva invece quel trionfo «cartesiano» della ragione classica che a noi appare tanto
illusorio). Questa contraddizione, dunque, dev’essere risolta, se noi vogliamo pensare anche
storicamente l’importanza e la funzione dell’opera di Cartesio; ma questo significa che
dev’essere risolta in noi e da noi, perché non possiamo farci della storia uno scudo che ci tenga
al riparo dal rischio di pensare, sia pure sulla scorta del testo di Cartesio.

325. Ora, non è un caso che i due brani che abbiamo citato facciano parte della Terza
meditazione, quella in cui Cartesio si pone il problema trascendentale – potremmo dire noi –
dell’esistenza di Dio. Certo, tutti i nostri pensieri, egli ipotizza, potrebbero essere falsi, perché
prodotti in noi da un Dio ingannatore. Ma per quanto illusoria possa essere la nostra conoscenza,
una cosa è sicura e certamente non illusoria: il fatto che pensiamo. Possiamo allora dedurre da
questa prima certezza anche la certezza che Dio non può ingannarci? Tutte le nostre idee, dice
Cartesio, possono essere prodotte dalla nostra illusione (eccetto una: l’idea di pensare). Ve n’è
però anche un’altra che, nella nostra incertezza abituale, non può essere prodotta da noi e dalla
nostra illusione: quella di Dio. Infatti le prerogative che noi gli attribuiamo sono «così grandi e
così eminenti, che quanto più attentamente le considero, meno mi persuado che l’idea che ne ho
possa trarre la sua origine da me solo. E di conseguenza, da tutto ciò che ho detto in precedenza,
bisogna necessariamente concludere che Dio esiste». Altra deduzione affrettata, si dirà; e, per
confermarlo, si ricorrerà a Kant, che ha dimostrato una volta per tutte, nella Critica della ragione
pura, che l’esistenza di Dio non è dimostrabile.
Apriamo nuovamente il grande libro di Kant, nel passo in cui egli parla dell’impossibilità di
dimostrare ontologicamente l’esistenza di Dio, come Cartesio prova a fare nelle Meditazioni. La
proposizione: «Questa cosa esiste», dice Kant, o è analitica o è sintetica. Nel secondo caso, in cui
rientra sicuramente la proposizione in questione, ch’è esistenziale, si può negare senza
contraddizione la verità della proposizione stessa, dal momento che solo delle proposizioni
analitiche si può dire che possono non essere negate senza entrare con questo in contraddizione
con il fatto stesso di negarle. Se questo è vero, non si può dedurre l’essere di qualcosa dal solo
fatto d’affermare questo qualcosa, perché l’essere di qualcosa è al di fuori del concetto, e perciò
«cento talleri reali non contengono nulla più di cento talleri possibili», mentre «rispetto allo stato
del mio patrimonio [...] in cento talleri reali c’è qualcosa di più che nel loro semplice concetto».
Kant, qui, non fa della psicologia, ma della logica. Dal punto di vista psicologico, invece, tutti
sappiamo benissimo che cento talleri possibili contengono una loro realtà, la quale non è affatto
contenuta nella negazione della possibilità dei cento talleri, tanto che la loro mera possibilità può
avere un effetto non solo psicologico, ma anche concretamente economico (per esempio può
consentirci d’avere in prestito cento talleri che non abbiamo, se ci servono con urgenza). Ma
questo, si dirà, in che relazione sta con l’esistenza di Dio? Certamente in nessuna, se non dal
punto di vista psicologico, ch’è precisamente quello in cui non dobbiamo situarci perché, se lo
facessimo, sottoscriveremmo la stessa vuota articolazione retorica dell’ateismo religioso,
secondo la quale l’opinione indiscussa dell’esistenza d’un Dio, e quindi d’un Dio possibile solo
psicologicamente, equivarrebbe alla certezza soggettiva dell’esistenza di Dio, vale a dire alla
fede: ma appunto, questa posizione, rispetto al fatto religioso, è assolutamente irreligiosa, anche
se non è priva di sostegni teologici, perché fa equivalere la fede a un’opinione.
Poniamo invece che l’espressione di partenza sia analitica. Se è così, allora, con l’esistenza
della cosa, non si aggiunge nulla al pensiero della cosa, dice Kant. «In tal caso, peraltro, o il
pensiero che è in voi dovrebbe essere la cosa stessa [das Ding selber sein], oppure voi avete
presupposto un’esistenza come appartenente alla possibilità, ed avete poi preteso di dedurre
l’esistenza dalla possibilità interna, il che non è altro se non una misera tautologia. La parola
esistenza, che nel concetto della cosa suona altrimenti che la parola esistenza nel concetto del
predicato, non risolve nulla. In effetti, se ogni porre voi lo chiamate realtà, in tal caso avete già
posto (e ammesso come reale) la cosa – con tutti i suoi predicati – nel concetto del soggetto, e
nel predicato non fate che ripeterla». Kant, qui, ha perfettamente ragione, mentre Cartesio ha
torto. Ma, prima di tornare alle Meditazioni, dobbiamo considerare meglio perché è così evidente
che la ha. Risaliamo quindi alle pagine immediatamente precedenti della Critica, nelle quali
Kant parla dell’ideale della ragione pura. Questo ideale della ragione, egli dice, è una «misura
delle nostre azioni», prodotta dal «comportamento di quest’uomo divino entro di noi [dieses
göttlichen Menschen in uns], rispetto a cui noi ci confrontiamo e ci giudichiamo, pur non
potendo mai uguagliarlo». Quest’«uomo divino», dunque, esiste realmente dentro di noi (perché
noi ci misuriamo su di esso) e fuori di noi (perché non possiamo raggiungerlo), ma è un ideale
della ragione, non un ente oggettivamente esistente. Ora, a causa della costituzione
trascendentale della nostra conoscenza, noi poniamo un «sostrato trascendentale» che «non è
altro se non l’idea di un totale della realtà [All der Realität] (omnitudo realitatis). Tutte le vere
negazioni non sono allora null’altro se non delle barriere: esse non potrebbero venir chiamate
così, se non vi fosse a fondamento [zum Grunde] l’illimitato, il tutto. Con questo possesso
completo della realtà, viene d’altronde rappresentato, come completamente determinato, il
concetto di una cosa in se stessa [eines Dinges an sich selbst]; e il concetto di un ens realissimum
è il concetto di un ente singolo, poiché nella sua determinazione si ritrova un predicato [...] che
appartiene assolutamente all’essere». La dimostrazione ontologica cartesiana dell’esistenza di
Dio proviene quindi dall’illusione della conoscenza, prodotta dal suo ideale, di poter porre come
realtà oggettiva esterna quella dell’ens realissimum ch’è il Dio dei filosofi: ens realissimum ch’è
necessario pensare, perché corrisponde ad una condizione trascendentale del pensiero, ma solo
come un suo ideale, proveniente dall’idea, concettualmente necessaria, d’una totalità del reale.
Quest’idea, beninteso, non può essere abbandonata, per il semplice motivo che, se lo fosse,
perderemmo ogni possibilità di stabilire delle relazioni fra i nostri concetti (che sono tali proprio
perché sono delle totalità) ed il reale, il quale risulterebbe impensabile se invece fosse
considerato privo di totalità (cioè risulterebbe uguale al nulla).

326. Come si vede, ci troviamo di fronte ad alcuni problemi fondamentali della filosofia, ma
anche della psicanalisi. Il concetto lacaniano del reale come impossibile non va forse nella stessa
direzione di quanto Kant suppone – perché è – impensabile, cioè del concetto d’una realtà
illimitata? Nella teoria di Lacan, a differenza di quanto accade nella metafisica, le negazioni non
sono affatto barriere, perché non esiste altra «totalità della realtà» che quella del linguaggio. Se
le cose stanno così, allora, perché noi «torniamo indietro» a Cartesio, a Kant ed alla metafisica?
Lo facciamo, evidentemente, per un solo motivo: senza la metafisica, non avremmo nessun
motivo per pensare neppure il linguaggio come una totalità, sebbene dai limiti indeterminati,
come dobbiamo fare anche solo per pensare in termini di struttura (non c’è struttura senza
totalità). Fingere che i problemi della metafisica siano «superati» significa solo dimenticare che
ci sono, e lasciare che si riproducano «selvaggiamente» nella nostra teoria, lasciando che questa
finisca col non essere più in grado di spiegare alcuni fatti essenziali della nostra esperienza.

327. All’ideale della ragione possiamo dare quindi lo statuto d’una regola. In Kant, a questo
proposito, ci troviamo di fronte ad un problema o, se vogliamo, ad un punto di non saturazione
della teoria. Infatti questa regola, se esiste, com’è vero che esiste, da dove viene? Kant non si
pone questa domanda perché, se lo facesse, dovrebbe venire meno ai propri criteri
d’impostazione del problema della conoscenza, nella misura in cui dovrebbe riconoscere che
l’ideale della ragione e la regola in cui esso consiste provengono da un’istanza esterna alla
ragione stessa. Ciò nonostante è del tutto manifesto che Kant, soggettivamente, ha una sua
risposta a questa domanda, anche se non la traduce in teoria filosofica; soggettivamente, Kant è
infatti senza dubbio «religioso», il che, dal nostro punto di vista attuale, significa semplicemente
questo: egli crede che l’ideale della ragione, «quest’uomo divino, entro di noi», esista realmente,
nella nostra ragione; non solo, ma egli crede anche che tutta la nostra conoscenza,
trascendentalmente dedotta da un punto d’evidenza prima ch’è il cogito stesso, è determinata
realmente proprio da quella divinità l’esistenza della quale egli giustamente dice che non può
dimostrarsi. Ma perché non la si può dimostrare? Molto semplicemente perché, se si potesse, il
cerchio si chiuderebbe, producendo la curiosa conseguenza di renderci identici a Dio. Infatti, se
noi potessimo dimostrare la sua esistenza, la nostra ragione sarebbe pure in grado di formulare
chiaramente ed esaustivamente, al termine del proprio percorso, qual è il proprio principio, e
dunque questo principio sarebbe non solo un principio, ma anche una realtà coincidente con noi
per tutto il tempo del suo manifestarsi. E qui si dimostra quanto prima accennavamo: che il
cogito non è un principio, ma solo un rinvio assolutamente evidente alla funzione del principio.
Credere, come Cartesio, di dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalla nostra ragione assunta
come principio (cioè come falso principio) non è affatto, come potrebbe sembrare, un atto di
pietas religiosa, ma è, dal punto di vista religioso, un atto colpevole, anzi il più colpevole, cioè
un atto basfemo, perché è pretendere d’essere uguali alla divinità (è questo, né più né meno, il
peccato «originale», dal quale, nel mito ebraico e cristiano, dipendono tutti gli altri). Voler
dimostrare l’esistenza di Dio come ens realissimum quindi è né più né meno che ateismo e
blasfemia. Ma questo non significa che il problema potrebbe non porsi, perché in definitiva la
religione cristiana promette proprio questo: la realizzazione del nostro divenire-Dio. Certamente,
però, questa promessa non è fatta, nel cristianesimo, dal punto di vista della ragione. In definitiva
fra la blasfemia e la redenzione c’è una sola differenza: la prima è voler avere la seconda a
prescindere da Dio, cioè senza lasciar operare quel principio che pure è il principio stesso che ci
porta a volerlo, ed è quindi volerlo, ma negando che non si può desiderare d’essere Dio senza,
con questo, riconoscere nella divinità un punto di reale esterno a noi.
Tuttavia, dicevamo, il fatto che Kant fosse soggettivamente religioso importa poco, perché
l’orientamento del suo pensiero non è affatto religioso, come dimostra il fatto ch’egli non è in
grado di fondare, sui presupposti trascendentali della ragione pura, altro che un’etica della
generalità, la quale, a ben vedere, è esattamente il contrario dell’etica cristiana, perché non pone
neppure un minimo intervallo fra l’enunciato della legge e la concreta azione soggettiva. L’etica
kantiana – come quasi tutta l’etica occidentale, d’altra parte – consiste in una negazione
dell’etica, perché consiste nella negazione del valore dell’azione come principio dell’eticità. Per
tutti questi motivi noi avevamo capovolto, nella nostra critica, i termini kantiani, ed eravamo
giunti a dire che, se vogliamo rendere coerenti la deduzione trascendentale della conoscenza e la
deduzione trascendentale dell’eticità, dobbiamo supporre che la conoscenza (e di conseguenza la
significazione) è un effetto, vale a dire una riduzione, dell’azione (e di conseguenza del senso).

328. Dopo questa parentesi kantiana, indispensabile per noi, in quanto ha ampliato le
coordinate di senso che pure erano implicite nelle Meditazioni, ritorniamo a Cartesio. Avevamo
detto che nei suoi testi sono individuabili due direzioni diverse di ricerca, due «tonalità»
differenti: una secondo la quale il cogito esprime in modo del tutto indeterminato il fatto stesso
di pensare, senza nessun privilegio del «pensare chiaramente»; ed una secondo la quale, invece,
viene privilegiato, su tutte le altre forme di pensiero, il pensiero chiaro e distinto, come pensiero
immediatamente ritenuto vero. Abbiamo visto inoltre che Cartesio motiva questa riduzione del
proprio concetto di pensiero facendo ricorso alla prova ontologica dell’esistenza d’un Dio che
non inganna, cioè impostando improvvisamente l’articolazione logica della propria riflessione,
ch’era iniziata in modo trascendentale, in modo trascendente. Come nel nostro pensare c’è solo
un pensiero necessariamente vero, così fra i nostri pensieri c’è solo un pensiero che certamente
non è un effetto della nostra illusione: l’idea di Dio. «Con il nome di Dio intendo una sostanza
infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso, e
tutte le altre cose che sono (se è vero che ve ne sono di esistenti), siamo stati creati e prodotti».
Nella Terza meditazione, quindi, ci troviamo esattamente dinanzi a quell’ideale della ragione del
quale parla Kant. Ma Cartesio, evidentemente, lo assume non come un ideale, ma proprio come
un ente, anzi come un ens realissimum, dal quale, posto che la certezza del cogito non dipende
dalla mediazione divina, perché è del tutto autoevidente, dipende invece tutto il resto della
deduzione. Certo, si potrebbe dire che poco importa questo resto, dal momento ch’esso è così
«cartesiano» che potremmo lasciarlo cadere, abbandonandolo all’interesse degli storici. C’è
tuttavia un problema che non possiamo trascurare. Abbiamo appena detto che la dimostrazione
derivante dal cogito è indipendente dalla prova ontologica dell’esistenza di Dio. Così, infatti, si è
costretti a dire, se s’interpreta il cogito in modo trascendentale. E tuttavia Cartesio è un filosofo
trascendentale solo malgré lui. Come potrebbe quindi intendere il cogito nei termini d’una
filosofia che non è sua? Se potesse farlo, quelle due tendenze contraddittorie – o che almeno a
noi paiono tali – che prima abbiamo isolato nelle Meditazioni, sarebbero davvero del tutto
indipendenti, ed il «sistema» cartesiano non sarebbe altro che un montaggio mal riuscito d’un
elemento di straordinaria novità (il cogito), e di mille altri elementi «di riuso», del tutto
indipendenti dalla mentalità scientifica del pensatore francese, e di derivazione medioevale e
scolastica.
Inoltre, dobbiamo tenere conto d’un altro fattore. È davvero sorprendente che il cogito sia, per
Cartesio, l’unico pensiero indubitabile, allo stesso modo in cui il pensiero di Dio è l’unico a non
poter essere prodotto dall’errore del pensiero. Siamo di fronte ad una semplice coincidenza? O
forse ad un semplice effetto retroattivo del pregiudizio religioso di Cartesio? Eppure egli non
aveva esitato a revocare in dubbio ogni certezza, oltre che quella proveniente dall’autoevidenza
del pensiero a se stesso. Oppure fra l’indiscutibile indubitabilità del cogito e quella che a
Cartesio appare come la realtà d’un ideale di ragione c’è un legame molto più profondo? Se
interroghiamo il testo delle Meditazioni vediamo che proprio quest’ultima è la soluzione che
meglio si adatta a chiarire tutti i problemi posti dal testo, quanto al problema che abbiamo
formulato poco fa. Infatti, subito dopo il brano che abbiamo appena citato, Cartesio, pur
considerando l’idea di Dio come una misura, e quindi come un ideale della ragione («come
potrei conoscere che dubito e che desidero, cioè che mi manca qualche cosa, e che non sono del
tutto perfetto, se non avessi in me nessuna idea d’un essere più perfetto del mio [...]?»), fa
un’affermazione curiosa, sulla quale vale la pena di soffermarsi un attimo: «Né debbo
presupporre di concepire l’infinito, non per mezzo d’una vera idea, ma solo per mezzo della
negazione di ciò che è finito [...]: poiché, al contrario, vedo manifestamente che si trova più
realtà nella sostanza infinita che nella sostanza finita, e quindi che ho, in certo modo, in me
prima la nozione dell’infinito che quella del finito, cioè prima la nozione di Dio che quella di me
stesso».
Se vogliamo prendere alla lettera queste parole di Cartesio, noi dobbiamo mettere
radicalmente in dubbio quanto fino a poco tempo fa ci pareva evidente: che il cogito esprima un
dato primo, un vero e proprio principio dimostrativo autoevidente della conoscenza, come del
resto la filosofia trascendentale ha sempre ritenuto che fosse; e dobbiamo invece pensarlo come
primo in modo trascendentale solo perché prodotto in modo trascendente dalla presenza, nel
soggetto pensante, d’una traccia, molto più autoevidente dello stesso cogito, dell’infinito e della
divinità: il che sicuramente apparirà ben poco trascendentale, sia in senso kantiano, sia in senso
husserliano. Infatti l’affermazione di Kant, quando scrive, controbattendo ai sostenitori della
prova ontologica, ed interpretando la proposizione «Dio esiste» come una proposizione analitica,
che «il pensiero che è in voi dovrebbe essere la cosa stessa», sembra adattarsi benissimo a
Cartesio, se noi prendiamo l’ultimo breve passo che abbiamo citato dalla Terza meditazione
come la formulazione d’un pensiero, e non solo come un espediente retorico. È curioso del resto
che Kant non risolva esplicitamente il problema, che pure pone, di sapere se la proposizione
«Dio esiste» è analitica o sintetica, dal momento che tutto lascia pensare ch’essa è sintetica (se
intendiamo Dio come un oggetto di sapere, quindi come ens realissimum). Perché allora egli non
scarta la seconda ipotesi, secondo la quale essa sarebbe analitica? Kant può non scartarla solo
perché Dio può non essere, per i sostenitori della prova ontologica, un oggetto di sapere, ma è
una presenza reale all’interno del soggetto, vale a dire quell’«uomo divino, entro di noi» ch’è
l’ideale della nostra ragione. Ma, se così stanno le cose, l’ideale della ragione non è solo una
traccia di significazione di Dio; essa è invece la sua presenza reale – come si dice dell’aucarestia
– entro il soggetto pensante. In ogni caso tutto ciò è molto strano. Infatti, se prendiamo alla
lettera l’ultima frase di Cartesio che abbiamo citato, come possiamo ancora pensare a lui come al
fondatore, sia pure inconsapevole, della filosofia tascendentale? Dobbiamo allora forse definirlo
come un vero e proprio mistico, come un inatteso parallelo francese di Giovanni della Croce o di
Teresa d’Avila? Oppure dobbiamo ripensare l’autoevidenza del cogito in una prospettiva
teologica, rimettendo così in questione molti termini della Dialettica trascendentale kantiana?

329. Per comprendere meglio quali sono effettivamente i dati di partenza del problema del
cogito, dovremmo compendere meglio anche che cosa significano queste due affermazioni di
Cartesio: «Che si trova più realtà nella sostanza infinita che nella sostanza finita»; e «che ho in
me prima la nozione dell’infinito che quella dell’infinito, prima la nozione di Dio che quella di
me stesso». Beninteso, potremmo chiudere il problema, anzi rinunciare ad aprirlo,
fuorcludendolo, se interpretassimo questo passo in modo affrettatamente storicistico. Diremmo
allora che Cartesio, nonostante la novità della propria impostazione del problema del cogito,
pensa ancora in termini scolastici; la maggiore realtà e la primarietà dell’infinito sul finito
sarebbero dunque un resto o un residuo di scolastica nel suo testo, vale a dire qualcosa che non
ha minima importanza per comprenderlo. Qui si vede come un’impostazione come questa
sembra chiarire dei problemi solo perché li elimina, in base al pregiudizio dell’interprete, fondato
sull’idea del progresso del pensiero, secondo la quale il più imbecille commentatore del XX
Secolo sarebbe «più avanti» di Cartesio, per il solo fatto d’essere vissuto tre secoli dopo di lui.
Applicare questo metodo interpretativo significherebbe, invece che tentare di comprendere che
cosa dice il testo – naturalmente a noi, perché nessun testo dice alcunché, se non lo dice a
qualcuno –, dare per scontato che dica ciò che noi supponiamo preliminarmente che dica, e
rendere del tutto inutile qualunque sua lettura. Ma, pur ammettendo che la maggiore realtà ed il
primato dell’infinito siano dei residui aristotelici e scolastici, che del resto niente ci
consentirebbe d’aspettarci in un pensatore ch’è un matematico ed un fisico, prima ancora che un
filosofo, il problema è appunto questo: tali residui scolastici ci sono, e intervengono in un punto
decisivo dell’articolazione logica del testo, tanto che, se noi cancellassimo questo passo,
cancelleremmo quasi tutto il pensiero di Cartesio, perché non riusciremmo più a comprendere
come la premessa del cogito si colleghi alle sue conseguenze, le quali non sono ancora
sviluppate, da Cartesio, nel senso della filosofia trascendentale, ma tendono tutte, ed
uniformemente, nella direzione d’un razionalismo classico e «cartesiano», in base al quale la
complessità infinita del mondo sarebbe interamente riducibile, in base a pochi principi di ragione
– anzi in realtà in base ad un solo principio di ragione –, ad una sua rappresentazione «chiara e
distinta». In questa, certamente, noi non crediamo più da molto tempo, ma essa, pure, costituisce
la premessa necessaria di quella «visione scientifica del mondo» all’ombra della quale Freud
metteva la psicanalisi stessa. A questo punto, non possiamo far altro che prendere alla lettera
anche questi presunti residui scolastici, e tentare di comprendere dove ci conduce la loro
presenza. Dal momento che Cartesio articola gran parte della propria argomentazione attorno al
problema della prova ontologica dell’esistenza di Dio, e che questa prova era stata formulata,
circa sei secoli prima, da Anselmo di Canterbury, il cui pensiero costituisce uno dei presupposti
fondamentali della scolastica, dobbiamo considerare più attentamente se e come la presentazione
cartesiana della prova si distingue da quella anselmiana.
III. L’impensabile

330. Mentre l’articolazione logica del cogito, al tempo di Cartesio, era un elemento del tutto
nuovo nella filosofia, lo stesso non può dirsi di certo per la prova ontologica dell’esistenza di
Dio, la quale, com’è noto, fu elaborata la prima volta da Anselmo di Canterbury (o d’Aosta).
Nella risposta alle obiezioni fattegli a proposito della sua dimostrazione dell’esistenza di Dio nel
Proslogion Anselmo scrive: «Quanto poi alla tua affermazione che dal fatto che s’intende
qualcosa maggiore di cui niente può esser pensato non consegue che questo qualcosa sia
nell’intelletto, e che, se anche è nell’intelletto, non per questo ne consegue che è nella cosa,
rispondo con certezza: se l’essere può essere anche solo pensato, è necessario che sia. Infatti il
“qualcosa maggiore di cui non può pensarsi niente” non può essere pensato se non senza inizio.
Ciò che poi può esser pensato e non è, può essere pensato a partire da un inizio. Di conseguenza
non è vero che il “qualcosa maggiore di cui non può pensarsi niente” può essere pensato, ma non
è. Se dunque può essere pensato, di necessità è».
Questo brano ci mostra come nell’articolazione anselmiana un ruolo essenziale spetta alla
pensabilità d’una grandezza maggiore d’ogni altra (alla pensabilità d’un ideale della ragione,
potremmo dire coi termini kantiani). Già qui troviamo dunque gli stessi elementi cruciali che
avevamo trovato in Cartesio: il «quo maius cogitari nequit» corrisponde esattamente alla
«maggiore realtà della sostanza infinita»; il «nisi sine initio» corrisponde invece al primato della
conoscenza di Dio sulla conoscenza che il soggetto ha di se stesso. Naturalmente, stiamo dicendo
che queste determinazioni si corrispondono nei due autori, non che sono identiche. Non ci
riferiamo tanto alle ovvie differenze storiche, quanto alle differenze concettuali. Per esempio è
del tutto evidente che il concetto anselmiano del cogitare è molto diverso dal concetto
cartesiano; infatti abbiamo già visto come, per Cartesio, il cogitare abbraccia indefinitamente
tutti i modi dell’essere soggettivo in relazione a qualunque contenuto di pensiero,
indifferentemente assunti – e questo nonostante il privilegio, che ci rimane da spiegare, del
pensiero chiaro e distinto –, mentre, a differenza di Cartesio, Anselmo parte immediatamente
dall’esperienza religiosa, e definisce il cogitare essenzialmente in relazione ad essa, senza
minimamente insistere sul carattere razionale del pensiero, anche se pare poi giungere, attraverso
la prova, proprio ad una conclusione razionale (e ci limitiamo a dire che pare, perché dobbiamo
ancora definire se proprio questo è il risultato del Proslogion).
Nel proemio di questo suo scritto Anselmo racconta come cercasse un argumentum – il
termine è da intendere qui al tempo stesso in senso filosofico ed in senso retorico, addirittura
apologetico – che potesse bastare da solo a dimostrare la propria verità quanto al fatto che «deus
vere est» (che «Dio è veramente»). «A questo spesso rivolgevo il mio pensiero con grande cura,
e di tanto in tanto mi pareva che poco mancava perché io potessi afferrare quel che cercavo, ma
altre volte la penetrazione della mia mente svaniva del tutto; allora, disperando, decisi di
smettere, come se si trattasse di ricercare [velut ab inquisitione] una cosa che fosse impossibile
trovare. Ma non appena volli escludere da me quel pensiero, affinché non m’impedisse,
occupando la mia mente inutilmente, di giungere a conclusioni più proficue su altri argomenti,
allora esso, mentre io non ne volevo sapere e me ne difendevo, incominciò a ritornarmi in mente
inopportunamente. Un giorno in cui m’ero affaticato a resistere con forza alla sua inopportunità,
ecco che in questo stesso conflitto di pensieri mi si offrì ciò che avevo disperato di trovare,
affinché con cura io abbracciassi col mio pensiero ciò che mi preoccupavo di respingere».
In questa bella pagina – che possiamo mettere in parallelo con l’accurata mise en scène
intimistica e quasi fiamminga delle Meditationes – appare subito con evidenza che, per Anselmo,
si tratta soprattutto di cercare prima, e di fuggire poi, nella propria cogitatio, un argumentum che
ha senza dubbio una funzione religiosa essenziale (i suoi scritti sono rivolti a persone concrete,
solitamente ai frati dell’abbazia di cui Anselmo era abate), con una ricerca nella quale egli tenta
di salvaguardare anche l’oikonomía dei propri sforzi, in base ad un principio morale tradizionale
nel cristianesimo fin dai tempi di Paolo. Ma la ricerca, iniziata prima e abbandonata poi,
continua a svolgersi nonostante la sua decisione di non occuparsene, finché la soluzione cercata e
rifiutata si viene a delineare d’improvviso «in ipso cogitationum conflictu», come un dono
improvviso del quale senza dubbio Anselmo poteva credere di sapere bene chi fosse il donatore.
Non c’è dubbio, quindi, che ci troviamo molto lontani da Cartesio e dal suo modo di pensare,
anche se la presentazione dei rispettivi argomenti sembra rispettare uno schema comune. Per
Anselmo, pensare è un lavoro svolto al servizio di Dio, e la soluzione è un dono immediato di
Dio stesso. Il Proslogion inizia infatti come una vera e propria preghiera: «Suvvia ora, piccolo
uomo, rifuggi per un po’ dalle tue occupazioni, nasconditi per un momento dal tumulto dei tuoi
pensieri. Deponi ora i tuoi gravi impegni e rinvia i tuoi faticosi riposi. Pensa per un po’ a dio, e
riposati per un po’ in lui. “Entra nella stanza” della tua mente, escludine tutto, tranne dio e
quanto ti serve a ricercarlo e, “chiusa la porta”, ricercalo. Dì ora, “mio cuore” tutt’intero, dì ora a
dio: “Cerco il tuo volto; il tuo volto, signore, io desidero”. Suvvia ora anche tu, signore dio mio,
insegna al mio cuore dove e come io ti possa cercare, dove e come io ti possa trovare. Signore, se
lì non sei, dove ti cercherò, nella tua assenza? Ma se sei in ogni luogo, perché non ti vedo
presente? Certo, tu abiti una “luce inaccessibile”. E dov’è la luce inaccessibile? E come posso
giungere ad una luce inaccessibile?».
È del tutto evidente, in questo brano iniziale, che il modello, anche stilistico, d’Anselmo, è
Agostino (pensiamo soprattutto a certi dialoghi fra Agostino e Dio che si trovano nelle
Confessioni), ed è altrettanto evidente che, per Anselmo come per Agostino, pensare è prima di
tutto un modo di pregare. Il pensiero di cui qui si tratta è dunque essenzialmente un pensiero
dell’impensabile (e proprio per questo pensare è pregare), per pensare il quale bisogna
abbandonare «il tumulto dei pensieri», e raccogliersi in un solo pensiero, che sia molto al di là di
tutti i pensieri oggettivi (del pensare a qualcosa). Il pensiero essenziale, di conseguenza, per
Anselmo, non è pensiero di questo o di quello, ma un pensiero vuoto e nello stesso tempo totale
(quello della «luce inaccessibile»), il quale possa consentire alla divinità di prendere la parola, e
di parlare nel vuoto del raccoglimento del «cuore» del fedele. Da questo punto di vista, senza
dubbio la movenza del pensiero d’Anselmo sembra molto più vicina a quella dei mistici che a
quella di Cartesio. «Non tento, signore, di penetrare nella tua altezza, poiché in nessun modo
posso paragonare ad essa il mio intelletto; eppure desidero intendere almeno un po’ la tua verità,
che il mio cuore crede ed ama». Il pensiero è dunque, per Anselmo, un atto d’amore e di
desiderio, uno slancio che guida l’intelletto al di fuori dei propri limiti, se colui che è al di fuori
di questo limiti, il deus absconditus, accetta di farsi trovare, attraverso la mediazione di
quell’immagine di lui che il soggetto pensante conserva in sÌ.
Il testo del Proslogion d’Anselmo e quello delle Meditazioni di Cartesio sono così diversi che
stabilire dei confronti, sia pure in negativo, è del tutto fuori luogo. Eppure non possiamo
misconoscere che, nonostante le mille differenze d’intento e di cultura, il movimento soggettivo
ch’emerge nei due testi è assolutamente identico: lo stesso raccoglimento, lo stesso svuotamento
(il dubbio in Cartesio, l’abbandono di tutti gli altri pensieri in Anselmo) e lo stesso lasciar
emergere, al di là dello svuotamento, ed anzi proprio attraverso lo svuotamento, l’unico pensiero
che, come un dono al tempo stesso ricercato ed insperato, può dimostrare immediatamente, e
senza bisogno d’altre argomentazioni, la propria verità.
Eppure questo parallelismo, una volta riconosciuto, non resta forse semplicemente esteriore?
Possiamo forse dire, per esempio, che anche il movimento del pensiero di Cartesio è religioso,
come lo è quello d’Anselmo? Certamente no, dal momento che, fra Anselmo e Cartesio, c’è una
differenza del tutto evidente, nonostante le molte somiglianze dell’impostazione che essi danno
alla propria riflessione. Anselmo parte dalla propria fede e dalla propria certezza per giungere ad
ottenere, attraverso l’immagine di Dio rimasta in lui, un dono che può prendere vita nel suo
cuore («cor meum»): la prova che egli ricerca per santificare il nome di Dio, più che per un vuoto
esercizio filosofico; Cartesio, invece, in modo del tutto laico, parte dal proprio smarrimento (si
tratta però d’uno smarrimento conoscitivo, e per niente religioso), e lo fa solo per vedere se in
esso non rimanga una sia pur minima traccia della verità, come deve avvenire s’è vero, com’è
vero, che egli la ricerca; questa traccia gli viene offerta poi – certo non da Dio, ma dal suo stesso
pensiero – e proprio grazie al fatto che egli, pensando, la ricerca. Dio, nelle Meditazioni,
compare solo dopo questa prima prova. Eppure abbiamo visto che anche Cartesio ammette che la
propria certezza di Dio è per così dire preliminare persino alla propria certezza di se stesso ed
alla propria certezza di pensare. Di fatti, senza questa certezza, egli non avrebbe forse neppure
cercato una prova di quella verità che vuole dimostrare, ma che vuole dimostrare, senza dubbio,
in quanto verità gnoseologica, come fondamento d’una certezza utile a dimostrare la verità in
questione in qualunque campo del sapere. Cartesio, in altri termini, anche se con un
atteggiamento soggettivo ch’è molto simile a quello descrittoci da Anselmo, fa esattamente il
contrario di quel che aveva fatto quest’ultimo: mette la prova ontologica al servizio della
dimostrazione della verità del pensiero, mentre l’arcivescovo di Canterbury aveva messo il
sapere filosofico al servizio del proprio dovere religioso.

331. Ma è solo nel secondo capitolo del Proslogion che Anselmo precisa il significato che dà
alla parola cogitare. Il capitolo inizia con una citazione dal Salmo 13: «Disse lo stolto nel suo
cuore: non c’è Dio». Si tratta quindi dell’ateismo. Dire «non c’è Dio» è proprio dello stolto –
dell’insipiens, di colui che non sa –, dice Anselmo, ma anche chi non sa, quando ode le parole
«qualcosa più grande di cui nulla può esser pensato» intende quel che ascolta. Il suo non sapere,
possiamo dire noi, non dipende dal non intendere la significazione delle parole che ascolta. Chi
non sa, conosce tuttavia le significazioni delle parole, ma queste significazioni producono in lui
solo un sapere vuoto, dal quale egli non trae nessuna conseguenza (la stoltezza, potremmo dire
noi, non dipende dalle significazioni, ma dal fatto di non riuscire a tradurle, soggettivamente, in
senso). Lo stolto, quindi, scrive Anselmo, «intende quel che ascolta; e quel che intende è nel suo
intelletto, anche nel caso che egli non intenda che vi è. Altro è infatti che una cosa sia
nell’intelletto, altro intendere che essa è. Così, infatti, il pittore pensa prima che cosa farà, e
perciò lo ha nell’intelletto, ma non intende ancora che vi è ciò che ancora non ha fatto». Ci sono
quindi due modi d’intendere: un modo del tutto astratto, che dipende dalle sole significazioni, ed
un modo che invece è reale, e che consiste nell’appropriarsi effettivamente delle significazioni
che «sono nell’intelletto». Nel tradurle in senso, abbiamo detto noi: ma per Anselmo questa
realizzazione nel senso delle significazioni implica il riconoscimento della loro verità in re. Altro
è intendere le vuote significazioni delle parole «quo nihil maius cogitari potest», altro è
comprendere davvero che vi è questo qualcosa. Ora, qual è la differenza fra le due
comprensioni? Semplicemente questa: la prima (la comprensione nelle significazioni, diciamo
noi) non impegna, mentre la seconda (quella del senso, nei nostri termini) deve necessariamente
includere l’impegno totale del soggetto. Ora, è evidente che, se noi intendiamo la prova
anselmiana in questi termini, intendiamo anche l’enunciato «Dio esiste» come una proposizione
analitica, e non sintetica; allora siamo costretti, però, anche ad affrontare immediatamente un
arduo ed antico problema: pensare come la divinità (infinita, onnipotente, perfetta) possa abitare
in un soggetto (limitato, imperfetto, mortale).
Ma non precipitiamoci subito alle conseguenze, e seguiamo Anselmo. Ciò ch’è più grande di
tutto ciò che può esser pensato, egli dice, non può essere solo nell’intelletto. «Se infatti è solo
nell’intelletto, si può pensare che sia anche nella cosa, e questo è più grande». Ne consegue
dunque – e sta in questa deduzione la prova ontologica – che ciò ch’è più grande di tutto ciò che
può esser pensato dev’essere «et in intellectu et in re». Questa è la deduzione che Kant ha
dimostrato falsa, pur riferendosi a Cartesio, e non ad Anselmo. Ma per comprendere il senso
della prova d’Anselmo dobbiamo comprendere meglio come egli distingue i due modi
dell’intellezione. È evidente infatti che questa distinzione non è fatta da Kant, il quale, certo,
deduce il concetto dall’esperienza, ma non distingue affatto un concetto pieno di senso da un
concetto uguale alla vuota significazione delle parole. L’esempio del pittore, che propone
Anselmo, è estremamente chiarificatore: un conto è pensare qualcosa come esistente anche se
non esiste ancora, come fa il pittore prima di dipingere, un altro è sapere che veramente è perché
la si è fatta. Ora proprio in questo fare sta la vera distinzione fra la significazione e il senso.
Tutto ciò è chiarito in modo esemplare nel quarto capitolo del Proslogion, che varrà la pena di
citare integralmente, perché in esso ci pare espresso il punto essenziale che stiamo tentando di
formulare.
Il capitolo reca questo titolo: «In che modo lo stolto disse nel suo cuore ciò che non può
essere pensato». «Ma in che modo disse nel suo cuore ciò che non poté pensare; o in che modo
non poté pensare ciò che disse nel suo cuore, dal momento che dire nel proprio cuore e pensare
sono la stessa cosa? Tanto è vero in effetti che, se davvero lo pensò, perché lo disse nel suo
cuore, e non lo disse nel suo cuore, perché non poté pensarlo, non è lo stesso dire qualcosa nel
proprio cuore e pensare. Di fatti una cosa è pensata in un modo quando si pensa la parola che la
significa [cum vox eam significans cogitatur], e in un altro modo quando s’intende che cos’è la
cosa di per sÌ [cum id ipsum quod res est intelligitur]. Nel primo modo senza dubbio si può
pensare che dio non è, nel secondo non lo si può per nulla. Infatti nessuno che comprenda che
cosa è dio [id quod deus est] può pensare che dio non è, anche se dica nel suo cuore queste
parole [verba], o senza nessuna significazione, o con una significazione impropria [aut sine ulla
aut cum aliqua extranea significatione]. Dio è ciò di cui niente di più grande può esser pensato.
E chi bene intende questo, intende che questo qualcosa è in modo tale da non poter non essere
neppure nel pensiero [ut nec cogitatione queat non esse]. Chi dunque intende che dio è in questo
modo, non può pensare che non sia. Ti ringrazio, buon signore, ti ringrazio, perché ciò che prima
credetti per un tuo dono, ora così bene comprendo per una tua illuminazione, tanto che, se non
volessi credere che tu sei, non potrei non intenderlo».

332. Cerchiamo di trarre le conseguenze di questa pagina straordinaria. È del tutto evidente
che Anselmo sa bene che la sua prova non ha alcun valore nella sola significazione. In altri
termini, se vogliamo dimostrare l’esistenza di Dio attraverso dei concetti, e per concetti
intendiamo delle mere significazioni, non riusciamo a dimostrare alcunché, come Kant ha messo
chiaramente in evidenza. Ma esistono due modi di comprendere, dice Anselmo, uno dei quali è
stato assimilato da noi alla significazione, e l’altro al senso. Anselmo, tuttavia, non dispone
d’una nozione equivalente a quella che noi indichiamo con quest’ultimo termine. Chiunque
comprenda una lingua può comprendere in astratto che significano le parole «una cosa più
grande della quale niente può essere pensato», egli dice, ma questo qualcosa sarà, genericamente,
una cosa grandissima, molto più grande di tutto ciò che di grande interviene nell’esperienza,
insomma un concetto limite o un ideale della ragione. Ma questo concetto di grandezza assoluta
è davvero un concetto? Un ideale della ragione è un concetto, o è piuttosto solo un’astrazione
concettuale? Ad esso per un verso non può corrispondere nessuna esperienza soggettiva, perché
noi non abbiamo nessuna esperienza del «qualcosa più grande del quale niente può essere
pensato»; tuttavia noi non solo pensiamo, ma siamo anche costretti a pensare questa grandezza
assoluta, come riconosce lo stesso Kant. La significazione che producono queste parole è in
questo caso, dice Anselmo, o nessuna o del tutto inadeguata. Perché l’esistenza in re di questa
grandezza assoluta possa essere effettivamente dimostrata non basta, quindi, servirsi di concetti
comuni, dal momento che i nostri concetti comuni sono vuoti, se non ci riferiamo ai dati della
nostra esperienza, e noi non abbiamo un’esperienza dell’assoluto.
Come si spiega allora la necessità dell’ideale della ragione? A motivarlo è sufficiente forse
l’analogia, elaborata attraverso la funzione dello schema trascendentale, con i meccanismi della
finitezza? Sicuramente no, risponde Kant. La funzione essenziale dell’impensabile nel pensiero
non viene e non può venire dal pensabile. Deve venire invece dalla differenza costitutiva del
pensiero, vale a dire dal fatto che il pensiero non può mai coincidere perfettamente con se stesso
(cioè dal carattere temporale del pensiero). Ora, questa imperfetta coincidenza non esclude
affatto che il pensiero coincida con se stesso, perché, se non coincidesse affatto, il pensiero non
potrebbe pensare nessuna identità, e quindi non potrebbe trarre alcun concetto dall’esperienza;
tanto meno, quindi, potrebbe pensare un concetto come quello d’assoluto. Questo concetto, di
conseguenza, deve pur dipendere in qualche modo dalla natura stessa del pensiero o – ma è lo
stesso – della soggettività. Questo concetto, abbiamo proposto noi, viene dal senso, non dalla
significazione, perché, senza di esso, non ci sarebbe neppure significazione. Allo stesso modo
possiamo dire che, se il pensiero non coincidesse solo in parte con se stesso, non ci sarebbe
pensiero, perché un pensiero del tutto non coincidente con se stesso non potrebbe far
corrispondere in nessun modo le proprie deduzioni con alcun reale, e perché un pensiero che
coincidesse perfettamente con se stesso non sarebbe affatto un pensiero, ma sarebbe il reale
stesso.
Anselmo, naturalmente, non ci dice niente di tutto ciò. Egli si limita ad osservare che, se non
siamo insipientes, cioè se non neghiamo la stessa significazione della parola «Dio», questo
dipende dal fatto che in noi stessi, vale a dire nella nostra finitezza, c’è un’«immagine» di Dio, e
che un’immagine di Dio è già un’esperienza, per quanto ridotta, dell’inconoscibile (un teologo
greco avrebbe detto che noi siamo immagini di Dio, ma immagini non somiglianti, a causa del
peccato). Noi, di conseguenza, possiamo farci un concetto di Dio, anche se non abbiamo
un’esperienza diretta di lui, e anche se questo concetto resterà non esaustivo (del resto esso
resterebbe tale anche se ne avessimo un’esperienza diretta, come testimonia la mistica:
l’impensabile non può essere pensato nemmeno quando è sperimentato). Dire che un concetto è
non esaustivo, cioè non precisamente concettuale, in quanto sorge da un’esperienza che non è
precisamente un’esperienza, perché non è l’esperienza d’un oggetto, non significa tuttavia dire
che questo concetto è soltanto negativo. La stessa teologia apofatica nega le proprietà di Dio solo
per affermarle. Del tutto negativo rimane invece il concetto che di Dio si fa l’insipiens, il quale
concetto è negativo solo perché l’insipiens nega un’esperienza che non ha meno di chi sa (e per
questo la sua insipientia è colpevole). La prova ontologica, com’è descritta da Anselmo, si
svolge dunque al limite della significazione: non fuori di essa, perché in questo caso non sarebbe
una prova, né al suo interno, perché in questo caso non riguarderebbe Dio, ed è fondata sul fatto
che di Dio, se per un verso non abbiamo alcuna esperienza, nel senso dell’esperienza oggettiva,
per un altro abbiamo un’esperienza immediata, perché abbiamo un’esperienza immediata, anche
se parziale, di noi stessi. Dio – l’impensabile, l’inconoscibile – per noi può essere un «tu» con
cui parliamo, perché è del tutto incluso nella nostra soggettività, anche se non vi è incluso del
tutto: vi è incluso come «tu», ma ne è escluso perché il nostro pensiero non coincide con se
stesso, e non coincide con se stesso perché è aperto all’impensabile, ch’esso avverte non solo
come il proprio limite, ma anche come il limite ch’esso ha il compito di superare. Sono queste,
ci pare, le coordinate di quella pratica ascetica d’isolamento del soggetto dalla confusione dei
pensieri in lotta uno con l’altro che Anselmo descrive all’inizio del suo testo. Qui non si tratta
semplicemente d’una catarsi, ma d’una catarsi che deve mettere in luce ciò che, nel pensiero, è
essenziale. E l’essenziale, nel pensiero, non è il pensare a qualcosa, ma il pensare, anche se
questo pensare non ha un oggetto individuato e nominabile. Non che questo pensiero «senza
oggetto» sia necessariamente distinguibile dal pensare a qualcosa come un pensiero da un altro.
Il punto essenziale è invece che, se non ci fosse un pensiero «senza oggetto», non ci sarebbe
alcun pensiero, perché non ci sarebbe niente da pensare (non ci sarebbero oggetti, ma solo forme
transitorie, che si modificherebbero obbedendo esclusivamente a meccanismi automatici).
Lasciare quindi che Dio emerga in noi, che lui si lasci intendere da noi, non solo non è
impossibile, ma è addirittura doveroso, sembra dire Anselmo, perché, se Dio non emergesse in
noi, e non si lasciasse intendere da noi, noi non penseremmo affatto.
Certo, ci si potrebbe chiedere fino a che punto la prova d’Anselmo è veramente una prova.
Una vera prova dovrebbe prescindere del tutto dal limite delle significazioni, ed essere tutta
inclusa in esse. Tuttavia dobbiamo subito riconoscere che nessuna scienza è mai riuscita a dare
delle prove così convincenti. Persino le dimostrazioni della geometria richiedono l’accettazione
preliminare e immotivata d’alcuni assiomi, senza i quali l’intera geometria non dimostrerebbe
niente. La prova d’Anselmo vale solo per coloro che sanno già, per quanto oscuramente, che
cos’è Dio (cioè vale solo per tutti coloro che parlano, i quali dovrebbero essere costretti dalla
prova a trarre le conseguenze delle parole che usano). Ma ciò che costituisce, ci pare,
l’importanza dell’argomentazione anselmiana, non è tanto la prova, quanto la sua impostazione,
vale a dire il fatto che Anselmo fa leva, per costringere il pensiero ad essere conseguente con se
stesso, proprio sulla sua finitezza e sui suoi limiti. E vedremo che proprio per questo c’è
un’oscura ma imprescindibile continuità fra la prova ontologica anselmiana e la prova
trascendentale cartesiana. Certo, la dimostrazione di Kant rimane valida anche nel caso
d’Anselmo, eccetto che su un punto: Anselmo, partendo, a differenza di Kant (ed anche di
Cartesio) da un’esperienza prima di tutto religiosa, sa bene (anche se non dispone di parole
specifiche per dirlo) quel che la filosofia ha dimenticato troppo spesso: che il senso non può
ridursi alla significazione. Se quindi Kant ha ragione su Cartesio e su Anselmo dal punto di vista
della deduzione logica formale, Anselmo ha ragione su Kant (e forse anche su Cartesio) dal
punto di vista della deduzione trascendentale, anche se sicuramente egli non aveva alcuna idea di
che cosa fosse una deduzione trascendentale (del resto neppure Cartesio aveva quest’idea, il che
non c’impedisce di ritrovarla nei suoi testi). In ogni caso il problema non è affatto di sapere se la
prova anselmiana dimostri effettivamente qualcosa, e non lo è né per Anselmo, né per Cartesio,
né per noi. Il problema invece, sia per Anselmo, sia per Cartesio, sia per noi, è d’intendere in che
rapporto noi siamo con noi stessi, perché solo in questo rapporto ha un senso parlare di Dio, il
cui nome, che resta una parola vuota in ogni altro contesto, è solo un nome dell’impensabile e
dell’assoluto. Ora, il concetto dell’impensabile e dell’assoluto è presupposto da noi al fianco
d’ogni altro concetto (d’ogni altro pensiero), perché il nostro sapere di noi stessi non è affatto
così ben fondato, neppure nel cogito, da escludere che il nucleo di questo pensiero di noi stessi
sia proprio l’assoluto e l’impensabile.

333. Anselmo e Cartesio, pur partendo da esperienze e da concetti molto diversi, affrontano lo
stesso problema (e non problemi differenti): quello della capacità del pensiero di pensarsi
pensante. Entrambi hanno un unico punto di certezza: per Cartesio il cogito, per Anselmo il fatto
che l’esperienza religiosa è un’esperienza reale, che le sole significazioni non bastano ad
esprimere. Ora, benché Anselmo non si ponga minimamente il problema di Cartesio,
quest’ultimo si pone invece il problema ch’era stato formulato da Anselmo, giungendo fino a
dire che, per lui, la certezza dell’infinito e di Dio è maggiore persino della propria certezza di se
stesso, nonostante la prova che di questa certezza egli aveva dato col cogito. La dimostrazione
della verità del cogito quindi sembra presupporre la dimostrazione anselmiana, nonostante il
fatto che Cartesio fa intervenire la prova ontologica solo successivamente alla dimostrazione
della verità del cogito. Dobbiamo quindi comprendere come e per quale motivo Cartesio ha
rovesciato i termini del suo stesso modo di procedere, facendo della prova ontologica solo un
passo successivo alla dimostrazione della verità del cogito.
La prova ontologica fa parte, per Cartesio, della deduzione, dal cogito, del mondo delle
rappresentazioni. Nella Quinta meditazione egli afferma che l’essenza e l’esistenza, pur essendo
sempre categorie distinte, nel caso di Dio deveno coincidere e non possono essere separate più di
quanto «dall’essenza d’un triangolo rettilineo» non possa esserlo «l’equivalenza dei suoi tre
angoli a due retti», «oppure dall’idea d’una montagna l’idea d’una vallata». E proprio a questo
punto egli incappa nell’errore logico segnalato da Kant, deducendo dalla realtà della propria idea
la realtà di Dio, «non già perché il mio pensiero possa fare che la cosa vada così, né perché esso
imponga alle cose alcuna necessità; ma, al contrario, perché la necessità della cosa stessa, cioè
dell’esistenza di Dio, determina il mio pensiero a concepirlo in tale maniera». Ora, è del tutto
evidente che questo modo di procedere, a differenza di quello d’Anselmo – e di quello che lo
stesso Cartesio aveva adottato quando aveva dichiarato d’essere più certo dell’infinito e di Dio
che di se stesso – è logicamente errato. Ma come mai Cartesio, che non era certo l’ultimo venuto
nel campo della logica, non sembra averne il minimo sospetto? Che cosa ha velato ai suoi occhi
l’errore della propria articolazione? Insomma quale verità, contenuta in quell’errore, ha fatto in
modo che egli considerasse un sofisma come una deduzione logica ineccepibile? La risposta a
queste domande è data da Cartesio stesso: è «la necessità della cosa stessa». Tutto sta a
comprendere che tipo di necessità sia questa. Soltanto una necessità ideologica? Soltanto la sua
volontà di salvaguardare da ogni mutamento i tratti d’un mondo ch’egli stesso aveva
integralmente revocato in dubbio, ivi compreso quel Dio del quale, pure, s’era dichiarato
certissimo? Il fatto è che la tematica della divinità interviene, nel suo testo, in due distinti
momenti: la prima volta in modo quasi implicito ed appena accennato, nel breve passo che
abbiamo più volte ripreso, nel quale Cartesio sembra attribuire al proprio pensiero di Dio una
verità addirittura più evidente di quella dello stesso cogito; la seconda in modo pienamente
sviluppato, ma in termini che invece ricadono pienamente (a differenza dei termini d’Anselmo,
che vi ricadono solo parzialmente) nella critica kantiana della prova ontologica. Possiamo forse
supporre, a questo punto, che a determinare l’errore logico di Cartesio nella sua lunga
dimostrazione ontologica sia stata proprio la verità contenuta nella sua prima affermazione. Non
lo diciamo per fare della psicologia, perché non ci riferiamo ai motivi soggettivi per i quali
Cartesio non ha visto il proprio errore, ma ai motivi metafisici della realtà che egli attribuiva
all’idea dell’infinito ed a quella di Dio più ancora che al proprio pensiero.

334. Se abbiamo considerato unitariamente il Proslogion e le Meditationes è stato perché


entrambi questi testi appaiono determinati dal prevalere, in gran parte oscuro (e certamente
molto più oscuro nel secondo che nel primo), d’una determinazione del pensiero da parte d’un
senso l’origine del quale resta quasi del tutto velata in Cartesio, ed è invece molto più evidente in
Anselmo, benché neppure Anselmo lo distingua chiaramente dalla significazione. Questa
differenza si comprende facilmente. Per l’arcivescovo, che parla non solo di Dio, ma anche a
Dio, l’apertura della propria articolazione è perfettamente e immediatamente fondata
nell’indicibile della propria esperienza della divinità. Certo, nella divinità questo indicibile è
nominato: e proprio a nominarlo serve la prova ontologica, non solo nel caso d’Anselmo, ma
anche in quello di Cartesio. Il vero nucleo essenziale dei due testi, in altri termini, non ci pare
che sia né la prova ontologica né quella della realtà che il cogito assicura al pensiero, ma la
dipendenza del pensiero stesso – diciamo: della concatenazione delle significazioni nel pensiero
– da un’apertura originaria dalla quale dipendono in definitiva le stesse significazioni e lo stesso
pensiero, e che le significazioni hanno il compito d’esprimere nelle loro modalità e nei loro
limiti: quella del senso (ciò significa, naturalmente, che il senso è al di là del pensiero, perché la
sua radice è al di là dell’essenza). Ora, quest’apertura, in quanto realmente presente nel pensiero
di chiunque, ci pone immediatamente il problema di Dio, che in fondo è solo un nome
dell’incondizionato (dell’al di là del pensiero e dell’al di là dell’essenza). La maggiore realtà
dell’infinito e di Dio della quale parla Cartesio è quindi la maggiore realtà dell’incondizionato
rispetto a quella di tutto ciò ch’è condizionato. Il fatto che Cartesio, oltre che un filosofo, fosse
un uomo di scienza attesta proprio la verità di quest’affermazione, perché nulla dimostra più
chiaramente della scienza, con la sua astrazione, che la forza d’una dimostrazione non dipende
tanto dalle vuote lettere con le quali sono formulate le sue leggi, quanto dall’inesplicato che resta
al fondo d’ogni legge e che, proprio perché formulato dalla legge come inesplicato, finisce per
venire assunto come inesplicabile, cioè come reale. Il fatto che Newton, ad esempio, ha
formulato la legge della gravitazione non ha affatto eliminato il problema di che cosa induca le
masse ad attrarsi, cioè di quale sia la causa della gravitazione (problema ch’è divenuto solo più
pressante dopo la dimostrazione dell’inesistenza dell’etere, e che la fisica non ha risolto affatto).
Il reale del quale si occupa la scienza è appunto quello dell’inesplicabile, che essa crea proprio
con il suo continuo tentativo di spiegare dei fatti d’esperienza semplificando quanto più è
possibile la complessità con la quale essi si offrono alla nostra esperienza.
Ora, l’operazione tentata da Cartesio con il cogito ha anche offerto agli scienziati un punto di
fermezza soggettiva, a monte di tutte le loro teorie, in base al quale poter continuare indisturbati
nelle proprie deduzioni, senza più occuparsi del problema dei principi soggettivi del proprio
sapere (sta qui la radice di quella che Husserl chiamava la «crisi» delle scienze). Se dunque del
cogito è stato fatto anche quest’uso assolutamente non trascendentale, ciò deve dipendere senza
dubbio anche dal modo di procedere di Cartesio. Cartesio infatti, dopo aver aperto il problema
del fondamento del sapere scientifico, lo ha anche immediatamente richiuso con quel vero e
proprio hysteron próteron che gli fa spostare il proprio punto di partenza dall’impensabile, in cui
esso era grazie al riferimento all’apertura dell’esperienza soggettiva nel senso, in una
dimostrazione oggettiva dell’esistenza di Dio, la quale finisce per tradurre la stessa apertura
originaria in una chiusura del senso nel reticolo «cartesiano» delle rappresentazioni chiare e
distinte. Ora, questa chiusura, in Cartesio e nelle scienze classiche, si compie a spese del senso e
a spese dell’impensabile che esso rende, per noi, concretamente evidente e realmente presente
nel nostro pensiero. Ridurre Dio a ens realissimum, per esempio, come Cartesio ha fatto, seguito
in questo da tre secoli di filosofia, non è affatto un successo della religione nella filosofia e sulla
filosofia, ma è un trionfo dell’ateismo sull’esperienza e sul senso della religione. Certo, questo
ateismo è perfettamente individuabile anche nella tradizione patristica e scolastica, molti concetti
della quale, soprattutto in occidente, ne sono addirittura determinati, come abbiamo cercato di
mostrare nella Formazione, e come torneremo a rilevare fra poco. Ma riconoscerlo non elimina il
problema. Infatti, se di Dio – dell’incondizionato – si deve parlare, se ne può parlare solo nelle
significazioni, quindi condizionatamente. Ma proprio fare di questa condizionatezza un
incondizionato è l’errore cartesiano, il quale, pur derivando da una lunga tradizione occidentale,
anche esplicitamente religiosa, finirà per divenire il presupposto di quei lumi che certo hanno
rischiarato i pregiudizi della nostra ragione, ma senza eliminare affatto le insufficienze che
l’avevano oscurata.
IV. Carmide, o della saggezza

335. All’interpretazione che stiamo dando del cogito cartesiano si potrebbe obiettare che,
mettendo in rilievo i presupposti trascendenti dell’atto di fondazione trascendentale della
conoscenza, rischiamo di far dipendere quest’ultima dai primi, e così di rendere vano ogni
tentativo di creazione d’una scienza «nuova» che non sia identica alla metafisica nel senso più
tradizionale del termine (e che quindi non sia affatto scientifica). Naturalmente, non possiamo
negare che questo rischio esiste, anche s’è ancora troppo presto per affrontare questo problema,
dal momento che non abbiamo ancora precisato che cosa intendiamo come fondazione
trascendentale, e che stiamo solo cercando, attraverso un’esplorazione, senza dubbio non
esaustiva, dei precedenti storici e logici delle Meditazioni, di determinare meglio le coordinate di
senso e di significazione dell’atto cartesiano di fondazione del sapere scientifico nella certezza
del cogito. Questi presupposti sono molto antichi perché, come già abbiamo accennato, risalgono
a Platone ed al neoplatonismo. Perciò dedicheremo questo capitolo e il seguente alla lettura di
due testi che si possono porre senza dubbio nella stessa prospettiva filosofica delle Meditazioni,
non perché «anticipino» Cartesio, ma proprio perché si occupano dello stesso problema
fondamentale che Cartesio affronterà: quello della possibilità del pensiero di pensarsi come
pensante, oltre che di pensare i propri pensieri. I due testi in questione sono il Carmide di Platone
e la terza Enneade del quinto libro, di Plotino.
Ma prima d’iniziare ad esplorare questi testi, torniamo a porci una domanda generale. In che
modo possiamo dire che testi talmente diversi e scritti in tempi così lontani si occupano dello
stesso problema? Il problema della conoscenza, quale viene formulato da Platone nel Carmide,
da Plotino nel Perì tôn gnoristikôn hypostáseon kaì toy epékeina, da Anselmo nel Proslogion, da
Cartesio nelle Meditazioni, da Kant nella Critica della ragione pura, come potrebbe essere lo
stesso? In due millenni è stata certamente modificata non solo la sua soluzione, ma anche la sua
formulazione. Se dunque diciamo che in tutti questi testi viene affrontato lo stesso problema, non
lo facciamo da un punto di vista strettamente storico, ma da un punto di vista trascendentale; noi
consideriamo dunque questo problema come unico perché leggiamo tutti questi testi a partire da
un unico punto d’assunzione, non storica, ma trascendentale, della loro problematica. Il nostro
punto d’assunzione di questa problematica quindi è attuale: noi non leggiamo Cartesio, Anselmo,
Platone o Plotino per sapere che cosa essi pensavano, ma per comprendere meglio, come
abbiamo già detto, che cosa noi pensiamo o non riusciamo a pensare chiaramente. I loro testi ci
servono insomma come una vera e propria guida trascendentale.
Naturalmente, stiamo mettendo insieme testi diversissimi. Come possono le Meditazioni di
Cartesio, un testo così permeato dallo spirito delle scienze esatte, occuparsi dello stesso
problema del quale si occupa Plotino, con il suo emanazionismo neoplatonico? E soprattutto
come possiamo considerare il testo immediatamente religioso d’Anselmo vicino, dal nostro
punto di vista, con il Carmide, che fra l’altro è, fra tutti i dialoghi di Platone, quello più
manifestamente erotico, più erotico addirittura del Simposio? Il fatto che il Carmide si svolga in
una situazione così manifestamente erotica – addirittura hard, saremmo tentati di dire – non è
certo casuale, come non è casuale che il Proslogion sia forse più simile ad una preghiera che ad
un vero testo filosofico. Mettendo insieme dei testi così diversi, noi non vogliamo affatto negare
le loro differenze; vogliamo invece sottolinearle e comprenderle, perché non si comprende una
differenza se non la si pensa sullo sfondo d’un’identità (anche se può risultare davvero difficile,
per la mentalità moderna, intendere quale identità ci possa essere fra una preghiera cristiana, un
testo astrattamente filosofico, una riflessione sul sapere scientifico ed una conversazione tenuta
in una palestra in una cornice francamente gay).

336. Il Carmide, come il Menone, del quale ci siamo occupati nella Formazione, è un dialogo
aporetico, che non ci consegna la soluzione del problema che in esso viene formulato. Senza
dubbio Platone, qui, lascia intendere molto più di quanto non dica, e proprio da questa
sospensione ultima della significazione viene la difficoltà – ma anche l’interesse – della lettura
d’un testo che senza dubbio è uno dei più belli ch’egli abbia mai scritto. In esso, d’altra parte, il
problema centrale – quello della conoscenza – viene a profilarsi abbastanza tardi nello sviluppo
del dialogo, che contiene ventiquattro capitoli, sei dei quali sono dedicati alla descrizione della
situazione, mentre solo nel settimo s’inizia a parlare della saggezza (della sophrosyne). Una
premessa narrativa che occupa un quarto del dialogo deve avere, in esso, un’importanza
essenziale. Ora, il significato di tali premesse, che per noi è quasi sempre totalmente opaco,
anche perché preferiamo mettere queste sezioni almeno in apparenza solo narrative sul conto del
«genio» letterario di Platone, è invece sempre essenziale nei suoi dialoghi. Esse danno infatti al
lettore il «tono» del problema, certamente anche per offrirgli una direzione ed una guida nella
lettura. Non dimentichiamo infatti che gli scritti di Platone sono tutti essoterici, vale a dire
destinati a chi non seguiva il suo insegnamento, anche se al loro interno, in modo «cifrato»,
possiamo ritrovare tutte le tesi essenziali del suo pensiero. Dire questo, tuttavia, non ci aiuta
molto nella comprensione del testo, dal momento che quasi tutto ciò che sappiamo
dell’insegnamento nell’Accademia è riferito al periodo del neoplatonismo, nel quale i dialoghi di
Platone venivano letti e commentati per estrarne degli insegnamenti che, secondo la nostra
prospettiva storicistica, certamente non contenevano. Tuttavia per quanto riguarda
l’insegnamento di Platone, rimandiamo alla Formazione, soprattutto alle pagine che abbiamo
dedicato al rapporto fra il Menone e la Repubblica, tanto più che un rapporto analogo potrebbe
stabilirsi anche fra quest’ultimo dialogo e il Carmide. Qui dobbiamo precisare solo il fatto che il
carattere manifestamente erotico d’alcuni testi di Platone non semplifica certo il problema della
loro lettura al giorno d’oggi, dal momento che noi moderni facciamo molta fatica a comprendere
il valore iniziatico che l’éros paidikòs aveva nell’ambiente dell’aristocrazia greca al tempo di
Platone. In questi testi egli ci ha lasciato un messaggio cifrato, il cui codice ci sfugge quasi
interamente. Certo, questi testi possono essere letti anche in base ad altri codici di decifrazione,
in base ai quali continuano a produrre degli insegnamenti di straordinaria importanza. Ma nulla
ci garantisce che questa importanza sia coerente con il loro senso originario, il quale non ci viene
minimamente dischiuso da Platone. Spesso egli non ci dice che cosa effettivamente pensa – nel
Carmide questo è del tutto evidente –, ma si limita a darci degli elementi, i quali potrebbero
consentirci di comprendere che cosa pensiamo noi sui problemi ch’egli affronta. L’importanza di
questi testi sta dunque soprattutto nella possibilità che offrono al commentatore di mettere in
luce le proprie idee, sullo sfondo di quelle, in gran parte enigmatiche, di Platone. Così, se noi
leggiamo il commento che del Simposio fece Ficino, comprendiamo chiaramente quale fosse la
teoria dell’amore del neoplatonismo fiorentino del Quattrocento, ma non comprendiamo quasi
nulla di quale fosse la teoria platonica dell’amore. Allo stesso modo, se leggiamo il commento
che di questo testo fece Lacan nel Seminario sul Transfert, comprendiamo molto bene quale
fosse la teoria lacaniana dell’amore, ma questo non significa necessariamente – come invece
Lacan sembra incline a credere – che questa teoria somigli molto a quella di Platone. Se parliamo
in termini storici, l’unica possibilità che abbiamo di comprendere meglio è di fidarci degli altri
testi di Platone, molti dei quali (per esempio la Repubblica) si spingono più in là dei dialoghi
aporetici sulla strada dell’esposizione del suo pensiero. Commentiamo un testo come il Carmide
rischiamo quindi d’attribuire a Platone le nostre idee, impedendoci così di comprendere alcunché
di quel che dice il testo che leggiamo. Per ridurre questo rischio, la prima cosa da fare è di partire
dai dati che ci vengono offerti dal dialogo stesso, prima di tutto dall’evidenza del suo carattere
aporetico e in secondo luogo dall’importanza, anche quantitativa, che ha in esso la premessa
narrativa. Cerchiamo prima di tutto di considerare quest’ultima.

337. Socrate, ch’è appena rientrato ad Atene dopo la battaglia di Potidea e dopo alcuni anni
trascorsi nell’esercito, s’informa, nella palestra di Taurea, della situazione della filosofia ad
Atene «e se fra i giovani ne fossero cresciuti alcuni che si distinguessero per saggezza [sophía(i)],
o bellezza, o per entrambe». Siamo quindi messi direttamente di fronte alle due passioni
socratiche fondamentali – la saggezza e la bellezza –, sul rapporto fra le quali possiamo tenere
presenti le indicazioni d’altri testi, soprattutto del Simposio e del Fedro. Fra le persone che
parlano con Socrate vi è Critia, parente del più bello fra i ragazzi che frequentano la palestra,
Carmide, che «tutti contemplavano come fosse una statua [hósper ágalma]» (ed anche a questo
proposito pensiamo al Simposio, in cui l’ágalma viene definito però molto diversamente).
Carmide però non è solo bello, ma ama la sapienza, e Socrate riesce a parlare con lui
promettendogli, su suggerimento di Critia, un incantesimo che gli faccia passare un fastidioso
mal di testa. Non è forse casuale che Carmide fosse un cugino di Platone, perché spesso questi
introduce nei suoi dialoghi delle persone della propria famiglia (soprattutto i fratelli) quando
vuole toccare alcuni punti essenziali del proprio insegnamento. Il testo insiste inoltre sul fatto
che Carmide discende da due ottime famiglie ateniesi, una delle quali è quella di Solone.
Quest’insistenza su tali dettagli genealogici ha sicuramente la funzione di sottolineare che nel
dialogo si tratta non soltanto d’un tema centrale nell’insegnamento di Platone, ma anche d’un
argomento essenziale della tradizione ateniese.
Il pretesto del mal di capo ci mette dinanzi ad un primo dato teorico: la concezione terapeutica
di Socrate-Platone. «Ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo o in tutto l’uomo se non
dall’anima [ek tês psykhês], dalla quale tutto proviene [...]; così che si deve cominciare a curare
soprattutto quella, se si vuole che la testa o le altre parti del corpo stiano bene. L’anima, mio
caro, [...] si cura con certi carmi magici, che sono poi i discorsi belli [lógoys toys kaloys], dai
quali cresce nelle anime la saggezza [sophrosynen]». Dal tema della bellezza, nel suo rapporto
con la saggezza, che implicitamente emerge qui come una sorta di bellezza morale, passiamo
quindi al tema della funzione psicoterapeutica – potremmo dire – della filosofia. Ma il termine
«filosofia» non compare nel testo, nel quale troviamo invece i lógoi kaloí, i «discorsi belli». La
funzione del lógos è certamente essenziale del dialogo; infatti Socrate chiede a Carmide che cosa
crede che sia la saggezza (si tratta quindi di determinare il lógos, cioè la definizione del
significato della parola che la indica): certamente Carmide ha un’opinione a questo proposito,
pur essendo un ragazzo, dice Socrate, perché parla greco. Ciò significa che l’opinione è inclusa
nel significato delle parole, che però la definizione – vale a dire il lógos – deve determinare con
precisione. Tutto il dialogo sarà solo un tentativo – fallito – di stabilire quale sia il lógos della
saggezza.

338. Dobbiamo rilevare in primo luogo che Platone non parla affatto immediatamente del
problema gnoseologico (come d’altra parte non ne parla Anselmo), perché parla invece d’un
problema etico, che tuttavia intende in termini conoscitivi. Si tratta di sapere che cos’è la
saggezza, ma questo sapere ha una funzione etica, perché serve essenzialmente a divenire più
saggi. In altri termini, il problema gnoseologico è impostato da Platone in termini etici, e non
vice versa, come di solito recitano i manuali. Ciò che qui dice Socrate non è che basta sapere che
cos’è la saggezza per essere saggi, ma che esserlo è una condizione per saperlo (l’intero dialogo
dipende dall’affermazione da parte di Critia che Carmide, oltre che bello, è saggio): il sapere è
solo un accrescimento della saggezza, ed una garanzia d’essere in grado di conservarla.
L’eudemonismo socratico dev’essere inteso insomma nella prospettiva del primato etico del ben
vivere sul problema conoscitivo. I presupposti di questa impostazione stanno nel fatto che tutti
noi possediamo in nuce, anche se non ne siamo consapevoli, la verità di quello che ignoriamo.
La funzione del «so di non sapere», sul quale Socrate insiste in questo dialogo, è solo quella di
lasciar emergere questa verità. E qui non possiamo non constatare che incominciano a delinearsi
alcuni tratti d’identità, sebbene ancora generica, fra questo testo e quello d’Anselmo.

339. Soltanto a questo punto inizia il tentativo di definire la saggezza, la sophrosyne. Carmide
propone una prima definizione di saggezza: «una certa calma»; così si traduce di solito, ma la
parola greca, hesykhiótes, avrà, nella storia del pensiero greco, un ruolo importante, perché verrà
più volte ripresa, anche nel cristianesimo, fino a divenire la parola chiave dell’ascesi (esicasmo).
Socrate rigetta questa prima definizione, così come la seconda, «provare vergogna per certe
azioni», e la terza, «occuparsi ciascuno delle cose sue». Evidentemente il fatto che Platone
esponga tali opinioni attorno alla saggezza, anche se poi le respinge, significa che esse gli paiono
tutte, almeno in parte, vere. Assistiamo insomma ad un vero e proprio crescendo, come spesso
accade nei dialoghi. Un esempio estremamente caretteristico di questo modo di procedere di
Platone, certamente molto più complesso di quello del quale ora ci stiamo occupando, è il
Simposio, in cui i diversi discorsi attorno all’amore hanno tutti, anche quando Platone fa
dell’ironia su coloro che li tengono, degli aspetti di verità (tenere conto di questo dovrebbe
indurre ad apportare delle modifiche importanti a molte interpretazioni di questo testo).
Ma torniamo al Carmide. L’ultima delle tre definizioni date dal ragazzo risale a Critia, che a
questo punto è chiamato ad intervenire. Il mutamento dell’interlocutore di Socrate segna
certamente un punto di svolta nel testo (come accade nel Simposio in seguito all’arrivo
d’Alcibiade). Critia, precisando la definizione da lui data in precedenza, ne propone una
seconda: «Definisco la saggezza come il produrre le cose buone». Ci avviciniamo dunque
decisamente al cuore del problema. Socrate infatti rileva che, per essere saggi, bisogna anche
sapere quello che si fa, e Critia ammette che preferisce correggersi, «piuttosto che concedere che
un uomo possa essere saggio se ignora se stesso [agnoynta aytón]». Perciò propone
immediatamente una quinta definizione di saggezza: «conoscere se stesso» (tò gignóskein
heautón). Si tratta naturalmente del motto delfico, che tanto rilievo ha nel pensiero di Socrate.
Ma questi, pur avendo rilevato poco prima che il sapere è necessario alla saggezza, si pone al
riparo dell’unico sapere che si riconosca: quello di non sapere. Di fatti viene formulato qui
quello ch’è forse il problema filosofico essenziale del dialogo, problema la cui soluzione
costituisce la premessa prima del cogito: quello del rapporto fra il soggetto e l’oggetto della
conoscenza. Critia aveva implicitamente definito la saggezza come heaytoy epistémen, come
«scienza di se stesso». Ma la saggezza è scienza di che cosa? Cioè, qual è il suo oggetto? Per
Critia essa è «scienza delle altre scienze, ed anche di se stessa».
La saggezza avrebbe dunque un contenuto indefinito (le altre scienze), ma sarebbe al tempo
stesso «scienza di se stessa»: sarebbe cioè, per Critia, una sorta di scienza di secondo grado, di
metascienza. Ma Socrate gli fa subito osservare che una scienza siffatta non può esistere. Infatti
una scienza delle altre scienze sarebbe anche scienza dell’ignoranza. Ma allora, continua Socrate,
con irresistibile comicità, sarebbe possibile anche «una vista che non veda quel che pur vedono
le altre viste, ma che sia vista solo di se stessa, delle altre viste e delle non viste», «un udito che
non oda alcuna voce, ma oda solo se stesso, gli altri uditi e il non udito», oppure «un desiderio
che si troverebbe ad essere desiderio di niente di bello, ma di se stesso e degli altri desideri» ecc.
Il passo è straordinario: Platone non solo dice con perfetta chiarezza che «non c’è
metalinguaggio», come, contro la linguistica, dirà Lacan dopo quasi due millenni e mezzo, ma
anche anticipa la critica husserliana della concezione dell’«omino nella testa», cioè della
coscienza come percezione di percezione. Ma Platone, senza saperlo, smentisce anche una
concezione che ha avuto molto successo fra gli analisti lacaniani: quella seconda la quale il
«desiderio dell’analista» sarebbe un desiderio di nessun oggetto (ch’è un modo come un altro per
dichiarare quello ch’essi pensano, nonostante Lacan, cioè che non c’è nessun desiderio dello
psicanalista).

340. Ponendo il problema dell’oggetto della saggezza, Platone imprime una svolta decisiva al
dialogo, aprendo d’un tratto una prospettiva propriamente metafisica. Se infatti è una scienza, la
saggezza è necessariamente scienza di qualcosa, come ciò ch’è maggiore è necessariamente
maggiore di qualcosa. «Se allora noi trovassimo una grandezza maggiore, che fosse più grande
delle altre grandezze maggiori e di se stessa, ma non fosse maggiore di ciò per cui le altre
grandezze sono maggiori, capiterebbe inevitablmente che, essendo maggiore di sÌ, sarebbe anche
minore di se stessa». Questo è evidentemente un assurdo, che si ricava immediatamente dall’idea
di partenza esposta da Critia. Di conseguenza, per alcune cose «è apparso del tutto impossibile, e
per altre assai poco credibile che esse mai esercitino su sÌ le loro stesse proprietà». Non si tratta
affatto d’un problema solo formale. Quel che Socrate propone non è un’ennesima versione del
paradosso del mentitore, tant’è vero che poco dopo non esclude affatto che possa esserci una
scienza di se stessa. Se infatti questa scienza non esistesse, nessuno saprebbe di sapere, il che
significherebbe che non ci sarebbe coscienza d’alcunché. D’altra parte, come può esserci una
scienza che sia immediatamente scienza di se stessa, se la scienza è sempre scienza di qualcosa
(d’un oggetto)? Con questo problema, in realtà, siamo già di fronte ad un’impostazione
trascendentale della problematica soggettiva, anche se parrebbe impossibile, per mille motivi,
utilizzare questo aggettivo quando parliamo di Platone. Di fatti la funzione del cogito è proprio
quella d’assicurare al soggetto un punto d’identità: quello del suo essere. Ma che identità può
esserci fra un soggetto e se stesso? Come possiamo dire che un soggetto è identico a se stesso,
come A=A? D’altra parte proprio questo principio classico della conoscenza può essere rifiutato,
non solo nel cogito, ma anche nella sua formulazione più astratta, come fa Lacan nel Seminario
sull’Identificazione; infatti dire che A=A significa dire che il primo A è identico al secondo, ma
anche aggiungere che il primo e il secondo sono due A differenti. Ci troviamo quindi di fronte ad
un problema assolutamente cruciale della metafisica.
D’altra parte intendere, come Lacan, il principio d’identità come un principio di differenza e il
cogito come un principio della divisione soggettiva, invece che dell’identità del soggetto con se
stesso, ha alcuni inconvenienti, prima di tutto logici, perché non si può fare della differenza un
principio se non riducendo anch’essa ad un’identità, per quanto negata. Ciò ha, prodotto,
nell’ambito dello strutturalismo, e soprattutto nel campo lacaniano, una visione del mondo
formalmente basata sulla «pura differenza» (come se si sapesse come possa una differenza essere
«pura»), ma che, di fatto, riproduce, come un’immagine fedele, una concezione razionalistica
cartesiana che non ha nulla a che fare non solo con la differenza «pura», ma neppure con la
differenza. La differenza, infatti, è «pura» soltanto s’è negata. La psicanalisi diventa, in questo
modo, una macina che può inghiottire e triturare qualsiasi cosa, riducendo tutto a non senso,
mentre l’insegnamento pieno di differenze di Lacan si trasforma inesorabilmente in un trionfo
dell’assimilazione generalizzata d’ogni differenza all’interno d’una concezione del soggetto in
apparenza gelidamente cristallina, ma in realtà bisognosa di sostenersi da ogni parte su stampelle
immaginarie. Ciò pone alla psicanalisi dei problemi molto gravi, perché questa negazione totale
delle differenze, compiuta sotto lo stendardo d’una differenza divenuta legge, si traduce
immediatamente nell’impossibilità di pensare la trasmissione della psicanalisi, e quindi mette in
pericolo la stessa sopravvivenza della pratica freudiana.
Beninteso, questo problema della psicanalisi è solo una minima manifestazione
dell’incomprensione – o della falsa comprensione – d’un problema metafisico che ha avuto, e
può avere, conseguenze molto più catastrofiche. Questa incomprensione – o falsa comprensione
– è del resto tipicamente moderna, e questo vuol dire che fa parte di quella rinuncia
all’interrogazione metafisica che ha favorito i progressi della scienza e della tecnologia, e ch’è
stata consentita fra l’altro da un uso semplicistico e banalizzante del cogito. Ora, noi stavamo
appunto tentando di mettere in questione tale uso, nonostante il fatto ch’esso sia stato in qualche
modo autorizzato dallo stesso Cartesio. Che il cogito assicuri al soggetto della conoscenza un
punto d’identità è senza dubbio vero, ma non è meno vero che noi non sappiamo affatto come
intendere questa identità, la cui semplificazione razionalistica, d’altra parte, viene messa in
qualche modo in discussione da Cartesio stesso quando afferma d’essere più certo dell’infinito e
della divinità che di se stesso e del valore fondante del cogito. Certo, anche questa sue
affermazioni, come abbiamo visto, si potrebbero intendere in un modo del tutto rassicurante e
razionalistico (in riferimento al razionalismo della scolastica, invece che a quello delle scienze).
Ma non v’è dubbio che il dislivello che noi incontriamo a questo punto nella riflessione di
Cartesio è indizio del fatto che una sutura, qui, non è riuscita. Proprio questo ci ha spinti a
ricostruire – o semplicemente a costruire – una preistoria del cogito. Ci troviamo quindi nel
cuore d’un antico ed essenziale problema metafisico: come possiamo pensare che il pensiero
pensi se stesso immediatamente e senza divisioni, dal momento che, se pensiamo il pensiero solo
nella divisione, non riusciamo a spiegare neppure il fatto che si pensi, perché non riusciamo a
spiegare la coscienza? E come possiamo pensare che il pensiero si pensi solo nella divisione, dal
momento che sappiamo che non ci sarebbe nessuna divisione – e quindi nessun pensiero – se
questa divisione non avvenisse su qualcosa di non diviso, e quindi d’identico a se stesso? Freud,
quando elabora la sua teoria della coscienza come cancellazione delle tracce, non fa che
riprendere a modo suo questo antico problema metafisico; ma «a modo suo» qui significa in
modo non metafisico, cioè mettendo in funzione un modello della soggettività ch’è
estremamente funzionale dal punto di vista descrittivo, ma è del tutto ingenuo dal punto di vista
trascendentale, perché non consente in nessun modo di fondare la psicanalisi sul terreno delle
scienze. Ora, questo problema, in apparenza formale, ma solo in apparenza, ed in realtà di
carattere assolutamente trascendentale, perché pone in questione l’atto del soggetto a partire da
un punto d’evidenza ch’è solo soggettivo, è formulato con perfetta chiarezza, e – a noi pare – con
un’impostazione ch’è già trascendentale, nel Carmide.

341. Tuttavia questo dialogo non ci fornisce una soluzione del problema che pure imposta con
perfetta chiarezza. Socrate, giunto al problema essenziale, si rifiuta di procedere, come se questo
dialogo, come il Menone, fosse solo l’introduzione ad un problema che Platone si riservava di
riprendere altrove (Platone infatti ritornerà su questo tema in altri testi, per esempio nel
Parmenide e nella Repubblica, dove parla dell’al di là dell’essenza, ch’è il termine nodale del
quale egli si serve per designare la necessaria apertura del pensiero, anche se sullo sfondo
dell’identità assicurata dal riferimento al mondo delle idee). Socrate, nel Carmide, preferisce
invece porre un problema del tutto preliminare: quello dell’utilità della saggezza. Perciò concede
a Critia, senza ulteriori discussioni, che una scienza della scienza sia possibile (e senza dubbio è
possibile solo se la scienza è radicata nell’al di là dell’essenza; ma Platone non tocca questo
argomento nel Carmide). Ne risulta allora una sesta definizione, secondo la quale la saggezza è
«sapere che si sa e non si sa». In questo modo però s’introduce, nella saggezza, un limite: «Il
saggio possiede una certa scienza, ma la sua saggezza non gli farà conoscere che cosa sia la
scienza». La saggezza, dunque, pur avendo la natura della scienza (dell’epistéme), non basta a
definire il campo di quest’ultima, sul quale appunto Platone tornerà nella Repubblica. Così
limitata, si chiede Socrate, la saggezza è utile, soprattutto dal punto di vista politico? «Vivere
secondo scienza» dovrebbe essere il fine della felicità. Ma di quale scienza deve trattarsi qui?
Evidentemente di quella del bene e del male. Giungiamo così ad una settima definizione di
saggezza: essa non è «la scienza delle scienze e dell’ignoranza, ma è la scienza del bene e del
male».
Questa definizione, tuttavia, non rende conto interamente del significato della parola
«saggezza», la quale può riferirsi anche ad altri saperi. Anche quest’ultima definizione, dunque,
è manchevole. «Eccoci sconfitti in ogni punto; siamo anche incapaci di scoprire a quale realtà
mai il legislatore della lingua abbia dato questo nome di saggezza». Tuttavia, nonostante il
fallimento del tentativo di definire la saggezza, che beninteso non poteva riuscire senza
un’accurata fondazione del concetto rispetto all’essenza e all’al di là dell’essenza, Socrate
conserva la propria opinione: la saggezza è certamente un grande bene e rende felici. Tuttavia,
egli non è stato in grado di dimostrarlo.
Il dialogo si conclude così con un non liquet. Tuttavia Socrate torna a rivolgersi a Carmide,
consigliandogli di dare sempre molta importanza alla saggezza. Il ragazzo decide perciò, di
comune accordo con Critia, di sottoporsi all’«incantesimo» di Socrate, facendo di lui il proprio
maestro. Socrate protesta: lo vogliono forse costringere con la violenza? Carmide risponde
affermativamente, e a Socrate non resta che la resa. «Non mi resta alcuna decisione da prendere,
perché se tu intraprendi a fare qualcosa e ci metti la forza, nessun uomo è capace di resisterti».
Come valutare questa strana conclusione del dialogo? Per quale motivo Platone ritorna
brevemente ad occuparsi della concreta situazione descritta così dettagliatamente nelle prime
pagine, pur avendo lasciato in gran parte irrisolto il problema affrontato nella conversazione?
Questa resa di Socrate non dev’essere forse considerata come una figura della soluzione cercata
e non trovata? La saggezza non potrebbe essere insomma proprio questa resa alla bellezza ed alla
giusta forza? Platone non ci dice quel che pensa, ma si limita a presentarci come un enigma il
suo pensiero, realizzato nelle pure forme ch’evoca sotto il nostro sguardo. E sta a noi, e soltanto
a noi, saperle decifrare.
V. L’Uno, o della conoscenza

342. Potremmo, naturalmente, ricercare nei testi di Platone la soluzione del problema esposto
nel Carmide, ma preferiamo non farlo, dal momento che ci siamo occupati del rapporto fra
scienza e al di là dell’essenza nella Formazione, e che, sul problema sul quale Socrate sospende
la sua indagine, ritorna alcuni secoli dopo Plotino, nella terza Enneade del quinto libro, che reca
il titolo significativo Sulle ipostasi conoscitive e sull’al di là. Il testo di Plotino, molto breve, ma
estremamente denso e complesso, parte proprio dalla necessità, per una comprensione della
conoscenza, da una parte della divisione del soggetto da se stesso, dall’altra della sua identità con
se stesso. Il problema che Socrate, nel Carmide, si rifiuta d’affrontare, viene impostato da
Plotino in relazione alle tre ipostasi, l’Uno, ch’è al di là dell’essenza, l’intelletto (il noys), che
invece è essenziale, e l’anima, che dell’essenza può solo partecipare, attraverso l’intelletto. La
prima questione che Plotino affronta è quella di vedere se all’anima «è data la conoscenza
[gnôsin] di se stessa». Infatti la conoscenza dianoetica (discorsiva), ch’è una facoltà dell’anima,
in realtà, per quanto possa conoscere se stessa, è conoscenza solo di typoi, d’impronte
provenienti dalla sensibilità o dall’intelletto. Quindi la dianóesis non può giungere ad una
conoscenza immediata di se stessa. Ciò significa che l’anima non può conoscersi
immediatamente, ma solo attraverso la mediazione delle rappresentazioni o delle significazioni
(questi termini, evidentemente, non sono di Plotino). Il problema di cui si tratta in questo testo è
comunque essenzialmente lo stesso che viene posto sia nel Carmide sia nelle Meditazioni di
Cartesio: l’anima può occuparsi solo di tutto ciò ch’è esterno ad essa, e non può sapere niente di
se stessa se non dall’esterno, a meno che i typoi che può conoscere non vengano dall’intelletto.
Solo l’intelletto può venire a sapere di se stesso, in quanto è distinto dalla conoscenza dianoetica.
L’intelletto, per Plotino, è nella nostra anima, ma è anche esterno ad essa, e può conoscersi come
conoscente solo perché ha una natura più perfetta di quella dell’anima. Esso «è nostro e non è
nostro», perché noi non lo utilizziamo di continuo.
Diventa evidente già a queste prime battute che ciò che per noi è il soggettivo, l’unità
fondamentale delle diverse funzioni psichiche, si suddivide per Plotino in funzioni differenti, che
vengono considerate psichiche solo nella misura in cui la psiche (l’anima) se ne serve in effetti.
Se noi non utilizziamo l’intelletto, questo non cessa d’esistere. Ma siccome non può scomparire
di certo, perché noi possiamo tornare ad utilizzarlo, ciò significa ch’esso ha un essere estraneo e
superiore a quello psichico. Il concetto di «soggetto» come noi lo intendiamo, d’altra parte, è
molto recente, ed è un prodotto, e non una premessa, del cogito. Nel significato che noi diamo ad
essa, la parola «soggetto» non interviene prima di Kant, e questo certamente non è un caso.
L’intero problema del quale Kant si occupa nell’analitica trascendentale, quello della possibilità
della formulazione di giudizi sintetici a priori, non è altro che una nuova formulazione dello
stesso problema che troviamo formulato diversamente in Platone, Plotino e Cartesio: quello della
necessità di pensare il soggetto della conoscenza al tempo stesso come identico a se stesso
(giudizi analitici per Kant) e come differente da se stesso (giudizi sintetici). Il nostro concetto di
soggetto non poteva sorgere che dopo la dimostrazione kantiana del valore insieme a priori e
sintetico dei giudizi, valore che dipende essenzialmente, come abbiamo visto nella Prima parte di
questo volume, dalla funzione del tempo come forma pura della soggettività.
Al posto del soggetto articolato kantianamente troviamo invece, nel neoplatonismo, delle
funzioni differenti, assolutizzate nella loro esistenza, secondo il principio platonico secondo il
quale la vera realtà non è quella sensibile (che invece è la più ingannevole e la meno reale), ma
quella ideale ed indipendente dalle limitazioni dell’esistenza sensibile, concreta o materiale.
Questa impostazione, naturalmente, può risultare faticosa per noi moderni, che considereremo
senza dubbio come delle mere astrazioni le tre ipostasi di Plotino, perché interpreteremo
«modernamente», come delle realtà per così dire supersoggettive, l’Uno e l’intelletto, dal
momento che ad essi viene riconosciuta da Plotino una realtà maggiore di quella che ha l’anima,
la quale, secondo noi, ma non secondo Plotino, è identica al soggetto. Del resto la «maggiore
realtà» che Plotino attribuisce alle due prime ipostasi è poi a ben vedere la stessa che Cartesio
riconosce all’infinito e alla divinità, più ancora che a se stesso. Ma se noi «modernizziamo» in
questo modo il pensiero di Plotino finiamo per impedirci di comprendere alcunché di testi che
invece articolano perfettamente il problema logico del quale ci stiamo occupando, e che possono
esserci utilissimi se diamo a questa realtà del trascendente, con una prima approssimazione, un
valore essenzialmente logico (anche se, beninteso, per il neoplatonismo questo valore logico è
anche immediatamente un valore metafisico e trascendente, perché l’Uno sovraessenziale è in
effetti il reale non soggettivo della soggettività e il reale non essenziale degli enti). L’anima, che
noi consideriamo – sotto il nome della soggettività – come un tutto, per Plotino è invece inserita
in una scala gerarchica della conoscenza e degli enti, a metà fra la sensibilità, ch’è più vicina alla
materia ed all’errore, e l’intelletto, il quale è invece più in alto, perché riguarda immediatamente
l’essenza. «La sensazione per noi è un messaggero, quello [l’intelletto] è invece un re», scrive
Plotino.

343. Ora, noi stessi possiamo «regnare» se ci adeguiamo alle leggi che c’impongono i
grámmata dell’intelletto, o se riusciamo ad avvertire direttamente la sua presenza. Nel primo
caso leggiamo in queste iscrizioni la conoscenza delle cose che ci circondano, ed anche di noi
stessi, nel secondo riusciamo invece a divenire l’intelletto e a conoscere con la sua stessa potenza
(dynamis). Ora, a differenza della capacità dianoetica, l’intelletto (la seconda ipostasi) può avere
una conoscenza diretta di se stesso, perché è del tutto indipendente dalle limitazioni imposte
all’anima dalla sensibilità. «O forse noi, utilizzando un’altra potenza, o partecipandone, vedremo
l’intelletto che conosce se stesso, se è vero che esso è nostro e che noi siamo suoi, e così
conosceremo l’intelletto e noi stessi? Necessariamente è così, se veramente conosceremo
nell’intelletto ciò che esso è per se stesso. Ciascuno infatti è divenuto intelletto, quando, avendo
allontanato le altre determinazioni di se stesso, guarda con quello quello, e con se stesso se
stesso. Come l’intelletto, dunque, egli vede se stesso». Eccoci posti dinanzi alla versione
plotiniana del cogito, versione nella quale ciò che nelle Meditazioni avviene – forse, ma a dire il
vero questo resta da dimostrare – per una immediata trasparenza del pensiero a se stesso, avviene
invece per il fatto che l’anima diviene intelletto, o ne partecipa. Naturalmente, il «soggetto»
plotiniano assomiglia ben poco al cogitans cartesiano, ed anche a quell’entità persino troppo
unitaria che noi indichiamo con questo termine. Ma tale «divisione del soggetto» fra funzioni
nettamente distinte, e che hanno un valore al tempo stesso psicologico, gnoseologico e
cosmologico, ci offre sicuramente anche il vantaggio di vedere più chiaramente formulati i
problemi della conoscenza che Cartesio tenta di risolvere col cogito.

344. Ma come avverrà questa conoscenza di se stessa che l’anima riesce a trarre
dall’intelletto? Sarà una conoscenza parziale, perché una parte dell’intelletto conoscerà un’altra
parte dell’intelletto? Una conoscenza siffatta non sarebbe, dice Plotino, una vera conoscenza di
se stessi. Infatti, in base a che criterio si svolgerebbe questa divisione? «Inoltre, in che modo chi
contempla [ho theorôn] può riconoscersi in ciò che contempla, dal momento che s’è posto dalla
parte del contemplare? Infatti il contemplare non stava nel contemplato. Oppure, conoscendo se
stesso, in questo modo intenderà il contemplato, ma non il contemplante; sicché non si conoscerà
né tutto né interamente: colui che vide, lo vide contemplato, ma non contemplante, e così avrà
visto un altro e non se stesso. [...] Se dunque quanto contempla è nella contemplazione, se sono
sue impronte [typoi] non lo possiede, se invece lo possiede, lo possiede senza vederlo, per via
dell’essersi diviso; ma esso era prima della divisione, e del vedere, e del possedere. Se è così,
bisogna che la contemplazione sia lo stesso che il contemplato, e che l’intelletto sia lo stesso che
l’inteso: infatti, se così non è, non ci sarà verità; chi possiede gli enti possiede un’impronta che è
altra dagli enti, e che non è verità. Poiché la verità non dev’essere d’un altro, ma dev’essere ciò
che dice [légei]. Uno è dunque l’intelletto, e l’inteso, e l’ente, e questo è il primo ente, ed anche
il primo intelletto, che possiede gli enti o che anzi è esso stesso negli enti».
Come si vede, Plotino insiste fortemente sul problema della divisione costitutiva della
conoscenza. Nell’atto di conoscere – o di «contemplare», theoreîn: termine che indica la
conoscenza «pura», non la conoscenza «pratica», della quale pure parla Plotino – il conoscere, il
conoscente e il conosciuto non possono essere lo stesso, perché, se lo fossero, non ci sarebbe
alcuna conoscenza; ma non possono essere neppure distinti, perché allora ci sarebbe sì
conoscenza, ma non coscienza della conoscenza (quindi vi sarebbe solo una conoscenza per così
dire inconscia). Di conseguenza il passaggio dalla prima ipostasi, l’anima, alla seconda,
l’intelletto, ha aperto la strada per spiegare la conoscenza, ma non ha ancora risolto il problema
essenziale della sua possibilità.

345. Che accadrebbe allora se il pensiero (nóesis) e il pensabile (noetòn) fossero lo stesso?
Neppure in questo caso si spiegherebbe la conoscenza, a meno che essi non coincidano nell’atto
(enérgeia) di pensare. In realtà il pensiero è appunto l’atto primo dell’intelletto. «Se dunque
l’atto e la sua essenza sono atto, [l’intelletto] sarebbe uno e lo stesso con l’atto; nell’atto l’ente e
il pensabile sono uno (hén): ed uno saranno tutti, l’intelletto, il pensare ed il pensabile». I
concetti aristotelici di potenza ed atto intervengono qui per spiegare l’identità del differente, e
beninteso possono farlo solo spostando la differenza dal pensiero alla sua costituzione temporale
(sulla quale Plotino insiste nella prima Enneade del quinto libro, Sulle tre ipostasi del principio).
La strada della spiegazione dell’identità, nel pensiero, del pensato e del pensante, si dirige,
attraverso l’uno, nella direzione dell’al di là dell’essenza, perché l’Uno come principio, già nel
Parmenide di Platone, è sovraessenziale. Il pensiero, come si svolge nell’anima, è pensiero solo
perché l’anima partecipa dell’intelletto; ma il pensiero dell’intelletto è uno solo perché
l’intelletto partecipa della prima ipostasi, l’Uno sovraessenziale. La capacità dianoetica
dell’anima consentirebbe già di spiegare l’identità del pensante e del pensato, se l’anima «fosse
le cose che dice (légei)»; essa «conoscerebbe così se stessa. Ma siccome gli enti giungono ad
essa solo dall’alto, ed essa stessa viene da lì, il conoscere se stessa conviene ad essa, che è parola
[lógo(i) ónti] e che coglie ciò che è del suo stesso genere, adattandolo alle tracce che sono in
essa». L’intelletto pratico (praktikòs) può limitarsi ad occuparsi degli oggetti della conoscenza,
senza tenere conto del proprio atto, ma soltanto l’intelletto teoretico può compiere l’epistrophé,
cioè può volgersi verso se stesso, realizzando così anche la propria gnôsin.
Come si vede, e del resto è ben noto, nel neoplatonismo esistono due vie: una che «dall’alto»,
cioè dall’al di là dell’essenza (l’Uno, la prima ipostasi), porta «in basso» (all’anima, alla terza
ipostasi), attraverso la mediazione dell’intelletto (dell’essenza, la seconda ipostasi); l’altra che
invece dal basso, attraverso l’epistrophè e la hesykhía – la «calma» che avevamo incontrato già
nel Carmide –, riporta il saggio – infatti proprio della saggezza si tratta – verso «l’alto».
L’anima, invece, è divisa per definizione: una parte d’essa si volge verso gli oggetti esterni,
mentre un’altra, attraverso l’atto dell’intelletto, tende a ritornare verso l’Uno.
Naturalmente questa divisione non ha nulla a che vedere con quella divisione costitutiva del
soggetto della quale parla Freud, e non dobbiamo precipitarci ad assimilare delle funzioni che
sono diversissime. Dobbiamo invece soltanto mettere in luce il problema logico comune anche a
testi tanto distanti e diversi come quelli di Plotino, di Cartesio e dello stesso Freud, per vedere se,
logicamente, la psicanalisi, rifiutandosi di divenire «filosofia» – ma questo significa per noi
soltanto ch’essa si rifiuta di pensare il proprio pensiero sino in fondo –, può essere in grado di
risolvere anche i problemi essenziali della propria esperienza. A questa domanda, certo, abbiamo
già risposto negativamente. Questa esplorazione sommaria delle posizioni di Platone e di Plotino
sul problema della conoscenza, in realtà, ci serve solo ad intendere meglio sia l’elaborazione
logica compiuta da Cartesio a proposito del cogito, sia, più fondamentalmente, quale può essere
la nostra articolazione logica del cogito, vale a dire quale può essere il principio trascendentale
della scienza nuova.
346. Per quanto riguarda il principio della conoscenza, ch’è stato posto nell’intelletto,
abbiamo già visto che, al di là di esso, deve vigerne un altro, che assicuri all’intelletto stesso
l’unità fra il pensante e il pensato, che non sono lo stesso se non nell’atto. Ma l’atto è uno solo
perché partecipa dell’Uno, che è al di là dell’essenza, quindi anche al di là dell’intelletto. Ne
consegue che l’intelletto, per assicurare l’unità del proprio atto, deve anche riferirsi, nel pensiero,
all’al di là dell’essenza. L’Uno sovraessenziale, lungi dall’essere sospeso al di fuori del mondo
degli enti e delle essenze, interviene direttamente, invece, in ogni atto. Ma l’intelletto «è
molteplice, quando vuole pensare l’al di là. Certo, esso lo pensa, eppure, volendolo raggiungere
come semplice, produce in sÌ sempre qualcos’altro, che è molteplice». Le essenze, infatti, sono
molteplici, dal momento che devono essere distinte. Ma il principio (arkhè) dal quale esse
provengono, e quindi provengono anche gli enti, non può essere un’essenza, e tanto meno un
ente, allo stesso modo in cui il principio dell’intelletto dev’essere al di là dell’intelletto.
Questo principio (la prima ipostasi) non può pensare, perché, se pensasse, sarebbe molteplice,
e coinciderebbe con l’intelletto. Allo stesso modo, prima della molteplicità, dice Plotino, ci vuole
un’unità non misurabile (l’Uno del quale parla Platone nel Parmenide), unità che si trasmette poi
ipostaticamente all’unità della numerazione. Ciò significa che l’Uno – la prima ipostasi – non ha
nulla a che fare con il trait unaire di Lacan, perché l’uno misurabile è solo una manifestazione
nell’intelletto dell’Uno originario, ch’è sovraessenziale. L’al di là dell’essenza non è una
semplice «astrazione metafisica», tanto è vero che, come abbiamo visto, nulla assicura all’atto
stesso di tracciare dei tratti un valore di numerazione, se nessuno di questi tratti partecipa
dell’atto di contare, sostenendolo. Quindi, se dal punto di vista strutturale possiamo dire
certamente, come fa Lacan, che non ci sarebbe nessun contare senza questi tratti, dal punto di
vista genetico non possiamo che dire il contrario, cioè riconoscere che nessun tratto avrebbe un
valore numerico se non partecipasse dell’attività del contare come «già» costituita. Certo, questo
«già» deve stare fra virgolette, perché non ci stiamo esprimendo nei termini d’un tempo lineare
(sul problema del tempo ritorneremo solo più avanti), non fosse che perché non ci sarebbe
nessun tempo – né lineare né ciclico, né oggettivo né soggettivo – se non ci fosse «prima» – ma
«prima» solo logicamente – un’attività di contare.
Bisogna ammettere dunque, scrive Plotino, «un qualcosa di semplice prima degli atti; e così
vengono ammessi anche degli atti che rimangono sempre e delle ipostasi; e saranno le ipostasi, le
quali sono altre da ciò da cui prendono il loro essere, che invece rimane semplice». Se così non
fosse, «l’intelletto non sarebbe il primo atto», perché l’Uno non può sforzarsi di generarlo,
perché lo sforzo sarebbe indizio d’imperfezione. L’atto dell’Uno quindi non è uno sforzo, ma
un’emanazione, che non riduce la sua perfezione, come la luce prodotta dal sole non riduce la
luminosità del sole stesso. Tutte queste metafore saranno riprese ben presto dalla teologia
cristiana. Ciò che invece la teologia cristiana certamente non riprenderà è la concezione che
Plotino si fa dell’Uno sovraessenziale. «Ciò che è al di là dell’intelletto, è anche al di là della
conoscenza [epékeina gnóseos]; non ha bisogno di nulla, quindi nemmeno di conoscere. Il
conoscere è un certo uno, ma quello è senza il certo uno: se fosse un certo uno, non sarebbe
l’Uno stesso. Esso è prima del qualcosa. Perciò, in verità, è indicibile [árrheton]. Qualunque
cosa tu dica, tu dici qualcosa. Ma ciò che è al di là di tutto, ed al di là dell’intelletto nobilissimo,
e fra tutte le cose solo è vero, non ha nome, perché un nome sarebbe un altro, né è un qualcosa
fra tutte le cose, e non c’è un suo nome, perché nulla [è dicibile] su di esso. E tuttavia, come
possiamo, noi tentiamo di significarlo [semaínein] a noi stessi. [...] Se è così, se qualcosa è più
semplice di tutto, questo qualcosa non avrà il pensiero [nóesin] di se stesso, perché, se lo avesse,
avrebbe anche un essere molteplice. Quindi non pensa, né c’è pensiero su di esso». L’unico vero
«inconscio» è dunque, per Plotino, come per tutto il neoplatonismo (ma bisognerebbe fare
l’importante eccezione di Damascio), l’Uno sovraessenziale. E proprio qui inizia a delinearsi il
cammino che sarà poi quello della teologia apofatica («infatti noi diciamo ciò che non è, ma quel
che è, non lo diciamo»).
347. Questa concezione dell’Uno, evidentemente, poteva essere ripresa solo in parte dalla
teologia cristiana. L’Uno di Plotino ha senza dubbio un carattere divino; si tratta tuttavia d’una
divinità davvero «inconscia» a se stessa, la quale produce da sÌ l’intelletto, che però, in realtà,
non è nient’altro che una mediazione fra l’Uno e l’anima. Fra la prima e la terza ipostasi esiste
quindi una doppia continuità: da una parte l’Uno crea le proprie manifestazioni, dall’altra
l’anima ha il compito di tornare verso il proprio principio, attraverso una vera e propria
procedura ascetica. È certo comunque che l’Uno di Plotino non ha nessuna determinazione
personale, perché ogni determinazione – non solo la conoscenza di se stesso, ma persino l’essere
– lo renderebbe uguale alla seconda ipostasi. La teologia plotiniana, se per un verso è articolata
in termini spesso molto vicini a quelli che si sarebbe data ben presto la teologia cristiana,
dall’altro è una teologia perfettamente atea, perché l’Uno dà agli enti, attraverso l’intelletto, solo
le determinazioni che non ha. Esso è «più alto e maggiore di ciò che chiamiamo ente, perché è
superiore alla parola [lógoy], all’intelletto e alla sensazione, che ci ha dato, senza esserle».
Ma in che modo l’Uno ha potuto dare quel che non ha? Per il semplice fatto che la sua
manifestazione coincide con un affievolimento: la molteplicità dell’essere e dell’ente è un
affievolimento della realtà sovraessenziale. Il molteplice è un affievolimento dell’Uno. Proprio
per questo esso, pur essendo molteplice, tende a ritornare all’Uno, e diviene numerabile (ogni
non Uno è tuttavia un uno, in quanto partecipa di ciò che non raggiunge). «Che cosa è più
imperfetto dell’Uno? Il non Uno; infatti è molteplice. Ma, ciò nonostante, tende all’uno: perciò è
l’uno molteplice [hèn ára pollá]». Si passa così dalla prima alla seconda ipostasi, nella quale la
molteplicità è tuttavia unitaria, perché è una molteplicità di generalità, e non di singolarità. L’uno
molteplice è l’«uno tutti» (hèn pánta), perché è il «grande principio» (megále arkhé). A partire
dalla seconda ipostasi, ch’è principio, le cose vengono ad essere, attraverso il lógos, ch’è l’atto
dell’uno molteplice, mentre l’Uno è loro potenza (dynamis).
Beninteso, Plotino è costretto a intendere quest’ultima parola – che pure, come la parola
enérgeia (atto), è tratta da Aristotele – in senso non aristotelico, perché qui la prima ipostasi è
potenza, e non atto, come in Aristotele era potenza la materia, vale a dire l’opposta estremità
della serie degli enti, il non ente. Plotino non può far coincidere col nulla la sua divinità. Eppure,
in definitiva, se radicalizziamo logicamente le sue affermazioni, accade proprio questo.
L’ostacolo principale del pensiero neoplatonico è in definitiva appunto di ridurre la catena degli
enti all’emanazione d’una divinità sovraessenziale, ma senza poter eliminare un resto di non ente
ch’è del tutto indipendente dal principio e dall’Uno, e che quindi non è emanato da esso, dal
momento che il passaggio dall’Uno al molteplice (dalla prima alla terza ipostasi, attraverso la
seconda) è spiegato proprio con la limitazione imposta all’Uno da questo resto. La concezione
neoplatonica si risolve quindi in una concezione dualistica, come testimonia non solo la
cosmologia, ma anche l’etica. Infatti quest’ultima, per Plotino – ma lo stesso si potrebbe dire per
tutti gli altri grandi neoplatonici, benché in modi diversi per ciascuno e, ci pare, con l’unica
eccezione di Damascio –, è un’etica il cui ascetismo è formulato spesso in termini addirittura più
rigidi che nel cristianesimo. Le ultime parole del testo di Plotino che stiamo commentando,
«áphele pánta», «taglia via tutto», «rinuncia a tutto», sono un motto ch’esprime benissimo
questa concezione negativa dell’etica pagana, che può procedere solo per viam negationis, senza
poter pensare a niente che sia del registro della grazia, come può fare invece l’etica cristiana. Se
per esempio il tentativo di restaurazione del politeismo compiuto dall’imperatore Giuliano
fallisce, questo deve pur dipendere dal fatto che la concezione etica nella quale esso è articolato è
manifestamente molto più rinunciataria e molto più ascetica (nel senso deteriore del termine) di
quella cristiana. Certo, ciò che ora diciamo sul neoplatonismo non è del tutto generalizzabile.
Esistono delle eccezioni importantissime, per esempio Damascio, l’ultimo «diadoco»
dell’Accademia di Platone, al quale fu impedito di continuare ad insegnare dall’imperatore
Giustiniano. E di questa ricchezza, spesso contraddittoria, del neoplatonismo si avranno nuove
prove quando questa filosofia rifiorirà nel Rinascimento italiano.
VI. Dall’essenza all’ipostasi

348. Una particolare considerazione merita, nel testo di Plotino che abbiamo riassunto e
brevemente commentato nel capitolo precedente, la parola hypóstasis, che, dal quarto secolo,
assunse una funzione essenziale nella teologia cristiana, dal momento che venne utilizzata per
indicare le relazioni triadiche interne alla divinità. La parola non risulta molto antica, come del
resto attesta Socrate Scolastico in un passo della sua Historia ecclesiastica (III, VII): «Coloro
che trasmisero la sapienza greca fra i Greci definirono l’essenza [oysían] in molti modi, ma non
fecero quasi nessun riferimento all’ipostasi. Ireneo il Grammatico [alessandrino, uno dei teorici
dell’atticismo], nel lessico Attikístes, ritiene questo termine addirittura barbarico, dal momento
che non si ritrova in nessuno degli autori antichi e, se pure si trova, non ha lo stesso significato
che ha assunto ora. “Ipostasi”, nelle Fenicie di Sofocle significa “insidia”. In Menandro invece
significa “condimento”, come se ci si riferisse al deposito che resta in fondo al vino. È da sapere
comunque che il termine non si ritrova in nessuno degli antichi filosofi; tuttavia i filosofi più
recenti hanno usato indifferentemente del termine “ipostasi” come sinonimo di “essenza”». Il
termine infatti ha un significato molto generico: «Ciò che sta o che rimane sotto», e si ritrova,
tuttavia non prima d’Aristotele e Teofrasto, in contesti molto diversi. Per questi ultimi due autori
esso significa «sedimento» (per il secondo quello dell’urina). Ma hypóstasis si trova anche in
altri autori successivi, con il significato di «cumulo» (di nubi), di «argomento» (d’un testo), di
«fondazione» (d’edifici), di «coraggio», «risoluzione», «determinatezza», «impegno»,
«promessa». Tuttavia può significare anche «durata», oppure «origine», e non è casuale che in
questo significato intervenga spesso nella Bibbia dei Settanta, per esempio nel Salmo 88 (89),
48: «mnéstheti tís moy he hypóstasis», letteralmente «ricordati di quale sia la mia durata», vale a
dire «di quanto sia breve la mia vita» (ma la Vulgata traduce: «Memorare quae mea
substantia»); oppure nel Salmo 138 (139), 15: «he hypóstasis moy en toîs katotátois tês gês», «la
mia origine nel più profondo della terra».
Nel Nuovo Testamento il termine è attestato due sole volte, nella Lettera agli Ebrei (1, 1-4;
11, 1), che varrà la pena di citare: «Dopo aver parlato in antico ai nostri padri per frammenti e in
modi diversi mediante i profeti, in questi ultimi giorni Dio ci parlò mediante suo Figlio, che
costitué erede di tutto l’universo e attraverso il quale creò anche i Tempi [aiônas]. Egli è
irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza [kharaktèr tês hypostáseos]; porta
tutto con la parola della sua potenza [to(i) rhémati tês dynámeos], attua la purificazione dei
peccati e “siede alla destra” della maestà sulle cime, reso superiore agli angeli di tanto, in quanto
erede d’un nome più eccellente del loro». Il secondo passo dice invece che «la fede è hypóstasis
[«sostanza», vale a dire certezza, come solitamente si traduce] delle cose sperate, convinzione di
quelle non vedute». È evidente che in nessuno di questi due passi hypóstasis ha ancora assunto il
significato che gli verrà dato dopo Nicea, anche se Basilio, nella Lettera 38 al fratello Gregorio,
sulla quale ritorneremo, tenta di ritrovarlo nel primo (e naturalmente, con la sua abituale agilità
esegetica, ci riesce benissimo).

349. Ragioniamo per un attimo in termini linguistici. L’affermarsi d’un nuovo vocabolo è
segno evidente d’una evoluzione della lingua. Se Ireneo il Grammatico trova «barbarico» il
termine hypóstasis, ciò non accade senza motivi. Si tratta d’uno di quei termini astratti e generici
che tendono ad affermarsi quando le lingue «invecchiano». L’ampiezza della gamma di
significato che assume la parola hypóstasis dipende proprio dal fatto che il suo significato è
assolutamente generico. Ma i destini delle parole sono complessi come quelli di tutte le cose del
mondo. Una parola che ha successo, in quel greco in buona parte artificiale ch’è la koinè
ellenistica, proprio perché essa è facile da usare, essendo così indeterminata, viene a determinarsi
poi con molta precisione nel quarto secolo, indicando un concetto che non si ritrova
esplicitamente nella filosofia antica, anche se il suo posto e la sua funzione sono già chiaramente
determinati sia in Platone, sia in Aristotele. Comunque sia, il fatto che hypóstasis inizi ad essere
usato in campo filosofico è indice d’un allargamento o d’una precisazione della riflessione logica
e filosofica classica, ma anche d’una modificazione del valore degli altri termini filosofici. La
distinzione fra «essenza» ed «ipostasi» non sempre è precisa e ben determinata, ma ciò non
significa affatto che i due termini vengono usati indifferentemente, come pure crede Ireneo il
Grammatico. Non esistono sinonimi che siano del tutto equivalenti. Ammettendo pure che i due
termini lo siano, è evidente che il termine oysía è riferito alla determinazione logica dell’essere,
mentre il termine hypóstasis è riferito invece ad una situazione di permanenza implicita (e questo
significa appunto che i due termini hanno significati diversi). Da un certo punto di vista, anzi,
hypóstasis è estremamente lontano da oysía, nella misura in cui la sua conformazione è molto
simile a quella del termine aristotelico hypokeímenon (subiectum in latino), termine che, prima
d’adattarsi ad avere il significato che ha oggi il termine «soggetto», era riferito invece alla
hy<‘>le<->, alla materia, ch’è ben lungi dall’essere prossima all’essenza, perché invece è la
mera potenza, priva d’ogni forma (benché per Aristotele anche la materia sia una causa;
probabilmente anzi proprio dalla concezione aristotelica della causa materiale inizia ad aprirsi lo
spazio concettuale che verrà poi occupato dalla parola hypóstasis). Fra hypokeímenon e
hypóstasis c’è lo stesso rapporto che c’è in latino fra subiectum e substantia; quest’ultimo
termine poi, come nota Agostino, sarebbe stato il più adatto a tradurre il termine hypóstasis, se
non avesse finito per divenire sinonimo d’essentia, che invece è la traduzione di oysía. Anche
questo slittamento dei termini nella traduzione latina è indizio d’una trasformazione implicita
nella mentalità antica: il sottostante – il subiectum –, che in un primo momento era considerato
come mero non essere, comincia a venire considerato «sostanzialmente», in termini
contraddittori con quelli della filosofia platonica e aristotelica.
Evidentemente, se Plotino usa il nuovo termine hypóstasis, al posto di quelli tradizionali e
platonici, è perché sa bene che esso non ha lo stesso loro significato. L’Uno, l’intelletto e l’anima
non hanno affatto la stessa essenza, dal punto di vista platonico classico (come potrebbero
averla, del resto, se l’Uno è sovraessenziale, e quindi non ha nessuna essenza?). Essi sono tre
stati differenti d’un qualcosa che permane sotto le loro differenze. Ora, che cosa può essere
questo qualcosa? È questo il vero problema del neoplatonismo (al quale a dire il vero solo il
cristianesimo darà una soluzione). Plotino non nomina questo quid che «sta sotto» le tre ipostasi.
Potremmo dire che questo quid è l’Uno stesso, perché da esso viene «generato» – è la parola che
Plotino usa nel testo Sulle tre ipostasi del principio (V,I) –, se lo stesso Uno sovraessenziale non
fosse già la prima ipostasi. Questo quid, di conseguenza, non solo è árrhe<->ton, indicibile,
come l’Uno, ma è anche innominato, e non può che restare innominato, perché esso è incluso
nella prima ipostasi, senza, in verità, che possa esserlo, dal momento che l’Uno, se veramente è
sovraessenziale, non potrebbe neppure essere riconosciuto come un’ipostasi, perché non
potrebbe essere un’ipostasi dell’indicibile senza cessare, così, d’essere sovraessenziale. Su
questo punto, d’altra parte, si soffermerà Damascio, che distinguerà l’Uno dal principio davvero
indicibile e sovraessenziale. Tutto questo significa che ci troviamo di fronte, ad un problema che,
lasciato del tutto in sospeso da Platone – il Parmenide, il testo che più approfondisce questo
tema, non tenta neppure di trovare una sua soluzione –, verrà risolto solo dal cristianesimo,
quando alla prima ipostasi sovraessenziale verrà sostituita una prima ipostasi essenziale – il
Padre –, lasciando però del tutto aperta, come nello Pseudo-Dionigi, la dimensione della
sovraessenzialità trans-triadica della divinità.

350. In ogni caso, è del tutto evidente che il cristianesimo verrà ad avere una funzione
imprescindibile in questa problematica della filosofia tardoantica, dal momento che non si limitò
affatto ad assumerne alcuni termini, per sostenere il proprio dogma con una parvenza di
ragionevolezza – come si crede di solito, e come del resto gli stessi Padri lasciano credere, ogni
volta che si rifiutano di superare un certo limite nella determinazione della divinità –, ma fece
compiere a quella problematica un passo molto importante proprio dal punto di vista logico. Il
termine hypóstasis, come abbiamo già accennato, non fa parte delle parole chiave del
cristianesimo primitivo. Esso compare, abbiamo detto, solo nella Lettera agli Ebrei, e nulla lascia
supporre che il suo significato, qui, abbia un valore trinitario. La lettera tenta di mostrare come
Cristo sia il messia annunciato nelle antiche profezie. Ora, è proprio nello spirito ebraico che
Cristo è definito kharaktèr tês hypostáseos aytoy: «impronta della sua sostanza», abbiamo
tradotto; ma dobbiamo tener conto del fatto che il testo parla qui del rapporto fra il Dio biblico, il
cui Nome è impronunciabile, e le sue manifestazioni. Cristo è insomma al tempo stesso
l’Immagine e il Nome del Dio invisibile e innominabile. Cristo è la «faccia» di Dio, il suo
prósopon (questo termine affiancherà hypóstasis nella teologia trinitaria, e verrà precisamente
tradotto in latino con persona, cioè con una parola che poi verrà indebitamente utilizzata anche
per tradurre il più astratto termine hypóstasis). Cristo è dunque la «faccia» e il Nome di Dio,
come sostenevano i cristiani ebrei fra il primo ed il secondo secolo, e proprio per questo il testo
aggiunge che egli è «superiore agli angeli»: infatti fra gli Ebrei il messia veniva assimilato agli
angeli (Jean Daniélou, nella Teologia del giudeo-cristianesimo, scrive che già Filone «assegna
agli angeli il Lógos come capo, il quale è “il più anziano degli angeli, così da essere chiamato
arcangelo”. D’altra parte il Lógos è il malak Jahweh che si manifesta nelle teofanie [...]. Ma
speculazioni analoghe possono essere esistite anche nel giudaesimo palestinese»). Il termine
«ipostasi», di conseguenza, nella Lettera agli Ebrei, non ha ancora alcun riferimento trinitario
esplicito, anche se, evidentemente, ci troviamo già sulla strada che porterà a farglielo acquisire,
dal momento che la determinazione triadica nel cristianesimo antico è strettamente connessa al
problema dei Nomi e delle manifestazioni di Dio. Come in Plotino, di conseguenza, anche nella
Lettera agli Ebrei l’ipostasi è riferita all’indeterminato, all’árrheton, al Dio senza immagine, e
occorrerà una lunga riflessione logica e teologica perché il termine hypóstasis giunga ad indicare
le determinazioni triadiche. Ancora per Giustino e per Clemente Alessandrino il Figlio è una
perigraphé, una determinazione – ma anche una delimitazione – dell’aperígraptos,
dell’indeterminabile, vale a dire del Padre.
D’altronde in Taziano, ad esempio, il termine hypóstasis interviene ancora senz’alcun
riferimento trinitario, per esempio in questo passo (Oratio ad Graecos, 5): «Il Signore
dell’universo, essendo egli stesso ipostasi dell’universo, era solo, in quanto la creazione non
aveva ancora avuto luogo ma, in quanto potenza ed ipostasi delle cose visibili ed invisibili,
l’universo era con lui». Il termine hypóstasis, in questo passo, è riferito al tempo stesso al Padre,
in quanto egli è ipostasi d’un mondo che non è stato ancora creato, e al mondo, in quanto esso è
«con lui», prima ancora d’essere, ma solo «in quanto potenza ed ipostasi» di se stesso. Il
concetto d’ipostasi, qui, come nella Lettera agli Ebrei, non s’è ancora determinato esattamente.
Tuttavia, delle formule evidentemente trinitarie iniziano a profilarsi nella letteratura cristiana, per
esempio in questo breve passo d’Ireneo (Adversus haereses, III, 18): «Il Padre è chi unge, il
Figlio è l’unto, lo Spirito è l’unzione». Questo passo anticipa chiaramente la relazione triadica
come verrà precisata da Agostino, nel De Trinitate, con le tre parole amans, amatum ed amor.
Ma in Clemente Alessandrino, un autore che conosce molto bene la filosofia greca, il termine
hypóstasis non è ancora usato in riferimento alla relazione triadica.

351. È invece Origene il primo che inizia ad usare il termine hypóstasis in relazione al Figlio,
ma ancora senza distinguerlo nettamente da oysía e da hypokeímenon (De principiis, I, 2, 2). Il
Lógosha una sua ipostasi distinta da quella del Padre, ed anche una sua essenza e un suo
subiectum. Ciò consente ad Origene di rifiutare il termine perigraphé, che giustamente associa
alla limitazione. Tuttavia se Dio, in quanto tale, è aperígraptos, una certa perigraphè resta,
quando si tratta del Figlio. Scrive Orbe: «Origene ammette espressamente che il Figlio è una
perigraphé. Egli nega unicamente che l’oysía del Figlio possieda una perigraphè distinta
dall’oysía del Padre. In effetti questa [...] non ha delimitazione: Dio, come tale, è
incircoscrittibile [aperígraptos]. È la sua dynamis (=Verbo, Sapienza), cioè il Figlio, che
possiede la delimitazione. E proprio la perigraphè della dynamis divina è quella che costituisce il
Figlio, immagine concreta e conoscibile della sostanza invisibile e incircoscrittibile di Dio». E
Jean Daniélou, che cita questo passo in Messaggio evangelico e cultura ellenistica, commenta
che questa osservazione «dà la chiave della difficoltà fondamentale della teologia trinitaria prima
di Nicea», come conferma un passo d’Origene (De principiis, II, 9, 1) citato da Daniélou subito
dopo: «Bisogna dire che la potenza [dynamis] di Dio è limitata [peperasméne] e riconoscergli
una perigraphé. Se la potenza divina fosse infinita, essa non potrebbe conoscersi».
Questa difficoltà, a dire il vero, non è molto diversa da quella che abbiamo segnalata nella
concezione plotiniana dell’Uno: la prima ipostasi è qui anche non ipostatica, in quanto il Padre è
al tempo stesso pensato come un’ipostasi (quindi come determinato, quindi come nominabile e
nominato), e come «contenitore» della sovraessenzialità divina (che di per sé è indeterminabile e
innominabile). Questa difficoltà, a dire il vero, non è affatto perfettamente risolta dal concilio di
Nicea, anche se in esso si pongono senza dubbio le basi dogmatiche della sua soluzione, basi che
però non impediranno alla maggior parte dei teologi di continuare a ripetere che Dio è
nominabile «ma sino a un certo punto»: misura di prudenza certo giustificata dalla delicatezza
del problema, ma soprattutto dal fatto che la difficoltà della sua impostazione dipendeva da punti
dottrinali che avevano (ed hanno ancora, dopo quasi due millenni) anche un valore
immediatamente politico. Non bisogna dimenticare che per molti secoli questioni che a noi
paiono spesso meramente formali (come non sono mai state) hanno suscitato o giustificato
processi, persecuzioni, e addirittura delle guerre. In realtà, a nostro avviso, soltanto nella
tradizione teologica che va dallo Pseudo-Dionigi, a Gregorio Palamas ed alla teologia russa
contemporanea (pensiamo per esempio a Sergej Bulgakov) questo problema è stato
effettivamente impostato sulla base d’una reale determinazione reciproca e contemporanea delle
tre ipostasi, mentre, al di fuori di questa tradizione veramente ortodossa, sia fra i teologi latini,
sia fra i greci, la vexata quaestio della processio della terza ipostasi, lo Spirito, ha continuato a
segnalare un’insufficiente articolazione, prima di tutto logica, dell’impostazione della dogmatica
trinitaria.

352. Come abbiamo già segnalato nella Formazione a proposito del problema dei Nomi del
Padre, la questione del Filioque, non ancora risolta dal punto di vista ecclesiastico, è indizio
d’una difficoltà a pensare la determinazione essenziale triadica e trisipostatica della divinità
innominabile ed inimmaginabile, cioè sovraessenziale. La determinazione essenziale – ch’è
possibile solo attraverso la funzione del Nome – infatti è introdotta solo dalla seconda ipostasi: il
Figlio, che però, nella concezione giudaico-cristiana, non aveva affatto una determinazione
ipostatica, ma era essenzialmente il Nome del Padre, vale a dire una manifestazione del Padre,
equiparabile alle diverse teofanie esposte nell’Antico testamento, gli strumenti delle quali erano i
messaggeri della parola divina (gli angeli); il Figlio, in questo contesto, non è altro che la Parola
del Padre. Ma nella concezione giudaica l’innominabilità del Padre (che può facilmente tradursi,
nella cultura greca, nella sovraessenzialità divina) s’accompagna ad una forte determinazione
«personale» del Padre stesso. Anche nel cristianesimo il Padre tende, in quanto ánarkhos, «senza
principio», ad inglobare in sé i caratteri della sovraessenzialità. La confusione logica diverrà
totale quando più tardi si finirà per attribuire alla perfezione delle determinazioni essenziali
trinitarie l’innominabilità divina, che viene intesa allora come un effetto della perfezione
essenziale della divinità. Così, ad esempio, Tommaso d’Aquino, quando commenta il De divinis
nominibus dello Pseudo-Dionigi, interpreta sempre la parola «sovraessenziale», che vi ricorre
spessissimo, come un vero e proprio superlativo d’«essenziale», il che comporta evidentemente
uno stravolgimento totale del significato del testo commentato. È vero infatti che lo Pseudo-
Dioinigi attribuisce l’aggettivo «sovraessenziale» alle tre ipostasi assolutamente essenziali, ma è
anche vero che lo fa solo perché ciascuna di esse esprime nell’essenza assoluta una
determinazione data ad essa dalla divinità sovraessenziale. Ciò significa che la teologia cristiana
– con la sola eccezione della tradizione ortodossa più coerente – pensa il Padre al tempo stesso
come la divinità sovraessenziale e come una delle tre ipostasi omoessenziali, giungendo, con la
scolastica, a fare della sovraessenzialità una determinazione dell’essenzialità. In questo modo,
però, la teologia cristiana assume al proprio interno lo stesso problema che abbiamo già
riscontrato a proposito dell’Uno di Plotino, ch’è al tempo stesso sovraessenziale ed ipostatico, e
ciò, dal punto di vista ortodosso – vale a dire essenzialmente dal punto di vista della tradizione
palamita – significa una cosa soltanto: che la teologia cristiana stessa diviene una forma
d’ateismo, in quanto la divinità è ridotta ad essere la semplice e vuota astrazione dell’ens
realissimum.
L’unico modo di non giungere a questo è invece di distinguere radicalmente la paternità, cioè
la non generazione del Padre, dalla sovraessenzialità divina. Molto giustamente Gregorio
Palamas – che da questo punto di vista, qualunque cosa ne pensi la chiesa cattolica, è il più
ortodosso dei teologi cristiani – nota che Dio è innominabile, se ci si riferisce alla sua dynamis,
la quale dev’essere considerata come un riflesso, nel Dio trisipostatico, della divinità
sovraessenziale, e la quale proprio per questo consente di comprendere in che modo Dio
interviene direttamente nel mondo, mentre per un altro verso è non solo nominabile, ma
nominato, e principio d’ogni nominazione e d’ogni comprensione, perché proprio nella sua
nominazione consiste l’opera del Lógos, cioè della Parola.
Ora, la nominabilità o conoscibilità della divinità dipende anche dall’enérgeia divina, la quale
è essenziale quanto la dynamis per intendere le modalità dell’intervento divino nella storia. La
differenza fra i due aspetti dell’azione divina viene concepita da Palamas come la differenza fra
la manifestazione diretta della divinità, la quale, al livello della dynamis, comporta l’intervento
immediato di Dio nella storia, anche fuori dai limiti imposti dalla creazione e dal linguaggio (è
questa l’interpretazione palamita delle teofanie), e la manifestazione divina che si svolge invece,
al livello dell’enérgeia – indirettamente e simbolicamente, vale a dire nella creazione ed
attraverso la mediazione della Parola e della legge. Ma questi due aspetti del manifestarsi della
divinità nella storia non sono, per Palamas, del tutto equivalenti. Infatti la creazione (l’enérgeia)
è una funzione e un’espressione della dynamis, mentre non si può dire affatto il contrario. La
potenza infatti è riferibile senza ulteriori determinazioni alla divinità sovraessenziale, come si
deduce dal determinarsi di questa nell’essenza trisipostatica e nella creazione, mentre l’atto
divino è riferibile solo al Dio trisipostatico ed essenziale. L’enérgeia divina consiste dunque in
un movimento di secondo livello, con il quale la divinità – in primo luogo sovraessenziale, in
secondo luogo trisipostatica – si riappropria della sua creazione, riducendo l’intervallo che la
morte ed il peccato hanno aperto fra Dio ed il creato, ma tenendo conto della creazione stessa
come d’un già dato. Le due funzioni della potenza e dell’atto, di conseguenza, non sono e non
possono essere simmetriche, come non sono simmetriche la sovraessenzialità divina e
l’omoessenzialità delle ipostasi. Si vede a questo punto quanto la concezione palamita sia
lontana da quella cattolica: per la prima il creato è continuamente e direttamente a contatto con la
divinità, nonostante il fatto che essa opera in modi completamente differenti da quelli possibili
nel reale già ben definito del mondo; per la seconda, invece, Dio si limita a sostenere il mondo
dall’esterno, ma non può operare al suo interno se non con eccezioni che però non modificano
affatto le leggi della creazione, alle quali curiosamente sottostà lo stesso Dio, perché ogni
teofania, nella concezione latina, è appunto una creazione transitoria, che ha il valore d’un
semplice messaggio. La teofania è ridotta insomma, nel cattolicesimo, a non essere niente più
che una significazione.
Non è una differenza secondaria, come potrebbe sembrare, dal momento che essa finisce per
produrre degli effetti anche sulla cristologia. Infatti, come può il Lógosessersi fatto uomo senza
venire creato, se anche il suo concepimento avviene secondo il modello della creazione?
Naturalmente, nessun teologo latino ha mai detto esplicitamente questo, perché dirlo
significherebbe negare la realtà dell’incarnazione della seconda ipostasi. È vero comunque che il
riferimento dogmatico interviene qui a porre un riparo apparente ad un’inconseguenza della
costruzione teologica esplicativa del dogma, dal momento che, fatta salva l’omoessenzialità delle
tre ipostasi, l’uomo Cristo rischia continuamente d’essere pensato come una riduzione umana –
in definitiva psicologica – della seconda ipostasi. Questo rischio si manifesta fra l’altro
nell’esegesi neotestamentaria ogni volta che, nei Vangeli, è in questione il non sapere di Cristo
(vi ritorneremo). Se quanto ora diciamo è vero, non sarebbe impossibile affermare che, dal punto
di vista palamita, la concezione trinitaria cattolica tende continuamente a scivolare su posizioni
semi-semiariane.

353. Ci pare in ogni caso indispensabile considerare la funzione delle ipostasi omoessenziali
(e quindi anche il significato del termine «ipostasi») all’interno della prospettiva aperta dal
dibattito palamita. Infatti la determinazione ipostatica – omoessenziale, e perciò relazionale –
non è semplicemente una determinazione interna dell’essenza divina, ma è prima di tutto un
modo di nominare l’innominabile. Una divinità del tutto innominabile non avrebbe alcuna
determinazione essenziale ed ipostatica, e sarebbe totalmente sovraessenziale. Ma una divinità
totalmente sovraessenziale non sarebbe in nessuna relazione col mondo e con il linguaggio, e si
confonderebbe necessariamente col non essere, dal quale invece l’al di là dell’essenza, benché
sia anche al di là dell’essere, è perfettamente distinto (benché lo stesso non essere possa apparire,
nel cristianesimo – e nell’ebraismo, ma di solito non nel neoplatonismo pagano –, come un
effetto della creazione. Anche su questo punto torneremo più avanti).
L’innominabilità divina, quindi, non appartiene al Padre, che anzi è Padre proprio perché è
nominato, né al Figlio, che è Figlio proprio perché nomina, né allo Spirito, che è la nominazione
stessa, e quindi determina anche il Padre, come è determinato a sua volta dal Padre e dal Figlio
(stiamo seguendo, come si vede, lo schema agostiniano: amans, amatum ed amor). Ma che
significato possiamo dare alla parola «determinazione», quando si tratta dell’essenza assoluta?
Certo non quello della perigraphé, cioè della limitazione. Ci riferiamo evidentemente solo alle
relazioni reciproche fra le tre «facce» della Triade. Ma, considerando la loro determinazione
reciproca come un effetto delle loro relazioni, noi non determiniamo le tre ipostasi solo in
relazione alla loro processio, come è accaduto quasi sempre nella dogmatica trinitaria. Il
concetto di processio infatti ricalca troppo strettamente il modello della generazione umana e del
divenire storico e causale delle cose del mondo per poter valere senza inconvenienti anche per la
determinazione ipostatica ed omoessenziale. Seguendo questo modello, di conseguenza, è del
tutto impossibile, nonostante le ripetute dichiarazioni dei teologi, che hanno sempre insistito sul
contrario, tenere conto del carattere atemporale delle determinazioni trisipostatiche. I modi della
processio, in altri termini, non esprimono e non possono esprimere le uniche relazioni fra le tre
ipostasi, le quali, se devono essere, come il dogma niceno stabilì più d’un millennio e mezzo fa,
effettivamente omoessenziali, devono essere anche perfettamente reciproche ed atemporali. Ciò
non significa che le relazioni trisipostatiche non possano essere anche causali. Significa invece
che non ci si può limitare, sullo schema filiatio/spiratio, a determinare le relazioni ipostatiche
sulla base d’un solo tipo di causalità (quella generativa, ch’è prerogativa del Padre, ma non del
Figlio e non dello Spirito), perché invece è assolutamente necessario tener conto, oltre che della
causalità generazionale (nel Padre), anche di quella della Parola (nel Figlio) e di quella
dell’amore (nello Spirito). Dire questo comporta ammettere che non solo il Figlio e lo Spirito
procedunt dal Padre (come ammette la teologia ortodossa), ma che anche il Padre e lo Spirito
procedunt dal Figlio (ma secondo una diversa causalità, cioè solo in quanto non sussisterebbero
se non fossero nominati e perciò determinati), e che pure il Figlio ed il Padre procedunt dallo
Spirito (nella misura in cui l’amore non può essere pensato solo come una conseguenza della
generazione, ma dev’essere pensato anche come una sua causa). Di queste tre forme di causalità
si tiene conto invece solo in parte e discontinuamente nella teologia cristiana, in quanto il «fatto
ad immagine» è servito troppo spesso più per proiettare sulla divinità i limiti della soggettività
che per utilizzare la logica implicita nel dogma niceno, ma assolutamente stringente ed
assolutamente immune da ogni psicologismo, per ripensare nel loro fondamento i limiti della
soggettività. In altri termini, se riteniamo doveroso occuparci del dogma trinitario, in un contesto
come questo, che sembra del tutto remoto da ogni problematica teologica (dopo tutto stiamo
ancora tentando di comprendere se ed in che modo il cogito cartesiano può essere il principio
d’una scienza), è soprattutto perché la dogmatica cristiana, sviluppatasi in un contesto di totale
astrazione da ogni soggettivismo, può offrirci un supporto imprescindibile per intendere qual è la
logica interna della soggettività, se noi consideriamo la soggettività non psicologisticamente,
cioè non come un oggetto del mondo, ma in relazione ad un assoluto: come dobbiamo fare, se
vogliamo pensare in modo trascendentale, cioè se vogliamo fondare un sapere, dal momento che
nessun sapere può essere fondato su un semplice dato oggettivo.

354. Ma ritorniamo al termine «ipostasi». È evidente da alcune testimonianze che esso, ancora
nel quarto secolo, non aveva perfettamente assunto il suo significato trinitario. Dal Tomus ad
Antiochenos di Atanasio risulta che nel 362, quarant’anni dopo il concilio di Nicea, nel sinodo
d’Alessandria, convocato per eliminare gli ultimi resti dell’arianesimo dal culto e dalla
dogmatica nelle chiese d’Egitto e di Siria, s’era posto il problema d’esaminare le posizioni di chi
sosteneva che in Dio c’è una sola ipostasi, per accertare se non si trattasse d’un’affermazione
sabelliana. «Essi affermarono», scrive Atanasio, «che non dicevano questo, e che non lo avevano
mai pensato, ma che dicevano “ipostasi” pensando che sia lo stesso dire “ipostasi” e dire
“essenza”; e che la pensavano una, perché il Figlio è dell’essenza del Padre, ed anche a causa
dell’identità della natura». Ciò significa che quattro decenni dopo Nicea la distinzione fra
«essenza» ed «ipostasi» non era ancora perfettamente nota e assimilata.
La prima distinzione molto netta ed articolata fra i due concetti si trova nella lettera 37, alla
quale ci siamo riferiti di sfuggita già in precedenza, di Basilio di Cesarea al fratello Gregorio,
l’interesse della quale sta soprattutto nel fatto che Basilio definisce il concetto d’ipostasi in modo
generale prima ancora d’utilizzarlo nella problematica trinitaria. Ciò dimostra ancora una volta
che il termine «ipostasi» è stato ripreso dalla dogmatica trinitaria cristiana, che ne ha precisato il
significato, pur essendo utilizzato genericamente e senz’alcuna relazione con la teologia e col
cristianesimo. «Di tutti i nomi», scrive Basilio, «alcuni, detti [legómena] di cose [pragmáton]
molteplici e differenti per numero, hanno una significazione [semasían] più universale, come
“uomo”. Dicendolo, e mostrando attraverso il nome la natura comune, non si delimita
[periégrapse] con questa voce un certo uomo, riconosciuto propriamente dal nome. Infatti Pietro
non è più uomo d’Andrea, di Giovanni e di Giacomo. Perciò la comunanza del significato [toy
semainoménoy], che abbraccia tutto ciò che è ordinato sotto lo stesso nome, ha bisogno d’una
distinzione, attraverso la quale sia riconosciuto non l’uomo in generale, ma Pietro o Giovanni».
In termini molto prossimi a quelli usati da Platone nella Lettera settima, Basilio considera
dunque il significato (che comprende sia la definizione, sia l’immagine, per riprendere i termini
platonici) come una funzione del significante (del nome). La semasía è qui, precisamente, il
concetto, in quanto può associarsi con rappresentazioni molteplici, costituendone il tratto unico
d’identità. Ma il significato, dice Basilio, essendo un concetto, ha solo un valore generale, e
quindi non indica nessuna singolarità. «Ma altri nomi hanno un’indicazione [éndeixin] più
propria, attraverso la quale si contempla internamente al significato [entheoreítai tô(i)
semainoméno(i)] non la comunanza della natura, ma la delimitazione d’una certa cosa [prágmatós
tinos perigraphé], che non ha nessuna comunanza con ciò che è dello stesso genere [pròs tò
homogenès] secondo l’individuato [katà tò idiázon], come “Paolo” o “Timoteo”. Infatti questa
voce non è riferita alla comunanza della natura ma, separando la significazione comprendente
[khorísasa tês perileptikês semasías], presenta attraverso i nomi l’espressione [émphasin] di
alcune cose». Esistono insomma dei nomi (dei significanti, diremmo oggi) che non hanno affatto
un significato generale, ma hanno un idiázon: un «individuato», abbiamo tradotto. Infatti
dobbiamo tener conto del fatto che si tratta di ciò ch’è individuato da un’indicazione la quale,
non avendo alcun valore generale, non coincide immediatamente con il significato (a meno che
non si precisino alcune modalità di formazione del significato stesso). Tutti i nomi propri, per
esempio, hanno la caratteristica che, per essi, il significato è sempre un’indicazione. Infatti il
nome proprio, come sappiamo dalla semiotica, è un significante il cui significato non è un
concetto generale, ma è il concetto d’una singolarità. Ora, possiamo parlare d’un «concetto di
singolarità» senza commettere con questo un errore, dal punto di vista logico? Possiamo farlo,
ma solo a condizione di considerare la singolarità come una generalità, cioè a condizione
d’includere l’indicato in un insieme con un solo membro. Solo questo artificio logico ci consente
di considerare un nome proprio come un significante. Il nome proprio è dunque un’entità
linguistica ch’è assimilabile per un verso ai significanti di valore generale (e perciò per esempio
il nome «Paolo» è riferibile indifferentemente a tutti i Paolo), ma che per un altro verso, cioè se
non operiamo l’artificio logico di prima, non potrebbe affatto essere considerato come un
significante. Infatti «Paolo» non ha nessun significato generale che comprenda tutti i Paolo, a
meno che non s’intenda il suo significato in modo ricorsivo, come «nome di tutti coloro che
hanno nome Paolo», ma in questo modo «Paolo» cessa d’essere un nome proprio, per divenire un
significante come qualsiasi altro. «Paolo», quindi, è riferibile di volta in volta a qualunque Paolo,
ma indica di volta in volta (e quindi significa di volta in volta) solo questo o quel Paolo. Invece,
per esempio, il significante «tavolo» può indicare indifferentemente questo o quel tavolo, ma
solo perché il suo significato è il concetto di tavolo, che ha un valore del tutto generale.
Possiamo dire allora che un nome proprio fa parte del gruppo di quei significanti il cui
significato è determinato solo dalla situazione d’enunciazione, come gli shifters o commutatori
(«io», «tu», «oggi» ecc.), con la differenza che, se negli shifters è comunque individuabile un
significato concettuale perché generale, anche se esso dev’essere ulteriormente determinato in
relazione alle condizioni d’enunciazione, un nome proprio invece pare non aver alcun
riferimento concettuale estraneo all’indicazione di questo o quel soggetto, di questa o quella
cosa, in questa o quella situazione enunciativa. Ciò non comporta, evidentemente, che questi
significanti (i nomi propri e i commutatori) non abbiano un significato, ma comporta che abbiano
un significato che non è determinabile solo in base ai dati dell’enunciato e del sistema
linguistico, perché è determinabile esclusivamente a condizione di tener conto anche dei dati
dell’enunciazione. Questa contrapposizione fra i significanti di valore generale e quelli di valore
enunciativo tuttavia non è assoluta, perché i dati sulle condizioni dell’enunciazione fanno sempre
parte del sistema linguistico, anche quando questo farne parte è del tutto implicito. Infatti anche
il significato d’un significante che abbia solo un valore generale è determinato anche dalla
situazione enunciativa, perché in definitiva un sistema linguistico è sempre il sistema linguistico
del tempo dell’enunciazione dell’enunciato, tant’è vero che una sola parola – per esempio
hypóstasis, come abbiamo visto – ha significati diversi (e quindi richiede traduzioni diverse) non
solo a seconda dell’enunciato complessivo nel quale è inserita, ma anche a seconda del momento
nel quale è stata enunciata.
Per quanto riguarda allora i nomi che non significano nulla, ma indicano, Basilio osserva che,
se essi sono utilizzati esemplarmente, per dimostrare un’affermazione di valore generale, e
quindi non sono usati in relazione alla loro indicazione singolare, ma come nomi di soggetti
qualunque, e quindi come fossero nomi dotati d’un significato generale, essi sono riferiti alle
cose significate allo stesso modo dei significanti il cui significato ha un valore generale:
«Quando dunque è cercata la definizione [lógos, è ancora il termine platonico] di due o più enti
nella loro identità [katà tò aytò], come di Paolo, di Silvano e di Timoteo, relativamente
all’essenza degli uomini, nessuno darà una definizione d’un’essenza che, nel caso di Paolo,
sarebbe altra da quella di Silvano e diversa da quella di Timoteo, ma le stesse parole [lógon] con
le quali è indicata l’essenza di Paolo si adatteranno anche agli altri; e coloro che sono definibili
[hypographómenoi] con la stessa definizione [lógo(i)] dell’essenza sono reciprocamente
omoessenziali [allìlois homooysioi]».
Il difficile concetto di homooysía (consustanzialità, come solitamente si traduce, ma
preferiamo restare più vicini al termine greco, rendendolo con omoessenzialità), messo a punto
con tanta fatica dalla teologia cristiana fra il terzo e il quarto secolo, viene quindi
immediatamente utilizzato da Basilio nella sua generalità, come un concetto che non è
applicabile solo in relazione alla Triade divina, ma a qualunque insieme di soggetti (o di oggetti:
tre sedie non sono meno omoessenziali di tre persone o delle tre ipostasi della Triade; non lo si
dice per il semplice motivo che tre sedie non hanno nomi propri diversi, e vengono indicate con
altri mezzi d’individuazione, come accade del resto quando più persone presenti hanno lo stesso
nome proprio).
Chiarito così il concetto di omoessenzialità, Basilio passa a considerare quello d’ipostasi, con
gli stessi criteri che lo avevano guidato in precedenza. «Ciò che è detto propriamente è indicato
con la parola “ipostasi” [tò idíos legómenon tô(i) tês hypostáseos deloysthai rhémati]. Chi infatti
dice “uomo” produsse, all’ascolto, un confuso riferimento intellettivo [diánoian]
all’indeterminato della significazione, in modo da intendere, con il nome, la natura, ma da non
significare la cosa sottostante e propriamente intesa sotto il nome. Chi disse “Paolo” mostrò
invece, in ciò ch’è inteso sotto il nome, la natura sottostante alla cosa. Questa è dunque
l’ipostasi, non l’indefinita intellezione [énnoia] dell’essenza, che non trova nessun punto fermo
per via della comunanza del significato, ma quello che arresta e determina ciò ch’è comune ed
indeterminato in ciascuna cosa attraverso le proprietà fatte apparire». L’ipostasi è quindi una
determinazione singolare dell’essenza, effettuata in base alla definizione d’alcune proprietà
costitutive dell’essenza stessa, ma non precisate in essa.
Come aveva fatto poco prima a proposito dell’omoessenzialità, Basilio suggerisce ora al
fratello di trasferire «ai dogmi divini quella definizione [lógon] della differenza che riconoscesti
a proposito dell’essenza e dell’ipostasi». Neppure il concetto d’ipostasi, come quello
d’omoessenzialità, è riservato all’esegesi del dogma trinitario. Esso è un concetto utilizzabile in
ogni contesto, perché è il concetto ch’esprime ciascun elemento individuabile e determinato del
lógos(cioè della definizione, vale a dire del concetto che in essa è espresso) di ciascun nome (di
ciascun significante). La determinazione trisipostatica di Dio è quindi ineliminabile da ogni dire
che riguardi Dio proprio perché è logicamente ineliminabile. Ma proprio perché è logicamente
ineliminabile essa nulla toglie all’unicità della divinità.
VII. Logica triadica e principio di causalità

355. Una volta chiarito come il concetto d’ipostasi, nel pensiero filosofico antico, sia
un’articolazione logica essenziale e del tutto necessaria, dobbiamo cercare di comprendere per
quale motivo le ipostasi – non solo nella teologia cristiana, ma anche nel neoplatonismo pagano
– sembrano avere una tendenza naturale a disporsi in modo triadico. Per quanto riguarda il
cristianesimo, non possiamo richiamarci alle sue fonti scritturali, perché nel Vecchio testamento
non c’è alcuna traccia d’una concezione triadica della divinità, e nel Nuovo c’è solo un passo che
suggerisca immediatamente l’idea della Triade divina: «Mi fu data ogni facoltà, in cielo e sulla
terra. Dunque mettetevi in cammino e insegnate [matheteysate] a tutti i popoli, battezzandoli nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, istruendoli a custodire tutto ciò che v’ho
affidato; ed ecco, io sarò con voi tutti i giorni, fino al compimento del Tempo [aiônos]» (Mt 28,
18-20). Si tratta d’un passo importante, sia perché in esso viene riepilogato il senso del
messaggio cristiano, sia perché questo riepilogo contiene la formula, esplicitamente trinitaria, del
battesimo. Il battesimo stesso consiste nell’accettazione, da parte del fedele, del compito della
custodia di «tutto ciò che v’ho affidato», e quest’accettazione avviene, nel rito battesimale,
attraverso l’assunzione, da parte del fedele, della morte di Cristo (Rm 6, 3-4). Chi è stato
battesimato è morto con Cristo, ed aspetta la propria resurrezione, della quale quella di Cristo è
«primizia» (1 Cor 15, 20).
Nonostante il passo del Vangelo secondo Matteo che abbiamo appena citato, è stato
necessario un lavoro molto lungo e faticoso perché la chiesa giungesse a fissare, nel concilio di
Nicea, il dogma trinitario come punto essenziale della professione di fede cristiana. Ma, durante i
secoli nei quali fu elaborata la dogmatica trinitaria, anche la filosofia pagana greca insisteva,
benché lo facesse su basi del tutto differenti, sulle relazioni triadiche fra le ipostasi e i principi.
Abbiamo già parlato di Plotino, a proposito dell’Uno, dell’intelletto e dell’anima, ma potremmo
anche fare il nome di Proclo, uno degli ultimi grandi pensatori pagani, che strutturerà
triadicamente l’intero sistema della Teologia platonica, e quello di Damascio. Da dove viene
allora questo privilegio, anzi questa necessità della triade nella logica ipostatica?

356. Per orientarci nell’impostazione del problema riferiamoci ad un testo. Per la chiarezza e
la concisione delle sue affermazioni attorno alla Trinità, scegliamo la Cribratio Alchorani di
Cusano, testo nel quale il filosofo quattrocentesco tenta di dimostrare, col Corano alla mano, che
l’islam non è altro che una variante imprecisa d’un’eresia cristiana. Nel secondo libro dell’opera,
Cusano afferma che il dogma trinitario non scalfisce minimamente l’unità di Dio, ma è anzi la
necessaria conseguenza d’una triadicità visibile in tutte le cose del mondo. Il mondo, dice
Cusano, è «necessariamente sia trino che uno», e addirittura «unitrino» (II, V). Per dimostrarlo,
egli considera l’intelletto, nel quale «c’è una fecondità che genera da sé il verbo o concetto
intellettuale, e da essi procede l’amplesso o volontà [...]. Come infatti ciò che non si conosce non
si ama, così dalla mente e dalla conoscenza non può non derivare la volontà». Trascuriamo pure
il fatto che Cusano fa derivare la volontà (la terza ipostasi trinitaria) dalle prime due (come nella
versione latina del Credo), e sembra dimenticare che, senza volontà, è ben difficile comprendere
e conoscere (su questo punto, al quale del resto abbiamo accennato già nel capitolo precedente,
torneremo fra poco), e vediamo invece come egli mostra che la divinità è necessariamente
triadica: «È chiaro quindi che [...] possiamo essere guidati alla comprensione della Trinità divina.
Non si può dire infatti che Dio non conosca se stesso. Ora, se Dio conosce se stesso, genera da sé
il concetto o il Verbo di se stesso. Ma il generatore del Verbo ed il Verbo generato, cioè il
concipiente ed il concepito, non sono la stessa cosa, e neppure una cosa diversa, nell’essenza
divina, poiché Dio genera un concetto di se stesso tale che non può essere più perfetto. Esso
pertanto gli sarà uguale di uguaglianza sostanziale, che è più perfetta di quella accidentale, per
cui non sarà affatto di un’altra natura o essenza. E così anche l’amore che procede da essi non si
può identificare con questi princìpi da cui procede, ma neppure può dirsi un’altra cosa, essendo
esso perfettissimo prima di ogni alterità e quindi consustanziale a quei principi da cui procede».
Cusano quindi, come Agostino nel De Trinitate, parte dall’osservazione di quanto accade
nella soggettività, in base al «fatto ad immagine» della Genesi. Un soggetto che conosce se
stesso, egli dice, si fa un concetto di se stesso, senza il quale non potrebbe conoscersi. Questo
concetto perciò non è separabile dal soggetto, pur essendone distinto in termini ipostatici. La
differenza fra il conoscente ed il conosciuto, generata dal concetto, genera a sua volta la volontà,
la quale non può procedere che da una differenza. Allo stesso modo potremmo dire che non si
può generare senza che ci sia qualcosa di generato e qualcosa che lo genera, che non si può
amare senza che ci sia qualcosa d’amato e qualcosa lo ama, e che non ci può essere pensiero
senza che ci sia qualcosa di pensato e qualcosa di pensante. Questo elenco, d’altra parte,
potrebbe continuare, includendo qualsiasi attività soggettiva, ma anche qualunque evento
naturale. Ciascun evento si struttura immediatamente in tre ipostasi essenziali, perché basterebbe
toglierne una per togliere, con questa, anche le altre due. Naturalmente, qualsiasi evento si
struttura in questo modo non di per sé, ma solo quando viene pensato. In ogni azione (ed in ogni
evento, in quanto viene necessariamente pensato da noi come un’azione) c’è un agente ed un
agito; se togliamo quest’ultimo, togliamo, con questo, anche l’azione e l’agente, e lo stesso
accade, naturalmente, con gli altri due termini. Questa necessaria triadicità, dicevamo, non
risiede nell’azione, ma solo nell’azione in quanto viene pensata in relazione ad uno schema
logico, secondo il quale ogni evento è la relazione fra un soggetto ed un oggetto, fra un
presupposto ed un effetto, fra una possibilità ed un fatto: comunque si vogliano determinare tali
relazioni reciproche, rimane ch’esse sono almeno tre e che, quand’anche apparissero più
numerose, sono sempre riducibili in termini triadici.
Naturalmente, bisognerebbe comprendere perché questo schema logico ha un valore così
universale. Potremmo forse supporre che la triadicità di soggetto oggetto ed azione sia
semplicemente la conseguenza del prevelere d’una struttura sintattica, cioè verbale, il quale
prevalere a noi appare del tutto naturale, ma solo perché ci è abituale. Tuttavia, se volessimo
accettare questa spiegazione molto facile, ci troveremmo immediatamente dinanzi ad un
ostacolo, perché anche azioni ed eventi che non sono formulabili verbalmente secondo lo schema
sintattico soggetto-verbo-oggetto sono passibili d’essere considerati triadicamente. Se ad
esempio ci riferiamo ad un’azione esprimibile con un verbo intransitivo, per esempio ad una
caduta, non possiamo formulare su di essa una frase il cui schema sintattico designi un oggetto.
Ciò non toglie che noi possiamo pensare (anzi non possiamo che pensare) triadicamente anche
un evento intransitivo come una caduta, se abbiamo un concetto di caduta (e certamente lo
abbiamo, chiaro o confuso che sia, perché conosciamo la parola «caduta»). Ora, una cosa che
cade non necessariamente è stata gettata. Tuttavia la sua caduta non è casuale, essendo l’effetto
d’una determinata serie di cause (nihil est sine ratione). Per quanto lunga possa essere questa
serie, noi la pensiamo in effetti, in quanto esistente, come prima ipostasi della caduta stessa; in
quanto determinata, per esempio da alcune leggi, come seconda ipostasi; in quanto evento,
invece, come terza. Ciò significa allora che lo schema sintattico soggetto-verbo-oggetto è più
l’effetto che la causa d’una struttura differente, la quale si manifesta in esso, ma non ne dipende.
Certo, possiamo ritenere che la triadicità delle ipostasi viene imposta da noi all’evento, in quanto
siamo abituati a pensare, quasi magicamente, che un evento sia sempre prodotto da qualcuno;
potremmo quindi supporre che, se la famosa mela dell’apologo di Newton cade dall’albero senza
che nessuno la getti, noi attribuiamo a questa caduta un soggetto (la forza di gravità), il quale ci
consentirebbe d’interpretarla in base allo stesso schema secondo il quale potremmo dire che
qualcuno lascia cadere o getta via un oggetto. Ma in realtà che cosa abbiamo spiegato ricorrendo
a questo modello linguistico? Assolutamente nulla, tant’è vero che, quand’anche fossimo noi a
lasciar cadere la mela, non sapremmo dire minimamente come e perché siamo in grado di
lasciarla cadere. Noi possiamo decidere, ad esempio, d’aprire le dita della mano che tenevano la
mela: ma, anche a prescindere dal fatto che non abbiamo la minima idea su come la nostra
decisione d’aprirle si traduca di fatto nella loro apertura, bisogna dire che quest’apertura
significa semplicemente che noi lasciamo intervenire la forza di gravità, ch’era «sospesa»
quando noi stringevamo la mela ad una certa altezza dal suolo, e che del resto lo era solo in
apparenza, perché la mela, assieme a noi che la stringevamo, era sempre mantenuta al suo posto
dalla stessa forza. D’altronde le cose non stavano molto diversamente quando si pensava che i
corpi solidi tendessero a dirigersi verso il suolo a causa d’una mitica nostalgia inclusa quasi
soggettivamente nella loro materia. Ciò significa che né questa nostalgia, né la non meno
enigmatica forza di gravità sono modellate su uno schema sintattico (il quale d’altra parte nelle
frasi intransitive è del tutto privo d’ogni determinazione oggettivante), mentre invece anche lo
schema sintattico soggetto-verbo-complemento (oggetto) dipende dal prevalere d’una struttura
formale di pensiero la cui radice prima non sarà difficile individuare nella nostra incapacità di
pensare l’evento al di fuori della sua determinazione spazio-temporale. In effetti tutte le
categorie non sono altro che le determinazioni spazio-temporali degli eventi. Dovremmo
giungere allora a dire che anche lo spazio e il tempo sono prodotti della sintassi, come se ci
potesse essere una sintassi quando lo spazio e il tempo non fossero le «forme pure»
dell’intuizione? Invece è certamente più probabile che l’universalità degli stessi schemi sintattici
dipenda dall’universalità del prodursi temporale d’ogni evento. Possiamo anche prescindere,
kantianamente, dal suo prodursi «in sé», perché di questo «in sé» possiamo ammettere di non
sapere niente, ma neppure questa rinuncia ci evita l’obbligo di pensare anche quest’impensabile
(il prodursi «in sé» dell’evento), come Kant ha dimostrato nella Dialettica trascendentale.
Su quest’obbligo, senza dubbio, è modellata la nostra idea di Dio, la quale non risolve
minimamente il nostro problema sulla natura dell’evento, se non ponendoci un’ulteriore
domanda, non meno radicale, sulla natura di Dio. Dio, infatti, non è la risposta alla domanda
sulla natura dell’evento, ma è la sua formulazione radicale. Invece intendere Dio come una
risposta (come ens realissimum) è la strada dell’ateismo, il quale non dipende affatto dal credere
o non credere in un Dio (questa parole, infatti, possono non significare nulla), ma dipende invece
dal modo in cui noi riusciamo a lasciare aperta la nostra domanda sulla natura dell’evento, sia
che pensiamo, sia che non pensiamo a un Dio. Naturalmente, pensarvi o non pensarvi non è
indifferente, ma non è neppure l’alternativa decisiva. Ci sono infatti anche delle religioni senza
Dio, le quali però non sono minimamente delle religioni atee (pensiamo naturalmente a quelle
orientali). Da questo punto di vista Dio non è altro che la cerniera necessaria fra il nostro
pensiero e l’«in sé» delle cose. La vera differenza fra l’ateismo e la religione non sta nel credere
o non credere, ma sta nel pensare questa cerniera come un dato naturale (e questo modo di
pensare è in realtà un modo per non pensare l’enigmaticità dell’evento) o come un enigma (e
questo modo di pensare l’enigma rispettandolo è invece sicuramente religioso, perché ci pone
immediatamente, e proprio per questo enigmaticamente, a confronto con un assoluto).

357. Il fatto che anche il pensiero sia un’azione passibile di strutturarsi triadicamente ed
ipostaticamente ci assicura che non ci siamo affatto allontanati, come forse potrebbe sembrare,
dal problema del cogito. Ogni atto di pensiero include un pensato ed un pensante, un cogitatum
ed un cogitans, senza i quali non ci sarebbe alcuna cogitatio. Si tratta né più né meno che della
chiave della vera dimostrazione trascendentale, che non dipende tanto dalla deduzione del sum
dal cogito, quanto, come ha mostrato Husserl, dal fatto che non c’è cogitare senza cogitatum e
senza cogitans. Questa necessaria implicazione triadica delle ipostasi del pensiero è in grado
d’articolare il pensiero stesso in base alla differenza che interviene fra ciascuna ipostasi e le altre,
vale a dire è in grado d’articolarlo sia temporalmente, grazie al fatto che il cogitare ed il
cogitatum sono ipostasi distinte, sia spazialmente, grazie al fatto che lo sono anche il cogitans ed
il cogitatum: la cogitatio infatti non coincide col cogitatum, perché è riferita alla continuità
durativa che lega i vari cogitata, e non coincide con il cogitans, al quale possiamo riferire
l’essere del pensiero; allo stesso modo il cogitans non coincide col cogitatum, in quanto si pone
come altro da esso, ma contemporaneo ad esso, e non coincide neppure con il cogitare, ch’è
invece la determinazione del suo essere. Il cogitatum d’altra parte non coincide né con la
cogitatio, né col cogitans, in quanto l’oggetto del pensiero è del tutto indeterminato (nulla ci
costringe a pensare d’essere pensanti e al fatto di pensare).
Abbiamo quindi sei differenze (sei relazioni) ipostatiche costituitive dell’atto di pensiero, le
quali divengono nove se pensiamo che la cogitatio, il cogitatum ed il cogitans sono anche in
relazione con se stessi, sia dal punto di vista oggettivo, in quanto ciascuna delle tre ipostasi può
essere oggetto del proprio atto, sia dal punto di vista soggettivo, perché ciascuna di esse può
essere il soggetto di se stessa. Infatti il cogitans non è la sola ipostasi a poter pensare se stessa,
perché anche la cogitatio può essere cogitatio di se stessa, come il cogitatum può essere il
pensato di se stesso. Se ne deduce quindi che le tre determinazioni ipostatiche autoriferite del
pensiero non sono tre determinazioni immediate. Nel cogitans del cogitans, il primo ed il
secondo cogitans sono per un verso lo stesso soggetto, in quanto è lo stesso cogitans che si
pensa, ma per un altro aspetto un soggetto differente, il quanto il cogitans del cogitans si
distingue dal cogitans per il fatto d’avere, in più rispetto ad esso, la determinazione del pensarsi
pensante: il cogitans quindi, pur essendo identico a se stesso, è anche temporalmente differente
da se stesso. Esso è anzi, a dire il vero, anche spazialmente differente da se stesso, in quanto il
cogitans può anche essere l’oggetto di se stesso. Tale differenza spazio-temporale si produce
nello stesso modo anche fra la cogitatio ed il cogitatum e se stessi. Non si tratta però certamente
d’una differenza oggettiva: in altri termini non abbiamo un pensante che si pensa in un tempo
differente da quello del suo pensarsi, né un cogitans che si pone come oggettivamente esterno a
se stesso, né un cogitatum che possa pensarsi solo come un cogitatum distinto da se stesso; la
differenza spaziale fra il cogitans e se stesso (ma questo si potrebbe ripetere anche per le altre
due ipostasi) non è una differenza dello spazio, ma è una differenza nello spazio, cioè è la
differenza che è lo spazio; e allo stesso modo la differenza temporale fra il cogitans e se stesso
non è una differenza di tempo, ma è una differenza che sta nel tempo, che è, insomma, il tempo
stesso.
D’altra parte il carattere probante del cogito dipende proprio dalla necessaria implicazione
reciproca delle tre ipostasi, dal momento che basta toglierne una per togliere, con questo, ed
immediatamente, anche le altre due. L’essere, che Cartesio deduce dal cogito, non è l’essere d’un
soggetto già costituito, d’un «io», ma l’essere del tutto indeterminato del pensiero che, in
«quell’istante» si sta pensando. Certo, tutto il problema, a questo punto, sta nel determinare che
cosa significa, in questo contesto, la parola «istante», la quale non designa un tempo nella sua
durata, ma il limite del tempo. Allo stesso modo il «qui» dello spazio soggettivo è un «qui» ch’è
il limite dello spazio: non un buco nello spazio (come l’istante non è un buco nel tempo), ma il
luogo senza luogo, l’átopon, da cui si genera il luogo, o il tempo senza tempo, l’ákhronon, da cui
si genera il tempo. Il «qui ed ora» assoluti dello spazio-tempo, in realtà, proprio in quanto sono
assoluti, non sono né nello spazio né nel tempo: non lo sono perché, in assoluto, il cogito non è
determinato affatto triadicamente, dal momento che, se togliamo lo spazio ed il tempo, togliamo
anche ogni differenza fra le tre ipostasi del pensiero. «In assoluto», quindi, non c’è alcun atto:
«in assoluto», l’atto dura eternamente ed avviene dovunque, o non accade mai e in nessun luogo.
Certo, quest’ultima supposizione d’abolizione dello spazio-tempo, così descritta, è solo una
mera astrazione. Eppure si tratta d’un’astrazione non solo necessaria, ma reale, perché senza un
qui sovraspaziale, e senza un ora sovratemporale, non potrebbe esserci alcuno spazio ed alcun
tempo: non potrebbe esserci alcuna forma pura dell’intuizione perché non potrebbe esserci
alcuna intuizione. Il qui non è semplicemente aspaziale, perché senza un qui, benché il qui non
sia nello spazio, non ci sarebbe spazio, e l’ora non è semplicemente atemporale, perché senza la
serie degli ora non ci sarebbe tempo. Il qui e l’ora si situano, di conseguenza, al di là delle
determinazioni essenziali: essi sono rispettivamente lo spazio e il tempo dell’al di là
dell’essenza. Il sovraspaziale ed il sovratemporale sono quindi la condizione dello spazio e del
tempo, dal momento che, senza un «qui ed ora» lo spazio e il tempo si dissolverebbero in un
fluido continuo d’immagini e di risposte automatiche ad esse, come probabilmente sono lo
spazio ed il tempo per tutti gli esseri viventi non dotati di parola, se ammettiamo che per essi
abbia senso parlare d’uno spazio e d’un tempo. Vediamo quindi che l’al di là dall’essenza non è
una sfera separata da quella delle essenze, ma vi è continuamente e necessariamente collegata
come condizione d’esistenza. Non potremmo pensare nulla che sia del registro dell’essenza se
non designassimo l’essenza sullo sfondo d’un non essenziale non negativo, ma condizionale
dell’essenza; per esempio non potremmo pensare ad un’essenza del bianco se non desegnassimo
quest’essenza sullo sfondo d’un’esperienza del bianco che sia per noi non semplicemente
l’esperienza della differenza del bianco dal nero o dal rosso, ma l’esperienza del bianco come un
qualcosa d’assoluto e d’irripetibile, per esempio in quel paesaggio ammantato di neve o in quelle
lenzuola stese al sole ad asciugare: non in quanto quel paesaggio o quelle lenzuola abbiano in sé,
oggettivamente, qualcosa d’assoluto, ma perché per noi fu assoluto il prodursi del loro bianco nel
nostro stesso divenire il candore che in essi si manifestava come un assoluto. L’assoluto – cioè il
sovraessenziale – è sperimentabile in quei momenti nei quali noi conosciamo non passivamente,
ma attivamente, diventando la Cosa stessa – e non l’oggetto – della conoscenza (cioè
l’inconoscibile), tanto che la stessa conoscenza oggettuale è in definitiva consentita proprio dalla
nostra metamorfosi – magari solo evitata – nella Cosa stessa.

358. Ora incominciamo forse a comprendere meglio perché Cartesio, nella Terza meditazione,
affermava di trovare più realtà in Dio e nell’infinito che in se stesso e nel proprio pensiero. Non
c’è nulla, in quest’affermazione, che abbia a che fare con un residuo inerte della scolastica; si
tratta invece d’un punto di consapevolezza che possiamo già indicare come il fondamento
trascendentale della dimostrazione del cogito. Lo stesso nostro riferimento alla teologia non era
semplicemente indotto dalla necessità di spiegare poche righe delle Meditationes di Cartesio;
esso si trova in Cartesio perché la triade ipostatica e l’al di là dell’essenza sono alla radice del
cogito, e si trovano alla sua radice non perché il cogito provenga dalla teologia (con la quale
invece non ha alcuna relazione essenziale), ma perché lo stesso atto di pensiero, per essere
pensato come atto, ci costringe a indirizzare la nostra ricerca nella direzione del sovraessenziale.
Se dunque ora ci riferiamo al dogma trinitario, per intendere meglio quali sono i motivi
trascendentali del prevalere della relazione triadica nella logica ipostatica, non possiamo non
constatare che questa logica, che pure è interamente, benché solo implicitamente, contenuta nel
dogma cristiano, non è stata quasi mai articolata chiaramente dalla teologia, la quale anzi, se
prescindiamo da quelle poche eccezioni che abbiamo già segnalato, è stata quasi sempre
costruita in termini non perfettamente triadici. Ciò significa che, per quanto possa sembrare
paradossale affermarlo, la teologia cristiana è stata costruita in un modo ch’è più vicino
all’impostazione gerarchica data da Plotino alla triade delle ipostasi che all’impostazione dello
stesso dogma trinitario cristiano, nonostante il fatto che per Plotino le tre ipostasi sono delle
distinzioni d’un quid che s’estende con continuità fra la divinità ed il soggetto, mentre per il
cristianesimo fra la prima ed il secondo esiste solo una similitudine (il soggetto è creato «a
immagine» di Dio). Di questo curioso paradosso, in base al quale la stessa teologia non è riuscita
che molto faticosamente ad enucleare quella logica triadica ch’era implicita nel fondamentale
dogma cristiano dell’omoessenzialità delle ipostasi, è un sintomo evidente la vexata qaestio del
Filioque, la quale ancora oggi divide la chiesa di Roma da quella di Costantinopoli. Se qui, nel
contesto d’un libro che riguarda il rapporto fra il tempo e l’eticità, accenniamo ad un problema
«arcaico» come questo, che fu posto per la prima volta, più di dieci secoli fa, dal patriarca di
Costantinopoli Fozio, non lo facciamo certo per un assurdo gusto archeologico, ma perché
questo problema, anche se su di esso si sono arrovellati da secoli quasi tutti i teologi e due o tre
concili, è in realtà ancora attuale (e proprio per questo non è stato risolto dalla Chiesa). Certo, la
sua soluzione è stata spesso ostacolata dai problemi politici che intervenivano nelle relazioni fra
la chiese latina e quella greca, ma soprattutto, pensiamo, da un problema molto più generale, ed
essenziale in tutta la cultura occidentale, il quale dipende dalla difficoltà ch’essa ha sempre
dimostrato nel pensare in termini triadici, invece che binari.
Attorno alla questione della processio dello Spirito – solo dal Padre, com’è scritto nei Vangeli
e sostiene la chiesa che curiosamente la stessa chiesa cattolica chiama ortodossa; o dal Padre e
dal Figlio, come recita l’aggiunta cattolica al Credo – alcune osservazioni rilevanti sono state
fatte da Sergej Bulgakov nel suo volume Il paraclito. «L’ottavo articolo del simbolo di fede»,
quello riservato allo Spirito, scrive Bulgakov, «è manifestamente incompleto e la chiesa, di fatto,
vi supplisce». In realtà nel quarto secolo, durante il quale alcuni grandi concili fissarono nel
simbolo la formula dei dogmi cristiani essenziali, la problematica prevalente era quella
cristologica, e non quella pneumatologica. L’eresia pneumatomaca poneva certamente già allora
l’esigenza d’articolare la relazione trisipostatica come essenziale nell’ortodossia, ma su
quest’eresia anche gli autori che ne compresero benissimo il pericolo, come Basilio di Cesarea,
che dedicò allo Spirito santo un testo importantissimo, restarono prudenti. Nel suo testo, per
esempio, Basilio non giunge ad usare il termine homooysios a proposito della terza ipostasi
(come farà invece Gregorio di Nazianzo). Questa prudenza, certo, è motivata essenzialmente dal
fatto che il problema dello Spirito era ritenuto essenziale non tanto di per sé, quanto in relazione
alla problematica cristologica: ritenere lo Spirito una creatura, invece che un’ipostasi,
comportava infatti il rischio d’una riaffermazione della concezione ariana, o comunque quello
d’intendere Cristo come un’emanazione del Padre, subordinata a lui, in termini affini a quelli
dello gnosticismo e del neoplatonismo pagano. Del resto, anche in quello che continua ad essere
chiamato il simbolo niceno, anche se il suo testo fu fissato solo a Costantinopoli alcuni decenni
dopo il concilio di Nicea, la sezione dedicata allo Spirito, come giustamente nota Bulgakov, è
molto più breve e più sommaria di quella dedicata alla seconda ipostasi, come se determinare la
natura della terza fosse meno importante che precisare quella della seconda. Lo Spirito santo, del
resto, è sempre rimasto quasi nell’ombra nella dogmatica ecclesiastica: certo, esso è
continuamente evocato da tutti i testi teologici, ma, sembrerebbe, più per ricucire le altre due
ipostasi della Triade, che nella preoccupazione di definire più precisamente la sua funzione e le
sue caratteristiche. Proprio per questo sulla terza ipostasi non s’è mai formata una dogmatica
coerente e ben articolata. Su questo argomento, dice Bulgakov, esistono numerosi
theologoymena, ma non una dogmatica . Anzi l’antica polemica fra la chiesa latina e quella greca
appare proprio come il segno dell’incapacità d’entrambe le tradizioni di pensare in termini
effettivamente triadici, concependo le tre ipostasi in modo non gerarchico. La gerarchia fra di
esse, ch’è palesemente negata dal dogma dell’omoessenzialità, viene infatti immediatamente
ristabilita ogni volta che si tratta di considerare l’intervento della divinità nella storia.
A queste ragioni dell’insufficiente sviluppo dogmatico dato alla terza ipostasi bisogna
aggiungerne poi una ulteriore, che senza dubbio ha un’importanza non minore. Lo Spirito
certamente opera la fondazione della Chiesa, perché porta a compimento il messaggio di Cristo e
rende continuamente attuale la sua presenza nei sacramenti. Ma paradossalmente sottolinearne
l’importanza tende proprio a mettere in discussione l’istituzione ecclesiastica, favorendo la
formazione di gruppi carismatici con tendenze eretiche (questo problema s’è posto fin dai primi
anni del cristianesimo, come dimostra il fatto ch’esso è perfettamente articolato nelle due Lettere
ai Corinti di San Paolo). L’esempio classico di questa tendenza all’eresia della riflessione
teologica sulla terza ipostasi è naturalmente quello di Gioacchino da Fiore, la cui profezia
sull’avvento d’un’età dello Spirito, dopo quella del Padre e quella del Figlio, ha sempre suscitato
il sospetto delle gerarchie ecclesiastiche.
Bulgakov, nel suo libro, nota perfettamente che, come accennavamo poco fa, l’eccessiva
importanza ch’è stata data, in tutti i theologoymena sullo Spirito, alle nozioni di causalità e
d’origine, è l’effetto d’«un’ipnosi secolare, soprattutto nella chiesa latina». Egli pensa che, nella
Triade, dove non c’è post hoc, non possa esserci neppure propter hoc, e certo non ha torto, in
base al concetto moderno di causalità. Crediamo però che non abbia del tutto ragione se invece ci
riferiamo al concetto antico di causalità. Infatti, per gli antichi, a differenza che per noi, il
causante è sempre presente nel causato, come pure il causato, sebbene solo «in potenza», è
presente nel causante. La Metafisica d’Aristotele parte proprio da questo concetto di causalità, il
quale ha ben poco a che vedere con il post hoc). Crediamo poi che Bulgakov non abbia ragione
neppure quando sostiene che l’impostazione causale della teologia triadica ortodossa dipenda
dall’influenza latina, visto che il primato metafisico del principio di causalità attraversa tutta la
filosofia greca, pagana e cristiana, e proviene in buona parte per l’appunto dalla Metafisica
d’Aristotele. Del resto nei testi in cui Fozio critica aspramente la concezione latina della
processio dello Spirito, trovandola eretica e in definitiva atea, il termine aitía è assolutamente
determinante nella definizione delle ipostasi. Ad esempio il problema della generazione del
Figlio e della derivazione dello Spirito dal Padre è posto da lui proprio in termini di causalità: il
Padre è causa, dice Fozio, delle altre due ipostasi (Spiritus sancti mystagogia). Proprio questo,
d’altra parte, conferma che neppure la tradizione greca è sempre libera dall’impostazione
gerarchica del problema delle relazioni ipostatiche. Insistere sulla processio della seconda e della
terza ipostasi dalla prima elimina, per un verso, la loro differenza gerarchica, ma sottolinea
ancora di più quella che li distingue dal Padre, visto che, nella concezione medioevale, al
causante – con la sola eccezione della causa materiale – è attribuito un valore maggiore che al
causato (il causante è sempre più prossimo al principio). Scrive Fozio: «Se dunque, come dice
sconsideratamente il discorso eretico, la processio dello Spirito fosse comune al Padre e al
Figlio, anche lo Spirito [...] sarebbe da dividere [merizómenon]», perché la sua causa sarebbe
duplice. Fozio certamente ha ragione in questa sua conclusione, ma solo se intendiamo il termine
«causa» nel senso della causa che pone in essere, cioè nel senso della generazione. Egli non tiene
minimamente conto del fatto che anche la Parola e l’amore sono cause nella determinazione
triadica. Come si vede, il problema, qui, per Fozio, è ancora quello del merismós, della divisione,
il quale tanta importanza aveva, ad esempio, nel testo di Plotino che abbiamo commentato, ma
anche nella più antica riflessione dogmatica cristiana attorno alla natura della Triade. Per Fozio
non c’è dubbio: la posizione latina sulla processio porta al politeismo, cioè all’ateismo. Egli
invece insiste nel dire che, per tenere salda l’unità delle tre ipostasi, la seconda e la terza devono
procedere dalla prima. Ma neppure in questo modo si evita d’uscire dalla logica triadica – come
senza dubbio era uscita per certi aspetti anche più chiaramente la chiesa latina –, perché le
relazioni fra le ipostasi rimangono gerarchiche, anche se in modo attenuato rispetto alla
dogmatica latina. Ora, ciò che distingue la logica triadica da quella ternaria è che quest’ultima è
compatibilissima con l’ordinamento gerarchico (come nelle triadi divine indoeuropee), mentre
questo ordinamento è del tutto impossibile nella Triade cristiana. In realtà la formulazione
romana del simbolo non lo evitava affatto, anche se la processio dello Spirito da entrambe le
altre ipostasi potrebbe forse sembrare un passo nella direzione d’un’effettiva equiparazione delle
tre ipostasi (a due delle quali è riferita la nozione della processio, che i greci riferiscono invece
solo al Padre), ma certamente non è così, perché la teologia cattolica, come quella ortodossa,
esclude del tutto ogni determinazione del Padre da parte dello Spirito. Questa esclusione,
comunque la s’intenda, equivale ad una disuguaglianza gerarchica fra la prima e la terza ipostasi,
disuguaglianza che contrasta inevitabilmente con il principio dogmatico dello homooysios, e che
non è affatto eliminata perché questa gerarchia è ammessa solo nell’intervento divino nella
storia, e non nella divinità in sé.

359. Del resto è proprio Tommaso d’Aquino che, nella Summa theologiae, muove delle
obiezioni ai greci per il rilievo che essi danno al termine «causa» nella dogmatica trinitaria. «I
greci usano, a proposito della divinità, indifferentemente del termine “causa” e del termine
“principio”; però i dottori latini non usano il termine “causa”, ma solo il termine “principio”. E la
ragione di questo sta nel fatto che “principio” è più comune di “causa”. [...] Questo termine
“causa” pare implicare una diversità di sostanza, e la dipendenza di qualcuno da qualcun altro,
come non fa il termine “principio”» (I, q. 33, a. 1). Non a caso, del resto, Tommaso ritornerà sul
concetto di causa più tardi, nel suo commento al Liber de causis, un testo che a quel tempo
veniva attribuito ad Aristotele, e che invece giustamente Tommaso comprende essere un estratto
degli Elementi di teologia di Proclo. Il complesso sistema metafisico di Proclo è impostato in
base allo stesso principio che abbiamo già rilevato in Plotino: la totalità degli enti è derivata –
causata – dall’Uno sovraessenziale, che genera la molteplicità, la quale naturalmente non
manterrà che in modo riduttivo le qualità dell’Uno. Questa riduzione, che nel pensiero antico e
medioevale è del tutto scontata, quando si tratta delle relazioni fra la causa e l’effetto, è invece
assolutamente inadatta alla descrizione delle relazioni ipostatiche nella divinità. Per utilizzare il
Liber de causis, di conseguenza, Tommaso è costretto a leggerlo alla luce del platonismo
cristiano dello Pseudo-Dionigi, in modo da poter assimilare il principio neoplatonico di causalità
al principio cristiano della creazione (e non a quello delle relazioni fra le tre ipostasi
omoessenziali). Questo ci aiuta a comprendere in che modo Tommaso distingue il principio dalla
causa. Dobbiamo notare prima di tutto che, nella concezione antica della causalità, il causato è
contenuto «in potenza» nel causante, e che il loro nesso, di conseguenza, è pensato al tempo
stesso come un’affermazione della causa, ma anche come una sua riduzione. Questa
impostazione si presta molto bene, come dicevamo, a descrivere le relazioni di causa ed effetto
nella creazione, ma non è minimamente in grado d’articolare le relazioni fra le tre ipostasi della
divinità. Il Figlio è «generato, non creato» proprio perché non dev’essere inferiore al Padre. Dio
dunque è causa nella creazione, dice Tommaso, ma non è causa della sua determinazione
trisipostatica (e proprio questo c’interessa qui), la quale determinazione, essendo di relazione e
non d’essenza, può essere articolata invece in base al termine «principio».
Ora, il concetto di causalità viene assunto dal pensiero moderno in un modo completamente
diverso da come lo inteva la dogmatica medioevale. Per noi, la relazione causale non è affatto
una relazione essenziale, com’era in Grecia e per tutto il medioevo. È come dire che, nel
concetto antico di causalità, venivano messe in evidenza prima di tutto le relazioni spaziali fra la
causa e l’effetto: l’effetto è già presente nella causa, e la causa è ancora presente nell’effetto. Noi
pensiamo invece la relazione causale solo come una successione temporale. Ciò significa che il
nostro concetto di causalità è in realtà una riduzione ed una trasformazione di quello antico. Il
principio di causalità, del quale ci siamo occupati nella Prima parte del volume, sotto la rubrica
leibniziana del nihil est sine ratione, non riguarda tanto l’essere delle cose, quanto il
concatenamento necessario fra gli elementi d’un sistema. Si tratta quindi d’un principio di
causalità ch’è fondato su uno schema di tipo giuridico, più che di tipo metafisico, e che per di più
parte dalla riduzione dell’essere alla sua rappresentazione quantitativa, matematica e scientifica.
Per noi moderni cercare una causa significa cercare un colpevole, tanto che, se non c’è nessuna
colpa, rinunciamo facilmente anche ad ogni tentativo di farci una ragione dell’evento da
spiegare. Newton, ad esempio, non rinunciava a cercare, con complicate ipotesi metafisiche, la
ragione (la causa) della gravitazione. Ma dopo di lui la fisica ha completamente rinunciato ad
ogni tentativo di spiegazione causale del dato di fatto che due corpi s’attraggono secondo certe
leggi, anche se tutto l’universo pare reggersi solo grazie a quest’attrazione. Certo, questa
fuorclusione del problema essenziale – metafisico – della causalità, nella quale consiste il nostro
principio di causalità, ha prodotto, e non ostacolato, la soluzione di mille problemi fisici.
Nessuno, per esempio, riuscirebbe a spiegare oggi in termini di causalità la natura della luce. Ma
è proprio perché s’è rinunciato a spiegarla in termini di causalità che sulla natura della luce
abbiamo idee molto più chiare, almeno descrittivamente, di quelle che s’avevano una volta. Ma
questo svuotamento del principio di causalità non può essere compensato con un principio di
probabilità, come accade per esempio nella fisica, senza allontanare irreparabilmente la fisica
stessa da ogni nostra esperienza quotidiana e soggettiva. Nessun sistema giuridico, ad esempio,
potrebbe funzionare in base al principio quantistico di probabilità, senza provocare con questo
l’evaporazione completa della soggettività, della quale il diritto, sia pure per fictionem, continua
ad occuparsi, e quindi senza provocare anche l’evaporazione del diritto. Ci troviamo dinanzi a un
apparente paradosso: uno schema causale derivato da un’impostazione giuridica, più che
metafisica, della relazione causale diviene inapplicabile al diritto, forse semplicemente perché ne
svela la finzione. È comunque proprio questo svuotamento il cuore del problema che ci occupa.
La psicanalisi è chiamata a prendersi cura di questa evaporazione della soggettività ch’è stata
prodotta dal successo delle scienze, e proprio per questo deve prima di tutto comprendere in
quale modo essa s’è prodotta. Ma non riuscirà a comprenderlo finché i suoi concetti di fondo
saranno modellati sugli stessi principi di quella scienza dai cui successi vengono i problemi
ch’essa dovrebbe tentare di risolvere. E qui diviene evidente quale sia la necessità trascendentale
– certo non solo per la psicanalisi – della fondazione d’una scienza nuova.

360. La differenza di significato fra «causa» e «principio» viene del tutto eliminata ogni volta
che si parla d’un «principio di causalità», perché in questo modo si fa del principio la causa delle
cause. Ma non c’è nessuna causa delle cause che non sia un principio, cioè qualcosa di molto
diverso da una causa. Ora, la causa delle cause, vale a dire il principio, può essere la causa
«prima»? Sicuramente sé, se intendiamo il termine «causa» nel suo significato antico, certamente
no se si dÖ ad esso il suo significato moderno. Il principio non è la prima causa d’una serie di
cause. Massimo Cacciari, nel suo Dell’inizio, ha mostrato come l’inizio stesso non possa venire
pensato, come inizio, se non nella ripetizione e nel ritorno. È tuttavia difficile comprendere come
il concetto nietzschiano dell’eterno ritorno, che pare così poco cristiano, sia compatibile con la
concezione cristiana dell’inizio (e del principio), alla quale tuttavia Cacciari si riferisce
continuamente nel suo libro. Per il cristianesimo, in apparenza, non ci sono dubbi: il tempo è
cominciato grazie al Lógos, ed è destinato a terminare nella rivelazione apocalittica. Nulla, in
questa straordinaria concezione mitica del tempo, sembra a prima vista conciliabile con l’idea
nietzschiana del ritorno. «In principio» era il Lógos, vale a dire la Parola. La Parola è la parola
del Padre. Ma, per essere effettivamente nella logica triadica che il dogma trinitario introduce,
sebbene non formulandola, dobbiamo ricordare che nessun padre è padre prima di generare.
Quindi la Parola è la parola del Padre solo a partire dal fatto che il Figlio è stato generato, e che
quindi la Parola è stata pronunciata. Soltanto «allora» – ma certamente qui noi non dobbiamo
affatto pensare temporalmente, perché non c’è un momento «prima del quale» il Lógos non fosse
– il Padre è padre, e lo è perché il Figlio è figlio, e lo Spirito è amore. Ciò non significa affatto
che il Padre preceda il Figlio, e che entrambi precedano lo Spirito, come potremmo credere se
pensassimo ancora in termini temporali. Non farlo non ci è facile, ma è necessario proprio per
pensare in termini temporali. Nella Formazione e nel Mito di Crono ci siamo già soffermati su
questo punto: se vogliamo pensare la paternità, non dobbiamo farlo nei termini moderni del
principio di causalità (del post hoc), perché questi termini, che sono quelli del tempo lineare ed
assoluto, negano proprio il senso della paternità, riducendola nello schema meccanico della
causalità; negano il senso della filiazione, riducendola nella posizione della derivazione; e
negano il senso dell’amore, riducendolo ad una connessione necessaria. Certo, questa riduzione è
compiuta spesso anche dalla teologia cristiana, sia ortodossa, sia cattolica. Formule che vanno
nella direzione di questa riduzione si ritrovano, per esempio, nel testo di Cusano che abbiamo
citato prima. In realtà tutta la teologia occidentale ha seguito Agostino che, nel De Trinitate,
parte dalla soggettività per orientarsi nella comprensione delle relazioni trisipostatiche nella
divinità, e fare questo non è certo un errore; lo si può e lo si deve fare, ma si può e si deve fare
anche il contrario: dedurre dall’assoluto – dalla divinità – qual è la logica triadica, a prescindere
da ogni sua riduzione soggettiva e psicologica, perché in mancanza di questo si rischia di
continuo di proiettare sull’assoluto stesso i limiti della nostra assunzione di queste relazioni, vale
a dire i limiti della loro assunzione linguistica. Ma la Parola non è il linguaggio, come il senso
non è la significazione. E fondare i primi due elementi nei secondi, invece che vice versa,
significa condannarsi a percorrere un circolo vizioso che riproduce, nella divinità, i limiti della
soggettività, e che in questo modo condanna l’intero percorso logico e teologico all’insensatezza,
facendo sé che anche la teologia esprima nelle sue formule le posizioni dell’ateismo, invece che
quelle della religione.

361. Dobbiamo dire allora che anche il Padre procedit – «deriva», dovremmo tradurre in
italiano, invece che «procede», perché questo termine non è una traduzione, ma solo una piatta
traslitterazione – dal Figlio e dallo Spirito, come il Figlio deriva dal Padre e dallo Spirito e lo
Spirito dal Padre e dal Figlio? Non ci vedremmo alcun inconveniente, dal momento che l’unico
limite della concezione cattolica del Filioque è proprio la non estensione di quell’«e» alle altre
ipostasi. Molto giustamente scrive Bulgakov: «Questo que [...] che la teologia latina
unilateralmente inserisce in un solo posto, interviene, in realtà, ovunque, quando deve essere
espressa la definizione trinitaria di qualcuna delle ipostasi trinitarie». Ciò significa che, come c’è
una processio del Figlio dal Padre (generatio) e dello Spirito dal Padre e dal Figlio (spiratio),
così c’è pure una processio del Figlio dallo Spirito e una processio del Padre stesso dal Figlio e
dallo Spirito.
Il problema delle relazioni fra le tre ipostasi divine è affrontato in molte pagine della prima
parte della Summa theologiae. Nell’articolo quarto della ventottesima quaestio, Tommaso si
chiede se fra le ipostasi ci siano altre relazioni reali oltre alla paternitas, alla filiatio, alla spiratio
ed alla processio. Rispondendo, egli sottolinea che sono relazioni reali solo quelle super
actionem fundata, «fondate sull’azione», e che perciò non sono relazioni reali quelle fra Dio e il
creato, ma solo quelle incluse nelle processiones. Ma le processiones, per Tommaso, sono solo
quelle del Figlio dal Padre e dello Spirito dal Padre e dal Figlio. Allo stesso modo quando, poco
più avanti (q. 32), egli si occupa delle notiones, che sono le proprietà delle ipostasi, e quindi le
rationes per conoscere ciascuna di esse, Tommaso ne limita il numero, conseguentemente alla
precedente limitazione delle processiones. Partendo dal principio secondo il quale «personae
multiplicantur secundum originem», Tommaso deduce che «la persona del Padre non può
definirsi [innotescit] per il fatto d’essere da un altro, ma per il fatto d’essere da nessuno: e perciò,
da questo punto di vista, la sua notio è l’innascibilitas. Ma in quanto qualcuno è da lui, si
definisce in due modi. Infatti, in quanto il Figlio è da lui, si definisce con la nozione di paternità;
in quanto invece lo Spirito santo è da lui, si definisce con la nozione di communis spiratio. Il
Figlio poi può definirsi per il fatto d’essere da un altro, per essere nato: e perciò si definisce per
filiationem. E per il fatto che un altro, cioè lo Spirito santo, è da lui si definisce, come anche il
Padre, con la communis spiratio. Lo Spirito santo poi può definirsi per il fatto d’essere da un
altro o da altri: e così si definisce per processionem». La conclusione è quindi che le notiones
sono soltanto cinque: innascibilitas, paternitas, filiatio, communis spiratio, processio (a. 3).
Bisogna riconoscere, con tutto il rispetto dovuto al Doctor angelicus, che questo elenco è
tutt’altro che un modello di chiarezza logica. Posto infatti che le relationes reales fra le ipostasi
sono quelle determinate non in modo causale, ma secondo il principio, bisogna riconoscere che
questo principio delle ipostasi è concepito solo con riferimento all’origine, e l’origine della quale
qui si tratta è esclusivamente quella della processio pensata sul modello dell’actio, vale a dire
esattamente su quella riduzione della paternità in termini meccanicamente causali che invece il
dogma trinitario avrebbe offerto la possibilità di correggere. Ma è evidente che nessuno può
correggere un errore che non percepisce come tale. Ne consegue che le notiones sono quelle che
riguardano la relazione del Padre con se stesso (l’innascibilitas), la relazione fra il Padre e il
Figlio (paternitas), fra il Figlio e il Padre (filiatio), fra il Padre e lo Spirito, per la quale, come
Tommaso riconosce, non c’è nome (egli adotta perciò il termine generico processio). Del resto
anche la communis spiratio è riferita sia alla relazione fra il Padre e lo Spirito, sia a quella fra il
Figlio e lo Spirito.
Esistono quindi diversi tipi di notiones. «Di queste, soltanto quattro sono relazioni: infatti
l’innascibilitas è una relazione solo per riduzione [perché è la relazione fra la prima ipostasi e se
stessa] [...]. Quattro, poi, sono soltanto proprietà: infatti la communis spiratio non è una
proprietà, perché è riferita a due persone. Tre, poi, sono nozioni personali, che cioè costituiscono
la persona, cioè paternitas, filiatio e processio: infatti la communis spiratio e l’innascibilitas
sono dette nozioni delle persone, e non personali, come si vedrà meglio poi». La confusione non
potrebbe essere più generale, e dipende tutta dalla originaria riduzione in termini d’origine – che
non sono affatto i termini del principio, se non, ancora una volta, molto riduttivamente – delle
relazioni fra le ipostasi. Tommaso si rende conto di questa situazione, anche se non pare affatto
evidente che si renda conto anche dei suoi motivi. Aggiunge infatti l’Articolo quattro, nel quale
specifica che, sulle nozioni, si potrebbe anche pensare diversamente, perché esse «non sunt
articuli fidei», ma mette in guardia dal farlo, nella misura in cui ne potrebbero conseguire
facilmente delle posizioni eretiche.

362. Ora, è del tutto evidente che le notiones, se le tre ipostasi vengono pensate veramente
come omoessenziali, non possono essere che sei, se si considerano le relazioni fra un’ipostasi e
ciascun’altra, o nove, se si aggiungono anche le relazioni per reductionem, come l’innascibilitas,
cioè le relazioni fra ogni ipostasi e se stessa. Non c’è bisogno d’avere una grande competenza
logica per giungere a questa deduzione, che però viene del tutto fuorclusa dall’impostazione che
viene data da Tommaso – ma in realtà da tutta la teologia trinitaria – a questo problema,
impostazione che, per impedire la caduta in posizioni eretiche, e mantenere il testo in un’assoluta
fedeltà all’interpretazione latina del dogma trinitario, finisce per produrre degli effetti che vanno
nella direzione diametralmente opposta a quella dello stesso dogma che avrebbe dovuto essere
salvaguardato. Un altro fatto da rilevare chiaramente è poi che, pur avendo ridotto a cinque le
notiones, Tommaso non riesce a trovare un nome per la relazione fra lo Spirito e il Padre, e che
la communis spiratio include in realtà due differenti relazioni: quella fra il Padre e lo Spirito e
quella fra il Figlio e lo Spirito. Se dunque eleviamo a sei il numero delle nozioni, come
Tommaso non fa, pare non esistere un nome nemmeno per indicare una di queste due relazioni
che Tommaso chiama spiratio; manca del resto ogni possibilità di definire la relazione fra lo
Spirito e il Figlio, fra il Figlio e se stesso e lo Spirito e se stesso. Tutto ciò non dipende
evidentemente soltanto dai limiti che vengono imposti al pensiero dal pericolo di cadere in
posizioni eretiche, ma anche da una vera e propria povertà della lingua, la quale esprime un
limite costitutivo della mentalità di chi la parla (certo, si potrebbe anche dire il contrario, vale a
dire ch’è la povertà della lingua a creare questo limite nei soggetti che la parlano).
Niente è più utile che occuparsi di questi problemi, se si vuole mettere alla prova,
strutturalmente e formalmente, un principio di ragione. E il risultato di questa messa alla prova è
la dimostrazione dell’insufficienza del nostro concetto di causalità. A voler essere rigorosi,
infatti, non possiamo negare che lo Spirito è principio (o causa) del Figlio e del Padre, come il
Figlio lo è dello Spirito e del Padre, e il Padre lo è del Figlio e dello Spirito, anche se,
naturalmente, il termine «principio» dev’essere inteso in modo diverso, a seconda dell’ipostasi
alla quale viene attribuito. Ma di queste tre prospettive la teologia greca utilizza solo la terza,
mentre quella latina solo la terza e in parte la seconda. Certo, la teologia può immediatamente
rattoppare queste mancanze d’articolazione culturale del problema che affronta con la pezza
dell’inconoscibilità di Dio. Ma Dio è inconoscibile nella sua sovraessenzialità, non lo è nella sua
essenza, e tanto meno nelle sue ipostasi, che sono invece il principio stesso della nominabilità e
della conoscibilità divine (il Figlio è il Nome del Padre), quindi della nostra possibilità di venirne
a sapere, nonostante il fatto che nel concetto che ci facciamo di lui dobbiamo lasciare
necessariamente aperto il posto del non concettualizzabile. Non è certo un caso che questo posto
del non concettualizzabile è stato aperto da Kant nella conoscenza in generale, e non solo in
quella di Dio, attraverso la sua dimostrazione dell’inconoscibilità della Cosa. Dobbiamo dire
allora che la Cosa è Dio, e che anche il soggetto, in quanto può conoscere, è Dio? Affermarlo
significherebbe immediatamente ritornare nei limiti della concezione neoplatonica pagana.
Questa, certo, è stata perfettamente articolata anche con la teologia cristiana, ma attraverso una
trasformazione essenziale: quella continuità fra l’Uno l’intelletto e l’anima che, per Plotino, era
un dato di fatto è stata spezzata: fra Dio e le sue creature c’è un abisso, che però è stato e
dev’essere colmato: lo è stato nella creazione (l’abisso non preesiste alla creazione, ma ne è
l’effetto, o più precisamente è l’effetto del peccato) e lo è stato nell’incarnazione; attende ancora,
invece, d’essere colmato nella vita di ciascuno, in quanto ciascuno è chiamato a ritornare verso
Dio e verso la sua Rivelazione definitiva e apocalittica. Il neoplatonismo è sempre stato un
pensiero impostato in modo ascetico. Ma con il cristianesimo quest’ascesi cambia di segno e
diviene più ambiziosa, dal momento che la promessa cristiana non è altro che la théosis, vale a
dire la deificazione (più che la divinizzazione) dei fedeli.
VIII. Logica triadica e pensiero trascendentale

363. Dopo la nostra lunga parentesi filosofico-teologica, possiamo tornare al cogito ed al


problema per risolvere il quale avevamo aperto questa lunga digressione (su molti punti della
quale, del resto, dovremo ancora ritornare). Ci eravamo chiesti se l’affermazione di Cartesio
sulla certezza, addirittura maggiore di quella di pensare, che avrebbero per lui l’idea dell’infinito
e quella di Dio avesse solo un valore retorico, oppure anche un valore essenziale
nell’articolazione del cogito. I punti in apparenza disparati che abbiamo avuto modo di
riprendere non solo da Anselmo di Canterbury, ma anche da Platone, Plotino, Basilio di Cesarea
e Tommaso d’Aquino, costituiscono in realtà dei capitoli d’una lunga preistoria del cogito.
Ricostruirla almeno in parte, come abbiamo tentato di fare, non serve certo a negare la novità
dell’atto cartesiano, dal momento che non c’è il minimo dubbio sul fatto che solo con il cogito
troviamo per la prima volta esplicitamente formulato il criterio d’una riflessione trascendentale,
ma serve a situare la nascita di questa impostazione al suo giusto posto nella tradizione del
pensiero occidentale (del resto possiamo fissare questa nascita alla stesura delle Meditazioni solo
retroattivamente, perché il termine «trascendentale» non compare prima di Kant). La filosofia
trascendentale, quindi, non sorge dal nulla, ma viene a delinearsi sullo sfondo d’una
problematica ch’era stata affrontata, nel corso dei secoli, in modi molto diversi e persino
contraddittori, ma sempre seguendo con coerenza un unico filo di pensiero. Si tratta d’un antico
problema metafisico, ch’è forse addirittura il problema gnoseologico fondamentale della
metafisica: quello dell’identità e della differenza del soggetto e dell’oggetto della conoscenza o
del pensiero. Tuttavia, come abbiamo già detto, noi non siamo stati guidati, nella nostra
esposizione, da nessuna esigenza d’ordine storico, dal momento che invece dovevamo precisare,
dal punto di vista trascendentale, quali sono le condizioni tascendenti dell’enunciato
trascendentale fondamentale. La nostra ricostruzione è servita a dar peso alle poche parole di
Cartesio che sembrano contraddire il senso dell’intera deduzione teorica delle Meditazioni,
rovesciando così l’ordine apparente di quest’ultima. Il problema teologico non è più, per noi, un
passaggio necessario per giungere, dal cogito, al mondo delle rappresentazioni chiare e distinte,
ma il supporto fondamentale, trascendente, della stessa prova cartesiana, del tutto a prescindere
da ogni ideale di chiarezza e distinzione.
Dire questo, naturalmente, non serve ad annullare la dimensione trascendentale in quella
trascendente ma, proprio al contrario, a mostrare che anche la trascendenza può e dev’essere
pensata in modo trascendentale, se si vuole che la concezione trascendentale stessa, la quale
dovrebbe far da guida ad una scienza nuova, garantisca l’apertura di questa scienza alla
problematica etica. Non c’importa nulla di fondare trascendentalmente una scienza in termini
solo epistemologici (in questo caso resteremmo nei limiti dell’operazione husserliana), perché la
fondazione della scienza nuova dev’essere compiuta sul terreno dei rapporti fra l’etica e la
scienza, ed è del tutto impossibile considerare in una sola prospettiva l’etica e l’epistemologia se
non si deduce la seconda dalla prima, e se non s’espone quest’ultima all’apertura – o al rischio –
che stiamo tentando d’indicare col termine «trascendenza».
Certo, tale termine sembra prestarsi, molto più che a questo scopo, ad indicare la chiusura dei
campi delle scienze in nome di qualche sapere assoluto e sistematico. In questo modo infatti
interviene, nelle Meditazioni, ma anche in quasi tutta la filosofia successiva, il riferimento
teologico, perché Dio viene ridotto ad ens realissimum, vale a dire ad essere un ente che sbarra
definitivamente la strada che porta non solo all’al di là dell’essenza, ma anche, direttamente, a
porre la questione ontologica, cioè a distinguere l’ente dall’essere. Ciò significa che la filosofia
eredita, dalla teologia occidentale, più che un’impostazione teologica, un’impostazione atea. Che
possano esserci – e ci siano in effetti – mille eccezioni a questa regola non modifica affatto il
problema. Feuerbach o Marx, per esempio, quando capovolgono il discorso hegeliano,
affermando un ateismo esplicito e di principio, non fanno che rivelare quanto era già manifesto
nell’idealismo, nonostante il fatto che questo o quel filosofo idealista (altrove abbiamo motivato
queste affermazioni con l’esempio di Schelling) può essersi più volte riferito alla problematica
teologica e religiosa. Noi crediamo che nessun sapere sia assoluto, ma che la strada per giungere
a porsi il problema dell’assoluto debba essere lasciata aperta nel sapere, se si vuole che le singole
scienze non si separino irrimediabilmente, ciascuna d’esse finendo con l’esprimere, in termini
contraddittori con quelli utilizzati dalle altre, delle verità che, a furia d’essere parziali, finiscono
per divenire eticamente indifferenti. Il termine «trascendenza», di conseguenza, non dev’essere
inteso affatto come un riferimento ad un ens realissimum, tanto più che la cosa più chiara che
insegna l’esperienza analitica è che ogni ente è realissimum, se solo si riesce a pensarlo, vale a
dire a proiettarlo sullo sfondo dell’apertura costitutiva della sua realtà, attraverso il suo essere: il
quale essere sarà pensato come tale – e quindi non come ente – solo alla condizione che venga
mantenuta quest’apertura, che non è un’apertura sull’essere, la quale non produce altro che la
riduzione dell’essere all’ente, ma è l’apertura all’al di là dell’essenza, insomma alla sorgente
muta, ma proprio per questo vitale, della Parola che ci costituisce.

364. Tutte queste affermazioni, naturalmente, andrebbero motivate e documentate.


Cercheremo di farlo man mano che il nostro lavoro procederà per la strada che si aprì dinanzi a
noi, allora, a dire il vero, senza che sapessimo bene quale fosse la direzione verso la quale
conduceva. Il problema metafisico e trascendentale che ora ci troviamo di fronte è il seguente:
come possiamo pensare in termini trascendentali la trascendenza, s’è vero ch’essa è condizione
della stessa trascendentalità del pensiero? Come si vede, non è un problema molto diverso da
quello posto da Platone nel Carmide, da Anselmo nel Proslogion o da Plotino nelle Enneadi,
anche se nessuno di questi autori pensava esplicitamente in termini trascendentali. Ci pare
comunque d’aver individuato, nel loro pensiero, un’interrogazione che, pur non essendo fondata
sulla certezza del cogito, è fondata comunque su una certezza le cui radici s’estendono, molto più
in alto del soggetto, nella sovraessenzialità. Che il sovraessenziale riceva delle determinazioni
che appaiono «storicamente sorpassate», come l’Uno o Dio, ci lascia perfettamente indifferenti.
Pensare non significa rispettare i falsi pudori che solitamente attenuano il peso di quello che
diciamo. Ci rendiamo perfettamente conto del fatto che parlare seriamente – cioè non
storicamente –, come noi stiamo facendo, del sovraessenziale, dell’Uno o di Dio potrebbe
suscitare qualche scandalo. Se così dev’essere, che sia. Un tempo ci si scandalizzava perché la
psicanalisi metteva la sessualità al centro d’ogni attività umana. Oggi ci si potrebbe
scandalizzare del fatto che uno psicanalista ritenga doveroso pensare utilizzando antichi termini
filosofici. Poco importa: ogni epoca ha gli scandali che si merita.
Ma ritorniamo al cogito. Se il capovolgimento che ci pare d’aver individuato, attraverso le
parole di Cartesio, nel suo testo, può essere ammesso (e a dire il vero non vediamo come non
possa, anzi non debba esserlo), l’ipotesi che incomincia a delinearsi è che il cogito potrebbe
essere la riduzione d’un’impostazione trascendente del problema della fondazione del pensiero:
una riduzione che, tenendo conto dei dati della parallela riduzione quantitativa, operata dalla
scienza classica, della complessità del reale, riassume tuttavia il senso fondamentale della
trascendenza che riduce, come se Cartesio avesse operato, nel cono del pensiero, una sezione nel
punto più basso e più vicino alla nostra esperienza – quindi in qualunque pensiero, anche in
quello più debole e privo di garanzie di verità –, ed avesse trovato in questa sezione quella stessa
apertura che Platone individuava «all’infinito» nel mondo sovraceleste delle idee o nell’al di là
dell’essenza, che Anselmo trovava nell’essenza trisipostatica di Dio, e Plotino invece nella
concatenazione necessaria delle tre ipostasi.
L’ipotesi che qui stiamo proponendo è dunque che la certezza raggiungibile attraverso la
prova del cogito non sia affatto – come certamente pensava Cartesio, abbandonando, così, la
strada che lo aveva portato alla formulazione del cogito stesso – una prova immediata, e quindi il
passo inaugurale d’un principio di ragione autoevidente. Infatti il cogito non potrebbe essere il
principio del pensiero trascendentale ed un pensiero trascendentale al tempo stesso. Esso, in
quanto è un pensiero, ha un suo pensato, e il principio del pensiero, s’è un principio, non può
essere pensato. L’autoevidenza del cogito, quindi, se per un verso è effettiva, per un altro è solo
apparente: non perché il cogito rimandi all’evidenza di qualcos’altro (esso rimanda infatti al
meno evidente, niente meno che all’indicibile ed al sovraessenziale), ma perché ad esso viene
dato valore di fondamento proprio dalla presenza, nella sua stessa formulazione, di questo meno
evidente, vale a dire dell’al di là del pensiero. La presenza del sovraessenziale nella
formulazione del cogito, beninteso, non è affatto evidente. Ciò ch’è evidente, nel cogito, è solo
l’inaggirabilità della prova ch’esso offre e il suo valore di fondamento (non di principio) del
pensiero. Invece non è affatto evidente l’origine (il principio) di tale evidenza e di tale valore.
Ora, come può l’evidenza – anzi l’autoevidenza, che non neghiamo affatto al cogito cartesiano,
anche se poco fa abbiamo detto che da un certo punto di vista essa è solo apparente – essere
fondata sul non evidente e sull’indicibile? Implicitamente, abbiamo già risposto a questa
domanda quando abbiamo sottolineato il carattere triadico dell’atto di pensiero: la triade delle
ipostasi del cogito, con la loro necessaria implicazione, la quale soltanto dà al cogito il valore di
fondamento, è la conseguenza della relazione del cogito con l’impensabile stesso. Attraverso il
cogito – vale a dire attraverso qualunque pensiero – l’impensabile è chiuso nel pensato e lo
sostiene: lo sostiene non perché il pensato abbia alcuna autonomia, ma proprio perché si sostiene
solo nella sua relazione con un pensante ed un pensiero. L’impensabile è chiuso nel «penso» (nel
pensiero, nel pensante e nel pensato), e lo sostiene, facendone un fundamentum inconcussum
della conoscenza, proprio per via dell’interna differenza delle ipostasi che costituiscono il
«penso» come uno, e non come molteplice. Quale che sia il pensato del pensiero, anche se fosse
il meno certo ed il più immaginario, purché il pensiero sia rivolto all’apertura che lo costituisce,
il pensiero è in grado di fondare se stesso: sempre, perché il contenuto del pensato è del tutto
indifferente all’apertura del pensiero, il che certo non basta a dare al pensiero stesso il valore
d’una prova; nel cogito, invece, solo nella misura in cui in esso il pensato del pensiero è il
pensiero stesso, e in cui proprio questa coincidenza senza identità dà valore di fondamento al
pensiero. Infatti la coincidenza ipostatica del pensiero e del pensiero, del pensato e del pensato,
del pensante e del pensante, contiene la differenza fra il pensiero e il pensiero, il pensato e il
pensato, il pensante e il pensante: contiene cioè la differenza spazio-temporale costitutiva del
pensiero come fatto soggettivo, differenza che non è altro che l’apertura del pensiero
all’impensabile, dell’essenza all’al di là dell’essenza, dell’essere all’al di là dell’essere. Nel
cogito troviamo dunque un’evidenza che contiene la non evidenza e l’apertura, e proprio questo
fa dell’articolazione cartesiana un’articolazione trascendentale. Nel singolo pensiero, proprio
perché nessun pensiero è un «singolo» pensiero, ma è solo un «momento» in una serie –
temporale e spaziale – di pensieri, è contenuta l’intera prospettiva della trascendenza.
Certo, noi possiamo determinare in molti modi questa prospettiva. In definitiva noi non
abbiamo fatto che darne una delle ricostruzioni possibili, segnatamente quella che ci pareva più
facile e diretta, e non è affatto escluso che se ne possano dare delle altre. A Dio,
all’omoessenziale, al sovraessenziale, all’ipostasi si potrebbero forse dare anche altri nomi. Ma
questo non modificherebbe in nulla ciò cui ci riferiamo, che dopo tutto non è interamente
contenuto da nessuno dei nomi che usiamo, e che quindi rimarrebbe in ogni caso identico a se
stesso (o diverso da se stesso), e del tutto indifferente alla denominazione con la quale viene
appuntato in un detto. Ciò significa che il soggetto che sta iniziando a rivelarcisi, a partire dalla
nostra considerazione iniziale del suo statuto temporale, non è, per sua natura, solo un ente, ma è
anche e soprattutto un ente aperto al suo fondarsi, attraverso i momenti ipostatici della sua
interna differenza. Questi momenti continuano a contenere in praesentia l’intera apertura della
sua provenienza trascendentale, ma trascendentale solo perché la trascendenza, cioè l’apertura
stessa, non è affatto negata nella sua costituzione, neppure nel caso che il soggetto venga assunto
soltanto come ente, e senz’alcun riferimento al suo essere e al di là della sua essenza. In altri
termini, non c’è razionalismo né riduzionismo che possano eliminare del tutto la prospettiva del
pensiero, vale a dire la presenza enigmatica dell’assoluto anche nel pensiero più vago ed incerto.
Naturalmente questo capovolgimento del trascendentale in trascendente, come dicevamo, è
possibile solo se riusciamo ad intendere anche il trascendente in termini trascendentali. Per far
questo l’ultima cosa da fare è pensare che quanto in queste pagine, sulla scorta dei testi dei quali
ci siamo serviti per pensare, abbiamo chiamato l’Uno, o Dio, sia una semplice metafora della
soggettività. Bisogna fare invece esattamente il contrario: aprire il soggetto all’Uno o alla
divinità, insomma al sovraessenziale, com’è indispensabile fare se si vuole tener conto dei
risultati dell’esperienza analitica e nello stesso tempo fondarli in una scienza che non sia solo
una quasi-scienza.

365. Questo basti quanto all’introduzione della prospettiva che ora ci rimane da esplorare.
Passiamo ora a considerare un primo problema: in che modo possiamo ammettere che la certezza
del cogito è funzione d’un’altra certezza, che a noi apparirà più incerta di tutto: quella della
realtà dell’assoluto, cioè del trascendente? E, se lo possiamo, questo non smentisce forse il
valore di fondazione del cogito? Anticipiamo quella che ci pare essere la risposta alla seconda
domanda (lo possiamo fare perché a questa risposta siamo giunti implicitamente nelle pagine
precedenti; ora dovremo rendere esplicito in termini trascendentali quanto lì avevamo articolato
solo nella finzione storica): il valore trascendentale del cogito è così poco diminuito dall’apertura
alla trascendenza, la quale in realtà è la sua fondazione, che, senza di essa, il cogito stesso non
avrebbe alcun valore trascendentale. È quanto pensa Cartesio, come possiamo dedurre dal fatto
che tutto il suo tentativo di fondazione della certezza scientifica attraverso la prova dell’esistenza
d’un Dio che non potrebbe ingannarci è in realtà il ritorno nel suo pensiero d’un pensiero
impensato: ritorno compiuto, certo, in termini, dal nostro punto di vista, del tutto insoddisfacenti,
e con un artificio che a noi pare incompatibile con l’originario movimento trascendentale del
cogito (infatti nulla è meno trascendentale dell’assolutezza di verità che Cartesio fa assumere
quasi per partito preso alle «idee chiare e distinte»); ma pure ritorno che manifesta, per quanto in
modo mascherato nelle forme ingannevoli della prova ontologica, il movimento originario del
pensiero del cogito.
Che il cogito contenga un enigma è quanto appare evidente a chiunque sappia fare
dell’interrogativo filosofico un proprio interrogativo soggettivo. Non lo diciamo per fare della
psicologia a buon mercato, ma per collegarci a quel passo inaugurale della metafisica, che
Platone ed Aristotele seppero individuare nella meraviglia (thayma) dalla quale siamo presi
dinanzi all’essere di tutto ciò che è. Ciò che, nell’articolazione del cogito, può apparire
meraviglioso, o addirittura miracoloso, è il fatto che il pensiero di pensare rivolta come un
guanto questa meraviglia originaria, mostrando come essa non sia altro, in realtà, che l’altra
faccia della certezza originaria: quella con cui l’essere d’ogni ente ci si offre nella sua apertura e
nella sua evidenza addirittura abbagliante, se solo abbiamo occhi abituati a tollerarne lo
splendore. In ogni cosa abita la meraviglia originaria, perché anche noi soggetti, anche noi che
parliamo e pensiamo, siamo cose del mondo, con questa differenza, che in noi la meraviglia della
cosa diventa meraviglia del sapere: miracolo davvero, con il quale non è solo aggirata quella
divisione del soggetto che ci costituisce nell’infelicità della colpa e della privazione, ma è
gioiosamente risolta, nel grande cerchio in moto dell’aión, anche la nostra eterna esclusione dal
senso della Cosa.
Questa è la consapevolezza che noi possiamo trarre dall’articolazione cartesiana del cogito, se
solo sappiamo leggere il testo in controluce. In noi che conosciamo anche la Cosa stessa può
diventare il sovraessenziale e l’abisso invisibile in cui abita; esso è anzi già presente nell’abisso
che, in se stessa, è per noi ogni Cosa. Dire questo non significa affatto dire che il
sovraessenziale, la Cosa ed il soggetto sarebbero lo stesso. Tutt’altro. Essi sono perfettamente
distinti, come le tre ipostasi delle quali parlava Plotino, o quelle in cui il Dio cristiano fu
articolato da chi seppe pensarlo, in sé, come un abisso sempre presente e sempre enigmatico.
Dio, la Cosa e noi stessi non siamo che ipostasi d’un’unica natura, ciascuna delle quali è
trisipostatica. Nessun bisogno di dimostrarlo per Dio, almeno per noi che siamo cristiani,
qualunque cosa ne facciamo dell’evidenza d’esserlo. Non è molto difficile mostrarlo per la Cosa,
che reca intatto, nella sua misteriosa inconoscibilità, quell’al di là dell’essenza che costituisce
nell’essere ogni ente. Meno facile è invece mostrarlo per noi stessi, perché noi partecipiamo,
dalla parte dell’ente, della muta pazienza della Cosa, mentre, dalla parte dell’essere, riusciamo ad
intuire quale sia la potenza misteriosa del divino. Per noi soggetti, quindi, ci vorrà più prudenza,
e un’articolazione più precisa. Del resto stiamo già cercando quest’articolazione almeno da
quando abbiamo tradotto l’evidenza enigmatica del cogito – vale a dire di qualunque pensiero –
nel movimento unitriadico del tempo.

366. Naturalmente ci si potrebbe obiettare che la certezza del cogitare – qualunque cosa
significhi questa parola – è perfettamente evidente per chi pensa, e lo è del tutto a prescindere da
ogni consapevolezza trascendente. Questa evidenza, ch’è manifesta così semplicemente, ogni
volta che davvero si pensa, non basta forse a fondare una teoria trascendentale della conoscenza?
Senza dubbio è così. NÉ Kant né Husserl sembrano chiedere di più al fondamento di certezza
della propria riflessione. Tuttavia non abbiamo evocato abissi, miracoli ed ipostasi solo per
decorare un testo che avrebbe potuto essere molto più scarno e concreto. Infatti non dobbiamo
dimenticare che la nostra prospettiva non è affatto prima di tutto gnoseologica. Se stiamo
tentando di fondare una scienza «nuova» è perché partiamo da un’esperienza – quella della
psicanalisi – che non pare immediatamente assumibile come scienza né in termini kantiani né in
termini husserliani (e tanto meno, quindi, in termini cartesiani), e questo non perché nozioni
come quella d’inconscio, di pulsione o di sintomo non siano riducibili, come abbiamo cercato di
mostrare nella prima parte di questo volume, nei termini della ragione classica, dal momento che
anzi sono formulate, sebbene come eccezioni, proprio nei termini di quella ragione; ma in quanto
abbiamo visto che la psicanalisi stessa non riesce ad articolare con chiarezza deduttiva il proprio
compito con i termini di questa ragione e di quelle eccezioni, e che perciò non riesce neppure a
formularsi come una scienza la quale possa venire riconosciuta da un’epistemologia ben fondata,
e che infine, anche per questo, incontra numerose difficoltà nel trasmettersi, se non in modo
troppo spesso approssimativo e riduttivo. Questo limite della psicanalisi, abbiamo detto, non
dipende dai limiti dei suoi concetti di fondo (se mai, sarebbe più vero il contrario), ma dipende
dal fatto che non si può dedurre un’etica da una gnoseologia senza impigliarsi, con questa
deduzione, in contraddizioni che sono ogni volta chiaramente riscontrabili già nelle filosofie del
passato. Solo autori come Kierkegaard, Heidegger e Nietzsche sembrano fare eccezione rispetto
a questa regola, e sono autori che certamente non hanno fondato la propria riflessione in modo
esplicitamente trascendentale. Ciò significa allora che noi non possiamo fondare la nostra
scienza della soggettività su un fondamento solo gnoseologico, ma dobbiamo sviluppare il
principio di questa scienza all’interno di quelle coordinate etiche che lo rendono possibile, ma
che non ne dipendono minimamente. Se abbiamo dato tanta importanza ad una breve frase di
Cartesio, è stato perché ci pareva ch’essa suggerisse che anche la fondazione cartesiana del
cogito si potesse intendere come l’effetto d’una precedente scelta etica, cioè come il risultato, e
non come il principio, d’una fondazione effettivamente trascendentale. Certo, Cartesio opera una
riduzione, nel proprio testo, di questa sua preliminare scelta etica, come si vede dal riaffiorare
della problematica della trascendenza nei termini logicamente discutibili della prova ontologica,
e la opera in modo perfettamente parallelo a quello con cui riduce anche la significazione del
termine cogitare, il cui significato, in un primo momento estremamente vasto, viene ben presto
ristretto da lui nei termini del pensare chiaramente e distintamente, del resto senza che questa
riduzione venga giustificata motivandola con una sufficiente articolazione. A ben vedere anzi
questa riduzione, operata in base al principio della certezza, è sostenuta proprio da quel
passaggio preliminare ed effettivamente fondante che Cartesio non formula apertamente e che
noi poco fa abbiamo detto essere davvero trascendentale, perché Cartesio racchiude nella
chiarezza e nella distinzione delle proprie rappresentazioni appunto quel riferimento etico e
trascendente al sovraessenziale che noi abbiamo tentato di ricostruire attraverso l’esame d’alcuni
testi filosofici più antichi. Ciò significa fra l’altro che il significato che noi stiamo dando al
termine «trascendentale» non è più perfettamente identico né al suo significato kantiano, né a
quello fenomenologico. Ma su questo punto essenziale ritorneremo fra poco.

367. Che cosa fa sostenere a Cartesio d’essere più certo dell’assoluto – dell’infinito e di Dio –
che di se stesso? Cerchiamo di rispondere tenendo conto di quanto ci è più familiare: il cogito
stesso. Il cogito, abbiamo detto, non è un enunciato o un’enunciazione, ma è un pensiero. La
fondazione del pensiero, per compiersi, non attende certo la formulazione della teoria cartesiana:
il pensiero è sempre stato fondato, anche quando questa fondazione era del tutto implicita ed
oscura. Questo non significa che il cogito consista in un atto psicologico. Che si pensi, dal punto
di vista psicologico, non dimostra nulla, perché, come avrebbe detto Cartesio, nulla può
assicurare che il fatto di pensare questo o quello – neppure di pensare di pensare – non sia
un’illusione provocata in noi da un genio maligno o da un Dio ingannatore. Pensare di pensare,
per esempio, può significare solo che si ritiene di pensare, quindi che lo si ritiene senz’alcuna
certezza. Ciò significa che il cogito consiste in un pensiero che non è minimamente determinato
dal suo oggetto: neppure il fatto che quest’oggetto sia il pensiero stesso, dicevamo, assicura
alcuna identità al pensiero, se la relazione fra il pensiero, il pensante ed il pensato viene descritta
psicologicamente, vale a dire da un punto di vista esterno al pensiero stesso, cioè da un punto di
vista non trascendentale. Come giustamente Platone riconosce nel Carmide, altro è il pensiero
pensante, altro è il pensiero pensato, ed altro ancora il pensiero. Il cogito esprime invece il fatto
che, nonostante quest’alterità fra il pensante, il pensato ed il pensiero, esiste una connessione
necessaria fra questi tre fattori, tale da far cadere anche gli altri due, se uno solo d’essi viene
tolto. Questi tre fattori, quindi, non coincidono, come i tre tori del nodo borromeo non sono un
unico toro per il solo fatto d’essere inseparabili, anche se sono tutti e tre separati se uno
qualunque di loro viene eliminato. Il pensante, il pensato ed il pensiero sono tre fattori del tutto
distinti, eppure inseparabili, perché, se uno solo di essi viene meno, viene meno anche l’atto di
pensare. Quest’atto ci si dà dunque come l’essenza unica d’una triadicità ipostatica. Esso è
insomma unitriadico. Ma lo è solo se noi lo consideriamo come atto, cioè se lo pensiamo in
modo trascendentale, insomma se lo pensiamo dal suo interno, e non da un punto di vista
soggettivo esterno ad esso, perché da questo punto di vista (ch’è poi il punto di vista cartesiano
delle idee chiare e distinte) non c’è alcuna relazione trisipostatica fra il pensiero, il pensante ed il
pensato. L’intera psicologia contemporanea, per esempio, dimostra come si possa costruire, in
base al metodo scientifico, tratto in ultima istanza proprio dalle premesse cartesiane, una pseudo-
scienza della soggettività, fondata sulla determinazione preliminare d’un oggetto psicologico che
non ha nessuna consistenza epistemologica, perché viene considerato come un qualunque
oggetto d’esperienza, come se nulla distinguesse il soggetto da ogni altro oggetto del mondo.

368. Il valore trascendentale del cogito sta dunque nel darsi come atto del pensiero di pensare.
Ne consegue allora che tutto ciò che abbiamo detto del cogito si potrebbe dire anche di qualsiasi
atto soggettivo effettivamente tale. Così l’atto di dire include necessariamente un soggetto che
dice, un detto e il dire stesso; l’atto di fare un soggetto del fare, il fatto e il fare. E questo elenco
potrebbe continuare, includendo ogni atto soggettivo che non si compia nella dimenticanza della
struttura etica – e quindi trascendentale e trascendente – dell’atto. Del resto lo stesso si può dire
per un atto che sia espresso con un verbo intransitivo. Per esempio, anche l’atto di camminare
include necessariamente tre ipostasi. Abbiamo infatti il camminare, e qualcuno che cammina. Ma
qual è l’oggetto di questo camminare? Allo stesso modo, nell’atto di stare, abbiamo un soggetto
dello stare e lo stare, ma qual è l’oggetto dello stare? Se ci facciamo guidare dal linguaggio, non
c’è il minimo dubbio: non ve n’è alcuno. Tuttavia avevamo scartato l’ipotesi – certamente la più
semplice – che la logica triadica ed ipostatica dipenda dalla forma sintattica del nostro modo
d’esprimerci e avevamo aggiunto che ci pareva più vero il contrario, vale a dire che sia la forma
sintattica a derivare dalla logica triadica. Ora possiamo dimostrarlo, se riusciamo ad individuare
un oggetto delle azioni intransitive. Lo stesso aggettivo «transitivo» è riferito ad un passare, ad
un andare-attraverso. Se per esempio prendo qualcosa, io vado-attraverso la distanza che mi
separa dalla cosa che prendo, e tolgo questa separazione e questa distanza, grazie alle quali
l’oggetto mi si costituisce come posto-dinanzi. La distanza, in realtà, non preesiste allo starmi
dinanzi dell’oggetto, perché essa è funzione dello sforzo, sia pur minimo, che devo compiere per
annullarla. Ritorniamo qui su una tematica che avevamo affrontato nella prima parte del volume,
quella relativa al mito freudiano della costituzione del soggetto e dell’oggetto. Il prendere è
soltanto un esempio particolarmente evidente, ma lo stesso si potrebbe dire per qualunque azione
transitiva anche meno materiale, per esempio per il dire, il volere o qualunque altro atto che sia
in relazione con un oggetto: prendere qualcosa, cioè compiere una qualsiasi azione transitiva,
significa in primo luogo negare una distanza, anzi non solo ridurla, ma annullarla. Ora, come
abbiamo mostrato nel nostro mito della costituzione soggettiva, c’è un solo modo per eliminare
la distanza fra un soggetto ed un oggetto: ingoiare l’oggetto e appropriarsene per sempre,
distruggendolo.
Distruggere l’oggetto, tuttavia, riapre immediatamente la distanza fra il soggetto e quanto gli è
posto-dinanzi. In realtà lo star-innanzi d’un oggetto non è altro che la manifestazione o la
figurazione (la Darstellung) della distanza che separa il soggetto da se stesso. La relazione fra un
soggetto ed un oggetto non è altro che l’oggettivazione della distanza costitutiva del soggetto.
Prendere un oggetto non è, per il soggetto, altro che un modo per prendere se stesso. La vanità
del desiderio (e del fantasma) non è altro che la conseguenza della costituzione del soggetto nella
divisione. Il desiderio (patologico) non può essere soddisfatto per il semplice motivo che
l’oggetto esterno dello stare-innanzi non è che la figura dell’oggetto che il soggetto è per se
stesso, e il desiderio patologico non è altro che l’errore necessario, o la semplificazione
necessaria, con cui la nostra relazione intrasoggettiva si manifesta nella nostra relazione con il
mondo. Naturalmente, dal punto di vista strutturale, potremmo anche sostenere il contrario, vale
a dire ch’è la nostra relazione con il mondo che ci sta-innanzi nella mediazione del linguaggio ad
imporci una relazione con noi stessi fondata anch’essa sulla divisione. Che comunque sia vera la
prima o la seconda ipotesi (e sono vere entrambe, anche se lo sono a livelli d’articolazione logica
differenti), quel che importa sottolineare è comunque che il nostro mito freudiano della
costituzione del soggetto e dell’oggetto, come avevamo del resto segnalato già quando
l’avevamo esposto, è ancora un mito psicologico (quindi non trascendentale), perché è fondato
sulla fictio d’una descrizione della genesi della soggettività fatta dall’esterno, come se la
soggettività fosse per noi un oggetto del mondo. Solo il fatto che si tratta d’un mito c’impedisce
di respingere come falsa questa costruzione, tratta in gran parte da Freud. Ch’essa sia un mito
comporta infatti che noi ci assumiamo il compito della sua risoluzione, cioè dell’assunzione
soggettiva del suo contenuto oggettivo.
Ora, se noi facciamo questo, se cioè soggettiviamo il nostro mito, dobbiamo tradurre in
costituzione spazio-temporale della soggettività ciò che il mito ci presenta come relazione fra un
«soggetto» – l’improbabile ameba di cui ci parla Freud – ed un oggetto; dobbiamo quindi tener
presente che ciascun atto – e quindi non soltanto l’atto di pensare o di conoscere – si struttura
triadicamente, vale a dire nel tempo e nello spazio. Il tempo e lo spazio sono le «forme pure»
dell’intuizione perché nessun soggetto coincide perfettamente con se stesso. Ma parlare di questa
non coincidenza, abbiamo visto, ha senso solo se non dimentichiamo ch’essa si profila sullo
sfondo d’un’identità soggettiva. Ora, dal punto di vista psicologico è impossibile far coesistere
queste due descrizioni in una sola: il soggetto sarà identico a se stesso, e quindi totalmente
indeterminato (come sempre nella psicologia, e qualche volta anche nella psicanalisi), o sarà
diviso da se stesso, e quindi determinato, ma secondo una determinazione che resta solo
psicologica, e che quindi non ci dice alcunché dell’essere del soggetto (come accade quasi
sempre nella psicanalisi, che qui si dimostra ancora una volta in contraddizione con se stessa). La
nostra insistenza sulla logica triadica della costituzione soggettiva dipende proprio dalla
necessità di pensare assieme la divisione e l’identità del soggetto in un’unica teoria, la quale
possa rendere conto al tempo stesso della patologia (cioè della determinazione del soggetto da
parte delle significazioni) e dell’etica (cioè dell’autodeterminazione del soggetto nella sua
volontà, quindi della sua libertà costitutiva). Ma quest’identità del soggetto nella sua divisione
non è ancora realizzata nella Spaltung patologica (che se mai è solo una semplificazione della
Spaltung costitutiva del soggetto, come la relazione fra il soggetto e l’oggetto lo è della relazione
fra il soggetto e se stesso). Il nostro mito della costituzione del soggetto e dell’oggetto aveva
comunque il merito di mostrare, sebbene solo nello schema trascendentale della relazione fra il
soggetto ed un oggetto esterno – anche se non è impostato trascendentalmente, un mito, in
quanto tale, ha sempre un valore trascendentale: quello dello schema –, ha il merito, dicevamo,
di mostrare ch’esiste necessariamente un oggetto dell’esperienza, anche se quest’oggetto
s’oggettiva in un oggetto «esterno», il quale tuttavia non è che la rappresentazione trascendentale
d’una parte essenziale del soggetto, e questo solo quando l’azione del soggetto si determina nella
relazione dello stare-innanzi, vale a dire quando sono in questione, nell’azione, le fondamentali
attività animali (in senso etimologico): il nutrimento, la sessualità ed il gioco.
Ma noi non possiamo definire in nessun modo la soggettività in base a queste attività come se
il fatto di soggettivarle non ne modificasse in niente lo statuto. Il nutrimento, la sessualità ed il
gioco d’un soggetto sono senza dubbio differenti da quelli d’un animale. Schematizzando,
possiamo affermare che questa differenza consiste nel fatto che tali attività, nell’animale, cioè
nell’essere non dotato di Parola, sono attività impostate in modo binario, mentre esse, nel
soggetto, sono impostate in modo triadico, cioè spazio-temporale. Ciò non significa privare
assurdamente gli animali d’ogni consapevolezza spazio-temporale; significa invece che lo spazio
ed il tempo, che per gli animali, per quanto possiamo immaginare nel nostro schema
trascendentale, sono ancora determinazioni binarie, vale a dire discontinue, divengono, nel
soggetto, delle determinazioni triadiche, cioè delle determinazioni continue. In altri termini gli
animali, che hanno senza dubbio delle percezioni spazio-temporali magari a volte anche più
precise delle nostre, non possono avere certamente, perché non parlano, alcuna idea d’uno spazio
o d’un tempo «in sé». Noi, invece, l’abbiamo. Ma l’abbiamo perché? Perché parliamo?
Sicuramente. Ma che significa, qui, dire che lo facciamo? Forse semplicemente che «spazio» e
«tempo» sono per noi significanti dotati di significato? Per niente, perché nessun significante
sarebbe dotato di significato se la nostra intuizione non fosse organizzata spazio-temporalmente.
Anche gli animali usano dei segni, i quali però non sono significanti (l’esempio classico è quello
delle api). Che cosa allora costituisce i segni che usiamo noi soggetti come signicanti, vale a dire
come elementi d’un sistema, se non proprio la «forma pura» dello spazio-tempo?
Ma da che cosa è prodotta questa forma pura? Certamente, secondo la prospettiva della
filosofia trascendentale classica questa è precisamente la domanda che non possiamo porci. Ma
questo non significa altro che dire che dobbiamo porcela. Ora, nella nostra costruzione un po’
storica, un po’ mitica, d’una preistoria del cogito, abbiamo trovato forse un elemento che
potrebbe iniziare a consentirci di pensare ch’è possibile dare a questa domanda una risposta
consentita dal far ricorso, invece che alle forme pure dell’intuizione, come Kant aveva fatto
nell’Analitica trascendentale, al «qui ed ora» sovraspaziale e sovratemporale.

369. L’oggetto non coincide minimamente, nella logica triadica dell’atto soggettivo, con
l’oggetto esterno, che se mai lo rappresenta, ma è invece un fattore costitutivo dell’atto
d’esperienza stesso (e senza dubbio, a questo livello d’articolazione, ogni atto è un atto
d’esperienza, e ogni esperienza è un atto). Possiamo dedurre quindi a priori, a questo punto, che
c’è un oggetto d’ogni atto e d’ogni esperienza, anche quando quest’atto è perfettamente
intransitivo. Un atto può essere, in apparenza, intransitivo, ma solo dal punto di vista sintattico e
linguistico, in quanto la sintassi e la lingua assumono come reale la relazione materiale esteriore
fra il soggetto e l’oggetto, come facciamo noi tutti quando dimentichiamo – e dimentichiamo per
ottimi motivi – che l’oggetto che ci sta-innanzi è solo una figura d’una parte di noi stessi. Se
diciamo che abbiamo ottimi motivi per dimenticarlo è perché la nostra relazione con le cose e
con il mondo è una riduzione necessaria – necessaria, per esempio, alla vita – della nostra
relazione con noi stessi. Infatti non potremmo avere nessuna relazione con noi stessi se non
avessimo, prima, una relazione con gli oggetti del nostro bisogno e del nostro desiderio.
Ora, come possiamo concepire l’oggetto d’un’azione intransitiva? Possiamo farlo assai
semplicemente, se ci ricordiamo di quanto abbiamo appena detto, vale a dire del fatto che l’atto e
l’esperienza, nella loro costituzione soggettiva, sono lo stesso. Esperire è un atto, e già la più
semplice delle percezioni lo è. Percepire non è solo subire passivamente un’impronta
proveniente dall’esterno, ma è interagire con quanto viene percepito, dal momento che ogni
percezione include la risposta soggettiva al percepito. Ne consegue che qualunque atto noi
compiamo, foss’anche l’atto di non compierne alcuno, include necessariamente una nostra
risposta a questo atto, in altri termini include il fatto che anche il nostro non agire è
necessariamente assunto come azione, non fosse che perché è assunto nel nostro sapere
dell’azione. Il privilegio che nella filosofia occidentale è sempre stato dato alla conoscenza ed al
pensiero sull’atto e sull’azione dipende, certo, ancora una volta, da una riduzione, perché
sicuramente la conoscenza ed il pensiero offrono il vantaggio di fornire delle immagini stabili –
stabili almeno in apparenza – di ciò che in realtà non fa che trascorrere, ma questo privilegio non
esclude di certo che da esso si possa risalire facilmente all’atto nel quale consiste sia la
conoscenza, sia il pensiero.
L’oggetto d’un’azione intransitiva è dunque, semplicemente, l’oggetto che noi siamo per noi
stessi quando la compiamo. Quest’oggetto, certo, è perfettamente presente anche quando ci
riferiamo ad un oggetto propriamente detto, vale a dire all’oggetto che ci sta-innanzi, ed anzi
include, trascendentalmente, quest’oggetto esterno, dal momento ch’esso, per noi, non
esisterebbe neppure, e non potrebbe starci-innanzi, se questo innanzi non fosse percettibile e
percepito nella nostra azione di venirne a sapere. I microrganismi che abitano sul nostro corpo,
per esempio, non ci stanno-innanzi come gli oggetti che possiamo percepire. Essi sono-per-noi
solo nella misura in cui noi possiamo constatarne gli effetti (se ve ne sono), per esempio in una
malattia; ma sono-per-noi soltanto se sappiamo ch’essi esistono, e lo sappiamo solamente da
quando la loro esistenza è stata dimostrata attraverso quelle vere protesi della nostra conoscenza
– per esempio i microscopi –, che hanno tanto ampliato il campo del nostro sapere. Il ruolo del
linguaggio è sicuramente determinante nella nostra relazione col sapere, ma non è certamente dal
linguaggio che dipende l’identità dell’esperienza e dell’azione. La determinazione linguistica, e
quindi culturale, tende invece, almeno nella nostra tradizione, a dividere nettamente questi due
concetti, velando con questo la costituzione temporale dell’atto soggettivo. La costituzione
triadica dell’atto quindi non dipende dal linguaggio – dal linguaggio in quanto sistema –, ma
dalla Parola, vale a dire dal fatto che, parlando, e riconoscendo attorno a noi delle identità, vale a
dire dei concetti, perché nessun oggetto sarebbe pensabile come identico se non fosse pensabile
attraverso un concetto, noi ci affacciamo di continuo all’orizzonte trans-concettuale dell’al di là
dell’essenza, senza il quale ogni essenza (come ogni concetto) non sarebbe altro che un elemento
insensato d’un sistema linguistico. Ma un sistema linguistico insensato, cioè composto di mere
significazioni, non esisterebbe neppure (un semplice sistema di segni, come quello delle api, non
costituisce ancora un linguaggio). L’atto è dunque costituito triadicamente – anzi
unitriadicamente – perché esso è il divenire nelle essenze del sovraessenziale. Ciascun atto è
dunque omoessenziale, in quanto costituito necessariamente da tre ipostasi (il suo soggetto, il suo
oggetto e l’evento in cui consiste) del tutto inseparabili, eppure nettamente distinte una dall’altra.
Ciascun atto è necessariamente spazio-temporale, sia perché le sue tre ipostasi sono distinte, sia
perché sono le ipostasi d’un’identità.
Tale identità, tuttavia, non è racchiusa nell’atto. Chi potrebbe, infatti, riconoscere un atto
come uno, e quindi come identico a se stesso, se non lo traducesse in una sua rappresentazione,
per esempio attraverso dei significanti o delle immagini? Ciò spiega il privilegio ch’è sempre
stato dato, nel pensiero occidentale, alla rappresentazione sull’azione. Ma la radice dell’identità
della rappresentazione nel concetto – al di là dello spazio ed al di là del tempo – non sta nel
concetto, perché sta nell’atto. L’identità dell’atto è allora identità di che cosa? Dobbiamo
chiedercelo, abituati come siamo a pensare che l’identità sia una relazione fra due oggetti
identici. Ma nessun oggetto è identico ad un altro. Il principio d’identità, A=A, come abbiamo
visto, impostato in questi termini, è un principio illusorio, dal momento che il primo A è identico
al secondo solo perché ne è differente. La radice dell’identità sta dunque nell’inidentico, cioè nel
sovraessenziale. Ciò che si dice identico nel concetto è solo l’apertura del concetto, attraverso
l’atto soggettivo in cui esso consiste (perché il concetto non è altro che uno stato soggettivo), al
sovraconcettuale, cioè al sovraessenziale, dal quale proviene, prima ancora che il significante, la
Parola. La Parola non è altro che l’apertura del significante all’insignificabile. Ciò non vuol dire
che il significante venga prima della Parola, ma proprio il contrario, cioè che la parola consente
che ci sia il significante, perché consente che ci sia un’identità come riduzione dell’inidentico. Il
sovraessenziale partecipa dunque alla sfera dell’essenziale, ma solo perché la produce (la crea).
Il sovraessenziale, ch’è principio dell’identità, non è identico a se stesso, e proprio per questo
produce l’identico come una sua metafora. In definitiva, il mondo intero potrebbe essere definito
come una smisurata metafora del sovraessenziale.

370. Stiamo dicendo dunque che il pensiero, di per sé, vale a dire in quanto è concepito come
pensiero di qualcosa, non ha alcun valore di fondazione gnoseologica. Ad averlo è solo il
pensiero concepito come atto, in quanto in ogni atto è necessariamente inclusa la certezza
dell’essere d’un quid che in definitiva non è nessuno dei tre fattori dell’atto (né il soggetto, né
l’oggetto, né l’azione), ma ch’è piuttosto la causa della loro necessaria implicazione, cioè il
sovraessenziale dal quale si produce l’essenza. A fondare la verità della conoscenza è quindi,
certamente, il cogito, ma solo in quanto esso ha ben poco a che vedere con il fatto d’avere questo
o quel pensiero, ed è invece determinabile trascendentalmente come la presenza, nell’atto, di
quel quid che non s’identifica con nessuna delle tre ipostasi del pensare (o del fare, o di qualsiasi
altra azione), e che quindi è, sé, nell’essere, appunto come cogitare, vale a dire come sapere
certamente d’essere, ma che non riesce a fondare il proprio essere come un essere assoluto.
L’essere soggettivo, la cui certezza è autoevidente nel cogito, non è un essere assoluto, ma un
essere temporale. Ciò nonostante il cogito costituisce una prova assoluta dell’implicazione dei
suoi tre momenti (e quindi dell’essere del cogitare, il quale essere non è altro che la necessaria
implicazione delle sue tre ipostasi). Questa prova deve dipendere quindi dal manifestarsi, in
questa implicazione, d’un assoluto. Assoluta è certamente la coimplicazione necessaria delle tre
ipostasi del pensiero. Ma noi riusciamo a dirla assoluta solo per viam negationis, in quanto non
riusciamo a pensare un pensiero o un’altra azione senza soggetto e senza oggetto. Ma perché
questa implicazione debba essere assoluta non sappiamo dirlo in termini positivi, e possiamo
solo attribuire questa assolutezza al manifestarsi, nella triadicità dell’atto, d’un quid che, non
partecipando della triade, la determina nella sua triadicità. Il sovraessenziale, in quanto tale,
infatti, non è neppure nominabile, e noi lo nominiamo qui solo per viam negationis,
apofaticamente. Ciò non significa tuttavia che noi abbiamo fatto un passo avanti nella
costituzione spazio-temporale del soggetto solo nominandolo in un innominabile. Sarebbe
davvero troppo comodo limitarsi a questo. Il punto è che l’innominabile è tuttavia nominato
nell’essere: nominato parzialmente, senza dubbio, e tuttavia nominato. La Parola – il lógos –
infatti non è altro che la nominazione dell’innominabile (del sovraessenziale).
Nessun essere – tanto meno quello soggettivo – può essere originariamente. Nessun essere,
insomma, neppure quello di Dio, è in grado di trattenersi da solo nel suo essere. Neppure l’essere
di Dio lo è, perché l’essere di Dio, se viene pensato come assolutamente sufficiente a se stesso,
non viene affatto pensato come essere, ma come un essere contraddittorio con il nostro modo di
pensare l’essere. Dire quindi che l’essere divino è assolutamente sufficiente a se stesso significa
dire che l’essere divino è in relazione con un al di là di questo essere, il quale al di là è il cuore
innominato e segreto della divinità e, più in generale, d’ogni essere. L’essere assoluto – l’essere
divino – si distingue tuttavia dal nostro essere per il fatto di non venire determinato spazialmente
e temporalmente. L’essere soggettivo, invece, non è che un venire-ad-essere o un essere-stato.
Ma questo non significa, come abbiamo visto, che l’al di là del tempo e dello spazio, come l’al di
là dell’essere, sia del tutto precluso ad un soggetto. Ciò è così poco vero che, senza questo al di
là, non ci sarebbe tempo, perché non ci sarebbe un ora; non ci sarebbe spazio, perché non ci
sarebbe un qui; e non ci sarebbe essere, perché nessun essere è in grado di sostenersi su se stesso.
L’essere soggettivo, in quanto soggettivo, è comunque spaziale e temporale, in quanto (o per
quanto) è aperto all’al di là del tempo e dello spazio. L’essere soggettivo è un venire-ad-essere o
un essere-stato, dicevamo. E il presente? Non è forse proprio il presente il vero tempo
dell’essere?

371. Il presente può intendersi in due modi: come durata e come istante. La durata tuttavia
non è il presente: essa è piuttosto il trascorrere del tempo, che diviene presente e diviene passato,
ma non è più futuro e non è ancora passato. L’istante, inoltre, è sicuramente presente, ma solo
nell’astrazione cronometrica. Voler pensare il presente come un ente porta soltanto a cancellarlo,
a farne la linea di confine impercettibile fra il non essere del passato e il non essere del futuro.
L’istante è quindi, di per sé, al di là del tempo, e non è più presente di quanto non sia futuro o
passato. Ciò non significa tuttavia che il presente non partecipi del tempo. Esso è forse anzi il
tempo nella sua assolutezza. Il presente è l’«ora» della scelta, a partire dal quale il passato e il
futuro si determinano o rideterminano eticamente. Questo «ora» non è l’istante nella sua
astrazione cronometrica, ma è l’istante come apertura del tempo dalla decisione e dall’atto.
L’«ora» è il determinarsi temporale del sovratemporale, è la genesi stessa del tempo, genesi non
oggettiva – perché il tempo non ha alcuna esistenza oggettiva, in quanto è il modo soggettivo del
darsi degli oggetti –, ma etica. Al presente, l’essere si dice dunque solo eticamente, cioè solo se
sappiamo pensare il tempo come il modo d’offrirsi agli altri ed alle cose della nostra decisione
nella nostra azione, e non come una mera datità. Al presente, il tempo non è un mero trascorrere,
ma è un tempo: uno proprio in quanto è determinato dall’uno della nostra decisione, cioè dalla
giunzione omoessenziale delle tre ipostasi temporali: il passato, il presente ed il futuro.
Che il presente sia la giunzione omoessenziale delle tre ipostasi del tempo non significa che il
tempo stesso sia un’essenza. Esso non lo è per lo stesso motivo per cui non è un concetto, ma
una forma pura. Passato, presente e futuro appaiono come le ipostasi del tempo, ma sono in
realtà soltanto le ipostasi dell’atto cronogenetico. Il tempo è la forma pura dell’atto, ed il
presente è la sua decisione, vale a dire il suo inizio, in quanto contiene già come un tutto la sua
conclusione. L’atto è essenziale solo se il suo inizio contiene già la sua conclusione ed il suo
sviluppo. Ci troviamo insomma nel registro del senso e dell’agone, non in quello della
significazione e del fantasma, benché pure questo secondo registro debba essere necessariamente
incluso nell’azione, se non altro come suo supporto. Inteso eticamente, il presente è un assoluto.
Ma se il presente, eticamente, è un assoluto, tutto il tempo diviene un assoluto. Ora, l’assoluto
del tempo non è il suo trascorrere, né la sua durata, ma il suo riprodursi al di fuori del tempo. Il
tempo che, nella decisione etica, viene dall’al di là del tempo, vi ritorna eternamente. Il grande
mito nietzschiano del ritorno può venire inteso proprio in relazione all’esigenza di pensare il
tempo come un assoluto. L’eterno ritorno non è l’eterno riprodursi del ciclo temporale in un
secondo tempo che sarebbe «eterno», ma è la continua ed «eterna» presenza della decisione etica
a se stessa. L’esigenza d’assolutizzare il tempo scaturisce immediatamente dal fatto che nessun
essere è un assoluto – neppure quello di Dio –, se non è sostenuto nel suo essere dal venire ad
essere di qualcosa che non è del registro dell’essere, ma è l’al di là dell’essere o l’al di là
dell’essenza. Il tempo può assolutizzarsi solo perché la decisione etica è già, nella propria
giustizia, un assoluto. La decisione è l’assoluto del soggetto, è cioè la giustizia del suo agire, in
vista del suo compito e del suo destino, non come già dati, ma come sempre di nuovo riaffermati
e voluti con un sé che fa di quel compito, di quel destino e di quella decisione un atto di libera
scelta: libera non perché essa potrebbe essere diversamente, ma solo perché non potrebbe. La
libertà della scelta quindi non consiste affatto nell’adeguamento della volontà ad una legge,
come nella seconda Critica kantiana, ma nell’invenzione o nella reinvenzione della legge. Nella
libera scelta, l’azione diviene legge a propria volta: non perché debba costituire necessariamente
un obbligo o un modello per qualcuno o per qualcosa, ma perché è formulata nella sua
assolutezza immodificabile e nella sua giustizia.

372. La giustizia, cioè la libertà dell’atto, dipende dunque dalla capacità di chi lo compie di
lasciar essere in esso l’al di là dell’essenza (di lasciar divenire essere l’al di là dell’essere). Noi
continuiamo a nominare e ad indicare questo al di là non nominabile. Evocarlo nel linguaggio,
tuttavia, non significa necessariamente tradurlo, riducendolo ad essere, se non in quanto esso
stesso ci si offre nella sua riduzione, cioè nel destino della sua giustizia. Nominarlo
apofaticamente non significa ridurlo ad essere o a non essere, ma pensarlo senza pensarlo –
pensarlo al limite del pensabile – come coincidenza d’essere e non essere. Certo, questa
coincidenza è un concetto contraddittorio, anzi è una vera antinomia concettuale, perché essa non
è pensabile nell’essere. Ma questo significa forse che non sia pensabile assolutamente? Se non lo
fosse, l’essere stesso sarebbe pensabile assolutamente, cioè senza principio. Ora, certamente
l’essere è principio, perché non può venire ad essere se non qualcosa che proviene dall’essere.
Ma nulla proviene dall’essere se non proviene anche dal non essere. Non si crea se non «dal
nulla», e tuttavia non si crea solo dal nulla. Dire che non si crea se non «dal nulla» significa in
realtà che l’essere non basta a far venire ad essere, perché creare significa appunto imporre a
qualcosa che non è un essere che non è ancora, e far essere quel che non è ancora, ma solo in
quanto è già. Creare è dunque proprio dell’al di là dell’essere, in quanto la compresenza
nell’essere dell’essere e del non essere (compresenza ch’è il tempo) è la determinazione non
determinata e non determinante di questo al di là. Questo al di là dell’essere, quindi, non è
«prima» dell’essere. Esso è al di là dell’essere in tutto ciò che è; esso, insomma, è realmente
presente in ogni essere. Del resto l’indicibile può dirsi, cioè può liberamente decidere come dirsi.
Il senso è appunto il dirsi dell’indicibile. Il mégiston máthema platonico, sul quale ci siamo
soffermati nella Formazione, è appunto l’insegnamento «massimo» perché è l’insegnamento
dell’ininsegnabile. Ma ciò ch’è ininsegnabile, nella formazione, è ciò ch’è più ch’essenziale: è il
sovraessenziale stesso. Il mégiston máthema è dunque la formulazione assoluta
dell’informulabile, la traccia reale, nelle forme, nelle essenze e nelle significazioni, del
sovraessenziale. Ora, questa traccia reale non è affatto immaginaria, come si dimostra con
l’esempio (che non è nulla più che un esempio, anche se privilegiato perché particolarmente
evidente) dell’arte. Qualunque opera d’arte è, nel mondo delle forme e delle essenze, la traccia
ripetibile (e proprio per questo non necessariamente ripetuta) del sovraessenziale. È per questo
che l’esperienza artistica – e certamente non la semplice storia dell’arte – ha una funzione
formativa decisiva: formativa, beninteso, non nel senso dell’imparare dei contenuti morti di
sapere, ma nel produrre una vera e propria trasformazione soggettiva, cioè una vera e propria
ascesi.

373. Il cogito ha quindi un valore di fondazione della certezza nella conoscenza solo se noi
pensiamo trascendentalmente, il che per noi vuol dire ch’esso ha questo valore solo se noi
pensiamo l’apertura dell’ente al proprio essere, sullo sfondo di ciò da cui quest’essere non cessa
di venire. Non stiamo pensando astrattamente, ma stiamo deducendo quel che diciamo dalla
teologia, ch’è riuscita a pensare tutto questo, nonostante la sua tendenza «naturale» (che qui vuol
dire soltanto culturale) all’ateismo, solo perché vi è stata guidata, o addirittura costretta, dal
dogma trinitario. Ora, un dogma, secondo la sua definizione cristiana è la formulazione d’una
verità incomprensibile alla ragione, e tuttavia indicata dalla rivelazione. Qualunque cosa
s’intenda con quest’ultimo termine – e ancora una volta non vediamo perché non lo si debba
intendere nel modo più tradizionale, come una rivelazione operata dalla divinità stessa,
attraverso quella Parola ch’è una delle sue ipostasi –, è certo che la verità, anche a prescindere
dal cristianesimo, molto spesso ci si rivela ben al di là della nostra capacità di comprenderla.
Non è neppure certo che la verità sia fatta per essere compresa, o se non sia invece essa a
«comprenderci», vale a dire a situarci, ad assegnarci un posto fra le cose e fra gli altri, a
costringerci ad agire o a non agire. Che tuttavia la verità possa rivelarsi è fuori dubbio: non
perché essa sia di solito naturalmente velata, ma forse perché, molto più semplicemente, noi non
tolleriamo di guardarla direttamente se non per pochi istanti. Certamente, dire quello che qui
stiamo dicendo – non solo sulla rivelazione, ma anche sulla verità, che senza dubbio s’è rivelata
e continua a rivelarsi anche nel cogito, senza che per questo il cogito debba avere un significato
religioso – significa capovolgere i termini generalmente ammessi del problema della conoscenza.
Che nel cogito, in quanto lo pensiamo, continui a rivelarsi della verità significa che la prova
ch’esso offre non è stata data una volta per tutte nel pensiero di Cartesio. Ora, se questo è vero, è
vero pure che la prova non avviene nella significazione. Nella significazione, in realtà, non si
dimostra nulla, neppure che due più due è uguale a quattro. Certo, noi siamo sicuri, nella
significazione, di questa uguaglianza, e non ne dubitiamo. Ma, se vogliamo provare che quanto
sappiamo è vero, anche questa semplicissima addizione ci si può forse dimostrare carica d’un
senso che nulla, nella significazioni dell’aritmetica, ci lasciava presagire. In realtà, non è perché
pensiamo che possiamo essere sicuri di pensare, ma perché noi, nel nostro pensare, che di per sé
non fonderebbe nulla, possiamo qualche volta pensare attorno ad una prospettiva di fondazione
del pensiero. Nel pensare, insomma, se pensiamo davvero, siamo visitati dalla nostra certezza.
Chi non conosce la grazia che c’impone questa visitazione, non sa che cosa significa pensare, ed
ignora che il pensiero non è altro che un modo dell’azione.
Ora, siccome il pensiero trascendentale dipende dal cogito, dev’essere pur vero che il cogito, a
sua volta, dipende da un modo di pensare almeno implicitamente trascendentale (di fatti la
filosofia trascendentale non è nata immediatamente dalle Meditazioni). Stiamo quindi
distinguendo un significato filosofico tradizionale del termine «trascendentale» da un secondo
significato, che noi stiamo dando a questo termine. Dobbiamo anzi dire che neppure il pensiero
di Kant, che pure è interamente determinato dalla prospettiva trascendentale, è immediatamente
ed evidentemente descrivibile come un pensiero trascendentale – almeno secondo il significato
che noi stiamo dando a questa parola –, come dimostra il fatto ch’egli non riesce a pensare-
assieme l’etica e la conoscenza, ed è costretto per questo a modellare la prima sulla seconda. In
verità, bisogna attendere Husserl perché questa prospettiva si precisi – anche se nei limiti della
concezione fenomenologica –, come un progetto di fondazione delle scienze. E questo significa
che, per costruire una tradizione di pensiero trascendentale, che da Cartesio giunga fino a
Husserl, bisogna attendere quella «crisi delle scienze europee» della quale Husserl è stato forse il
primo a dare una convincente spiegazione teorica; bisogna attendere cioè quella crisi della quale
la psicanalisi è espressione, ma a creare la quale al tempo stesso ha contribuito in modo
determinante. La differenza fra l’uso che noi facciamo dell’aggettivo «trascendentale» e il suo
uso kantiano e fenomenologico sta nel fatto che noi includiamo necessariamente la problematica
etica nella prospettiva ch’esso determina, ed in una posizione più essenziale di quella della stessa
problematica gnoseologica, come né Cartesio, né Kant, né Husserl hanno mai fatto.
Ora, che cosa ci consente di riconoscere in Cartesio i presupposti d’una filosofia
trascendentale che non solo non erano evidenti ai suoi contemporanei, ma che non lo erano
neppure a lui stesso, come testimonia indiscutibilmente tutto lo sviluppo che egli dà alle proprie
idee? Che cosa, in altri termini, ci fa assegnare alla certezza del cogito il valore non d’una
razionalistica evidenza, ma quello, molto più essenziale, d’un fondamento soggettivo della
conoscenza? Che cosa, insomma, ci consente di dare un valore trascendentale al cogito, sia nel
significato che noi stiamo dando a questo termine, sia in quello più tradizionale? A questa
domanda c’è una sola risposta possibile: il fatto ch’esso ci viene presentato, da Cartesio e da
Husserl, come il risultato o il resto – ma è lo stesso: potremmo dire come il fondo, il Grund –
d’un’esperienza soggettiva di pensiero la quale include un momento ascetico come proprio
fattore decisivo. È questa esperienza che noi possiamo fare nostra, ogni volta che ripensiamo il
cogito, cioè ogni volta che ne facciamo esperienza, non nelle mere significazioni, ma nel senso,
ripensando, cioè ricreando, il suo significato. Come sempre la «cornice» ci dice qualcosa
d’essenziale sul senso della domanda filosofica (questa non è certo un’esclusività di Platone). Se
noi togliamo al pensiero di Cartesio il dubbio, e a quello di Husserl l’epoché, li spogliamo d’ogni
carattere trascendentale, e li riduciamo nei termini, per nulla dimostrativi, d’un ottimismo della
ragione che s’adatterebbe molto facilmente a qualunque ideologia scientificizzante. Ma noi
sappiamo bene che non è così, e lo sappiamo bene solo perché sia Cartesio, sia Husserl mettono
in questione anche ogni certezza scientifica, prima di rifondare la scienza su una base d’
evidenza.
E tuttavia che cosa è intellettualmente evidente nel cogito? Il fatto che ci sarebbe
un’immediata trasparenza del cogitare a se stesso? Eppure, qualunque cosa ne pensasse Cartesio,
nel cogitare non c’è assolutamente nessuna trasparenza. Nel momento in cui io penso di pensare,
sono già fuori dal mio pensiero, perché penso nel tempo, quindi senza nessuna immediatezza,
tanto che, se potessi pensare con immediatezza, non penserei affatto, ma sarei al di qua del
pensiero (non sarei un soggetto ma una Cosa), o al di là del pensiero (non sarei un soggetto ma
un dio). Se penso, dunque, non posso che pensare nell’incertezza (nel dubbio o nell’epoché),
vale a dire nel tempo. Ora, è proprio qui, nell’incertezza e nel tempo, che s’apre la certezza,
magari quella, piccolissima, del fatto di pensare, la quale è comunque il presupposto di molte
altre certezze; o quella, altrettanto modesta, che Husserl espresse molto meglio di Cartesio,
quando dichiarò ch’essa non è tanto la certezza dell’essere – perché l’essere e la certezza sono la
stessa cosa –, quanto quella del fatto che non può esserci nessun cogitare senza che ci sia perciò
stesso, ed immediatamente, anche un cogitans ed un cogitatum. Noi possiamo separare ciascuna
di queste tre ipostasi dalle altre, se traduciamo il pensiero in termini formali, vale a dire in
termini linguistici; ma questa traduzione può essere uno strumento del pensiero – cioè far parte
del pensare-a-qualcosa –, e tuttavia essa non è affatto il pensiero che fonda la nostra conoscenza,
perché non è il pensiero trascendentale, che non è un pensare a qualcosa, ma un pensare il
pensiero, qualunque cosa pensi, anche il fatto di pensare. Pensare di pensare dunque non assicura
alcuna apertura trascendentale al pensiero se, pensando, non ci s’interroga su che cosa significa
pensare. Basterebbe allora quest’interrogarsi per fare d’un pensiero un pensiero trascendentale,
secondo il significato che noi diamo a questo termine? Se così fosse, ogni vero pensatore
penserebbe trascendentalmente: Platone, Plotino ed Anselmo, non meno di Cartesio, di Kant e di
Husserl. Non stiamo forse generalizzando troppo l’uso di questa parola?
Cogitans, cogitatum e cogitare sono le tre ipostasi dell’atto di pensare, isolabili solo nel
nostro pensare-ad esse, non nella loro funzione. Se dunque pensare veramente, pensare-
interrogando, significasse sempre pensare in modo trascendentale, anche quando non si tiene
minimamente conto del problema della fondazione del pensiero, chiunque penserebbe
trascendentalmente. E questo certamente non è vero. Ma è possibile davvero pensare
interrogando – pensare radicalmente, pensare sino in fondo – senza porsi il problema della
fondazione di quello che pensiamo, cioè di qual è il reale che sostiene il nostro pensiero? Non lo
crediamo affatto. Indiscutibilmente quindi né Platone, né Plotino, né Anselmo ritengono che nel
pensiero sia contenuta la chiave della certezza del pensiero, come ritengono tutti i filosofi
trascendentali. Ma è anche vero che questi autori, anche a prescindere dal cogito, quando
pensano, pensano proprio nella prospettiva della fondazione del pensiero. Per conto nostro,
quindi, non vedremmo alcun inconveniente nell’affermare che anch’essi pensano
trascendentalmente, almeno nel significato allargato che noi stiamo dando a questo termine, a
patto che sia chiaro che un conto è pensare (trascendentalmente, vale a dire interrogando, e
quindi inevitabilmente ponendosi il problema della fondazione di quello che pensiamo), un altro
è formulare quello che pensiamo (in modo trascendentale o no). Ciò significa allora che il fatto
che l’esposizione d’un pensiero – per esempio quello di Platone, di Plotino o d’Anselmo – non è
impostata in modo trascendentale non esclude necessariamente che invece trascendentale – vale
a dire interrogante quanto al fondamento del pensiero – sia quel pensiero, come dimostra il fatto
che neppure Cartesio imposta in modo trascendentale i suoi scritti, eppure è stato considerato il
precursore della filosofia trascendentale.
Beninteso, non stiamo minimamente reinstaurando una «verginità» del pensiero, che starebbe
a monte della sua espressione. Tutt’altro: il pensiero è sempre espresso, formulato in parole, e
noi non riusciamo affatto a pensare quei presunti pensieri che non riusciamo a dire. Anzi, a dire
il vero, occorre molto di più che saperli formulare, per pensare: occorre saper andare oltre le
parole (oltre l’essenza), rendendo quel pensiero realmente presente, attraverso quello che
diciamo ed al di là di quello che diciamo, nelle parole in cui lo formuliamo, com’è possibile fare
solo perché la Parola non è il significante. Ciò però non comporta necessariamente che sia
impossibile distinguere il pensiero dalla sua formulazione. La misura, in questi casi, non sta nelle
significazioni vuote con le quali ci esprimiamo, ma nelle parole abitate da un soggetto, cioè nella
Parola. E dunque, se nessuna parola ci assicura di trovarci davvero dinanzi ad un pensiero, il
pensiero, quand’è davvero tale, ci assicura certamente di trovarci dinanzi a una Parola. Certo, ci
si potrebbe chiedere alla Parola di chi, allora, ci troviamo dinanzi. A quella di Platone, di Plotino,
d’Anselmo o, più semplicemente, dinanzi alla nostra? Ma, in fin dei conti, che importa? Le
parole di Platone, di Plotino o d’Anselmo ci riguardano soltanto perché noi le possiamo abitare,
perché noi possiamo dare ad esse un senso, o perché, meglio ancora, esse possono trovare il loro
senso in noi. Non diciamo questo per annullare o schiacciare nella nostra assunzione la lunga
storia di quelle parole, dal momento che le assumiamo appunto come provenienti da un lontano
passato. Infatti, della «nostra» Parola, che cosa ne sappiamo? Saremmo forse veramente noi i
suoi autori? O non ne siamo invece visitati, nonostante il fatto che non sempre sappiamo udirla,
coltivarla e comprenderla?

374. Ora, perché i momenti costitutivi del cogitare non possono essere né meno né più di tre?
Senza dubbio perché pensare è un atto. Ma che significa dire che un atto è uno? Che cosa lo
delimita, rendendolo numerabile? In base a che cosa lo si stabilisce e lo si riconosce?
Semplicemente in base al fatto che dire «uno» è dire il nome di nessuno. «Uno» è il nome
dell’insieme vuoto, è il nome dello zero. Per pensare, quindi, non c’è nessun bisogno di pensare
qualcosa. Basta pensare di non pensare perché un pensiero si delinei come uno sullo sfondo del
non pensiero ch’è posto necessariamente dal darsi d’un pensiero, sia pure del pensiero di non
pensare a niente. Il «non pensare a niente» è quindi già un modo di pensare, purché noi, in questo
non pensare, stiamo interrogando il pensiero sulla sua fondatezza (il che sicuramente non
significa che basti il non pensare a niente per pensare, nel senso forte del termine). Anche se
penso solo di non pensare, io posso produrre questo non pensare come un oggetto del mio
pensiero, trasferendo l’uno di questo non pensiero dalla parte di me che lo penso, e quindi
producendomi come un soggetto proprio perché dimentico di non essere che il luogo del prodursi
d’un pensiero, e lasciando andare come pensante e pensato (come soggetto e oggetto), in questa
dimenticanza, l’atto stesso del pensiero che mi costituisce come uno nello stesso momento in cui
costituisce come uno il mio pensiero ed il suo oggetto. Un pensiero, il suo soggetto ed il suo
oggetto non sono affatto tre entità distinte (se non perché posso distinguerle nominandole), ma
sono le tre facce dello stesso atto: atto che, beninteso, non compio affatto «io», dal momento che,
senza di esso, non ci sarebbe alcun io. L’atto, nella sua triadicità e nella sua unità, «viene prima»
di me che lo compio, e io non verrei ad essere affatto – o, ma è lo stesso, a credere di essere – se
questo atto non mi facesse essere, del tutto indipendentemente da ogni mia decisione. Un
pensiero non è nulla di psicologico, ma è realmente un pensiero (è un pensiero in senso
trascendentale, e non in senso psicologico) solo se esso mi costituisce. Ora, un pensiero che mi
costituisce – e certamente può farlo anche senza che io lo sappia – è già, a tutti gli effetti, un
pensiero trascendentale, in quanto, dal momento che mi costituisce, include necessariamente la
soluzione del problema della sua fondatezza.
Ogni pensiero, se lo intendo in quanto pensiero, e non in quanto pensiero di qualcosa, è già in
sé strutturato trascendentalmente, dal momento che non posso intenderlo come pensiero se non
ponendomi il problema della sua fondatezza. Naturalmente, un pensiero, «in sé», è già fondato
trascendentalmente, anche quando è il pensiero di qualcosa. Nessun pensiero, in quanto pensiero,
vale a dire «in sé», è pensiero di qualcosa, perché invece il qualcosa è la riduzione dell’«in sé»
del pensiero, tanto che io posso dimenticare la natura di pensiero di questo o quel pensiero solo
perché il mio pensiero è costituito trascendentalmente, solo perché è fondato. Infatti, non potrei
pensare di pensare a questo o a quello se nel pensare a questo o a quello non potessi pensare
qualcosa che potrà dimostrarsi vero o falso. Ma bisogna pure che un pensiero, per dimostrarsi
vero o falso, possa venire verificato o falsificato. E come potrebbe esserlo un pensiero che non
fosse fondato nella sua verità di pensiero, e del tutto a prescindere dalla verità del suo pensato?
Non ci sarebbe nessuna verità del pensato se non ci fosse veramente un pensiero che mi
appartiene in quanto mi costituisce.
Ma un pensiero non mi costituisce in quanto è un pensiero; mi costituisce invece in quanto è
un atto. Perciò posso dimenticare la sua natura di atto, e pensarlo solo come pensiero, come se il
pensiero e il pensare a qualcosa fossero lo stesso, e quindi come se il pensiero fosse, in sé,
qualcosa d’assoluto (così ha sempre creduto che fosse la filosofia moderna). Certo, un pensiero,
in quanto è un pensiero, cioè è pensato trascendentalmente, è per me qualcosa di primario,
perché il mio atto, senza il pensiero, sarebbe del tutto vuoto, del tutto asoggettivo, cioè sarebbe
una mera risposta automatica ad alcuni stimoli esterni. Ma io posso agire e posso pensare perché
agire e pensare sono modi diversi e collegati d’essere soggetto. Il fatto poi che questo esser
soggetto si manifesti prima di tutto nella significazione non significa che basti la significazione
perché ci sia soggetto. Un testo scritto non è un soggetto, e non contiene neppure alcuna
significazione, se non per un soggetto che lo legga o almeno che lo intenda come un testo scritto.
Fra essere soggetto, agire e pensare c’è la stessa inscindibile relazione triadica che c’è fra
pensante, pensiero e pensato, fra agente, agire ed agito, fra parlante, parola e detto. Non lo
diciamo per creare una gerarchia delle relazioni triadiche – come certamente si potrebbe fare;
Proclo, nella Teologia platonica, ne ha costruita una complessissima –, ma per mostrare come in
ciascuna relazione triadica si manifesti un quid che non vi è inscritto, e grazie al quale la loro
triadicità assume valore di certezza. Il valore di certezza che assume per noi la triadicità
ipostatica dell’atto proviene insomma dalla cosa meno certa che ci sia, cioè dal quid non
essenziale senza il quale non ci sarebbe alcun essere triadico. In definitiva, la riflessione
esplicitamente trascendentale di Cartesio, Kant e Husserl non fa che oggettivare, esprimendolo
in una teoria, il carattere trascendentale del pensiero, dell’azione e dell’essere. Ma questa
oggettivazione non sarebbe dimostrativa di niente se in essa non restasse, attraverso il senso che
si manifesta nella significazione in cui s’esprime la teoria, lo stesso elemento di certezza che si
manifesta nel pensiero, nell’azione e nell’essere. Essere, agire e pensare sono modi di darsi –
ipostasi – d’uno stesso.
Ma che cos’è questo qualcosa che diciamo lo stesso? Che cos’è questo quid? Finora abbiamo
risposto ch’esso è l’apertura all’al di là dell’essenza, senza la quale non ci sarebbe un essere. Ma
in che relazione è quest’apertura con il soggetto che è, agisce e pensa? È più facile concepire
questa relazione quando si tratta della relazione fra l’al di là dell’essenza e l’assoluto, per
esempio quando si tratta della relazione fra l’al di là dell’essenza e Dio (non fosse che perché su
questo punto si sono soffermati molti teologi), o quando si tratta di quella fra l’al di là
dell’essenza e la Cosa (perché la Cosa «in sé» è già al di là dell’essenza, e proprio per questo
siamo condannati a non saperne nulla), che quando si tratta di noi che siamo, agiamo o
pensiamo. Certo, noi non siamo al di là dell’essenza, se non – potremmo dire con una prima
approssimazione – nella morte: ma in una morte che ci riducesse ad esser cose noi non saremmo
affatto, se non come «morte» Cose (il che vuol dire che noi dobbiamo ancora interrogare il senso
trascendentale della morte, perché nessuna Cosa, a dire il vero, è morta, e lo statuto della morte è
completamente diverso da quello della Cosa). Noi siamo dunque nell’essere, o nella sua
dimenticanza. Ma il nostro essere non sa essere senza appoggiarsi all’al di là che lo costituisce
nella sua differenza dall’ente. Ciò significa allora che noi siamo «al tempo stesso» nell’essere, al
di qua dell’essere ed al di là dell’essere? In realtà, noi non siamo mai al di là dell’essere, se non
perché ne partecipiamo, grazie al fatto d’essere, e non siamo neppure nell’al di qua dell’essere,
cioè nell’illusione, neanche quando vi siamo, perché nessuna illusione è mai completamente tale.
Dunque noi siamo solo nell’alternanza fra l’al di qua dell’essere, l’essere e il suo al di là.
Questo significa forse che Dio, i soggetti e le Cose sarebbero le ipostasi d’un quid che sarebbe
l’al di là dell’essenza? Se così fosse, la nostra concezione si distinguerebbe da quella plotiniana
solo in alcuni punti: per esempio perché in questa l’Uno sovraessenziale è già la prima ipostasi,
la seconda è un intelletto del quale l’anima può partecipare (come può partecipare della prima), e
perché la terza ipostasi è l’anima, e non è l’ente. Ma fino a che punto possiamo ammettere questa
parentela del tutto involontaria con Plotino? Il problema essenziale che c’impedisce di farlo è
che il mondo neoplatonico è l’espressione d’un continuum, nel quale, nonostante i differenti
livelli delle gerarchie, resta concettualmente possibile passare da un livello all’altro, sia nella
direzione della discesa, sia in quella dell’ascesa. Questa concezione sembra accordarsi
sicuramente male con quella cristiana, nella quale le tre ipostasi non riguardano affatto la
gerarchia degli esseri, ma riguardano invece solo l’essere divino. Ciò non ha impedito tuttavia al
neoplatonismo d’integrarsi nel pensiero cristiano, in modi più o meno limitati o generalizzati.
Del resto, stranamente, proprio la tradizione alla quale abbiamo riconosciuto il merito di non
confondere mai la prima ipostasi con l’al di là dell’essenza – punto che per noi è cruciale – è
quella che più ampiamente ha utilizzato, reinterpretandola, la concezione neoplatonica (basti
pensare, a questo proposito, allo Pseudo-Dionigi, i cui testi sono in rapporto strettissimo con
Proclo).
IX. Logica triadica e soggettività

375. Riepiloghiamo brevemente i risultati ai quali siamo giunti. Abbiamo visto che, se non c’è
cogitatio senza cogitans e senza cogitatum (e a questo si riduce in definitiva l’aspetto
trascendentalmente probante del cogito), ciò non avviene per un vuoto principio di logica
formale. Se il pensiero può apparire un fattore d’evidenza assoluta, non è perché il pensiero sia
assoluto, è invece perché, nel trascorrere stesso del pensiero, interviene, sostandovi, quel quid
irrappresentabile che abbiamo chiamato l’al di là dell’essenza, il quale dà al cogito quel valore di
prova evidente – ma evidente solo nell’interrogazione soggettiva – che la riflessione
trascendentale vi ha sempre riconosciuto. Il pensiero può dare fondamento ad una scienza
proprio perché non è per niente identico a se stesso, ma è solo un fattore, temporalmente e
spazialmente determinato, del prodursi, nell’essere dell’ente soggettivo, dell’al di là dell’essenza.
Nietzsche, quando parafrasa la formula cartesiana con un «cogito ergo est», pone il problema del
soggetto del cogito. Questo soggetto, in realtà, non è affatto quell’io che, essendo nell’essere,
finisce per disindividuarsi e per divenire un soggetto del tutto indeterminato; è invece lo stesso
quid sovraessenziale che, stando alle nostre ipotesi, dovrebbe ritrovarsi al di là d’ogni
determinazione dell’essere: nella divinità, al di là della sua determinazione trisipostatica;
nell’ente, al di là della sua determinazione d’oggetto (quindi nella sua cosalità); e soprattutto nel
soggetto, posto com’è a metà fra l’essere e l’ente, senza poter coincidere né con il primo né con
il secondo, ma condannato ad oscillare fra queste due determinazioni e per questo a prodursi nel
tempo e nello spazio.
Questo quid sovraessenziale, qualunque cosa sia, è il soggetto reale del cogito, cioè il
soggetto reale che noi siamo. Il reale – l’in sé del soggetto, cioè del non reale – è quindi
sovraessenziale. Ma ciò vuol dire che questo reale non appartiene affatto al soggetto cui pertiene.
Se volessimo fondare trascendentalmente la nozione d’inconscio, dovremmo anche dire che esso
è proprio questo reale del soggetto, reale che non appartiene al soggetto, ma gli può essere solo
eticamente attribuito. Dobbiamo allora rinunciare ad elaborare una psicologia dell’inconscio,
considerandola come fondamento d’una pratica, per esempio di quella psicanalitica: non perché
una psicologia che tenga conto dell’inconscio sia impossibile, ma perché è possibile solo come
effetto, e non come causa d’un’impostazione etica del problema della soggettività. Ciò conferma
quello che, in fondo, sapevamo già: che l’intera psicanalisi non solo può, ma deve, essere parte
d’una scienza nuova, perché subordinata a un’etica impostata in modo trascendentale, e quindi in
modo metafisico, se non vogliamo che essa, nonostante il suo progetto originario, continui a
ridursi a non essere altro che una psicologia dei sostegni immaginari, ed una cieca tecnica
psicoterapeutica.

376. Ora, l’espressione «soggetto reale», come abbiamo già visto nella Prima parte del
volume, è del tutto contraddittoria. In quanto soggetti – in quanto parliamo, amiamo ed agiamo –
noi non siamo reali, nella misura in cui la nostra posizione è al tempo stesso nel reale (in quanto
siamo degli enti, ed anche degli oggetti di sapere) ed al di là del reale (in quanto, a differenza
degli enti oggettivi, siamo dotati d’una coscienza che distingue il nostro sapere da quello incluso
nel reale delle «morte» cose e degli esseri viventi). Tuttavia questi due versanti della soggettività
non sono affatto autonomi. Se lo fossero, infatti, ricadremmo nell’aporia considerata da Platone
nel Carmide: non potremmo saperci come oggetti e al tempo stesso come soggetti, come
dobbiamo supporre che accada a partire dal fatto che le nostre conoscenze non sono sempre
ingannevoli (come d’altra parte lo stesso cogito dimostra). Non ci possiamo quindi rappresentare
soggettivamente come una mera differenza, per esempio come quella ontico-ontologica fra il
nostro essere soggettivo e il nostro essere oggettivo (cioè fra il nostro essere e noi come enti). La
differenza, infatti, non è un essere. La differenza è fra gli esseri. Ciò significa ch’essa «è» solo a
partire dal confronto che noi compiamo fra gli esseri: essa è dunque solo nel nostro confronto.
Ora, dire che un essere differisce da un altro – o un’essenza da un’altra, o un concetto da un altro
– significa dire che ciascun essere – o ciascuna essenza, o ciascun concetto – è limitato e definito
da un non essere. Ma un essere, un’essenza od un concetto come possono essere limitati da un
che di negativo, che pure li individua e li determina? L’essere non può confinare col non essere,
se non perché questo suo non essere non è che una faccia (cioè un aspetto d’un’ipostasi)
dell’essere ch’esso è. Ciò significa che la determinazione e l’individuazione – cioè la
molteplicità – non sono che gli effetti della relazione dell’essere non tanto col non essere, quanto
con l’al di là dell’essere (col sovraessenziale). Invece, attribuire un essere ad una differenza
serve soltanto a mantenere al riparo dalla differenza il nostro ente: vale a dire, a questo punto, la
nostra insufficienza e il nostro sintomo. Infatti questa insufficienza che noi valutiamo come un
sintomo non può essere intesa immediatamente come una mancanza determinante ed
individuante: essa non è la mancanza che ci determina (e che quindi non è altro che un aspetto
negativo di ciò che ci appartiene, vale a dire d’un’ipostasi), ma è una mancanza rispetto a ciò che
ci appartiene e ci determina. Una clinica può essere fondata come parte d’una scienza nuova solo
se noi teniamo conto di questa differenza fra la mancanza ch’è solo una faccia della nostra
determinazione soggettiva (e che quindi non è affatto una mancanza, ma una ricchezza
soggettiva) e la mancanza di questa determinazione (cioè di questa ricchezza soggettiva).
Ora, che un soggetto non sia solo un intervallo risulta evidente da un motivo più probante
della nostra ripugnanza a considerarci in questo modo. Abbiamo dedicato molte pagine della
nostra Critica a dimostrare qual è questo motivo, quando abbiamo considerato come la
concezione lacaniana, la quale in effetti riduce il reale del soggetto a non essere altro che un
buco nel reticolo delle significazioni, non possa in definitiva che restituire intatte al soggetto non
solo le sue difficoltà nell’individuarsi, ma anche quel narcisismo a poco prezzo il quale, fingendo
liquidato il problema del reale singolare del soggetto, compensa la perdita illusoria di questo
reale sintomatico con identificazioni facili a una causa che non può rappresentare il soggetto
stesso che nell’illusione, e quindi farlo passare dal sintomo al delirio, magari psicanalitico. Il
minimo che si possa dire è che questo non è un successo terapeutico. Certo, dire questo non basta
a provare la falsità dell’ipotesi psicanalitica di partenza se i successi, magari anche parziali,
dell’analisi – e soprattutto quelli di coloro che non hanno alcun bisogno dell’analisi per agire
eticamente – non dimostrassero questa falsità. Se dunque il reale del soggetto non è né dalla
parte del reale dell’oggetto (dell’ente), né dalla parte del reale dell’essere assoluto (di Dio), dove
potremo situarlo? Dire infatti che il reale del soggetto è, in ultima istanza, il sovraessenziale, non
serve a determinare il soggetto in nessun modo. Questo reale ultimo, abbiamo detto, pertiene al
soggetto, ma non gli appartiene, perché non può essere individuato, e non è inscrivibile
nell’essere del soggetto. Questo reale sovraessenziale deve dunque determinarsi essenzialmente,
per pertenere al soggetto. In che modo, dunque, esso può essenzializzarsi?

377. Ora, il reale del soggetto, se coincidesse semplicemente, come poco fa abbiamo
supposto, con l’al di là dell’essenza, non differirebbe in nulla dal reale dell’ente e dell’essere,
delle cose e di Dio. Se quindi ci fermassimo a questa constatazione, come abbiamo già detto, non
saremmo usciti d’un passo dalla concezione plotiniana. Ma l’al di là dell’essenza, se può essere
considerato come il reale ultimo dell’essere e dell’ente, non definisce l’essere come essere e
l’ente come ente. Dev’esserci quindi un reale dell’essere e un reale dell’ente che ne esprimano la
natura rispettiva, e non il loro radicarsi in forme differenti. Lo stesso, evidentemente, può dirsi
per il soggetto. In realtà, l’al di là dell’essenza giustifica il passaggio dall’essere all’ente – per
esempio nella creazione – o dall’ente all’essere – per esempio nella théosis –, ma non giustifica
l’essere in quanto essere e l’ente in quanto ente. Il problema che stiamo ponendo è quello del
principio. Il principio è essenziale o sovraessenziale? Non è un problema semplice. Damascio,
che vi si è soffermato lungamente nel De principiis, nota che il principio per un verso dev’essere
sovraessenziale, in quanto, se coincidesse con l’essere, non potrebbe esserne il principio, ma per
un altro non può essere assolutamente sovraessenziale, perché in questo caso non si
comprenderebbe come potrebbe essere il principio dell’essere. Egli distingue perciò l’indicibile –
assolutamente sovraessenziale – dall’Uno, che egli, riprendendo le affermazioni di Platone nel
Parmenide, considera come sovraessenziale ed essenziale al tempo stesso, il quale Uno s’articola
triadicamente in tre principi: l’Uno-tutto (l’Uno limitante), il tutto-Uno (la molteplicità illimitata)
e l’Unificato (l’ente nel suo complesso); quest’ultimo s’articola a sua volta in una triade
successiva. Naturalmente, non possiamo addentrarci nella complessa articolazione del testo di
Damascio. Ci siamo limitati ad accennarvi per sottolineare come il problema del principio
richieda, per essere affrontato, una complessa dialettica.

378. La posizione cristiana sul problema del principio è determinata naturalmente dal celebre
inizio del prologo di Giovanni, secondo il quale «in principio era il Lógos ». Il Lógos – la Parola
di Dio – era «nel principio» della creazione. «Principio», naturalmente, in questo passo, può
essere interpretato almeno in due modi: sia dal punto di vista temporale (sul quale torneremo),
sia dal punto di vista logico. Il Lógos è, in entrambi i sensi della parola, al principio della
creazione. Ma il Lógos , ch’è nel principio, è il principio? Il testo del Vangelo, senza dubbio, non
dice questo. Del resto, se ci atteniamo a quanto abbiamo stabilito, cioè al fatto che pensare Dio
come summum ens od essere supremo non elimina affatto la necessità di pensarlo anche
nell’apertura sovraessenziale, non possiamo che negare che la Parola e il principio siano lo
stesso. D’altra parte, se pensiamo che invece la traduzione del sovraessenziale in essere è il passo
necessario per giungere dal reale totalmente indeterminato del sovraessenziale alla
determinazione delle cose e dei soggetti, non possiamo non vedere che fra la Parola ed il
sovraessenziale dev’esserci una relazione assolutamente determinante.
Il Lógos non è l’unica ipostasi dell’essere omoessenziale. Esso, da solo, non sarebbe in grado
non solo di creare, ma neppure d’essere. Le ipostasi divine sono tre perché ciascuna di esse è
indispensabile a determinare l’essere divino proprio come essere. Se dunque il Lógos è la parola
di Dio – e non semplicemente, come nell’ebraismo (per esempio in Filone), la Parola del Padre –
bisogna che ci sia un Padre (una potenza divina, rappresentata, come la Parola, nell’essenza), ed
uno Spirito (vale a dire un legame d’amore fra il Padre e la Parola). Le tre ipostasi del Dio
cristiano sono determinate da una ferrea logica triadica, la stessa della quale ci siamo serviti per
spiegare il valore probante del cogito. Infatti questa logica triadica, che la teologia cristiana è
stata la prima a precisare, si manifesta anche negli altri modi dell’essere e nell’ente (cioè negli
esseri molteplici). Abbiamo già visto come Cusano insistesse nel trovare in ogni cosa una
determinazione unitriadica. Egli è preceduto, del resto, da una tradizione lunghissima, la quale ha
sempre fatto leva sul «fatto ad immagine» della Genesi per sviluppare un parallelismo più o
meno stringente fra il creatore ed il creato. Certo, questo «fatto ad immagine» poteva essere
utilizzato in due modi, come abbiamo già detto: per modellare Dio sull’immagina umana, o
almeno per servirsi di quest’immagine per comprendere le relazioni triadiche nell’essere divino,
come fa Agostino nel De Trinitate, o al contrario per modellare un’antropologia sulla logica
triadica prodotta dal dogma trinitario, come per esempio fa Basilio di Cesarea nelle Regole, uno
dei testi psicologici più straordinari che siano mai stati scritti, proprio perché la loro psicologia è
sempre e perfettamente dedotta dai principi logici impliciti nel dogma trinitario. Abbiamo detto
anche ch’entrambe queste scelte sono giustificate. Ma è senza dubbio la seconda, che del resto
prevale nettamente in tutta la tradizione ortodossa, che qui più c’interessa, perché dobbiamo
comprendere qual è la logica triadica che sta alla base dei fatti soggettivi, e perché, a questo
scopo, è di gran lunga più semplice far cadere i nostri pregiudizi psicologici e linguistici, ed
attenerci alla logica più astratta e meno psicologica: appunto quella della teologia trinitaria.

379. Consideriamo ora un ente qualunque, per esempio un oggetto. Quali sono, in esso, quelle
ipostasi omoessenziali che facevano sostenere a Cusano che ogni cosa del mondo è unitrina?
Come possiamo trovare in esso una potenza, una Parola e un amore? Sembrerebbe del tutto
impossibile riuscirvi, se ci riferissimo ad un oggetto colto in una sua presunta autocostituzione,
ed indipendentemente dalla presenza d’un soggetto. Ma un oggetto, in realtà, è tale solo in
relazione a un soggetto. Tuttavia, noi possiamo anche considerare una cosa posta in un luogo
appartato, in un momento in cui nessuno è presente, e in cui quindi non può essere né vista né
usata. Certo, siamo noi ad immaginarla, ma noi non potremo mai uscire dall’essere noi stessi.
Supponiamo dunque che una pietra sia posata per terra, in un deserto. Come potrebbe, questa
pietra, essere «unitrina»? Essa è del tutto priva della capacità d’agire, perché è ferma sul terreno,
dal quale non può muoversi, se una qualche forza esterna non la sposta. Ha inoltre una forma
determinata, ed è costituita di alcuni minerali, che la renderanno più o meno resistente agli urti
ed all’attrito. In definitiva, di quest’oggetto immaginario non possiamo dire molto di più. Ma in
quello che diciamo ritroviamo le determinazioni triadiche? Non c’è il minimo dubbio ch’è
proprio così. Questa pietra è posata sopra un piano. Non possiamo raffigurarcela né in volo, né a
galla su uno specchio d’acqua. Una pietra ha un peso, ch’è funzione della sua massa, e questo
peso consente ad essa d’occupare solo alcune posizioni e non altre. Ma il peso è l’espressione
d’una forza di gravitazione, che, certo, nessuno sa che cosa sia, né come si trasmetta, ma che
sicuramente esiste. Questa forza è già una prima ipostasi della pietra, dal momento che non
possiamo pensare nessuna pietra che sia priva di peso o d’una forza gravitazionale direttamente
proporzionale alla sua massa. Inoltre, questa pietra ha una forma, ch’è determinata da molti
fattori, per esempio dagli urti o dall’attrito ai quali è stata sottoposta, ma anche e soprattutto dalla
materia della quale è fatta, la quale la rende più o meno resistente, o più o meno pesante, e che
comunque è dotata d’una sua struttura interna. Infine, questa pietra, per quanto lenti possano
essere i fattori che la modificano, è in trasformazione. Una pietra può divenire sabbia, e
confondersi prima o poi con quella sulla quale è posata, o può compattarsi con altre pietre, o con
del fango, e divenire parte d’una roccia. Non abbiamo forse ritrovato già, con queste
osservazioni, le tre ipostasi che la teologia descrive in Dio? Una pietra ha una sua massa (e
quindi una sua potenza), ha una sua forma ed una sua struttura (un lógos ), e tende a trasformarsi
in certi modi, oppure a unirsi a ciò che la circonda (come se una specie d’amore ve la legasse).
La potenza, la sapienza e l’amore sono presenti anche in essa, per quanto in grado minimo, come
sappiamo bene noi, perché possiamo usarla come un’arma per difenderci, utilizzandone la
potenza; per costruire un muro, sfruttando la sua forma e la sua resistenza; o romperla, o
scambiarla, mettendo a frutto la sua capacità di trasformarsi. Tutto questo, ch’è vero per la pietra
abbandonata nel deserto, lo è molto più chiaramente per una pietra ch’è un oggetto per noi. Ma
non basta, perché noi non sapremo mai che cosa sia la pietra come Cosa, quale segreto
movimento v’abita, quale destino atroce e splendido ha portato la materia della quale è fatta ad
assumere quella forma, o ad essere in quel luogo, invece che in qualunque altro. La nostra
piccola pietra non solo è trisipostatica, ma, nelle tre ipostasi del suo essere – perché anch’essa
non è solo un ente, anche se noi lo dimentichiamo facilmente –, dorme segretamente un al di là
del suo essere. E certo tutto ciò che abbiamo detto della pietra si potrebbe ripetere molto più
facilmente per un essere vivente.
Ma chiediamoci ora: qual è il reale della nostra pietra abbandonata? Senza dubbio quello
racchiuso nelle sue tre ipostasi, oltre che quello sigillato nel suo destino segreto e
imperscrutabile. Il reale d’una piccola pietra non è la pietra come ente o come oggetto per noi,
ma è il suo essere stesso, pieno di promesse e di destini: facilissimo a vedersi, in una pietra,
perché una pietra non parla e non pensa; com’è facilissimo da vedersi in Dio, perché Dio,
qualunque cosa sia, non sarà mai un oggetto; molto più difficile, invece, da comprendere in noi,
che siamo esclusi sia dal reale della prima sia da quello del secondo, anche se siamo tesi fra
entrambi, perché anche noi siamo fatti di materia, come la piccola pietra, e perché anche noi
possiamo divenire dèi: nella resurrezione futura e certamente già adesso, perché agiamo, e
parliamo, ed amiamo.

380. Sarebbe facilissimo ritrovare anche in noi soggetti le tre ipostasi dell’essere, la potenza
che ci spinge ad agire, la Parola che ci fa parlare, l’amore e il desiderio, se non fosse che il nostro
statuto di soggetti non è riducibile né all’essere né all’ente, perché noi siamo sospesi fra due
statuti diversi, fra i quali non riusciamo a trovare un punto d’equilibrio che sia facilmente
riconoscibile come tale, e nel quale sia possibile indicare il nostro reale di soggetti. Eppure
qualcosa ci determina, non solo come soggetti – perché questa determinazione generale potrebbe
ancora essere soltanto negativa, cioè una mera differenza –, ma proprio come noi, nella nostra
irriducibile singolarità: qualcosa che non è solo un nome, o una data di nascita, o un fantasma di
desiderio, o un sintomo; qualcosa che anzi è del registro del destino, della vocazione o della
volontà; che inoltre è un compito liberamente scelto, e quindi deciso eticamente, anche se non
sapremmo affatto dire in che cosa risiede questa libertà della scelta, e che cosa ci dà la forza di
dire sé a ciò che ci determina, o la costanza assurda di proseguire per la nostra strada, sicuri – ma
sicuri perché? – che qualcosa ci aspetti lungo il nostro percorso: una cosa misteriosa ed
inimmaginabile, ma che pure sappiamo – e poco importa se questo sapere è soltanto illusione –
che sicuramente è lì, tanto che, quand’anche questa certezza derivasse soltanto da una nostra
illusione, potremmo non dubitare della sua fondatezza, la quale non dipende dal trovare un
oggetto che soddisfi l’attesa, ma dal trovare in noi stessi il senso dell’attendere. Se amiamo
qualcuno, o qualcosa, noi ci sentiamo trascinati dal nostro amore a prendere alcune decisioni,
invece che altre, e lo facciamo quasi senza decidere, come se fossimo costretti a far così; anzi
spesso le necessità della vita, e persino le nostre abitudini, ci alleviano la fatica della scelta;
eppure ogni atto – anche il più vuoto, anche il più abituale – è il frutto d’una scelta, come ci
assicurano i casi nei quali anche questi atti, per tutti noi scontati, divengono impossibili. La
stessa patologia, che a prima vista pare del tutto determinata – persino casualmente determinata –
è invece il frutto d’una scelta libera, anche se quasi sempre inconsapevole. Del resto, se
parliamo, possiamo credere di controllare le parole che usiamo, ma spesso esse c’impongono il
loro significato, facendoci dire delle cose molto diverse da quelle che intendevamo pronunciare.
Se agiamo, infine, solitamente non sappiamo neppure in che modo riusciamo a farlo, come se
l’azione crescesse in noi, e si sviluppasse attraverso di noi, del tutto al di fuori del nostro
controllo. Eppure, ciò che non controlliamo, non è forse la radice della nostra libertà? Se fossimo
davvero determinati anche soltanto nella patologia, noi saremmo determinati in ogni cosa. Invece
la psicanalisi dimostra proprio che nessuna patologia è casuale, che certo la patologia è il
risultato d’un errore, ma che quest’errore è sempre commesso all’interno delle sole possibilità
che ci restano, e che, comunque sia, esso è sempre, per gli altri e per noi, il minore dei mali.
Questo possiamo dirlo per ogni situazione patologica, anche per le più gravi, anche per quelle
che sembrano desoggettivarci totalmente, ma nelle quali anche la desoggettivazione è un’ultima
traccia della nostra decisione soggettiva.
Certo, noi siamo determinati dai nostri amori, dalle nostre parole e dalle nostre azioni, ma né
gli amori né le parole né le azioni sorgono in noi del tutto casualmente. Noi siamo quindi
determinati da alcuni modi d’essere ben riconoscibili, e lo siamo in due modi: patologicamente,
in quanto la complessità delle nostre azioni, la giustezza delle nostre parole e la libertà dei nostri
amori possono essere limitate dalle nostre angosce, o semplicemente dalle nostre abitudini, ma
soprattutto dalla viltà di non voler pagare il prezzo dell’amore; o eticamente, in quanto invece
possiamo scegliere i nostri amori, le nostre parole e le nostre azioni, ed accettare di pagare il
prezzo che questo sé comporta, prezzo che non siamo i soli a pagare, perché l’amore non è
affatto tenero, ma è una virtù crudele, che impone delle scelte e delle decisioni spesso per nulla
concilianti. Ma appunto, in che modo riusciamo ad imporcele, e ad imporle? Come possiamo
scegliere quello che ci determina? Come possiamo decidere quel che non controlliamo? Eppure è
proprio questo che succede, è questo il dir di sé che ci fa essere come noi stessi, invece che come
meri meccanismi automatici di risposta a degli stimoli esterni. Quand’anche, dicevamo, questo
fosse solo il frutto della nostra illusione, quest’illusione sarebbe appunto nostra, e non di qualcun
altro, e proprio per questo essa non sarebbe completamente falsa, ma sarebbe colma d’una sua
verità. Che cosa, quindi, può determinarci come noi? Qual è il nostro reale di soggetti?
Non riusciremmo mai a rispondere a questa domanda se non distinguessimo il desiderio
patologico, perché determinato dal fantasma, dall’amore, l’azione abituale e meccanica dalla
libertà dell’azione decisa eticamente, la parola vuota dalla Parola che c’impegna. Ma appunto,
queste tre opposizioni non possono essere tolte, perché noi non possiamo eliminarne i primi
termini, serbando solamente i secondi, dal momento che gli uni e gli altri dipendono esattamente
della differenza ontologica che ci costituisce ma non ci definisce, nella misura i cui i primi tre
son riferiti all’ente, mentre i secondi sono riferiti a che cosa? Forse all’essere? Per niente. Ciò
che ci costituisce quanto all’essere non è affatto la misura etica, ma la dimensione ideale. Il
contrappeso della patologia non è l’etica, ma appunto l’ideale. Se il nostro essere fosse
assumibile da noi indipendentemente dai limiti dell’ente, i nostri ideali non sarebbero soltanto
proiezioni di perfezione tanto assoluta quanto inattingibile, perché i nostri amori, e le nostre
parole, e le nostre azioni rientrerebbero direttamente in quella perfezione, e noi non saremmo
soggetti, ma dèi. Ora, non siamo dèi, né cose, ma soggetti, cioè siamo sospesi fra gli dèi e le
cose. Ma appunto, in questa sospensione, dove ci sosteniamo? Che cosa ci consente d’amare
veramente, senza che amare sia solo un’abitudine, o solo un ideale; di parlare mantenendo la
parola, senza che le parole s’accavallino insensatamente, ma tenendo conto dei nostri limiti,
eppure superandoli; e d’agire liberamente, senza che quest’azione sia meccanica, ma anche senza
che questa libertà sia per noi solo un vuoto ideale? Da dove ci viene questa straordinaria realtà di
noi stessi, che ci fa ritrovare e riconoscere, nonostante le mille abitudini, ed i mille non sensi, e le
mille illusioni della vita, proprio come noi stessi, vale a dire nella nostra individualità, al tempo
stesso disperatamente libera e ciecamente determinata? La risposta a queste domande deve stare
certamente in qualcosa che ci sfugge, ma che pure ci determina; in qualcosa che ci anima, ma
che pure animiamo; in qualcosa che ci costringe, ma che pure è la nostra libertà.

381. Comunque si voglia considerare la differenza essenziale fra la condizione della


soggettività e la condizione degli oggetti di natura, sia che lo si voglia fare in termini
evoluzionistici, secondo i quali la complessità infinitamente maggiore della soggettività
dipenderebbe da un salto d’entropia negativa nello sviluppo delle specie, sia che lo si voglia fare
in termini creazionistici, secondo i quali questa complessità dipenderebbe dal fatto che i soggetti
si troverebbero direttamente insediati in questa complessità (e sappiamo che Freud si atteneva
alla prima ipotesi, mentre Lacan si atteneva alla seconda), è certo che siamo solo noi che
parliamo a chiederci quale delle due interpretazioni è quella giusta. L’azione d’un animale ha in
sé l’evidenza del perfetto meccanismo inconsapevole, al quale l’animale stesso è totalmente
disponibile, con una sorta d’affascinante e vergine franchezza; e allo stesso modo il suo amore è
assoluto e totale, benché si spenga facilmente, e senza nostalgia, perché gli animali, come ricorda
Nietzsche in uno splendido passo delle sue Considerazioni inattuali, non hanno memoria, e
sembrano del tutto indifferenti al tempo (essi sembrano insomma coincidere così bene con la
loro memoria da sembrarne privi). Noi invece abbiamo memoria, e perciò ricordiamo e
dimentichiamo, e possiamo imparare e disimparare, abituarci ed inventare. Noi, infatti, parliamo.
Poco importa, a questo punto, se consideriamo il linguaggio come un quid che s’è naturalmente
sviluppato per un salto neghentropico nella nostra specie o come un tutto ch’è sorto già
perfettamente articolato proprio perché era un sistema fin dal suo sorgere. La prima spiegazione,
in fondo, non è meno misteriosa della seconda, in quanto entrambe includono il salto o la
discontinuità fra una lenta serie di modificazioni qualitativamente differenti, e l’improvviso
affermarsi d’una struttura che quei lenti cambiamenti non sembravano in grado d’annunciare. Le
due spiegazioni, quindi, non si escludono necessariamente, ed anzi sembrano del tutto
complementari.
Se dunque l’azione e l’amore d’un soggetto non paiono distinguersi dall’azione e dall’amore
degli animali, se non per il fatto che quest’azione e quest’amore sono mediati (e quindi al tempo
stesso favoriti ed ostacolati) dal linguaggio, è evidente che proprio nel linguaggio deve risiedere
il principio della distinzione fra un soggetto ed un ente naturale. Certo questa non è un’idea né
nuova né originale, dal momento che si trova formulata già in tutte le mitologie, in tutte le
filosofie, ed in tutti i tentativi di classificazione scientifica. Ora, proprio a questo punto è
essenziale richiamarci alla distinzione fra il lógos e la parola detta, fra il senso e la
significazione. Se infatti noi considerassimo le due cose come identiche, o se pensassimo che le
prime scaturiscano meccanicamente dalle seconde, non potremmo in nessun modo pensare il
reale della soggettività come diverso da quello della mancanza e della morte, con la conseguenza
che questa impostazione ha immediatamente: che la soggettività stessa diviene un’illusione. Se il
reale della soggettività è la mancanza, la soggettività è un non reale. Allora perché, se così fosse,
ci saremmo chiesti qual è il reale di questo non reale? Ci troveremmo infatti al colmo
d’un’antinomia, per risolvere la quale a poco servirebbe distinguere, nel non reale della
soggettività, ciò ch’è illusione da ciò ch’è sistema simbolico, perché anche il sistema simbolico
sarebbe un’illusione (e ogni assolutismo strutturale porta prima o poi proprio a credere questo).

382. Il reale della soggettività è quindi, prima di tutto, la Parola, perché anche il reale
dell’amore e dell’azione sono inclusi nella sua determinazione. La Genesi distingue la creazione
d’Adamo da quella di tutti gli altri viventi, perché Dio crea Adamo modellando prima una statua
di terra, sulla bocca della quale soffia, mentre ciò non accade in tutti gli altri casi. Questo soffio è
senza dubbio lo Spirito, ruah. Ma appunto, la parola «spirito», in ebraico, come in greco e in
latino, prima ancora d’indicare l’amore trisipostatico, indica il respiro: quello stesso respiro che
si può modulare pronunciando le parole. La stessa parola lógos , d’altra parte, è definita con
molta precisione, nel lessico d’Esichio Alessandrino, con queste due parole: hypóthesis práxeos.
Esse possono essere tradotte in più modi: per esempio, riduttivamente, con «argomento
d’un’azione drammatica», o, più generalmente, con «causa dell’azione». Il lógos è la causa
immediata, la causa retroattiva, della práxis. Hypóthesis (ch’è una parola formata in modo molto
simile a hypokeímenon e hypóstasis) indica infatti quanto è sotto-posto in qualcosa, e dunque
esprime una concezione della causalità ch’è immediatamente temporale (secondo lo schema
temporale già proposto da noi nella Prima parte, nel quale il passato è rideterminato dal
presente), a differenza della causalità remota, espressa in greco dalla parola aitía. Práxis, invece,
che senza dubbio è riferita all’azione in generale, finisce anche per indicare, in greco, un
generico «qualcosa», anche quando questo qualcosa non è affatto un’azione (práxis è quindi la
cosa di cui si tratta). La definizione dataci da Esichio dunque si presta benissimo a mostrarci che
l’azione soggettiva è una conseguenza della Parola. Possiamo perciò iniziare a rispondere alla
domanda che ci siamo fatti sul reale della soggettività dicendo che questo reale è, prima di tutto,
la Parola: non tanto la parola pronunciata, che, come significante dotato d’una sua significazione,
è soltanto un effetto ed una riduzione della Parola essenziale, quanto questa Parola ch’è una mera
apertura verso le parole. Il lógos è insomma, per così dire, l’apertura dell’essenza alla
molteplicità delle parole.
Stiamo forse isolando, fra le tre ipostasi del soggetto (ch’è sospeso fra l’essere e l’ente, senza
coincidere perfettamente né con il primo né con il secondo), una sola di esse, facendone il reale
delle altre due? Se così fosse staremmo abbracciando a nostra volta la stessa concezione che
abbiamo rifiutato nei teologi che considerano il Padre al tempo stesso come una prima ipostasi
dell’essere divino e come il «contenitore» della sovraessenzialità. Ma in realtà non si tratta
affatto di questo. La triade delle ipostasi soggettive non include affatto il lógos come principio
della parola pronunciata. L’azione, la parola pronunciata e l’amore sono invece le tre ipostasi
della Parola ch’è nel principio. Se dunque diciamo che il reale della soggettività è la Parola, non
ci riferiamo a nessuna delle tre ipostasi, allo stesso modo in cui il reale della divinità non è né il
Padre né il Figlio né lo Spirito, ma lo stesso Dio homooysios. Il reale di Dio non è né una delle
sue ipostasi, né l’al di là dell’essenza da cui continua a venire il suo essere, ma il suo essere
stesso. Allo stesso modo il reale della soggettività non è né la sua azione, né la sua parola, né il
suo amore, né l’al di là dell’essenza che lo spinge fuori dai propri limiti, ma l’essere del
soggetto, cioè la sua Parola omoessenziale. Il reale del soggetto è il soggetto, e proprio questo fa
sé che ciascun soggetto possa determinarsi trisipostaticamente non solo genericamente come
soggetto, ma anche come quel singolo soggetto. Il reale del soggetto è la Parola, quali che siano
le determinazioni soggettive del soggetto in questione, perché questa Parola, beninteso, non è la
stessa Parola che troviamo come determinazione ipostatica della divinità. Essa è invece la
singola Parola, che contiene il suo destino ed il suo compito, la sua grandezza ed il suo limite, il
suo amore e la sua parzialità. La determinazione trisipostatica dell’essere soggettivo non esprime
dunque il reale singolare del soggetto se non perché questo reale è già espresso nella sua
singolarità, anche se, beninteso, esso non è affatto espresso con dei significanti, perché la Parola
si singolarizza come tale, logicamente, cioè come lógos, prima di determinarsi come significante.
Il reale del soggetto, il suo essere, cioè la Parola che lo costituisce, è però la Parola di chi?
Non c’è modo di dirlo diversamente: ogni teoria ha il suo prezzo, e noi lo dobbiamo pagare; non
possiamo aver chiesto una guida alla teologia senza rendere alla teologia quanto le dobbiamo. Il
reale del soggetto non è la Parola del soggetto, ma è la Parola dell’assoluto: il che, comunque
s’intenda quest’ultimo termine, significa che è la parola di Dio. Se dobbiamo essere creazionisti,
dobbiamo anche essere creazionisti sino in fondo. La Parola che noi siamo è solo un minuscolo
frammento della Parola divina, cioè della Parola che per noi è principio. Che ciascuno intenda
quest’affermazione come vuole. Non riusciamo ad essere coerenti con le nostre premesse se non
formulando la cosa in questo modo. E certo ci rendiamo perfettamente conto che resta da
pensare che cosa significa questa formulazione, dal momento che, s’è vero che l’abbiamo tratta
dalla tradizione teologica cristiana, resta invece completamente da determinare che cosa significa
oggi per noi questa tradizione.

383. Possiamo tentare ora di chiarire che relazione vediamo fra il lógos e l’al di là
dell’essenza, perché è necessario farlo per risolvere il problema del principio. Ciò che abbiamo
appena detto, sul fatto che il reale d’un soggetto singolare è una Parola assoluta che lo determina
come una singola forma – se vogliamo, come una forma di tempo – non significa certo che
l’essere soggettivo dipenda solo da una delle tre ipostasi dell’essere assoluto. L’assoluto, certo,
non è divisibile, e l’espressione che abbiamo appena usato («una Parola assoluta») è
autocontraddittoria soltanto se il suo significato viene assunto dalla parte dell’assoluto, mentre
non lo è minimamente se esso viene assunto dalla parte dell’essere finito (su questo problema,
d’altra parte, ritorneremo, perché è nodale per intendere la relazione del tempo col non tempo
che lo rende possibile). Il Lógos , la seconda ipostasi, è quella ch’era «nel principio» della
creazione (della creazione d’esseri finiti, ed assoluti soltanto nella loro partecipazione
all’assoluto attraverso la Parola). D’altra parte la stessa relazione, che interviene fra la Parola
nella sua assolutezza e la Parola che ci costituisce nella sua (e nella nostra) singolarità, interviene
anche fra la Parola soggettiva e le singole parole attraverso le quali il soggetto si determina
concretamente, nella sua storia e nel suo volere, nella sua patologia e nella sua eticità. Ciò che ci
resta da comprendere meglio è invece come possa una delle tre ipostasi dell’essere (dell’essere
soggettivo come dell’essere assoluto) determinare l’essere nella sua relazione costitutiva con l’al
di là dell’essere, cioè come possa una delle tre ipostasi essere «nel principio» dell’essere in
quanto tale.
Torniamo dunque a porci la domanda dalla quale siamo partiti in questo capitolo: il principio
è sovraessenziale od essenziale? Possiamo iniziare a rispondere ch’esso è sovraessenziale in
quanto nessuna essenza – neanche l’essenza assoluta – sarebbe sufficiente ad essere se stessa, se
non si sostenesse su ciò che le dà l’essere. Ma dobbiamo aggiungere subito che il carattere
ipostatico dell’essere, non solo in quanto l’essere è trisipostatico, ma in quanto l’essere
omoessenziale è un’ipostasi del sovraessenziale, comporta che nell’essere stesso venga a
riprodursi il movimento che imprime la relazione ipostatica del sovraessenziale all’essere: quello
del dar principio, cioè della distinzione ipostatica e della creazione. Ciò non significa che una
delle tre ipostasi dell’essere assoluto sia di per sé il principio, perché il principio di ciò ch’è
creato non è, generalmente, il soggetto che crea, ma una singola scelta di chi crea, cioè un
singolo lasciar essere, da parte del creatore, di ciò che lo visita, costringendolo a creare: e qui
parliamo senza dubbio anche d’ogni creazione soggettiva. Ciò significa che, nella creazione,
esiste una misura – un lógos – della creazione stessa, la quale consiste nell’apertura dell’essere
di chi crea all’al di là dell’essere dal quale il creatore stesso è «principiato». Per noi soggetti
creare non è scegliere liberamente ciò che vogliamo far essere, ma è lasciar essere esattamente
quello che abbiamo il compito assoluto di creare. Infatti nient’altro che questo consente di
distinguere, almeno idealmente, la vera creazione dal semplice gioco combinatorio degli oggetti
esistenti.
Ma noi abbiamo parlato anche d’un essere assoluto, e d’un Lógos che in nulla si distingue da
quel Lógos del quale parlano i teologi. Parlarne ci è del tutto indispensabile, e non solo per
motivi di tenuta razionale («filosofica») di quello che diciamo, o per riconoscere il nostro debito
con la tradizione che ci consente di pensare. Per noi si tratta anche – e a dire il vero soprattutto –
di mantenere la parola, cioè di restare fedeli al nostro impegno, legati come siamo alla fides che
non è più nostra di quanto non lo sia ciò che riusciamo a pensare, o a scrivere, o ad ammettere.
Questa non appartenenza a noi della nostra parola ci costringe a sottolineare che questo Lógos ,
nella tradizione alla quale ci stiamo riferendo, non è altro che la Parola incarnata, che il Dio fatto
uomo al fine di far l’uomo Dio. Che ognuno prenda quest’affermazione con la distanza che
crede, o che può tollerare. L’unica cosa certa è che essa non è una metafora, e che per questo il
miglior modo d’assumerla è assumerla alla lettera, anche se proprio in questa letteralità sta per
tutti – e prima di tutto per noi – il vero enigma. Questo Lógos dunque «era nel principio» della
creazione, il che significa ch’esso, in quanto ragione dell’azione assoluta (dell’azione divina), è
la forma essenziale del sovraessenziale. Il sovraessenziale, in quanto prende forma ipostatica
nell’essere, è il principio. L’essere, in quanto s’ipostatizza come forma del sovraessenziale, è la
Parola. La Parola, quindi, non è il principio, ma è nel principio: essa lascia essere, nell’essere,
l’apertura a ciò che lo sorpassa, lo sostiene e lo sospende alla sua azione.
Dunque il reale del soggetto è la Parola in quanto essa è nel principio del soggetto, mentre il
reale dell’essere assoluto è nella Parola che fa essere l’essere assoluto nella sua creazione. Il
termine «reale» può venire usato in questo modo in quanto non vediamo che reale potrebbe avere
un essere assoluto che non trasmettesse il suo essere ad altri esseri. Un Dio che non creasse non
sarebbe forse un Dio che si dimenticherebbe di se stesso?
Quanto poi al problema del rapporto fra il lógos e il principio, ci restano da porre due
domande. La prima è questa: in che senso abbiamo detto prima che l’essere assoluto è una
ipostasi del sovraessenziale? Può esserci forse un’ipostasi non triadica? Sicuramente no: infatti
l’essere assoluto è trisipostatico. Ciò non significa però che il sovraessenziale possa
ipostatizzarsi tre volte: Uno, infatti, è il nome del sovraessenziale. Ma l’Uno come Uno, e l’Uno
come nome, non sono lo stesso. Ciò non comporta che ci siano due Uno, ma che ci sia un Uno
determinato dal suo essere come potenza, come nome e come legame della potenza e del nome.
Nell’Uno, l’essere si determina, in relazione al sovraessenziale come principio, come Lógos, in
relazione al sovraessenziale come potenza come Padre, in relazione al sovreassenziale come
amore come Spirito. In questo modo non abbiamo affatto duplicato la triade divina, perché il
sovraessenziale si determina triadicamente solo a partire dall’Uno, quindi soltanto come essere, e
non come sovraessenziale. In altri termini il lógos, prima di nominare il Padre, nomina il
sovraessenziale. Il sovraessenziale, nominato, è il Padre, che non è generato proprio in quanto
espone, nell’essenza, la mancanza di principio del sovraessenziale, e tuttavia, nell’esser
nominato, è individuato senza limitazione. L’illimitazione dell’individuazione assoluta è la
creazione, della quale il Lógos è «nel principio»: la creazione coincide insomma con la
nominazione del Padre, che è la nominazione del sovraessenziale essenzializzato.
La seconda domanda alla quale dobbiamo rispondere è questa: perché riconoscere solo al
Lógos una relazione essenziale con il principio, e non anche alle altre due ipostasi? Anche qui
sarà più semplice rispondere riferendoci alla teologia cristiana. Nessuna delle tre ipostasi
omoessenziali è il principio, ma solo la seconda ipostasi è nel principio. Ciò non significa
naturalmente che la creazione sia stata compiuta solo dal Figlio, perché anche le altre due
ipostasi hanno operato in essa (su questo tutti i testi ortodossi sono concordi): il Padre in quanto
potenza della creazione, lo Spirito in quanto senso della creazione stessa. Perché allora non si
dice – e non si può dire – che anche la prima e la terza ipostasi sono «nel principio»?
Evidentemente perché il principio è tale solo in relazione al principiato. Ciò comporta che nel
principio della creazione è essenzialmente l’ipostasi che rende conto della misura (del lógos)
della creazione stessa. Il Lógos è quindi misura della molteplicità, vale a dire è l’accordo
essenziale degli esseri molteplici, la loro continua ed implicita unità, determinata però nella loro
differenza. Il Lógos è la presenza reale dell’Uno nella molteplicità, mentre il Padre è la potenza
della trasformazione (nella moltiplicazione dell’Uno e della riassunzione nell’Uno del
molteplice), mentre lo Spirito è il senso della creazione e della redenzione (è l’amore). Ma né la
potenza né l’amore potrebbero operare senza una misura della propria operazione, assicurata
dalla Parola. Certo, neppure la Parola potrebbe operare senza il Padre e lo Spirito; a quest’ultimo
anzi sembra riservato il compito di compiere l’opera del Lógos (Gv 14, 15-7, 26; 16, 7-15). Ma
proprio per questo solo il Lógos è «nel principio», mentre lo Spirito è nel compimento e il Padre
è nella potenza della trasformazione. Tutto ciò si può applicare poi senz’alcuna difficoltà al
soggetto, perché è appunto il soggetto il punto essenziale della creazione e della riunificazione.

384. Il nostro tentativo di precisare, attraverso una riflessione sul cogito, la relazione fra la
filosofia trascendentale e quella scienza nuova che la psicanalisi dovrebbe promuovere, se non
vuole abbandonare ogni riferimento al proprio compito originario, pare averci fatto uscire dai
limiti della stessa filosofia trascendentale, dal momento che, per fondare il cogito, che senza
dubbio è manifestamente fondato e fondante, in un movimento concretamente e non solo
astrattamente soggettivo, siamo stati costretti a riferirci ad una trascendenza che non pareva
affatto necessaria dal punto di vista di quella filosofia. Tuttavia noi, per giungere a questo,
abbiamo preso spunto da un passo di Cartesio, e del resto proprio Kant, nella Dialettica
trascendentale, pur affermando che problemi come quello della dimostrazione dell’esistenza di
Dio non sono risolvibili nei termini della ragione, ammette che il compito del pensiero è proprio
di pensare quanto non sta nei limiti di questa. Il compito della ragione è infatti appunto
d’allargare i propri limiti. Pensare l’impensabile è il vero compito del pensiero, perché
l’impensabile non è solo il limite esterno del pensiero, ma è anche la condizione della sua
esistenza. Con questo si comprende ancora meglio per quale motivo abbiamo dovuto rovesciare i
termini della critica kantiana, facendo dipendere la gnoseologia da un’etica, ed impostare
quest’ultima nell’orizzonte d’una metafisica, e addirittura d’una teologia almeno eventuale.
Questo capovolgimento ha indubbiamente delle conseguenze sulla definizione del campo
della scienza nuova. Questo campo non può essere chiuso e delimitato dai confini d’una ragione
che sia perfettamente identica a se stessa, perché, entro questi confini, la stessa fondazione che il
cogito offre alle scienze sarebbe solo una sembianza. Il cogito, infatti, non contiene se stesso:
esso dà un fondamento al pensiero, ma non ne è il principio; il pensiero, il pensato ed il pensante
sono distinti ipostaticamente, ma omoessenziali: in quanto sono omoessenziali, il cogito ha un
valore di fondamento; in quanto sono distinti, esso non è un principio, ma ci rimanda alla
presenza reale del trascendente assoluto – il sovraessenziale – nell’essere e nell’ente. La realtà
del pensiero – e dunque del cogito – è dunque l’apertura del pensiero all’impensabile.
Era necessario chiamare Dio questo impensabile? Non sarebbe bastato riferirsi all’al di là
dell’essenza platonico, ad esempio? Ma l’al di là dell’essenza del quale parla Platone non è un al
di là concettuale, e non è neppure il concetto d’un al di là dell’essere. Se neppure lo spazio e il
tempo sono concetti, tanto meno lo è l’al di là dell’essenza, almeno se diamo al termine
«concetto» il suo significato rigoroso. Che statuto di realtà dobbiamo dare allora a questo al di
là? L’al di là dell’essenza non è soltanto una nozione logica ma, per Platone, è una guida nella
pratica della formazione (della máthesis), in quanto in esso si tratta d’un indicibile che non è
affatto determinato negativamente (lo è negativamente solo dal punto di vista del concetto), ma è
conoscibile attraverso quel máthema (quell’insegnamento) che Platone chiama mégiston
(superiore ad ogni altro), sul quale ci siamo soffermati nella Formazione, e che non è affatto un
máthema concettuale. Infatti, per giungere a saperne, bisogna aver superato i limiti della logica e
della dialettica, ed aver avuto di quest’al di là un’esperienza direttamente soggettiva (questo,
almeno, è quanto Platone dice nella Repubblica e nella Lettera settima). Ora, che insegnamento
può essere questo, che non riguarda niente di concettuale e di dicibile? Non si può sapere niente
del mégiston máthema, eppure c’è un suo sapere, cioè un sapere dell’al di là del sapere (dell’al di
là dell’essenza). Solo che non si tratta d’un sapere oggettivo. Esso non è formulabile, perché è il
modo d’essere della formulazione, e non è oggettivabile, perché è il modo d’essere della
soggettività. Questo sapere dunque non è neppure soggettivo, perché non sta nei limiti della
soggettività (non è affatto un sapere relativo), nonostante il fatto che la strada di ciascuno, per
giungere ad esso, differisca dalla strada d’ogni altro, ma è invece un sapere desoggettivato di
soggettivazione. Mettersi sulla strada del mÌgiston máthe<->ma significa passare
dall’insegnamento alla formazione. Ora, non si passa dal primo alla seconda se non si lascia
essere l’assolutamente altro nel suo luogo, ma se anche, al tempo stesso, non si costringe
l’assolutamente altro ad essere non solo presso, ma dentro quello che facciamo. Come Abramo
non avrebbe salvato Isacco dalla morte se non fosse stato forte quanto Dio, così il rispetto
assoluto dell’alterità dell’altro, perché l’ascesi soggettiva sia compiuta, deve concordare con una
costrizione altrettanto assoluta dell’altro ad essere con noi. Ma non si può rispettare l’assoluto, e
nello stesso tempo vincerlo, se non si riesce a cogliere qual è il nostro punto d’assoluto (l’«uomo
divino ch’è in noi», come diceva Kant). E proprio questo è il nucleo dell’ascesi. Questo nucleo,
infatti, resta del tutto inerte, se il moto del soggetto verso l’assoluto non riesce a coincidere (sta
in questo ciò che abbiamo chiamato doppio movimento) col moto dell’assoluto verso il soggetto.
Ora, come si chiama, nella nostra lingua, questa coincidenza? Non c’è che un nome che possa
designarla, e questo nome è «religione». A prescindere da tutte le sue forme, da tutte le sue
teorie, da tutte le sue liturgie, la religione è essenzialmente il doppio movimento che unisce il
soggetto all’assoluto e l’assoluto al soggetto, con uno spostamento unico ma duplice, ch’è per un
verso quello della grazia, per l’altro quello dell’ascesi (ma questi due movimenti sono, di fatto,
uno solo). Da questo punto di vista il compimento della formazione non può che essere religioso:
lo era per Platone come lo era per Anselmo, per Cartesio come per Spinoza, per Kant come per
Hegel. Ma per i filosofi moderni, da Cartesio in poi, la religione ha cessato d’essere un campo
d’esperienza soggettiva proprio perché, già nell’articolazione del cogito, il movimento essenziale
della prova era stato cancellato e sostituito con una rappresentazione della prova, subordinando
così l’esperienza religiosa ad un dire di Dio nel quale, dell’esperienza, non restava nulla, perché
il suo nome veniva ridotto a non essere che il nome d’un ens realissimum del quale l’unica cosa
vera che si possa dire è che non c’è.

385. La dimensione ascetica, alla quale ci siamo più volte riferiti, senz’affatto pretendere di
determinarla, dal momento che sappiamo bene di parlare, a questo proposito, essenzialmente per
figura, non può essere esclusa dal campo della scienza nuova perché, se lo fosse, questa
diverrebbe una «metafisica» nel senso deteriore, vale a dire, in ultima istanza, una visione del
mondo. Parlare d’un’ascesi significa invece solo sottolineare che la scienza nuova non si
distingue in nulla dalle scienze classiche, se non perché chi se ne occupa lo fa nella prospettiva
d’un compito etico. Il campo del non insegnabile è quello di questo compito. Se dunque
l’epistemologia della scienza nuova è fondata nella sua gnoseologia, e se questa è fondata nella
sua metafisica, è così solo perché questa metafisica coincide con un’etica, e perché nessuna etica
può fuorcludere il campo del non insegnabile, senza cessare d’essere un’etica, e divenire un
semplice sistema dei costumi.
Ma che significa lasciare aperto il campo dell’interrogazione sul non insegnabile? Significa
tenere a mente che il cogito e, ad un altro livello, le stesse significazioni manifestano già
comunque un’apertura costitutiva dell’essere d’ogni ente su un al di là del quale non sappiamo
nulla, ma dal quale, pure, scaturisce la forma, e la forza che la fa vivere come forma in continua
formazione. La scienza nuova non dev’essere un sistema delle scienze, ma un modo
d’interrogarsi – anche sistematico, se occorre – sul significato etico, cioè soggettivo, del sapere.
La scienza nuova non è, semplicemente, come la fenomenologia husserliana, un sistema di
fondazione delle scienze, ma è un sistema di fondazione etica delle scienze, cioè un sistema
d’apertura delle scienze al problema della formazione soggettiva. Ora, la stessa scienza può
essere assunta sia come un sapere vuoto ed automatico, sia come un sapere soggettivo, da
mettere alla prova in quell’ascesi – in quell’allenamento – in cui consiste ogni vera formazione.
Per quanto poi riguarda il non insegnabile, cioè il mégiston máthema, bisogna ricordare che
l’indicibile è il da dirsi, e che questo dire può essere guidato, accompagnato o, per essere più
precisi, coltivato da un insegnamento. Certo, nessuno può pretendere di fare d’una scienza o d’un
campo del sapere il campo di questo sapere dell’ininsegnabile. Per esempio credere che la
psicanalisi sia destinata all’insegnamento del non insegnabile – anche se essa è forse, fra tutti i
saperi moderni, quello ch’è più esposto all’evidenza di questo compito – significherebbe
falsificare la psicanalisi stessa, facendola diventare un’ascetica invece che una professione, e
così facendola cessare d’esistere come psicanalisi (senza per questo riuscire a farla diventare
un’ascetica, dal momento che un’ascetica che fosse una professione sarebbe solo il più spudorato
degl’imbrogli). L’ascesi – la prospettiva del non insegnabile – non è un campo della scienza
nuova. Essa è in effetti la concreta realizzazione soggettiva del compito etico, realizzazione che
può tranquillamente fare a meno d’ogni scienza, perché, per affrontarlo, basta parlare, cioè essere
qualcuno. L’insegnamento del non insegnabile è l’al di là della fondazione trascendentale della
scienza nuova: un al di là, certo, da lasciare continuamente aperto nel campo d’ogni scienza, ma
non definibile come un campo di sapere. Il non insegnabile, quindi, può essere certamente
«insegnato»: non nel suo contenuto, ma semplicemente non sbarrando la strada che vi giunge. E
proprio il rispetto di quest’apertura è il compito essenziale dell’insegnamento e della
formulazione d’ogni scienza. Parlare d’una scienza nuova serve solo a rammentare che il
compito che il sapere impone a ciascuno è quello di tendere verso quest’apertura, anche se
nessun sapere trasmissibile potrà mai realizzarla, quando non si vuole riconoscere ch’essa s’è
prodotta.
Certo, tutto ciò può parere molto lontano non solo dalla psicanalisi, quale s’è definita in un
secolo di storia, ma anche dalle scienze che s’insegnano e si trasmettono oggi. La fondazione
trascendentale delle scienze (e quindi anche della psicanalisi) serve essenzialmente a mediare fra
le istanze contrastanti delle scienze e del compito etico. Proprio in funzione di questa mediazione
abbiamo creduto di dover sviluppare, in questo primo libro, il tema trascendentale del cogito. Ci
resta ora da dedurre, dai presupposti che abbiamo iniziato a stabilire, anche una teoria triadica
della temporalità, la quale includa il momento della non temporalità – l’istante di cui parla
Platone – come fattore decisivo e determinante della temporalità. Crediamo infatti che questo sia
sufficiente a definire il campo e i compiti d’una scienza nuova, perché soltanto una descrizione
della costituzione soggettiva della temporalità può consentire di considerare in una sola
prospettiva – come dobbiamo fare, se la nostra scienza dev’essere adeguata ai propri compiti – le
esigenze descrittive delle singole scienze e l’esigenza ascetica ed etica della formazione, al
tempo stesso mostrando come l’inserimento del problema teologico ad un punto cruciale della
nostra articolazione sia del tutto essenziale anche alla comprensione della logica che sta alla base
del funzionamento di quella forma pura della soggettività ch’è il tempo.
Certo, qualunque lettore ora potrebbe chiederci se crediamo realmente che un’articolazione
delle singole scienze con la problematica etica, e per di più anche con quella religiosa, possa
essere compiuta nel nostro tempo. Rispondiamo volentieri che l’ultimo dei problemi che ci
poniamo è proprio questo di chiederci se ciò che proponiamo è realizzabile. Il problema non è di
sapere se qualcosa può essere fatto, ma se deve essere fatto e, di conseguenza, di farlo. E tutto,
oggi, c’impone di pensare che questo è necessario.

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