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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Direttore Prof. Mario Petrini

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica


Direttore Prof. Paolo Miccoli

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e


Chirurgia
Direttore Prof. Giulio Guido

CORSO DI LAUREA IN MEDICINA E CHIRURGIA

TESI DI LAUREA

“Tecniche mini-invasive nel trattamento delle metastasi


ossee: revisione della letteratura e nostra esperienza”

RELATORE
CHIAR.MO PROF. Michele Lisanti

CANDIDATO
Paolo Montemaggi

ANNO ACCADEMICO 2014/2015


Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale
Direttore Prof. Mario Petrini

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica


Direttore Prof. Paolo Miccoli

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e


Chirurgia
Direttore Prof. Giulio Guido

RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare :
il prof. Michele Lisanti per avermi trasmesso grazie alle sue capacità professionali e
pedagogiche l’interesse per l’ortopedia, per avermi inoltre aiutato a trovare il giusto
inserimento all’interno del reparto da lui diretto, spronandomi ad acquisire consapevolezza
e sicurezza delle capacità utili al servizio del paziente.
Lo ringrazio inoltre per avermi accompagnato nella scelta di una branca dell’ortopedia
tanto delicata quanto importante.
È doveroso inoltre che ringrazi:
il Dott. Lorenzo Andreani per avermi mostrato cosa significa “ essere un medico
esemplare”
il Dott. Enrico Bonicoli per avermi dato consigli sempre utili e pertinenti, e per non essersi
mai esentato dallo spiegarmi concetti fondamentali
la Dott.ssa Veronica Zarra per la sua encomiabile disponibilità e per il suo aiuto costante
dimostrato per tutta la durata del percorso
la Dott.ssa Elisabetta Neri per il suo supporto nei momenti del bisogno.
Desidero ringraziare anche colleghi ed amici che mi hanno incoraggiato.
Vorrei infine ringraziare le persone a me più care, mio padre, mia madre che hanno sempre
creduto in me; mio fratello e mia cognata per la loro vicinanza e la mia ragazza che ha reso
ancora più bella questa fase importante della mia vita.

DEDICA:
Dedico questa tesi al mio nipotino che seppur piccolo mi ha già insegnato cosa significa
“essere forti e non arrendersi mai”.
Infine un pensiero speciale va a mio nonno Brunero che ha sempre desiderato che
diventassi un bravo medico.

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INDICE

INDICE pag. 1
INTRODUZIONE pag. 2
CAPITOLO 1: Epidemiologia e vie di diffusione pag. 3
1.1 Incidenza pag. 4
1.2 Eziopatogenesi pag. 4
1.3 Meccanismi patogenetici delle metastasi ossee pag. 5
1.4 Reazione ossea: osteolisi ed osteogenesi pag. 7
CAPITOLO 2: Il trattamento delle metastasi ossee pag. 10
2.1 Generalità pag. 10
2.2 Il trattamento chirurgico delle metastasi ossee pag. 17
2.3 Chirurgia delle metastasi dello scheletro appendicolare pag. 25
2.4 Chirurgia delle metastasi del rachide e del bacino pag. 33
2.5 Il follow-up del paziente con metastasi ossee pag. 39
CAPITOLO 3: Tecniche chirurgiche mini-invasive pag. 41
3.1 Generalità pag. 42
3.2 Tipologie ed utilizzo pag. 44
CAPITOLO 4: Materiali e metodi pag. 65
CAPITOLO 5: Risultati pag. 70
CAPITOLO 6: Conclusioni pag. 71
CAPITOLO 7: Casi clinici pag. 73
CAPITOLO 8: Bibliografia pag. 87

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INTRODUZIONE

Le metastasi ossee sono una delle principali cause di morbilità nei pazienti

neoplastici per due motivi, uno epidemiologico e l'altro clinico. Da un punto di vista

epidemiologico numerosi studi hanno identificato lo scheletro come la terza sede più

frequente di metastasi dopo fegato e polmone. È facile intuire dunque come il numero

di pazienti affetti da malattia metastatica sia in continuo aumento a causa sia del

progressivo invecchiamento della popolazione generale nonché dell’aumentata

sopravvivenza dei pazienti oncologici.

Aspetto di fondamentale importanza in tali pazienti è la sintomatologia dolorosa

molto intensa, che può associarsi a complicanze meccaniche estremamente invalidanti

e quindi in sostanza determinare una rilevante spinta prognostica negativa con

riduzione della sopravvivenza e della loro qualità di vita residua.

L’ampliamento di conoscenze dei meccanismi di sviluppo delle neoplasie, insieme

con lo sviluppo di metodiche di screening oncologiche sempre più affidabili, ha

permesso di progredire nella prevenzione dei tumori e di ottenere diagnosi sempre più

precoci delle neoplasie, per poterle trattare in fase sempre più iniziale. A questi

risultati vanno aggiunti i progressi delle terapie, con effetti collaterali delle

chemioterapie sempre più controllati, interventi chirurgici sempre meno aggressivi, ma

non necessariamente meno efficaci della “chirurgia convenzionale” e novità nel

contesto delle terapie palliative riguardanti le cosiddette terapie mini-invasive, alcune

delle quali sono tuttora in fase di studio, finalizzate alla terapia del dolore ed al

controllo locale delle lesioni metastatiche dell’osso in quei pazienti non candidabili a

trattamenti chirurgici convenzionali.

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Tutto questo si traduce ad oggi in concrete possibilità curative dei tumori, o, quanto

meno, in un incremento della sopravvivenza ed un evidente miglioramento della

qualità della vita del paziente oncologico.

L’oggetto di questo studio è stata una revisione critica della letteratura e della

casistica dell’UO di Ortopedia e Traumatologia I Universitaria di Pisa riguardante

pazienti con metastasi ossee trattati sia conservativamente che chirurgicamente,

prestando particolare attenzione alle tecniche chirurgiche mini-invasive, al fine di

valutare i trattamenti eseguiti, alla luce dei risultati ottenuti.

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CAPITOLO 1

EPIDEMIOLOGIA E VIE DI DIFFUSIONE

1.1 Incidenza

L’osso rappresenta la terza sede più comune di metastasi, preceduto solo da

polmone e fegato [1]. In Italia è possibile stimare un’incidenza annuale di metastasi

ossee di 35000 nuovi casi all’anno. Circa l’80% delle metastasi scheletriche è

sostenuto da tumori della mammella, della prostata, del polmone, del rene e della

tiroide.

Si sta inoltre osservando un progressivo aumento di incidenza delle metastasi ossee

correlato al fatto che il malato oncologico grazie a terapie più efficaci vive più a lungo.

La dimostrazione clinica della presenza delle metastasi ossee non è sempre

possibile, ed il loro riscontro è talora solo di tipo autoptico, quindi una reale incidenza

di tali lesioni in corso di neoplasie primitive non è sempre possibile.

1.2 Eziopatogenesi

Molteplici fattori spiegano la predilezione di molte neoplasie per il tessuto osseo, in

particolare l'imponente vascolarizzazione che lo caratterizza, la presenza di molecole

adesive sulle cellule neoplastiche e la loro produzione di fattori angiogenetici ed

osteoriassorbibili che ne favoriscono l'accesso alla matrice ossea e la successiva

adesione e proliferazione [2].

La via di propagazione più frequente è quella ematogena, in particolare arteriosa

per le lesioni dei cingoli dapprima prossimali (spalla e bacino) poi distali ( gomito e

ginocchio), e venosa per le lesioni della colonna vertebrale grazie all'esistenza del

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Plesso di Batson, una rete di vasi extra vertebrali, vertebrali, intrarachidei, dalle pareti

sottili e privi di valvole, che costituisce la principale via di connessione tra i territori

della cava superiore e quelli della cava inferiore, anastomizzandosi ampiamente a vari

livelli con vene della cavità toracoaddominale.

Le metastasi ai cingoli prossimali sono quindi espressione di una malattia in fase

più precoce di quelle distali, ed in particolare, le acrometastasi sono considerate

espressione di malattia molto avanzata [3].

1.3 Meccanismi patogenetici delle metastasi ossee

La metastasi ossea è un fenomeno multifattoriale, che si realizza con il contributo

di agenti sia di tipo immunitario e biologico che emodinamico.

Il processo di invasione ossea si articola in varie tappe, la cui rivisitazione consente

di individuare alcuni momenti fondamentali.

Il primo evento si caratterizza per il rilascio costante, da parte di tutti i tumori

primitivi, di cellule che invadono il normale tessuto circostante attraverso la

produzione di enzimi degradativi, quali proteasi o collagenasi. Successivamente, per

diapedesi, le cellule neoplastiche sono quindi in grado di attraversare la rete vascolare

capillare immettendosi così all'interno della circolazione sistemica.

Una volta in circolo tali cellule possono interagire con neutrofili, eritrociti, linfociti

T, e piastrine e depositarsi anche in organi distanti, incluso l'osso; l'ultima tappa è

infatti la colonizzazione e la crescita in situ.

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Figura 1. Metastatizzazione neoplastica: migrazione cellulare, diapedesi e

colonizzazione

L'osso è una sede comune per le metastasi a causa di un' importante

vascolarizzazione capillare a basso flusso a livello midollare, di molecole adesive sulla

superficie delle cellule neoplastiche che ne facilitano l'integrazione con le cellule

stromali e per la produzione di fattori pro-angiogenetici e di riassorbimento osseo che

consentono la crescita tumorale [2].

Un aspetto da considerare, ultimo in analisi e non per importanza, è che solo lo

0,1% degli emboli neoplastici sopravvive poiché il loro destino è legato ad un insieme

di fattori che riguardano da un lato la tipologia di tumore primitivo e la sua attitudine

infiltrante, dall'altro la reazione dell'ospite, condizionata dallo stato del sistema

immunitario.

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1.4 La reazione ossea: osteolisi ed osteogenesi

La risposta dell'osso alla colonizzazione metastatica non è sempre la stessa ma è

strettamente legata al tipo di tumore, che può avere una tendenza invasiva, litica e

distruttiva, oppure di tipo addensante con un effetto osteogenetico di rinforzo della

trama preesistente.

La reazione periostale, in entrambe i casi, è di solito assente o scarsa; solo in casi

eccezionali una metastasi osteoblastica può evocarne una che ricorda quella di un

osteosarcoma.

Le metastasi osteolitiche sono presumibilmente causate dal rilascio,da parte delle

cellule neoplastiche, di agenti osteoclastogenici all'interno del microambiente osseo;

d'altra parte quelle osteoaddensanti sembrano essere il risultato del rilascio di fattori

stimolanti la proliferazione, la differenziazione osteoblastica e quindi l'incontrollata

produzione di tessuto osseo.

Lesioni puramente litiche o addensanti sono ad ogni modo gli estremi dello spettro

di attività che guida la distruzione ossea da parte del tumore; tipicamente infatti

entrambi i processi sono presenti in ogni segmento scheletrico colpito.

L'osteolisi, e l'ipercalcemia che inevitabilmente ne consegue, così come

l'osteogenesi sono processi determinati dall'attivazione osteoclastica ed osteoblastica

attraverso una lunga serie di mediatori molecolari che vengono costantemente

rilasciati anche durante il fisiologico rimodellamento tissutale.

Il fattore attivante gli osteoclasti è stato individuato nella interleuchina l (IL-1), già

evidenziato ben oltre 20 anni fa come prodotto dei linfociti capace di una potente

azione di stimolo sul riassorbimento osseo.

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I tumor necrosis factors sono polipeptidi, anche denominati citokine: il TNFα

prodotto dai macrofagi, e il TNF β prodotto dai linfociti T attivati, hanno sull'osso

azione analoga all' IL-1, di cui inoltre stimolano la sintesi; essi promuovono

direttamente la proliferazione dei precursori degli osteoclasti e regolano indirettamente

l'attività osteodestruente degli osteoclasti maturi.

La loro azione nell'osteolisi neoplasia-indotta è quindi strettamente legata alla

reazione immunitaria dell'ospite.

Un altro membro della famiglia, RANK-L (receptor activator of nuclear factor kB

ligand), è il principale mediatore fisiologico della produzione, attivazione e

sopravvivenza degli osteoclasti e la maggior parte dei fattori pro-osteoclastogenici

agiscono attraverso la via di up-regulation di tale fattore.

I trasforming growth factors a e β, polipeptidi simili agli epidermal growth factors

(EGF) che stimolano la crescita e la replicazione cellulare, sono anch'essi prodotti

delle cellule immunitarie e delle piastrine ma sono stati individuati anche in colture di

cellule tumorali.

Determinante per l’osteolisi è anche il riassorbimento osseo dovuto alle cellule

neoplastiche attraverso il rilascio di enzimi osteolitici. Tali enzimi possono essere

prodotti anche da monociti attirati dalla necrosi ossea conseguente all'ischemia dei

vasi intraossei dovuta alla compressione da parte delle cellule tumorali.

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Il carcinoma della prostata ed in alcuni casi quello della mammella determinano

metastasi di tipo osteoaddensante attraverso due possibili meccanismi:

1. Una ossificazione di tipo intramembranoso può determinarsi all'interno

delle metastasi tumorali in grado di produrre uno stroma fibroso, come ad esempio

quelle di carcinoma prostatico;

2. Una risposta reattiva degli osteoblasti del tessuto circostante è invece il

principale meccanismo della neoformazione ossea presente nelle metastasi

osteoaddensanti. Alla base di tale fenomeno vi è sicuramente un tentativo, da parte del

tessuto normale, di compensare le alterazioni strutturali provocate dalle metastasi,

analogamente a quanto succede nella riparazione delle fratture. In questi casi tuttavia

tale neoproduzione può essere tanto esuberante a tal punto da creare ampie aree di

tessuto osteoide non ancora calcificato che causano ulteriore indebolimento della

struttura ossea.

L'attitudine osteogenetica non è svolta direttamente dalle cellule neoplastiche, ma

per mezzo di induttori. Esse infatti stimolano l'osteogenesi ai bordi delle formazioni

trabecolari con conseguente riduzione degli spazi midollari; ciò è responsabile

dell'addensamento visibile nei radiogrammi.

Ne consegue che alcuni tumori si manifestano esclusivamente con una

osteodistruzione (es. Carcinoma renale e tiroideo), altri con una elettiva osteosclerosi

(carcinoma bronchiale e prostatico) ed altri ancora con una duplice attitudine sia

all'osteolisi che all'osteosclerosi (carcinoma mammario e polmonare) [4].

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CAPITOLO 2

IL TRATTAMENTO DELLE METASTASI OSSEE

2.1 Generalità

Le nuove conoscenze su eziologia e patogenesi di molte neoplasie, associate a

metodiche di screening sempre più affidabili, hanno reso possibile diagnosticare molti

tumori sempre più precocemente in modo da trattarli in fase sempre più iniziale.

Tuttavia il miglioramento delle terapie delle neoplasie primitive e la maggior

sopravvivenza hanno indotto un maggior numero di pazienti metastatici.

Ad oggi quindi il termine "metastasi" non va più considerato come una condanna a

breve termine per il paziente ma, soprattutto per quanto riguarda le metastasi ossee,

divenuto sinonimo di malattia con dignità autonoma, problematiche terapeutiche

multidisciplinari ed aspettativa di vita talvolta lunga.

Il trattamento delle metastasi ossee deve quindi interessare molteplici aspetti e

figure specialistiche diverse per mirare al controllo del dolore, alla prevenzione e/o al

trattamento delle problematiche meccaniche determinate dal cedimento strutturale

dell'osso sostituito dalla neoplasia e quindi al mantenimento di una buona qualità di

vita della persona malata. Lo scheletro è la terza sede più frequente per metastasi da

carcinoma dopo polmone e fegato.

Ogni anno, secondo l'American Cancer Society (ACS), si registrano negli Stati

Uniti ben 1,4 milioni di nuovi casi di carcinoma dei quali circa la metà sono neoplasie

con tendenza a dare metastasi ossee; a queste si devono aggiungere le neoplasie della

serie ematologica, che danno localizzazioni ossee simili alle metastasi, e una gran

parte di metastasi che vengono riscontrate solo in sede autoptica [3].

Sebbene quindi non sia possibile stimare una reale incidenza di tali lesioni in corso

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di neoplasie primitive è stato dimostrato come la loro diagnosi modifichi

profondamente la sopravvivenza del paziente affetto da carcinoma: sempre secondo i

dati del ACS la sopravvivenza a 5 anni cambia significativamente per i pazienti non

metastatici rispetto a quelli invece già metastatici all'esordio.

Rispettivamente è stata osservata per il carcinoma della prostata una riduzione dal

100% al 33%, per il carcinoma della mammella dal 89% al 26% mentre per il

carcinoma tiroideo dal 97% al 56%. Questi dati dimostrano comunque che anche il

paziente metastatico può avere una lunga sopravvivenza nonostante una malattia in

stadio avanzato.

L'aspetto fondamentale per la scelta del trattamento, sia esso chirurgico o meno,

riguarda la considerazione di molte variabili, quali le caratteristiche del tumore

primitivo, il numero, la sede e le caratteristiche delle metastasi ossee e non, le

condizioni cliniche del paziente, tutti aspetti che descrivono le possibilità di

sopravvivenza del paziente affetto da quel tipo di tumore primitivo e da quel tipo di

metastasi ossea ad esso correlata.

Quando l'aspettativa di vita risulta essere limitata il trattamento è generalmente di

tipo palliativo, volto al controllo del dolore o al trattamento delle complicanze

meccaniche; in caso invece di una buona e lunga aspettativa di vita il trattamento delle

metastasi deve essere più aggressivo e soprattutto adatto a durare nel tempo.

Alla luce di ciò pare evidente come identificare i principali fattori prognostici sia

indispensabile per scegliere il giusto iter terapeutico per ciascun paziente.

Attualmente, da un'accurata analisi della letteratura emergono delle comuni correnti

di pensiero sull'identificazione di tali fattori prognostici ed in alcuni casi sono stati

proposti anche dei sistemi a punteggio per la stadiazione del paziente con metastasi da

carcinoma sia a livello dello scheletro assile che degli arti.

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Dagli anni 90' ad oggi, dall'analisi di numerosi studi come quello di Tokuhashi et

al. [5], Tomita et al. [6], Bohm et al. [7] e Kataghiri et al. [8] sono stati proposti molti

parametri, da utilizzare a fini stadiativi, quali il tipo di tumore primitivo, la presenza

ed il numero di metastasi viscerali (trattabili ed intrattabili), il Performance status

(ECOG) del paziente, il numero delle metastasi ossee (isolate o multiple) o la presenza

o rischio di frattura patologica (sede/dimensioni della lesione; tipo di lesione

osteolitica o osteoaddensante).

I fattori più significativi descritti da tutti gli autori sono fondamentalmente due: il

tipo di tumore primitivo e la presenza di metastasi viscerali.

Altri due fattori considerati importanti sono il numero di localizzazioni scheletriche

(metastasi solitaria o multipla), se queste risultano essere sincrone o metacrone alla

neoplasia primitiva al momento della diagnosi e la presenza di “impending fracture” o

di frattura patologica.

Da ciò si evince quanto sia essenziale conoscere i principali carcinomi responsabili

di metastasi ossee. Tumori a lenta crescita, spesso responsivi alle terapie, possono

sviluppare metastasi ossee anche a distanza di anni, mentre tumori a rapida crescita

possono esordire con la metastasi stessa.

La frattura patologica è chiaramente un'indicazione al trattamento chirurgico, anche

in pazienti con condizioni generali molto scarse, e non è da meno l'impending fracture.

Un' esatta definizione di “impending fracture” è tuttora difficile da reperire, sebbene

sia ormai largamente accettato da tutti gli specialisti che può essere definita tale una

condizione in cui almeno il 50% della massa ossea risulta distrutta poiché solo in

questi casi ciò è evidenziabile attraverso un esame radiografico.

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Nel 1989 Mirels [9] sviluppò un sistema a punteggio, combinando 4 diversi aspetti

delle lesioni metastatiche quali dolore, sede, tipo di metastasi ed estensione della

stessa, per quantificare il rischio di frattura patologica e scegliere più attentamente

l'eventuale trattamento da intraprendere; intervenire prima che la frattura si manifesti è

molto più pratico per il chirurgo e soprattutto meno disagevole per il paziente.

Mirels scoring system:

1 2 3
Sede Arto superiore Arto inferiore Zona peritrocanterica
Dolore Lieve Severo Moderato
Lesione Osteoblastica Mista Osteolitica
Estensione <1/3 1/3 - 2/3 >2/3

Un punteggio ≤ 7 è indicativo di basso rischio di frattura, un punteggio di 8 è

associato ad un rischio del 15% mentre il rischio cresce addirittura al 33% in caso di

punteggio ≥ 9.

La diagnostica del paziente oncologico con metastasi ossea ai fini di un adeguato

iter terapeutico deve tener conto di alcuni esami fondamentali.

Se la primitività è già nota, il protocollo diagnostico da seguire sarà:

 Esame Rx standard del segmento scheletrico coinvolto, anche per distinguere

tra una metastasi dello scheletro assile da quello appendicolare; le metastasi

osteoaddensanti appariranno come aree intraossee di opacità fortemente aumentata,

con limiti sfumati ed aspetto "cotonoso" che frequentemente sconfinano dai limiti

della corticale. Le metastasi osteolitiche sono aree di radiotrasparenza intraossea, a

limiti sfumati, talora plurime, con frequente lisi della corticale;

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 Scintigrafia scheletrica globale per valutare il numero delle lesioni

scheletriche (se il paziente non ne ha a disposizione una eseguita meno di 6 mesi

prima);

 Tomografia assiale computerizzata total body con mezzo di contrasto per

la determinazione delle eventuali metastasi viscerali. Questo esame può essere

sostituito dalla PET, anche se non tutti i centri ne sono dotati.

 Risonanza Magnetica Nucleare con mezzo di contrasto della lesione

coinvolta per studiare i rapporti con le parti molli circostanti; nel caso di lesioni

vertebrali la RMN deve riguardare il rachide in toto, perché sono frequenti le lesioni

vertebrali multiple contestuali, anche non necessariamente captanti alla scintigrafia.

 Tomografia assiale computerizzata del segmento scheletrico coinvolto per

studiare l’entità del danno corticale.

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È tuttavia raccomandabile, in presenza di qualunque dubbio diagnostico, eseguire

una biopsia, anche estemporanea, della lesione ossea; nel caso di lesioni del vertebrali

si esegue generalmente un'agobiopsia TC-guidata oppure a Fluoroscopio-guidata.

Aspetto fondamentale da non trascurare è il rischio di frattura in sede di lesione

metastatica; i parametri più significativi, sia pur non assoluti, che possono aiutare ad

una valutazione oggettiva del rischio sono l'estensione dell'osteolisi superiore al 50%

del diametro osseo, una sua estensione longitudinale maggiore di 25-30 mm e il

dolore, soprattutto sotto carico.

L'esame TC del segmento interessato è pertanto l'esame più utile per eseguire tali

valutazioni poiché dà una migliore e più precisa rappresentazione delle corticali; è

tuttavia un esame importante per la scelta chirurgica per cui la sua esecuzione sarà da

riservarsi a pazienti per i quali è già stata stimata una buona sopravvivenza e quindi la

possibilità di essere sottoposti ad un eventuale trattamento chirurgico.

Procedura riservata ai pazienti da sottoporsi a trattamento chirurgico, e talvolta

come trattamento palliativo, è l'angiografia preoperatoria con embolizzazione

selettiva. È una metodica angiografica terapeutica, il cui scopo è occludere i vasi

afferenti ad una neoformazione. Il meccanismo di azione è la necrosi ischemica

indotta dall’occlusione dell’albero vascolare della lesione, la quale deve avvenire il più

distalmente possibile a livello delle arteriole terminali prive di collaterali che sono

l’unica fonte di apporto ematico al territorio da ischemizzare.

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L’occlusione vascolare è provocata da materiale che blocca il flusso ematico e

facilita la trombogenesi. Il materiale embolizzante viene introdotto selettivamente

mediante cateterismo dei vasi arteriosi afferenti alla neoplasia. I materiali embolizzanti

differiscono per caratteristiche fisico-chimiche, (liquidi e solidi) e per tipo di

occlusione (permanente o temporanea).

I materiali embolizzanti liquidi sono N-Butil(2)Cianoacrilato, Alcool puro e Onyx

mentre materiali embolizzanti solidi sono Microsfere, Spirali metalliche, Alcool

polivinilico e Spongostan®.

L’embolizzazione arteriosa è una metodica non scevra da rischi che va eseguita

soltanto presso centri specializzati al fine di ridurre eventuali complicanze, che in

determinati distretti, come il rachide, potrebbero essere estremamente invalidanti.

Le complicanze sono essenzialmente rappresentate dalla embolizzazione di

territori non lesionali.

18
2.2 Il trattamento chirurgico delle metastasi ossee

Il trattamento chirurgico delle metastasi ossee necessita innanzitutto di differenziare

tra metastasi della colonna vertebrale e metastasi dello scheletro appendicolare e della

pelvi.

I pazienti vengono quindi assegnati ad una delle seguenti classi:

 CLASSE 1 – metastasi scheletrica solitaria da tumore primitivo a buona

prognosi (mammella, prostata, rene e tiroide) e con prolungato intervallo libero di

malattia (> 3 anni) dal primitivo ai secondarismi.

 CLASSE 2 – frattura patologica nelle ossa lunghe principali (omero, radio,

ulna, femore e tibia).

 CLASSE 3 – lesione a rischio di frattura patologica nelle ossa lunghe

principali valutata in base ai seguenti parametri: lesione litica della corticale ≥ 2,5 cm,

distruzione della corticale ≥ 50% del diametro e dolore persistente o progressione della

lesione dopo radioterapia e/o chemioterapia;

 CLASSE 4 – lesioni metastatiche osteoblastiche, lesioni osteolitiche o miste

in ossa non sottoposte a carico (ulna distale, coste, perone, clavicola), lesioni non a

rischio di frattura nelle principali ossa lunghe, lesioni per le quali l'unico trattamento

possibile è l'amputazione dell'arto, lesioni dell'ala iliaca, arco pelvico anteriore e

scapola (eccetto quelli in Classe 1);

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Quando e Come operare

I pazienti delle CLASSI 1, 2 e 3 devono essere inviati in prima istanza al chirurgo

ortopedico per il trattamento chirurgico ed in seguito all’oncologo medico e/o al

radioterapista per le terapie adiuvanti. I pazienti della CLASSE 4 devono essere trattati

in prima istanza con terapie non chirurgiche (chemioterapia, radioterapia, terapia

ormonale, etc.) ed in caso di fallimento meccanico (frattura patologica o progressione

di malattia con lesione a rischio di frattura) o di dolore persistente dopo le terapie,

rientrano nelle classi 2 e 3 e vengono trattati chirurgicamente (Tab.1). In alcuni

pazienti della classe 4 possono essere adottate tecniche mini invasive.

Tab.1. Indicazioni al trattamento chirurgico e conservativo secondo la classe di


appartenenza (CT: chemioterapia; HT: ormonoterapia; IT: immunoterapia; BP:
bifosfonati)

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Il tipo di trattamento chirurgico e di ricostruzione viene deciso considerando diversi

parametri biologici e biomeccanici e, nelle lesioni diafisarie, un sistema a punteggio

permette di identificare la ricostruzione più appropriata per ogni singolo paziente.

L’aspettativa di sopravvivenza, il tipo di tumore primitivo, il numero di metastasi

scheletriche, la presenza di metastasi viscerali, l’intervallo libero da malattia e le

condizioni generali del paziente sono i parametri biologici considerati. La sede e le

dimensioni della lesione, l’aspetto radiografico e la prevista sensibilità alle terapie non

chirurgiche sono i parametri biomeccanici considerati.

Classe 1:

I pazienti di questo gruppo possono sopravvivere a lungo ed il trattamento

chirurgico in questi casi deve comprendere l’asportazione della lesione metastatica

(possibilmente con margini ampi) e la ricostruzione con metodiche adatte a durare nel

tempo. In questi pazienti, la metastasi viene trattata come un tumore primitivo e

l’intervento è mirato ad un risultato oncologico e meccanico stabile a lungo termine.

Una resezione articolare o intercalare in questi casi viene ricostruita con sistemi

protesici modulari cementati e spaziatori intercalari.

Le lesioni metastatiche solitarie delle ossa spendibili (perone, coste, clavicola, ulna

distale) possono essere facilmente resecate senza alcun residuo funzionale. Nelle

lesioni di classe 1 della scapola è indicato eseguire una scapulectomia totale che

determina la perdita della funzione in abduzione ed elevazione della spalla. La

resezione dell’ala iliaca e dell’arco pelvico anteriore può essere eseguita senza

importanti deficit funzionali residui. In questi casi, la ricostruzione scheletrica di solito

non è necessaria e una rete sintetica può essere utilizzata per evitare ernie viscerali.

21
Al contrario, la resezione di lesioni che coinvolgono l’acetabolo richiede

ricostruzioni complesse che possono essere eseguite con protesi a sella o con anelli

acetabolari cementati e barre o chiodi di rinforzo cementati.

Classi 2 e 3:

Metaepifisi: il trattamento chirurgico indicato in queste sedi è descritto nella Tab. 3

dove l’area 1 (epifisi) e l’area 2 (metafisi) sono considerate separatamente. A livello

dell’omero e del femore prossimale il rischio di frattura patologica e di cedimento

meccanico è elevato a causa delle importanti forze in torsione all’omero e flessione

sotto carico al femore. Per questo motivo, in queste sedi è indicato un trattamento

chirurgico più aggressivo che comprende la resezione e la ricostruzione con protesi

modulari cementate al fine di ottenere un recupero funzionale precoce e di evitare il

fallimento meccanico dell’impianto nel tempo causato dall’eventuale progressione di

malattia. In caso di margini chirurgici ampi, la radioterapia postoperatoria può essere

evitata, mentre rimane indicata dopo resezione marginale o intralesionale della lesione

o quando è presente una frattura patologica. Quando eseguita, la radioterapia deve

essere a dosi piene di almeno 30Gy e non a scopo palliativo di controllo del dolore.

Nelle lesioni epifisarie, la ricostruzione può essere eseguita con protesi convenzionali

a stelo lungo cementato, mentre nelle resezioni metafisarie devono essere usati sistemi

protesici modulari. Il rischio di fallimento meccanico è minore a livello del gomito,

del ginocchio e della tibiotarsica. In queste sedi, quando meno della metà della

metaepifisi è coinvolta dalla lesione, è indicato eseguire un' asportazione intralesionale

del tumore (curettage), riempire la cavità con cemento acrilico (PMMA) ed eseguire

un’osteosintesi di rinforzo con placca. Durante il curettage della lesione è

consigliabile utilizzare tecniche adiuvanti locali come la crioterapia o l’impiego di

fenolo per migliorare il controllo locale. In questi casi, la radioterapia postoperatoria è

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sempre indicata. L’estensione tumorale a più della metà della metaepifisi o il

coinvolgimento articolare richiede la resezione intra-articolare del segmento

interessato e la ricostruzione con sistemi protesici modulari cementati dell’omero

distale, del femore distale e della tibia prossimale o l’artrodesi della tibiotarsica.

Tab. 2 Tipi di ricostruzione nelle ossa lunghe

A: OSTEOSINTESI
A1:semplice  Chiodo endomidollare bloccato (con viti di
bloccaggio ancorate su osso sano). Placca e cemento.
A2:rinforzata  Chiodo endomidollare bloccato e cementato;
Placca doppia e cemento.
B: PROTESI
B0  Protesi standard a stelo lungo endomidollare
B1  Protesi da resezione modulare
B2  Spaziatore intercalare modulare

23
Tab. 3 Trattamento consigliato per le lesioni metaepifisarie nei pz in classe 2 e 3

24
Diafisi: per le metastasi diafisarie nei pazienti in classe 2 e 3 è stato proposto un

sistema a punteggio (Tab 4) tenendo conto di 4 diversi parametri: l’aspettativa di vita;

la sede della lesione; le dimensioni della lesione; la risposta prevista alle terapie

adiuvanti non chirurgiche. Come risposta prevista alle terapie adiuvanti viene

considerata la potenzialità della lesione a riparare e a ossificare dopo trattamento

locale (radioterapia, chemioterapia, terapia ormonale, immunoterapia etc.). Il

punteggio è variabile da 3 a 15 punti per ogni paziente. Un osteosintesi semplice

(chiodo endomidollare bloccato o placca e cemento) è indicata nei pazienti con un

punteggio basso (≤ 5 punti); un osteosintesi rinforzata (chiodo endomidollare e

cemento) è indicata nei pazienti con un punteggio intermedio (da 6 a 10 punti); la

resezione della lesione e la ricostruzione con sistemi protesici modulari cementati è

indicata nei pazienti con punteggio elevato (da 11 a 15 punti). Il punteggio viene

corretto considerando le condizioni generali del paziente. Un “performance status” se

scarso determina il declassamento della ricostruzione consigliata da osteosintesi

rinforzata a osteosintesi semplice, mentre se buono permette di mantenere

l’indicazione all’intervento assegnato.

Tab.4 Sistema a punteggio per la definizione del trattamento chirurgico delle


lesioni diafisarie nei pz in classe 2 e 3. In neretto il punteggio assegnato

Sopravvivenza Sede della lesione Dimensioni della Sensibilità alle


lesione terapie adiuvanti
< 1 anno 1 Tibia 1 Piccola (1/3) 1 Si 0
Da 1 a 2 anni 3 Femore,omero 2 Grande (1/2) 2 No 3
> 2 anni 6 Sottotrocanterica e Completa o Frattura -
sovracondiloidea 3 patologica 3

25
Fino a 5 punti Osteosintesi semplice: chiodo endomidollare bloccato o
placca e cemento (A1)
Da 6 a 10 punti Osteosintesi rinforzata: chiodo endomidollare e
cemento o doppia placca e cemento (A2)
Da 11 a 15 punti Megaprotesi o spaziatore intercalare modulare (B1; B2)

Regione periacetabolare: nella regione periacetabolare, un trattamento

conservativo non chirurgico è indicato nelle lesioni osteoblastiche e miste dove è

prevista una buona risposta alle terapie adiuvanti. Durante la radioterapia è

consigliabile evitare il carico sull’arto interessato. Il trattamento chirurgico, comunque

gravato di elevata incidenza di complicanze maggiori per il paziente, è indicato nei

pazienti della classe 1, come descritto in precedenza, nei pazienti della classe 2 ,con

una protrusione acetabolare, e nelle lesioni osteolitiche con una scarsa risposta prevista

alle terapie adiuvanti (classe 3). L’angiografia preoperatoria con embolizzazione

selettiva è consigliata nelle lesioni molto vascolarizzate come il carcinoma renale a

cellule chiare ed il carcinoma tiroideo. Quando l’osso subcondrale dell’acetabolo

rimane integro, può essere eseguita l’asportazione intralesionale (curettage) della

lesione con riempimento della cavità con cemento acrilico mantenendo integra la

funzione articolare dell’anca. Questa procedura può essere eseguita anche in maniera

percutanea secondo la tecnica dell’acetaboloplastica, anche se con questa metodica il

curettage può essere solo parziale con conseguente residuo macroscopico di malattia

tumorale in sede; tale metodica trova in realtà specifica indicazione nelle lesioni

acetabolari in pazienti con metastasi multiple ossee e/o viscerali, e con aspettativa di

vita solitamente non superiore all’anno. Per rinforzare la ricostruzione del tetto

acetabolare, fili o barre metalliche possono essere inseriti nell’osso sano ed immersi

nel cemento secondo la metodica descritta da Harrington et al. La distruzione

dell’osso subcondrale e la protrusione acetabolare rendono necessaria la sostituzione

26
protesica che deve essere eseguita utilizzando speciali componenti di rinforzo (fili o

barre metallici; anelli avvitati e cementati; componenti acetabolari cementati a

ritenzione totale o a doppia motilità) o protesi modulari a sella.

2.3 Chirurgia delle metastasi dello scheletro appendicolare

Nonostante un'accurata valutazione clinica del paziente, le numerose opzioni

terapeutiche ed una vasta gamma di mezzi di sintesi a disposizione ai fini del

trattamento chirurgico è fondamentale non dimenticare alcuni concetti:

 la prima procedura ha generalmente la prognosi migliore pertanto bisogna

cercare di fare il più possibile nel migliore dei modi al fine di evitare al paziente un

secondo intervento;

 si deve ricostituire quanto più è possibile del difetto osseo per cui spesso,

sebbene più demolitiva, la sostituzione protesica risulta un opzione migliore della

riduzione e sintesi;

 non dimenticare mai la ridotta aspettativa di vita del paziente e quindi

cercare di rendere l'ospedalizzazione il più breve possibile;

 eliminare il più possibile lunghi periodi di immobilizzazione al fine di

ripristinare rapidamente un buono stato funzionale;

27
In caso di fratture patologiche la finalità di trattamento non è ottenere la

consolidazione e la guarigione della frattura, come avviene nelle fratture non

patologiche, bensì ristabilire la resistenza sia in flessione che in torsione del segmento

interessato così da permettere immediatamente il carico, soprattutto se è interessato

l'arto inferiore.

Osteosintesi semplice o rinforzata?

In molti casi è stato osservato che l'escissione del tessuto tumorale durante il

trattamento della metastasi può portare un significativo miglioramento della prognosi

locale. Tale escissione può essere eseguita in modo intralesionale mediante curettage e

utilizzo di adiuvanti locali, quali etere, fenolo, perossido d'idrogeno oppure cemento

acrilico (PMMA) standard o addizionato con antibiotici (antibiotato).

L’osteosintesi semplice, senza curettage e cementoplastica, dovrebbe essere

limitata ai casi in cui la sola osteosintesi associata ad adiuvanti esterni (radioterapia,

chemioterapia, ormonoterapia) può consentire le guarigione locale (per esempio nel

mieloma multiplo e nel carcinoma mammario responsivo alle terapie mediche) oppure

nei casi in cui la prognosi del paziente faccia ritenere che il tempo di durata

dell’osteosintesi semplice sia sufficiente a coprirne la breve aspettativa di vita.

L'esecuzione di un curettage e borraggio ha una duplice funzione, sia meccanica

che oncologica; il cemento oltre ad essere un riempitivo e a conferire stabilità al

mezzo di sintesi, sviluppa calore per polimerizzazione esotermica del composto

determinando così una necrosi tissutale perilesionale.

28
La cementazione generalmente segue un accurato curettage della metastasi con

frese motorizzate , prestando attenzione a rimuovere tutti i residui della fresatura, e

precede la stabilizzazione con mezzo di sintesi, sia esso un chiodo endomidollare

bloccato con viti, prossimale e distale, oppure una placca, sempre bloccata con viti.

Per quanto riguarda l'arto inferiore, per la maggior parte delle sedi, i mezzi di

sintesi endomidollari sono oggi la prima scelta; i principali vantaggi del chiodo

endomidollare sono:

 una sintesi più lunga e comprensiva della quasi totalità del segmento osseo,

condizione che migliora la distribuzione degli stress e assicura una minor incidenza di

frattura patologica sia prossimalmente che distalmente;

 una situazione biomeccanica più favorevole per la trasmissione del carico,

elemento importante in una frattura patologica che per definizione ha maggiori

difficoltà a guarire;

La placca presenta invece diverse indicazioni:

 lesioni metafisarie, dove non vi è sufficiente spazio per la fissazione del

chiodo;

 in particolari lesioni epifisarie dove siano presenti una superficie articolare

intatta, un sufficiente bone stock residuo che renda stabile la fissazione ed un adeguato

ed indolore range di movimento;

 in caso di preesistenti mezzi di sintesi o protesi che impediscano l'utilizzo

del chiodo;

29
Per quanto riguarda l'arto superiore invece l'utilizzo della placca ha tuttora un

ruolo prevalente, grazie anche al fatto che questo risulta essere meno sollecitato al

carico.

Nei casi in cui si ritenga particolarmente a rischio la stabilità della ricostruzione si

possono anche utilizzare due placche poste parallele una a 90° rispetto all'altra sulla

circonferenza della diafisi.

Il chiodo viene scelto in caso di osteosintesi semplice senza necessità di curettage e

borraggio a cielo aperto, come ad esempio nel trattamento delle lesioni da mieloma

multiplo; in caso contrario sarebbe più indicata appunto la placca perché consente

l'utilizzo di un unico accesso chirurgico, una riduzione dei tempi operatori ed una

minor esposizione a radiazioni ionizzanti.

Nel caso del femore, come dell'omero, la sintesi dovrà interessare anche il distretto

cervico-cefalico per cui si dovranno utilizzare chiodi con vite o viti cervico-cefaliche,

e non semplici chiodi diafisari, oltre a viti statiche distali.

Procedura altamente indicata nelle lesioni metastatiche, sia in caso di osteosintesi

semplice che in che in quella associata a curettage e cemento, è l'alesaggio del canale.

Tale procedura consente, nel primo caso, una più accurata scelta sulla misura del

chiodo e un miglior fit del chiodo stesso nel segmento osseo; nel secondo caso

consente invece una miglior penetrazione del cemento all'interno del canale

facilitandovi anche l'inserimento del chiodo.

L'inchiodamento e l'alesaggio possono presentare tuttavia alcune problematiche, in

particolar modo il rischio di disseminazione della malattia all'interno del canale ed il

rischio di embolizzazione a distanza, tramite il circolo ematico, favorito dalle alte

30
pressioni endocanalari determinate dalla fresatura preliminare, dalla cementazione e

dall'inserimento del chiodo nel canale.

Impianti protesici e resezioni

L'indicazione alla chirurgia di resezione e sostituzione con protesi, sia essa a stelo

lungo cementata o megaprotesi oncologica modulare, riguarda le lesioni epifisarie e

metaepifisarie dell'omero prossimale e distale, del femore, della tibia prossimale e,

molto raramente, del bacino.

 Arto inferiore

Il femore prossimale è la sede più frequente di cedimento meccanico nei pazienti

con metastasi ed è quindi raccomandato il trattamento chirurgico per tutte le fratture

patologiche o le impending fractures a questo livello, eccetto che nei pazienti allettati

con un'aspettativa di vita < 2 mesi.

Per la scelta dell'impianto protesico è necessaria una RMN preoperatoria del bacino

e del femore in modo da identificare un eventuale interessamento dell'acetabolo,

definire l'estensione della metastasi all'interno lungo la diafisi ed evidenziare altri

eventuali foci metastatici distalmente nel canale.

Quando non c'è coinvolgimento acetabolare si preferisce utilizzare coppe bipolari

che garantiscono un minor rischio di lussazione dell'impianto protesico.

31
Per lesioni limitate alla testa e al collo femorale si utilizzano generalmente protesi

standard; impianti con stelo lungo sono invece indicati in caso di progressione della

malattia al fine di rinforzare la diafisi e prevenire nuove fratture. In alcuni casi, quando

è distrutta la zona del Calcar, sono necessari speciali impianti protesici.

Per lesioni che coinvolgono sia il trocantere che la metafisi, un osteosintesi

semplice con placca e viti o un chiodo endomidollare possono dare risultati inadeguati

in termini di durata dell'impianto, soprattutto in caso di coinvolgimento del muro

mediale del collo femorale.

Un curettage con successiva cementazione prima della sintesi possono lievemente

migliorare i risultati che tuttavia appaiono comunque scarsi. Per tali ragioni in questi

casi si preferisce una resezione del femore prossimale e la ricostruzione con

megaprotesi modulari cementate.

Complicanza comune a tutti gli impianti protesici, e soprattutto alle megaprotesi, è

il rischio di instabilità dell'impianto e quindi di lussazione nei primi mesi dopo

l'intervento.

Esistono quindi delle raccomandazioni da seguire sia durante che dopo l'intervento

al fine di ridurre il più possibile l'incidenza di tale complicanza.

In caso di necessità di sostituzione del cotile si dovrebbero utilizzare o componenti

acetabolari cementate con inserti ad effetto snap-fit oppure testine femorali più grandi

(32-36 mm). È importante cercare di salvare quanto più possibile la capsula articolare

per poterla reinserire adeguatamente attorno al colletto della protesi; in caso contrario

si possono utilizzare maglie tubolari di polietilenterftalato come rinforzo o sostituti

della capsula da ancorare alla protesi. La re-inserzione muscolare deve poi essere

molto accurata e può essere eseguita direttamente sulla protesi o indirettamente

32
attraverso maglie sintetiche, ligamenti artificiali o graffette metalliche; utile può essere

la sutura diretta del muscolo medio gluteo a livello degli appositi fori sul corpo della

protesi e la sutura al di sopra del vasto laterale per cercare di sfruttare l'effetto di

Tension Banding dato dalla contrazione del vasto laterale stesso conferendo così

maggior stabilità all'impianto.

Per quanto riguarda il postoperatorio è necessario l'utilizzo, da parte del paziente, di

un tutore d'anca in modo da facilitare la cicatrizzazione dei monconi muscolari

evitandogli eccessivi stress, data la precoce ripresa del carico consentita al paziente.

Oltre all'accortezza di evitare tali rischi di natura puramente tecnica è fondamentale

non dimenticare che tali interventi sono estremamente demolitivi, gravati da numerosi

altri rischi come il rischio di sanguinamento, accentuato spesso anche dal tipo di

metastasi (carcinoma renale e tiroideo) oppure il rischio infettivo, maggiore in questi

pazienti che risultano spesso immunodepressi.

Ginocchio e caviglia sono meno soggetti a forze di tensione e torsione per cui sono

meno a rischio di fallimento meccanico. In caso di coinvolgimento di <50% dell'area

meta-epifisaria si può procedere con un osteosintesi semplice con placca e viti a

seguito di curettage e borraggio con cemento. Un coinvolgimento > 50% necessita di

una resezione ampia del femore distale e/o della tibia prossimale con ricostruzione

mediante megaprotesi modulare cementata.

Per la caviglia non esistono attualmente impianti protesici per cui l'unica opzione

ricostruttiva è l'artrodesi con autografts o allografts.

33
 Arto superiore

Metastasi a livello di scapola e clavicola sono trattate conservativamente con la

radioterapia nella maggior parte dei casi. Il trattamento chirurgico è indicato solo nelle

lesioni solitarie e consiste solo nella resezione, senza ricostruzione; ne è un esempio la

scapulectomia.

L'omero prossimale, come il femore, è ad elevato rischio di frattura patologica a

causa delle forze di rotazione e torsione a cui è sottoposto. Generalmente, il

trattamento di scelta per queste lesioni è una protesi convenzionale cementata a stelo

lungo, preservando l'inserzione della cuffia dei rotatori sulla grande tuberosità. Se la

lesione coinvolge la metafisi allora si rende necessario l'utilizzo di protesi modulari

con un'accurata re-inserzione della cuffia dei rotatori, del muscolo deltoide e del

grande pettorale con suture non riassorbibili al fine di migliorare la stabilità e la

funzionalità residua.

In caso di lesioni diafisarie sia dell'arto superiore che dell'arto inferiore il

trattamento di scelta si avvale, nella maggior parte dei casi, di chiodi endomidollari o

placche bloccati con viti dopo accurato curettage e borraggio. In caso di lesioni

singole, soprattutto in pazienti con una buona prognosi, possono essere indicate delle

resezioni in blocco della lesione a margini ampi e ricostruzione del segmento osseo

con protesi intercalari modulari cementate.

34
2.4 Chirurgia delle metastasi del rachide e del bacino

Il rachide è il segmento scheletrico interessato con maggior frequenza in caso di

malattia neoplastica in fase avanzata. I corpi vertebrali vengono raggiunti

prevalentemente per via ematogena a causa della particolare vascolarizzazione, sia dal

punto di vista anatomico che emodinamico, che caratterizza tale distretto. I

cambiamenti di direzione del flusso sono frequenti poiché l'assenza di valvole rende la

pressione nel sistema venoso incostante e soggetta alle variazioni delle pressioni

endotoracica ed endoaddominale. Qualunque modificazione pressoria che induca una

chiusura della via cavale, come un colpo di tosse o la defecazione, spinge il sangue nel

sistema vertebrale. Ciò può essere sfruttato dagli emboli neoplastici che così possono

facilmente localizzarsi a livello del rachide senza impegnarsi nella circolazione

sistemica, bypassando fegato e polmone.

Le indicazioni a trattare chirurgicamente una metastasi vertebrale sono il dolore

intrattabile, la comparsa di deficit neurologici, causati da compressione della massa

neoplastica sulle strutture mielo-radicolari oppure dalla frattura patologica della

vertebra, e l'instabilità del tratto spinale interessato che causa un dolore meccanico

ingravescente e/o un deficit neurologico.

Il disturbo più importante che caratterizza questi pazienti è appunto il dolore,

sintomo molto comune e spesso aspecifico.

Scopi della chirurgia sono quindi la remissione della sintomatologia algica, il

miglioramento delle funzioni neurologiche e la stabilizzazione della colonna.

35
Le tecniche chirurgiche impiegate nel trattamento delle metastasi vertebrali

possono quindi essere classificate in: escissione intralesionale (curettage, debulking),

decompressione e stabilizzazione o resezione in blocco associate a varie tecniche

ricostruttive. Raramente vengono impiegate anche tecniche mini-invasive come

vertebro- e cifoplastica con PMMA per via percutanea.

 Escissione intralesionale " debulking"

La massa neoplastica viene aggredita ed escissa così da decomprimere il più

possibile il midollo spinale. Tale intervento è generalmente indicato in caso di

metastasi radioresistenti con frattura patologica e/o segni di compressione midollare

oppure quando è richiesta una riduzione della massa per poter eseguire terapie

adiuvanti.

La via d'accesso chirurgico può essere sia anteriore che posteriore oppure

addirittura combinata in due tempi. La tecnica varia solitamente in rapporto alla sede e

all'estensione della metastasi; rispetto a quest'ultima è possibile distinguere le forme

circoscritte al corpo vertebrale e le forme estese che vanno a coinvolgere anche

strutture muscolari o vascolari.

Nelle localizzazioni lombari circoscritte al corpo è possibile eseguire un'escissione

per via posteriore, previa laminectomia/e o emilaminectomia/e nelle forme più laterali,

e borraggio con osso autologo, oltre alla stabilizzazione posteriore transpeduncolare.

36
Nelle localizzazioni cervicali, toraciche o anche lombari, purché estese oltre il

corpo, è necessario ricorrere alla via anteriore o al doppio accesso, posteriore per la

stabilizzazione e l'eventuale decompressione, e anteriore per escissione ed eventuale

stabilizzazione supplementare.

Inoltre se il tessuto neoplastico ha distrutto >50% del corpo vertebrale o lo ha reso

instabile è necessaria la sostituzione del corpo o della parte distrutta mediante l'uso di

gabbie metalliche riempite con cemento.

Infine, è buona regola avvalersi dell'embolizzazione selettiva pre-operatoria con la

duplice finalità di ridurre il sanguinamento e, in caso di metastasi da carcinoma

tiroideo, l'improvvisa liberazione di ormoni, e i rischi intraoperatori che potrebbero

conseguirvi, al momento dell'escissione.

 Decompressione e stabilizzazione

Questa tecnica si propone di decomprimere circonferenzialmente il midollo spinale

e stabilizzare la colonna vertebrale. È indicata nei pazienti con prognosi infausta a

breve termine, in caso di danno neurologico acuto per frattura patologica in atto, ma

anche in caso di radiosensibilità o responsività alla chemioterapia e/o alla terapia

ormonale.

Un'embolizzazione preoperatoria delle afferenze vascolari alla lesione rende la

procedura più semplice per l'ortopedico e sicura per il paziente.

L'intervento può essere eseguito con accesso sia anteriore che posteriore.

37
Nelle localizzazioni posteriori con compressione posteriore è necessario eseguire

una o più laminectomie o emilaminectomie fino a decompressione midollare

completa.

Nelle localizzazioni anteriori somatiche la decompressione segue le regole

dell'escissione, per sede ed estensione.

Nelle compressioni radicolari da compressione neoplastica, da frattura o condizioni

osteoproduttive compensatorie la foraminotomia è spesso risolutiva.

Le stabilizzazioni con placca o protesi sono più indicate nel trattamento di

metastasi a carico dei segmenti somatici cervico-toracici e sono generalmente di

pertinenza neurochirurgica date le difficoltà di svolgimento della procedura associate

agli importanti rischi di danno a carico del midollo spinale e delle strutture nobili del

collo incontrate durante la via d'accesso chirurgico.

Le stabilizzazioni con viti transpeduncolari e barre, a seguito di laminectomia,

vengono eseguite per via posteriore e sono il gold standard nelle stabilizzazioni del

tratto lombo-sacrale e toracico distale. Sebbene presentino minor incidenza di rischio

di danno neurologico, la posizione prona che deve assumere il paziente durante tutto

l'intervento non sempre è compatibile con le sue condizioni cliniche e con le procedure

anestesiologiche.

38
 Resezione in blocco (corpectomia + laminectomia)

Tale procedura è maggiormente indicata in caso di tumori primitivi,ma può essere

una soluzione corretta in caso di metastasi solitaria di tumori radioresistenti ma con

buona aspettativa di vita a medio-lungo termine. Può essere eseguita un approccio

doppio oppure uno solo posteriore [3]

Per quanto riguarda il bacino salvo rare eccezioni, il ruolo è essenzialmente di tipo

palliativo ed è limitato alle lesioni dell'area periacetabolare che possono

compromettere la funzionalità deambulatoria.

Le lesioni che determinano un'insufficienza della struttura acetabolare (Classe 2)

possono essere classificate in tre tipi a seconda dell'estensione del tumore e del grado

di compromissione ossea:

 Tipo I :corticale laterale e parete superiore/mediale dell'acetabolo sono

intatte.

 Tipo II : insufficienza della parete mediale.

 Tipo III: insufficienza di entrambe le pareti mediale e laterale.

Le lesioni di tipo I possono essere trattate con artroprotesi d'anca standard,

cementata. Per le lesioni di tipo II si rende invece necessario il ricorso ad anelli di

sostegno.

39
Le lesioni di tipo III prevedono invece la più complessa ricostruzione delle colonne

mediale e laterale con infibuli metallici e cemento per supportare la componente

protesica acetabolare.

Esistono poi tecniche di chirurgia mini-invasiva quali la termoablazione a

radiofrequenza e la cementoplastica percutanea che possono risultare utili in lesioni

singole, in sedi facilmente aggredibili, impending fractures o pazienti con bassa

aspettativa di vita.

La termoablazione a radiofrequenza viene eseguita in anestesia loco-regionale, la

lesione viene identificata sulla scansione TC e centrata con un filo di Kirschner

introdotto a mano libera e poi con trapano, previa introduzione di una cannula di

protezione. Una volta raggiunta la lesione viene rimosso il filo e lasciata in sede la

cannula che farà da guida al manipolo di emissione delle radiofrequenze.

La finalità del trattamento è ottenere una necrosi del tessuto neoplastico senza però

conferire alcuna stabilità al tessuto osseo perilesionale; tale metodica non è quindi

indicata nelle lesioni che hanno implicazioni meccaniche.

La cementoplastica percutanea, eseguita in anestesia periferica, utilizza cemento

per riempire il difetto osseo così da conferire nuova stabilità e resistenza alle

sollecitazioni meccaniche all'osso ormai indebolito.

40
Particolare importanza ricopre in questo caso l'acetaboloplastica che risulta essere

indicata per lesioni osteolitiche in pazienti plurimetastatici con ridotta aspettativa di

vita, interessamento della zona sovracetabolare o delle colonne anteriore e/o posteriore

purché sia mantenuta una continuità dell'osso subcondrale o della cartilagine

articolare.

2.5 Follow-up del paziente con metastasi ossee

Il follow-up è un insieme di visite ed esami diagnostici specifici a cui il paziente

oncologico, soprattutto se già metastatico, deve sottoporsi periodicamente: le

probabilità di sviluppare una recidiva sono, infatti, più alte rispetto a quelle di chi non

ne ha mai sofferto.

Per quanto riguarda le metastasi ossee, un attento follow-up clinico-radiologico è

estremamente importante al fine di individuare precocemente nuovi secondarismi in

fase iniziale, e quindi più suscettibili di trattamenti meno invasivi chirurgici o meno,

oppure una recidiva di malattia in una zona già trattata, che potrebbe, col tempo,

inficiare il buon funzionamento del mezzo di sintesi precedentemente utilizzato.

41
Il protocollo pertanto più indicato per un paziente con metastasi ossee trattato

chirurgicamente, oltre agli esami clinico-diagnostici di follow-up che variano a

seconda della neoplasia primitiva, si avvale di:

 Rx standard degli arti, superiori ed inferiori ogni anno;

 RMN del bacino + rachide in toto (soprattutto se già presenti

localizzazioni vertebrali) a 3 mesi e 6 mesi dopo l'intervento chirurgico e poi ogni

anno;

 Scintigrafia Ossea Total-Body con fosfati marcati con 99mTc

(radiofarmaci specifici per lo studio dell'osso) ogni anno;

In caso di diagnosi occasionale di metastasi ossea asintomatica o priva

d'indicazione chirurgica è necessario un follow-up più stretto con RMN mirata ogni 3

mesi per il primo anno e ogni 6 mesi per i successivi fino a nuova indicazione in caso

di progressione della malattia.

42
CAPITOLO 3

TECNICHE CHIRURGICHE MINI-INVASIVE

3.1 Generalità

Un dolore localizzato persistente nonostante le terapie non chirurgiche, in pazienti

in cui sono sconsigliabili trattamenti di maggiore entità, rappresenta la principale

indicazione di tutte le metodiche mini-invasive finora in uso comune.

Le metodiche mini-invasive percutanee hanno come finalità la distruzione con

mezzi fisici della lesione tumorale, allo scopo di diminuirne la sintomatologia e di

rallentarne la progressione [10].

Si tratta di metodiche inizialmente sviluppate per il trattamento di lesioni benigne,

ma che hanno dimostrato la loro efficacia anche nella malattia metastatica ossea per il

controllo palliativo della sintomatologia algica in aggiunta ai trattamenti principali

medici, radioterapici e chirurgici [11-12]. Queste tecniche possono essere associate

alle terapie sistemiche (chemioterapia, terapie ormonali e biologiche), all’uso dei

difosfonati, del denosumab, alla radioterapia ed alla terapia del dolore, per il controllo

del dolore osseo metastatico [11-12].

Tutte queste metodiche presentano controindicazioni simili, in particolare la

vicinanza (< 1cm) delle lesioni da trattare a strutture vascolari-nervose o viscerali e la

scarsa efficacia sulle lesioni osteoaddensanti (ad eccezione della crioablazione).

L’effetto antalgico è probabilmente frutto della sinergia di diversi fenomeni: la

distruzione delle terminazioni nervose ossee e periostee; la diminuzione del volume

tumorale; la necrosi delle cellule secernenti citochine; l’inibizione dell’attività degli

osteoclasti.

43
L’intento iniziale di ottenere una palliazione del dolore delle lesioni sintomatiche,

che ha guidato i primi trattamenti, sta lentamente cedendo il posto alla possibilità di

trattare tali lesioni per ottenere una ablazione completa del tumore sostituibile alla

chirurgia tradizionale. In particolare su metastasi ossee difficilmente aggredibili sia

per sede, come la zona acetabolare, sia per qualità delle metastasi, come le lesioni

ipervascolarizzate da carcinoma tiroideo o renale, l’utilizzo di una tecnica percutanea

minimizza i rischi chirurgici e consente di ottenere una necrosi del tessuto tumorale

che può essere considerata equivalente all’intervento chirurgico di rimozione.

In casi selezionati, inoltre, l’associazione tra una tecnica ablativa, come la

radiofrequenza, e una ricostruttiva, come la cementoplastica, consente non solo di

ottenere una necrosi del tessuto ma anche di restituire in tempi immediati una stabilità

meccanica al segmento colpito, evitando chirurgie complesse e impegnative per il

paziente.

44
Figura 2: Algoritmo di trattamento delle metastasi osteolitiche o miste delle ossa

lunghe sottoposte a carico.

45
3.2 Tipologie ed utilizzo

Le principali tecniche mininvasive sono:

1) termoablazione con radiofrequenza (RFA)

2) termoablazione con microonde (MW)

3) crioablazione

4) chirurgia focalizzata a ultrasuoni RM guidati (MRI)

5) embolizzazione

6) alcolizzazione

7) elettrochemioterapia (ECT)

8) cementoplastica percutanea

1. TERMOABLAZIONE RFA

È la metodica di ablazione mini-invasiva più diffusa ed utilizza l’effetto termico

legato al passaggio di onde radio attraverso i tessuti [13]. Le tecniche di ablazione

termica sono procedure terapeutiche che mirano a distruggere tessuti malati

(tipicamente tumori) tramite un riscaldamento termico senza danneggiare le strutture

adiacenti vitali.

Le cellule che compongono i tessuti, infatti, non possono sopportare temperature

troppo elevate e subiscono danni di diversa entità a seconda del range di temperatura a

cui sono sottoposte. Per comprendere come il calore interagisce con il tessuto

biologico, è possibile definire alcuni range di temperatura a cui associare un danno

cellulare:

46
 l’omeostasi cellulare può essere mantenuta, con lievi aumenti della

temperatura, fino a circa 40° C

 da 42 °C a 45 °C siamo nel range di ipertermia moderata, in cui le

cellule non subiscono veri e propri danni, ma diventano più sensibili ai danni

causati da altri agenti chimici o radioattivi, come la chemioterapia e la

radioterapia; anche dopo esposizione, relativamente lunga, a queste temperature

continua il funzionamento cellulare e la crescita tumorale

 a 46 °C le cellule iniziano a subire danni irreversibili, ma la

cinetica del processo è lenta: a questo livello bisogna attendere circa un’ora per

veder morire tutte le cellule

 da 50 °C a 52 °C si ha lo stesso effetto precedente, ma si riduce il

tempo necessario per indurre tossicità: si passa infatti da tempi di un’ora a tempi

di 4-6 minuti

 da 60 °C a 100 °C si assiste alla denaturazione delle proteine e si

verificano danni cellulari irreversibili che coinvolgono i principali enzimi

citosolici, mitocondriali e i complessi istoni-acidi nucleici. Le cellule in cui si

verifica questa estensione del danno termico, nel corso di alcuni giorni, sono

spesso sottoposte a necrosi coagulativa, definita come il danno termico

irreversibile a cui sono sottoposte le cellule.

 oltre i 105 °C l’acqua evapora, si assiste alla vaporizzazione delle

cellule e alla successiva carbonizzazione; la creazione di gas fa da isolante per la

trasmissione di calore e ritarda l’ablazione ottimale a causa della diminuzione

risultante nella trasmissione di energia.

47
Un obiettivo chiave di tutte le terapie ablative è pertanto quello di raggiungere e

mantenere una temperatura tra i 60 ed i 100 °C in tutto il volume del tessuto da trattare

per indurre la necrosi coagulativa.

Si fa notare, inoltre, che colpire tutto e solo il tessuto tumorale non è banale in

quanto la separazione tra tessuto sano e malato non è netta e per questo si accetta di

includere nella terapia un margine di 0.5-1 cm di tessuto, apparentemente sano che

potrebbe contenere dei microscopici focolai tumorali.

Nella termoablazione con radiofrequenza (RFA) l’energia utilizzata per fornire il

calore necessario per indurre la necrosi coagulativa è l’energia elettromagnetica,

sottoforma di onde a radiofrequenza. Nelle tecniche RFA, le onde radio vengono

emanate dalla punta non isolata di un elettrodo (figura 3) e producono calore per via delle

forze resistive (come l’agitazione ionica) che originano dal movimento delle onde stesse

verso un elettrodo neutro applicato solitamente sulla schiena o sulle cosce del paziente.

La deposizione di calore risulta

maggiore attorno alla punta degli

aghi e scende all’aumentare della

profondità del tessuto: questa

peculiarità è dovuta al fatto che si ha

una bassa conduzione di calore nel

tessuto. Inoltre è noto che la quantità


Figura 3: elettrodi a punta per termoablazione
totale di energia, che può essere

depositata nei tessuti, è limitata dalla loro vaporizzazione a temperature estreme

(maggiori di 105°C) con conseguente formazione del gas che serve come isolante per

impedire la formazione del calore. Perciò aumentare oltre misura l’energia rilasciata

48
dall’applicatore non è una soluzione: attorno ad esso si raggiungerebbe la temperatura

massima consentita e ciò porterebbe ad un ulteriore rallentamento del processo di

ablazione.

Le onde a radio frequenza ( 500 kHz) , che passano attraverso la sonda, generano

calore e aumentano la temperatura all'interno del tessuto bersaglio per distruggerlo.

La disidratazione tissutale determina un aumento dell’impedenza e quando il tessuto

è completamente necrotico l’erogazione di energia diminuisce progressivamente. Questo

fenomeno è chiamato roll-off ed indica l’avvenuta ablazione al termine del trattamento di

radiofrequenza.

L’impiego di corrente ad alta frequenza ha rappresentato un vantaggio importante

rispetto alle correnti a bassa frequenza o agli impulsi di corrente continua,

precedentemente utilizzati. La corrente a radio frequenza, infatti, ha il beneficio di non

stimolare direttamente i nervi o il muscolo cardiaco e può quindi essere spesso utilizzata

senza la necessità di anestesia generale.

La tecnica RFA usa generalmente una coppia di elettrodi: un elettrodo attivo con una

piccola superficie, posto sulla zona bersaglio, e un elettrodo dispersivo più grande per

chiudere il circuito elettrico. In più occasioni, l’ablazione bipolare può essere condotta con

due elettrodi attivi.

Nelle applicazioni cliniche sono generalmente utilizzate due tipi di procedure a

radiofrequenza e ampiamente modellate nella ricerca: l’ablazione controllata in potenza e

l’ablazione controllata in temperatura. Nell’ablazione potenza-controllata la corrente

applicata all'elettrodo è regolata in modo tale che la potenza erogata si mantenga costante

per tutta la durata della procedura, nell’ablazione temperatura-controllata il generatore a

radio frequenza regola la corrente consegnata all'elettrodo per mantenere la temperatura

49
della punta, misurata da un termistore, ad un valore impostato (la temperatura di punta

rappresenta una buona stima della massima temperatura nel miocardio).

L'obiettivo finale della terapia è l’ablazione completa di tutte le cellule maligne. Data

l'elevata probabilità di incompletezza del trattamento utilizzando una sola tecnica

termoablativa, la soluzione di combinare l’ablazione termica con altre terapie (chirurgia,

chemioterapia, radioterapia) non può essere sottovalutata.

Poiché un approccio multidisciplinare dovrebbe essere perseguito nel trattamento

della maggior parte dei tumori solidi, data la varietà dei tipi di tumore e dei siti d'organo da

trattare, la combinazione di più terapie è la chiave di volta con cui perseguire la ricerca nel

campo dell’ablazione.

L’utilizzo di questa tecnica in ambito

ortopedico è piuttosto recente, le primi casi trattati

con la termoablazione RFA risalgono a circa 10 anni

fa.

Inizialmente furono trattati tumori primitivi

dell’osso come l’osteoma osteoide (figura 4), poi la

sperimentazione fu estesa al trattamento delle

metastasi ossee dimostrando rilevante efficacia.

Figura 4: esempio di osteoma osteoide

50
2. TERMOABLAZIONE CON MICROONDE (Microwave Thermoablation)

In fisica le microonde sono radiazioni elettromagnetiche nella banda dello spettro

elettromagnetico con lunghezza d'onda compresa tra le gamme superiori delle onde radio e

la radiazione infrarossa. Sebbene si tenda a considerarle separate dalle radioonde, le

microonde sono comprese nelle parti UHF e EHF dello spettro radio, presentando

comunque delle caratteristiche specifiche dovute alla loro alta frequenza. Il confine tra le

microonde e le gamme di radiazioni vicine non è infatti netto e può variare a seconda dei

diversi campi di studio (Figura 5) .

Figura 5: spettro delle frequenze

L’emissione di microonde comporta comunque un effetto termico, grazie alla

generazione di oscillazioni delle molecole di acqua contenute nei tessuti.

La ablazione con microonde permette di ottenere temperature maggiori in minore

tempo e con minore dispersione del calore da parte delle strutture vascolari [14].

Rispetto all’ablazione con radiofrequenza (RFA) si ottengono quindi aree di necrosi

più ampie ed in tempi più rapidi, produce un’area di termocoagulazione ellittica attorno

alla punta dell’elettrodo e necessita dell’impiego di aghi di calibro maggiore (14 G pari a

1.6 mm). Presenta tuttavia indicazioni analoghe ad essa.

51
3. CRIOABLAZIONE

Il trattamento di crioablazione utilizza l’effetto necrotizzante delle basse temperature

sui tessuti, sia per la citolisi diretta, causata dal congelamento del citoplasma con rottura

delle membrane cellulari, sia per l’effetto ischemico, necrotico e disidratante che si

sviluppa nei tessuti circostanti l’area congelata (Figura 6).

Si utilizzano sonde isolate caricate con argon; il

gas, espandendosi, causa un rapido abbassamento focale

della temperatura, fino a -100°C in pochi secondi.

All’apice della sonda si forma una sfera di ghiaccio di

circa 3-4 cm di diametro. Successivamente viene

immesso nel sistema l’elio che permette il distacco della

sfera di ghiaccio dalla sonda e la sua estrazione

Figura 6: elettrodo per crioablazione


La crioablazione permette di coprire con più sonde anche volumi molto grandi per

l’unione delle diverse aree congelate, ed è efficace anche su lesioni osteoaddensanti.

La sfera di ghiaccio è visibile alla TC, per cui è possibile evidenziare in tempo reale

la morfologia esatta dell’area di necrosi ottenuta, e può essere seguita da una

cementoplastica.

Svantaggio della metodica è il maggiore diametro delle sonde utilizzate rispetto a

quelle richieste da RFA e MW, oltre che il costo maggiore [15,16].

52
4. CHIRURGIA FOCALIZZATA AD ULTRASUONI (HIFU)

La HIFU è una metodica ablativa di recente sviluppo che utilizza il calore generato

nel punto di concentrazione di un fascio di ultrasuoni ad alta intensità (Figura 7).

Gli ultrasuoni focalizzati ad alta intensità (High-

Intensity Focused Ultrasound HIFU) vengono erogati

per scaldare e distruggere il tessuto (tipicamente

maligno) tramite ipertermia.

Si tratta di una procedura ad alta precisione

appartenente alle modalità dell'ultrasonografia, ma si

distingue da questa in quanto l’ultrasonografia,

sebbene anch’essa induca ipertermia, scalda il tessuto

molto meno rapidamente e a temperature molto più

basse (generalmente al di sotto dei 45°C).

Il fascio di ultrasuoni raggiungerà dunque il

tessuto bersaglio e a questo livello la sua energia in

parte viene assorbita dal tessuto stesso ed in parte

Figura 7: generatore di fascio di temperatura locale di 80-95 °C, il tessuto viene


ultrasuoni ad alta intensità per
applicazione HIFU coagulato termicamente ovvero si determina

quindi la necrosi del tessuto bersaglio.

Gli ultra-suoni sono generati dalle vibrazioni di un trasduttore elettro-meccanico

piano e focalizzati da una lente acustica.

53
La concentrazione del fascio può avvenire geometricamente, attraverso lenti o

mediante trasduttori sferici, ed elettronicamente adeguando le relative fasi di più elementi

in una matrice di trasduttori.

Gli ultrasuoni permettono l’ablazione sicura dei tessuti perché possono essere

precisamente messi a fuoco su un volume predeterminato ben definito (volume focale).

Quando il fascio di ultrasuoni viene concentrato in un solo fuoco, la zona interessata

è molto piccola, viceversa concentrando il fuoco in più punti può essere ablato un volume

più grande.

Oltre alla prerogativa principale rappresentata dalla focalità del trattamento, altri

importanti vantaggi comprendono la non invasività e l’efficacia sia su lesioni litiche che

addensanti. Il trattamento, inoltre, è ripetibile.

Poiché il volume del tessuto danneggiato dal fascio di ultrasuoni si presenta come

una regione altamente ecogena sarà possibile sfruttare questa proprietà utilizzando una

parte di un array trasduttore ad ultrasuoni per mostrare il tumore e, contemporaneamente,

gli altri elementi dell’array che emettono una maggiore intensità per visualizzare la

distruzione del tessuto, il cui grado di ablazione può essere monitorato in tempo reale

La tecnica può essere guidata anche attraverso altre modalità imaging come la RM, si

parla di Magnetic Resonance-guided Focused Ultrasound (MRgHIFU). In tal caso la RM

guida sia la pianificazione del trattamento che il monitoraggio in tempo reale.

Recenti studi hanno valutato l’efficacia di questa tecnica nel trattamento delle

metastasi ossee [17,18], tuttavia già da tempo è stata dimostrato il suo ruolo positivo nel

trattamento dei fibromi uterini.

54
Tuttavia la metodica necessita di una linea diretta tra la lesione da trattare ed il

trasduttore di ultrasuoni, senza che vi siano interposte aria o strutture vitali; non è

applicabile ad oggi sulla colonna vertebrale, in presenza di mezzi di sintesi metallici o in

pazienti portatori di elettrostimolatori e pacemakers. Inoltre, va considerato il rischio di

fratture patologiche post-trattamento nelle ossa lunghe degli arti.

55
5. EMBOLIZZAZIONE

L'embolizzazione arteriosa è una metodica di radiologia interventistica il cui scopo è

di sopprimere l'apporto vascolare di una neoformazione provocando l'occlusione dei vasi

afferenti con conseguente necrosi ischemica della lesione. L'occlusione deve avvenire il

più distalmente possibile (arteriole terminali prive di collaterali unica fonte di apporto

ematico al territorio da ischemizzare) ed il materiale embolizzante viene introdotto

mediante cateterismo dei vasi arteriosi afferenti alla neoplasia.

Le finalità di questo trattamento saranno arrestare la crescita della neoplasia ( più

frequentemente) ed interrompere un eventuale versamento emorragico della lesione.

L’utilizzo di tale tecnica può pertanto avere intento sia curativo, solitamente in regime neo-

adiuvante così da aumentare la radicalità dell’intervento, sia palliativo ( è ciò che avviene

più frequentemente nel caso delle metastasi ossee).

L'effetto antalgico è strettamente correlato alla necrosi ischemica che determina sia

una riduzione delle dimensioni del tumore con conseguente minor compressione sul

periostio le cui fibre sarebbero responsabili del dolore, sia un rallentamento dei processi di

osteolisi neoplastica e minor rischio di frattura patologica. Inoltre l'effetto antalgico

risulterebbe superiore a quello prodotto dalla radioterapia in quanto è meno influenzato

dalle dimensioni della massa neoplastica.

La procedura viene eseguita in anestesia locale (in anestesia generale nei pazienti

pediatrici) previa puntura dell'arteria femorale comune all'inguine (vie di accesso

alternative: omerale od ascellare) introducendo sotto controllo fluoroscopico il catetere per

via retrograda al fine di raggiungere la lesione da embolizzare.

Viene quindi eseguito, mediante l'introduzione di mezzo di contrasto attraverso il

catetere, l'esame diagnostico (angiografia) per la precisa valutazione del tipo e grado di

56
vascolarizzazione della lesione. Se da tale studio emerge la fattibilità della procedura,

viene introdotto un materiale embolizzante che occluderà i vasi patologici.

La procedura può essere ripetuta anche più volte a distanza di tempo. In assenza di

complicanze è sufficiente una degenza di 24-48 ore.

I materiali embolizzanti differiscono per caratteristiche fisico-chimiche (liquidi e

solidi) e per tipo di occlusione (permanente o temporanea).

I materiali embolizzanti liquidi sono generalmente N-Butil(2)Cianoacrilato, Alcool

puro ed Onyx mentre i materiali embolizzanti solidi sono Microsfere, Spirali metalliche,

Alcool polivinilico e Spongostan. L'embolizzazione arteriosa è una metodica non scevra da

rischi che va eseguita soltanto presso centri specializzati al fine di ridurre eventuali

complicanze, che in determinati distretti, come il rachide, possono essere estremamente

invalidanti. Le complicanze sono essenzialmente rappresentate dalla embolizzazione di

territori non lesionali.

57
6. ALCOLIZZAZIONE

Questa tecnica consiste nell’iniezione di alcool al 95% all’interno della lesione

neoplastica. L’azione antineoplastica deriva dall’azione diretta dell’alcool che genera

necrosi coagulativa della neoplasia e dalla trombosi del micro-circolo tumorale ( causata

dall’induzione dell’aggregazione piastrinica) e quindi dall’ischemia tissutale.

L'alcolizzazione consiste nell’introduzione, sotto guida ecografica o fluoroscopica di un

ago nella zona patologica. Una volta posizionato correttamente l’ago, si procede ad

iniezione di contrasto e, successivamente, a iniezione di alcol nella zona patologica.

L’alcol ha la facoltà di occludere i vasi patologici.

Difficilmente si riesce a eliminare tutta la patologia in una seduta per cui possono

essere necessari vari trattamenti che, man mano, occludono i vasi displasici. È poco

utilizzata in ambito ortopedico a causa della scarsa efficacia. Mentre invece trova

sicuramente maggiore responsività a livello epatico nel trattamento di noduli di

epatocarcinoma (HCC) di diametro inferiore ai 2 cm.

Utilizzata soprattutto in passato anche per il trattamento di tumori pancreatici e

tiroidei, ad oggi si predilige tecniche mini-invasive più efficaci come la chemio-

embolizzazione o la termoablazione RFA.

Trova ancora oggi applicazione nella terapia del dolore, dove la procedura si effettua

su alcuni plessi nervosi (per es. plesso celiaco) in modo da impedire il funzionamento delle

fibre deputate alla trasmissione del dolore.

58
7. ELETTROCHEMIOTERAPIA (ECT)

La moderna ricerca biomedica nella lotta contro il cancro è incentrata sulla

individuazione e lo sviluppo di metodi di drug delivery (rilascio controllato dei

farmaci) direttamente all’interno di cellule e tessuti tumorali, con l’obiettivo di

incrementare i benefici terapeutici e ridurre gli effetti collaterali delle molecole

terapeutiche. È da questo principio che si è visto nascere l’Elettrochemioterapia

(ECT).

Il principale ostacolo alla realizzazione di questo principio terapeutico è la scarsa

efficienza di bio-distribuzione e assorbimento di farmaci chemioterapici a causa delle

caratteristiche impermeabili della membrana plasmatica.

L'elettrochemioterapia (ECT) è una terapia antitumorale, in cui la somministrazione

di un farmaco chemioterapico è seguita dalla applicazione locale di impulsi elettrici

cui conseguirà il fenomeno dell’ elettroporazione. L’elettroporazione è un transitorio

aumento della permeabilità di membrana delle cellule tumorali che consente la

diffusione di un farmaco chemioterapico (bleomicina o cisplatino) dentro le cellule

aumentandone quindi l’effetto citotossico (fino a cento volte).

Gli impulsi elettrici destabilizzano transitoriamente la membrana plasmatica

creando strutture permeabili, ad esempio difetti nella membrana o pori (Figura 8)

La Elettrochemioterapia (ECT) è quindi un trattamento combinato che sfrutta la

somministrazione di farmaci chemioterapici in associazione con la elettroporazione

(EP) della membrana cellulare.

59
Nella letteratura, EP ed elettropermeabilizazione

sono entrambe terminologie utilizzate per indicare

cambiamenti strutturali nella membrana cellulare, a

doppio strato lipidico, indotti da un campo elettrico

locale pulsante.

La EP si verifica quando viene applicato un campo

elettrico esterno alla membrana cellulare, il cui livello

Figura 8: rappresentazione supera il valore di soglia del potenziale


schematica della modifica
indotta dalla elettroporazione transmembranale (approssimativamente 1,5 V).
nella membrana plasmatica
Oltre all’azione permeabilizzante sulla membrana delle cellule neoplastiche l’ECT

ha anche un effetto sulle cellule stromali neoplastiche ed in particolare sulle cellule

endoteliali. Questo effetto si traduce in due azioni:

 vascular desrupting effect (effetto distruttivo vascolare)

Questa azione conduce alla morte (apoptosi) la cellula endoteliale e,

conseguentemente, alla eliminazione del flusso di sangue al tumore [19]

 vascular lock ( vasocostrizione)

Questo effetto definito blocco vascolare (vascular lock) induce un prolungato

intrappolamento del farmaco dentro il tumore, migliorando l’efficacia dell’azione della

BLM o della CDDP [20, 21].

Tuttavia affinché questa azione eserciti un effettivo ruolo anti-neoplastico sarà

necessario che l’isolamento perfusionale della neoplasia si realizzi una volta che il

farmaco è diffuso nel contesto della neoplasia e non prima.

60
Il contributo relativo dei due effetti nella efficacia della ECT (distruttivo vascolare

e blocco vascolare), rimane ancora da comprendere analiticamente. Alcuni clinici

enfatizzano la loro grande importanza soprattutto nei tumori molto vascolarizzati.

Tuttavia, l’effetto della distruzione vascolare non è osservato sui grandi vasi del

sangue, come nelle maggiori arterie e vene epatiche, consentendo il trattamento di

tumori anche in vicinanza di queste e ciò costituisce un elemento di vantaggio della

ECT rispetto all’ablazione in radiofrequenza che è una tecnica ablativa termica che

non è efficace lungo i più grossi vasi del sangue a causa dell’effetto di raffreddamento

creato dalla circolazione stessa.

La procedura può essere eseguita sia con anestesia locale che con anestesia

generale, in relazione alla scelta del trattamento chirurgico, ma con pochi e piccoli

noduli è raccomandata l’anestesia locale, mentre negli altri casi quella generale.

Sono utilizzati impulsi elettrici a onda quadra e l'ampiezza dell'impulso desiderato

dovrebbe essere mantenuta costante attraverso l'intera durata dell'impulso. Il preciso

controllo dei parametri di EP, ottenuto con una adeguata progettazione dei dispositivi,

permette l’applicazione di tensioni più basse, riducendo il disagio per il paziente e

mantenendo elevata l’efficacia del trattamento locale della ECT. Nella pratica clinica,

vengono utilizzati impulsi elettrici brevi e intensi, con corrente continua monopolare.

Infine, il generatore di impulsi elettrico dovrebbe misurare, in tempo reale, l'ampiezza

della corrente elettrica nel tessuto per impedire eccesso di corrente, per la sicurezza del

paziente.

Gli applicatori più comunemente utilizzati in ECT sono elettrodi a piastra o ago

[23]. Gli elettrodi a piastra sono principalmente utilizzati per il trattamento di lesioni

superficiali; gli elettrodi ad ago sono invece utilizzati principalmente per il trattamento

61
di lesioni profonde. A differenza degli elettrodi a piastra, gli elettrodi ad ago devono

essere inseriti nel tessuto tumorale fino al margine profondo del tumore [22].

Indipendentemente dal tipo di elettrodi, piastra o ago, il campo elettrico locale è

massimo intorno all’elettrodo e tra gli elettrodi mentre decresce molto rapidamente

lontano dagli elettrodi. Se il tumore è più esteso della distanza tra gli elettrodi, l’intero

tumore può , quindi, essere trattato in modo efficiente solo con successivi spostamenti

degli elettrodi, in modo da coprirne l’intera superficie.

Come l’intensità dell’impulso elettrico, la scelta ed il posizionamento degli elettrodi

devono essere stabiliti attentamente a seconda di forma, dimensione e posizionamento

del tumore. La moderna tecnologia di guida attraverso l’immaging, consente oggi il

posizionamento ottimale degli elettrodi. La responsività della neoplasia all’ECT varia

in base all’istotipo, ovvero la dose terapeutica di chemioterapici varia in relazione alla

tipologia neoplastica. Ciò è riconducibile principalmente alla variabilità di cinque

importanti parametri:

 Sensibilità intrinseca delle cellule tumorali al farmaco [24,25]

 Livello di permeabilità della cellula neoplastica

 Grado di vascolarizzazione della neoplasia

 Immunogenicità della neoplasia

 Dimensione della neoplasia

Raramente l’ECT è utilizzata in regime esclusivo. Più frequentemente il suo ruolo è

quello di trattamento neo-adiuvante. Tale modalità, il più delle volte, consente di

ridurre le dimensioni della neoplasia aumentando così la radicalità chirurgica e

riducendo i possibili rischi legati all’intervento (lesione di strutture fondamentali come

vasi o nervi).

62
Il possibile utilizzo come trattamento adiuvante necessita di ulteriori sviluppi e di

sperimentazioni, prima di poter essere introdotto nella pratica clinica. Un’altra

possibile strategia terapeutica è quella di un trattamento concomitante con la

radioterapia; in cui si sfrutta il sinergismo tra le due tecniche; l’ECT è in grado di

generare un effetto radiosensibilizzante.

L’ECT è una tecnica che agli albori ha mostrato la sua efficacia nel trattamento

delle lesioni cutanee e sub-cutanee; con il tempo si è riusciti ad ampliare il campo di

applicazione alle lesioni viscerali sempre più profonde e infine appunto alle neoplasie

ossee.

Benché i pochi studi pre-clinici preliminari tutt’ora in corso debbano ancora essere

confermati da un più lungo follow-up e da numeri maggiori di pazienti, i primi risultati

sono incoraggianti e sono in corso continui miglioramenti per le tecniche disponibili

compresi gli sforzi per la pianificazione dei pretrattamenti.

Sono stati infatti evidenziato numerosi vantaggi nell’utilizzo di tale metodica tra cui

un alto tasso di risposta nel controllo locale di tumori, un effetto limitato sui tessuti

sani con riduzione degli effetti collaterali sistemici, tipici della chemioterapia, la

possibilità di trattamento anche del margine tumorale e non solo del volume centrale,

la conservazione della risposta immunitaria, l’efficacia anche in aree precedentemente

trattate e rapporto costi-benefici vantaggioso, sia per la tecnologia che per i farmaci

utilizzati.

L’efficacia e la sicurezza della ECT sono state valutate accuratamente nel corso di

studi clinici e ad oggi è ritenuto un trattamento caratterizzato da buona sicurezza e da

un basso profilo di tossicità.

63
Non sono mai stati riportati seri effetti negativi della ECT. Tuttavia, alcuni minori

immediati effetti sono stati osservati, come lievi irritazioni e una non confortevole

sensazione di dolore, associata con la contrazione dei muscoli, posti in vicinanza degli

elettrodi, che si placa immediatamente dopo l’applicazione di ciascun impulso

elettrico, se applicato in anestesia locale [26,27]. In aggiunta, si possono avere alcuni

effetti ritardati, come un lieve eritema ed edema. La ECT è controindicata in pazienti

che hanno avuto reazioni allergiche alla bleomicina o al cisplatino (o farmaci

corrispondenti), così come in quelli, in cui la durata della dose cumulativa di

bleomicina supera determinati valori soglia[26].

64
8. CEMENTOPLASTICA PERCUTANEA

La cementoplastica di lesioni metastatiche dell’osso è una procedura scarsamente

invasiva utilizzata per rinforzare la struttura di un osso colpito da neoplasia al fine di

alleviare il dolore causato dalla lesione neoplastica e prevenire contestualmente

fratture invalidanti.

Prevede l'iniezione del cemento osseo (polimetilmetacrilato o PMMA) all'interno di

una lesione tumorale localizzata in un osso mediante un apposito ago che viene

inserito direttamente nella lesione per via percutanea, visualizzando il suo percorso

con una fluoroscopia o con una TAC. Una volta iniettato, il cemento si solidifica in

circa 10-15 minuti, eliminando il dolore e consolidando eventuali fratture.

Viene eseguita in anestesia locale o con una leggera sedazione ed è una procedura

altamente efficace nel consentire una remissione immediata del dolore e il

consolidamento di un osso ad elevato rischio di frattura. Inoltre presenta il vantaggio

di essere complementare a chemio e radioterapia e consente di proseguire con gli altri

trattamenti antitumroali senza interferire con essi.

La comparsa di complicanze è rara e si limita quasi esclusivamente a piccole

fuoriuscite del cemento iniettato dall'osso, generalmente innocue. Generalmente il

paziente riferisce fin da subito un attenuarsi significativo della sintomatologia algica

locale con ripresa della deambulazione autonoma già dopo circa 2 ore dall’esecuzione

della procedura.

La cementoplastica è indicata in caso di tumori osteolitici o misti delle ossa lunghe,

del bacino, soprattutto della regione sopracetabolare (acetaboloplastica) e della

colonna vertebrale (cifoplastica). Più raramente è utilizzata anche in caso di metastasi

osteoblastiche. È controindicata in caso di fratture vertebrali asintomatiche in pazienti

65
stabili, se il tumore si estende allo spazio epidurale causando compressione midollare

e in presenza di dolore radicolare, osteomielite, gravi condizioni cardiopolmonari,

infezioni locali sistemiche e in caso di coagulopatia non correggibile, diatesi

emorragica, allergia alle sostanze utilizzate durante la procedura.

Nel caso dell’acetaboloplastica l’indicazione al trattamento si pone quando vi sia

una lesione di tipo osteolitico con interessamento della zona direttamente

sopracetabolare o della colonna anteriore o posteriore, ma sia mantenuta una

continuità dell’osso subcondrale o della cartilagine articolare, quando visualizzabile.

Tale integrità della corticale periferica è necessaria per evitare spandimenti del

cemento a livello articolare, con prevedibili complicanze. Molti Autori [28-29] hanno

riportato la loro esperienza con tale metodica con buoni risultati.

Il “problema” della acetaboloplastica risulta nella non dotazione di una

strumentazione dedicata che crei una cavità dove iniettare il cemento, cosa che ne

limita l’utilizzo a metastasi che siano molto osteolitiche e con una componente

parenchimatosa ridotta, per la difficoltà di ottenere un riempimento adeguato. Tale

difficoltà tecnica ha suggerito la possibilità di creare una distruzione tessutale con altre

metodiche complementari alla cementoplastica.

Come già sperimentato nelle metastasi della colonna vertebrale, sono stati trattati

alcuni pazienti con lesioni acetabolari combinando due metodiche, di cui una ablativa

come la RFA o la crioterapia percutanea, e successivamente la cementoplastica per

stabilizzare la sede interessata dalla lesione.

La Cifoplastica è una procedura minimamente invasiva, analoga all’acetaboloplastica

precedentemente descritta, che può essere eseguita in anestesia locale. E' richiesto un solo

giorno di ospedalizzazione quindi i pazienti possono ritornare immediatamente a svolgere

le normali attività della vita quotidiana.

66
Viene eseguita inserendo un catetere a palloncino o un dilatatore meccanico nel

corpo vertebrale attraverso una cannula metallica di maggiori dimensioni, generalmente

8G (Figura 9). Viene quindi dilatato il corpo vertebrale nell'intento di ristabilirne la

normale altezza. Al termine viene quindi iniettato il cemento per consolidare e stabilizzare

la frattura.

Figura 9: Metodica di esecuzione di cifoplastica

La Cifoplastica trova indicazione unicamente nelle fratture vertebrali recenti (entro

90 giorni) e nelle fratture traumatiche; essendo tale trattamento leggermente più

complicato della Vertebroplastica e utilizzando una cannula di maggiori dimensioni è

preferibile che la Cifoplastica venga eseguita da medici particolarmente esperti.

67
CAPITOLO 4

MATERIALI E METODI

Il nostro studio ha preso in esame la casistica dei pazienti valutati per patologia ossea di

natura neoplastica presso la Clinica di Ortopedia e Traumatologia I Universitaria di Pisa,

tra Ottobre 2007 ed Maggio 2015, ponendo la nostra attenzione su quelli affetti da malattia

metastatica trattati con tecniche chirurgiche mini-invasive.

I pazienti sono stati valutati clinicamente e suddivisi in due gruppi: nel primo sono stati

inclusi i pazienti sottoposti a trattamento conservativo, nell'altro quelli trattati

chirurgicamente, i quali sono stati poi classificati in base al tipo di lesione, se primitiva o

secondaria, benigna o maligna, al segmento osseo interessato dalla stessa ed infine in base

al tipo di trattamento eseguito.

Tutti i pazienti sono stati studiati con esami Rx standard e RMN del segmento

scheletrico interessato per porre diagnosi e valutare i rapporti della lesione ossea con i

tessuti molli circostanti.

Sono stati poi sottoposti anche ad esame TC total-body e scintigrafia total-body per

evidenziare eventuali ulteriori localizzazioni, oltre ad esame TC del segmento oggetto di

studio al fine di valutare lo stato dell'osso corticale, così da programmare adeguatamente il

tipo di intervento e scegliere l’eventuale mezzo di sintesi più appropriato.

L'obiettivo di questo studio è stato pertanto quello di valutare i possibili percorsi, sia

chirurgici che non, scelti per ciascun paziente, prestando maggior attenzione all’utilizzo di

tecniche chirurgiche mini-invasive, cercando di analizzare criticamente i risultati ottenuti

alla luce dei trattamenti eseguiti.

68
I pazienti valutati sono stati 230, di cui 103 maschi e 127 femmine (M:F=1:1,2) con età

compresa tra 10 e 87 anni (media 52,7 anni).

116 erano tumori primitivi (114 benigni e 2 maligni) mentre i restanti 114 erano

secondari ( 56 Ca. tiroide, 16 Ca. polmone, 15 mieloma multiplo, 10 Ca. mammella, 3 Ca.

renale, 3 Ca. colon-retto, 2 Ca. prostata, 2 Ca. pancreas, 1 Epatocarcinoma, 1 Ca. stomaco,

1 Ca. endometriale, 1 Sarcoma retroperitoneale, 1 Ca. lingua, 1 Ca. testicolo, 1 sarcoma

con primitivo sconosciuto).

Di questi, 137 sono stati trattati chirurgicamente e 3 hanno subito più interventi per

diffusione di malattia ad altre sedi.

I segmenti scheletrici colpiti sono stati così trattati: femore 37 casi, mano 26, rachide

23, omero 22, tibia 11, piede 9 , bacino 6 , perone 2, scapola 1, clavicola 1, radio 1, ulna 1,

sterno 1.

26 pazienti sono stati sottoposti ad esame bioptico della lesione.

I trattamenti chirurgici scelti sono stati exeresi delle neoformazioni (31 casi) e curettage

+ borraggio con osso sia autologo (16 casi) che di banca (2 casi) per quanto riguarda le

lesioni di natura benigna; le metastasi maligne sono state trattate con sostituzioni

protesiche, in particolare protesi cefaliche (2 casi), protesi standard (12 casi Protesi Totale

dell‘Anca, 1 caso Protesi Totale del Ginocchio), protesi spalla (3 endoprotesi, 1 inversa),

protesi gomito (1 caso) e megaprotesi cementate (4 casi), curettage + borraggio con

cemento + stabilizzazione con placche e viti (9 casi), osteosintesi semplice con chiodo (7

casi), acetaboloplastica (3 casi), cifoplastica (7 casi), stabilizzazione vertebrale con barre +

decompressione midollare (8 casi), elettrochemioterapia (1 caso) ed amputazione (3 casi).

69
Tra tutti quelli presi in analisi 11 pazienti, di cui 8 maschi e 3 femmine (M:F=1:2,7) con

età compresa tra 47 e 68 anni (età media 56,4 anni), sono stati sottoposti a trattamento

chirurgico mini-invasivo.

11

Casi trattati con


chirurgia
maggiore
Casi trattati con
chirurgia
mininvasiva

137

3 Cifoplastica
Acetaboloplastica
ECT
7

70
Frequenza di interessamento
scheletrico
40
35
30
25
20
15
10
5
0

Sterno
Ulna
Radio
Clavicola

71
Scapola
Perone
Bacino
Piede
Tibia
Omero
Rachide
Mano
Femore
CAPITOLO 5

RISULTATI

Alla valutazione dei pazienti con metastasi ossee per i quali risultava indicata una

terapia palliativa, e quindi trattati con tecniche di chirurgia mininvasiva, fanno

riferimento i dati sotto riportati differenziati in base al tipo di neoplasia primitiva, al

tipo di terapia mini-invasiva utilizzata e alle eventuali complicanze insorte; è stata

infine osservata la sopravvivenza e la qualità di vita in seguito al trattamento.

Degli 11 pazienti trattati 8 erano maschi (73%) e 3 femmine (27%) con età

compresa tra 47 e 68 anni (media 56,4 anni).

Le lesioni ossee trattate risultavano derivare in 10 casi da Carcinoma tiroideo ed in

1 solo caso da mieloma multiplo.

Tutte le lesioni erano di natura osteolitica localizzate a livello del rachide in 8

pazienti, in regione sovracetabolare in 3 pazienti ed a livello della branca ischiopubica

in 1 paziente, trattate rispettivamente con cifoplastica, acetaboloplastica ed

elettrochemioterapia.

Non è stata osservata alcuna complicanza intra o postoperatoria e la degenza media

è stata di 1,2 giorni.

Attualmente tutti i pazienti sono ancora in vita senza recidiva locale con evidenza

di progressione di malattia in 4 casi.

In tutti i pazienti è stata osservata buona soddisfazione per riduzione significativa

della sintomatologia algica locale fin da subito dopo l’intervento e buon recupero di

autonomia nello svolgimento delle regolari attività quotidiane.

72
CAPITOLO 6

CONCLUSIONI

L’oggetto di questo studio è stata una revisione critica della letteratura e della

casistica dell’UO di Ortopedia e Traumatologia I Universitaria di Pisa riguardante

pazienti con metastasi ossee trattati sia conservativamente che chirurgicamente,

prestando particolare attenzione alle tecniche chirurgiche mini-invasive.

Le tecniche mini-invasive percutanee grazie alla loro capacità di determinare una

rapida riduzione del dolore sono un valido trattamento alternativo alle metodiche

convenzionali, anche nel trattamento delle metastasi ossee.

I pazienti che fino a pochi anni fa venivano esclusi dalla chirurgia convenzionale in

quanto affetti da lesioni metastatiche che non erano a rischio di frattura o in zone non

portanti dello scheletro assile o peduncolare possono rientrare, oggi, nel trattamento

mini-invasivo.

Il trattamento mini-invasivo delle metastasi ossee, nonostante sia descritto in

letteratura da oltre un decennio, sta osservando, solo da poco, un vero sviluppo sia

quantitativo, sia qualitativo. L’utilizzo di una tecnica percutanea minimizza i rischi

chirurgici e consente di ottenere una necrosi del tessuto tumorale con buona riduzione

del rischio di recidiva locale.

L’analisi dei nostri dati mostra risultati perfettamente in linea con la letteratura

più recente.

Come da letteratura lo scheletro risulta essere sede di metastasi molto frequente,

terza dopo polmone e fegato. Sebbene talvolta lo scheletro non venga considerato

un apparato fondamentale per la vita, quando colpito da metastasi delinea una

73
condizione estremamente debilitante dal punto di vista della sintomatologia dolorosa

e dell’autonomia di movimento e quindi altamente invalidante per il paziente.

Nonostante il costante interesse da parte della comunità scientifica nell’elaborare

linee guida il più dirimenti possibile, spesso l’Ortopedico si trova di fronte a situazioni

limite nelle quali l’indicazione non risulta essere chiara anche perché in molti casi

viene chiamato a consulenza quando il quadro è ormai troppo avanzato o quando si

ha già di fronte una frattura patologica.

Poiché i migliori risultati, sia dal punto di vista delle procedure chirurgiche che

della qualità di vita del paziente, si ottengono quando quest‘ultimo è adeguatamente

preparato al trattamento, oltre ad una diagnosi precoce di metastasi è necessario

uno scrupoloso inquadramento internistico del paziente al fine di giungere

all’intervento con il miglior performance status possibile.

La diagnosi precoce è inoltre fondamentale poiché in determinati casi consente

l’utilizzo di tecniche mini-invasive risolvendo rapidamente la sintomatologia algica e

riducendo al minimo degenza e complicanze, migliorando il più rapidamente e nel

miglior modo possibile la qualità di vita del paziente considerando anche che il tempo

per un paziente oncologico è ancor più prezioso.

74
CAPITOLO 7

CASI CLINICI

CASO CLINICO 1: Maschio, 76 anni, Ca Follicolare plurimetastatico. Lesione Osteolitica

di L3 sintomatica trattata con Cifoplastica previa termoablazione RFA.

RM preoperatoria

75
Immagini di tecnica intraoperatoria con posizionamento di cannule per via

percutanea previa valutazione amplioscopica (sopra) ed inizione di cemento

(sotto)

76
Controllo intraoperatorio mediante fluoroscopia

Rx postoperatorio

77
CASO CLINICO 2: Maschio 56 anni, Ca. papillare plurimetastatico. Lesione osteolitica

soma L2 trattata con stabilizzazione a due livelli con viti transpeduncolari D12-L4 e barre

+ laminectomia L2 + decompressione midollare e lesione osteolitica regione

sovracetabolare sinistra, segno di progressione di malattia, trattata in un secondo tempo con

acetaboloplastica percutanea TC-guidata.

RMN preoperatoria rachide lombosacrale sez. sagittali in T1, T2 e STIR

78
Rx postoperatoria in AP e LL rachide lombosacrale

RMN preoperatoria lesione osteolitica sovracetabolare sez. coronali in T1 e STIR

RMN preoperatoria regione sovracetabolare sinistra

79
Fasi della procedura di acetabolo plastica

1) Centramento con di Filo di Kirshner della lesione e 2) posizionamento di cannula

rigida di protezione

3) Introduzione spiralina di sostegno 4) Cementazione

5) Controllo TC a procedura terminata

80
CASO CLINICO 3:Maschio, 43 anni, Ca Follicolare tiroideo a cellule ossifile. Lesione

Osteolitica di dimensioni < 5 cm. collocata sulla branca ileo-pubica destra sintomatica

trattata con ECT.

Lesione osteolitica branca ileo-pubica destra : evoluzione da Febbraio

2014 (sopra) a Settembre 2014 (sotto)

81
Alcune fasi di preparazione all’intervento di ECT

82
Valutazione amplioscopica e quadro intraoperatorio

del posizionamento degli elettrodi

83
RMN a 2 mesi dall’intervento: si evidenzia marcata necrosi ed edema
perilesionale

84
CASO CLINICO 4: Femmina 44anni, Ca. renale a cellule chiare. Lesione osteolitica in

regione metaepifisaria femore sx sottoposta a biopsia TC-guidata e trattata con

megaprotesi modulare cementata in seguito ad angiografia preoperatoria con

embolizzazione arteriosa selettiva.

Rx preoperatoria femore sx in inguinale ed AP

Bipsia TC-guidata femore sx. Area osteolitica con erosione dell' osso corticale.

85
RMN preoperatoria sez. coronali in T1, T2 e STIR

Angiografia preoperatoria con embolizzazione arteriosa selettiva

86
Rx postoperatorio femore sx Rx femore sx ad 1 mese dall'intervento

Rx femore sx a 5 mesi dall'intervento

87
CASO CLINICO 5: Femmina 76 anni, Ca. midollare tiroideo. Lesione osteolitica in

regione metaepifisaria prossimale omero sinistro sottoposta ad intervento chirurgico di

sostituzione protesica con protesi modulare inversa.

Rx preoperatoria Rx postoperatoria

IMMAGINE INTRAOPERATORIA DEL PEZZO ANATOMICO RESECATO

88
CAPITOLO 8

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