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Titolo originale dell'opera: Traité de philosophie - II.

Psychologie
Emmanuel Vitte, Editeur, Lyon–Paris
Edizione elettronica a cura di Totus Tuus Network - 2010

Nihil obstat Imprimatur


Sac. Angelus Zani + Joseph Bosetti
Brixiae, 30-IX-1958 Hep. Hipp. Vic. Gen.
Brixiae, 1-X-1958

Piano dell’opera:
Vol. I : LOGICA
Vol. II : COSMOLOGIA
Vol. III : PSICOLOGIA
Vol. IV : METAFISICA (in 2 tomi)
Vol. V : MORALE (in 2 tomi)

Brevi cenni biografici sull’autore

Régis Jolivet (1891-1966) è nato e vissuto a Lione (Francia). E’ stato ordinato sacerdote nel 1914. Dopo la
guerra insegna nella facoltà di Teologia e poi all’Institut Catholique. Per sua iniziativa nel 1932 viene creata,
2
nell’ambito dell’Università Cattolica di Lione, la Facoltà di Filosofia della quale fu decano per molti anni.
Negli corso degli anni riuscì a dotare la Facoltà anche di un Istituto di Pedagogia (nel 1947) e di Sociologia
(nel 1954). Membro di numerose società scientifiche, nel 1963 è assunto alla Prelatura Pontificia. Jolivet è
stato un grande studioso di Sant’Agostino e San Tommaso.

Breve bibliografia (non esaustiva) delle opere di mons. Régis Jolivet:


 Problème du mal chez Augustin (1929)
 La notion de substance - Essai historique et critique sur le développement des doctrines d' Aristote à nos jours
(1929)
 Le thomisme et la critique de la connaissan (1930)
 Essai sur le bergsonisme (1931)
 Essai sur les rapports entre la pensèe grecque et la pensèe chétienne (1931)
 Le néoplatonisme chrétien (1932)
 Saint Augustin et le neo-platonisme chretien (1932)
 La philosophie chrétienne et la pensée contemporaine (1932)
 Études sur le problème de Dieu dans la philosophie contemporaine (1932)
 Les Sources de l' idéalisme (1936)
 Vocabulaire de philosophie (1942)
 Introductionà Kierkegaard (1946)
 Les doctrines existentialistes, De Kierkegaard à J.P. Sartre (1948)
 Le problème de la mort chez M. Heidegger et J. P. Sartre (1950)
 Traité de philosophie (1954)
 Essai sur le probléme et les conditions d la sincerite (1954)
 Cours de philosophie (1954)
 Le Dieu des philosophes et des savants (1956)
 L’homme métaphisique (1958)
 Aux sources de l'existentialisme chrétien (1958)
 Sartre (1963)
 Sartre ou la théologie de l'absurde (1965)

INTRODUZIONE

I problemi che si pongono all'inizio della psicologia sono: quelli dell'oggetto proprio e

del metodo di questa scienza, quello delle condizioni fisiologiche generali della vita

psicologica, infine quello dell'abitudine, che è la forma che possono rivestire tutte le

nostre attività psichiche1.

1 I numeri in neretto, nell'interno dei testo, e preceduti dalla cifra romana I e II rinviano ai numeri marginali dei
precedenti volumi (Logica e Cosmologia). I numeri senza indicazione di volume rinviano ai numeri marginali dei
presente volume.
3

CAPITOLO PRIMO

OGGETTO E METODO DELLA PSICOLOGIA

SOMMARIO2

Art. I - OGGETTO DELLA PSICOLOGIA. Psicologia sperimentale e psicologia razionale - Definizioni - La


psicologia sperimentale Psicologia e filosofia - Oggetto della psicologia - Posizione del problema -
Definizione dello psichico.

Art. II - METODO DELLA PSICOLOGIA - Princìpi del metodo - Metodo soggettivo e metodo oggettivo - l
processi introspettivi Notazione dei fatti - Questionari e tests - Metodo d'interrogazione - I
procedimenti oggettivi. Metodi comparativi - La psicologia animale - Metodi di laboratorio - Le
leggi psicologiche - Il determinismo psicologico - Le grandi leggi funzionali - Valore delle leggi
psicologiche - L'ipotesi.

Art. III - DIVISIONE DELLA PSICOLOGIA.

l - Il metodo d'una scienza dipende dalla natura dell'oggetto formale (I, 138). È dunque con la
determinazione precisa di questo oggetto formale che deve incominciare il nostro studio della psicologia.
Queste questioni di oggetto e di metodo si suddividono a loro volta in numerosi problemi, in cui vien
chiamata in causa già tutta la psicologia. Da ciò l'importanza particolare dell'introduzione alla psicologia.

Art. I - Oggetto della psicologia


Definire la psicologia, è dire quale sia il suo oggetto proprio o formale. Ma ciò è meno facile di quanto a
prima vista si potrebbe pensare. In realtà, si presentano a noi due psicologie, che chiamiamo rispettivamente
sperimentale e razionale, e si tratta di sapere se si debba comprenderle in una definizione comune e
considerarle come due parti, l'una subordinata all'altra, d'una scienza unica, - oppure se si debba riserbare
esclusivamente all'una o all'altra di queste discipline il nome di psicologia. Nella discussione di questi
problemi, che mira a precisare l'oggetto proprio che conviene assegnare alla psicologia, ci si troverà di fronte
a diverse concezioni che noi dovremo studiare e criticare.

§ l - Psicologia sperimentale e psicologia razionale

A. DEFINIZIONI

2 - 1. LA PSICOLOGIA COME SCIENZA DELL'ANIMA - Etimologicamente, la psicologia (psychè,


anima) è la scienza dell'anima. Si può benissimo conservare questa definizione, a condizione di lasciarle
tutta la sua generalità e di ben intendere come l'anima non possa essere conosciuta che nelle diverse
manifestazioni della sua attività e attraverso le medesime. La psicologia sarà dunque necessariamente e
principalmente lo studio empirico dei fenomeni psichici. È questo studio che ha ricevuto il nome di
psicologia sperimentale o descrittiva. Noi ci dovremo domandare più avanti se un tale studio possa essere
autonomo e anche quale oggetto esso debba attribuirsi per restare fino in fondo una disciplina positiva.

2 Cfr. A. Binet, Introduction à la psychologie expérimentale, Parigi 1894. Ebbinghaus, Précis de Psychologie, trad. fr.,
Parigi, 1911 - Th. Ribot, La Psychologie (nella raccolta La méthode dans les sciences, Parigi, 1909, t. I, p. 229 sgg.). W.
James, The Principles of Psychology, 2 voll., Nuova York, 1890, (trad. it., Milano, 1901) - Wundt, Grundriss der
Psychologie, Lipsia, 1905 - Mc Dougall, An outline of Psychology, Londra, 1923 - J. De La Vassière, Eléments de
Psychologie expérimentale, Parigi, 6a ed., 1926 - H. Piéron, Psychologie expérimentale, Parigi, 1934 - F. De Sarlo, I
dati dell'esperienza psichica, Firenze, 1903. - G. Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, Parigi, 1930, t. I - R. Ruyer,
PsychoBiologie, Parigi, 1946 - P. Naville, La Psychologie science du comportement, Parigi, 1942 - P. Guillaume,
Introduction à la Psychologie, Parigi, 1942 A. Gemelli, Introduzione alla Psicologia, Milano, 1947.
4
2. SCIENZA E FILOSOFIA DELL'ANIMA - Fin d'ora, per la ragione stessa dei princìpi generali esposti
nell'Introduzione generale alla Filosofia e nello studio dei metodi positivi, abbiamo motivo per dire che la
scienza sperimentale dei fenomeni psichici non esaurirà l'oggetto totale della psicologia, più che la
determinazione delle leggi fisiche non esaurisca la conoscenza delle cose della natura e dell'universo. La
filosofia tende ad attingere l'essere stesso manifestato dai fenomeni e dalle leggi che li governano; la
psicologia avrà un compito ulteriore, consistente nello stabilire l'esistenza e la natura del principio primo
dei fenomeni psichici, partendo dall'esperienza. È questo l'oggetto proprio di ciò che si chiama: psicologia
razionale.

3 - 3. PSICOLOGIA EMPIRICA E PSICOLOGIA SCIENTIFICA Si tratti di psicologia sperimentale o di


psicologia razionale, la psicologia è una scienza (I, 121) e, in quanto tale, si distingue essenzialmente dalla
psicologia empirica, psicologia del romanziere, del drammaturgo, del poeta, del moralista, dell'uomo di
mondo, ecc., che Freud e i tedeschi chiamano oggi Laienpsychologie (psicologia dei profani). Tuttavia,
distinzione non significa separazione, né, meno ancora, avversione. La psicologia scientifica non manca di
attingere largamente nel tesoro di osservazioni fornito dalla psicologia empirica, e vi sono anche certi
campi, come la caratterologia, in cui la «Laienpsychologie» offre un contributo di capitale importanza.

B. LA PSICOLOGIA SPERIMENTALE

4 - La nozione di psicologia sperimentale non è così semplice come sembrerebbe a prima vista. Bisogna
dunque precisarla preliminarmente, se si vuol evitare una quantità di confusioni e di equivoci, attinenti alla
psicologia come scienza dei fenomeni psichici, come disciplina autonoma, come scienza sperimentale, infine
come metodo oggettivo.

1. LA SCIENZA DEI FENOMENI PSICHICI - La psicologia sperimentale non può essere, per definizione,
che una scienza dei fenomeni psichici poiché solo i fenomeni, vale a dire i fatti accessibili, direttamente o
indirettamente, ai sensi o agli strumenti di osservazione e di misura, costituiscono la materia delle scienze
sperimentali.

a) Il «soggetto» in psicologia. Scienza dei fenomeni non significa «scienza senza soggetto». Non si
possono prendere senz'altro come equivalenti queste due espressioni. Infatti, tutte le scienze positive si
riferiscono, in maniera più o meno esplicita, a un soggetto dei fenomeni che esse studiano, benché, di questo
soggetto, esse non ritengano che i fenomeni che lo manifestano. È certo che i fenomeni psichici non bastano
a se stessi più che non bastino a se stessi i fenomeni fisici. Tutta la psicologia contemporanea reagisce contro
la tendenza fenomenistica e associazionistica, che si sforzava di spiegare tutta la vita psicologica, dalle più
umili forme sensibili sino ai vertici dell'attività razionale, mediante pure combinazioni di elementi o atomi
psichici. Noi troviamo qui le stesse difficoltà che troviamo nella concezione meccanicistica, la quale vuol
rendere conto delle realtà organiche e inorganiche attraverso una semplice giustapposizione di elementi
materiali semplici. Abbiamo visto (I, 187; II, 70) che questa concezione è in realtà inintelligibile: l'unità e
l'ordine interno dei complessi fenomenici non possono spiegarsi se non mediante un soggetto.

b) Il soggetto empirico. Nondimeno, questo soggetto è e resta, per la psicologia sperimentale, un soggetto
empirico, la cui natura non viene presa in considerazione, esattamente come la materia, soggetto delle
proprietà fisiche, o ancora la «cosa», soggetto dei fenomeni chimici, restano, quanto alla loro essenza, al di
fuori del campo proprio dello scienziato. È alla filosofia propriamente detta, la quale si volge all'essere stesso
delle cose, che spetterà di definire la natura del soggetto psicologico, così come lo rivelano i fenomeni e le
leggi messi in luce dalla psicologia sperimentale.

5 - 2. LA PSICOLOGIA SPERIMENTALE, SCIENZA AUTONOMA Si può ammettere come legittimo il


ritenere la psicologia sperimentale come una scienza positiva autonoma.

a) Scienza positiva. Abbiamo visto più su che se si intende il termine di scienza nel suo senso generale, la
psicologia, sperimentale o razionale, è una scienza. Si potrebbe anche dire, sotto questo punto di vista, che la
psicologia razionale merita il titolo di scienza in senso più appropriato della psicologia sperimentale. Ma se
si restringe, come si fa comunemente, il termine di scienza alle discipline positive, bisognerà convenire che
la psicologia sperimentale è a giusto titolo ritenuta una scienza. Infatti essa tende a stabilire le leggi generali
dell’attività psichica ed essa procede a tale scopo secondo le esigenze del metodo sperimentale, adattando
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l'osservazione. e l'esperimentazione alla natura del suo oggetto proprio, che è il fenomeno psichico come
tale.

b) Scienza autonoma. Si è spesso mal compresa questa autonomia, il che ha dato pretesto di contestarla,
mentre essa è normale e legittima. Autonomia non significa necessariamente sufficienza assoluta. Si ammette
l'autonomia delle scienze fisiche, pur riconoscendo che esse non ci forniscono una conoscenza adeguata di
tutto il reale. Ma esse hanno il loro oggetto formale proprio e i loro metodi propri ed è questo che fonda la
loro relativa autonomia (I, 13). Lo stesso è della psicologia sperimentale che ha un soggetto bene definito e
si serve dei metodi delle scienze positive. Ma, autonoma entro questi limiti, lascia aperta la possibilità (e, in
un certo senso, implica anche la necessità) d'una ricerca ulteriore, propriamente filosofica, che si volge
all'essere stesso da cui procedono i fenomeni dei quali la psicologia ha cercato di definire le leggi empiriche.

6 - 3. SENSO E PORTATA DEL TERMINE «SPERIMENTALE» Noi dovremo più oltre occuparci del
metodo della psicologia. Qui, conviene soltanto precisare che l'espressione di «psicologia sperimentale» non
significa che ogni ricerca psicologica debba necessariamente limitarsi entro il campo del misurabile, vale a
dire ai referti di laboratorio. «Sperimentale» deve essere inteso in senso largo, e si applica legittimamente a
tutto ciò che può cadere non solo sotto l'osservazione esterna o «oggettiva», ma anche sotto l'osservazione
interna e riflessa. Da questo punto di vista, le osservazioni di Bergson sono perfettamente fondate: tutto ciò
che si offre all'intuizione è materia di esperienza. Il laboratorio non è dunque che uno dei tanti strumenti o
mezzi al servizio dell'indagine psicologica ed esso non può ambire senza abuso né al privilegio, né meno
ancora all'esclusività.

7 - 4. LA PSICOLOGIA, SCIENZA OGGETTIVA

a) Tre significati del termine «oggettivo». I teorici della psicologia della reazione e del comportamento (di
cui ci occuperemo più avanti) hanno voluto riservare ai loro procedimenti di ricerca il titolo di «metodo
oggettivo». V'è tuttavia un equivoco, poiché il termine «oggettivo» può intendersi in più sensi. Una prima
accezione lo riserba ai dati che si ottengono mediante l'esperienza e non mediante puro ragionamento o pura
inferenza. In altro senso, oggettivo si oppone a soggettivo, come ciò che appartiene all'esperienza esterna si
oppone a ciò che deriva dall'esperienza interna. Infine, oggettivo si adopera anche per indicare ciò che è
fondato, in qualunque modo, sul reale, qualsivoglia esso sia, interno od esterno, e si oppone a ciò che deriva
solo dall'opinione personale, dai sentimenti o dalle ipotesi individuali, campo del «soggettivo».

b) L'oggettività in psicologia sperimentale. I behavioristi lasciano capire che questi tre significati sono
solidali e, a meno che non si voglia prendere per unico oggetto i comportamenti esterni dell'uomo o
dell'animale, la psicologia sarà necessariamente pura scienza deduttiva e disciplina congetturale. Si vede
subito quanto di abusivo vi sia in queste pretese. Da una parte, infatti, l'introspezione, nel primo e nel terzo
significato, può essere tanto oggettiva quanto la psicologia del comportamento. Riflettere su uno stato di
coscienza è procurarsi un oggetto d'osservazione tanto reale quanto i riflessi condizionati di un cane. D'altra
parte bisogna aggiungere che c'è tutto un campo, in psicologia, che non può essere colto che con
l'introspezione, ed è precisamente il campo dell'attività psichica propriamente detta. L'«oggettivo» che i
behavioristi propugnano sembra ridursi al puro fisiologico e questa concezione può condurre solo
all'atomismo e all'associazionismo, cioè alla materializzazione e alla meccanizzazione della coscienza.

c) L'oggettività della psicologia razionale. D'altra parte, la stessa psicologia razionale è «oggettiva» (nel
terzo significato) tanto quanto la psicologia sperimentale, sebbene essa raggiunga il suo oggetto (l'essere
stesso del soggetto psicologico) solo attraverso il ragionamento. Il ragionamento, infatti, si basa
sull'esperienza e non tende che a renderla pienamente intelligibile. Se si pretendesse di bandire il
ragionamento dalla scienza, nessuna scienza sarebbe possibile. Un ragionamento rimane oggettivo, fino a
quando si riferisca logicamente ai fatti oggettivamente stabiliti.

C. PSICOLOGIA E FILOSOFIA.

8 – 1. LA PSICOLOGIA SCIENTIFICA - La nozione di una psicologia sperimentale, come scienza


autonoma dei fenomeni psichici, è relativamente recente. Comunemente la si fa datare da Christian Wolff
(Psychologia empirica, 1732; Psychologia rationalis, 1734). Kant riprese il termine di psicologia, che, con
Maine De Biran, acquistò definitivamente diritto di cittadinanza nell'insieme delle discipline filosofiche. Nel
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corso del diciannovesimo secolo, la psicologia tese sempre più a costituirsi in scienza autonoma, distinta
dalla filosofia propriamente detta, e ad accostarsi il più possibile alle discipline sperimentali. Pure, un'intera
corrente (Taine, Wundt) riduce la psicologia alla fisiologia, ispirandosi, d'altra parte, a una concezione
materialistica dell'uomo e del mondo, la quale è di natura puramente filosofica.

In definitiva non è questa corrente che è prevalsa. Essa sarebbe potuta prevalere solo con questo risultato
paradossale, di costituire una psicologia senza valore psicologico. Oggi invece l'accordo sembra raggiunto su
questo punto: la psicologia è una disciplina positiva, che può e deve organizzarsi con i suoi propri metodi,
che sono quelli delle scienze sperimentali, senza implicazione filosofica immediata, sul piano dei fenomeni e
delle loro leggi empiriche.

9 - 2. LA CONCEZIONE FILOSOFICA - In verità, il punto di vista precedente, molto comune e per così
dire unanime presso gli psicologi di professione, viene contestato da alcuni filosofi contemporanei.

a) La psicologia come riflessione trascendentale. Lachelier (cfr. Psychologie et Métaphysique) ha cercato


di mostrare che la psicologia, nella sua stessa essenza, è filosofica. Egli infatti ritiene che c'è una psicologia
critica e riflessiva, che è la vera psicologia, sperimentale e metafisica allo stesso tempo, e che consiste nel
volgere la riflessione, non su oggetti nella coscienza, ma sul soggetto stesso come tale, cioè come attività che
coglie se stessa in quanto agente e che scopre nel suo proprio esercizio le condizioni necessarie del pensiero.

H. Bergson sembra andare ancora più oltre, poiché egli preconizza (cfr. Essai sur les données immédiates
de la conscience, Parigi, 1889; tr. it., Torino, 1952) la costituzione di una metafisica positiva, che si
confonderebbe praticamente con la psicologia, in quanto è con la riflessione sui dati immediati della
coscienza che noi potremmo penetrare fino alle sorgenti stesse della vita e del divenire universale 3.

b) Difficoltà di questo punto di vista. Questa discussione comporta qualche confusione. Se si trattasse
soltanto di precisare che la psicologia giunge necessariamente a porre dei problemi filosofici e che essa, sotto
questo aspetto, è come una specie di introduzione alla metafisica, non ci sarebbe che da approvare. Ma, da
una parte, non sarebbe necessario per questo supporre che si possa passare al piano metafisico per semplice
continuità partendo dai fenomeni psichici, mediante l'approfondimento dell'intuizione. Noi abbiamo visto (I,
12) quale illusione spaziale si nasconda sotto formule di questo tipo: il metafisico non è sotto il sensibile.
D'altra parte, se si conviene che la psicologia, intesa come vuole Lachelier sotto la forma d'una riflessione
trascendentale, mirante a cogliere e a definire i princìpi primi del pensiero e della scienza, implica
essenzialmente un orientamento metafisico. si dovrà osservare anche che la psicologia filosofica o razionale
ha un altro compito più immediatamente proprio di questo orientamento critico e che consiste nel definire la
natura, le facoltà e le proprietà del soggetto psicologico. Ciò dunque non può portare ad escludere la
psicologia sperimentale, né a maggior ragione a privarla dell'autonomia che sembra spettarle di diritto.
Riconoscendo che la psicologia sperimentale, più che ogni altra disciplina positiva, pone una quantità di
problemi filosofici, si può convenire di considerarla, nei limiti che essa si dà, come una scienza autentica,
provvista di un oggetto formale nettamente definito e suscettibile di organizzarsi con i suoi propri mezzi.

10 - LA PSICOLOGIA ARISTOTELICA E TOMISTICA - Questo punto di vista è insito sia nei princìpi di
Aristotele che in quelli di San Tommaso. Indubbiamente gli antichi non hanno nemmeno tentato di trattare la
psicologia sperimentale come scienza autonoma. Questo tentativo in realtà è risultato collegato all'avvento
della scienza positiva, a partire dal XVII secolo. Aristotele e San Tommaso tuttavia hanno fornito i princìpi
che giustificano la divisione della psicologia in sperimentale e filosofica, notando che per arrivare a definire
la natura dell'anima, bisogna incominciare dallo studio dei fenomeni psicologici, considerati in se stessi e
nei loro oggetti, secondo il metodo delle scienze speculative 4. Inoltre, la nozione del composto umano,
propria a queste dottrine, non può che far loro ammettere nella descrizione dei fatti psicologici la legittimità
(ed anche la necessità) di tener conto dei loro antecedenti o dei loro concomitanti fisiologici. Nessuna

3 Cfr. Bergson, Matière et mémoire 14a ed. Parigi, 1919; p. X, dove Bergson scrive che la «psicologia ha per oggetto lo
studio dello spirito umano in quanto funzionante utilmente per la pratica» e che «la metafisica non è altro che questo
stesso umano nello sforzo di liberarsi dalle condizioni dell'azione utile e di cogliersi di nuovo come energia creatrice».
4 Cfr. Summma contra Gentiles., III, c. XLVI: «Quid sit anima inquirimus ex actibus et obiectis, per principia
scientiarum speculativarum». Cfr. anche De Veritate, q. X, art. 8, ad. 5 - M. Barbado, Introduction à la Psychologie
expérimentale, tr. fr., Parigi, 1931, pp. 348-367.
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filosofia, come osservava Binet, è così predisposta a fondare e a giustificare una psicologia sperimentale
autonoma come quella di Aristotele e di San Tommaso.

§ 2 - Il problema dell'oggetto della psicologia

A. POSIZIONE DEL PROBLEMA

11 - Ci è noto che la questione dell'oggetto di una scienza si suddivide in problema dell'oggetto materiale e
problema dell'oggetto formale. Generalmente, la determinazione dell'oggetto materiale non comporta
difficoltà. Queste sorgono soltanto allorché si tratta di precisare sotto quale aspetto si debba considerare
l'oggetto materiale.

1. OGGETTO MATERIALE - Si definisce l'oggetto materiale della psicologia come l'insieme dei fenomeni
psichici, espressione, questa, che indica una quantità estremamente varia di fenomeni (percezioni
rappresentative, ricordi, immagini, tendenze, appetiti, volizioni, idee, giudizi, ragionamenti, confronti,
astrazione, intuizione, stati di dubbio, di certezza, di credenza, passioni e inclinazioni, piacere e dolore,
ecc...). Si tratta ora di descrivere questi fenomeni così numerosi e complessi, di classificarli, di determinare
le leggi delle loro manifestazioni.

2. OGGETTO FORMALE - Il problema si complica allorché si tratta di dire sotto quale aspetto questi
fenomeni così vari appartengano alla psicologia e costituiscano il suo oggetto formale proprio. Il fatto di
definirli tutti insieme come «fatti psichici» è solo una parvenza di soluzione, poiché precisamente si tratta di
sapere ciò che significa con esattezza il termine «psichico». È dunque su questo problema che si concentra la
discussione relativa all'oggetto formale della psicologia.

B. PSICHISMO E COSCIENZA

12 - LA COSCIENZA IDENTIFICATA CON CIÒ CHE È COSCIENTE - Cartesio definiva l'anima con il
pensiero (o la coscienza) e con ciò riduceva tutto l'elemento psicologico a quanto è cosciente. Similmente
Kulpe (Vorlesungen uber Psychologie, 1922) chiama psichico tutto ciò che può essere oggetto di esperienza
oggettiva. Binet, dal canto suo, (L'ame et le corps, p. 274), sembra andare anche più oltre definendo come
psichico unicamente l'atto stesso di coscienza come tale, donde risulta allo stesso tempo che il soggetto che
coglie il suo stato proprio di coscienza e l'immagine o emozione che accompagnano l'atto di coscienza sono
fatti, non psichici, ma fisici.
Si vedono immediatamente tutte le difficoltà che vi sono in ciò. Queste opinioni restringono troppo il
campo dello psichico. Cartesio e Kulpe escludono arbitrariamente tutto il campo immenso del subcosciente e
dell'inconscio. Binet, prendendo con rigore la sua teoria, condurrebbe ad escludere, non solo l'inconscio, ma
anche tutto ciò che è di natura sensibile e affettiva.

13 - 2. LA COSCIENZA COME EPIFENOMENO - All'estremo opposto della concezione cartesiana,


troviamo le teorie materialiste, secondo cui l'elemento psichico e quello fisico non differiscono nell'essenza,
ma unicamente per il modo con il quale sono conosciuti. «Il fatto cerebrale e il fatto morale, scrive Taine,
non sono in fondo che un solo e medesimo fatto a due facce, l'una mentale, l'altra fisica, l'una accessibile alla
coscienza, l'altra ai sensi». L'elemento fisico appare come esteso e può essere colto con procedimenti
sensibili; quello psichico appare come inesteso e interiore alla coscienza, e per ciò stesso accessibile soltanto
a questa coscienza mediante ritorno su se stessa (introspezione). È, dice ancora Taine, un epifenomeno, cioè
un puro accidente del fenomeno materiale.

La dottrina della scuola della forma (di cui ci dovremo occupare soprattutto nello studio della percezione),
che ha tanto criticato l'epifenomenismo, si riduce essa stessa a un puro materialismo epifenomenistico.
Infatti, Kohler, vuol rendere conto delle forme e delle strutture date nella percezione dai fenomeni fisiologici
che ne sono, secondo lui, la condizione, nel settore ottico, dalla retina al centro visuale corticale. «La
struttura della percezione, scrive P. Guillaume (Pref. alla trad. fr. di Intelligenzprufungen an Anthropoiden di
Kohler, p. XII), è l'espressione della struttura del campo somatico». Sennonché, se le cose stessero così, le
forme psicologiche (vale a dire, in questo caso il contenuto della coscienza) sarebbero soltanto e
semplicemente un aspetto o un semplice riflesso dei fenomeni organici.
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Noi abbiamo qui a che fare con una teoria filosofica (materialismo) e non con una teoria propriamente
psicologica. Innanzitutto, la natura dell'elemento psichico, in quanto fenomeno, resta nel vago: si afferma
che è ciò che è accessibile alla coscienza. Ma che vuol dire esattamente? L'inconscio e il subcosciente si
trovano esclusi con questo? Ritorneremmo a Cartesio.
D'altra parte, in questa tesi c'è una contraddizione che basterebbe a demolirla: l'elemento fisico e quello
psichico, si dice, non sono realmente distinti fra di loro; ma in questo caso, come spiegare che essi
appariscano distinti e che non si possano conoscere con gli stessi mezzi, quando, per ipotesi, la loro
apparenza costituisca tutta la loro realtà? Essi non possono essere che ciò che appariscono.
Infine la più semplice osservazione ci mostra che i fenomeni fisici e i fenomeni psicologici non sono
esattamente paralleli, ciò che è inintelligibile nella tesi materialista.

Bergson (Matière et Mémoire, Parigi, 1896) ha perfettamente messo in luce un altro aspetto inintelligibile
dell'epifenomenismo. In questa ipotesi, egli osserva, i nostri stati di coscienza, con i quali noi ci
rappresentiamo il mondo sarebbero il prodotto del cervello, il quale non è che una parte del mondo. Di
conseguenza, una parte della nostra rappresentazione sarebbe causa della rappresentazione nella sua totalità,
cioè una parte del mondo produrrebbe il mondo intero, ciò che è un assurdo.

C. PSICHISMO E SOCIETÀ

14 - 1. LA CONCEZIONE DI COMTE E DI DURKHEIM - Si è tentato talvolta di ridurre l'elemento


psichico a quanto è sociale. Questo tentativo risale ad Augusto Comte, per il quale «l'individuo non esiste» e
non è di fatto che un'astrazione. Ciò che esiste, nel senso pieno della parola, è la società: tutto ciò che si
definisce «fenomeni psichici» o «fatti di coscienza» deriva dall'ambiente sociale o dal gioco di abitudini
create dalla società.
Da questo deriva che Comte esclude la psicologia dalla sua classificazione delle scienze (I, 135).
Certamente, ciò non significa, come osserva Levy-Bruhl (La philosophie d'Auguste Comte, p. 219), che
Comte rinunci ad ogni specie di psicologia: egli ammette lo studio delle funzioni mentali; ma suddivide
questo studio fra l'anatomo-fisiologia cerebrale e la sociologia, il che equivale ad eliminare tutto quanto è
propriamente «psichico».
Ugualmente, a poco a poco, Comte giunge a considerare la psicologia come essenzialmente sociologica e
secondariamente biologica (Système de Politique positive, II ed., Parigi, 1893, p. 234), poiché, secondo lui,
lo stato organico e fisiologico rende conto solo del comportamento individuale d'un soggetto, vale a dire di
ciò che vi è di accidentale, mentre spetta alle condizioni sociali definirlo in ciò che esso ha di essenziale e di
permanente. L'elemento psichico è dunque propriamente identico a ciò che è sociale e la psicologia si riduce
ad essere una branca della sociologia.

Questa teoria è stata ripresa ai nostri giorni dalla scuola sociologica (Durkheim, Levy-Bruhl, Maus,
Fauconnet). Durkheim vuol spiegare le funzioni mentali con il giuoco delle influenze sociali e la psicologia
risulta con ciò stesso trasformata nello studio dei differenti tipi di società umane. Religione, morale,
linguaggio, diritto, logica, filosofia, tutto ciò che non è risultato immediato dei bisogni organici, deriva dalla
società.

2. DISCUSSIONE - Anche queste teorie dipendono più da concezioni a priori che dall'osservazione dei
fatti. Senza dubbio Comte, per giustificare il suo punto di vista, insiste sull'insufficienza dell'introspezione
per fondare la psicologia. Noi dovremo esaminare più avanti questa questione. Ma quanto a ridurre
integralmente lo psichico al sociale e l'individuale all'organico, ciò dipende dallo spirito di sistema in ciò che
esso ha di più arbitrario, poiché è assai evidente, da un lato, che c'è tutta una parte dello psichismo che è
individuale, per il fatto che l'azione comporta sempre qualche invenzione e qualche novità, - e, d'altra parte,
che bisognerebbe spiegare anzitutto come la società abbia potuto, sia pure da un punto di vista
semplicemente logico, precedere l'esercizio delle funzioni mentali. Senza queste, quale società umana
sarebbe stata possibile? La società si spiega con l'uomo e il suo psichismo proprio, e il sociale è ancora una
forma dello psichismo, e non l'opposto, come Comte e Durkheim pretendono.

D. PSICHISMO E ORGANISMO

15 - 1. IL BEHAVIORISMO - Noi abbiamo già parlato della psicologia della reazione e del
comportamento e della sua concezione dell'oggettività (7). Questa corrente psicologica comporta delle
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direzioni abbastanza divergenti, poiché accanto alla concezione strettamente fisiologica di Watson vi è la
concezione finalista di Tolman (Purposive Behavior - Animal and Man, Nuova York, 1934). Se si considera
il punto di vista di Watson, lo psichismo non potrà essere considerato che un mito, residuo della vecchia
dottrina dell'anima. La «vita interiore», la «coscienza» non possono essere oggetti di scienza propriamente
detta. Il dominio dell'introspezione è quello della confusione e del vago. La psicologia si è illusa di essere
una scienza solo attraverso il giuoco di astrazioni incostanti, quali il Sentimento, la Sensazione, l'Invenzione,
l'Associazione, la Volontà, ecc..., soluzioni verbali che equivalgono molto esattamente all' «orrore del vuoto»
degli antichi. (Cfr. Watson, Behaviorism, Nuova York, 1925 e 1930)5.

Una psicologia scientifica dovrà dunque essere una psicologia senza coscienza, che farà proprio oggetto lo
studio del modo in cui si comporta un individuo (uomo o animale) in una determinata situazione. È il
rapporto di questi due termini (Situazione-Risposta), sole realtà osservabili e misurabili, sole forme
scientifiche dello psichismo, che permetterà di definire il termine intermedio, che è l'individuo, animale o
uomo. Tutti gli animali superiori si comportano in una maniera determinata secondo le circostanze,
reagiscono alle impressioni che provano in un modo definito. Il punto di vista del comportamento permetterà
dunque di eliminare definitivamente i problemi insolubili della coscienza. Con lo studio dei riflessi secondari
multipli in cui si esprime l'«esperienza» specifica degli animali superiori e con la determinazione delle
modificazioni di questi riflessi per mezzo dell'educazione e delle associazioni acquisite (Cfr. Pavlov, I
riflessi condizionati, tr. it., Torino, 1950), la psicologia avrà ormai un oggetto formale proprio 6.

16 - 2. DISCUSSIONE - Questa concezione della psicologia incontra molte difficoltà sotto la forma
radicale che le ha dato Watson. Ma si può ammettere che il punto di vista del comportamento non implica
necessariamente questo orientamento materialista.

a) Legittimità della psico-fisica e della psico-fisiologia. Se si trattasse, come affermano certi behavioristi,
non di negare la realtà dello psichismo e della coscienza, ma soltanto di studiarla in qualche modo dal di
fuori, nelle sue condizioni osservabili e misurabili, non ci sarebbe niente da eccepire. Per diventare una
scienza il più possibile completa ed esatta, la psicologia deve far entrare nel suo campo di studio non solo i
fatti psichici come tali, ma anche le loro condizioni organiche e fisiologiche, che servono realmente a
definire tutta una parte dello psichismo e che intervengono fino nell'attività intellettuale dell'uomo.

b) Irriducibilità dell'elemento psichico. Psico-fisica e psico-fìsiologia sono dunque giustificate, ma non


possono pretendere di essere i soli metodi validi della psicologia. Niente autorizza a interpretare il binomio
Situazione-Risposta in un senso esclusivamente organico e fisiologico, definendo la Situazione come
l'insieme degli stimoli sensoriali che agiscono sull'organismo, e la Risposta come l'insieme delle reazioni
nervose, muscolari e glandolari determinate da uno stimolo. La psicologia, in questo caso, non si
distinguerebbe più dalla fisiologia, vale a dire essa si disinteresserebbe di. tutto ciò che specifica il
comportamento e gli conferisce un significato, cioè dell'attività psichica che si inserisce fra lo stimolo
(Situazione) e le reazioni del soggetto (Risposta). Mc Dougall ha mostrato che il comportamento animale è
intelligibile solo in rapporto a questa attività: la condotta istintiva non può spiegarsi adeguatamente che in
termini di psichismo (tendenze, rappresentazioni, emozioni). A più forte ragione, quella dell'uomo che
dipende da fattori interni così numerosi e complessi 7.

Come osserva A. Lalande (Nouveau Traité de Psychologie, I, p. 415), se il termine di «riflesso»


(condizionato o acquisito) può applicarsi a esperienze elementari simili a quelle di Pavlov, come definire con
tal nome le funzioni sommamente complesse dell'attività conoscitiva, estetica e volontaria? L'idea di riflesso

5 «Vorrei, scrive Watson (Image and affection in Behavior, «Journ. of Phil.», luglio 1913) rigettare del tutto le
immagini e mostrare che il pensiero si riduce naturalmente a processi sensori-motori che hanno la loro sede nella
laringe».
6 Cfr. Bechterev, La psychologie objective, trad. fr., p. 13 (ed. or., 3 voll. Pietroburgo, 1907-12): «La psicologia è la
scienza della vita neuro-psichica in generale, e non solo delle sue manifestazioni coscienti. Dovunque la reazione è
modificata dall'esperienza individuale, abbiamo un fenomeno neuro-psichico nel senso proprio della parola». Cfr.
Tilquin, Le Behaviorisme. Origine et développement de la psychologie de réaction, Parigi, 1942.
7 Segnaleremo più avanti, nello studio dell'abitudine, le esperienze di Thorndike sull'addestramento. Esse dimostrano
chiaramente l'impossibilità di comprendere l'addestramento, vale a dire l'evoluzione del rapporto stimolo-risposta, senza
fare intervenire le nozioni psicologiche di percezione, d'immaginazione, di coscienza, d'intelligenza, ecc.
10
implica qualcosa di meccanico, di regolare e di impersonale che è proprio quello che men s'addice alle forme
superiori della vita psicologica.
Sappiamo che ridurre un fenomeno alle sue condizioni è un sofisma (I, 94). In questo caso tale riduzione,
come fa giustamente osservare Koffka (Principles of Gestalt Psychology, Londra, 1936, p. 27), implica una
concezione «molecolare» dello psichismo che ci riporterebbe all'atomismo associazionista, mentre s'impone
oggi universalmente quella massiva o, per usare un aggettivo derivato da mole, «molare».

c) L'equivoco della neuropsicologia. D'altra parte, la espressione di fenomeni «neuropsichici» rivela


chiaramente l'equivoco di questa dottrina. Se i fatti psichici sono integralmente riducibili alle loro condizioni
nervose, perché parlare di neuro-psichismo? È per distinguere, spiega Bechterew, le reazioni che sono
oggetto della psicologia da quelle puramente fisiologiche: una scottatura causa diversi moti riflessi
neuropsichici (grida di dolore, contrazione dei lineamenti, atto del ritrarre il membro scottato, ecc.) e reazioni
meramente somatiche (infiammazione dei tessuti). Questa tuttavia è una opinione molto discutibile.
Anzitutto, il criterio di distinzione secondo la teoria behaviorista è del tutto arbitrario e costituisce un vero
circolo vizioso: si tratta di definire lo psichismo mediante i riflessi ed ecco che si distinguono i riflessi in
rapporto allo psichismo e alla mancanza di psichismo! Inoltre, la teoria behaviorista presenta il grave
inconveniente di bandire dalla psicologia tutti i fenomeni, intellettuali o affettivi, che non si manifestano
attraverso comportamenti singolari.

17 - 3. LA PSICOLOGIA ESISTENZIALE - Ultima in ordine cronologico, la fenomenologia


esistenzialista (I, 8 bis) introduce nella psicologia un concetto assolutamente nuovo che consiste nel
sostituire l'esistenza alla coscienza. Finora tutta la psicologia, sia empirica che intellettualista, era rimasta di
proposito una scienza della coscienza. Il behaviorismo stesso con la pretesa di fondare una psicologia senza
anima né coscienza, il che non ha senso, e mettendo la coscienza tra parentesi, conduceva paradossalmente a
considerare quest'ultima come l'oggetto unico e proprio di una psicologia autentica. Ora, se in realtà non
esiste psicologia senza coscienza, occorre notare, innanzi tutto, che la coscienza non può mai diventare un
oggetto, essendo essa interamente soggettività; inoltre, che la soggettività non potrebbe ridursi all'anima o
allo spirito, poiché non fa che un tutt'uno concreto col corpo, soggetto come la coscienza e unitamente ad
essa e non oggetto del mondo: infine, che è impossibile isolare questo soggetto dal mondo nel quale è
compreso e col quale s'articola mediante tutte le sue strutture. Pertanto l'oggetto proprio della psicologia non
sarà più la coscienza, distinta e separata dal corpo dal mondo, ma 1'esistenza, cioè 1'essere-nel-mondo-
attraverso-un-corpo, perché il mio corpo è sempre e necessariamente lo strumento e della mia comprensione
del mondo e della mia azione nel mondo della mia esperienza 8.

4. Il comportamento totale. I precedenti rilievi non mirano ad escludere il concetto del comportamento, ma
soltanto un senso troppo ristretto in cui intenderlo. L'opinione cartesiana secondo la quale lo psichico non è
altro che il pensiero liberato da ogni espressione somatica, è insostenibile; ma non lo è meno quella che
ammette soltanto il comportamento esterno. Bisogna, in realtà, considerare il comportamento totale, cioè i
fattori sensori, nervosi, muscolari, glandolari, il temperamento e le tendenze individuali, l'intelligenza e le
abitudini, i moti affettivi e le credenze, ecc. Sono tutti questi fattori ad intervenire per costituire l'azione
esterna e per spiegare come i soggetti reagiscano in modi così diversi a stimoli eguali. Il comportamento è
quindi praticamente tutto il soggetto, uomo o animale, cioè l'esistenza stessa.

Non si creda che questo modo di vedere conduca, procedendo per via d'analogia, alla conclusione che il
comportamento esterno del soggetto altro non sia che il risultato di fenomeni psichici legati ad un identico
comportamento dell'osservatore. In realtà, questo procedimento non darebbe la certezza scientifica, poiché
l'inferenza analogica, per mancanza di mezzi di controllo, non può fornire che ipotesi più o meno plausibili.
Inoltre, questa concezione potrebbe far pensare che la coscienza sia alcunché di sovrapposto all'azione, quasi
una complicazione di essa: il che è del tutto erroneo. L'azione si prepara e si elabora anzitutto nella
coscienza; essa è l'estrinseca attuazione d'una tendenza o «intenzione» che si manifesta per tal mezzo.
L'azione è questa stessa coscienza fattasi visibile e sensibile. Non si tratta dunque di andare dal
comportamento alla coscienza per via analogica, ma di considerare gli atti dell'uomo (o dell'animale) come
unità organiche aventi ognuna un senso ed esprimenti altresì un'unità più profonda ancora dello psichismo e

8 Cfr. J.-P. Sartre, L'Etre et le Néant, Parigi, 1943, p. 11-14. - M. MerleauPonty, La science du comportement, Parigi,
1942, p. 251-305. Phénoménologie de la Perception, Parigi, 1945, p. 9-80. - Jeanson, La Phénoménologie, Parigi, 1952,
p. 27-37, 93-106.
11
delle sue condizioni organiche. Sotto questo aspetto, si potrà con ragione affermare non esservi psicologia
possibile se non dall'analisi del comportamento, inteso, questo, nel senso più generale di condotta.
E. LO PSICHISMO E LA VITA.

18 – 1. LA CONCEZIONE ARISTOTELICA - Nello studio generale della vita (II, 120), abbiamo già
esposto la concezione secondo la quale lo psichismo sarebbe la vita. Facevamo allora osservare che il
termine di psichismo indica soltanto la realtà di un'anima o principio vitale, di qualunque natura esso sia,
vegetale, sensibile o razionale (II, 126). L'opinione aristotelica sembra fra tutte la più oggettiva. Potremmo
adottarla, pur di notare che se veramente, parlando assolutamente, lo psichismo e la vita hanno la stessa
estensione, è prevalso l'uso di riservare il termine di psichismo per indicare tutto ciò che concerne, in
qualsiasi modo, la vita conoscitiva e affettiva (cioè l'animale e l'uomo). Accettando questa limitazione, pare
si abbia una definizione sufficientemente oggettiva e precisa dell'oggetto proprio della psicologia.

Da una parte, infatti, non poniamo alcun postulato filosofico e nulla affermiamo circa la vera natura dello
psichismo. Diciamo solamente che, considerando le cose empiricamente, appartengono allo psichismo tutti i
fenomeni di conoscenza e di affettività. Dall'altra, ciò implica evidentemente l'estensione del campo di
ricerche a tutto quello che è condizione immediata dell'attività conoscitiva e affettiva, a tutto quello che
esercita un'influenza sulla produzione o sulla evoluzione di tali attività, ossia che la psicologia dovrà
prendere in considerazione i fenomeni biologici e fisiologici legati allo psichismo. Per la stessa ragione,
diventeranno oggetto della psicologia non soltanto tutti i fenomeni subcoscienti e tutto l'inconscio psichico,
per cui si spiega una grandissima parte della vita cosciente, ma anche, come ragioni esplicative dello
psichismo umano e normale, e i fatti psicologici, conoscitivi e affettivi, del regno animale e le diverse
psicopatie dell'ordine umano.
Secondo questa teoria la psicologia viene ad ammettere, in quel che hanno di positivo, le varie opinioni già
esposte circa la natura dello psichico. Includiamo infatti nel campo dello psichico, a titoli diversi, il cosciente
e l'inconscio, i fenomeni fisiologici e tutto il comportamento attraverso il quale si manifestano le reazioni
neuropsichiche del soggetto, le analogie della psicologia animale, nonché la parte tanto importante ed estesa
delle influenze sociali. Tutti questi elementi possono e debbono servire, nel loro ordine e nei loro limiti, a
render conto dei fenomeni che rivelano la vita conoscitiva e affettiva del soggetto umano. Il carattere
sintetico della nostra nozione dello psichismo è così, all'inizio della psicologia, un segno e una garanzia
d'oggettività.

19 - 2. NATURA DELLA DEFINIZIONE INIZIALE DELLO PSICHISMO - Si potrebbe obiettare che


definire lo psichismo come l'insieme dei fenomeni conoscitivi e affettivi è dare soltanto una parvenza di
definizione: non sappiamo ancora che cosa sia propriamente ed essenzialmente lo psichismo. A tale
obiezione si può rispondere, intanto, che abbiamo realmente definito lo psichismo riportandolo al concetto di
vita (II, 127). Senza dubbio, tutto ciò che è vita non è psichismo: la vita utilizza dei meccanismi d'un altro
ordine. Ma lo psichismo è legato alla vita o, per lo meno, restringendo l'estensione del termine al regno
animale, è legato alla vita sensibile e intellettuale. Lo psichismo ci appare così come una forma superiore di
vita. D'altronde, pur ammettendo quanto d'incerto contiene ancora una simile empirica definizione dello
psichismo, faremo notare che è bene sia così alle soglie della psicologia. Ogni scienza parte necessariamente
da una definizione provvisoria o nominale del suo oggetto (I, 50). La definizione essenziale si ha alla fine e
non al principio, poiché essa, dovendo riassumere la scienza, deve anche supporre terminato lo studio della
stessa. L'errore delle formule dello psichismo che abbiamo discusse sta appunto nel proporre all'inizio della
psicologia delle definizioni essenziali che pregiudicano ogni ulteriore ricerca e costituiscono per questo
motivo vere petizioni di principio.

Art. II - Metodo della psicologia


§ l - Princìpi del metodo

20 - 1. METODO SINTETICO - Quanto abbiamo precedentemente studiato ci permette di affrontare con


maggior sicurezza la questione circa il metodo della psicologia. È facile comprendere infatti (per quanto
riguarda la psicologia positiva) che le discussioni avvenute in questo campo derivano in gran parte dall'aver
accettato opinioni troppo ristrette o abusivamente informate a pregiudizi filosofici. Noi invece, dato il
carattere sintetico della nostra nozione dello psichismo, ci guardiamo bene dall'attribuire un valore esclusivo
12
a qualsiasi procedimento particolare. Infatti tutti i metodi d'osservazione e di esperimento (introspezione,
studio del comportamento, metodo fisiologico, analisi della forma, metodi comparativi, psicanalisi, metodi di
laboratorio, ecc.), tutti questi metodi il cui torto spesso è di credersi gli unici valevoli. possono e devono
servire a vicenda alla costituzione della psicologia scientifica. Il metodo della psicologia filosofica rimarrà
quello delle discipline filosofiche (I, 9-13).

E' bene osservare che sarebbe ingiusta pretesa proibire alla psicologia positiva ogni ricorso a ipotesi di
natura filosofica. Per gli psicologi - e Koffka in modo particolare (Principles of Gestalt theory, op. cit.,
Londra, 1935, p. 720) ha insistito su questo punto - si fa sempre più impellente la necessità di presentare
l'insieme della psicologia nella cornice d'una concezione filosofica. Nessun motivo potrebbe interdire allo
psicologo di spiegare col ragionamento, basato sull'esperienza immediata, il funzionamento delle attività
psichiche, ricorrendo a ipotesi di carattere ontologico e, a suo giudizio, aventi almeno valore di simboli,
quali, in fisica, l'energia, l'etere, il calore, gli elementi atomici, l'onda e il corpuscolo della meccanica
ondulatoria. La concezione di natura filosofica ammessa così a titolo d'ipotesi varrà per sua natura a favorire
la completa e armoniosa disposizione di tutti i dati positivi.

2. METODO INDUTTIVO - Per il fatto stesso che vuol essere sperimentale, la psicologia deve
necessariamente ricorrere al metodo induttivo, che è quello proprio delle scienze della natura (I, 157) e che
comporta successivamente l'osservazione, la sperimentazione e la determinazione delle funzioni e delle leggi
psicologiche, partendo da ipotesi situate in un primo tempo al livello positivo, ossia concepite allo scopo di
spiegare le condizioni d'esistenza e di coesistenza dei fenomeni psichici.

§ 2 - Il metodo soggettivo

21 - Sia per l'osservazione che per la sperimentazione, si distinguono due metodi: uno riflessivo, chiamato
introspezione, e l'altro oggettivo, detto estrospezione. La questione sul valore rispettivo di questi due metodi
ha suscitato controversie assai confuse. Tenteremo di precisarne i vari aspetti.

1. DEFINIZIONE DELL'INTROSPEZIONE - Etimologicamente, l'introspezione consiste nel volgere la


propria attenzione e il proprio sguardo all'interno, cioè nel prendere per oggetto di osservazione o di studio i
fatti della propria vita interiore. Tuttavia, la definizione è imprecisa, perché non indica con sufficiente
chiarezza che tale introspezione può intendersi in due sensi differenti.
In un senso, quello proprio della vita corrente, l'introspezione, secondo la terminologia di Titchener, è una
semplice informazione, vale a dire l'espressione d'uno stato di coscienza che comprende il dato di coscienza e
insieme le elaborazioni e interpretazioni che con esso fan corpo. Per esempio, quando dico che sento bruciare
della gomma, propongo un'informazione sul mio stato d'animo, ma non un'introspezione. La introspezione
esistenziale è invece l'attenzione riflessiva ai fatti della vita interiore, in quanto dati in un'attuale esperienza
vissuta. Evidentemente è soltanto di questa introspezione esistenziale che si parlerà in psicologia. Si tratta di
sapere se si possa attribuirle un valore scientifico e di precisarne la natura.

22 - 2. ARGOMENTI CONTRO L'INTROSPEZIONE - I numerosi argomenti addotti contro


l'introspezione possono riassumersi nel modo seguente.

a) I limiti dell'introspezione - L'introspezione è lungi dall'essere sempre praticabile. Certi fatti, come la
collera, la paura e in genere le forti emozioni, non possono essere osservati al momento stesso in cui si
producono. Lo stesso dicasi del sogno. Inoltre, l'attenzione interna tende a modificare più o meno i fatti di
coscienza, imponendo loro una certa fissità che non hanno: come osservare una fantasticheria senza
interromperla, una distrazione senza sopprimerla? Altrettanto si deve dire di tutti i fatti di transizione, di tutti
quegli stati vaghi, instabili, fluidi, dai contorni incerti, che non si possono cogliere se non immobilizzandoli
o solidificandoli, ossia alterandoli. Finalmente, l'introspezione non riesce a cogliere l'inconscio né il
subcosciente, cioè tutto quello che rimane del campo della tendenza e della virtualità.
Quanto alla memoria, se è vero che in molti casi possiamo servircene (ci ricordiamo di quello che abbiamo
provato nella collera, di quel che abbiamo sognato, ecc.), non è men vero che il ricorrere a questa facoltà
comporta molti pericoli di errore, di deformazione, d'elaborazione inconscia.

b) Il rischio dell'interpretazione. Del resto, anche se circondata da estreme precauzioni, l'introspezione


assomiglia spesso all'informazione perché è dominata inconsciamente da idee, da sentimenti, da influenze
13
che la rendono parziale e inadeguata. Sembra il più delle volte realmente impossibile separare i dati della
coscienza dall' interpretazione che fa corpo con essa 9.
Tale osservazione ci porta a contestare all'introspezione il vantaggio generalmente assegnatole di cogliere
direttamente il suo oggetto. Essa infatti lo coglie immediatamente: ma si vuol sapere anche come lo colga.
Inoltre, si richiederà l'esatta espressione dei dati immediati dell'introspezione, e i pericoli d'interpretazione
cui vanno incontro e chi trasmette le proprie introspezioni e chi le registra, saranno considerevoli. Infine, il
vantaggio di poter cogliere direttamente l'oggetto non presenta interesse autentico che per il soggetto stesso.

c) Insufficienza dei mezzi di controllo. I fautori della introspezione sogliono rimuovere queste difficoltà col
dire che i risultati dell'introspezione sono in realtà oggettivi, poiché colui che si osserva si sdoppia in
soggetto osservante e oggetto osservato; d'altra parte, tali risultati possono venir controllati, completati e
corretti in modi diversi.
Ma è questo un ragionamento che suppone risolta la difficoltà. Tutta la questione infatti risiede nel sapere
se, «oggettivata» per chi la sta attuando, l'introspezione rimanga tale anche per gli altri. È ovvio che questo
non avviene, poiché l'oggettività, dal punto di vista scientifico, implica possibilità di controllo e
d'osservazione simultanea. Inoltre, se si fa appello al controllo delle introspezioni altrui, si dovranno fare le
stesse riserve su queste auto-osservazioni. Finalmente, la trasmissione dei risultati non potrà farsi che in
funzione delle nostre proprie esperienze. Il che equivale a dire che ricostruiremo l'altrui esperienza sul
fondamento della nostra e che quindi il controllo sarà fittizio.

23 - 3. DIFESA DELL'INTROSPEZIONE - A tutti questi argomenti i fautori dell'introspezione


rispondono con alcune plausibili osservazioni, sottolineando la necessità dell'introspezione, l'esistenza d'un
campo privilegiato per questa forma di conoscenza e la possibilità di sottometterla a tecniche rigorose.

a) Necessità dell'introspezione. Si è fatto anzitutto osservare come, pur ammettendo la giustezza di tutte le
critiche rivolte all'introspezione, si debba però riconoscere che l'introspezione è il solo mezzo a nostra
disposizione per dare un senso al comportamento. Non posso capire quel che mi si vuol dire quando mi
parlano di dolore, di colore, di piacere, di sentimento, di tendenza, di pensiero, ecc., se non riferendomi alla
mia esperienza personale: soltanto col suo aiuto si può sapere che quel che si vede (o si ode) e quel che si
sente corrispondono allo stesso fenomeno.
L'argomentazione invero ci sembra discutibile. Infatti sarebbe come identificare coscienza e introspezione,
il che è manifesto errore, quasi che ogni coscienza fosse riflessione sui propri stati. In realtà, perché uno
possa rappresentarsi lo psichismo di altri, si richiede indubbiamente ch'egli già possegga l'esperienza del
dolore, della gioia, del piacere, dell'emozione, ecc. Ma per l'appunto tale esperienza non suppone
l'introspezione: essa è essenzialmente un qualcosa di vissuto, motivo per cui l'altrui comportamento (di
solito) è compreso immediatamente, spontaneamente, direttamente, senza introspezione né riflessione. Le
lacrime, ad esempio, rivelano il dolore, senza inferenza alcuna: sono in certo senso il dolore stesso, visibile e
sensibile; il significato è immanente al segno col quale non fa più che un tutt'uno. Se è dunque certo che lo
psichismo significa qualcosa solo per colui che ne ha in qualche modo l'esperienza, da ciò non consegue
ch'esso sia accessibile solo mediante l'introspezione né che la psicologia scientifica debba andare oltre la
nozione del comportamento, inteso in tutta la sua estensione.
In effetti, abbiamo dimostrato (15) che la nozione stessa del comportamento non può assolutamente fare a
meno della introspezione. La coppia situazione-risposta è lungi dal rivelare sempre il proprio significato. A
prescindere dal fatto che fra lo stimolo e la risposta s'inserisce tutto uno psichismo che sarà necessario
conoscere, esistono molteplici casi in cui la struttura oggettiva del comportamento non esige ch'esso sia
significante in modo univoco. Del gesto d'elemosina che vedo fare, non posso conoscere il senso
(ostentazione? filantropia? pietà? abitudine?) se non da colui che lo compie. Come dice giustamente A.
Michotte (op. cit., p. 226), «il solo strumento registratore dell'aspetto principale della risposta è l'uomo
stesso». Del resto si può ammettere che non si tratta in questo caso di prendere il significato in quanto
attestante l'esistenza d'un fatto di coscienza d'una data specie (il che rientrerebbe nelle forme discutibili
dell'introspezione), ma solo in quanto designante un fatto suscettibile d'esser messo in relazione con un
comportamento oggettivo e, come tale, d'esser sottomesso alla misura, mediante il ricorso alla valutazione
soggettiva del soggetto.

9 Cfr. A. Michotte, Psychologie et Philosophie. «Revue néoscolastique de Philosophie», XXXIX (1936), p. 211.
14
Non è decisiva l'obiezione che i termini di dolore, colore, piacere, ecc. non significano forse per tutti le
stesse esperienze. I termini usati si applicano certamente a esperienze comportanti delle differenze
accidentali dovute agli psichismi individuali, e fors'anche importanti, ma corrispondono agli stessi tipi di
esperienze. Non sappiamo e non possiamo sapere se il dolore di cui parla quel soggetto è o no identico a
quello di cui noi abbiamo l'esperienza; sappiamo però perfettamente che il termine «dolore» non significa né
un'esperienza di piacere né una percezione di colore. Questo basta per fondare una scienza che, come ogni
scienza, tratterà del generale facendo astrazione delle differenze individuali: non datur scientia de individuo
(I, 123).

b) Il campo degli stati sostantivi. Se esistono dei fatti che sfuggono quasi interamente all'introspezione e
costituiscono il campo degli stati transitivi - come li ha chiamati W. James - (espressi dalle congiunzioni,
preposizioni, inflessioni della voce, carattere melodico del pensiero e sentimenti piuttosto che
rappresentazioni), ve ne sono altri che, per quanto hanno di stabile, di solido e di definito, si possono
realmente cogliere e osservare: vale a dire i «fatti sostantivi», immagini, rappresentazioni, ricordi. Ciò è
provato chiaramente dal progresso che ha fatto lo studio della percezione, grazie ai metodi d'introspezione
instaurati dalla Scuola della Forma.

c) La tecnica introspettiva. Non mancano infatti dei mezzi tecnici per dare un valore scientifico
all'introspezione, anche nei campi in cui gli stati di coscienza non hanno la stabilità relativa dei fatti di
rappresentazione. Detti mezzi consistono nel sostituire al punto di vista della ricerca di processi determinati o
di oggetti psichici, quello della determinazione delle leggi della vita psichica seguendo metodi di
concordanza e di differenza (I, 173-174). Sono i metodi delle scienze sperimentali, nelle quali gli oggetti
sono definiti dalle loro misure e dalle leggi che li regolano. L'introspezione acquista così quel valore
oggettivo, cioè, in questo caso, controllabile e misurabile (almeno entro certi limiti) che fa di essa uno
strumento scientifico. Ma ciò significa pure che l'introspezione rientra in tal modo, a titolo di procedimento
particolare, nel metodo oggettivo, più generale e più sicuro.

24 - 4. NATURA ED ESTENSIONE DELL'INTROSPEZIONE - Secondo l'esistenzialismo, il problema


dell'introspezione dev'essere ripreso su nuove basi. Tutte le discussioni da esso provocate suppongono una
coscienza che sarebbe essenzialmente un organo di visione puntato su di un oggetto, il quale altro non
sarebbe che la coscienza stessa. In questo caso, l'introspezione ci imporrebbe il paradossale compito di
cogliere un soggetto come oggetto: sarebbe come dire che l'occhio dovrebbe vedere se stesso e l'orecchio
udire se stesso.
In realtà dobbiamo innanzitutto correggere la nozione della coscienza. Ammettiamo che la Psicologia sia la
«scienza della coscienza», se la coscienza viene estesa sino alle frontiere della vita e, per conseguenza,
congloba o racchiude il corpo, che è la struttura stessa della mia esistenza come forma o idea, e quindi, il
mondo al quale non cesso di adattarmi, allo scopo di mantenere la struttura che mi definisce specificamente e
individualmente (II, 126), ed anche tutto il passato della specie, che mi è, in un certo senso, presente in
quella «memoria organica», che è l'aspetto storico dell'idea o forma che io rappresento.

L'appello all'introspezione lascia supporre che potrebbe esserci una coscienza di questa coscienza. Ma tale
ricorso è disperato in precedenza, poiché, di bel nuovo, la coscienza primaria, diventando oggetto,
cesserebbe d'essere coscienza, cioè soggettività. Infatti, la riflessione non è mai un ritorno su se stessi, bensì
una tendenza verso un mondo d'oggetti, rappresentativamente interiorizzati. Ammettiamo senz'altro,
nell'uomo, la realtà d'una «coscienza della coscienza». Ma bisogna ben comprendere che questa coscienza
seconda o riflessa non è altro che la coscienza primaria fattasi trasparente a se stessa, cioè in atto di
soggettivizzare in per-sé quello che, in Cosmologia (II, 126), chiamavamo la «soggettività oggettiva»
dell'in-sé.
Tale coscienza seconda, così intesa, forma appunto la condizione stessa della psicologia come scienza.
Evidentemente però, il concetto d'introspezione è ambiguo quando serve ad indicare il modo in cui cogliamo
la coscienza primaria, quasi si trattasse d'una visione applicata dall'esterno all'interno, mentre la coscienza
seconda è l'interno stesso, soggettività inalienabile, interiorità indeclinabile. Tuttavia il termine di
introspezione potrebbe essere mantenuto, pur di precisare che si vuole con esso designare un metodo che
mira a cogliere la coscienza stessa, per opposizione all'ambiente esterno, come campo dell'oggettività pura e
del sapere scientifico e metafisico. Bisogna inoltre aggiungere, da una parte, che la coscienza colta in tal
modo, è la coscienza totale, vale a dire l'esistenza stessa, che è l'essere-nelmondo-attraverso-un-corpo, e non
15
quel riflesso parziale considerato dall'intellettualismo, e dall'altra, che l'esistenza che è alla base della
psicologia non può essere che una soggettività vissuta.
Finalmente, tali vedute permetteranno di conservare il termine d'introspezione, con un senso forse meno
nuovo che esteso, e di affermare nello stesso tempo, con maggior esattezza che non si sia fatto sinora, che la
psicologia è realmente la scienza della coscienza e della vita interiore.

§ 3 - Il metodo oggettivo

25 - 1. NATURA - Si può definire in generale il metodo oggettivo, per opposizione all'introspezione


esistenziale, come l'insieme dei procedimenti attraverso i quali si osservano, si descrivono e si misurano
(quand'è possibile) le manifestazioni esteriori dell' attività psichica degli altri esseri. Nel metodo soggettivo,
oggetto e soggetto sono materialmente gli stessi: differiscono soltanto formalmente. Qui, sono materialmente
e formalmente distinti.
Le realtà su cui verte immediatamente l'osservazione, saranno sia l'insieme dei fatti esterni che
costituiscono l'espressione naturale dell'attività psichica: atteggiamenti, gesti, mimica, espressioni, riflessi e
reazioni motrici, discorsi (osservazione diretta), - sia i diversi prodotti di questa attività psichica separati dal
soggetto da cui provengono: disegni, grafia, scritti, opere d'arte, ecc. (osservazione indiretta). Tutti questi
fatti possono essere considerati costitutivi del comportamento esterno del soggetto.
Tali fatti possono essere sia spontanei, sia provocati, esattamente come nel campo delle scienze fisiche (I,
161). L'introspezione provocata, quale la praticano Kulpe e la Scuola di Wurzburg, può anch'essa
riallacciarsi al metodo oggettivo, poiché si tratta, sì, di registrare il fatto psichico, ma come reazione e non
come natura o essenza. Per questo, nelle spiegazioni dell'ammalato il dottore cerca meno delle esperienze
soggettive che delle reazioni simili a quella rivelate dal termometro o dall'auscultazione.

2. VANTAGGI - Il metodo oggettivo non va esente dagli inconvenienti riscontrati nell'introspezione. Non
può eliminare del tutto il coefficiente personale, il margine di deformazione che comportano i fattori
soggettivi (dimenticanza, disattenzione, vanità, illusione, pregiudizi, interpretazioni mescolate al fatto
osservato, ecc.). Tuttavia, questi difetti trovano il loro rimedio nel fatto che il metodo oggettivo permette la
constatazione simultanea da parte di più osservatori e per ciò stesso il controllo delle osservazioni. D'altra
parte, il metodo oggettivo favorisce la precisione delle osservazioni. I fatti esterni sono suscettibili d'esser
descritti, confrontati, talvolta misurati con esattezza relativamente grande e possiamo così sperare di fare
della psicologia una scienza autentica.

26 - 3. LIMITI - Abbiamo già visto (16) a quali condizioni può essere valido e fecondo il concetto del
comportamento. Non può né escludere l'introspezione, né far a meno di ricorrere alle nozioni specificamente
psichiche. Senza dubbio, è possibile far provvisoriamente astrazione dalla considerazione del soggetto e
attenersi ai fenomeni osservabili e misurabili. Ma tale astrazione e tale limitazione metodica sono legittime
solo in quanto non si trasformino (come nel behaviorismo di Watson) in negazione del soggetto psicologico e
degli stati di coscienza da cui si astrae, come se tutta la psicologia si riducesse alla coppia stimolo-risposta,
congiunta dalle leggi dei riflessi condizionati.
Questa negazione sarebbe tanto meno giustificata in quanto il comportamento esterno è spesso ambiguo o
polivalente: la collera e la paura si manifestano attraverso fenomeni comuni, le lacrime sono segni di gioia e
di tristezza, ecc. Occorre dunque scoprire il significato del comportamento. I fatti psichici, i complessi
oggettivi non possono evidentemente definirsi se non in relazione ad una coscienza. Il fatto d'impallidire, di
stringere i pugni, di contrarre i muscoli, significa qualcosa solamente quando ha nome collera. Le lacrime
non sono soltanto un fatto di secrezione glandolare, ma anche un fatto psichico (gioia o tristezza). Il
vocabolario psicologico deve quindi necessariamente intervenire, altrimenti la psicologia si trasformerebbe
in una specie d'algebra o in un giuoco d'indovinelli.

Certamente, si potrà qui osservare che ogni termine psicologico significa uno stato di coscienza e insieme
un comportamento corrispondente. Si tratta di quello che, più sopra, abbiamo chiamato il comportamento
totale. Ma ciò non potrebbe giustificare l'esclusione dello psicologico. Infatti, da una parte, parecchi stati di
coscienza non implicano alcun comportamento osservabile. Dall'altra, se è vero che il termine psicologico ha
un duplice significato, ciò vuol dire apparentemente che non lo possiamo adeguatamente comprendere, se
non in relazione al suo duplice significato, somatico e psichico.
16
Di qui il motivo per cui si rende rigorosamente obbligatorio l'uso dei due metodi, oggettivo e soggettivo,
per cogliere in tutta la sua complessità e descrivere con la maggior esattezza possibile il fenomeno
psicologico. Il metodo soggettivo, da solo, non porterebbe a nulla di sicuro né di preciso. Il metodo
oggettivo, dal canto suo, non darebbe per sé che un sistema d'equazioni, in cui, non solo non ci sarebbero che
incognite, ma mancherebbero i termini essenziali, poiché il comportamento esterno è meno un aspetto o una
faccia del comportamento totale che una parte (e non la principale) di questo comportamento.

§ 4 - I processi introspettivi

27 - Dalla discussione precedente sappiamo che i processi introspettivi dovranno comportare delle
condizioni ristrettissime, se si vuol fare assegnamento sui loro risultati.

A. ANNOTAZIONI DEI FATTI

1. IL FATTORE TEMPO - Si ammette in generale che le osservazioni fatte su se stessi hanno maggiori
probabilità di essere esatte, in quanto l'annotazione è più vicina all'osservazione. Le annotazioni differite
appariranno sempre sospette, a causa del lavoro psicologico inconscio che deforma a poco a poco il ricordo,
come provano i molteplici esperimenti fatti in materia di sogno: uno stesso soggetto, a parecchi giorni
d'intervallo, riferisce lo stesso sogno in modo molto diverso. A maggior ragione, quando si tratta di stati
affettivi, all'insaputa del soggetto stesso, si elabora tutta una costruzione, mescolata con elementi
interpretativi, giustificativi.

2. NATURA DELLE ANNOTAZIONI - Il campo dell'introspezione, per principio, è illimitato. È piuttosto


ridotto, lo abbiamo visto, quando si vogliono conseguire seri risultati. Si possono distinguere due gruppi di
annotazioni:

a) Gli stati sostantivi. Abbiamo sottolineato il privilegio di questi stati, data la loro stabilità relativa,
ricordi, immagini, rappresentazioni. In realtà, questo campo è vastissimo e utilmente sfruttabile. Si può
apprendere molto ritornando sui concetti o complessi concettuali per analizzare gli elementi che sono in essi
naturalmente implicati e che il linguaggio traduce in termini generali. Tale procedimento si ravvicina al
metodo filosofico, ma è stato applicato con raro vigore dalla fenomenologia. La «riduzione eidetica» (o
considerazione esclusiva dell'essenza data in un fenomeno empirico e particolare) di Husserl è una bella
applicazione del metodo riflessivo, nel campo in cui ha maggior probabilità di dare solidi risultati.

b) I casi eccezionali. Interessa notare tutto quello che, nella nostra coscienza, sembra scostarsi dal tipo
ordinario e ci colpisce per l'aspetto di singolarità, d’insolito, d'inatteso: sogni bizzarri, illusioni di
percezione, immagini anormali. associazioni sorprendenti, ecc.

28 - 3. INTUIZIONE E DISCORSO - Mentre la critica del linguaggio come mezzo di trasmissione delle
esperienze psicologiche conduce la maggior parte degli psicologi contemporanei ad attribuire una sempre più
grande importanza al metodo oggettivo, questa stessa critica porta Bergson a stabilire la preminenza
dell'intuizione introspettiva sui metodi di analisi e di classificazione.

a) Il privilegio dell’intuizione. Secondo Bergson, il concetto, quale si esprime con il linguaggio, è volto
anzitutto alle necessità pratiche e, per conseguenza, non concerne mai che cose trattabili e misurabili. Esige
dei blocchi, delle stabilità. È dunque inadatto ad esprimere la vita dello spirito, che è movimento e durata,
qualità pura e continuità. Per cogliere la coscienza in quello che ha di proprio e d'originale, bisognerà dunque
ricorrere ad un altro mezzo d’osservazione, suscettibile di farci penetrare nell’intimità della vita psicologica
e farci, in qualche modo, coincidere con questa. Un tal mezzo proporzionato è l'intuizione.

Ma il processo intuitivo, come lo concepisce Bergson, comporta delle condizioni tendenti a conferirgli un
carattere di rigore scientifico. Non è un metodo facile quello che ci viene proposto. Bergson, infatti, vuole
che si parta dalla analisi del linguaggio, che dà una prima approssimazione, e che si tenga conto di tutte le
osservazioni psico-fisiologiche degli specialisti. La seconda tappa sarà sintetica e implicherà, non già quella
classificazione concettuale che rimane artificiale, ma uno sforzo d'intuizione e di simpatia che permetterà di
cogliere la realtà psicologica in quello che ha di essenzialmente originale. Finalmente, dovendo la scienza
essere comunicabile, bisognerà pur provare di dare una forma o un'espressione all'intuizione. Non è detto che
17
questa espressione sia concettuale. Ma l’intuizione può essere suggerita e guidata dall'analogia: purché
siano piuttosto numerose e svariate, delle metafore possono orientare la mente del pensatore a rivivere per
proprio conto l'intuizione originale che si cerca di suggerirgli. (Cfr. H. Bergson, Introduction à la
Métaphysique, «Revue de Métaphysique», gennaio, 1903, p. 7).

29 - b) Discussione. Le osservazioni di Bergson si basano su una filosofia del concetto di ispirazione


nominalistica (I, 43). S'impongono, in merito, i seguenti rilievi:
Anzitutto, le osservazioni bergsoniane tendono a confondere due piani diversi, quello dell’esperienza
concreta e quello della scienza. La psicologia, come tutte le scienze positive, parte dall'esperienza singola e
concreta, ma termina in sistema astratto (concetti e leggi), come le altre scienze. Non si tratta, dunque, di
comunicare o suggerire esperienze ineffabili, ma di ottenere risultati controllabili e universalizzabili.
L'astratto, qui come altrove, è la forma stessa del sapere scientifico. In secondo luogo, il privilegio concesso
all'intuizione concreta sembra molto discutibile. Senza dubbio, l'intuizione è, in sé, più sicura di ogni
argomento discorsivo: vedere vale più che concludere. Ma questo privilegio non appartiene veramente che
all'intuizione metafisica, mediante la quale noi percepiamo nell'essere le leggi universali dell'essere. Al
contrario, l'intuizione concreta è gravida di molta incertezza, per il fatto che gli oggetti da essa percepiti
formano dei blocchi che le rimangono generalmente oscuri: infallibile (fuorché in certi casi patologia)
quanto alla realtà esistenziale del proprio oggetto, l'intuizione concreta non riesce a discernere in maniera
precisa la natura e gli elementi dei complessi ch’essa coglie. È questo il motivo per cui la psicologia
sperimentale, esattamente come le altre scienze positive, prende come proprio oggetto dei rapporti (concetti
funzionali) anziché delle cose (165-167). Sotto questo aspetto, potremmo dire senza tema di paradosso che
il dolore, l'emozione, lo sforzo, il ricordo, l'abitudine, ecc., non interessano affatto lo psicologo. Questi
fenomeni per lui non esistono che sotto la condizione d'una determinazione dei loro fattori costitutivi e del
rapporto che li unisce fra loro. L'intuizione concreta non è evidentemente lo strumento appropriato di tale
determinazione. Il metodo preconizzato da Bergson non sembra, dunque, avere un valore scientifico.

30 - c) LA QUESTIONE CIRCA LA CONTINUITÀ COSCIENZIALE - Si osserverà, d'altra parte, che la


squalifica del concetto si basa su una ragione discutibilissima. Bergson (La perception du changement) vuole
che la coscienza sia essenzialmente una «continuità di decorso»: la distinzione fra stati psicologici unitari
non potrebbe esser data che dall'analisi astratta e concettuale, che scinde il corso continuo della coscienza e
trasforma la durata eterogenea in spazio omogeneo, il moto in cosa, mentre l'unità della coscienza dovrebbe
essere considerata come una lunga frase, punteggiata da virgole, sì, ma mai interrotta da un punto.
Tuttavia, questo modo di pensare è poco conforme all'esperienza, la quale prova che la continuità della
coscienza non è assoluta. Ci sono delle correnti evolventesi indipendentemente le une dalle altre e, in seno
ad una successione di stati psicologici, si producono talvolta brusche scissure. A ciò Bergson obietta ( Le
données immédiates de la conscience) che ogni mutamento nell'orientamento dell'io non è percepito che per
opposizione allo stato che precede (così un tuono che scoppia nel silenzio), il che implica continuità, in
questo senso che il nuovo stato è solidale con quello che l'ha preceduto. Ma ciò non sembra esatto. Molti
avvenimenti psicologici si succedono senza che vi sia tra essi legame alcuno, provengano essi sia da
decisioni, da rappresentazioni o da sentimenti mutualmente contrari (vi sono psicologie incoerenti e le più
coerenti non sono mai tali se non imperfettamente), sia da avvenimenti esterni che interrompono
improvvisamente il corso coscienziale senza contrastare positivamente con esso.
In realtà, l'affermazione bergsoniana della continuità fondamentale della coscienza si basa su un equivoco.
Dal fatto che gli stati di coscienza si susseguano nel tempo, gli uni dopo gli altri (continuità materiale),
Bergson conclude che si concatenino, si richiamino e si condizionino vicendevolmente (continuità formale).
Ora, si tratta di due cose ben diverse e non si può passare dalla prima, che è certa, alla seconda, che non è
sempre data.

B. I QUESTIONARI E I TESTS

31 - I metodi che ricorrono ai questionari e ai tests combinano l'aspetto soggettivo e l'aspetto oggettivo.
Tuttavia, si può ammettere che sia l'aspetto soggettivo a caratterizzarli meglio. Lo riconosceva Kulpe quando
definiva il suo metodo un'introspezione provocata (o indiretta).

1. I QUESTIONARI SCRITTI E ORALI


18
a) Forma dei questionari - Gli psicologi anglosassoni fanno largo appello ai questionari, destinati a mettere
in rilievo alcuni aspetti generali dell'esperienza psicologica. Il procedimento consiste nel formulare per
iscritto un certo numero di domande precise, che vertono su un campo limitato della vita psicologica e
richiamano delle risposte da fornirsi in determinate condizioni. Tale questionario stampato è rivolto a un gran
numero di soggetti, in modo da eliminare il più possibile, in virtù della legge della maggioranza, l'influenza
dei fattori personali (Metodo documentario).

Cfr. l'inchiesta condotta in Germania dal Dr. Buseman, concernente i fattori d'interesse nell'insegnamento.
Le domande rivolte agli studenti erano le seguenti: «Per quali materie l'insegnamento della Scuola superiore
di... ha a) aumentato, o b) diminuito il vostro interesse? Come spiegate questo risultato?». Si ebbero 114
risposte, tra quelle dei ragazzi e quelle delle ragazze, che permisero di compilare un quadro rispecchiante le
indicazioni generali circa l'interesse dimostrato dagli studenti per le varie questioni sollevate
dall'insegnamento e sulle cause di disinteresse nei riguardi di questa o quella materia. («Archiv fur gesamte
Psychologie», febbraio 1932, p. 235 sgg.).

Il questionario può essere fatto anche oralmente, nel qual caso prende comunemente il nome di test. Si
tratta di un procedimento che mira ad ottenere da parte di soggetti più o meno numerosi una risposta-
reazione ad uno stimolo normalmente poco complesso 10. Parecchi psicologi preferiscono il questionario
orale, perché sembra garantire una più perfetta spontaneità. La domanda scritta lascia un troppo grande
margine alla riflessione, che diventa facilmente una interpretazione e una costruzione. La psicologia del
comportamento si serve specialmente del questionario orale, che fornisce elementi grezzi, da trattarsi come
riflessi.

32 - b) Critica delle risposte. È evidente che le risposte ottenute non possono essere registrate senza
critica. Prima condizione è che l'inquirente abbia egli stesso una certa esperienza dei fenomeni sui quali
verte l'inchiesta: non che si tratti di stimare il valore delle risposte in funzione delle reazioni personali dello
psicologo; ma possiamo sperare di cogliere il senso delle risposte soltanto se siamo capaci di rappresentarci
l'esperienza ch'esse traducono. Il che vale anche quando si tratti di fatti patologici, non differendo questi dai
fatti normali che per certi caratteri accidentali.

D'altra parte, la critica


delle risposte implica un
lungo lavoro di
discussione delle
testimonianze, secondo i
metodi degli storici, di
confronto e
d'interpretazione.
Rarissime volte si potrà
tener conto di risposte,
nelle quali si manifestino,
nonostante le precauzioni
prese, dei fenomeni di
suggestione e di
autosuggestione più o
meno attivi. (Cfr.
Toulouse e Piéron,
Technique de
Psychologie expérimentale, 2a ed., Parigi, 1911).

Per quanto riguarda in modo particolare i tests, si può osservare (il che vale anche per il questionario
scritto), che sono semplicemente una risposta attuale a un caso singolare ed esattamente definito e che tale
risposta-reazione può non essere essa stessa che accidentale. «Una azione che è incorporata nell'organismo
totale della vita personale, scrive Stern (La Psychologie de la personnalité et la méthode des tests, «Journal

10 Cfr. H. Wallon, Principes de Psychologie appliquée, Parigi, 1930. p. 61-131.


19
de Psychologie», XXV, 1928, pp. 5-18), è cosa ben diversa dall'azione esteriormente identica, che è ottenuta
isolatamente, senza ragione d'essere. La prima, l'azione che ha le sue radici nella personalità, può attingere le
sue energie dalle più diverse regioni delle attitudini individuali e non soltanto dall'attitudine speciale, alla
quale, secondo una costruzione semplicista, si vuole subordinare quest'azione». D'altra parte, bisognerebbe si
potesse tener esattamente conto dell'interesse che il soggetto attribuisce al test, perché la reazione del
soggetto dipenderà in gran parte da tale interesse.

33 - 2. IL METODO DI RETROSPEZIONE - Questo metodo non si deve confondere con quello dei
questionari e dei tests, del quale è, non un perfezionamento, ma una forma del tutto singolare.

a) Il principio del ricordo immediato. Questo metodo è stato definito e praticato dagli psicologi della
Scuola di Wurzburg (Kulpe, Buhler) e, in Francia, da Alfred Binet (L'étude expérimentale de l'Intelligence,
Parigi, 1903). Questi psicologi hanno creduto che sarebbe stato possibile oggettivare in qualche modo le
attitudini e le attività mentali, rendendole osservabili mediante una «fissazione» della memoria. Sarebbero
così, per principio, corretti i difetti dell'introspezione. Partendo da questa idea, si stabiliscono delle
esperienze durante le quali l'attività che si vuole studiare segue il suo corso normale, senza alcuna
preoccupazione di osservazione. Poi ci si sforza di descrivere gli avvenimenti psichici che hanno avuto
luogo, mediante il ricordo immediato che se ne possiede.
È evidente la differenza dal metodo dei questionari ove si tratta di registrare, confrontare e criticare le
risposte, scritte o orali. Nel metodo di retrospezione, invece di attenersi alle risposte grezze o risultati, lo
psicologo tende a conoscere i fenomeni psichici che si producono nel soggetto durante la prova 11.

b) Inconvenienti di questo metodo. Il metodo di retrospezione accampa i seguenti vantaggi. Sorpassa il


«tutto fatto» psicologico e cerca di conseguire il «facentesi». Inoltre, è suscettibile di scoprire degli stati di
coscienza che non si manifestano attraverso alcun comportamento esterno percettibile. Si sottrarrebbe
dunque in parte alle obiezioni mosse alla psicologia della reazione e riunirebbe il duplice vantaggio della
reazione e dell'introspezione.
Questi vantaggi non sono soltanto teorici. Ma lo sono in gran parte. È chiaro, infatti, che le difficoltà e le
limitazioni di questo metodo sono insieme quelle dell'introspezione, con tutto ciò che di essenzialmente
soggettivo essa comporta, e quelle della memoria, la quale, anche se immediata, costituisce, all'insaputa del
soggetto stesso, un fattore di deformazione12.

§ 5 - I processi oggettivi

34 - Possiamo ridurre i processi oggettivi a tre gruppi principali: metodi comparativi, psicologia animale,
processi di laboratorio.

A. METODI COMPARATIVI.

Distinguiamo qui: patologia mentale, suggestione e psicanalisi, e ricerche sui «primitivi».


11 Cfr. Binet, Le bilan de la psychologie en 1908, «Année psychologique», 1909, p. 9: «Così, trattandosi di confrontare
due pesi, non è tanto la sicurezza, l'esattezza del confronto che si vuol sapere, quanto il modo in cui questo è stato
eseguito nel foro interno della persona. Trattandosi di associazioni d'idee, si raccolgono, sì, le parole associate che il
soggetto proferisce, ma si cerca specialmente il modo in cui le enuncia. O ancora, a proposito d'una domanda posta, si
vuol sapere di quali immagini il soggetto si è servito per ottenere la risposta. Questi sondaggi nell'intimo di una mente
che lavora, ci hanno già rivelato molto. In particolare è risultato che il classico inventario degli stati di coscienza è
molto incompleto. Le sensazioni e soprattutto le immagini hanno perduto un po' della loro importanza; d'altra parte, si è
avuta la rivelazione d'una moltitudine di stati di coscienza quasi indefinibili: coscienza di rapporti, sentimenti
intellettuali, atteggiamenti mentali, tendenze, ecc.».
12 Cfr. A. Michotte, Psychologie et Philosophie «Revue néoscolastique de Philosophie», maggio 1936, p. 212:
«Quando, una trentina d'anni fa, la Scuola di Wurzburg, sotto la spinta di Kulpe, cominciò a introdurre nella tecnica
filosofica un metodo d'introspezione sistematizzata, si nutriva la speranza di giungere a stabilire un accordo fra diversi
osservatori posti in condizioni simili. Questo tentativo, nonostante la sua ampiezza, è incorso in un fallimento [...]. I
soggetti hanno dato dei risultati introspettivi contraddittori. Certi fenomeni che alcuni di essi pretendevano scoprire e ai
quali attribuivano il valore di fatti d'esperienza immediata, erano puramente e semplicemente negati da altri, di
formazione scientifica equivalente. Per gli uni, si trattava di reali dati d'esperienza; per gli altri, d'interpretazioni di dati
ch'erano sfuggiti ai primi».
20

1. LA PATOLOGIA MENTALE - L'utilità che la psicopatologia può offrire allo psicologo consiste
essenzialmente in questo: nel permettergli di definire con maggior precisione i fenomeni psicologici normali.
In effetti, il fenomeno patologico in rapporto allo psichismo normale appare come «iper», «ipo» o «para»,
vale a dire come un ingrandimento, una diminuzione o una deviazione del fenomeno normale: quest'ultimo,
per il fatto stesso, si rivela, in seno al processo anormale, sotto una forma più nettamente osservabile e spesso
manifesta degli aspetti che sfuggono sovente all' osservazione, nel tenore ordinario e medio della vita
psicologica13.
La psicologia contemporanea deve molti dei suoi progressi allo studio della psicopatologia. Le nozioni
d'inconscio, quella di oscillazione del livello mentale, l'influenza delle immagini, delle emozioni e tendenze,
gli elementi complessi della memoria e del linguaggio, i fenomeni d'inibizione interna o d'indebolimento
delle funzioni d'inibizione e di controllo, gli effetti motori delle rappresentazioni, ecc., sono altrettanti
notevoli risultati di cui la psicologia è debitrice all'uso del metodo comparativo.

Tuttavia, i pareri non sono concordi circa il valore della psicopatologia per lo studio della psicologia
normale. Alcuni, come C. Blondel (cfr. Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, 10 voll., Parigi 1930 e sgg.,
t. IV, p. 364-369) sostengono persino che psicologia normale e psicopatologia non hanno assolutamente nulla
in comune e non possono rendersi alcun reciproco aiuto. Una simile opinione è poco sostenibile ed è di fatto
confutata dai progressi di cui la psicologia è debitrice verso la psicopatologia. In compenso, il parere di
Ribot, quale risulta dal testo sopracitato, sembra pure comportare qualche eccesso, che le osservazioni del
Dr. Achille Delmas (cfr. F. A. Delmas e M. Boll, La personnalité humaine, Parigi, 1922, p. 31 sg.) aiuteranno
a correggere. Il Dr. Delmas osserva, infatti, che si possono distinguere due categorie di malattie mentali, le
une con organicità (lesioni cerebrali) come le demenze causate da paralisi generale, da artrite cerebrale, ecc.,
le altre senza manifesta organicità (psicosi costituzionali, psiconevrosi). Fra queste ultime e la psicologia
normale, sembra non vi siano che differenze di grado, mentre vi sarebbe differenza di natura tra le psicologie
demenziali e la psicologia normale. «Ne consegue, concludono Delmas e Boll, che queste manifestazioni non
sono che molto difficilmente utilizzabili per l'analisi e l'interpretazione dei fatti psichici normali, che
rischiano di metter fuori strada e hanno indotto in errore quegli psicologi che le prendono per base; siamo
d'avviso che i disturbi che caratterizzano le psicosi costituzionali siano molto più vicini ai fatti psichici, più
paragonabili ad essi, e che, perciò, il loro studio offra maggiore utilità».

35 - 2. SUGGESTIONE E PSICANALISI - In psicologia si ricorre spesso alla suggestione, allo scopo di


manifestare degli stati psichici non riscontrabili allo stato normale. In tal modo si può indurre un soggetto ad
esternare dei desideri, delle tendenze, dei ricordi, delle immagini di cui ha comunemente solo una coscienza
assai confusa.
Questo procedimento è stato generalizzato e ridotto a sistema dal metodo di Freud, noto sotto il nome di
psicanalisi, o processo d'esplorazione dell'inconscio. Freud parte dall'idea che certi disordini psichici si
spiegano colla repressione di tendenze o di ricordi: questi elementi repressi turbano lo psichismo normale
senza che il soggetto abbia coscienza di questi complessi traumatici. Mediante un processo di associazioni
libere e con l'analisi dei lapsus e dei sogni, si tratterà di risalire a poco a poco dai dati coscienti alle sorgenti,
divenute inconsce, del disordine psichico, cioè di attuare la liberazione degli elementi traumatici e produrre
così la guarigione dei disturbi psichici. Tale processo, applicato prima da Breuer sotto il nome di catarsi, fu
ridotto a sistema da Freud per mezzo d'una tecnica molto complessa, che non è nostro compito di studiare
qui. Basterà notare che le ricerche di Freud, qualunque possa essere il giudizio complessivo sul metodo

13 Cfr. Th. Ribot, La méthode dans les sciences. Psychologie, p. 253: «La malattia è una sperimentazione del tipo più
raffinato, istituita dalla natura stessa, in circostanze ben determinate e con processi di cui l'arte umana non dispone: essa
raggiunge l'inaccessibile. D'altro lato, se la malattia non s'incaricasse di disorganizzare, per noi, il meccanismo dello
spirito e di farci in tal modo comprendere meglio il suo funzionamento normale, chi mai oserebbe rischiare delle
esperienze che la morale più volgare disapprova? Esisterebbe forse un uomo pronto a subirle e un altro a tentarle? [...].
Questo metodo trova abbondanti risorse nello studio delle malattie del cervello, delle nevrosi, delle varie forme di follia
e di altri fenomeni anormali e rari (sonnambulismo naturale e provocato, cambiamento e dissociazione della
personalità). Del resto, tutte le manifestazioni dell'attività mentale possono essere studiate sotto forma patologica. Le
percezioni conducono alle allucinazioni; la memoria ha le sue eclissi (amnesia), le sue eccitazioni (ipermnesie), le sue
illusioni (paramnesie). La forza della volontà può essere annientata (abulia), paralizzata dalle tendenze impulsive.
Nessuno ignora le anomalie dell'associazione delle idee nei dementi». La stessa opinione professano Baillarger
(Recherches sur les maladies mentales, Parigi, 1890) e Freud.
21
psicanalitico, sono riuscite nel modo più sicuro a mettere in luce la realtà d'un inconscio psichico e
l'ampiezza della sua influenza nel corso dell'attività psicologica.

Dalla Psicanalisi è nata, per reazione, la Caratterologia, con lo scopo di diventare un nuovo ramo della
Psicologia, anzi, per certuni, come Adler, Utitz e Kretschmer, di costituire una scienza autonoma, ordinata
allo studio delle differenze individuali. Così intesa, la Caratterologia mira a determinare i vari aspetti della
personalità, a precisarne il senso e a seguirne lo sviluppo nell'individuo concreto stesso. Allo studio delle
funzioni prese ad una ad una o delle leggi che regolano la vita psicologica di tutti gli uomini, la
Caratterologia oppone la necessità di studiare l'uomo nella sua organicità e la sua unità psichica. La
Tipologia, invece, si applica alla stesura del quadro generale in cui potrebbero venir distribuite le diverse
specie di individualità.

36 - 3. RICERCHE SUI «PRIMITIVI» - Abbiamo visto, in Logica (I, 229-230), che cosa si debba
intendere per «primitivi» e quali ambiguità comporti tale nozione. Tuttavia, tenuto conto delle riserve
annotate, si può ammettere che le ricerche concernenti la vita psicologica dei non inciviliti possono fornire
un utile contributo alla psicologia. È oggi ammesso che il primitivo non sia essenzialmente diverso
dall'incivilito e che rappresenti piuttosto uno stadio infantile della vita psicologica (I, 32). Per questo motivo
il suo comportamento mentale può permettere di cogliere le forme spontanee della vita psicologica, e
soprattutto di determinare i caratteri permanenti e universali delle diverse funzioni mentali,
indipendentemente dalle deformazioni accidentali determinate dall'ambiente, dal clima e dalle tradizioni.
Resta però da rilevare l'incertezza da cui sono affetti i risultati di queste ricerche, dovuta sia alle difficoltà
dell'osservazione, sia alla necessità d'una interpretazione che comporta grandi rischi d'arbitrarietà.
Quanto alla pretesa di fondare una psicologia genetica delle funzioni mentali sull'osservazione dei
«primitivi», sappiamo già (I, 235) che sarebbe un indulgere alla mitologia dell'elementare e fare del puro
romanzo psicologico.

B. LA PSICOLOGIA ANIMALE.

37 - Il ricorso alla psicologia animale si riallaccia pure al metodo comparativo, se si ammette non esservi
psicologia propriamente detta se non dell'uomo. Comunque sia, l'importanza del procedimento esige che se
ne parli a parte14.

1. I PROCESSI DELLA PSICOLOGIA ZOOLOGICA - Tali processi sono definiti e classificati con
chiarezza da Claparède nei suoi Appunti sui metodi della psicologia animale 15. Questi processi concernono
l'osservazione e la sperimentazione.

a) L'osservazione. Quanto all'osservazione, i Souvenirs entomologiques di Fabre sono un valido esempio di


quello che può fornire uno studio attento e metodico del comportamento istintivo dell'animale, osservato
nelle sue condizioni normali.

b) La sperimentazione. Comporta tre processi distinti: Il primo è il metodo delle reazioni naturali,
consistente nello stimolare artificialmente l'animale e nello studiare la sua reazione. Così Oxner ha messo in
luce la memoria visiva dei pesci per mezzo della seguente esperienza: dando loro ripetutamente del cibo
sulla punta d'una pinzetta, si può constatare come continuino ad urtare contro questa, anche qualora venga
loro presentata senza cibo. Il secondo processo è chiamato metodo delle reazioni acquisite: ce ne ha dato il
tipo Pavlov con le sue esperienze sui riflessi condizionati 16. A questo stesso metodo si riallacciano le
numerose esperienze di scelta riguardanti la memoria sensoriale quali le celebri esperienze di Lubbock sul

14 Cfr. P. Guillaume, La Psychologie animale, Parigi, 1940.


15 Resoconto del Congresso di Psicologia di Francoforte, 1908. - Cfr. Piéron, Méthodes de la psychologie zoologique,
«Revue philosophique», 1904.
16 Cfr. P. Pavlov, Les réflexes conditionnels, Parigi, 1927, p. 18, cfr. tr. it., Torino, 1950: «Associando una sostanza
alimentare ad una sostanza sgradevole o ad uno degli attributi di questa sostanza, carne intrisa d'un acido per esempio,
si osserva che, nonostante l'impulso del cane verso la carne, si ottiene una secrezione della parotide. Ora questa
glandola non secerne per la carne sola. C'è dunque reazione alla sostanza sgradevole. Inoltre, se, per la sua ripetizione,
l'influenza a distanza della sostanza sgradevole diventa insignificante, associando questa sostanza agli alimenti che
attirano l'animale, si ottiene sempre un rafforzamento della reazione».
22
suo cane Van, che s'abituò a scegliere tra più cartoncini di uguali dimensioni, e a riportare questo o quel
cartoncino, sul quale era stata scritta una determinata parola (cfr. Lubbock, Les sens et l'instinct chez les
animaux, Parigi, 1891, p. 256 sg.), e le esperienze di «esecuzione», nelle quali l'animale deve risolvere un
problema concreto:per esempio uno scimpanzé, rinchiuso in una gabbia, deve scoprire il significato pratico
di un'azione o di oggetti determinati, sia per ottenere la propria liberazione (manovra d'un chiavistello), sia
per impadronirsi di un'esca posta fuori della gabbia (uso d'un bastone per avvicinare l'esca) (Kohler).
Finalmente, il metodo di ammaestramento definisce l'insieme dei processi di sperimentazione in cui lo
stimolante resta indeterminato. Interessano qui maggiormente i risultati ottenuti che i processi usati. È questo
il campo degli «animali sapienti», nel quale tutto si riduce a creare, sia per coercizione, sia per l'attrattiva di
un'esca, questa o quella abitudine motrice nell'animale. Esempio: le esperienze di Miss Fielde sulla memoria
motrice della formica17.

38 - 2. VALORE DELLA PSICOLOGIA ANIMALE - Cercare il valore della psicologia animale equivale
a domandarci quanto valga il ragionamento per analogia, poiché è facendo il confronto colla psicologia
umana che noi descriviamo e definiamo il comportamento psichico degli animali. Il problema sta dunque nel
sapere se esista realmente una «psicologia animale».

a) Esiste uno psichismo animale? Alcuni lo negano (Bohn, Loeb), col pretesto che l'attività detta vitale si
riduca a reazioni delle sostanze attive dell'organismo alle azioni dell'ambiente esterno (Bohn, Nouvelle
psychologie animale, Parigi, 1911, p. 42). Per Bohn alla fine lo «psichismo» animale non è altro che un
insieme di tropismi elementari. Abbiamo visto, in Cosmologia (II, 122), che tali opinioni mancano di solido
fondamento. Negano la realtà d'uno psichismo animale con argomenti che varrebbero anche per lo psichismo
umano. Abbiamo già discusso (15) questa applicazione.
Pavlov potrebbe sembrare d'accordo con Bohn e Loeb. In realtà, si preoccupa spesso di evitare gli eccessi
di queste psicologie. Egli scrive infatti (Les réflexes conditionnels, op. cit., p. 104): «Vorrei, a questo
proposito, evitare ogni malinteso. Non nego la psicologia, in quanto conoscenza del mondo interiore
dell'uomo. Sono tutt'altro che incline a negare alcunché dei profondi impulsi dell'anima umana. Intendo
soltanto affermare e sostenere i diritti assoluti, incontestabili delle scienze naturali, in tutti i campi in cui
queste possano, con frutto, applicare i loro metodi». Un numero rilevante di behavioristi la pensano in tal
modo.

Altri psicologi (Piéron, Méthode de la psychologie, «Revue philosophique», 1904, p. 171 sg.), Claparéde,
(La psychologie comparée est-elle légitime?, «Archives de Psychologie», 1906, p. 14 sg.) pensano che la
questione dello psichismo o del non-psichismo animale non abbia alcuna importanza e che se ne possa fare
astrazione. Ma una simile opinione è poco logica: anzitutto, è difficile ammettere una psicologia senza
psichismo (13); inoltre, il metodo comparativo perde evidentemente molto del suo interesse, se l'analogia tra
l'animale e l'uomo resta problematica.

b) Le analogie fra l'animale e l'uomo. Converrebbe dunque ammettere l'analogia tra psichismo animale e
psichismo umano. Tale analogia trova il suo fondamento e sulla presenza, nell'animale, dei criteri
morfologici, anatomici e fisiologici dello psichismo (organi sensori, sistema nervoso, cervello e centri
sensori), e sul fatto delle rassomiglianze esistenti nel comportamento delle bestie e nell'attività sensibile
dell'uomo, rassomiglianze che permettono di stabilire una similitudine di princìpi (percezioni,
rappresentazioni, emozioni). Ma si tratta di analogia, non di identità. Se psichismo animale c'è, questo
psichismo deve essere definito in riferimento all'insieme delle operazioni dell'animale, il che vuole una
differenza essenziale tra l'intelligenza d'uno scimpanzé e quella dell'uomo.

C. METODI DI LABORATORIO.

39 - 1. NATURA - La prodigiosa estensione presa dai processi di misura nelle scienze naturali (I, 165)
non ha mancato di esercitare una considerevole influenza sulla psicologia. Parecchi psicologi si sono studiati
di fornire delle formule numeriche dei fenomeni psicologici. Un tale orientamento va comunemente sotto il

17 Cfr. Piéron, Évolution de la mémoire, Parigi, 1910, p. 154: «Questa formica ritorna esattamente sulla propria strada
seguendo esattamente la traccia del suo passaggio, che riconosce dall'odore lasciatovi; segue tale strada in tutti i suoi
meandri, e l'interruzione della traccia la disorienta; ma, dopo un certo numero di passaggi, questa interruzione non
influisce più; c'è un automatismo acquisito, un'abitudine, cioè un fenomeno di memoria muscolare».
23
nome di psicologia di laboratorio, benché l'espressione sembri piuttosto mal scelta, in quanto il laboratorio
non è esclusivamente destinato alla psicologia quantitativa. Il termine di psicofisica sembrerebbe più esatto
per designare tutto quell'aspetto per il quale la scienza psicologica s'avvicina il più possibile alle scienze
fisico-chimiche.

a) I due tipi di metodi di laboratorio. Seguendo il Claparéde (Méthodes psychologiques, in «Archives de


Psychologie», t. VII, p. 330 sg.), possiamo distinguere due gruppi di metodi di laboratorio: i metodi di
recezione, consistenti nel determinare il modo in cui si ricevono le impressioni; il metodo di reazione,
consistente nello studiare il genere, la forma e l'ampiezza delle reazioni del soggetto a una data impressione
(la reazione si fa notare da sé, sia per un giudizio del soggetto, sia per l'esecuzione d'un atto qualsiasi, sia per
un'espressione fisiologica o affettiva). Questi metodi possono essere qualitativi; i primi sono di semplici
descrizioni; i secondi riguardano la misura (psicometria).

b) I processi psicometrici. Secondo Claparéde, i processi della psicometria sono quattro: la Psicofisica, che
consiste nel misurare il grado dello stimolo, ricorrendo all'uno dei seguenti metodi: metodo delle minime
differenze percettibili, metodo dei medi errori, metodo dei casi veri e falsi, metodo delle medie gradazioni o
metodo di Plateau18; la Psicocronometria, consistente nel misurare la durata dei processi psichici 19; la
Psicodinamica, che misura il lavoro compiuto; e infine la Psicostatistica, che stabilisce delle medie.

40 - 2. VALORE ED ESTENSIONE DEI METODI DI LABORATORIO - L'uso della misura in psicologia


è del tutto legittimo. Ma conviene riconoscere i limiti piuttosto ristretti dei procedimenti quantitativi (I,
155). Anzitutto, la loro portata è di poca estensione: i fenomeni psicologici, in quanto tali, sono
essenzialmente qualitativi e, di conseguenza, refrattari alla misura. Le cifre che si possono ottenere coi
processi di laboratorio non hanno quindi che un valore simbolico o ordinale. Binet, stabilendo una scala
metrica dell'intelligenza, osserva giustamente che se l'età intellettuale del ragazzo di 11 anni si trova definita
dal numero 12 o 13, ciò significa semplicemente che quel ragazzo supera la media dei ragazzi della sua età,
numerata 10, e non che la sua intelligenza sia dodici o tredici volte eguale ad una quantità d'intelligenza
presa come unità.
D'altra parte, i procedimenti quantitativi non dànno, in psicologia, che una precisione illusoria, data la
complessità dei fenomeni sottomessi alla misura. Supponiamo, per esempio, che si misuri l'attenzione con i
processi che sono in uso a questo scopo. Questi processi implicano l'oscillazione quasi indistinguibile di due
variabili (potenza d'attenzione del soggetto, - sforzo volontario impiegato nelle diverse esperienze), che si
troveranno confuse in una stessa cifra globale.

Lo stesso ostacolo incontrano anche le statistiche, le quali non possono dare che del «globale»: il fatto
preso in esame risulta in realtà, regolarmente mescolato, in proporzioni molto variabili, a quantità di fattori
che fanno blocco con esso.

Parimenti, si può ancora notare che i voti degli esami vengono assegnati in base a due variabili conglobate,
che bisognerebbe tuttavia distinguere: il valore intellettuale e la resistenza fisica. Accade che un bel voto sia
più un attestato di salute che un segno di vigore intellettuale e di scienza.
È evidente, perciò, quanto a fortiori restino incerti e precari i risultati dei metodi psicofisici quando si tratti
di confrontare dei fenomeni diversi e stabilire la formula metrica dei loro rapporti. Si sono proposti vari
metodi per correggere l'incertezza di tali misure (calcolo delle correlazioni), nessuno dei quali tuttavia
permette d'ottenere dei grafici dotati della precisione e della sicurezza che si possiedono nel campo fisico.
Quindi, le formule metriche possono fornire sempre soltanto delle approssimazioni o dei simboli e la
psicofisica non può sperare di andare oltre il livello d'una scienza ausiliare della psicologia 20.

§ 6 - Le leggi psicologiche

A. IL DETERMINISMO PSICOLOGICO

18 Si fa uso qui di molti strumenti di misura, estesiometri, algesimetri, olfattometri, anemometri ecc.
19 Poiché i tempi considerati sono molto brevi (l'unità è 1/1000° di secondo) si usano strumenti speciali: cronografo di
Arsonval, cronoscopio di Wheatstone, ecc.
20 Cfr. Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, 10 voll., Parigi, 1930, I, p. 405 sgg. (Lalande).
24
41 - 1. I VARI DETERMINISMI - Sappiamo che la natura delle leggi dipende dalla natura dei vari
determinismi (I, 183), cioè, in ultima analisi, dalla natura degli enti. Ci sono dunque tante forme di
determinismo quante sono le specie di enti, e in ogni ente, a misura che si sale nella scala degli enti, dei
determinismi multipli, rispondenti alla complessità delle nature. L'uomo viene così ad essere il punto
d'incontro dei determinismi naturali, fisico-chimici e biologici. La questione sta nel sapere se si possa
ammettere la realtà d'un determinismo specificamente psicologico, che renda conto dei fatti e degli stati di
coscienza e si esprima sotto forma di leggi psicologiche, e se un tale determinismo sia conciliabile con quello
che l'esperienza ci rivela della natura dell'uomo.

2. IL PRIMATO DEL TUTTO - Incontriamo qui, come nel campo della vita (II, 121), varie dottrine che
tendono a ridurre il determinismo psicologico al determinismo fisico.
a) Decadenza dell'associazionismo. Le dottrine che vogliono questa assimilazione coincidono sensibilmente
con quelle che vengono chiamate associazioniste e che sono per lo più materialiste. Consistono
essenzialmente nel sostenere una specie d'atomismo psicologico, vale a dire una concezione della coscienza
tale per cui questa possa spiegarsi tutta partendo da fatti elementari e semplici, da atomi psichici, le cui
diverse combinazioni, governate da leggi assolute, darebbero tutta la realtà psicologica. Condillac ha tentato
d'illustrare questa dottrina con l'esempio della statua che viene svegliata alla vita psicologica da una
sensazione semplice (odore di rosa) e che, a poco a poco, acquista uno dopo l'altro l'uso dei vari sensi e, col
confronto e la riflessione, l'insieme delle nozioni e delle funzioni psicologiche. «Tutte le operazioni dello
spirito non sono dunque che delle sensazioni trasformate». Questo concetto, sotto forme diverse, si ritrova in
Locke e Hume, in Mill e Taine (associazionismo) e da ultimo in Spencer (evoluzionismo), il quale riduce la
sensazione, o elemento semplice, a un puro «choc nervoso», riducibile a sua volta ad un fenomeno
meccanico. La «chimica mentale» immaginata dall'atomismo psicologico, diventa dunque una «fisica
mentale» e finalmente una fisica pura e semplice 21.

42 - b) La teoria della forma. Notiamo qui che se il meccanicismo puro è già inintelligibile nell'ordine
fisico-chimico (I, 187), a maggior ragione sarà tale nel campo della vita e in quello della coscienza. Tutta la
psicologia contemporanea, rifiutando l'associazionismo, mostra l'impossibilità di raggiungere la spiegazione
psicologica seguendo il meccanicismo puro. I teorici della Gestalt o Psicologia della Forma (Kohler, Koffka)
hanno particolarmente insistito su questo punto 22, sforzandosi di mettere in evidenza il primato del tutto sugli
elementi, mentre l'associazionismo professa il primato dell'elemento. La coscienza non è un mosaico; gli
«elementi» che l'analisi prende come oggetto (sensazioni, sentimenti, immagini, volizioni, ecc.) non sono
atomi esistenti isolatamente, ma aspetti vari di un tutto psicologico, che possiede proprietà originali rispetto a
quelle delle parti in cui esso è scomponibile, e che solo «esiste» veramente. Dunque bisognerà studiarli e
definirli sempre in funzione di questo tutto. In questa teoria si riconosce facilmente l'appello al principio di
finalità: la parte non può essere compresa che per mezzo del tutto, - il che equivale a dire che il
determinismo psicologico. dovrà essere inteso come un determinismo finalistico. Sappiamo gia che ogni
determinismo, anche nel mondo inorganico, è intelligibile solo mediante la finalità. Ma le scienze fisico-
chimiche possono e devono fare astrazione da questa finalità. Qui, invece, a molto maggior ragione che nel
campo puramente biologico (I, 191), è rigorosamente impossibile mettere tra parentesi la finalità, poiché la
mira costante dello psicologo sarà di spiegare i fatti psicologici per mezzo delle funzioni e queste mediante il
dinamismo totale della vita psichica.

Certi psicologi propongono, sotto il nome di teoria della Ganzheit (totalità), una concezione che spinge ai
suoi limiti estremi la teoria della Gestalt, sostenendo che la sensazione non è affatto un'operazione distinta,

21 Cfr. Taine, De l'Intelligence, Parigi, 1870, 2a parte, l. IV, c. IlI: «Costituite da gruppi di sensazioni elementari, le
sensazioni totali si ripetono mediante le loro immagini. Queste immagini, avendo la proprietà di risorgere
spontaneamente, si associano e si evocano reciprocamente secondo la loro maggiore o minore tendenza a rinascere, e
formano così dei gruppi. Questi gruppi più o meno complessi, legati alle sensazioni e gli uni agli altri, costituiscono,
secondo la specie e il grado della loro affinità o del loro antagonismo, percezioni esteriori, ricordi, previsioni, concetti
semplici, atti di coscienza propriamente detti. Finalmente i segni che li riassumono e li sostituiscono formano idee
generali e quindi giudizi generali. Questi sono i materiali del nostro spirito, e tale è il modo in cui si conciliano.
Parimenti, in una cattedrale, gli ultimi elementi sono granelli di sabbia o di selce conglomerati in pietre di diverse
forme; unite a due a due, o più, queste pietre formano delle masse le cui spinte si equilibrano, e tutte queste
associazioni, tutte queste pressioni si ordinano in una vasta armonia».
22 Cfr. P. Guillaume, La Psychologie de la Forme, Parigi, 1937, p. 21 sgg.
25
ma una pura astrazione arbitraria, il che porterebbe, partendo da un'idea giusta, a negare la legittimità e
persino la possibilità di un'analisi dei complessi psicologici. Ora, l'idea. del tutto, non soltanto non esclude,
ma implica necessariamente quella di elementi distinti (che non sono perciò da intendere come elementi
indipendenti e autonomi).

43 - 3. IL DINAMISMO PSICOLOGICO - Per il fatto stesso che appare come un determinismo


finalistico, il determinismo psicologico è un dinamismo. L'opinione della psicologia atomistica e
associazionistica del XVIII e del XIX secolo era una opinione statica, cioè implicante l'inerzia degli elementi
e interamente assorbita dalla considerazione dei prodotti dell'attività psicologica, senza la minima
sollecitudine di studiare le cause e la natura di questa attività. Nulla spiegava, infatti, il ricorso
dell'«associazione», se l'associazione e le sue diverse forme hanno anch'esse bisogno d'una spiegazione. La
psicologia dovrà dunque essere dinamica e biologica, vale a dire dovrà attendere a studiare i fenomeni
psicologici nelle loro relazioni con l'insieme del contesto psicologico, in altri termini con i bisogni e i fini
dell'individuo23.
Mc Dougall ha molto insistito su questo punto, mostrando come siano legati dinamismo psicologico e
finalistico. Per il fatto stesso che la psicologia riconosce il fondo della natura come costituito dalle tendenze
e dagli impulsi, bisogna ammettere che tale natura implichi necessariamente dei termini di queste tendenze;
ciò costituisce la formula d'una concezione finalistica della vita psichica. Psicologia ormica (όρμή = impulso,
tendenza) e psicologia finalistica sono quindi rigorosamente sinonimi e la finalità è un fatto così come il
dinamismo psicologico (Cfr. An Introduction to social Psychology, Londra, 1928, p. 408).

4. IL FINALISMO PSICOLOGICO - L'aspetto funzionale e dinamico ha incontrato qualche difficoltà


nell'ottenere il riconoscimento, a causa del finalismo ch'esso implica, poiché il finalismo è spesso considerato
come una specie di «misticismo» antiscientifico. È difficile immaginare tuttavia opinione più inesatta. Una
psicologia completa deve fare appello e alle cause efficienti (al funzionamento meccanico degli organi e dei
fenomeni) e alle finalità, vale a dire alle funzioni e ai bisogni. È ben vero che alcuni funzionalisti (come,
talvolta, Claparède) parvero trascurare troppo lo studio delle strutture, ma ciò nulla toglie a quanto di giusto
v'è nella teoria funzionale, che W. James ha messo così bene in evidenza. In realtà, questa teoria non esclude
né può escludere le spiegazioni meccaniciste o strutturali e non si oppone alle altre psicologie: completa
quanto esse forniscono e conferisce un senso ai fatti e alle leggi statiche ch'esse possono scoprire.

44 - 5. DETERMINISMO E LIBERTÀ - Al determinismo psicologico è stata talvolta opposta la libertà


umana, come se determinismo e libertà fossero incompatibili. Molti equivoci, a questo proposito, occorre
chiarire. Anzitutto, l'obiezione si ispira evidentemente alla concezione cartesiana, secondo la quale tutto
quello che è coscienza si riduce al pensiero ed esclude ogni specie di determinismo. Ma se lo psichismo si
esercita per mezzo di organi, perché mai questi non dovrebbero avere il loro proprio determinismo? Inoltre,
il determinismo esclude la libertà non più di quanto la libertà escluda un certo determinismo, cioè la
nozione di un ordine di successione dei fenomeni psicologici, tale per cui ogni fenomeno viene spiegato da
un antecedente, come un effetto da una causa, o almeno da una condizione necessaria e sufficiente. Costituirà
l'oggetto di una ricerca propriamente filosofica il definire in modo più completo la nozione di questo
determinismo razionale, che utilizzi ai suoi scopi i molteplici determinismi del composto umano e assicuri la
libertà della volontà. Fin d'ora però è sufficiente notare, da una parte, che ogni dichiarazione
d'incompatibilità fra determinismo e libertà deriverebbe soltanto dal pregiudizio filosofico che ammette
soltanto un tipo di determinazione, vale a dire del meccanismo, e dall'altra, che la psicologia sperimentale, la
quale, come ogni altra scienza (I, 123) tende al generale e all'astratto, può mettere tra parentesi, non la
libertà come fatto psicologico, ma la funzione della libertà nell'attività psicologica.

B. I DUE TIPI DI LEGGI PSICOLOGICHE

45 - La precedente discussione ci porta quindi alla conclusione dell'esistenza, in psicologia, di due grandi
specie di leggi: le leggi di struttura e le leggi funzionali.

1. LE LEGGI DI STRUTTURA - Queste leggi rispondono al meccanismo psicologico. Esse tendono a


definire il come dei diversi comportamenti umani, cioè ad analizzare i vari elementi che entrano in ballo nei
fenomeni psicologici, e a determinare le loro relazioni reciproche. Specialmente la psicologia di laboratorio

23 Cfr. Claparéde, La psychologie fonctionnelle, «Revue philosophique», 1933, p. 5-17.


26
tende a restringersi alla determinazione di questo genere di leggi. Ma è anche certo che non potrà in tal modo
ottenere una perfetta intelligibilità della vita psicologica.

46 - 2. LEGGI FUNZIONALI - Dire che l'attività psicologica si spiega veramente soltanto con la finalità,
ciò equivale a dire che, sullo stesso piano sperimentale, l'intelligibilità non sarà ottenuta che col ricorso alle
leggi funzionali. W. James si è studiato di mettere in evidenza tale concetto contro l'atomismo
associazionistico e ha formulato alcune di queste leggi funzionali. Siccome tali leggi dominano l'insieme
della psicologia, le enumereremo subito, seguendo il quadro compilato dal Claparède in base ai lavori di
James («Revue philosopique», 1933, p. 10-17).

a) Legge del bisogno o dell'interesse. «Ogni bisogno tende a provocare le reazioni capaci di soddisfarlo» 24.
La difficoltà che questa legge potrebbe incontrare è che l'idea dello stimolo non interviene nella sua
formulazione, il che sembra escludere l'aspetto strutturale. Ma in realtà, è chiaro che è del tutto impossibile
trascurare lo stimolo, essendo proprio lui a provocare la reazione. Soltanto, bisogna pur notare che ogni
agente fisico non è uno «stimolo», ma lo è unicamente quello che «stimola» effettivamente, cioè quello che
corrisponde a un bisogno o ad un interesse, attuale o latente. Un quadro di Rembrandt commuoverà un artista
e lascerà indifferente un contadino. La stessa ingiuria scatenerà le ire di una persona e non farà alcuna
impressione su di un'altra, ecc. Ora, mancando un aspetto funzionale, lo stimolo potrà definirsi soltanto in se
stesso e non in funzione del soggetto, il che è del tutto insufficiente, poiché siamo in tal modo incapaci di
spiegare come mai lo stesso «stimolo» talvolta stimoli e talvolta no. Il fattore principale della spiegazione
sarà dunque il bisogno o l'interesse del soggetto, perché è appunto il bisogno a sensibilizzare l'organismo,
secondo l'espressione di Claparède, nei confronti dello stimolo.
Ciò non implica che lo stimolo non abbia mai una funzione propria e autonoma. Così sappiamo che una
gallina mangia di più quando le vien dato un grosso mucchio di chicchi che non quando la stessa quantità di
chicchi le venga somministrata in parecchi piccoli mucchi. Ma questo non cambia nulla al valore
fondamentale della legge del bisogno.

47 - b) Legge dell'estensione della vita mentale. «Lo sviluppo della vita mentale è proporzionale allo
scarto esistente tra i bisogni e i mezzi per soddisfarli». Quando lo scarto è nullo, come avviene nei casi in cui
l'organismo trova alla sua portata tutti i mezzi per soddisfare il bisogno (l'aria necessaria alla respirazione),
l'attività mentale è nulla. Al contrario, quando lo scarto diventa considerevole, l'attività mentale compie
grandi sforzi per inventare i mezzi atti ad appagare i bisogni. È da un'applicazione di questa legge che
procedono le anticipazioni di Cournot 25 sul ristagno mentale e morale di un'umanità che il funzionamento
delle varie tecniche ha ricolmata di benessere.

c) Legge di presa di coscienza. «L'individuo prende coscienza d'un processo (d'una relazione, d'un oggetto)
tanto più tardi, quanto più presto la sua condotta ha implicato l'uso automatico, incosciente di tale processo».
È il caso d'un ragazzo incapace di definire una parola da lui esattamente conosciuta, della cui definizione egli
si è valso praticamente prima di prenderne coscienza.

d) Legge d'anticipazione. «Ogni bisogno che, per sua natura, rischia di non poter essere immediatamente
soddisfatto, si fa sentire prima». Questa legge permette di spiegare molteplici fatti della vita psicologica.
Nella sua forma più elementare, essa è d'esperienza corrente: è noto infatti che la fame, per esempio, si fa
sentire molto prima del momento in cui si potrebbe temere di morire di fame. Simile margine permette
appunto all' individuo di non esser preso alla sprovvista.
Sarebbe forse possibile spiegare con questa legge diversi fatti di premonizione durante il sonno, messi in
luce da Freud. Così alcuni individui sono avvertiti in sogno di un pericolo che li sovrasta o di una malattia di
cui, allo stato di veglia, non hanno il minimo sospetto. L'avvertimento verrebbe dall'organismo e si farebbe
notare dal soggetto durante il sonno, data l'assenza degli interessi che dominano la vita psicologica vigile e
che respingono i reclami organici, quando questi non prendono una forma violenta.

e) Legge dell'interesse momentaneo. «Ad ogni istante, un organismo segue la regola del suo maggior
interesse», cioè primeggia fra tutti il bisogno più urgente. Per esempio, una vespa, intenta a mangiare delle
briciole sulla tavola, cessa di mangiare non appena è rinchiusa in un bicchiere capovolto su di essa: il

24 Bisogno e interesse sono legati. L'interesse per una cosa risulta dal bisogno della cosa stessa.
25 Cfr. Ruyer, L'humanité de l'avenir d'après Cournot, Parigi, 1930.
27
bisogno della libertà reprime quello del cibo. Claparède (Esquisse d'une théorie biologique du sommeil in
«Archives de Psychologie», 1905) ha tentato di spiegare il sonno con questa legge e di riallacciarlo così alla
vita mentale, senza escludere, beninteso, il suo meccanismo biologico.

f) Legge del minimo sforzo. «Un animale tende a soddisfare un bisogno seguendo la norma della minima
resistenza».

C. VALORE DELLE LEGGI PSICOLOGICHE

48 - Le leggi psicologiche, siano esse strutturali o funzionali, non potranno mai sperare d'ottenere la
precisione delle leggi fisico-chimiche, - la quale, del resto, rimane approssimativa (I, 178).

1. LA PARTE DEI FATTORI DI CONTINGENZA - Anzitutto, quand'anche si mettano fra parentesi i


fattori di contingenza che agiscono negli individui (libertà, particolarità di carattere, estrema complessità dei
fatti psicologici concreti), tali fattori esistono pur sempre ed escludono che le leggi psicologiche siano altra
cosa che delle leggi di medie.

2. INCERTEZZA DEI RISULTATI METRICI - Inoltre, essendo di natura qualitativa, i fatti psicologici
sono in sé refrattari alla misura. È senza dubbio possibile misurare certe condizioni o certi effetti fisiologici.
Ma non si ignora quanto siano limitate le possibilità di questi metodi e quanto incerti i risultati metrici che si
ottengono. La matematizzazione dello psichico non è dunque semplicemente un'ipotesi chimerica; è una
pretesa assurda26.
Infatti, questo pretendere al rigore fisico-chimico deriva da un errore fondamentale sulla natura del dato
psicologico e insieme sulla natura delle leggi. In realtà, le leggi psicologiche, nella loro stessa
«imprecisione», sono autenticamente delle leggi, in quanto esse definiscono dei rapporti costanti tra
antecedenti e conseguenti determinati. Quanto al fatto che queste relazioni non si traducono in formule
metriche, ciò è normale, anzi necessario, poiché tali relazioni non appartengono ad un campo soggetto a
misure. Queste leggi, così come sono, nella loro stessa «imprecisione», hanno quindi tutta la precisione e
l'esattezza che loro conviene. In altri termini - il che è di un'evidenza tale che non ci sarebbe bisogno di
sottolinearlo - la loro precisione è psicologica e non fisica.

§ 7 - L'ipotesi

49 – 1. LA NECESSITÀ DELL'IPOTESI - Abbiamo già fatto osservare (20) che le leggi psicologiche, per
organizzarsi intelligibilmente, hanno bisogno d'inserirsi in un quadro generale. Altrimenti, formerebbero una
molteplicità sprovvista d'ogni legame interno. L'ipotesi è dunque necessaria in psicologia, non soltanto,
come accade in tutte le scienze induttive, a titolo d'anticipazione delle leggi particolari (I, 168), ma anche
come principio d'unificazione e d'intelligibilità, allo stesso modo che si rendono necessarie le teorie nelle
scienze fisico-chimiche (I, 179). Infatti, tutte le psicologie, esplicitamente o implicitamente, si organizzano
attorno ad un'ipotesi di questo genere, ma spesso coll'inconveniente che le ipotesi iniziali - materialismo,
spiritualismo, empirismo, razionalismo, ecc. - sono troppo generali e troppo vaste, o, se vogliamo, troppo
lontane dai fatti psicologici. Abbiamo bisogno d'un quadro, ma questo dovrebbe essere in qualche modo già
suggerito dalla realtà sperimentale immediata.

Su questo punto, Mc Dougall fa delle giuste osservazioni (An Outline of Psychology, Nuova York, 1923, p.
10-11). Egli osserva che la semplice classificazione dei fatti implica già una teoria o ipotesi: effettivamente
non si possono classificare i fatti che sulla base di nozioni generali e astratte (classi o specie). Ma, inoltre,
bisogna ammettere la legittimità e persino la necessità di ipotesi esplicative. L'orrore di tali ipotesi, s'affretta
a dichiarare Mc Dougall, non è che «mere ignorance and pedantry». Poiché nella descrizione dei fatti sono
necessariamente implicate delle ipotesi. «Descrivere e spiegare non sono processi realmente distinti».
L'essenziale sarà soltanto distinguere ciò che è dato sperimentale da ciò che è ipotesi ed essere sempre pronti
a modificare od abbandonare l'ipotesi esplicativa. A queste condizioni, l'ipotesi aiuta la scoperta, semplifica
la descrizione e facilita l'intelligibilità.

26 Cfr. le osservazioni di Husserl in: Ideen zu einer reinen Phanomenologie und phanomenologischen Philosophie, I,
Halle, 1913; Idées directrices pour une Phénoménologie (trad. Ricoeur) Parigi, 1950, t. I, p. 235-239; cfr. tr. it., Torino,
1950.
28

2. IL DUALISMO PSICOLOGICO - Abbiamo fatto notare (41-43) che l'esperienza psicologica s'impone
a noi in modo evidente sotto la forma d'una totalità e d'un dinamismo. Tali aspetti della realtà psicologica non
sono costruzioni dello spirito, ma dati che si ritrovano in ogni grado della vita psicologica. Possiamo dunque
partire di qui con tutta sicurezza, tentando di precisare maggiormente la natura di questo dinamismo interno.
Otteniamo la precisione richiesta senza abbandonare il campo dell'esperienza. Infatti, la più comune e
corrente esperienza ci insegna, innanzi tutto, che l'attività psicologica si trova costantemente legata a fatti di
conoscenza e persino comandata da questi fatti, - in secondo luogo che, essendo i fatti di conoscenza d'ordine
sensibile e concreto (percezioni, immagini) e insieme d'ordine intellettuale e astratto (idee, giudizi), due
specie di attività rispondono a questa dualità conoscitiva, un'attività sensibile, che verte sul reale sensibile,
un'attività intellettuale, che verte su oggetti immateriali e astratti.

50 - 3. IL SOGGETTO PSICOLOGICO - Fin qui non abbiamo abbandonato il terreno dei fatti, quali sono
messi in evidenza dalla divisione che tutti i trattati di psicologia propongono in rapporto al dato psicologico,
in fatti di rappresentazione, - e in fenomeni di tendenza e d'attività (istinto, volontà).
Da questo punto in poi, dobbiamo formulare un'ipotesi, suggeritaci del resto dai fatti precedenti. Il
dinamismo psicologico esige, in effetti, che lo riconduciamo a due sorgenti o due princìpi distinti, poiché
questo dinamismo riveste due forme tra loro distinte e irriducibili, - e insieme che gli troviamo, sotto questi
due aspetti, un unico comune soggetto, poiché queste due attività agiscono e reagiscono costantemente l'una
sull'altra e concorrono, in realtà, gli stessi oggetti, ma considerati sotto aspetti distinti. La stessa diversità
delle funzioni, con la loro attività contrastata e coordinata, implica la profonda unità del soggetto.
Ma qual è questo soggetto? Non dobbiamo per ora parteggiare per alcuna delle soluzioni della psicologia
filosofica. Queste soluzioni potranno giustificarsi solo in virtù dell'insieme della psicologia. Noi cerchiamo
soltanto un «soggetto empirico» e non un «soggetto metafisico». Ora, su questo punto, troviamo una
soluzione semplicissima e plausibilissima nel concetto spontaneo del senso comune, il quale invoca come
principio unico delle diverse attività psichiche l’«anima», cioè il principio immateriale, che si trova così
supposto nello stesso tempo uno e formalmente diverso (funzioni dello spirito, funzioni della vita vegetativa
e sensibile). Possiamo adottare questo concetto senza includervi un senso metafisico, ma a titolo d'ipotesi
suggerita dall'esperienza immediata e con questo significato, che il complesso della vita psicologica è retto
da due princìpi distinti, di cui uno, che verte sul reale sensibile, è orientato dall'altro principio, che verte
sull'aspetto astratto e immateriale delle cose 27.
Tale è l'ipotesi che ci fornirà il quadro d'insieme delle leggi psicologiche, strutturali e funzionali, ma che
s'imporrà come definitivamente valida solamente nella misura in cui le leggi vi si integreranno facilmente e
armoniosamente. Toccherà poi alla psicologia detta razionale dare un senso propriamente filosofico a questa
ipotesi iniziale, giustificarla dal punto di vista dell'essere intelligibile (I, 11).

Art. III - Divisione della psicologia


51 - Le suddivisioni della psicologia ci sono date dall'ipotesi generale componente il quadro del nostro
studio. Quindi, dopo aver esaminato le condizioni fisiologiche (sistema nervoso) e la forma generale
(abitudine) della vita psicologica, dovremo successivamente trattare della vita sensibile e della vita
intellettuale, e, in ognuna di queste parti, dei fatti di conoscenza e dei fatti di tendenza o d'attività. La
determinazione dei fenomeni e delle leggi empiriche di questi due ordini di fatti ci fornirà gli elementi
necessari allo studio del soggetto psicologico, prima come soggetto empirico, poi come soggetto metafisico:
quest'ultimo studio costituisce appunto ciò che si è convenuto di chiamare la psicologia razionale. Avremo
dunque il seguente quadro d'insieme della Psicologia:

27 Cfr. J. De La Vaissière, Eléments de psychologie expérimentale, 2 voll., Parigi, 1912, II, p. 145 sgg.; cfr. tr. it.,
Roma, 1921.
29
30

CAPITOLO SECONDO

LE CONDIZIONI FISIOLOGICHE GENERALI DELLA VITA PSICOLOGICA

SOMMARIO28

Art. I - IL TESSUTO NERVOSO. Morfologia nervosa - Gli elementi Legamento dei neuroni - Proprietà dei
neuroni e delle fibre nervose - Conduttività - Metabolismo - Eccitabilità - Il riflesso - Nozione -
Riflessi assoluti e riflessi acquisiti - Il determinismo - La sinergia vitale.

Art. II - IL SISTEMA NERVOSO. Percorso della sensibilità - Percorso di partenza e di conduzione - Il


problema delle localizzazioni - Sistema frenologico di Gall - Sistema di Broca e di Charcot - Stato
attuale delle ricerche - La telecenfalizzazione - Struttura e funzione - Le localizzazioni delle funzioni
superiori.

52 - L'osservazione più elementare rivela che la vita psicologica, in tutta la sua estensione, è
condizionata da organi più o meno complessi. Il fanciullo si rende rapidamente conto che le sue percezioni
d'oggetti dipendono dal funzionamento dei suoi organi: il vedere dipende dall'apertura o dall'occlusione delle
palpebre, la sensazione della resistenza e del calore, dal toccamento del corpo o di oggetti esterni, la
sensazione di scottatura dal contatto di un organo col fuoco, ecc. Esperienze più complesse ci insegnano che
gli stati affettivi sono legati a certi stati somatici; l'emozione accelera il movimento del cuore, la paura
paralizza le membra, il piacere crea uno stato generale d'euforia; certe medicine o veleni eccitano od
attenuano la memoria, ecc. Le ricerche scientifiche dimostrano inoltre che le secrezioni interne (glandole
endocrine) hanno degli effetti più o meno estesi sulle funzioni psichiche, e soprattutto che l'intera vita
psicologica si trova in strettissima dipendenza dal sistema nervoso. Lo studio della psicologia implica
dunque, per essere completo, la conoscenza esatta, per quanto possibile, delle condizioni fisiologiche
generali della sua attività, cioè delle funzioni del sistema nervoso.

Art. I - Il tessuto nervoso


53 - L'intero organismo vivente si trova normalmente sotto la influenza dell'azione nervosa. Di qui
l'importanza della descrizione del tessuto nervoso e delle sue proprietà 29.

§ 1 - Morfologia nervosa

l. GLI ELEMENTI - Si distinguono i centri nervosi (cervello, bulbo, midollo) e i nervi. Sul decorso di
questi ultimi esistono dei rigonfiamenti ganglionari. Centri nervosi e nervi si compongono di due elementi
anatomici, cellule nervose (che formano la sostanza grigia dei centri e dei gangli) e le fibre nervose (che
formano la sostanza bianca dei centri e i nervi). In realtà, questi due elementi si riducono alla cellula nervosa,
poiché le fibre ne sono semplici ramificazioni.

2. IL NEURONE - La cellula nervosa è un corpo multipolare con un grosso nucleo chiaro, privo di
membrana distinta, che presenta alla periferia numerose arborescenze protoplasmatiche (dendriti), e un

28 Cfr. J. Lefèvre, Manuel critique de biologie, Parigi, 1938 – J. Lhermitte, Les mécanismes du cerveau, Parigi, 1937. -
Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, tomo I, Parigi, 1930 - Pavlov, Les réflexes conditionnels, trad, fr., Parigi, 1927,
trad. it., Torino, 1950 - L. Lapicque, L'excitabilité en fonction du temps; la chronaxie, sa signification et sa mesure,
Parigi, 1926 - La machine nerveuse, Parigi, 1942 - R. Collin, L'organisation nerveuse, Parigi, 1944 - M. Minkowski,
L'état actuel de l'étude des réflexes, trad. fr., Parigi, 1927 - H. Bergson, Matière et Mémoire, Parigi, 1896 - Piéron, Le
cerveau et la pensée, Parigi, 1923 P. Chauchard, L'influxe nerveux et la Psychologie, Parigi, 1949 - Goldstein, La
structure de l'organisme, Parigi, 1951.
29 J. Lefèvre, Manuel critique de biologie, p. 307 sgg.
31
prolungamento perpendicolare in superficie (cilindrasse o axone), terminante anch'esso in filamenti
arborescenti. Tale insieme si chiama neurone.

3. LEGAMENTO DEI NEURONI

54 - a) Il sistema sinaptico. Il neurone, nella sua complessità anatomica, costituisce un sistema molto
differenziato, la cui funzione è di ricevere, attraverso le sue dendriti, l'eccitazione fisiologica e di
trasmetterla attraverso il suo cilindrasse e determinare in tal modo le reazioni necessarie alla vita. La
trasmissione dell'eccitazione nel neurone avviene per mezzo delle fibrille periferiche penetrando nella cellula
e passando nel cilindrasse. Da un neurone all'altro, la trasmissione dell'eccitazione presenta un problema
ancora oscuro. Diverse teorie spiegano questa trasmissione con la continuità delle fibre o delle fibrille, ma
ciò solleva parecchie difficoltà, di cui la principale è che queste ipotesi urtano contro quella legge citologica
certissima, secondo la quale gli elementi nervosi conservano, come tutti gli altri elementi, la loro propria
individualità cellulare. Sulla base delle esperienze di Ramon y Cajal, sembrerebbe piuttosto che il sistema
nervoso sia composto di neuroni distinti indipendenti, legati fra di loro, non per continuità, ma per contiguità,
cioè per un giuoco d'articolazioni chiamate sinapsi. In effetti, le articolazioni, attuate dalle arborescenze
terminali dei neuroni, sembrano modificabili, in considerazione dei modi variabili in cui s'intrecciano tali
arborescenze30.

b) Indifferenza funzionale
dei neuroni. Importa ora sapere
se, attraversando le cellule
nervose e le articolazioni
sinaptiche, l'influsso nervoso
subisca una trasformazione, in
modo da diventare, a seconda
del caso, sensorio, motore o
secretore. Numerose esperienze
sembrano dimostrare che i
neuroni non hanno una
specificità funzionale propria.
Ogni neurone può essere
sensorio, motore e secretore,
secondo gli elementi sensori,
muscolari o glandolari
funzionalmente differenziati ai
quali si trova legato. La sua
funzione sarebbe dunque di
manifestare proprietà che non
possiede in proprio. Ne
consegue che si potrebbero
modificare le reazioni nervose
cambiando semplicemente la
direzione dei neuroni. Così si può, per esempio, provocare la salivazione operando la sutura dell'estremità
centrale dell'ipoglosso, motore della lingua, con l'estremità periferica della «corda del timpano» (nervo le cui
fibre fanno capo alla glandola sottomascellare): l'eccitazione dell'ipoglosso provoca, non più il movimento
della lingua, ma la salivazione.

§ 2 - Proprietà dei neuroni e delle fibre nervose

55 - L'eccitazione è prodotta dall'azione d'un oggetto fisico che entra in contatto con un organo sensoriale.
Il neurone, ricevendo l'eccitazione, agisce come conduttore attraverso il suo prolungamento, la fibra
nervosa, l'attività della quale manifesta le proprietà del neurone, e cioè (per restringerci alle principali) la
conduttività, il metabolismo e l'eccitabilità.

30 J. Lefèvre (op. cit., p. 321) osserva che sarebbe ben spiegabile così il processo di formazione dell'abitudine, con la
ripetizione dell'atto iniziale, stabilendosi connessioni tra i neuroni solo progressivamente e lentamente.
32

l. LA CONDUTTIVITÀ.

a) L'onda nervosa. La conduttività è un fatto evidente. Ma la fibra nervosa è atta a trasmettere non già le
qualità sensibili (luce, suono, calore, ecc.) , ma un'«onda nervosa», che è la stessa per tutti i nervi e che è una
trasformazione fisiologica delle qualità sensibili, operata dagli organi sensori. Né la luce, né il calore, né
l'odore, ecc. circolano lungo le vie nervose; circola soltanto un'onda nervosa di natura sconosciuta 31. Questa
corrente nervosa, in una fibra isolata, va sempre nello stesso senso, ma può essere invertita mediante
procedimenti di laboratorio. Invece, nell'organismo completo, il ritorno della corrente nervosa sarebbe
interrotto dalle sinapsi.

b) Velocità di conduzione. Tale velocità, misurata da Helhmolz, è di circa 25 cm. al secondo per i nervi
motori della rana, e da 30 a 40 cm. per i nervi sensitivi e motori dell'uomo. L'assimilazione, talvolta
proposta, dell'onda nervosa con l'onda elettrica, sembra inverosimile, da un lato, per l'enorme differenza delle
rispettive velocità (300.000 km. al secondo per l'elettricità), dall'altro, perché un esperimento dimostra che
una lesione o un forte raffreddamento del nervo impedisce il passaggio dell'influsso nervoso, ma non quello
della elettricità.

56 - 2. IL METABOLISMO - Il metabolismo si definisce con la legge generale espressa sotto questa


forma:
Energia chimica - Energia fisiologica - Energia cinetica

Notiamo che occorre distinguere nettamente l'energia propria del neurone, che è quella del suo
metabolismo, dall'influsso nervoso proveniente da un altro neurone o da un oggetto esterno (attraverso un
organo sensorio).

3. L'ECCITABILITÀ

a) Gli eccitanti. Gli eccitanti o stimoli si possono dividere in naturali (quelli che sono naturalmente
proporzionati all'organo sensorio: la luce e il colore per la retina, le vibrazioni sonore per l'orecchio, ecc.) e
in artificiali (quelli che eccitano direttamente un nervo al quale non sono normalmente proporzionati: choc,
anestetici, elettricità). L'elettricità è lo stimolo artificiale che permette di studiare con la massima precisione
la natura dell'eccitazione.

b) Natura dell'eccitazione. Stabiliamo qui, innanzitutto che la eccitazione del nervo cresce
proporzionalmente al numero delle fibre nervose eccitate, in secondo luogo che il nervo ha la sua propria
cronassia e che la cronassia riflessa del nervo sensitivo (reazione) è uguale alla cronassia motrice
(eccitazione) (II, 123).

§ 3 - IL RIFLESSO

57 - 1. NOZIONE DEL RIFLESSO - Abbiamo mostrato nella Cosmologia (II, 109) che l'irritabilità è la
proprietà fondamentale della vita, sotto le tre forme dell'eccitazione, dell'elaborazione della reazione e
dell'attuazione di questa. Negli esseri superiori, queste tre funzioni possiedono ciascuna un organo differente,
per esempio, per l'eccitazione, un organo sensoriale, per l'elaborazione della reazione, un centro nervoso, e
per l'esecuzione della reazione, un organo funzionale (muscoli, ghiandole). Questi organi sono legati tra loro
per mezzo di due nervi, il nervo centripeto o afferente e il nervo centrifugo o efferente. L'insieme organico e
funzionale costituisce ciò che chiamiamo un riflesso, il quale si definirà dunque, nella sua forma semplice,
come un fenomeno nervoso consistente nel fatto che un'eccitazione provoca automaticamente, in ragione
delle connessioni stabilite, una reazione di un genere determinato (contrazione muscolare, secrezione) (Fig.
4).

31 Tuttavia, secondo certe ricerche, l'onda nervosa sembrerebbe essere un processo fisico e chimico insieme, poiché,
nei conduttori nervosi in stato d'eccitazione, si notano e un aumento di temperatura e un accrescimento del consumo di
ossigeno nonché, dopo l'influsso nervoso, un'eliminazione d'acido carbonico. (Cfr. J. Lhermitte, Les mécanismes du
cerveau, p. 26).
33
2. RIFLESSI ASSOLUTI E RIFLESSI ACQUISITI

a) Distinzione dei due tipi di riflessi. Abbiamo già detto che l'organo sensoriale che riceve l'eccitazione,
trasforma lo stimolo fisico (luce, colore, suono, calore, choc, ecc.) in stimolo fisiologico. L'impressione
prodotta nell'organo dall' eccitazione è evidentemente ben altra cosa che la sensazione, che è attività
psichica. I riflessi midollari (o semplici) si effettuano in una maniera quasi automatica: al contatto del fuoco,
la mano si ritira, d'istinto, bruscamente; inciampando, stendiamo le mani avanti; di fronte a una luce troppo
viva le palpebre si chiudono; un rumore violento e inatteso determina vari movimenti, ecc.

Tuttavia, l'eccitazione, può benissimo non essere limitata ai due neuroni dell'arco midollare (neurone
sensitivo, nel ganglio rachidiano, neurone motore, nel corno anteriore), ma raggiungere per derivazione i
centri cerebrali e, in questi casi, comportare come risposta una reazione non automatica, ma di forma e di
efficacia variabili, e se si tratta di soggetti intelligenti, può essere governata da una decisione, cosciente, del
soggetto. I riflessi di questo genere sono chiamati condizionali (o condizionati) o acquisiti.

58 - b) Le
esperienze di
Pavlov.
Queste
esperienze,
fondate sulla
coincidenza
spazio-
temporale di
uno stimolo
assoluto (o
naturale), e di
uno stimolo

originariamente indifferente, consistono nell'associare il giuoco simultaneo di due organi sensoriali, in tal
modo che, allorquando l'uno è eccitato, l'altro entra automaticamente in funzione. Così (riflesso salivare già
studiato da Cl. Bernard) si abitua un cane a percepire un suono determinato ogni qualvolta gli si presenta un
cibo; in capo ad un certo tempo, la sola emissione del suono è sufficiente a provocare la reazione salivare.
Pavlov ne dedusse che queste esperienze modificano non poco l'antica teoria secondo la quale il sistema
nervoso si limitava a ripetere meccanicamente riflessi elementari cui era già predisposto. Infatti, il sistema
nervoso sembra capace d'inventare indefinitamente nuovi riflessi e di istradare su vie sempre nuove l'attività
nervosa32.

59 - 3. IL COMPORTAMENTO RIFLESSO - Abbiamo più volte avuto l’occasione di parlare del


determinismo meccanicistico e lo abbiamo discusso da un punto di vista sperimentale (II, 120-123).
Faremo ancora qui, dal punto di vista strettamente isto-fisiologico, tre osservazioni capitali:

32.I. P. Pavlov, I riflessi condizionati, Einaudi ed., Torino, 1943, p. 46: «Mentre negli studi sui fenomeni nervosi fin qui
seguiti col metodo rigidamente scientifico noi avevamo a che fare con eccitamenti costanti e relativamente poco
numerosi, che si manifestano con un rapporto costante fra determinati agenti esterni e determinate reazioni fisiologiche
(il nostro vecchio riflesso specifico), qui, nelle manifestazioni nervose più complesse, veniamo a conoscere un fattore
nuovo: l'eccitamento condizionato. Da un lato il sistema nervoso ci appare di una sensibilità estrema, capace di reagire
ai più diversi fenomeni del mondo esterno. Ma nello stesso tempo vediamo che questi innumerevoli stimoli non
agiscono costantemente, non sono legati una volta per sempre ad una determinata reazione fisiologica».
34
a) La contingenza delle risposte. Noteremo innanzitutto che il determinismo assoluto non esiste che al
livello della vita vegetativa (cioè a dire dei riflessi midollari o riflessi semplici e assoluti) e che esso, al
livello della vita sensibile e propriamente psichica, dà luogo ad un sistema nel quale la contingenza esercita
una funzione considerevole, grazie alle articolazioni sinaptiche (54) e ai dispositivi d'istradamento che si
producono nei centri cerebrali. Per il fatto stesso che le reazioni riflesse debbono inserirsi nell'insieme delle
attività vitali, queste reazioni comportano un grandissimo margine di variabilità. Esse non sono più
subordinate all'unico fattore dello stimolo esterno, ma ai fattori molteplici che governano l'attività vitale
(attenzione, capacità acquisite, ricordi, interessi, volontà, ecc.) e per mezzo di questi possono prodursi o non
prodursi, prodursi più o meno celermente, come anche (caso dei riflessi condizionati o di trasporto per
associazione) prodursi in assenza dell'eccitazione normale.
La contingenza delle risposte cresce in misura che saliamo nella scala animale. L'istinto, come vedremo,
comporta già un notevole margine di variabilità; con l'intelligenza, questo margine si accresce
immensamente. Ne consegue immediatamente che ogni negazione della libertà umana che pretendesse
fondarsi sul determinismo isto-fisiologico non sarebbe che una pura e semplice petizione di principio.

60 - b) La sinergia vitale. Il fenomeno dell'unità dell'essere vivente, cioè a dire della coordinazione delle
sue attività molteplici è evidente. Anche nelle specie inferiori, nei metazoi, in cui l'organizzazione è vicina a
quella del tipo coloniale, anche nel riccio di mare che, secondo la definizione di Uexkuli, appare come «una
repubblica di riflessi», si riscontra un certo grado di unificazione individuale. Questa organizzazione
sintetica delle funzioni diviene sempre più rigorosa di mano in mano che saliamo la scala animale. Ma già al
livello dell'arco riflesso si afferma il carattere coordinato, finalistico dell'attività vitale. Una ben nota
esperienza di Pflueger mostra che se si taglia la zampa con la quale una rana a cui è stato asportato il cervello
gratta un punto del suo dorso, l'altra zampa assume l'esecuzione del riflesso. L'organismo funziona come un
tutto e per comprendere il giuoco della sua funzione, bisogna partire dal tutto e non dai suoi elementi.
Innanzitutto, è evidentissimo che se i riflessi semplici dovessero aggiungersi gli uni agli altri,
l'organizzazione non sarebbe mai raggiunta, poiché questa esige il giuoco armonico di numerosi riflessi. Il
bambino che dovesse imparare a camminare seguendo il metodo associazionista non saprebbe mai fare un
passo.

A priori potremmo già supporre che questa unità o questa unificazione abbia i suoi mezzi organici. Ciò,
infatti, è quel che prova sperimentalmente la scoperta dei neuroni d'associazione, nelle regioni midollare,
bulbare e cerebrale. Nel midollo esistono neuroni trasversali, che collegano i due neuroni motori simmetrici
sullo stesso piano, e neuroni longitudinali, che si comportano come elementi associativi. Nel bulbo, i neuroni
di associazione collegano tra loro, sotto forma di legamenti, tutti i neuroni funzionali elementari il cui
insieme coordinato costituisce una grande funzione (respirazione, circolazione, ecc.). Infine, nel cervello si
notano in gran numero e sotto forme estremamente varie, neuroni di associazione che legano tra loro tutti i
punti della corteccia cerebrale e che condizionano gli impulsi orientativi più diversi; tali elementi spiegano
anche, specialmente quando si tratta di neuroni in associazione, la formazione (per mezzo del gioco del
movimento) degli automatismi funzionali psichici così numerosi che comunemente si chiamano capacità.

c) Il punto di vista della struttura. Tutto questo meccanismo che abbiamo descritto non può essere
considerato esso stesso che come una condizione, e non come una causa, del comportamento riflesso.
Numerose esperienze hanno stabilito che l'effetto dell'eccitazione dipende dal suo rapporto all'insieme
organico come dalle eccitazioni simultanee o precedenti, che le origini del riflesso sono funzioni dello stato
generale del sistema nervoso e che il loro funzionamento implica una elaborazione centrale in cui si
esprimono le esigenze vitali dell'intero organismo, infine che la regolazione riflessa delle risposte ha qualche
cosa di generale e come tale di irriducibile ad un cieco meccanismo, ad una somma di sequenze causali
autonome. Né i neuroni trasversali, né le sinapsi, né il «potere d'istradamento» possono dunque passare per
spiegazioni adeguate della variabilità prodigiosa del comportamento riflesso, perché resterebbe ancora da
spiegare come, fra tutti i sistemi di collegamento possibili, si concretino comunemente solo quelli che hanno
un valore biologico. Il potere d'istradamento si presta così poco a fornire una soluzione che esso diviene la
forma stessa del problema da risolvere.
Per risolvere questo problema, bisogna abbandonare la concezione atomistica che ha ispirato dopo Pavlov
la teoria del riflesso e singolarmente quella del riflesso condizionato, consistente nel supporre che i differenti
riflessi debbano corrispondere singolarmente a circuiti specializzati, che lo stimolo complesso sia
equivalente alla somma degli stimoli semplici e che si possa rendere conto del comportamento riflesso per
mezzo dell'analisi degli elementi da esso messi in funzione, sul modello del processo elementare (in virtù
35
d'artificio di laboratorio) che associa una reazione semplice ad un processo isolato. La realtà appare
infinitamente più complessa ed impone l'idea che l'organismo reagisca come un tutto e che il sistema
nervoso conosca unicamente processi globali, definibili in termini di strutture. Noi vedremo specialmente
nello studio della percezione, che tutta la psicologia impone questo punto di vista, che è propriamente quello
dell'unità reale dell'essere vivente, della sua presenza totale di sé a sé 33.

Art. II - Il sistema nervoso


61 - Organo d'equilibrio, di protezione contro le influenze esterne, di adattamento e di regolazione, il
sistema nervoso è composto da un numero infinito di neuroni, collegati sotto la forma sinaptica
precedentemente descritta ai molteplici dispositivi d'istradamento, il sistema nervoso comprende centri,
raccordi e vie di propagazione. Esso si divide d'altra parte in due parti distinte e solidali: il sistema cerebro-
spinale, che regola le funzioni di relazione, ed il sistema vegetativo (gran simpatico), che regola le funzioni
della vita vegetativa.
Non dobbiamo descrivere l'anatomia prodigiosamente complessa del sistema cerebro-spinale (midollo
spinale, bulbo rachideo, cervelletto, cervello) e del gran simpatico 34, ma solo notare i punti essenziali della
fisiologia nervosa sistematica. Questi punti concernono le vie delle diverse sensibilità e la questione delle
localizzazioni cerebrali.

§ l - Percorso della sensibilità

1. PUNTO DI PARTENZA - Il punto di partenza della sensibilità si trova in alcuni corpuscoli epidermici,
dermici o sottocutanei (corpuscoli di Meissner, di Pucini e di Vater, ecc.), la cui descrizione anatomica e le
funzioni precise restano ancora alquanto incerte.

2. - PERCORSO DI PROPAGAZIONE - Per mezzo dei nervi centripeti, l'impulso nervoso si propaga,
attraverso vie estremamente complesse, fino alle cellule talamiche e corticali del cervello e determina la
sensazione propriamente detta, cioè a dire, cosciente. Questa, come tale, è bene ripeterlo, è evidentemente
tutt'altra cosa che l'impulso nervoso, che ne è soltanto la condizione fisiologica; tra queste due specie di
fenomeni corre la stessa differenza che tra un fatto materiale e un fatto psichico.

§ 2 - Il problema delle localizzazioni

62 - Il problema famoso delle localizzazioni cerebrali è nato dal desiderio di chiarire la natura dell'attività
psichica riducendola alle sue condizioni fisiologiche. Sotto queste forme generali questo problema (anche se
risolto) non costituisce che una petizione di principio di natura filosofica, consistente nell'ammettere come
dimostrato tutto ciò che è in questione, come se il fatto di determinare con precisione le condizioni
fisiologiche dell'attività psichica apportasse la minima luce sull'essenza di questa attività. Ma il problema può
essere legittimamente affrontato e trattato dal punto di vista puramente fisiologico, senza preoccupazioni,
segrete o dichiarate, di natura metafisica. È appunto da questo punto di vista che ne riassumeremo gli
elementi essenziali.

1. IL SISTEMA FRENOLOGICO DI GALL - Questo sistema, completamente inventato, fornisce ancora al


linguaggio corrente tutto un vocabolario. Affermare che un tale ha «il bernoccolo delle matematiche»
costituisce infatti un riferimento implicito (e perfettamente ingenuo!) alla celebre teoria di Gall secondo la
quale le facoltà psichiche avrebbero localizzazioni cerebrali definite, accessibili dal di fuori per mezzo della
discriminazione delle protuberanze o depressioni della scatola cranica.
Il sistema di Gall è stato abbandonato. Ma l'idea che l'ispirava governa tutti gli studi che si fanno sulle
localizzazioni cerebrali. Possiamo ammettere, infatti, come principio che le funzioni sensoriali e motrici
debbano esercitarsi per mezzo di un organo differenziato. Tuttavia, quel che è localizzato è l'organo, ma non,
parlando con proprietà, la funzione psichica, che non si sviluppa nello spazio. In questo senso e con queste
riserve, noi tratteremo delle «localizzazioni cerebrali».
2. SISTEMA DI BROCA E DI CHARCOT - La concezione di Broca, seguita da Charcot, è che la corteccia
costituisca una specie di «mosaico», ogni punto del quale regoli una funzione psichica, sia sensoriale che

33 Cfr. Merleau-Ponty, La structure du comportement, Parigi, 1942.


34 Cfr. per questa descrizione J. Lefèvre, op. cit., p. 778 e sgg. e Jean Lhermitte, Les mécanismes du cerveau.
36
intellettuale. Alcuni punti «rispondono» all'eccitazione e sono chiamati sensoriali o motori; altri non
rispondono («punti muti») e corrispondono alle funzioni intellettuali. Questo sistema è ben lungi dall'imporsi
e urta infatti contro gravi difficoltà, dallo stesso punto di vista fisiologico. Innanzitutto, la topografia del
cervello, stabilita da Broca e Charcot, è fra le più incerte. In secondo luogo, la ipotesi dei «punti muti»,
riservati alle funzioni superiori, non sembra avere una base sperimentale. Così il problema delle
localizzazioni cerebrali deve essere ripreso per mezzo di metodi più strettamente scientifici.

La carta topografica della corteccia cerebrale formata dai fisiologi più recenti (Campbell, Cecilia ed Oscar
Vogt, Von Economo) non ha essa stessa una precisione autentica e sicura che per le funzioni sensoriali e
motrici. La localizzazione delle funzioni superiori resta arbitraria e legata, infatti, in virtù d'un equivoco, a
quella delle funzioni motrici utilizzate dalle funzioni superiori. Il suo principio che è quello di Broca (per
ogni funzione definita deve esistere una struttura corticale determinata speciale) è anch'esso non una
soluzione, ma l'enunciazione del problema da risolvere.

3. STATO CONTEMPORANEO DELLE RICERCHE

63 - a) Il cervello condizione della vita psichica cosciente. Le più sicure esperienze provano che il cervello
è realmente la condizione della vita psichica cosciente. Sappiamo innanzitutto che è richiesto un peso
minimo35 di esso perché siano possibili le funzioni psichiche superiori, senza che d'altronde la potenza
dell'intelligenza sia proporzionata al peso della massa cerebrale. D'altra parte, osserviamo che una rana cui è
stato tolto il cervello può continuare a vivere lungamente, benché di una vita minorata. Essa resta immobile
per lunghissimo tempo fin che non si provochi dal di fuori l'esecuzione di un riflesso. Essa resta anche inerte
davanti a un cibo messo a sua portata. Ma respira regolarmente, reagisce alle eccitazioni: se è punta, salta;
gettata nell'acqua, nuota; impigliatasi per una zampa, tenta di svincolarsi; inghiotte un cibo introdotto nella
sua bocca, ecc. Sussistono dunque solo i movimenti automatici; la spontaneità, segno di vita psichica
cosciente, è sparita.

Ad onta dei limiti che si oppongono agli esperimenti negli uomini, molte esperienze ed osservazioni
anatomo-cliniche, come i casi di anencefalia dei quali tratteremo più avanti, conducono a conclusioni simili.
Un caso notevole è quello della cecità che risulta, nei primi gradi dalla perdita degli organi periferici (perdita
dell'occhio e sezione del nervo ottico): cecità detta periferica - e, al secondo grado, dalla distruzione del
corpo striato: cecità detta corticale. La prima (solo per difetto degli organi periferici) determina una
sensazione di oscurità, mentre la seconda elimina ogni specie di sensazione, anche del nero. Ciò sembra
stabilire che la condizione della coscienza risieda proprio nell'organismo centrale, poiché, per tutto il tempo
in cui questo sussista, si produce una sensazione cosciente (la sensazione di nero è, infatti, un'autentica
sensazione) mentre la sua distruzione produce automaticamente la sparizione di ogni specie di sensazione
luminosa. E per ciò stesso viene corroborata l'opinione che sistema nell'organo periferico la sede principale
della sensazione, poiché, pur essendo salvo l'organo corticale, le sensazioni distinte sono abolite dalla perdita
dell'organo sensoriale periferico.

Esperienze simili sul piccione, sul falco, sul gatto 36, danno ad un dipresso gli stessi risultati. L'assenza delle
funzioni psichiche è ancora più notevole nel cane cui è stato asportato il cervello (cane di Goltz), il quale,
dopo l'operazione di asportazione, non riconosce più il suo padrone né i suoi congeneri e non reagisce più in
alcun modo alle loro voci, non mostra né gioia né dolore, né collera e stagna indefinitamente, senza alcun
progresso, nello stesso torpore fisico.

Le esperienze di Goltz sono state riprese da M. Rothmann, il quale tenne in vita per oltre tre anni un cane
privato degli emisferi cerebrali, ma senza la mutilazione dei corpi opto-striati (che erano stati compresi
nell'operazione di Goltz). I risultati sono stati all'incirca gli stessi (cecità, abolizione del senso olfattivo e
diminuzione del senso auditivo, conservazione delle funzioni motrici, dell'equilibrio, ecc.), salvo che.

35 Gli uomini di colore studiati da Bean, negli Stati Uniti, avevano per la maggior parte un cervello compreso tra 1.100
e 1.200 gr. La stessa indagine stabilisce che in alcuni individui neri, il peso della massa cerebrale è di 1.010 gr. nei
bianchi, il peso medio del cervello supera 1.350 gr. Ma alcuni individui bianchi non superano i 1.040 gr. Hunt e Russel
hanno anche osservato che alcuni mulatti non raggiungono che i 980 gr.
36 Un rumore improvviso stimola il gatto scerebrato a volgere gli occhi verso la sorgente sonora. Lo. stesso gatto,
punto, miagola e graffia, ma in maniera assai maldestra.
37
Rothmann stabilì, da una parte, che il cane operato conserva tracce di reazioni affettive (soprattutto di natura
difensiva) e di memoria, - e d'altra parte che resta suscettibile di un certo ammaestramento.

64 - b) La topografia delle funzioni sensoriali e motrici. Il problema consiste nel sapere fino a qual punto
sia possibile la localizzazione corticale delle differenti attività psichiche. I principali metodi impiegati sono
quelli dell'eccitazione locale, dell'asportazione o della distruzione di una parte determinata della sostanza
corticale. Questi metodi hanno dato luogo ad innumerevoli esperimenti i cui risultati restano, in gran parte,
imprecisi e soggetti ad accertamento. Tuttavia, in quel che concerne le funzioni motrici, sensitive, sensitivo-
motrici e sensoriali. sembra che si possa considerare come acquisita nelle sue linee generali la topografia
corticale che la fig. 5 mostra.

c) Cervello e coscienza
sensibile. La teoria della
coscienza sensibile, in
Aristotele (De Anima, II, c. VI)
e san Tommaso (De Anima, II,
1. XIII) troverebbe in queste
teorie della filosofia moderna
nettissime e chiarissime
applicazioni. Essi pensavano
infatti, a ragione, che bisogna
ammettere l'esistenza di un
sensorium commune (senso
comune) o coscienza sensibile,
mediante la quale l'uomo,
come l'animale, apprende i
fenomeni della vita sensibile e
coordina i dati dei sensi. Il
sensorium commune ha dunque
per oggetto gli atti e le
impressioni soggettive degli
altri sensi e per loro mezzo le
stesse qualità sensibili che esso
coordina fra loro. E ciò è
necessario per questa duplice
ragione: perché i sensi essendo organici non possono ritornare o riflettere su se stessi e d'altra parte la
distinzione dei diversi dati sensibili e la loro unificazione non possono essere poste in atto che per mezzo di
un senso distinto da tutti i sensi particolari. Questa coscienza sensibile, aggiungono Aristotele e San
Tommaso, deve avere un organo: abbiamo or ora osservato che questo punto di vista è confermato dalle
ricerche sperimentali moderne, poiché il cervello appare oggi come l'organo della sintesi sensoriale e nello
stesso tempo come la condizione della coscienza. Tuttavia, né Aristotele, né san Tommaso hanno pensato al
cervello come organo della coscienza sensibile, perché il cervello era per essi un organo indifferenziato. Essi
ritengono che sia il tatto a servire da organo al sensorium commune, perché il tatto è esteso a tutto il corpo. È
questo però un errore che dipende solo dall'assenza di una conoscenza anatomica. Dal punto di vista
psicologico e fisiologico, le osservazioni di san Tommaso seguono nettamente lo stesso senso delle ricerche
contemporanee. (Cfr. T. W. Moore, The Scholastic Theory of Perception, in «The New Scholasticism», t. VII
(1933), n. 3).

65 - d) La telencefalizzazione. Si designa così la centralizzazione delle funzioni motrici. Questa


centralizzazione diviene sempre più rigorosa a misura che si ascende la scala animale, cioè a dire che il
cervello esercita una funzione sempre più importante. Questo è stato stabilito mediante innumerevoli
esperienze di decorticazione. Si osserva che il gatto recupera il senso di arresto e di marcia qualche ora dopo
l'asportazione del cervello. Al contrario, la scimmia non recupera più del tutto la funzione della marcia e non
recupera che molto male quella dell'arresto. Nell'uomo, lo studio di diversi casi mostruosi d'anencefalia
(malformazione che non lascia sussistere dell'encefalo che le regioni sub-corticali) ha mostrato che la
motricità era ridotta alle forme più basse dell'automatismo e del riflesso difensivo.
38
D'altra parte le numerosissime osservazioni anatomiche (Velpeau e Delpech, 1843, recentemente Dandy,
W. Penfield, soprattutto Kleist) hanno stabilito che la distruzione dei due lobi frontali produce principalmente
disordini nelle funzioni di sintesi, modificando la personalità empirica, anche nel controllo affettivo, cosa che
si spiega bene per mezzo del fatto della distruzione di numerosi riflessi acquisiti mediante i quali si esercita
la vita di relazione e che si traducono in addestramento, abitudini, discipline. attitudini, capacità, educazione,
ecc. La personalità viene discentrata e in qualche modo dispersa dalle lesioni corticali.
Infine, nello stesso senso, gli studi fatti da Minkowski su feti di più di quattro mesi mostrano che, in
mancanza di una formazione corticale sufficiente, tutti i movimenti del feto sono caratterizzati
dall'incoordinazione e dall'incoerenza37.

66 - e) Struttura e funzione. Ciò che precede ci porta a comprendere meglio la funzione del cervello e il
senso esatto delle localizzazioni. Parlando con proprietà non sono localizzate funzioni ma solamente
strutture. Nulla meglio caratterizza la confusione generalmente fatta che l'argomento addotto delle lesioni.
Localizzare una lesione non è localizzare una funzione, poiché questa non è affatto imprigionata nella
struttura. Il suo punto di partenza può essere collegato alla struttura che è stata lesa, ciò che spiega i disordini
che sopravvengono alle lesioni, ma essa trascende questa struttura come mostrano all'evidenza i numerosi
fatti (messi in luce soprattutto da Pierre Marie nello studio dell'afasia) di restaurazione delle funzioni colpite
dalla lesione o anche di fatti di sostituzione da parte di altri centri 38. Si conoscono anche casi (descritti da
Dandy) in cui la distruzione dell'emisfero corticale sinistro (in cui si trovano i «centri del linguaggio
articolato») è stata seguita da una ripresa della funzione vocale.
In realtà, come consegue chiaramente dalle osservazioni sopra esposte sulla telencefalizzazione, se la
lesione dei centri corticali produce disordini funzionali così gravi e che lo divengono sempre più in misura
che si ascende la scala animale, ciò sembra derivare meno dalla distruzione di alcune strutture definite che
dalla rottura di connessioni nervose condizionanti, sotto forma innata o acquisita, l'esercizio normale della
vita psichica. Così che numerosi fisiologi moderni (Pierre Marie, Lashley, Goldstein, Von Monakov, ecc.)
sono stati indotti ad affermare che la funzione, rigorosamente parlando, non è localizzata. La struttura
morfologica è localizzabile; ma la funzione, utilizzandola, la supera immensamente.

67 - f) Le localizzazioni e le funzioni superiori. È chiaro ormai quale non-senso implichino le prove di


localizzazione delle funzioni superiori (intellettuali e volontarie), cioè a dire le prove miranti a determinare
organi specificamente ed esclusivamente destinati a queste funzioni. Speculativamente, la cosa pare
inverosimile, soprattutto perché queste funzioni si esercitano senza limitazione né determinazione spaziale.
Praticamente, è un fatto incontrovertibile che tutte le prove di localizzazione sono fallite. Se si è pervenuti a
localizzare con precisione le zone in cui l'asportazione produce l'afasia (perdita del linguaggio articolato) o
l'agrafia (perdita della capacità di scrivere), è indubbio che ciò che è perduto (e, per conseguenza, ciò che è
localizzato) sono le operazioni motrici del linguaggio e della scrittura, ma per nulla affatto le funzioni
psichiche dalle quali procedono il linguaggio e la scrittura. Infatti, vedere e intendere una parola, in quanto
espressione di un'idea, costituisce un'operazione propriamente intellettuale, cioè un atto mediante il quale il
soggetto dice a stesso un contenuto di pensiero. Nessun meccanismo motore è richiesto per questo
linguaggio interiore. L'atto interiore, in tutti i casi, è essenzialmente differente da quello mediante il quale il
soggetto traduce, in linguaggio articolato, e in lettere scritte, la parola mentale o la concezione interiore .
Questa traduzione esige evidentemente il giuoco di meccanismi motori, che possono essere localizzati in
modo più o meno preciso (nei limiti indicati più sopra). ma che sono soltanto semplici strumenti di un'attività
psichica di ordine essenzialmente differente.

Questo almeno è quanto prova la riflessione filosofica sull'attività intellettuale. Ma non bisogna
nascondersi che, contrariamente a ciò che pensa Bergson (Matière et Memoire. L'énergie spirituelle, Parigi,
1919. «Le cerveau et la pensée», p. 203 sg.) non si potrà passare allo spiritualismo attraverso la via
sperimentale pura. Bergson ha fatto molto e utilissimamente per demolire il parallelismo psico-fisiologico, Il

37 Cfr. J. Lhermitte, Les mécanismes du cerveau. p. 86 sg.


38 Sui fatti di surrogazione e di restituzione delle funzioni abolite, cfr. J. Lhermitte, Les mécanismes du cerveau, p. 74-
75 e 99-100, e soprattutto K. Goldstein, La structure de l'organisme, Parigi, 1951. p. 208 sg. Cfr. p. 220: «Per noi,
localizzazione d'una operazione non significa più eccitazione di un punto determinato, ma processo dinamico che si
sviluppa in tutto il sistema nervoso ed anche nell'intero organismo ed ha una forma determinata per ogni operazione in
un luogo determinato; questa forma di eccitazione prende un singolare rilievo che trova la sua espressione nella
«figura». Questa localizzazione è definita dal contributo che la sua eccitazione, in virtù della struttura di questo luogo,
apporta al processo globale».
39
pretendere tuttavia di passare da tale critica direttamente all'affermazione spiritualista è cosa veramente
impossibile. Infatti, se è affatto certo che le localizzazioni non hanno carattere rigido e che le aree corticali
non sono strettamente specializzate, non si ha il diritto perciò (come fa Bergson) di sconfinare e di affermare
che la vita psichica risulta legata solo accidentalmente al cervello. Infatti, non solo la totale distruzione della
corteccia, ma lesioni generali (per esempio, in una volta, dei due lobi prefrontali) sopprimono in tutto o in
parte lo psichismo. Questa critica interessa d'altronde tutto il metodo di Bergson (metodo della «metafisica
positiva») che qui appare in verità uno scientismo alla rovescia.

Le osservazioni relative al linguaggio, valgono, a maggior ragione, per le funzioni psichiche superiori
(giudizio, ragionamento, astrazione, immaginazione creatrice, volizione, ecc.). Infatti le ricerche hanno
mostrato che l'esercizio delle funzioni superiori è condizionato dall'insieme dei diversi sistemi cerebrali, dei
quali l'intelligenza si serve come di uno strumento, secondo i diversi e vari bisogni della sua propria
attività39. In altri termini non è lo stato del cervello che spiega l'intelligenza, ma l'intelligenza che spiega lo
stato del cervello. Questo, dice Gr. Brown, funziona come un tutto, cosa che è confermata sperimentalmente
dai gradi prodigiosi di complessità dei miliardi di dispositivi d'istradamento sinaptici che lasciano al giuoco
dell'influsso nervoso una plasticità per così dire illimitata, al servizio delle funzioni che non sono affatto
legate ad un'espressione spaziale 40. Questo punto di vista sostenuto da Pierre Marie «Semaine médicale», 23
maggio, 17 ottobre 1906) e generalmente adottato dai neurologi contemporanei, elimina quasi
completamente, almeno sotto la forma classica, (Broca), e per le funzioni psichiche superiori, il sistema delle
localizzazioni cerebrali41.

39 Lo studio dei fenomeni emotivi condurrà per altra via alla medesima conclusione, che A. Gemelli esprime così (La
teoria somatica dell’emozione, Firenze, 1910, p. 55): «Ogni apparato nervoso ha valore di punto di comunicazione,
distribuzione e moltiplicazione della corrente nervosa. Ma non possiamo pensare che in una data regione si sviluppi
esclusivamente un fatto di coscienza... Gli stati di coscienza presuppongono il funzionamento ciclico dei vasti sistemi
complessi dei centri moltiplicatori».
40 Cfr. J. Lhermitte, Les mécanismes du cerveau, p. 120: «Che dire delle "funzioni superiori", dell'intelligenza, della
memoria, delle facoltà critiche e discriminative e dei processi di volontà e di attenzione, se non che una localizzazione
dei processi che esigono per la loro attuazione tanti fattori d'ordine diverso e di origini remote, sembra, a priori, un vero
controsenso [...]? Conserviamo dunque nella mente quest'idea essenziale, che localizzare consiste essenzialmente nel
situare una cosa nello spazio e che se è legittimo farlo per una struttura o una lesione, è vanità provarsi a tentarlo per
una funzione e commettere l'enorme controsenso di voler imprigionare in una forma quella cosa alata e sfuggevole che
è lo spirito».
41 La critica che Maine de Biran (Essai sur les fondements de la Psychologie, ed. Tisserand, t. VIII, p. 9-10)
indirizzava agli «autori delle spiegazioni fisiche o fisiologiche dei sensi e delle idee» va rivolta a maggior ragione
contro le teorie delle localizzazioni cerebrali: «Essi si sono fatti l'illusione veramente inconcepibile di avere analizzato il
pensiero e svelato le sue più segrete operazioni, i suoi modi più intimi, quando avevano scomposto ipoteticamente le
funzioni del cervello e immaginato il giuoco, i movimenti delle fibre e delle fibrille che essi suppongono rappresentino
le idee e forniscano una sede materiale alle facoltà dello spirito, come se esistesse qualche analogia tra movimenti che ci
rappresentiamo oggettivamente fuori di noi, e atti intellettuali che concepiamo solo per mezzo della riflessione e del
senso intimo e mai per mezzo di alcuna specie di immagine».
40

CAPITOLO TERZO

L'ABITUDINE

SOMMARIO42

Art. I - NOZIONE. Definizione - La vita e il sistema nervoso - Natura - Abitudine e inerzia - Abitudine e
assuefazione - Abitudine e dinamismo - Funzione e effetti.

Art. II - FORMAZIONE DELLE ABITUDINI. Condizioni di formazione Condizioni biologiche -


Condizioni fisiologiche - Prove ed errori - L'apprendimento - Il metodo – Condizioni della
cessazione d'abitudine - L'astensione - La sostituzione.

Art. I - Nozione
68 - 1. LA VITA E IL SISTEMA NERVOSO - Il sistema nervoso ci è apparso or ora come un organo
d'equilibrio e di adattamento. Prodigiosamente differenziato soprattutto nei centri cerebrali, condiziona tutto
ciò che vi è di plastico nell'attività dell'essere vivente. Grazie al sistema nervoso, quest'ultimo possiede il
mezzo di reagire in maniera straordinariamente varia alle sollecitazioni esterne. Nello stesso tempo, l'essere
vivente diviene suscettibile di progresso, perché è capace di conservare, sotto la forma di abitudini, le
acquisizioni del passato. Sono appunto queste ricchezze accumulate che lo liberano in maniera più o meno
estesa dalla servitù del presente, moltiplicando le sue possibilità di risposta alle eccitazioni esterne. Ci si
spiega così che l'abitudine, nel suo senso etimologico, si definisce come un avere ( habere), cioè come una
proprietà di conservare il passato. Questa nondimeno è una definizione che si limita ancora ad uno dei suoi
aspetti: vedremo infatti che essa nelle sue forme più elevate è anche uno strumento di trasformazione della
natura e, in un certo senso, persino una potenza creatrice.

69 - 2. NATURA.

a) Abitudine e inerzia. L'abitudine è stata paragonata ad alcuni fenomeni del mondo inorganico, in virtù dei
quali i corpi, modificati da una azione esterna, o conservano più o meno questa modificazione (come la
foglia che è stata piegata e che conserva la piega), o tendono a tornare al loro stato primitivo (come il corpo
elastico). Senonché queste sono analogie molto lontane, perché esse non conservano, dell'abitudine, che
l'aspetto di passività e d'inerzia, mentre, al contrario, proprio ciò che vi è in essa di attivo la caratterizza.
L'inerzia è fattore d'identità e di ripetizione; l'abitudine, sotto ogni aspetto, è principio di novità e di
progresso. Le modificazioni dei corpi inorganici si manifestano integralmente a causa di fattori esterni,
quelle degli esseri viventi dipendono dalla loro propria attività (II, 122-123).

Fu Cartesio che per primo propose la prima interpretazione meccanicistica dell'abitudine (o della memoria
che si riduce ad abitudine). Egli ne concepì il processo fisiologico nella seguente maniera: «Quando l'anima
vuole ricordarsi di qualche cosa, questa volontà fa che la ghiandola [pineale] inclinandosi successivamente in
diverse direzioni spinga gli spiriti [animali] in diversi punti del cervello, fino a quando incontra quello in cui
son le tracce lasciate dall'oggetto di cui ci si vuol ricordare: queste tracce infatti, altro non sono che i pori del
cervello attraverso cui in precedenza gli spiriti sono passati per la presenza dell'oggetto; perciò tali pori
hanno acquistato una maggior facilità di altri ad essere riaperti allo stesso modo dagli spiriti che affluiscono

42 Cfr. Aristotele, Categorie, VIII, Bb, - Retorica, I, 1369b, - S. Tommaso, la II.ae, q. 49-54 - Maine de Biran,
Influence de l'habitude sur la faculté de penser - Ravaisson, De l' Habitude - A. Lemoine, L' habitude et l'instinct,
Parigi, 1875 - W. James, The Principles of Psychology, 2 voll., Nuova York, 1890 (trad. it., Milano, 1901) - Mc
Dougall, An Outline of Psychology, Londra, 6a ed., 1933 - J. Second, Traité de Psychologie, c. III, Parigi, 1930 - J.
Chevalier, L'habitude, Essai de métaphysique scientifique, Parigi, 1928 - Guillaume, La formation des habitudes, Parigi,
1936 - Pradines, Psychologie générale, Parigi, 1943, p. 88-125 - P. Ricoeur, Philosophie de la Volonté, T. I, Parigi,
1950, p. 264-290.
41
verso di essi; i quali spiriti trovando quei pori, vi penetrano più facilmente che negli altri, ed esercitano così
nella ghiandola un movimento particolare, che rappresenta all'anima il medesimo oggetto, e le fa riconoscere
che è quello di cui si voleva ricordare» (Traité des passions de l'ame, I, 42 in Oeuvres de D. a cura di Adam e
Tannery, tr. it., Torino, 1951). Il principio di questa teoria non si allontana troppo da quello delle vie e
connessioni nervose (54). Il suo difetto consiste, per non parlare della teoria degli spiriti animali, che è
assolutamente priva di base sperimentale, nel ridurre puramente e semplicemente l'abitudine all'inerzia.

b) Abitudine e assuefazione. Alcuni fatti biologici sono già più vicini all'abitudine, ad esempio quelli che
vengono definiti come assuefazioni. Si sa che gli esseri viventi hanno la proprietà di piegarsi e di
accomodarsi in una certa misura all'ambiente e alle circostanze (clima, temperatura, nutrimento, tossine,
ecc.). L'organismo stesso si trasforma fino ad un certo punto sotto l'azione delle nuove condizioni che gli si
impongono: si è visto (II, 148) che le teorie di Lamarck e di Darwin avevano fondato su questi dati di fatto
(dei quali essi esageravano la vastità della portata e le conseguenze) tutta una spiegazione oggi abbandonata
dal meccanismo dell'evoluzione.
Tuttavia, questa assuefazione non è ancora l'abitudine propriamente detta, poiché essa è soprattutto un fatto
di passività. Essa segna la plasticità dell'organismo. Ma la plasticità organica stessa non è che una
condizione dell'abitudine: questa implica spiegamento d'attività ed è principio d'attività. Essa crea capacità e
permette all'essere vivente, non solo di adattarsi alle circostanze, ma di dominarle 43.

70 - c) Abitudine e dinamismo. Caratterizzeremo, dunque, meglio l'abitudine mediante il dinamismo che


essa manifesta. Questo dinamismo opera nei due livelli che si sono potuti scoprire nell'abitudine: da una
parte, nelle abitudini conservatrici, ordinate a perfezionare e a stabilizzare le attitudini che la preformano,
mentre essa è una tecnica innestata su quella degli istinti e delle tendenze; d'altra parte, nelle abitudini
creatrici che sono l'abitudine nel senso più stretto del termine, in quanto esse significano vere acquisizioni,
cioè a dire che esse aggiungono del nuovo alla natura, nel senso di questa certamente, ma sotto una forma
che costituisce, mediante la creazione di capacità inedite, o mediante riforma dei meccanismi naturali, una
vera novità: tali sono le abitudini che si traducono in tecniche più o meno complesse, nelle arti e nei mestieri,
negli sports e nei giuochi e che permettono agli esseri viventi di esercitare attività che la natura non ha
previste in maniera speciale. In questo caso, è la volontà che, usando la plasticità del corpo, lo modella in
qualche modo dal di dentro, seguendo le finalità concepite dalla ragione.

È vero che animali, che non hanno volontà (o tendenze razionali) possono avere abitudini. Tuttavia, in
molti casi, queste abitudini provengono, sì, dalla volontà, ma da una volontà esteriore all'animale stesso, per
effetto dell'ammaestramento. Negli altri casi, risultano dallo svilupparsi di una tendenza attivata dalle
circostanze, ovvero, ancora più semplicemente, da azioni esterne passivamente subite. In tutti questi casi,
l'animale riceve più che non acquisti.

d) Abitudine e meccanismo. Espressione di un dinamismo profondo, l'abitudine non cessa di essere anche
un automatismo. Quest'ultimo aspetto è anche quello che viene spesso sottolineato e quello che il senso
comune invoca più volentieri per spiegare (o scusare) un comportamento. Nulla ci è più familiare che lo
svolgimento meccanico dell'atto abituale in cui, a partire da un dato segnale (come in una lezione che si
conosce a memoria e che scorre interamente a partire dalla prima parola), tutti i movimenti si concatenano in
qualche modo spontaneamente gli uni agli altri dal principio alla fine. La coscienza è qui così poco
nell'esercizio della sua funzione che il suo intervento diviene spesso perturbatore: l'atto abituale si manifesta
perfettamente solo a condizione che «lo si lasci fare», come ci si astiene dall'intervenire su un orologio al
quale si sia data la carica o su una macchina che si sia messa in movimento.

L'automatismo consiste nel fatto che, all'interno di un sistema organizzato di meccanismi, ogni elemento (o
ogni fase) determina la seguente, agendo su essa da stimolo; cioè a dire che il sistema dipende di meno in
meno dagli stimoli esterni e trova in se stesso il suo dinamismo regolatore, a partire dalla prima percezione
che apre l'intera catena dei movimenti. Così appunto il pianista che ha dovuto imparare frase per frase un

43 Pare che non si possa parlare di abitudini propriamente dette in casi del genere di quelli che espone G. Bohn, La
naissance de l'Intelligence, p. 158, per esempio il caso della Pleurosigma aestuarii: «Queste alghe microscopiche si
comportano come i vermi cigliati: quando il mare si ritira, esse escono dalla sabbia e formano alla sua superficie uno
spesso strato bruno; quando il mare ritorna, esse si nascondono di nuovo nella sabbia. Ciò persiste anche in acquario».
42
pezzo, finisce per suonarlo a memoria, a partire dalle prime battute, dal principio alla fine e con un solo
movimento continuo.
Da questo punto di vista soggettivo, definiremo l'abitudine come un impulso automatico a continuare fino
alla fine un insieme di atti a partire dal segnale che li ha stimolati.

3. LE SPECIE DELL' ABITUDINE - L'abitudine non crea alcuna attività speciale: essa si applica a tutte
per dare loro un funzionamento più facile e più regolare, e quando produce del nuovo, è sempre nel quadro
delle attività fondamentali dell'uomo. Noi possiamo dunque avere tante abitudini quante sono le nostre
funzioni.
Possiamo tuttavia dividerle tutte in tre grandi classi che sono: le abitudini intellettuali che interessano le
facoltà di conoscenza (a questo titolo la scienza, considerata soggettivamente, è un'abitudine); le abitudini
motrici, che sono attitudini a eseguire, per mezzo di meccanismi acquisiti con l'esercizio e che funzionano
automaticamente, atti più o meno complessi (tali le tecniche del ciclismo, del pattinaggio, della scrittura e in
generale dei mestieri); le abitudini morali, che modificano la volontà (tali sono i vizi e le virtù).

71 - 4. FUNZIONE DELL'ABITUDINE.

a) Automatismo e dinamismo. Questi due aspetti che si oppongono, in astratto, si compongono in realtà
nell'abitudine. Infatti l'automatismo è il mezzo di cui dispone la natura per ottenere il conseguimento dei
suoi fini. Il meccanismo è in essi, come ovunque, lo strumento della finalità (I, 188) e l'artificio della natura
consiste nell'usare il meccanismo per liberarsene. Si pensi, ad esempio, alla libertà che rappresentano per lo
spirito le abitudini intellettuali, per la vita morale le virtù (che sono propriamente abitudini), per la vita
sociale il linguaggio e la scrittura, come le tecniche dei mestieri. È meraviglioso osservare come tutti questi
automatismi segnando ogni volta nuove conquiste e fissandole sotto forma di abitudini, liberino le forze
dell'uomo nella direzione di nuovi progressi.

b) Finalità dell'abitudine. Vediamo ora l'importanza capitale dell'abitudine nella vita individuale e sociale.
Per riassumere la sua complessa finalità, diciamo che essa è nello stesso tempo condizione di continuità e
condizione di progresso.
L'abitudine è condizione di continuità, in quanto per mezzo di essa il presente è legato al passato che si
assimila e prepara l'avvenire. Senza l'abitudine, l'attività dell' essere vivente sarebbe integralmente
determinata dagli stimoli del momento e non avrebbe né unità né continuità.
L'abitudine è fattore di progresso, da una parte, in quanto per mezzo di essa, i risultati acquisiti sono
mantenuti ed accresciuti; l'abitudine, guardata sotto questo aspetto, permette di evitare le ripetizioni
perpetue, che sarebbero necessarie se il frutto di ogni sforzo si perdesse di mano in mano e non facilitasse,
conservandosi e accumulandosi, gli sforzi verso nuovi progressi; essa appare nello stesso tempo come una
funzione di economia, che riduce al minimo il dispendio di forza richiesto dall'azione e, in tal modo, libera
per nuovi compiti una parte dell'attenzione e dell'energia dell'essere vivente. L'abitudine è, d'altra parte, e per
eccellenza, fattore di progresso, quando diviene creatrice, cioè quando aggiunge alle attitudini naturali o ai
meccanismi determinati dalla natura nuovi modi di esercizio e anche meccanismi inediti e nuove tecniche,
che, a loro volta, liberano gli esseri viventi dalle strettoie del determinismo naturale e, dotandoli di capacità
originali, aprono alla loro attività prospettive e sviluppi indefiniti.

Queste considerazioni ci portano dunque a definire l'abitudine, considerata questa volta oggettivamente,
come l'insieme di modificazioni e di perfezionamenti che, producendo un'attività in ragione del suo proprio
esercizio e conferendole un'attitudine ad esercitarsi in maniera sempre più perfetta e sempre più sicura,
condizionano, in tutti gli ordini dell'attività umana, i progressi degli individui e della società.
Contrariamente ad un'opinione corrente, è opportuno osservare che un certo numero di abitudini non si
accompagnano ad alcuna tendenza a compiere atti che le costituiscano. Tali le abitudini (o tecniche) del
parlare, del leggere, dello scrivere. L'abitudine è un impulso automatico acquisito a continuare un atto
cominciato, ma non a cominciare quest'atto, cioè a mettere in movimento quest’automatismo. Quando pare
crei una tendenza, essa non fa in realtà che facilitare il soddisfacimento di un bisogno o tendenza che le
preesiste e che tende ad assumere la forma della passione. (Avere l'abitudine di pattinare non è altro che
possedere la tecnica del pattinaggio; il costume di pattinare è funzione di un gusto o di una passione che
l'abitudine - la padronanza e l'esercizio della tecnica - permette di soddisfare più facilmente e più
completamente).
43
Queste osservazioni potranno aiutarci a risolvere il problema posto da ciò che alcuni moralisti, come J. J.
Rousseau nell'Émile, chiamano «i misfatti» o «i danni dell'abitudine», presentandola come un principio di
attività puramente meccanica, senza anima e senza vita, come un fattore di indurimento e di saturazione.
Assueta vilescunt, dice, nello stesso senso, un proverbio latino: i piaceri abituali si scolorano e si
affievoliscono. Tutto ciò è vero. Ma, da una parte, sembra che queste obiezioni possano rapportarsi più a quel
che abbiamo or ora definito costume che all'abitudine propriamente detta: per se stessa questa non produce
più sazietà di quanto non generi bisogno. D'altra parte, se si tratta di sottolineare il carattere realmente
meccanico, stereotipato, inumano di alcune «abitudini», diremo che queste osservazioni possono applicarsi
solo alla praticaccia (o routine), che è l'abitudine sempre più ridotta alla sua funzione meccanica e all'
automatismo rigido della sterile ripetizione, cioè a dire vuotata di quel dinamismo che serve a definire
l'abitudine autentica, automatismo, è vero, ma che resta sempre al servizio dell'uomo, invece di asservirlo,
come fa la praticaccia.

72 - 5. EFFETTI DELL'ABITUDINE - Gli effetti di una attività non sono necessariamente compresi tutti
nella sua finalità, perché bisogna tener conto dei risultati o conseguenze che sono legati ai fini della funzione
(a titolo di mezzi o di effetti accidentali), senza che siano intenzionalmente perseguiti da essa. In ciò che
riguarda l'abitudine, scopriamo tre ordini di effetti distinti.

a) Modificazione e rinforzamento degli organi e delle facoltà. Da una parte, l'abitudine sviluppa gli organi
conferendo loro forza, resistenza ed elasticità. Al contrario l'inattività li atrofizza. L'educazione fisica è,
appunto, fondata su questa legge. D'altra parte le abitudini, costituendo altrettanti mezzi di esercizio delle
nostre attività, sensibile, intellettuale, volontaria e morale, a funzionare con rapidità, precisione e sicurezza,
ci forniscono in tutti questi ordini, tecniche che ci divengono di più in più familiari fino a che ne usiamo
spontaneamente e senza sforzo.

b) Diminuzione della coscienza. È quello che esprime il linguaggio comune, per il quale «agire per
abitudine» significa «agire macchinalmente». Se è stata necessaria l'attenzione per acquistare le abitudini,
queste, una volta formate, tendono ad emanciparsi dall'attenzione. Spesso, anzi, l'attenzione diviene una
fonte di errori, perché dirigendosi sugli elementi successivi di un insieme che funziona come un tutto, rischia
di separarli e di isolarli e perciò di disorganizzare il sistema.

Questa diminuzione della coscienza, attraverso il giuoco dell'abitudine, si osserva in tutti i campi. Nel
campo organico innanzi tutto, nel quale noi compiamo numerosi movimenti che si concatenano gli uni agli
altri quasi inconsciamente. Nel campo psicologico e morale, poi, in cui le idee entrano in relazione tra loro e
i ragionamenti si svolgono in qualche modo spontaneamente, in cui le nostre decisioni vengono prese senza
che sembri avervi menomamente influito la nostra volontà.

c) Rinforzamento dei bisogni. Se l'abitudine non crea, propriamente parlando, bisogni, non manca di
rafforzare le tendenze che l'hanno posta al loro servizio. È soprattutto in tal caso che si potrebbe parlare di
«effetto per accidente», almeno ogni volta che l'abitudine aggiunge una nuova forza a condotte fisicamente o
moralmente pregiudizievoli. Poiché il fine dell'abitudine non può essere quello di facilitare l'esercizio di
un'attività che rivesta forme anormali di passione; rimane tuttavia vero che l'abitudine, che è, per se stessa,
tecnica e meccanismo, comporta una specie di neutralità o di indifferenza e che, destinata dalla natura a
servire i suoi progressi, può anche talvolta contribuire al suo asservimento, come accade ogniqualvolta i vizi
fanno dell'abitudine un mezzo per esercitarsi con più facilità. In un caso come nell'altro, l'abitudine funziona
come una natura, cioè come un nuovo principio operativo sopraggiunto ai bisogni e alle tendenze naturali.
Osservando queste funzioni di «seconda natura» si dice comunemente che il meccanismo costituito per
mezzo dell'abitudine tende a rendersi autonomo nelle sue funzioni, in quanto gli istinti e le tendenze che essa
mette in opera hanno acquisito, per mezzo di essa, una forza sempre più grande e sempre meno contrastata, e
l'abitudine può divenire una vera tirannia. È anche evidente d'altronde che l'abitudine deve effettivamente la
sua potenza tirannica solo alla tendenza, al bisogno o alla passione che l'hanno assunta per esercitarsi con
maggiore facilità. Di per sé essa non conosce altra tirannia (la quale può, veramente, divenire estrema nei
casi patologici) fuorché quella che regola lo svolgersi dell'atto abituale a partire dal primo atto (o primo
anello della catena). L'incitamento a cominciare con la tirannia che esso comporta è così poco effetto dell'
abitudine che è, piuttosto, abitudine assoggettata e subordinata all'imperativo del bisogno o della passione,
senza tuttavia cessare di contribuire in seguito, attraverso il giuoco della reciproca causalità, a rinforzare la
passione o il bisogno che l'hanno generata.
44

La legge di Ravaisson (De l'Habitude, Parigi, 1907, p. 9), secondo la quale l'abitudine aumenta l'attività e
diminuisce la passività, può essere utile a riassumere gli effetti dell'abitudine, nello stesso tempo operatrice
di automatismo e di assuefazione e creatrice di capacità. Su questo passive e attive. Questa è tuttavia una
delle più contestabili distinzioni, perché non vi sono abitudini puramente passive, essendo passività sinonimo
di azione meccanicamente subita, il che non ha nulla a vedere con l'abitudine. In realtà ogni abitudine è
attiva. L'attività o il dinamismo che la definisce, si manifesta fin nei fatti di adattamento e di
accomodamento, in cui la natura stessa ora stabilizza ora accentua l'effetto di un'azione meccanica. A più
forte ragione in tutti i casi in cui è la volontà che interviene a formare l'automatismo destinato a fissare una
tecnica nuova e a consolidare un progresso.

Art. II - Formazione delle abitudini


A. CONDIZIONI DI FORMAZIONE

73 - L'abitudine, per la sua formazione, dipende da condizioni biologiche, fisiologiche e psicologiche.

1. CONDIZIONI BIOLOGICHE.

a) Abitudine e natura. Abbiamo visto prima che l'abitudine, nella sua forma più elevata, è uno strumento di
superamento della natura. Bisogna però ben intendere che questo superamento stesso è nell'aspirazione della
nostra natura, che è soggetta alla servitù della materia, ma che è anche spirito e libertà . L'abitudine
creatrice è nello stesso tempo effetto e segno di questa dualità della natura: essa si sistema e si sviluppa ai
confini del corpo e dello spirito, ambigua e ambivalente come l'uomo, che si ritrova interamente in essa.
Anche per questo essa può incontrarsi in tutti i campi dell'umano e procurare a tutti questi nuove modalità
di esercizio, prolungando una natura divenuta prodigiosamente plastica sotto l'azione dello spirito. Noi
abbiamo infatti tante abitudini specificamente diverse quante funzioni: abitudini organiche, fisiologiche,
psicologiche, morali e sociali, che comportano le une e le altre innumerevoli varietà secondo le diverse
forme che i comportamenti degli esseri viventi rivestono.

b) Abitudine e contro-natura. Biologicamente, l'abitudine non avrà dunque altra condizione che di
rispondere in qualche modo all'aspirazione della natura, che sarebbe come dire che la natura esclude solo le
abitudini che la contrariano o la negano. Una certa assuefazione può fare tollerare eccessi e difetti, ma entro
limiti che la natura non lascia mai superare. Gli esseri viventi non possono riuscire a trasformare in abitudini
comportamenti che vanno contro le tendenze fondamentali della natura.

Non si può abituare un topo a percorrere, per raggiungere un pezzo di lardo, un dato itinerario in un
labirinto, se dovrà ricevere ogni volta un getto d'acqua bollente a metà del percorso. Per quanto spesso si
ripeta l'operazione, non si forma nessuna abitudine; il topo, benché affamato e, per quanto sia allettante il
boccone di lardo, finisce per non muoversi più, o per trovare un'altra strada. Non si contrae l'abitudine di
camminare sulle mani. E se si può ridurre il tempo del sonno, non si può arrivare ad abituarsi a vivere senza
dormire. Nello stesso modo, non si riuscirà a contrarre l'abitudine di pensare contro il principio di
contraddizione. Senza dubbio si può pensare in maniera anarchica e assurda; ma non si tratta che di un
accidente (frequente che sia) e non di un'abitudine propriamente detta: la ragione, che è anche natura, si
oppone alla formazione di una tale abitudine così fermamente come lo stomaco alla digestione di sassolini.
È vero che ci sono abitudini viziose e anche «contro-natura», ma queste abitudini esistono solo perché si
appigliano in qualche modo alla natura; esse rispondono a bisogni reali, ma o mostruosamente esaltati, o
deviati dal loro vero fine.

2. CONDIZIONI FISIOLOGICHE.

a) L'abitudine come sistema fisiologico. L'abitudine costituisce, nello stesso tempo fisiologicamente e
psicologicamente, un sistema dal senso irreversibile, un'azione, una e continua, e non un mosaico di
sequenze causali discontinue. Gli elementi che lo compongono (stimolo o segnale, con tutto ciò che a questo
è associato, reazioni diverse, motrici e affettive, intellettuali o morali, semplici o complesse) formano un
tutto organizzato in tal modo che l'intero sistema tende a riprodursi dal momento in cui è data la condizione
iniziale. Inversamente, il blocco o il sistema avrà tendenza a disorganizzarsi dal momento in cui le
45
condizioni della sua funzione si troveranno modificate, cioè dal momento in cui non potrà più funzionare
come un tutto.

b) Il processo fisiologico. La prima condizione della formazione dell'abitudine risiede nella creazione delle
vie nervose, che faciliteranno il passaggio dell'influsso nervoso. Ma è necessario che le abitudini, quando si
traducono in fenomeni motori, si inscrivano nel sistema muscolare. Gli organi devono essere resi cedevoli e
disciplinati. Donde la resistenza che incontra l'acquisizione dell'abitudine e la funzione della ripetizione.
Questo diviene indispensabile dal momento in cui si tratta di vincere una resistenza organica. Il numero delle
ripetizioni, come la solidità dell'abitudine organica, saranno d'altronde estremamente variabili secondo le
specie e gli individui, ed anche secondo che le connessioni da attuare saranno più o meno naturali e più o
meno vicine alle connessioni già esistenti. Negli animali come negli uomini, le abitudini si aggiungono le
une alle altre; le prime servono di base a quelle che seguono 44.

Si è stabilito (legge di Jost) che generalmente è profittevole spaziare le ripetizioni. Il più opportuno
intervallo è d'altra parte variabilissimo secondo le specie, gli individui, le circostanze e il genere di abitudine
da acquistare. Questa legge si spiega mediante la necessità di una «maturazione biologica» (Piéron). Si sa
che spesso, dopo sforzi infruttuosi, per formare abitudini motrici (per imparare, per esempio, a pattinare),
seguiti da un lungo tempo di abbandono di queste prove, l'abitudine si trova formata apparentemente d'un
colpo alla prima ripresa delle prove per l'addietro inutili. Ciò può essere spiegato nello stesso tempo per
mezzo del beneficio persistente dei primi sforzi (memoria organica) e per mezzo dell'effetto del riposo
organico e psicologico consecutivo all'interruzione delle prove.

Quale spiegazione si può dare del paradosso delle abitudini che si formano fin dal primo atto? Alcuni
psicologi hanno talvolta preteso che ogni abitudine dovrebbe formarsi fin dalla prima volta, senza di che, essi
dicono, non potrebbe mai formarsi, mancando il primo atto di lasciare alcuna traccia. Infatti, il secondo che,
in tal caso, partirebbe da zero, non ne lascerebbe di più, né il terzo, né alcuno dei seguenti. Ma c'è in questo
un equivoco. Indubbiamente, ogni atto lasciando una «traccia» più o meno profonda nella «memoria
organica» (vie nervose) crea per ciò stesso una possibilità d'abitudine. Ma non si ha abitudine propriamente
detta che quando la modificazione è acquisita e stabile. Quando l'abitudine sembra formarsi d'un colpo, ne
esisteva già una predisposizione, sia per effetto di istinti e di tendenze più o meno attualizzate, sia per la
preformazione parziale del sistema che sarà costituito dall'abitudine. Così un danzatore di professione può
imparare di prim'acchito una nuova danza, sconosciutagli fino a quel momento, o un pianista esercitato ha
immediatamente «nelle dita» un pezzo che suona per la prima volta.

74 - c) Abitudine e riflesso. Il fenomeno del «transfert» associativo (o riflesso condizionato) (58) fornisce
spesso lo schema fisiologico dell'abitudine. Essa sarebbe, da questo punto di vista, il risultato della
formazione e della combinazione di archi riflessi, cioè di associazioni funzionali tra neuroni, che formano
raccordi coordinati tra loro e condizionano un comportamento determinato del soggetto, dal momento in cui
lo stimolo (proprio o condizionato) è dato.
In realtà questo schema non è valido: né l'abitudine può essere ridotta al riflesso, né il riflesso può essere
ridotto all'abitudine. Da una parte, infatti, il riflesso è dato dalla natura (il che vale anche per il riflesso
condizionato, in quanto almeno la forza dello stimolo condizionato deriva per mezzo di associazione da
quello dello stimolo assoluto), quando l'abitudine è acquisita dall'essere vivente. Da un altro punto di vista, il
riflesso si presenta come una reazione esplosiva istantanea o come una catena di reazioni discontinue,
allorché l'abitudine appare come una organizzazione nella quale ogni movimento chiama tutti gli altri per
effetto di una specie di apertura cioè di un'attitudine di ciascun elemento del tutto ad aprire il passaggio a
quello che segue.

44 Gli psicologi moderni, sotto il nome di abitudini, presentano soprattutto delle abitudini motrici. Ci sono però anche
abitudini della sensibilità, dell'intelligenza, della volontà. Queste abitudini sono meglio definibili come qualità stabili
che perfezionano una facoltà o potenza operativa, nel tempo stesso nel suo essere e nelle sue operazioni. Si tratta di ciò
che gli Scolastici chiamavano habitus. Tuttavia, anche nei casi degli habitus intellettuali, non si può mettere in dubbio la
realtà di una base fisiologica, più di quanto non si possa contestare, nei riguardi delle operazioni dello spirito, la realtà
di un condizionamento cerebrale (67). Vero è che allo stato presente della scienza, non è consentito precisare la natura
di questo condizionamento fisiologico degli habitus intellettuali. Tutto ciò che è possibile dire è che, in modo uguale
alle funzioni intellettuali, gli habitus che le perfezionano non debbono essere legati a strutture definite.
46
Quel che abbiamo detto spiega quest'altro contrasto: l'abitudine dura mentre il riflesso non dura. Il riflesso
infatti non è che una risposta momentanea a una situazione presente esattamente definita; senza dubbio può
essere indefinitamente ripetuto, ma è ogni volta un atto nuovo, senza legame col precedente né col
susseguente. Specie di attività puntuale e istantanea, il riflesso si esaurisce ogni volta nel suo atto.
L'abitudine, al contrario dura; essa costituisce uno stato; ha la stabilità di una qualità e, in quanto tale sussiste
indipendentemente dagli atti che la attuano, come una capacità di rispondere a situazioni indefinitamente
varie e di perfezionarsi per mezzo di questo esercizio.

D'altra parte, non si può nemmeno ridurre il riflesso condizionato all'abitudine. Il riflesso si trova
effettivamente condizionato da un'abitudine (per esempio nelle esperienze di Pavlov, per mezzo della
associazione del fischio-stimolo condizionato con la presentazione della carne in polvere-stimolo assoluto), e
questa abitudine associativa permette il «transfert» allo stimolo condizionato dell'energia propria dello
stimolo incondizionato. Ma appunto questo stesso «transfert» costituisce il riflesso, che è, come tale,
essenzialmente distinto dall'abitudine che lo condiziona.

D'altra parte osserviamo che il «riflesso puro» esiste solo in laboratorio, cioè che è solo un'astrazione, uno
schema, un taglio nel reale, ottenuto per mezzo di procedimenti artificiali. Ciò non significa che il riflesso
non corrisponda a nulla nella natura. Tutt'altro, perché «astrarre non è mentire». Ma si tratta di comprendere
che per ottenere il riflesso puro, bisogna isolare l'attività riflessa in seno all'attività generale dell'essere
vivente, mentre essa non è mai isolata e indipendente. Fa blocco col comportamento totale dell'essere vivente
ed è più o meno funzione di questo stato totale (59-60). Ha normalmente posto, realtà e senso solo in seno e
al servizio delle attività più complesse e più alte, come l'abitudine e l'istinto, l'intelligenza e la volontà.

Bisogna, dunque, distinguere l'abitudine dai meccanismi che essa costruisce ed utilizza per i suoi fini.
Lungi dal ridurvisi, essa è tuttavia un mezzo per dominarli. Senza dubbio dovrà anch'essa sottomettersi ad
essi: ma in ciò si comporta come l'operaio che si sottopone all'utensile che ha creato per i suoi bisogni.
L'automatismo del riflesso appare come un fatto naturale, mentre quello dell'abitudine è acquisito e diviene,
come tale, uno strumento di liberazione e di superamento della natura.

75 - 3. CONDIZIONI PSICOLOGICHE - Queste condizioni possono essere riassunte nell'interesse, che


governa l'attenzione, e nell'intelligenza, che prende coscienza dei meccanismi che l'abitudine esige in vista di
organizzarli, di semplificarli e di coordinarli. Se ne deduce che i fattori psicologici sono, nell'uomo,
particolarmente efficaci. Ma sono già in opera negli animali.

a) Prove ed errori. L'ammaestramento esige già una certa attività da parte dell' animale, poiché la
percezionesegnale può avere il suo effetto solo se essa è integrata in un dato insieme. Ha valore solo
relativamente a quest'insieme e per conseguenza può esser rilevata solo a prezzo di una certa attività, che si
avvicina all'interpretazione. È ciò che Mc Dougall (An Outline of Psychology, p. 186 sg.) si è sforzato di
mettere in luce, sottolineando che tutte le prove per spiegare meccanicamente l'ammaestramento sono
destinate a fallire, per la ragione decisiva che al principio dell'ammaestramento c'è almeno un atto psichico
di conoscenza. In altri termini, il meccanismo non è causa, ma effetto e risultato.
Il metodo di formazione delle abitudini per «prove ed errori» ovvero per tentoni conferma nettamente
questa conclusione. Negli animali inferiori, si produce un adattamento alla situazione immediata ma che pare
non lasci alcuna traccia.

Mc Dougall (An Outline of Psychology, op. cit., p. 65) insiste, secondo Jennings (The Behavior of Lower
Organisms, p. 17) sulla spontaneità e l'iniziativa che già si manifesta nel comportamento degli unicellulari.
Sia d'esempio il paramecio: normalmente, quando entra in contatto con un oggetto solido rovescia il
movimento dei suoi cigli, rincula, aggira l'oggetto e riparte in avanti. Altre volte resta immobile, fisso alla
superficie, cambia repentinamente direzione, poi si ferma di nuovo e infine si rimette a nuotare in avanti.
Tutto ciò può accadere, osserva Jennings, senza che si abbia il minimo cambiamento possibile nelle
condizioni esteriori. Negli animali di organizzazione più complessa, si osserva l'intervento della memoria
sensibile che segna il passaggio dal puro riflesso all'abitudine. Le prove, sulle prime esitanti e incerte,
acquistano a poco a poco sicurezza e finiscono per determinare un comportamento più agevole e deciso.

Le esperienze utilizzano allo scopo, largamente, il procedimento del labirinto o della gabbia truccata. Per
esempio, si pone un cane, un gatto, un topo, ecc, in una gabbia truccata da labirinto e dalla quale l'animale,
47
tenuto a digiuno, possa vedere il cibo, posto all'esterno. L'animale, per uscire dal labirinto, deve fare
numerose prove infruttuose. A forza di procedere a tentoni, il caso finirà per fargli trovare l'uscita. Se si
ripetono gli esperimenti si osserva sempre un numero minore di prove. A poco a poco, dopo progressi
irregolari, l'animale uscirà rapidamente dal labirinto. L'apprendimento è raggiunto, cioè l'abitudine è formata.

Questo procedimento di andare a tentoni è comune a tutti gli animali: dagli inferiori ai superiori, non si
osserva che una differenza di grado. Il bambino stesso usa più volentieri il procedimento per prove ed errori
che il metodo e l'adulto è sempre costretto a ricorrervi ogni qualvolta è incapace di rappresentarsi
mentalmente un meccanismo.

Kohler, Intelligenzprufungen an Anthropoiden, 1924, (L'intelligence des singes superieures, trad. P.


Guillame, Parigi, 1927, p. 258), afferma che lo scimpanzé «non solo si distingue dal resto degli animali
perché si avvicina alla razza umana per tutta una serie di caratteri morfologici e fisiologici ma anche perché
presenta quelle forme di condotta che sono considerate specificamente umane». Ma, da una parte, per quanto
riguarda l'estensione o il campo dell'intelligenza, Kohler nota che «lo scimpanzé mostra una debolezza
generale di organizzazione che lo avvicina più alle scimmie inferiori che all'uomo». D'altra parte, il paragone
di Kohler è istituito soprattutto col bambino. È questa una fonte di grave confusione. Il bambino procede a
tentoni, come gli animali, ma può procedere per metodo e quanto più cresce in età ricorre sempre più al
metodo, cosa che l'animale non fa. Non si può, dunque, dire che lo scimpanzé ha un comportamento
specificamente umano per la sola ragione che la sua condotta somiglia a quella del bambino. In realtà è vero
il contrario: la condotta del bambino somiglia a quella dell'animale. Nello stesso tempo tuttavia la supera
immensamente, almeno per le sue possibilità.

76 - b) L'adattamento. Le esperienze che concernono le condizioni dell'addestramento, cioè


dell'assuefazione, sono particolarmente interessanti. Tutte mostrano nettamente la funzione importante che
esercitano i fattori coscienti nel progresso dell'addestramento.

Citeremo, qui, le esperienze di Thornidike sui fattori dell'addestramento 45. Poc'anzi, sotto l'influenza
dell'associazionismo, formulavamo la legge seguente, come legge fondamentale dell'addestramento: la
semplice ripetizione di una attività rende quest'attività sempre più facile. Thornidike dimostra che la
semplice ripetizione di una attività è insufficiente. Ecco una delle esperienze addotte come dimostrazione. Il
soggetto, con gli occhi bendati, è seduto a un tavolo coperto da un foglio di carta e tiene in mano una matita
la cui punta è appoggiata a una riga posta parallelamente al bordo del tavolo. Gli si chiede, per esempio, di
tracciare una linea di 20 cm, e nella stessa seduta gli si fanno fare 200 prove. Si riprende la stessa serie di
prove, per dieci giorni consecutivi, senza informare il soggetto dei risultati ottenuti. Secondo la «legge
dell'esercizio» la variabilità delle prove dovrebbe diminuire di mano in mano, in ragione diretta al numero
degli esperimenti. Invece si osserva che, nell'ultimo giorno la variabilità è grande quanto nel primo.
Thornidike stabilisce inoltre, per mezzo di altre esperienze, che, fattori dell'addestramento (cioè della
formazione d'un'abitudine) sono: la pertinenza ovvero il fatto per il quale gli oggetti da assimilare
costituiscono insiemi o totalità logiche o convenzionali, l’effetto dell’attività: l'effetto felice o riuscita,
facilita il progresso, l'effetto infelice (scacco o fallimento) talvolta ritarda il progresso (quando deprime o
scoraggia il soggetto), talvolta facilita il progresso (quando la sanzione stimola lo sforzo e l'attenzione) 46.
Questi due fattori significano con evidenza che al principio dell'addestramento, e per conseguenza
dell'abitudine, c'è un fatto mentale.

c) Il metodo. Nel procedimento per prove ed errori, si scopre il meccanismo per caso. Per mezzo del
metodo, esso viene rappresentato mentalmente ed è questa rappresentazione che regola gli sforzi del
soggetto. In questo si distingue essenzialmente il comportamento animale dalla condotta dell'uomo. L'uomo
è capace di pensare l'insieme del sistema, cioè la sequenza dei mezzi coordinati destinati a conseguire un
dato fine. È questo stesso che noi chiamiamo metodo (I, 111).

45 Cfr. E. L. Thorndike, The Fundamentals of Learning, Nuova York, 1932; The Measurement of Intelligence, Nuova
York, 1934.
46 L'esperimento descritto più sopra può essere modificato nella seguente maniera. Ogniqualvolta il soggetto traccia
una linea della lunghezza compresa tra i 18 o i 22 cm., l'esperimentatore dice: «Bene»; in caso contrario dice: «Male».
Si osserva che la variabilità delle tracce diventa sempre meno grande.
48
Il metodo può d'altra parte comportare molti gradi. Al suo livello più basso è imitazione di un modello. In
questo caso abbiamo rappresentazione del fine da conseguire, ma immaginazione vaga dei mezzi da
impiegare. Per questi, deve dunque intervenire il processo a tentoni, soprattutto quando si tratta di acquistare
abitudini motrici, la cui formazione incontra una resistenza organica 47. Il modello serve solo come mezzo di
controllo. Al livello più elevato, si ha rappresentazione nello stesso tempo di fine e mezzi: sono previsti i
meccanismi che bisogna mettere in funzione, studiati, organizzati e strettamente coordinati in vista di
ottenere il risultato in progetto più rapidamente e più agevolmente che sia possibile. A poco a poco, in misura
che l'abitudine si costituisce e si rinforza, la rappresentazione dei movimenti da compiere prende la forma di
un semplice schema motore, la cui funzione principale è di dar principio all'insieme delle operazioni, che
formano un tutto o un sistema.

4. L'ABITUDINE COME SIGNIFICATO MOTORE - Le osservazioni che precedono non devono indurci
a credere che esse implichino una concezione intellettualistica dell'abitudine, come se questa fosse il risultato
di un atto intellettuale che ne organizzerebbe gli elementi e che non avrebbe più ragione di esercitarsi una
volta attuatane l'organizzazione. Sotto questo punto di vista l'abitudine apparirebbe solo come una
cognizione astratta. Senonché, non si capirebbe più in questo caso come l'intervento della coscienza, cioè il
richiamo effettivo dell'atto intellettuale costitutivo del sistema abituale avrebbe per effetto di perturbarne lo
sviluppo. Dovrebbe accadere esattamente il contrario.
In realtà, l'attività intelligente è proprio una condizione dell'acquisizione delle abitudini, ma una condizione
estrinseca e accidentale. Senza dubbio, l'abitudine si presenta come la acquisizione di un significato, perché è
un sistema, ma questa acquisizione non è un'operazione astratta, che debba raccogliere elementi molteplici e
disparati sotto una sola idea. È essenzialmente «un'operazione motrice di acquisizione di un significato
motore», cioè una cognizione che è nel mio corpo e per mezzo della quale il mondo dell'azione risulta nello
stesso tempo disegnato dalle mie intenzioni motrici e integrato al mio spazio corporeo.

Il che ci permette di comprendere, per esempio, come, pur sapendo dattilografare, si è incapaci di dire, alla
prima, dove si trovi questo o quest'altro segno della tastiera. Ciò stesso esclude che l'abitudine sia un puro
meccanismo automatico (somma di riflessi condizionati) o una pura conoscenza (cognizione dei movimenti
oggettivi da compiere per azionare ciascun carattere della tastiera). Infatti «il soggetto conosce dove si
trovano le lettere sulla tastiera come noi conosciamo dove si trova ciascuno delle nostre membra, di una
conoscenza familiare che non ci dà una posizione nello spazio oggettivo. Quando la dattilografa esegue sulla
tastiera i movimenti necessari, questi movimenti sono guidati da un'intenzione, ma quest'intenzione non pone
i tasti della tastiera come luoghi oggettivi. È letteralmente vero che il soggetto che impara a dattilografare
integra lo spazio della tastiera al suo spazio corporeo». (M. Merleau-Ponty, La Phénoménologie de la
perception, Parigi, 1945, pp. 168-169).

B. CONDIZIONI DI CESSAZIONE D'ABITUDINE

77 - Le abitudini, anche più inveterate, possono perdersi, così come sono state acquistate. Le leggi della
cessazione (o dissuefazione) sono esattamente contrarie alle leggi di acquisizione ed è possibile togliersi le
abitudini astenendosi dall'esercitarle, cioè disorganizzando il sistema che esse compongono.

1. L'ASTENSIONE - L'astensione o non-esercizio degli atti abituali, ammette due forme o gradi, l'uno
consistente nella progressiva diminuzione del numero degli atti abituali, l'altra la radicale e repentina
soppressione. In ogni caso, la volontà deve intervenire per inibire l'effetto normale del segnale, e per ciò
stesso, dell'iniziarsi e dello svolgersi dei movimenti, gesti, o parole che costituiscono il meccanismo abituale.
Così il fumatore, nel quale il vedere il pacchetto di sigarette sulla sua scrivania determina automaticamente il
gesto di prendere una sigaretta e di accenderla e che, deciso a fumare meno o a non fumare più, trattiene
volontariamente la mano che si tende verso le sigarette, o che ripone il pacchetto in un cassetto, per evitare il
determinismo abituale. A poco a poco, quando lo sforzo d'inibizione è mantenuto, l'abitudine, cioè il
meccanismo definito per mezzo del prodursi automatico del gesto di prendere una sigaretta e di accenderla,
alla sola vista del pacchetto, quest'abitudine sparisce in quanto non viene più esercitata.
A maggior ragione, l'abitudine sparisce per difetto di esercizio, quando è solo una tecnica (arte o mestiere,
sport o giuoco) che si cessa di praticare, e non lo strumento di una passione che bisogna vincere. Il pianista

47 È noto come il bambino che impara a scrivere seguendo il modello posto sotto i suoi occhi debba fare sforzi
maldestri e ripetuti per scoprire e coordinare i movimenti da eseguire e per eliminare i movimenti inutili.
49
che non fa più esercizio e non suona più, finisce per non saper suonare più se non male; lo sportivo che non
si allena più, dimentica rapidamente la tecnica dello sport a lui familiare.

2. LA DISORGANIZZAZIONE - Qualche volta si osserva che l'abitudine può essere abolita per mezzo di
sostituzione, cioè a dire per mezzo dell'acquisizione di un'abitudine contraria a quella che si vuole abolire. È
certo che, soprattutto nell'ordine morale, questo è il procedimento più efficace, perché propone un risultato
positivo all'attività: normalmente, si riuscirà meglio a correggersi dall'abitudine della collera sforzandosi di
acquistare abitudini di pazienza e di dolcezza, piuttosto che limitandosi ad inibire la collera quando questa
sta per scatenarsi allo stimolo di una provocazione abituale. Tutto ciò nondimeno si applica molto
preferibilmente alla tendenza e alla passione piuttosto che all'abitudine in se stessa.
Il mezzo più efficace, insieme all'astensione, per vincere l'abitudine consiste nel disorganizzare il sistema
che essa costituisce.

Astensione e disgregazione si possono applicare agli animali. Si nota, per esempio, l'efficacia dei riflessi
condizionati per mezzo della non-ripetizione degli esperimenti. Così un luccio separato per mezzo di un
tramezzo di vetro dai chiozzi che è solito attaccare, in capo a tre mesi di separazione non li attacca più: si
può togliere la separazione. È anche possibile abolire l'abitudine disorganizzando il suo meccanismo per
mezzo di aggiunzione di un nuovo elemento: il topo che esce senza esitazione dal labirinto, si confonde dal
momento in cui viene mutata la forma del labirinto. Infine si usa frequentemente il metodo di inibizione,
introducendo nel meccanismo abituale un elemento sgradito all'animale. Il topo che, a metà del percorso del
labirinto, riceve regolarmente un getto di acqua bollente, o accelererà la sua corsa o non proverà più ad
uscire.

In ciascuno di questi casi, la sparizione dell'abitudine, come la dimenticanza procederà con il disgregarsi
dei sistemi motori per mezzo dei quali essa era espressa. D'altra parte questa disgregazione è raramente
totale, quando l'abitudine era solidamente organizzata. Ciò spiega la reviviscenza delle abitudini perdute e la
minore o maggiore facilità che si incontra a ristabilirle. Le stesse osservazioni saranno valide per il caso della
dimenticanza, considerata come l'oscuramento di un sistema di abitudini motrici.

È opportuno distinguere nettamente il processo di eliminazione delle abitudini propriamente dette e i


procedimenti che servono a frenare o attenuare le tendenze e le passioni. Spesso si confondono queste due
cose, perché, come abbiamo visto, l'abitudine interviene generalmente per facilitare alle tendenze il loro
libero esercizio. Da questo punto di vista, è certo che la rottura di un'abitudine si rifletterà sulla tendenza che
l'utilizza, per indebolirla o eliminarla. Ma la tendenza e la passione possono sopravvivere all'abitudine. Il
fumatore arrabbiato che sia riuscito a inibire l'automatismo del quale abbiamo parlato prima, non è tuttavia
guarito dal bisogno di fumare, che potrà essere esercitato in altri modi, per esempio per strada. Se il bisogno
di fumare ne risulta nondimeno attenuato, tuttavia resta che l'abitudine (cioè la serie di automatismi per
mezzo dei quali si esercitava il bisogno) e il bisogno o tendenza (le cui forme passionali alimentano
comportamenti abitudinari più o meno tirannici) sono due cose distinte. Quindi il comportamento
abitudinario di carattere passionale esigerà, per essere dominato, uno sforzo di volontà che non sempre
l'abitudine richiede o che essa richiede solo nella misura in cui serve efficacemente all'esercizio di un
bisogno o di una passione.
50

LIBRO PRIMO

LA VITA SENSIBILE

LA VITA SENSIBILE

78 - Per «vita sensibile» s'intende l'insieme dei fenomeni conoscitivi e dinamici determinati nel soggetto
psicologico per mezzo delle eccitazioni provenienti dagli oggetti materiali esterni o che hanno per fine
oggetti sensibili esterni. Questa duplice serie di fenomeni, specificamente distinti, ma in mutua relazione
costante, definisce tutta la vita psichica degli animali. Nell'uomo anche la vita sensibile è informata,
penetrata e in parte governata dalla vita intellettuale. I fenomeni sensibili, conoscitivi e dinamici nondimeno
conservano la loro propria specificità che ci permette, in vista di una precisa nozione della loro inserzione
funzionale nel dinamismo totale del soggetto psichico, di studiarli in se stessi e per se stessi.

PARTE PRIMA

LA CONOSCENZA SENSIBILE

79 - I fenomeni che si raggruppano sotto il titolo generale di conoscenza sensibile sono quelli che risultano
immediatamente dall'azione degli oggetti esterni sui sensi corporei. Gli uni (sensazione) costituiscono le
condizioni sensoriali della percezione, che è per eccellenza l'atto di conoscenza sensibile.
Gli altri sono relativi alla conservazione dei dati sensibili: memoria e immaginazione. La memoria è la
facoltà di conservare il passato in quanto passato. L'immaginazione è la facoltà di conservare e di far rivivere
i dati sensibili in quanto tali, senza espresso riferimento al passato. I problemi che si pongono in proposito
sono quelli delle condizioni di fissazione e di conservazione delle immagini; dell'associazione delle immagini
fra loro (problema dell'associazione delle idee); della combinazione delle immagini tra loro, sia per effetto di
un'attività volontaria del soggetto (immaginazione creatrice e invenzione), sia per effetto del loro
automatismo proprio (fantasticheria, sogno e sonni patologici). Queste sono le tesi nelle quali si divide lo
studio della conoscenza sensibile.

CAPITOLO PRIMO

LE CONDIZIONI SENSORIALI DELLA PERCEZIONE

SOMMARIO48

Art. I - NOZIONE DELLA SENSAZIONE. Le sensazioni non sono elementi - Definizione - Processo della
sensazione.
Art. II - FISIOLOGIA DELLA SENSAZIONE. - L'eccitazione - Natura dello stimolo - Natura
dell'eccitazione - Nozione della soglia La questione della soglia - Soglia primitiva e differenziale

48 Cfr. Aristotele, De Anima; De sensu et sensato - S. Tommaso, Commentari sul De Anima e sul De sensu, I.a, q. 78,
art. 3 – Giovanni di S. Tommaso, Cursus philosophicus, III, q. V-VIII, De sensibus - W. James, The principles of
Psychology, 2 voll., Nuova Y ork, 1890 - J. de La Vaissiere, Éléments de Psychologie expérimentale, Parigi, 1912 -
Woodworth, Le mouvement, trad. fr., Parigi, 1903 - Pradines, Philosophie de la sensation, 3 voll., Parigi, 1928-1932
Piéron, Psychologie expérimentale, Parigi, 1934 - Bourdon, La perception visuelle de l'espace, Parigi, 1902 - E. de
Cyon, L'oreille, Parigi, 1911 - Larguier des Bancels, Le gout et l'odorat, Parigi, 1912 - Villey, Le monde des aveugles,
Parigi, 1914 - Dumas, Nouveau Traité de psychologie, (Bourdon) Le toucher, II, 90-130 e V, 58-69; la vue, II, 157-197 e
V, 10-58 - Lavelle, La perception visuelle de la profondeur. La dialectique du monde sensible, Parigi, 1921 - Nogué,
Esquisse d'un système des qualités sensibles, Parigi, 1943 - Piéron, La sensation, Parigi, 1952.
51
Legge della soglia - Problema della misura delle sensazioni Forma del problema - Discussione -
Legge psico-fisiologica di Fechner - L'impressione organica - Teoria di Muller Discussione - Sede
della sensazione - Il problema - Tropismi, riflessi, cervello.

Art. III - PSICOLOGIA DELLA SENSAZIONE. L'atto di sentire - La sensazione come intuizione - Durata
della sensazione - Misura I vari tempi - Le qualità sensitive - L'atomismo associazionistico -
Semplicità e complessità delle sensazioni - Relatività delle sensazioni.

Art. IV - LE DIVERSE SENSAZIONI. Principi di distinzione - Sensi esterni e interni - I gruppi di sensibili -
I vari sensi - Il gusto L'odorato - L'udito - La vista - Il tatto.

Art. V - I SENSIBILI COMUNI. - Nozioni generali - I tre sensibili comuni - Esperienze, nozioni, teorie - Lo
spazio - I tre spazi - La durata - Durata viscerale e sensorio-motrice - Durata e tempo - Il movimento
- Movimenti oggettivi e soggettivi - Nozione del movimento - Sensazione e percezione - I complessi
sensibili - Elementi e condizioni.

Art. VI - FILOSOFIA DELLA SENSAZIONE. - L’atto di conoscenza - La nozione di conoscenza - La


sensazione come conoscenza L'impressione rappresentativa - L'intuizione sensibile.

80 - Nel fenomeno conoscitivo possiamo distinguere l'atto conoscitivo per mezzo del quale si apprende un
oggetto sensibile e l'oggetto sensibile stesso in quanto conosciuto, il che porta ad istituire un duplice studio,
quello della percezione come attività psicologica e quello dei suoi oggetti. Questo stesso studio deve, per
essere preciso, suddividersi, perché gli oggetti della percezione possono essere considerati come dei «tutti» o
come dei complessi di qualità sensibili. L'apprensione di queste ultime, detta sensazione, è la condizione
fondamentale della percezione o apprensione dell'oggetto come tale. Per questo dobbiamo iniziare con lo
studiare la sensazione come attività psichica (sensatio) e i suoi oggetti come qualità sensibili (sensata).

Art. I - Nozione della sensazione


1. LE SENSAZIONI NON SONO ELEMENTI - È normale iniziare lo studio della conoscenza sensibile
dalla sensazione. Importa però conoscere bene fin dal principio di questo studio che non si tratta di
considerare le sensazioni come elementi o parti delle quali si comporrebbero le percezioni . Infatti ogni
conoscenza è percezione di oggetto ed è solo per astrazione che la sensazione è isolata in seno al processo
conoscitivo totale. I teorici della forma (41) non ammettono la legittimità di quest'astrazione 49. Ma, senza
dubbio, ammettendo che il tutto è prima delle parti e che queste non possono essere comprese bene che in
funzione del tutto, cioè a dire dell'oggetto, si è proprio costretti, per procedere metodicamente e
scientificamente, a cominciare dall'analisi. Innanzitutto, dato un oggetto, non possiamo tuttavia conoscerlo
come tale, cioè nella sua unità funzionale, che precisando il giuoco armonico delle parti o delle condizioni.
Bisogna, dunque, cominciare dallo studio di queste, ma senza mai perdere di vista il tutto per mezzo del
quale e per il quale esse esistono.

81 - 2. DEFINIZIONE - La sensazione è definita come il fenomeno psichico determinato per mezzo della
modificazione di un organo sensoriale. Quando si analizza questo fenomeno, vi si scoprono due elementi
distinti; una conoscenza di un oggetto (oggetto materiale), che è essenzialmente l'apprensione di una qualità
sensibile: colore, per esempio, colore blu, sapore acido, resistenza, ecc. (oggetto formale), e uno stato
affettivo più o meno intenso (piacere o dolore), legato a quest'apprensione ed esso stesso determinante una
reazione motrice del soggetto senziente (attenzione, attrazione, repulsione, desiderio, ecc.). Gli elementi
conoscitivo e affettivo sono in rapporto inverso l'uno all'altro: più è forte lo stato affettivo, meno è netta la
rappresentazione.

3. IL PROCESSO DELLA SENSAZIONE - Questo processo comporta, come causa iniziale, un fatto fisico
di eccitazione prodotto da un oggetto esteriore, - come costitutivo fisiologico, la modificazione di un organo
sensoriale per effetto dello stimolo, infine come costitutivo proprio della sensazione, un fatto psicologico
nello stesso tempo conoscitivo e affettivo, accompagnato da reazioni motrici diverse.

49 Koffka. Cfr. Psychologie. in Lehrbuch der Philosophie, edito da M. Dressoir, Berlino, 1925, p. 548.
52

Art. II - Fisiologia della sensazione


§ l - L'eccitazione

82 - 1. NATURA DELLO STIMOLO - È detto stimolo l'oggetto materiale la cui azione su un organo
sensoriale determina la modificazione di quest'organo 50. Ciò implica immediatamente che un qualsivoglia
oggetto non può essere stimolo di un qualsivoglia senso e così che un oggetto materiale è uno stimolo solo
per le proprietà che determinano effettivamente la sensazione. È stimolo solo l'oggetto che stimola:
l'infrarosso, per esempio, non è uno stimolo per l'occhio, e se la forma rotonda e colorata di un'arancia è uno
stimolo al gusto, lo è solo in virtù di un'associazione tra questa forma colorata e il sapore che le è proprio 51.
Si distinguono, d'altra parte, come abbiamo visto prima (56) stimoli naturali o adeguati e stimoli artificiali o
inadeguati.

2. NATURA DELL'ECCITAZIONE - Cercare la natura della eccitazione, dal punto di vista fisico, significa
applicarsi a scoprire la natura del fenomeno materiale prodotto dall'azione dello stimolo sul corpo. Ma su
questo punto non si conosce nulla di certo. Wundt distingueva «sensi meccanici» (tatto, vista, udito) e «sensi
chimici» (odorato, gusto) supponendo che nei primi l'eccitazione fosse tutta meccanica (choc vibratorio) e
che fosse chimica nei secondi. Nulla di meno certo. L'unica cosa certa al riguardo è che l'eccitazione
fisiologica (impressione organica) non può essere ridotta all'eccitazione fisica (modificazione materiale
dell'organo), né può per conseguenza apparire come un semplice risultato di questa, cosa che vale
maggiormente, a fortiori, per la sensazione, atto psichico irriducibile a una modificazione (chimica o fisica)
dei tessuti. Sperimentalmente, si impone la radicale distinzione a causa del fatto che non c'è uguaglianza tra
l'eccitazione e la sensazione, mentre nel mondo inorganico c'è sempre un rapporto di uguaglianza tra l'azione
(antecedente) e la reazione (conseguente).

§ 2 - La questione delle soglie

A. NOZIONE DELLA SOGLIA

83 - Si distinguono due specie di soglie: le soglie primitive o assolute e le soglie differenziali.

1. - LE SOGLIE PRIMITIVE - È un fatto acquisito dalla esperienza comune che lo stimolo determina la
sensazione solo se raggiunge e non supera una certa intensità. Un peso di l gr. nella mano non è «sentito».
Una luce troppo viva acceca. Abbiamo dunque due soglie, minima (soglia primitiva o assoluta) e massima,
per ciascuna sensazione.
Queste soglie, minima e massima, sono fortemente variabili secondo gli individui, e in ciascun individuo,
secondo l'età, il suo stato fisiologico generale, le sue attitudini innate o acquisite; l'esercizio ha per effetto di
far variare sensibilmente il livello delle soglie primitive: sappiamo come il cieco affini progressivamente la
sua sensibilità tattile. La nozione di «sensibilità normale» (o di soglia media) è dunque alquanto arbitraria.
La soglia primitiva si misura facendo crescere uno stimolo, a partire da un grado non percettibile, fino al
punto in cui ha luogo la sensazione. Questo punto varia, talvolta più alto, talvolta più basso. Si considera
come soglia assoluta della sensazione il valore dello stimolo che produce una reazione percettiva almeno del
cinquanta per cento.

2. SOGLIE DIFFERENZIALI.
50 Gli antichi, in mancanza di dati fisiologici esatti, pensavano che alcuni sensi, (particolarmente quello della vista)
potessero conoscere il loro oggetto senza subire alcuna alterazione fisica o modificazione organica. (Cfr. S. Tommaso,
la, q. 78, art. 3). Ad essi sembrava che fosse richiesta solo, per la sensazione, una «modificazione intenzionale»
(immutatio spiritualis o atto di ricevere una specie sensibile). Oggi noi sappiamo che ogni attività sensibile comporta,
come condizione preliminare, un'alterazione fisica o modificazione organica. Però, beninteso, come abbiamo osservato
più volte, questa modificazione fisica dell'organo non è la sensazione e di per sé non sarebbe sufficiente.
51 Questo punto di vista dell'«associazione» è valido solo per astrazione. In realtà, come vedremo più avanti, non c'è
associazione di qualità, ma percezione di totalità di strutture: la conoscenza non è attuata per mezzo di un passaggio
dalla forma rotonda e colorata al sapore, ma per mezzo dell'apprensione dell'arancia come totalità nella quale sono
implicite figura esterna, colore, sapore, resistenza, ecc., ecc.
53
a) La sensibilità differenziale. La soglia primitiva o assoluta definisce ciò che chiamiamo sensibilità
fondamentale. Si è stati portati a distinguere ancora una sensibilità differenziale, per mezzo della quale il
soggetto percepisce le intensità delle sensazioni e per questo stesso mezzo le variazioni d'intensità delle
eccitazioni. Anche qui si scoprono soglie, cioè per ogni senso un grado di accrescimento minimo
dell'eccitazione perché questo accrescimento sia percepito. Si conosce per esperienza che un gr. aggiunto a
un Kg. tenuto sulla mano non è un aumento percettibile di peso. Queste soglie sono dette soglie differenziali.

b) Funzione della sensibilità differenziale. La sensibilità differenziale esercita nella nostra vita sensibile
una considerevole funzione. Molto spesso, noi percepiamo nettamente oggetti o qualità solo per mezzo
dell'effetto dei cambiamenti che essi subiscono. Per questa ragione noi avvertiamo un suono continuo solo
quando esso improvvisamente aumenta di volume o, anche, per potere avvertire e valutare le sfumature di
uno stesso colore, mettiamo insieme le diverse sfumature e le facciamo scorrere l'una sull'altra. Sappiamo
anche come ben presto, per mezzo dell'esercizio dell'abitudine, diveniamo poco sensibili ad alcuni stati
continuativi (peso degli abiti, contatto degli indumenti con la pelle, ecc.), sui quali la nostra attenzione è
attratta solo dai cambiamenti che essi subiscono, quando questi cambiamenti hanno l'importanza richiesta da
ciascuna soglia differenziale rispettiva. Basandosi su questi dati sperimentali alcuni filosofi, come Hobbes e
Bain hanno affermato che noi non percepiamo mai oggetti o qualità; ma unicamente differenze, sia tra i
diversi stati di un oggetto, sia tra un oggetto e l'altro. Si tratta tuttavia di un'esagerazione: in primo luogo,
l'esistenza della sensibilità fondamentale è certa e, in secondo luogo, come percepiremmo differenze tra
oggetti se non percepissimo codesti oggetti?

B. LEGGE DELLA SOGLIA

84 - 1. METODI PER LO STUDIO DELLE SOGLIE DIFFERENZIALI - Si tratta, per esempio, di


determinare di quanto bisogna aumentare il peso posto nella mano perché l'aumento sia percettibile. Per
conseguire questo risultato, Si possono impiegare tre metodi diversi:

a) Metodo delle più piccole differenze percettibili. Si aumenta progressivamente lo stimolo, fino a che il
soggetto nota la differenza, cioè a dire prova una nuova sensazione. Si cerca in seguito quale peso d' bisogna
sottrarre dallo stimolo aumentato di d perché si abbia una nuova sensazione. La soglia differenziale sarà data
dalla formula: d-d'/2

b) Metodo del caso vero e falso. Si domanda al soggetto quale è il più grande di due pesi differenti l'uno
dell'altro (ma di forma e dimensioni simili) che gli si fanno soppesare successivamente. La soglia si
considererà stabilita quando il soggetto avrà fornito circa 2/3 di risposte giuste per una data differenza ( d -
d'). Ricominciando lo stesso esperimento con pesi differenti (p e p') si otterrà una nuova soglia differenziale
(p - p'), e paragonando i due risultati, si avrà il valore relativo delle due soglie differenziali: d-d'/p-p'

c) Metodo del medio errore. Questo metodo è stato formulato da Fechner sotto il nome di metodo degli
equivalenti. Si presenta a un soggetto uno stimolo costante p (peso, lunghezza, ecc.), poi un secondo stimolo
della stessa natura del primo, ma diverso-maggiore o minore di p (pv). Si altera questo secondo stimolo fino
a quando il soggetto ritiene che sia uguale al primo p. Ripetendo più volte l'esperimento, si ottiene, mediante
calcolo, un valore Em, che è la media degli errori fatti dal soggetto (E è uguale alla differenza p - pv) e
rappresenta approssimativamente la grandezza della soglia differenziale 52.

2. - LA LEGGE DI WEBER - Fondandosi sulle esperienze precedentemente descritte, il filosofo tedesco


Weber ha enunciato (nel 1851) il seguente principio: la quantità che bisogna aggiungere ad una data
eccitazione per produrre una differenza nella sensazione è normalmente una frazione costante
dell'eccitazione53. Questa costante sarà di circa 1/30 per il peso, il colore, il suono e di circa 1/100 per la luce.
Questo, ben inteso, secondo la finzione dell'individuo medio, perché le differenze individuali sono
importanti. Sono così importanti che Binet osava affermare: «Io non credo che la duplice soglia della
sensazione sia misurabile scientificamente» («Année psychologique», 1911, p. 426).
52.Su questi metodi; cfr. M. Foucault, Psychophysique, Parigi, 1901, pp. 325-389, A. Gemelli, Il metodo degli
equivalenti, Firenze, 1914.
53 In realtà la citata legge di Wuer è stata enunciata, molto prima di Weber dal fisico Bouguer (1698-1758) nel suo
Traité d'Optique sur la gradation de la Lumière. Bouguer osserva che una variazione di luminosità può essere percepita
solo se essa costituisce una porzione costante della luce iniziale (1/64).
54

Bisogna anche tener conto del fatto che la sensazione pura non esiste. La sensazione luminosa, scrive Van
Biervliet («Revue philosophique», 1907, t. I, p. 173), «cominciata con una scossa retinica è, al suo ingresso
nella corteccia cerebrale, solo la continuazione di questa scossa, ma là dove, superando la soglia della
coscienza, essa s'ingolfa in un ambiente essenzialmente complesso, ingombro di ricordi, di emozioni e d'altre
sensazioni provenienti da ogni punto dell'organismo e, in questo vortice di movimenti tanto incalcolabili
quanto diversi, la sensazione semplice è travolta, sommersa, trasformata in una sensazione cosciente
infinitamente complessa».

§ 3 - Il problema della misura delle sensazioni

85 - 1. FORMA DEL PROBLEMA - La maggior parte dei filosofi si rifiutano di ammettere che
l'espressione «misura delle sensazioni» abbia un senso qualunque. La sensazione, dicono, non si può
misurare, né direttamente, perché essa non è una somma di singole sensazioni della stessa natura, né
indirettamente per mezzo delle sue cause e dei suoi effetti, perché non c'è misura comune tra fenomeni di
specie differenti, come la sensazione (fatto psichico) e l'eccitazione o il risultato fisico di una reazione (rialzo
della colonna mercuriale nel termometro, per esempio). Ritroviamo insomma, qui, gli argomenti che
abbiamo esaminato nella questione della misura delle qualità (II, 58).

Bergson (Données immediates de la conscience, p. 26 sg.), ha insistito ripetutamente sull'impossibilità di


misurare le sensazioni. Tra due sensazioni, egli dice, la differenza è qualitativa, non quantitativa. Se tuttavia
ci sembra che la sensazione implichi una certa quantità, ciò deriverebbe, per le sensazioni messe in rapporto
con un oggetto esterno, dalla valutazione della grandezza dello stimolo, e, per gli stati affettivi (sensazioni di
piacere o di dolore, di calore, ecc.), dalla molteplicità dei fatti psichici semplici associati allo stato
fondamentale.

86 - 2. DISCUSSIONE - Intensità e misura. Gli psicologi sembrano poco disposti ad ammettere questi
argomenti. Anzitutto, se è vero che spesso la valutazione che noi facciamo della grandezza della sensazione è
propriamente quella della grandezza dello stimolo, non sembra esatto dire che l'intensità della sensazione
risulti dal senso di una molteplicità di stati soggettivi semplici. L'intensità pare che, al contrario, sia proprio
un dato originale e irriducibile, cosa che permetterebbe di parlare di «quantità intensiva» (II, 57- 60).
È tuttavia vero che questa quantità intensiva non può essere ridotta ad una somma di elementi omogenei.
Ma non è possibile misurarla per mezzo di qualche procedimento? Se gli argomenti addotti per negare la
possibilità di misurarla fossero validi, essi varrebbero anche in proporzione per tutte le scienze che hanno per
oggetto le qualità e singolarmente per la fisica. In realtà, la misura dei fenomeni qualitativi non è mai altro
che una misura analogica.
Tuttavia è certo che le sensazioni non si possono misurare. Ma ciò non dipende solo dalla natura
qualitativa della sensazione (39), ma dal fatto che la sensazione non ha come condizione unica e adeguata
l'eccitazione. Non c'è qui, come in fisica, uguaglianza tra l'azione e la reazione e per conseguenza i
procedimenti di misurazione per mezzo degli effetti quantitativi (reazione) non possono dare risultati simili a
quelli che si ottengono nel campo fisico-chimico.

b) Natura e valore delle misure delle sensazioni. Sarebbe tuttavia esagerato negare ogni possibilità di
misurazione, nel campo della sensazione. Abbiamo visto che si riescono a determinare soglie assolute e
soglie differenziali: si ottengono anche dati utili per mezzo della medicina e della pedagogia scientifica
(determinazione delle attitudini tecniche, orientamento professionale, metodi di apprendimento). Importa
tuttavia comprendere che queste misure hanno soprattutto un valore ordinale (II, 58) e che, anche nel caso
in cui la misura delle proporzioni permette di definire numericamente l'accrescimento di intensità, le misure
restano sempre imprecise e anche relative al soggetto e alle circostanze dell'esperienza.

87 - 3. LEGGE PSICO-FISIOLOGICA DI FECHNER - Ora non ci si meraviglierà più del fallimento


subito dal Fechner (1860) quando volle dedurre dalla legge della soglia di Weber una formula che definisse
matematicamente la misura della intensità delle sensazioni. «La sensazione, dichiara Fechner, è
proporzionale al logaritmo dell'eccitazione», vale a dire ad una progressione geometrica dell'eccitazione
(come nella serie l, 2, 4, 8, 16, 32 ecc.) corrisponderebbe una progressione aritmetica della sensazione (come
nella serie l, 2, 3, 4, 5 ecc.).
55
Fechner, senza dubbio, pretende misurare solo l'intensità (o quantità intensiva) della sensazione e non la
sensazione - qualità. Ma, come abbiamo or ora mostrato, quella intensità non si può misurare
matematicamente in se stessa, come se i gradi di sensazione si addizionassero gli uni agli altri, o come se le
intensità poste tra le soglie (d'altra parte alquanto variabili) fossero uguali tra loro. La legge di Fechner
traduce solo la differenza (non misurabile matematicamente) che esiste tra la sensazione e l'eccitazione.
(Cfr. M. Foucault, Psychophysique, p. 120-121)54.

Bergson (Données immediates, p. 53-54) osserva che dal momento che si ammette di distinguere «due
specie di quantità, l'una intensiva, che comporta solo il più e il meno, l'altra estensiva, che si presta alla
misurazione, si è molto vicini a dare ragione a Fechner ed agli psicofisici. Poiché dal momento che una cosa
è riconosciuta suscettibile di aumentare o diminuire, sembra naturale che si cerchi come essa diminuisca o
aumenti». L'osservazione è giusta e mostra che il tentativo di Fechner non è discutibile, nel principio della
misurazione. Una quantità intensiva è, per principio, suscettibile di misurazione, a condizione che la misura
non sia considerata come la somma di unità omogenee. Ciò che è, invece, discutibile in Fechner è la formula
della sua legge. Questa formula è inesatta perché suppone che gli accrescimenti delle due serie (sensazione
ed eccitazione) siano matematicamente proporzionali.

§ 4 - L'impressione organica

88 - Abbiamo mostrato prima (61) la via della sensibilità o, più esattamente, dell'onda nervosa determinata
dalla eccitazione. Ci resta ora da studiare, a proposito dell'impressione organica, il problema dell'energia
specifica o della specificità degli apparati sensoriali.

1. LA TEORIA DI MULLER - Il biologo Jean Muller, al principio del XIX secolo, volle dimostrare
direttamente la tesi meccanicistica delle qualità sensibili mettendo in evidenza ciò che egli chiamò la
specificità dei nervi sensoriali, in virtù della quale i nervi conduttori, in qualunque modo vengano scossi,
darebbero sempre la medesima sensazione (o la stessa qualità sensibile). L'elettrochoc del nervo ottico, la
sezione o la pressione dello stesso nervo producono identicamente una sensazione di abbarbagliamento. Si
nota anche che, nello stesso senso, l'elettrochoc del nervo acustico produce un suono, quello del nervo
olfattivo, una sensazione di odore, ecc. Ne conseguirebbe che le qualità sensibili non sono prodotte
dall'oggetto percepito, ma dagli organi sensoriali stessi. (Cfr. Muller, Manuel de Physiologie, trad. fr., 1851,
t. I, p. 710 sg.).

89 - 2. DISCUSSIONE - La teoria di Muller, seguita nel XIX secolo da numerosi fisiologi e psicologi,
particolarmente da Helmholtz, ed anche dai filosofi idealisti (che credevano di potere per mezzo di essa
stabilire che il mondo fenomenico è opera dello spirito) fu osteggiata dal Lotze e soprattutto, ai nostri giorni,
da W. James (The Principles of Psycology), da Driesch e da Bergson. Si è potuto dimostrare, infatti, che gli
argomenti di Muller non provano affatto la soggettività delle qualità sensibili o la specificità degli apparati
sensoriali.

a) Il paralogismo meccanicistico. Si è stabilito innanzitutto che l'argomento meccanicistico non è valido, in


quanto consiste nell'identificare puramente e semplicemente le vibrazioni e le qualità sensibili. La Fisica
mostra solo che c'è una relazione necessaria tra vibrazioni e qualità; ma una relazione non è un'identità (I,
187). Che la fisica stessa non scopra che movimenti, si comprende benissimo, poiché essa ha di mira solo
l'aspetto quantitativo dei fenomeni. Il loro aspetto qualitativo non può essere evidentemente appreso che per
mezzo di un'attività vitale.

È d'altra parte facile cogliere quanto è contenuto di contraddittorio nella pretesa di ridurre le qualità
sensibili a vibrazioni (per esempio il suono a vibrazioni dell'aria o il colore a vibrazioni elettro magnetiche).

54 M. Pradines (Psychologic Générale, t. I, p. 417 sg.) pensa che la legge di Fechner dovrebbe intendersi come riferita
non alla rappresentazione, ma all'adattamento dell'«affezione» alla rappresentazione. Infatti è difficile ammettere una
differenza che, se riferita alla rappresentazione, significherebbe una enorme discordanza tra il mezzo (eccitazione) e il
fine (percezione). Senonché, questa differenza si comprende bene dal momento in cui si ammette che l'accrescimento
dell'elemento «affettivo» della sensazione (per esempio l'intensità) non si può continuare indefinitamente senza
minacciare l'integrità dell'essere vivente e senza porre in pericolo la chiarezza stessa della rappresentazione. Il senso
della differenza scoperta da Fechner consisterebbe dunque interamente nell'ottenere un equilibrio tra l'«affezione»
(percezione delle intensità e delle distanze) e la rappresentazione (percezione delle qualità degli oggetti).
56
Basta osservare che, queste stesse vibrazioni, noi possiamo solo vederle, cioè, sentirle. Tentare di scendere al
di sotto della sensazione (o della qualità sensibile), sarebbe come voler uscire fuori di se stessi, cosa
evidentemente assurda. Tutto ciò che possiamo dire, è che esiste un certo parallelismo tra i fenomeni fisici
che sono alla base delle qualità sensibili e queste qualità stesse, ma i due fenomeni sono realmente
irriducibili l'uno all'altro.

b) La specializzazione degli organi periferici. Per quanto riguarda la specificità dei nervi conduttori, essa
non potrebbe bastare a provare la soggettività delle qualità sensibili. Bisognerebbe ancora dimostrare
l'indifferenza dell'organo periferico all'eccitazione, in modo tale che, per esempio, la rètina reagisse in
maniera costantemente identica a tutti e ai più diversi stimoli. In realtà si osserva, invece, che avviene
esattamente il contrario. Gli organi periferici sono perfettamente specializzati: la rètina è sensibile solo alle
vibrazioni dell'etere, il senso termico reagisce solo alle vibrazioni molecolari, ecc., e se ne deve dedurre
l'efficacia reale dello stesso stimolo, cioè del sensibile proprio o adeguato (56) e per conseguenza
l'oggettività fisica della sensazione.

90 - c) Valore dei fatti di eccitazione anormale. Tutto ciò, d'altra parte, non costringe affatto a contrastare
la realtà dei fatti invocati dal Muller. Ma questi si spiegheranno meglio osservando che l'eccitazione diretta
dei nervi sensoriali ha per effetto di far rivivere il genere di sensazioni dei quali essi sono normalmente
conduttori, cioè che qui ci troviamo alla presenza di fenomeni dello stesso tipo dell'allucinazione o del
sogno. Ciò sembra confermato dal fatto che un soggetto i cui organi sensoriali siano congenitamente
inefficienti (cieco-nato, per esempio) non prova mai sensazioni corrispondenti a questi organi.

D'altra parte, si noterà che questi fatti mettono in evidenza il principio che la sensazione, secondo la
formula aristotelica, è l'atto comune del senziente e del sentito (cioè a dire del senso e del suo oggetto: la
sensazione non può essere spiegata né per mezzo del solo stimolo, poiché essa è una attività vitale (II, 127),
né per mezzo del solo senso, perché essa nella sua modalità o specificazione dipende dall'oggetto esterno. In
qualunque modo si consideri il problema si troverà sempre l'uno e l'altro elemento: la sensazione non è lo
stimolo fisico, ma l'oggetto sentito, constatazione evidente che Muller trascurava. Ciò vuol dire che l'oggetto
fisico o qualità sensibile non può trovarsi nel soggetto che secondo il modo proprio di questo soggetto
(receptum recipitur ad modum recipientis), il che spiega, non solo l'irriducibile specificità della sensazione
come tale, ma anche le possibili variazioni delle sensazioni prodotte da uno stesso stimolo in diversi
individui o nello stesso individuo secondo le circostanze dell'eccitazione (età, salute, stato d'attenzione o di
distrazione, ecc.).

Il paradosso di alcune ricerche psicofisiche consiste nell'oscillare tra i due termini, parimenti assurdi, di
questa alternativa: o sistemare la sensazione fuori del soggetto, nelle cose (errore di tutti coloro che riducono
la sensazione alle sue condizioni esterne), o sistemare le cose (o qualità sensibili) nel soggetto stesso (errore
dei teorici della specificità degli organi sensoriali).

§ 5 - Sede della sensazione

91 - 1. IL PROBLEMA - I fisiologi e gli psicologi moderni pongono nel cervello la sede propria della
sensazione. Donde l'espressione corrente di «centri sensoriali» e il problema delle localizzazioni cerebrali
(64), inteso come problema della determinazione della sede corticale delle diverse funzioni sensoriali. Ci si
può tuttavia chiedere se questa concezione sia proprio e realmente suffragata dai fatti. Oltre che essa presenta
l'inconveniente di ridurre lo psichico al cosciente (12) sembra difficilmente conciliabile con le esperienze
tanto numerose di asportazione o di distruzione dei centri cerebrali, dalle quali risulta che alcuni soggetti
privati del cervello restano capaci, sotto la diretta azione di diversi stimoli, di reazioni motrici estremamente
varie. Come sarebbero possibili queste reazioni motrici nell'assenza di tutte le sensazioni?

92 - 2. TROPISMI, RIFLESSI, SENSAZIONI - Si potrebbe, indubbiamente, supporre che i fenomeni


motori che si osservano negli animali privati del cervello siano da ridurre a semplici tropismi. Si sa che Loeb
e Bohn hanno voluto trasferire il termine di tropismo dal campo vegetale al comportamento animale. Poiché
il tropismo per essi non è che un fenomeno fisico-chimico, pensavano di poter ridurre tutte le attività vitali a
57
puri fenomeni meccanici55. Ma noi abbiamo già mostrato (II, 122) che il tropismo vegetale è essenzialmente
differente dalla reazione meccanica: questa è interamente regolata dall'esterno, mentre il tropismo, pur
essendo provocato dall'esterno, resta sempre un fenomeno di adattamento che le condizioni esterne non
bastano a spiegare adeguatamente. Si tratta ora di sapere se le reazioni motrici dell'animale privato del
cervello possano essere assimilate ai tropismi del mondo vegetale.

a) I fatti. Si sono rilevati da molto tempo numerosi fatti (chiamati altrimenti tactismi (o tassie), in quanto
implicano una sensazione tattile), i quali sembrano favorire la attribuzione di veri tropismi agli animali. Il
movimento della farfalla verso la sorgente luminosa sembra sia della stessa natura del fototropismo dei
vegetali. Nello stesso senso si notano il «fototropismo positivo» delle serpule, che si schiudono alla luce, il
«fototropismo negativo» della cimice dei letti, che fugge la luce, il «geotropismo» dei polipi, che dirigono i
loro tentacoli verso la terra, il «chemiotropismo» dei parameci che si raggruppano attorno a una goccia di
acido acetico che si fa cadere presso di loro. Si nota infine che sarebbe ugualmente fondato scoprire
nell'uomo normale un fototropismo positivo, e negli albini un fototropismo negativo.
Questi fatti non provano nulla. Poiché, da una parte, supponendo che si tratti di tropismo, bisognerebbe
ancora dimostrare che ogni attività riflessa dell'animale si riduca a semplici tropismi, e dall'altra parte,
l'assimilazione ai tropismi è fondata su semplici analogie. Non c'è dubbio che alcuni riflessi assomiglino a
tropismi, ma sono essi veramente tropismi? Questo è il problema che i fatti addotti pongono, ma non
risolvono.

93 - b) Discussione. Jennings e Driesch soprattutto hanno contestato l'esattezza delle osservazioni di Loeb
e la loro interpretazione. Essi hanno stabilito che l'animale è ben 1ungi dal dirigersi rigorosamente e
costantemente in linea diritta verso la sorgente dell' eccitazione: esso infatti esegue movimenti variabilissimi,
secondo l'individuo e secondo le circostanze dell'eccitazione. I parameci si dispongono in modo
variabilissimo attorno alla goccia di acido acetico (75), mentre la pianta reagisce costantemente nello stesso
modo all'influenza della luce. Questa differenza è capitale. Essa è messa in luce proprio per mezzo
dell'estrema variabilità delle reazioni riflesse: la rapidità e la forma di queste reazioni cambiano secondo le
circostanze e con un'ampiezza crescente in misura che la sinergia vitale è più perfetta: la mano tuffata
nell'acqua bollente esegue un riflesso di ritrazione accelerato o rallentato secondo lo stato sensoriale, le
esperienze anteriori, le abitudini acquisite, gli interessi immediati, ecc. I tropismi non comportano nulla di
simile: fenomeni di adattamento, il loro automatismo è assoluto e dipende strettamente dalla stimolazione
esterna56. D'altra parte, si osserva che un'eccitazione che ha determinato un dato movimento, determina,
quando la sua intensità supera un certo limite, il movimento contrario, fenomeno che non ha simili nel
tropismo vegetale. Sembra dunque realmente impossibile ridurre i riflessi degli animali ai tropismi del regno
vegetale.

94 - 3. LA FUNZIONE DEL CERVELLO.

a) Il cervello e la coscienza. Siamo portati ad ammettere, sulla base dei dati sperimentali più certi, da una
parte, che i riflessi animali rivelano una sensibilità, d'altra parte, e in forza dei fatti stessi (considerando i
riflessi eseguiti dagli animali privati del cervello), che il cervello non è la condizione assolutamente e
universalmente necessaria della sensazione 57. La sede della sensazione, come tale, cioè dell'apprensione
della qualità sensibile, non è dunque il cervello, ma proprio l'organo sensoriale periferico stesso. La

55 Cfr. Loeb, La dynamique des phénomènes de la vie, traduz. fr., 1908, p. 224: «Lo stesso eliotropismo positivo, che
fa volgere le piante, o gli animali come l'Eudendrio, lo Spirografide, ecc., verso la sorgente luminosa quando sono
rischiarati da un lato, li obbligherebbe a nuotare, arrampicarsi, volare verso la luce se si trovassero improvvisamente
provvisti di apparati locomotori». Bohn, La naissance de l'intelligence, p. 117: «Daremo il nome di tropismi a
movimenti in cui non sono affatto implicati la volontà e i sentimenti dell'animale, a movimenti ai quali spesso l'animale
non può resistere, poiché questi movimenti automatici e irresistibili hanno per effetto di orientare l'organismo secondo
la direzione dello stimolo». Cfr. anche Piéron, Psychologie expérimentale, p. 29, e Nouveau Traité de Psychologie, t. II,
p. l-58 - Goldstein, La structure de l'organisme, p. 133 sg.
56 Cfr. su questo punto le osservazioni di Mc Dougall (An Outline of Psychology, 6.a ed. Londra, 1933, p. 59-64): «I
movimenti regolati dal tropismo, quando non raggiungono di primo acchito il loro termine naturale, non manifestano
alcuno di quei cambiamenti di direzione che sono la caratteristica del comportamento animale. Al contrario, quasi tutti i
casi di locomozione animale rivelano questo carattere. Anche la farfalla non punta generalmente in linea retta sulla
fiamma; ordinariamente, volteggia, quasi incerta, attorno alla fiamma, prima di precipitarvisi: si direbbe che ne è nello
stesso tempo attratta e respinta».
58
funzione del cervello sembra sia propriamente di rendere cosciente la sensazione e perciò, grazie agli
istradamenti sinaptici straordinariamente numerosi ch'esso comporta, di rendere possibili reazioni motrici
molto più variate di quelle che i riflessi midollari permettono (57).
Questa concezione sembra d'altra parte confermata da molti punti di vista. Innanzitutto il fatto evidente che
le sensazioni sono localizzate in questo o quel punto del corpo. Aristotele e gli Scolastici si fondavano
soprattutto su questo dato della coscienza sensibile per porre la sede della sensazione negli organi periferici 58.
Quest'argomento non è stato affatto invalidato dai progressi della fisiologia: questa, al contrario, come
abbiamo visto, tende a confermare tale opinione mettendo in evidenza l'adattamento degli organi periferici a
stimoli specifici adeguati. Per quanto riguarda il fatto, spesso addotto, dell'illusione degli amputati (che
collocano, per esempio, nella punta delle dita assenti le sensazioni dolorose), esso non invalida affatto quelle
osservazioni, poiché quest'illusione si spiega normalmente come un'allucinazione, determinata dall'abitudine
anteriore59. Si sa, d'altronde, che quest'illusione diviene sempre meno attiva e finisce talvolta per sparire
interamente.

La spiegazione comune, secondo la quale l'illusione degli amputati proviene dalle eccitazioni dell'estremità
del nervo tagliato, non può essere accettata. Da una parte, infatti, l'amputato distingue benissimo le
sensazioni o i dolori del moncone da quelli del membro illusorio. D'altra parte si osserva che la soppressione
della circolazione sanguigna (per mezzo di iniezioni endovenose di calcio) non sopprime affatto nel
moncone, l'immagine illusoria, come dovrebbe avvenire se quest'ultima fosse prodotta dalle eccitazioni
all'estremità del nervo tagliato. Perciò, J. Lhermitte (L'image de notre corps, Parigi, 1939, p. 93) nota, in un
meticoloso studio di questo caso, che «la reviviscenza della immagine del membro mutilato nell'amputato
deriva, nel suo principio, non dall'eccitazione dei nevromi periferici, ma da uno stato cerebrale, il quale
genera un complesso psicologico».
Questa spiegazione, d'altra parte, deve essere generalizzata, perché sembra che possa spiegare l'apparizione
delle membra illusorie in seguito a lesioni del midollo spinale o dell'encefalo (alcuni alienati e soprattutto
schizofrenici avvertono l'illusione che nuove membra si innestino sulle loro membra reali). Il membro
illusorio, infatti, rappresenta solo la persistenza di una parte dello schema corporeo, è una costruzione di
natura psicologica che poggia su basi fisiologiche i cui elementi si debbono ricercare nelle profondità delle
circonvoluzioni cerebrali. È evidente così che « l'immagine del nostro corpo appare molto più resistente alla
distruzione che la morfologia». (J. Lhermitte, op. cit., p. 126).

95 - b) La questione delle «sensazioni inconsce». La precedente soluzione ci porta a concludere con


l'ammissione della possibilità di sensazioni almeno relativamente inconsce. Quest'espressione può stupire
solo se si riduce lo psichico al cosciente. Molti fatti tuttavia, impongono l'evidenza della realtà di sensazioni
subcoscienti, cioè straordinariamente labili, al punto da non essere percepite dal soggetto, sia per difetto di
attenzione (pressione degli indumenti sulla pelle, rumori della strada quando lo spirito è assorto in un lavoro,
ecc.), sia a causa di un impedimento di natura organica (azione di anestetici, vari traumi dei centri nervosi),
infine, come vedremo più avanti, per effetto, del sonno (cfr. Maine de Biran, Decomposition de la pensée, ed.
Tisserand, vol. III, pp. 159-166).
Per conseguenza, si potrà ammettere, o che i riflessi degli animali privati del cervello implichino autentiche
sensazioni che abbiano la loro sede negli organi sensoriali periferici, - o che il midollo spinale sia capace di
dare per suo stesso mezzo una certa oscura coscienza e perciò che gli animali privati del cervello o gli
uomini sottoposti a riflessi automatici restino dotati, secondo gradi variabilissimi, di una coscienza

57 Cfr. H. Piéron, «Année psychologique», 1913, t. XIX, p. 296; «Alcuni cani anencefali sono stati capaci di
mantenersi in equilibrio sulle loro zampe, cosa che richiede una partecipazione del senso muscolare. Insomma, anche
nei mammiferi più evoluti, il cervello non sarebbe assolutamente necessario alla produzione di fenomeni considerati
psicologici».
58 Cfr. Aristotele, De Anima, I, c. V sg. - S. Tommaso, In De Anima, I, lect. X sg. (ed. Pirotta, n. 377) - Vedere in De
Sensu et Sensato, c. II (S. Tommaso lect. V, n. 76), la concezione aristotelica del cervello e del cuore come centro
sensoriale.
59 Cfr. Cartesio, Principes de la philosophie, IV parte, c. CXCVI. Cartesio racconta che una giovinetta, amputata d'un
braccio, restò lungo tempo ignara di questa amputazione, e «cosa notevolissima, non cessò tuttavia di avvertire alcuni
dolori che pensava fossero nella mano che non aveva più [...], cosa della quale non si riuscirebbe a fornire alcuna
spiegazione se non che i nervi della sua mano, i quali, dopo l'amputazione, terminavano quasi al gomito, erano mossi
nello stesso modo che prima nelle estremità delle sue dita così da trasmettere all'anima, nel cervello, il sentimento di
dolori simili. E ciò mostra evidentemente che il dolore della mano non è sentito dall'anima in quanto è nella mano, ma
in quanto è nel cervello». (cfr. Traité de L'Homme, c. VII).
59
estremamente vaga ma non assolutamente nulla. Il cervello apparirebbe così come l'organo principale della
coscienza sensibile, della quale il midollo non sarebbe che l'organo secondario 60.

Art. III - Psicologia della sensazione


96 - Psicologicamente, la sensazione è l'atto di apprendere una qualità sensibile. Noi dobbiamo dunque
studiarla, qui, sotto il duplice aspetto di funzione conoscitiva (sensatio) e di apprensione di una qualità
sensibile (sensatum).

§ 1 - L'atto di sentire (sensatio)

A. LA SENSAZIONE COME INTUIZIONE

1. L'INTUIZIONE SENSIBILE - La sensazione appare come un atto conoscitivo, cioè di apprensione di


una realtà sensibile, contrariamente all'opinione di Cartesio, secondo il quale la sensazione non era nulla di
più che un' eccitazione molecolare degli organi corporali, assolutamente incapace per se stessa di fornirci
indicazioni sulla natura delle cose 61. Infatti, la conoscenza sensibile si presenta come un'intuizione, cioè come
un'apprensione immediata e diretta, per opera del soggetto conoscente, di una qualità sensibile esterna, nella
sua concreta realtà.

97 - 2. LA SENSAZIONE PURA

a) Ogni sensazione è compresa in una struttura. La realtà che i sensi presentano all'intuizione è una qualità
sensibile: questo colore per l'occhio, quel suono per l'udito, questa resistenza o quel calore per il tatto, ecc.
Ma è per astrazione che noi isoliamo queste qualità dagli oggetti coi quali formano un tutto integrale. Noi
abbiamo sensazioni pure solo in casi che costituiscono anomalia o eccezione. La causa di ciò non è da
attribuirsi al fatto che, come vuole l'associazionismo, ogni sensazione si assocerebbe automaticamente, per
mezzo del gioco dell'abitudine e della memoria, tutto un complesso di immagini o di stati psicologici, per
comporne un oggetto, cioè una «cosa», ma, come vedremo meglio in seguito, al fatto che ogni sensazione è
immediatamente compresa in una struttura o forma. Ogni conoscenza è percezione ottenuta per mezzo delle
qualità sensibili, la cui funzione non è fine a se stessa ma mezzo a comporre funzionalmente un tutto. Nella
voce di un amico che parla lontano dalla mia vista, io percepisco immediatamente quello stesso amico;
l'odore familiare di un fiore non evoca quel fiore, il suo colore e la forma, nell'immaginazione, ma piuttosto
contiene il fiore stesso; una parola che, sensibilmente, è solo un suono, è divenuta il senso stesso che essa
esprime.

b) I casi delle sensazioni pure. Tuttavia, talvolta accade che ci avviciniamo alla sensazione pura. Ciò
avviene sia in seguito a una malattia che abbia confuso e disorganizzato temporaneamente le nostre
percezioni comuni (per esempio a causa della febbre) e ci lasci per un istante cogliere come in istato bruto e
sconnesso le nostre sensazioni primitive, sia attraverso percezioni che abbiano luogo in una forma anormale
la quale causi dissociazioni dei complessi abituali di immagini: una pagina di musica guardata alla rovescia
porta a vedere come pure immagini le note simboliche che, diversamente, rivelerebbero solo il loro senso,
ecc. Donde, in questi casi l'impressione di stranezza che manifesta chiaramente la preminenza della
percezione sulla sensazione. D'altra parte, è possibile, per mezzo di uno sforzo volontario, che è proprio
dell'arte, cogliere, nella sua originalità e nella sua freschezza nativa, il mondo delle qualità sensibili. Ciò
costituisce tuttavia incontestabilmente un artificio e un sovvertimento della comune direzione della
conoscenza, e al più il termine di questo sforzo non è quello di isolare qualità, ma di comporne in forme

60 Esamineremo più avanti, quando studieremo la coscienza, quale sia la più plausibile delle due ipotesi.
61 Cfr. Cartesio. Principes de la Philosophie, c. III: «I nostri sensi non ci insegnano la natura delle cose, ma solo ciò in
cui ci sono utili o nocive» - Cfr. Malebranche, Recherche de la vérité, I, c. XII: «La seconda cosa che si trova in ogni
sensazione è lo scuotimento delle fibre dei nostri nervi che viene trasmesso fino al cervello, e noi c'inganniamo poiché
confondiamo sempre questo scuotimento con la sensazione dell'anima, e giudichiamo che non ci sia punto questo
scuotimento quando non lo percepiamo per mezzo dei sensi [...]. Bisogna notare che poiché i nostri sensi ci sono stati
dati solo per la conservazione del nostro corpo, è giustissimo che essi ci inducano a giudicare delle qualità sensibili nel
modo che facciamo».
60
nuove. È noto che gli esperimenti di sensazione pura tentati, per esempio in pittura, dal cubismo, non sono
riusciti a nulla di vitale e tanto meno di intelligibile.

B. DURATA DELLA SENSAZIONE

98 - La sensazione sembra istantanea, ma numerose esperienze mostrano che non lo è. Donde le prove che
sono state operate per misurare la sensazione.

1. DIFFICOLTÀ DELLA MISURAZIONE - Nessuna obiezione di principio può essere opposta alla
misurazione della durata delle sensazioni. Ma l'impresa comporta grandi difficoltà pratiche. La principale
difficoltà è costituita dalla impossibilità di dissociare e di isolare perfettamente gli elementi psichici che
compongono il fenomeno globale della sensazione e che variano considerevolmente da un individuo all'altro.
Un'altra grave difficoltà deriva dal fatto che è, per così dire, impossibile determinare in modo
matematicamente preciso il punto esatto del tempo in cui si produce la sensazione, cioè a dire l'apprensione
di una data qualità sensibile. In ogni ipotesi, dunque, le misure saranno solo e sempre approssimative.

2. METODO DI MISURAZIONE - Il metodo consiste nel produrre un'eccitazione di qualunque natura (un
colore, una lettera, un disegno, un rumore, ecc.) in un soggetto il quale avverte mediante un segnale
convenuto che l'eccitazione è sentita. Ci si vale a tale scopo di un apparecchio che registra automaticamente
il momento dell'eccitazione e il momento della reazione. La differenza intercorrente fra i due momenti
definisce la durata della sensazione, cioè a dire dell' eccitazione e dell'impressione organica, del pensiero e
della reazione, e dell'esecuzione di questa nello stesso tempo.

99 - 3. I VARI TEMPI - Si è tentato di precisare i risultati ottenuti per mezzo del metodo globale,
distinguendo e tentando di misurare i vari tempi che compongono la durata totale di una sensazione.

a) Il tempo di reazione semplice. Si chiama cosi il tempo compreso fra l'eccitazione e la reazione, quando
questa è effettuata nelle condizioni più vicine possibili all'istantaneità. Si ha cosi il più approssimativo
«tempo di sensazione». Ma in questo procedimento di reazione semplice, si possono incontrare molte cause
di variazione. Soprattutto e generalmente, è evidente che il tempo di sensazione dipende dal grado di
attenzione del soggetto, come dal suo stato generale di salute, dalla sua età, ecc. D'altra parte la stessa
attenzione può essere particolarmente attratta sia dall'eccitazione, sia dal movimento di reazione da produrre
(una parola che bisogna pronunciare, una suoneria da azionare, ecc.). Nel primo caso (tempo sensoriale), il
tempo di sensazione è più lungo (circa 0" 19) che nel secondo caso (tempo muscolare), che si avvicina di più
al puro riflesso (0" 14 circa).

La questione del tempo di reazione fu posta per la prima volta dagli astronomi. «Fin dal 1795, scrive M.
Piéron (Psychologie expérimentale, p. 7), l'astronomo di Greenwich, Maskeleyne, notò alcuni errori
individuali nell'annotazione di una simultaneità tra la posizione apparente di una stella in rapporto all'orlo
della lente e il battito di un orologio a pendolo. Nel 1820, Bessel studiò sistematicamente questa «equazione
personale» dipendente dalle difficoltà di stima della simultaneità tra le impressioni eterogenee. Quando, per
evitarle, si registrò per mezzo di una reazione grafica il passaggio apparente della stella dietro l'orlo,
apparvero nuovi errori, dipendenti dal ritardo, sulla stimolazione sensoriale, del movimento convenuto: lo
studio dei ‘tempi di reazione’, secondo l'espressione di Exner (1879), era cominciato».

b) Il tempo di reazione complessa. È il tempo richiesto per una sensazione determinata da un'eccitazione
che comporta un certo discernimento. Si tratterà, per esempio, in una sequenza di colori, di reagire solo al
terzo colore proiettato. Il soggetto deve dunque discernere lo stimolo, scegliere la reazione da produrre (il
nome del colore) ed attuare questa reazione (per esempio pronunciare il nome del colore). Il tempo di
reazione semplice se ne trova aumentato in proporzione: questo aumento va da 0" 03 a 0" 10 circa.

c) Il tempo d'associazione. È il tempo necessario per associare un' eccitazione con un contenuto,
sensoriale o intellettuale che le è legato nel soggetto (per esempio, per tradurre una parola francese in
inglese)62. Questo tempo può variare tra 0" 6 e 1" 5. Sia ben inteso che, questi tempi, sono solo
approssimazioni alquanto artificiose ed hanno solo un valore ordinale (39). Essi mettono soprattutto in

62 Si suppone, naturalmente, che il soggetto conosca perfettamente le due lingue.


61
evidenza che le reazioni sono tanto più rapide quanto il soggetto è, da una parte, più disposto e più esercitato,
e, d'altra parte, più attento. Alla resa dei conti queste esperienze hanno interesse solo per la psicologia
individuale.

§ 2 - Le qualità sentite (sensata)

100 - 1. IL PROBLEMA - Abbiamo già posto il problema delle qualità sensibili in cosmologia (II, 49),
dove siamo stati portati a concludere sulla loro oggettività ma senza essere in grado di definire la loro natura
psicologica. Si tratta, dunque, ora di cercare di conoscere ciò che sono le qualità sensibili precisamente in
quanto sperimentate o sentite dal soggetto. Ci si presentano due posizioni possibili, l'una che considera la
qualità sentita come un dato semplice e irriducibile, l'altra che la considera un complesso di elementi
semplici.

2. L'ATOMISMO ASSOCIAZIONISTICO - Nella concezione di Taine e di Spencer, la sensazione


cosciente non è che una somma di piccole sensazioni inconsce, le quali si riducono a loro volta ai fenomeni
nervosi elementari determinati dalla eccitazione. La qualità sensibile non è dunque, obiettivamente parlando,
che puro movimento e, in quanto sentita, puro epifenomeno. W. James traduce questa teoria nella seguente
forma schematica (Fig. 6).

Si sono
addotti come
prove i
notissimi casi
in cui si
ottiene una
sensazione
simultanea per
mezzo di
sensazioni
successive: i
colori spettrali
del disco di
Newton in
rapida
rotazione
producono una
sensazione di
bianco; le
contrazioni
successive di
un muscolo per effetto di scariche elettriche producono, quando le scosse si succedono rapidamente, una
sensazione unica di contrazione continua, ecc., ed i casi in cui si ottengono sensazioni apparentemente
semplici con elementi molteplici dati simultaneamente: i suoni semplici si comporrebbero infatti di una nota
fondamentale e delle sue armoniche, ecc.
Questi fatti, accertati, sono ben lungi dal provare la complessità del sensatum, come tale, provano invece
ed unicamente quella dell'eccitazione. La tesi atomistica (o genetistica) confonde evidentemente il fatto
psichico della sensazione con il fatto fisico dell'eccitazione. Il sensatum «bianco» risulta dal movimento del
disco di Newton, cioè da un'eccitazione specificamente differente da quella che è prodotta dai colori presi
singolarmente e non dall'addizione delle loro singole eccitazioni. Il rumore delle foglie nella foresta
compone nell'insieme uno stimolo fisiologico che non è tuttavia la somma dei rumori elementari. Per quanto
riguarda la nozione di epifenomeno, abbiamo visto prima (13) quanto essa sia poco intelligibile.

101 - 3. SEMPLICITÀ E COMPLESSITÀ DELLE SENSAZIONI

a) Semplicità delle sensazioni come qualità. Bisogna dunque affidarsi alla concezione nativista, cioè
bisogna ritenere la qualità sentita come assolutamente originale e semplice. Possiamo scomporre il suo
processo di formazione in condizioni fisiche e fisiologiche, ma non la sua essenza, che è irriducibile e
62
semplice, il che significa che le qualità sensibili, nella loro diversità e nella loro molteplicità, devono essere
accettate come dati primi non scomponibili e indefinibili.

b) Complessità delle sensazioni come blocchi sensibili. La semplicità delle qualità sensibili non esclude la
complessità di fatto delle sensazioni, nel senso che queste ci sono date come complessi nei quali si
mescolano e si modificano reciprocamente per mezzo della loro stessa combinazione le qualità molteplici
fornite dai nostri differenti organi sensoriali. Il neonato ha bisogno di tutto un tirocinio per sciogliere poco a
poco il caos delle sue sensazioni. Anche nel corso della vita siamo sempre obbligati, secondo l'andamento
delle nostre preoccupazioni e dei nostri interessi, a dissociare le sensazioni che sopravvengono in un blocco
confuso. Si sa per esperienza (caso del malato che cerca di descrivere il suo malessere al medico) quanto sia
difficile questo lavoro quando si tratta di sensazioni organiche.

Questa discussione, stabilendo che la qualità, come tale, è specificamente distinta dai suoi componenti o
elementi (e perciò stesso è «semplice»), dimostra l'assurdità della pretesa di comporre o scomporre la qualità
sensibile, alla maniera dell'atomismo associazionistico. Comporre gradualmente la qualità sensibile è
impossibile, poiché questa qualità, per definizione, esiste solo quando è composta. Parimenti, e per la stessa
ragione, è impossibile scomporre, cioè dividere nei suoi elementi la qualità sensibile, perché l'operazione
avrebbe per risultato immediato di sopprimere la qualità. Perché la qualità sensibile esista, osserva molto
bene R. Ruyer, «è proprio necessario che ci sia uno sbalzo, una brusca apparizione, e qualche cosa di
originale e nello stesso tempo di semplice in cui non è possibile distinguere elemento da elemento. Se si
potesse risalire indefinitamente al di là della sensazione, non avremmo più alcuna esistenza reale e ei
confonderemmo con tutto l'insieme degli esseri»63.

4. RELATIVITÀ DELLE SENSAZIONI - Il fatto stesso che le sensazioni si associano e si combinano


l'una con l'altra conferisce loro una certa relatività. La sensazione dipende, infatti, sia nella sua qualità che
nella sua intensità, da quelle che la precedono e da quelle che l'accompagnano. Si prova una sensazione di
oscurità passando dal sole sfolgorante in un appartamento normalmente illuminato, una sensazione di calore
tuffando una mano fredda nell'acqua appena tiepida. Dopo un cibo zuccherato tutto ciò che si beve sembra
amaro. Sono noti gli effetti di prospettiva, i contrasti di colori (simultanei e successivi), ecc.
D'altra parte le sensazioni sono anche relative allo stato degli organi sensoriali e allo stato fisiologico
generale. Sono noti i disordini che alcune droghe provocano nella percezione delle qualità sensibili e come
anche lo stato generale, affettivo e fisico, influisca sulla nostra visione del mondo. Non solo metaforicamente
si dice che la tristezza toglie colore agli oggetti.

«Relatività delle sensazioni» non significa «soggettività». La camera non riscaldata nella quale entro in un
giorno di gran freddo è calda, come è fredda per il mio amico Pietro che vi permane da oltre un'ora.
Certamente, il termometro, che segna 5 gradi, potrebbe metterci d'accordo, ma su un piano che non è più
quello della sensazione, ma il piano assolutamente neutro e astratto della scienza, nel quale non esiste alcun
centro di riferimento privilegiato, o in cui (ed è la stessa cosa) tutti i centri di riferimento si equivalgono
rigorosamente. In realtà, la sensazione è sempre compresa in una struttura, che è un sistema di relazioni tra
oggetti differenti. La sua oggettività può dunque definirsi solo in funzione di questa struttura. Da questo
punto di vista, la «relatività della sensazione» significa solo che un oggetto può essere costituito in questa o
quella maniera, secondo la struttura d'insieme in cui è compreso (struttura che determino col solo mezzo
della mia propria relazione alle cose) e che esso varierà con questa struttura, della quale è funzione. Da
questo punto di vista «i vari fenomeni sensoriali, scrive Goldstein (op. cit., p. 227), appaiono come differenti
strutturazioni dell'organismo totale». Si potrebbe dire, generalizzando, che tutti gli oggetti della nostra
percezione sono funzione della struttura globale del mondo, per il fatto stesso che sono necessariamente dati
«sullo sfondo del mondo».

Art. IV - Le diverse sensazioni


§ l - I princìpi di distinzione

A. SENSI ESTERNI E SENSI INTERNI

63 R. Ruyer, Esquisse d'une philosophie de la structure, Parigi, 1930, p. 129.


63
102 - l. IL NUMERO DEI SENSI - Non è stata mai discussa la diversità qualitativa delle sensazioni. Il
numero dei sensi e delle sensazioni è invece sembrato crescere con le ricerche della psico-fisiologia, cioè si è
creduto scoprire, per mezzo di differenziazione di organi sensoriali, sensi specifici che prima non si
distinguevano. Gli antichi, infatti, conoscevano solo cinque sensi esterni, tatto, gusto, odorato, udito, vista,
perché essi rilevavano solo la presenza di cinque organi sensoriali esterni. Sono realmente più numerosi
questi organi sensoriali? Così affermano alcuni psicologi moderni, partendo dal principio che, per ammettere
l'esistenza di un senso specifico, si richiedono, ma con requisiti di sufficienza tali da potergli assegnare uno
stimolo, un organo e una modalità proprii.
Bisogna tuttavia osservare che se l'esistenza di un organo speciale è un indice di sensazione specificamente
distinta, una stessa specie di sensazione potrebbe avere più organi. Il principio più sicuro di distinzione è
dunque quello che si fonda sulla distinzione degli oggetti dei sensi o della natura delle sensazioni. Si dirà
che due sensazioni sono specificamente distinte quando si rileverà impossibile passare dall'una all'altra (per
esempio dal blu o dal verde al caldo, dal resistente al luminoso) mediante transizione continua. In tal caso si
dice che le sensazioni differiscono di modalità. Quando è possibile la transizione continua, esse differiscono
solo di qualità (o di grado).

103 - 2. SENSIBILITÀ SUPERFICIALE E SENSIBILITÀ PROFONDA - I moderni parlano di sensi


esterni e di sensi interni per distinguere i sensi che attingono oggetti o qualità esterne da quelli che
concernono le sensazioni intracorporali (o organiche). Possiamo conservare questa designazione che è
divenuta comune. Essa non manca tuttavia di ingenerare confusione.
Infatti, gli antichi, col nome di sensi interni, designavano altre cose. Questi sensi, che essi definivano sensi
con organi interni e dipendenti nell'esercizio dall'azione dai sensi esterni, erano per essi quattro, e cioè: il
senso comune o coscienza sensibile, funzione di comparazione e di unificazione dei dati dei sensi esterni, -
l'immaginazione, potenza di riprodurre le immagini degli oggetti anteriormente percepiti, - l'estimativa o
istinto, senso dell'utile e del nocivo, - la memoria sensibile, facoltà di conservazione delle impressioni
sensibili. È certo che queste funzioni meritano di essere chiamate sensi interni più giustamente che quelle
alle quali la psicologia moderna riserva quel nome. Perché in realtà i «sensi interni» della psico-fisiologia si
riducono al tatto interno (o cenestesia), il quale è legato da continuità col tatto esterno e non ne differisce
specificamente. Piuttosto che sensi interni e sensi esterni, sarebbe dunque meglio distinguere una sensibilità
superficiale (i cinque sensi e il senso termico) e una sensibilità profonda (cenestesia o tatto interno).

B. I DIVERSI GRUPPI DI SENSIBILI

104 - 1. SENSIBILE PER SÉ E SENSIBILE PER ACCIDENTE Questa distinzione corrisponde alla
distinzione moderna della sensazione pura e della percezione. Il sensibile proprio è quello che il senso
percepisce per se stesso (per esempio il colore dell'arancia); il sensibile per accidente è l'oggetto stesso,
rivestito delle qualità sensibili (l'arancia).

2. SENSIBILE PROPRIO E SENSIBILE COMUNE - Il sensibile per sé può essere proprio, quando
specifica specialmente un senso (a titolo di oggetto formale): tale la luce e tale il colore per la vista, o
comune, quando è l'oggetto secondario di molti sensi. I sensibili comuni sono il movimento locale, lo spazio
(distanza, figura e rilievo) e la durata.

105 - 3. QUALITÀ PRIMARIE E QUALITÀ SECONDARIE Abbiamo già indicato il senso e la storia di
questa distinzione (II, 48), che corrisponde in certa misura alla divisione in. sensibili propri e sensibili
comuni, ma che esprime soprattutto una concezione meccanicistica delle qualità. Le qualità primarie
(estensione, figura e movimento) sarebbero le sole oggettive e reali, essendo le altre, invece, «soggettive».
Questo punto di vista è quello di Cartesio, perché altri filosofi (come Berkeley) hanno voluto soggettivare
anche le qualità primarie.

4. QUALITÀ DISTINTE E QUALITÀ CONFUSE - Le sensazioni sono tanto più distinte quanto più sono
rappresentative e tanto più confuse quanto più implicano elementi affettivi. Gli antichi, per questa stessa
ragione, dicevano che la vista è il più intellettuale (o il più nobile) dei sensi. Le ricerche psicofisiologiche
dimostrano infatti che la vista può distinguere più di un milione di colori, senza parlare delle forme e dei
rilievi, la percezione dei quali spetta ad essa in notevole misura.
64
È dunque un senso eminentemente analitico. Al medesimo gruppo appartengono, benché in minor grado, il
tatto esterno e l'udito. Al contrario, il tatto interno, il gusto e l'odorato danno sensazioni confuse, nelle quali
predominano caratteri affettivi.

5. SENSIBILE IMMEDIATO E SENSIBILE MEDIATO - Si deve far distinzione tra sensibile immediato e
sensibile mediato? Alcuni psicologi contemporanei (Gredt, J. de la Vaissière), facendo appello alla precisione
della psicofisiologia moderna, hanno proposto di distinguere nel sensibile (proprio o comune) un sensibile
immediato, che sarebbe l'azione dello stimolo fisico, così come si esercita a contatto dell'organo sensoriale
(come l'azione dei raggi luminosi sulla rètina) 64, e un sensibile mediato, che sarebbe la qualità sensibile
esterna conosciuta per effetto dello stimolo fisico (come la superficie colorata dalla quale provengono i raggi
luminosi).
Questa teoria comporta non poche difficoltà. Da una parte essa non riesce a spiegare il fatto
sperimentalmente certo dell'unione del senso col sensibile, poiché l'immagine presente nel senso diviene, per
questa teoria, una vera intermediaria tra il senso e l'oggetto. D'altra parte, essa afferma che il sensibile è
sempre percepito nel corpo stesso e come contiguo all'organo. Pare che l'esperienza non confermi questa
concezione. Sembra dunque che ogni sensibile sia, come tale, immediato.

106 - 6. STIMOLI MEDIATI E STIMOLI IMMEDIATI - La distinzione che abbiamo ora criticato
potrebbe ritrovare un valore se si parlasse, non di sensibili mediati e immediati, ma di stimoli mediati e
immediati. Per esempio, nella visione di un oggetto, si distingueranno legittimamente i raggi luminosi riflessi
dagli oggetti alla rètina (stimoli immediati o prossimi) dall'oggetto stesso che riflette i raggi luminosi
(stimolo mediato o lontano). Gli stimoli intermedi, per definizione stessa, non sono l'oggetto: la loro struttura
è differente da quella dell'oggetto e la percezione non porta a questi ma solo all'oggetto, che è, quindi, il solo
sensibile e, in quanto oggetto, il solo termine dell'atto percettivo.

Tutto ciò era stato chiaramente visto dagli psicologi della Gestalt (42). (Cfr. Koffka, Principles of Gestalt
psychology, Londra, 1936, p. 75). Ma le loro conclusioni vanno molto più lontano: la distinzione degli
stimoli immediati li porta a proporre una teoria della percezione che deriva nettamente dalle concezioni
atomistiche altrove giustamente condannate. Infatti tutta la loro argomentazione consiste nel sottolineare che
gli stimoli immediati non sono univoci (o identici) agli oggetti e non ne riproducono tutte le proprietà.
essenziali (cfr. Koffka, op. c., p. 80-84; P. Guillaume, La Psychologie de la Forme, Parigi, 1937, p. 47) e che
essi non possono dunque spiegare la percezione degli oggetti o forme. Senonché, ciò implica logicamente il
postulato che la percezione, per essere obbiettiva, dovrebbe richiamarsi adeguatamente all'azione degli
stimoli immediati. Ma è proprio questo il problema! È un problema che l'associazionismo risolveva per
mezzo dell'epifenomenismo. La psicologia della forma adotta una soluzione dello stesso genere, quando si
appella alla proprietà del mezzo fisiologico. La questione è tuttavia impostata male. È uno di quegli pseudo-
problemi che abbondano in filosofia. Vedremo, studiando la percezione, che questa si spiega nello stesso
tempo per mezzo del giuoco delle eccitazioni sensoriali e per mezzo della finalità propria dell'atto percettivo ,
che consiste nel farci percepire oggetti e complessi, non qualità distinte e autonome. Gli psicologi della
Gestalt hanno visto benissimo che gli stimoli immediati sono ordinati alla percezione, cioè sono mezzi e non
oggetti. Ma non hanno capito che, per lo stesso motivo, gli stimoli non devono essere univoci agli oggetti e
che possono, per quanto siano differenti dagli oggetti, condizionare una percezione perfettamente oggettiva
di questi.

§ 2 - I sensi

A. IL GUSTO.

107 - 1. STIMOLO - Stimolo del gusto sono le sostanze dotate di sapore diluite nella bocca. La loro
introduzione nella bocca determina la secrezione della ghiandola salivare.

64 Cfr. Gredt, «Revue Thomiste», 1922, Le dernier fondement de notre certitude du monde sensible, p. 342: «Il colore
ricevuto nell'occhio per mezzo delle onde luminose che toccano immediatamente la rètina, il suono che vibra nella
membrana basilare in contatto immediato col nervo acustico, i corpuscoli odoriferi che penetrano fino alla membrana
pituitaria, la materia sciolta dalla saliva che perviene fino alle estremità del nervo gustativo, la pressione delle parti
sottocutanee al livello dei corpuscoli tattili, ecco i veri oggetti dei nostri sensi». Cfr. J. de la Vaissière, Philosophia
naturalis, Parigi, 1912, n. 136.
65
2. ORGANO - Organo del gusto sono le papille caliciformi, fungiformi e corolliformi che terminano il
nervo del gusto e ricoprono le mucose della lingua.

3. OGGETTO - Il gusto ha per oggetto sapori che si dividono in acido, amaro, dolce e salato. Le
sensazioni dei sapori risultano infatti mescolate a sensazioni termiche, tattili, dolorose, olfattive che
modificano in maniera più o meno profonda la percezione dei sapori. Il bambino sa benissimo, quando deve
inghiottire una medicina sgradevole al gusto, che ne attenuerà l'amarezza tappandosi il naso. È anche noto
come le dentiere diminuiscano la sensibilità ai sapori, senza sopprimere le sensazioni tattili e termiche.
Il problema che si pone è se i sapori fondamentali rappresentino modalità distinte o solo qualità o gradi
distinti. Si tende a considerarle sensazioni specificamente distinte (o modalità) e per conseguenza a dividere
il senso del gusto in quattro sensi parziali. Infatti non si rileva alcun passaggio continuo dall'uno all'altro.
D'altra parte, alcuni esperimenti sembrano provare che ad ogni sensazione fondamentale corrispondono
papille funzionalmente differenziate e specializzate: le papille caliciformi reagiscono solo all'amaro; le 150
fungiformi danno solo sensazioni tattili e termiche. Infine, alcuni agenti aumentano e altri diminuiscono la
sensibilità ad un sapore: la stricnina accresce la sensazione dell'amaro, la cocaina la sopprime.
Le sensazioni dei sapori danno luogo a localizzazioni soggettive (punto nel quale si produce la sensazione)
e anche (a causa delle sensazioni tattili concomitanti) alla localizzazione oggettiva (sito in cui si trova
l'oggetto).

B. L'ODORATO.

108 - 1. STIMOLO - Lo stimolo dell'odorato consiste nelle particelle odorifere portate dall'aria inspirata a
contatto della mucosa nasale.

2. ORGANO - Le sensazioni olfattive hanno la loro sede nelle cavità nasali ed hanno per organo i
bastoncelli olfattivi che ricoprono a grappolo l'epitelio cilindrico e vibratile della mucosa nasale, all'altezza
del cornetto superiore, nell'uomo, e ancora più nei quadrupedi.

3. OGGETTO - Oggetto dell'odorato sono gli odori, il cui numero è illimitato e che sembra non si possano
classificare65. Si può, infatti, definirli chiaramente, solo riferendoli ai relativi stimoli fisici (odore di rose, di
violette, ecc.). Si può ritenere che ogni corpo emetta un odore; ma la sensibilità agli odori è estremamente
variabile, dall'uomo, in cui è relativamente poco estesa, agli animali, nei quali è molto più estesa e intensa,
poiché per essi l'odorato ha grande importanza.
La localizzazione oggettiva è imperfettissima e richiede il concorso della vista e del tatto. Tuttavia, la
sensazione olfattiva comporta per se stessa una certa indicazione e, per ciò stesso, una certa percezione
spaziale, poiché i suoi dati esercitano una funzione considerevole negli animali (sia d'esempio il cane da
caccia). In quanto alla localizzazione soggettiva, diremo che essa è prodotta per mezzo della concomitanza
delle sensazioni gustative e tattili.

C. L'UDITO.

109 - 1. STIMOLO - Lo stimolo fisico dell'udito è costituito dalle vibrazioni dell'etere ricevute
dall'orecchio esterno e portate, attraverso l'orecchio medio, all'orecchio interno.

2. ORGANO - L'organo proprio dell'udito è costituito, nell'orecchio interno, dalle cellule cigliate
dell'organo di Corti nelle quali si apre il nervo uditivo. La membrana basilare dell'organo di Corti è striata
trasversalmente da circa 6.000 fibre, che crescono regolarmente come le corde di un'arpa. L'organo di Corti è
composto di 3.000 archi.

OGGETTO - Oggetto dell'udito sono i rumori e i suoni, traduzione delle vibrazioni sonore. I rumori
corrispondono a vibrazioni irregolari, i suoni musicali a vibrazioni regolari e cadenzate. Generalmente,
rumori e suoni sono prodotti insieme: l'arte musicale cerca di ottenere suoni più puri che sia possibile.

65 Si è tentato di raggruppare gli odori in famiglie distinte e si sono suddivisi nei gruppi eterei, ambrosiaci, caprini,
agliacei, nauseanti, repellenti, ecc. Da una parte, tuttavia, ciascuno di questi gruppi definisce complessi di odori
piuttosto che odori elementari e d'altra parte alcuni gruppi (nauseanti e repellenti) si riferiscono non a odori, ma a
reazioni che provocano.
66
Nei rumori e soprattutto nei suoni si distinguono tre elementi: intensità, altezza e timbro. L'intensità
dipende dall'ampiezza o dalla forza delle vibrazioni. L'altezza dipende dalla frequenza o numero delle
vibrazioni in un dato tempo. Queste sono percettibili da circa 30 al secondo per i suoni gravi (soglia
primitiva) a circa 3.000 al secondo per i suoni acuti (soglia massima). La gamma musicale è una scala di
suoni che comprende solo un piccolo numero di queste altezze divise in ottave di 12 note ciascuna. Infine, il
timbro (che è come il colore del suono) dipende dalla sovrapposizione del suono fondamentale (o suono più
grave) e delle armoniche più acute, le cui frequenze sono in rapporti semplici e definiti con il suono
fondamentale. Le armoniche variano secondo la sorgente sonora: suoni della medesima intensità e della
medesima altezza (sia note prodotte dall'organo, sia note prodotte dalla voce umana) sono di timbri
differenti66.
L'udito è nello stesso tempo molto sintetico e molto analitico. Può sommare un gran numero di sensazioni
simultanee e soprattutto, legando i suoni successivi, produce una sensazione di continuità o di durata. Nello
stesso tempo, esso astrae dalla massa sonora i suoni che interessano l'uditore.
L'udito per se stesso, non fornisce localizzazione oggettiva o soggettiva, ma permette, grazie a
un'educazione spontanea o acquisita, sbalorditivamente sviluppata in certi animali, di valutare la più o meno
grande distanza e la direzione della sorgente sonora e contribuisce, con ciò, moltissimo alla percezione
spaziale.

D. LA VISTA.

110 - 1. STIMOLO - Lo stimolo della vista sono le vibrazioni luminose che giungono a contatto
immediato della rètina, con le loro determinazioni d'intensità (luminosità) e di qualità (colore) e le loro
rispettive direzioni.

2. ORGANO - Organo della vista sono le terminazioni del nervo ottico che rivestono il fondo del globo
oculare sotto la forma di coni e di bastoncelli. Si suppone che i coni siano particolarmente sensibili ai colori
e i bastoncelli alla luminosità, il che spiegherebbe come alcuni animali (polli e serpenti) la cui rètina non
contiene bastoncelli, si pongano a riposare al cadere della notte e che altre, che non hanno coni (civette),
veglino la notte.
I fisiologi distinguono nella rètina tre sensibilità cromatiche o tre colori fondamentali: rosso, verde,
violetto, la cui fusione produce la sensazione del bianco e, le diverse combinazioni, tutta la gamma dei colori.
Questi colori fondamentali avrebbero per organi specializzati tre specie di coni (teoria di Young e di
Helmholz). Questa teoria spiegherebbe la discromatopsia, come il daltonismo, nella quale non esiste la
sensazione del rosso, per l'assenza dei «coni rossi», e la sua sostituzione per mezzo del colore
complementare (verde). L'obiezione avanzata dell'acromatopsia (cecità ai colori con visione netta del
bianco) non sembra invalidare la teoria di Young, poiché i bastoncelli sono sensibili alla luce incolore (o
luminosità).
È necessario ancora tener conto del giuoco straordinariamente complesso dei muscoli e apparati di
adattamento (contrazione delle palpebre, dei muscoli cigliari, dei muscoli orbitali, ecc.) che forniscono le
sensazioni organiche mediante le quali si opera la localizzazione degli oggetti della vista.

111 - 3. OGGETTO - L'oggetto immediato della vista è la luce con le sue determinazioni, che ci è data
come una estensione illuminata, immediatamente esteriore all'organo della vista, senza che, tuttavia, si possa
precisare la natura esatta di questa esteriorità, cioè definire se l'estensione illuminata sia tangente alla rètina o
esteriore al corpo. Questa precisazione è il risultato di diverse esperienze, nei quali intervengono altri dati
sensibili (soprattutto di natura tattile: immagine tattile del rilievo, spostamento della mano o del corpo verso
l'oggetto illuminato, contrazione muscolare dell'occhio, ecc.) e di un tirocinio più o meno laborioso.
La luce, come si è visto, comporta luminosità e colore. L'intensità corrisponde all'ampiezza delle
vibrazioni luminose (queste sono state definite dalle teorie fisiche in modi differentissimi: ipotesi
dell'emissione di Newton, dell'ondulazione di Fresnel, teoria elettromagnetica di Maxwell, teoria dei fotoni
di Einstein-Dirac, meccanica ondulatoria di Heisenberg, di De Broglie: (II, 66). La lunghezza d'onda,
risultando dalla frequenza delle vibrazioni produce le qualità luminose o colori, distinti fondamentali (rosso
- verde - violetto) e complementari, se ne percepirebbero circa un milione. (Psicologicamente, come abbiamo
visto (101), non vi sono evidentemente che colori semplici, poiché la sensazione come tale è sempre un

66 Cfr. Ch. Lalo, Éléments d'une esthetique musicale scientifique, 2.a ed., Parigi, 1938, p. 57-77.
67
fenomeno semplice e non scomponibile, quali che siano le condizioni fisiche e fisiologiche complesse della
sua attuazione).
Notiamo infine che la vista non comporta per se stessa localizzazione soggettiva. Salvo il caso di
sensazioni muscolari o dolorose legate alla vista, questa non produce altra sensazione che quella dell'oggetto
visto (estensione luminosa o cromatica). L'organo e il senso come tali in qualche modo ignorano se stessi.

E. IL TATTO

112 - Il tatto è il più complesso di tutti i sensi, cioè quello che fornisce insieme il maggior numero di
sensazioni diverse. Gli antichi gli attribuivano nello stesso tempo la percezione delle resistenze e quella delle
temperature e il senso comune, seguendo il medesimo indirizzo, mette in rapporto con esso tutto l'insieme
delle sensazioni organiche, come le sensazioni di peso, resistenza, colore, movimento, pressione, sforzo. La
psicofisiologia moderna si è soprattutto sforzata di distinguere, in questo complesso eterogeneo, sensi
specificamente distinti, per mezzo della discriminazione di organi funzionalmente differenziati. Il problema
consiste nel determinare se queste distinzioni siano tutte ugualmente giustificate.

1. SENSO TERMICO - Si è riusciti ad isolare, per mezzo di varie esperienze, punti sensibili al freddo e
punti sensibili al caldo. Si esplora la pelle con una punta di metallo e si osservano punti in cui si produce una
sensazione di freddo; parimenti con una punta leggermente riscaldata si distinguono punti sensibili al caldo,
differenti dai punti sensibili al freddo e meno numerosi di questi. Si nota anche che in certi casi patologici, la
sensibilità alla temperatura sopravvive alla sparizione della sensibilità alla resistenza. Infine, sembra che
questa sensibilità abbia per organo i corpuscoli di Meissner e di Ruffini.

Si può dunque ammettere che si ha ragione di ritenere la sensibilità alle temperature formalmente distinta
dalla sensibilità alla pressione e alla resistenza, perché non c'è possibilità di passaggio dall'una alle altre e
gli organi sembrano distinti. Invece le sensazioni di freddo e di caldo differiscono solo qualitativamente. La
distinzione dei punti sensibili al freddo dai punti sensibili al caldo non prova affatto il contrario: si tratta solo,
sembra, di punti di sensibilità labile nell'uno e nell'altro senso (cioè che i punti sensibili al freddo sono assai
poco sensibili al caldo e viceversa), perché si è notato (Alrutz) che a temperatura da 45° a 49° i punti
sensibili al freddo sono impressionati come i punti sensibili al caldo.

113 - 2. SENSO MUSCOLARE - Si comprendono sotto questo nome numerose sensazioni e percezioni:
contatto semplice, pressione, movimento delle membra (sensazioni cinestetiche), peso, resistenza, sforzo,
attitudine, equilibrio, orientamento, cenestesia. Bisognerà distinguere, in quest'insieme, sensi specificamente
differenti, con organi specializzati?

a) Contatto. Il contatto puro consiste in un'azione meccanica che si esercita senza pressione sulla pelle. La
sensazione di contatto ha per organo, alla periferia, si pensa, i corpuscoli dermici di Krause e, all'interno, le
terminazioni nervose dei muscoli e delle capsule articolari. I corpuscoli dermici sono sparsi un po'
dappertutto sulla pelle e abbondano soprattutto nelle regioni sprovviste di peli, benché in maniera molto
ineguale secondo le regioni. Molte di queste regioni sono dotate di una grande sensibilità tattile (punta della
lingua, polpastrello delle dita, ecc.) 67. La sensibilità tattile è soprattutto differenziale; è solo debolmente
qualitativa.
L'oggetto proprio di questa sensibilità è la resistenza, con le sue determinazioni qualitative (duro o molle,
liscio o rugoso). Tuttavia, non si percepisce mai una resistenza pura, ma solo un'estensione resistente, che è
l'oggetto mediato della sensibilità tattile. L'estensione resistente o oggetto esterno non è percepita come
esteriore per il semplice effetto del contatto ma per il giuoco di esperienze tratte dai diversi sensi.
Il contatto permette la localizzazione oggettiva e la localizzazione soggettiva 68.

67 L'estesiometro di Weber mostra che la distanza dei due aghi del compasso, perché si producano due sensazioni
distinte, deve essere di 16 mm. sul dorso della mano, mentre sulla punta della lingua basta che sia di un solo mm.
68 J. Lefèvre (Manuel critique de biologie, p. 815) propone di ammettere un «senso (più o meno cosciente) del tono
muscolare» che dipenda principalmente dalla sensibilità periferica e per mezzo del quale il soggetto sentirebbe e
valuterebbe la sua forza vitale. Si potrebbe notare, come appoggio a questa concezione, che gli animali sottratti ad ogni
influenza esterna (per mezzo dell'oscurità, del silenzio e dell'immobilizzazione) cadono in una specie di torpore. Nello
stesso senso, si sono notati (Féron, Laforgue) casi di torpore incoercibile in individui colpiti da anestesia cutanea.
Questi fatti giustificano nondimeno il ricorso a un senso speciale? Essi provano solo, forse, che l'attività generale e la
cenestesia dipendono in gran parte dagli stimoli esterni e dalle reazioni da questi provocate.
68

114 - b) SFORZO. Il contatto può essere passivo (choc, pressione o resistenza esterna) o attivo
(palpazione, per esempio, o atto di stringere un oggetto nella mano). Si son volute tuttavia distinguere in esso
due differenti specie di sensazioni, definendo il contatto attivo come un senso specifico dello sforzo,
mediante il quale noi prendiamo una coscienza immediata della nostra attività e per ciò stesso del nostro io
(Maine de Biran, Bain).

La sensazione di sforzo è spiegata in una maniera del tutto differente dalla teoria periferica (W. James),
secondo la quale lo sforzo non è colto in se stesso come una realtà sui generis, ma come l'effetto sintetico del
giuoco delle sensazioni cutanee, delle articolazioni e delle contrazioni muscolari. Il che significherebbe
dunque che essa è una sensazione passiva, come tutte le altre sensazioni.

A questa concezione, altri psicologi (Muller, Wundt) oppongono che la sensazione di sforzo non è d'origine
periferica ma centrale. Essa potrebbe, in questa teoria, essere definita come una sensazione d'innervazione
cioè tale da dare coscienza delle scariche nervose motrici provenienti dai centri corticali 69. Si adduce come
prova il fatto che i paralitici, privi di sensazioni periferiche, avrebbero ancora la sensazione di sforzo, che in
essi potrebbe essere solo centrale. Il senso dello sforzo risulterebbe così isolato dalle sensazioni periferiche
che l'accompagnano, ma non lo costituiscono70.
La teoria centrale, ad onta di tutto, appare controversa. Infatti, da una parte, noi non abbiamo alcuna
coscienza distinta dell'influsso nervoso 71. Inoltre le sensazioni dette attive si distinguono solo in gradi dalle
passive: quando c'è sforzo, l'impressione di tensione è semplicemente più grande nelle articolazioni e nei
muscoli. Infine, la scossa prodotta in un muscolo dall'eccitazione elettrica dà una sensazione quasi simile a
quella di un movimento volontario. Insomma, non c'è coscienza pura di attività al di fuori dell'imperio
volontario, che non è una sensazione, ma, come James fa notare, un «feeling» o sentimento, cioè, in tal caso,
un fenomeno mentale. La sensazione di sforzo, isolata dalla volizione e dalle «immagini motrici»
(anticipazione delle resistenze e dell'energia motrice da fornire), si riduce ad un complesso di sensazioni
cutanee, articolari e muscolari72.

115 - c) Peso. Le sensazioni di peso, date nell'atto di sollevare o di bilanciare un peso, si riducono
anch'esse ad un complesso di sensazioni di pressione e di sforzo.
d) Atteggiamento. Noi abbiamo la sensazione delle posizioni relative delle parti del corpo. Queste
sensazioni sono quasi immediate per le parti in posizione relativa stabile e la distinzione delle parti risulta,
senza alcun movimento, dalle sensazioni tegumentarie prodotte da uno stesso stimolo. Se le parti sono mobili
(le mani, per esempio), le sensazioni cutanee permettono la distinzione delle parti, ma non la determinazione
delle loro posizioni relative, poiché questa determinazione è data dalle sensazioni articolari e muscolari
congiunte (per esempio, dalla pressione di una mano sull'altra).
e) Equilibrio e orientamento. La sensazione d'equilibrio è la percezione dell'attitudine totale del corpo,
relativamente alla verticale. Abbiamo coscienza d'essere in piedi o coricati, piegati in avanti o indietro, ecc.
Donde i movimenti di compensazione che noi eseguiamo costantemente per mantenere o ritrovare
l'equilibrio ed evitare le cadute. A queste sensazioni si ricollegano quelle dell'orientamento, per mezzo delle
quali siamo avvertiti delle differenti direzioni in cui ci inoltriamo rispetto al nostro punto di partenza. Si sa
come queste sensazioni d'equilibrio e d'orientamento siano precise e sottili in alcuni animali (pesci, gatto,
cane, cavallo, uccelli migratori).
Si è creduto (Elie de Cyon) scoprire un organo speciale per queste sensazioni, per esempio i canali semi-
circolari, l'utricolo e il sacculo dell'orecchio interno, che si consideravano un tempo come organi secondari
dell'udito. Le variazioni del livello dell'endolinfa contenuta nei canali semi-circolari ed a causa del fatto
stesso della posizione delle otoliti dell'utricolo e del sacculo, variazioni che obbediscono alle leggi della
69 In seguito, Wundt, ha sostituito a queste sensazioni d'innervazione una specie di coscienza percettiva o premonitrice
dei movimenti da eseguire e consistente in sensazioni periferiche (Grundzuge der Physiologischen Psychologie, 3 voll.,
6.a ed., Lipsia, 1874, t. 111, p. 284 sg.).
70 I partigiani della teoria centrale mettevano avanti l'esperienza di Strumfel: questo fisiologo immobilizzava una mano
nel gesso e osservava che, se si vuol muovere la mano imprigionata, si prova una sensazione pura di sforzo. Ma ciò non
prova nulla. Janet osserva giustamente che «la mano può muoversi nella sua propria pelle» e che immagini muscolari
sono associate alla volontà di muovere il membro immobilizzato.
71 Questo punto di vista è stato messo bene in luce da Woodworth (Mouvement, trad. fr., Doin, 1903, p. 35 sg.), in
seguito ad esperienze negative conclusive.
72 Cfr. J. de la Vaissière, Éléments de Psychologie expérimentale, p. 69-72.
69
gravità e del movimento, sarebbero all'origine delle sensazioni per mezzo delle quali prendiamo coscienza
del nostro equilibrio e dei movimenti che lo modificano (rotazione, direzione, posizione in rapporto alla
verticale). (Cfr. È. De Cyon, L’oreille, Alcan, 1911). Breuer ha anche creduto di scoprire che i canali semi-
circolari erano specialmente interessati alle sensazioni di rotazione e le otoliti dell'utricolo e del sacculo alla
direzione.
Queste teorie sono assai incerte. È certo che l'ablazione dei labirinti dell'orecchio interno produce disordini
nelle posizioni d'equilibrio e d'orientamento. Questi disordini sono tuttavia solo passeggeri e a poco a poco
spariscono. Se ne deduce che gli organi dell'orecchio interno hanno solo una funzione accessoria, poiché
possono essere suppliti da altri organi.

116 - f) Tatto interno (cenestesia). Si raggruppano sotto questo nome tutte le sensazioni relative allo stato
degli organi, alle lesioni e alle funzioni della vita vegetativa, cioè l'insieme delle sensazioni organiche
forniteci come associate e fuse in una sorta di sensazione globale confusa, che costituiscono l'essenziale
della sensibilità profonda. A questa sensazione globale noi ci riferiamo per definire il nostro stato di salute
(«mi sento bene o male», «ho un'impressione di malessere o di benessere generale», ecc.). Non si conosce un
organo speciale della cenestesia, che è un complesso indefinibile di sensazioni eterogenee multiple, dotate
d'un carattere affettivo predominante.
In fin dei conti, nel tatto (interno o esterno) si scoprono in modo certo solo due sensi distinti, cioè il senso
termico e il senso tattile. Tutte le altre sensazioni si riducono, sembra, a forme del tatto, secondo gli elementi
organici (muscoli, tendini, articolazioni, pelle, legamenti sottocutanei, immagini muscolari e motrici, ecc.)
che sono interessati ad ogni singolo caso.

117 - 13. IL PROBLEMA DEL SENSO DOLORIFICO

a) L'ipotesi di un senso dolorifico. Si è voluto distinguere una sensibilità specifica al dolore, poiché attente
osservazioni sembrano rilevare punti dolorosi distinti e più numerosi dei punti sensibili alla temperatura e al
contatto. Per esempio, la vescica e l'intestino hanno una sensibilità dolorosa ma non hanno sensibilità tattile;
la cornea ha sensibilità dolorosa, ma è insensibile alla pressione e alla temperatura. Inoltre, in patologia, si
osservano casi di analgesia (insensibilità al dolore) senza anestesia. Infine, secondo Blix, le impressioni
dolorose sembrano seguire nel midollo altre vie che le impressioni tattili e termiche e sembra anche che
abbiano centri cerebrali determinati, che sarebbero i nuclei grigi del cervello medio (talamo).

b) Discussione. Tuttavia, questi fatti lasciano adito ad ipotesi assai varie. Se alcuni psicologi (come
Ebbinghaus, von Frey) ammettono un senso speciale del dolore, altri (come Goldscheider) affermano che il
dolore non ha un organo specializzato ma si riduce ad un semplice modo interessante le diverse sensazioni,
allorché l'eccitazione supera un certo grado d'intensità. Infatti, essi dicono, da una parte, non sembra che
esistano sensazioni puramente dolorifiche e, d'altra parte, la psicologia stabilisce che il piacere e il dolore
sono legati alle sensazioni come modi d'esercizio dei loro organi: una sensazione di dolore è sempre una
sensazione determinata (tattile, termica, ecc.), affetta da dolore.
La tesi di Goldsscheider è certamente giusta sotto il suo aspetto negativo, perché è certo che il dolore non
costituisce una sensazione specifica, poiché è provato che esso è privo, come tale, di contenuto
rappresentativo e che ha una finalità distinta da quella della sensazione. Infatti, il dolore, contrariamente alla
sensazione, non ha né stimolo né organo (poiché la distinzione di punti di pressione da punti di dolore, del
resto essa stessa molto contestata, non ci costringe punto ad adottare la tesi di von Frey). Tuttavia, sotto il
suo aspetto positivo, che consiste nel definire il dolore come la forma intensiva delle sensazioni, la teoria di
Goldscheider è discutibilissima. Dolore e sensazione sono eterogenei. Se talvolta (nell'ordine tattile e
muscolare) l'esercizio intensivo o anormale di un senso genera il dolore, ciò non può essere considerato uno
sviluppo ulteriore della sensazione, ma un effetto organico di natura del tutto differente, perché ha per
conseguenza di sopprimere la sensazione stessa (rottura del timpano, bruciatura della rètina, ecc.).

Art. V - Lo spazio, il tempo, il movimento


A. NOZIONI GENERALI

118 - 1. I «SENSIBILI COMUNI» - La tradizione designa, sotto questo nome, lo spazio, il tempo e il
movimento, per significare che questi «sensibili» ci sono forniti per mezzo del complesso gioco dei sensi,
come legati alla percezione dei sensibili propri. Vedremo come questa concezione si fondi su fatti certi e
70
come a questo titolo il termine di «sensibile comune» potrebbe essere conservato. Tuttavia, esso rischia di
essere frainteso e di indurre a credere che il tempo, lo spazio e il movimento derivino da esperienze
molteplici ed eterogenee, ciascuna delle quali, presa singolarmente, non basterebbe a fornirlo chiaramente e
perfettamente. Il nostro studio ci porterà ad escludere quest'opinione.

Abbiamo studiato, in Cosmologia (II, 19-47), dal punto di vista ontologico, le varie teorie relative ai
«sensibili comuni». Ricordiamo solo, qui, che queste teorie possono dividersi, secondo i termini consacrati
(ma alquanto impropri) in empiriche e genetiche e in nativiste. Le prime affermano che le nozioni di
movimento, di tempo e di spazio non si fondano punto su dati primitivi e sperimentali ma sono fornite dallo
spirito o date a priori. Le seconde, oggi più generalmente ammesse, ammettono che i «sensibili comuni»
sono fondati su dati primitivi e irriducibili della sensibilità.

2. I DUE LIVELLI D'ESPERIENZA - Non è necessario riprendere la discussione di queste teorie


filosofiche, ma solo studiare dal punto di vista psicologico la genesi delle nozioni di movimento, spazio e
tempo, cioè cercare di definire quali siano le esperienze donde derivano queste nozioni. Tuttavia conviene
qui distinguere più terreni sperimentali. Gli psicologi hanno soprattutto osservato e studiato fin qui i processi
che servono ad elaborare le nozioni di spazio, di movimento e di tempo. Da questo punto di vista, la
sensibilità differenziale appare come la principale produttrice di esperienze relative ai sensibili comuni,
poiché questi si presentano prima di tutto come percezioni di rapporti.

È proprio quel che sembra stabilire lo studio dello sviluppo psicologico nel bambino. All'età di circa 7 o 8
anni, alle operazioni per mezzo delle quali egli perviene a riunire gli oggetti per classificarli, ordinarli ed
enumerarli, corrispondono le operazioni (ancora concrete, più che formali) per mezzo delle quali lo spazio, il
tempo e i sistemi materiali ricevono le strutture che li caratterizzano e che raccolgono e coordinano
raggruppamenti qualitativi rimasti fino a quel momento indipendenti sul piano intuitivo 73.

Ma, al di sotto di quest'elaborazione, bisogna ammettere la realtà di un'esperienza primordiale e


fondamentale della temporalità, della spazialità e del movimento, senza la quale il termine «elaborazione»
non sarebbe più che il nome equivoco di una genesi a priori. Cercheremo dunque di renderci conto delle
esperienze vissute che sono costantemente sottese alle nostre percezioni di spazio, tempo e movimento e
sulle quali si fondano i processi complessi della loro elaborazione progressiva, contemporaneamente
empirica e concettuale.

B. LO SPAZIO

119 – 1. L'ESPERIENZA VISSUTA DELLO SPAZIO - Al principio di tutte le nozioni relative allo spazio,
c'è il sentimento d'una spazialità primordiale, sulla quale si fonda e che sostiene la spazialità oggettiva e
l'elaborazione che essa richiede al concorso dei sensi.
In quest'ordine, l'esperienza fondamentale è quella del proprio corpo. Noi conosciamo immediatamente
«per mezzo del sentimento» la posizione di ciascuna delle nostre membra grazie allo schema corporale che le
comprende tutte. Questa conoscenza è essenzialmente funzionale e concreta: senza riflessione né esitazione,
io porto la mano al punto esatto della fronte o della nuca dove s'è posata una mosca; posso anche
costantemente avere una visione delle parti del mio corpo che mi sono celate. Si direbbe che ciascuno si veda
per mezzo di una specie d'occhio interiore. Ora si tratta in tal caso realmente della percezione d'uno spazio
corporale, che è indubbiamente il primo spazio che noi apprendiamo e che si confonde, infatti, con lo stesso
essere del corpo: il mio «proprio corpo» mi è immediatamente presente al di fuori di ogni sensazione
determinata e, come osservava Biran (Fondements de la Psychologie, ed. Tisserand, VIII, p. 176), questa
presenza si traduce nel sentimento globale e confuso del mio «spazio interiore». Per mezzo di questa
esperienza lo spazio si radica nell'esistenza.

Lo spazio esteriore o oggettivo si manifesta a sua volta per mezzo di un sentimento di non-contatto, di
distanza e di separazione in rapporto alle cose. Questo spazio vissuto non può essere definito come un
contenente, poiché la relazione contenente-contenuto può valere solo per le cose, mentre io sono un soggetto
e non un oggetto. Né tanto meno è un «ambiente» logico che risulterebbe da un atto di sintesi del soggetto

73 J. Piaget, La psychologie de l'intelligence, Parigi, 1947, p. 166 sg.; Le développement de la notion de temps chez
l'enfant, Parigi, 1946; Les notions de mouvement et de vitesse chez l'enfant, Parigi, 1946.
71
che percepisce, operato partendo da elementi inestesi perché questo spazio non potrebbe essere esso stesso
costruito che in funzione di una spazialità anteriore 74. Perciò, poiché lo spazio vissuto non è una cosa
(contenente), né un ente logico, bisogna concludere che esso è il mezzo mediante il quale le cose ricevono
posizioni: direzioni e dimensioni sorgono a partire dal mio corpo, attorno al quale si spiega un mondo, e
determinano questo mondo come campo delle mie possibilità (II, 26)75.

2. IL PROBLEMA DELLA PERCEZIONE DELLO SPAZIO - Abbiamo visto che c'è una spazialità
fondamentale, che è l'esperienza primitiva sulla quale si fonda la nostra percezione dello spazio. Ora si pone
tuttavia il problema di sapere come questa spazialità vissuta si traduca e s'esprima nell'attività percettiva.
C'è infatti una genesi e una costruzione dello spazio oggettivo, che è un processo di differenziazione e di
esplicitazione, del quale bisogna definire con precisione il meccanismo.
Nella sua forma classica, il problema si poneva nella seguente maniera. Noi conosciamo il mondo per
mezzo delle eccitazioni sensoriali che colpiscono gli organi che sono loro specifici. Si trattava dunque di
spiegare come, a partire dai dati sensoriali rappresentativi, noi possiamo ottenere una percezione dello
spazio, cioè si trattava di sapere se la percezione dello spazio sia immanente ad alcune impressioni sensoriali,
e quali, o, al contrario, se essa non implichi il giuoco d'un altro dinamismo. Adottando la prima ipotesi, le
soluzioni proposte (nativiste) invocavano particolarmente l'intervento del tatto e della vista.

120 - 3. LE TEORIE NATIVISTE - L'impossibilità di costruire l'oggetto dei sensi a partire dalle pure
sensazioni inestese ha messo fuori causa le teorie genetiche dello spazio. Gli psicologi ammettono che le
sensazioni ci danno immediatamente lo spazio. Resta però da determinare quali siano i sensi suscettibili di
adempiere questa funzione. Gli uni (Berkeley, S. Mill) attribuiscono al tatto l'intuizione dello spazio; gli altri
(Platner), alla vista o alla collaborazione dell'atlante visivo e dell'atlante tattile. Senza entrare nei particolari
di queste teorie, ne esporremo in forma sintetica gli aspetti essenziali.

a) La percezione visiva. Percepire lo spazio, significa percepire posizioni, direzioni, distanze, grandezze,
rilievi e forme degli oggetti. Questa stessa complessità della percezione spaziale basterebbe a mostrare che
molti sono i sensi che debbono necessariamente collaborarvi. Partiamo dalla più comune esperienza, nella
quale lo spazio ci si presenta come un'estensione colorata. Per il fatto stesso che le sensazioni luminose e
cromatiche ci sono sempre fornite come distese cioè come estese e nello stesso tempo esteriori all'organo
della vista, noi abbiamo la percezione delle tre dimensioni, larghezza, altezza e profondità, oltre a quella
della direzione dell'oggetto. Si pone tuttavia ancora il problema di sapere se la vista, che nell'adulto pare sia
sufficiente a questa percezione delle tre dimensioni e della direzione, sia realmente sufficiente, e se altri sensi
non collaborino alla formazione delle nostre sensazioni spaziali. Ciò che ci induce a crederlo, è il fatto che il
tatto e l'udito ci forniscono parimenti sensazioni diverse di natura spaziale. Per mezzo del tatto, noi
esploriamo nello stesso tempo la posizione degli oggetti relativamente al corpo (sensazione di distanza) e il
rilievo che questi comportano (sensazione di profondità). L'udito interviene ugualmente, per la sua parte,
nella determinazione delle direzioni e delle distanze.
Studiamo innanzitutto la funzione della vista. Questa ci presenta, abbiamo detto, estensioni colorate, cioè le
dimensioni di larghezza e di altezza. Ciò tuttavia non è ancora lo spazio, il quale implica percezione dalla
terza dimensione o profondità. Può la vista, da sé sola, darci la profondità? Può fornirci la direzione degli
oggetti?

Se si considera la visione monoculare, l'immagine dell'oggetto si produce sulla macula e l'oggetto è visto
come situato a distanza sulle rette che riuniscono l'oggetto al centro ottico dell'occhio. Bisogna notare
tuttavia che se la direzione è data in virtù di questo stesso fatto, la distanza non è definita. Infatti, la
direzione resta la stessa, sia che, l'occhio e la testa restando fissi, l'oggetto si muova nello spazio, sia che la
testa e l'occhio cambino posizione. La percezione della distanza relativa all'occhio dipende dai mutamenti
che si producono nei meccanismi di adattamento e, perciò, da tutto un addestramento per mezzo del quale si
stabilisce una corrispondenza tra l'adattamento e la distanza.

74 Lotze e Wundt hanno voluto spiegare la percezione dello spazio per mezzo dell'impossibilità di fondere insieme
alcune sensazioni simultanee (teoria dei segni locali). Ogni terminazione nervosa, essi dicono, produce un'impressione
sui generis; ma poiché noi non possiamo fondere in un solo tutto sensazioni eterogenee, le giustapponiamo nello spazio.
Ma è chiaro che questa teoria postula la rappresentazione dello spazio: l'atto che si presume generi lo spazio per via di
sintesi presuppone questa sintesi a se stesso. Noi giustapponiamo nello spazio solo le sensazioni che sono già di per sé
rappresentative di spazialità.
75 Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la Perception, Parigi, 1945, p. 281-344.
72

La visione binoculare perfeziona la sensazione di profondità per mezzo del giuoco di convergenza delle
due rette che conducono dall'immagine al centro ottico dell'occhio. Per questo stesso fatto si ottengono
immagini ben localizzate dell'oggetto guardato e nello stesso tempo degli oggetti situati tra questo e l'occhio
(cioè sui piani perpendicolari alle linee di mira). Ogni distanza dai vari piani esige un grado definito di
adattamento e di convergenza che è al principio della percezione della profondità, ma non è ancora
sufficiente alla precisa percezione delle distanze. Queste si presentano solo come differenti, più grandi o più
piccole. Questa percezione relativa diviene assoluta solo per mezzo del giuoco di altre esperienze sensoriali,
associate ai dati dello spazio visivo76.

b) La percezione tattile. Poiché la vista pare non sia capace di dare la terza dimensione, gli psicologi hanno
ritenuto che siano le sensazioni tattili a contribuire nella maniera più importante alla percezione dello spazio.
Infatti, noi valutiamo le distanze degli oggetti lontani dal corpo sia per mezzo dei movimenti che le mani
debbono eseguire per toccarli, sia per mezzo del movimento del corpo che si sposta per avvicinarsi ad essi.
Sensazioni tattili e muscolari si associano perciò alle distanze e permettono in seguito, per mezzo di un
giuoco spontaneo (riflesso d'associazione), di misurarle in maniera più o meno sicura. È solo e soprattutto
per mezzo di esse che la vista sembra fornirci, da sé sola, distanze determinate, allorquando si richiama, per
trasporto associativo, alla sensazione degli sforzi e dei movimenti da compiere per raggiungere l'oggetto. È,
perciò, evidente che le sensazioni tattili hanno valore spaziale solo per mezzo delle sensazioni di pressione e
delle sensazioni cinestesiche che esse comportano.

c) La percezione auditiva. L'udito è molto lontano dal possedere la precisione delle percezioni spaziali
tattilo-visive. I suoi dati esercitano, tuttavia, una funzione importante. Lo scuotimento della massa d'aria
dell'orecchio esterno, lo spostamento della testa e dell'orecchio allo scopo di assumere la posizione più
favorevole alla audizione, la convergenza delle linee d'incidenza del suono sui due organi simmetrici,
permettono una certa valutazione della direzione e della distanza degli oggetti sonori. I movimenti della testa
che eseguiamo per precisare i dati confusi dell'udito rivelano la realtà di uno spazio auditivo. Questi dati
però forniscono nozioni precise solo per mezzo delle associazioni che si stabiliscono gradatamente con i dati
muscolari concomitanti e soprattutto con le variazioni intensive del suono.
Avremmo dunque, psicologicamente, tre specie di spazi - visivo, tattile, auditivo - i cui dati distinti possono
associarsi, rafforzarsi e controllarsi reciprocamente.

121 - 4. DISCUSSIONE DELLE TEORIE NATIVISTE - Non porremo in discussione il nativismo in se


stesso, ma gli argomenti cui si appella.

a) Lo spazio non è uno stimolo. Per evitare la petizione di principio dell'empirismo genetico, che postula
surrettiziamente la rappresentazione dello spazio, le teorie nativiste considerano questo come uno stimolo al
quale alcuni organi sarebbero specificamente sensibili allo stesso titolo in cui lo sono alla luce e al suono.
Ora se è certo che l'occhio percepisce lo spazio, non si può dire che lo colga in eccitazioni sensoriali nello
stesso modo in cui apprende la luce per effetto di eccitazioni luminose.
È vero che alcuni (come Helmholtz) hanno ritenuto che ciò che un senso non potesse dare da sé solo,
potrebbe essere fornito per mezzo del gioco concomitante di più sensi (tatto e vista). D'altra parte, tuttavia,
se una sensazione tattile, per esempio, è incapace di darci la spazialità, come potrà riuscirci la semplice
associazione al tatto delle sensazioni visive e cinestesiche, egualmente incapaci, per se stesse, a fornirci lo
spazio?

b) L'esteriorità reciproca del soggetto e dell'oggetto. La Psicologia della Forma ha rilevato la necessità di
ammettere un dinamismo spaziale. Lo spazio, nota Kohler (Some problems of Space perception), non è uno
stimolo, perché è l'insieme dei rapporti degli oggetti tra loro o la struttura delle cose. La percezione dello
spazio è dunque una percezione di rapporti, cioè di strutture e si opera secondo leggi d'organizzazione che
valgono per il neonato come per l'adulto e che giuocano in maniera assolutamente indipendente da ogni
esperienza sensibile e da ogni attività mentale.
È difficile spingere più lontano un nativismo, che vedremo più oltre privo d'ogni significato fuori che di
quello d'un parallelismo psicofisico, tanto poco intelligibile quanto quello empiristico. Ma qui basterà notare,
da una parte, che si dà un incontestabile progresso della percezione dello spazio, d'altra parte e soprattutto,
76 Ciò spiegherebbe che i ciechi nati non percepiscano le distanze subito dopo l'operazione; essi hanno solo
l'impressione che gli oggetti siano a portata della loro mano o addirittura contigui all'occhio.
73
che se lo spazio consiste nell'esteriorità reciproca degli oggetti e nei rapporti da essa interessati, lo spazio
implica, prima di ciò e più fondamentalmente, l'esteriorità reciproca del soggetto e dell'oggetto, che diviene
incomprensibile in questo nativismo radicale.

c) I meccanismi della percezione dello spazio. Nulla permette di contestare le analisi così minuziose
compiute dalla psicologia nativista sui meccanismi per mezzo dei quali si attua questa percezione. Ma a noi
spetta precisare il senso stesso di questi meccanismi. Infatti, non bisogna intendere che la percezione della
distanza o della profondità, per esempio, sia il risultato di una specie di calcolo che proceda dai movimenti di
adattamento e di convergenza. Infatti, noi non abbiamo alcuna coscienza di questi movimenti e, di più, essi
escludono ogni specie d'inferenza (sia pure incosciente), perché essi si identificano con la stessa percezione
della distanza e della profondità. Se c'è addestramento, questo non consiste in un progresso nella valutazione
di un segno rispetto ad un significato, ma solo in un perfezionamento dei meccanismi il cui gioco non si
distingue dalla percezione.

122 - 5. L'INVENZIONE DELLO SPAZIO OGGETTIVO - Dalla precedente discussione si deduce che è
praticamente impossibile stabilire in maniera soddisfacente, sul piano psicologico, che la spazialità risulti
sia dall'attività propria di un senso specializzato, sia dal gioco reciprocamente complementare di più sensi.
Infatti, essa non ne è il risultato, perché è il presupposto dello stesso esercizio di questi vari sensi. La
spazialità è presupposta ad essi, come l'esperienza fondamentale della nostra presenza al mondo, e la
funzione percettiva che le teorie nativiste attribuiscono ai vari sensi è, strettamente parlando, solo un
processo di elaborazione e di esplicitazione. A questo titolo, d'altra parte, esso è reale e correttamente
descritto, ma non urta più contro le difficoltà che abbiamo notato: l'esperienza vissuta dello spazio si esplicita
per mezzo di meccanismi percettivi che i nativisti hanno messo in luce, e costituisce, come tale, quel
dinamismo spazializzante, senza di cui quei meccanismi sarebbero essi stessi completamente inefficaci. In tal
senso, dunque, la spazialità è al tempo stesso rigorosamente primitiva e tuttavia inventata, costruita ed
elaborata da un intero sistema percettivo straordinariamente complesso.

B. IL TEMPO

123 - 1. LA DURATA VISSUTA - Noi abbiamo un'esperienza primitiva della durata, sulla quale si
fondano tutte le nostre nozioni relative alla temporalità. L'essenziale di quest'esperienza consiste nel
sentimento d'una continuità di flusso; cosa che Bergson ha giustamente notata. Ma supponendo che la durata
si riduca ad una «molteplicità di fusione e d'interpenetrazione» degli istanti successivi, si finisce per
sopprimere la realtà del tempo, perché tutto, in quest'ipotesi, non è che presente. Affinché la continuità abbia
un senso temporale, è necessario di integrarvi quella tensione interna per mezzo della quale ogni presente
riafferma la presenza di tutto il passato cui esso si sostituisce e anticipa quella di tutto l'avvenire. Questa
tensione è l'esistenza stessa, cioè come dice Aristotele, contrasto e inseparabilità permanente, in seno alla
durata concreta, delle tre dimensioni del tempo, per cui ciascuna d'esse non fa che esplicitare ciò che è
implicito nelle altre.

Bisogna pure tuttavia che la durata, coi suoi ritmi così differenti, comprendenti serie temporali irriducibili a
una comune misura, sia assunta (salvo rimanere sempre discontinua e dispersa) da una coscienza intemporale
che assicuri, secondo l'espressione di Heidegger (Sein und Zeit, Halle, 1927, p. 373; cfr. tr. it., Essere e
tempo, Milano-Roma, 1953), «la coesione d'una vita». Ritorneremo su questo argomento nello studio del
soggetto psicologico77.

2. LA MISURA DELLA DURATA - La durata vissuta non è esattamente il tempo. Essa lo implica solo in
virtù della sua molteplicità e delle sue dimensioni interne che non cessano di sovrapporsi continuamente. Il
tempo è l'esplicitazione di questa temporalità fondamentale, sotto la forma d'una successione d'istanti, d'una
dialettica continua di prima e di dopo, ma colte in modo che il passaggio o il flusso ne sono il carattere
essenziale. Da questo punto di vista, il tempo oggettivo appare come una specie di schematizzazione della
durata e, per ripetere il termine aristotelico, come un numero o una misura, e, per conseguenza, come un
«atto dello spirito». Ma non conviene considerare quest'atto dello spirito come un'operazione intellettuale:
esso non designa altro che l'atto di cogliere o di sorvolare il flusso stesso.

77 Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, p. 469-495.


74
124 - 3. I RITMI VITALI - Gli psicologi riferiscono spesso la percezione della durata alla coscienza più o
meno precisa dei ritmi vitali.
Si invoca qui comunemente la cenestesia, distinguendo una durata viscerale da una durata sensorio-
motrice. I nostri movimenti vitali, si dice, le impressioni cenestesiche (fame, fatica, sonno) ci forniscono già
esperienze di durata, spesso molto precise, sotto forma di successioni più o meno regolari di stati interni. La
psicopatologia mostra, d'altra parte, che i turbamenti della cenestesia sono causa di molte variazioni nella
valutazione della durata. Vi sono, d'altra parte, movimenti organici che si producono secondo un ritmo:
pulsazione cardiaca, respirazione, battito del polso, marcia cadenzata, canto misurato, ecc. La percezione del
ritmo è una percezione di durata regolare, cioè di successione cadenzata di movimenti (sensazioni tattili e
muscolari). Si osserva, d'altra parte, che gli errori di misura sono facili e talvolta considerevoli, perché la
misura di una durata deve fondarsi sulla misura di un periodo, la quale è per se stessa assai incerta, in
mancanza di punto di paragone simultaneo, e dipende in massima parte dallo stato generale affettivo e
cenestesico, come dalla direzione dell'attenzione. Su ciò le nostre esperienze ci forniscono molte
informazioni. Tutti sanno, infatti, come il desiderio, la distrazione, l'impazienza, l'inattività, la tristezza, la
noia, la sofferenza, ecc., influiscano sulla nostra percezione della durata, come pure la nostra memoria della
durata dipenda dal contenuto affettivo e rappresentativo dei periodi ricordati.

Queste osservazioni sono giuste. Tuttavia ora si comprende che i ritmi vitali risultano dalla temporalità
fondamentale o la materializzano piuttosto che costituirne il fondamento. Essi danno «sensazioni di durata»
proprio perché sono compresi in una durata più profonda, che è il ritmo stesso di un'esistenza in continuo
flusso (II, 45).

C. IL MOVIMENTO

125 - Le analisi precedenti mostrano che le «sensazioni di movimento» sono, in qualche modo, implicate
in tutte le nostre percezioni spaziali e temporali, perché lo spazio è il campo della nostra azione e il tempo è
il ritmo incessante di un passaggio dalla potenza all'atto. Da questo punto di vista, il movimento appare come
il più fondamentale dei «sensibili comuni».

1. IL MOVIMENTO OGGETTIVO - Si è spesso notato che percepire un movimento è ben altra cosa che
percepire un oggetto mobile in riposo in posizioni successive. Si sa che gli argomenti di Zenone di Elea
erano fondati su questa concezione statica (cioè contraddittoria), del movimento (II, 35). Ma è certo, si
aggiunge, che ciò che è obbiettivamente dato ai sensi, sono le posizioni successive continue di un mobile,
che, spostandosi, crea l'unità del suo movimento. La percezione del movimento è esattamente la percezione
di questo mobile in atto.

2. IL MOVIMENTO VISSUTO - In realtà ciò che è obbiettivamente dato ai sensi non consiste in posizioni
successive di un mobile, sommate dalla memoria, ma nella transizione stessa del mobile. Il movimento non
riveste il mobile come 1'abito il corpo: esso è in questo e lo compenetra. La sua unità non è attuata dal di
fuori: essa lo definisce.

Bergson ritiene che «se la coscienza percepisce qualche cosa di diverso dalle posizioni, è perché si ricorda
delle posizioni successive e ne fa la sintesi» (Données immédiates de la conscience, p. 84). Ma come
accettare questa soluzione? Essa esclude il movimento, come la molteplicità di fusione escludeva il tempo.
Una sintesi effettuata per mezzo della memoria non ha nulla in comune col movimento , che è
essenzialmente, come ha ben notato Aristotele, un passaggio, l'atto di un ente in potenza come tale (II, 31).
Non c'è dubbio che Bergson insista sulla continuità delle posizioni successive; ma questo non risolve il
problema, perché proprio la stessa continuità o il passaggio costituiscono problema. Si rischia di far trionfare
Zenone in questa che è, appunto, una discussione impostata male.

Cerchiamo dunque di trovare il terreno sperimentale che ci mostri, nella sua realtà autentica, il movimento.
Tutto il problema consiste nel cercare di conoscere come si compia, psicologicamente, la percezione di
quella transizione che specifica il movimento. È chiaro che non si potrà attribuirla allo spostamento
dell'occhio che segue lo spostamento dell'oggetto, perché ciò equivarrebbe a supporre che noi abbiamo
coscienza del nostro occhio come oggetto e della sua propria situazione nello spazio, cosa che non
corrisponde ad alcuna esperienza. Non che la percezione del movimento non sia legata al movimento del
75
globo oculare; ma questi due fenomeni ne formano uno solo: essi si implicano l'un l'altro come due momenti
simultanei di un'unica struttura.

In realtà, il fatto fondamentale, nella percezione del movimento come transizione, pare sia l'osservazione
di una relazione spaziale mutevole di un oggetto in rapporto allo sfondo che rimane (o pare) fermo. Quando
sono occupato a leggere in una vettura ferroviaria ferma nella stazione, vedrò che quest'ultima si muove
allontanandosi dal momento in cui il treno si mette in moto. Se, al contrario, sono al finestrino e osservo la
stazione e i viaggiatori sulla banchina, percepisco il movimento del treno sul quale mi trovo. Queste
esperienze significano inequivocabilmente che tutto dipende dalla maniera in cui stabiliamo i nostri
rapporti con le cose, per mezzo dell'atto di guardare. Nel campo totale della mia esperienza, il mio sguardo
determina per mezzo della sua direzione uno sfondo fisso e un oggetto mobile: l'uccello vola nell'aria in
quanto il mio sguardo, fissato e circoscritto nella mia camera, risulta per così dire, tratto, sul fondo del cielo,
secondo una traiettoria il cui dinamismo condivide. In ciò non interviene alcun calcolo: il movimento è
vissuto per mezzo di una specie d'identificazione con il mobile, e lo stesso fondo sul quale si spostano i
mobili, è, ordinariamente, più che un oggetto definito, l’ambiente implicito del mondo in cui siamo. Ed è per
effetto di questa nostra localizzazione nel mondo e della nostra familiarità con esso che i movimenti che vi
hanno luogo rivestono per noi l'apparenza di movimento assoluto78.

D. SENSAZIONE E PERCEZIONE

126 - 1. I COMPLESSI SENSIBILI - Lo studio dei «sensibili comuni» ci ha condotti a scoprire esperienze
vissute alla base delle nostre percezioni di spazio, tempo e movimento, ed a spiegare così, per mezzo del loro
dinamismo naturale, il complesso gioco dei sensi nell'elaborazione progressiva dei dati sensoriali. Per mezzo
di ciò si trovano risolti i problemi posti nello stesso tempo dalle teorie genetiche dello spazio e del tempo (II,
20, 25, 41-44), e dalle forme radicali del nativismo, perché ammettendo che dati sensoriali molteplici
concorrano a formare le nostre percezioni spaziali, temporali e cinestesiche, a partire dalle esperienze
fondamentali che le sottendono, noi neghiamo che questi dati possano essere ritenuti elementi movendo dai
quali si potrebbe comporre la percezione.

Quest'ultima concezione fornisce solo una soluzione puramente verbale al problema della percezione dei
sensibili comuni. Le sensazioni che sono al principio della percezione del movimento, dello spazio e del
tempo, sono ben altra cosa, anche se date insieme, che le percezioni. Non si confonderanno, infatti,
sensazioni muscolari, articolari, cutanee, ecc., con quel che noi chiamiamo distanza, profondità, traslazione e
durata. Percepire, palpandolo, un oggetto distante dal corpo, non significa affatto provare una sensazione
nell'articolazione della spalla! Egualmente, percepire per mezzo della vista la direzione di un oggetto è ben
altra cosa che provare nell'organo della vista un insieme di modificazioni muscolari!

127 - 2. ELEMENTI E CONDIZIONI - I dati sensoriali che le teorie nativiste invocano sono dunque, non
elementi, ma condizioni, cosa che è sostanzialmente differente. I «sensibili comuni» non sono composti da
pezzi e da frammenti, forniti da una molteplicità di sensi, e che starebbero insieme non si sa bene come. È
vero nondimeno che la loro percezione ha condizioni sensoriali e che essi esigono un progressivo
perfezionamento. Tuttavia, elaborati, del resto spontaneamente, a partire da esperienze complesse che
garantiscono la loro obbiettività, lo spazio, il tempo, e il movimento sono già tutti interamente nelle
esperienze primitive sulle quasi si fondano: le condizioni sensoriali della loro percezione compongono una
sola unità con questa stessa percezione; questa appunto le mette in opera, senza tuttavia distinguersene, e non
invece quelle la producono.

Le esperienze condotte sui bambini e sui ciechi nati hanno definitivamente convalidato gli argomenti
addotti dai genetisti sulla percezione dello spazio. Se il bambino, a partire dal quarto mese, sembra, per
mezzo delle sue prove maldestre, inaugurare una percezione della profondità guidata dalla vista, sforzandosi
di afferrare gli oggetti a portata di mano, ci si ingannerebbe pensando che tutto è costruito. Si osserva, infatti,
che il gesto del bambino è tentennante solo in prossimità dell'oggetto, il che significa non che egli non abbia
percezione della distanza, ma che il bambino deve apprendere ad accordare i dati visivi con i dati muscolari.
Per quanto riguarda i ciechi nati, se essi parlano, in seguito ad operazione, di oggetti che toccano i loro occhi,
si può osservare innanzi tutto che essere tangente significa anche essere esteriore e che una certa percezione

78 Cfr. M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, p. 309-324.


76
di distanza è implicita in questa sensazione di contatto, ma soprattutto che il linguaggio dei ciechi operati
deve essere interpretato: questo linguaggio è ispirato alle esperienze tattili dei ciechi, così che «toccare
l'occhio» non significa per essi contiguità all'organo (il cieco operato non cerca d'altronde di afferrare
l'oggetto sui suoi occhi), ma presenza sensoriale (analoga alla presenza tattile). Osserviamo tuttavia che
Villey (Le monde des aveugles, p. 172) protesta contro quest'interpretazione metaforica del linguaggio dei
ciechi operati. «Il cieco, egli dice, ignora che cosa sia vedere, ma sa che esiste una differenza essenziale tra il
vedere e il toccare, per esempio che è possibile vedere di lontano, mentre è possibile toccare solo da vicino».

Art. VI - Filosofia della sensazione


128 - Gli elementi sperimentali che abbiamo raccolti devono ora permetterci di elaborare una nozione
filosofica della sensazione, cioè, fondandoci sulle leggi della causalità efficiente, di spiegarla nella sua natura
essenziale e nelle sue cause prime79.

A. L'ATTO CONOSCITIVO

1. LA SENSAZIONE È CONOSCITIVA - Tutto il nostro studio precedente ci ha permesso di affermare


che la sensazione è realmente ed essenzialmente un'attività conoscitiva. Su questo non è possibile alcuna
discussione, dal punto di vista psicologico. La qualità sensibile è data intuitivamente alla coscienza, nella
sensazione, come una realtà sensibile distinta e indipendente dal soggetto, cioè come un oggetto (objectum:
cosa posta davanti al soggetto). La sensazione è dunque proprio l'apprensione di un oggetto, e non
semplicemente la percezione di una modificazione soggettiva del senso organico. È così certo che l'aspetto
soggettivo della sensazione è conosciuto solo per mezzo di un atto di riflessione. Direttamente,
immediatamente, sono dati solo oggetti: il soggetto (ad eccezione che nell'attività sensibile dolorosa o in
alcuni casi patologici) ignora se stesso nell'esercizio della sua propria attività. Perciò è chiaro quanto di
artificioso sussista nei problemi posti dall'empirismo e dall'idealismo che, supponendo che la sola cosa
conosciuta per mezzo della sensazione sia la modificazione soggettiva dell'organo sensibile (o del centro
corticale), si domandano come da questo fenomeno puramente soggettivo e interno, il soggetto possa passare
all'affermazione di dati esterni. Vedremo che impostando sotto questa forma il problema della conoscenza
sensibile (e della conoscenza in generale), ci si fonda su una falsa nozione dell'immanenza della conoscenza
e si riduce a torto ad una specie di inferenza l'atto d'apprendere un oggetto 80.

129 - 2. LA NOZIONE DI CONOSCENZA

a) L'immanenza della conoscenza. La conoscenza è evidentemente un'operazione vitale immanente, cioè


che ha il suo termine o effetto in chi ne è il soggetto (II, 32). Quale che sia il modo in cui si produce,
quest'operazione ha per risultato di rendere presente un oggetto al soggetto conoscente. Non consiste dunque
nel produrre qualche cosa all'esterno: l'oggetto conosciuto non è in alcun modo modificato dalla conoscenza
che se ne ha e non è possibile scoprire alcuna traccia dell'attività conoscitiva fuori del soggetto. Tutto
avviene e si compie in questo, attraverso l'attuazione di una presenza intenzionale, che fa passare all'atto la
facoltà conoscitiva (senso o intelligenza).
Ma come può l'oggetto esistere nel conoscente? Può trovarvicisi secondo la sua realtà fisica, in modo che
la presenza fisica dell'oggetto sia nello stesso tempo una presenza appresa in atto: così avviene delle mie
idee, che io conosco come tali per mezzo di riflessione sul contenuto del mio pensiero. Se si tratta di oggetti
esteriori, questi non possono evidentemente trovarsi nel conoscente nella loro presenza fisica, ma unicamente
in un'immagine o similitudine di se stessi. È quest'immagine (definita anche similitudine intenzionale o
determinante conoscitivo) che la scolastica chiamava una specie (species) o mezzo della conoscenza: ciò per
mezzo del quale (id quo) l'oggetto esteriore diviene presente al soggetto.

I termini immagine, similitudine, specie, rendono l'idea di somiglianza. L'oggetto è nel soggetto mediante
qualche cosa che gli somiglia. Il termine «intenzionale» (nell'espressione «similitudine intenzionale») serve a
significare che l'immagine o specie presente nel senso non è ciò a cui si ferma la conoscenza, ma al contrario
ciò che porta all'oggetto stesso (in-tendere, tendere verso). L'espressione «determinante conoscitivo»,

79 Cfr. Y. Simon, L'Ontologie du connaitre, Parigi, 1934.


80 Cfr. J.-P. Sartre, L’Etre et le Néant, Parigi, 1943, p. 372-378, che critica fermamente questa concezione della
sensazione.
77
adoperata dal cardinale Mercier, definisce soprattutto la funzione esercitata dalla specie di determinare il
senso a conoscere. Infine J. Maritain usa per designare la specie di cui parliamo il termine di impressione
rappresentativa, per mezzo del quale risulta definito il suo duplice aspetto di essere prodotto da un oggetto e
di rendere presente quest'oggetto al soggetto conoscente.

130 - b) NATURA DELLA SPECIE IMPRESSA - Dobbiamo ora spingere più avanti l'analisi. La specie di
cui argomentiamo è, qui, ancora solo un'impressione rappresentativa. È l'oggetto presente al senso, grazie ai
processi fisici e fisiologici che abbiamo studiato. È chiaro che non sarebbe assolutamente possibile alcuna
conoscenza senza questa impressione della somiglianza dell'oggetto nel soggetto conoscente, poiché (salvo i
casi in cui soggetto e oggetto coincidano perfettamente) l'oggetto non può divenire presente al soggetto
conoscente altrimenti. Donde l'espressione di specie impressa (species impressa) usata dalla scolastica.
D'altra parte, è un fatto psicologicamente certo e già notato che l'atto conoscitivo non si volge
originariamente a questa determinazione subbiettiva o impressione rappresentativa, ma all'oggetto stesso o
cosa conosciuta.

Questa specie impressa può essere considerata sia, come «subiectum» e in se stessa, nella sua natura
ontologica, sia funzionalmente, in quanto al suo termine. In se stessa (o entitativamente), essa è un accidente
che sopravviene alla facoltà o potenza conoscitiva e che l'attua o la rende conoscente in atto.
Funzionalmente, la specie impressa è essenzialmente intenzionale, cioè fatta per orientare verso un oggetto o
per rappresentare un oggetto.

c) L'immaterialità, condizione della conoscenza. Ciò che abbiamo detto, mostrandoci che, per il
conoscente, la conoscenza consiste essenzialmente nel divenire intenzionalmente il conosciuto (gli scolastici
dicevano: cognoscere est fieri aliud in quantum aliud) ci porta a comprendere per ciò stesso che ogni
conoscenza implica un certo grado d'immaterialità, tanto dalla parte dell'oggetto, che non entra fisicamente
nel soggetto conoscente, che da parte del soggetto, il quale può divenire intenzionalmente «l'altro» solo nella
misura in cui è «aperto» alle forme estranee, apertura che è l'effetto principale dell'immaterialità. Per
conseguenza, la perfezione della conoscenza sarà tanto più grande quanto più immateriale sarà il conoscente.
Donde consegue che l'intelligenza ha nel tempo stesso un'ampiezza e una penetrazione maggiore del senso.

B. LA SENSAZIONE COME CONOSCENZA

131 - Dopo questo studio generale della conoscenza, dobbiamo ritornare sulla sensazione, per definirla in
quanto attività conoscitiva.
In realtà, tutte le definizioni della conoscenza che fanno appello alla similitudine intenzionale sono relative
al conoscere umano.
Dall'altra parte, il «fieri aliud in quantum aliud», dice piuttosto riferimento al mezzo della conoscenza,
poiché essa, supponendo nell'uomo un fieri (ossia un divenire l'altro in quanto tale) propriamente costituisce
un modo d'essere e non un divenire.
Ne segue che, se si vuol ottenere una definizione analogica dell'essenza del conoscere come tale, occorrerà
dire che conoscere è un modo d'essere attuante l'unità ontologica del soggetto e dell'oggetto, secondo gradi
variabili in funzione dell'immaterialità e della semplicità del conoscente, e per effetto della presenza
dell'oggetto al soggetto.
Quindi la conoscenza sarà tanto più perfetta quanto più perfetta sarà l'unità stessa del soggetto e
dell'oggetto. (In Dio, v'è identità assoluta) (cfr. S. Tommaso, 1.a, q. XIV, a. 4, in c.).

1. L'IMPRESSIONE RAPPRESENTATIVA È NECESSARIA E SUFFICIENTE - È universalmente


riconosciuto, come abbiamo visto, che la specie impressa è necessaria. Non sarebbe assolutamente possibile
nessuna conoscenza, se il senso non prendesse in qualche modo possesso del suo oggetto. Non bisogna però
confondere questa species impressa con la modificazione fisiologica dell'organo, per esempio con
l'immagine formata sulla rètina o l'influsso nervoso. La sensazione è un fenomeno psicologico e immateriale:
l'immagine nella quale essa si compie, come processo immanente, e la reazione per mezzo della quale il
senso, determinato a conoscere dalle impressioni fisiologiche, prende vitalmente e intenzionalmente possesso
dell'oggetto sensibile.

Per evitare ogni equivoco, è opportuno sottolineare che si tratta, qui, dell'aspetto rappresentativo della
sensazione e non del suo aspetto entitativo, che non costituisce la sensazione come tale, ma ne è solo la
78
condizione. La specie sensibile, in quanto rappresentativa, osserva Aristotele, è immateriale, in quanto la
forma dell'oggetto è colta senza la sua materia o la sua entità (la specie che rappresenta una casa non è una
casa; quella che rappresenta un colore non è colorata); ma sotto il suo aspetto entitativo, la specie sensibile è
un accidente dotato di dimensioni e non una realtà immateriale.

Il senso, modificato per opera di un oggetto fisicamente presente, coglie l'oggetto stesso nell'immagine che
ne possiede. Donde la formula della psicologia aristotelica (De Anima, III, c. 2): il sensibile in atto e il senso
in atto sono una sola e stessa cosa (sensibile in actu et sensus in actu sunt idem): l'oggetto in quanto
sensibile, non è altro che quest'immagine o specie per mezzo della quale il senso è determinato a conoscere.
È anche per questo che, qui, non si richiede alcuna specie espressa: il senso, per mezzo dell'impressione
rappresentativa, possiede già in se stesso la forma dell'oggetto sensibile. A che cosa servirebbe una nuova
specie?

132 - 2. L'INTUIZIONE SENSIBILE

a) La conoscenza immediata e concreta. È ora comprensibile il carattere distintivo della sensazione, che è
di essere una conoscenza immediata e intuitiva, che esclude ogni specie d'inferenza e di discorso e che coglie
l'oggetto nella sua realtà concreta e singolare, tale quale essa è ricevuta negli organi.
La difficoltà (d'ispirazione cartesiana), che talvolta si oppone a questa teoria, e che consiste nel sostenere
che bisogna ammettere, tra l'oggetto e il senso, l'esistenza di intermediari, per esempio degli organi (o più
esattamente, dei fenomeni fisiologici), questa difficoltà, la quale deriva dal meccanicismo (II, 121-123), è
senza fondamento: gli organi, infatti, ed i fenomeni fisiologici che vi si producono, non sono affatto mezzi
meccanici, distinti dal senso; essi s'identificano col senso stesso nel suo aspetto corporale. Non c'è dunque
alcun intermediario. La sensazione è una conoscenza immediata e diretta.
b) Il realismo sensibile. Da ciò che precede, si rileva che, almeno di diritto, il senso è infallibile in quanto
al suo proprio oggetto. Poiché il senso conosce senza intermediario, immediatamente e direttamente,
l'oggetto sensibile nella sua realtà fisica, non sembra possibile errore alcuno. Ma di contro, dovremo
esaminare più oltre la questione degli «errori dei sensi». Si vedrà che questi errori, quando sono reali, sono
sempre accidentali.

Si può ben dire che, dal punto di vista psicologico, il realismo sensibile, cioè il fatto che i sensi ci mettono
in possesso del mondo oggettivo. È una certezza sperimentale. Giustamente inteso, questo realismo non ha
nulla in comune con quello che si chiama col nome di realismo ingenuo (o «cosismo»), che risponde alla
tendenza ad obbiettivare immediatamente, senza alcuna discriminazione d'origine o di forma, tutto ciò che è
dato alla conoscenza. Invece, la nostra affermazione di realismo poggia su un'analisi minuziosa delle
condizioni e della natura della conoscenza sensibile e si sforza di discernere esattamente le rispettive
funzioni dell'oggetto e del soggetto, sottolineando fortemente che le cose sono percepite solo nella misura e
nella maniera in cui esse agiscono sui sensi. Si è perciò il più lontani possibile dal realismo ingenuo.
79

CAPITOLO SECONDO

LA PERCEZIONE

SOMMARIO81

Art. I - PROBLEMATICA DELLA PERCEZIONE. Uno pseudo-problema - I postulati genetisti - Il primato


del tutto - Il processo percettivo - Il punto di vista funzionale.

Art. II - LE LEGGI DELLA PERCEZIONE. Senso generale delle leggi della percezione - Le leggi - Legge
di massima economia - Legge del carattere definito della percezione - Legge di costanza relativa -
Legge dell'unificazione funzionale - Conclusioni.

Art. III - ESTERIORITÀ E LOCALIZZAZIONE DEGLI OGGETTI. Il passaggio dall'oggettivo al


soggettivo - Le teorie genetistiche - L'inferenza - L'allucinazione vera - Teoria monista di Bergson -
L'esteriorità naturale.

Art. IV - LE FORME DELLA PERCEZIONE. Gli errori dei sensi - La tesi scettica - L'infallibilità del senso -
Il punto di vista sperimentale - I fatti - Interpretazione dei fatti - Le illusioni dei sensi - Illusioni
normali - Interpretazione - Illusioni anormali - Le allucinazioni - I fenomeni di allucinazione Natura
dell'allucinazione - Le teorie - Allucinazione e percezione - Le paramnesie - I fatti di falso
riconoscimento L'illusione del già vissuto - Teoria dell'immagine allucinatoria - Teoria patologica -
Teoria della non attenzione alla vita.

133 - Già molte volte, particolarmente nello studio dei sensibili comuni, abbiamo dovuto distinguere
sensazione da percezione. Siamo stati d'altronde, portati ad osservare, ancora più generalmente (97), che noi
non abbiamo, per così dire, sensazioni pure. Ciò che normalmente percepiamo, sono oggetti, nettamente
distinti gli uni dagli altri in seno al continuum sensibile, aventi un'unità che non è una somma, un
conglomerato o un mosaico di qualità sensibili, ma un sistema, e dati infine come esteriori al soggetto
conoscente. Poiché queste tre proprietà (proprietà d'essere oggetti - esteriori al soggetto - localizzati nello
spazio) pareva non appartenessero originalmente alle sensazioni, gli psicologi sono stati indotti a chiedersi
come esse si venissero ad aggiungere alle sensazioni. Questo è il problema della percezione nella sua forma
classica. Questo problema dobbiamo ora esaminare; è opportuno che cerchiamo innanzitutto di precisarne il
senso e il valore.

Art. I - Problematica della percezione


§ l - Uno pseudo-problema

A. IL PUNTO DI VISTA GENETISTICO

134 - 1. LA NOZIONE DEL «TUTTO» o TOTALITÀ NATURALE - Dal punto di vista fenomenologico è
un fatto certo che i sistemi e le totalità (oggetti) ci sono dati immediatamente e che solo l'analisi ci permette,
dissociandoli, di isolare gli elementi dei quali si compongono, o, più esattamente, le condizioni dalle quali
dipendono. L'oggetto non è «costruito»; noi non lo architettiamo, partendo dalle sensazioni elementari
isolate, con immagini distinte e idee innate o acquisite, entità invarianti inerti che sarebbero unite tra loro dal
81 Cfr. Aritotele, De anima, III, c. III; De Somno et somniis, c. II; De sensu et sensato, c. III; De Coelo, III , c. VIII - S.
Tommaso, In De anima, II, lect. 5 e 15; De Coelo, III, lect. 12; De Sensu et Sensato, lect, 6 e 7 - Bergson, Matière et
Mémoire, cap. I - Dehove, La perception extérieure, Lilla, 1931 - A. Gemelli, Introduzione alla Psicologia, Milano,
1954, pp. 137-175 J. De Tonquédec, La Critique de la connaissance, Parigi, 1929 - J. De La Vaissière, Elém. de Ps. ex.,
pp. 151-175 - Dumas, Nouveau Traité de psych., t. V, pp. 1-82 (Bourdon) - P. Guillaume, La psychologie de la forme,
Parigi, 1937, p. 47-114 - Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Parigi, 1945 - J. Paliard, Pensée implicite et
perception visuelle, Parigi, 1949; J. Paliard, La Pensée et la Vie, Parigi, 1951.
80
di fuori82. La concezione associazionistica e atomistica pare d'altronde opporsi a tutto ciò che noi conosciamo
della natura, in cui osserviamo che mai le parti preesistono al tutto. Lo stesso deve avvenire nell'attività
vitale. L'organismo, cioè il sistema e il tutto, è primo. Si potrebbe anzi dire che, funzionalmente, è esso
appunto il più semplice, perché risponde, come tale, a un'idea o forma unica (II, 87), mentre le parti,
considerate isolatamente, implicano una molteplicità essenziale.

2. I POSTULATI GENETISTICI - Tutta la psicologia genetistica è orientata esattamente in senso contrario


a queste osservazioni, come è chiaramente dimostrato dai due postulati dai quali essa procede.

a) Postulato della composizione. Partendo dall'idea, indiscutibile, che la percezione attuale risulta
parzialmente condizionata dalle esperienze anteriori, la psicologia genetistica (Fechner, Helmholtz, Wundt)
ha attribuito alla percezione, cioè, in questo caso al giuoco delle influenze anteriori (associazioni, ricordi,
riflessi acquisiti, abitudini, forme concettualizzate, ecc.) persino la distinzione degli oggetti (problema della
costruzione) e le forme e le organizzazioni spaziali e definite alle quali sono interessati. Sennonché, questi
non sono che postulati.

Questi postulati si fondano su osservazioni del seguente tipo. La grandezza apparente di un oggetto sembra
che non subisca alcun mutamento quando la distanza che la separa dall'osservatore varia solo entro un certo
limite (per esempio 50 m.). Poiché le sensazioni visive (immagini retiniche) devono segnare realmente le
differenze nella grandezza apparente e tuttavia la percezione dell'oggetto resta immutata, se ne conclude che
ciò avviene perché, come sappiamo, la grandezza reale non muta mai. Bisognerebbe dunque distinguere due
realtà, la realtà soggettiva, che è l’oggetto percepito, e la realtà oggettiva, che è l'oggetto sentito. Lo studio
della percezione mostra che c'è spesso una grande differenza tra la realtà fisica e la realtà psichica, differenza
che si spiega con tutti quegli elementi non sensoriali che il soggetto aggiunge al dato sensoriale immediato e
oggettivo, cioè alla sensazione. L'oggetto, insomma, risulta da una fusione o da una sintesi 83.

b) Postulato della costanza. Questo postulato, che risulta immediatamente dalle osservazioni precedenti, si
esprime in questi termini: ad ogni sensazione corrisponde sempre la stessa eccitazione; inversamente, ad
uno stesso stimolo, corrisponderà regolarmente una stessa sensazione, almeno quando questa eccitazione
interessa uno stesso elemento nervoso84.
Questi due postulati conducono ugualmente ad ammettere che sono attuate tutte le condizioni per poter
condurre lo studio psicologico secondo i metodi delle scienze fisico-chimiche, poiché siamo in grado di
ricomporre i fatti psicologici sin dai loro elementi semplici.

B. IL PRIMATO DEL TUTTO

135 - I teorici Gestalt (o della Forma) sono riusciti a dimostrare, con numerosissime e svariatissime
esperienze, che il problema della percezione, come lo concepivano gli psicologi associazionisti, era in realtà
uno pseudo-problema. Tale problema si basa, infatti, sulla supposizione che l'immagine retinica (o, in
generale, lo stimolo sensoriale) sia la condizione unica e totale della sensazione e che questa sia in rapporto
semplice con quella. Ma qui sta appunto tutto il problema e la soluzione «percezionistica» riesce qui soltanto
una petizione di principio.

Ne derivano i problemi artificiali (e insolubili, perché privi di reale fondamento), come quello della visione
diretta (come è possibile percepire oggetti a diverse distanze dall'occhio, dato che queste distanze, calcolate

82 Cfr. De l'intelligence, t. I, p. 9, di Taine, la formula tipica di questo atomismo: «Nell'io non v'è nulla di reale salvo la
serie dei suoi avvenimenti. Questi avvenimenti, diversi nei loro aspetti, sono gli stessi in natura e si riducono tutti alla
sensazione; la sensazione stessa, considerata dal di fuori e per il mezzo indiretto che si chiama percezione esteriore, si
riduce ad un gruppo di movimenti molecolari».
83 Cfr. Fr. Paulhan, Les lois de l'activité mentale et les éléments de l'esprit, Parigi, 1889: «Nel campo della sensazione
e della percezione, l'associazione sistematica si manifesta in duplice maniera. Vediamo innanzi tutto che la legge
riunisce gli elementi di ogni sensazione, di ogni percezione acquisita. Una sensazione è essenzialmente la sintesi
sistematica dei fenomeni inconsci, una percezione è una sintesi di sensazioni e d'immagini».
84 Questo postulato è espresso in modo chiarissimo da Hobbes (De Corpore, in Elements of Law Natural and Politic,
Londra, 1889, c. XXV, § 2): «Sensio est ab organi sensorii conatu ad extra, qui generatur a conatu ab objecto versus
interna, eoque alinquandiu manente per reactionem factum phantasma». Abbiamo qui una curiosa anticipazione della
legge meccanica dell'eguaglianza d'azione e reazione.
81
lungo il raggio visuale, non comportano diversità di posizione sulla rètina?). In realtà, come osserva
giustamente il Piéron (Psichologie expérimentale, p. 131, n. 1) «l'immagine retinica non è che un elemento
nel complesso percettivo, che si esprime in attitudini e reazioni motrici».

136 - 1. LA PRIMITIVITÀ DELLE STRUTTURE E DELLE FORME

a) La «qualità formale». È stato Ehrenfels ad attirare per primo l'attenzione sul fatto che la forma sembra
esistere indipendentemente dagli elementi componenti il tutto oggettivo 85. Ci sarebbe così una «qualità di
forma» distinta da tutte le altre qualità sensibili costituita, per esempio, in un oggetto, dalla sua figura, in un
atto, dalla sua struttura, in una melodia, dal ritmo o dalla tonalità, in una serie, dall'ordine e dal posto degli
elementi, o dalla loro funzione, oppure dal valore d'una cosa, dal senso d'una frase, ecc. Questa qualità
formale sembra dunque, secondo Ehrenfels, costituire un fatto di coscienza originale, non riducibile agli
elementi né alla loro totalità, l'analisi della quale potrebbe permettere di enunciare leggi distinte da quelle
degli elementi.

b) La Scuola della Forma. Possiamo qui trascurare la Scuola di Gratz (Meinong), la quale, partendo
sempre dalla sensazione, considera la «qualità della forma» come l'effetto d'una sintesi trasponibile (nello
stesso senso d'una melodia) effettuata dall'intelligenza. Va principalmente alla Scuola della Forma
(Wertheimer, Kohler, Koffka) il merito di aver stabilito sperimentalmente che l'oggetto non risulta da una
fusione di elementi inorganici.
Le tesi essenziali della psicologia della forma sono le seguenti. Tra la percezione, come processo psichico,
e le condizioni esterne dell'oggetto da percepire, non c'è intermediario. Gli stimoli sensoriali non sono
intermediari propriamente detti, anzitutto perché non sono la condizione totale della percezione, poi perché
non sono mai termini dell'attività percettiva.

Da numerose esperienze risulta, secondo i teorici della forma, che le forme e le strutture (e quindi le unità
distinte o oggetti individualizzati) sono primitive e immediate. Non c'è «costruzione d'oggetto» a partire da
percezioni elementari inorganiche, perché, di fatto, le sensazioni sono sempre integrate in forme o strutture.
Anzi, è talmente necessario che noi percepiamo così sotto le specie d'una forma o d'una struttura, che
trasformiamo spontaneamente in sintesi o in complessi organici, per via di segregazione e d'integrazione, le
unità discrete date nell'esperienza sensibile: così, per esempio, gli uomini hanno sempre percepito nel cielo
delle costellazioni (cfr. P. Guillaume, La psychologie de la Forme, p. 48-50). Si può dimostrare nello stesso
senso che le forme e le qualità sensibili non possono essere distinte in maniera assoluta. Esse rispondono ad
aspetti distinti del reale, ma effettivamente sono sempre date insieme e si influenzano scambievolmente.
(Esperienze relative ai rapporti delle figure e dello sfondo sul quale s'inscrivono e dimostranti che i sistemi
percettivi sono regolati a tutti i livelli da un «campo» i cui elementi sono interdipendenti per il fatto stesso
che sono percepiti insieme. Cfr. K. Koffka, Principles of Gestalt Psychology, Londra, 1936).

Di conseguenza, non è il caso di distinguere tra la realtà dell'oggetto percepito e l'apparenza :


psicologicamente, non c'è che un oggetto, quello percepito, tale quale è percepito. L'ipotesi di parti o
elementi oggettivi (sensazioni o sensata) anteriori alla percezione è arbitraria e ingiustificata.
Ne consegue che ogni studio della percezione deve essere fatto da un punto di vista fenomenologico, vale a
dire che non dobbiamo cercare ciò che si ritiene corrispondere all'esterno ad una data percezione, ma soltanto
descrivere il più compiutamente e «ingenuamente» possibile l'esperienza immediata, al fine di scoprire la
legge che riallaccia la percezione alle sue condizioni.
Gli psicologi della forma, per spiegare la primitività e la necessità della forma, aggiungono che questa
dipende dall'organizzazione fisiologica, la quale risulterebbe adeguatamente dalle forme o strutture fisiche.
Ma lasciando da parte queste speculazioni discutibili (che riconducono all'epifenomenismo) (13), resta
all'attivo dei teorici della Gestalt l'avere aspramente criticato la teoria del mosaico, secondo la quale non c'è
connessione di elementi che per contatto, e l'avere chiaramente messo in evidenza il fatto che sono
propriamente delle strutture e delle forme, cioè degli oggetti, che ci sono dati in modo assolutamente
originario, che ogni dato sensibile comporta una struttura o risulta inserito, per i bisogni normali della
percezione, in una struttura.

85 Cfr. Ehrenfels, Ueber Gestaltqualitaten, in «Vierteljahrschrift f. wiss. Philos.», t. XIV, 1890 - Cfr. B. Bourdon, La
perception (Nouveau Traité de Psychologie, di Dumas, t. V, p. 9).
82
In realtà, la teoria della Gestalt è estremamente ambigua. Ora sembra che la dottrina voglia spiegare il
dinamismo della percezione con la biologia e la fisica, ora che voglia render conto delle forme con una
specie di schematizzazione, che riporterebbe ai temi intellettualistici. A quest'ultimo tipo di spiegazione
ricorre specialmente Kohler nella sua opera Intelligenzprufungen an Anthropoiden. La teoria della forma ha
ben sottolineato il fatto del giuoco delle strutture unitarie. Ma il ridurre le strutture mentali e le strutture
fisiologiche a processi strutturali del sistema nervoso e questi a forme fisiche, è soltanto una cattiva filosofia,
che ci riconduce al realismo delle «cose» più caratterizzato e meno intelligibile. Tale riduzione porta infatti,
da una parte, a fare della coscienza un semplice duplicato del mondo delle cose, semplice cosa anch'essa,
equivalente, secondo Koffka (Principles of Gestalt Psychology, p. 65) «a quel che succede nel cervello», e
dall'altra, ad affermare che vita e spirito sono soltanto nomi diversi per indicare certe forme fisiche più
complesse. Sotto questo aspetto, la Psicologia della Forma può dunque definirsi un materialismo
epifenomenistico86.

§ 2 - Il processo percettivo

137 - Le esperienze fatte dai teorici della forma hanno soprattutto contribuito a far cadere definitivamente
le concezioni associazionistiche e genetistiche. Quanto all'aspetto positivo della psicologia della forma,
sembra che, su parecchi punti importanti - senza parlare dell'orientamento propriamente filosofico della
Scuola, tra i più contestabili - le opinioni ch'essa propone esigano di essere precisate e talvolta corrette.

A. L'ASPETTO FUNZIONALE

1. STRUTTURA E FUNZIONE - Abbiamo già insistito (41) sulla importanza capitale dell'aspetto
funzionale in psicologia e abbiamo notato che tale aspetto, che è quello della finalità, coincide con quello che
attribuisce al tutto la preponderanza sugli elementi. Effettivamente, l'unità del tutto naturale non è un'unità
meccanica, risultante da un semplice insieme quantitativo e spaziale di elementi omogenei e indipendenti,
ma una unità funzionale, cioè tale che preesista in un certo senso agli elementi stessi e imponga loro la
propria legge.
Nel campo della percezione, l'applicazione immediata di queste vedute consisterà nel dire che i contenuti
della coscienza (o elementi psichici sensoriali) possono e devono essere considerati unicamente in rapporto
alle funzioni che ne determinano, ne unificano e ne dirigono le manifestazioni.

138 - 2. I DUE ASPETTI DELLA PERCEZIONE.

a) Dato sensoriale e significato. Partendo dai fatti concreti di percezione, si riscontra che percepire è
sempre cogliere intuitivamente un tutto organizzato, in maniera che l'organizzazione sia data all'intuizione
contemporaneamente ai suoi materiali sensoriali. Se dunque si possono distinguere due aspetti in ogni
percezione, cioè l'aspetto sensoriale e l'aspetto formale (dato sensoriale - rivestito d'un significato), è di
capitale importanza osservare che il significato non è una cosa sovraggiunta arbitrariamente al dato
sensoriale, ma che esso vi è contenuto a titolo essenziale e che perciò la «presa di coscienza» (o atto del
cogliere attivamente il senso d'un dato sensoriale) è realmente costituito dall'atto percettivo 87.

86 Le «leggi d'organizzazione» che regolano i rapporti interni d'un campo sono concepite dai gestaltisti sul modello
fisico, come riducentisi alle leggi d'equilibrio che determinano la formazione delle strutture fisiche. Sotto questo
aspetto, il campo percettivo è dello stesso tipo di un campo di forze e dipende dalle stesse leggi (principio della minima
azione, ecc.). Di qui la «legge di pregnanza» o «legge della buona forma»: la forma che s'impone è sempre la meglio
equilibrata. Ne consegue inoltre che ogni forma può essere «trasposta», in ragione dell'indipendenza del tutto in
rapporto alle parti, - e che le «leggi d'organizzazione» sono valide a tutti i gradi psichici, cioè che le strutture sono le
medesime nel fanciullo e nell'adulto. - È chiaro che l'errore della filosofia della Forma sta nell'aver concepito un unico
tipo di struttura, identificato anch'esso alle strutture fisiche. In realtà, come abbiamo fatto notare in Cosmologia (II,
112), esistono due tipi essenzialmente diversi di strutture: quelle determinate dal di fuori per mezzo delle forze che
riuniscono e ordinano gli elementi (caso della bolla di sapone), - e quelle prodotte dal di dentro: per effetto di un
dinamismo strutturante interno, e che costituiscono sistemi autosussistenti, ai quali converrebbe riservare il nome di
forme.
87 Questo punto è stato messo in evidenza da A. Michotie nella sua Relazione sulla percezione delle forme. Cfr. VIII
Congresso Internazionale di Psicologia, Proceedings and papers, Noordhoff, Groninga, 1927, p. 169 sgg.: «Non bisogna
considerare la «presa di significato» come una semplice aggiunta alla forma, cioè come una sovrapposizione, come
l'apparizione d'un qualche cosa che venga ad aggiungersi alla forma. La cosa percepita e riconosciuta dello stadio di
83
b) Le fasi del processo percettivo. La distinzione dei due aspetti e la funzione del significato sono stabiliti
da molteplici esperienze che non possiamo qui descrivere minutamente 88.

Esse portano a distinguere schematicamente tre fasi nel processo percettivo totale, e cioè: una fase di
presenza (percezione intuitiva di «qualche cosa») - una fase d'apparizione della forma (a partire dal
«qualche cosa» della fase precedente, una forma si abbozza, attraverso tentennamenti destinati ad integrare le
parti in un tutto conosciuto89, - oppure s'impone di primo acchito: questa fase comporta l'intervento di dati
mnemonici, di rappresentazioni diverse, ecc.) -, e infine una fase di presa di significato, che è la percezione
propriamente detta: il soggetto comprende e nomina l'oggetto. E’ evidentemente questo significato,
anticipato o presente, che comanda tutto il processo percettivo, il che equivale a dire che normalmente le
parti non sono colte per se stesse, ma in funzione del tutto nel quale possono o devono integrarsi.

139 - 3. LE IMMAGINI - Le medesime esperienze hanno permesso di distinguere due categorie


d'immagini o di rappresentazioni e di definirne le rispettive funzioni.

a) Immagini costitutive e immagini addizionali. Le immagini costitutive sono quelle adoperate per
identificare l'oggetto (vale a dire per trovare il significato del «qualche cosa» della fase di presenza): si
offrono immediatamente dopo la fase di presenza e possono essere generiche, cioè rappresentare una specie
di oggetto (utensile, colore, numero, disegno, ecc.), - oppure individuali, cioè rappresentare un oggetto
determinato (colore celeste, un coltello, il numero dieci, il disegno d'una tavola, ecc.).
Le immagini addizionali non costituiscono l'oggetto, ma vengono ad aggiungersi all'oggetto percepito (o in
atto d'essere percepito), per associazione affettiva o rappresentativa. Infatti, ogni percezione d'oggetto porta
con sé l'evocazione più o meno cosciente d'una folla d'immagini associate accidentalmente all'oggetto dalle
esperienze anteriori.

140 - b) Immagini e campo sensoriale. È importante comprendere la natura di questo «dato sensoriale»
come sistema d'immagini o schema d'immagini. Non diciamo soltanto che non c'è dato sensoriale puro, che
possa essere concepito, magari per astrazione, all'infuori d'un significato, ma anche che questo dato
coimplica il campo nel quale esso appare; che, di conseguenza, ne è funzione e che il campo sensoriale
agisce come un tutto e non parte per parte. Il significato è determinato, non già, come si pensava, da
stimolazioni fisiche determinate venute da un oggetto isolato, ma dall'insieme del campo sensoriale.
Sotto questo aspetto, la percezione non suppone, propriamente parlando, né deformazione, né correzione
dei dati sensoriali: essa è un'esperienza, una maniera d'essere-nel-mondo. Ogni percezione, implicando un
campo che si integra a sua volta in un campo più vasto, si fa sempre su uno sfondo di mondo. L'esperienza
del mondo è la forma di tutte le nostre percezioni.

c) Memoria e percezione. Ne consegue che è impossibile attribuire alla memoria l'organizzazione della
percezione («Percepire è ricordarsi», dicevano gli associazionisti e i genetisti), o, almeno, che la memoria
deve essere intesa qui in un senso del tutto diverso da quello che le si attribuiva. L'opinione genetistica,
infatti, è tanto meno sostenibile in quanto la memoria non potrebbe fornire un'organizzazione che dopo
averla acquisita. Ma in che modo la prima percezione (struttura o oggetto individuale) sarebbe potuta nascere
da un complesso di sensazioni inorganiche? Non v'è risposta ad una simile domanda, allo stesso modo che
non si può sapere come l'estensione sia potuta nascere da sensazioni inestese (II, 8).
Si obiettano qui gli esempi tipici dell'«illusione del correttore» (restituzione d'un testo conosciuto, ma
lacunoso sul foglio che si ha sotto gli occhi), o del riconoscimento degli oggetti familiari, nonostante tutti i
cambiamenti delle loro qualità apparenti. Ma è necessario che prima di ogni intervento della memoria,
l'oggetto percepito si organizzi in modo che io possa riconoscervi le mie esperienze anteriori. Il ricorso alla
memoria presuppone dunque la comprensione preliminare del senso stesso della percezione, cioè che l'atto
della memoria si spieghi con la percezione e non inversamente. La memoria interviene dunque nella

«presenza» diventa essa stessa più precisa, risulta determinata coscientemente in una maniera molto più completa,
diventa personale, prende dei punti di collegamento, appartiene a un campo più o meno vasto. Pur restando identica a se
stessa, l'organizzazione intuitiva diventa dunque parte integrante di un complesso molto più comprensivo».
88 Cfr. G. Cossetti, La funzione del significato della percezione degli oggetti, «Archivio italiano di Psicologia», XV,
1937, p. 159 sgg. - A. Gemelli, Contributi allo studio della percezione, ibidem, p. 385 sgg.
89 I protocolli d'introspezione stabiliscono che la percezione del tutto avviene globalmente o per integrazione delle
parti.
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percezione, ma il suo compito è soltanto quello di precisare dei significati insufficienti o ambigui, oppure di
orchestrare una percezione di un insieme affettivo e rappresentativo più o meno ricco.
In compenso, si dovrà attribuire alla memoria un compito molto più vasto, se per «memoria» s'intenderà
non quella particolare funzione che va sotto questo nome, ma l'influenza d'un campo percettivo o di un
orizzonte, che è la presenza stessa del passato e l'atmosfera in cui l'uomo si collega col mondo della sua
esperienza. Esistono, infatti, rapporti stretti tra la natura di un essere e il mondo ch'egli percepisce e le
influenze che subisce. Ogni specie (ed anche ogni individuo) ha un mondo (Umwelt) suo proprio ed è
predisposto ad una certa percezione così come ad una certa alimentazione. Ciò vuoI dire che è necessario
sostituire una concezione biologica della percezione alla concezione empirista, che si basa sull'ipotesi d'un
mondo esteriore «standard».

Questo aspetto biologico d'altronde deve a sua volta essere allargato o completato, per l'uomo, da quello
che si potrebbe chiamare il senso spirituale della percezione. Il mondo dell'uomo non è soltanto un mondo di
valori vitali, ma altresì un mondo di valori spirituali. Già nell'animale bisogna ammettere che la percezione
non solo attualizzi il capitale della specie, ma condizioni un adattamento alla congiuntura presente, che è un
genere d'invenzione (268). A maggior ragione, nella specie umana, la percezione è un'educazione
continuata, mediante la quale l'uomo è condotto ad «inventare», cioè a scoprire e attualizzare valori ideali,
già preformati nelle esigenze della ragione. Percepire e inventare è appunto ancora un «ricordarsi», in questo
senso, come sosteneva Platone. Diremo perciò che l'uomo, percependo secondo la sua natura, coglie e scopre
soltanto quello che in un certo senso già portava in sé 90.

Art. II - Le leggi della percezione


A. SENSO GENERALE DELLE LEGGI DELLA PERCEZIONE

141 - 1. L'ASPETTO DELLA FINALITÀ - Se la percezione è un'attività originale, essa comporterà leggi
proprie che si possono trarre dalle esperienze. D'altra parte, poiché ogni percezione implica quel duplice
aspetto che abbiamo definito come dato sensoriale rivestito d'un significato, le leggi dovranno esprimere
sotto forme diverse i rapporti che possono esistere tra questi due aspetti o due momenti, distinti e solidali.
Finalmente, siccome la percezione è un processo unificato e unificatore, le leggi della percezione dovranno
essere tutte delle espressioni diverse d'un dinamismo psichico finalizzato dal bisogno di determinare un
significato (cioè cogliere un oggetto).

2. L'EQUIVOCO DELLA PRIMITIVITÀ - Le precedenti osservazioni ci allontanano nettamente dalle vie


seguite dalla Gestalt. Considerando - a buon diritto - la forma come primitiva, questa Scuola vuol fare della
struttura (o dell'oggetto), un risultato delle leggi d'equilibrio che governa insieme gli influssi nervosi
determinati dalle stimolazioni venute dall'esterno e gli oggetti stessi, cioè producente un «campo» che
congloberebbe l'organismo e l'ambiente immediato dell'attività. Sotto questo aspetto, la forma sarebbe
primitiva, cioè a priori, come le leggi fisiche che la reggono.
Una simile teoria non è ammissibile. Senza parlare delle difficoltà che si possono opporre ad una
concezione così manifestamente materialistica, questa concezione risulta contraddetta, sul terreno stesso
della psicologia, dal fatto certo che i meccanismi regolanti le costanze percettive evolvono con l'età, che
comportano, sviluppandosi, dei processi di differenziazione e di coordinazione, dei tentennamenti e delle
correzioni, - e di conseguenza non possono spiegarsi con «forme fisiche» permanenti e richiedono invece
una spiegazione propriamente psicologica, che noi definiremo un adattamento.
Diremo, tuttavia, che le strutture sono primitive, ma in un senso diverso da quello della Gestalt, cioè in
questo senso, da una parte, che ogni percezione implica necessariamente una struttura e che non c'è dunque
mai costruzione dell'oggetto a partire dagli elementi (sensazioni), e d'altra parte, che l'organizzazione
intuitiva dell'oggetto appare essa stessa come comandata dai bisogni dell'adattamento: la percezione non è
una fotografia, ma un'esperienza. La primitività della forma è dunque propriamente l'apriorità, non di un
determinismo fisico, ma di un'esigenza oggettiva e insieme di una necessità biologica.

B. LE LEGGI DELLA PERCEZIONE

90 Cfr. R. Ruyer, Élements de psycho-biologie, p. 254-256.


85
142 - 1. LEGGE DELL'ADATTAMENTO - La percezione non ha lo scopo di isolare sotto lo sguardo della
coscienza, per contemplarle, cose o oggetti assoluti, ma di fornire le condizioni di un congruo adattamento
al mondo dell' esperienza. È dunque essa stessa un'esperienza più che una «conoscenza»: è, almeno, una
conoscenza sperimentale, il cui metodo è definito dall'esigenza essenziale di cogliere il senso biologico della
situazione.
Si esprimerebbe bene questa caratteristica della percezione dicendo che è meno con la coscienza che col
corpo che noi percepiamo (o, più esattamente, il corpo è qui la forma stessa della mia coscienza). Il corpo,
infatti, non è un oggetto tra tanti altri, ma soggetto e, con ciò stesso, agente: adattato e collegato al mondo
per mezzo di tutte le sue strutture, esso è lo strumento generale della mia comprensione, e le esigenze del suo
comportamento esterno (e perciò della percezione) non sono che una forma delle esigenze biologiche che
assicurano costantemente l'equilibrio, la conservazione, la restaurazione e lo sviluppo del suo proprio
organismo.

Si può spiegare così il privilegio percettivo delle «buone forme», vale a dire delle organizzazioni più
regolari e più armoniose. La geometria segreta da cui procedono dipende incontestabilmente da un
sentimento (o da un'intelligenza spontanea) dei fatti elementari, che conferiscono a quelle forme il loro
fondamento oggettivo. È per questo che la nostra preferenza per la linea retta, che ci fa rettificare
spontaneamente una linea irregolare, non è l'effetto d'una maggiore frequenza di presentazione, bensì di una
comodità interna, che spiega la sua frequenza soggettiva e si basa essa stessa su una familiarità d'ordine
motorio (come quella che si manifesta, per esempio, nel gesto o movimento di appropriazione). «Il nostro
atteggiamento di fronte alla esperienza, fa notare P. Guillaume (Introduction à la Psychologie, p. 65), non è
neutro e passivo: andiamo incontro ai fatti con un pregiudizio favorevole ad una certa spiegazione». C'è qui
una specie d'innatismo sperimentale, il quale a sua volta non è altro che la nostra presenza nel mondo come
soggetto incarnato.

Le seguenti leggi si limitano a definire i diversi modi dell'adattamento, che costituisce la legge
fondamentale della percezione.

2. LEGGE DELL'UNIFICAZIONE FUNZIONALE - La percezione comporta, è vero, una distinzione di


parti o elementi, ma queste parti non sono colte che relativamente al tutto (anticipato o percepito), cioè sotto
il loro aspetto funzionale. Questo spiega come noi cogliamo il tutto complesso richiamando uno solo dei suoi
elementi (un amico, che io non «vedo», mi è presente integralmente nella sua voce che ascolto), - oppure
come noi «correggiamo» certi dati sensoriali per adattarli al tutto in cui s'inseriscono (sentiamo una parola
che non è stata pronunciata, perché la parola è richiesta dal senso; «correggiamo» inconsciamente
un'espressione verbale scorretta, ecc.). Ogni percezione suppone dunque l'organizzazione intuitiva dei dati
sensoriali, guidata dal tutto in cui questi s'inseriscono e che conferisce loro un significato complessivo.

143 - 3. LEGGE DEL CARATTERE DEFINITO DELLA PERCEZIONE - Questa legge esprime il fatto
che il processo percettivo va dall'indeterminato al determinato, dalle parti al tutto. Non bisogna intendere
che ci sia un periodo d'indeterminazione totale. Sappiamo, al contrario, che anche nella fase di semplice
presenza, già si profila una struttura per integrare i frammenti di rappresentazione. Con la terza legge si tratta
soltanto di mettere in evidenza il fatto che ogni percezione si presenta come definiente e determinante un
significato a partire dal dato sensoriale (campo e sfondo compreso). Benché proprio nelle parti noi cogliamo
il tutto e il significato, la percezione si oppone all'apprensione delle parti come ciò che è determinato si
oppone a ciò che è tale soltanto incompiutamente o virtualmente.

144 - 4. LEGGE DI COSTANZA RELATIVA O DELLA PERCEZIONE DUTTILE - L'esperienza mostra


che le modificazioni subite da un oggetto (variazioni nella distanza, nell'illuminazione, nella figura, nel
colore, nella posizione, ecc.) non ci impediscono di percepire l'oggetto stesso. In realtà, vi sono dei limiti,
passati i quali, l'oggetto non si può più riconoscere. Per esempio, la costanza relativa del colore scompare
non appena il suo cromatismo diventa troppo intenso. Parimenti, la costanza delle grandezze non esiste che
entro limiti ben definiti. È compito della psicologia precisare questi limiti nei singoli casi.

Le teorie empiristiche consistevano nel supporre qui il lavoro di un'interpretazione (o educazione) la quale,
iniziata fin dall'infanzia, condurrebbe a sostituire a poco a poco ai puri fenomeni (o dati soggettivi) le leggi, i
significati e l'ordine che li regolano e ne fanno degli «oggetti». Ma questa spiegazione (smentita da tutte le
esperienze, in quanto è provato che le costanze delle grandezze, ad esempio, sono altrettanto perfette nel
86
bimbo di 11 mesi che nell'adulto) consiste, da un lato, nell'immaginare arbitrariamente un passaggio da un
caos primitivo di sensazioni alla percezione propriamente detta, cioè all'oggetto costruito, e, dall'altro, nel
confondere percezione e nozione. La verità è che l'oggetto è colto spontaneamente e immediatamente come
organizzazione e che si opera automaticamente, nello stesso effetto sensoriale, la distinzione tra le
deformazioni che colpiscono l'oggetto stesso e le variazioni dovute allo spostamento, all'illuminazione, ecc.
Importa qui rilevare che la costanza delle grandezze e delle forme non potrebbe essere attribuita ad un atto
intellettuale; essa è una «funzione esistenziale», da riferirsi all'atto primo e fondamentale («prelogico») per
mezzo del quale ognuno s'installa nel suo mondo. Ciò spiega come mai, nell'uomo, la costanza sia più
perfetta nel senso orizzontale che nel senso verticale (la luna, all'orizzonte, è enorme, e piccola allo zenit), -
mentre per le scimmie, cui la vita arboricola rende familiare lo spostamento verticale, la costanza secondo la
verticale è eccellente. (Koffka, Principles of Gestalt Psychology, p. 94). Se la costanza delle grandezze, dei
colori e delle forme è compresa entro limiti definiti, ciò avviene perché ogni percezione è funzione di
un'esperienza «in cui il mio corpo e i fenomeni sono rigorosamente collegati» 91.

C. CONCLUSIONI

145 - 1. L'ELABORAZIONE DEL DATO SENSORIALE - Quanto abbiamo visto mostra che se percepire
è veramente organizzare un dato sensoriale e rivestire questo dato di un significato che ne fa un oggetto
definito, l'organizzazione si presenta sotto l'aspetto di una condizione, e la presa di significato ha realmente,
nel processo percettivo, il privilegio d'un fine. È ciò che vedono bene, ma interpretano male, i teorici della
forma, i quali fanno di questa un dato immediato e un assoluto, disconoscendo così la parte dovuta al dato
sensoriale, per mezzo del quale e nel quale il soggetto percipiente anticipa o percepisce un significato (o un
oggetto) mediante un'attività sintetica regolata dai suoi bisogni biologici, fisiologici e psicologici, la quale è,
non un atto meditato e cosciente, ma l'espressione spontanea e originale dell'adattamento al mondo, una
tecnica innata, iscritta nel corpo e nei sensi.

2. LA DETERMINAZIONE DEL SIGNIFICATO - Ciò vuol dire che il significato non è aggiunto dal di
fuori, ma è parte costitutiva dell’oggetto percepito. La percezione non è né la sintesi creatrice della scuola
associazionista (Wundt), né la produzione di fattori non-sensoriali immaginata dal Meinong. Il significato
non risulta da un'inferenza dell'intelletto; è, per così dire, secreto dalla struttura stessa dei segni sensoriali.
L'apparenza sensibile è propriamente rivelatrice della cosa stessa. Il senso della cosa non è dietro le
apparenze. ma in esse: è nella cosa come l'anima nel corpo. Perciò è giusto dire che, nella percezione, la cosa
ci è data «in carne ed ossa», o, più esattamente, è ricostituita e vissuta da noi, in quanto essa è parte di un
mondo di cui portiamo in noi stessi le strutture fondamentali 92.

Art. III - Esteriorità e localizzazione degli oggetti


146 - 1. IL PASSAGGIO DELL'OGGETTIVO AL SOGGETTIVO La psicologia ha provato che quanto
costituisce l'oggetto di una elaborazione più o meno lunga, non è affatto la nozione di un esterno, ma
piuttosto di un interno. Infatti, ciò che per primo si presenta al neonato, è un continuo di estensioni colorate e
resistenti, senza oggetti nettamente individualizzati, nel quale, in un certo senso, tutto è contenuto e dal quale
egli stesso, in un primo momento, non si distingue che in un modo estremamente confuso. Si tratta per il
fanciullo di discernere degli oggetti in questa massa originariamente indivisa e caotica. Tale discernimento è
condizionato all'esercizio concertato dei diversi sensi e particolarmente, come s'è visto sopra (127) delle
sensazioni tattili e visive, attraverso un lungo lavoro di tirocinio, il cui scopo non consiste affatto nell'iniziare
il fanciullo all'oggettività, che è primitiva, ancorché confusa, ma nel condurlo a distinguere degli oggetti in
conseguenza del loro uso, cioè a conferir loro un significato.

Nello stesso tempo, il fanciullo acquista la chiara percezione del suo corpo, che prima rappresentava
soltanto un insieme cenestesico confuso in seno al blocco sensibile primitivo. Attraverso l'esercizio delle sue
sensazioni muscolari, visive, tattili, delle sue reazioni affettive piacevoli o dolorose, dei suoi vari movimenti,
il fanciullo impara a percepire il proprio corpo come un oggetto al limite del quale non v'è più sensazione di
duplice contatto, e, con ciò stesso, come un oggetto assolutamente distinto da tutti gli altri, come corpo
proprio, che diventa così formalmente quello che è: il soggetto di tutte le sue esperienze.

91 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la Perception, p. 349-350.


92 Cfr. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la Perception, p. 369-377.
87

L'adulto si limita a proseguire nel senso di queste primitive esperienze. Esiste prima di tutto per lui il
mondo oggettivo, che è insieme il mondo del di fuori e un universo di oggetti e di forme (cioè di forme che
hanno un senso). Con uno sforzo egli inverte, in certo qual modo, la direzione naturale della sua attività,
volge la sua attenzione verso il mondo soggettivo della coscienza, il quale, per quanto immediato possa
essere, è ben lungi dall'avere la realtà dell'altro, e che si applica a discernere e a studiare per se stessi negli
oggetti o forme del mondo oggettivo, gli elementi che li compongono. Gli associazionisti pensano che in tal
modo l'adulto perda sempre più il senso del reale. Se il reale è fatto di oggetti più che di stati di coscienza, di
forme più che di qualità sensibili, si dovrebbe affermare esattamente il contrario.

147 - 2. LE TEORIE GENETISTICHE - Di qui si vede quanto siano arbitrarie le ipotesi elaborate dagli
psicologi genetisti per spiegare l'esteriorizzazione degli oggetti e la loro localizzazione nello spazio.

a) Teoria dell'inferenza. Thomas Reid fa appello ad un istinto naturale, il che non spiega assolutamente
nulla. Altri (Cousin) immaginano un ragionamento implicito (basato sul principio di causalità): per il fatto
che non abbiamo coscienza di essere causa delle nostre sensazioni, dovremmo attribuirle a un oggetto
esteriore. Ma anzitutto, come supporre che i fanciulli neonati, così come gli animali, ricorrano ad una tale
inferenza, anche implicita? Inoltre, ciò va contro tutte le esperienze psicologiche: la nozione dell'esterno è
primitiva, anteriore anche alla nozione dell'interno. Il fanciullo impara ad interiorizzare o soggettivizzare il
suo corpo. Infine, se l'esteriorità non fosse primitiva ed oggettiva, non ne avremmo mai l'idea. Resteremmo
sempre rinchiusi in noi stessi.

b) Teoria dell'allucinazione vera. Miglior successo non ha Taine con la sua teoria dell'allucinazione vera, in
virtù della quale noi proietteremmo nello spazio, per il giuoco delle impressioni visive, tattili e muscolari,
delle sensazioni dapprima localizzate alla periferia del corpo. Questa allucinazione sarebbe confermata dai
movimenti che dobbiamo fare per cogliere gli oggetti così esteriorizzati. La percezione sarebbe quindi una
allucinazione vera. Una simile teoria è in contrasto con i fatti psicologici che provano come l'esteriorità sia
un dato primitivo e distinto dalla nozione di distanza (la quale forma l'oggetto di una elaborazione
complessa) ed inoltre come mancando gli organi sensoriali, non ci sia percezione d'oggetti esteriori.
Resterebbe d'altronde da spiegare in che modo l'allucinazione potrebbe essere confermata dalle esperienze, le
quali, esse pure, dovrebbero essere considerate come altre allucinazioni.

Questa obiezione può formularsi sotto altra forma, che mette in chiara luce l'incoerenza dell'ipotesi
tainiana. Taine fa del cervello la sede e il centro delle immagini allucinatorie. Ma il cervello per la coscienza
non è che un'immagine come le altre ed è quindi esso stesso l'effetto di un'allucinazione. Cosicché
l'immagine allucinatoria dell'universo si spiegherebbe con l'immagine egualmente allucinatoria del cervello!
In altri termini ancora: l'universo è interamente contenuto nel cervello; ma siccome il cervello non è che una
parte dell'universo, ne consegue che il contenuto contiene il contenente e che la parte contiene il tutto!
Queste assurdità spiegano perché, oggi, si riconosca sempre più l'impossibilità del monismo.

148 - c) TEORIA MONISTICA DI Bergson. H. Bergson crede tuttavia di risolvere il problema della
percezione con una specie di monismo. La sensazione costituirebbe l'oggetto stesso e non avrebbe quindi
alcun bisogno d'essere proiettata nello spazio.

«Sia, per esempio, un punto luminoso P i cui raggi agiscano sui diversi punti a, b, c della rètina. In questo
punto P la scienza localizza delle vibrazioni d'una certa ampiezza e d'una certa durata. Nello stesso punto P
la coscienza percepisce della luce. Vogliamo dimostrare [...] che non c'è differenza essenziale tra questa luce
e quei movimenti [...]. In realtà, non c'è una immagine inestesa che debba formarsi nella coscienza per poi
proiettarsi su P. La verità è che il punto P, i raggi ch'esso emette, la rètina e gli elementi nervosi interessati
formano un tutto solidale, che il punto luminoso P fa parte di questo tutto, e che proprio in P, e non altrove,
l'immagine P è formata e percepita». (Matière et Mémoire, 29-31).

Questo monismo crea grandi difficoltà: in particolare, esso non può spiegare con quale tipo di causalità i
movimenti nervosi del cervello determinino l'apparizione di una sensazione nello spazio. Questa maniera di
risolvere il problema della percezione significa che Bergson è ancora legato alle concezioni fisiologiche.
Infatti, egli sopprime la proiezione, sopprimendo l'oggetto reale (ridotto alla sensazione). Ma ne consegue
evidentemente che, se esistesse un oggetto reale, si porrebbe inevitabilmente la questione della proiezione.
88
Ciò prova che Bergson è ancora vicinissimo a Taine e alla sua allucinazione vera, ch'egli critica tuttavia in
modo pertinentissimo. (Cfr. La Pensée et le Mouvant, p. 95).

149 - 3. L'ESTERIORITÀ NATURALE.

a) Due aspetti da distinguere. La percezione può essere considerata sotto due aspetti, la cui confusione
ingenera grossi equivoci, conducendo a confondere problemi che devono essere distinti. Ci sono, infatti, un
aspetto psicologico e un aspetto metafisico. Psicologicamente, non si tratta che di descrivere il meccanismo
del processo percettivo. Filosoficamente, il problema consiste nel sapere in che modo l'oggetto esteriore
possa essere presente al soggetto conoscente, cioè quali siano le condizioni ontologiche implicate nell'attività
vitale conoscitiva. Un tale problema è metafisico ed è un errore di metodo il volerlo risolvere con la
psicologia, come sarebbe errore il pretendere di risolvere con la metafisica un problema di psicologia. Ora,
cadono appunto in un errore di questo genere quelle teorie che abbiamo dovuto criticare più sopra, e quelle
ugualmente che abbiamo discusse in Cosmologia (II, 8). Le prime (Cartesio, Malebranche, Leibniz,
Berkeley, Kant, Taine), pongono il problema psicologico in termini metafisici e si sforzano di risolverlo con
la metafisica. Le altre (James, Bergson, Kohler), sotto una parvenza psicologica, enunciano un problema
metafisico e pensano di dargli una soluzione con la psico-fisiologia. Nell'uno e nell'altro caso, non fanno
altro che proporre delle soluzioni inadeguate.

b) L'aspetto psicologico. Risulta dal nostro studio della percezione che, psicologicamente parlando, i
problemi della esteriorizzazione degli oggetti e della loro localizzazione nello spazio non hanno pressappoco
alcuna consistenza reale, in quanto non dobbiamo mai esteriorizzare gli oggetti, che ci sono dati in modo
assolutamente originario come esteriori. Ciò non significa, beninteso, che non si renda necessario un lungo
tirocinio per perfezionare la nostra percezione degli oggetti. L'esteriorità tuttavia è anteriore a questo
tirocinio, di cui essa, fin dall'origine, condiziona i procedimenti e la direzione.
Non c'è dunque da considerare nessuna proiezione della sensazione, perché la sensazione non è un termine
dell'attività percettiva; il termine è sempre l'oggetto, che è evidentemente presente al senso (o in generale al
conoscente), attraverso un'immagine di se stesso, la quale è ricevuta come una testimonianza del mondo
esteriore e come un mezzo per coglierlo. Sennonché, con queste osservazioni, noi tocchiamo il problema
metafisico, la cui soluzione richiede mezzi diversi da quelli dell'analisi psicologica.

Art. IV - Le forme normali e anormali della percezione


150 - Se vogliamo definire i problemi reali che pone la percezione, dal punto di vista psicologico,
incontriamo i diversi problemi raggruppati sotto il titolo di errori della percezione. Si distinguono
comunemente tre gruppi di errori percettivi. I primi vertono sull'oggetto stesso della percezione, sia che lo si
percepisca come rivestito di qualità che non gli appartengono (il bastone che sembra spezzato nell'acqua, la
torre quadrata che, da lontano, sembra rotonda, - le parallele che sembrano congiungersi in lontananza, ecc.),
- sia che si rivesta erroneamente l'oggetto della sensazione delle qualità o proprietà appartenenti realmente
alle immagini che gli sono associate. Nel primo caso, si parla di errori dei sensi, nel secondo, di illusioni
della percezione. Altri errori riguardano il campo delle percezioni senza oggetto reale, sia che l'oggetto non
sia realmente dato dal di fuori, ma ingenerato dal di dentro (allucinazione), - sia che l'oggetto reale venga
percepito sotto una forma e con attributi antichi che non possiede più (paramnesie o illusioni del «dejà vu»).
È già evidente a prezzo di quali equivoci si raggruppino qui confusamente, in un capitolo consacrato alla
«patologia della percezione», le allucinazioni degli isterici e dei dementi e insieme i fenomeni chiamati
«illusioni normali», i quali sono, in realtà, così perfettamente normali da non aver nulla d'illusorio, se non
per una teoria associazionistica e atomistica della percezione. Perciò conserviamo qui la divisione corrente
degli «errori della percezione» soltanto per distinguere i problemi posti dalle diverse forme, normali o
anormali, della percezione.

§ l - Gli «errori dei sensi»

A. ERRORI DEI SENSI O ERRORI DI GIUDIZIO?

151 - 1. IL TEMA SCETTICO - Il tema degli «errori dei sensi» ha avuto in filosofia una lunga e brillante
carriera. Si sa che ha alimentato, fin dal tempo dei sofisti greci, tutte le teorie scettiche. Ma già da gran
89
tempo sono pure state sottolineate le confusioni che il tema comporta. Contro gli scettici, infatti, Aristotele
dimostrava, da un lato, che i sensi sono infallibili quanto al loro oggetto proprio e, dall'altro, che gli errori di
cui si accusano sono in realtà degli errori di giudizio (Metafisica, III, c. V)93. La psicologia sperimentale
conferma pienamente la concezione aristotelica, corroborandola con nuove ragioni, tratte da innumerevoli
esperienze consacrate alle reazioni percettive.

2. L'INFALLIBILITÀ DEL SENSO - Quando si dice che il senso è infallibile relativamente al suo proprio
oggetto, bisogna ben capire che non si avanza una teoria arbitraria, ma si constata semplicemente un fatto.
La sensazione, qualunque sia, non è né vera, né falsa; è tutto quel che deve essere nelle condizioni in cui
avviene, vale a dire è un fatto naturale. La verità e l'errore non appartengono che al giudizio, perché solo il
giudizio comporta affermazione o negazione di essere o di modo di essere (I, 49, 53). Finché ci atterremo
alla sensazione, questa non potrà fornirci che dei dati reali, sui quali nessuna discussione è ammissibile 94.

152 - I FATTI - Poiché gli «errori dei sensi» sono errori della percezione, possiamo tentare di determinare
come siano possibili questi errori. La psicologia sperimentale ha raccolto su questo punto un gran numero di
fatti95.

B. L'ASPETTO SPERIMENTALE

a) Rapporto delle impressioni luminose e cromatiche. Si è potuto stabilire che la rètina è più sensibile alla
luce che al colore (110), e che la percezione delle due modalità può non essere simultanea: ciò avviene in
particolare nel fanciullo, il quale, in un primo tempo, non avrebbe che impressioni luminose, - nell'isterico,
che percepisce soltanto un colore grigio. Questa disgiunzione delle due specie di impressioni può essere
all'origine di molteplici errori.

b) La luce idio-retinica. L'etere intraretinico, anche dopo il taglio del nervo ottico, può produrre fenomeni
luminosi. La stanchezza degli organi della vista può egualmente provocare variazioni dell'etere intraretinico
e, di conseguenza, della luce idio-retinica.

c) Le sensazioni subcoscienti. Abbiamo mostrato più sopra (95) la possibilità delle sensazioni subcoscienti.
Si sa, d'altronde, per comune esperienza, quale influenza eserciti l'attenzione sulla percezione delle
impressioni sensibili. Quando l'attenzione si rilassa, molti elementi, effettivamente sentiti, sfuggono al
soggetto, il che ha per risultato di modificare in maniera più o meno importante le qualità percepite e
l'apparenza dell'oggetto. Si riscontra, d'altra parte, che gli elementi non immediatamente integrati nella
percezione sono stati realmente dati ai sensi, poiché si riesce in seguito, con uno sforzo di restituzione e in
assenza dell'oggetto, a ripresentarli alla coscienza 96. In realtà, più che realmente inconsce, le sensazioni sono
state subcoscienti.

153 - 2. INTERPRETAZIONE DEI FATTI - Nessuno dei vari fatti raggruppati nelle categorie precedenti
costituisce, a rigor di termini, degli errori della sensazione. Sono errori della percezione. Ogni volta, infatti,
le sensazioni sono esattamente quelle che devono essere nelle condizioni fisiologiche e psicologiche da cui
dipendono. La non-percezione del colore dipende dal fatto che gli organi funzionalmente destinati alle
sensazioni cromatiche sono in ritardo o inibiti nel loro lavoro. Le sensazioni luminose provenienti dalla luce
intra-retinica non sono per nulla erronee, come tali, poiché c'è effettivamente produzione di luce. Quanto alla

93 Il dialogo Contra Academicos di sant'Agostino è in gran parte dedicato alla confutazione delle teorie scettiche
fondate sugli «errori dei sensi». Cfr. Contra Academicos, Parigi, Desclée de Brouwer, 1939, p. 151 e sgg.
94 Nella Scolastica, la percezione non è un'operazione specificamente intellettuale, ma quello che san Tommaso
chiama, sia judicium sensus, atto col quale il senso discerne tra i contrari del suo sensibile proprio - per esempio, il
celeste dal rosso, il caldo dal freddo, ecc. (qui l'errore non è mai possibile se non accidentalmente, per effetto di
alterazioni organiche o di malattia, che impediscono al senso di dissociare e di discernere i vari elementi sensibili dati
insieme) - sia soprattutto coscienza sensibile o senso comune (64), la cui funzione è di coordinare e di confrontare tra
loro i dati forniti dai sensi esterni: «ultimum judicium et ultima discretio pertinet ad sensum communem» (In De
Anima, III, lect. 3, n. 613 e 614 (Pirotta).
95 Cfr. J. De La Vaissière, Éléments de psychologie expérimentale, p. 154 seg.
96 P. Janet, (État mental des hystériques, Parigi, 1911, p. 26 seg.) ha fatto rilevare questo punto per quanto concerne le
percezioni degli isterici.
90
mancanza d'attenzione, questa non riguarda evidentemente che la percezione cosciente e non la sensazione
propriamente detta.

I casi di eccitazione diretta dei nervi causata da stimoli inadeguati, corrente elettrica, choc, ecc. con
produzione di sensazioni corrispondenti, si spiegano, come abbiamo visto (90), con l'azione dei centri
corticali, che reagiscono secondo il loro modo specifico. E poi occorre che l'esercizio preliminare del senso
interessato abbia rifornito il soggetto d'immagini suscettibili d'essere risvegliate dall'eccitazione anormale.
Non c'è in questo caso errore di sensazione. L'immagine evocata (allucinazione) risponde a condizioni
oggettive reali (benché anormali): l'errore consisterebbe nel fare dell'immagine un oggetto reale e sarebbe da
attribuire all'attività percettiva.

§ 2 - Le illusioni dei sensi

154 - L'illusione consiste nell'integrare nell'oggetto del senso qualità o attributi rappresentati da immagini
che gli sono associate, ma che non possiede. Si tratta dunque propriamente di un difetto di corrispondenza
tra la sensazione e l'oggetto percepito. Riscontreremo che questa definizione non è esattamente applicabile
che al caso delle illusioni anormali, risultanti da una deficienza accidentale, congenita o acquisita, fisiologica
o psicologica, dell'attività percettiva. Per quanto riguarda le «illusioni normali», vale a dire quelle che non
possono non prodursi nelle condizioni normali della percezione, sono illusioni soltanto dal punto di. vista
della psicologia associazionistica97.

A. LE ILLUSIONI NORMALI

1. I FATTI - Basterà citare qualche caso:


il bastone immerso nell'acqua che sembra
spezzato, - l'ingrandimento degli astri
all'orizzonte, - la localizzazione
dell'immagine dietro lo specchio, -
l'apprezzamento illusorio delle distanze:
lo spazio pieno sembra più vasto di quello
vuoto, la linea punteggiata sembra più
lunga della linea piena, (Fig. 7 a), ecc., - i
casi d'illusione ottico-geometrica, (Fig. 7.
b, c, d, e) - le illusioni del movimento: il
viaggiatore trasportato dal treno in
movimento vede fuggire gli alberi e le
case e si crede immobile, - le illusioni
della lettura: si prende una parola per
l'altra (parti per prati), si correggono le
parole storpiate, si leggono le parole
mancanti, perché il senso le implica
necessariamente, ecc., - illusioni
dell'udito: si sentono delle parole che non
sono pronunciate, o inversamente, non si
sentono delle parole che sono state

97 Il tema delle illusioni della percezione non è più nuovo di quello degli errori dei sensi. Eccone parecchi esempi,
tratti da San Tommaso. Le differenze nella grandezza apparente di un oggetto: «Visibile (l'oggetto luminoso) emittit
radios ad visum, quasi pyramidaliter, et basis pyramidis est in ipso visibili, conus autem terminatur ad visum. Quanto
autem magis objectum distat a visu, tanto magis pyramis protrahitur et fit longior, et facit minorem angulum in oculo, et
ex consequenti (res) videtur minor». (Meteor., III, Lect. 6). Viste da lontano, le cose sembrano trovarsi sullo stesso
piano e, perdono il loro rilievo: «Quando aliquod corpus distans videtur per alterum vel juxta alterum, tunc apparet esse
in eadem superficie cum ipso, et propter eandem causam, omnia a remotis visa videntur plana» (Ibidem). Visti da
lontano, i colori sfumano: «Omnia quae videntur a longe apparent nigriora quam si viderentur de prope» (Ibidem).
Illusioni del movimento: «Nihil differt [...] utrum moveatur visus vel res quae videtur: sicut patet de illis qui navigant
circa vittora, quod, quia ipsi sunt in motu, videtur eis quod montes et terra moveantur» (De Coelo, III, lect. 12). I
cambiamenti di colore d'un oggetto dovuti ai cambiamenti di posizione o d'illuminazione (De Sensu et Sensato, lect. 6,
n. 91 (Pirotta): (Cfr. J. De Tonquedec, La Critique de la connaissance, p. 104).
91
realmente pronunciate, - illusione degli amputati, - illusione d'Aristotele: incrociando due dita e facendo
passare un oggetto tra queste due dita, si percepiscono due oggetti, ecc.

155 - 2. INTERPRETAZIONE DEI FATTI - Si danno per i vari casi diverse spiegazioni: tutte
però mettono in questione la percezione e non la sensazione.

a) L'influenza dell'ambiente e del subcosciente. Abbiamo già esaminato l'illusione degli amputati (96).
Altre illusioni sono dovute al giuoco delle influenze fisiologiche (ad esempio, l'irradiazione dei colori), - alle
condizioni fisiche risultanti dall'ambiente interposto tra l'oggetto e i sensi (bastone spezzato, torre quadrata
che sembra rotonda, ecc.), - oppure all'assenza di punti di riferimento e di confronto per l'apprezzamento
delle distanze e delle forme, - o agli elementi che vengono ad aggiungersi o invece a sottrarsi, in virtù della
disattenzione o del giuoco subcosciente degli interessi attuali del soggetto, - o finalmente all'influenza delle
conoscenze acquisite sulla immagine nuova (come dimostra l'esperienza della maschera: se si guarda con un
solo occhio la faccia concava della maschera, si vedono i lineamenti in rilievo, cioè sotto l'aspetto in cui ci
appaiono i visi umani).

L'illusione d'Aristotele
sembra spiegarsi (secondo le
esperienze di Czarmack) per il
fatto che le sensazioni
determinate sulle due dita
artificialmente incrociate
risultano rovesciate, cioè
invertite relativamente ai punti
della pelle che sono stati
eccitati e c'è quindi errore nella
localizzazione delle percezioni
sensibili. Queste non
rispondono più ai movimenti
imposti alle membra, quando
tali movimenti escono dal
campo d'attività normale dei
muscoli (cfr. J. Lhermitte, L'Image de notre corps, Parigi, 1939, p. 35-39)98.

b) Le «illusioni» ottico-
geometriche. Quanto
all'insieme delle illusioni
ottico-geometriche, che sono
state studiate sotto tante
forme diverse e sono relative
alla posizione o alla
grandezza delle varie parti
delle figure geometriche,
non sembrano essere delle
vere illusioni (Fig. 8). Lo
hanno dimostrato i teorici
della forma, ma con
argomenti che valgono o non
valgono, secondo il senso in
cui si prendono. L'opinione
di Kohler, come abbiamo
visto sopra (127, 134), è che
la percezione obbedisca unicamente alle proprie leggi, che l'oggetto, assolutamente irriducibile agli stimoli
sensori immediati, possegga una struttura che è un fatto primitivo e non riducibile, dipendente dalle leggi

98 Cfr. in R. Dejean, La perception visuelle, p. 97 sgg., la discussione di parecchi casi: astri all'orizzonte,
ingrandimento delle immagini percepite nella nebbia, ecc.
92
d'organizzazione che rendono possibile la percezione. In virtù di queste leggi, le proprietà delle parti, in un
tutto, dipendono da questo tutto e, di conseguenza, i fenomeni di deformazione delle parti devono essere
considerati perfettamente normali. Né la memoria, né l'associazione c'entrano per nulla.

156 - c) Discussione della tesi proposta dalla psicologia della Forma. C'è in essa del giusto e
dell'arbitrario. L'arbitrario sta nella teoria presentata per chiarire il fatto certissimo e ammirevolmente
sottolineato che la «deformazione delle parti» è un fenomeno normale e risultante dalle esigenze della
percezione del tutto. In realtà, per la percezione non può trattarsi di obbedire alle «leggi dell'organizzazione»,
ma soltanto di obbedire alle esigenze oggettive del tutto complesso, quale si offre alla percezione 99. Tutte le
illusioni ottico-geometriche nascono dalla necessità di percepire il complesso rappresentativo come un tutto.
Per esempio, nell'illusione di Muller-Lyer, (Fig. 9 b), se uno dei segmenti sembra più lungo dell'altro, è
perché l'angolo aperto terminale induce lo sguardo a proseguire il movimento della linea, mentre nell'altro
segmento, l'angolo chiuso arresta il movimento100. Parimenti l'illusione della figura 7 c, non risulta da alcun
confronto stabilito in un secondo momento tra la grandezza del cerchio e la lunghezza del segmento, ma
unicamente dal fatto che l'atto percettivo coglie immediatamente il rapporto spaziale del segmento
relativamente al cerchio: ne deriva che c'è, ora, accentuazione della separazione o del contrasto degli
elementi (A), ora, al contrario, accentuazione del rapporto di vicinanza o associazione (B); nel primo caso, il
segmento diminuisce, nel secondo aumenta. Per le stesse ragioni, lo stesso effetto si produrrebbe, se si
sostituissero al cerchio da ogni lato dei segmenti, dei punti-limite (Fig. 7 d) 101.
Tutto questo dimostra chiaramente, da una parte, che la percezione non è fatta di dati percettivi separati e
isolati, che è concepibile soltanto in un «campo» e si dirige, di conseguenza, su rapporti e non su termini
assoluti, - d'altra parte, che la struttura stessa dell'oggetto, così definito, dipende da certe variabili d'ordine
biologico, e anzitutto dalla necessità di individualizzare un oggetto o una situazione per adattarvi un
comportamento o un atteggiamento determinato102.

B. LE ILLUSIONI ANORMALI

157 - Le illusioni anormali sono quelle risultanti da una deficienza organica o psicologica del soggetto.

1. CASI DI DEFICIENZA ORGANICA - Quando si tratta di anomalie organiche (acromatopsia,


discromatopsia o daltonismo, lesioni organiche, periferiche e centrali, ecc.), la percezione attuale non
corrisponde realmente alla realtà, ma non si può parlare di sensazioni erronee. Anche in questi casi la
sensazione è esattamente ciò che dev'essere, considerato l'insieme delle sue condizioni, fisiche e
psicologiche.

99 È stato d'altronde direttamente dimostrato (esperienze di Beyrl) che nei fanciulli c'è un leggero progresso della
costanza delle dimensioni, nonostante le variazioni della proiezione retinica, a misura che progrediscono nell'età, - il
che prova che l'esperienza ha una certa influenza. Inoltre, le esperienze di Verklet stabiliscono che la costanza della
dimensione è più evidente per le figure «interessanti» che per le forme geometriche semplici, cosa del tutto inspiegabile
nel contesto della teoria della forma. (Cfr. R. Ruyer, La conscience et le corps, Parigi, 1937, p. 93).
100 È sufficiente modificare il tutto come nella fig. 9 a; perché il punto M sia nuovamente percepito al centro.
101 Non si possono spiegare tutti i casi d'illusioni percettive. I gestaltisti invocano spesso le forme privilegiate, le
buone forme (legge della buona forma: la forma percepita è la migliore che si possa percepire). (Cfr. P. Guillaume,
Psychologie de la Forme, p. 57). In realtà, si tratta piuttosto di nomi dati a cose che non conosciamo, come quando
diciamo proprietà sonnifera per definire l'effetto dell'oppio. Si vuol sapere perché e come l'oppio fa dormire, perché e
come una determinata forma è la migliore possibile e risulta privilegiata. Questo appunto intendono spiegare le leggi
generali della percezione.
102 Cfr. H. Piéron, Psychologie expérimentale, p. 123: «Non è cosa normale il percepire con esattezza forme,
grandezze, colori, luci, ma soltanto il riconoscere oggetti, in modo da reagire correttamente di fronte ad essi, abbastanza
in fretta perché la reazione non sopravvenga in ritardo». Il riferimento all'«esattezza» sembrerà contestabile, in quanto
implica il tema empiristico dei dati sensoriali assoluti; ma l'esigenza biologica dell'adattamento alla situazione è ben
sottolineata, così come nei seguenti casi, citati da Piéron (ibidem, p. 123-131): «Un foglio grigio posto in piena luce è
molto più chiaro, più «bianco» di un foglio posto all'ombra; eppure continuiamo a chiamare grigio il primo, e bianco il
secondo. Ciò dipende dal fatto che il carattere percettivo bianco o grigio non è che un mezzo per individualizzare un
oggetto, per riconoscerlo anche se diversamente illuminato». «Le percezioni di grandezza si comportano nello stesso
modo delle percezioni di colore: il profilo degli oggetti è una caratteristica che permette di individualizzarli [...]. Con la
stessa immagine avremo l'impressione del minuscolo o del corpulento, secondo che, dietro i vetri d'una automobile
avremo creduto di vedere una mosca vicina o una vacca lontana».
93
2. CASI DI DEFICIENZA PSICOLOGICA - In questa seconda categoria si riscontrano tutte le illusioni
originate sia da un difetto d'attenzione, sia da una deficienza delle funzioni di sintesi e di controllo. La
mancanza d'attenzione all'oggetto accompagna gli stati di viva emozione o inversamente gli stati d'astenia.
L'attenzione aspettante tende ad oggettivare ciò che provoca il timore o il desiderio: un fanciullo in preda
alla paura prende per un fantasma un tronco d'albero illuminato da un tenue raggio di luna; uno studente,
nell'angoscioso timore d'aver fatto male il compito e d'esser bocciato, non legge il proprio nome, sebbene vi
sia scritto, sulla lista dei candidati promossi 103. Nella stessa categoria di fenomeni si elencano inoltre le
illusioni che nascono dalle intense preoccupazioni del momento. Binet (Psych. du raisonnement, Parigi,
1886, p. 12) cita il caso del Dr. G. A. il quale, preoccupato dalla preparazione d'un esame di storia naturale,
legge sulla porta d'un ristorante le parole: «verbascum thapsus» (volgarmente, in francese, bouillon blanc =
letteralmente brodo bianco), mentre non c'era scritto che la parola «Bouillon».
Quanto alla deficienza delle funzioni di sintesi e di controllo, essa si manifesta specialmente in certe
psiconevrosi (ossessioni, isterismo, psicastenia) e in tutte le forme di alienazione mentale. Si può riscontrare
accidentalmente anche nei soggetti normali, in momenti di emozione violenta, ad esempio durante un
terremoto, nel corso d'un naufragio, d'un bombardamento, ecc.

§ 3 - Le allucinazioni

A. ILLUSIONI E ALLUCINAZIONI

158 - I. L'ALLUCINAZIONE - Si annoverano talvolta nella categoria dell'allucinazione alcuni fenomeni


che ne differiscono sotto molti aspetti. Per prevenire confusioni, è opportuno distinguere tra serie di
fenomeni. L'allucinazione viene definita uno stato patologico simile ad un sogno ad occhi aperti, in cui
s'impongono alla coscienza delle immagini che non corrispondono a nessuna realtà oggettiva. Le illusioni
dei sensi, normali o anormali, che abbiamo studiate, devono dunque essere distinte dai fenomeni di natura
allucinatoria, poiché le immagini risultanti dalle eccitazioni restano immagini, senza assumere quell'aspetto
d'oggetti esteriori, reali, nettamente localizzati, che caratterizza l'allucinazione (cfr. P. Janet, Etat mental des
hystériques, p. 471)104.
Tuttavia, non si tratta di pregiudicare la risposta da fornire ad una domanda specifica, cioè se convenga o
no ammettere una differenza essenziale tra le illusioni e le allucinazioni; si tratta soltanto di rilevare che una
distinzione deve essere fatta tra le due specie di fenomeni.

2. L'ALLUCINAZIONE PSICHICA - Inoltre, per circoscrivere il meglio possibile il campo di studio,


conviene considerare come pseudo-allucinazioni tutti quei casi in cui degli oggetti appaiono come dotati di
caratteristiche che definiscono gli oggetti attualmente percepiti (localizzazione precisa nello spazio,
apparizione o scomparsa indipendente dalla volontà), ma non sono tuttavia attualmente percepiti come reali.
Rientrano in questa categoria i fenomeni che precedono o seguono immediatamente il sonno normale e quelli
che sono provocati da certe droghe, haschich, belladonna, alcool (sonni morbosi con uso di tossici esogeni).
Questi ultimi casi pare si possano spiegare per la deficienza delle funzioni di sintesi e di controllo: l'oggetto
non ha quella. realtà assoluta e indiscutibile con la quale si è convenuto di specificare l'allucinazione 105.

103 E. Jung ha raccolto un importante materiale di osservazioni sugli effetti della suggestionabilità allo stato di veglia
(«Archives de Psychologie», t. VIII, p. 263-285).
104 Pietro Quercy (Les hallucinations, Parigi, 1936) definisce invece allucinazioni, non soltanto gli «errori dei sensi»,
le illusioni della percezione, ma anche le illusioni degli amputati, i fenomeni del sogno, del dormiveglia e dei sonni
morbosi (senza parlare delle visioni dei mistici!).
105 Cfr. J. Jastrow, Subconscience, Parigi, 1908, p. 344: «Pur essendo vittima di un'allucinazione realistica e
terrificante, posso riconoscere la vera natura dell'immagine che mi perseguita dal fatto che non si comporta come gli
oggetti reali su cui si proietta. Quando, con alcool, mescal o haschich, ho eccitato le mie cellule cerebrali fino al punto
che reagiscano, facendo sorgere dinanzi a me delle cose immaginarie, io non cesso di riconoscere che queste cose
differiscono da quelle reali, perché, sebbene io sia sotto l'influsso di un veleno psichico, reagisco alle sollecitazioni
esteriori».
94
Lo stesso dica si del fenomeno noto sotto il nome di visione nel cristallo106. P. Janet dimostra benissimo che
tutto ciò si spiega con un duplice fenomeno. L'uno, volto alla produzione dell'allucinazione, consiste nella
concentrazione dell'attenzione sull'immagine percepita nel vetro: questa concentrazione, favorita dalla
disposizione dell'apparecchio, tende ad impedire la distinzione tra le immagini che sopravvengono
richiamate dai ricordi acquisiti e la sensazione; l'altro, inibitorio delle tendenze allucinatorie (riduzione), è
costituito dal fatto che il soggetto sa di non avere dinanzi a sé che un semplice cristallo.

In generale, i soggetti sottomessi ai fenomeni di questa categoria dichiarano che tutto si svolge nel loro
cervello e sono per lo più coscienti del carattere psicologico di questi fenomeni.

3. IL DELIRIO DI INTERPRETAZIONE - La psicosi d'interpretazione si riallaccia da un lato alla


costituzione paranoica, di cui parleremo in seguito. Importa qui rilevare che i malati colpiti da questo delirio
(volgarmente chiamato «mania di persecuzione») ragionano, e generalmente a non finire, su casi
immaginari, ma non subiscono necessariamente vere allucinazioni. Come fa notare G. Dumas ( Traité de
Psychologie, Parigi, 1924, t. II, p. 972), il perseguitato allucinato sente una influenza ostile pesare su di sé e
penetrarlo, mentre il perseguitato interpretante arriva alla conclusione di questa influenza, partendo da fatti
ch'egli deforma o costruisce. Di qui il nome di «follia che ragiona» che fu dato sovente a questa malattia.

B. I FATTI DI ALLUCINAZIONE

159 - 1. I SOGGETTI - I fatti di allucinazione si riscontrano in un gran numero di psiconevrosi e di


malattie mentali: confusione mentale, demenza senile, delirio sistematizzato (interpretazione e
persecuzione), - nei casi d'ipnotismo, in cui si riesce a provocare l'impressione delle sensazioni suggerite al
soggetto, - nel delirio alcoolico, ecc. Si sono stabiliti due gruppi distinti di questi vari casi: quello dei deliri
allucinatori cronici, con lesioni anatomo-patologiche del cervello, e quello dei deliri allucinatori acuti
(psicosi), con lesioni tossi-infettive del cervello.
L'allucinazione può riscontrarsi anche nei soggetti normali, come conseguenza di disturbi organici o
fisiologici accidentali: congestione, debolezza di stomaco, sete intensa, febbre. Talvolta proviene anche da
cause psicologiche (paura intensa, tristezza profonda), le quali però hanno conseguenze allucinatorie soltanto
per i disturbi fisiologici che comportano. Tutti questi ultimi casi rientrano, insomma, nella categoria dei deliri
allucinatori acuti.

2. I SENSI ALLUCINATI - I fenomeni allucinatori possono interessare tutti i sensi. Perciò si hanno
allucinazioni visive, tattili, uditive, olfattive, cenestesiche, ecc. Tuttavia sembra che le allucinazioni visive
siano più frequenti e più notevoli.

C. NATURA DELL'ALLUCINAZIONE

160 - Si sono proposte numerose teorie per spiegare l'allucinazione. Sembra che si possano tuttavia ridurre
a due principali: la teoria periferica, e la teoria centrale 107.

1. TEORIA PERIFERICA - Questa vecchia teoria suppone che ogni allucinazione derivi da un'eccitazione
degli organi sensoriali, determinata, mancando qualsiasi oggetto, da una reazione centrale. Secondo tale
ipotesi, l'allucinazione non differirebbe dalla percezione se non per l'assenza d'una causa esterna. Resterebbe
quindi un fatto di attività propriamente sensoriale.

106 Cfr. P. Janet, Névroses et idées fixes, Parigi, 1908, t. I, p. 411: «Ci si mette in piena luce, si circonda il cristallo di
schermi, di paraventi o di stoffa nera, poi si fa sedere comodamente il soggetto e lo si prega di guardare fisso. In un
primo tempo, questi non scorge che delle cose insignificanti; prima la sua effigie, poi il vago riflesso delle cose
circostanti, i colori dell'arcobaleno, un punto luminoso, insomma i riflessi che presenta solitamente un globo di
Cristallo. Dopo un certo periodo di tempo [...] vede apparire dei disegni, delle figure dapprima semplicissime, delle
stelle [...]. Dopo qualche istante ancora, scorge delle figure colorate, dei personaggi, degli animali, degli alberi, dei
fiori».
107 Cfr. E. Peillaube, Les images, Parigi, 1910, p. 351-359. Riguardo alla storia del problema dell'allucinazione, vedi
R. Dalbiez, La méthode psychanalytique et la doctrine freudienne, Parigi, 1936, t. I, p, 511-553 - J. Paulus, Le problème
de l' hallucination et l'évolution de la psychologie, d'Esquirol à Pierre Janet, Parigi, 1941 - J. Lhermitte, Les
hallucinations, Parigi, 1951.
95
Questa teoria urta in gravi difficoltà, perché, da un lato, sta di fatto che soggetti divenuti ciechi o sordi
hanno allucinazioni visive o uditive, senza possibile eccitazione periferica 108, dall'altro, siccome
l'allucinazione interessa il più delle volte parecchi sensi, bisognerebbe ammettere che la reazione centrale
agisse con la stessa intensità su tutti gli organi sensoriali periferici, cosa molto inverosimile 109.

161 - 2. TEORIA CENTRALE - Questa teoria è esattamente l'inverso della precedente. Attribuisce
l'allucinazione, secondo l'espressione di Lelut, «alla metamorfosi di un'immagine in sensazione». Questa
però non è una spiegazione autentica: in realtà, non è che l'enunciato del fatto allucinatorio, mentre invece si
vuol sapere in che modo esso si produca. Abbiamo tre tipi di spiegazione: spiegazione psicologica,
fisiologica e psicofisiologica.

a) Teoria psicologica. L'allucinazione sarebbe di natura puramente psicogena (Lelut). Una simile
spiegazione quadra male con tutto quello che si sa dell'attività degli organi centrali nella produzione delle
immagini. Sembra piuttosto difficile spiegare l'allucinazione ricorrendo a mere cause psichiche, o almeno,
se è vero, come Freud ha dimostrato, che solo cause psichiche possono spiegare il contenuto e la forma
dell'allucinazione, il fatto stesso dell'allucinazione sembra dipendere da predisposizioni costituzionali.

b) Teoria fisiologica. Questa teoria, sostenuta da Tamburini, propone la spiegazione dell'allucinazione col
ricorso ad un'eccitazione morbosa costante dei centri sensoriali corticali, che partirebbe dagli organi
periferici della sensibilità e dalle vie conduttrici o dai centri stessi e determinerebbe la produzione di
un'immagine corrispondente alle sensazioni legate all'eccitazione anteriore di questo centro sensoriale. Tale
opinione fa giustamente intervenire i centri cerebrali, ma va incontro a quelle difficoltà concernenti la fissità
dei centri, che le ricerche fisiologiche hanno fatto valere (66).

c) Teoria psico-fisiologica. Le stesse osservazioni varrebbero relativamente alla teoria di Seglas, il quale
adotta la posizione di Tamburini, ritoccandola in modo che l'allucinazione verrebbe ad implicare l'intervento
di molteplici centri sensoriali, intervento manifestato dai molteplici fattori psicologici (attenzione, memoria,
credenza, associazione d'idee, automatismo psichico, ecc.) che entrano in questione nell'allucinazione.
Osservazioni che sembrano fondate, ma che rimangono tuttavia insufficienti, poiché, da una parte,
mantengono quanto v'è di contestabile nella teoria di Tamburini, e dall'altra, trascurano questo punto capitale,
cioè che, per essere vera allucinazione, occorre inoltre che sia impossibile, o, comunque, inesistente, la
riduzione delle immagini allucinatorie.

162 - 3. IL PREDOMINIO TIRANNICO DELLE IMMAGINI DELIRANTI.

a) Il fenomeno di non riduzione. Sembra dunque che l'allucinazione, che è un fenomeno essenzialmente
psichico e non un fenomeno sensoriale, debba essere spiegata da uno stato cerebrale che determina,
mancando ogni eccitazione esterna, la produzione di un'immagine o di una sintesi d'immagini formanti
sistema e che s'impongono alla coscienza psicologica del malato110.

108 Il medesimo fatto rende poco plausibile la spiegazione di A. Binet, per il quale ogni allucinazione comporterebbe
un minimo di eccitazione periferica. L'eccitazione periferica sembra con certezza, in molti casi, servire da punto di
partenza o da occasione all'allucinazione, ma non sembra essere necessaria in ogni caso.
109 Il Dr. De Clérambault ha sostenuto una teoria meccanica delle psicosi allucinatorie, volta a invertire la formula
classica che attribuiva al delirio e, quindi, all'allucinazione che l'accompagna un'origine mentale (cfr. De Clérambault,
Psychose à base d'automatisme et syndrome d'automatisme, negli «Annales médico-psychologiques» del 1927, t. I, p.
193-236). Il Dr, De Clérambault pensa che sia l'allucinazione a precedere il delirio; è un complesso di fenomeni del
tutto organici, allo stesso modo che la psicosi che ne risulta è essa stessa puramente meccanica nel suo punto di partenza
e nella sua evoluzione. Quanto ai processi psichici propriamente detti, «essi non appaiono che sussidiariamente,
secondariamente, frammentariamente» (p. 212). Una simile teoria ha sollevato l'unanime opposizione degli psicologi e
di numerosi neurologi e psichiatri. Principale suo difetto è identificare origine organica con elaborazione puramente
meccanica e, di conseguenza, eliminare arbitrariamente tutti i processi psichici che s'inseriscono tra l'irritazione iniziale
e gli ultimi prodotti della psicosi allucinatoria.
110 Cfr. Dr. P. Giscard, Psychogenèse des Hallucinations, in «Archives de Philosophie», XIII, 3 (1937), p. 1-20:
«L'allucinazione non può essere causata che da un turbamento dell'attività cerebrale in rapporto con una lesione
organica. Quanto questo disordine sia primitivo e causale, lo prova il fatto che lo stesso delirio è posteriore al prodursi
delle allucinazioni e tende a spiegarlo, a dargli un senso (p. 14) [...] Dicendo che l'origine delle allucinazioni è
puramente endogena, intendiamo che le allucinazioni non hanno per fondamento un'anomalia della percezione, che
96
Questa teoria ci sembra di gran lunga la più soddisfacente, perché l'assenza di riduzione è caratteristica
dell'allucinazione. È proprio questo che permette di distinguere l'allucinazione vera da tutte le pseudo -
allucinazioni, in cui l'immagine allucinatoria scompare con l'intervento d'un riduttore qualsiasi, il cui
compito consiste essenzialmente nel connettere lo stato di coscienza dato nella pseudo-allucinazione con
l'insieme della realtà presente come pure con l'insieme della esperienza passata. Il riduttore ha come effetto
di dare alla pseudoallucinazione, considerato il resto del reale e i dati dell'esperienza acquisita e della
memoria, un carattere d'incoerenza o di assurdità. L'immagine allucinatoria non resiste all'intervento di
questo riduttore111.
Da tutto quello che precede risulta che non si può parlare di errori dei sensi o della percezione a proposito
dell'allucinazione. La allucinazione non ha nulla a che fare con l'attività sensoriale. Da una parte, infatti,
negli allucinati, l'attività sensoriale normale persiste nella allucinazione stessa; essi sentono ciò che è loro
detto e possono ricordarlo. D'altra parte, l'allucinazione non può ricondursi ai vari tipi d'illusioni della
percezione che abbiamo studiati, perché non si tratta mai di sensazioni male interpretate o deformate e i
malati fanno sovente loro stessi la distinzione tra l'attività sensoriale, che resta normale, e i fenomeni
allucinatori che subiscono. È pure degno di rilievo il fatto ch' essi spesso localizzino questi ultimi «nel
cervello» o altrove, ad ogni modo, sempre più che non negli organi sensoriali 112.

163 - b) L'automatismo vissuto nell'allucinato. Resta da spiegare psicologicamente il fenomeno della non-
riduzione delle immagini allucinatorie. J. P. Sartre (L'Imaginaire, Parigi, 1940, p. 190-205) propone una
spiegazione che sembra plausibilissima. La sua teoria prende le mosse dal delirio d'influenza. Come abbiamo
visto, il malato afferma frequentemente che è «un altro» a possederlo e a provocare i fenomeni allucinatori 113.
Bisogna evidentemente interpretare le parole del malato: sembra che il ricorso esplicativo all'«altro», debba
ridursi soltanto alla coscienza sperimentata dall'allucinato che sia proprio lui, in quanto spontaneità vivente, a
produrre i fenomeni allucinatori, ma che questi fenomeni vadano in certo qual modo in direzione inversa
rispetto all'unità coscienziale, cioè che essa non li domini e non li riconosca. «L'altro» non è che il simbolo
dell'automatismo vissuto.

I fenomeni allucinatori implicano dunque una dispersione o una dislocazione dell'unità sintetica della
coscienza e con ciò stesso un offuscamento della percezione: soggetto e oggetto svaniscono
simultaneamente. È allora che si producono i fenomeni allucinatori: essi consistono nella brusca formazione
d'un sistema psichico caratterizzato dal suo aspetto parziale, marginale e furtivo, data la mancanza d'una
coscienza capace di concentrarsi sull'oggetto (l'allucinato sente le parole, ma non le può ascoltare, vede i
volti, ma non li può osservare), e dalla sua assurdità: giuochi di parole, insulti, che sono il modo in cui il
malato pensa o meglio vive lo stato di dislocazione psichica che egli prova nella sua coscienza oscura.
Nel momento stesso in cui si produce l'allucinazione, il soggetto, come tale, non esiste più. Non c'è più che
una coscienza per così dire neutralizzata. Se l'allucinazione continuasse in una tale coscienza, saremmo
vicini allo stato di sogno. In realtà, la coscienza dell'allucinato reagisce bruscamente e si concentra almeno
per un momento. La percezione riprende in modo più o meno normale. Di conseguenza, l'immagine
allucinatoria, subito dileguatasi, diventa oggetto di memoria, ma di memoria immediata (cioè del passato
immediato), escludendo per questo motivo, all'istante stesso, ogni dubbio sulla realtà dell'oggetto
allucinatorio. Donde l'impressione di esteriorità dell'oggetto (parola o visione), in rapporto alla coscienza
nuovamente unificata. L'oggetto s'impone come reale, almeno sul momento, e s'impone come tale, anche
quando il malato si sappia allucinato (caso dell'allucinosi). Potrà conservare questo aspetto anche in seguito,
quando il malato, a causa di gravi deficienze psichiche, s'installerà in un certo senso nel sistema allucinatorio

risultano dal predominio d'immagini interne imposte alla coscienza da un automatismo imperioso e anarchico (p. 18)».
111 Cfr. P. Janet, L'automatisme psychologique, p. 451 sg. È la ragione principale per cui gli psichiatri sono inclini a
pensare, in base a molti indizi, che nei due casi, i processi di riduzione influiscono più o meno, ma regolarmente.
112 Ciò avviene di frequente soprattutto nelle allucinazioni psico-motrici verbali. Cfr. Dr. Giscard, op. cit., p. 6: «Sono
ventriloquo, spiega un malato. Un uomo e una donna parlano nel mio ventre. Recitano una commedia nella mia testa. È
difficile spiegare, sono sempre io a parlare, e non sono mai io [...] C'è sempre qualcuno che parla nel mio stomaco».
113 J. De Tonquédec («Études carmélitaines», aprile 1937) cita un caso di questo genere: « Mi ricordo, scrive, d'una
ragazza educatissima, che venne a trovarmi [...] Mentre parlavamo del più e del meno, essa proferiva ogni tanto la
parola di Cambronne o altre parole non meno grossolane, mi faceva uno sberleffo, sputava, ecc. E se ne scusava tutta
confusa, pregandomi insistentemente di credere che tutto ciò non dipendeva da lei, ma dal «monello» che aveva eletto
domicilio presso di lei e si serviva dei suoi organi suo malgrado».
97
e vi adatterà il proprio comportamento. In altri casi, grazie a un durevole ristabilirsi dell'unità coscienziale, il
malato può essere capace di analizzare con lucidità l'automatismo cui è stato sottomesso 114.

§ 4 - Illusioni del «déjà vu» e del «già vissuto»

A. I FATTI DI FALSO RICONOSCIMENTO

164 - 1. IL «GIÀ VEDUTO» E IL «GIÀ VISSUTO» - Le paramnesie in genere sono illusioni di


riconoscimento o sentimenti illusori del «già veduto» 115 e del «già vissuto». Sembra tuttavia che sia
opportuno distinguere tra questi due fatti. Il sentimento del già veduto può spiegarsi con l'esistenza di certe
analogie tra l'esperienza presente e l'esperienza passata. Si tratta qui di un'alterazione della memoria più che
della percezione. Il sentimento del già vissuto comporta altre caratteristiche e non si può spiegare come il
sentimento del già veduto.

Si possono quindi già scartare alcune teorie esplicative che solo varrebbero per il «già veduto». Tale è in
particolare la teoria della riduzione al ricordo, sostenuta sotto forme piuttosto diverse, da Grasset («Journal
de Psychologie», gennaio 1904, p. 17 sg.) e W. James (Principles of Psychology, I, p. 675) e consistente nel
dire che il sentimento di falso riconoscimento nasce dall'identificazione della percezione presente con una
percezione anteriore, analoga, per il suo contenuto rappresentativo o affettivo. Tutto si ridurrebbe
all'evocazione confusa o incompleta di un ricordo. È evidente che ciò non spiega che il «già veduto» e non il
«già vissuto» (James del resto riconosce che questa spiegazione non può applicarsi a tutti i casi di falso
riconoscimento).
Questo sentimento del già vissuto, Bergson l'ha a lungo studiato (Énergie spirituelle, Parigi, 1920, p. 117-
161) e ne fa la seguente descrizione:

Improvvisamente, mentre si assiste ad uno spettacolo o si partecipa ad un trattenimento, sorge la


convinzione che già si è visto quel che si vede, già udito quel che si sente, già pronunziate quelle frasi che si
pronunciano, che si era lì, allo stesso posto, nelle stesse disposizioni, sentendo, percependo, pensando e
volendo le stesse cose, infine che si rivivono, persino nei minimi particolari, alcuni istanti della vita passata.
L'illusione è talvolta così completa che ad ogni momento, finché dura, sembra di essere in grado di predire
quello che sta per accadere: e come non saperlo giacché si sente d'esserne già venuti a conoscenza? Spesso il
mondo esterno appare in una luce strana, come in un sogno; si diventa estranei a se stessi, prossimi a
sdoppiarsi e assistere da semplici spettatori a quanto si dice e si fa» (p. 117-118).

2. L'ILLUSIONE DEL «GIÀ VISSUTO» E LA PERCEZIONE - È chiaro che la memoria e la percezione


sono l'una e l'altra interessate nell'illusione del «già vissuto». Ma possiamo chiederci se il turbamento
provocato da questa illusione interessi particolarmente la memoria o la percezione. Ora, mentre la illusione
del «già veduto» sembra colpire anzitutto la memoria e costituire una falsa memoria o, come indica il
termine di paramnesia, una memoria accanto, l'illusione del «già vissuto» è essenzialmente un disturbo della
percezione. È, dice P. Janet (Les obsessions et les Psychasthénies, Parigi, 1903, t. I, p. 288), «un falso
apprezzamento del carattere della percezione attuale che assume più o meno l'aspetto d'un fenomeno
riprodotto invece di aver l'aspetto d'un fenomeno percepito or ora».

B. COME SPIEGARE L'ILLUSIONE DEL «GIÀ VISSUTO»?

165 - Anche qui ci troviamo di fronte a numerose spiegazioni. Lasciando da parte quelle che possono
valere soltanto per il «già veduto», considereremo tre tipi di spiegazioni: teoria dell'immagine allucinatoria,
teoria patologica, teoria dell'inattenzione alla vita.

I. TEORIA DELL'IMMAGINE ALLUCINATORIA - Questa teoria, proposta da Th. Ribot (Les maladies
de la mémoire, Parigi, 1881, p. 150 sgg.), consiste nel supporre che un'immagine molto intensa e di natura
114 Cfr. Dr. Giscard, op. cit., che riporta i discorsi d'un suo malato: «Va meglio, egli dice, i miei pensieri sono più
stabili di prima, da quando sono qui. Nei momenti di sgomento, ho coscienza che i miei pensieri non sono normali. Non
ho il controllo dei miei pensieri... Penso si tratti di uno squilibrio nervoso nella mia testa, un qualcosa come dei nervi
spostati che impediscano la concentrazione della mente. Si sarebbe detto che l'aria mi penetrasse in testa...».
115 D'ora in poi il fenomeno noto nella locuzione francese déjà vu sarà designato con quella italiana già veduto.
(N.d.T.).
98
allucinatoria duplichi la percezione attuale e, non essendo rettificata, s'imponga come una realtà respingendo
in secondo piano la percezione reale, che assume così l'aspetto debole e annebbiato del ricordo.

Piéron, dopo Anjel, ha difeso una teoria analoga. Di solito, l'impressione grezza lasciata da un oggetto e la
presa di possesso di questa impressione da parte della mente, si sovrappongono e formano un tutt'uno. Ma in
certi casi, il secondo processo è in ritardo sul primo e ne risulta una doppia immagine, che produce il falso
riconoscimento («Révue philosophique», t. LIV, p. 160-163).

La difficoltà di questa teoria sta nello spiegare perché una delle due immagini è respinta nel passato e
perché l’illusione è continua. (Cfr. Bergson, Énergie spirituelle, p. 127). D'altra parte, si capisce bene come
l'immagine respinta nel passato assuma l'aspetto annebbiato del ricordo; ma si spiegano così molto più i casi
del già veduto o del già provato che non i casi del già vissuto.

166 - 2. TEORIA PATOLOGICA - Parecchi psicologi hanno tentato di spiegare i fenomeni di paramnesia
per mezzo di una diminuzione dell'energia psichica o della tensione attentiva. Alcuni (Dromard e Albès,
Dugas) ritengono che la diminuzione dell'energia psichica operi una rottura tra lo «psichismo inferiore»
(sensazione e subcosciente) e lo «psichismo superiore» (attenzione). Il primo, funzionando solo,
percepirebbe automaticamente l'oggetto presente, e il secondo, invece di occuparsi dell'oggetto stesso,
rimarrebbe tutto intento a considerare l'immagine raccolta dal primo. Il soggetto verrebbe così a trovarsi
equivalentemente nella situazione di chi vivesse un sogno.

P. Janet (Les obsessions et les psychasthénies, Parigi, 1903, t. I, p. 287 seg.) propone una spiegazione dello
stesso genere. Il fenomeno del già vissuto, egli dice, non costituisce, come si afferma troppo spesso,
un'alterazione della memoria, bensì una alterazione della percezione. Questo fenomeno rientra nella
categoria dei sentimenti d'automatismo. «Il soggetto che sente la sua attività diminuita non è più capace del
piccolo sforzo di sintesi che accompagna ogni percezione normale, crede di recitare, ed è questo che dà alla
percezione l'apparenza d'un fenomeno passato». Tutto ciò si spiegherebbe per un indebolimento morboso
della «funzione del reale» o un rilassamento morboso dello sforzo di sintesi richiesto dalla percezione 116.

Queste teorie sembrano giustamente insistere sull'abbassamento della tensione vitale, che si riscontra
frequentemente nei casi gravi di paramnesia. Questo abbassamento è però da ritenersi nettamente o
regolarmente patologico? D'altra parte, possiamo chiederci perché questo rilassamento morboso induca a
considerare il presente come ripetizione del passato e in che modo possa spiegare, non solo il «già veduto»,
ma anche il «già vissuto».

167 - 3. TEORIA DELLA NON ATTENZIONE ALLA VITA È l'ipotesi proposta da Bergson, la quale, in
fondo, è compatibile con la spiegazione patologica, ma non vede nel rilassamento dell'energia vitale che una
delle cause possibili (e soltanto causa remota) della paramnesia. La causa prossima e specifica dell'illusione
di falso riconoscimento dovrebbe ricercarsi nella concorde attività della percezione e della memoria, vale a
dire «nel funzionamento naturale di queste due facoltà lasciate libere d'agire» (Énergie spirituelle, p. 161). Il
«ricordo del presente» (o forma dell'attenzione alla vita), che normalmente è contemporaneo della
percezione, la quale, col suo slancio, è più nel futuro che nel presente, arriva talvolta alla percezione, non
appena lo slancio di questa si interrompe, cioè non appena si ferma l'attenzione alla vita: in questo caso, il
presente è riconosciuto al momento stesso che è conosciuto. Ordinariamente, l'attenzione alla vita basta per
impedire al ricordo di giungere alla percezione: se vi sono pause nel funzionamento, queste sono
generalmente di breve durata e avvengono a notevole distanza l'una dall'altra. Ma, in certi casi patologici, il
calo costante dell'attenzione fondamentale genera dei turbamenti che possono essere gravissimi. Inoltre,
siccome questa diminuzione dell'attenzione è essa stessa effetto di un turbamento della volontà, la quale
cessa d'esser tesa all'azione e d'impedire così al presente di volgersi su se stesso, bisogna, in ultima analisi,
riporre in un turbamento dell'attività della volontà la causa iniziale dei fenomeni di falso riconoscimento.

Questa teoria sembra più soddisfacente delle precedenti. Ha il merito, senza escludere la spiegazione
patologica di Janet, di dare una spiegazione più generale e che meglio rende ragione dell'illusione del già
vissuto, come degli svariatissimi gradi che le paramnesie possono comportare, a cominciare dalle forme

116 Si spiegherebbe così come siano tanto frequenti le paramnesie nei soggetti deficienti quanto alle funzioni di sintesi
(psicastenie, confusione mentale).
99
benigne e quasi normali della vita quotidiana. Tuttavia, questi vantaggi sono ipotetici, perché tutto dipende
dalla nozione del «ricordo del presente», che vedremo più avanti essere assai discutibile, almeno nella forma
presentata da Bergson. Di modo che l'illusione del già vissuto rimane senza una spiegazione veramente
decisiva.
100

CAPITOLO TERZO

L'IMMAGINAZIONE

SOMMARIO117

Art. I - NATURA DELLE IMMAGINI. - Le specie d'immagini - Le sorgenti delle immagini - Problema delle
immagini affettive Tesi affermativa - Tesi negativa - Natura psicologica dell'immagine -
Somiglianza delle sensazioni e delle immagini - La distinzione delle immagini e delle percezioni -
Può esserci confusione tra immagine e percezione?

Art. II - FISSAZIONE E CONSERVAZIONE DELLE IMMAGINI. Fissazione delle immagini - Difficoltà


della questione - Condizioni - Condizioni generali dell'immaginazione - Natura e senso del problema
- Condizioni fisiologiche della formazione delle immagini - Condizioni fisiologiche della
conservazione - Immagini e immaginazione - L'immaginazione, funzione psichica - Motricità delle
immagini.

Art. III - L'ASSOCIAZIONE DELLE IDEE - Nozioni generali - Definizione - Storia - L'associazionismo -
Le leggi dell' associazione Riduzione - Discussione - La spontaneità della mente Teoria scozzese -
L'organizzazione e la sistematizzazione.

Art. IV - LA CREAZIONE IMMAGINATIVA. - Natura dell'immaginazione creatrice - Riproduzione e


creazione - Immaginazione e invenzione - I fattori dell'invenzione - Fattori fisiologici - Fattori
psicologici - Fattori sociali - Lo sforzo d'invenzione I processi dell'immaginazione creatrice - Lo
sforzo di invenzione.

Art. V - FANTASTICHERIA. SOGNO. SONNI PATOLOGICI. - La fantasticheria - Il sonno e il sogno - Il


sonnambulismo - L'ipnosi.

168 - 1. DEFINIZIONE - L'immaginazione è la facoltà di fissare, di conservare, di riprodurre e di


combinare le immagini delle cose sensibili. Queste immagini possono essere esaminate sotto due aspetti:
soggettivamente, sono quel che più sopra (129) abbiamo chiamato col nome di specie (species), cioè delle
rappresentazioni con le quali veniamo a conoscere gli oggetti sensibili, siano essi presenti o no ai sensi;
oggettivamente, le immagini sono come la riproduzione della cosa stessa immaginata. Per significare questo
secondo aspetto, l'immagine va spesso sotto il nome di fantasma118 (Aristotele, De anima, III, c. III; De
memoria, c. I) e oggi si chiama una rappresentazione, o oggetto reso presente al soggetto (ri-presentato).
Gli psicologi non badano per lo più alla distinzione tra questi due aspetti dell'immagine, il che importa
gravi equivoci. Per il fatto che il fantasma, oggettivamente, è l'oggetto stesso, suppongono che noi non
conosciamo direttamente altro che delle immagini, dimenticando che la rappresentazione, soggettivamente,
cioè precisamente in quanto specie o immagine, non è ciò che conosciamo, ma ciò in cui o per cui
conosciamo l'oggetto.

2. PROBLEMI INERENTI ALL'IMMAGINAZIONE - Risaltano perciò i problemi che l'immaginazione fa


sorgere. Si tratta, infatti, di determinare la natura delle immagini e i loro rapporti con la sensazione, inoltre,

117 Cfr. Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. IV e V. - Paulhan, L'activité mentale, Parigi, 1889 - Ribot, Essai sur
l'imagination créatrice, Parigi, 1900 - Bergson, Matière et Mèmoire; L'Énergie spirituelle - E. Peillaube, Les images,
Parigi, 1910 - Spaier, La pensée concrète, Parigi, 1927 - Sartre, L'imagination, Parigi, 1936; L'imaginaire, Parigi, 1940 -
Koffka, Principles of Gestalt Psychology, Londra, 1936 - Koheler, Gestalt Psychology, Londra, 1930 - Guillaume,
Psychologie de la Forme, Parigi, 1937 - J. De La Vaissière, Éléments de Psychologie expérimentale, p. 101-175 - Ed.
Le Roy, La pensée intuitive, Parigi, 1930.
118 Questo fantasma è una species expressa (specie espressa), ossia una similitudine dell'oggetto emanata
dall'immaginazione mancando l'oggetto sensibile.
101
di studiare i processi che condizionano la fissazione, la conservazione e la riproduzione delle immagini e,
infine, di definire quel che potremmo chiamare la dinamica delle immagini, vale a dire le leggi secondo le
quali possono associarsi tra loro.

3. IMPORTANZA DELL'IMMAGINAZIONE - La parte delle immagini nella vita mentale, come


l'ampiezza dell'ambito della loro attività, non hanno bisogno di essere dimostrate. È un fatto evidente che la
nostra vita psicologica è costantemente informata da immagini, sia che richiamiamo attivamente alla
coscienza le forme degli oggetti anteriormente percepiti, sia che, durante il rilassamento dell'attenzione verso
il mondo della percezione, le immagini sembrino presentarsi da sole alla coscienza e ubbidire soltanto alle
leggi del loro determinismo, sia che, persino nella vita intellettuale, vengano a rafforzare le nozioni astratte
alle quali si applica la nostra riflessione.

Art. I - Natura delle immagini


§ 1. Le specie d'immagini

A. LE SORGENTI DELLE IMMAGINI

169 - 1. I SENSI COME FORNITORI D'IMMAGINI - Tutti gli oggetti sensibili, una volta percepiti dai
sensi, possono essere conservati e rappresentati sotto forma d'immagini. Infatti, formiamo immagini e delle
varie qualità sensibili (forme, colori, odori, suoni, calore, resistenza, ecc.) e degli oggetti propriamente detti
dati alla percezione.

Per quanto concerne le immagini visive, la cui esistenza è evidente, basterà notare a qual punto di
precisione possano arrivare in certi soggetti. Nelle sue Mémoires (1696), Saint-Simon racconta come riuscì a
far dipingere il ritratto dell'abate di Rancé, promovendo degli incontri tra questi e il pittore Rigault, il quale,
tornato a casa sua, riproduceva a mente i lineamenti del celebre riformatore della Trappa. Si sa pure come per
molti fanciulli il ripetere a memoria una lezione consista nel seguire l'immagine fedelmente registrata del
testo stampato.

Sono dunque i sensi a procurare le immagini e l'unica sorgente d'immagini è la sensazione. Ciò è
dimostrato dal fatto che i soggetti privi dalla nascita dell'uso di un senso non possono mai formare delle
immagini che siano in relazione con questo senso: il cieco nato non ha nessuna rappresentazione dei colori; i
sordi dalla nascita non hanno alcuna rappresentazione sonora.

2. LA DISTINZIONE DELLE IMMAGINI - Non c'è possibilità d'immagine se prima non c'è stata
sensazione e vi sono tante specie d'immagini quante sono le specie di sensazioni o di percezioni. Il senso
comune è poco incline ad ammettere questa estrema varietà delle immagini, perché col nome d'immagini non
intende generalmente che le immagini visive, che sono infatti le più numerose e le più rappresentative di
tutte. Ma l'esperienza, e del pari le ricerche di laboratorio, stabiliscono in modo certissimo che le immagini
visive sono lungi dall'essere le sole. Si hanno immagini uditive (le melodie che risuonano nella memoria),
immagini tattili (l'uso del metodo Braille dimostra quanto siano precise le immagini tattili e muscolari dei
ciechi)119, immagini olfattive e gustative (cfr. Ribot, Psychologie des sentiments, Parigi, 1896, p. 144 sgg.),
immagini cinestesiche, che rappresentano atteggiamenti e movimenti, immagini autoscopiche dell'io
corporeo, che sono alla base di tutta la nostra attività motrice.

È stato chiamato schema corporeo o schema d'atteggiamento questa immagine dell'io corporeo. Sembra
ch'essa debba la propria origine e la propria struttura ai molteplici dati sensoriali raccolti da quei dispositivi
organici per mezzo dei quali noi apprezziamo i nostri atteggiamenti, lo spostamento parziale o globale del
corpo e la tensione muscolare. L'immagine del nostro corpo è costantemente presente sullo sfondo della
coscienza. Sembra si debba attribuire grande importanza a questo schema corporeo e che esso sia capace di
render ragione dei fenomeni d'allucinazione autoscopica o speculare (proiezione allucinatoria del proprio
corpo). (Cfr. Lhermitte, L’image de notre corps, Parigi, 1939).

119 Cfr. Villey, Le monde des aveugles, Parigi, 1914, p. 172 - L. Arnould, (Ames en prison, Parigi, 1910) ha dimostrato
come dei sordi-ciechi-muti dalla nascita (in modo particolare Maria Heurtin e Elena Keller) si servissero con precisione
meravigliosa delle sole immagini a loro disposizione, cioè delle immagini tattili, olfattive e gustative.
102

Finalmente, dobbiamo molte immagini alla percezione: immagini di movimento, di estensione, di durata e
di ritmo, di posizione e di distanza, immagini d'oggetti, cioè di sistemi complessi organizzati e unificati.

3. I TIPI D'IMMAGINAZIONE - La capacità immaginativa è molto variabile da un soggetto all'altro, non


soltanto nel senso che uno immagina più dell'altro, ma anche nel senso che i tipi d'immaginazione sono
estremamente diversi. Alcuni sono dei visivi, poeti (Hugo), calcolatori prodigio, pittori coloristi o
disegnatori, sensibili, a seconda del caso, più ai colori che alle linee, altri sono degli auditivi-musicisti
(Mozart, che ripete esattamente più variazioni su un dato tema, udito poco prima eseguire da Clementi), in
altri predominano le immagini tattili e motrici, ecc.

170 - 4. IMMAGINE E OGGETTO - Si dice comunemente che si «vedono» le immagini. È questo un


modo inesatto di esprimerci, ma che si può capire. Infatti, così dicendo, ora ci si riferisce implicitamente
all'oggetto stesso rappresentato o significato dall'immagine e che è propriamente ciò che si vede (in
immagine), ora si vuol alludere, non ad una coscienza diretta di un oggetto, ma ad una coscienza che torna di
riflesso sull'immagine concepita come un quadro rappresentante un oggetto.
Possiamo tuttavia chiederci se e fino a qual punto l'immagine, in quanto tale, possa essere considerata
come quadro o ritratto. Ciò sembra poco conforme a quanto ci viene imposto dallo studio della realtà
ontologica dell'immagine (o della coscienza d'immagine).

a) L'immagine come intenzione. Infatti, contrariamente all'oggetto della percezione, che è spazialmente e
qualitativamente definito, che può essere nettamente individuato dal giuoco dell'osservazione, l'oggetto
immaginato non ha che un'individualità vaga, che sintetizza e schematizza in modo impreciso delle
caratteristiche particolari, raggruppa confusamente degli aspetti che la percezione non dà mai tutti insieme e
talvolta persino si pone indistintamente in luogo di oggetti diversi, ma che comportano certe somiglianze.
Ecco perché i termini di «quadro» e di «ritratto» non si addicono alla definizione dell'immagine. Questa è un
segno, in quanto è essenzialmente ad aliquid: la sua realtà è fatta di questa sua relazione o di questa sua
intenzionalità; è la coscienza stessa in atto di tendere verso un oggetto sensibile (non presente
esistenzialmente).

Il carattere ambiguo della somiglianza nei riguardi dell'oggetto si nota bene quando si tratta delle
determinazioni spaziali, perché l'immagine, sotto questo aspetto, si distingue nettamente dall'oggetto reale.
Dimensioni e localizzazioni dell'oggetto immaginato sono molto vaghe e, relativamente all'oggetto della
percezione, di un tipo del tutto speciale. Quando immagino la villetta ove passo le vacanze, l'immagine ne
ha, sì, la dimensione normale, ma tale dimensione non è più, come nella percezione, relativa agli oggetti
circostanti o alla mia posizione; è diventata una proprietà intrinseca dell'oggetto. Questa osservazione vale
per la localizzazione dell'oggetto, che si compie in uno spazio puramente qualitativo, indeterminato e che
viene ad essere una specie di proprietà assoluta dell'oggetto (cfr. Sartre, L'Imaginaire, p. 164-167). Lo stesso
dicasi, come vedremo più avanti, della rappresentazione immaginaria della durata, che diventa qualità
assoluta dell'oggetto.

b) L'immagine come fantasma. Quel che precede dimostra chiaramente che l'immagine in quanto
somiglianza (phantasma) non è affatto da intendersi qui nel senso di «quadro», poiché questa stessa
espressione si limita a designare la proprietà dell'immagine di essere, secondo la formula di Aristotele e degli
Scolastici, una coscienza divenuta intenzionalmente l'oggetto stesso da conoscere. Oggettivamente parlando,
l'immagine è più vicina al simbolo che al ritratto o al quadro.

Nello stesso senso bisogna intendere l'asserzione che l'immagine è «la reviviscenza di una sensazione»
(168). Siccome il termine di sensazione significa propriamente l'atto conoscitivo (128), la «reviviscenza» di
cui si parla è esattamente la ri-presentazione dell'oggetto.
L'illusione determinata dall'immagine-quadro deriva dal fatto che si pensi di osservarla riflessivamente,
come si osserva l'oggetto della percezione, il che darebbe una «reviviscenza» della sensazione. Ma non si
tratta che di un'illusione, perché le proprietà e i particolari che crediamo scoprire nell'immagine, come li
abbiamo scoperti nell'oggetto percepito, non ci sono realmente, neppure implicitamente. Siamo noi ad
aggiungerli successivamente all'immagine per il fatto che li pensiamo (come facenti parte delle nostre
cognizioni sull'oggetto). Più esattamente, noi produciamo ogni volta una nuova immagine e questa
successione d'immagini (o di prese di coscienza) non ha altra unità che quella dello schema o della forma in
103
cui s'inscrivono, cioè, in ultima analisi, dell'intenzione orientata verso l'oggetto in generale. È questa
intenzione ad essere nello stesso tempo virtualmente molteplice; in sé, l'immagine, povera, vaporosa,
sbiadita, è quel che è.
San Tommaso (seguendo Aristotele) usa correntemente il termine pictura (quadro o copia) per designare e
l'immagine-fantasma e l'immagine-ricordo. Bisogna tuttavia rilevare la differenza esistente tra l'una e l'altra.
Da un lato infatti, l'immagine-ricordo (cfr. De Memoria et Reminiscentia, lect. 3a n. 335, ed. Pirotta: «passio
quaedam praesens ut pictura») non sussiste nella coscienza che in forma potenziale: non è, secondo la
ripetuta espressione di san Tommaso, che una specie d'habitus (cfr. ibid. n. 328: «Memoriam dicimus esse
quendam quasi habitum»; n. 329: «Quasi habitualiter tenemus...»; n. 349: «Memoria est habitus...»,
anch'esso fondato su una modificazione fisiologica permanente del cervello (cfr. De Potentiis animae, ed.
Mandonnet, t. V, p. 355: «Vis memorialis est quae est ordinata in posteriori concavitate cerebri...»). Il
termine di pictura non ha dunque evidentemente in questo caso che un'estensione metaforica: denota
anzitutto la realtà d'un potere di formare un'altra volta un fantasma a somiglianza dell'oggetto. D'altra parte,
questa immagine attuata è veramente una pittura o una copia. Ma, anche qui, queste espressioni non devono
essere prese alla lettera. San Tommaso ha cura, del resto, di attenuarne la portata (cfr. De Memoria et
Reminiscentia, n.328: «Figuram quamdam»; «quaedam figura») e specialmente la sua teoria della specie
intenzionale invita chiaramente a ridurre il senso di pictura a quello di sostituto mentale (o segno formale)
dell'oggetto sensibile, l'analogia della copia o del quadro avendo lo scopo in questo caso di sottolineare
l'identità intenzionale dell'immagine e dell'oggetto stesso.

B. IL PROBLEMA DELLE IMMAGINI AFFETTIVE

171 - È stata sollevata la questione circa l'esistenza delle immagini affettive; si vuol sapere, cioè, se gli
stati affettivi (piacevoli e spiacevoli) siano suscettibili di essere rappresentati da immagini, come avviene
delle sensazioni rappresentative.

1. TESI AFFERMATIVA - L'esistenza d'immagini affettive è stata sostenuta da parecchi psicologi moderni,
fra i quali Ribot e Paulhan. Anzitutto, fanno notare che, poiché ogni stato di coscienza è suscettibile di
reviviscenza, non si vede come mai gli stati affettivi dovrebbero essere sprovvisti di questa proprietà. Inoltre,
citano dei fatti che sembrano implicare: l'esistenza di immagini affettive. Si sa come il semplice ricordo
d'una violenta emozione passata provochi talvolta tutti gli effetti somatici dell'emozione, brivido, pallore del
viso, lacrime, ecc. (Cfr. Ribot, La Psychologie des sentiments, Parigi, 1889, c. XI).

2. TESI NEGATIVA - Questa tesi è stata difesa da W. James, Kulpe, ecc., ed è oggi quella più
generalmente ammessa. Gli argomenti che fa valere sono i seguenti:

a) Immagine affettiva o stato affettivo attuale. È chiaro che non si vuol mettere in discussione il fatto che il
ricordo di un'emozione possa far rivivere tale emozione 120. Ma la questione sta nel sapere se si tratti in questo
caso di un'immagine affettiva o di uno stato affettivo presente. Provare di nuovo una vecchia emozione è tutt'
altra cosa che avere una immagine emotiva. Più che di immagine, si tratta di nuova emozione. E dove non si
possa parlare di nuova emozione, l'immagine sembra potersi ridurre al semplice ricordo intellettuale di essere
stato commosso, il che, a rigor di termini, non è un'immagine affettiva. D'altronde sta di fatto che non siamo
capaci di far rivivere a piacere (salvo in certi casi anormali del genere di quelli citati da Hartenberg) le nostre
emozioni d'un tempo, mentre, se formassimo e conservassimo immagini affettive autentiche, dovremmo
poterle evocare con la stessa facilità con cui evochiamo le immagini visive o uditive.

172 - b) Ogni stato affettivo è attuale. Questo fatto costituisce una gravissima difficoltà per i fautori della
tesi affermativa. Infatti, se si possono distinguere la sensatio e il sensatum, l'oggetto e l'immagine
dell'oggetto, è impossibile distinguere e separare lo stato affettivo dalla conoscenza di questo stato. Lo stesso
Ribot ammette che nella coscienza affettiva il soggetto e l'oggetto non sono dati separatamente. Ne consegue
che l'immagine affettiva, che dev'essere per definizione (in quanto immagine) conoscenza d'uno stato
affettivo, dovrebbe per ciò stesso essere uno stato affettivo attuale e non potrebbe essere la semplice
rappresentazione d'uno stato affettivo antico, il che è come dire che non c'è immagine affettiva propriamente
detta.
120 Hartenberg (Les timides et la timidité, Parigi, 1901, p. 35) cita il caso di certi soggetti che fanno rivivere a piacere
le loro emozioni passate. «Sono in grado, dice uno, di riprodurre le angosce e i batticuore che ho provato,
immaginandoli fortemente».
104

c) Discussione di due argomenti. La tesi di Ribot si basa del resto su due argomenti sussidiari contestabili.
Anzitutto, Ribot definisce la coscienza affettiva come la conoscenza delle impressioni cenestesiche 121. Ma
ciò non si può ammettere perché lo stato cenestesico può, è vero, essere accompagnato da uno stato affettivo,
ma non. è per sé uno stato affettivo. È una sensazione generale, cioè una conoscenza, con la quale io
percepisco confusamente il complesso della mia vita organica (116). In secondo luogo, Ribot considera il
riconoscimento come criterio dell'immagine 122. Ora, come bene ha dimostrato Claparède, il riconoscimento e
la localizzazione nel passato sono atti intellettuali indipendenti per sé da ogni immagine affettiva 123.

173 - d) Le esperienze di Kulpe. Kulpe s'è studiato di risolvere il problema delle immagini affettive,
ricorrendo al metodo dell'interrogazione. Il processo di cui s'è servito consisteva nel far provare al soggetto
delle sensazioni di carattere affettivo (per esempio un odore sgradevole) e chiedergli, poco dopo, di
riprodurre l'immagine dell'impressione primitiva. Queste prove (in numero di 240) hanno permesso di
stabilire che i diversi soggetti o non avevano rappresentazioni affettive o riuscivano a rappresentarsi soltanto
uno stato di tensione, senza poter precisare se si trattasse d'uno stato muscolare o d'uno stato affettivo. (Cfr.
Kulpe, Travaux du Congrès de Psychologie d'Heidelberg (1909), p. 183 sgg.).
In forza di queste esperienze, Kulpe afferma che è impossibile ammettere l'esistenza di immagini affettive
propriamente dette. I fatti allegati si riducono semplicemente alla memoria intellettuale della vecchia
emozione e alla reviviscenza di impressioni affettive suscitate dal ricordo. A ciò sembra ridursi la «memoria
affettiva», che è propriamente il ricordo di passate emozioni, accompagnato talvolta da reazioni affettive
attuali.

J. P. Sartre (L'Imaginaire, p. 182) sostiene tuttavia la realtà di un'immaginazione (e di una memoria)


affettiva. Il ricordo o memoria astratta della passata emozione, anche il sentimento reale attuale (reazioni
affettive presenti, risultanti dal ricordo astratto), servirebbero di materia «a un'intenzionalità particolare che
guarda attraverso il sentimento attuale, al sentimento» che ho provato anteriormente, allo stesso modo che
l'immagine presente di Pietro che ride, serve come materia a un'intenzionalità che guarda a Pietro, quale l'ho
visto ridere ieri. Ma la parità non è che verbale, perché non v'è confronto possibile tra l'ordine affettivo e
l'ordine delle forme visive. È certo che la mia emozione presente (astratta o effettiva) può essere correlativa
ad un'emozione provata ieri. Ma quel che immagino, in senso proprio, è il fatto o la scena che è stata causa, o
occasione dell'emozione, e non l'emozione stessa. Questa non si immagina: semplicemente, si prova o non si
prova. Un essere può essere «irrealmente presente», vale a dire può presentarsi in immagine e quindi come
assente. Ma non può esserci sentimento irrealmente presente, poiché un sentimento è presente solo a
condizione di essere reale ed è irreale unicamente se non è attuale.
L'illusione, a quanto pare, proviene dal fatto che lo stato affettivo sembra a volte essere la sorgente del
costituirsi dell'oggetto immaginario. «Se ieri Pietro ebbe un gesto offensivo che mi ha sconvolto, quel che
rivive per primo, è l'indignazione o la vergogna. Questi sentimenti tentennano alla cieca per raccapezzarsi,
poi, illuminati dall'incontro con qualcosa di cui sono a conoscenza, fanno emergere da se stessi il gesto
offensivo». (Sartre, op. cit., p. 182). In questo caso tuttavia, il sentimento può cercare in qualche modo il suo
punto di applicazione esatto; ciò non toglie che non sia rivissuto se non condizionato all'immagine di
«Pietro-che-ha-fatto-un-gesto-offensivo» che si tratta soltanto di precisare mediante il ricorso alla
conoscenza astratta. Ciò che è «irrealmente presente», è Pietro-che-offende; il sentimento è reale e attuale,
altrimenti non è che una conoscenza astratta (il ricordo d'esser stato offeso da Pietro). Ciò spiega il fatto
comune di quelle persone che parlano pacatamente, senza emozione reale, delle offese che hanno ricevute
dagli altri, ma che, appena incominciano a descriverle, manifestano degli stati affettivi più o meno violenti.

§ 2 - Natura psicologica dell'immagine

121 Cfr. Problèmes de Psychologie affective, Parigi, 1910, p. 7: Questa coscienza «esprime, da una parte, lo stato dei
tessuti e del lavoro organico, le impressioni venute dalle viscere»; dall'altra, le impressioni che derivano dalle
contrazioni muscolari.
122 «Il solo criterio che permetta di affermare legittimamente un ricordo affettivo, è ch'esso sia riconosciuto, che porti
il segno del già provato» (Problèmes de Psychologie affective, p. 41).
123 Per l'intera questione, vedere Peillaube, Les images, p. 101-117, che difende la tesi della realtà delle immagini
affettive.
105
174 - La migliore definizione della natura dell'immagine come realtà psicologica si ha in rapporto alla
sensazione o alla percezione.

A. SOMIGLIANZA DELLE SENSAZIONI E DELLE IMMAGINI

1. IL PROBLEMA CIRCA LE QUALITÀ DELL'IMMAGINE

a) Concezione associazionistica. L'immagine assomiglia naturalmente alla sensazione da cui proviene. Si


parte comunemente da questo fatto per dimostrare che l'immagine mantiene le qualità sensibili, visive,
uditive, olfattive, ecc., degli oggetti, vale a dire che si presenta anch'essa dotata di forma, di colore, d'odore,
di sapore, ecc. Si dimostra pure che le immagini hanno una specie d'estensione, in quanto sono delle
rappresentazioni di oggetti estesi: l'immagine d'un quadro comporta delle dimensioni definite, determinazioni
delle relative posizioni degli oggetti inscritti nel quadro, colori stesi, ecc.

b) Discussione. In questo modo di presentare l'immagine c'è un equivoco, che consiste nel passare
surrettiziamente dall'idea di somiglianza a quella d'identità e con ciò nel considerare come ontologicamente
identiche (riducendo sia l'oggetto all'immagine, sia l'immagine all'oggetto) delle realtà che, pur
somigliandosi, differiscono tuttavia essenzialmente. In effetti, l'immagine, come tale, in quanto realtà
psichica, non possiede evidentemente le qualità sensibili degli oggetti: l'immagine della rosa non esala
profumo e non ha colore; l'immagine del cielo non è azzurra, l'immagine del quadro non è estesa, altrimenti
come potrei averla in me?124.Tuttavia, è un fatto che le immagini sembrano dotate di qualità e d'estensione.
Ma queste qualità e questa estensione sono soltanto immaginate: se ci sembrano date realmente, è perché la
conoscenza è diretta, attraverso l'immagine, verso l'oggetto. Sappiamo, per un'intuizione immediata della
coscienza sensibile, se l'oggetto è esistenzialmente presente o no, se la sua percezione è reale o immaginaria:
ma, in un caso come nell'altro, noi percepiamo direttamente e anzitutto l'oggetto, non l'immagine.

Appunto per aver misconosciuto questa natura dell'immagine e averne fatta una cosa, l'associazionismo è
giunto a confondere l'immagine con la cosa e ora ad attribuire alle immagini le qualità delle cose, ora a
ridurre le cose a semplici immagini, il che è parimenti assurdo. Noi diciamo, invece, che se l'immagine
somiglia alla cosa, ciò si deve al fatto che l'immagine è soltanto un segno formale . Percepire sotto forma
d'immagine, non significa dunque contemplare un'immagine, ma vedere l'oggetto stesso attraverso le
immagini che di esso e delle sue qualità noi ci formiamo 125. Ciò spiega inoltre, perché non vi sia nelle
immagini nulla di più che nelle sensazioni o percezioni. Il segno formale, per definizione (I, 39), non ha un
contenuto proprio. Perciò, quanto è dato ai sensi può trovarsi riprodotto nell'immaginazione e tutto quello
che è incorporato all'immagine ha sempre un'origine sensibile. Non si dà immagine, senza una sensazione.

175 - 2. EFFETTI DELLE IMMAGINI - Le immagini sono dunque dei fatti conoscitivi, al pari delle
sensazioni da cui risultano. Come le sensazioni, possono anche trovarsi accompagnate da stati affettivi
diversi, in quanto risvegliano i sentimenti o le emozioni provocati dalle sensazioni o percezioni originali.
Infine, hanno pure degli effetti motori: determinano, più o meno automaticamente, delle reazioni sia
fisiologiche (per esempio, l'immagine d'un cibo saporito fa venire «l'acquolina in bocca»), sia psicologiche
(inclinazioni, desiderio, ecc.), la cui importanza è capitale così nella vita psichica come nella vita morale.
Spessissimo, il segreto d'una buona sanità mentale e morale consiste prima di tutto nel dominare, mediante
sforzi d'inibizione volontaria, con la distrazione metodica o il lavoro, il naturale determinismo delle
immagini.

B. LA DISTINZIONE DELLE IMMAGINI E DELLE PERCEZIONI

124 Si allega talvolta, come esempio, l'immagine retinica per dimostrare che l'immagine è estesa. Ma l'immagine
retinica non è una realtà psichica, è una realtà fisica. L'immagine, in quanto fatto psichico (fatto di conoscenza) è
immateriale e inestesa. Tutta l'estensione che occupa è immaginaria.
125 Si può del resto far notare che se l'immagine fosse una cosa o una fotografia, non ci permetterebbe mai di
conoscere l'oggetto di cui sarebbe per ipotesi l'immagine, poiché l'immagine non potrebbe essere percepita che in una
immagine, e così via sino all'infinito.
106
176 - Il nostro modo di vedere suesposto ci permetterà di chiarire un problema che, per l'associazionismo,
rimane veramente insolubile, cioè il problema concernente la distinzione dell'immagine e della percezione 126.
Questo problema, infatti, è uno pseudo-problema. Facendo dell'immagine una cosa, oggetto diretto e
immediato della conoscenza, gli associazionisti sono costretti a chiedersi in qual modo, in quelle condizioni,
ci sia dato distinguere oggetti reali e oggetti immaginari. Poiché l'immagine è una cosa-oggetto, come mai vi
sono delle immagini che non sono altro che immagini? Senza dubbio, il fatto della distinzione è
psicologicamente ovvio; normalmente, non prendiamo mai delle immagini per delle percezioni. Ma come
spiegare questo fatto, che, dal punto di vista associazionistico, assume le proporzioni di un inverosimile
paradosso? Vedremo, studiando i criteri associazionistici della distinzione, che ogni differenza diventa
realmente impossibile.

177 - 1. CRITERIO DELL'INTENSITÀ - La differenza d'intensità tra la sensazione e l'immagine è


sembrata costituire un buon criterio di distinzione. Tutti gli psicologi lo hanno sottolineato dopo Hume, e
Spencer lo ha molto bene riassunto in questi termini: la sensazione è lo stato forte, l'immagine, lo stato
debole (Principles of Psychology, § 96). Normalmente, questa differenza è senz'altro una di quelle che ci
fanno distinguere, immediatamente e spontaneamente, il nostro mondo immaginario dal mondò della
percezione: le immagini, relativamente alle percezioni, hanno una realtà empirica indebolita, instabile e
come scolorita.
Tuttavia, questo criterio, da solo, sarebbe insufficiente in molti casi. Lo si è stabilito attraverso molteplici
esperienze, le quali non fanno che precisare le osservazioni comuni. Per esempio, quando un suono
diminuisce progressivamente d'intensità, c'è un punto in cui non si sa più se si tratta di una sensazione o di
una semplice immagine uditiva. Parimenti, vi sono dei casi in cui, dal punto di vista dell'intensità, le
immagini raggiungono il livello delle sensazioni e, inversamente, casi in cui le sensazioni scendono al livello
delle immagini127. Sembra perciò impossibile legare a questo criterio il sentimento così vivo e sicuro di
realtà o d'irrealtà che accompagna e distingue la percezione e l'immagine.

Converrebbe anche notare che questa discussione concernente il criterio d'intensità è puramente ad
hominem, perché non è realmente possibile, sotto questo aspetto, istituire un confronto tra immagine e
percezione. Qualunque sia l'intensità dell'immagine, questa si presenta come immagine, e qualunque sia la
debolezza intensiva della percezione, questa non cessa di offrirsi come percezione. I casi dubbi sono sempre
casi di transizione o casi-limite, che non comportano una vera confusione, ma esigono soltanto uno sforzo
più o meno laborioso per decidere se la percezione, sempre più evanescente e imprecisa, sia ancora reale o se
non si tratti più che di una persistenza delle impressioni uditive. Ad ogni modo, l'immagine non prolunga la
percezione, ma la soppianta in seno alla coscienza.

178 - 2. CRITERIO DELLA POVERTÀ INTRINSECA DELL'IMMAGINE - L'immagine è povera di


particolari. Essa tende verso una forma ora schematica, quasi astratta, ora verso una forma vaga e sbiadita,
ove il suo contenuto ondeggia in una specie d'indistinzione qualitativa, d'incoordinazione degli elementi
costitutivi. Un simile criterio è certamente molto usato in parecchi casi. Ma esistono dei casi abbastanza
numerosi in cui non può servire, cioè ogni volta che l'oggetto immaginato è anch' esso relativamente
semplice (ad esempio, uno sfumatura di colore, una forma geometrica elementare, un timbro di voce, ecc.).

La ragione essenziale di questa povertà intrinseca dell'immagine relativamente alla percezione, è il fatto
che l'immagine comporta sempre determinazioni in numero finito, mentre la percezione implica un numero
illimitato di determinazioni: un oggetto singolare è inesauribile e risulta avvolto in una rete di molteplici
rapporti. D'altra parte, contrariamente a quanto accade nella percezione, gli elementi dell'immagine possono
rimanere non coordinati tra loro; la sintesi di questi elementi è sempre debole e instabile.

3. CRITERIO DELL'INCOERENZA DELL'IMMAGINE COL REALE

126 Questo problema è, almeno in origine, più filosofico che psicologico. E' stato posto, infatti, dall'empirismo-
idealismo, che riduce l'universo ad un sistema d'immagini. Per filosofi come Hume, Taine, Bergson, si tratta allora di
sapere come mai, fra le immagini che costituiscono l'universo, alcune restino immagini e altre diventino percezioni.
127 Cfr. Spaier, La Pensée concrète, Parigi, 1927, p. 121: «Costantemente, i nostri occhi, le nostre orecchie, la nostra
bocca provano delle impressioni molto confuse, molto indistinte, alle quali non prestiamo affatto attenzione, sia perché
sono di origine troppo remota, sia perché, anche di fonte vicinissima, sono senza relazione diretta con la nostra
condotta».
107
a) Teoria della riduzione mediante verificazione. È questo, si dice, un criterio che sembra fra tutti il più
decisivo. Il più delle volte, l'immagine non può essere incorporata nell'insieme della realtà presente: se odo
una voce nel mio ufficio dove sono solo, l'immagine uditiva sarà immediatamente ridotta dall'assurdità del
suo oggettivarsi; l'ossessionante immagine olfattiva di chi percepisce un odore di gas sarà normalmente
cacciata dalla prova che non esiste fuga alcuna di gas. Usiamo spontaneamente questo criterio della
verificazione ogni volta che proviamo un qualsiasi dubbio intorno alla realtà delle nostre percezioni e che
siamo indotti a chiederci: «Sogno forse?». In questi vari casi, i criteri della differenza d'intensità e della
povertà intrinseca dell'immagine non sono evidentemente applicabili. Vale solo il criterio della verificazione,
che consiste prima di tutto (sia con l'aiuto dei sensi non interessati dall'immagine, sia con l'aiuto della
testimonianza altrui, sia col ragionamento) nel tentare di incorporare l'immagine nell'insieme della realtà
presente128. Il risultato negativo importa regolarmente la riduzione dell'immagine. Se nel sogno le immagini
appaiono oggettivate, la causa principale ne è l'assenza di mezzi di riduzione (162).

b) Discussione. Il criterio della verificazione è lungi tuttavia dall'avere la portata che gli si attribuisce. Da
un lato, infatti, ci sono, oltre il sonno, dei casi in cui la riduzione delle immagini è impossibile: ciò avviene
ogni volta che non si possono effettuare la verificazione o il controllo. Questo caso è frequente per le
immagini cenestesiche (malattie immaginarie, per esempio). D'altro lato, obiezione molto grave, il criterio
non può evidentemente essere qui (per ipotesi) che la coerenza delle rappresentazioni tra loro, e non già la
coerenza col mondo reale, poiché si tratta qui precisamente di discernere il reale. In altri termini, la nozione
di oggetto reale viene a ridursi a quella di sintesi coerente di immagini, il che non ci fa uscire dal mondo
della rappresentazione o della soggettività.

179 - 4. LA DISTINZIONE IMMEDIATA DELL'IMMAGINE E DELL'OGGETTO.

a) Fallimento di tutti i criteri. Tutti i criteri, in ultima analisi, falliscono allo scopo, e dovremmo concludere
che, psicologicamente, non esiste alcun mezzo certo e decisivo per distinguere l'immagine dalla percezione.
Non solo non è possibile una distinzione tra un'immagine isolata e una percezione isolata, ma non potremo
mai, con l'aiuto dei criteri precedenti, sapere se abbiamo a che fare con un mondo immaginario o con un
universo reale.

b) Trasposizione nel sogno. Inoltre, l'uso dei criteri invocati ci condurrebbe a confondere costantemente
percezioni vere con immagini. Ci trasporterebbe nel sogno. Infatti, innumerevoli percezioni non cessano
d'interferire in modo più o meno incoerente e bizzarro con le percezioni che attirano la nostra attenzione.
Tutto ciò che ci stupisce, ci meraviglia e manca di spiegazione immediata, per il fatto stesso dovrebbe essere
respinto nel mondo immaginario! Ora, questo non avviene assolutamente. L'assito del pavimento scricchiola:
non dubito della mia percezione. Incontro una persona che credevo morta: penso subito non ad un'immagine,
ma ad un errore da parte mia. Generalmente, anzi, è sempre la percezione a «possederci» e, anche se
inverosimile, la manteniamo contro tutto e contro tutti.
In tutti i casi che si obiettano (caso di verificazione, richiesta dalla domanda: «sogno forse?») non si tratta
di decidere tra un'immagine e una percezione, ma tra una percezione esatta e adeguata o una percezione
inesatta o inadeguata. Cfr. a questo proposito le giuste osservazioni di Sartre, L'imagination, Parigi, 1936, pp.
106-109.

180 - c) La distinzione immediata. Appare da ciò quanto d'insostenibile vi sia nella teoria dei criteri. Il
torto di questa teoria sta meno nel proporre criteri insufficienti che nel proporre criteri in un campo dove è
inutile qualsiasi criterio. Non abbiamo bisogno di alcun sistema di riferimento per distinguere l'immagine
dalla percezione. L'affermazione del reale non è il risultato d'un giudizio, come suppongono Cartesio e gli
idealisti, ma il risultato d'una intuizione immediata, che è quella d'una «genesi passiva» (come si esprime
Husserl), vale a dire d'una presentazione o d'una successione del tutto indipendente dalla coscienza 129.
128 Cfr. Spaier, La pensée concrète, p. 120: «Giudicando dell'accordo o del disaccordo di un dato sensibile sia con il
sistema del mio universo esteriore attuale, sia con quello della mia immaginazione (che ho imparato a distinguere dal
primo dopo lunghe, incessanti esperienze), facendo dei giudizi di paragone, di adeguazione, di inadeguazione, di
appartenenza, ecc., io posso classificare un'impressione tra le percezioni reali o tra le immagini».
129 Husserl, Cartésianische Meditationen und Pariser, Vortrage, L'Aia, 1950, ed. fr. Méditations cartesiennes, Parigi,
1931, p. 66. Kant, Critica della Ragion pura, Logica trascendentale, libro II, c. II. Confutazione dell'idealismo, aveva
già fatto osservare, contro la posizione idealista, che la distinzione tra l'immagine (fenomeno di spontaneità o di attività
creatrice) e la percezione (fenomeno di ricettività o di passività) era necessariamente immediata.
108
Parimenti, nessun dubbio è possibile per quanto riguarda la natura soggettiva dell'immagine: abbiamo qui un
dato primo, immediato e irriducibile, che è l'intuizione d'una «genesi attiva», vale a dire quella «di un io
generante, creante e costituènte con l'aiuto di atti specifici dell'io». (Husserl, op. cit.)130. Se mancasse questo
dato, mai nessun ragionamento né alcuna inferenza ci permetterebbero validamente di passare dal soggettivo
all'oggettivo e al reale.

Importa rilevare qui una difficoltà. Da una parte, l'immaginericordo sembra possedere le caratteristiche
della genesi passiva, poiché gli elementi s'implicano a vicenda e si associano come nella percezione.
Dall'altra, l'immagine-finzione (ad esempio, il Centauro, busto d'uomo, corpo di cavallo) può benissimo
risultare dalla combinazione di percezioni autentiche. Come distinguere l'immagine dalla percezione e la
percezione dall'immagine? In realtà, così formulata l'obiezione può valere solo se si supponga che
l'immagine sia il termine della conoscenza. L'obiezione non tocca la concezione dell'immagine come segno
formale. Infatti, nella percezione, la presentazione dell'oggetto è esistenziale e data nel senso (genesi
passiva), mentre nell’immaginazione, la presentazione non è data nel senso, ma generata dal di dentro
(genesi attiva). La distinzione delle due forme di presentazione è immediata, e l'immagine-ricordo non può
essere confusa con la percezione. Non sarebbe così se, termine della conoscenza essendo l'immagine,
bisognasse trovare nell'immagine stessa il modo per distinguere l'immaginerappresentazione dall'immagine-
percezione.

In effetti, come abbiamo visto (169), la realtà ontologica dell'immagine è molto diversa da quella della
percezione. Questa differenza tuttavia ha senso e valore solo se si parte dalla opposizione tra la coscienza
d'immagine e la coscienza di percezione. Supponendo, al contrario, che ogni coscienza sia coscienza
d'immagine, è chiaro che non si potrebbe mai passare validamente, senza circolo vizioso, dall'immagine alla
percezione.

C. PUÒ ESSERCI CONFUSIONE TRA IMMAGINE E PERCEZIONE?

181 - Le precedenti osservazioni ci inducono a chiederci come siano possibili (supponendo che siano reali)
i fatti di confusione dell'immagine con la percezione o della percezione con l'immagine, riferiti
correntemente dagli psicologi.

1. CONFUSIONE DELL'IMMAGINE CON LA PERCEZIONE - Tale confusione si produce in certi casi


morbosi (Janet, Obsessions et psychasthénies, t. I, p. 432), che rientrano nella categoria dei fatti di
allucinazione. Ma la confusione può esistere anche allo stato normale? Si citano qui la maggior parte dei casi
di «illusioni» che abbiamo già studiati, il che tenderebbe a fare della confusione tra sensazione e immagine
una specie di stato psichico abituale. Goldscheider allega, in questo senso, che la lettura consiste
nell'indovinare, cioè nell'immaginare gran parte delle parole componenti il testo che si ha sotto gli occhi.

Goldscheider ha tentato di calcolare il numero di lettere immaginate da un dato lettore. Per questo, ha
sperimentalmente stabilito il massimo numero di lettere che possono essere lette da un soggetto in un
determinato tempo, - poi il massimo numero di lettere che compongono le parole lette durante lo stesso
tempo. L'ultimo numero è di gran lunga superiore al primo.

Tuttavia possiamo chiederei se sia proprio giusto parlare qui di confusione tra immagine e sensazione.
Come nei casi di «illusioni» normali, ci troviamo davanti a casi che si spiegano con le leggi generali della
percezione. La lettura, come ogni altra percezione, è retta dalle leggi della forma: gli elementi (lettere e
parole) sono subordinate al tutto (dato dal senso generale). Perché vi sia vera confusione dell'immagine con
la sensazione, bisognerebbe che vi fossero delle sensazioni elementari e che si andasse dagli elementi al
tutto, per composizione o sintesi, cioè bisognerebbe ritornare alla teoria del mosaico, che è assurda.

130 Dal punto di vista psicologico, Ribot (Imagination créatrice, p. 92) tenta di negare la portata del sentimento di
realtà, pretendendo che tutto ciò che si offre alla conoscenza, si tratti di percezione o d'immagine, si presenta come reale
e che soltanto in un secondo tempo l'immagine viene a trovarsi spoglia della sua oggettività originale. (È esattamente la
teoria di Taine, L'Intelligence, t. I, p. 99). Questo è però un cavarsela con semplici parole. Bisognerebbe, infatti,
spiegare perché, in quelle condizioni, l'immagine si spogli della sua oggettività primitiva e naturale. La soluzione di
Ribot, come quella del Taine, non è che verbale: l'enunciato del problema (che è uno pseudoproblema) è presentato
come soluzione.
109
Gli importanti studi elettro-acustici del linguaggio condotti da A. Gemelli (Contributi del Laboratorio di
Biologia dell'Università del S. C., t. VII e X) portano alle stesse osservazioni. Queste esperienze dimostrano
che il linguaggio obbedisce ad una legge di struttura unitaria e che l'espressione vocale, da parte di chi
l'ascolta, non è semplice composizione di fonemi elementari, ma percezione d'organizzazione unitaria, in
seno alla quale gli elementi sono costantemente subordinati al tutto dato dal significato. Sotto questo aspetto,
non si può parlare di «confusione» tra immagini uditive e sensazioni uditive: come nella lettura, non vi sono
qui sensazioni o immagini elementari che possano ingenerare confusione tra loro.

182 - 2. CONFUSIONE DELLA SENSAZIONE CON L'IMMAGINE

- Si riporta qui il caso degli psicastenici i quali, in seguito ad un indebolimento morboso del senso del
reale, credono percepire tutto in una specie di sogno. (Janet, Obsessions et psychasthénies, t. I, p. 432).
Abbiamo visto, d'altra parte (167), che Bergson spiega l'illusione di falso riconoscimento con una
confusione della percezione con l'immagine, confusione risultante essa stessa dalla non attenzione alla vita.

3. CONCLUSIONE - Riassumendo, tutti i casi in cui si può con ragione parlare di confusione, nel senso
proprio della parola, sono casi patologici, e sono tali precisamente in quanto implicanti la confusione di cui
parliamo131, - il che equivale a dire, come per effetto d'una specie di controprova, che la distinzione tra
immagine e percezione è spontanea e immediata, senza mai comportare nessun intervento di giudizio o
d'inferenza qualsiasi. Evidenza, questa, che s'impone assolutamente e che ha grande valore dal punto di vista
filosofico.

Art. II - Fissazione e conservazione delle immagini


183 - Abbiamo a nostra disposizione un numero incalcolabile d'immagini. Possiamo «evocarle», più o
meno facilmente, secondo i bisogni del momento. Spesso ci ritornano pure dal fondo del passato, senza che
le «evochiamo» volontariamente, delle immagini che potevano sembrare definitivamente dimenticate. Le
immagini sono dunque fissate e conservate. Ma dove e come? Tale è il problema che dobbiamo ora discutere.

§ l - Fissazione delle immagini

A. DIFFICOLTÀ DELLA QUESTIONE

Si deve forse ammettere che tutte le sensazioni e percezioni si fissino nell'organismo psicofisiologico sotto
forma d'immagini e siano così suscettibili di venire rappresentate? Nello stato attuale delle ricerche
sperimentali non sembra che si possa fornire su questo punto una risposta sicura. Una simile incertezza
sembra dipendere, ben più che da un'insufficienza di dati positivi, dalla natura stessa dell'immagine e
dell'immaginazione.

1. NATURA DELL'IMMAGINE - Quando si parla d'immagine, si ha una forte tendenza, legata alle
abitudini del senso comune e alla influenza delle teorie associazionistiche, a pensare ad una «cosa», che
debba sussistere già fatta, invariabile e fissa, nell'organismo cerebrale. Ora, come vedremo più avanti, nulla è
meno esatto. L'immagine non è una cosa e la fissazione e conservazione delle immagini altro non
definiscono che un potere d'attuazione o una virtualità: potere d'attuazione e virtualità che, per definizione
stessa, non possono esser colti dall'esperienza, vertendo questa unicamente su atti, fatti o cose. Sappiamo
così che un'immagine è stata fissata e conservata quando siamo capaci di attuarla nuovamente. Ma la non-
attuazione non è mai una prova di non-conservazione o di non-fissazione.

2. NATURA DELL'IMMAGINAZIONE - Affinché un soggetto possa affermare di rivivere, sotto forma


d'immagine, una sensazione o percezione passata, occorre, non soltanto che l'immagine sia stata fissata e
conservata, ma che venga altresì riallacciata dal soggetto a un momento della sua passata esperienza.
Altrimenti, per quanto l'immagine sia stata fissata, il fatto della sua conservazione sfuggirà del tutto al
soggetto. Può inoltre succedere che vengano riprodotti soltanto gli elementi dissociati dell'immagine di un
oggetto complesso. L'oggetto, come il resto, sembrerà non esser mai stato percepito dal soggetto.

131 E avremmo inoltre dovuto far notare che la maggior parte degli psichiatri dubitano che la confusione sia veramente
totale.
110
Non vi è dunque una soluzione sperimentale sicura del problema dell'estensione della fissazione e della
conservazione delle immagini. Soltanto i fatti di ipermnesia indurrebbero ad ammettere almeno che la
fissazione e la conservazione delle immagini sono molto più estese di quello che non sembri di primo
acchito.

B. CONDIZIONI DI FISSAZIONE E DI CONSERVAZIONE

184 - L'esperienza c'insegna che le immagini non si fissano e non si conservano se non in un modo molto
variabile. Alcune immagini si fissano con una forza particolare e resistono stupendamente al tempo. Altre,
invece, fluttuano in una bruma indistinta e resistono ad ogni sforzo di precisa rappresentazione. Numerose
altre sembrano sommergersi in un profondo oblio. Donde provengono queste differenze?

1. FATTORI ORGANICI - È evidente che le condizioni organiche hanno la loro influenza. I fanciulli,
dotati d'una grande plasticità organica, fissano le immagini con maggior facilità dei vecchi. Se non le
conservano con eguale tenacità, ciò deriva soprattutto dalla mancanza di certe condizioni psicologiche
(attenzione e organizzazione logica in modo particolare), che compensano nell'adulto la diminuzione dei
mezzi organici. Tuttavia, quando nei fanciulli entra in campo la legge dell'interesse o quando le impressioni
sensibili hanno una particolare intensità, le immagini sono da essi fissate e conservate con notevole tenacità:
ciò spiega come il vecchio possa evocare con esatta fedeltà le immagini riferentisi agli anni giovanili, mentre
non è quasi più capace di fissare e di conservare immagini recenti.
Noteremo inoltre l'influenza dello stato fisico generale: la stanchezza, la debolezza nervosa attenuano più o
meno l'attitudine a fissare le immagini. In certi casi (psicastenie), le impressioni che vengono dal di fuori
arrivano così attenuate da non lasciare, per così dire, alcuna traccia dietro di sé.

185 - 2. FATTORI PSICOLOGICI - Si possono ridurre principalmente a due: l'intensità delle impressioni e
l'organizzazione.

a) L'intensità delle impressioni. Un'immagine si fissa e si conserva tanto più facilmente, quanto più viva è
stata l'impressione. A questa condizione si soddisfa con l’attenzione e l'esercizio.

L'attenzione all'esperienza dipende sia dalle reazioni affettive prodotte dall'impressione sensibile, - sia dal
giuoco della legge d'interesse (46), vale a dire dal rapporto dell'esperienza alle tendenze (istintive o
acquisite) del momento, o al contenuto attuale della coscienza, - sia infine da uno sforzo volontario che
obbliga la mente ad applicarsi ad un dato oggetto.

D'altra parte, l'esercizio, cioè l'evocazione ripetuta delle stesse immagini, è un valido fattore di
conservazione. L'esercizio e la ripetizione non sono propriamente dei fattori di fissazione, perché la
ripetizione della sensazione o della percezione non è richiesta per la formazione dell'immagine: se una sola
esperienza non bastasse e non lasciasse nulla dietro di sé, la seguente non sarebbe maggiormente efficace.
Ma normalmente non si conservano bene le immagini che mediante l'esercizio: il fanciullo sa benissimo che
dimenticherà la lezione che ha imparato a memoria (sotto forma di immagini verbali, visive e motrici) se sta
a lungo senza ripeterla. Il pianista che interrompe gli esercizi perde la sicurezza nella sua arte. Finalmente,
l'esercizio e la ripetizione, per essere perfettamente efficaci, implicano anch'essi l'osservanza di certe
condizioni, in modo particolare della legge dell'alternanza dell'esercizio con il riposo (71).

b) L'organizzazione delle immagini. Le immagini tanto meglio si fissano e si conservano, quanto più sono
legate tra loro da un nesso logico e organizzate in gruppi. Le varie mnemotecniche sono tutte basate sul
principio dell'organizzazione, il cui uso è del resto naturale e spontaneo. Ma è evidente che se
l'organizzazione spontanea delle immagini può essere un fattore di fissazione e di conservazione, è prima di
tutto l'intelligenza ad intervenire qui per organizzare il contenuto immaginativo della coscienza 132. Ciò spiega

132 Cfr. Paulhan, Activité mentale et éléments de l'esprit, Parigi, 1889, p. 68: «Quanto più un composto è fortemente
organizzato, più gli elementi ch'esso comprende sono strettamente legati gli uni agli altri, più considerevole è il numero
d'altri elementi ai quali questo composto è suscettibile di unirsi armoniosamente, tanto maggiori sono le possibilità di
svilupparsi o per lo meno di conservarsi».
111
come l'adulto, in cui la fissazione delle immagini non avviene più se non con difficoltà, compensi
quest'inferiorità con l'organizzazione razionale del proprio materiale immaginativo 133.

§ 2 - Condizioni generali dell'immaginazione

A. NATURA E SENSO DEL PROBLEMA

186 – 1. LA QUESTIONE CIRCA LA «SEDE DELLE IMMAGINI» - Le immagini, diciamo, si fissano e


si conservano. Senonché queste sono unicamente metafore, ricorrendo alle quali sembriamo trattare le
immagini come cose o, almeno, come lastre fotografiche. Spontaneamente, il senso comune ci orienta verso
un siffatto realismo, che pone la questione della «sede delle immagini». Ma se ne scorgono subito le
difficoltà. Le immagini non si trovano nel cervello come delle schede in uno schedario. Anzi, si può dire che
risiedano «nel cervello»? Comunque sia, è certo che in un qualche modo le immagini vengono fissate e
conservate: sono per così dire registrate, poi, spesso dopo lungo tempo, quando sembrerebbero del tutto
sparite dalla coscienza, eccole «evocate» con una chiarezza straordinaria. Sono dunque rimaste. Ma dove e
come, cioè a quali condizioni? Tale è il problema della «sede delle immagini», che non ha senso se non
intendendolo come il problema delle condizioni generali dell'immaginazione.

2. SENSO DEL PROBLEMA - L'espressione «sede delle immagini» può intendersi in due modi, che
occorre distinguere. Anzitutto, ci si può chiedere, nello stesso senso in cui si parlava di «sede della
sensazione» (91), quali siano gli organi che servono alla formazione dell'immagine attuale. Poi, sotto un
altro aspetto, si può cercare di determinare quali siano le condizioni fisiologiche che garantiscono la
conservazione delle immagini allo stato di latenza. Tali sono i due problemi che dobbiamo esaminare.

B. CONDIZIONI FISIOLOGICHE DELLA FORMAZIONE DELLE IMMAGINI

187 – I. IL CERVELLO, ORGANO DELL'IMMAGINAZIONE - Si tratta di sapere quali siano le


condizioni fisiologiche da cui dipende la formazione delle immagini. O, in altri termini, qual'è l'organo
dell'immaginazione? Sono gli organi sensori periferici o i centri sensori corticali, o i due insieme?
Una soluzione spesso proposta consiste nel dire che l'immagine, non essendo altro che una «sensazione
reviviscente», deve avere le stesse condizioni fisiologiche della sensazione corrispondente, servirsi delle
stesse vie nervose e dipendere dagli stessi centri. Ma quanto abbiamo studiato intorno all'immagine e
specialmente le osservazioni da noi fatte più sopra (170) riguardanti la nozione dell'immagine in quanto
reviviscenza della sensazione, bastano a dimostrare che questa soluzione è insieme a priori e in contrasto con
i dati sperimentali. Infatti, l'immagine non è la sensazione e neppure assomiglia, a rigor di termini, alla
sensazione. Può dunque avere le sue condizioni fisiologiche particolari. È quanto dimostrano i dati di fatto
che inducono a situare la sede della sensazione nell'organo periferico (94), e la sede dell'immagine nel
cervello.
L'immagine sembra dipendere essenzialmente dal cervello. Tutte le esperienze di scerebrazione, come pure
i casi di amnesia o di disordine del regime delle immagini, susseguenti alle lesioni cerebrali, dimostrano
chiaramente che l'organo dell'immaginazione è il cervello.

Abbiamo già fatto notare (63) che la distruzione dell'area striata comporta la scomparsa di ogni specie
d'immagine visiva, luminosa o cromatica (cecità corticale), mentre la perdita degli organi periferici della
vista lascia sussistere la possibilità di formare immagini visive. Similmente, si sa che i soggetti privati
accidentalmente di un senso, a causa della perdita dell'organo corrispondente, sono sempre capaci di formare
delle immagini riguardanti gli oggetti propri di questo senso. Il sordo forma delle immagini uditive
(Beethoven compone qualche sua opera dopo essere diventato sordo. Stesso caso per Fabriel Fauré). Si
possono anche citare gli effetti psichici della paralisi generale (determinata da profonde lesioni del cervello,
che vanno progressivamente dai lobi frontali ai lobi occipitali): questi effetti consistono in disturbi sempre
più gravi del regime delle immagini. Cfr. R. Maliet, La Démence, Parigi, 1935, pp. 98-99: «Sappiamo già che
cosa sia la paralisi generale sotto l'aspetto mentale [...]. Il delirio stupisce per la sua inconsistenza, le idee
sono associate contraddittoriamente, sono mobili e il loro carattere di assurdità si afferma rapidamente».
Finalmente, terzo ordine di osservazioni: il fanciullo, nei primi mesi, sembra ridotto ai riflessi elementari,

133 Cfr. Koffka, Principles of Gestalt Psychology, Londra, 1936, p. 506-508.


112
senza capacità di formare immagini o, comunque, di conservarle e riprodurle, il che troverebbe la
spiegazione nell'insufficiente formazione della massa corticale.

188 - 2. ESISTONO DEI CENTRI D'IMMAGINI? - Si può essere ancora più precisi ed assegnare alle
varie specie d'immagini dei centri cerebrali distinti? Questa domanda pone il problema delle localizzazioni
cerebrali, che abbiamo già studiato nella sua forma generale (63-67) e che non riprenderemo qui. Basterà
ricordare che le sole strutture sono localizzabili, nel senso proprio della parola, e che le funzioni non sono
rigorosamente legate a queste strutture, il che basterebbe a rendere molto improbabile l'esistenza di centri di
immagini specializzati.
Si può ancora aggiungere che la fissità dei centri d'immagini specializzati condurrebbe a risultati molto
strani. Siccome ogni oggetto è un complesso d'immagini sensibili di diverse specie, esso non potrebbe essere
conservato che a condizione d'essere distribuito in centri diversi. Ma, di più, la rappresentazione dell'oggetto
in forma d'immagine diventerebbe rigorosamente impossibile, questa rappresentazione implicherebbe una
previa ricostruzione dell'immagine complessa a cominciare dagli elementi sensibili conservati da centri
diversi, ricostruzione che sarebbe inattuabile, poiché non ci sarebbe nulla per dirigerla. Perciò, l'ipotesi di
centri d'immagini determinati è contraria ai fatti e insieme poco intelligibile in sé.

C. CONDIZIONI FISIOLOGICHE DELLA CONSERVAZIONE DELLE IMMAGINI

189 - Sono state proposte parecchie soluzioni intorno alla questione circa la sede delle immagini latenti.

1. TEORIA PSICOLOGICA - H. Bergson ammette che, fra le immagini, alcune, immagini-abitudini o


motrici, costituenti propriamente la memoria-motrice, si conserverebbero nel cervello, mentre le altre,
immagini-ricordi (rappresentazioni pure o ricordi puri) sussisterebbero nel subcosciente, dove sarebbero
costantemente conservate e sospinte dall'attenzione alla vita; il rilassamento di questa (come nel sonno o
nello stato di fantasticheria) sortirebbe l'effetto di lasciare affluire i ricordi dal subcosciente alla coscienza.
(Cfr. Bergson, Matière et Mémoire pp. 152-153; Énergie spirituelle, pp. 58-59).

Per illustrare la sua


teoria, Bergson si
serve di un cono
rovesciato S A B (Fig.
10) il cui vertice S, che
rappresenta ad ogni
istante il presente, non
cessa di avanzare e
nello stesso tempo di
toccare il piano mobile
P raffigurante la
rappresentazione
attuale dell'universo.
Siccome il corpo (che
è esso pure una mia
immagine) è il luogo
di passaggio dei
movimenti ricevuti
dalle altre immagini e
rimandati in esse, vale
a dire la sede dei
fenomeni sensori-
motori e quindi la parte costantemente presente e rinascente delle mie rappresentazioni, il vertice S del cono
simboleggia l'unione della memoria-ricordo e della memoria-abitudine. Si comprende allora come la vita
psicologica oscilli incessantemente dal piano dell'azione P al piano del sogno, costituito dalla base AB del
cono, dove si trovano i ricordi puri (ricordi svincolati dalle immagini e senza immediato rapporto con
l'azione). Quanto più la coscienza si avvicina al piano dell'azione, tanto più la memoria è limitata.
Inversamente, quanto più ci disinteressiamo dell'azione, tanto più la memoria si dilata. Il sonno, naturale o
artificiale, provocando questo disinteressamento, apre un campo illimitato al sogno, che è il trionfo del
113
ricordo puro, inutile o indifferente. «Vivere nel presente puro, rispondere ad un'eccitazione con una reazione
immediata che la prolunga, è proprio d'un animale inferiore: l'uomo che agisce in tal modo è un impulsivo.
Ma non è meglio adattato all'azione colui che vive nel passato per il piacere di viverci, e nel quale i ricordi
emergono alla luce della coscienza senza profitto per la situazione attuale: non è più un impulsivo, ma un
sognatore. Tra questi due estremi sta la felice disposizione d'una memoria così docile da seguire con
precisione i contorni della situazione presente, ma così energica da resistere. ad ogni altro richiamo. Il buon
senso, o senso pratico, non è probabilmente altra cosa». (Matière et Mémoire, pp. 166-167).

Una simile teoria va incontro a parecchie difficoltà. Anzitutto, tende a trasformare le immagini in cose e la
subcoscienza in una specie di recipiente. Inoltre, la distinzione così netta tra immagini-motrici e immagini-
ricordo o rappresentazione sembra piuttosto discutibile. Ogni rappresentazione sensibile, pare, è legata, nella
sua formazione e nella sua riproduzione, a meccanismi fisiologici, come pure non c'è meccanismo motore
senza rappresentazione sensibile134. Bergson avrebbe il torto di distinguere due specie d'immagini, quando in
realtà non si dovrebbero distinguere che degli aspetti diversi dell'immagine. Quanto poi a ciò che si
conserva, non sono, a rigor di termini, né le immagini, né i meccanismi, ma la capacità o la facoltà di
riprodurre le immagini degli oggetti antecedentemente percepiti.

190 - 2. TEORIE FISIOLOGICHE - Certe teorie fisiologiche non fanno che esagerare il realismo
dell'immagine, facendo del cervello un serbatoio d'immagini già fatte, che aspettano passivamente di venire
utilizzate. Ogni sensazione lascerebbe, nei centri corticali, una traccia ben definita (Cartesio parla di
«pieghe»), che, per eccitazione interna, sarebbe suscettibile di far rinascere sotto forma d'immagine la
sensazione primitiva. Per quel che concerne la natura di questa «traccia», si sono proposte varie ipotesi.
Hartley parla di «vibrazioni», Moleschott di «fosforescenze», altri di «impronte» (come sulla cera) o di
alterazione chimica della sostanza nervosa. Alcuni psicologi, come James, stanno per la formazione di vie
nervose e di sistemi di vie nervose. Insomma, tutte queste teorie sono più o meno dipendenti dalla
concezione dei centri d'immagini che abbiamo discussa più sopra.
Come per la formazione delle immagini, così per la loro conservazione non sono ammissibili dei centri
fissi e rigidi di immagini 135. Ciò non significa tuttavia che si debba rinunciare ad assegnare all'immagine
delle condizioni fisiologiche. È incerta la natura di queste, non la loro realtà. Perciò si può anche parlare di
una «sede delle immagini», a condizione che non si intenda con ciò un serbatoio di immagini già formate,
ma soltanto l'esistenza d'un potere di riproduzione o di attuazione delle immagini, condizionato nel suo
esercizio a strutture cerebrali e a modificazioni organiche di cui ignoriamo finora la natura.

§ 3 - Immagini e immaginazione

A. L'IMMAGINAZIONE COME FUNZIONE PSICHICA

191 - Enunceremo ora le conclusioni che risultano dalle considerazioni precedenti: conclusioni che
scarteranno tutte una concezione materialistica, «cosista», dell'immagine.

1. LE IMMAGINI NON SONO COSE - Non insisteremo troppo su questo punto, che è capitale, e su
quanto esso implica. Se l'immagine non è una cosa, essa non esiste realmente quando non è formata in atto.
Diremo soltanto che esiste in potenza, cioè nella e per la facoltà che abbiamo di formularla. La
conservazione delle immagini dipende strettamente da questa facoltà.
D'altronde e per ciò stesso, riprodurre un'immagine non è mai far rinascere una vecchia immagine, che
sarebbe continuata ad esistere, inerte e nascosta nella coscienza, ma esattamente formare un'immagine nuova
ed inedita. Non significa neppure far rinascere una sensazione.
Una simile espressione, spesso usata, non può avere che un senso metaforico, perché la sensazione o la
percezione appartengono al passato e non possono «rinascere»: se rinascessero, non. si parlerebbe più

134 Le osservazioni di casi patologici stabiliscono che i disturbi funzionali del cervello in conseguenza di lesioni
corticali interessano non soltanto la motricità (o «memoria-abitudine» bergsoniana), ma anche il potere di formare le
immagini («immagini-ricordo»).
135 Le osservazioni sui fatti d'amnesia retrograda (perdita dei ricordi del passato) hanno definitivamente smantellato la
concezione di centri conservatori di immagini già fatte. Nell'afasia, per esempio, le immagini verbali non scompaiono a
blocchi, corrispondenti a delle masse di cellule distrutte, ma progressivamente e secondo un ordine determinato (legge
di Ribot): le prime a scomparire sono le ultime acquisite; le parole usuali non scompaiono che in ultimo.
114
d'immagine, ma di percezione e di sensazione. L'immaginazione consiste solo nel fare «rinascere» l'oggetto
davanti allo sguardo della mente, senza il previo intervento della sensazione e della percezione.
Finalmente, il contenuto dell'immagine (o la materia dell'immagine), che è il dato sensibile, non è neppure
esso sensibile e materiale. Anzi, come si è visto sopra (174) questo contenuto che è rappresentativamente
sensibile e materiale, è in sé (o entitativamente) immateriale e inesteso.

192 - 2. L'IMMAGINE NON È CIÒ CHE È CONOSCIUTO Tutte le rassomiglianze tra l'immagine e
l'oggetto non possono far dimenticare la loro differenza essenziale, che è, per l'oggetto, d'essere ciò che si
conosce e, per l'immagine, ciò per cui si conosce o si riconosce un oggetto. L'immagine non è dunque il
termine della conoscenza (salvo il caso di conoscenza riflessiva o introspezione), ma il segno formale
dell'oggetto.
Diciamo «segno formale» (I, 39) per escludere ogni concezione che basasse su un giudizio il passaggio
dall'immagine all'oggetto, facendo dell'immagine un segno strumentale, a partire dal quale, percepito per
primo, si arriverebbe all'oggetto. Una simile concezione ci riporterebbe a quella della immagine-cosa, che il
pensiero dovrebbe decifrare e interpretare, il che è inintelligibile e contrario all'esperienza. In effetti, non
dobbiamo passare dall'immagine alla cosa, poiché è la cosa stessa (presente esistenzialmente o soltanto data
rappresentativamente) che percepiamo nell'immagine e attraverso l'immagine. Per questo diciamo che
l'immagine ha una funzione di segno formale, o, in altri termini, non è una cosa nella coscienza, ma una
forma stessa della coscienza.

193 - 3. L'IMMAGINAZIONE - Tutte le teorie che trasformano le immagini in cose sono elaborate per
escludere l'immagine e cedono all'illusione di poter spiegare il moto con i muscoli, i fenomeni vitali con le
cellule e il mondo con gli atomi. In realtà, è l'immaginazione a spiegare le immagini, non le immagini a
spiegare l'immaginazione, allo stesso modo che è lo psichismo a spiegare il cervello e non viceversa.
Si potrebbe senz'altro obiettare che l'appellarsi qui all'immaginazione-facoltà ci fornisce una soluzione
puramente verbale, come sarebbe quella di spiegare il sonno per mezzo della proprietà sonnifera dell'oppio.
Ma non si tratta di render ragione del meccanismo della formazione e della riproduzione delle immagini, al
che evidentemente il ricorso alla facoltà immaginativa non servirebbe a nulla. Si tratta soltanto di
sottolineare il fatto che le immagini non sono per nulla delle cose indipendenti, degli atomi psichici, le cui
varie combinazioni possano spiegare tutto lo psichismo 136, concezione che deriva da un'illusione assoluta,
poiché, senza questo psichismo e i suoi vari poteri o facoltà, non vi sarebbero né immagini, né pensiero, né
coscienza. Il ricorso all'immaginazione non è dunque, in questo caso, altro che l'affermazione, imposta dai
fatti, di una concezione funzionale e finalistica contro l'atomismo associazionistico, e del vitalismo contro la
concezione meccanicistica della vita (II, 120-127).

194 - 4. LA QUESTIONE DELLE «IMMAGINI SCHEMATICHE» - Gli psicologi insistono molto sul
fatto che le immagini tendono a rivestire una forma «schematica e astratta», che rappresenta piuttosto un
significato che un oggetto. A questo proposito parlano dell'«impoverimento delle immagini», che si
spiegherebbe con la molteplicità delle impressioni provenienti da oggetti analoghi (cfr. Taine, De
l'intelligence, t. I, c. II): le immagini finirebbero con lo sbiadirsi o velarsi e col formare così una «immagine
generica».
Il fatto delle «immagini schematiche» è certissimo. La spiegazione meccanica del loro formarsi per
sovrapposizione o per l'usura risultante dal mutuo contatto 137 non ha evidentemente nessun senso. Se le
immagini non sono cose inerti giacenti nel cervello, né fotografie inscritte nelle pieghe della corteccia
cerebrale, non si comprende come potrebbero subire le trasformazioni meccaniche supposte dagli
associazionisti. In realtà, il nostro studio sulla percezione può orientarci verso la soluzione di questo
problema. Se percepire è cogliere il significato d'un oggetto o d'una struttura, (145), quel che
l'immaginazione riterrà, sarà prima di tutto la struttura o la forma che definisce codesto significato. Non

136 Cfr. il testo seguente di Binet, tanto più singolare in quanto al momento in cui scriveva queste righe, Binet aveva
rinunciato all'associazionismo atomistico della prima metà della sua carriera: «(La psicologia) studia un certo numero di
leggi che chiamiamo mentali [...] le quali, a rigor di termini, non meritano il nome di mentali, poiché sono [...] leggi che
concernono le immagini, e le immagini sono elementi materiali». (L'àme et le corps, Parigi, 1908, p. 113).
137 La spiegazione mediante la sovrapposizione, come il termine d'immagine generica, è presa dai lavori ben noti di
Galton (Statistics of mental Imagery, («Mind», 1880), Inquiries into human faculties, 1885) sulle fotografie composite.
Sovrapponendo diverse fotografie della stessa persona, Galton dimostra che si ottiene una specie d'immagine
schematizzata di quella persona.
115
abbiamo «immagini generiche» nel senso inteso dagli associazionisti, ma immagini di strutture e di forme,
quali furono le nostre percezioni. Perciò non c'è motivo di parlare in questo caso di «impoverimento delle
immagini» e nemmeno di «elaborazione delle immagini». Non c'è impoverimento, dal momento che la
percezione ci dà delle strutture e delle forme e non degli elementi individuali, non elaborazione, poiché il
dato è tale nell'immagine quale nella percezione.

Queste espressioni, per essere esatte, dovrebbero, se mai, intendersi in tutt'altro senso, cioè nel senso che,
da un lato, lo schema immaginistico riveste l'aspetto essenzialmente povero che conviene alla ri-
presentazione d'una struttura e alla sua funzione simbolica o significativa, - e dall'altro, il dato immaginistico
non fa che ri-presentare l'oggetto della percezione, ma sotto l'aspetto che gli spetta come ad immagine. In
altri termini, non c'è impoverimento o elaborazione per effetto d'un lavorio operato sull'immagine come su
una cosa nella coscienza, ma passaggio dalla forma percepita alla forma immaginata - la quale è, per sua
natura, povera e sbiadita e di genere diverso dalla prima.
Tutto ciò è vero anche per quella che si chiama immagine individuale. Queste immagini sono
semplicemente rappresentazioni formali munite di qualche segno individuale caratteristico. Infatti, si sa per
esperienza che ci contentiamo di questa o quella caratteristica individuale, tant'è vero che le nostre stesse
immagini individuali sono «schematiche e astratte» o, per meglio dire, formali e strutturali.
Si può inoltre rilevare che l'immagine, non soltanto tende a non ritenere che questa o quella caratteristica
individuale (quel sorriso di Giovanni; quel suo modo di muover le spalle mentre cammina), ma anche
schematizza o «generalizza» le sue caratteristiche individuali: il sorriso, così caratteristico, di Giovanni, non
è quello che ho osservato questa mattina, o ieri, o l'estate scorsa, ma, in genere, se così si può dire, il sorriso
proprio di Giovanni.

5. LA PERCEZIONE ANIMALE - Si può così spiegare l'immaginazione nell'animale. L'animale


percepisce, come dimostra la legge della costanza relativa (144). È capace di formarsi delle immagini
schematiche e astratte? Ci chiediamo, in tal caso, come potrebbe riconoscere gli oggetti senza far uso di un
giudizio propriamente intellettuale. È più semplice, sembra, pensare che percepisca anch'esso delle strutture
e delle forme che implicano l'equivalente d'un significato («giudizio» del senso comune) 138 e che le immagini
che si forma degli oggetti siano anch'esse strutturali e formali 139.

195 - 6. LA «VITA DELLE IMMAGINI» - È evidente che si debba risolutamente scartare ogni concezione
atomistica della vita delle immagini. Le immagini sono delle unità che si debbano unire le une con le altre
nella coscienza o nel cervello, in virtù di leggi meccaniche, che si debbano impoverire per il non uso, o per il
contatto, che si debbano fondere insieme, ecc. Potremmo così fare a meno dell'immaginazione, allo stesso
modo che, con gli elementi corticali, si farebbe a meno dell'intelligenza e, coi muscoli e i tendini, non si
saprebbe che cosa fare della vita! La verità è che le trasformazioni cui le immagini sono sottoposte
manifestano l'attività vitale del soggetto, il quale si serve delle immagini, non come un conservatore di musei
che si studi di mantenere inalterate e intatte, e senza smarrirne alcuna, tutte le tele affidategli, ma secondo i
propri bisogni, le proprie tendenze e le esigenze della legge di risparmio e d'interesse.

B. LA MOTRICITÀ DELLE IMMAGINI


196 - Lo studio della vita affettiva ci avvierà alla considerazione dei fenomeni motori, interni ed esterni.
Vedremo, infatti, che ogni stato affettivo comporta qualche risonanza organica. Ma senza affrontare una
simile questione, dobbiamo fin d'ora rilevare il carattere motorio delle rappresentazioni sensibili, percezioni
e immagini. Questo carattere è espresso da due specie di leggi: legge di diffusione e legge della motricità
specifica140.

1. LEGGE DI DIFFUSIONE - Questa legge è stata enunciata da Bain sotto questa forma: «Ogni fatto di
coscienza determina un movimento e questo movimento s'irradia in tutto il corpo e in ogni sua parte».
(Émotions et Volonté, trad. fr., p. 4). James aggiunge una legge d'inibizione, che non è che un corollario della
legge di diffusione: «Le onde nervose determinate dal fatto di coscienza possono talvolta interferire con le
vecchie onde, interferenza che si traduce al di fuori con l'inibizione di qualche movimento». (Principles of

138 Si dirà, in termini più tecnici, che la relazione di significato è soltanto esercitata o vissuta, ma non conosciuta.
139 È quanto ha messo in risalto L. Verlaine (Le psychisme et ses degrés chez les animaux, negli «Annales de la
Société royale zoologique de Belgique», 1936). L'animale, egli dice, reagisce, non a sensazioni, ma a qualità formali.
140 Cfr. Woodworth. Le mouvement, p. 268 sgg. - W. James, Principles of Psychology; trad. fr., p. 32, 36 e sgg.
116
Psychology, tr. fr., p. 492). La stessa legge della motricità non è che una determinazione di queste leggi
generali.

197 - LEGGE DELLA MOTRICITÀ SPECIFICA - Questa legge si formula nel modo seguente: «Ogni
conoscenza sensibile (percezione o immagine) ha un effetto motorio specifico». Le prove sperimentali sono
numerose. Si possono raggruppare in due categorie: quella delle reazioni abituali o istintive (caso dell'azione
ideo-motrice), e quella delle attuazioni immediate d'immagini motrici.

a) Azione ideo-motrice. Odo uno scoppio e volgo subito la testa nella direzione del rumore. Scorgo una
macchia sul mio vestito e tosto mi accingo a farla sparire. Incontro un amico e gli tendo la mano. Passo sotto
un ciliegio e il mio braccio si alza per cogliere una ciliegia. Penso ad un tratto che è l'ora di fare una visita ed
eccomi già in piedi per partire. Tutti questi atti sono compiuti automaticamente come risposte ad una
rappresentazione. Si spiegano in modi diversi: ora è il meccanismo dell'abitudine, ora un istinto o
un'inclinazione che entrano in ballo. Ma in ogni caso sono le rappresentazioni sensibili (percezioni o
immagini) che servono da stimoli, fanno scattare il movimento e in corso d'esecuzione, l'adattano
costantemente alle varie situazioni.

b) La riproduzione immediata delle immagini motrici. La seconda serie di fatti concerne tutti i casi in cui
un'immagine motrice qualsiasi determini, se non l'esecuzione, almeno l'abbozzo del movimento
rappresentato. Chiedete a qualcuno di spiegarvi che cosa sia una scala a chiocciola: questi farà con la mano il
gesto di salire a spirale. Gli spettatori d'una partita di calcio abbozzano tutti i gesti dei giocatori. È stato
riscontrato che il pensiero d'una sillaba agisce sui muscoli della fonazione; si tratta di movimenti molto
deboli, ma suscettibili di essere registrati da un apparecchio sensibilissimo. Si sa che il fanciullo spesso
riproduce volta per volta (e non per «istinto», come sovente si dice) quei gesti che vede fare. Similmente,
sono noti i casi di contagio degli sbadigli, del riso incontenibile. Si possono ancora citare i casi degli
anormali, nei quali il restringersi poco o tanto del campo della coscienza fa sì che l'impulso motorio
dell'immagine, non incontrando quasi più ostacoli, agisca in piena libertà e determini le manifestazioni
esterne più o meno strane. Tale è il caso dell'uomo che parla ad alta voce a che gesticola nel bel mezzo della
strada, rivolgendosi ad un invisibile testimone, dell'ossesso soggetto a tic incontenibili, dell'uomo affetto da
ecolalia (ripetizione meccaniche delle parole o dell'ultima parte delle parole udite), ecc. Inversamente, nei
casi di aprassia, di afasia motoria, di paralisi isterica, l'assenza di certe immagini rende impossibile
l'esecuzione dei movimenti corrispondenti141.

c) Le reazioni motrici come sostituti delle immagini. Questo caso è l'inverso di quello costituito dalla
motricità specifica dell'immagine: ogni reazione motrice o sensazione cinestesica può servire da sostituto ad
una immagine.
Gli psicologi hanno insistito in modo particolare sugli effetti motori delle rappresentazioni sensibili. Ma ci
si può chiedere, inversamente, se le sensazioni cinestesiche non abbiano una qualche parte nella formazione
delle immagini. Dwelshauvers sottolinea il fatto in questi termini: bisogna ammettere l'esistenza di immagini
mentali che sono la traduzione cosciente di atteggiamenti muscolari. «Questi atteggiamenti non sono
percepiti dal soggetto, ma suscitano nel soggetto un'immagine molto diversa da quello che sono. In altre
parole, succede che la genesi delle nostre immagini mentali sia la seguente: 1) Idea d'un movimento da
compiere. 2) Atteggiamento muscolare che oggettiva codesta idea, codesta intenzione motrice, senza che il
soggetto si renda conto della sua reazione motrice, del suo atteggiamento in quanto tale. 3) Immagine
provocata nella coscienza come registrazione della reazione motrice e qualitativamente diversa dagli
elementi stessi della reazione». (Dwelshauvers, Les mécanismes subconscients, Parigi, 1925).
Come spiegare questi fatti? Secondo l'interpretazione corrente (adottata da Dwelshauvers), la reazione
motrice evocherebbe l'immagine. Ma è difficile ammettere questa evocazione, se la reazione motrice non è
cosciente. Quando il movimento è cosciente, si possono dare due casi. Primo caso: il movimento avviene a
caso. Per esempio, traccio in aria con l'indice, e gli occhi chiusi, una figura qualsiasi, non prevista: la figura
che sto per tracciare, io la colgo in certo qual modo all'estremità del mio indice. Non c'è tuttavia percezione
visiva, poiché chiudo gli occhi e la figura non è data per intero simultaneamente. Tutto si riduce dunque a
sensazioni cinestesiche, ma tali che, riferendosi esse ad una forma visiva, funzionano come sostituti delle
impressioni visive142.

141 J. De La Vaissière, Éléments de Psychologie e:xpérimentale, I, p. 191-200.


117
Secondo caso: il movimento vien fatto in seguito ad un'intenzione preconcetta. Per esempio, voglio
descrivere una scala a chiocciola o un cammino da percorrere attraverso le vie della città. La funzione del
gesto è allora quella di fornire una specie di concretezza visiva, cioè dare una forma sensibile (schematica) a
una nozione.
Il fatto che il movimento sia atto a far cogliere le forme, le posizioni degli oggetti, i loro spostamenti nello
spazio, spiega come spesso, per il semplice effetto dell'idea d'un movimento da produrre, delle sensazioni
cinestesiche o reazioni motrici (movimenti dei globi oculari nelle orbite, gesti o atteggiamenti muscolari
talvolta impercettibilmente abbozzati), diverse da quelle che sarebbero effettivamente date dal movimento, se
fosse eseguito, - possano avere la funzione di sostituti o simboli delle rappresentazioni immaginate 143.
Art. III - L'associazione delle idee
§ l - Nozioni generali

198 – I. DEFINIZIONE - Si definisce generalmente l'associazione delle idee come il fenomeno


psicologico per cui si stabiliscono delle relazioni spontanee tra stati di coscienza, in modo che la presenza di
uno stato di coscienza, detto induttore, ne richiami quasi automaticamente un altro, detto indotto. In realtà,
una simile definizione è piuttosto la formula d'un problema che l'enunciato d'un processo psicologico. Si
vuol sapere, in effetti, se i fatti di relazione, che sono certi, possano realmente spiegarsi con l'associazione
meccanica degli stati di coscienza o delle immagini. È proprio la tesi degli associazionisti, ma una tesi delle
più discutibili. Per non pregiudicare nulla, basterebbe dire che l'associazione delle idee (prendendo la parola
«idee» in un senso molto lato, che racchiude percezioni, immagini rappresentative, impressioni effettive e
idee propriamente dette) è il fenomeno per cui degli stati psichici si manifestano spontaneamente alla
coscienza come legati fra di loro.
La spontaneità è dunque la caratteristica dell'associazione e ciò che la distingue dalle relazioni riflesse che
stabiliamo attivamente tra immagini o idee. Ciò non esclude evidentemente che degli stati associati abbiano
tra loro dei rapporti logici, ma solo che l'associazione attuale risulti dalla considerazione riflessa e volontaria
di tali rapporti.

199 - 2. STORIA DEL PROBLEMA DELL'ASSOCIAZIONE - A più riprese, in Logica e Cosmologia (I,
192; II, 52) e soprattutto in Psicologia, abbiamo dovuto criticare le concezioni meccanicistiche e
atomistiche che un'intera scuola moderna, da Hume in poi, ha elaborate intorno al fatto dell'associazione
delle idee. Queste critiche non implicano affatto che noi neghiamo la realtà dell'associazione. Questa, del
resto, non è stata scoperta dai moderni: Aristotele, nel De Memoria, ne aveva già fatto osservare il
meccanismo (somiglianza, contrarietà e contiguità) 144. Hume non fa che riprendere l'enumerazione di
Aristotele (Essays Concerning Human Understanding, III), salvo che sostituisce alla contiguità la causalità,
la quale, del resto, riducendosi alla successione invariabile, non è che una forma della contiguità. Questa
classificazione è stata accettata con diverse varianti da tutti gli empiristi inglesi (James e Stuart Mill, Bain,
Spencer) e dalla maggior parte degli psicologi del XIX secolo. Tuttavia, gli Scozzesi (Reid, Dugald-Stewart,
Hamilton) hanno cercato di dar conto dei fatti di associazione, non più ricorrendo alle affinità soggettive

142 Queste sensazioni cinestetiche non sono soltanto quelle fornite dagli elementi muscolari della mano, del braccio,
della spalla interessate dal tracciato dell'indice nello spazio, ma anche (anzi, soprattutto) quelle risultanti, sotto le
palpebre chiuse, dai movimenti dei globi oculari che seguono, per così dire, il tracciato o la corsa dell'indice.
143 Cfr. Burloud, La Pensée d'après les recherches expérimentales de Watt, de Messer et de Buhler, Parigi, 1927, p. 7l:
«Qualcosa di questo simbolismo si ritrova nelle rappresentazioni motorie che accompagnano il lavoro di pensiero. Le
rappresentazioni sono così oscure che i soggetti non sanno sempre se sono immagini o sensazioni di movimenti. Lo
sguardo che spazia attorno, la testa che si muove avanti e indietro, nella ricerca; «una specie di sensazione simbolica di
un inchino del capo, nell'assentimento»; «una pressione convulsiva delle mascelle insieme con sensazioni (o
rappresentazioni) simboliche come quando si allontana la testa da qualche cosa, nello scacciare un pensiero» [...]: tutti
questi fenomeni accompagnano i processi intellettuali ed emozionali. I soggetti sono per lo più incapaci di dire con
esattezza se hanno coscienza di atteggiamenti o atteggiamenti della coscienza» (cfr. Sartre, L'Imaginaire, p. 98-110).
144 De Memoria, c. II, 451 b, 18-20. Cfr. S. Tommaso, In de Memoria et Reminiscentia, lect. V, n. 364 (Pirotta):
«Similiter etiam quandoque reminiscitur aliquis incipiens ab aliqua re cujus memoratur, a qua procedit ad aliam, triplici
ratione. Quandoque quidem ratione similitudinis, sicut quando aliquid aliquis memoratur de Socrate et per hoc occurrit
ei Plato, qui est similis ei in sapientia. Quandoque vero ratione contrarietatis, sicut si aliquis memoretur Hectoris et per
hoc occurrit ei Achilles. Quandoque vero ratione propinquitatis cujuscumque, sicut cum aliquis memor est patris et per
hoc occurrit ei filius. Et eadem ratio est de quacumque alia propinquitate vel societatis, vel loci, vel temporis, et propter
hoc fit reminiscentia, quia motus horum se invicem consequuntur».
118
degli elementi psichici, cioè al puro meccanismo, ma alle affinità oggettive o affinità risultanti dai rapporti,
essenziali o accidentali, tra gli oggetti stessi. Finalmente, verso la fine del secolo XIX e all'inizio del XX,
numerosi psicologi (in modo particolare Ribot, Hoffding, Paulhan) convenendo che l'associazionismo puro
era impotente a render ragione della vita psichica, si sforzarono di costituire una psicologia sintetica, nella
quale le leggi dell'associazione non sarebbero che un aspetto o un modo della tendenza sintetica o sistematica
della coscienza. Oggi, la Scuola della Forma e numerosi psicologi al di fuori di questa Scuola, contestano
fortemente la realtà delle pretese leggi dell'associazione delle idee e si sforzano di dare una spiegazione più
adeguata dei fatti di relazione e d'organizzazione.

200 - 3. I DIVERSI PROBLEMI - È evidente che si debbano distinguere parecchi problemi diversi. Il
primo concerne il valore delle leggi formulate dagli associazionisti. Il fatto dell'associazione, infatti, non è
necessariamente legato a queste leggi, che dipendono molto più dall'interpretazione che dalla
sperimentazione. Il secondo problema consisterà nel definire la natura del processo d'associazione e nel
determinare se tale processo sia realmente irriducibile e costituisca una funzione originale della coscienza.
Da ultimo, un terzo problema si riferirà, non alle associazioni di diritto, ossia alle possibilità d'associazione,
ma alle associazioni di fatto, e mirerà a precisare le cause esplicative delle associazioni che si producono in
una data situazione psichica.

§ 2 - L'associazionismo

A. LE LEGGI DELL'ASSOCIAZIONE

201 - 1 LEGGE DI SIMILARITÀ - Gli oggetti che si rassomigliano sono soggetti a richiamarsi
scambievolmente. Per similarità, bisogna intendere qui dei rapporti di similitudine sia oggettivi (il fatto, per
esempio, che due persone abbiano due caratteri fisici simili: una «fa pensare» all'altra), sia soggettivi, cioè
stabiliti da un soggetto tra oggetti diversi, a causa delle impressioni simili da essi destate (casi di
«sinestesia»: audizione colorata o, viceversa, colori sonori).
La formula di queste sinestesie o sinopsie fu data da Baudelaire (Les Fleurs du Mal, sonetto delle
«Correspondances»):

Comme de longs échos qui de loin se confondent


En une ténébreuse et profonde unité,
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

È noto come Debussy (Préludes, I, n. 4) abbia tentato di tradurre in atto questa corrispondenza mediante le
armonie e i timbri. È altrettanto famoso il Sonetto delle vocali di Rimbaud:

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu, voyelles, Je dirai quelque jour vos naissances latentes...

Questi fenomeni di sinestesie hanno avuto delle spiegazioni piuttosto diverse. La più comune consiste
nell'attribuire la corrispondenza al fatto che colori e suoni, per esempio, determinano uno stato emotivo
comune. L'associazione avverrebbe appunto col favore di questo stato. (Cfr. J. De La Vaissière, Éléments de
Psychologie expérimentale, p. 141-144).

2. LEGGE DI CONTRASTO - Due rappresentazioni contrastanti hanno tendenza a richiamarsi


scambievolmente. Pensiamo naturalmente per antitesi (grande e piccolo, bianco e nero, generoso e avaro,
debole e forte, chiaro e scuro, ricco e povero, ecc.). La ragione di questo processo sembra essere che,
praticamente, conosciamo meno le cose in sé che per opposizione ai loro contrari.

202 - 3. LEGGE DI CONTIGUITÀ - Due o più rappresentazioni tendono a richiamarsi scambievolmente,


quando siano state contigue, ossia simultanee o in successione immediata. Tali sono le innumerevoli
associazioni tra segni naturali o convenzionali e cose significate (lacrime-dolore, fumofuoco, freccia-
direzione, amo-pesca-pesce, parole-senso delle parole, ecc.).
La stessa legge di contiguità spiega come siano evocate da un'immagine le circostanze dell'esperienza
originale: l'incontro d'un compagno di vacanze fa sorgere le immagini relative alle passeggiate fatte insieme,
119
ecc. Perciò Hamilton chiama questa legge, legge di reintegrazione, cioè che ha la proprietà di ricostruire il
tutto partendo da uno degli elementi. Il recitare a memoria è in gran parte basato su questo fatto.

B. RIDUZIONE

203 - Queste tre leggi, secondo la teoria associazionistica, possono essere ridotte a due, che sarebbero
irriducibili, vale a dire alle leggi di associazione per similarità e contiguità. Questa riduzione è indiscutibile.
Ma può e deve essere spinta oltre, perché i principi stessi dell'associazionismo inducono a ridurre la
similarità alla contiguità, e questa all'inerzia, che è caratteristica della materia (II, 85).

1. RIDUZIONE DEL CONTRASTO ALLA SIMILARITÀ - Il contrasto si riduce alla similarità, perché
non può esserci contrasto (o contrarietà) se non tra soggetti della stessa specie (I, 47): percepire un
contrasto significa dunque percepire una somiglianza. C'è contrasto tra bianco e nero, tra rotondo e quadrato,
ma non tra bianco e quadrato, né tra nero e avaro.

2. RIDUZIONE DELLA SIMILARITÀ ALLA CONTIGUITÀ - Gli associazionisti (Bain, Sens et


Intelligence, p. 522-528) non vogliono ammettere questa riduzione. Ma, quelle che essi fanno a questo
proposito, sono obiezioni surrettizie tratte da concezioni del tutto diverse dalla loro. Se si eliminano i fattori
intellettuali e volitivi, come vuole l'ipotesi associazionistica, la quale, spiegando l'intelligenza con
l'associazione, non può evidentemente ricorrere all'intelligenza per render conto dell'associazione, la
similarità si riduce rigorosamente alla contiguità. In effetti, la similarità è un rapporto accessibile soltanto
alla mente che istituisce un paragone e che giudica. Elementi, quali le immagini-atomi degli associazionisti,
sono assolutamente incapaci di dominare l'insieme ch'essi compongono, per trarne delle somiglianze. In
mezzo a cose, può valere solamente la contiguità meccanica, e per delle immagini rassomigliarsi non è altro
che entrare in qualche modo in contatto.
Tutto ciò, del resto, è stato stabilito sperimentalmente. Foucault (L'association par ressemblance, «Année
psychologique», t. X, p. 338 seg.) ha dimostrato che la similarità non ha per sé, e fuori di un giudizio, alcun
valore associativo, vale a dire che l'associazione per similarità non può effettuarsi se non per mezzo d'un
termine intermedio (concetto) che conviene a ciascuna immagine.

Kohler (Gestalt Psychology, p. 216-220) riferisce numerose esperienze consone a quelle di Foucault.
Dimostra egualmente che le esperienze di Ebbinghaus per mezzo di sillabe prive di senso sono state male
interpretate. Ebbinghaus pronunciava davanti ad un soggetto delle sillabe che non avevano alcun senso e gli
chiedeva di ripeterle subito dopo; avendo riscontrato che le sillabe più ripetute erano quelle che avevano una
o più lettere comuni, da ciò inferiva l'efficacia della similarità per l'associazione. In realtà, i soggetti
associavano le sillabe, non ricevendole passivamente (come sarebbe stato necessario), ma sforzandosi di
apprenderle, cioè di raggrupparle. Non la somiglianza in sé, dunque, ma l'attività mentale era alla base
dell'associazione. D'altronde, è corrente l'esperienza inversa: si sa come si associno più facilmente le parole
che hanno un senso di quelle che non ne hanno.
L'associazione per similarità è dunque un processo intellettuale, esattamente come le associazioni di
contrario a contrario (contrasto), di mezzo a fine, di causa ad effetto, di parte a tutto, ecc. Quindi, sopprimete
l'intervento dei fattori intellettuali, non resterà più altro mezzo di associazione possibile, se non il contatto o
la contiguità.
Ciò equivale a dire che gli animali non possono associare in altro modo. Il «criterio» della coscienza
sensibile è essenzialmente quello del contatto, e il suo «giudizio» è un giudizio di vicinanza o di lontananza.
San Tommaso (In De Anima, III, lect. XII, n. 768 e 773) paragona il sensus communis (64) ad un centro ove
convergono tutti i raggi.

204 - 3. RIDUZIONE DELLA CONTIGUITÀ ALL'INERZIA Finalmente, l'associazionismo riduce tutta


l'attività psicologica alla sola legge dell'inerzia. Il che è perfettamente logico, poiché se tutto si riduce a
immagini e combinazioni d'immagini, e se le immagini sono cose sensibili, la causa prima dell'associazione
non potrà essere che il principio meccanico della inerzia. Infatti, come spiegare che le immagini nascano,
scompaiano e rinascano? In esse non c'è nulla che possa giustificare questo movimento, allo stesso modo che
non si può spiegare l'andirivieni delle palle sul biliardo con le palle stesse. Se le immagini sono evocate e
respinte, ciò può avvenire soltanto attraverso una spinta esterna, che introduce movimento e cambiamento
nei contenuti psichici. Un urto, uno «choc», fa apparire un'immagine, poi altre immagini, per trasmissione
del movimento iniziale; un altro urto le fa scomparire.
120

C. DISCUSSIONE

205 - 1. LA MATERIALIZZAZIONE DELLA COSCIENZA - È ormai evidentissimo che la coscienza,


per 1'associazionismo, non è altro che il mondo delle cose. In un simile universo, non si possono dare che
rapporti di contiguità tra oggetti le cui relazioni, governate dalla legge d'inerzia, sono puramente esterne. È
precisamente il concetto cartesiano che riprendono qui gli associazionisti, salvo che Cartesio invocava
specialmente la contiguità delle tracce cerebrali o delle impronte lasciate dagli oggetti 145, mentre Hume fa
ricorso alla contiguità tra gli oggetti stessi. Ma, nel XIX secolo, la contiguità delle tracce cerebrali, per gli
associazionisti, servirà di nuovo come spiegazione fisiologica dei fatti di associazione.

Nella sua forma più comune, la teoria delle tracce consiste nel supporre che l'eccitazione complessa,
arrivando alla corteccia, abbia tendenza a diffondervisi. Tale diffusione incontra una resistenza che varia
secondo gli elementi da essa raggiunti e che diventa minima quando tocca elementi nervosi che stanno
funzionando in quel momento o hanno funzionato poco prima. Questi elementi nervosi provocano
l'eccitazione. La ripetizione di questo processo ha per risultato di formare delle vie nervose, che
incanaleranno l'eccitazione e le impediranno sempre più di diffondersi e disperdersi.

206 - 2. MECCANICISMO E MATERIALISMO - È chiaro che questa concezione è di natura filosofica e


sfocia, implicitamente almeno, nel materialismo più radicale. Nella misura in cui uno spiritualismo pretende
sopravvivere ad una teoria di tal genere, non v'è altro ripiego che quello di ammettere che le idee da sole
costituiscano un universo parallelo all'universo delle immagini. Il problema, specificamente cartesiano,
consisterà allora nel trovare un legame o un passaggio tra il mondo dell'estensione e il mondo del pensiero,
ossia, in termini psicologici, tra le idee e le immagini. Ritroveremo questo problema quando studieremo la
vita intellettuale. In quanto alla soluzione associazionistica, essa è consistita nella soppressione di uno dei
due termini, col fare della coscienza un epifenomeno (13), il che equivale, con sufficiente consequenzialità
logica, a optare per il materialismo puro.

3. DIFFICOLTÀ INTRINSECHE DELL'ASSOCIAZIONISMO Stando al tema centrale


dell'associazionismo, si può dimostrare come questa teoria urti in ostacoli insormontabili. Infatti, se tutto si
riducesse alla legge d'inerzia, avremmo sempre le stesse associazioni, perché l'inerzia esclude il nuovo; essa
è essenzialmente la legge del medesimo. Ora, la coscienza ci appare invece come strumento di scelta, di
novità e d'invenzione, vale a dire che qui è all'opera una vera spontaneità (proprio il contrario dell'inerzia).
Inoltre, la contiguità permette di andare in qualsiasi senso: se l'inizio d'un verso ne richiama la fine, questa
dovrebbe richiamarne l'inizio, il che non succede. Gli associazionisti obiettano che neppure l'abitudine è
reversibile. E su questo siamo d'accordo. Ma per l'appunto l'abitudine, come abbiamo visto (69), non è
riducibile all'inerzia. D'altra parte, come giustamente fa osservare Kohler (Gestalt Psychology, p. 215),
l'associazione per semplice contiguità è qualcosa di particolare, senza nessunissimo equivalente nella natura,
dove i fenomeni sono legati tra loro, non semplicemente per il fatto del loro contatto o della loro
coincidenza, ma per il fatto delle loro proprietà. Infine, la somiglianza e la contiguità degli elementi sono
così lungi dal poter costituire dei complessi che senza la percezione del tutto non avremmo alcuna possibilità
di notarli; gli elementi non farebbero parte dello stesso mondo e non vi sarebbe né somiglianza né contiguità.

È in considerazione di questa grave obiezione che l'associazionismo ha proposto di sostituire alla


spiegazione fisiologica dell'associazione mediante le tracce o vie nervose, adattata alla pura contiguità, uno
schema che tenesse conto della qualità o natura delle eccitazioni. Al posto della rete omogenea e indifferente
di una volta, si è immaginata una rete eterogenea, i cui elementi hanno il loro proprio modo o ritmo di
funzionamento, suscettibile di variazione entro certi limiti. Secondo questa teoria, l'associazione risulterebbe
da una specie di sintonia o di accordo di quei diversi modi o ritmi e potrebbe essere paragonata al fenomeno
fisico della risonanza. È evidente tuttavia che si tratta qui soltanto di una complicazione che non modifica in
nulla il regime meccanico dell'associazione. Ora, ciò che si discute è appunto questo regime e non l'una o
l'altra delle sue modalità.

D. LA TEORIA SCOZZESE

145 Cfr. Passions de l'ame, I.a parte, c. XLII, in Oeuvres de D., a cura di Adam e Tannery, II voll., Parigi, 1897-1909.
121
207 – 1. I RAPPORTI OGGETTIVI - Pur ammettendo la realtà dei fatti d'associazione, Hamilton e
Dugald-Stewart hanno proposto di cercare la spiegazione di questi fatti, non in leggi che governassero
immediatamente le rappresentazioni, ma nei rapporti oggettivi delle cose stesse.
Questi rapporti possono essere sia essenziali (rapporti di causa a effetto, di principio a conseguenza, di
mezzo a fine, ecc.), sia accidentali (rapporti di segno a cosa significata, di somiglianza e di contrasto, di
simultaneità temporale o di successione, di contiguità spaziale, ecc.). Di qui, due forme di associazione: le
associazioni essenziali o logiche, che sono alla base dei ragionamenti, argomentazioni o inferenze
immediate, e le associazioni accidentali, che dipendono da circostanze contingenti.
La legge generale di tutte queste associazioni sarebbe la seguente: ogni stato di coscienza è suscettibile di
richiamare qualsiasi altro stato di coscienza col quale abbia dei rapporti.

208 - DISCUSSIONE

a) Princìpi soggettivi e princìpi oggettivi. Gli associazionisti sono soliti obiettare alla teoria scozzese che
essa confonde i princìpi oggettivi e logici di connessione con i princìpi soggettivi di associazione, gli unici
che contino e che non siano necessariamente razionali. Ma una simile obiezione non è che una petizione di
principio, perché suppone che le immagini si associno meccanicamente, mentre è appunto di questo che si
sta discutendo. In realtà, si vuol sapere se non siano dei rapporti oggettivi, razionali o no, a istituire la
connessione delle immagini nella coscienza. La Scuola scozzese lo afferma e, sembra, con ragione, poiché se
le immagini sono associate nella coscienza, è necessario che, in un modo o nell'altro, i loro rapporti siano
stati percepiti e compresi.

b) La teoria scozzese fa capo al meccanicismo. La precedente osservazione non concerne che la


formazione delle connessioni e ammette implicitamente che una volta formate, in base a rapporti
oggettivamente dati, esse entrino automaticamente in funzione e determinino la mutua evocazione delle
immagini: è questa la tesi essenziale dell'associazionismo.
In realtà, il distinguere le associazioni in essenziali e accidentali non fa che palliare la difficoltà. Infatti, le
associazioni essenziali altro non sono che la forma dell' attività razionale e logica e si considerano solo
impropriamente come associazioni. L'automatismo, che sembra caratterizzare l'associazione, quale è
ammessa dagli Scozzesi, in esse non c'è; c'è invece, e al massimo grado, quella spontaneità intellettuale che è
il segno dell'intelligenza e della libertà. Non restano quindi, come associazioni autentiche, se non quelle che
gli Scozzesi chiamano accidentali. Ora, per spiegarle, la Scuola scozzese deve ricadere nelle leggi
dell'associazionismo, poiché parlare di «rapporti» (fossero pure rapporti oggettivi), nel campo
dell'accidentale e del contingente, come abbiamo visto, è lo stesso che parlare di contiguità e di contatto. In
fondo e nonostante le apparenze, la teoria scozzese non è che una teoria derivata ibridamente
dall'associazionismo meccanicista.

La tesi sviluppata da Paulhan, nella sua opera sull'attività mentale, urta contro la stessa obiezione. Paulhan,
infatti, pensa che si potrebbero mantenere le associazioni per similarità e contrasto, a condizioni: che si
ammetta la realtà di una funzione di sintesi, capace di percepire le differenze e le somiglianze, che sono dei
rapporti e non delle cose. «Questa armonia vivente, egli scrive, questa sistematizzazione sempre all'opera,
questa direzione generale che determina l'evoluzione e la dissoluzione, la messa in attività dei fenomeni
psichici più o meno complessi, è la mente stessa (p. 455)». Perciò, secondo Paulhan, l'entrata in vigore delle
leggi d'associazione delle immagini sarebbe subordinata a due leggi generali dell'attività psichica. Legge
dell'associazione sistematica: «Ogni fatto psichico tende ad associarsi e a far nascere i fatti psichici che
possono armonizzare con esso [...], i quali, con esso, possono formare un sistema». Legge d'inibizione o
d'arresto (p. 220): «Ogni fenomeno psichico tende ad impedire di prodursi, a impedire di svilupparsi o a far
sparire i fenomeni psichici che non possono unirsi ad esso secondo la legge di associazione sistematica, ossia
che non possono unirsi con esso per un fine comune». Finché si tratti di attività razionale, si può spiegare
così la formazione o la dissociazione delle associazioni. Ma, una volta formate, rimane da spiegare il loro
funzionamento. Bisognerà o ricorrere ancora alle leggi enunciate da Paulhan e, in questo caso, tutto si riduce
all'attività mentale volontaria, vale a dire che non vi è associazione propriamente detta, oppure abbandonare
le associazioni al puro meccanismo delle immagini. Sembra che Paulhan non abbia scelto tra queste due
concezioni, ma che l'associazionismo da lui conservato nel suo sistema l'orienti verso una teoria meccanica
della mente. (Cfr. p. 220: «questa legge [...] esprime il risultato di quella lotta per l'esistenza incessante e
accanita, di cui la mente è il teatro e i sistemi psichici, gli attori»).
122
Bisognerebbe fare le stesse osservazioni a proposito di tutti i tentativi di Psicologia sintetica escogitati da
Ribot in poi. Messi in guardia dall'insuccesso dell'atomismo associazionistico, alcuni psicologi (Ribot,
Paulhan, Binet, Meyerson, James, Delacroix, Spaier, ecc.) credettero correggere o emendare
l'associazionismo aggiungendo agli elementi psichici un principio di sintesi, spirito, pensiero, coscienza, ecc.
Il problema consisteva allora nello spiegare il rapporto delle due serie, una sottomessa al meccanismo, l'altra
al di fuori di questo meccanismo. È il problema dell'anima e del corpo che riappare in termini cartesiani
(estensione e pensiero senza possibile comunicazione) e la cui soluzione è altrettanto poco concepibile qui
come nel cartesianesimo, dove si trattava di comprendere come il puro pensiero potesse dirigere gli spiriti
animali.

§ 2 - Natura del processo di associazione

A. L'ORGANIZZAZIONE E LA SISTEMATIZZAZIONE

209 - Quanto abbiamo detto dimostra chiaramente che, ormai, non è questa o quella forma di
associazionismo che è posta in questione, ma lo stesso associazionismo. Infatti, questa concezione,
supponendo degli «elementi» psichici, delle immagini-atomi, cioè delle cose nella coscienza, è
necessariamente meccanicistica. Se dunque il meccanicismo non trova posto nella coscienza, bisogna
rinunciare all'associazionismo146.
Non si tratta, d'altra parte, di ritornare alle «associazioni essenziali» degli Scozzesi. Sono fuori questione,
perché non sono delle associazioni. Ogni unione non è associazione: lo sono soltanto quelle accidentali, cioè
quelle che formano un tutto accidentale (I, 52), composto di elementi simultanei o immediatamente
successivi. Come spiegare i fatti così numerosi di presentazione globale e sintetica alla coscienza, al
richiamo d'una parte del complesso? Vedremo che tutto si spiega qui, senza ricorrere a nessun
concatenamento meccanicistico d'immagini, con le stesse leggi di organizzazione e di sistematizzazione che
abbiamo visto operanti nella percezione, e che ritroveremo nella memoria, vale a dire col dinamismo interno
delle forme e strutture.

210 – 1. L'ORGANIZZAZIONE . - L'organizzazione è la forma stessa della percezione, che va


spontaneamente alle forme e alle strutture e subordina a queste la comprensione degli elementi, di modo che
ogni percezione distinta di elementi implica riferimento di questi elementi alle forme e alle strutture nelle
quali essi sono suscettibili d'inserirsi, il che equivale a dire che, con un'apprensione spontanea, è il tutto ad
esser colto nella parte e sono le proprietà o la funzione degli elementi ad esser colte nel tutto. Non è il caso
di insistere su questo carattere della nostra attività percettiva, il quale è stato sufficientemente stabilito dal
nostro studio sulla percezione e le sue leggi; sottolineeremo soltanto le conseguenze che ne risultano dal
punto di vista dell'associazione.

a) Ogni immagine è già organizzazione. La prima conseguenza è che ogni immagine, provenendo dalla
percezione (169), è già come tale un tutto organico. Non si richiede formazione di sintesi con immagini-
atomi, come invano tentano di fare i teorici della «psicologia sintetica», poiché le immagini sono
necessariamente legate a delle forme e a delle strutture 147. Per questo stesso fatto, ogni presentazione
immaginistica di un elemento o di una parte di un tutto qualsiasi (simultaneo o successivo) implicherà la
rappresentazione immaginistica della struttura o del tutto col quale l'immagine fa corpo. È quanto esprime,
in termini associazionistici, la legge di reintegrazione di Hamilton: «Quando due o più idee hanno fatto parte
dello stesso atto integrale di conoscenza, ognuna di esse suggerisce naturalmente le altre». In realtà, non vi è
«evocazione» delle immagini le une tramite le altre, ma bensì apprensione del tutto nell'elemento,
dell'insieme nella parte, conformemente ai processi di segregazione e d'integrazione. Non sono più dunque le
immagini a determinarsi mutuamente, grazie ad un lavoro meccanico, ma solo la percezione o

146 Cfr. Koffka, Principles of Gestalt Psychology, pp. 556-571, 586-589.


147. Hoffding, Psykologi i Omrids paa Grundlag af Erfaring, Copenaghen, 1881; Lineamenti di psicologia sulla base
dell' esperienza. tr. it., Milano, 1913, ha voluto distinguere immagini implicate, ossia legate ad una sensazione e
formanti corpo con essa, e immagini libere, cioè staccate dalla totalità di cui facevano originariamente parte. Ma questa
distinzione non pare avere un valore sperimentale. Ogni immagine è implicata in una struttura, reale o fittizia.
L'immagine libera di Hoffding e della psicologia sintetica non è altro che la sensazione pura dell'atomismo psicologico.
È una limitazione o un'astrazione, presa arbitrariamente per una cosa o una forma.
123
l'immaginazione a mettersi in esercizio secondo le proprie esigenze, conformi alle esigenze del reale, che è
fatto di sistemi, di strutture e di forme, e non di cose indipendenti e di unità discrete.

211 - b) Le strutture precedono gli elementi come tali. È dunque esattamente l'opposto di quanto suppone
l'associazionismo, e questo vale per l'immaginazione come per la percezione (142-145). Si sa infatti che
ogni sforzo di richiamo si basa sulla rappresentazione (chiara o confusa) di una forma o di un tutto;
parimenti, l'atto d'imparare a memoria (e di recitare a memoria) consiste nel formare quel che Bergson ha
chiamato degli «schemi dinamici» (Énergie spirituelle, p. 172), ossia delle strutture. Il verso, sotto questo
aspetto, è particolarmente favorevole, date le qualità motrici della sua forma: sapere dei versi a memoria
significa ben più avere l'immagine del loro movimento e del loro ritmo che non delle parole di cui son fatti.
Notiamo inoltre, con Kohler (Gestalt Psychology, Londra, 1930, p. 210-212) che una figura non è più
riconosciuta non appena che, gli stimoli (cioè gli elementi) rimanendo rigorosamente gli stessi, viene mutata
la loro disposizione relativa, e inversamente, una figura è facilmente riconoscibile, quando non ne sia mutata
la struttura, nonostante le profonde modifiche introdotte negli elementi.

Si possono confrontare su un esempio classico le due interpretazioni. Cerco un nome che ho dimenticato.
L'interpretazione associazionistica del processo di richiamo consiste nel dire che «l'associazione propone una
lunga serie di nomi che il mio pensiero eliminerà, se sono falsi, per non ritenere che quello vero». Ma, da un
lato, come potrei riconoscere quello vero, se già non lo conoscessi? Dall'altro, questa «associazione che
propone» è una strana macchina, che sembra funzionare da sola e, di più, in un senso determinato! Tutto ciò
è arbitrario e non riposa che su una finzione. In realtà, lo sforzo della coscienza mira a riempire la forma
(verbale, visiva o motrice, poco importa) ove s'inserisce il nome dimenticato e procede a vari tentativi; i
quali sono tutti guidati dall'immaginazione più o meno precisa della struttura del nome. È come dire che il
nome è già noto (per la sua forma o la sua struttura), altrimenti come potrebbe essere riconosciuto? e nello
stesso tempo è veramente dimenticato quanto al suo contenuto elementare. Si comprende pure perché
spessissimo il nome finalmente ritrovato sia più o meno gravemente alterato nei suoi elementi: una stessa
struttura è compatibile con una certa varietà di elementi.

212 - 2. LA SISTEMATIZZAZIONE - La sistematizzazione è la sorgente del maggior numero delle nuove


associazioni, che sono il frutto di un'invenzione. L'organizzazione, infatti, concerne gli oggetti come strutture
e come complessi, la sistematizzazione è relativa ai rapporti tra oggetti e all'unità funzionale dei complessi.
Non ci interessano qui i sistemi logici, poiché abbiamo visto ch'essi non forniscono delle associazioni
propriamente dette, ma i rapporti accidentali stabiliti attivamente dalla mente tra oggetti diversi. La
spontaneità della mente si manifesta al massimo grado in quegli accostamenti, quelle invenzioni di simboli,
quegli aggiustamenti di forme, che costituiscono il campo specifico delle arti e quello proprio
dell'immaginazione creatrice. Gli associazionisti non hanno avuto torto di estendere fin là il campo
dell'associazione, poiché le arti e le scienze ne sono tributarie. Il loro errore è stato di volere spiegare
meccanicamente questo sfruttamento spontaneo delle somiglianze e dei contrasti. Ciò che è qui all'opera è,
applicata al mondo delle forme e delle qualità, la potenza di sistematizzazione della mente.

È ovvio che, negli animali, l'associazione non dipende che dalla organizzazione, la sistematizzazione
essendo propriamente umana. Ma, come nell'uomo così nell'animale, non è il caso di supporre un
funzionamento meccanico delle «leggi dell'associazione delle immagini». Non sarebbero più intelligibili in
quest'ultimo che nel primo. Abbiamo visto (194) che gli animali, come l'uomo, hanno a che fare con degli
oggetti. Il loro universo, come il nostro, è anzitutto un universo di cose e di forme. La loro percezione, come
dimostra la legge di costanza relativa, è dunque una percezione di forme e di complessi. (Cfr. le numerose
esperienze concernenti la memoria, motrice o visiva, negli animali: esperienze di Thorndike per mezzo di
labirinti, e di scatole truccate, di Lubbock sul cane Van, di Porter su dei passerotti (posti davanti a dieci
recipienti simili, di cui uno solo contiene alimenti), di Piéron sui molluschi, ecc. Ved. Piéron, L'évolution de
la mémoire, Parigi, 1910). Perciò, l'associazione, come per l'uomo così per l'animale, non è evocazione
meccanica d'immagini-atomi le une attraverso le altre, ma percezione per immagini del tutto complesso
nell'elemento. La vista del bastone non evoca, nel cane, l'immagine sgradevole di bastonate sul groppone, ma
non fa che una sola immagine con le bastonate sul groppone. In altri termini, il processo non è: bastone =
bastonate sul groppone, ma bastone-bastonate-sul groppone, che forma un tutt'uno.

B. I FATTORI DI CONTIGUITÀ E DI SIMILARITÀ


124
Rifiutare la teoria associazionistica non significa evidentemente escludere l'associazione, che è un fatto. Si
trattava di dimostrare che le leggi più generali del processo associativo, quali le abbiamo definite, non hanno
nulla di meccanico e si limitano a manifestare il dinamismo d'una coscienza le cui tendenze o intenzioni si
dirigono spontaneamente ad oggetti, cioè a strutture e a complessi. Questo ci permetterà di conferire il giusto
valore ai fattori di contiguità e di similarità, spogli ormai di quel carattere meccanico attribuito loro dalle
teorie associazionistiche.

213 - 1. CONTIGUITÀ - L'entrata in vigore della legge d'organizzazione, nella fissazione dei gruppi
associativi, dipende sicuramente dal fattore della contiguità, poiché i complessi sono complessi, simultanei o
successivi, i cui elementi, per definizione, sono dati in serie spaziali o temporali. Tuttavia, l'organizzazione
implica anche come condizione essenziale che le connessioni così percepite formino delle vere sintesi e dei
complessi organici. Questo fatto gli associazionisti non l'hanno compreso ed esso ristabilisce, contro la loro
teoria meccanicistica, il compito attivo della coscienza.

2. SIMILARITÀ - La similarità (o analogia) è il fattore messo in opera dalla sistematizzazione, che rende
ragione della costituzione spontanea o dell'invenzione riflessa di quelli che potremmo chiamare i complessi
logici, in opposizione ai complessi concreti formati dal funzionamento della legge di organizzazione. Si
tratta senz'altro, anche qui, di strutture concrete, ma le cui forme risultano, non più semplicemente dalle
coincidenze spazio-temporali, ma dalla percezione di rapporti astratti.
Anche qui, l'associazionismo falsava il compito della similarità conferendole un carattere puramente
meccanico. In realtà, il suo intervento, che è certo, e di grande importanza, mette in opera la stessa attività
della mente, da cui dipende, ad un livello superiore, la formazione dei generi e delle specie.

Se si tratterà di spiegare in che modo, tra la massa delle sistematizzazioni possibili, si formino di fatto
certi sistemi associativi e in che modo questi o quei gruppi associativi risultino di fatto evocati, converrà
ricorrere ai fattori soggettivi, cioè alle circostanze concrete dell'attività individuale e alla azione della legge
d'interesse. Quanto alle circostanze, P. Janet stabilisce (L'automatisme psychologique, p. 20 sgg.) che «gli
stati di coscienza passata si riproducono di fatto nella misura in cui questa tendenza alla reviviscenza
armonizza colle tendenze rispondenti agli stati di coscienza attuali». La stessa legge di interesse non è che
una precisazione della legge precedente e ammette numerose applicazioni. Da una parte, infatti i tipi di
immaginazione (169) forniranno altrettanti tipi di sistematizzazione. Dall'altra, le tendenze abituali o
istintive, i bisogni, la direzione presente dell'interesse, le impressioni affettive, tutto ciò orienta le
sistematizzazioni, spesso anche senza che ne abbiamo chiara coscienza, e contribuisce ad indurci a tessere,
nella massa degli oggetti familiari, delle reti di collegamento più o meno complesse ed estese, le quali
definiranno, in maniera più o meno esatta, le vie abituali dell'immaginazione e la forma generale della nostra
coscienza.

Art. IV - La creazione immaginativa


214 - Lo studio dell'associazione ci ha condotti ad incontrare, sotto il nome di sistematizzazione, una delle
forme di quel che si chiama immaginazione creatrice, che è strumento dell'invenzione e della scoperta. Ora
dovremo appunto studiare questa funzione creatrice o inventrice dell'immaginazione, per definirne la natura
e le condizioni di esercizio148.

§ l - Natura dell'immaginazione creatrice

1. RIPRODUZIONE E CREAZIONE - La distinzione classica, tra immaginazione riproduttrice e


immaginazione creatrice, apparirà giustificata se si avrà cura di precisare il senso dei termini «riproduzione»
e «creazione». Né l'uno né l'altro si devono prendere in senso stretto. Perché, da un lato, l'abbiamo visto
(195), l'immaginazione non si limita mai a riprodurre passivamente le immagini; immaginare significa
sempre costruire, comporre e produrre del nuovo - e, dall'altro, l'immaginazione, se produce del nuovo, nulla
crea in senso proprio, poiché tutte le sue produzioni sono fatte con materiale fornito dalla percezione. Suo
compito essenziale è formare nuove sintesi. Essa è costruttrice di forme inedite.

148 Cfr. J. Segond, Traité d'Esthétique, Parigi, 1947, p. 33-62.


125
Diremo dunque che l'immaginazione riproduttrice è quella che mira soltanto a rappresentare il reale,
mentre l'immaginazione creatrice è quella che utilizza le immagini provenienti dalla nostra esperienza
sensibile per formarne delle sintesi nuove e originali.

215 - 2. IMMAGINAZIONE E INVENZIONE - Non è il caso di ridurre ogni invenzione ad una


combinazione o sistematizzazione di immagini, perché vi sono invenzioni puramente logiche e razionali. I
sistemi filosofici, in particolare, sono altrettanti tipi di costruzioni intelligibili, che possono talvolta essere di
molto debitori verso l'immaginazione, ma che, come tali, non appartengono all'ordine immaginistico.
Tuttavia, si riserva correntemente il nome di invenzioni piuttosto alle creazioni immaginative. Queste
creazioni possono concernere sia il campo delle arti, sia quello delle scienze, sia quello della vita pratica.
La vita artistica è il campo per eccellenza della creazione immaginativa, delle sintesi estetiche o
combinazioni di forme, di colori, di suoni, ecc. ove si manifestano l'ispirazione e il genio personali
dell'artista. La vita scientifica deve gran parte del suo sviluppo alla potenza d'immaginazione, poiché si tratta
di formare ipotesi, inventare esperimenti, costruire teorie che sono essenzialmente opere d'immaginazione 149.
Finalmente, nella vita pratica, l'immaginazione non cessa di formare nuove sintesi, sia per l'anticipazione
dell'avvenire, quale si vorrebbe costruire o quale si deve prevedere, sia per la soluzione dei molteplici
problemi che pone la vita d'ogni giorno. I progressi della tecnica sono propriamente, in tutti gli ordini,
prodotti dell'immaginazione creatrice.
In questi vari campi, l'invenzione dipende meno strettamente, e talvolta non dipende affatto, dai fattori
logici che governano l'invenzione razionale. Ecco perché le stesse ragioni che ci facevano escludere
dall'associazione le organizzazioni puramente razionali (208), ci conducono qui a riservare il nome
d'invenzione alle creazioni dell'immaginazione.

§ 2 - I fattori dell'invenzione

Si possono distinguere tre ordini di fattori: i fattori fisiologici, psicologici e sociali.

A. I FATTORI FISIOLOGICI

216 - 1. LO STATO CEREBRALE E IL TEMPERAMENTO

a) Il compito del cervello. Siccome l'invenzione dipende dall'immaginazione, è chiaro che tutto ciò che
favorirà l'attività immaginativa potrà nello stesso tempo favorire l'invenzione. Sappiamo, d'altra parte (187),
che conviene ritenere il cervello quale organo dell'immaginazione. Ciò spiega come certe tossine o certe
droghe (oppio, alcool, caffè, ecc.), producendo una sovreccitazione cerebrale, sembrino favorire le creazioni
dell'immaginazione150. In realtà, non pare che l'azione di queste droghe abbia degli effetti veramente
favorevoli sull'immaginazione. La stranezza delle sintesi da esse provocate, come lo stato generale di
esaurimento che ingenerano, sono agli antipodi della creazione, la quale implica padronanza d'immagini e
lucidità critica151.

149 La matematizzazione delle scienze fisico-chimiche (I, 165-167) sembra allontanarle dalle vie dell'immaginazione.
Ma, da un lato, le origini del sapere positivo (osservazione, sperimentazione, ipotesi) devono moltissimo
all'immaginazione, e, dall'altro, anche nelle sue più elaborate formulazioni matematiche, la scienza fa uso di una
simbologia (etere, corrente elettrica, emissione, ondulazione, ecc.) di natura nettamente immaginativa.
150 È notissimo il caso di Baudelaire. Su quello di Edgard Poe, Émile Lauvrière, in due libri eccellenti (L'étrange vie
d'Edgard Poe, Parigi, 1934 Le génie morbide d'Edgard Poe, Parigi, 1935) ha proiettato una vivida luce. «Abbiamo
visto quest'uomo, scrive Lauvrière in quest'ultimo libro (p. 319), cercare, dalla sua gioventù fino alla sua morte,
nell'orgoglio e nell'estasi [...] l'esaltazione suprema della sua persona. Parimenti, nei suoi racconti, vediamo tutte le sue
fantasmagorie, serafiche apparizioni e odiose chimere, procedere dalle deliranti esagerazioni della sua natura malaticcia;
le paure, derivategli da morbosa sensibilità, esasperarsi sotto l'azione dell'oppio e dell'alcool, sino alle più orribili
visioni di supplizi, di malattie e di morti...».
151 Può succedere tuttavia che queste forme morbose dell'immaginazione servano, in un secondo tempo, come materia
all'artista. Lo fa giustamente notare Lauvrière a proposito di Poe: (Le génie morbide, p. 8): «Poe non scrisse sotto
l'influsso diretto dei suoi deliri e delle sue ebbrezze, ma a mente fredda, utilizzando i ricordi più o meno recenti dei
medesimi deliri e ebbrezze; anzi, tutto quel che scriveva così, in un secondo tempo, egli lo ritoccò più e più volte nelle
ultime edizioni, tanto che si possono e si devono considerare le sue opere come il prodotto lentamente elaborato di
ispirazioni più o meno morbose e di un'arte perfettamente lucida».
126
Ne consegue che la sanità mentale non può che esercitare una benefica influenza sull'immaginazione.
L'uso, purché moderato, degli eccitanti (alcool, caffè) è sicuramente utile in certi casi. Ma nulla vale quando
il metodo e l'ordine nel lavoro, l'alternare giudiziosamente i periodi di sforzo a quelli di distensione, l'igiene
fisica generale. Si sa che i momenti di più grande freschezza (al mattino, i periodi che seguono il riposo)
comportano un'attività più ordinata, meno febbrile che non il lavoro notturno e momenti di strapazzo. Ci si
illude nel voler spesso preferire questi attimi febbrili. La sovreccitazione cerebrale che vi si manifesta non ha
che una parte accidentale nella creazione immaginativa e non di rado ne rende sterili le manifestazioni. Tutte
le cime sono calme, dice Goethe (Uber allen Gipfeln, ist Ruhe).

217 - b) Il temperamento. Secondo le pretese di alcuni, la potenza creatrice dell'immaginazione sarebbe


legata a certi temperamenti, specialmente al temperamento nervoso, e si incontrerebbe più spesso negli
ammalati che negli individui equilibrati. Si riconosce qui la teoria (Lombroso) che fa del genio il compagno
della nevrosi, dell'isterismo o della follia.
A prima vista, l'esperienza sembra sufficientemente confermare tali osservazioni. Molti grandi creatori,
artisti o scrittori, furono affetti da malattie fisiche o da psiconevrosi più o meno gravi ed alcuni sembrano
aver sortito dalla nascita un temperamento psicopatico. Tali furono Mozart, Beethoven, Schubert, Chopin,
Schumann, - Byron, Poe, Baudelaire, Musset, Maupassant, Tolstoi, Rainer-Maria Rilke, - Pascal, Comte,
Nietzsche, Kierkegaard, ecc. Ciò nonostante, anche a questo proposito, bisogna guardarsi dal facile sofisma:
post hoc, ergo propter hoc. Se è vero che la malattia fisica e certe anomalie psichiche, congenite o acquisite,
si riscontrano di frequente nei grandi artisti, non bisogna trarne subito la conclusione che il genio sia il
prodotto della malattia o della nevrosi. Si dovrà piuttosto pensare sia che queste infermità fisiche o psichiche
risultano dallo stato di estrema tensione cerebrale e dal soverchio affaticamento intellettuale o fisico
provocati dalla produzione artistica o ne sono aggravate 152, sia che certi stati morbosi, fisici o psichici,
creano accidentalmente delle condizioni favorevoli alla produzione artistica 153.

218 - 2. LA RAZZA E L'EREDITÀ - Il ricorrere alla razza e all'eredità per spiegare la potenza creatrice
non è che una forma di spiegazione fisiologica. Essa porta soltanto più in là, poiché chiama in causa anche
dei fattori biologici.

a) La razza. Applicato alla specie umana, il concetto di razza è il meno chiaro che ci sia. Quel che è certo,
comunque, è che una razza pura non esiste. Da quando sono apparsi, gli uomini non hanno cessato di
mescolarsi. Si può ammettere soltanto l'esistenza di certi sottogruppi abbastanza omogenei e rappresentanti
delle «razze stabilizzate» (la «razza» ebraica, per esempio) in questo senso che la commistione tra gli uomini
risale a tempi antichissimi. Ora, l'esperienza, sembra dimostrare che queste razze stabilizzate sono le meno
adatte alla creazione immaginativa, mentre i raggruppamenti umani formatisi da commistioni recenti, come
gli individui nati da genitori provenienti da gruppi etnici diversi, appaiono meno perfetti, meno equilibrati,
fisicamente meno regolari, spesso segnati dalle stigmate dell'asimmetria, ma in compenso più ricchi di
qualità eccezionalmente sviluppate ed in particolare maggiormente dotati per l'invenzione 154.
D'altra parte, è importante aggiungere subito che la commistione delle razze e del sangue, se crea delle
condizioni favorevoli alla creazione immaginativa, non la produce automaticamente e necessariamente,
perché il fattore biologico non è il solo che agisca qui, e nemmeno il più importante. Inoltre, la mescolanza
non è sempre felice. Può essere addirittura sfavorevole quando le differenze sono eccessive: spesso, la rottura
di equilibrio così prodottasi degenera in catastrofi.

Da poco si è potuto dare una base scientifica a queste osservazioni finora molto empiriche. Punto di
partenza sono state le operazioni di trasfusione del sangue da un uomo ad un altro. Si riscontrava che queste
trasfusioni comportavano talvolta incidenti gravissimi, la cui causa non risiedeva né in una malattia che
avrebbe trasmessa il donatore di sangue, né in un errore operatorio. Da ciò si concluse che non era
152 Questo caso è frequentissimo: Mozart, Beethoven, Schubert, Chopin stanno a dimostrarlo. Aug. Comte stesso
spiegava così, non senza ragione, a quanto pare, alcuni incidenti piuttosto umilianti della sua carriera.
153 Bisognerebbe in compenso citare i casi, pure numerosi, di grandissimi artisti perfettamente equilibrati, quali per
esempio (in campi assai diversi), Vinci, Bossuet, G.-S. Bach, Goethe, Hugo, Renoir, Fauré.
154 Cfr. C. Nicolle, Biologie de l'invention, Parigi, 1932, p. 12-25. Queste osservazioni sono in netto contrasto con le
teorie di Gobineau, sul fondamento delle quali l'intelligenza e lo spirito d'invenzione sarebbero il privilegio delle razze
ariane e di quelle più pure tra queste, cioè delle razze nordiche. (Si capisce come Gobineau si sia attribuito un'origine
scandinava e si sia spacciato per discendente dei Vichinghi!) (Cfr. il suo Essai sur l'inégalité des races humaines, 2
voll., Parigi, 1940).
127
impunemente possibile effettuare un miscuglio qualsiasi di sangue. Studi approfonditi stabilirono in seguito
che il sangue umano poteva essere distribuito in quattro gruppi e che la potenza agglutinogena raggiunge il
massimo nell'interno d'ogni gruppo155. A questo punto, ci si è chiesti se ogni gruppo non poteva servire, in
rapporto alla prevalenza, a caratterizzare le razze. Gli esperimenti condotti in tal senso sembrano aver dato
risultati interessanti. Si riscontra per esempio che, negli Australiani e nei Boscimani, i gruppi sanguigni O e
A comprendono il 90% degli individui, vale a dire che queste razze sono relativamente poco mescolate e
alterate dagli incroci. Tuttavia, questo metodo, quando si scende al particolare, non porta che ad una
confusione inestricabile.

219 - b) L'eredità. L'esperienza corrente non è in favore dell'eredità della potenza creatrice. Il volgo
disdegna comunemente i figli dei grandi uomini. È un'opinione ingiusta, ma è pur vero che la trasmissione
ereditaria dei doni artistici è rara e incostante. Si sa che i biologi non ammettono, in generale, l'eredità dei
caratteri acquisiti (II, 150), ossia delle modificazioni sopravvenute nel corso della vita individuale. Queste
modificazioni non s'inscriverebbero nel germe. Certi fatti, però, sembrano deporre in favore d'una
trasmissione ereditaria di certe modalità individuali, in modo particolare delle disposizioni. Ciò basterebbe a
spiegare, nelle famiglie, i casi di progressione regolare, da una generazione all'altra, nel possesso di un'arte
determinata. Ma anche questa trasmissione delle disposizioni è delle più capricciose.

B. I FATTORI PSICOLOGICI

220 - 1 GLI ACQUISTI ANTERIORI - I Greci dicevano che le Muse erano «figlie di Memoria». È certo,
infatti, che la creazione artistica, scientifica e tecnica, se suppone dei doni innati, possiederà anche tanto
maggiori risorse, ampiezza e varietà, quanto più ricco sarà il tesoro di osservazioni, di immagini e di nozioni
che essa avrà a disposizione. La pura memoria non basta mai, poiché si tratta di fare del nuovo e -
dell'originale e non di ripetere il passato, ma è nondimeno un ausilio prezioso156. Bisogna inoltre guardarsi
dal prendere questa memoria sotto l'aspetto quantitativo. Si tratta piuttosto di qualità, cioè di un
perfezionamento intrinseco delle facoltà e sicurezza nel lavoro di creazione.

221 - 2. CONCENTRAZIONE E ISPIRAZIONE - Accumulare ricchezze non basta mai; bisogna anche
saperle utilizzare. Per questo è necessario organizzarle, distribuirle in gruppi gerarchici, attorno ad un centro,
che è il punto sul quale si ferma principalmente l'attenzione. Ciò spiega quella concentrazione che
caratterizza l'inventore e l'artista e che gli fa riferire tutto il suo bagaglio di immagini e di conoscenze a
quello che è l'oggetto della sua ricerca. Newton spiegava così che aveva fatto la sua grande scoperta
«pensandoci sempre». Di qui quell'aspetto astratto, assorto, che è tanto frequente negli inventori.
È per l'effetto stesso di questa concentrazione e di questa attenzione ostinata che l'immaginazione viene a
trovarsi in quella specie di atteggiamento profetico o di attesa orientata, eminentemente favorevole
all'invenzione non appena lo permettano le condizioni esterne, e che è la forma stessa di quella che si chiama
ispirazione, stato nel quale l'inventore vede ad un tratto offrirglisi, come attuatasi senza di lui, la soluzione
del problema, estetico, scientifico o tecnico, che stava cercando. Di qui l'aspetto gratuito dell'invenzione, il
sentimento di novità che l'accompagna, l'aureola radiosa di creazione che la circonda. Ci si spiega così
perché sia stata sempre riconosciuta come un dono o un'illuminazione e perché l'artista parli sovente lui
stesso d'una vera passività nella recezione della luce. Ed ecco anche perché una profonda umiltà
contraddistingue sempre il vero genio.

222 - 3. I DONI NATURALI - La creazione immaginativa è effettivamente un dono, per le qualità innate
che suppone157. Né il lavoro, né il metodo, né la pazienza, né il caso, né il perfetto possesso delle tecniche
155 Cfr. P. Lester, Les races humaines, Parigi, 1936, p. 124.
156 Cfr. Ed. Le Roy, La Pensée intuitive, II. Invention et vérification, Parigi, 1930, p. 33: «(L'inventore) si sforza di
ammucchiare provviste, riserve, di accumulare incessantemente materiale, quand'anche non prevedesse ancora a che
cosa potrebbe servirgli questo materiale [...]. L'invenzione è per chi dispone, al momento buono, delle risorse più
numerose, più varie, più docili, più fini, più potenti, più inattese».
157 A questo proposito, Mozart si spiega bellamente in una lettera citata da Hartmann (Philosophie des Unbewussten,
2a ed., Sachsa, 1904; Philosophie de l'Inconscient, trad. fr. t. II, p. 308): «Mi chiedete come lavori [...]. Quando mi
sento bene e sono di buon umore, o di notte quando non posso dormire, i pensieri mi vengono in quantità e senza il
minimo sforzo. Da dove e in che modo mi vengono non lo so... Ora, perché, durante il mio lavoro, le mie opere
assumono quella forma o maniera che caratterizza Mozart e non assomiglia a quella di nessun altro? Ebbene, questo
capita come capita che il mio naso sia grosso e adunco, che sia il naso di Mozart, insomma, e non quello di un'altra
128
bastano a spiegare adeguatamente l'invenzione che porta la sigla del genio. La cosa è evidente quando la
potenza creatrice si afferma con una precocità prodigiosa, come nel caso di un Mozart. Ma non è meno certa
per gli adulti, i quali, senza i doni naturali, non oltrepasserebbero mai il livello dell'accademismo, dove il
mestiere più sicuro finisce nella convenzione e nella sterile imitazione, quando invece il vero creatore fa
brillare, in opere talvolta imperfette per quel che riguarda la tecnica, la sua personalità e il suo genio 158.

223 - 4. L'INCONSCIO - Si comprende ora perché all'invenzione va unito spesso un carattere


d'incoscienza. Perché l'invenzione sorge all'improvviso davanti alla coscienza chiara, sembra che l'autore
principale ne sia «l'inconscio». Gli esempi in proposito abbondano nella storia delle arti e delle scienze 159.
Tuttavia, il ricorso all'inconscio può esser qui molto equivoco. E’ chiaro, infatti, che un inconscio che lavori
da solo, risolva dei problemi complicati ed elabori dei capolavori, è soltanto un «deus ex machina» o una
semplice metafora. In realtà, l'inconscio non fa nulla, ma ciò non significa ch'esso sia nulla. Tutt'altro,
poiché, al contrario, il suo compito è tale che, senza di esso, non ci sarebbe né pensiero razionale, né arte, né
tecnica. Per riassumere una questione sulla quale dovremo ritornare e fermarci a lungo, diciamo che
l'intelligenza è suscettibile di habitus (abitudini intellettuali) che, come tali, sono necessariamente inconsci,
ma che condizionano l'attività estremamente rapida e sicura del pensiero o dell'immaginazione creatrice. Da
questi habitus appunto procedono eminentemente l'ispirazione e l'intuizione del genio. Sono essi a render
ragione dei casi in cui un'invenzione si presenta improvvisamente alla mente, con la parvenza di una gratuità
meravigliosa. Dopo aver cercato a lungo senza trovare, si trova ad un tratto senza cercare, non già perché un
lavoro debba essersi effettuato a nostra insaputa nelle oscure profondità della coscienza, ma perché, date le
circostanze accidentali dell'ispirazione o dell'invenzione, il dinamismo intellettuale definito dall'habitus,
favorisce e determina l'intuizione o la scoperta e conferisce loro una specie d'istantaneità e di spontaneità
folgoranti. In altri termini, l'ispirazione, l'invenzione e l'intuizione hanno delle condizioni psicologiche
inconsce, esse però non sono e non possono essere tali160.
Sempre mediante l'inconscio psichico, ma preso sotto altro aspetto, Freud tentò di spiegare il genio.
Questo, secondo lui, non sarebbe che un processo di sublimazione degli istinti, particolarmente della libidine,
dovuto al trasferimento delle energie sessuali, non usate o represse, in servizio di scopi del tutto diversi.
Ritorneremo più avanti, studiando le inclinazioni, sulla teoria freudiana.

224 - 5. I FATTORI AFFETTIVI - Ribot (L'Imagination créatrice, p. 27-30) fa consistere essenzialmente


nel bisogno di creare e nell'interesse la parte che i fattori affettivi hanno nell'immaginazione creatrice.

a) Il bisogno di creare - Tutte le forme dell'invenzione, afferma Ribot, implicano degli elementi affettivi,
tra cui il principale è il bisogno di creare. Si avrebbe qui un qualcosa di simile all’attività istintiva, con i suoi
caratteri di necessità, di facile e allegra espansione, di entusiasmo, ed anche con la sua sorprendente
disinvolta accortezza, che si manifesta nella creazione artistica attraverso quell'ingegnosità estrema nel
servirsi delle tecniche o nel creare le tecniche richieste dall'invenzione.

b) Il fattore dell'interesse. Tutte le disposizioni affettive, di qualunque natura siano, possono influire
sull'invenzione. L'immaginazione creatrice si esercita con tanto maggior forza quanto più potenti sono le
tendenze e i bisogni da cui è spinta ad agire. Si sa quale parte importante possa avere l'istinto di
conservazione, individuale e specifico, nel fare inventare le tecniche utili. Abbiamo visto anche (I, 127) che

persona. Non miro alla originalità e sarei molto imbarazzato se dovessi definire la mia maniera. È del tutto naturale che
gli individui che hanno realmente un aspetto particolare sembrino così diversi gli uni dagli altri sia internamente che
esternamente: Quello che so però, è che non mi sono affatto studiato di darmi un aspetto piuttosto che un altro».
158 E' il caso, per esempio, di Chopin nei due concerti per piano e orchestra che, non appena giunto a Parigi,
presentava a Kalkbrenner. Questi non vi notò che la goffaggine nel trattamento della massa orchestrale e talune novità
pianistiche che urtavano le sue abitudini.
159 Cfr. l'Eureka di Archimede, quando ad un tratto scoprì, nel bagno, la legge del peso specifico dei corpi, - o il
«Tutto è trovato» di Valentino Hauy, - la scoperta improvvisa delle leggi del pendolo di Galileo, nel duomo di Pisa, -
l'intuizione istantanea del vapore come forza motrice di D. Papin, la scoperta improvvisa, fatta da Poincaré, delle
trasformazioni da compiersi per definire le funzioni fuchsiane (Science et Méthode, p. 51), - quella specie dI rivelazione
che C. Franck aveva dei suoi temi, e Barrès che diceva: «Non faccio io le cose, sono le cose che si fanno in me», ecc.
160 Cfr. A. Spaier, La Pensée concrète, pp. 261-283 e 403-424 - A. Buloud. La Pensée conceptuelle, Parigi, 1928, p.
289-332 - S. Barrès affermava che «le cose si facevano in lui senza di lui», i fratelli Tharaud attestano, parlando dello
stesso Barrès, che «tutte quelle felici scoperte, quelle trovate del suo inconscio (?) o del suo pensiero chiaro venivano
notate qua e là sulle camicie colorate», che «tutto era raccolto, captato...» (Mes années chez Barrès. p. 110).
129
una teoria vuol trovare nei bisogni vitali o necessità pratiche della vita la spiegazione della genesi delle
scienze. Ciò è vero, comunque, per le tecniche dei mestieri.
La parte degli interessi d'ordine affettivo, sentimenti, emozioni e passioni, non è meno considerevole. Il
desiderio della gloria in modo particolare è sempre stato un eccitante dell'immaginazione creatrice. Ma i
fattori affettivi contribuiscono sovente anche alla costituzione intrinseca dell'opera d'arte. I Romantici
sostenevano che l'artista era in grado di fare dei capolavori con le sue emozioni. Alcuni ne hanno fatto con la
loro collera (Giovenale, Chénier), altri persino con i loro sogni morbosi, le loro nevrosi o la loro follia
(Baudelaire, Poe, Verlaine, Dostoievski, Nietzsche), il che è pure un modo di liberarsene.

C. I FATTORI SOCIALI

225 - L'immaginazione creatrice e l'invenzione sono evidentemente condizionati, e nella loro


specificazione e nel loro esercizio, anche ai fattori sociali. Alcuni filosofi talvolta sono persino partiti da
questa constatazione per affermare che l'invenzione fosse interamente in funzione dello stato sociale.

1. GLI ELEMENTI SOCIOLOGICI - La società propone i problemi da risolvere e persino il quadro della
loro soluzione.

a) I problemi da risolvere. Si è spesso fatto notare che i problemi che l'invenzione deve risolvere dipendono
strettamente dallo stato sociale, culturale, economico e scientifico. Per quanto concerne le scoperte
scientifiche, J. Picard (L'invention dans les sciences, p. 14-32) ha creduto di poter enunciare le due seguenti
leggi: «Una scoperta o un'invenzione può prodursi solo se lo stato della scienza lo permette». «Una scoperta
o una invenzione nasce e si sviluppa quasi fatalmente se lo permette lo stato della scienza». La prima legge
afferma semplicemente che una scoperta non può prodursi che se è possibile, il che è evidente. Non si
inventa checchessia quando si voglia, non soltanto perché non esistono le condizioni materiali
dell'invenzione, ma spesso anche perché non può neppure presentarsi l'idea dell'invenzione. Non era
possibile inventare la locomozione a vapore nel XIV secolo, né la lampadina elettrica a incandescenza nel
XVII secolo, né la telegrafia senza fili nella metà del XIX. Invenzioni e scoperte si richiedono a vicenda. Il
tempo ha qui una parte importantissima. In compenso, a un dato momento esse diventano in un certo senso
necessarie. Questo avviene quando si abbiano tutte le condizioni esterne della loro attuazione. L'attenzione
generale degli scienziati e degli inventori; talvolta persino di un pubblico molto esteso, è per ciò stesso
orientata verso una direzione in cui o l'uno o l'altro dovrà finalmente scoprire quello che tutti si studiano di
trovare161. La circolazione del sangue doveva essere scoperta all'inizio del XVII secolo, la vaccinazione verso
la fine del XVIII o l'inizio del XIX, la lampada ad incandescenza verso la metà del XIX, ecc. Ma non era
affatto necessario che queste scoperte fossero fatte da Harvey, Jenner e Edison.
Trattandosi di invenzioni estetiche, la parte della società è meno evidente. Nessuna pressione sociale, pare,
è in grado di giustificare i capolavori dell'arte. Se l'auscultazione mediata non fosse stata scoperta da
Laennec, lo sarebbe stata da un altro. Ma se Beethoven fosse morto da giovane, chi avrebbe composto le
nove Sinfonie? Ciè nonostante, anche in questo campo entrano dei fattori sociali. Tutti i capolavori portano il
segno della loro epoca. Non si è mancato di sottolineare quanto si rifletta nell'opera di Mozart lo stato sociale
del periodo precedente la Rivoluzione, e quale profonda eco ci porti l'opera beethoveniana delle aspirazioni
che la Rivoluzione aveva diffuso per il mondo. Come comprendere Shakespeare al di fuori del Rinascimento,
Racine al di fuori del secolo di Luigi XIV, Watteau e Boucher senza l'ambiente sociale leggiadro, frivolo e
licenzioso del XVIII secolo, Chopin e Schumann senza il Romanticismo?

b) Le forme e le tecniche. Questa influenza dell'ambiente sociale non si limita del resto a fornire la materia
delle opere d'immaginazione, ma si estende sino alle forme e alle tecniche. La società propone e spesso
impone le regole cui l’artista deve sottostare, se non vuole far fiasco. Essa dirige l'immaginazione creatrice.
Il che conferisce alle opere di un'epoca un certo tono comune, uno stile definito (o un'assenza di stile, che
costituisce essa pure un segno distintivo), che permettono di datarle, e spesso impedisce alle opere originali e
nuove di imporsi. La società applica in questo campo le sue sanzioni, che sono il successo o il fiasco, la
gloria o il dispregio, l'ammirazione o il ridicolo. E il successo non è necessariamente il trionfo immediato,
massiccio, popolare, il quale segue generalmente la moda; può essere la stima di persone competenti che
esercitano sul gusto generale un'autorità riconosciuta.

161 Questo giustifica i casi piuttosto frequenti di scoperta simultanea. Fermat e Cartesio, per esempio, scoprono,
ciascuno per conto suo, la geometria analitica, Newton e Leibniz il calcolo infinitesimale (I, 143).
130

226 - 2. I LIMITI DEL SOCIALE - Taine ha preteso che ogni opera d'arte può essere adeguatamente
spiegata come un prodotto della razza, dell'ambiente e della società 162. Durkheim ha ripreso la stessa tesi,
come abbiamo visto (I, 217), spingendola agli estremi limiti: egli pensa, infatti, che la società in quanto tale
giustifichi pienamente tutte le invenzioni in tutti i campi: religione, morale, scienza (I, 125), diritto, logica,
lingua, arti e tecniche, non sarebbero altro, ad ogni momento della loro evoluzione, che il prodotto e il
riflesso dello stato sociale.

a) La parte delle grandi individualità. Queste tesi eccessive cozzano contro gravi obiezioni. Senza parlare
dei postulati arbitrari su cui riposano (I, 236), esse vengono contraddette, nella loro applicazione al campo
delle belle arti, dal fatto che le grandi invenzioni hanno sempre qualcosa di rivoluzionario e i grandi creatori
sono generalmente incompresi e misconosciuti 163. Si insiste, è vero, sul fatto che ogni epoca ha il suo stile,
che serve da canone comune a tutta la produzione artistica. Ma si tratta di sapere se lo stile che s'impone per
un dato tempo è il prodotto della società o quello delle grandi personalità artistiche. Ora, si ammette sempre
più che all'origine delle correnti estetiche o letterarie stiano delle individualità spiccate. È il loro successo
(che non è necessariamente immediato) a creare uno stile che verrà riconosciuto come regola suprema
dell'arte, fino al momento in cui nuovi creatori introdurranno uno stile e una tecnica diversi. La tragedia è
rimasta raciniana fino al Romanticismo. La musica è rimasta wagneriana fino all'avvento dell'arte
debussysta. Rodin ha esercitato sulla scultura un'influenza prodigiosa. La prova inversa è altrettanto decisiva:
i periodi mancanti di stile, votati all'accademismo e all'eclettismo, sono periodi spesso ricchi di talenti
considerevoli, ma privi d'artisti veramente geniali. Per mancanza di grandi individualità, l'arte ristagna nel
grigiore.

Altrettanto dicasi dei progressi scientifici e tecnici, i quali tuttavia, giudicati quando già sono una realtà,
sembrano esser stati inevitabili. In verità, non c'è progresso scientifico senza iniziative propriamente
individuali. Col tempo si dimenticano i geni che tracciarono il cammino: l'idea iniziale finisce per scomparire
davanti alle prodigiose conseguenze che ha avute. Ciò non toglie che sia stata quell'idea a dar l'avvio. Oggi
non ci si ricorda affatto di Morton e di Jackson che inaugurarono l'anestesia con l'etere, né di Simpson che fu
il primo ad addormentare col cloroformio. Eppure sono invenzioni ammirevoli che, insieme con l'uso
sistematico dell'anestesia introdotto da Lister, stanno all'origine dei magnifici progressi compiuti dalla
chirurgia. La storia delle scienze dimostrerebbe che ogni progresso scientifico è opera di un individuo.

227 - b) Natura dell'influenza sociale. L'influenza della società non è dunque né assoluta, né fatale. Si
possono con certezza mettere in evidenza tutti gli elementi di natura sociologica inclusi nelle opere
apparentemente più rivoluzionarie. Ma questo fatto, se prova in modo certissimo la parte della società nelle
opere dell'immaginazione, nelle tecniche e nelle scienze, non è sufficiente a provare che la società le spieghi
tutte e le spieghi interamente.

Durkheim ci gratifica di una risposta che ci sorprende. Egli conviene della realtà di correnti nuove nella
società che vanno apparentemente oltre lo stato sociale. Ma, osserva, questo non avviene nelle società, dove
regna il più assoluto conformismo. (Si sa che Bergson ha ripreso questa tesi e ha chiamato «società chiuse»
questi gruppi primitivi, mentre, nelle società moderne, complesse e mobili, il gusto dell'invenzione e della
novità è un fatto sociale, al pari del rigido conservatorismo. È evidente che con una simile dialettica si potrà
sempre provare tutto quel che si vuole!).

Riepilogando, i fattori sociali, come i fattori biologici e fisiologici, possono spiegare soltanto certi aspetti,
e non i più importanti, della creazione immaginativa. Ne definiscono le condizioni accidentali (che possono
essere importantissime) e non le cause propriamente dette. Quelle sono da ricercarsi nel genio personale
dell'inventore, che non può essere ridotto a nessuna formula né esaurito da nessun calcolo. Appunto per
questo egli è inventore, principio di novità e di progresso.

162 Taine, Philosophie de l'Art, Parigi, 1865, I, p. 7 seg.: «Le produzioni della mente umana, come quelle della natura
vivente, non si spiegano che attraverso l'ambiente». «Per comprendere un'opera d'arte, un artista, un gruppo di artisti,
bisogna rappresentarsi con esattezza lo stato generale della mentalità e dei costumi del tempo al quale appartenevano.
Qui si trova la spiegazione ultima; qui risiede la causa primitiva che determina il resto» (p. 10).
163 Si pensi all'oscurità in cui sono morti G. S. Bach, Mozart, Beethoven, Schubert.
131
§ 3 - Lo sforzo d'invenzione

228 - L'invenzione, per quanto originale e imprevista essa sia, suppone la messa in opera, cosciente o no,
di processi che si ritrovano costantemente in tutti i campi della creazione immaginativa: associazione,
dissociazione, combinazione o sintesi. Descrivendo questi processi, non si pretende definire una specie di
meccanica dell'invenzione, ma soltanto esporre le vie e i mezzi che adopera liberamente lo sforzo creatore.

A. I PROCESSI DELL'IMMAGINAZIONE CREATRICE

1. L'ASSOCIAZIONE - Questo processo consiste nello scoprire e utilizzare i rapporti e le analogie


esistenti tra le cose. Ciò che contraddistingue il grande artista e il grande scrittore è la loro particolarissima
disposizione a cogliere tra gli esseri della natura delle rassomiglianze non viste dalla maggior parte degli
uomini.

È questo il campo vastissimo del simbolismo. Le opere dei poeti sono piene di queste «analogie». Le loro
geniali escogitazioni tutti le conosciamo. Nelle scienze, l'analogia ha una parte non meno importante (I,
169). Bain, (The Sense and the intellect) cita degli esempi tipici: Watt assimila la potenza del vapore alle
sorgenti d'energia già note (forza del cavallo, potenza del vento); Harvey assimila le vene con le loro valvole
a un corpo di pompa munito della sua valvola; Lavoisier assimila la respirazione alla combustione, e
abbiamo visto (II, 67) che Rutheford concepiva il sistema atomico ad immagine del sistema planetario, ecc.

2. LA DISSOCIAZIONE - Per formare delle combinazioni con vecchie immagini, è necessario aver prima
dissociato o distinto nei loro elementi i complessi in cui quelle immagini si trovavano vincolate. È qualità
propria del genio il sapere dissociare dei fenomeni che, per noi, non formano che un tutto indistinto. «Ogni
nuova sintesi, scrive Ed. Le Roy (La pensée intuitive, II, p. 38), risulta da un'analisi critica preliminare: una
fase di demolizione la precede e la prepara [...]. Il primo lavoro dell'inventore consiste nel dissolvere [questi]
raggruppamenti familiari, nel rompere [le] abitudini ossessionanti [...]. La potenza inventiva si misura
innanzi tutto dalla potenza d'astrazione, di dissoluzione, che libera la mente». È la forma dello spirito critico
nella creazione immaginativa.

229 - 3. LA COMBINAZIONE O SINTESI. - Cogliere le rassomiglianze, dissociare i complessi nei loro


elementi: tali sono i mezzi che l'immaginazione adopera per attuare nuove combinazioni. Risulta così messo
in luce il carattere libero dell'invenzione. Alcuni associazionisti hanno misconosciuto questo carattere
studiandosi di ridurre l'invenzione all'associazione per contiguità, di cui l'analogia sarebbe un caso tra tanti.
Dopo il nostro studio sull'associazione, non abbiamo più da discutere questa tesi, che ridurrebbe la creazione
dell'immaginazione a semplici casi favorevoli. La scoperta delle analogie, le sintesi e le sistematizzazioni, le
opere d'arte sono i risultati di combinazioni attive, volontarie e ponderate: lungi dallo spiegare qualcosa,
come si vede, l'associazione appunto richiederebbe una spiegazione 164.

B. LO SFORZO INVENTIVO

230 - H. Bergson ha formulato una teoria dell'invenzione intesa a spiegare nel medesimo tempo la sua
natura intuitiva e la laboriosa ricerca che essa comporta.

1. LO SCHEMA DINAMICO - Inventare, dice Bergosn, equivale a risolvere un problema. In virtù dello
sforzo inventivo, «raggiungiamo di colpo il risultato completo, il fine che ci proponeva di realizzare»
(Energie spirituelle, p. 185). Tutto lo sforzo inventivo si riassume in un tentativo ostinato, drammatico e,
talvolta, doloroso di raggiungere il fine intravisto, seguendo il filo ininterrotto dei mezzi mediante i quali
esso sarà conseguito. Il fine è dunque a tutta prima conseguito senza i mezzi, e il tutto senza le parti, il che
significa che l'inventore si trova, dapprima, non davanti a una immagine ma davanti ad uno schema.
L'invenzione consisterà nel mutare questo schema in immagini: essa procederà dunque, secondo il punto di
vista di Paulhan, «dall'astratto al concreto»165.

164 Cfr. Paulhan, Psychologie de l'invention, Parigi, 1930, I. II - Delacroix, L'Invention et le Génie, in Dumas,
Nouveau Traité de Psychologie, t. VI, p. 447-554.
165 Énergie spirituelle, p. 186: «Lo scrittore che fa un romanzo, l'autore drammatico che crea personaggi e situazioni,
il musicista che compone una sinfonia e il poeta che compone un'ode, tutti hanno in origine nel loro spirito qualche cosa
132
Il valore dello schema si commisurerà al suo dinamismo, cioè alla sua ricchezza di immagini virtuali e alla
sua potenza di sviluppo e di assimilazione. Questa stessa ricchezza imporrà spesso all'artista o all'inventore
uno stato di estrema tensione, causato dal conflitto delle direzioni o delle immagini che essa può produrre.
Lo schema rappresenta dunque dinamicamente ciò che le immagini ci presentano come un tutto compiuto
(Ènergie spirituelle, p. 199): l'immagine con i suoi contorni precisi raffigura ciò che è stato realizzato, lo
schema anticipa e preannuncia ciò che può e vuol essere attuato.

231 - 2. SCHEMA E IMMAGINI - Possiamo ritenere valida questa descrizione. Tuttavia sono necessarie
due precisazioni. Da una parte, diremo che l'espressione «passaggio dall'astratto al concreto» sembra
definisca molto male le vie che segue l'invenzione. Sembra che lo schema sia presentato come un tutto o una
struttura (ciò che Bergson chiama un'«immagine») piuttosto che come una rappresentazione astratta. In
modo conforme ai processi di percezione e di immaginazione, il moto inventivo va direttamente alla forma o
al tutto. Ciò spiega tutto quel che vi è di contingente nella maniera con la quale è «riempita» questa forma
globale che viene a tutta prima fornita all'immaginazione: ciò che importa, sembra, è molto più lo schema, il
tema, il movimento, il ritmo, la forma e la struttura, che le immagini o gli elementi.

Potremmo così renderci conto del perché tanti artisti ritengono che la loro opera sia compiuta dal momento
stesso in cui essi ne hanno trovato il tema o la trama e vanno considerando quelle difficoltà che potrà
comportare la concreta attuazione dell'opera. È segnatamente il caso di Mozart, di Beethoven, di Franck, di
Delacroix, di Rodin, di Faurè ecc.

D'altra parte, bisognerebbe considerare lo schema, così definito, come un atto della coscienza piuttosto che
come una rappresentazione statica, globale e confusa. La forma o struttura che lo caratterizza è qui una forma
dinamica, più temporale che spaziale, una specie di movimento interiore o di tendenza in attività, una
«intenzione» che, nell'atto di realizzarsi, si dà in qualche modo la sua materia. Così dovremmo dire che
l'invenzione consista più nello schema che nelle immagini. L'inventore non riceve questo schema già
compiuto. Se pur sembra che esso gli si riveli senza che egli l'abbia espresso dalla sua interiore ricchezza è
tuttavia, così come si manifesta, l'effetto di una sorta di maturazione improvvisa, che consegue ad una lunga
formazione di qualità intellettuali, estetiche, scientifiche, tecniche, che finiscono per agire come una seconda
natura. In realtà, ogni creazione è un dramma al quale collabora tutta la personalità, doni naturali e lavoro,
intelligenza e immaginazione, ispirazione e spirito critico, individualità e società, sensibilità e ragione. Se
l'invenzione è fornita in anticipo come in germe in una improvvisa illuminazione, tracciata come tenue
filigrana nello schema dinamico, l'illuminazione, il germe, e la tensione promettono un successo, solo a patto
che esso sia il coronamento di uno sforzo.

Art. V - Il sonno e il sogno


232 - Molti sono gli stati in cui sembra che la coscienza sia non solo invasa da frotte di immagini, ma
anche e assolutamente dominata dall'immaginazione. Sono questi gli stati della fantasticheria, del sonno, del
sogno e del sonno patologico.

§ l - La fantasticheria

Per fantasticheria s'intende lo stato di maggiore o minore abbandono della vita interiore al suo corso
spontaneo, in una semiincoscienza del mondo esteriore e ambientale e nel rilassamento delle funzioni di
controllo e di inibizione.

1. FANTASTICHERIA ATTIVA E FANTASTICHERIA PASSIVA Gli psicologi distinguono spesso due


specie di fantasticheria: la fantasticheria passiva, che consisterebbe nel totale abbandono della vita interiore
al suo corso (per esempio negli stati di affaticamento, di ozio e di inerzia) e che produrrebbe una specie di
disgregazione o di decomposizione della coscienza, - e una fantasticheria attiva, la cui proprietà sarebbe di
costruire mondi immaginari, sia per il gusto della finzione (bambini e primitivi), - sia per il bisogno di

di semplice e di immateriale, cioè d'incorporeo. È, per il musicista o il poeta, un'impressione nuova che si tratta di
tradurre in suoni o in immagini. Per il romanziere o il drammaturgo, una trama da sviluppare in avvenimenti, un
sentimento individuale o sociale, da realizzare in personaggi viventi. Il lavoro si svolge sullo schema totale e il risultato
si raggiunge nella distinta dei vari elementi».
133
sottrarsi alla realtà (bisogno normale in caso di affaticamento; bisogno patologico nei «sognatori ad occhi
aperti», i quali vivono costantemente in un mondo immaginario che si sostituisce totalmente al mondo reale).

233 - 2. DISCUSSIONE - In verità, questa distinzione appare alquanto contestabile. Induce infatti ad una
errata concezione della reale natura della fantasticheria.

a) Ogni fantasticheria comporta una certa attività. La fantasticheria detta passiva o si confonde al limite
del sonno e del sogno, o non è che imperfettamente passiva. È un dato accertato che nello stato di
affaticamento o di dispersione dell'attenzione al mondo reale, sopravvive sempre un certo intervento delle
funzioni di controllo, poiché la fantasticheria conserva, nel legame dei suoi elementi, una logica che
generalmente non ritroviamo nello stato di passività proprio del sonno. Possiamo aggiungere che la
disgregazione della coscienza (che è demenza e non fantasticheria) colpirebbe non il regime delle immagini,
ma le funzioni di controllo e di sintesi.

b) Fantasticheria e immaginazione creativa. La fantasticheria detta attiva, d'altra parte, o si rifà alle forme
riflesse e volontarie dell'immaginazione creativa, o sfiora i confini della demenza. Come definire con lo
stesso termine processi psichici così differenti? Nel primo caso le finzioni dei bambini e dei primitivi (che
sono adulti immersi nella notte dell'immaginazione) (I, 32), l'invenzione dei simboli o il pensiero espresso
per cenni, benché inferiore al pensiero logico e astratto, non sono manifestazioni di passività, ma al contrario
manifestazioni di vitalità creativa. In quanto al caso dei sognatori ad occhi aperti, è evidente che il suo
carattere morboso lo accosta agli stati demenziali. Senza dubbio vi sono, fra questi, casi di forma benigna:
far «castelli in aria», non ha nulla di patologico quando è puramente accidentale. Dal momento però in cui
queste immaginazioni deliranti divengono continue e sistematiche, non esiteremo più a comprenderle nel
numero dei fatti patologici.
Insomma, la fantasticheria è uno di quegli stati intermedii difficili a classificarsi. È nel medesimo tempo
attiva e passiva: ha le caratteristiche dell'immaginazione creativa e del sogno. Sembra sia come un sogno
diretto e controllato.

§ 2 - Le visioni del dormiveglia

234 - 1. LE IMMAGINI IPNAGOGICHE - Si chiamano immagini del dormiveglia (o dello stato


ipnagogico) le immagini che, nell'oscurità ed a palpebre chiuse, scorrono sul campo visivo (o auditivo)
dell'individuo in procinto di addormentarsi166.
Queste immagini del dormiveglia, la cui apparizione è condizionata ad un rilassamento dell'attenzione alla
vita e al disinteressamento nei confronti della realtà, non si presentano come percezioni di oggetti. Esse
mancano in effetti della precisa localizzazione che caratterizza la percezione; non sono nettamente
individualizzate e non comportano che determinazioni illusorie. Così lo sforzo per descriverle dopo che si
sono manifestate non produce che risultati ingannevoli 167. Pretendere poi di osservarle (cioè di staccarsene e
166 Queste immagini sono talora macchie variamente colorate, che si dilatano, si contraggono, si deformano e si
ricompongono con estrema rapidità, senza fissarsi in figure nettamente definite. Altre volte le immagini sono più stabili
e sembrano comporre forme geometriche regolari: cerchi, losanghe, poligoni, fiori stilizzati, strade luminose, ecc. Ma
queste figure geometriche non sono mai immobili: non solo i loro elementi sono dotati di una specie di scintillio
multicolore, ma esse stesse sono in movimento; si incrociano, si sovrappongono, si fondono l'una all'altra, girano su se
stesse, salgono e scendono senza sosta. Alle immagini di queste due prime categorie diamo comunemente in nome di
fosfeni o barlumi endottici. Infine, le immagini ipnagogiche sono spesso immagini di oggetti. B. Leroy (Le visions du
demi-sommeil, Parigi, 1926) ha raccolto gran numero di osservazioni, sulla base delle quali abbiamo potuto stabilire che
le visioni dello stadio di assopimento che precede il sonno evocano visi familiari, scene della vita quotidiana, oggetti
usuali, paesaggi, ecc. Generalmente ma non esclusivamente le immagini ipnagogiche sono d'ordine visivo. Infatti alcuni
soggetti «sentono» talvolta brani di opere musicali; altri «sentono» parole più o meno articolate, ecc.
167 J. P. Sartre (L'Imaginaire, Parigi, 1940, pp. 57-59) nota anche che l'apparizione dell'oggetto, nella visione
ipnagogica, coincide con la certezza che si tratti di tale oggetto, laddove, nella percezione, come abbiamo visto, (145),
abbiamo una fase di preparazione o fase di organizzazione sensoriale anteriore all'acquisizione del significato. Nella
coscienza ipnagogica non c'è nulla di simile: l'oggetto si presenta immediatamente come tale oggetto. È ciò che si rileva
nettamente dalla descrizione di B. Leroy: «Ad un certo momento, con gli occhi chiusi, vedo distintamente una donna
che sega della legna: questa scena appare interamente, come d'un sol blocco». «Poco a poco appaiono un certo numero
di linee sottili nel senso trasversale; i fiori si ordinano in quinconce in guisa che le loro estremità superiori siano
vicinissime a queste linee. Improvvisamente, vedo che le presunte linee sono funicelle e che i fiori sono divenuti calzini
posti ad asciugare; e subito dopo, vedo anche le molle della lavandaia dalle quali quelli sono trattenuti alle funicelle».
134
allontanarsene per esaminarle, come si fa degli oggetti della percezione) nel momento in cui si formano, è
assolutamente impossibile, perché l'attenzione volontaria potrebbe soltanto farle svanire. Resta ancora da
spiegare questo fenomeno.

2. LA COSCIENZA IPNAGOGICA - B. Leroy definisce la coscienza ipnagogica «spettacolare e passiva»


e paragona le visioni dell'assopimento a una «rappresentazione cinematografica a colori» (op. cit., p. 111).
Una cosa è certa, che gli oggetti non sono presentati come reali (al contrario degli oggetti del sogno). In
quanto alla materia della quale si compongono le immagini (dati effettivi: fosfeni, sensazioni diverse? -
ricordi? - illusioni?) la coscienza ipnagogica non ci insegna nulla. Moltissimi psicologi hanno, tuttavia,
ammesso che le immagini ipnagogiche dipendono da barlumi endottici. Ma il minimo rapporto che intercorre
spesso tra i fosfeni e le immagini rende dubbia questa soluzione, almeno nella forma in cui la si propone
comunemente. Per risolvere il problema, il miglior modo sarà indubbiamente di sforzarsi di precisare la
natura della coscienza ipnagogica.

a) Natura della coscienza ipnagogica. Innanzitutto, fisiologicamente, non abbiamo solo abolizione delle
sensazioni visive, ma alterazione più o meno estesa e profonda delle altre sensazioni: la stessa posizione del
corpo è mal percepita; i contatti sono confusamente sentiti; tutto è immerso nell'indefinito; per la stessa
ragione, il tempo è indeterminato. Il tono muscolare si rilassa. Psicologicamente, anche il pensiero è fluido,
caotico, vago; si lascia andare e come sommergere; la riflessione e l'attenzione subiscono un arresto quasi
totale. È questo il momento in cui appaiono i fosfeni.
A partire da questo momento, la coscienza diviene in qualche modo complice, nel senso che si lascia
«incantare» (secondo la felice espressione di J. P. Sartre) dalle immagini ipnagogiche; essa non le osserva; le
vive come per l'effetto di una specie di fascinazione consensuale. Si spiega così come l'attenzione volontaria
farebbe dissolvere tutto, poiché libererebbe la coscienza, prigioniera (ma non assolutamente, altrimenti
sarebbe il sogno) dell'incantamento ipnagogico.

b) Funzione delle apparenze endottiche. È ormai possibile comprendere la funzione che esercitano le
apparenze endottiche e più generalmente le diverse sensazioni dell'assopimento. Esse non fanno che fornire
una materia intuitiva a «intenzioni» visive di oggetti. E ciò spiega come l'oggetto si presenti a tutta prima
senza preparazione, esso è in realtà costituito non da effetti endottici o fosfeni, con i quali non ha, in quanto
oggetto, niente di comune, ma unicamente dall’intenzione della coscienza verso un oggetto determinato,
intenzione che ha dovuto essa stessa essere provocata dal bisogno di dare un significato alle sensazioni e
particolarmente alle apparenze endottiche. Queste si prestano a tutti gli «informamenti». La coscienza non
deve «interpretarle», come nella fase di organizzazione sensoriale della percezione: essa non fa che stabilire,
non oggetti, ma che essa vede oggetti, cioè che le sue intenzioni, come tali, sono costitutive delle immagini
del dormiveglia. La coscienza si lascia coinvolgere dal suo proprio giuoco; essa vive o finge la sua
rappresentazione nel medesimo tempo e con lo stesso movimento in cui la forma.

§ 3 - Il sonno e il sogno

A. IL SONNO.

235 - Il sonno è stato per lungo tempo, secondo l'espressione di Myers, la «croce della fisiologia». Se le
ultime ricerche hanno apportato qualche lume sul meccanismo, la fisiologia e la biologia del sonno, molti
punti restano ancora oscuri e rendono alquanto incerta la psicologia dello stato di sonno.

1. IL SONNO DAL PUNTO DI VISTA PSICHICO - Lo stato di sonno può essere caratterizzato da una
parte come uno stato di disorganizzaziane delle funzioni psichiche, che colpisce particolarmente le facoltà di
attenzione, di volontà e di critica (che compongono ciò che Janet chiama la «funzione del reale»), e d'altra
parte come uno stato in cui la coscienza di se stesso diviene estremamente sorda e debole, per estinguersi,
pare, interamente, nel sonno profondo.
135
a)
L'attività
psichica nel
sonno
profondo. Le
ricerche più
remote

(Kohlschutter, De Sanctis) erano riuscite a stabilire che il sonno raggiunge la sua più grande profondità dopo
una o due ore, poi diminuisce bruscamente d'intensità continuando a decrescere fino al risveglio (Fig. 11). Ci
si domandava se, durante il periodo relativamente breve del sonno l'attività psichica non fosse
completamente abolita. Le esperienze compiute per accertarsene (risveglio brusco del dormiente in pieno
sonno) erano piene di incertezze, rischiando il risveglio artificiale (lento o brusco) di scatenare un sogno.
Oggi il metodo elettroencefalografico (permettendo di esplorare il cervello del dormiente e di misurare in
maniera precisa il grado e le variazioni della sua attività psichica, corrispondente ai gradi e alle variazioni dei
fenomeni bioelettrici cerebrali) non lascia posto ad alcun dubbio: la vita psichica continua durante il sonno
profondo168.

b) L'attività psichica nel sonno leggero. Se l'attività psichica nel sonno profondo era stata posta in
discussione, quella dei periodi intermedii che lo precedono o lo seguono (stati ipnagogici, assopimento,
momenti che precedono il risveglio), non è stata mai messa in dubbio. Non solamente il fatto che al risveglio
ci si ricordi del sogno ne dà testimonianza in maniera irrefutabile, ma spesso anche una specie di semi-
coscienza accompagna, distinguendosene, l'attività psichica del sonno. Colui che sogna si vede sognare. In
quanto all'estensione del fenomeno del sogno, le numerose e ricche esperienze di De Sanctis hanno stabilito
la realtà del sogno presso gli animali superiori, presso i bambini (che tuttavia pare comincino a sognare solo
verso i quattro anni), presso i vecchi, i cui sogni sono in generale poco durevoli. Per contro, gli idioti
sognano poco.

2. IL SONNO DAL PUNTO DI VISTA FISIOLOGICO - Il sonno è caratterizzato, fisiologicamente, «dalla


perdita del tono muscolare, la soppressione dell'innervazione volontaria, l'abbassamento dell'eccitabilità, la
perdita della differenziazione delle cronassie (II, 123) e la tendenza all'isocronismo dei gruppi muscolari
antagonisti, il rallentamento della respirazione e della circolazione, insomma dall'inversione delle funzioni
vegetative». (J. Lhermitte, Le mécanisme du cerveau, p. 134).

168 Il fisiologo inglese Caton, aveva osservato, nel 1875, in alcune sue esperienze su cervelli di scimmie e di conigli,
la presenza di correnti elettriche rivelate dalle oscillazioni del galvanometro. Queste correnti elettriche pare abbiano
relazione con le funzioni della materia grigia: quando queste ultime vengono esercitate, la corrente elettrica varia
negativamente. Nel 1913, Prawdicz-Nemensky ebbe l'idea di utilizzare il galvanometro a corda per raccogliere sul
cervello del cane oscillazioni di potenziale, che egli chiamò elettrocerebrogrammi e che divennero, in seguito ai diversi
perfezionamenti, gli attuali elettroencefalogrammi. (Cfr. Lhermitte, op. cit., p. 174).
136
3. IL SONNO DAL PUNTO DI VISTA BIOLOGICO - Il sonno appare come «il riposo del cervello». Il
problema sta nel chiedersi se sia l'effetto della stanchezza, a causa dell'intossicazione dei centri cerebrali, o al
contrario una manifestazione vitale di difesa contro la stanchezza e lo svilupparsi di tossine prodotte durante
la veglia. Nella prima ipotesi, il sonno sarebbe uno stato passivo: esso sarebbe subìto dall'organismo. Nella
seconda, sarebbe uno stato attivo, simile al manifestarsi di un istinto. Sembra che quest'ultima ipotesi sia la
più verosimile: noi non dormiamo perché siamo intossicati, ma allo scopo di non essere intossicati.

236 - 4. IL MECCANISMO DEL SONNO - Il sonno naturale ha la proprietà di riversibilità e di


instabilità, cioè a dire, da una parte, che il dormiente può essere ricondotto allo stato di veglia da
un'eccitazione esterna, e d'altra parte che il sonno, indipendentemente da ogni influenza esterna, è di per se
stesso, per quanto riguarda la sua profondità, in perpetua oscillazione169. Ora questi due caratteri sono
precisamente quelli che in fisiologia definiscono l'inibizione. L'incoscienza, relativa o totale, del sonno,
dovrebbe dunque attribuirsi, come aveva supposto Brown-Sequard, a un atto inibitorio. Il fenomeno
avviene, osserva Claparède, come se all'origine dell'assopimento ci fosse stata una inibizione attiva,
esercitata dai centri, sulla funzione di attenzione alla vita. Come ha notato Bergson, «dormire è
disinteressarsi. Si dorme nella esatta misura che ci si disinteressa». Il sonno naturale è dunque uno stato
voluto, desiderato o accettato, che la volontà di colui che dorme è capace di interrompere e che lo lascia
parzialmente in relazione con l'esterno170.
Si spiegano così alcuni notissimi fenomeni, che sono misteri, secondo la teoria passiva o fisico-chimica del
sonno, per esempio il caso della madre dormiente che, assolutamente sorda a tutti gli altri rumori, si risveglia
immediatamente nel momento in cui il suo bambino geme o si muove, - il caso del mugnaio che si desta
immediatamente dal sonno nel momento in cui il suo mulino si ferma, - il caso in cui ci si sveglia
bruscamente al momento voluto, anche quando questo momento non è abituale, - il caso infine in cui la
preoccupazione di una pratica da svolgere, di un problema da risolvere, di un lavoro da intraprendere,
sospendendo l'inibizione, sospende nel medesimo istante il sonno.

Le esperienze di F. Bremer, di Bruxelles, sul gatto, aiutano a comprendere il meccanismo inibitore. Bremer
«isola» il cervello separando completamente il mesencefalo, in maniera che l'encefalo non riceva più dalla
periferia altre eccitazioni fuori che le visive e le olfattive. L'animale, in seguito a questa operazione, piomba
nello stato .di sonno naturale profondo. Sembrerebbe perciò che il sonno sia effetto del blocco delle vie
attraverso le quali passano le eccitazioni periferiche. (J. Lhermitte, op. cit., p. 143-144).

B. IL SOGNO.

237 - l. I METODI PER LO STUDIO DEL SOGNO - Lo studio dell'attività psichica del sonno può essere
affrontato in vari modi.

a) Procedimento diretto. L'introspezione può procedere sia attraverso auto-osservazione, sia attraverso
inchieste e questionari. Attraverso il primo procedimento, il soggetto si sforza di ricordarsi di ciò che è
avvenuto in lui immediatamente prima del sonno e nel periodo di assopimento, poi di descrivere più
esattamente che può i sogni dei quali conserva memoria, immediatamente dopo il risveglio. La comparazione
di questi stati dovrebbe permettere di precisarne i rapporti (Cfr. Maury, Sommeil et réves, Parigi, 1878).
Questo metodo è indubbiamente imperfetto, a causa dell'intervento necessario della memoria e dei rischi di
deformazione (o piuttosto, di organizzazione) che comporta (33). Ma se si tratta di studiare il sogno in se
stesso, non ce n'è altri.

b) Metodo indiretto. Questo metodo consisterà nello scatenare artificialmente il sogno 171: il soggetto, al
risveglio (sia naturale, sia, più spesso provocato poco dopo l'eccitazione artificiale) descrive ciò che è
169 Ciò che si dimostra sperimentalmente per mezzo di encefalogrammi bioelettrici.
170 I casi in cui l'estrema stanchezza determina un sonno che può recar danno al dormiente sono casi-limite, al di fuori
del sonno normale. (Cfr. Claparède, Nouveau Traité de Psychologie de Dumas, Parigi, 1930, t. IV, p. 468).
171 Si producono eccitazioni visive (proiezione di una viva luce sul dormiente), auditive (rumori diversi presso il
dormiente o in una camera vicina), tattili (contatti diversi su varie parti del corpo). Per esempio, prima del sonno, si
incollano su diversi punti del corpo dei quadratini di carta gommata che tendono la pelle. Una serie di esperienze (ben
750) paiono stabilire che i sogni siano legati alle impressioni prodotte così. Ad esempio, quando si applica un
quadratino di carta all'alluce si sogna di camminare con grande difficoltà sulla punta dei piedi, - l'applicazione sulla
nuca provoca in sogno la penosa impressione di osservare il volo degli areoplani, ecc.
137
avvenuto in lui. Questo metodo avrebbe sul precedente (che tuttavia utilizza facendo appello alla memoria
del dormiente) il vantaggio di permettere uno studio più preciso del rapporto esistente tra l'eccitazione
esterna e lo stesso sogno, vantaggio non solo teorico. È però necessario, allo scopo di affidarsi regolarmente
a questo procedimento, accertarsi che sia stata effettivamente l'eccitazione esterna artificiale a provocare il
sogno descritto dal dormiente al suo risveglio. Di ciò potrebbe far fede solo colui che ha sognato,
testimonianza tuttavia a lui resa assolutamente impossibile, come vedremo più avanti a causa della natura
stessa del sogno.

2. IL MECCANISMO DEL SOGNO

a) Inibizione e dinamogenia. Come si produce lo stato onirico? Su questo punto recenti indagini pare
abbiano mostrato che il processo che regola il sogno durante lo stato di sonno comporta due aspetti o
condizioni, cioè, l'inibizione delle zone corticali in relazione con i sensi e la successiva formazione di focolai
cerebrali di grande attività. L'inibizione è prodotta dalla posizione assunta da colui che vuoI dormire:
posizione coricata, allontanamento dal rumore, oscurità, chiusura degli occhi, esclusione dell'attività
intellettuale, assopimento generale. A causa di queste inibizioni, le zone corticali si spengono l'una dopo
l'altra. Nello stesso tempo, tutta l'energia che resta disponibile nella zona corticale è assorbita da uno o più
focolai, l'attività dei quali si traduce in immagini, particolarmente visive e cenestesiche.
b) La prevalenza delle immagini cenestesiche. Resta ancora da spiegare il perché della profusione di
immagini visive e cenestesiche. Perché proprio quei focolai che corrispondono ad esse entrano in attività,
durante l'assopimento degli altri? Bergson ha proposto questa spiegazione. Egli muove dal fatto ben accertato
che il dormiente non cessa di provare durante il sonno un gran numero di impressioni: tattili (contatto,
pressione, senso interiore), visive (luce idioretinica), cenestesiche, auditive (mobili che scricchiolano, rumori
esterni, russare, ronzii, scampanii, sibili all'orecchio, respirazione), ecc. e, di conseguenza, che nel sonno
naturale, i nostri sensi non sono in alcun modo preclusi alle impressioni interne ed esterne . I nostri sogni
sono dunque, almeno in parte, legati a queste impressioni.
Perché tutte queste cose, essenzialmente diverse, si traducono soprattutto in immagini visive e
cenestesiche? La ricchezza delle immagini cenestesiche si spiega da se stessa, sembra, per il fatto che,
durante l'assopimento dei sensi esterni, la vita vegetativa continua il suo corso e non cessa di tradursi in
impressioni più o meno durevoli. Ci si rende conto così dei «sogni premonitori», mediante i quali si è
avvertiti in sogno di malattie che non si manifestano ancora durante lo stato di veglia. In quanto alle
immagini visive, Bergson ritiene che la loro predominanza dipenda dalla nostra tendenza fondamentale ad
inserire tutte le nostre percezioni nel quadro spaziale della visione. Questa tendenza viene pienamente
esercitata nel sogno.
La spiegazione di Bergson è valida, ma insufficiente. Poiché se noi abbiamo una «tendenza fondamentale»
a visualizzare le nostre sensazioni, le nostre emozioni, i nostri stessi pensieri, resta ancora da conoscere
perché questa tendenza viene esercitata appieno nel sogno. È essenzialmente questo il punto da chiarire.
Vedremo più avanti che lo stato onirico, per il fatto stesso d'escludere la coscienza riflessa, non può
comportare che immagini e che esso è, per la sua stessa natura, portato al processo di simbolizzazione.

238 - 3. ANALISI DELLA COSCIENZA ONIRICA - Nell'indagine della caratterizzazione della coscienza
onirica, possiamo procedere sia dal punto di vista del contenuto del sogno, sia dal punto di vista delle sue
cause, sia dal punto di vista della sua forma.

a) Gli elementi del sogno. Si è spesso osservato che tutti i fenomeni psichici della veglia sono suscettibili
di prodursi nel sogno: sensazioni cenestesiche e muscolari, immagini tattili, luminose, plastiche; stati
affettivi (emozioni, gioia, tristezza, ecc.); infine, almeno sotto forma simbolica, atti intellettuali (giudizi,
ragionamenti, ricordi, volizioni, ecc.).
Freud osserva che, nel sogno, per mancanza di coscienza riflessiva, le operazioni razionali non possono
essere esercitate, ma solamente significate (o simbolizzate). Il pensiero concettuale non può che decomporsi
in rappresentazioni plastiche, per opposizione al movimento del pensiero vigile, che tende a progredire
138
dall'immagine all'idea172. Ciò è ben comprensibile, poiché il sogno può comportare soltanto immagini
impotenti ad esprimere pure relazioni.
Inoltre, il carattere di ipermnesia di alcuni sogni è universalmente noto. Talvolta effettivamente il sogno
mette in opera elementi che erano finiti per sparire dal campo della memoria vigile e che risalgono in certi
casi fino alla prima infanzia del sognatore. Accade anche che il sogno comporti molti elementi che sono
sembrati perfettamente insignificanti e indifferenti durante lo stato di veglia (cfr. Freud, Die Traumdeutung;
Science des rèves, tr. fr., p. 10-19).

b) Le origini del sogno. Si può adeguatamente spiegare il sogno mediante le impressioni che
sopravvengono al dormiente sotto forma di eccitazioni sensoriali o di sensazioni interne? Qualche volta si è
ritenuto di sì. Questa spiegazione tuttavia (teoria somatogena) è certamente insufficiente: né le impressioni
esterne, né la cenestesia, né il giuoco delle immagini endottiche permettono di spiegare interamente il sogno,
poiché, secondo l'osservazione di Freud, le eccitazioni sensoriali, interne o esterne, agendo durante il sonno,
non si presentano sotto la loro forma reale, ma sotto una forma simbolica 173. Volendo invece individuare nelle
eccitazioni sensoriali del sonno la causa specifica del sogno, l'effetto prodotto dall'eccitazione fisica
apparirebbe della stessa natura di quella e in costante rapporto con la medesima. L'esperienza mostra invece
che non è affatto così.
Così l'insufficienza palese della teoria somatogena ha indotto molti psicologi a spiegare il contenuto del
sogno mediante la combinazione delle eccitazioni sensoriali del sonno con le preoccupazioni della veglia e
mediante i ricorsi, per l'organizzazione così particolare di questi elementi, alle leggi classiche
dell'associazione. Il sogno diverrebbe così un fenomeno associativo. Per tacere il fatto che ciò costituisce una
spiegazione puramente verbale, questa teoria lascia ancora senza giustificazione reale il carattere simbolico
del sogno, che è, per l'appunto, ciò che di più notevole si osserva nello stato onirico.
Perciò siamo portati alla conclusione che gli elementi del sogno non sono in esso a loro proprio titolo, ma
a titolo di semplici occasioni fornite al giuoco dell'immaginazione simbolica. Come Freud ha solidamente
stabilito, il sogno ha dunque cause propriamente psichiche: non si spiegherà (per lo meno adeguatamente)
dal di fuori, ma solo dal di dentro. Ciò significa che la ricerca dovrà esplicarsi meno sugli elementi del sogno
che sulla forma, cioè sul suo simbolismo, poiché la vera materia del sogno (ciò che chiameremo con un
termine aristotelico, la sua causa materiale) non è costituita, propriamente parlando, dalle impressioni che
sopravvengono al dormiente, e tanto meno dai suoi ricordi, in quanto tali, ma dalle immagini stesse che esso
produce, in quanto pure immagini o puri simboli.

Freud enumera cinque processi attraverso i quali si elabora il contenuto della coscienza onirica.
Condensazione: elementi provenienti da immagini disparate si fondono in una sola immagine. Transfert: la
carica affettiva, dissociata dal suo oggetto normale, è trasferita in un oggetto accessorio (un individuo che
sogna, immagina di strangolare un cagnolino bianco, che è in effetti il sostituto di una persona che possiede
un cane di quel genere e che egli odia). Drammatizzazione: il pensiero astratto si traduce in immagini
concrete; i legami logici si trasformano in successive immagini. Simbolizzazione: una immagine è sostituita
da un'altra, il simbolismo della quale riproduce, in forma alterata (e secondo un codice universale e tipico) il
contenuto della prima immagine174. Elaborazione secondaria: colui che sogna ordina, in maniera più o meno
arbitraria, i suoi sogni, utilizzando le sue fantasticherie dello stato di veglia.

172 Ecco un esempio tipico citato da R. Dalbiez (La méthode psychanalytique, 2 voll., 2a ed. Parigi, 1936, I. p. 145):
«Silberer, quasi addormentato, pensa ai giudizi di valore transoggettivo (..). Ha l'allucinazione ipnagogica d'un grande
cerchio o d'una sfera che ondeggia nell'aria e che contiene teste di tutti gli uomini». Il senso di questa curiosa immagine,
aggiunge R. Dalbiez. è chiaro: il cerchio che circonda tutte le teste significa che la validità dei giudizi impersonali è
ammessa per tutti gli intelletti. Si tratta dunque in questo caso di una «visualizzazione» del pensiero.
173 Se, per esempio, la proiezione di una viva luce sugli occhi del dormiente basta forse a spiegare la produzione di un
sogno, non basta tuttavia a spiegare la produzione di tale sogno (ora d'un incendio, ora di una festa in un salone
sfarzosamente illuminato, ora del brusco passaggio dal buio di una galleria al pieno sole di mezzogiorno, ecc.). Nello
stesso modo, nota Freud, (Die Traumdeutung, Science des reves, tr. fr, p. 26), la suoneria di una sveglia fa sognare, ora
di sentire le campane di una chiesa, ora di sentire tinnire i bubboli di un traino, ora che una pila di piatti s'infrange al
suolo.
174 Noi usiamo il termine di «simbolizzazione» in un senso più largo di Freud. Questa parola designa per noi
un'attività o funzione produttrice d'immagini che ha la sua ragione immediata in se stessa, nel suo proprio giuoco e che,
di conseguenza, non trova, come tale, nella realtà che agisce sul dormiente (eccitazioni, ricordi, conoscenza), null'altro
che una semplice occasione di esercitarsi seguendo la sua propria finalità. Da questo punto di vista, il processo di
condensazione, di «transfert», di drammatizzazione non sono più che aspetti diversi della simbolizzazione.
139

239 - c) La forma del sogno. Tutto il problema si riduce dunque alla ricerca della spiegazione del
simbolismo onirico. Questo è il punto su cui, ben a ragione, ha insistito Freud, il quale afferma che il sogno
ha un senso, cioè che (secondo lui) ha cause psichiche proprie e che sarà la scoperta di queste cause a
fornirci la vera spiegazione del sogno.
A tal riguardo, la teoria freudiana consiste nella tesi che il sogno può essere spiegato solo come
realizzazione di un desiderio, rimosso durante lo stato di veglia e che, mutuando i suoi elementi dagli
avvenimenti della veglia, si esprime sotto una forma simbolica, in maniera da sottrarsi al controllo inibitorio,
che continua a funzionare, benché alquanto assopito, durante il sonno (Freud, Die Traumdeutung; Science
des reves, tr. fr., pp. 112, 132, 149)175.
Si era osservato, dopo lunghe ricerche, che l'attività psichica del sonno organizza spesso una specie di
opposizione alla coscienza vigile. Accade effettivamente che la coscienza onirica manifesti inclinazioni,
desideri, risvegli dei ricordi, eserciti suggestioni che la coscienza vigile respinge e rinnega. Questi fatti ben
conosciuti inducevano a ritenere che l'assenza o la flessione del controllo volontario lasciasse esprimersi
durante il sogno le tendenze oscure del soggetto. Riprendendo questa tesi, Freud ne ha fatto oggetto di
ricerche metodiche, che l'hanno portato a formulare la seguente teoria: nel sogno conviene distinguere due
contenuti: il contenuto manifesto, che non è altro che la giustapposizione, la apposizione o la
sovrapposizione di immagini sparse, e il contenuto latente, formato dai desideri e dai pensieri,
particolarmente di natura sessuale, che, rimossi durante lo stato di veglia, riprendono la loro libertà durante il
sonno e si esprimono sotto la forma apparentemente incoerente del sogno, che resta soltanto da decifrare
secondo metodi speciali (psicoanalisi). I sogni sarebbero dunque la realizzazione dei nostri desideri più
segreti.

d) Il senso del simbolismo onirico. Le osservazioni di Freud sono ingegnose e certamente idonee a fornire
la spiegazione di un gran numero di sogni. Se esse sottolineano fatti incontestabili, tuttavia non giustificano
la teoria che Freud ha costruito su quelle. Ce ne renderemo conto considerando che se la «materia» del sogno
è mutuata dalle nostre impressioni esterne ed interne, e dalla nostra conoscenza (nella più larga accezione del
termine), questa materia non può essere utilizzata che sotto le forme del simbolo. Come abbiamo già
osservato a proposito delle visioni ipnagogiche, le impressioni del sonno non presentano, propriamente
parlando, oggetti alla coscienza onirica. Non vi sono oggetti, per definizione, altro che per una coscienza
nella pienezza delle sue facoltà percettive, cioè a dire per la coscienza vigile. Quindi, necessariamente colui
che sogna deve attribuire un senso simbolico, secondo le sue preoccupazioni, i suoi affanni, i suoi desideri,
le sue abitudini, i suoi ricordi, alle impressioni diverse che prova. In altri termini, le molteplici impressioni
che colpiscono l'individuo in stato di sonno non sono e non possono essere che occasioni offerte alla
funzione simbolizzante che agisce liberamente nel sogno. Le impressioni non sono captate per quel che esse
sono in sé (ciò sarebbe possibile solo ad una coscienza vigile), ma come aventi valore di altri oggetti, cioè
come simboli176.
Perciò contrariamente a quel che pensa Freud, diremo che la funzione simbolica è propria dell'essenza
stessa della coscienza onirica che, sviluppandosi nell'irreale, può esprimersi solo sotto forma di immagini. Il
simbolismo qui non è (se non accidentalmente) un artificio o un'astrazione; è la forma stessa della coscienza
onirica, ciò che la costituisce come tale. Per effetto della duplice regressione del soggetto (cioè, qui, della
coscienza riflessa) e dell'oggetto (cioè, qui, del mondo della percezione), tutto ciò che avviene di reale
(impressioni, inquietudini, malesseri, desideri) nel sogno, può avvenire soltanto sotto le specie di immagini e
di finzioni.
La «realizzazione dei desideri» nel sogno è un fatto incontestabile, che l'analisi freudiana mette in viva luce
(benché Freud abbia attenuato più tardi l'intransigente rigore delle sue prime tesi). Tutta la questione consiste
nel sapere se si può trovare in questa teoria una sufficiente spiegazione del simbolismo onirico. Abbiamo
visto or ora che ciò è molto dubbio, in primo luogo perché un certo numero di sogni non può essere ritenuto
realizzazione di desideri rimossi (cosa di cui Freud ha finito di convenire: cfr. Einfuhrung in die
Psychoanalyse, Vienna e Zurigo, 1916-17; Essais de Psychanalyse, trad. fr., Parigi, 1922, p. 17-19, cfr. tr. it.,
Roma, 1948), in secondo luogo perché la simbolizzazione ha una causa più generale, che consiste nella
forma stessa della coscienza onirica. Da questo punto di vista, l'azione dei desideri, in seno al sonno, non è
che uno degli elementi che intervengono nel sogno con le impressioni esterne e interne, ricordi, conoscenza:

175 Come esempio tipico, basti ricordare il caso di «transfert» citato poco prima.
176 Per esempio, la suoneria della sveglia è un rombo di tuono, o il suono di campane, ecc.; il soffio prodotto da una
corrente d'aria è il fischio di una locomotiva; lo sbattere di imposte contro il muro è un disastro ferroviario.
140
il desiderio rimosso rappresenta, anch'esso, unicamente un'occasione più o meno efficace, fornita alla
funzione simbolizzante, che è la forma stessa della coscienza onirica.

240 - 4. NATURA DELLA COSCIENZA ONIRICA

a) Lo stato di fascinazione - J. P. Sartre (L'Imaginaire, p. 217) definisce lo stato onirico come una specie di
«fascinazione senza posizione di esistenza». Potremo formarci un'idea approssimativa della natura della
coscienza onirica considerando lo stato di fascinazione nel quale immerge la lettura di un romanzo
appassionante. io leggo un romanzo d'avventure: credo a quel che leggo, cioè a dire che necessariamente
entro nel giuoco, altrimenti l'interesse cadrebbe. Per ciò stesso, il mondo della percezione si affievolisce
prodigiosamente: sembra anzi che (a meno che non intervenga una brusca reazione) esso non esista più per il
lettore appassionato e ammaliato dalla potenza fascinatrice della lettura. Non ne consegue però che io cessi
di considerare immaginaria la storia che leggo (benché l'autore, per sollecitare l'interesse e favorire la
suggestione, pretenda di raccontare una «storia vera»): in ogni modo, sia pur «vera», la storia non è per me
altro che una finzione, ma è una finzione dalla quale io in qualche modo sono preso, e tanto più fortemente
quanto più il suo carattere di finzione la sottrae a tutti gli interventi del mondo ad essa estraneo.
Ecco l'immagine del sogno, che procede secondo lo stesso meccanismo della fascinazione, ma su un
registro di potenza di gran lunga più elevato. La coscienza onirica, come la coscienza ipnagogica, è una
coscienza che si lascia coinvolgere dal suo proprio giuoco, ma in questo caso in maniera totale. Perché, qui,
è essa stessa l'inventrice della storia fascinosa ed essa che, nel medesimo tempo, la vede svolgersi, senza
tuttavia distinguere altrimenti che in atto vissuto (e non riflesso) questa dualità formale che la costituisce.
Si sa che i sogni hanno la proprietà di svolgersi con estrema rapidità. «In qualche secondo, il sogno può
rappresentarci una serie di avvenimenti che, durante la veglia, occuperebbero intere giornate». Bergson
(Energie spirituelle, p. 113) spiega così questo fenomeno: «Una moltitudine, per quanto grande si voglia, di
immagini può essere compresa in un sol colpo d'occhio, panoramicamente; a maggior ragione sarà contenuta
nella successione di un piccolo numero di istanti».
Questa spiegazione non sembra valida, perché non è la rapidità della successione delle immagini che può
spiegare l'impressione di lunga durata provata dalla coscienza onirica. Sarebbe, a tal fine, necessario che la
durata reale della successione dei momenti di questa coscienza coincidesse con la successione delle
immagini. Ciò è impossibile perché il ritmo di scorrimento della durata della coscienza e della durata degli
oggetti o scene immaginate sono (per ipotesi) assolutamente differenti: si tratta per la coscienza di qualche
istante e per le scene sognate di molte ore e talvolta di molti giorni. Infatti, il tempo, così come lo spazio
immaginario, è qui egualmente irreale; è una qualità intrinseca degli oggetti del sogno e non la misura di una
successione, come nella percezione del movimento. La durata, come le dimensioni, è insita negli oggetti
stessi.

b) Il me-oggetto. La funzione e la forma dell'«io» nel sogno hanno qualcosa di veramente singolare. Infatti
l' «io» (dal punto di vista formale) non può sussistere perché è assente la coscienza riflessiva. Colui che
sogna si vede sognare: ecco tutto. Ciò accade come nel caso del lettore appassionato. Questi infatti «si mette
al posto» di questo o quel personaggio del romanzo e perciò, secondo lo svolgersi degli avvenimenti che il
romanzo descrive, si considera in atto di operare, soffrire, amare, parlare, ecc., in quel personaggio stesso che
lui è simbolicamente o per sostituzione spontanea. Nello stesso modo colui il quale sogna assiste alle sue
avventure mentre le vive immaginariamente: egli è nello stesso tempo attore e spettatore; il suo io è divenuto
un oggetto («il me-oggetto»).
J. P. Sartre si domanda come, nelle descritte condizioni, colui il quale sogna possa talvolta chiedersi in
sogno: «E se non sognassi?». Ciò sembra effettivamente implicare l'intervento di una coscienza riflessiva,
incompatibile con l'atto del sognare. In realtà, si tratta di un atto riflessivo immaginario, mediante il quale l'io
oggettivo afferma se stesso, cioè sogna di non sognare.

c) Ritorno allo stadio mentale dell'infanzia e del primitivo. Si è talvolta definito il sogno come una forma
del processo di dissoluzione regressiva ritmica delle attività psichiche, della quale Jackson ha formulato il
principio nei seguenti termini: quando in seno alla sfera d'espressione psico-motrice, una sollecitazione
superiore subisce un indebolimento funzionale, la sollecitazione immediatamente inferiore riacquista subito
la sua indipendenza e si mette a funzionare secondo le leggi sue proprie. In virtù di questo principio, si nota
che, nel sogno, l'inibizione momentanea delle attività psichiche coscienti fa insorgere una forma d'attività che
obbedisce a determinate leggi psicologiche, le quali riproducono nei loro caratteri essenziali le leggi del
pensiero infantile o primitivo.
141
Dal punto di vista descrittivo, queste osservazioni sono valide. Ma l'idea di regressione non basta, da sola,
a fornire una spiegazione adeguata, poiché sarebbe altresì necessario spiegare il simbolismo del pensiero
infantile e primitivo. In realtà, se l'attività psichica del fanciullo e (in tutto o in parte) quella del primitivo,
sono tendenti all'immaginazione e alla finzione, come l'attività psichica onirica, ciò avviene perché e nella
misura in cui, nell'uno e nell'altro caso, non sussiste né obbiettività, nel senso strettamente proprio del
termine, né coscienza riflessiva. Perciò si può dire, tanto che il fanciullo e il primitivo vivono nel sogno,
quanto che il sogno riporta l'adulto allo stadio mentale del fanciullo e del primitivo.

241 - 5. LA QUESTIONE DELL'INCOERENZA DEL SOGNO

a) Il sogno e la logica vigile. La coscienza onirica viene spesso definita, in rapporto alla coscienza vigile,
come uno stato di anarchia psichica, affettiva e mentale. Il sogno sarebbe dunque caratterizzato dalla sua
incoerenza. È infatti l'impressione che esso lascia comunemente. Ne fanno le spese le storie più strane e
assurde; vi si incontrano nel modo più naturale i personaggi più lontani nel tempo e nello spazio e talvolta
anche vi si fondono, così puramente e semplicemente; vi si presentano le situazioni meno verosimili e vi si
svolgono in colpi di scena che colui che sogna va considerando senza dar segno di stupore. La logica vigile è
in rotta.
Si è tentato di spiegare questa incoerenza, cioè di ridurla, dimostrando che il sogno ha un senso e che la
sua assurdità è sempre apparente. Questo è, soprattutto, il punto al quale ha condotto lo sforzo dell'indagine
di Freud. Ma già abbiamo visto che l'errore di Freud consiste nel generalizzare un tipo di spiegazione (il
sogno come realizzazione di un desiderio) che può essere valida per alcuni sogni e non per tutti i sogni senza
eccezione.
Tuttavia Freud ha avuto il grande merito di insistere sul simbolismo del sogno e perciò di far comprendere
che, contrariamente al principio di associazione, si tratta, non di spiegare il sogno attraverso le immagini,
bensì le immagini attraverso il sogno, ovvero, ed è la stessa cosa, attraverso la funzione simbolica della
coscienza onirica.

b) L'organizzazione onirica. Il simbolismo, dicevamo, è la forma stessa della coscienza onirica, per la
quale non c'è, nel senso suesposto, né soggetto né oggetto. Non si può dunque chiedere al sogno di
assomigliare ad una riflessione sul reale, la quale dovrebbe obbedire alle regole della logica. Infatti, il sogno
è una finzione, un romanzo irrealmente vissuto, che obbedisce alla logica della finzione, nella quale
«l'illogico» entra come elemento essenziale. Le storie del sogno non sono più «incoerenti» della favola di
Pelle d'asino e delle pantomime dello Chàtelet.

6. LA FINALITÀ DEL SOGNO - Il nostro studio ci ha permesso di svelare la causa efficiente del sogno,
cioè del simbolismo onirico. Resta ancora da determinare la sua finalità. Possiamo a tal fine ricorrere di
nuovo alle teorie di Freud, che ha precisamente stabilito che il sogno, in quanto reazione all'eccitazione
psichica (intendendo per questa tutto ciò che è contenuto nella coscienza, impressioni sensoriali, malesseri,
affanni, desideri, conoscenza) «deve avere la funzione di allontanare quest'eccitazione, affinché il sonno
possa essere consumato», così che, «lungi dall'essere, come lo si accusa, un perturbatore del sonno, il sogno
è invece un custode del sonno che esso difende da tutto ciò che è suscettivo di turbarlo». (Freud, Einfuhrung
in die Psychoanalyse; Introduction à la psychanalyse, tr. fr., p. 143).
Tuttavia, invece di dire come Freud, che il sogno protegge il sonno presentando il desiderio come
realizzato (ciò che è, come abbiamo visto, solo un caso particolare o accidentale del sogno), diremo che la
finalità biologica del sogno è di difendere il sonno trasformando in finzioni tutte le eccitazioni, somatogene o
psicogene, che, prese nella loro propria realtà, sarebbero un ostacolo al sonno e al riposo che esso deve
assicurare.
Può sembrare che questo concetto della finalità del sogno renda inintelligibili i fenomeni degli incubi (o
sogni penosi) che turbano il sogno e provocano il risveglio del dormiente.
Ma, per spiegare l'interruzione del sonno provocata dall'incubo, noteremo, da una parte, che l'incubo è solo
un fenomeno accidentale, e, dall'altra parte, che il risveglio che genera, entra esso stesso in certo modo nella
finalità generale del sonno, che è di assicurare il riposo. Il sogno è un mezzo di perseguimento di questo
riposo e, per conseguenza, della tranquillità del sonno: conviene che esso cessi allorquando
(accidentalmente) la sua natura può turbare il sonno e molestare il dormiente.

§ 3 - I sonni patologici
142
242 - 1. IL SONNAMBULISMO - Si definisce con questo termine una specie di sonno anormale la cui
profondità è variabile e durante il quale il soggetto si leva, cammina, scrive o parla, cioè agisce durante il
sonno.

2. L'IPNOSI - Distinguiamo il sonnambulismo naturale o spontaneo, stato patologico che si produce


generalmente nel corso del sonno naturale, e il sonnambulismo artificiale o provocato, che è una forma dello
stato ipnotico, caratterizzato dal fatto che possiamo conversare col soggetto, il quale, dal canto suo, può
presentare, agli occhi di un osservatore non edotto, l'apparenza di una persona normale e perfettamente
sveglia177.
In quanto alla natura del sonno ipnotico, essa rimane molto incerta. Il punto più difficile è spiegare il
persistente legame fra ipnotizzato e ipnotizzatore. Come per il sonno naturale, tendiamo a ricorrere ai
meccanismi congiunti dell'eccitazione e dell'inibizione, l'una «induttiva» per l'altra e viceversa. Il
sonnambulismo spontaneo, senza dubbio, può dipendere dallo stesso meccanismo 178.

177 Cf. P. Janet, L'automatisme psychologique, Parigi, 1889, p. 73: Si osservano regolarmente nel pensiero degli
individui che, per una causa o per l'altra, abbiamo avuti dei periodi di sonnambulismo, tre caratteri o tre leggi della
memoria che sono propri di tali soggetti: 1) Assoluta dimenticanza, durante lo stato di veglia di tutto ciò che è avvenuto
durante il sonnambulismo; 2) Ricordo particolareggiato durante un nuovo sonnambulismo di tutto ciò che è avvenuto
durante il sonnambulismo precedente; 3) Ricordo particolareggiato durante il sonnambulismo di tutto ciò che è accaduto
durante la veglia. La terza legge presenta più eccezioni e irregolarità delle altre.
178 La catalessi ha le apparenze di un sonno profondo, ma non è un sonno. Il catalettico viene privato in modo
repentino, imprevisto e irrefrenabile del tono muscolare, cioè subisce una inibizione brutale delle funzioni muscolari.
Ma durante la crisi, la coscienza sussiste integralmente: il catalettico vede tutto ciò che si fa e ode tutto ciò che si dice
vicino a lui e prova un'atroce impressione d'impotenza. (Cfr. J. Lhermitte, Les mécanismes du cerveau, p. 156).
143

CAPITOLO QUARTO

LA MEMORIA

SOMMARIO179

Art. I - NOZIONE - Definizione - Reminiscenza e ricordo.

Art. II - FISSAZIONE E CONSERVAZIONE. Le condizioni di fissazione L'organizzazione. - La memoria


immediata - La dimenticanza - La dissoluzione dei gruppi - Inibizione retroattiva ed anteroattiva - La
deformazione - Cause - Processi - Trasformazione del ricordo in sapere.

Art. III - L'EVOCAZIONE DEI RICORDI. Evocazione spontanea - Influenza del raggruppamento -
Influenza del campo intermediario Evocazione volontaria - Il problema - Organizzazione e
reintegrazione.

Art. IV - RICONOSCIMENTO E LOCALIZZAZIONE. Il riconoscimento nella percezione -


Riconoscimento incosciente - Riconoscimento cosciente - Riconoscimento nella memoria - Il
problema dei criteri - La distinzione immediata - Casi di riconoscimento laborioso - Localizzazione -
Riconoscimento e localizzazione - Il quadro temporale.

Art. V - DISMNESIE, AMNESIE, IPERMNESIE - Le dismnesie - Amnesie sistematizzate, localizzate o


aprassiche - Amnesie istantanee o progressive - Le ipermnesie.

Art. I - Nozione
243 - 1. DEFINIZIONE - Possiamo definire la memoria come funzione d'evocare (coscientemente o no) le
immagini del passato. Definizione, questa, che non deve però pregiudicare soluzioni che occorreranno a
proposito dei problemi sollevati dall'attività memoriale. Non si fa qui che designare un fenomeno attraverso i
suoi caratteri apparenti e universali, in quanto che la memoria è sempre, nell'animale come nell'uomo, l'atto
d'evocare le immagini del passato.

Si distingue qualche volta una memoria sensibile e una memoria intellettuale. Ma, ad essere precisi, non c'è
una memoria intellettuale: l'atto di applicare il pensiero a nozioni astratte non è atto di memoria, bensì di
ragione. Se c'è evocazione delle circostanze nelle quali si sono acquisite determinate nozioni, allora c'è
memoria, ma memoria sensibile, giacché sono immagini del passato quelle che vengono evocate. Infine,
ogni memoria è sensibile.

2. REMINISCENZA E RICORDO - Si distinguono nella memoria quattro momenti o fasi distinte: la


fissazione e la conservazione, il richiamo, il riconoscimento, la localizzazione dei ricordi. Si è soliti
aggiungere che, di queste quattro fasi, solo le due ultime specificano la memoria, definita in questo caso
come facoltà di rivivere e di riconoscere il passato della coscienza come tale. La fissazione, la
conservazione e il richiamo non sarebbero che le condizioni della memoria e costituirebbero quella che
Bergson chiama memoria - abitudine o reminiscenza, riproduzione del passato senza riconoscimento: e l'altra
memoria, quella che riconosce e localizza, sarebbe la memoria-ricordo o memoria propriamente detta
(Matière et Mémoire, p. 74 sg.). Queste due memorie, secondo Bergson non si devono considerare come
subordinate, ma come essenzialmente distinte. «Il passato sopravvive sotto due forme distinte: 1° in
179 Cfr. Aristotele, De Memoria et Reminiscentia. - S. Tommaso, In Aristotelis De Memoria et Reminiscentia, ed.
Pirotta, Torino, 1928. - Ribot, Les maladies de la Mémoire, Parigi, 1881. - J. De La Vaissière, Éléments de psy. The
Principles of Psychology, 2 voll., Nuova York, 1890; Précis de Psychologie, trad. fr. di Baudin - Bergson, Matière et
Mémoire. - L'énergie spirituelle, p. 117 sg. - Piéron, L'évolution de la mémoire, Parigi, 1910. - L' habitude et la
mémoire, in Nouveau Traité de Psychologie di Dumas, t. IV, p. 67-136. - Koffka, Principles of Gestalt Psychology, c. X
e XI. - J. Delay, Les dissolutions de la mémoire, Parigi, 1942. - Gusdorf, Mémoire et Personne, Parigi, 1951.
144
meccanismi motori; 2° in ricordi indipendenti [...]. Spingendo sino al limite questa distinzione fondamentale,
ci si potrebbero rappresentare due memorie teoricamente indipendenti». La memoria-ricordo è dunque
memoria del passato come tale; la memoria-abitudine è pura ripetizione meccanica.
Si sono già notate (189) le difficoltà di questa teoria. Basterà qui osservare che essa mal si conviene a certi
fatti di memoria. Infatti, sono tutti d'accordo nel considerare come una attività propriamente memorativa, per
esempio, il fatto di recitare un discorso imparato a memoria o di dare un saggio al pianoforte. In casi di
questo genere, il passato come tale non ha da intervenire: l'evocazione interessa direttamente le immagini
come tali e non come componenti del nostro passato. Che se queste evocazioni, come tutti gli atti di
memoria, implicano dei meccanismi, non è che si possano ridurre al puro meccanismo automatico. Il loro
processo, nella fissazione come nel richiamo, è essenzialmente come quello delle immagini-ricordo. Il fatto
di riconoscere soggettivamente e di localizzare un ricordo non fa che aggiungere una modalità accidentale
alla attività memorativa.
La memoria comprende dunque da una parte l'evocazione delle immagini in quanto immagini,
indipendentemente da ogni riferimento con le circostanze della loro formazione; d'altra parte i ricordi, che
comportano riferimento col passato. La prima forma della memoria riguarda cose e si serve accidentalmente
del richiamo delle circostanze vissute solo come di un mezzo inteso a meglio informare la coscienza
immaginante. La seconda forma riguarda le circostanze vissute del nostro passato e fa ricorso all'evocazione
delle cose solo per precisare meglio lo stato di coscienza passato.

3. MEMORIA E ABITUDINE - È opportuno ridurre l'abitudine alla memoria, come spesso si fa (cfr.
Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. IV, p. 73 - Piéron)? Tale riduzione non appare giustificata, in
quanto l'abitudine motrice è, fondamentalmente, un sistema fisiologico (sebbene nella sua formazione e nel
suo esercizio, come s'è visto (72-73), si trovino condizioni psicologiche), mentre la memoria è
essenzialmente un fenomeno psicologico (anche se, nella sua formazione e nel suo esercizio, comporti
condizioni fisiologiche). La memoria, reminiscenza e ricordo, ricorre utilmente ai meccanismi disposti
dall'abitudine, ma ad essi non si riduce.
Si avrà ragione, per esempio, di distinguere fra quello che è il ripetere scale musicali o arpeggi ed una
interpretazione «a memoria» di un brano musicale. Nel primo caso c'è meccanismo (e d'altra parte si dice,
appunto, che ci si esercita nel «perfezionare la propria meccanica». Nel secondo caso, in cui pur ci si serve
del meccanismo e dell'automatismo dell'abitudine, v'è anzitutto una visione speciale delle idee o immagini
musicali (cosa formalmente psicologica), poi una reinvenzione del brano musicale: ch'è quanto dire quel che
di meno meccanico e automatico ci possa essere.

Pare dunque che vacilli l'affermazione secondo cui «l'abitudine è una forma della memoria del tutto simile
alle altre». (Piéron, nel Traité di Dumas, t. IV, p. 72). La ragione che s'invoca a suo sostegno è che il posto
notevole che nella vita mentale va dato all'attività motrice porta a vedere nell'abitudine ben più che una
forma di memoria inferiore, ma piuttosto «un elemento essenziale suscettibile di intervenire in maniera quasi
costante nei fenomeni mnemonici». Senonché il presente ragionamento è assai discutibile. In primo luogo è
difficile comprendere come un «elemento essenziale» intervenga soltanto in maniera «quasi costante». Poi,
anche se si voglia accettare questa stranezza, l'abitudine, che è soltanto un «elemento» (cioè una condizione)
della memoria, non è, di conseguenza, una forma della memoria. Infine questa condizione, che è fisiologica,
non può ridursi al fatto psicologico della memoria.
L'opposizione delle due funzioni si svela chiaramente nel caso tipico dell'irruzione della memoria (o della
coscienza) nel meccanismo abituale: questo ne è immediatamente perturbato. Non appena il pianista vuole
analizzare le abitudini motrici di cui si serve, la sua interpretazione è inficiata d'esitazioni ed errori.
Inversamente, l'automatismo interviene a sostituirsi alla memoria: l'atto assume simultaneamente un
andamento meccanico, rigido, stereotipo, che indica l'eclissi dello psichismo peculiare della memoria
autentica. Memoria ed abitudine sono dunque, in certo qual modo, in opposizione, e soltanto equivocando si
parlerà di una «memoria-abitudine». La memoria domina l'abitudine; essa è, grado a grado, pensiero e
riflessione, intenzione e coscienza: mentre l'abitudine è meccanismo e incoscienza.
Nella sua forma più autentica, la memoria non è né un'accozzaglia d'immagini-ricordo che s'agiti al fondo
della coscienza, né un sistema automatizzato d'abitudini motrici, ma l'atto di comporre le immagini del
passato secondo un ordine che permette di conservarle, cioè di richiamarle. Ricordarsi non è fare affiorare
allo sguardo della coscienza un'immagine immobile, fissata e in sé sussistente del passato, ma immergersi nel
passato stesso ed inserirsi nelle sue reciprocamente articolate prospettive, sì da rivivere una volta di più,
secondo il loro ordine temporale, le esperienze che vi si riassumono.
145
Art. II - Fissazione e conservazione
244 - Il problema dell'immaginazione ha portato a studiare il processo di fissazione e di conservazione
delle immagini. Qui non ne tratteremo se non dal punto di vista della memoria.

A. LE CONDIZIONI DI FISSAZIONE

Per normale esperienza si distinguono il fatto di ritenere senza sforzo e senza premeditata volontà ed il
fatto di fissare attivamente le immagini ed imparare a memoria. In quest'ultimo caso, la fissazione è
direttamente in funzione dell'evocazione ed il suo meccanismo deve già farci cogliere i caratteri della
memoria.

Certi psicologi (Fechner, Richet) hanno voluto considerare la persistenza sensoriale delle impressioni
sensibili dopo l'eccitazione come fenomeno mnemonico elementare. Questa persistenza, osserva Richet (La
mémoire élémentaire, «Revue philosophique», 1881, t. XI, p. 540 sg.) si estingue con una certa lentezza.
Basterebbe pensare ad una estinzione non mai completa per spiegare la traccia mnemonica e per
conseguenza la memoria. - Si tratta di un'opinione che costituisce un bell'esempio di riduzione abusiva d'un
fenomeno a quelle che sono le sue condizioni. La memoria è un fenomeno mentale e non un fenomeno
fisiologico. Essa ha certamente delle condizioni fisiologiche, del resto piuttosto oscure. Ma non la si può
ridurre a queste condizioni e bisogna dire che la fissazione mnemonica (incertissima, per di più) «non
rappresenta un'eclissi incompleta della sensazione, ma un fenomeno positivo nuovo» (Dumas, Nouveau
Traité de Psychologie, t. IV, p. 69 - Piéron), e un fenomeno di natura propriamente psicologica, che dovrà
pertanto ricevere una spiegazione psicologica.

1. L'ORGANIZZAZIONE - S'è già posta in evidenza la funzione dell'organizzazione delle immagini


(185). Su questo punto, numerose esperienze contribuiscono a precisare notevolmente. Possiamo partire dal
fatto solidamente stabilito che ogni percezione è percezione di forme e di strutture, che ogni immagine è
compresa in una struttura o si presenta come implicante una struttura. Di qui la conseguenza che la potenza
di fissazione (tutti gli altri fattori si danno come eguali) sarà proporzionale alla nitidezza, alla semplicità ed
alla precisione strutturale della percezione e della immagine 180. E ciò si verifica sperimentalmente.

Le esperienze di Restorff. Attraverso ingegnose esperienze, Restorff ha stabilito che, in una serie di
immagini, si ritengono più facilmente e più nitidamente quelle che si distinguono per il loro rilievo e per la
loro organizzazione, mentre l'omogeneità (o difetto di organizzazione) costituisce un ostacolo alla
fissazione181.
In tre riprese, nel giro di tre giorni e una volta al giorno, si presentano a quindici soggetti tre serie di dieci
elementi. Queste serie sono le seguenti:
1) un numero, una sillaba, un colore, una lettera, una parola, una piccola fotografia, un simbolo, un segno
di interpunzione, una formula chimica;
2) un numero, nove sillabe;
3) una sillaba, nove numeri.
Dopo la presentazione delle serie, i soggetti devono leggere, per esempio, un testo qualunque di giornale
per la durata di dieci minuti. Quindi si invitano a trascrivere, della serie, tutti gli elementi che riescono a
ricordare (si concedono trenta secondi di tempo). Si sono ottenuti i seguenti risultati: l'elemento accumulato
(numero o sillaba, secondo le serie) è ritenuto nella proporzione del 22%; l'elemento isolato (numero o
sillaba), nella proporzione del 70%; i medesimi elementi nella prima serie (presentata da ultimo), nella
proporzione del 40%. Si tratta di risultati chiaramente in favore dell'organizzazione.
Il fatto che si riescano a ritenere delle serie spesso assai lunghe di elementi uniformi non può costituire una
obiezione, giacché si tratta soltanto di casi eccezionali, che presuppongono talvolta uno sforzo anormale e

180 Cfr. Bergson, L'énergie spirituelle, p. 170: «Come imparare a memoria, quando non si abbia come mira un
richiamo istantaneo? Si legge un brano attentamente, quindi lo si divide in paragrafi o sezioni, tenendo conto del suo
organamento interno. Si ottiene in questo modo una visione schematica dell'insieme. A questo punto, all'interno dello
schema si inseriscono le espressioni più notevoli. Si collegano all'idea predominante le idee subordinate; alle idee
subordinate le parole di maggior rilievo e rappresentative, a queste parole, infine, le parole intermedie che le collegano a
mo' di catena».
181 Cfr. Koffka, Principles of Gestalt Psychology, p. 486-487.
146
non hanno mai durata nella memoria. Altri casi, poi, di «memoria assurda» (per esempio memoria di orari
ferroviari) si spiegano con l'addentellato di elementi, sotto forma di ritmo, di gruppi simmetrici, d'accento,
ecc.; o ancora col ricorso ad un legame logico degli elementi. Viene così à trovarsi ristabilito il privilegio
dell'organizzazione strutturale182.

245 - 2. LA MEMORIA IMMEDIATA - Le esperienze che precedono possono essere confermate da ciò
che comunemente si chiama memoria immediata, quantunque qui si tratti di fissazione immediata piuttosto
che di memoria e di ricordo.

a) La fissazione immediata. Ogni nostro studio della percezione ha posto in evidenza questo fatto della
fissazione immediata, sottolineando che percepire non è semplicemente provare impressioni successive, ma
cogliere queste impressioni come integrate in tutti organici. Senza questa fissazione, ogni percezione sarebbe
necessariamente puntuale e discontinua. Noi ascoltiamo parlare un amico: ad ogni momento del discorso,
quel che agisce su di noi non è soltanto la parola pronunciata, ma le parole che l'hanno preceduta, poiché
ogni parola della frase e del discorso è in funzione di quelle precedenti. Non diverso è il caso quando si
ascolta una melodia, ciascuna nota della quale, in quanto momento di un tutto temporale, dipende dalle
precedenti; ed è così in generale di ogni percezione di forme mobili.
Orbene, si constata che gli elementi successivi sono fissati e conservati facilmente soltanto in rapporto al
loro incorporarsi in una struttura. Al contrario, un elemento disparato, inassimilabile, si introduce
bruscamente nella serie continua e la sua presenza, dato il rilievo che riceve, sarà bensì marcata e sarà
ritenuta, ma praticamente senza effetto sugli elementi che seguiranno, non potendosi incorporare alla
struttura complessiva. Ne deriva che l'azione del passato immediato dipende anzitutto dal suo inserimento in
una forma temporale (caso analogo a quello dello spazio) e per conseguenza che la memoria è legata
strettamente alle strutture183.

246 - b) Il «ricordo del presente». È questa «memoria immediata» che Bergson designa sotto il nome di
ricordo del presente (Énergie spirituelle, p. 137 sg.). «Noi pretendiamo - egli scrive - che la formazione del
ricordo non è mai posteriore a quella della percezione, ne è contemporanea. Man mano che la percezione si
crea, il suo ricordo si profila ai lati suoi, come l'ombra a lato del corpo. Ma la coscienza non l'avverte
normalmente, alla stessa stregua in cui il nostro occhio non vedrebbe la nostra ombra se la illuminasse ogni
volta che ad essa si volge... Più vi si rifletterà, meno si comprenderà che il ricordo possa nascere se esso non
si crea in una con la percezione stessa. O il presente non lascia alcuna traccia nella memoria, o esso si
sdoppia ad ogni istante, nel suo stesso spuntare, in due polloni simmetrici, l'uno dei quali ricade verso il
passato mentre l'altro si slancia verso l'avvenire. Quest'ultimo, che noi chiamiamo percezione, è il solo che ci
interessa. Noi non sappiamo che fare del ricordo delle cose quando disponiamo delle cose stesse. Siccome la
coscienza pratica scarta questo ricordo come inutile, la riflessione teorica lo considera inesistente. Nasce così
l'illusione che il ricordo succeda alla percezione».
Si potrebbe dire, in altre parole, che esiste una funzione memorativa che si esercita in certo qual modo
nello spessore del presente. La percezione determina infatti la formazione d'immagini residuali o immagini
libere, alle quali la memoria conferisce un carattere di fissità relativa. Infatti, ad essere esatti, si tratta meno
di memoria che delle condizioni o dei materiali della memoria. Le immagini libere da una parte,
contrariamente a quel che pensa Bergson, non hanno alcun rapporto formale col passato come tale, e, d'altra
parte, sono incapaci di sopravvivere da se stesse; il loro sopravvivere è in funzione dell'uso che l'adattamento
percettivo, il pensiero, l'arte o la tecnica ne posson fare, servendosene ai loro propri fini. Lasciate a se stesse,
esse si attenuano più o meno in fretta, ma fatalmente, e nulla le può salvare dalla morte.

B. LA DIMENTICANZA

247 - Lo studio della dimenticanza può servire di controprova. Ora, si constata che essa è, in modo
preponderante, in funzione dello stato di organizzazione dei ricordi.

1. LA DISSOLUZIONE. DEI GRUPPI - L'esperienza mostra che la dimenticanza è tanto più rapida
quanto meno precisa o meno naturale era l'organizzazione. Certe strutture artificiali (del genere di quelle di
cui ci si serve in talune mnemotecniche) resistono male al tempo e al difetto d'esercizio. I raggruppamenti

182 Cfr. Michotte, Deux études sur la mémoire logique, Lovanio («Annales Inst. sup. de Phil.», 1912 e 1913).
183 Cfr. P. Guillaume, La Psychologie de la forme, p. 158.
147
logici sono più tenaci e si osserva che sono gli elementi male articolati rispetto al tutto complessivo quelli
che più facilmente scompaiono. I gruppi a nucleo affettivo subiscono naturalmente il contraccolpo dei
cambiamenti affettivi del soggetto. Come i sistemi a nucleo affettivo facilmente si aggregano gli elementi
riferentisi alla passione in causa, così l'indebolimento o la scomparsa di questa passione ha per effetto di
disgregare il complesso affettivo.

La
dimenticanza
può essere il
risultato,
ancora, sia
passivamente
della
desuetudine
(legge dello
svanimento: la
dimenticanza,
dapprima
rapida,
continua ad
aumentare, ma
in maniera
sempre più
lenta (Fig. 12),
sia
attivamente,
della
distruzione del
ricordo). In
entrambi i
casi, la
rapidità e la
realtà della
dimenticanza
sono legate alla disgregazione dei complessi di cui fan parte i ricordi. Non si dimentica tutto quel che si
vuole, né tanto facilmente quanto si vorrebbe. Vi sono addirittura casi in cui la dimenticanza è impossibile:
casi cioè in cui il ricordo è incorporato a strutture solidamente articolate e costantemente evocate.

248 - 2. L'INIBIZIONE RETROATTIVA ED ANTEROATTIVA A soggetti diversi si danno da imparare


due serie d'elementi sensibilmente somiglianti e due serie d'elementi completamente differenti. Poi si
procede ad esperienze di rimemorazione. Si constata che, nel primo caso, l'evocazione della seconda serie
esercita un'influenza sfavorevole su quella della prima serie (inibizione retroattiva), mentre nel caso delle
serie completamente differenti l'evocazione dell'una non disturba affatto quella dell'altra. È dunque la
rassomiglianza a paralizzare, nel primo caso, l'evocazione 184.
I medesimi risultati si ottengono quando si fa imparare, dopo una prima serie, una seconda serie che rechi
alcune lievi differenze. La seconda serie viene appresa molto male, per la mancanza di rilievo sufficiente a
distinguerla dalla prima (inibizione anteroattiva). Ciò mostra ancora chiaramente che la fissazione di un
termine dipende dalla percezione del tutto o della struttura nella quale esso si inserisce: e nuovamente si
verifica la legge generale, secondo cui le parti dipendono dal tutto.

C. LA DEFORMAZIONE

249 - 1. LE CAUSE DI DEFORMAZIONE - I casi di deformazione dei ricordi sono pure molto
interessanti. Ce ne offre l'esperienza quotidiana, e tutti ben sappiamo quanto siamo costantemente esposti a
presentare - in piena convinzione e perfetta buona fede - come rigorosamente obiettivi dei ricordi, invece,

184 Cfr. Koffka, Principles of Gestalt Psychology, p. 490 e sg.


148
profondamente alterati. Gli sperimentatori dimostrano che le cause principali di trasformazione dei ricordi
sono di natura affettiva e logica. Infatti ecco ora fattori affettivi intervenire nell'opera di sorda modifica dei
nostri ricordi in senso conforme ai nostri interessi ed alle nostre preferenze; ora bisogni logici intromettersi a
modificare i complessi accidentali conservati nel ricordo, aggiungendo, sopprimendo, rafforzando od
attenuando un elemento o l'altro al fine di rendere intelligibile l'insieme.

2. I PROCESSI DI DEFORMAZIONE - Quale che sia la causa della trasformazione dei ricordi, si constata
che i processi di deformazione consistono, in genere, nella sostituzione delle forme semplici e regolari alle
forme complesse o equivoche della percezione, oppure nell'accentuazione di particolari significativi. Questi
processi sono stati messi in evidenza da interessanti esperienze di Wulf 185.

Queste esperienze consistono nel presentare al soggetto alcune figure prive di significato, e nell'invitare
poi, e in diverse riprese, a riprodurre a memoria le medesime figure. All'esame dei disegni constatiamo che le
deformazioni non sono casuali. Esse, di fatto, obbediscono a due tendenze: l'una porta ad accentuare
sistematicamente certi particolari elementi dei disegni: l'altra, apparentemente opposta, porta ad attenuare o
addirittura a sopprimere le particolarità ed a schematizzare il tutto. In realtà, medesimo è il senso di queste
due tèndenze, in quanto entrambe mirano a far prevalere la struttura sugli elementi: ora l'elemento
caratteristico della forma è rafforzato; ora gli elementi rassomigliantisi sono assimilati; ora l'elemento
irregolare, ma non caratteristico, scompare a vantaggio della chiarezza e della precisione strutturale
dell'insieme. Si ritrovano qui, pertanto, le leggi generali della percezione (142-144).
Si potrebbe avanzare l'obiezione che questi fatti di trasformazione possono ben spiegarsi supponendo che
una media si stabilisca meccanicamente attraverso la ripetizione delle esperienze (immagini composite di
Galton (194)). - Ma non è una spiegazione accettabile, giacché si può constatare, da una parte, che queste
trasformazioni non danno luogo a medie, ma a semplificazioni o a regolarizzazioni; e, d'altra parte, che le
trasformazioni si hanno già - o quanto meno hanno inizio - fin dalla prima evocazione.

250 - 3. TRASFORMAZIONE DEL RICORDO IN SAPERE - S'è già notato (243) come sapere e
ricordarsi siano due forme di memoria che differiscono soltanto per qualche carattere accidentale. Il sapere è
un ricordo che prescinde, volontariamente o per dimenticanza, dalle sue origini. Il ricordo è un sapere che si
riferisce, esplicitamente o implicitamente, alle circostanze in cui è stato acquisito.
Tuttavia, la trasformazione del ricordo in sapere non va esente da qualche modificazione degli oggetti di
memoria. Anzitutto, e per definizione, il sapere va inteso come un impoverimento, poiché esso elimina gli
elementi accidentali che facevano corpo col ricordo. Il ricordo di una determinata materia, letteraria o
scientifica, risveglia in uno studente le emozioni che hanno accompagnato il suo studio. A poco a poco,
questi ricordi personali svaniscono e sussiste il solo sapere, o scienza acquisita, impersonale ed intemporale.
Questo sapere, dall'altra parte, rappresenta una organizzazione superiore nei confronti del ricordo. I
particolari inutili sono scomparsi: s'è operata una schematizzazione, s'è rafforzato l'ordine logico, s'è
stabilizzato l'insieme. La memoria, pertanto, è ormai sicura. E ciò è facile a constatarsi in tutti i casi in cui le
riserve di conoscenze rimangano senza uso per alcun tempo: quando vi si ricorra di nuovo, si è sorpresi di
ritrovarli sensibilmente intatti o, quanto meno, di non provare grande sforzo nel recuperarli. Ciò è
precisamente dovuto al privilegio dell'organizzazione. Codesto sapere (o abitudini) - come ha dimostrato
Ribot - resiste meglio alla dimenticanza, perché si tratta, per eccellenza, di ricordi organizzati.

Art. III - L'evocazione dei ricordi


Si possono distinguere due casi, donde scaturiscono osservazioni differenti: il caso di evocazione
spontanea e quello di evocazione volontaria.

A. EVOCAZIONE SPONTANEA

251 - Il caso di evocazione spontanea dei ricordi (quando questi si presentano, per così dire, da se stessi
alla coscienza) pare favorisca la teoria associazionistica. Sembra, infatti, che il ricordo spontaneamente
evocato debba essere di regola quello ch'è stato più frequentemente o più recentemente connesso al
contenuto attuale della coscienza. Vedremo però che, di fatto, s'arriva a ben altre conclusioni.

185 Cfr. Koffka, op. cit., p. 493.


149
1. L'INFLUENZA DI RAGGRUPPAMENTO - Il caso di memoria immediata, esaminato più sopra, già ci
pone sulla via di una spiegazione. Il ricordo evocato spontaneamente sembra debba essere necessariamente
non già il più recente, né quello richiamato con maggior frequenza, bensì quello che poggia sulle leggi di
organizzazione, quali vengono manifestate dall'attività percettiva. Decisive su questo punto sono le
esperienze: mentre l'evocazione attraverso il gioco di contiguità o di ripetizione meccanica dovrebbe
interessare i termini a prescindere da ogni considerazione di raggruppamento o di sistema, ecco che esse
stabiliscono, al contrario, che l'evocazione dipende, in parte notevole, da fattori differenti da quelli di
contatto o di ripetizione.

Lewin fa imparare ad un soggetto, mediante numerose ripetizioni (fino a trecento), alcune serie composte
di dodici sillabe prive di senso. Supponiamo che il soggetto incontri di nuovo una di tali sillabe. Stando alla
teoria associazionistica, questa sillaba deve evocare automaticamente la precedente o la seguente: senonché
le prove attestano che così non è, cioè che l'evocazione risulta da fattori diversi da quelli di associazione
meccanica. Da una parte, infatti, alle prove di memoria che riguardano la riproduzione di queste sillabe non
si connettono risposte esatte, dopo tempi molto brevi di reazione, se non nella misura in cui le sillabe siano
state raggruppate ed organizzate (generalmente per coppie). D'altra parte, in difetto di raggruppamento, ed a
condizione che il soggetto non faccia alcuno sforzo attivo di riproduzione, la lettura di una delle sillabe della
serie non provoca alcuna evocazione. (Cfr. Koffka, Principles of Gestalt Psychology, p. 495).

252 - 2. L'INFLUENZA DEL CAMPO INTERMEDIARIO - Le esperienze precedenti sono soprattutto


negative. Esse mettono fuori causa la spiegazione meccanica dell'associazionismo. Altre esperienze
stabiliscono che la formazione di un gruppo di oggetti simili e, di conseguenza, 1'evocazione di un oggetto
mediante un altro dipendono dalla natura del campo intermediario (spaziale o temporale) che esiste fra i
termini estremi. Questa formazione (e l'evocazione) è facilitata quando gli elementi intermediari sono simili
fra di loro, ma differenti dagli oggetti estremi assimilati l'uno all'altro. Al contrario, essa viene ad essere
difficile quando gli oggetti del campo intermediario sono simili ai termini assimilati 186. Non siamo pertanto
solo agli antipodi del meccanismo immaginato dagli associazionisti, ma siamo addirittura in grado di vedere
chiaramente - come nota il Kohler - che l'evocazione spontanea (se si eccettuano casi d'errore accidentale o
casi di ripetizione stupida) dipende nettamente dallo svolgimento dinamico del campo intermediario in
quanto complesso funzionale187.

B. L'EVOCAZIONE VOLONTARIA

253 - 1. IL PROBLEMA DELL'EVOCAZIONE VOLONTARIA - Il problema posto dall'evocazione


volontaria può essere formulato così: quali sono le condizioni che permettono di evocare il ricordo b per
mezzo del ricordo a? Il richiamo volontario consiste, infatti, nel giovarsi del contenuto attuale della coscienza
per arrivare, passo passo, ad evocare un ricordo x. L'attività di richiamo compone così delle serie di termini,
di cui si tratta di determinare come siano tra di loro connessi.
Per l'associazionismo, dati come consecutivi a, b e c, l'evocazione di c consisterà nell'evocare a poi b, o b.
Automaticamente c si troverà richiamato alla coscienza. Questo problema, così formulato, ha qualcosa di
strano, giacché è evidente, di primo acchito, che il fatto di cercare c implica che già lo si conosca. Senza
dubbio, è il paradosso di ogni ricerca attiva del ricordo, ignorato e noto ad un tempo. Nel contesto

186 Cfr. Guillaume, Psychologie de La Forme, p. 161, che cita le esperienze di Kohler: «Il metodo consisterà nel
presentare due volte il medesimo oggetto; la prima volta in buone condizioni di percezione, la seconda in condizioni
mediocri; si tratta di sapere se la seconda percezione sarà facilitata dalla prima, cioè se essa darà luogo ad una
reviviscenza della traccia corrispondente a quest'ultima. Nell'intervallo delle due presentazioni di questo oggetto, se ne
mostrano altri, che costituiranno il campo temporale intermedio; questi oggetti sono, nella costellazione che si
presuppone favorevole, più o meno somiglianti a quell'oggetto. Ecco, per esempio, che si presenta dapprima al
tachistoscopio, per la durata di tre secondi, la parola Brosk, ben leggibile; poi appare una serie di altri oggetti minuscoli,
non molto chiari; nella costellazione sfavorevole (A), si tratta ancora di parole; nella costellazione favorevole (B), si
tratta di figure complicate, prive di senso. L'esperienza si conclude, in entrambi i casi, con la riapparizione della parola
Brosk, ma questa volta poco chiara, in caratteri piccoli. Orbene, questa parola è letta correttamente soltanto nel 30%
delle prove di tipo A, ma nel 75% delle prove di tipo B: e ciò conferma appunto l'ipotesi» (dell'influenza del campo
intermedio).
187 Le esperienze di Kohler sui campi intermedi si complicano di un'ipotesi fisiologica, che mal si conviene davvero
con i loro risultati psicologici. La filosofia di Kohler è una cosa, la psicologia della forma è un'altra, ben differente
(136).
150
associazionistico, ad ogni modo, questo paradosso assume l'aspetto di una assurdità poiché l'evocazione,
essendo meccanica, esige l'influsso attuale ed immediato del termine presumibilmente ignorato ed assente
(206).
Al contrario, il fatto che i ricordi sono integrati in strutture permette di comprendere il paradosso del
richiamo volontario. Questo parte dalla rappresentazione di un tutto, spaziale o temporale, nel quale il
ricordo cercato deve integrarsi. Il ricordo elementare è realmente ignorato come tale, ma è implicato
nell'organizzazione, che per prima si offre alla memoria. La mancanza di successo, nel passaggio da tale
struttura al ricordo, condurrà a ripetere il tentativo con altre forme. L'esperienza mostra che siffatto è il
processo normale del richiamo volontario: noi non passiamo per movimento meccanico da un ricordo
all'altro, ma da complessi ad elementi.

254 - 2. ORGANIZZAZIONE E REINTEGRAZIONE - Si potrebbe pensare che il processo di cui


parliamo non differisca dal processo di reintegrazione (o ricostituzione del complesso partendo
dall'elemento) dell'associazionismo. Ma si tratterebbe di una grave illusione. Infatti sarebbe qui il caso di
parlare piuttosto di ricostituzione o di riproduzione della parte movendo dal tutto, poiché la parte evoca il
tutto soltanto nella misura secondo cui essa è funzionalmente unita al tutto, cioè quando il tutto vi è
virtualmente inscritto. Questo legame funzionale è del tutto differente dalla semplice giustapposizione
meccanica dell'associazionismo, per il quale l'elemento non è propriamente una parte, ma un frammento. Da
questo punto di vista, il richiamo volontario è un processo accostabile a quello dell'immaginazione creatrice.

Art. IV - Riconoscimento e localizzazione dei ricordi


255 - Il riconoscimento dei ricordi è implicito, a dire il vero, in ogni atto di memoria, ma in gradi differenti
e sotto diverse forme. Abbiamo anzitutto il fatto del riconoscimento oggettivo, cioè indipendentemente da
ogni riferimento al nostro passato: così si spiega che la vita quotidiana, nel contesto familiare che le è
proprio, implica il riconoscimento immediato di cose e di persone estremamente numerose. V'è poi una
forma di riconoscimento che consiste nel riferire coscientemente gli oggetti al nostro passato, sia
spontaneamente e senza esitazione, sia mediante atti complessi di discernimento e di controllo.

A. IL RICONOSCIMENTO NELLA PERCEZIONE

1. RICONOSCIMENTO INCONSCIO - La memoria, in questa forma di riconoscimento, non è, secondo


l'espressione di Hoffding, se non una «memoria implicita», in quanto non v'è traccia di ritorno sul passato e
neppure una qualsiasi coscienza di richiamo. Il riconoscimento si confonde praticamente con la percezione e
si esplica attraverso la legge della percezione elastica o duttile (144).

Si dovrebbe persino dire che la memoria è qui prospettiva anziché retrospettiva. Infatti, essendo qui
interamente in funzione dell'azione, essa ha il precipuo compito di fare attendere la ripetizione di un evento,
legato per simultaneità o successione a quello dato, e conseguentemente di proiettare in qualche modo il
passato nel futuro. Proprio a ciò va ricondotta, appunto, la memoria animale.

2. RICONOSCIMENTO COSCIENTE - Accade comunque che percezione e ricordo si disgiungano in


qualche modo. Ciò avviene ogni volta che l'oggetto percepito abbia subito cambiamenti importanti. Talvolta,
il riconoscimento esige uno sforzo più o meno prolungato e passa attraverso alternative di certezza o di
dubbio. «Ma... è la persona che ho conosciuta questa?». In questo caso, il meccanismo del riconoscimento
consiste evidentemente nel confrontare l'immagine del passato con la percezione presente, in vista di
scoprire, sotto i cambiamenti parziali, l'identità e la permanenza della forma, sia nel suo insieme, sia nelle
sue caratteristiche particolari. «Sì, è appunto la persona che ho conosciuta: è cambiata di molto, ma ha
proprio la stessa andatura, la stessa maniera tipica di parlare o di ridere, ecc.». È d'altra parte il ricorso
spontaneo a tale forma, conservata identica, che spiega l'assenza di esitazioni nel riconoscere le persone e le
cose.

B. IL RICONOSCIMENTO NELLA MEMORIA

256 - Qui il problema è di sapere come distinguiamo il ricordo immaginato, cioè l'immagine riferita al
nostro passato, rispetto alla pura immagine, astratta da ogni riferimento alle sue origini temporali.
151

1. LA QUESTIONE DEI CRITERI - Per spiegare e giustificare la distinzione che operiamo fra
l'immagine-ricordo e la pura immagine, si sono proposti differenti criteri.

a) Criterio del tenore affettivo del ricordo. Il ricordo, dichiara Hoffding (Esquisse d'une Psychologie
fondée sur l'expérience, tr. fr. p. 202), s'accompagna ad una sorta di tenore affettivo cui non si associa la pura
rappresentazione immaginativa dell'oggetto. Questo stesso valore affettivo consiste, sembra, in un
sentimento di facilità, di spontaneità. Osservazioni fondate: il ricordo, normalmente, possiede una tonalità
affettiva e si evoca agevolmente. Ma non sempre ciò si verifica, e per di più queste stesse proprietà possono
appartenere alla semplice immagine.

b) Criterio del sentimento di familiarità. Questo sentimento di familiarità, che caratterizza l'immagine-
ricordo, sarebbe determinato dalla reazione motrice ben organizzata che l'accompagna; per conseguenza, alla
base del riconoscimento si dovrebbe scoprire un fenomeno d'ordine motorio (Bergson, Matière et Mémoire,
p. 93).

Le esperienze di Cheves West Perky (cfr. J. De La Vaissiére, Éléments de Psychologie expérimentale, p.


14) sembrano giustificare questo punto di vista. Esse danno la seguente percentuale di reazioni motrici:
memoria visiva (movimenti degli occhi), ricordi: 89,50%; - immagini: 20,50%; - memoria auditiva
(movimenti della laringe controllati da un apparecchio applicato alla laringe): ricordi, 84%; immagini, 9%; -
memoria olfattiva (movimenti delle narici): ricordi, 96%; immagini, 10%. Tuttavia, queste esperienze
comportano qualche incertezza, per il fatto che l'esperimentatore non ha precisato abbastanza se il
riconoscimento fosse anteriore o posteriore al movimento.
Comunque, il criterio del sentimento di familiarità sembra inoltre mancare di universalità: vi sono fatti che
ci rappresentiamo nettamente come passati ed a cui non si associa se non una debolissima reazione motrice, e
reciprocamente vi sono semplici immagini capaci di provocare una forte reazione motrice.

c) Criterio della coerenza. Infine, si è addotto il carattere di coerenza, di nitidezza e di ricchezza in


particolari concreti che apparterrebbero al ricordo e non all'immagine. Sarebbe appunto questo carattere di
coerenza a rendere il ricordo ribelle alle fantasie dell'immaginazione, e meno facilmente malleabile della
semplice immagine. Questo criterio non sembra più decisivo dei precedenti, giacché vi sono da una parte
immagini e complessi di immagini d'una coerenza perfetta e d'altra parte ricordi fluidi, instabili, indefiniti ed
indefinibili.

Si tenta di precisare questo carattere affermando che, soggettivamente o in se stesso, il ricordo si completa
normalmente mediante l'evocazione delle circostanze concrete della percezione. Senonché ciò è bensì
frequente, ma né universale né necessario. Spesso, questo complemento fa difetto, poiché lo sforzo del
riconoscere consiste precisamente nella ricerca (vana, talvolta) delle circostanze concrete della prima
percezione.

257 - 2. LA DISTINZIONE IMMEDIATA - Nella discussione precedente, abbiamo riconosciuto i criteri


già invocati per spiegare e giustificare la distinzione della percezione dall'immagine (176-178). Avevamo
dovuto constatare che nessun criterio era realmente efficace e decisivo e qui abbiamo ripreso le medesime
osservazioni. Ciò significa che se fosse possibile dubitare della distinzione dell'immagine e della percezione
o dell'immagine e del ricordo, non arriveremmo mai ad una sicurezza evidente di tale distinzione. Orbene, è
un fatto che noi distinguiamo spontaneamente il ricordo e la semplice immagine, in virtù di una intuizione
immediata che è normalmente infallibile. Essa, infatti, arriva direttamente nel nostro io concreto, al passato
che noi siamo. Il ricordo, in un certo senso, è proprio del presente - altrimenti come potremmo attualizzarlo?
- Ma si tratta di un presente-passato, di un presente alle nostre spalle, di un presente costituito in profondità e
sul quale non abbiamo più potere. Questo duplice carattere, che fa corpo col ricordo e lo costituisce come
tale, è proprio ciò che lo distingue dalla pura immagine, sprovvista di questo segno del passato ed
ondeggiante in certo qual modo in uno spazio senza dimensioni temporali. L'immagine del Monte Bianco
non comporta alcun senso di passato per chi vi si interessi soltanto in veste d'artista; ma viene ad essere un
ricordo per noi quando essa è noi stessi, che ancora siamo quelli che siamo stati un giorno, cioè che ancora
siamo quegli stessi che hanno scalato in altro momento il Monte Bianco. In tale immagine ci ritroviamo; essa
è una parte di noi stessi.
152
Senza dubbio si potrà obbiettare che ciò non spiega niente. Qui però non si tratta tanto di spiegare, quanto
di descrivere correttamente un fenomeno, - e la descrizione stessa, se è esatta, vale come spiegazione
psicologica. Metafisicamente, bisognerebbe andare oltre e cercare nella nozione di sostanza-soggetto la
ragione ultima della permanenza e del riconoscimento del ricordo: ciò sarà oggetto di uno studio ulteriore.

3. I CASI DI RICONOSCIMENTO LABORIOSO - Si forniscono esempi di confusione di ricordi e di


immagini. Ma sono casi patologici. A prescindere da questi casi ci può essere esitazione. L'esperienza
tuttavia dimostra che l'esitazione non riguarda il fatto di sapere se si tratta di una immagine o di un ricordo,
cosa che s'impone immediatamente ed assolutamente, ma riguarda sia la localizzazione del ricordo nel
passato, sia le circostanze della percezione. Non che ci si inganni prendendo per ricordo una immagine, ma
ci si domanda, in occasione di un ricordo, se questo ricordo è esatto, cioè se esso è proprio riferito alla
percezione originale. Le ricerche intese ad assicurarcene possono essere lunghe, difficili, e addirittura senza
successo. Il ricordo non per questo mancherà di imporsi come un ricordo nettamente distinto dalla semplice
immagine.

C. LOCALIZZAZIONE

258 - 1. RICONOSCIMENTO E LOCALIZZAZIONE - Poiché il ricordo propriamente detto è riferimento


al passato, esso comporta, almeno in teoria, una localizzazione nel tempo. Questa localizzazione deve essere
distinta dal riconoscimento, poiché accade che si riconosca spontaneamente un ricordo senza essere in grado,
di punto in bianco, di localizzarlo, cioè di situare esattamente il momento della percezione che ne è l'origine.
Come si effettua questa localizzazione?

2. IL QUADRO TEMPORALE - Frequentemente, la localizzazione immediata è imprecisa. Essa consiste


in una impressione o in un sentimento di vicinanza o di lontananza nel passato della percezione originale. Per
giungere alla precisione, ci si sforza di situare la percezione in un quadro costituito dal complesso degli
avvenimenti succedutisi nel periodo dapprima confusamente intravisto. Quando tali avvenimenti abbiano
composto una serie logica, nello sforzo di localizzazione si viene a capo facilmente. Io mi domando: «Ho pur
visto Z tre settimane fa? Sì, mi pare appunto di averlo visto. Ma dove l'ho visto? Dev'essere stato senz'altro
presso X, dove egli alloggia in occasione d'ogni suo viaggio. Ecco, sì, sono passato da X proprio tre
settimane fa e non vi sono più ritornato. L'ho dunque incontrato là».
È chiaro che la localizzazione nel passato è soprattutto relativa: essa consiste nel situare un avvenimento
in rapporto a quelli che l'hanno preceduto, seguito o accompagnato. Quanto poi alla stima diretta della durata
del tempo intercorso, essa è, al contrario, estremamente difficile e soggetta ad errore (123). Normalmente
noi ricorriamo alle misure forniteci dall'orologio e dal calendario. La nostra rappresentazione del passato
come la nostra percezione della durata, divengono così, ad un tempo, precise ed astratte. I nostri ricordi
hanno delle date (il tale anno, il tale mese, il tal giorno, la tale ora, il tale minuto) e, per effetto di queste
misure, che ci dispensano dal ricorrere alle circostanze, essi ondeggiano scoloriti ed incerti nel tempo
immaginario, uniforme e vuoto (II, 45).

Art. V - Dismnesie, amnesie, ipermnesie


259 - 1 LE DISMNESIE - Si chiama dismnesia (o amnesia di fissazione) l'incapacità, congenita o
accidentale, di fissare le immagini. Essa si manifesta nell'idiozia e nella semi-idiozia, nella paralisi generale,
nella demenza senile, nella confusione mentale, nella vecchiaia, che, fisiologicamente, sono caratterizzate da
una degenerazione cerebrale più o meno profonda 188, in talune psiconevrosi, in cui i soggetti, quantunque
percepiscano i fatti presenti, li dimenticano o ne appaiono dimentichi man mano 189.

188 Cfr. Roubinovitch, Traité international de Psychologie pathologique, t. II, p. 510:. «L'esame istologico della
sostanza cerebrale dimostra una riduzione più o meno considerevole delle cellule nervose dal punto di vista del loro
volume e del loro numero. Fatti segno ad un vero e proprio processo atrofico, i neuroni della corteccia cerebrale sono
insufficientemente sviluppati nel loro corpo cellulare e nei loro prolungamenti».
189 Alcuni casi d'isterismo comportano una dismnesia molto accentuata. Finora tuttavia non si è potuta assegnare a
questi casi alcuna organicità. Le turbe sembrano essere puramente psichiche. Se ne dedurrebbe che la dismnesia non è
che apparente, in quanto gli isterici ritrovano spesso a notevole distanza di tempo delle immagini che non sembravano
essere state fissate.
153
La dismnesia risulta parimenti associata a certi stati accidentali e temporanei di fatica nervosa o
d'esaurimento generale.

260 - 2. LE AMNESIE - L'amnesia è l'incapacità di conservare le immagini che sono state registrate e
fissate. L'amnesia può essere sistematizzata, localizzata o semplice, - istantanea o progressiva.

a) Amnesie sistematizzate, localizzate o aprassiche - Si distinguono talvolta amnesie generali e parziali. Ma


ogni amnesia, per quanto grave, è soltanto parziale. Le amnesie generali sono soltanto apparenti: sempre,
nell'adulto, anche nell'abisso demenziale, sussistono numerose immagini. Ciò che è rovinato è la facoltà di
sintesi190.
L'amnesia riguarda ora una determinata categoria d'immagini legate fra loro ( amnesia sistematizzata):
immagini relative alla famiglia, al mestiere, vocaboli di una lingua, - musica, ecc. - ora tutte le immagini di
un determinato periodo (amnesia localizzata), ora l'uso pratico di taluni oggetti (aprassia).
L'aprassia assomiglia alla paralisi, ma ne è molto differente. In realtà si tratta di una disorganizzazione
della memoria motrice. L'aprassico, per esempio, tiene il cucchiaio o il coltello come una piuma e la piuma
come un coltello; egli sfrega il cerino contro la candela; egli sega la legna con la fune che tiene tesa la sega,
ecc.

b) Amnesie istantanee o progressive. Eccetto casi di traumatismi accidentali gravi che possono provocare
amnesie istantanee, l'amnesia segue generalmente un processo regressivo regolare, formulato nella legge di
Ribot: «Il progredire dell'amnesia segue la linea di minore organizzazione» (Maladies de la mémoire, p. 95).
L'amnesia incomincia con l'arrivare alle immagini recenti, che rappresentano l'organizzazione più debole e si
compie con l'abolizione di quella memoria sensoriale, istintiva, che, fissata nell'organismo, costituisce
l'organizzazione al suo più alto grado191.
Questa legge si verifica regolarmente nella paralisi generale, nella paralisi infantile, nella demenza senile,
nell'alcoolismo. Si osserva che sono sempre i nomi propri che scompaiono in primo luogo; seguono i nomi
comuni concreti, quindi i nomi astratti e gli aggettivi; infine i verbi scompaiono per ultimi, e la loro
scomparsa segna la vittoria definitiva della demenza 192.

3. Le ipermnesie. - Sono i casi, scrive Ribot (Maladies de la mémoire, p. 139), «in cui ciò che sembrava
annientato risuscita e in cui pallidi ricordi riprendono la loro intensità». Si cita il caso degli affogati, di certi
intossicati ecc., che vedono affluire in folla, con una precisione sorprendente, immagini, che apparivano
dimenticate, di certi periodi della loro vita193.

190 Cfr. P. Janet, État mental des hystériques, p. 77: ove si discute il celebre caso di Mary Reynolds. All'età di diciotto
anni, durante un sonno di ventiquattro ore, questa persona perde, a quanto pare, assolutamente tutti i suoi ricordi, e si
risveglia nello stato di un fanciullo appena nato, ma con facoltà adulte. P. Janet osserva che se Mary Reynolds al suo
risveglio e di poi gode ancora delle sue facoltà adulte, evidentemente ciò si deve al fatto che ella non ha perduto tutti i
suoi ricordi o tutte le immagini anteriormente formate. Altrimenti, sarebbe rimasta assolutamente stupida.
191 Non si tratta, a quanto pare, tanto della perdita di immagini definite, quanto della dissociazione delle sintesi di
immagini. Ciò sarebbe appunto ben dimostrato da un'analisi dei disordini della lingua scritta, passando
successivamente, e secondo la gravità, dalle forme verbali ai nomi; quindi ai nessi sintattici, infine all'organamento
generale del senso della frase (cfr. R. Mallet, La Démence, Parigi, 1935, p. 83-84).
192 Cfr. Bergson, L'Énergie spirituelle, p. 57.
193 Taine (De l'Intelligence, t. I, p. 133) riferisce il caso, ricordato dal Coleridge, di una giovane illetterata che in un
accesso di febbre venne fuori con tanto di latino, di greco e di ebraico. Ebbene, questa persona era stata raccolta, all'età
di nove anni, da un pastore protestante, il quale ogni giorno leggeva ad alta voce, dopo il pranzo, testi latini, greci ed
ebraici, che la figliuola udiva, dalla cucina ov'era in faccende.
154

SECONDA PARTE

LA VITA AFFETTIVA

INTRODUZIONE

261 - 1. DIFFICOLTÀ DI QUESTO STUDIO - La vita affettiva è un dominio tuttora estremamente


confuso, che la psicologia è lungi dall'avere esplorato. Le ambiguità della terminologia basterebbero a
dimostrarlo: gli uni, infatti, chiamano emozioni ciò che altri denomina sentimenti, e viceversa; per certuni le
sensazioni sono «emozioni fisiche» ed i sentimenti «emozioni morali» o puramente psichiche. Così pure vi
sono psicologi che considerano il piacere e il dolore come due processi eterogenei, mentre altri li
considerano del medesimo genere, benché di senso opposto.
Questa confusione deriva in gran parte dal fatto che gli stati affettivi sono difficili da esprimere. La parola
significa nozioni universali e descrive cose oggettive; essa non riesce a tradurre esattamente gli stati affettivi,
che sono individuali e soggettivi. Ci si spiega pertanto il difetto di una precisa dottrina sulla natura degli stati
affettivi. Non v'è accordo generale sul criterio degli stati affettivi relativamente agli altri stati di coscienza e
sui caratteri fondamentali di ogni specie degli stati affettivi.

2. NATURA DEGLI STATI AFFETTIVI - Dobbiamo comunque prendere le mosse da una definizione
provvisoria degli stati affettivi: definizione destinata semplicemente a delimitare il campo delle nostre
indagini. Pertanto, osserveremo che i nostri atti psicologici si trovano normalmente congiunti, nella nostra
coscienza, ad una certa tonalità o timbro che li rende piacevoli o spiacevoli. Questa impressione è
indefinibile in sé, ma è cosa ovvia per tutti gli esseri sensibili, sotto la forma del piacere e del dolore.
Gli stati di coscienza si presentano dunque sotto un duplice aspetto: l'aspetto rappresentativo e l'aspetto
affettivo. Sotto il primo aspetto, essi comprendono il fatto di afferrare, in modo effettivo o immaginario, il
contenuto o la natura di un oggetto. Col secondo aspetto essi traducono, sotto forma di piacere o di dolore,
di sentimenti e d’emozioni, le reazioni che noi proviamo di fronte agli oggetti che ci sono presentati
dall'attività conoscitiva. E se si sono avute talvolta esitazioni nella verifica scientifica di questa distinzione
fra rappresentazione ed affettività, cioè nella loro separazione con processo sperimentale, non è tuttavia
possibile alcuna esitazione dal punto di vista teorico, e si può affermare con Kulpe che «la caratteristica degli
stati affettivi consiste nell'essere un aspetto dei fenomeni che non è conoscenza d'oggetto esteso e dotato di
qualità sensibili».

262 - 3. METODI PER LO STUDIO DEGLI STATI AFFETTIVI Si può fare ricorso a due metodi, che si
definiscono come metodo d'impressione e metodo d'espressione.

a) Metodo d'impressione. Questo metodo si serve principalmente del procedimento comparativo. Si


propongono al soggetto, sia successivamente, sia simultaneamente, secondo i sensi, due eccitazioni
differenti, per esempio due accordi, uno di quinta e uno di nona, e lo si invita a dire, senza alcun ricorso a
considerazioni astratte, quali impressioni, piacevoli o spiacevoli, provochino in lui tali accordi.
È un metodo alquanto imperfetto, poiché i nostri stati affettivi sono costantemente dipendenti da molteplici
fattori194. Se si può apprezzare in maniera abbastanza precisa lo stimolo sensoriale, non si può determinare
quali sono le influenze congiunte della cenestesia, delle componenti immaginative ed intellettuali, delle
reazioni accidentali dell'individuo, cose tutte ignorate dall'esperimentatore e spesso dal soggetto stesso.

b) Metodo d'espressione. Questo metodo tende a registrare le modificazioni somatiche che accompagnano i
cambiamenti affettivi. Ci si serve, a questo scopo, di differenti apparecchi (tamburo di Marey, sfigmografo,
pneumografo, ergografo, ecc.), allo scopo di misurare gli effetti fisici (numero e intensità delle pulsazioni,
delle respirazioni, variazioni della pressione sanguigna, ecc.) degli stati affettivi.
Questo metodo è evidentemente più preciso del precedente, ma va incontro ai medesimi inconvenienti.
Esso trova pure ostacolo nella estrema complessità delle cause che determinano l'espressione, e che sono al
194 Kulpe dà questa formula: A (stato affettivo) = f (I, D, E, R,). (f = fattore sensoriale, I = individualità, D = umore
generale e cenestesia, E = complesso delle eccitazioni di natura affettiva, R = reazioni motrici, immaginative ed
intellettuali).
155
tempo stesso d'ordine fisico (fatica, stato di riposo, stato nervoso) e d'ordine psichico (idee, pregiudizi, ecc.).
Il sentimento propriamente detto può, in certi casi, essere soltanto un fattore accessorio dell'espressione.
Si possono tuttavia correggere le imperfezioni dei due metodi aumentando il numero delle prove
sperimentali e dei soggetti che vi vengono sottoposti. Poiché il fattore sensoriale (o stimolo affettivo) rimane
sempre lo stesso per numerosi soggetti, le variazioni dovute agli altri fattori devono compensarsi
reciprocamente e dar luogo ad una media approssimativamente esatta.

263 - 4. I PRINCÌPI DI UNA DIVISIONE RAZIONALE

a) Il punto di vista funzionale. Il problema della vita affettiva non riguarda soltanto la natura degli stati
affettivi. O, più esattamente, la soluzione di questo problema suppone a sua volta risolta la questione della
finalità degli stati affettivi: non altrimenti, infatti, si arriverà a definire il genere di relazione che esiste fra i
due aspetti, organico e psichico, esterno ed interno, degli stati affettivi. Si tratta dunque anzitutto di
rispondere alle seguenti due domande: quali sono le situazioni nelle quali si hanno stati affettivi? Qual è la
funzione di questi fenomeni relativamente alla condotta dell'individuo?

b) Istinti ed inclinazioni. Una risposta a queste domande sarà data dallo studio complessivo della vita
affettiva. Ma fin d'ora possiamo affermare che i fenomeni affettivi sono manifestazioni delle nostre tendenze
e delle nostre inclinazioni. È evidente che, in assenza di queste tendenze, vi potrebbero essere nel vivente, in
risposta ad una azione esterna, una reazione meccanica commisurata, a questa azione, ma non quella
manifestazione, così variabile nelle sue espressioni, di sentimenti e d'emozioni, che definisce la vita affettiva
dell'animale (121).
Queste tendenze, che gli antichi indicavano col nome di appetiti, possono essere, negli esseri dotati di
conoscenza, sia naturali che intenzionali.
Le tendenze naturali o istinti sono la natura stessa di un essere, in quanto questo è fatto per tale o tal'altra
determinata operazione. Esse derivano dunque dai bisogni fondamentali o primari del vivente. Proprio in
forza di bisogni di questo genere l'animale è spinto ad esercitare tutti gli atti necessari alla sua conservazione
individuale e specifica. Queste tendenze naturali, che sono innate, non costituiscono facoltà distinte: esse si
identificano con la natura del vivente sensibile e da questa si definiscono.

V'è analogia fra queste tendenze naturali o istinti e le energie specifiche degli esseri inorganici (II, 76). È
questa analogia che spiega la nostra maniera antropomorfica di descrivere le proprietà degli esseri inorganici
(I, 130). Ma né questa analogia giustifica una riduzione del vivente alla materia, quale è stata tentata dal
meccanicismo, né questo modo d'esprimersi può autorizzare a supporre che coloro i quali se ne servono
abbiano posizioni animistiche ed attribuiscano all'inorganico le proprietà del vivente.

Le tendenze acquisite o inclinazioni derivano dai bisogni secondari dell'animale e dipendono, nelle loro
manifestazioni, dallo stimolo di un fatto conoscitivo, sensibile o intellettuale. Di qui la distinzione delle
inclinazioni sensibili, orientate verso i beni sensibili, e delle inclinazioni intellettuali, che hanno per oggetti i
beni intelligibili e che si esercitano con la volontà. Queste inclinazioni si innestano evidentemente sulle
tendenze naturali o istinti, di cui esprimono le manifestazioni contingenti, variabili in numero ed intensità
secondo gli individui. Ne consegue che gli istinti servono a definire la natura specifica, mentre il sistema
delle inclinazioni permette di determinare il carattere o il naturale degli individui. Biologiche nel loro
principio, le inclinazioni rappresentano dunque le forme psichiche e soggettive, tanto più varie quanto più
ricca è la vita, dei bisogni fondamentali del vivente.

Da queste tendenze, innate o acquisite, risultano movimenti o attività, sia sensibili che intellettuali,
destinati ad ottenere il bene desiderato o ad evitare il male temuto. Gli Scolastici attribuivano questi
movimenti ad una «facoltà locomotrice», cioè produttrice del movimento locale dei viventi sensibili, sia che
si tratti di movimento riflesso, o istintivo, o abituale, o volontario. Gli psicologi moderni, riservando a questi
movimenti il nome di attività psicologica, vengono così a restringere veramente troppo il dominio
dell'attività, poiché la conoscenza, sensibile o intellettiva, è pure manifestazione di attività.

264 - c) Stati affettivi e tendenze. Le tendenze, siano esse innate o acquisite, sono inconsce come la vita
stessa. Non si possono pertanto cogliere direttamente ed immediatamente in sé e per sé, ma soltanto nei loro
effetti, che sono i fenomeni affettivi.
156
Questi fenomeni affettivi, poi, possono essere a loro volta suddivisi in due gruppi: quelli che hanno per
antecedenti: una modificazione organica e quelli che hanno per antecedente un fatto psichico. Gli stati del
primo gruppo sono chiamati ora sensazioni affettive, ora sentimenti elementari. Tali sono il piacere e il
dolore, come pure i molteplici stati affettivi provocati dalla cenestesia: sensazione di fame, di sete, di
benessere e di malessere, d'angoscia, di debolezza, di forza, di fatica, di sonno, ecc. Impossibile enumerarli
tutti, giacché ve ne sono alcuni che, per il loro carattere indeterminato o per la loro rarità, mancano perfino di
nome. Altrettanto impossibile definirli, poiché si tratta di stati elementari e primitivi che si conoscono
immediatamente ed intuitivamente.
Gli stati affettivi del secondo gruppo sono le emozioni e i sentimenti propriamente detti. Né più né meno
dei primi, essi non sono suscettibili di definizione. Questi stati, provocati da un antecedente psichico
(immagine o idea), hanno un aspetto «soggettivo» relativamente alle sensazioni affettive, che si presentano
come «oggettive», nel senso che il carattere piacevole o spiacevole che le provoca appare come un dato
oggettivo.

Vedremo più avanti che l'affettività, in generale, e sotto tutte le sue forme, appare come indice ed effetto
dello sforzo d'adattamento del vivente. Essa subentra a partire dal momento in cui le circostanze accidentali
o i rischi delle sue iniziative vengono a contrariare o a favorire l'equilibrio verso il quale il vivente è
costantemente proteso, o, se si vuole, la direzione generale della sua vita, specifica e individuale.
Ciò è quanto dire che l'affettività è correlativa di un mondo di valori che si tratta di rendere attuali.
Bisogna però distinguere un'affettività strettamente organica (la sola che conoscano gli animali) ed una
affettività spirituale, che si associa, nell'uomo, all'attrattiva ed all'attuazione dei valori ideali o razionali,
liberamente perseguiti e vissuti (mentre l'animale è in certo qual modo «posseduto» dai suoi stessi valori).
Da ciò si comprende, come benissimo afferma R. Ruyer 195, che «la tristezza e la gioia, nonostante le loro
condizioni fisiologiche accidentali, siano essenzialmente dovute ad un oscuro sentimento di perfezione e
d'imperfezione».

5. DIVISIONE - Disponiamo ormai degli elementi essenziali per uno studio della vita affettiva, considerata
dal punto di vista funzionale. Questo studio riguarderà anzitutto gli istinti e le inclinazioni, in quanto fonti
degli stati affettivi, poi i differenti stati affettivi: piacere e dolore, sentimenti ed emozioni. Avremo
finalmente da studiare le passioni, che sono inclinazioni portate ad un alto grado di potenza e di stabilità.

CAPITOLO PRIMO

L'ISTINTO

SOMMARIO196

Art. I - CARATTERISTICHE DELL'ISTINTO. Caratteri primari - L'innatezza - La permanenza - Caratteri


secondari - Universalità specifica - Ignoranza del fine.

Art. II - PSICOLOGIA DEL COMPORTAMENTO ISTINTIVO. L'attività conoscitiva nell'istinto - La catena


degli atti istintivi - L'intelligenza al servizio dell'istinto - Carattere finalistico dell'istinto - Segni

195 Éléments de psycho-biologie, p. 130.


196 Cfr. Revault D'Allones, Les inclinations, Parigi, 1907. - Bergson, L'évolution créatrice, Parigi, 1907, c. II. -
Buyteendijk, Psychologie des animaux, Parigi, 1928. André, Autour de l'instinet (« Cahiers de Philosophie de la Nature
»), Parigi, 1930. Mc. DougallL, Outline of Psychology; Social Psychology, 26a ed., Londra, 1931. W. James, The
principles of Psychology, c. XIV. - Guillaume, La psychologie animale, Parigi, 1940, p. 114 sg. - Joussain, Les passions
humaines, Parigi, 1928. - J. De La Vaissière, Éléments de psychologie expérimentale, p. 205 sg. La pudeur instinctive,
Parigi, 1935. - Piéron, Psychologie expérimentale, p. 45 sg. - Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. II, p. 498 sg., e
Les tendances instinctives (Larguier Des Bancels), t. VI. - Pradines, Psychologie générale, p. 153 sg. - A. Burloud,
Principes d'une Psychologie des tendances, Parigi, 1939. - G. De Montpellier, Conduites intelligentes et Psychisme
chez l'animal et chez l'homme, Parigi, 1946. - Ét. Rabaud, L'instinct el le comportement animal, Parigi, 1949. -
Goldstein, La structure de l'organisme, Parigi, 1951, p. 159 sg.
157
distintivi dell'attività intenzionale - L'istinto come attività intenzionale. Istinto e tropismi - L'istinto,
fatto di struttura - I fenomeni affettivi nell'istinto - Istinto, emozioni e sentimenti.

Art. III - CLASSIFICAZIONE DEGLI ISTINTI. Princìpi e metodi - Criteri inadeguati - Il criterio degli
oggetti - Istinti primari - Istinti alimentare, sessuale, e gregario.

265 . - Abbiamo più sopra indicato il principio di una distinzione delle tendenze. Alcune fra di esse
appaiono come primitive, innate, indipendenti dall'educazione e dall'imitazione e caratteristiche di una
specie. Tali sono, per esempio, le tendenze che derivano immediatamente dai bisogni fondamentali
dell'animale e che si è soliti designare col nome di istinti. Questi istinti vengono considerati come
caratteristici dell'animale, in contrapposizione all'uomo. Ma in questo caso si limita eccessivamente il
dominio dell'istinto, ovvero si dimentica che l'uomo è, sì, un essere ragionevole, ma non per questo cessa di
essere a sua volta animale e, in quanto tale, dotato di tendenze istintive. Tuttavia queste tendenze, nell'uomo,
non si manifestano allo stato puro, bensì più o meno modificate dall'esperienza, dalla riflessione, dagli
influssi sociali. Ecco perché lo studio dell'istinto poggerà soprattutto sulla descrizione del comportamento
animale, perché qui gli istinti si manifestano, se non proprio allo stato puro, almeno senza profonde
modificazioni individuali.

Art. I - Caratteristiche dell'istinto


266 - Si devono distinguere due specie di caratteristiche, primarie e secondarie. Le prime sono: l'innatezza
e la stabilità degli istinti. Le seconde sono: l'universalità specifica e l'ignoranza del fine.

§ l - I caratteri primari

1. L'INNATEZZA

a) Natura. L'istinto, almeno nelle sue linee fondamentali ed essenziali, non è oggetto di alcun
apprendimento, né d'un discernimento individuale, né d'una intelligenza che faccia intervenire un'esperienza
anteriormente acquisita. L'educazione e l'imitazione non vi hanno causa: ma è l'istinto a precederle e su di
esso si fondano.
Di qui si spiega la sua infallibilità e la sua perfezione immediata. L'esercizio dell'istinto, dal momento in
cui si abbiano effettivamente condizioni normali, si svolge con una sicurezza meravigliosa. Le operazioni più
complicate appaiono non altro che un giuoco per certi insetti, come ad esempio per l'ammofilo che, per
conservare un nutrimento vivente alla propria larva carnivora, che non si schiuderà alla vita se non dopo la
sua morte, paralizza un epiffigero perforando successivamente col suo pungiglione i sei centri nervosi
dell'insetto, che trascina poi nella sua tana. E le api? Non risolvono forse esse vari problemi di geometria
dalla sconcertante complessità? E se ai piccoli delle rondini si sia impedito di volare fino ad una certa età, al
momento in cui si lascino liberi eccoli spiccare il loro primo volo senza la minima esitazione. Quanto alla
farfalla, non appena uscita dal bozzolo, eccola alle prese col calice di un fiore.

b) Istinto e intelligenza. L'istinto, come tale, si oppone dunque all'intelligenza, definita come capacità di
adattarsi alle situazioni nuove in virtù di un'esperienza anteriormente acquisita 197. Con ciò non si vuol dire
che l'intelligenza non possa insinuarsi nel gioco dell'istinto, ma il fatto è che l'istinto, in sé e per sé e nella
sua essenza, manifesta le sue capacità di successo senza ricorso ad alcuna esperienza anteriore. Ci vien
fatto di constatare ciò nella maniera più evidente quando vediamo l'animale eseguire un'azione istintiva
immediatamente dopo la propria uscita dall'uovo (tale il caso del pulcino, che subito cerca di beccare, dal
momento in cui ha rotto il guscio), o dopo essere stato posto in una situazione in cui è assolutamente
accertato che non abbia potuto sentire gli effetti della educazione o dell'imitazione (si pensi ad un piccolo
scoiattolo, allevato in cattività solitaria, al quale si offrano per la prima volta delle noci e che ne apre e ne

197 Cfr. Mc Dougall, An Outline of Psychology, p. 71: «Intelligence is the capacity to improve upon native tendency in
the light of past experience». L'intelligenza, cosi intesa, si incontra nell'animale. Essa non può essere paragonata
all'intelligenza umana, che è capacità di pensare l'universale: Essa corrisponde a quanto gli Scolastici intendevano per
estimativa. Cfr. pure p. 379, n. l, dove Dougall oppone l'intelligenza all'intelletto, il quale «comprende l'intelligenza e
ben altro ancora».
158
mangia qualcuna, quindi nasconde sottoterra le altre, con tutti gli atteggiamenti caratteristici della sua
specie).

Capita che certi istinti si manifestino soltanto più o meno tardi nella vita individuale: è il caso, per esempio,
dell'istinto sessuale, che si sveglia soltanto con la pubertà. Si tratta pur sempre di istinti ugualmente innati, in
quanto derivano immediatamente dai bisogni fondamentali della natura.

2. PERMANENZA - L'istinto definisce una condotta permanente e stabile dell'animale, nonostante le


modificazioni, spesso importanti, che interessano l'una o l'altra delle funzioni esterne che esso incontra e per
cui gli si impongono adattamenti spesso complessi. Questa stabilità è provata dal fatto che né nello spazio,
né nel tempo hanno luogo variazioni notevoli o progressi importanti e durevoli nelle manifestazioni di un
istinto. Da millenni e millenni ogni specie d'uccello rifà costantemente il medesimo nido, ogni specie di
ragno ritesse perpetuamente la medesima tela 198. Le api fanno oggi esattamente quel che facevano ai tempi di
Virgilio, e i gatti, a quanto pare, non hanno fatto progressi nell'arte d'inseguire ed acchiappare i topi.

§ 2 - I caratteri secondari

267 - Si citano pure come caratteristiche degli istinti la loro universalità specifica ed il fatto che l'animale
ignora il fine della sua attività istintiva. Si tratta di caratteri che appartengono bensì all'istinto e che, quando
siano realmente constatati, possono servire da indici di una attività istintiva. Ma, in primo luogo, anziché
fondamentali essi sono derivati, e d'altra parte essi comportano diverse restrizioni.

A. L'UNIVERSALITÀ SPECIFICA

1. IL FATTO DELLA SPECIFICITÀ - Pare che ogni specie possa definirsi in base ad un sistema di istinti
con altrettanta sicurezza che dalla sua struttura organica. Così si spiega come ogni specie di ragno abbia una
maniera speciale di costruire la sua tela, come ogni specie d'uccello costruisca un suo nido particolare, i cui
elementi (sito, materiali usati, supporto) sono così strettamente determinati che il naturalista, al solo vedere il
nido, pur vuoto dei suoi abitatori, riconosce immediatamente da quale specie d'uccello sia stato costruito. Le
vespe solitarie utilizzano per i loro nidi differenti tipi di tane. Ogni specie poi si serve sempre del medesimo
tipo o di un numero di tipi simili. Ve ne sono talune che fanno buchi nel suolo: ebbene, questi buchi, per ogni
specie, hanno una loro propria forma caratteristica. Altre poi scelgono delle cavità nei tronchi d'albero, ecc.
Parimenti, diverse sono le prede di cui le vespe riforniscono i loro rifugi, ma ogni specie ricorre sempre alla
medesima preda (bruchi, ragni, cicale, ecc.).

La specificità concerne dunque contemporaneamente il «fondo» e la «forma» dell'istinto (termini che


corrispondono rispettivamente a ciò che i neolamarchisti chiamano istinto primario e istinto secondario), con
la differenza, però, che il fondo o istinto primario è comune a tutte le varietà o razze di una specie, mentre la
forma o istinto secondario può variare e specificare l'una o l'altra razza o varietà. Ecco un esempio. Il fondo
dell'istinto, per tutte le rondini, sarà costituito dalla costruzione del nido; la forma sarà definita dall'insieme
delle azioni o mezzi che conseguiranno tale fine: raccolta di pagliuzze e di peli (talvolta di oggetti che ad essi
suppliscono), agglutinamento con terra impastata, ecc. E, per portare un altro esempio, constatiamo che per i
castori il fondo è la costruzione di una dimora; la forma, per i castori del Canada sarà definita da argini e
capanne che formano villaggio, per i castori d'Europa dal traforo di gallerie.

268 - 2. LIMITI DELL'UNIVERSALITÀ SPECIFICA - La specificità dell'istinto comporta tuttavia dei


limiti, essendo l'istinto suscettibile di variazioni individuali e l'uniformità specifica più formale che
materiale.

a) Le variazioni individuali. In realtà, ogni istinto, persino negli insetti, che sono i meno intelligenti tra gli
animali, implica certe differenze individuali (nell'ambito della forma o istinto secondario). Gli individui, in
ogni specie, differiscono gli uni dagli altri quanto a caratteri somatici, corporatura, colore, forma: differenze
dello stesso genere devono esistere nel comportamento. Senonché negli animali inferiori si tratta di
differenze di scarso rilievo, difficilmente osservabili, mentre sono notevoli negli animali superiori. Anche

198 Il numero dei raggi trasversali è fisso in ogni specie: la tela dell'epeira angolare ne ha 21, quella dell'epeira listata
32, quella dell'epeira setosa 42, ecc.
159
l'istinto ammette variazioni individuali vieppiù notevoli man mano che ci si eleva nella scala animale, dagli
insetti ai vertebrati, soprattutto ai mammiferi, e, fra questi ultimi, alle grandi scimmie. Si sa d'altra parte
quanti elementi nuovi l'addestramento e le abitudini possano apportare al comportamento istintivo degli
animali.

b) Natura dell'uniformità specifica. D'altro canto, l'uniformità specifica appare più formale che materiale:
essa dovrebbe cioè trovare una definizione nell’uniformità dei risultati piuttosto che in quella dei
meccanismi. Gli effetti sono invariabili e sono proprio questi a mettere in viva luce il carattere di permanenza
e di stabilità degli istinti. Tutti gli uccelli di una data specie fanno il medesimo nido, ma capita loro di usare
alla bisogna i materiali che trovano lì per lì, come avanzi di stoffe, carte, pezzetti di fiammiferi, ecc., e che
assomigliano al materiale che essi usano normalmente. Così, vi sono elementi del nido (portata, punto
d'appoggio) che dipenderanno dalle circostanze della costruzione. Questa sorta di contingenza materiale
nell'ambito dell'uniformità formale va crescendo man mano che si salga verso gli animali superiori. I fattori
individuali vengono così ad essere sempre più in gioco.
D'altra parte, tornerebbe difficile fare dell'uniformità specifica una caratteristica essenziale dell'istinto, in
quanto esistono delle uniformità che non sono per nulla istintive. Queste uniformità, universalizzate nella
specie, possono, infatti, avere delle cause fisiche o biologiche accidentali (azione dell'ambiente, per esempio)
o sociali (imitazione, moda) e non esser altro che pseudoistinti.

B. L'IGNORANZA DEL FINE

269 - 1. IL MECCANISMO ISTINTIVO - a) La stupidità dell’istinto. L'animale, si dice, fa alla perfezione


ciò che fa per istinto, ma non sa né quel che fa, né come lo fa: in altre parole non è chiamato ad alcuna scelta,
né riguardo al fine, né riguardo ai mezzi che gli sono imposti dalla natura. La stupidità dell’istinto risulta
dunque dalla sua necessità e ciò che spiega la sua perfezione spiega al tempo stesso i suoi errori. I riflessi
simultanei o successivi che compongono il meccanismo irreversibile del comportamento istintivo,
funzionano con una sicurezza infallibile, senza però desistere quando una circostanza esterna abbia
modificato le condizioni normali nelle quali s'esercita l'istinto. Questo, come ogni macchina ben montata,
continua diritto una volta avviato, anche a rischio di agire a vuoto o a sproposito.

Se si modificano le condizioni nelle quali si esercita un istinto, non per questo l'animale cessa di agire in
modo per noi manifestamente assurdo. La chioccia cova con perseveranza un uovo di pietra sostituito
all'uovo fecondato. L'ape solitaria continua a rifornire di miele una celletta che sia stata perforata, si che il
miele ne vada scolando. La vespa operaia chiude il nido di fango in cui essa ha deposto, coi suoi piccoli, dei
bruchi paralizzati mediante abili colpi di aculeo, anche quando questi bruchi siano stati portati via man mano
che essa li recava. Persino in un animale intelligente quanto è il cane, l'istinto si manifesta talvolta con vera
stupidità. È così che il fox-terrier, non appena capita sulla traccia di un coniglio, si mette ad abbaiare
furiosamente, senza altro risultato che quello di far scappare la preda. Ma è il vecchio istinto gregario che
riappare in lui: i suoi antenati allo stato selvaggio cacciavano in bande, ed i latrati servivano a chiamare in
aiuto i compagni.

b) Lo psichismo dell'istinto. La tesi della stupidità nell'istinto finirebbe col divenire completamente falsa se
tendesse a ridurre l'attività animale al puro meccanismo. L'istinto può comportarsi come un meccanismo,
l'animale non è una macchina: e il comportamento dell'istinto è lungi dall'aver sempre la stupidità che si nota
nel caso del ragno che trascina la pallottola di sughero sostituita al suo bozzolo, o della chioccia che si ostina
a covare un uovo di pietra.
Ritorneremo più avanti sullo psichismo in relazione all'istinto. Osserveremo però fin d'ora che l'animale
non ignora proprio assolutamente il fine dei suoi atti: esso ne ha una certa quale avvertenza, che definisce
propriamente la finalità dell'istinto. D'altronde, se vi sono numerosi casi in cui l'animale non ha i mezzi per
discernere i cambiamenti introdotti nelle circostanze esterne, ve ne sono altri, soprattutto negli animali
superiori, in cui l'animale avverte chiaramente queste modificazioni e vi si adatta modificando a sua volta il
proprio comportamento199.
Di fatto, le circostanze nelle quali si ha la manifestazione dell'istinto non sono mai perfettamente identiche
ed ogni atto istintivo deve, da questo punto di vista, ammettere un margine di adattamento dei mezzi al fine.
C'è un comportamento generale, subordinato come s'è visto al fine, ma nell'ambito del quale i mezzi possono
199 Negli insetti l'industria istintiva occupa la maggior parte del tempo esplicandosi, per così dire, a mo' di catena dagli
anelli talmente saldati tra di loro che l'intelligenza animale non può assolutamente modificarne l'ordine.
160
variare da un individuo all'altro e da una situazione all'altra. Tutti i gatti assumono il medesimo
atteggiamento di fronte al topo; ma tutti devono regolare i loro movimenti secondo quelli del topo e i loro
balzi in rapporto alla sua distanza. Ne consegue che si parla, a giusta ragione, della prodigiosa prontezza
degli animali, vale a dire della loro abilità nell'apprezzare le circostanze concrete nelle quali deve entrare in
gioco l'istinto. Spesso ci capita di constatare che essi sospendano un'operazione che non serve più a nulla e
che riprendono, dopo un lasso di tempo più o meno lungo, esattamente al punto d'interruzione. Si direbbe
persino che essi regolino la loro condotta secondo complicati ragionamenti. Aristotele, attribuendo loro la
capacità estimativa, aveva ragione di notare che l'istinto «imita la ragione».

270 - 2. L'AUTOMATISMO - Rimane vero comunque che lo psichismo animale è non riflesso ed
automatico, designando l'automatismo la proprietà in virtù della quale un atto complesso ed adattato succede
immediatamente ad un'eccitazione e si svolge difilato fino al suo totale compimento. La coscienza
dell'animale è distinta dai fenomeni organici che risultano dalla sua attività come è distinta dalle immagini
che stimolano questa attività in un ordine prestabilito, ma essa non può cogliere se stessa o ritornare su di sé.
È una coscienza oscura. Tutto quanto gli animali lasciano trasparire nell'ordine dell'esitazione, della
diffidenza, della riservatezza, della dissimulazione e della scaltrezza, proviene non già dalla riflessione e
dalla deliberazione, ma da virtualità comprese nella struttura dell'istinto o nella dotazione ereditaria
dell'animale, il manifestarsi delle quali dipende dalle circostanze in cui si esercita l'istinto, cioè dalle
percezioni, dalle immagini e dai ricordi dell'animale. L'automatismo, anche mitigato e corretto da un margine
di indeterminatezza, rimane pur sempre automatismo.

Art. II - Psicologia del comportamento istintivo


271 - Il comportamento dell'istinto è in relazione a due specie di fattori: i fattori esterni, che servono da
stimolanti all'attività istintiva, e i fattori interni, che ne sono le cause essenziali. Le teorie behavioristiche
(14) hanno bensì tentato di descrivere e di spiegare l'istinto unicamente con l'esterno, prescindendo da ogni
ricorso allo psichismo: ma i fatti non sono proprio in favore di queste teorie, né di quelle che pretendono
ridurre l'istinto ai tropismi ed ai puri riflessi. Lo si potrà constatare studiando la psicologia del
comportamento istintivo, nei tre elementi che la definiscono: fenomeni conoscitivi, fenomeni di tendenza,
fenomeni affettivi.

§ l - L'attività conoscitiva nell'istinto

1. LA CATENA DEGLI ATTI ISTINTIVI - Le teorie meccanicistiche poggiano soprattutto sul


concatenamento degli atti istintivi, che permetterebbe presumibilmente di spiegarli; a partire dallo stimolo
esterno che origina il processo, senza ricorrere allo psichismo. Quando ci sforziamo però di cogliere la natura
del concatenamento, rileviamo esattamente il contrario. Esso infatti è anzitutto una certa quale attuazione di
un sistema di conoscenze ereditarie o, come si vedrà più avanti, di una struttura psichica innata, ed implica
poi l'intervento continuo nel comportamento dell'istinto di percezioni, di immagini e di ricordi, che ne fanno
un processo non soltanto ben differente dal mero meccanismo, ma irriducibile al semplice riflesso. Ciò è
appunto quanto Mc Dougall ha felicemente messo in evidenza, ricorrendo a molteplici esempi atti a
dimostrare che l'atto istintivo si presenta chiaramente, in svariate circostanze, come risposta ad un oggetto
(cioè ad una percezione), mentre il riflesso altro non è mai che una risposta ad uno stimolo esterno, una
risposta motrice che succede meccanicamente ad una eccitazione semplice.

È il caso, per, esempio, della vespa solitaria, la quale ci offre un bel tipo di atti a catena, che si potrebbero a
prima vista considerare come un semplice concatenamento di riflessi, ciascuno dei quali determinerebbe
automaticamente, una volta eseguito, l'esecuzione del seguente. Non è però così, giacché l'ordine degli atti
istintivi è esattamente l'inverso di quello che esigerebbe il puro meccanismo. L'insetto incomincia con lo
scavare la sua tana, quindi si dà a cercare la preda. Non basta: la scelta del rifugio comporta una minuziosa
ricognizione del terreno, ed il trasporto della preda di cui l'insetto è entrato in possesso non avviene a caso,
ma per la via più sicura e meno disseminata di ostacoli, ecc. Tutto ciò presuppone senz'altro l'intervento di
percezioni, d'immagini e di ricordi. Se l'imenottero compie tutti questi atti con sicurezza, ciò può avvenire
grazie ai voli di ricognizione preventivamente compiuti per fissare il sito della tana e per scoprire la miglior
via per il trasporto. Una conferma di questa interpretazione è data dal fatto che se si spostano i punti di
riferimento situati sulla via del trasporto ed osservati dall'insetto, questo non può ritrovare il suo nido se non
dopo laboriosi tentativi (Outline of Psychology, p. 80). Mc Dougall aggiunge che questi punti di riferimento
161
non sono oggetti isolati, ma costituiscono fra di loro un insieme: «Siamo obbligati a pensare che in un certo
senso la vespa si faccia, e quindi porti seco, una carta o una mappa della località, poiché il suo compito sta a
dimostrare che essa riconosce gli oggetti che si trovano in prossimità della tana come parti di un tutto, di cui
fa ugualmente parte il suo nido».
Il caso della farfalla Tegeticula alba Zell, che Mc Dougall chiama «Yucca moth» (Outline of Psychology, p.
74) ci offre un altro esempio tipico di attività in ordine inverso rispetto a quello che esigerebbe il
meccanismo, e in modo tale da rivelare l'intervallo successivo delle percezioni e delle immagini. Questa
farfalla esce dalla crisalide, una volta per notte, proprio nel momento in cui si aprono i grandi fiori gialli e
bianchi, a campana, della Yucca. Su questi fiori, la femmina della Tegeticula alba raccoglie il polline dorato
e, mediante zampine estensibili e setolose, lo fa passare, impastandolo, in una specie di palloncino che essa
ha dietro la testa. Carica com'è, se ne va in cerca di un altro fiore. Quando l'ha trovato, con le sue affilate
lancette fora il tessuto del pistillo, vi depone le proprie uova fra gli ovuli, quindi, volando in cima al pistillo
stesso, svuota il palloncino che contiene il polline fertilizzante, sì che entri nel pistillo per l'apertura a mo' di
imbuto. La farfalla depone così le sue uova là dove potranno svilupparsi, solo che si sviluppino gli ovuli: e
gli ovuli, a loro volta, possono svilupparsi soltanto se la farfalla fa penetrare il polline di un altro fiore nello
stimma aperto del pistillo.
Si possono citare ancora numerosi esempi, forniti da certi uccelli nel loro modo di riconoscere i congeneri
della medesima specie e della medesima varietà, o anche nel loro modo di distinguere gli individui di sesso
opposto in vista della generazione. Ne danno un esempio i piccioni, nel cui caso il discernimento dei sessi
può aver luogo soltanto attraverso un insieme di elementi ed atteggiamenti alquanto complessi, che va dal
tubare allo sventagliare della coda, al rigonfiamento del collo, a giochetti vari. La scoperta del sesso esige
dunque l'esercizio di un'attività sintetica di percezione, che è ben altra cosa che una mera stimolazione
sensibile200.

272 - 2. L'INTELLIGENZA AL SERVIZIO DELL'ISTINTO Lo psichismo dell'istinto può definirsi come


«intelligenza in relazione alle servitù dell'istinto». Infatti, l'intelligenza animale è tutta compresa entro i limiti
dell'istinto, e gli oggetti non hanno per essa altro significato che in rapporto alle loro relazioni coi fenomeni
affettivi mediante i quali si esprime la tendenza istintiva.

a) L'intelligenza entro i limiti dell'istinto. Le percezioni, le immagini, i ricordi che intervengono all'inizio o
nel corso del processo istintivo sono strettamente racchiusi entro i limiti dell'istinto, cioè, come osserva M.
Buytendijk (Psychologie der Tieren Haarlem, 1920; Psychologie des animaux, tr. fr., Parigi, 1928, p. 75, cfr.
tr. it., Palermo, 1940) il potere di percezione è notevolmente specializzato. Non è, infatti, che l'animale
percepisca qualsiasi cosa: esso «percepisce» soltanto ciò che è utile all'istinto. Le sue capacità conoscitive si
trovano in dipendenza di certi fattori che ne determinano strettamente l'esercizio, in quanto essi soli sono in
grado di fissare l'attenzione dell'animale su certi oggetti definiti, fra i tanti e tanti che colpiscono i suoi sensi.
Tali fattori sono: la cenestesia dell'animale, la cui influenza si manifesta per esempio nella ricerca del cibo,
nella nidificazione e nella covatura, e comporta periodi di attività e di latenza 201, l'impulso orientato, stimolo
interno, o, per dirla col Dougall, «inclinazione ormica», che deriva dalla natura stessa dell'essere. È il gioco
di questi fattori interni a spiegare come unicamente gli oggetti dell'istinto abbiano «significato» per
l'animale.

273 - b) Il significato per l'animale. Ritroviamo qui quella nozione di significato che ci è apparsa
essenziale nello studio della percezione (138), allorché abbiamo visto che percepire un oggetto è
essenzialmente attribuire un significato ad una struttura. Contemporaneamente si imponeva il problema di
spiegare come l'animale, che percepisce, possa accedere al significato. Ebbene, noi constatiamo a questo
punto che, in relazione all'istinto, il significato non rappresenta una nozione universale, ma una relazione
costante fra le tendenze affettive dell'animale ed il suo ambiente vitale 202. Il senso dell'oggetto, per l'animale,

200 Va da sé che rinunciando a ridurre l'istinto ad un semplice giuoco di riflessi, non negheremo che l'istinto chiami in
causa numerosi riflessi, e molto complessi. L'istinto tuttavia si serve dei riflessi come di strumenti, e non è da essi
costituito, alla stessa maniera in cui la memoria non è costituita dai meccanismi motori di cui essa si serve.
201 La cenestesia è a sua volta influenzata da fattori esterni come la temperatura, il cibo, - e da fattori interni, come le
secrezioni delle ghiandole endocrine chiamate ormoni. Queste secrezioni delle endocrine pare abbiano un'influenza
importante nell'apparizione dei comportamenti istintivi ciclici (migrazioni, periodi di fregola, canto dei maschi negli
uccelli, ecc.).
202 Si può osservare che questa «relazione costante» costituisce l'equivalente o l'analogo di un universale.
162
è indicato dalle emozioni che esso prova di fronte a tale oggetto. «Anche per gli animali superiori, come il
cane e la scimmia, afferma il Buytendijk, non esiste niente che non sia pure prodotto delle loro emozioni».
(«Cahiers de Philosophie de la Nature», IV, Parigi, 1930, p. 75). L'ambiente esterno viene ad integrare la vita
soggettiva dell'animale e fa ormai parte del suo flusso vitale.

§ 2 - Il carattere finalistico dell'istinto

274 - Il carattere finalistico dell'istinto ci si è ora palesato nel più manifesto dei modi. Dobbiamo però
precisare il senso di questo carattere e dimostrare come esso si concilii coi meccanismi dell'istinto.

1. I SEGNI DISTINTIVI DELL'ATTIVITÀ INTENZIONALE - Fra i segni distintivi di un' attività


intenzionale, cioè intesa al raggiungimento di uno scopo e comandata da tendenze o impulsi interni, si
possono citare come più importanti: il potere d'iniziativa e la spontaneità (almeno in una certa misura), i
cambiamenti apportativi via via nella direzione dei movimenti istintivi, la cessazione di questi movimenti
esattamente nel momento in cui lo scopo sia raggiunto, il fatto che i movimenti pare anticipino la situazione
che contribuiscono ad attuare, infine, il fatto della reazione totale, cioè il fatto che tutte le energie
dell'organismo sono protese al medesimo fine.

2. ISTINTO E RIFLESSO - Nessuno dei segni distintivi che abbiamo enumerato si incontra nel caso dei
riflessi203. Al contrario, li ritroviamo tutti, in gradi differenti, nell'attività istintiva 204. Di questa differenza fra
riflesso e istinto possiamo renderci ragione mediante una semplice osservazione su noi stessi. Il riflesso
rotuliano, per esempio, è pura risposta automatica ad uno stimolo esterno, ma non orientamento attivo e
cosciente verso un fine. Invece sentiamo che la collera che ci prende è un forte impulso a compiere certi atti
determinati (parole, gesti, atti di violenza), anche se facciamo sforzi, più o meno intensi, intesi ad inibire
l'impulso.
Spesso si confonde il susseguirsi delle fasi del processo istintivo con una catena di riflessi, perché tutto si
svolge senza inciampi. Dal momento però in cui insorgono ostacoli, la differenza si fa notevolissima.
L’istinto, che obbedisce all'impulso, si adatta mediante variazioni talvolta molto complesse, come si nota
nelle esperienze di labirinto. Certo che gli adattamenti non sono invenzioni nel senso stretto della parola: essi
fanno parte del corredo ereditario dell'animale. Ma ciò non toglie che questo è chiamato a scegliere nella
collezione dei meccanismi motori che sono a sua disposizione 205 e che questa scelta implica evidentemente
un'attività intenzionale di natura rappresentativa.

Il riflesso, del quale si è notato il carattere «esplosivo», si esercita e si esaurisce all'istante. Reazione
immediata ad una eccitazione dolorigena, esso ha frequentemente il carattere di pronta risposta ed è, limitato,
comunque, ad una reazione di difesa o di adattamento che è totalmente in funzione della circolazione esterna
che si tratta di modificare. L'istinto, invece, si inscrive nel tempo; esso dipende da un passato ed è proteso
verso un avvenire. Esso sta a significare la permanenza di un bisogno, sottoposto ad un ritmo di tensione e di
distensione, e, più profondamente ancora, la permanenza di una vita che si spiega e si dilata nella durata.

203 La contingenza delle risposte possibili ai riflessi condizionati (57) non significa affatto che il riflesso per sé,
comporti iniziativa, spontaneità o scelta, ma soltanto che il sistema nervoso opera come un tutto armonico e che ogni
riflesso, lungi dall'essere il semplice risultato di un determinato stimolo, è una funzione del tutto, che è qui il corpo con
l'insieme dei suoi bisogni e le condizioni totali del suo equilibrio interno. Fisiologicamente, del resto, la complessità
delle articolazioni sinaptiche o delle vie nervose lascia agli altri fattori dell'attività psichica (attenzione, opportunità,
interesse, volontà) un margine d'espressione più o meno notevole.
204 Per quanto concerne i cambiamenti di direzione, si veda in Souvenirs entomologiques di Fabre ciò che riguarda lo
Sphex di Linguadoca (Moeurs des insectes, Parigi, Delagrave, p. 118): Lo sphex trasporta la preda paralizzata dai colpi
di pungiglione: «Talvolta il tragitto si compie d'un sol tratto; talvolta, e più frequentemente, il trasportatore lascia
improvvisamente il suo carico per accorrere rapidamente a casa sua [...]. Poi ritorna all'epiffigero, che giace supino,
dov'è stato lasciato, a pochi passi di distanza. Il trasporto è ripreso. Strada facendo, lo sphex sembra colto da un'altra
idea, che gli viene attraversando la mobile mente. Ha bensì visitato la porta, ma non ha dato uno sguardo all'interno:
chissà se dentro tutto va bene? Eccolo dunque accorrere, lasciando l'epiffigero per la strada. La visita all'interno è fatta,
non senza qualche colpo... di «cazzuola», con cui le zampine danno l'ultima perfezione alle pareti...».
205 Talvolta l'animale, fermato da un ostacolo, utilizza l'un dopo l'altro tutti quanti i meccanismi motori che ha a
disposizione.
163
275 - 3. ISTINTO E TROPISMI - Tutto ciò rende impossibile, a maggior ragione, ogni tentativo di
riduzione ai tropismi, così come ha tentato di fare Loeb. Certo che si incontrano, a proposito degli animali,
fenomeni che hanno qualche analogia coi tropismi vegetali (fototropismo: effetto della luce; geotropismo:
effetto della pesantezza; chimiotropismo: azione degli agenti chimici; stereotropismo: azione dei corpi solidi;
anemotropismo: effetto dei venti, ecc.). Ma analogia non è identità, come abbiamo fatto notare in
Cosmologia (II, 122). La manifestazione del tropismo non solo non comporta, ma addirittura esclude
assolutamente ogni sorta di contingenza nella risposta allo stimolo esterno, mentre la manifestazione
dell'istinto comporta numerose variazioni nei meccanismi mediante i quali un fine costantemente identico
viene perseguito e mandato ad effetto.

L'ape, dopo essersi allontanata dall' arnia per andare a succhiar fiori e dopo innumerevoli spole da un fiore
all'altro, ritrova infallibilmente il suo punto di partenza. Stando alla teoria dei tropismi, si direbbe che l'ape
obbedisca ad una forza d'ignota natura (radiotropismo), che la riconduce all'arnia esattamente come un
argano o un verricello attira a sé, per mezzo di una fune che si avvolge, l'oggetto appeso all'estremità di
questa. Senonché ciò non ha proprio alcun senso di fronte all'esperienza, in quanto è constatato che l'ape
deve acquisire una preventiva conoscenza dei luoghi con voli di prova, con tentativi, tanto che se noi, assente
l'ape, spostiamo l'alveare, l'ape ritorna regolarmente nel luogo dove questo si trovava in precedenza 206. E non
basta: aggiungeremo che l'ape normalmente non si allontana per più di tre chilometri dal suo alveare; e se va
oltre, accade spesso che non ritrovi più la via del ritorno. Quanto poi alle api alloggiate in alveari in
prossimità di una zona arida, esse vanno a succhiare in luogo ricco di fiori, evitando del tutto o quasi la zona
arida, che è loro vicina. Infine, tutte le esperienze dimostrano che le api sono guidate dalla vista: non appena
si modifichino le apparenze (colore, forma) dei dintorni dell'arnia, il ritorno dell'ape è soggetto ad esitazioni
ed errori che altrimenti non si avrebbero (cfr. Mc Dougall, Outline of Psychology, p. 82-84).

I tanti fenomeni che si citano per giustificare l'assimilazione dell'istinto ai tropismi dimostrano soltanto che
il manifestarsi dell'istinto è in rapporto con l'influenza di fattori esterni, oltre che interni, che fungono da
stimoli207. Ma non di questo si tratta. Il problema consiste nel sapere non già se esistano degli stimoli (il che
è ben certo), ma come l'animale reagisca a tali stimolanti. Ebbene, le variazioni certe della reazione provano
che i meccanismi motori mediante i quali si effettua la risposta agli stimoli esterni altro non sono che
strumenti dell'istinto, e non l'istinto stesso. La spiegazione ultima si trova dunque non nei meccanismi, ma,
insieme, nella tendenza o impulso che di essi si serve ai suoi fini, e nelle rappresentazioni che li dirigono con
un margine di iniziativa e di spontaneità che cresce man mano che ci si innalza agli animali superiori.

276 - 3. L'ISTINTO, FATTO DI STRUTTURA - a) Impulso e rappresentazione. Impulso finalizzato e


fenomeni rappresentativi: a quale di questi elementi, necessari entrambi ad una esatta definizione dell'istinto,
va attribuito il posto principale? Mc Dougall sostiene il primato della tendenza finalistica. È il carattere
intenzionale dell'istinto, egli asserisce, che definisce ciò che in esso v'è di più essenziale e che ne spiega il
manifestarsi. Tutto dipende da questo impulso ormico. Gli stessi fenomeni conoscitivi e motori sono meno
caratteristici, poiché possono notevolmente variare, mentre l'impulso rimane stabile, permanente e
invariabile, e, del resto, le cose presentate agli organi sensoriali dell'animale non sono «oggetti» per lui, vale
a dire non sono capaci di trattenere la sua attenzione e di essere percepiti, se non nella misura in cui l'impulso
o la tendenza è in attività. Altrimenti l'animale non reagisce affatto (davanti al più succulento degli ossi il
cane sazio è insensibile: l'osso non è più un oggetto per lui).
Tutto ciò è giusto. D'altronde mettendo in evidenza il primato della tendenza, non si può escludere da un
altro punto di vista il primato delle rappresentazioni: le ammirevoli analisi di Dougall ben dimostrano che se
l'istinto è un impulso orientato, questo impulso non porterebbe ad alcun risultato e andrebbe a casaccio senza

206 Loeb pensa che le ipotetiche radiazioni che determinerebbero il movimento dell'ape, provengano non già
dall'alveare, ma dal luogo in cui questo si trova. Ma si tratta di una supposizione gratuita e poco verisimile, che d'altra
parte è in contraddizione con l'ipotesi, avanzata dai sostenitori della teoria dell'istintotropismo, secondo cui l'ape
sarebbe attratta dall'odore della regina o, in generale, dall'odore dell'arnia.
207 Loeb cita numerosi casi assai curiosi: in particolare quello del bruco che, a primavera, sale, per nutrirsene, verso le
foglie del fusto sul quale ha fatto il proprio nido. Esso obbedisce, osserva Loeb, ad un fototropismo positivo, giacché,
posto in un tubo che venga orientato in modo variabile relativamente ad una sorgente di luce, il bruco si dirige
costantemente verso la parte illuminata. Una volta nutrito, il bruco scende e va a sotterrarsi. Il tropismo, dice Loeb, è
ora a rovescio: il bruco fugge la luce. Si possono ancora citare, come analoghi al chemiotropismo, i casi di migrazione
dei salmoni che, al tempo della deposizione delle uova, risalgono i corsi d'acqua alla ricerca di acque più ricche
d'ossigeno.
164
il sistema delle rappresentazioni che governano il corso ordinato delle sue manifestazioni. E ancor più
esattamente, esso impulso non avrebbe contenuto e per ciò stesso non potrebbe avere finalità alcuna. Una
tendenza finalizzata è necessariamente una tendenza governata da una rappresentazione. Per contro, la
rappresentazione ha efficacia motrice solo per il fatto che essa è in relazione con la tendenza o con un
bisogno che essa attualizza. Impulso e rappresentazione sono pertanto in causalità reciproca e l'istinto si
definirà come un fatto di orientamento finalistico innato, stimolato, chiarito e diretto nelle sue manifestazioni
da una struttura ereditaria di rappresentazioni o di immagini che appaiono in stretto rapporto col succedersi
delle attività motrici che esse devono guidare208

277 - b) L'istinto, struttura mentale. Possiamo precisare ancora la natura dell'istinto qualificandolo come
una struttura mentale. Lo studio della percezione e dell'immaginazione ci ha resa familiare la nozione di
struttura. Dal punto di vista mentale, la struttura si definirà come una virtualità, permanente ed inconscia, in
contrapposizione agli atti psichici, che sono fatti successivi e coscienti. Le strutture, non essendo altro che
disposizioni o virtualità, si conoscono soltanto per induzione, muovendo dagli atti e dai comportamenti
considerati come dei complessi organizzati e che risultano dall'influenza subconscia delle sintesi permanenti
della vita mentale.
L'istinto è una di queste strutture, cioè una organizzazione inconscia, innata ed ereditaria, di immagini, di
tendenze e di emozioni che si esprimono mediante meccanismi specifici. Non lo si spiegherà mai come un
succedersi meccanico di attività giustapposte, connesse tra loro da una contiguità casuale. Esso è e governa
un'organizzazione e, come s'è visto, si definisce molto più col suo carattere formale che con la sua materia.
Tuttavia, esso va nettamente distinto dai fatti di attività mentale, di cui è soltanto il principio, in quanto
forma permanente e inconscia dello psichismo209.

§ 3 - I fenomeni affettivi nell'istinto

278 - 1. ISTINTO ED EMOZIONI - Abbiamo già notato che è in virtù delle sue emozioni che l'animale
coglie il significato degli oggetti. Ogni specie di istinti è pertanto rivelata da un fenomeno affettivo specifico
al quale si può riservare il nome di emozione. La relazione che unisce l'emozione all'impulso istintivo (con il
sistema di immagini che ne è attuato) consente riferimenti reciproci. Ogni volta che si osservano in un
animale segni di emozione, questi si possono considerare come indici dell'azione di un corrispondente istinto
e inversamente ogni volta che un animale esercita un'attività istintiva, si può supporre che provi una
eccitazione emozionale e tentare di interpretare questa attività in termini di emozione 210.
L'emozione è dunque il segno dell'attuazione di un istinto. Questo rimane una virtualità fino a che
l'emozione non giunga a stimolare le tendenze. A sua volta questa emozione è messa in atto, sia
immediatamente dai fattori interni, sia per tramite dei fattori esterni. L'emozione che risveglia l'istinto di
caccia del fox-terrier è eccitata dalla traccia di un coniglio. L'emozione che prova il gatto all'odore del topo
stimola tutta la serie dei movimenti istintivi. Il risveglio degli istinti sessuali periodici deve corrispondere ad
emozioni dovute ai cambiamenti morfologici o umorali dell'animale.

2. EMOZIONI E SENTIMENTI - Queste considerazioni ci permettono di anticipare quella che potrà


essere una teoria biologica degli stati affettivi. Si distingueranno le manifestazioni emotive derivanti
direttamente dai differenti istinti o dall'azione sinergica di tendenze istintive multiple (emozioni), - e le
manifestazioni affettive, stabili e complesse, connesse, non più direttamente all'istinto, ma all'idea di uno
stato che interessi più o meno da vicino le tendenze istintive e, di conseguenza, tali da poter sussistere dopo
gli atti che le hanno generate, sotto forma di disposizioni subcoscienti, in dipendenza nel loro esercizio da
rappresentazioni psichiche. Si tratta di ciò che denominiamo sentimenti.

Art. III - Classificazione degli istinti


§ l - Princìpi e metodi di classificazione

208 Cfr. M. Thomas («Cahiers de Philosophie de la Nature», IV, La notion d'instinct, p. 74): «L'istinto si manifesta in
virtù della conoscenza innata, ereditaria, non acquisita per imitazione, esperienza personale o altro procedimento, di un
mezzo (che talvolta assume l'aspetto di una vera e propria industria complessa) universalmente usato dalla specie in
vista del raggiungimento di uno scopo utile».
209 Cfr. Ed. Janssens, L'instinct d'après Mc Dougall, Parigi, 1938, p. 136-145.
210 Cfr. Mc Dougall, Outline of Psychology, p, 129.
165

279 - Il problema della classificazione degli istinti e delle inclinazioni è dei più complessi, a causa
anzitutto delle difficoltà che si incontrano nel distinguere le tendenze fondamentali e primitive dalle
inclinazioni che si innestano sulle prime particolarizzandole ed usurpandone i caratteri, in secondo luogo a
causa della mancanza di un criterio veramente scientifico che permetta di ordinare le tendenze secondo la
loro importanza vitale e la loro nativa energia. Peraltro numerosi sono stati i tentativi di classificazione. Ne
esamineremo i principali.

A. CRITERI INADEGUATI

1. IL PUNTO DI VISTA FUNZIONALE - Il punto di vista funzionale è certamente il più favorevole,


giacché l'istinto non può definirsi perfettamente se non in rapporto al fine cui, intende dar esito. Le
classificazioni «oggettive» fondate sulla semplice descrizione dei meccanismi motori o del comportamento
dell'animale, non possono condurre che a confusione a proposito di comportamenti differenti, istintivi o no,
che hanno fra di loro delle somiglianze. Senza dubbio, quando si tratta degli animali, gli istinti non ci sono
rivelati che dal comportamento esteriore: il punto di vista soggettivo non può essere applicato. Ma 1a finalità
dell'istinto è oggettiva ed osservabile tanto quanto i meccanismi di cui essa si serve: e si ha qui una
concezione ristretta ed arbitraria dell'oggettività, che porta ad escludere sistematicamente ogni ricorso alla
finalità (43).

Secondo questo criterio non si arriverebbe d'altra parte ad alcunché di preciso se non si mirasse a
determinare le finalità dinamiche particolari degli istinti. La classificazione degli istinti in due gruppi: istinti
tendenti alla conservazione dell'individuo, istinti tendenti alla conservazione della specie, rimane alquanto
insufficiente, se nell'ambito di ciascun gruppo non si cerchi di ottenere una classificazione razionale.

280 - 2. LA CLASSIFICAZIONE SOGGETTIVA DI ARISTOTELE - Aristotele e gli Scolastici hanno


elaborato una classificazione che assume come principio la relazione dell'oggetto al fine dell'animale,
relazione che le passioni di quest'ultimo definiranno. L'oggetto, nota Aristotele, può essere buono o cattivo,
sia relativamente all'appetito sensibile, sia relativamente all'appetito intellettuale (volontà). Nel primo caso,
esso apparirà sotto l'aspetto dell'utile o del nocivo, nel secondo sotto l'aspetto del bene o del male. Percepito
come utile o come bene, l’oggetto determina l'appetito concupiscibile, percepito come nocivo o come male,
esso determina l'appetito irascibile. Da questi due movimenti fondamentali derivano undici passioni (ed
altrettanti atti nell'attività volontaria). (Cfr. S. Tommaso, II-II, q. 27-50).
Oltre a queste passioni elementari, si distinguono delle passioni miste, che risultano dall'unione di diverse
passioni elementari: per esempio, la misericordia, complesso di tristezza per la sventura altrui e di desiderio
d'alleviarla.
Questa classificazione, che in San Tommaso poggia su analisi d'una finezza e d'una profondità ammirevoli,
è una classificazione delle passioni, più che degli istinti ed inclinazioni. Infatti queste passioni possono a loro
volta risultare da differenti istinti (la collera può essere in rapporto ad una frustrazione del bisogno di cibo o
del bisogno sessuale; il desiderio può tendere alla soddisfazione dell'uno o dell'altro bisogno, ecc.). Conviene
dunque completare questa classificazione delle passioni con una classificazione degli istinti che le generano.

281 - 3. ISTINTI INDIVIDUALI, SOCIALI E IDEALI - È questa una suddivisione d'uso comune, che
non può tuttavia passare per vera e propria classificazione. Si nota immediatamente il disordine ad essa
inerente. Essa anzitutto mescola, senza un principio di discernimento, istinti primitivi ed inclinazioni
secondarie, come l'istinto gregario, l'imitazione, la benevolenza, la simpatia, inoltre fa confusione fra le
tendenze sensibili e le tendenze intellettuali. E non basta: essa oppone fra di loro tre categorie che, sotto
diversi punti di vista, rientrano le une nelle altre: «individuale» può opporsi a «sociale», ma non a «ideale» o
a, «disinteressato»; parimenti gli istinti sociali possono benissimo essere «superiori» e «ideali».

282 - 4. IL CRITERIO DELLE REAZIONI EMOZIONALI Abbiamo già visto che è dato distinguere,
secondo la terminologia proposta da Romanes (Mental Evolution in Animals, Londra, 1883, cap. XII) istinti
primari, corrispondenti ai bisogni fondamentali di ogni specie, ed inclinazioni o pseudoistinti, che sono
derivati, complessi, variabili, e che risultano da organizzazioni psichiche che appaiono soltanto ad uno stadio
elevato dell'evoluzione vitale. Tutto il problema consiste nel trovare un principio obiettivo di distinzione.
Ebbene, potrà questo principio consistere, come crede Mc Dougall, nelle reazioni emozionali?
166
Gli istinti, nota Mc Dougall (Psychanalysis and Social Psychology, Nuova York, 1936, p. 39-76), ci sono
apparsi come in relazione ad emozioni specifiche, che ne sono le manifestazioni. Possiamo pertanto trovare
nelle differenti categorie d'emozioni un mezzo per risalire agli istinti che ad esse corrispondono. La
difficoltà sta nel distinguere gli istinti primari dalle inclinazioni, giacché vi sono diverse emozioni complesse
che chiamano in causa simultaneamente molteplici tendenze. È alle emozioni semplici che dobbiamo
ricorrere per cogliere le tendenze fondamentali e primitive di una natura.
Quanto poi alle stesse emozioni semplici, esse si potranno discernere con l'ausilio della psicologia
comparata (l'animale manifesta meno emozioni complesse dell'uomo, ed emozioni meno complesse di quelle
dell'uomo), della psicopatologia, la quale insegna che le emozioni elementari in relazione agli istinti
fondamentali sono le uniche in grado di raggiungere un parossismo morbido, o infine dell'etnologia, che può
renderci edotti intorno alle emozioni ed agli istinti fondamentali della natura umana, facendoceli cogliere
nella loro espressione nativa presso i primitivi, ancora intatte dalle complessità introdotte dalla civiltà.
Tuttavia, nonostante queste acute note di Mc Dougall, il criterio delle emozioni semplici appare
insufficiente a gettar le basi di una suddivisione realmente scientifica degli istinti. Da un lato, infatti, questo
criterio manterrà sempre, a causa del suo carattere soggettivo, un eccessivo grado d'incertezza. D'altra parte,
il procedimento che consiste nello studiare gli istinti direttamente ed immediatamente nell'uomo, rischia di
sviare la ricerca, facendo intervenire dei comportamenti che suppongono il gioco combinato di tendenze
multiple e di inclinazioni derivate difficili da differenziare. Senza dubbio sarebbe più sicuro partire
semplicemente dall'animale, paghi di cercare in seguito quali aspetti rivestano, nell'umanità, gli istinti
fondamentali, e quali istinti nuovi, irriducibili a quelli degli animali, vi si manifestino.

B. IL CRITERIO DEGLI OGGETTI

283 – I. LA TENDENZA VERSO L'OGGETTO - Abbiamo notato diverse volte che gli istinti possono
derivare soltanto dai bisogni fondamentali dell'animale. Qui appunto, sembra, dobbiamo trovare un principio
oggettivo di classificazione, se è possibile definire esattamente quali siano questi bisogni primari del vivente.
Ci si può basare a questo proposito, come ha indicato M. Pradines (Psychologie générale, I, p. 150 sg.),
sull'osservazione che la tendenza istintiva, se la si distingue dal semplice automatismo (che è tendenza a fare
qualche cosa, e non tendenza verso qualche cosa) è essenzialmente definita da un oggetto di cui si tratta,
per l'animale, di appropriarsi in vista della soddisfazione dei suoi bisogni. Il problema si riduce dunque a
quello di sapere quali siano gli oggetti naturali primari e universali dell'attività di relazione del vivente,
considerato sul piano animale.

2. GLI OGGETTI PRIMARI - Gli oggetti che definiscono universalmente tutte le forme possibili
dell'attività di relazione dell'animale sono tre, cioè: l'alimento, il compagno sessuale, il congenere. Tutti i
comportamenti dell'animale sono orientati verso l'uno o l'altro di questi oggetti, e non se ne scopre alcun
altro suscettibile di metterlo in movimento. Si può dunque dedurre che i bisogni fondamentali dell'animale e
gli istinti che ne conseguono sono anch'essi in numero di tre, cioè: il bisogno alimentare e l'istinto di
mangiare e bere, il bisogno e l'istinto sessuale, il bisogno e l'istinto gregario. Si constata nello stesso tempo
che a ciascuno di questi istinti corrisponde una emozione speciale e semplice, che ne rivela l'entrata in
attività.

Questo punto di vista ci permette già di eliminare tutta una serie di reazioni organiche riflesse, che si
introduce comunemente nel novero degli istinti. Questi ultimi, abbiamo detto, rappresentano una struttura
mentale e si definiscono pertanto in termini di psichismo (rappresentazioni, tendenze ed emozioni) e non di
semplice organicità (riflessi). Ne segue che reazioni puramente organiche come gli atti di camminare,
strisciare, grattarsi, sbadigliare, tossire, starnutire, defecare e orinare, sono da eliminare dal novero degli
istinti.
Inoltre, dovremmo scartare numerose reazioni automatiche d'adattamento, che si annoverano
comunemente fra gli istinti, ma che non ne comportano il carattere essenziale, che è quello d'essere una
tendenza naturale verso un oggetto. Queste reazioni d'adattamento derivano infatti dagli istinti e, come tali,
coinvolgono tutto un sistema d'emozioni connesse a quelle degli istinti (ciò che potrebbe farle confondere
con questi ultimi), ma non rappresentano altro che un automatismo meccanico che l'istinto mette a suo
servizio, ma che non lo costituisce.

§ 2 - Gli istinti primari dell'animale


167
284 - 1. IL BISOGNO E L'ISTINTO ALIMENTARE - Si sa come, presso molti animali, i movimenti della
nutrizione rivelino i caratteri del comportamento istintivo, con le emozioni corrispondenti della fame e della
sete. Nella specie umana si ha, fin dalla più giovane età, l'intervento di sì numerosi fattori, per temperare e
regolare le manifestazioni di questo bisogno, che solo il potente impulso da esso determinato ne segna ancora
nettamente il carattere istintivo.

A questo istinto si collegano diversi comportamenti che si considerano spesso come istinti primari e che non
sono, in effetti, se non delle reazioni automatiche di adattamento. Tale è l'atteggiamento di repulsione, con la
sua emozione specifica, il disgusto, segnato da movimenti puramente fisiologici (tremito, atto di respingere o
di sputare l'oggetto ripugnante).
Tale è pure lo pseudo-istinto di curiosità, tanto attivo negli animali superiori; i quali osservano, vanno a
fiutare, esaminare e qualche volta a palpare gli oggetti. Si sa quanto questo comportamento sia sviluppato
nelle scimmie. Siffatto modo di comportarsi, nell'animale, appare interamente connesso con l'uno o l'altro
degli istinti, giacché sono sempre la ricerca dell'alimento, l'inseguimento del compagno sessuale o la
scoperta del congenere che determinano i gesti di curiosità degli animali. Non si ha dunque, in questo caso,
un istinto autentico, ma un semplice automatismo di adattamento, chiamato in causa dai bisogni sessuali o
gregari o alimentari. Ecco anche perché la curiosità, nell'animale, non è mai, a dire il vero, sorpresa o
stupore: cosa che invece è propria dell'uomo, in quanto implica l'intervento di fattori razionali.
Si possono infine collegare all'istinto alimentare i comportamenti di acquisizione e di appropriazione, che
consistono nell'accumulare gli oggetti e nel fare provviste e che si manifestano in parecchie specie animali
(formiche, cani, gazze ladre, ecc.), nonché nella specie umana, in cui le esagerazioni patologiche indicano
che si tratta appunto di un impulso in relazione immediata con un istinto fondamentale.

285 - 2. IL BISOGNO E L'ISTINTO SESSUALE - Le emozioni che corrispondo a questo istinto non sono
sempre emozioni violente, come si ha troppa tendenza a credere, ma senz'altro più fondamentalmente sono
emozioni tenere, come quelle che traducono il bisogno e il desiderio di proteggere e di dedicarsi altrui.
L'ampiezza e la molteplicità di forme delle manifestazioni che ne derivano hanno portato diversi psicologi,
come vedremo in seguito, a far derivare dall'istinto sessuale tutto il sistema delle tendenze. È chiaro che si
tratta di un eccesso, giacché, pur attenendoci all'animale, né il bisogno alimentare, né il bisogno gregario
sono riducibili al bisogno sessuale. Niente comunque è più certo della potenza e fìnanco dell'imperio di
questo istinto.

All'istinto sessuale, nello stesso tempo che all'istinto alimentare, si collega, nell'animale, lo pseudo-istinto
di combattività (di cui la gelosia del maschio non è che un aspetto), con la sua emozione specifica: la collera.
La combattività dipende infatti, nella sua apparizione e nelle sue manifestazioni, dall'esistenza e
dall'importanza degli ostacoli in cui s'imbattono il bisogno alimentare ed il bisogno sessuale: ed essa si
presenta, in rapporto a ciò, con i caratteri dei comportamenti di adattamento. Ciò è in sostanza quanto
riconosce Mc Dougall (Social Psychology, p. 51), quando scrive che «questo istinto non ha oggetto specifico,
che è quanto dire non ha oggetti la cui percezione possa costituire il punto di partenza del processo istintivo».
Si è talvolta voluto pure elevare il pudore nel novero degli istinti. Avremo modo di indugiare sullo studio di
questo nella specie umana. Ma per quanto riguarda l'animale, in cui s'è creduto di scoprirne qualche
manifestazione in femmine di differenti specie 211, non sembra proprio che gli elementi che si adducono
vadano oltre il piano di una alquanto lontana analogia col pudore umano, che interessa peraltro entrambi i
sessi. Non si tratterebbe comunque se non di un comportamento connesso all'istinto sessuale.
Quello che è stato chiamato istinto parentale introduce a questo punto una difficoltà. Il comportamento di
cui si tratta sembra infatti rivestire un carattere istintivo. L'emozione tenera che ne è la manifestazione, coi
gesti materni elementari in cui si estrinseca (atti di proteggere i piccoli, di baciarli, di stringerli), si ritrova
equivalentemente in tutte le specie. Questo comportamento, secondo Mc Dougall (Social Psychology, p. 59),
non sarebbe veramente primitivo che nella femmina, mentre nel maschio sarebbe soltanto un istinto derivato
ed acquisito. Ma ciò sembra alquanto discutibile. È lo stesso Dougall a constatare che, nella vita selvaggia,
nessun atteggiamento ha maggior carattere di universalità che la delicatezza e la tenerezza dei primitivi,
anche dei padri, verso i loro fìglioletti. Tutti gli osservatori, egli poi aggiunge giustamente, sono d'accordo su
questo punto. Del resto, nei rapporti reciproci fra gli stessi animali adulti, si constata una stretta

211 Fra le talpe, la femmina fa di tutto per sfuggire all'inseguimento del maschio. In alcune specie, l'accoppiamento
avviene con lentezza ed esitazione. (Cfr. A. Joussain, Les passions humaines, Parigi, 1920, p. 154).
168
collaborazione dei maschi con le femmine per tutto ciò che ha rapporto coi piccoli: nidificazione, covatura,
nutrimento212.
Tuttavia, nonostante questi caratteri, ci si può chiedere se si tratta in questo caso realmente di un istinto
fondamentale ed irriducibile, che risponda ad un bisogno primario. Ad originare il dubbio è la considerazione
che questo preteso bisogno sarebbe originalmente senza oggetto in assenza della prole. Senz'ombra di dubbio
si può affermare che esso si rivela, coi caratteri suoi propri, soltanto al momento della nascita dei piccoli.
Resta invece il fatto che ciò che sollecita originariamente l'animale è puramente e semplicemente il bisogno
sessuale e non la prole, che non esiste e di cui l'animale non ha alcuna rappresentazione 213. D'altra parte
però è certo che l'apparizione della prole determina l'esistenza di comportamenti che hanno un aspetto
istintivo incontestabile e che costituiscono una differenziazione o una dissociazione così manifesta
dell'istinto sessuale, che si avrebbe ragione d'affermare che il comportamento parentale, una volta che sia
dato il suo oggetto, interviene alla maniera di un istinto specificamente distinto.

286 - 3. IL BISOGNO E L'ISTINTO GREGARIO - In ogni tempo gli uomini hanno scoperto l'esistenza di
questo istinto negli animali. «Il simile cerca il suo simile», viene universalmente affermato, notandosi con
ciò, a buon diritto a quanto pare, che il bisogno gregario è essenzialmente distinto dal bisogno sessuale. Ciò
è del resto quanto le osservazioni dei naturalisti hanno messo in viva luce. Si constata, per esempio, che
spesso l'animale, quando è in branco, non sembra nemmeno notare i suoi congeneri, ma che, quando è
separato dal gruppo, dà segni di inquietudine e d'agitazione. È questo il caso, per esempio, del bue di
Damaraland, nell'Africa del Sud.
È da questo istinto che nascono i branchi di uccelli e di animali selvatici, i nugoli di cavallette, le mute di
cani, gli sciami di api, ecc. In questi agglomerati, gli istinti vibrano in simpatia con le manifestazioni
istintive prodotte dai congeneri. Per esempio, il cane che abbaia mette in agitazione tutti gli altri cani (che,
allo stato selvaggio formavano delle mute). Il cavallo impaurito che si mette a correre trascina dietro di sé
tutti i suoi congeneri del branco, ecc. Questo istinto gregario si ritrova nella specie umana, dov'è la radice
della socialità. Ma esso si distingue da questa, che è una tendenza affettiva complessa.
La realtà dell'istinto gregario non autorizza pertanto a parlare di «società animali». Infatti, poiché la
società, nella sua nozione formale, è l'unione morale di molti individui, raggruppati in modo stabile in vista
di un fine noto e voluto da tutti (I, 223), non c'è società propriamente detta, se non tra gli esseri intelligenti.
Tra gli animali si trovano soltanto dei raggruppamenti, che sono o unioni temporanee di individui che
reagiscono agli stessi eccitamenti esteriori, o unioni relativamente permanenti d'individui, per effetto della
mutua attrazione dei membri (istinto gregario). (Cfr. la discussione, del resto confusa, di queste nozioni, in
Zuckermann, The social life of monkeys and apes, c. IV).

287 - Per dimostrare la realtà di un istinto di simpatia (o istinto sociale propriamente detto) negli animali,
si adduce spesso il caso delle scimmie che si precipitano in soccorso di un congenere minacciato o attaccato.
Kohler scrive, per esempio, che si produce una eccitazione intensa quando uno scimpanzé è attaccato sotto
gli occhi del suo gruppo. Può ben darsi il caso (sotto l'influenza del clima) di castigare il colpevole un po'
troppo rudemente; nel momento in cui la mano colpisce, tutto il gruppo urla come se avesse una sola bocca,
(Intelligenzprufungen an Anthropoiden; trad. fr., p. 273). Alla stessa maniera, quando si tratta di togliere da
una gabbia una scimmia che faccia parte di un gruppo, le sue compagne si precipitano a minacciare il
custode. Questi fatti, ed altri numerosissimi dello stesso genere, sono ben stabiliti. Ma l'interpretazione
antropomorfica è tra le più contestabili.
Infatti, Zockermann (The social lile of monkeys and apes, c. XIII) osserva con ragione che le attitudini
aggressive dei compagni eccitati dalle grida della scimmia minacciata o percossa sono l'effetto, non già di
una comprensione della natura della situazione, ma semplicemente di reazioni immediate allo stimolo
costituito, per esempio, dal grido dell'animale aggredito, ed a loro volta in relazione al sistema di predominio
che caratterizza la vita del gruppo. È impossibile scoprire in queste reazioni un sentimento di simpatia, nel
senso in cui si adopera questo termine, per definire il comportamento umano. Molti fatti, d'altronde,
obbligherebbero ad escludere l'interpretazione antropomorfica. Ne citeremo due particolarmente

212 Il fatto che, in molte specie, il maschio si limiti al compito di progenitore e non si occupi dei piccoli, non
costituisce un'obiezione contro la realtà dell'istinto parentale (posto che si tratti di un istinto), giacché questo istinto
deve esercitarsi soltanto in rapporto ai bisogni che i piccoli hanno dell'intervento del maschio. Il più delle volte basta la
femmina.
213 Anche nella specie umana, almeno in quanto si consideri l'intervento spontaneo dell'istinto, il figlio è piuttosto il
frutto (finis operis) dell'unione dei sessi che il fine soggettivamente voluto (finis operantis) di questa unione.
169
significativi. In generale o le scimmie aggrediscono i loro compagni deboli ed ammalati, o li ignorano
completamente. I loro mutui rapporti sono governati dal più brutale egoismo. All'ora dei pasti, gli antropoidi
più forti cercano di avere per sé l'intero cibo. Così, nota Zuckermann, si getta una certa quantità di banane ad
un gruppo familiare composto da un maschio, una femmina, ed un piccolo nato da una mezz'ora circa: il
maschio immagazzina tutto quel che può nella sua bocca, e trattiene ai suoi piedi il resto. Le femmine non
sono più altruiste per i loro piccoli: tolgono loro tutti gli alimenti che siano stati loro offerti. In realtà, il
«mutuo soccorso», di cui s'è parlato, è soltanto un effetto del sistema di predominio e viene ad essere
determinato da fattori uguali a quelli che generano le reazioni dell'egoismo e della crudeltà. L'altro fatto
caratteristico è il seguente: le scimmie non fanno alcuna distinzione fra il morto e il vivo, nonostante
l'assurdità delle reazioni provocate dai morti: l'antropoide si oppone infatti nello stesso identico modo al
prelievo di un congenere morto ed a quello di uno vivo. Questo fatto, come i precedenti, dimostra a
sufficienza che i primati subumani producono solo delle reazioni cieche e che la «cooperazione sociale» che
loro si attribuisce è una pura apparenza, che risulta da una interpretazione antropomorfica perfettamente
gratuita.

Quanto ai comportamenti d'abbassamento e di soggezione, di eccellenza e di dominio, ai quali


corrispondono gli stati emozionali di umiliazione e di fierezza, si deve ammettere (a condizione di intenderli
qui sotto la loro forma semplice, spoglia di ogni antropomorfismo) che si incontrano negli animali, alcuni dei
quali sono provvisti d'organi di ostentazione (la coda del pavone, il collo del piccione). Si è notata la
superbia del pavone, l'orgoglio del cavallo di razza, l'atteggiamento dominatore e sdegnoso del cane di
grande corporatura di fronte ad un cucciolo, o inversamente l'atteggiamento umile del cavallo da tiro d'altri
tempi, ecc. Questi comportamenti sono evidentemente connessi all'istinto gregario e non possono costituire
istinti speciali214.

214 La questione dell'origine dell'istinto si confonde con il problema generale dell'evoluzione delle specie (II, 135-
156). Infatti, poiché ogni specie si distingue per i suoi istinti o abitudini ereditarie, spiegare l'origine delle specie
equivarrà a spiegare la genesi degli istinti. Si è ben visto come i fattori lamarckiani e darwiniani non bastino a dare la
spiegazione dei fatti.
170

CAPITOLO SECONDO

LE INCLINAZIONI

SOMMARIO215

Art. I - GLI ISTINTI NELLA SPECIE UMANA. Gli interventi dell'intelligenza e della volontà - Istinto ed
intelligenza - Istinto e volontà Le tendenze e la realtà oggettiva - Le tendenze di fronte alla
coscienza - Incoscienza - Impulso e desiderio.

Art. II - TENDENZE ED INCLINAZIONI SPECIFICAMENTE UMANE. L'istinto sessuale nell'uomo - Il


pudore istintivo - Natura del pudore Le inclinazioni razionali - Il vero, il bene e il bello - L'istinto
religioso - Le inclinazioni sociali - La simpatia - L'imitazione - Il gioco.

Art. III - LEGGI DI VARIAZIONE DELLE TENDENZE. Legge d'evoluzione e d'involuzione - Legge di
caducità - Legge di sopravvivenza - Legge di conflitto e di fusione - Legge d'inibizione - Legge di
sistemazione - Legge di specializzazione - Legge di trasferimento.

Art. IV - LA RIDUZIONE DELLE INCLINAZIONI. Tentativo di riduzione alla sessualità - Il


pansessualismo freudiano - Discussione Conclusione.

Art. I - Gli istinti nella specie umana

§ l - Gli interventi dell'intelligenza e della volontà

288 – 1. ISTINTO ED INTELLIGENZA - Le tendenze istintive si manifestano soltanto raramente allo


stato puro nella specie umana, passata che sia l'età della prima infanzia. Nell'adulto, esse non rappresentano,
o quasi, che sorta di orientamenti generali o di quadri dell'attività: l'esperienza acquisita, le abitudini
individuali e sociali, soprattutto l'intervento attivo di un'intelligenza che va al di là dello spazio e del tempo,
esercitano costantemente la loro azione per frenare, derivare, instradare o modificare l'intervento degli istinti.
Da ciò deriva che l'uomo sembra avere molti più istinti degli animali, non solo perché agli istinti
fondamentali che riguardano l'animale nell'uomo si aggiungono gli istinti specifici dell'animale razionale, ma
anche perché le tendenze elementari e semplici, sotto l'influsso di una ragione che è universale, si sono
differenziate e combinate in molteplici maniere per formare il sistema così vario e ricco delle inclinazioni
umane.
D'altra parte, tutto ciò che l'uomo ha guadagnato in varietà e molteplicità di inclinazioni, l'ha perso in
sicurezza meccanica. Ma il vantaggio è certo e la perdita è soltanto apparente, poiché alle tattiche precise e
sicure, ma strettamente limitate, dell'istinto, l'intelligenza umana sostituisce un'abilità operativa universale.

Si sono proposti diversi metodi per studiare gli istinti dell'uomo, isolati dalle modificazioni che impongono
loro le influenze della ragione e della vita sociale. Certuni, come G. Pennaza, hanno osservato gli anormali
congeniti (idioti, epilettici), ed hanno constatato che ogni loro psichismo è assorbito dalla preoccupazione e
dal piacere di mangiare, operazione che essi compiono in modo alquanto simile agli animali: essi mangiano
ghiottamente ed annusano gli alimenti prima di portarli alla bocca. In realtà non si può trarre gran profitto da
queste osservazioni. Lo psichismo dell'idiota non è uno psichismo incompleto, arrestato nel suo sviluppo, ma
uno psichismo anormale e degenere, tanto che non si può arrivare da questo psichismo a quello dell'uomo
normale, e tanto meno a quello del fanciullo.
È nel fanciullo normale che si possono meglio studiare sotto la loro forma semplice le tendenze istintive. Si
constata che i fanciulli hanno in generale gli stessi gusti, gli stessi istinti, gli stessi interessi dominanti,
pressappoco alla medesima età. Tutte queste tendenze si manifestano in loro con una spontaneità notevole,

215 Medesima bibliografia del capitolo precedente.


171
che si attenua di mano in mano col progredire della ragione e della riflessione. Tuttavia, questo studio
comporta dei limiti, che sono di due specie: anzitutto, sarà bene non dimenticare che gli istinti obbediscono
ad una legge di genesi e di evoluzione e che, se gli istinti del fanciullo sono pur sempre gli istinti dell'uomo,
essi non sono necessariamente né gli istinti dell'adulto, né tutti gli istinti dell'adulto; in altri termini, quello
che più si nota nell'adulto, non è necessariamente il risultato di una attività di sintesi, ma può anche
rappresentare una attività istintiva originale pienamente sviluppata, - inoltre, bisogna evitare d'interpretare i
comportamenti del fanciullo alla stregua di quelli di un adulto, cioè di fare del fanciullo un adulto in
miniatura. Invece di studiare il fanciullo si osserverebbe ancora l'adulto, e si falserebbero insieme la
psicologia del fanciullo e quella dell'adulto. Vedremo più avanti che Freud non ha evitato questo scoglio.
Infine, in certe circostanze eccezionali (dolore violentissimo, incendi, cataclismi naturali), l'istinto,
rigettando nettamente tutte le forme acquisite, le abitudini e le convenzioni che ha incorporate, si manifesta
in certo qual modo allo stato puro. Nei cataclismi, qualche volta anche in guerra, la reazione di fuga (così
contenuta allo stato normale) si manifesta con una violenza inaudita. Altrettanto dicasi dell'«istinto
parentale» (amore materno): dopo il terribile terremoto di Messina (1908), si trovarono centinaia di madri
morte coi loro figli fra le braccia; molte avevano fatto scudo del loro corpo al fanciullo, che fu ritrovato
intatto sotto la madre schiacciata dalle pietre 216.

289 - 2. ISTINTO E VOLONTÀ - Un altro carattere notevole dell'intervento degli istinti e delle
inclinazioni nell'uomo è il potere che questi possiede di sospendere l'effetto dell'impulso istintivo mediante
un atto inibitore della sua volontà riflessa. Senza dubbio, l'inibizione si riscontra anche negli animali, per il
fatto delle interferenze e dei conflitti che possono prodursi tra differenti istinti (la paura, per esempio,
esercita un effetto inibitore sugli altri istinti). Ma queste inibizioni derivano da ritegni automatici, che non
comportano né riflessione, né deliberazione, in mancanza di una intelligenza libera dalle servitù dello spazio
e del tempo. Nell'uomo, le tendenze, risvegliate da una percezione o da un'immagine, possono essere inibite
dal fatto di una decisione volontaria, o almeno l'atto, sottomesso ad un giudizio di valore, non ha più,
normalmente, quel carattere esplosivo che denota l'esercizio dell'istinto lasciato al suo libero manifestarsi. Ne
deriva che, nell'uomo, la tendenza si stacca in certo qual modo dall'atto. Contrariamente a ciò che avviene
nell'animale, essa può rimanere puramente potenziale o virtuale.

290 - 3. LE TENDENZE E LA REALTÀ OGGETTIVA

a) Plasticità delle tendenze. Per il fatto stesso che la tendenza si distacca dall'atto, essa acquisisce una
libertà o una flessibilità che non può avere negli animali, nei quali le sue manifestazioni sono strettamente
definite da meccanismi ereditari sensibilmente invariabili. L'istinto è incluso nell'atto, che a sua volta limita
l'istinto. Nell'uomo, in virtù dell'intelligenza, facoltà dell'universale, la tendenza diviene plastica e
multiforme nelle sue manifestazioni. L'istinto parentale, negli animali, dispone soltanto di qualche gesto, che
non varia: quanto esso appare povero (anche se è compensato da sicurezza e da infallibilità) nei confronti
delle invenzioni meravigliose ed innumerevoli dell'amore paterno dell'uomo, in vista dell'educazione fisica e
morale dei figli! Così, l'istinto gregario dell'animale, pur nelle sue ammirevoli espressioni, come nelle api,
resta infinitamente lontano dagli effetti prodigiosamente vari della socialità umana.

b) Derivazione e purificazione. Da questa plasticità delle tendenze nell'uomo deriva un'altra conseguenza
notevole, per esempio il fatto che le tendenze possono essere derivate e supplite. Da una parte, infatti, le
tendenze possono esercitarsi per così dire a vuoto e liberarsi sotto la forma del gioco. Negli animali già si
constata l'esistenza d'una certa attività di gioco: il gattino gioca al topo con un turacciolo, ed i cuccioli si
esercitano alla lotta. Ma è nell'uomo che questa attività di gioco, servendo da derivativo alle tendenze,
acquista la maggior ampiezza, sia, in una maniera reale, per mezzo degli sports, delle gare, delle
competizioni d'ogni genere, sia, in una maniera immaginaria, per mezzo dell'invenzione di situazioni fittizie,
nella letteratura e nelle arti. Ecco perché Aristotele vedeva nell'arte drammatica (questa osservazione vale per
tutte le arti e per la letteratura) una sorta di purgazione o di derivazione delle passioni.

c) Repressione e supplenze. D'altra parte, le tendenze possono supplirsi reciprocamente. Talvolta, le


tendenze inibite e contenute cercano e trovano dei sostituti, trasferendo la loro particolare energia ad altre
tendenze specificamente distinte. Così si spiega come l'istinto materno possa alimentare delle sue non
sfruttate potenze la più ardente dedizione agli orfanelli o agli anormali. Freud, che ha portato molti lumi,

216 Cfr. De La Vaissière, Élements de psycologie experimentale, p. 215-222.


172
oltre che gravi errori, alla questione della repressione e dei suoi effetti, ha parlato a questo proposito di una
«sublimazione degli istinti», cioè di una sostituzione al fine sessuale primitivo di un fine e di una attività
specificamente distinte, ma collegate geneticamente al primo. Sotto questo aspetto, la religione e l'arte altro
non sarebbero che sublimazioni dell'istinto sessuale. Avremo modo di esaminare tra poco queste discutibili
teorie.
D'altro canto, non si tratta sempre di supplenze altrettanto feconde. Gli istinti contenuti, e soprattutto
l'istinto sessuale, possono liberare insidiosamente le loro energie in comportamenti patologici, che
costituiscono il capitolo delle nevrosi e delle psicosi.

§ 2 - Le tendenze di fronte alla coscienza

291 - 1. L'INCOSCIENZA DELLE TENDENZE - L'istinto, la tendenza e l'inclinazione non sono atti
psicologici, ma princìpi d'attività. Essi, come tali, non hanno che una realtà virtuale e si possono conoscere
soltanto dai loro effetti, che sono ad un tempo le emozioni che li manifestano e gli atti che li attualizzano. È
poi il caso di notare che queste emozioni e questi atti non sempre bastano a rivelare chiaramente la realtà
della tendenza dalla quale procedono, salvo che questa incontri degli ostacoli interni od esterni al suo
sviluppo. Una inclinazione che sia divenuta abituale si ignora, comunemente, da se stessa: occorre un
impedimento, una contrarietà, un insuccesso, perché sia rivelata chiaramente alla coscienza attraverso le
reazioni più o meno forti, provocate dall'avvenimento che le si è frapposto.
Mediante l'immaginazione, soprattutto, l'uomo prende coscienza delle sue tendenze ed inclinazioni.
L'immaginazione, infatti, come s'è già visto, scioglie nell'uomo il legame della tendenza e dell'atto
corrispondente, e viene così ad isolare la tendenza, che può ormai soddisfarsi mediante rappresentazioni. Da
tale momento, la tendenza diviene una realtà soggettiva, cioè un fatto di coscienza. Essa non è più soltanto
vissuta, ma pensata e ragionata, sotto la forma della accettazione o dell'inibizione. Man mano che l'uomo
progredisce nella padronanza di sé, le sue tendenze ed inclinazioni vengono a trovarsi sempre più
«soggettivizzate»: sottomesse, cioè, al controllo critico di una ragione che formula giudizi di valore. Ecco
anche perché l'uomo che padroneggia e domina gli impulsi dell'istinto, conosce questo molto meglio di
quanto non lo conosca chi vi si abbandona passivamente.

292 - 2. IMPULSO E DESIDERIO - L'impulso, che serve a definire le tendenze come potenze attive, sta
piuttosto dalla parte dell'atto che da quella della potenza. La tendenza, come tale, è incosciente, perché sta al
di sotto dell'atto. Ma l'impulso, che è una sorta di attuazione abbozzata, fisiologicamente, se consideriamo
gli atteggiamenti che preforma, e, al tempo stesso, psicologicamente, se consideriamo gli effetti che anticipa,
è accessibile alla coscienza. Inoltre, esso non è, come tale, indice di un difetto di padronanza di se stessi.
Provare gli impulsi degli istinti, fosse anche con violenza, non significa essere impulsivi. Ciò che si chiama
«impulsività» caratterizza piuttosto il fatto di cedere senza resistenza alle spinte istintive.
Quanto al desiderio, esso sembra connesso all'aspetto emozionale delle inclinazioni e pare traduca in
forma lo stato di una tendenza risvegliata dal bisogno o da una rappresentazione. In linea generale, esso
potrebbe essere suscettibile di servire al discernimento degli istinti e delle inclinazioni; la sua potenza
sarebbe l'indice corrispondente della loro importanza vitale. Ma tutti gli psicologi ed i moralisti hanno notato
da una parte l'onda di molti desideri, che appaiono senza oggetto e non fanno che tradurre uno stato
d'insoddisfazione generale, e d'altra parte il fatto che, per l'intervento dell'immaginazione, i desideri più futili
possono raggiungere un grado inaudito d'esasperazione. Essi pertanto giustamente aggiungono che non c'è
mezzo più sicuro per smarrirsi che quello di comportarsi sistematicamente secondo le indicazioni del
desiderio.

Il desiderio, che tende per se stesso verso l'oggetto capace di soddisfarlo, e che è questa tendenza stessa in
atto, ha il carattere paradossale di prevenire in qualche modo la sua stessa causa, in quanto esso è il
sentimento di un bisogno di ciò che è assente. Per spiegarlo metafisicamente, bisogna ammettere che gli
esseri comunicano tra di loro per mezzo di qualcosa di più profondo della coscienza. Anche San Tommaso
afferma che «è la parentela delle cose nell'essere che è la ragione ultima del desiderio».

Art. II - Tendenze ed inclinazioni specificamente umane


293 - Alla tavola degli istinti primitivi ed elementari che appartengono all'uomo in quanto animale,
bisogna aggiungere l'elenco delle tendenze specifiche dell'uomo e delle inclinazioni complesse che derivano
dalla combinazione di tendenze fondamentali, sensibili e razionali. Queste tendenze ed inclinazioni
173
forniscono per ciò stesso il quadro delle manifestazioni possibili dell'appetito intellettuale, che sono, come
tali, essenzialmente distinte dalle tendenze dell'appetito, senza mancare tuttavia d'essere frequentemente in
relazione con queste.
§ l - L'istinto sessuale nell'uomo

L'istinto sessuale, nella specie umana, comporta un aspetto particolare, che conviene sottolineare, data la
sua importanza, cioè: il sentimento di pudore.

1. IL PUDORE ISTINTIVO - Si può definire il pudore, con H. Ellis, come «un dinamismo sensibile
d'apprensione quasi istintiva, in relazione diretta con i processi sessuali». Benché si possa trovargli qualche
analogia, nel comportamento delle femmine presso gli animali il pudore sembra essere un fenomeno
specificamente umano e possedere i caratteri di un istinto.

a) La sua universalità. Il pudore ha l'universalità propria degli istinti. Lo si trova in tutti i paesi, in tutte le
razze, in tutti i climi, in tutte le civiltà e in entrambi i sessi senza alcuna eccezione. H. Ellis (La pudeur,
Parigi, 1909, p. 15 e 124) afferma, per quanto riguarda gli incivili, che essi hanno un senso sviluppatissimo
del pudore, ed anche che «il pudore è più invincibile presso i selvaggi che presso i civili».

Si è addotta, obiettando, l'inverecondia dei fanciulli. Ma l'obiezione non regge. Il pudore è evidentemente
connesso all'istinto sessuale, e non si sviluppa che con questo istinto. - Per quanto poi concerne i dissoluti e
le donne di cattivi costumi, non si può parlare di assenza completa di pudore, ma piuttosto di un pudore o
diminuito o inibito da tendenze contrarie.

b) Innatezza. Il pudore è innato. Senza dubbio, certe sue espressioni sono acquisite e dipendono dagli usi,
dalla tradizione, dall'esperienza. Ma il fondo è innato. «Bisogna distinguere, scrive Dugas (La pudeur,
«Revue philosophique», 1903, t. I, p. 468), anche quando praticamente ciò non si potrebbe fare, un fondo
innato di pudore, elementare e semplice, ed un apporto considerevole di idee e di sentimenti fattizi che
rappresentano, per così dire, l'applicazione o la valorizzazione del fondo primitivo», tanto che il medesimo
psicologo aggiunge che il pudore «contiene il più imperioso degli istinti, [...] il più forte dei sentimenti».

294 - 2. NATURA DEL PUDORE - Si tratta di determinare qual è esattamente la finalità del pudore. È
chiaro che su questo punto le opinioni dipenderanno dall'idea che si ha intorno all'origine del pudore.

a) Il pudore considerato come tendenza speciale. Gli psicologi che non vedono nel pudore se non una
tendenza acquisita, vi scoprono semplicemente un caso di sintesi mentale, che si manifesta con un intervento
in combinazione con quello dell'istinto sessuale. È, questo, il punto di vista di Sergi (Les émotions, Parigi,
1901) e di W. James (Psychology, II, p. 435). Per A. Joussain (Les passions humaines, Parigi, 1928, p. 154),
il pudore sarebbe una forma superficiale dell'istinto di difesa (combinazione a sua volta degli istinti di fuga e
di ripulsione), per il quale la femmina «paventerebbe il risveglio di desideri, la cui realizzazione
comporterebbe dolori e rischi».
Si tratta di teorie arbitrarie. Non si vede come il pudore possa aggiungere o togliere alcunché all'istinto
sessuale. Esso non consiste in una attività speciale.

b) Il pudore come freno dell'istinto. In realtà, la finalità peculiare del pudore pare sia quella di fungere da
freno all'istinto sessuale. Nelle specie animali, l'istinto si manifesta entro limiti strettamente fissati dalla
natura. Nell'uomo tocca invece alla ragione ed alla volontà regolarne il manifestarsi. Il pudore è l'espressione
delle esigenze d'ordine e di moderazione nell'esercizio dell'istinto sessuale. Esso è uno spontaneo giudizio di
valore ad opera della ragione, opposto a quello che afferma il valore del piacere immoderato. «A prescindere
dai motivi superiori ai quali la volontà può ricorrere per assicurare la propria libertà, essa dispone dunque di
un sostegno offeso dalla natura stessa scatenata, quasi ad opporre una repulsione spontanea all'attrazione
sessuale» (J. De La Vaissière. La pudeur instinctive, p. 31-69, cfr. tr. it., Milano, 1938).
Possiamo pertanto concludere che il pudore non aggiunge nulla all'istinto sessuale, che esso serve a
frenare. È semplicemente un ritegno che questo istinto impone a se stesso, nel suo esercizio 217.

§ 2 - Le inclinazioni razionali
217 Cfr. Soloview, La Justification du bien, Parigi, 1939, p. 28-34, dove il pudore è messo in relazione con una fonte
biologica. - Max Scheler, La pudeur, tr. fr., Parigi, 1952.
174

295 - L'uomo ha degli istinti specifici, connessi alla sua natura intellettuale e morale. Questi vengono
solitamente definiti come amore del vero, del bene, del bello. A questi tre istinti comunemente si aggiunge
l'istinto religioso.

1. IL VERO, IL BENE E IL BELLO - È impossibile enumerare tutte le inclinazioni complesse che


derivano dalle tendenze fondamentali e veramente istintive dell'uomo a scoprire la verità ed a conquistare la
scienza, ad attuare il bene con la propria vita morale ed il bello con le sue opere d'arte. Questi istinti hanno le
loro radici nella ragione. di cui sono aspetti diversi, innati ed universali come la ragione stessa. Essi si
manifestano spontaneamente nel fanciullo come nell'uomo selvaggio; l'educazione ed i progressi della
civiltà, prodotto di questi istinti razionali, non fanno che moltiplicare e variare all'infinito i mezzi della loro
manifestazione.

2. ESISTE UN ISTINTO RELIGIOSO? - L'universalità del fatto religioso nello spazio e nel tempo non ci
autorizza a ritenerlo un prodotto di un istinto speciale. La «religione naturale» è data dall'esercizio di tutte le
nostre inclinazioni o bisogni razionali: inclinazione al vero, che sospinge a cercare la spiegazione di tutte le
cose in un Dio creatore, Padre e Provvidenza dell'umanità, inclinazione al bene ed al bello, che ci porta a
scoprire in Dio la fonte prima e l'esemplare perfetto della Bontà e della Bellezza, il principio di ogni
giustizia, il giudice incorruttibile delle coscienze ed il supremo desiderabile. Se l'uomo può essere definito
come un «animale religioso», ciò dipende soprattutto dal fatto che egli è un animale ragionevole.

§ 3 - Le inclinazioni sociali

296 - Esiste certamente nell'uomo un istinto gregario, distinto ed indipendente da ogni tradizione, da ogni
abitudine, da ogni esperienza individuale. Esso si manifesta talvolta sotto una forma piuttosto morbida in
individui che vivono solitari nelle grandi città e che non potrebbero sopportare l'isolamento assoluto. Ma,
normalmente, questo istinto elementare è rivestito delle forme sempre più complesse della vita sociale, la cui
derivazione è comunemente attribuita a tre tendenze considerate come istintive, e cioè la simpatia,
l'imitazione ed il gioco.

1. LA SIMPATIA - È il caso di distinguere una simpatia passiva ed una simpatia attiva.

a) La simpatia passiva. È, secondo l'etimologia, la capacità di sentire con i propri simili, di partecipare ai
loro sentimenti ed alle loro emozioni. Nella sua forma elementare, essa si manifesta negli animali con una
sorta di contagio emozionale che abbiamo già notato (287). Un grido caratteristico di un individuo basta
spesso a provocare segni di paura in tutto il branco. La stessa cosa è per gli altri istinti, che sono contagiosi, e
le espressioni dei quali sono accentuate e rafforzate dalla vita collettiva. Tutto ciò è in rapporto con l'istinto
gregario. Nell'uomo, poi, la simpatia passiva interviene in modo considerevole, sia nella sua forma spontanea
(noi proviamo talvolta come una specie di confusione fra l'io e l'altro: per esempio allo spettacolo, e quando
la vista delle lacrime è sufficiente a far venire a noi le lacrime agli occhi), sia nella sua forma deliberata,
quando il comportamento "simpatico" è un prodotto dell'attività morale.

La simpatia passiva non pare costituisca un istinto speciale. Essa si trova infatti ad essere connessa a
ciascuna emozione specifica degli istinti fondamentali. Si presenta pertanto piuttosto come una proprietà
comune ai differenti istinti. La questione sta tutta nel precisare questa proprietà. Alcuni psicologi osservano
che le manifestazioni della simpatia passiva sarebbero stimolate da riferimenti alla nostra personale
esperienza. I gridi, il riso, gli atteggiamenti, i gesti, le lacrime, la mimica altrui, ci rivelano situazioni
identiche ad altre, nelle quali noi ci siamo trovati a reagire nello stesso modo e ci fanno rivivere tali
situazioni o ci fanno temere di riviverle. Sotto questo aspetto la simpatia passiva sarebbe in rapporto non già
al prossimo, ma piuttosto a colui stesso che la prova. Essa sarebbe sostanzialmente egoistica. Ciò
spiegherebbe la «crudeltà» dei fanciulli: non si tratterebbe infatti, per loro, che di un difetto d'esperienza
personale.
Ma questa spiegazione appare insufficiente. Effettivamente, non si può contestare che la simpatia passiva
si manifesti con veemenza anche in casi in cui manchi l’esperienza personale. Ed è forse più intensa proprio
in tali casi. Sembrerebbe piuttosto che la simpatia passiva risulti dal contagio dei fenomeni espressivi, di per
sé provvisti di un senso emozionale. L'istinto ha una struttura tale, da essere messo in movimento dalla
percezione in altri delle emozioni specifiche corrispondenti. Quanto poi all'assenza di reazioni nel fanciullo,
175
diremo che essa non crea se non una difficoltà apparente: essendo infatti la simpatia passiva una sensibilità
alle emozioni specifiche ed alle loro espressioni, è evidente che essa può estrinsecarsi solo con lo sviluppo
degli istinti.

297 - b) La simpatia attiva. Come dice la parola, la simpatia attiva designa un complesso di atteggiamenti
di benevolenza, intesi a proteggere, aiutare, soccorrere o consolare il prossimo. La simpatia attiva è dunque
vicina all'amicizia. Essa si dilata oltre il ristretto ambiente familiare, per sbocciare in socialità. Le cause
immediate delle sue manifestazioni possono trovarsi sia nella simpatia passiva, e costituire, nella sua forma
più semplice, l'incentivo alla pietà, sia in motivi razionali (carità, filantropia, solidarietà, ecc.).

M. Scheler (Wesen und Formen der Sympathie, Bonn, 1923; Nature et Formes de la Sympathie, tr. fr.
Lefebvre, Parigi, 1928) s'è sforzato di stabilire la specificità dell'istinto di simpatia e di dimostrare come esso
sia, per eccellenza, il fondamento del sentimento sociale. M. Scheler dimostra infatti che la simpatia non può
ridursi né all'imitazione, né al contagio emozionale, né alla fusione affettiva. Non può ridursi all'imitazione,
che non implica necessariamente né la comprensione di un altro essere, né la partecipazione ai suoi
sentimenti. Tanto meno può essere ricondotta al contagio emozionale (istinto gregario, in attività nei casi
d'eccitazioni collettive, nella formazione dell'opinione pubblica e, in genere, in tutto ciò che si chiama
«psicologia delle folle»). Su questo punto sono nettamente inventate le asserzioni di Darwin e di Spencer.
«Ciò che caratterizza il processo del contagio, scrive Scheler (p. 32), è la sua tendenza a ritornare
continuamente al suo punto di partenza; il che ha per effetto una esagerazione dei sentimenti, che si
amplificano a guisa di valanga». Questo fenomeno non ha evidentemente nulla a che vedere con la simpatia,
perché non comporta alcuna partecipazione intenzionale ai, sentimenti altrui: tutto vi si riduce ad una specie
di cumulo meccanico dei fenomeni emozionali. Infine, Scheler distingue la simpatia dalla fusione affettiva
dell'io con un altro io, in quanto una tale fusione o identificazione non comporta i caratteri cosciente e
volontario della vera simpatia. Questa consiste essenzialmente nel partecipare affettivamente d'altrui in
quanto altrui, il che implica, insieme, la distinzione di un io e di un altrui, e il cogliere gli altri come noi
stessi, vale a dire come una persona che abbia lo stesso valore dell'io. La simpatia è dunque proprio
l'espressione del sentimento sociale.
La difficoltà che si potrebbe opporre a queste pur ferme analisi fenomenologiche è questa: se la simpatia
costituisce effettivamente un aspetto dell'istinto sociale, nondimeno questo aspetto non è, come pretende M.
Scheler, a priori, in quanto esso è fondato sulla ragione che investe la comunità specifica delle persone
umane ed il valore assoluto di queste ultime. Ma il sentimento di simpatia si esercita, alla stessa maniera
della ragione, come una vera e propria natura: ciò che ne fa, nel senso stretto della parola, un istinto. Così si
spiegano, ad un tempo, i suoi gradi e la sua spontaneità: siccome la simpatia deriva dal sentimento naturale
del valore altrui, la sua intensità si commisura all'atto di cogliere, o, meglio ancora, alla presa di coscienza
della realtà di questo valore, cioè della realtà di un tu di fronte ad un io. Siccome, d’altra parte, la simpatia
nei suoi interventi si manifesta come una natura, essa si esercita con la spontaneità che caratterizza
l'intervento degli istinti, e rimane spesso al di qua della coscienza chiara: soprattutto a proposito della
simpatia potremo dunque dire, col Pascal, che essa ha spesso delle ragioni che la ragione (discorsiva) non
conosce.

298 - 2. L'IMITAZIONE

a) Natura. Si citano talvolta i fenomeni di contagio emozionale per dimostrare l'esistenza dell'istinto di
imitazione negli animali. Ma si tratta di un abuso, perché l'imitazione non ha nulla a che vedere in casi di
questo genere. I cavalli, presi da panico all'udire un nitrito di spavento emesso da un congenere della stessa
forma, non è che imitino questo, ma provano per contagio un vero e proprio spavento. L'imitazione è una
copia, ma non una reazione automatica. Essa è pertanto specificamente umana.

b) Esiste un istinto d'imitazione? In seguito agli studi del Tarde (Les lois de l'imitation, Parigi, 1890) si è
avuta la tendenza ad esagerare l'importanza degli interventi della imitazione, tanto che si è giunti a farne
derivare tutte le forme della vita sociale. Va detto invece che l'imitazione non è affatto un istinto speciale.
Non è un processo realmente innato (il fanciullo non imita che relativamente tardi, verso il terzo anno; e
l'adulto, attaccato ad abitudini, è ribelle all'imitazione). Non si può assegnare all'imitazione alcuna emozione
specifica, e a sua volta essa non comporta alcuno di quei meccanismi che caratterizzano gli istinti primari. È
stata attribuita all'imitazione tanta importanza, solo perché s'è pensato ne dipendessero una quantità di
fenomeni che, in realtà, dipendono da altri istinti. Si può citare come esempio il caso dei fenomeni di
176
simpatia passiva, che sono vicini all'istinto gregario e che non hanno a che vedere con l'imitazione. È ancora
il caso dei fatti d'imitazione deliberata, che non procedono dallo pseudo-istinto d'imitazione, ma dall'istinto
sociale, che può esprimersi, nella specie umana, sotto l'aspetto dell'ammirazione e della sottomissione al
prestigio. Si sa come. nel campo artistico, l'ammirazione per un maestro porta facilmente ad una fioritura di
«copie», più o meno felici, della maniera del maestro: intere generazioni d'artisti hanno preso l'abito dei
Wagner, dei Debussy, degli Stravinsky. L'imitazione è dunque una inclinazione estremamente complessa, le
cui manifestazioni sono in relazione soprattutto alla socialità istintiva.

Si possono opporre due obiezioni: il caso dei fanciulli, che possono imparare a parlare soltanto per
imitazione, - e quello di alcuni animali (pappagalli ed altri), che imitano la parola umana 218. Di fatto, questi
due casi sembrano ridursi a semplici riflessi: in virtù del loro potere motore, le rappresentazioni inducono
alla riproduzione degli atti percepiti e singolarmente delle parole udite. Del resto, c'è ancora qualcosa di più
fondamentale: il fanciullo, come l'animale, è mosso da una tendenza puramente automatica (e non istintiva)
ad emettere dei suoni. Questa tendenza si esercita nel senso determinato dal carattere motore delle
rappresentazioni. Di qui si spiegano i tentativi di linguaggio articolato. L'imitazione, in verità, non c'entra per
niente. Quanto poi agli animali, questi fenomeni non possono verificarsi se non entro i limiti dei loro
meccanismi vocali. L'usignolo, per esempio, non può emettere suoni articolati; cosa che invece può fare il
pappagallo.

299 -. IL GIUOCO - Il giuoco è un'attività gratuita, cioè un'attività che non tende a produrre un'opera,
ma, semplicemente, ad una mera manifestazione di attività. Vi si può vedere un istinto speciale e
propriamente detto? Si sa che se ne trovano esempi in animali giovani: il gatto che gioca al topo, i cuccioli
che giocano alla lotta o alla corsa, ecc. È già alquanto notevole che il giuoco gratuito, negli animali, preformi
o imiti il movimento effettivo degli istinti. Questo carattere si afferma nettamente nella specie umana, in cui
il giuoco (che risponde pure, del resto, ad un bisogno biologico di facile espansione e di armoniosa attività) è
determinato nelle sue modalità, cioè nella sua finalità immediata, dalle tendenze delle quali esso preforma o
supplisce 1'esercizio. E ciò, appunto, ben dimostrano i giuochi infantili: la bambina gioca alla bambola e alla
casa; il ragazzino gioca al soldato. Negli adulti, il giuoco (sports e arti) è pure evidentemente una attività
suppletiva delle tendenze: queste vi si esercitano a vuoto o in bianco. L'istinto sessuale, per esempio, trova
una supplenza nella danza, nelle rappresentazioni drammatiche, nelle proiezioni cinematografiche, nei
racconti passionali dei romanzi, ecc. Ciò viene ad essere confermato dal fatto che l'attività del giuoco segue
esattamente l'evoluzione degli istinti. I vecchi non ballano più, non perché manchi loro vigore fisico, ma per
difetto di istinto. Per la stessa ragione, i racconti passionali sono per loro senza attrattiva. Troveremmo del
resto perfettamente ridicoli dei vecchi che ballassero o che leggessero tali romanzi.
Da tutto ciò si può concludere che l'attività di giuoco non è il prodotto di un istinto speciale, ma una
inclinazione che deriva dall'insieme degli istinti e che da questi dipende, al tempo stesso nelle sue
manifestazioni e nella sua evoluzione.

Si può ancora notare che il giuoco non comporta né il sistema di attività corporali definite che esige
l'istinto di natura sensibile, né una emozione specifica. Le emozioni connesse al giuoco sono quelle degli
istinti cui questo fornisce uno sfogo surrogatorio219.

Art. III - Legge di variazione delle tendenze


300 - Abbiamo più volte sottolineato che quel che v'è di permanente e di stabile nell'istinto è la spinta o
tendenza intenzionale verso un oggetto, cioè la sua forma o il suo fine (istinto primario), nonché i fenomeni
affettivi e le mimiche che l'accompagnano. Senonché, nel gioco delle rappresentazioni e dei meccanismi
attraverso i quali le tendenze portano ad effetto i loro fini possono intervenire variazioni più o meno ampie e
numerose, e massimamente nella specie umana. Ma anche queste variazioni sono suscettibili d'essere
ricondotte a leggi che ne definiscono e i processi e le cause più generali.
Queste cause e questi processi possono essere considerati sotto due punti di vista: anzitutto, dal punto di
vista dell' evoluzione degli istinti e delle inclinazioni, quindi dal punto di vista dei mutui rapporti dei
differenti istinti ed inclinazioni.

218 Cfr. Janssens, L'instinct d'après Mc Dougall, p. 131.


219 Cfr. J. Huizinga, Homo ludens, Amsterdam, 1938; cfr. tr. fr., Parigi, 1949.
177
A. LEGGE D'EVOLUZIONE E D'INVOLUZIONE

301 - 1. LA LEGGE DI CADUCITÀ - «Parecchie tendenze si sviluppano ad una certa età, per poi
scomparire». (W. James, Principles of Psychology; tr. fr., p. 535). James scrive «parecchie tendenze»,
facendo così una riserva per alcune tendenze che a questo proposito fanno eccezione, particolarmente quelle
che sono in stretta attinenza con la conservazione del soggetto.

2. LEGGE DI SOPRAVVIVENZA - Questa legge è una conseguenza della precedente e si formula così:
«Se l'istinto ha potuto funzionare nel periodo della sua massima energia, esso ha finito con l'accoppiarsi
un'abitudine che gli sopravvive e prolunga le sue reazioni» (James, op. cit., p. 535). Inversamente, se l'istinto
non ha potuto funzionare nei momenti della sua maggiore energia, l'animale, in seguito, per mancanza di
un'abitudine già formata, non reagirà agli stimoli soliti dell'istinto, o vi reagirà soltanto debolmente.

B. LEGGI DI CONFLITTO E DI FUSIONE

302 - 1. LEGGE D'INIBIZIONE - «Una tendenza istintiva, prima del periodo della caducità, è
neutralizzata unicamente dall'unione con la tendenza contraria». Infatti, siccome non è possibile rompere il
legame fra la tendenza e il suo oggetto (rottura che si ha soltanto con l'intervento della legge di caducità),
l'inibizione, per essere efficace, dovrà esercitarsi proprio all'interno della tendenza istintiva. In pedagogia,
come nell'addestramento degli animali (72), frequentemente si ricorre a questa legge, che offre l'associazione
di pena o di piacere alle tendenze che si vogliono frenare o incoraggiare.

2. LEGGE DI SISTEMAZIONE - «Ogni istinto che si sia soddisfatto una volta in un oggetto è portato a
trovarvi piacere in modo esclusivo ed a perdere i suoi impulsi naturali verso gli oggetti di medesima natura»
(James, op. cit., p. 532). Questa legge non è che un'applicazione della legge di formazione delle abitudini.
L'abitudine che viene ad accoppiarsi all'istinto è acquisita fin dal primo esercizio dell'istinto stesso (71), e si
rafforza via via, con l'effetto normale di canalizzare l'istinto in una determinata direzione. L'istinto viene ad
essere sistematizzato.

W. James osserva che questa legge si verifica in tutta la serie animale: «Vediamo la patella ritornare sempre
ad appiccicarsi al medesimo punto del medesimo scoglio, l'aligusta raggiungere sempre il suo buco preferito
sul fondo del mare, il coniglio deporre i suoi escrementi sempre in quel dato angolo della conigliera, l'uccello
rifare il suo nido sul medesimo ramo».

303 - 3. LEGGE DI SPECIALIZZAZIONE - «Le tendenze istintive divengono più o meno organizzate
rispetto a certi oggetti o a certe rappresentazioni» (Mc Dougall, Social Psychology, p. 28). Questa legge ha
già importanza per reazioni automatiche come la paura e la fuga. Originariamente, l'animale reagisce ad un
qualsiasi rumore violento. A poco a poco però, grazie all'esperienza, l'animale distingue fra i diversi rumori e
reagisce con la paura e con la fuga soltanto a quelli ai quali si connettono effetti dannosi. Si tratta di una
legge che ha un'applicazione estesissima nella specie umana. Non solo la vediamo applicata nel
comportamento istintivo dei fanciulli, ma essa è ancora chiamata in causa in tutti i casi in cui il
discernimento razionale interviene esplicitamente a governare la manifestazione attiva dell'istinto.
Nell'uomo, l'automaticità di quest'ultimo diminuisce in proporzione all'accrescersi della sua specializzazione.

4. LEGGE DI CONFLUENZA - «Se un dato oggetto è suscettibile di risvegliare in noi due tendenze
contrastanti, il fatto di svilupparne una porterà come conseguenza all'inibizione dell'altra, che sarà come una
tendenza nata morta» (James, op. cit., p. 532). Si verifica questa legge per induzione fra gli animali, i cui
movimenti contrastati traducono anzitutto il conflitto degli istinti. Così ci spieghiamo come il gatto affamato,
ma diffidente, al quale una persona offra da mangiare, si mostri come tormentato fra la paura (che produce la
reazione di fuga) e l'istinto di mangiare. Quest'ultimo finirà con l'avere ragione della paura, quando il gatto
avrà ricevuto da mangiare più volte dalla medesima persona. Nei fanciulli, questa legge si verifica alquanto
spesso: frequentemente il loro atteggiamento mimico in presenza di persone sconosciute traduce in modo
chiaro lo stato di conflitto delle tendenze.

304 - 5. LEGGE DI «TRANSFERT» - «Le reazioni istintive divengono atte ad essere messe in
movimento, non soltanto con la percezione degli oggetti della specie che eccita direttamente la disposizione
innata e che sono gli stimoli naturali dell'istinto, ma anche attraverso le immagini di questi oggetti e
178
attraverso le percezioni e le immagini d'oggetti di specie differente» (Mc Dougall, Social Psychology, p. 27).
Esempio: uccelli che prima non manifestavano alcun timore alla vista dell'uomo, fuggono via regolarmente
all'avvicinarsi di quest'ultimo da quando egli s'è servito del fucile. Nell'uomo, avviene lo stesso fenomeno,
per esempio, nel caso in cui un adulto freme di paura alla vista di un uomo il quale assomigli ad un individuo
che l'avesse fortemente spaventato nella sua infanzia.

Come spiegare dunque questi fatti di «transfert»? La spiegazione mediante un'inferenza è evidentemente
impossibile nel caso degli animali, ma non è neppure valida nel caso dell'adulto che freme di paura senza
alcun riferimento ai ricordi della sua infanzia, che possono essere stati dimenticati. Non rimarrebbe, dal
punto di vista associazionistico, che la spiegazione della connessione per contiguità. L'uccello fugge alla
vista dell'uomo, perché l'immagine dell'uomo si è associata per successione immediata a quella della
detonazione. Ma si tratta di una spiegazione alquanto difficile ad adottarsi, in quanto ci obbligherebbe ad
ammettere l'esistenza, nell'animale, di immagini libere, cioè staccate dalle percezioni o totalità. Bisogna
piuttosto pensare che la reazione di fuga sia provocata direttamente dalla forma umana, senza passare
attraverso l'intermediario della detonazione. Che cos'è avvenuto? Come s'è già precedentemente notato
(212), la forma umana e la detonazione hanno finito col formare tutt'uno: e ciascuna parte di questo «uno»
contiene (implicitamente) il tutto. L'uccello non ha bisogno di passare dall'uomo alla detonazione: l'uomo e
la detonazione non sono più che una cosa sola.

Lo stesso fenomeno si constata quando, in una enumerazione qualunque, si passa direttamente dal primo
termine all'ultimo. Gli intermediari sono scomparsi. Non si ha in tal caso un'associazione per contiguità
(mediata), ma soltanto costituzione di una forma, i cui elementi essenziali e costitutivi sono i termini estremi.

Il fenomeno che formula la legge di «transfert» non ha dunque nulla a che vedere con l'associazione
meccanica di termini eterogenei, in virtù di una contiguità accidentale. Questo fenomeno è dato
essenzialmente da una costituzione di forme e di strutture, i cui elementi non possono ripresentarsi se non
come parti del tutto che esse costituiscono.

Art. IV - La riduzione delle inclinazioni


305 - È possibile ridurre all'unità gli istinti e le inclinazioni dell'uomo? Le descrizioni precedenti portano
già ad una notevole riduzione, in quanto le inclinazioni dell'uomo sono numerosissime e si devono distribuire
in diversi gruppi, per categorie omogenee. Ma non è possibile insistere ancora in questo sforzo di riduzione e
ridurre all'unità anche le diverse categorie? A ciò mirano appunto i tentativi di La Rochefoucauld, di Hobbes
e di Freud.

§ l - Tentativo di riduzione all’egoismo

1. IL PRIMATO DELL'INTERESSE E DELL'EGOISMO - La Rochefoucauld afferma che «le virtù vanno


a perdersi nell'interesse come i fiumi nel mare» e che tutto in noi procede dall'amor proprio, cioè dall'amore
di se stessi e di ogni cosa per sé220.
La tesi di Hobbes, esposta nel suo Leviathan (1.a ed., Londra, 1651; cfr. tr. it., Bari, 1912), è condotta nello
stesso senso di quella di La Rochefoucauld, ma s'inquadra in una teoria complessa sull'origine della società
umana e del potere politico. Per Hobbes, lo stato originale dell'umanità è lo stato di guerra ed anarchia. Per
natura, l'uomo è un lupo per l'uomo (homo homini lupus). Gli uomini tuttavia, essendo esseri intelligenti, non
tardarono a comprendere che la pace sarebbe stata più vantaggiosa della guerra e decisero di vivere in società
e di cedere i loro diritti individuali nelle mani di un tiranno, incaricato d'assicurare l'ordine per mezzo delle
leggi. La società è nata dunque da un contratto, che non era, in fondo, altro che un'invenzione ingegnosa
dell'egoismo. A poco a poco tuttavia le pratiche dell'altruismo, unicamente governate dapprima
dall'obbedienza al contratto sociale, si staccarono dalle loro origini egoistiche ed assunsero un valore

220 L'autore delle Maximes cerca di spiegare con l'amor proprio, l'una dopo l'altra, tutte le virtù: «Anche la più
disinteressata amicizia non è che un commercio in cui il nostro amar proprio si propone sempre di guadagnar qualcosa».
«Lo schermirsi dalle lodi equivale al desiderio d'essere doppiamente lodato». «L'amore della giustizia, nella maggior
parte degli uomini, non è che il timore di patire ingiustizia». (Questo «nella maggior parte degli uomini» attenua
curiosamente la tesi dell'autore). «La pietà è un abile prevedere le disgrazie in cui noi possiamo cadere, ecc.».
179
autonomo, che le fece stimare per se stesse. Ciò nondimeno tutto deriva dall'egoismo, che è l'istinto
fondamentale, ed anzi il solo istinto dell'uomo.

306 - 2. DISCUSSIONE - La teoria di Hobbes ha incontrato grande fortuna. Adottata dagli evoluzionisti,
per i quali l'uomo primitivo doveva essere uscito dall'animalità attraverso un processo di continua
evoluzione, questa teoria fornì alle dottrine del progresso indefinito una specie di schema semplicissimo
dello sviluppo dell'umanità. Quanto alla tesi di La Rochefoucauld, essa deve il meglio del suo successo
all'equivoco che fa pesare sulla nozione d'interesse.

a) L'equivoco dell'interesse. In un certo qual senso è ben vero che tutte le nostre inclinazioni sono
espressioni del nostro interesse. Ciò appunto avevano ben messo in luce Aristotele e gli Scolastici medievali,
affermando che il bene è l'unico fine possibile della nostra attività, cioè che noi non possiamo amare,
desiderare e perseguire alcunché, se non sotto l'aspetto del bene (sub specie boni). Da questo punto di vista,
tutto è «interessato», non solo le nostre tendenze sensibili, il che è ovvio, ma anche il disinteresse stesso, la
dedizione ed il sacrificio di sé221. Ma questo «interesse» è evidentemente tutt'altra cosa che l'interesse
egoistico, poiché è esso ad imporci, quando il bene lo esiga, di sacrificare i nostri gusti, i nostri beni ed anche
la nostra vita.

b) Il mito dell'egoismo primitivo. La teoria di Hobbes è una costruzione arbitraria, non giustificata da alcun
fatto positivo, poiché, per quanto lontano possiamo risalire verso le origini umane, noi vediamo sempre
l'uomo vivente in società. Non sembra del resto che il contrario sia stato mai possibile, poiché la famiglia,
prima forma di società, è sempre stata assolutamente necessaria alla perpetuazione della specie umana.
Infine, Hobbes attribuisce ai primi uomini calcoli molto profondi e sottili, e se questi calcoli dovessero essere
considerati come il frutto spontaneo di un istinto, sarebbe come dire che l'«istinto sociale» è contemporaneo
dell'egoismo ed è a questo irriducibile.

c) L'opposizione delle nozioni d'egoismo e d'istinto. In ogni modo, sembra difficile fare dell'egoismo un
istinto unico e addirittura un istinto autentico. Da un lato, infatti, nella misura in cui può essere ricondotto
all'interesse, cioè alla determinazione da parte del bene oggettivo, l'egoismo è essenzialmente molteplice e
polivalente. Esso non è tanto una tendenza, quanto la forma comune di tutte le tendenze. D'altro canto, ogni
istinto, come s'è visto, si definisce in virtù di un oggetto distinto dal soggetto; l'istinto è tendenza verso altra
cosa rispetto a se stessi. Il suo movimento direzionale è dunque inverso da quello dell'egoismo, nel senso in
cui Hobbes e La Rochefoucauld intendono la parola, come ritorno a sé. Si potrebbe dire che l'istinto è
alienazione, il che ne fa senz'altro il contrario dell'egoismo.
In realtà, secondo la giusta osservazione di M. Pradines (Psychologie générale, I, p. 162), l'egoismo, che è
una nozione morale e non psicologica, piuttosto che un istinto è una perversione morale dell'istinto, in
quanto esso consiste nel trasformare in meri mezzi di piacere o di profitto i fini oggettivi degli istinti.

§ 2 - Tentativo di riduzione alla sessualità

307 - Il freudismo è invece caratterizzato da aspetti ben diversi. Esso è ad un tempo un metodo per
l'esplorazione dell'inconscio e il trattamento delle nevrosi, - una psicologia degli istinti -, ed una filosofia
generale. L'immensa risonanza che ha ottenuto il freudismo è, invero, soprattutto dovuta al tentativo di
Sigmund Freud volto a ridurre tutto, nell'uomo, alla sessualità. Proprio sotto questo aspetto, che è lungi
dall'essere il più originale, noi lo dovremo qui prendere in considerazione.

A. IL PANSESSUALISMO FREUDIANO

1. PRINCIPIO DELLA RIDUZIONE - Alla base del freudismo sta una dottrina che afferma la continuità
dell'uomo rispetto all'animale, spiegandosi le differenze per via d'evoluzione. Ne consegue immediatamente
che tutti gli istinti dell'uomo sono essenzialmente gli stessi che ha pure l'animale: le differenze che
constatiamo sono accidentali e rappresentano soltanto delle sublimazioni o delle razionalizzazioni degli
istinti animali. La ragione stessa altro non è che uno sviluppo dell'intelligenza animale: diverso è il grado,

221 Cfr. S. Tommaso, S. C. G., III, c. XVII: «Finis ultimus cuiuslibet facientis, in quantum est faciens, est ipsemet;
utimur enim factis a nobis propter nos; et si aliquid aliquando homo propter alium faciat, hoc refertur in bonum suum,
vel utile, vel delectabile, vel honestum».
180
ma medesima è l'essenza, tanto che i prodotti specifici della specie umana, scienza e filosofia, arte, morale e
religione, non sono che delle forme acquisite e derivate degli istinti animali 222.

308 - 2. IL PRIMATO DELLA SESSUALITÀ

a) La tesi. Nella massa di istinti che l'attività umana manifesta è possibile distinguere l'istinto
fondamentale, principio e fonte di tutti gli altri. Questo istinto è evidentemente l'istinto sessuale. La sua forza
immensa e la sua influenza lo indicano già come l'istinto dominatore. Ma l'analisi delle diverse attività o
tendenze istintive dell'uomo (curiosità, disgusto, imperialismo ed eccellenza, sottomissione, acquiescenza,
ecc.), come pure delle forme patologiche dello psichismo 223 porta a caratterizzarle come derivati, componenti
o effetti (in conseguenza di conflitti interni) dell'istinto sessuale.

b) L'argomento della sessualità infantile. Gli argomenti addotti da Freud sono numerosi, ma il più
importante di tutti quello che, in fondo, regge l'intera teoria, è l'argomento della sessualità infantile. Per
Freud tutto il comportamento del fanciullo è spiegato dalla sessualità, che è visibilmente il principio donde
derivano, attraverso un'evoluzione piena di vicissitudini, la sessualità normale dell'adulto e, al tempo stesso,
tutte le forme anormali della sessualità, che altro non sarebbe se non la sessualità infantile cresciuta e
scomposta nelle sue tendenze particolari.
Le fasi della sessualità infantile si definiscono, secondo Freud, come un autoerotismo (il fanciullo esplora
il proprio corpo: la sua attenzione è soprattutto attirata dalle zone erotogene), - un narcisismo (dal momento
in cui l'io è costituito, le tendenze sessuali si orientano verso questo io), quindi una fase obiettale, nella
quale le tendenze sessuali si dirigono verso un oggetto esterno e danno luogo al complesso d'Edipo, - infine
una fase di latenza, durante la quale dei fenomeni inibitori (pudore, disgusto, influenze dell'ambiente, freno
religioso, ecc.) comprimono la tendenza sessuale fino al momento della pubertà. - L'evento capitale di questa
evoluzione è la formazione del complesso d'Edipo224 cioè di una situazione in cui la spinta sessuale orienta il
fanciullo maschio verso la madre, e la figlia verso il padre, con gelosia nei confronti del genitore di ugual
sesso, visto come rivale: tanto che ogni fanciullo è, in potenza, incestuoso e parricida. S. Freud spiega
d'altronde che il dissolversi di questo complesso può costituire la fonte delle più alte aspirazioni, come la sua
inconscia permanenza può renderci ragione dei fatti di disordine psichico.
Saranno questi diversi fenomeni a spiegarci l'uomo intero. Tutto deriva dalla libidine, narcisistica o
obiettale, sia direttamente, sia indirettamente, laddove «le spinte sessuali hanno perduto, in tutto o in parte, il
loro uso particolare e sono applicate ad altri fini» 225 mediante il processo della sublimazione, fenomeno di
«transfert» specifico al gioco inconscio. Se il fanciullo è un pervertito polimorfo, la sublimazione è tale da
fare scaturire le grandi virtù, l'eroismo, il genio e la santità, dagli impulsi repressi della sessualità 226.

B. DISCUSSIONE

222 Questo postulato empiristico e sensistico è espresso con perfetta chiarezza dallo psicanalista americano Frinck
(Morbid fears and compulsions, ed. di Londra, p. 2): «Se si studia un organismo semplice, per esempio l'ameba, ci si
accorgerà facilmente che tutti i suoi atti sono in rapporto con l'uno o l'altro dei due gruppi di tendenze: conservative e
riproduttive. Se poi si procede allo studio comparativo di altri organismi situati più in alto nella scala filogenetica, si
scoprirà che non v'è nulla, neppure i processi mentali più complicati dell'uomo civile, che non sia in un modo o
nell'altro rappresentato, anche in maniera semplice e rudimentale, negli organismi inferiori e persino nell'ameba. Nella
fattispecie, ogni elemento del comportamento umano, sia esso esplicito (azione) o implicito (pensiero o sentimento), si
rivela, sia all'osservazione diretta, sia all'analisi regressiva della sua storia filogenetica, come appartenente all'uno o
all'altro dei gruppi di reazione preservatrici dell'individuo o della specie». (Citazione di R. Dalbiez, La méthode
psychanalytique et la doctrine freudienne, Parigi, 1936, t. II, p. 482).
223 «È semplicemente - scrive Freud (Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse, Vienna e Zurigo, 1916-17:
Cinq leçons sur la Psychanalyse, trad. Lelay, Parigi, 1910, p. 123; cfr. trad. it., Roma, 1948) - la possibilità d'essere
inibito, ritardato od ostacolato nel suo corso, che costituisce per un processo la disposizione patologica». Nevrosi e
sessualità sono strettamente connesse: «Fra le cause delle malattie nervose, i fattori della vita sessuale hanno una parte
d'importanza enorme, una parte predominante, forse addirittura specifica» (Psychanalyse et Médecine, trad. M.
Bonaparte, Parigi, 1926, p. 161).
224 Complesso: insieme di elementi rappresentativi carichi di significazione.
225 Freud, Trois essais sur la théorie de la sexualité, trad. Reverchon, Parigi, 1905; cfr. Gesammelte Werke
chronologisch geordnet, 17 voll., Londra, 1940.
226 Cfr. J. De La Vaissière, La théorie psychanalytique de Freud, Parigi, 1930 («Archives de Philosophie», VIII, I) - R.
Dalbiez, La méthode psychanalytique et la doctrine freudienne, t. I, Exposé.
181

309 - Non possiamo entrare nei particolari di questa teoria, e dovremo limitarci ad indicare le gravi
difficoltà cui essa va incontro sotto i tre punti di vista dell'analisi della sessualità infantile - della psicologia
comparata - e degli effetti della sublimazione.

1. LA SESSUALITÀ INFANTILE - Quanto attiene alla sessualità infantile e alle fasi della sua evoluzione
urta contro una duplice obiezione, concernente il principio e gli elementi della descrizione.

a) Una psicologia infantile in chiave di psicologia dell'adulto. La teoria freudiana della sessualità infantile
è interamente costruita in chiave d'una psicologia d'adulti. V'è qui un errore grave, che vizia tutta la tesi. Il
fanciullo e l'adulto differiscono notevolmente, perché essi non si trovano al medesimo stadio dell'evoluzione.
Osservazione, questa, di capitale importanza quando si tratta degli istinti, sottoposti, come s'è visto, ad una
legge d'evoluzione e d'involuzione. Non si ha dunque il diritto di trarre conclusioni che interessino l'adulto
dall'osservazione del fanciullo, o viceversa, sulla base della semplice constatazione di comportamenti
similari.
Esiste certamente una sessualità infantile normale, ma essa è molto differente da quella dell'adulto. Essa è
essenzialmente indifferenziata, contrariamente a quel che avviene per la sessualità adulta. Questa sessualità
infantile può manifestarsi sia sotto forma di sensazioni genitali, dovute all'eccitazione accidentale delle zone
erotogene, sia sotto forma amorosa per effetto di una stimolazione psichica. È un fatto certo però che queste
due sorte di fenomeni non hanno alcun nesso fra di loro, e che le emozioni affettive del fanciullo (che S.
Freud attribuisce al «complesso d'Edipo») non comportano reazioni genitali 227. La loro sessualità (il sessuale
sopravanza ampiamente il genitale) è in certo qual modo implicita e confusa.

b) L'aspetto parziale ed accidentale della sessualità. D'altra parte, i fatti sui quali Freud pretende fondare il
discernimento dell'autoerotismo, del narcisismo e dell'orientamento incestuoso del fanciullo sono
arbitrariamente ricondotti alla pura sessualità. Questi fatti possono avere ed hanno realmente un aspetto
sessuale (quello stesso che abbiamo or ora notato), ma questo aspetto non è il solo e neppure sempre il più
importante228. L'esplorazione del corpo è primieramente determinata dal bisogno che il fanciullo prova di
comporre l'atlante cinestetico, tattile, visivo del proprio corpo (121). Questa esplorazione può imbattersi
accidentalmente nella sessualità, ma non è necessariamente da questa voluta e governata. Altrettanto dicasi
della ricerca delle carezze: questa può bensì avere una risonanza sessuale, che sarebbe però puramente
accidentale, e non potrebbe comunque ridursi alla sessualità. Come osserva giustamente R. Dalbiez (op. cit.,
t. II, p. 260-263), l'errore capitale di Freud è consistito nel trasformare in nesso essenziale, il nesso
accidentale delle sessopatie con la sessualità infantile, cioè nell'avere spiegato tutte le anomalie della
sessualità attraverso lo sviluppo normale del fanciullo, considerato come un «pervertito polimorfo», mentre
questi non è che un pervertibile polimorfo.

Il «complesso d'Edipo» è stato oggetto di giudizi severi e scandalizzati. Tuttavia, il, punto di vista di Freud,
su questo punto, ha finito per imporsi. Quel che importa, qui, è di comprendere che, per qualificare le
situazioni vitali del fanciullo, noi non disponiamo che del nostro linguaggio d'adulti, che soltanto
analogicamente può aver valore a proposito del fanciullo. In realtà, termini quali amore, odio, possesso,
desiderio di morte, incesto, quando vengano applicati al fanciullo devono essere spogliati dei riferimenti
affettivi imposti loro dalla psicologia adulta. Essi non hanno nel fanciullo né la medesima risonanza sociale,
né, tanto meno, la medesima risonanza morale.
Fatte queste riserve, la tesi di Freud non ha nulla di strano o di scandaloso. Il fanciullo, nel momento in cui,
verso i quattro anni, si svegliano in lui le prime esigenze dell'amore (e della sessualità), incomincia col
fissare questo amore direttamente sul genitore di sesso opposto. Il maschietto si attacca alla madre con tutta
la potenza dell'istinto, in un atteggiamento possessivo intransigente. Il padre, che fa rivolgere su di sé l'amore
della sposa - madre, è allora oggetto di un odio geloso e di un desiderio d'esclusione. Non potendolo
eliminare, il fanciullo lo sente come un rivale, ed eccolo tentare di soppiantarlo identificandosi a lui, che sa
tanto bene captare la tenerezza della madre. Conseguentemente però, egli scopre in sé l'amore del padre, che
non è, in fondo, se non un'aggressività ritorta: e, per il fatto stesso, egli si sviluppa nella sua linea maschile.
227 Cfr. Von Monakow et Mourguf, Introduction biologique à l'étude de la neurologie et de la neurologie
psychopatologique, p. 79.
228 Spesso, del resto, non si constata nel fanciullo alcuna manifestazione sessuale precisa. Freud fa frequente appello
ai ricordi che gli adulti hanno conservato della loro infanzia. Ma è verisimile che le reminiscenze degli adulti, in materia
di sessualità, siano inconsciamente modificate dallo psichismo adulto. D'altra parte, vi sono sessualità infantili anormali.
182
Il fanciullo tuttavia sopporta a disagio questa rivalità, come se questa fosse colpevole. Tutto il problema
della sua formazione psicologica e morale consisterà a questo punto nel «liquidare» questo complesso di
colpevolezza e nell'accettare serenamente d'essere l'inferiore di questo rivale, che è il padre. L'accettazione
della sua debolezza è la condizione essenziale che gli permetterà di schiudersi come adulto. Ma la posizione
dei genitori è pure importante per il loro delicato compito. Essi devono essere consci di questi approcci o di
questa dialettica dell'amore nei loro figli e non stupirsi né offendersi delle preferenze istintive che essi
manifestano per il genitore del sesso opposto. Si tratta di aiutare i figli a poco a poco a superare questo
conflitto, che, altrimenti, finirebbe col fissarsi sin dalla fanciullezza e, perdurando nell'adolescenza e nella
maturità, determinerebbe nell'individuo, con la sua presenza inconscia e tormentosa, le più gravi nevrosi.

310 - 2. LA TEORIA DELLE SUBLIMAZIONI - La teoria freudiana delle trasformazioni della libidine
repressa in arte, morale e religione dipende da una filosofia tra le più discutibili, in quanto postula, senza
alcuna prova, che tutte le manifestazioni dell'attività umana non possono derivare se non dall'attività
sensitiva e conseguentemente che nell'uomo non v'è di naturale se non quanto ha in comune con gli altri
animali. Questo postulato non è così ovvio, come S. Freud suppone229.
Si può ammettere (ciò che del resto è un fatto indiscutibile) che lo psichismo superiore è spesso
potentemente sovrattivato sotto l'influenza degli istinti (come accade, per esempio, nel caso in cui una donna,
privata, per necessità o per scelta volontaria, di soddisfazioni sessuali, si dedica con ardore a tutte le forme
della carità verso l'infanzia sventurata) - senza che ne consegua che la ragione e gli istinti superiori si
riducano agli istinti sensibili ed altro non siano che un semplice camuffamento della sessualità.

C. CONCLUSIONE

Lo studio sin qui condotto ci porta a constatare non soltanto l'insuccesso dei tentativi di riduzione degli
istinti alla unità, ma ancora l'impossibilità di una tale riduzione. Infatti, gli istinti derivano dai bisogni.
Questi bisogni, a loro volta, sono molteplici ed irriducibili. La loro unità non può essere essenziale o
antologica, ma soltanto funzionale. Gli istinti sono fatti per il vivente e devono armonizzarsi fra di loro per
assicurare il bene individuale e specifico di questo vivente.

Nell'uomo la riduzione all'unità ha meno senso ancora che nell'animale, almeno se si tiene conto del fatto
empiricamente certo della dualità sensibile ed intellettuale della natura umana. Questa dualità implica la
realtà d'istinti ed inclinazioni essenzialmente differenti. Quanto poi all'unificazione funzionale di questi
istinti e di queste inclinazioni, così numerosi e così diversi, non spetta più alla natura, come a proposito
dell'animale, assicurarla all'uomo, bensì alla ragione, o, più precisamente ancora, al principio immateriale
che, nell'uomo, è il principio unico di tutte le operazioni psichiche. Lo studio delle inclinazioni ci riporta
dunque all'ipotesi generale che formulavamo all'inizio di questo Trattato (50).

229 Per dar sostegno alle sue tesi, Freud ha costruito tutta una metafisica relativa alla struttura dello psichismo, sulla
quale avremo modo di ritornare più oltre, nello studio della coscienza.
183

CAPITOLO TERZO

IL PIACERE E IL DOLORE

SOMMARIO230

Art. I - NATURA DEL PIACERE E DEL DOLORE. Nozioni - Impressioni piacevoli e spiacevoli - Ordine
fisico ed ordine morale Esistono stati affettivi puri? - Esistono stati affettivi neutri? - Il dolore -
Relatività del piacere e del dolore Legge di contrasto - Legge delle circostanze - Legge di
saturazione - Legge d'adattamento.

Art. II - FUNZIONI DEL PIACERE E DEL DOLORE. Cause del piacere e del dolore. Teorie
intellettualistiche - Discussione - Teoria dell'affettività - Discussione - Teoria dell'attività -
Discussione - Complementi alla teoria d'Aristotele - Finalità del piacere e del dolore - Gli stimoli del
piacere e del dolore L'ufficio della ragione.

Art. I - Natura del piacere e del dolore


§ l - Nozioni

311 - 1. IMPRESSIONI PIACEVOLI E SPIACEVOLI - Il piacere, il dolore e la pena non sono suscettibili
di una definizione essenziale, perché non si possono ridurre a stati più generali. Una tale definizione è del
resto inutile, in quanto nulla ci è più familiare di queste impressioni piacevoli o spiacevoli che continuamente
si succedono nella nostra vita.
Si possono tuttavia caratterizzare questi stati attraverso le reazioni che essi provocano. Negli animali e nei
fanciulli, queste reazioni si manifestano con una spontaneità perfetta, e si constata che, in linea generale, il
piacere ed il dolore esercitano l'effetto di indurre i viventi ad allontanarsi da un oggetto o ad avvicinarsi a
questo, a cercare o ad evitare la sua azione. In altri termini, si persegue il piacere e si fugge la sofferenza. Ciò
si manifesta già, nella forma più semplice, nel comportamento dell'ameba, il cui contatto coi differenti corpi
è seguito, secondo la natura dell'uomo o dell'altro corpo, dall'estensione o dalla ritrazione degli pseudopodi.
Le differenti mimiche che accompagnano il piacere ed il dolore non hanno il valore espressivo fondamentale
di questi fenomeni d'attrattiva o di ripulsa, che caratterizzano così nettamente l'attività selettiva, positiva o
negativa, costituita dal piacere e dal dolore o sofferenza.

312 - 2. ORDINE FISICO ED ORDINE MORALE

a) La distinzione. Si distinguono comunemente il piacere e la sofferenza o dolore fisici e il piacere e il


dolore morali, e si considera generalmente come essenziale questa distinzione. Dal semplice punto di vista
empirico, questa distinzione appare giustificata, dal momento che il piacere, la sofferenza, il dolore che
diciamo «fisici» sono connessi a fatti organici, mentre il piacere ed il dolore morali, che chiamiamo piuttosto
gioia e tristezza, pur accompagnandosi ad organicità, non pare abbiano per causa immediata e proporzionata
uno stato organico.

b) Difficoltà. A questa distinzione si oppongono tuttavia diverse obiezioni. Si osserva anzitutto che molti
turbamenti organici, per esempio una crisi cardiaca o una crisi d'asma, producono, insieme a sensazioni
locali di sofferenza, impressioni d'ansietà, di oppressione, di scoraggiamento, ecc. D'altra parte, i dolori acuti
o prolungati sono deprimenti e demoralizzanti.

230 Cfr. Ribot, Psychologie des sentiments, Parigi, 1896; Problèmes de la vie affective, Parigi, 1910. - Paulhan, Les
phénomènes affectifs, 3a ed., Parigi, 1912. - Pradines, Les sens du besoin, Parigi, 1932; Les sens de la défense, Parigi,
1934. - Nogué, La signification du sensible, Parigi, 1936. - Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. II; Les états
affectifs, p. 221-293; t. III, p. 240-291.
184
Queste osservazioni sono esatte, ma stabiliscono soltanto che stati depressivi d'ordine morale (sentimenti)
possono risultare da stati fisici morbosi, ma non che questi due ordini di fenomeni siano identici . La stessa
considerazione si può fare a proposito dell'osservazione secondo cui taluni eccitanti fisici (odori, sali,
profumi, colori: «veder tutto rosa», «veder tutto nero») hanno un valore affettivo d'ordine morale: v'è certo
una relazione fra sensazioni affettive e sentimenti, ma non è possibile, da questa relazione, arrivare
immediatamente all'identità. Si osserva ancora che vi sono impressioni di difficile classificazione: il piacere
che il fanciullo prova alle carezze è un piacere fisico o morale? Il dolore provocato da uno schiaffo è fisico o
morale? La paura di soffrire è puramente psichica o, al contrario, già fisica, come anticipazione immaginaria
della sofferenza paventata? Ma comunque si risponda a queste domande, il principio della distinzione rimane
valido: va poi aggiunto che le impressioni possono essere complesse, ed associare un piacere fisico ad un
sentimento di gioia, un dolore fisico ad una sofferenza morale e persino, talvolta, un piacere fisico ad una
sofferenza morale ed una gioia morale ad un dolore fisico (si ricordi la madre che soffre per il figlio) 231.

313 - 3. ESISTONO STATI AFFETTIVI PURI? - Ci si è chiesto se possano esistere stati algedonici, tali da
non comportare altro che la manifestazione affettiva, senza alcun e1emento rappresentativo.
Questo problema si rifà a quello delle immagini affettive, che abbiamo già studiato (171-173). Per il fatto
stesso che abbiamo ammesso, con Kulpe, che non vi sono e non vi possono essere immagini affettive
propriamente dette, affermeremo, di conseguenza, che alla stessa maniera non possono esserci impressioni di
piacere o di dolore puri, giacché, se esistessero impressioni di tal genere, le immagini corrispondenti
esisterebbero a loro volta. L'errore di Ribot su questo punto è stato quello di confondere le impressioni
affettive e le sensazioni cenestesiche: queste ultime (stato di fatica, di abbattimento, d'angoscia, di disagio,
ecc.) sono accompagnate da impressioni affettive più o meno accentuate, ma comportano pure, come tali,
rappresentazioni confuse delle differenti parti del corpo.

3. ESISTONO STATI AFFETTIVI NEUTRI? - Si deve ammettere l'esistenza di stati indifferenti, che non
sapremmo se definire piacevoli o spiacevoli? È una questione che comprende in realtà due problemi distinti,
che si confondono alquanto spesso. Ci si può chiedere infatti se noi ci possiamo trovare, in modo più o meno
cosciente, in uno stato generale affettivamente neutro, o se tutte le nostre sensazioni comportano
necessariamente una risonanza affettiva positiva o negativa. Una risposta affermativa in questo secondo
problema porta come conseguenza l'impossibilità di uno stato generale d'indifferenza affettiva. Ma
l'impossibilità di un tale stato non implica affatto che tutte le nostre sensazioni siano piacevoli o spiacevoli.

Si ammette comunemente che noi continuamente proviamo almeno qualche impressione affettiva confusa,
nell'ambito della cenestesia. Quanto alle sensazioni particolari, è difficile risolvere sperimentalmente il
problema del loro valore affettivo, a causa dell'inesistenza delle immagini affettive. L'argomento invocato dai
sostenitori di questi stati neutri (Sergi, Wundt, Kulpe), secondo cui tutti gli stati nei quali si passa senza
soluzione di continuità da un'impressione gradevole ad un'impressione sgradevole, e inversamente (la mano
tuffata in acqua tiepida che si scalda a poco a poco), comporterebbero necessariamente un punto limite
indifferente, è invero un argomento che sembra dar corpo ad un'astrazione, in quanto il limite non è né una
cosa, né uno stato positivo.

314 - 4. IL DOLORE

a) Dolore e sofferenza. Il dolore, inteso in senso stretto, è un'impressione penosa di natura speciale.
Parecchie impressioni sgradevoli non si presentano come dolorose: gli stati di malessere diffuso, per
esempio, gli stati di debolezza, di abbattimento, o ancora sensazioni penose come quelle provocate da un
grido stridente, da un odore nauseabondo, ecc. Dal punto di vista psicologico, il dolore è dunque
contrassegnato da caratteri particolari, di difficile descrizione, ma di discernimento comune, che lo
collocano in disparte rispetto alle altre impressioni penose.

b) Caratteri fisiologici del dolore. Fisiologicamente, c'è un comportamento specifico del dolore, che
comprende fenomeni riflessi, reazioni vaso-motrici, viscerali, muscolari, gridi, lacrime, movimenti di
ritrazione, contrazioni facciali, polso e respirazione irregolari, rallentamento delle secrezioni, dilatazione

231 Cartesio, Traité des Passions, II, c. XCIV: «Il titillamento dei sensi è seguito così da vicino dalla gioia, e il dolore
dalla tristezza, che la maggior parte degli uomini non li distingue affatto; tuttavia, essi differiscono a tal punto che si
possono talvolta soffrire dei dolori con gioia e ricevere titillamenti che dispiacciono».
185
dell'iride, ecc. Tuttavia, queste manifestazioni né sono date necessariamente tutte insieme, né sono
assolutamente automatiche, almeno nella specie umana. Parecchie di esse possono essere inibite con uno
sforzo volontario. E ciò spiega appunto, in una con il grado di sensibilità, come esse varino tanto da un
individuo all'altro, giacché v'è chi forza, per così dire, l'espressione del dolore e chi, invece, la contiene
frenandola. La padronanza di sé può giungere talvolta ad ottenere come risultato una certa quale apparenza
d'insensibilità.

c) La questione del senso del dolore. Gli antichi facevano del tatto, esterno ed interno, cioè, in altri termini,
della cenestesia, l'organo del dolore, considerato come risultante d'una alterazione anatomica o funzionale
dell'organismo. Oggi, come s'è visto (117), si ammette comunemente che il dolore può essere il risultato
dell'eccitazione di un qualsiasi nervo sensitivo, quando questa eccitazione oltrepassi il limite normale,
ovvero quando il soggetto si trovi in uno stato d'iperestesia nervosa. Quanto alle ipotesi relative all'esistenza
di un senso e di organi speciali per il dolore, esse non hanno potuto fin qui apportare alcun argomento
decisivo in loro favore. La questione rimane dunque incerta. Quel che è certo è che il dolore è una reazione
affettiva particolare agli stimoli nocivi e risultante da alcune modificazioni organiche prodotte da questi
stimoli. Come il piacere, esso è un fatto affettivo di natura organica.

Praticamente, si definiscono le sensazioni dolorose sia in relazione agli organi in cui esse sono localizzate
(dolori di stomaco, mal di testa), - sia in relazione alle loro cause (scottatura, puntura, frattura, contusione,
oppressione, ecc,). - Per far conoscere le qualità di questi diversi dolori, si ricorre al procedimento
dell'analogia: dolori sordi, lancinanti, acuti, folgoranti, ecc.

§ 2 - Relatività del piacere e del dolore

315 - I piaceri, le sofferenze, i dolori hanno una relatività, che si manifesta in differenti modi. Le seguenti
leggi esprimono i vari aspetti di questa relatività.

1. LEGGE DI CONTRASTO - Il piacere e la sofferenza si valorizzano reciprocamente. Dopo un piacere


intenso, un dolore leggero sarà sentito duramente, e viceversa. Vi sono piaceri e dolori che sembrano avere
addirittura soltanto un contenuto negativo, costituito dall'assenza della sofferenza o del piacere a cui
subentrano.
D'altra parte, l'intensità dei piaceri e delle sofferenze è inversamente proporzionale al loro numero. Gli
uomini al colmo del piacere o della gioia godono sempre meno. In uno stato continuo di dolore fisico, poco
sentito è un dolore nuovo che sopravvenga.

2. LEGGE DELLE CIROOSTANZE – L’intensità di un piacere o di un dolore dipende dalle circostanze


fisiche e mentali nelle quali essi si producono. Una ferita nel momento della lotta si avverte appena (per
esempio sul campo di battaglia o in una gara sportiva); ma non appena finito il combattimento, essa s'impone
alla coscienza. Un dolore assai paventato assume, quando sopraggiunge, una intensità speciale. Un piacere
che corrisponde ad una tendenza in attività, una sofferenza che contrasta tale tendenza, si risentono con una
vivacità particolare. I piaceri e le sofferenze variano in quantità ed intensità secondo l'età, il temperamento, le
abitudini acquisite. Il piacere è più vivo dopo una privazione penosa. La privazione è tanto più penosa quanto
più frequentemente e più intensamente è stato assaporato il piacere, ecc.

3. LEGGE DI SATURAZIONE - Né i piaceri né i dolori si sommano indefinitamente. La capacità di


godere, come quella di soffrire, è limitata. Questo limite è variabile secondo la sensibilità individuale e
secondo l'adattamento che ne è venuto.

4. LEGGE D'ADATTAMENTO - Ripetuto, il piacere affievolisce e per così dire, si logora, tende alla
sazietà. Ne consegue che per continuare a godere bisogna costantemente aumentare le sensazioni affettive, a
rischio che esse finiscano col diventare dolorose per eccesso. Nell'altro senso, si viene ad avere un certo
adattamento al dolore ed alla sofferenza. Capita facilmente che si finisca col non avvertire più l'elemento
spiacevole di certe situazioni (consuetudine affettiva).

L'adattamento è normale. I casi in cui questo non ha luogo, e che pare riguardino soltanto le sensazioni
penose e dolorose, sono di natura patologica: si ha diminuzione progressiva ed anormale della resistenza in
casi in cui essa dovrebbe invece aumentare.
186

Art. II - Funzione del piacere e del dolore


316 - Ci si può porre il duplice quesito, inteso a conoscere quali siano le cause del piacere e del dolore:
sono forse, rispettivamente, il bene e il male del soggetto che li prova? - quale sia la finalità degli stati
affettivi: sono essi effettivamente utili al soggetto? - In realtà si tratta piuttosto di considerare il medesimo
problema sotto due aspetti differenti, in quanto la ricerca delle cause del piacere e del dolore qui non riguarda
più le cause immediate, delle quali già sappiamo che sono organiche, ma le cause più generali: e ciò torna ad
essere una forma o almeno un elemento del problema della finalità degli stati affettivi.

§ l - Cause del piacere e del dolore

Le teorie in cui ci imbattiamo a questo proposito sono molto più metafisiche e morali che psicologiche.
Dobbiamo comunque rapidamente esporle, insistendo particolarmente sulla teoria aristotelica.

A. TEORIE INTELLETTUALISTICHE

1. GLI STATI AFFETTIVI FATTI RISALIRE A GIUDIZI - Il punto di vista intellettualistico è stato
presentato sotto forme alquanto diverse. Gli Stoici vedono nel piacere e nel dolore semplici opinioni, che
dipendono da noi, come tutte le opinioni. L'uomo saggio, sol che lo voglia, può essere felice persino nel toro
di Falaride. Per Cartesio, il piacere e il dolore vanno riportati a giudizi mediante i quali l'anima valuta il suo
punto di perfezione e d'imperfezione. B. Spinoza e G. W. Leibniz, a loro volta, considerano gli stati affettivi
come forme di traduzione nella nostra coscienza dell'accrescimento o della diminuzione del nostro essere. F.
Herbart infine, partendo dalla relatività dei piaceri e delle sofferenze, e particolarmente dalla legge delle
circostanze, ritiene che il piacere e il dolore siano prodotti da ciò che si accorda o ciò che entra in conflitto
con il complesso delle nostre rappresentazioni.

2. DISCUSSIONE - Queste teorie sono insufficienti. Il piacere e il dolore non dipendono assolutamente
dalle nostre opinioni. Se il saggio è felice nel toro di Falaride, ciò non vuol dire che egli, là dentro, non soffra
crudelmente. Felicità (ipotetica) e dolore possono coesistere, perché non sono del medesimo ordine. Quanto
ai cartesiani, essi confondono gli stati affettivi con i giudizi che li accompagnano. Il mio dolore e il mio
piacere non si identificano con la coscienza che io ne ho, quantunque tali essi siano per me proprio in virtù
di questa coscienza. In altre parole, la coscienza è condizione e non causa adeguata e totale del piacere e del
dolore, che sono a loro volta delle realtà organiche. Laddove F. Herbart parla di rappresentazioni,
bisognerebbe parlare di tendenze sensibili. Un fatto che turbi il sistema delle nostre rappresentazioni può
bensì procurarci una viva contrarietà, ma non un dolore propriamente detto. Piacere e dolore appaiono del
resto come relativamente indipendenti dalle rappresentazioni. Un piacere rimane un piacere per chi se lo
rimprovera.

B. TEORIA DELL'AFFETTIVITÀ

317 – I. IL PESSIMISMO - Vari filosofi hanno voluto collegare il dolore con l'attività come tale. Agire
sarebbe soffrire e di conseguenza la sofferenza diverrebbe la forma essenziale della vita . Il piacere, quindi,
non avrebbe che una realtà negativa, consistente nell'assenza del dolore. Tale è, sia pure con differenze
abbastanza notevoli, la tesi d'Epicuro e di Lucrezio, di Kant, e soprattutto di Schopenhauer e di Leopardi, i
quali insistono soprattutto sul fatto che la coscienza implica un voler-vivere indefinito e mai soddisfatto,
donde inquietudine e sofferenza: giacché, afferma Schopenhauer, «la vita è una lotta per l'esistenza, con la
certezza d'essere vinti».

2. DISCUSSIONE - Ben si vede che tocca alla Metafisica ed alla Morale una valutazione di queste tesi.
Tuttavia, dal semplice punto di vista psicologico, esse non possono non essere assai discutibili. Da un lato,
infatti, né il desiderio, né lo sforzo sono sempre dolorosi. Vi sono attività felici, benefiche, salutari,
produttrici di sani piaceri e di gioie serene. D'altro canto, sembra impossibile ridurre il piacere ad una mera
assenza di dolore, in quanto l'assenza di dolore si presenta come, uno stato vuoto, per se stesso, di ogni
positività, mentre il piacere implica aspirazione verso un oggetto e soddisfazione positiva nel godimento di
questo oggetto. Insomma, piacere e dolore sono ugualmente positivi e reali. Essi accompagnano l'esercizio
187
naturale delle nostre attività. Si tratta di sapere in quale esatto rapporto l'uno e l'altro siano con queste
attività. A questo quesito, appunto, intende rispondere la teoria aristotelica.

C. TEORIA DELL'ATTIVITÀ

318 - 1. IL PRINCIPIO DELL'ATTIVITÀ NORMALE - Il piacere, per Aristotele, pare risulti sia da uno
stato d'equilibrio nel quale i bisogni sono normalmente soddisfatti, sia dall'azione degli stimoli normali delle
differenti funzioni232. Sotto quest'ultimo aspetto, l'atto di mangiare, per chi ha fame, comporta piacere; sotto il
primo aspetto, lo stato del medesimo soggetto, che abbia mangiato secondo il suo appetito, è uno stato
d'equilibrio organico o di benessere, che costituisce un piacere positivo. Quanto poi agli stati dolorosi, essi
risultano da condizioni inverse, cioè sia da stimoli anormali o inadeguati ai bisogni (un rumore stridente, una
bevanda che scotti, una temperatura glaciale, un alimento o troppo abbondante o non sano, ecc.), sia da uno
stato generale di squilibrio, provocato da insoddisfazione di bisogni o da eccesso di attività.

2. DISCUSSIONE - Queste considerazioni d'Aristotele sono giuste, a patto che siano intese in vista di
definire delle medie. Infatti, da una parte, il piacere e la sofferenza possono essere collegati a semplici
fenomeni locali o accidentali, oppure essere prodotti da attività rispettivamente dannose (alcool) o utili (la
dieta in certe malattie; il parto, la dentizione, ecc.). In questi ultimi casi, c'è una lesione dei tessuti, che
spiega il dolore; ma non è men vero che quest'ultimo, può talvolta essere collegato accidentalmente ad
attività biologicamente benefiche o nocive.

D'altra parte, il dolore è spesso sproporzionato alla causa. Il mal di denti ha qualcosa di atroce; al
contrario, vi sono gravi malattie cardiache o polmonari, che sono appena avvertite. Il dolore e il piacere
sembrano dipendere non tanto dal genere di attività esercitata, quanto dalla più o meno grande ricchezza di
nervi sensitivi della regione interessata. Inoltre, piacere e dolore sono relativi non tanto al genere di attività
prodotta, quanto al grado di abitudine raggiunto nell'esercizio di questa attività. Attività anormali possono,
per effetto della abitudine, comportare un certo piacere. Al contrario, attività perfettamente normali sono
talvolta perfettamente penose: così l'atto di mangiare, per chi soffre di stomaco.
Infine, nell'ordine morale, non importa tanto il genere d'attività, quanto il suo accordo con l'insieme delle
attività. In altri termini, non sono il piacere e la sofferenza che possono servire come criterio del bene e del
male del soggetto. Ciò che è buono per una tendenza (la violenza per chi è in collera, l'alcool per chi ha
l'abitudine di bere), non è necessariamente buono per il soggetto. Ciò che è buono per un soggetto, può
essere cattivo per un altro. L'inibizione di certe tendenze può costituire una sofferenza necessaria e benefica.

319 - 3. COMPLEMENTI ALLA TEORIA D'ARISTOTELE Parecchi filosofi hanno tentato di


completare la teoria dell'attività, così da renderla più rigorosa.

a) La quantità d'energia spesa. W. Hamilton propone di tener conto, per spiegare il rapporto del piacere e
dell'attività, dell'energia spesa nell'azione. «La più perfetta energia è nello stesso tempo la più piacevole».
Ma qual è questa energia «più perfetta»? Grote risponde: «Perché ci sia piacere, bisogna che ci sia equazione
tra l'attività disponibile e l'attività spesa», cioè che la perfezione dell'attività si definisce in termini
quantitativi, e che il piacere corrisponde ad una attività media, esattamente situata tra l'eccesso e il difetto,
che comportano entrambi dolore. Spencer fa sue queste osservazioni 233.

232 Aristotele, Eth. ad Nicom., X, c. IV: «Il piacere dà compimento all'atto, non come una maniera d'essere che gli
sarebbe inerente, ma come una sorta di fine che vi si aggiunge, così come alla giovinezza si aggiunge la bellezza [...].
Queste due cose sono manifestamente unite e non possono essere separate, poiché senza atto non v'ha piacere, ed ogni
atto trova la sua perfezione nel piacere». «Come mai il piacere non dura continuamente? Il fatto è che tutte le facoltà
umane sono incapaci di agire continuamente; l'atto non è più egualmente vivo, ma subentra un rilassamento: ecco
perché anche il piacere si attenua».
233 H. Spencer, Principles of Psychology, 2a ed., 2 voll., Londra, 1870-72; tr. fr., I, p. 282: «Se si riconosce che ad
un'estremità stiano i dolori negativi dell'inazione chiamati bisogni ed all'altra estremità i dolori positivi dell'eccesso di
attività, ne deriva che il piacere accompagna le azioni poste fra questi due estremi [...]. Generalmente parlando, dunque,
il piacere accompagna le attività medie». Nello stesso senso, Wundt scrive (Grundzuge der physiologischen
Psychologie. 6a ed., 3 voll., Lipsia, 1908-11; tr. fr., Eléments de Psychologie physiologique, I, p. 557): «Il sentimento di
piacere è costantemente connesso a sensazioni moderate».
188
Contro queste teorie spesso si obietta che esse non si applicano alle attività superiori, intellettuali e morali:
non v'è possibile eccesso di scienza. di saggezza, di virtù. Ma questa obiezione non si regge, perché si tratta
qui solo delle attività sensibili, le sole che siano suscettibili, per le loro condizioni organiche, di piacere e di
dolore. Da questo punto di vista, le osservazioni di Grote e di Spencer sono fondate. Ma esse non
completano, a dire il vero, la teoria aristotelica, che collega così nettamente la perfezione dell'attività
sensibile alla nozione del giusto mezzo.

b) La qualità dell'energia. Rimane tuttavia questa difficoltà: se è vero che il piacere è collegato ad
un'attività media (e la media è stabilita secondo l'energia disponibile), esso dipende pure da altre condizioni:
in particolare dalla qualità dell'attività, cioè dalla qualità dell'eccitante. Vi sono, infatti, degli eccitanti che
sono sempre sgradevoli, ed altri che restano sempre gradevoli, qualunque sia la loro intensità. A questa
osservazione di Stuart, Ribot aggiunge che, perché una eccitazione sia gradevole, bisogna che sia accordata
ai bisogni ed alle tendenze dell'essere vivente.
Anche queste osservazioni sembrano fondate. Ma esse non aggiungono niente alla teoria d'Aristotele quale
aveva già notato (Eth. ad Nicom., X, c. XII) che «quel che è proprio di ciascun essere in virtù della sua
natura, è precisamente quello che per lui v'è di meglio e di più piacevole».

c) L'evoluzione delle specie. Spencer obietta al punto di vista finalistico che esso sembra costituire un
circolo vizioso: si definiscono il piacere e il dolore in rapporto alle tendenze, quando queste sono conosciute
soltanto attraverso il piacere ed il dolore che risultano dalle modalità del loro esercizio. Per risolvere questa
difficoltà, Spencer propone la sua teoria evoluzionistica: ricorrendo alla storia naturale di una specie, si saprà
perché essa ha tali bisogni e tali tendenze, e di conseguenza perché queste o quelle attività le sono utili o
dannose o spiacevoli (Principles of Psychology, 2 voll., 2a ed., Londra, 1870, tr. fr. I, p. 286).

Questa teoria, in realtà, non spiega nulla. Anzitutto, gli istinti non possono ridursi ad abitudini acquisite
(II, 149-150). D'altra parte, l'abitudine stessa non si spiega se non attraverso una tendenza anteriore, sulla
quale si innesta. L'adattamento, lungi dal derivare dall'ambiente e dalle abitudini, è anteriore allo stabilirsi
del vivente in un nuovo ambiente. Questi vi si adatta soltanto in quanto preadattato.

Quanto al rimprovero di circolo vizioso, questo si fonda su di un controsenso, poiché, per Aristotele, non
sono il piacere e il dolore che rivelano o manifestano la tendenza: essi vi si aggiungono soltanto. La tendenza
è manifestata dalla spinta verso un fine, dall'orientamento finalistico. Questo appunto è stato ben messo in
luce dalla psicologia contemporanea: «Le nostre tendenze, scrive Mc Dougall (Outline of abnormal
Psychology, Nuova York, 1929, pp. 224), non dipendono, quanto alla loro determinazione, dal piacere e dal
dolore, ma sono semplicemente modificate dal piacere e dal dolore che esse incontrano nel loro realizzarsi».
Si può dunque, senza alcun circolo vizioso, riferire il piacere e il dolore al modo d'esercizio delle nostre
tendenze.

4. CONCLUSIONI - In sostanza, i complementi coi quali s'è voluta arricchire la teoria d'Aristotele nulla in
realtà aggiungono, che essa non avesse già previsto. È però altrettanto certo che essa si trascina seco
parecchie difficoltà inerenti al carattere molto generale di un punto di vista che abbraccia tutti gli stati
affettivi e tende soltanto a definire una media, nel cui ambito numerose rimangono le eccezioni.
Si può sperare di togliere di mezzo queste difficoltà? Si è notato recentemente (cfr. Pradines, Psychologie
générale, I, pp. 301-396) che le ambiguità della teoria aristotelica sono inerenti alla sua stessa nozione del
piacere e del dolore sensibili che, facendo considerare questi stati come contrari di medesima natura, portano
a cercar loro delle cause ugualmente di medesima natura, vale a dire il modo d'esercizio delle tendenze.
Orbene, si dice, se è certo che ogni piacere è collegato alla soddisfazione dei bisogni e, quindi, all'attività, è
dubbio però che il dolore sia regolarmente il risultato di un'attività anormale o contrariata. La causa del
dolore sembra piuttosto da ricercarsi in disfunzioni o lesioni organiche, che possono talora accompagnare il
bisogno non soddisfatto (dolori della fame e della sete), ma che non possono in alcun modo passare per
fenomeni connessi all'attività del vivente.

Sembrerebbe pertanto, sotto questo aspetto, doversi assegnare per causa, al piacere, la soddisfazione di un
bisogno sensibile mediante l'appropriazione dell’oggetto capace di soddisfare questo bisogno, ed al dolore,
le turbe cui è soggetto l'organismo e che determinano l'esercizio di uno sforzo repulsivo (riflesso o
deliberato) tendente ad allontanare l'oggetto dannoso. Questi fenomeni sono irriducibili fra loro esattamente
come lo sono l'appetito concupiscibile e l'appetito irascibile d'Aristotele e degli Scolastici. Piacere e dolore
189
hanno dunque per causa gli oggetti che li provocano e che sono altrettanto eterogenei che il sì e il no, che il
dentro e il fuori, poiché, per il piacere, generato dal di dentro in relazione al bisogno, si tratta di una cosa da
possedere, e per il dolore, provocato dal di fuori, di una cosa da allontanare.
Queste osservazioni, per quanto riguarda il piacere ed il dolore sensibili, appaiono fondate e possono
aggiungere alla teoria di Aristotele una precisione formale di sicuro interesse. Senza obbligare ad
abbandonare una tesi che considera l'insieme degli stati affettivi e che deve il suo valore al criterio molto
generale che adotta, giustamente sottolineano l'eterogeneità funzionale del piacere e del dolore ed inducono
ad affermare che il contrario del piacere non è il dolore, ma la privazione, e che il contrario del dolore non è
già il piacere, ma l'assenza del dolore. Piacere e dolore non sono dunque contrari congeneri.
Qualitativamente diversi, il loro metro comune va cercato nella loro comune relazione col valore vitale , in
cui il piacere ha un indice positivo ed il dolore un indice negativo 234. E così, alla fine, queste considerazioni
ci riportano al senso generale della teoria d'Aristotele.

§ 2. Finalità del piacere e del dolore

320 - 1 GLI STIMOLI DEL PIACERE E DEL DOLORE - Il problema della finalità del piacere e del
dolore dipende evidentemente dalla soluzione data alla questione precedente. Se si ammette che piacere e
dolore sono eterogenei ed esprimono funzioni differenti, la loro rispettiva finalità immediata sarà definita da
queste stesse funzioni, che consistono, per il piacere, nel favorire la soddisfazione dei bisogni organici, e, per
il dolore, nel fare allontanare gli oggetti dannosi. Ma questa finalità è a sua volta al servizio di una finalità
più generale, e tale da valere per il complesso delle impressioni affettive, che consiste, come osserva
Aristotele, nel determinare o nel rafforzare l'attività utile, oppure, al contrario, nel frenare o inibire l'attività
pregiudizievole al vivente.
In entrambi i casi, o, se si preferisce, ad entrambi i livelli, non si tratterà che di una media. Spesso, infatti,
le reazioni affettive si prestano tardivamente o difficilmente all'interpretazione; e talvolta sono assenti o
sproporzionate. Ne consegue che, anche in questo campo, trova gran posto l'adattamento mediante «prove ed
errori».
Si obietta, ma a torto, contro il punto di vista finalistico, che ci sono dolori perfettamente inutili, tanto
sotto l'aspetto fisico che sotto quello morale: quelli, cioè, che si provano quando la situazione non può più
essere modificata, ovvero esclude ogni forma di adattamento. Si porta come esempio, nell'ordine fisico, il
dolore che succede ad una bruciatura e che si rivela perciò inutile (il dolore concomitante avrebbe avuto
l'utilità di provocare la ritrazione della mano), e, nell'ordine morale, il rammarico o il rimorso. Ma si nota
subito quanto d'inesatto comportino queste osservazioni. Il rammarico ed il rimorso hanno per evidente
finalità quella di provocare un ritorno all'ordine, mediante restituzione, riparazione, correzione, ecc.
Parimenti, il dolore prolungato pare abbia, se non questo fine, per lo meno la funzione di attirare l'attenzione
sulle cure richieste dal caso. Sta comunque il fatto che tale dolore cessa quando i tessuti lesi abbiano
assicurato da sé la loro protezione. Si può infine aggiungere che certe reazioni al dolore, che sembrano
costituire un inutile dispendio d'energia (gridi, lacrime, agitazione, ecc.), arrecano in realtà una certa quale
attenuazione al dolore.

2. LA FUNZIONE DELLA RAGIONE - La finalità delle impressioni affettive è dunque incompleta ed


imperfetta. Esse non ci fanno conoscere se non ciò che è immediatamente buono o cattivo per tale funzione o
tale organo, senza darci ulteriori moniti. Gli effetti lontani delle nostre attività non sono generalmente
profetizzati dagli stati affettivi. Ecco perché la finalità di questi stati è completata, nelle specie animali, dalle
indicazioni dell'istinto, in cui si hanno, ad un tempo, una tendenza ed una sorta di giudizio pratico sulle
circostanze dell'attività istintiva, - e nella specie umana dai lumi della ragione. A questa tocca infatti
costantemente il compito d'interpretare o di supplire le informazioni insufficienti o assenti della sensibilità
affettiva.
Per giustificare il fatto paradossale di una finalità naturale così imperfetta, bisognerebbe, pare, come
abbiamo già notato in Cosmologia (II, 109), collegare la sensibilità affettiva con le reazioni più elementari
dell'irritabilità. Non v'è dubbio che la sensibilità affettiva non può ridursi all'irritabilità. Ma aggiungendo a
questa un elemento specifico ed irriducibile, essa pare non abbia altro fine, negli esseri la cui complessità
rende insufficienti le reazioni dell' irritabilità, se non quello di provocare il vivente ad aggiungere agli
stimoli riflessi le risorse apportate dalla memoria istintiva e dalla ragione. Sotto questo aspetto, si
comprende come la finalità del piacere e del dolore, ridotti a semplici reazioni riflesse, non basti a se stessa,

234 Cfr. P. Ricoeur, Philosophie de la volonté, Parigi, 1950, t. I, p. 101-106.


190
e come essa non possa essere correttamente interpretata, se non in riferimento all'attività conoscitiva del
vivente.
191

CAPITOLO QUARTO

EMOZIONI, SENTIMENTI, PASSIONI

SOMMARIO235

Art. I - ANALISI DEI FENOMENI EMOTIVI. Fisiologia delle emozioni e dei sentimenti - Emozioni -
Sentimenti - Lo psichismo nell'emozione e nel sentimento - Lo psichismo emozionale. Psichismo
dei sentimenti - Identità delle emozioni e dei sentimenti.

Art. II - NATURA DEGLI STATI EMOTIVI. Teoria intellettualistica - Enunciazione e discussione - Teoria
fisiologica - Argomenti e discussione - Conclusioni - Risultati delle esperienze - Le reazioni non
emotive - Osservazioni di psicopatologia - La teoria psicofisiologica.

Art. III - LE FUNZIONI DEGLI STATI EMOTIVI. Teoria meccanicistica - Il disordine emozionale - Le
scariche nervose - Teoria biologica - Spiegazione dei fatti - Funzione regolatrice dei sentimenti -
L'emozione.

Art. IV - IL LINGUAGGIO EMOZIONALE - Origine delle reazioni emozionali sistematizzate - L'intervento


dell'analogia - Influenza dell'imitazione - L'interpretazione dei segni emozionali.

Art. V - LE PASSIONI. Definizioni - I due sensi della parola passione - Definizione - Passioni sensibili e
passioni razionali - Cause delle passioni - Le disposizioni ereditarie - L'intervento dell'intelligenza e
della volontà - Effetti delle passioni Effetti sull'intelligenza - Effetti sulla volontà - Finalità delle
passioni.

321 - Gli stati affettivi indicati sotto il nome di emozioni e di sentimenti compongono un gruppo di
fenomeni che si distingue dal gruppo delle sensazioni affettive di piacere e di sofferenza: mentre queste
ultime hanno per antecedente immediato una modificazione organica, i sentimenti hanno per antecedente
immediato uno stato psichico, d'ordine sensibile o intelligibile (immagine, idea, ricordo), il che vuol dire che
ogni sentimento è sentimento di qualche cosa, che esso, ad un tempo, procede da un oggetto e mira ad un
oggetto sotto un aspetto determinato. Così, provare affetto per Giovanni, significa al tempo stesso conoscere
Giovanni come amabile (conoscere Giovanni - amabile) e conoscerlo come causa dell'affetto che noi
proviamo. A questo gruppo di stati affettivi, precisamente, dobbiamo ora prestare la nostra attenzione.

Art. I - Analisi dei fenomeni emotivi


Si prendono spesso per sinonimi i termini d'emozione e di sentimento. Eppure, la differenza onde questi
due fenomeni si distinguono è di facile osservazione. Si vede immediatamente ciò che separa uno stato
placido e ininterrotto di gioia e di contentezza dall'esplosione brusca di gioia conseguente alla ricezione di
una notizia impazientemente attesa. Si tratta di sapere se, fra queste due sorta di fenomeni, è il caso di
ammettere una differenza essenziale o soltanto accidentale. Questo, appunto, è quanto si potrà decidere
attraverso l'analisi del contenuto degli stati d'emozione e degli stati di sentimento.

§ l - Fisiologia delle emozioni e dei sentimenti

235 Cfr. Aristotele, Eth. ad. Nicom. I, II (ed. Soulhié - Cruchon, «Archives de Philosophie», VII (l929). - S. Tommaso,
1a, q. 77-78, 1a IIa., q. 55-60. Ribot, Psychologie des sentiments, Parigi, 1896; La logique des sentiments, Parigi, 1905.
- Lange, Vie Grundlagen der Mathematischen Psychologie, Duisburg, 1865; Les émotions, trad. par. fr., Parigi, 1895. –
Sergi, Le emozioni, 1901. - Sollier, Mécanisme des émotions, Parigi, 1905. - W. James, La théorie de l'émotion, 1902. -
A. Gemelli, Emozioni e sentimenti (Contributi del Laboratorio di Psicologia, serie V, p. 147 sg., Milano, 1931). - P.
Janet, Les sentiments fondamentaux, 3a parte. c. I.; Les émotions, p. 449-496. - R. Dejean, L'émotion, Parigi, 1933. -
Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. II, p. 297-443; 530-537 (Larquier Des Bancels) e t. III. - J. P. Sartre,
Esquisse d'une théorie des émotions, Parigi, 1939. - J. Maisonneuve, Les sentiments, Parigi, 1948.
192

A. EMOZIONI

322 - 1. L'EMOZIONE - URTO - L'emozione, quando sia considerata in opposizione al sentimento, ha la


caratteristica di essere una perturbazione brutale e profonda della vita psichica e fisiologica; il sentimento,
invece, non soltanto non implica, ma addirittura esclude ogni disordine psichico e somatico. W. James ha ben
notato la differenza empirica delle due situazioni, definendo la prima come emozione-urto, e la seconda
come emozion- fine. Senonché l'uso dello stesso termine d'emozione per definire le due situazioni implica la
riduzione degli stati d'emozione e di sentimento ad un medesimo genere, di cui essi sarebbero soltanto due
specie. Questo è proprio il problema che noi cerchiamo di risolvere.

2. I COMPONENTI FISIOLOGICI DELL'EMOZIONE - Prendiamo qui in considerazione soltanto


l'emozione-urto. È un'emozione cui si uniscono fenomeni fisiologici estremamente complessi. Per studiarli,
sugli animali o sugli uomini, ci si serve di diversi apparecchi che consentono di ottenere misurazioni precise.
Ricordiamo, per esempio, il cardiografo e lo sfigmografo, che registrano i battiti del cuore e delle arterie, - lo
sfigmomanometro, che misura la pressione del sangue, - lo pneumografo, che registra le variazioni di volume
del torace o dell'addome per effetto della respirazione, - il galvanometro, che registra i riflessi galvanici
(modificazioni dello stato elettrico della pelle, ecc. Fig. 13). I casi patologici, è chiaro, sono qui
particolarmente preziosi, per l'ampiezza dei fenomeni somatici che essi comportano.
Le esperienze rivelano tre specie di reazioni fisiologiche: le reazioni viscerali, muscolari ed espressive
(fenomeni d'irradiazione).

323 - a) Reazioni viscerali. Queste


reazioni possono interessare,
contemporaneamente o parzialmente, tutti i
sistemi fisiologici: quello respiratorio
(variazioni del ritmo della respirazione, per
accelerazione o rallentamento; variazioni
della profondità della inspirazione; groppo
alla gola con conseguente sforzo
respiratorio), - quello circolatorio
(accelerazione o arresto brusco dei
movimenti del cuore, accentuazione o
indebolimento di questi movimenti,
fenomeni vasocostrittori, centrali o
periferici, con conseguente pallore), -
quello digestivo (arresto delle secrezioni
salivali o gastriche; arresto della digestione
in corso; paralisi degli sfìnteri, con
incontinenza urinaria), - quello glandolare
(eccitazione delle glandole lacrimali,
secrezione anormale di bile, con
conseguente itterizia, sudori freddi,
decolorazione brusca dei capelli).

L'adrenalina, prodotto della secrezione


delle capsule surrenali, ha effetti
particolarmente importanti sul tono cardio-
vascolare, sulla regolazione dello zucchero
nel sangue, sulla meccanica digestiva,
infine sul sistema nervoso simpatico, del
quale l'adrenalina serve a rafforzare o a
precisare la particolare attività. (J. Lefèvre,
Manuel critique de Biologie, Parigi, 1956,
p. 758-774).
193
b) Reazioni muscolari. Le emozioni comportano numerose reazioni muscolari riflesse: fremito, tremore
delle membra, paralisi dei membri inferiori; contrazione dei muscoli toracici, rizzarsi dei peli (i capelli che si
rizzano in testa), ecc.

c) Reazioni espressive. In questo modo vengono indicate le reazioni visibili espresse nell'atteggiamento del
corpo o nei lineamenti del volto (mimica). Sono queste le espressioni caratteristiche che ci permettono di
distinguere le emozioni altrui. Ci sono gesti e fisionomie specifiche della collera, della paura, dell'angoscia,
della sorpresa, della gioia intensa, dello spavento, ecc. A queste espressioni mimiche si aggiungono
movimenti generalmente male adattati in vista di cogliere, evitare o respingere l'oggetto che è causa
dell'emozione, ovvero di proteggersi o difendersi.

d) Il riso. Fra le reazioni emozionali comuni, il riso richiederebbe uno studio speciale. Ci limiteremo
invece a dare qui almeno qualche indicazione sulle sue forme e sulle spiegazioni che ne sono state proposte.

Sarà bene anzitutto distinguere il riso di gioia dal riso comico, che sono di natura differente, benché
possano aversi insieme e dipendano dai medesimi meccanismi anatomo-fisiologici. Il riso di gioia è prodotto
da un'eccitazione piacevole e traduce una sorta di scarica emotiva del sistema nervoso. Non si tratta di un
riso peculiare della specie umana, giacché se ne hanno esempi in certi animali, come effetto di carezze o di
solletico (Zuckermann, The social life of monkeys and apes, ne dà diversi esempi). Il riso comico, al
contrario, è peculiare della specie umana, in quanto è dato dalla percezione di un rapporto. Si sono proposte
parecchie teorie sulla natura di questo rapporto.

T. Hobbes (Human Nature, in Elements of Law, Natural and Politic, Londra, 1889; tr. fr. De la nature
humaine, «Oeuvres philosophiques», Neuchatel, 1877, t. IX, p. 13) fa dipendere il riso dal «sentimento
improvviso di trionfo, che nasce dalla subitanea concezione di qualche superiorità, in confronto all'inferiorità
altrui o alla nostra inferiorità anteriore». È una spiegazione valida per certi casi, ma non per tutti. A.
Schopenhauer, dopo Kant, concepisce il riso come risultato della percezione improvvisa di un disaccordo fra
un concetto astratto e l'oggetto concreto sussunto sotto questo concetto (è il caso delle caricature e delle
parodie e, in generale, dei contrasti: ricordiamoci di quell'Augusto, maestoso e solenne, che una parodia
farebbe rispondere a Cinna con questo alessandrino: «Vedo, povero vecchio, che ti fa male il cappello»
(Schopenhauer, Die Welt, ed. W. Ernst, Lipsia, 1.l, § 13; 2a parte, c. VIII, p. 798 sg., cfr. tr. it., 3a ed., Bari,
1928). Questa teoria valorizza giustamente il giuoco di contrasto, ma il ricorso, ch'essa compie corrivamente,
al conflitto fra concetto ed intuizione sembra più discutibile: molto spesso l'imprevisto e l'incoerenza di una
situazione bastano a suscitare il riso. H. Bergson, a sua volta (Le rire. Essai sur la signification du comique,
Parigi, 1900) ha proposto una teoria del comico, la cui parte essenziale sta nella considerazione che il riso si
manifesta ogni volta che in luogo di una reazione intelligente e coerente che si attende da un individuo, si ha
una reazione automatica e stonata. È questo, per esempio, il caso del paralitico il quale, dopo aver deciso di
uccidersi ed avere acceso all'uopo un braciere a carbone, spalanca la finestra affinché il fumo non lo faccia
tossire. Fr. Jeanson (Signification humaine du rire, Parigi, 1950), critica vivamente la teoria bergsoniana e
dimostra che «il riso è un fenomeno intenzionale», e che «la sua tensione psichica è dovuta al suo perpetuo
dissidio fra i due atteggiamenti essenziali secondo i quali l'uomo si sforza verso il pieno godimento emotivo
o verso il perfetto recupero di se stesso nell'immaginario» (p. 201).

324 - 3. CARATTERE RIFLESSOGENO DELLE REAZIONI - La maggior parte delle reazioni


emozionali sono meramente riflesse. Esse sono provocate automaticamente dall'urto emozionale. Si può anzi
dire che l'emozione perde in specificità, precisamente nella proporzione in cui la reazione volontaria ed
acquisita si sostituisce alla reazione riflessa. L'emozione è, come tale, al di fuori del giuoco della volontà.
Potrà bensì dipendere dalla volontà e dall'abitudine il raffrenare o addirittura l'inibire parzialmente le
manifestazioni emotive, ma non il produrle direttamente a piacimento.

Abbiamo visto (171) che alcuni soggetti producono a piacimento certe espressioni emotive. Ma si tratta
di questo: o l'emozione è una reazione a ricordi evocati volontariamente e viene a trovarsi, così, ancora al di
fuori del circuito volontario, - o (casi citati da Hartenberg) ci si può chiedere se si tratti veramente d'emozioni
propriamente dette.

B. SENTIMENTI
194
325 - 1. L'ORGANICITÀ NEI SENTIMENTI - Nei sentimenti, le reazioni fisiologiche si possono cogliere
molto più difficilmente. Si potrebbe anzi molto spesso supporre che non ve ne siano e che il sentimento sia
un fatto puramente psichico. Una lettura che piace, la simpatia rattristata che in noi destano, le angustie del
prossimo, la gioia che ci procura la vista di un bel paesaggio, l'ammirazione che si prova di fronte ad una:
bella opera d'arte: questi stati affettivi pare non siano contrassegnati da alcun fenomeno organico. Ma così
non è: ogni fenomeno affettivo comporta reazioni somatiche.

a) Atteggiamenti ed espressioni mimiche. Vi sono numerosi casi in cui i sentimenti propriamente detti (le
emozioni-fini di James) sono collegati ad espressioni esteriori caratteristiche. Questo avviene, per esempio,
nella tristezza e nella malinconia, che determinano uno stato di prostrazione fisica specialissimo,
accompagnato da reazioni viscerali più o meno accentuate.
Esiste d'altra parte una vera e propria mimica collegata ai sentimenti, come alle emozioni forti. Il sorriso,
con le sue forme varie (benevolo, canzonatorio, affettuoso, sardonico, sdegnoso, ecc.), - la smorfia, che
esprime disgusto, sazietà, irritazione, dispetto, - l'atto di grattarsi in testa (stato d'incertezza), - le lacrime, - il
lampeggiare di uno sguardo, - il tono e l'accento nella parlata, sono tutte autentiche manifestazioni somatiche
dei sentimenti. Vero è che esse non hanno. l'automatismo delle espressioni emozionali. Il carattere moderato
degli stati di sentimento lascia alla volontà un margine importante per attenuare, modificare o frenare
l'espressione esteriore dei sentimenti. E’ persino possibile che talvolta queste espressioni dipendano da
semplici convenzioni sociali (espressioni di tristezza, di simpatia, di rispetto, imposte o suggerite: dalle
consuetudini e dalla cortesia). Rimane però il fatto che, lasciati al loro dinamismo naturale, i sentimenti si
traducono, come le emozioni, attraverso atteggiamenti ed espressioni mimiche caratteristici.

326 - b) Reazioni cenestesiche. A parte la questione delle reazioni espressive, troviamo ancora che i
sentimenti sono collegati a reazioni cenestesiche diverse. Recenti esperienze hanno messo bene in luce
questo punto: ogni stato di sentimento comporta fatti soggettivi riferentisi a variazioni del ritmo respiratorio,
del battito del polso, a sensazioni localizzate specialmente al torace, alla testa, alla gola 236. Questi fenomeni
organici possono essere debolissimi, e di solito, appunto, lo sono. Ma osservazioni metodiche ne segnalano
la presenza costante e dimostrano che i soggetti sottoposti ai tests sperimentali non provano sentimenti
soggettivi se non quando percepiscono nel loro organismo sensazioni organiche. Ove manchino queste
sensazioni, mancano pure i sentimenti soggettivi. D'altra parte, gli esami sperimentali svelano chiaramente,
in quello che i soggetti hanno provato, la maniera di sentire particolare all'organismo di ciascuno di essi.

Ecco alcuni verbali delle esperienze (A. Gemelli, op. cit., 158-160): Sentimento di gioia: «All'inizio
dell'esperienza, un profondo sospiro; ho avuto l'impressione di una grande vitalità». «L'apparizione dello
stato di piacere è stata accompagnata da una respirazione più frequente e più profonda». «Ho provato nella
bocca come il gusto del cibo che preferisco, e al tempo stesso un sentimento di piacere». Sentimento di
ripugnanza: «Ho avuto come una sensazione di disgusto, accompagnato da uno strano sentimento di nausea,
quasi che, invece di una cosa ripugnante moralmente, si trattasse di una cosa ripugnante materialmente» «Il
sentimento di ripugnanza s'è manifestato con una specie di oppressione all'addome». Sentimento di tristezza:
«Mentre stavo per terminare la lettura, mi accorsi che respiravo irregolarmente, come a sbalzi [...]. Mi sono
sentito umidi gli occhi. Ho avuto immediatamente lo spirito invaso da un sentimento generale di depressione;
m'è sembrato che la mia respirazione divenisse irregolare; ho avuto una fitta al torace».

2. NATURA DEI FENOMENI ORGANICI - Si tratta di stabilire il rapporto che intercorre fra i fatti
psichici e i fatti organici. Su questo punto, bisogna notare che tutte le prove indicano che i soggetti
considerano le impressioni psichiche come costituenti l'elemento fondamentale del sentimento. In numero
abbastanza considerevole i soggetti dichiarano di non accorgersi della modificazione organica, se non dopo
l'atto di conoscenza. Diversi, poi, non sanno dire se lo stimolo è stato seguito prima dalla sensazione
organica o dallo stato affettivo. Ma le sensazioni organiche come i movimenti di piacere o di disgusto,
d'attrazione o di repulsione, sono sempre considerati come condizionati da uno stato di coscienza
(rappresentazione). Essi accompagnano lo stato affettivo, ma non lo costituiscono.

Si possono precisare queste osservazioni affermando che i fenomeni organici contribuiscono a costituire la
rappresentazione stessa, e che lo stato affettivo è la coscienza che simultaneamente si ha, per esempio, della
rappresentazione come ripugnante e delle reazioni organiche. Infatti, se una rappresentazione è ripugnante e

236 Cfr. A. Gemelli, Contributi del Laboratorio di Psicologia, serie V, Milano, 1931, p. 147-173.
195
determina la nausea, ciò è dovuto al fatto che la qualità di ripugnante è entrata nella costituzione dell'oggetto
proprio per effetto dei fenomeni organici che accompagnano la produzione dell'immagine. Il processo
completo è dunque il seguente: stimolo, idea dell'oggetto come ripugnante, reazioni organiche costituenti
l'oggetto come effettivamente ripugnante, stato affettivo o coscienza delle reazioni organiche. Il sentimento o
stato affettivo è dunque differente e, logicamente almeno, posteriore rispetto alla rappresentazione. Questo
processo dà ragione del fatto che spesso lo stato affettivo è meramente fittizio e non vissuto, come quando al
racconto di delitto si esclama «Che cosa orribile!», o pressappoco: esclamazioni che non corrispondono ad
alcuna emozione reale. Quando manchino reazioni organiche che determinano la costituzione dell'immagine
come orribile, non è possibile alcun sentimento (o coscienza d'emozione), e tutto si riduce ad esclamazioni di
pura convenzione. Altre volte, invece, la reazione emotiva, cioè la coscienza del delitto come orribile,
dell'oggetto come ripugnante, attiverà col suo proprio intervento i fenomeni fisiologici (pallore, tremito,
nausea, ecc.) che hanno contribuito a costituire la rappresentazione sotto l'aspetto orrifico o ripugnante.
Questa reazione emotiva si alimenterà con la sua stessa espressione: la coscienza secondaria di nausea e di
vomito o d'orrore tenderà a svilupparsi, ad intensificarsi, ad agire in certo qual modo in forma autonoma. Il
fatto di sentirsi inumiditi gli occhi alla lettura di un dramma commovente condizionerà un nuovo processo
emotivo (respirazione irregolare, fitta al torace), la cui causa immediata non va ricercata nella
rappresentazione in sé, ma nella coscienza dei fenomeni emotivi antecedenti.

§ 2 - Lo psichismo nell' emozione e nel sentimento

327 – 1. LO PSICHISMO EMOZIONALE - L'emozione propriamente detta ha per effetto di sconvolgere


momentaneamente, ma brutalmente, lo psichismo, e di sommergerlo sotto la tempesta affettiva e sotto le
sensazioni derivanti dalle reazioni viscerali. Proprio per ciò, le reazioni di difesa e d'adattamento sono
generalmente fra le più inette, talora addirittura completamente inefficaci o assurde. L'uomo in collera grida
e gesticola a casaccio. La paura determina movimenti di fuga disordinati; oppure inchioda sul posto, proprio
nel momento in cui si dovrebbe fuggire. L'emozione sembra paralizzare tutte le funzioni di controllo e
d'inibizione ed introdurre un disordine profondo in tutto lo psichismo.

2. LO PSICHISMO DEI SENTIMENTI - Ben altra cosa è dei sentimenti. Lungi dal turbare lo psichismo,
essi sembrano esercitare un'azione regolatrice sulla vita individuale, con lo stabilire o il ristabilire
costantemente uno stato d'equilibrio fra le differenti attrazioni o repulsioni relative alle circostanze della vita.
Essi conservano l'interesse alla vita stabilendola in uno stato di adattamento continuo mediante il giuoco di
oscillazioni affettive così regolari che talvolta la vita affettiva sembra essersi fatta perfettamente stazionaria.
In antitesi alla tempesta dell'emozione, lo psichismo del sentimento potrebbe caratterizzarsi come un placido
corso d'acqua.

328 - 2. IDENTITÀ O NO DELLE EMOZIONI E DEI SENTIMENTI .- Dal paragone che abbiamo ora
fatto, risulta che, se bisogna ammettere, fra i sentimenti e le emozioni, una identità fondamentale, in quanto
sia gli uni che le altre sono fatti contemporaneamente psichici ed organici, che hanno come antecedente
immediato una rappresentazione o uno stato di coscienza, è pure opportuno sottolinearne le differenze.
Queste sono tali, infatti, da dar luogo a comportamenti opposti, e persino, in certo qual modo, di senso
contrario, in quanto l'emozione si presenta sempre come la crisi del sentimento corrispondente. Avremo
modo, del resto, di chiederci più avanti se queste differenze siano irriducibili, o se non siano più apparenti
che reali.

È evidente, così, quanto sia insufficiente il criterio proposto da Klages 237 per distinguere le emozioni dai
sentimenti. Se si conviene, egli afferma, che in ogni stato affettivo si scorgono due aspetti inseparabili: la
tinta, o tonalità, e l'intensità, si dirà che un affetto merita il nome di sentimento ove la tinta prevalga
sull'intensità e che merita il nome d'emozione nel caso inverso. A questa stregua, l'afflizione, la gioia serena,
il malcontento sarebbero sentimenti; la collera e lo sbigottimento sarebbero invece emozioni. Obietteremo
che l'afflizione, la gioia serena, il malcontento possono crescere in intensità senza divenire emozioni,
secondo le caratteristiche a queste da noi riconosciute, e che a loro volta la collera e lo sbigottimento,
placandosi e trasformandosi in sentimenti, non solo perdono in «intensità», ma cambiano, per così dire, la
loro specie. Diremo pertanto che non è attraverso la sola intensità che si possono distinguere le emozioni dai
sentimenti. Vi sono sentimenti intensi che non sono emozioni, ed emozioni deboli che non sono sentimenti.

237 Cfr. G. Thibon, La science du caractère, Parigi, 1933, pp. 58-59.


196
Bisognerebbe qui tener conto delle differenze di profondità affettiva. Certi stati affettivi possono trovarsi
ad un tempo in chiave emozionale ed in chiave sentimentale: si pensi per esempio alla gioia ed alla
indignazione. Altri possono essere profondi, escludendo tuttavia la forma emozionale: come la venerazione.
Vi sono poi sentimenti che acquistano in profondità quel che perdono in veemenza emozionale. Non sono,
infine, sempre gli emotivi che «sentono» più profondamente degli altri.

Art. II - Natura degli stati emotivi


329 - Il duplice aspetto, psichico e somatico, dei fenomeni emotivi ha dato luogo a due teorie molto
differenti per spiegare la natura di questi fenomeni e la relazione fra i fatti di coscienza e le manifestazioni
organiche. Si tratta delle teorie intellettualistica e fisiologica.

§ l - Teoria intellettualistica

1. ENUNCIAZIONE - La teoria intellettualistica, difesa da Herbart, considera l'emozione come coscienza


di un rapporto di convenienza o di sconvenienza fra rappresentazioni attuali. È il caso del candidato che
crede di aver superato bene l'esame: la notizia del suo successo fa sorgere un'emozione di gioia; quella del
fallimento, un'emozione di tristezza. L'emozione è, molto precisamente, la coscienza che veniamo ad avere
di un accordo o di un conflitto delle nostre idee con la realtà.

2. DISCUSSIONE - Questa teoria è evidentemente manchevole. Un rapporto percepito fra


rappresentazioni è una cosa puramente intellettuale. Esso può avere conseguenze emotive, ma si distingue
dall'emozione, che è un fenomeno affettivo e non una semplice conoscenza.
Si oppongono inoltre a questa teoria dei fatti la cui interpretazione è assai discutibile. Si tratta dei differenti
casi di emozioni e di sentimenti senza oggetti (fobie, angoscia, tristezza indeterminata, ecc.), come pure dei
fenomeni ciclotimici (alternanze di periodi più o meno lunghi di depressione e di esaltazione, senza che il
malato possa dare una spiegazione plausibile di queste oscillazioni morbose, e neppure essere toccato da
eventi lieti durante il periodo depressivo o da eventi tristi durante il periodo d'esaltazione). Alla stessa
maniera, si dà anche il caso degli ottimisti o dei pessimisti di temperamento, che cercano costantemente
come giustificare una serenità o una malinconia derivanti banalmente da una buona o cattiva cenestesia. Si sa
infine che gli attori possono provare emozioni semplicemente per il fatto di mimare le manifestazioni
normali di queste emozioni. Da tutto ciò, si dice, risulterebbe che l'emozione può essere indipendente da ogni
fatto di conoscenza.

In realtà, questi ultimi argomenti stabiliscono bene, contro la teoria intellettualistica, che i fenomeni
emotivi non possono ridursi puramente e semplicemente ad un rapporto tra rappresentazioni, e che i fatti
psicologici ne sono parte integrante. Ma gli stessi argomenti non dimostrano che questi fenomeni siano
indipendenti da ogni rappresentazione, perché, in tutti i casi prospettati, c'è modo di riconoscere la presenza
di fatti psicologici più o meno precisi (percezioni o immagini). Si tratta di sapere in quale rapporto si trovino
questi fatti psicologici con i fatti fisiologici.

La tesi intellettualistica si presenta spesso sotto una forma meno netta, ma altrettanto poco verosimile,
riportando il sentimento ad una coscienza di una tonalità affettiva, collegata ad una rappresentazione
intellettuale. Per esempio, la gioia che io provo nel vedere Pietro consisterebbe nella coscienza del piacere
che mi procura la sua presenza, reale o immaginata. In questo modo, il sentimento sarebbe coscienza di sé,
ma non coscienza d'oggetto. Sennonché ciò non pare esatto. Il sentimento non è coscienza di sé se non
riflessivamente, in atto secondo. Immediatamente e direttamente, esso è coscienza di qualche cosa in quanto
questa sia investita di un valore (positivo o negativo): la mia gioia di vedere Pietro è coscienza di Pietro -
amabile (321). È la cosa stessa, sotto tale o tal altro aspetto affettivo, che interessa il sentimento
(intenzionalità affettiva); e questo, di conseguenza, né può essere ridotto a rappresentazioni, né può essere
concepito come aggiunta ad una rappresentazione, poiché esprime l'aspetto sotto il quale tale
rappresentazione è data (oggetto affettivo). Non è pertanto ammissibile considerare il sentimento, come
fanno certi filosofi esistenzialisti (Scheler), come strumento della conoscenza. Il sentimento, è pur vero,
rivela il valore, cioè il rapporto dell'essere rispetto alle tendenze. Ma l'essere, in sé, è oggetto soltanto del
pensiero; e il sentimento è necessariamente funzione della percezione dell'oggetto 238.

238 Cfr. J. P. Sartre, L'imaginaire, p. 93-95.


197

§ 2 - Teoria fisiologica

330 - Questa teoria che consiste nel far coincidere l'emozione con la coscienza di modificazioni
cenestesiche, è stata presentata sotto diverse forme. Per W. James, l'emozione consiste soprattutto nella
coscienza delle modificazioni muscolari dell'organismo. Per F. Lange, essa è innanzi tutto la coscienza delle
reazioni vasomotrici, dipendenti dal gran simpatico. Per Sergi, le reazioni viscerali sono quelle che contano
di più. In questi tre casi, le emozioni si spiegano con i fatti periferici e non con le rappresentazioni. Di qui il
nome di teoria periferica spesso data a questa opinione.

1. ARGOMENTI - I fenomeni organici, dice W. James, sono non già effetti dell'emozione, contrariamente
a ciò che si pensa comunemente, ma le cause dell'emozione. Quest'ultima non è nient'altro che la percezione
confusa che noi abbiamo delle modificazioni organiche. «Secondo il senso comune, noi perdiamo la nostra
fortuna, e conseguentemente siamo afflitti e piangiamo; veniamo insultati, quindi ci irritiamo e percuotiamo.
Io pretendo che questo ordine sia inesatto: cioè che noi siamo afflitti perché piangiamo, irritati perché
percuotiamo, spaventati perché tremiamo». Per comprendere che così appunto stanno le cose, basta chiedersi
che cosa resterebbe dell'emozione, se si eliminassero tutti i fenomeni organici esterni ed interni. Non
resterebbe altro che una vaga e fredda: rappresentazione, senza alcun rapporto con uno stato affettivo. Si sa
del resto che per sopprimere l'emozione, basta inibire le reazioni somatiche abbozzate e produrne di
contrarie. Se vi sentite prendere dalla collera, resistete a tutte quelle manifestazioni che ne insorgono,
distendete i vostri lineamenti, disserrate i pugni, parlate pacatamente, e la vostra collera cadrà
istantaneamente. Ciò prova che essa era fatta di queste modificazioni organiche che voi avete impedito.

331 - 2. DISCUSSIONE - La discussione dell'ipotesi periferica non è fruttuosa se non sul terreno
sperimentale. Esporremo rapidamente le differenti esperienze che sono state fatte per verificarla.

a) Esperienze di Bechterew. Le esperienze di Bechterew si sono basate sulla mimica emotiva. Egli privava
diversi animali (gatti, porcellini d'India, rane) della corteccia cerebrale e produceva in questo modo un'atrofia
ed una disorganizzazione del fascio piramidale che unisce la corteccia al bulbo e che trasmette ai nuclei
bulbari dei nervi motori gli impulsi motori. Teoricamente, la mimica doveva essere impossibile. Orbene,
Bechterew constata che essa continuava a prodursi, ma senza alcuna spontaneità, e unicamente in risposta ad
eccitazioni esterne o viscerali. Al contrario, ogni specie di mimica scompare non appena si sopprime il
talamo ottico. Si poteva concludere da queste esperienze, da una parte che la mimica può costituire un
fenomeno puramente automatico (casi degli animali scerebrati con conservazione dei talami ottici), e
dall'altra parte che essa è in dipendenza di questi talami ottici.

b) Esperienze di Sherrington. Queste esperienze si sono basate su animali apestetizzati. Sherrington


sezionò su diversi cani il midollo spinale nella regione cervicale, in modo da rompere tutte le connessioni tra
il cervello e i visceri toracici, addominali e pelvici, come pure le connessioni tra il centro vaso-motore
bulbare ed i vasi sanguigni. In due soggetti, Sherrington sezionò anche i due pneumogastrici. Così il cervello
si trovava quasi completamente isolato ed incapace di ricevere gli influssi centripeti. È ciò che si chiama
apestesia, cioè assenza di sensibilità afferente.
Si trattava sempre di giudicare circa la presenza o l'assenza di emozioni in base alla mimica degli animali.
Ebbene, si constatò che tali animali conservavano intatte tutte le manifestazioni emotive. «Non potemmo
affatto scoprire traccia, scrive Sherrington, di diminuzione o di cambiamento nel carattere emotivo
dell'animale. Tutti coloro che hanno visitato e visto gli animali (apestetizzati) hanno completamente
condiviso la mia opinione e quella delle altre persone del laboratorio, secondo cui essi provavano intense e
vive emozioni»239. Così si esprimeva Sherrington. Ma Revault D'Allones contestava questa conclusione,
osservando che le esperienze provavano bensì la possibilità di una mimica automatica in animali
apestetizzati, conformemente ai risultati delle esperienze di Bechterew, ma non necessariamente la realtà di
autentiche emozioni.

c) Esperienze di Pagano. Per mezzo di ingegnose esperienze (iniezioni di curaro nel nucleo caudato, senza
alcuna lesione delle parti vicine al nucleo caudato), il fisiologo italiano Pagano dimostrò che l'eccitazione del
terzo anteriore e del terzo medio del nucleo caudato determina la mimica della paura, mentre l'eccitazione del

239 Testo citato da J. De La Vaissière, Éléments de Psychologie expérimentale, p. 236.


198
terzo posteriore provoca la mimica della collera violenta. Al contrario, l'eccitazione di altre parti del cervello
non determina alcun fenomeno emozionale. Si concludeva da ciò, con Piéron «Journal de psychologie», VII,
1910, p. 441-443), che il nucleo caudato è la sede dei fenomeni emotivi di paura e di collera.
Tuttavia, Revault D'Allones obietta di nuovo che il nucleo caudato, nelle esperienze di Pagano, appariva si
come la condizione necessaria delle emozioni, ma non come loro condizione sufficiente, Le sensazioni
viscerali sembravano avere una parte importante e persino essenziale nel giuoco delle emozioni. La mimica,
dipendendo dall'eccitazione del nucleo caudato, non sarebbe dunque che una delle componenti
dell'emozione. C'era dunque bisogno di precisare ancora queste esperienze. (cfr. Revault D'Allones, Les
inclinations, Parigi 1907).

332 - d) Esperienze di Gemelli. Queste esperienze riuniscono i tre procedimenti precedenti: scerebrazione,
apestesia, eccitazione del nucleo caudato. Condotte su cani e gatti, esse hanno confermato i risultati ottenuti
da Sherrington: gli animali apestetizzati manifestano un comportamento emotivo simile a quello degli
animali normali. D'altra parte, Gemelli stabilisce con le sue esperienze, contro Revault D'Allones, che si
tratta realmente di fenomeni affettivi e non di una semplice mimica automatica: infatti, gli animali
apestetizzati e scerebrati ad un tempo non manifestano più alcuna mimica emotiva. Ne deriva che il talamo
ottico è necessario alla produzione di un fenomeno emozionale, ma che esso è soltanto un centro motore
della mimica emotiva, e non un centro dell'emozione.
Quanto all'opinione di Piéron sul significato del nucelo caudato, Gemelli stabilisce, per mezzo di diverse
esperienze su gatti apestetizzati e scerebrati, che questi animali non reagiscono con alcuna mimica emotiva
all'eccitazione del nucleo caudato. Questo non è dunque un centro dell'emozione. La teoria centrale di
Pagano non si difende, dunque, più della teoria periferica. Infine, relativamente alla funzione delle sensazioni
viscerali, nuove esperienze (iniezioni di curaro nel nucleo caudato di due cani apestetizzati, seguite da
fenomeni di furore nell'uno e di paura nell'altro) provarono che le sensazioni viscerali non sono necessarie
alla produzione dei fenomeni emotivi.

§ 3 - Conclusioni

333 - 1. RISULTATI DELLE ESPERIENZE - Le esperienze che abbiamo riferito permettono di


concludere che la teoria fisiologica è fittizia sotto tutte le sue forme, viscerale (poiché si possono verificare
delle emozioni nonostante le interruzioni delle vie nervose tra le viscere e il cervello), - centrale (poiché la
corteccia cerebrale appare come un centro motore della mimica), - periferica (poiché le modificazioni
organiche appaiono come posteriori al fatto psichico) 240.

2. LE REAZIONI NON EMOTIVE - Una serie di osservazioni concerne i fatti di reazioni somatiche della
stessa natura di quelle per mezzo delle quali si manifesta l'emozione e che non comportano tuttavia alcun
carattere affettivo. Così il fremito prodotto dal freddo assomiglia al fremito della paura, una marcia veloce
accelera il ritmo cardiaco esattamente come fa la collera. Ma non c'è, in questi casi, né paura né collera. Così
pure, l'iniezione di adrenalina nel sangue determina uno stato generale di sovreccitazione che non ha nulla in
comune, secondo la testimonianza di tutti i soggetti sottoposti all'esperimento, con una emozione autentica.
D'altra parte, è certo che gli stessi fenomeni organici si ritrovano in emozioni di qualità affatto differente:
la paura, la collera, la gioia e la tristezza si assomigliano fisiologicamente sotto molti punti di vista. Questo
insieme di fatti conferma i risultati delle esperienze: i fenomeni organici non hanno per se stessi carattere
emotivo.

334 - 3. OSSERVAZIONI DI PSICOPATOLOGIA - Queste conclusioni negative sono confermate da


parecchie osservazioni di psicopatologia. P. Janet ha notato numerosi fatti che provano la relazione esistente
tra le emozioni e le rappresentazioni, Il caso tipico è quello degli isterici sotto l'effetto di una anestesia
completa della pelle e dei visceri, e che provano tuttavia violente emozioni. (Névroses et idées fìxes, t. I, p.
345). D'altra parte, P. Janet constata che nelle nevrosi c'è una specie di «scarto» fra l'emotività e la cenestesia
inferiore, ciò che è inconciliabile con la teoria periferica (ibid., p. 112).

240 Cfr. H. Piéron, «Journal de Psychologie», VII (1910), p. 443: «Il Gemelli, in proposito, arriva alla conclusione che
ogni teoria periferica è assolutamente contraddetta dalle sue esperienze fisiologiche, ed io credo che sarebbe infatti
difficile che le cosiddette teorie "fisiologiche" possano riaversi dopo il colpo inferto loro da questo fascio di nuovi
apporti».
199
4. LA TEORIA PSICOFISIOLOGICA – È dunque impossibile dubitare della funzione determinante delle
rappresentazioni nei fenomeni affettivi. Questi fenomeni sono provocati da percezioni, immagini o ricordi.
Ma non sono fenomeni puramente psichici. Essi consistono essenzialmente in movimenti affettivi, la cui
sede organica si deve stabilire nella corteccia cerebrale, e, più precisamente ancora, per certuni di essi, nel
nucleo caudato, - e in reazioni organiche, di cui il soggetto ha coscienza per mezzo di sensazioni
cenestesiche. Queste sensazioni sono la conseguenza e non la causa. dell' emozione, e sembra che proprio
per mezzo di queste l'emozione diventi cosciente. Tale è la spiegazione psicofisiologica suggerita da tutte le
esperienze241. Quanto alla spiegazione filosofica di questi fenomeni è evidente che essa sarà possibile
soltanto se si ammette la realtà di un principio unico di questi fenomeni psichici ed organici ad un tempo.

Art. III - La funzione degli stati emotivi


335 - Il problema della finalità degli stati emotivi viene costantemente posto in funzione della emozione-
urto, che è apparsa sempre come una specie di mistero agli psicologi, a causa del disordine affettivo ed
organico che essa comporta. Tuttavia, se è vero che emozioni e sentimenti sono fondamentalmente identici e
differiscono solo in grado, c'è da pensare che le due serie di fenomeni si spiegheranno nello stesso modo e
risponderanno, in gradi diversi, alla medesima finalità.

§ l - Teoria meccanicistica

Parecchi psicologi, non potendo scoprire una finalità alla emozione, o per ostilità sistematica ad ogni
nozione di finalità, hanno tentato di spiegare adeguatamente questo fenomeno con l'intervento dei fattori
meccanici.

1. IL DISORDINE EMOZIONALE - Abbiamo già notato i segni, psichici ed organici ad un tempo, del
disordine emozionale, che provoca in generale uno stato di non adattamento alle circostanze, le cui
conseguenze possono talvolta essere funeste. Questo appunto si osserva a proposito delle emozioni violente.
Ma, attenendosi ai sentimenti, si fa osservare che la maggior parte delle loro manifestazioni sembrano prive
di utilità. In particolare, tutto ciò che attiene alla mimica ha soltanto interesse sociale e serve semplicemente
ad avvertire altri del corso della nostra vita affettiva. Utilità secondaria ed estrinseca, che è d'altra parte lungi
dall'essere perfetta, poiché la mimica dei sentimenti, essendo in gran parte dipendente dalla volontà, ha solo
un valore relativo.

2. LE SCARICHE NERVOSE - Sarebbe meglio, aggiungono i teorici del meccanicismo, rinunciare a


scoprire una funzione, cioè una utilità reale, attribuibile alle emozioni ed ai sentimenti e spiegarli
meccanicamente come scariche nervose e come reazioni muscolari che queste producono. L'emozione
sarebbe una scarica massiccia dell'energia nervosa verso la periferia, una specie di inondazione, che, causa
del volume inusitato d'energia messa in movimento, invece di seguire le vie precedentemente definite oppure
gli avviamenti segnati dagli omocronismi o sintonizzazioni (II, 123) si distribuisce in un modo qualsiasi
attraverso l'organismo e determina per ciò stesso delle reazioni anormali ed incoerenti 242.
Tutto va pertanto spiegato dal punto di vista quantitativo. Il sentimento è una reazione motrice governata
da una distribuzione regolare e calma d'energia nervosa. L'emozione è una reazione motrice irregolare e a
sbalzi prodotta da una irradiazione massiccia d'energia nervosa. Gli stati emotivi non sono dunque fatti per
qualche cosa. Ma essi possono servire a qualche cosa: la loro utilità, del resto mediocre, sta tutta nell'uso che
se ne può fare, individualmente e socialmente; essa è un risultato, non un principio. Non v'è finalità: si tratta
solo di meccanismi.

§ 2 - Teoria biologica

336 - Il meccanismo non è mai una spiegazione, perché non è una causa reale, ma un effetto (II, 70-71,
157). Questa osservazione s'impone ancora qui. Se l'emozione è una tempesta ed una inondazione, ed il

241 Questa tesi non va confusa con la teoria cerebrale o centrale di Sollier (Mécanisme des émotions, Parigi, 1905), che
ha un senso prettamente fisiologico. Sollier, infatti, considera l'emozione come attività cerebrale diffusa derivata verso i
nervi motori: punto di vista, questo, che non differisce da quello di Pagano, L'emozione resta un fenomeno fisiologico.
Non si tiene conto della parte determinante dello psichismo della rappresentazione.
242 Cfr. L. Lapicque, Nouvelle théorie de l'émotion, «Journal de Psychologie», 1911, p. 7.
200
sentimento una distribuzione regolare e moderata d'energia nervosa, rimane da sapere perché mai l'emozione
è questa inondazione e il sentimento questa calma distribuzione. Per mezzo del meccanismo noi sappiamo
come le cose avvengano, ma non perché avvengano così. È appunto quest'ultima spiegazione che la teoria
biologica degli stati emotivi vuol dare.

A. SPIEGAZIONE DEI FATTI

1. I COMPONENTI DEGLI STATI AFFETTIVI - Abbiamo visto che gli stati affettivi richiedono tre
elementi: una rappresentazione, che pone il soggetto davanti ad una data situazione e fa da stimolo -
sensazioni organiche, - reazioni motrici (attrazione o repulsione, piacere, dolore o sofferenza), reazioni
collegate alle sensazioni organiche, ma non confuse con esse.
Si possono spiegare gli stati emotivi con questi tre elementi? Sembra di no, perché essi non bastano a
spiegare il passaggio dalla rappresentazione ai fenomeni organici ed alle reazioni motrici. Evidentemente,
questo passaggio implica il giuoco di un dinamismo, perché si produce in virtù di uno stimolo, che si tradurrà
in movimenti di attrazione o di repulsione. Ci deve dunque essere un quarto elemento in ogni fenomeno
affettivo, elemento dinamico che può essere solo l'istinto. È un fatto che tutti i tests si riferiscono al giuoco
degli istinti (nel senso lato della parola), ai quali sono collegate le reazioni motrici. Si constata del resto,
nello stesso senso, che noi ci serviamo correntemente degli stessi termini per designare il sentimento e
l'istinto corrispondente (aver paura, essere in collera, aver fame): il nostro studio dell'istinto ha sottolineato
questo nesso fra l'istinto e la sua emozione specifica.

337 - 2. LA FUNZIONE DELL'ISTINTO - Unicamente attraverso la funzione dell'istinto si spiegherà


come un fatto rappresentativo provochi uno stato affettivo e quello specifico stato. Uno stato affettivo esiste
realmente solo quando una rappresentazione stimola il complesso biologico che definisce un dato istinto.
Senza la messa in moto dell'istinto, lo stato emotivo non avrebbe alcun senso.
Ciò è evidente soprattutto quando c'è sproporzione tra la rappresentazione e lo stato affettivo. Scivolare,
senza cadere, su di una buccia d'arancia, udire inopinatamente una detonazione lontana, sono fatti talvolta
sconcertanti solo per il complesso biologico («istinto di conservazione») ch'essi fanno intervenire. Così pure,
il magistrato che in pompa magna, durante una cerimonia, non infila il suo scranno e finisce col sedersi per
terra (senza farsi il minimo male), è vittima di una confusione tumultuosa, senza proporzione con il gesto
malaccorto ed innocuo, ma spiegabile col rischio di una tale caduta ed, insieme, col ridicolo della sua
situazione («istinto di eccellenza»). Il monello a cui capita la stessa disavventura, anche se si fa un po' male,
ne riderà di gusto, poiché in lui non interviene in questo caso l'istinto d'eccellenza.

3. LE VARIAZIONI DEGLI STATI AFFETTIVI - Precisamente la presenza dell'elemento istintivo in ogni


stato emotivo può spiegare le variazioni che i nostri sentimenti subiscono nel corso della vita, come pure le
differenze individuali che si notano negli stati affettivi. Tutto dipende dall'attività istintiva. L'evoluzione,
naturale o accidentale, delle tendenze (302-304) nello stesso individuo, è a questo rivelata dal flusso e
riflusso dei suoi sentimenti. D'altra parte, uno stesso stimolo (l'annuncio di una vincita fatta alla lotteria)
produce delle reazioni motrici del tutto differenti secondo gli individui, cioè secondo le tendenze che
dominano momentaneamente il loro psichismo.
B. LA FUNZIONE REGOLATRICE DEI SENTIMENTI

338 - Possiamo ormai comprendere la funzione dei sentimenti, che è quella di regolare e stabilizzare la
vita psichica e l'attività pratica.

1. LA REGOLAZIONE DELL'ATTIVITÀ - L'attività umana è prodigiosamente complessa. Tutto un


giuoco di azioni e di reazioni ha luogo per la molteplicità e la diversità degli elementi che costantemente
vengono ad integrarsi alla vita psichica: percezioni, immagini, idee, ricordi, credenze, sentimenti,
inclinazioni, piaceri e sofferenze, ecc. In questo complesso, gli stati affettivi rappresentano la parte
principale. Una situazione non è mai per noi semplicemente un dato rappresentativo, ma una cosa collegata
alle nostre tendenze ed inclinazioni. Da ciò derivano le reazioni diverse con le quali la consideriamo. Se
un'azione da compiere ci appare facile e piacevole, la faremo con gioia e trasporto; ma se si presenta come
ostica, superiore alle nostre forze, opposta ai nostri gusti, subito si manifesterà un'influenza inibitrice. È il
sentimento che ora favorisce, ora frena e paralizza l'azione. Esso appare così come il regolatore dell'attività.
201
2. L'AUTOREGOLAZIONE AFFETTIVA - Questa concezione permette di spiegare il variare dei
sentimenti in modo tanto costante e tanto rapido. Ne troviamo la ragione nel processo d'adattamento dell'
individuo alle situazioni costantemente nuove in cui viene a trovarsi. Questo processo esige continui
accomodamenti. Ma esso avrebbe un andamento a sbalzi e febbrile se fosse governato solo dal di fuori, dalle
contingenze della vita di relazione. Infatti, questo processo di allineamento, che assume la forma di una
oscillazione permanente, si effettua soprattutto dal di dentro.

a) Le oscillazioni affettive. Ben si comprende questo meccanismo d'oscillazione quando si rifletta che gli
stati affettivi non dipendono soltanto, e neppure principalmente, dai fatti esteriori, ma pure dalle
disposizioni interiori. Ogni stato affettivo implica, almeno per contrasto, parecchi dei fattori che presiedono
allo stato susseguente, che si presenta come una reazione relativamente al precedente. Ne consegue che ogni
gioia trascina seco un elemento di sofferenza e viceversa, e che si attua un equilibrio relativo della vita
affettiva, che non è il risultato della permanenza di un determinato sentimento, bensì l'effetto di un
controbilanciarsi costante di azione e di reazione. I sentimenti di fatica, di noia, d'inquietudine, di gioia, di
forza, di sicurezza, di successo, lungi dallo stabilizzarsi, si alternano secondo un ritmo pacato e regolarizzano
con questa alternanza il corso della vita psichica. Quando uno di essi divenisse stabile e duraturo ad
esclusione degli altri, ecco apparire la malattia (malinconia, esaltazione morbosa, mania, ossessione, ecc.).
Nell'uomo normale è pur vero che un sentimento fondamentale può durare e dura abitualmente, dando il tono
al complesso della vita affettiva; ma esso viene a trovarsi sottoposto a continue variazioni di gradazione e
d'intensità.

È chiaro tuttavia che questo processo di oscillazione non ha nulla in comune con l'instabilità della vita
affettiva, che si ha quando uno stato affettivo non riesce mai a compiutezza, né arriva ad influire sul
comportamento dell'individuo, prima di essere scalzato da un altro di senso contrario. Si tratta in tal caso di
disgregazione psichica di natura nettamente patologica (P. Janet, De l'angoisse à l'extase, t. II, p. 616 sg.).

b) L'equilibrio affettivo. Se ne deduce che i sentimenti non hanno soltanto una funzione regolatrice della
vita psichica, ma che essi sono essenzialmente autoregolatori, in quanto ciascun sentimento regola il
comportamento degli altri sentimenti. La reazione emotiva è seguita da una sorta di oscillazione che
determina, secondo il caso, l'accelerazione o la remora e che contribuisce in questo modo a fissare l'azione in
una certa qual media favorevole243.
Questo stato medio d'equilibrio può essere conservato? Esso esige un certo grado di benessere fisico, in cui
l'azione delle ghiandole a secrezione interna interviene per una parte importante. Esso esige principalmente
un metodo di vita affettiva che modera, ordina e dirige le manifestazioni dell'istinto. Ma per questa via
arriviamo al campo della morale.

C. L'EMOZIONE

339 - 1. IL PROBLEMA DELL'EMOZIONE - Se le osservazioni precedenti ben s'addicono ai sentimenti,


ci si può chiedere come esse convengano alle emozioni forti, che non sembrano affatto servire a
regolarizzare l'azione. Pare che, al contrario, queste si manifestino quando l'adattamento fa difetto o è
impossibile: la paura e la collera significano soprattutto l'impossibilità attuale di adattarsi ad una situazione
esterna. Sconfitta mentale, deficienza motrice, l'emozione appare come il contrario di un fenomeno
regolatore. Si tratta di un problema che è opportuno prendere in esame.
Se ne sono proposte numerose soluzioni, che potremo raccogliere in due gruppi opposti, cioè: da una parte,
le soluzioni che intendono dimostrare come l'emozione, per alcuni suoi aspetti, sotto un apparente disordine
conservi una finalità propria, - e d'altra parte le soluzioni che considerano l'emozione come un disordine
reale e come la rottura di un ordine normale.

243 Cfr. A. Gemelli, Contributi del Laboratorio di Psicologia, V, p. 160 sg. P. Janet, op. cit., II, p. 643: «C'è nei
sentimenti normali una complessità variabile, che si oppone alla semplicità forte e durevole degli stati patologici. Senza
esagerare il paradosso, vien voglia di dire che, per osservare veramente inquietudini, stanchezze, tristezze o gioie,
bisogna andare ad osservare dei malati; l'uomo normale non ci presenta che abbozzi di sentimenti. E ciò è tanto vero,
che i filosofi sono stati indotti a parlare del sentimento d'indifferenza della vita normale».
202
2. TEORIA ISTINTIVISTICA - Si possono raggruppare sotto questo nome le teorie che si ispirano, più o
meno strettamente, alle concezioni di Darwin (The expression of emotions in Man and Animals, Londra,
1872; L'expression des émotions, tr. fr., Parigi, 1877).

a) Enunciazione. La tesi istintivistica si basa su due ordini di osservazioni, destinate, le une, a stabilire il
rapporto fra l'emozione e l'istinto, le altre, a mostrare come l'emozione adempie ad una funzione utile.
Quanto al primo punto di vista, si nota che, se i fatti affettivi non possono spiegarsi adeguatamente se non
in riferimento agli istinti ed alle inclinazioni, che essi manifestano, va tuttavia notata una considerevole
differenza fra i sentimenti e le emozioni. Queste sono reazioni istintive elementari, mentre i sentimenti sono
reazioni complesse, pur collegate agli istinti, ma per tramite delle inclinazioni e delle abitudini acquisite, e
più o meno sottoposte alle regolazioni superiori dell'intelligenza e della volontà. Ci si spiegherebbe in questo
modo, in virtù delle sue radici biologiche, il carattere esplosivo e disordinato delle reazioni emotive.

Quanto al secondo punto di vista, vien fatto di notare, si dice, che se l'emozione è scarsamente adattata,
non per questo essa cessa di avere, soggettivamente ed oggettivamente, una funzione utile. Si ha infatti un
adattamento soggettivo, che l'emozione contribuisce ad attuare, in quanto essa serve spesso in certo qual
modo come valvola di sicurezza per una energia nervosa che, se accumulata nei centri cerebrali, vi creerebbe
un pericoloso stato di tensione. Un dolore violento che si traduce in gesti, in gridi e in lacrime
apparentemente inutili, è in realtà, ad un tempo, una energia nervosa che si sfoga mediante la sua diffusione
organica, ed una tristezza che si placa attraverso le sue stesse manifestazioni. Si dice molto opportunamente
che «le lacrime confortano».

Inoltre, le emozioni, attraverso la loro forma e la loro intensità, possono servire ad informarci sullo stato
della nostra vita istintiva. Esse costituiscono spesso una rivelazione per coloro che le provano, e sono tali,
sotto questo riguardo, da suggerire il ricorso ad una terapia, fisica o morale, destinata a rettificare il
comportamento psicologico, o a mettere ordine nelle sue manifestazioni di vita.
D'altra parte, anche dal punto di vista oggettivo, è opportuno non esagerare il non adattamento delle
reazioni emozionali. Spesso l'emozione ha inizio con un urto, con reazioni disordinate. Ma la tendenza ad un
riadattamento si fa luce a poco a poco e ristabilisce un comportamento più adeguato alla situazione. Del
resto, già all'inizio, la moltiplicazione dei movimenti attraverso l'agitazione diffusa sostituisce la qualità con
la quantità e fornisce alla reazione utile una possibilità di prodursi.
Pertanto, si conclude 244, l'emozione è pure, a sua volta, una regolazione. Come il sentimento, essa è una
reazione regolatrice dell'azione, ma primitiva e brutale, a causa della sua connessione immediata con l'istinto.
E ciò spiega la sua frequenza negli esseri istintivi, come animali, fanciulli, anormali, neo-inciviliti, nonché,
in senso opposto, la sua rarità e il suo aspetto incompleto nell'adulto normale: le abitudini acquisite, infatti, e
soprattutto l'influenza delle regolazioni superiori consentono a quest'ultimo di fare a meno del procedimento
primitivo dello sfogo emozionale.

b) Discussione. La tesi istintivistica spiega l'intensità delle reazioni emotive. Non spiega però il disordine
emozionale. L'intensità, infatti, non è fonte necessaria di disordine psichico: vi sono sentimenti e passioni
potenti e perfettamente ordinati e adattati (328). Si tratta pertanto, da una parte, di sapere perché le reazioni
emotive sono così scarsamente adattate e così disordinate, e d'altra parte, di determinare se l'adattamento che
vien preparandosi nell'ambito del processo emotivo è opera dell'emozione stessa oppure, al contrario, una
manifestazione opposta all' emozione e con questa incompatibile.
Orbene, pare proprio che quest'ultima sia l'opinione più plausibile. Infatti se il comportamento utile ed
adattato si ristabilisce soltanto man mano che l'emozione si placa, ciò sembra implicare che l'adattamento
non può coesistere con il disordine emozionale. Si può pur sempre osservare, nell'ambito stesso
dell'emozione, l'esistenza di una certa quale regolazione istintiva: ma questa assomiglia alquanto, in questo
caso, al relitto di un naufragio. Quanto poi a considerare l'emozione come una «valvola di sicurezza», è come
non attribuirle altro che una finalità puramente accidentale, lungi peraltro dall'essere perseguita in tutti i casi,
giacché accade spesso che l'emozione non provochi l'agitazione diffusa che le si attribuisce, e che essa abbia,
proprio al contrario, effetti «stupefacenti» e finisca con l'aumentare pericolosamente la tensione nervosa,
anziché attenuarla. «Le lacrime confortano», è vero: ma ciò accade proprio in quanto esse segnano la vittoria
di un processo di adattamento sull'emozione stessa, che, quando è forte, più facilmente asciuga a sua volta la
fonte delle lacrime.

244 Cfr. Ch. Blondel, «Revue de Métaphysique et de Morale», ottobre 1933. p. 528.
203

Si dice che l'emozione, moltiplicando i gesti di reazione, offre una possibilità di prodursi alla reazione
utile. Ma ciò non è sempre esatto, e comunque lascia soltanto un carattere fortuito al comportamento utile.
Orbene, si può andare oltre ancora e contestare ogni valore di adattamento alle emozioni propriamente dette.
A questo proposito, Larguier Des Bancels (Nouveau Traité de Psychologie di Dumas, t. II, p. 536) fa
giustamente osservare che le reazioni della paura e della collera (che sono emozioni tipo) sono così poco
congruenti che la paura, lungi dal favorire la fuga, l'impedisce o la rende pazzamente disordinata inibendo
l'esercizio dell'«istinto di fuga», e che la collera tanto poco favorisce la difesa o l'attacco, che sopprime
quella padronanza di sé che costituisce la prima condizione di una lotta efficace. Come sarebbe possibile, in
queste condizioni, identificare emozione ed istinto? I comportamenti istintivi sono ordinati e calmi, mentre i
comportamenti emotivi sono incoerenti e, il più delle volte, dannosi. L'emozione, tutto considerato, sarebbe
dunque piuttosto «'il fiasco' dell'istinto».

340 - 3. L'EMOZIONE, AFFEZIONE SREGOLANTE

a) L'emozione - disguido. Si vede contro quali difficoltà vada ad urtare la tesi istintivistica, e come sia
difficile scoprire nell' emozione qualcosa di diverso che un'affezione sregolata. È questo, precisamente, il
punto di vista che difende M. Pradines (Psychologie générale, I, p. 682 sg.), per il quale l'emozione è
essenzialmente la coscienza di un disordine che compromette gravemente le prospettive di comportamento
corretto ed opportuno. Così considerata, l'emozione, disguido della rappresentazione, si oppone
fondamentalmente al sentimento, che è un'affezione regolatrice. Essa è la rottura brutale di un ordine dato o
in fieri, e non fa che tradurre, psicologicamente, la coscienza dello sconvolgimento che investe
irresistibilmente il soggetto.

b) Le cause del disordine emozionale. Rimane da spiegare il disordine organico in sé. Infatti, non si tratta
proprio di riprendere le tesi intellettualistiche. Il disordine è un fatto reale, di natura psico-fisiologica, e come
tale deve pure avere una causa. Ebbene, questa non può consistere se non nel fatto che l'evento emozionante
appare non soltanto imminente, ma addirittura in atto, o sul punto di attuarsi. Questa «presentazione» brutale
dell'evento ha per effetto di sostituire il riflesso alla riflessione, l'automatismo alla memoria e l'impulso alla
vita dello spirito, determinando così quello scompiglio generale che, nella coscienza che ne prende il
soggetto, si chiama emozione.

c) La sregolatezza della rappresentazione. Si coglie in questo modo la funzione che esercita la


rappresentazione, il disordine della quale è determinato da ciò che appare come un pericolo o una gioia che
stia per attuarsi. Rimane tuttavia da spiegare questa stessa apparenza. Se ne possono scoprire tre specie di
cause. Anzitutto le circostanze, che hanno spesso un'importanza capitale (il cacciatore sorpreso da un
animale selvatico nel folto di un bosco; l'annuncio del numero vincente il premio principale di una lotteria,
quando si sia in possesso proprio di quel numero). Si aggiunga la sopravvalutazione dei fini affettivi, che
interviene tutte le volte che è in giuoco la vita. Infine, e soprattutto, l'immaginazione, capace di produrre
quella sorta di delirio per cui l'uomo giunge a pensare come effettivamente prossimi e persino immediati gli
eventi che lo interessano gravemente (per esempio il momento della morte) 245.

Ecco le cause che, agendo: quantunque rapidamente, sulla rappresentazione, determinano lo scompiglio
psico-organico che viene chiamato emozione e che è propriamente la coscienza della mancanza totale di
adattamento, in cui viene a trovarsi il soggetto di fronte all'evento che lo sorprende. L'emozione potrebbe
dunque essere brevemente definita come «l'agitazione di uno spirito sopravanzato dal suo corpo» (Pradines,
op. cit., p. 133).

Art. IV - Il linguaggio emozionale


341 - Abbiamo più sopra studiato le reazioni emozionali. Qui, noi le considereremo soltanto come segni
espressivi o linguaggio.

245 È possibile, viceversa, che il prodigioso sangue freddo di certi individui di fronte alla morte non sia che l'effetto di
un'immaginazione povera.
204
1. ORIGINE DELLE REAZIONI EMOZIONALI SISTEMATIZZATE Ci si è chiesti come spiegare le
reazioni emozionali sistematizzate, cioè quelle reazioni che servono da segni espressivi, o linguaggio,
peculiari alle differenti specie di emozioni e di sentimenti. Questo linguaggio è naturale o convenzionale?
C. Darwin ha fatto ricorso alla spiegazione evoluzionistica. Il linguaggio emozionale sarebbe la
sopravvivenza di gesti un tempo utili, ma privi ormai di valore: i gesti della collera, per esempio (stringere i
pugni, gridare, gesticolare, minacciare, ecc.) sarebbero semplicemente delle sopravvivenze
dell'atteggiamento dell'uomo che si getta sul suo nemico o della bestia che si precipita sulla sua preda 246.
Questa spiegazione è insoddisfacente. Anzitutto, nulla è meno certo che l'inutilità delle nostre reazioni
emozionali. Senza parlare del loro valore sociale, che è evidente, esse risultano, come s'è visto (336), dal
giuoco degli istinti, che esse esprimono e traducono. Non si tratta pertanto di abitudini acquisite, ma di
forme naturali ed innate della vita affettiva. Si spiega così la loro costanza specifica.

342 - 2. L'INTERVENTO DELL'ANALOGIA - Si può d'altronde ammettere in parte l'influenza, nel


linguaggio emozionale, dell'analogia e dell'imitazione. Wundt ha insistito a questo riguardo, ma esagerando
alquanto l'intervento di questi due fattori. Egli osserva che emozioni di natura tanto differente, come nel caso
della nausea e del disprezzo, si esprimono mediante reazioni di ugual genere. La maggior parte dei
sentimenti, appunto, mutuano così la loro espressione da emozioni fisiche analoghe. Sono fatti certi questi, e
si deve riconoscere che l'analogia fra i due ordini può portare ad attingere, per tradurre un sentimento, alle
forme del linguaggio emozionale. Il linguaggio parlato non fa che continuare, effettivamente, ad operare
questo trasferimento: il termine di disgusto, che è di origine sensoriale, viene solitamente applicato a
comportamenti morali. Allo stesso modo, ecco che diciamo di un progetto che esso è allettante, di un'idea
che essa è stupefacente, ecc. Tuttavia, sarebbe falso dedurre da ciò che i sentimenti morali hanno mutuato la
loro espressione dai riflessi emozionali. Già sappiamo infatti che tutti i sentimenti comportano certamente
qualche organicità, reazioni fisiologiche e cenestesiche (325-326), le quali, in quanto tali, implicano
atteggiamenti e mimiche espressive più o meno accentuati. L'analogia dei due ordini è fondata sulla identità
fondamentale delle emozioni e dei sentimenti (328).

3. INFLUENZA DELL'IMITAZIONE - Quanto all'imitazione, essa ha una funzione certamente importante,


ma solo nell'uso di certe forme d'espressione accidentali. È cosa sicura, infatti, che le reazioni affettive,
soprattutto nell'ordine dei sentimenti, variano in qualche misura da un individuo all'altro, da un popolo e da
una razza agli altri. Vi sono gesti che, per effetto dell'imitazione, diventano abituali ad una famiglia o ad un
dato ambiente. Noi ci imitiamo continuamente, persino in questo campo, gli uni gli altri, e le particolarità
delle nostre reazioni emozionali, perfettamente intelligibili a quelli che ci sono prossimi, ai nostri familiari o
ai nostri concittadini, possono talvolta suscitare lo stupore o l'incomprensione degli estranei. Fino ad un
certo punto, si può dunque ammettere, ad un tempo, che c'è una moda dell'emozione ed una trasformazione
continua, per semplificazione o complicazione, dei segni emozionali247.

343 - 4. L'INTERPRETAZIONE DEI SEGNI EMOZIONALI Come si comprende il linguaggio


emozionale? Gli Scozzesi (D. Stewart) parlano di un istinto, che sarebbe infallibile. Non si vede comunque
in ciò una spiegazione, in quanto il problema, se di istinto si tratta, sta nel sapere come esso intervenga.
Si è anche fatto appello ad una inferenza implicita basata sull'analogia, asserendo che se il fanciullo, per
esempio, comprende il senso delle lacrime, ciò è dovuto al fatto che egli stesso ha versato lacrime quando
soffriva. Il fanciullo che per avventura non avesse mai pianto né sofferto, sarebbe incapace di dare un
significato alle lacrime. Di conseguenza, la comprensione del linguaggio emozionale consisterebbe sempre
nel risultato o di una esperienza attuale dell'emozione, o di una esperienza precedente, ritenuta dalla
memoria. Sennonché ciò comporta delle difficoltà. Questa concezione, infatti calza male quando si tratti del
mondo animale: nessuna inferenza è concepibile negli animali che, anzi, colgono alla prima il significato
delle reazioni emozionali dei loro congeneri. D'altra parte, è proprio necessario aver pianto per cogliere il
senso delle lacrime, o avere riso per afferrare il senso della mimica del riso? Il contagio emozionale, che è
spontaneo, basta normalmente a collegare il segno emozionale al suo significato: basta, cioè, a creare il

246 H. Spencer abbonda in questo senso. Per lui, i fenomeni viscerali dell'angoscia altro non sono che un'eco della
maniera in cui i nostri antenati dovevano respirare quando, nel combattimento, «la loro bocca era impegnata da una
parte del corpo di un nemico di cui s'erano impadroniti». Mantegazza afferma che il fremito della paura aveva lo scopo
di riscaldare il sangue.
247 E' noto che i ciechi hanno normalmente un volto poco espressivo e quasi non fanno gesti, in quanto che non
possono osservare le mimiche di coloro che invece vedono.
205
complesso segno-cosa significata. Insomma, proprio a causa della corrispondenza che esiste fra la vita
interiore e la vita esteriore, non occorrono né inferenze né interpretazioni per comprendere gli stati affettivi
attraverso i segni emozionali: essi sono colti nella mimica stessa, che ne è l'aspetto visibile.

Ciò non toglie che esista un margine d'interpretazione, non appena si passi oltre le emozioni elementari.
Tutti comprendono la mimica del dolore, ma non necessariamente certe mimiche caratteristiche di dolori
speciali. In questo caso, per comprendere, bisogna aver fatto diretta esperienza, o quanto meno, come
avviene per il medico, avere appreso a discernere il senso preciso dei segni. Infine, poiché le emozioni sono
specifiche, il linguaggio emozionale si comprende bene soltanto nell'ambito della specie. I cani, le scimmie,
si capiscono tra di loro, e gli uomini, a loro volta, tra di loro. Se il cane o la scimmia possono fino a un certo
punto comprendere il linguaggio emozionale dell'uomo, e l'uomo il linguaggio emozionale del cane e della
scimmia, ciò si deve alla loro parentela generica, o, se si vuole, ai loro istinti comuni. Che se si trattasse,
invece, di animali a noi molto lontani, come gli insetti, le loro reazioni emozionali sarebbero per noi assai
meno intelligibili.

Art. V - Le passioni
§ l - Definizioni

344 - 1. I DUE SENSI DEL VOCABOLO 'PASSIONE' - La parola passione ha due accezioni alquanto
differenti. Per gli Scolastici, come per Cartesio, Malebranche e Bossuet, «passione» significa in generale
movimento dell’appetito sensibile, qualsiasi sentimento o emozione, cioè, secondo l'etimologia stessa della
parola, il fatto di essere colpiti da un oggetto (o di patire), e di reagire con un movimento 248. I moralisti,
invece, con la parola «passione» intendono designare una inclinazione divenuta predominante e tale da
rompere l’equilibrio della vita psicologica. Ed è appunto in questo senso che gli psicologi moderni
intendono la passione: sotto questo aspetto noi qui la consideriamo.

2. DEFINIZIONE - La passione non può definirsi convenientemente se non la si consideri nei confronti
dell'inclinazione. La passione è una inclinazione predominante e fissata in un'abitudine. La passione è
dunque connessa ad una inclinazione, ma non si confonde assolutamente con questa. Infatti, l'inclinazione,
per il suo rapporto più immediato con l'istinto che essa definisce e manifesta, ha qualcosa di innato che non
appartiene alla passione. Questa è acquisita, in quanto aggiunge all'inclinazione, dalla quale procede, una
intensità ed una veemenza che sono più o meno opera sua. D'altra parte l'inclinazione è, se non permanente,
per lo meno relativamente stabile e duratura, mentre la passione può avere il carattere di una crisi. Infine, le
inclinazioni si fanno reciprocamente equilibrio, mentre la passione è esclusiva ed assorbe a proprio profitto
tutte le energie dell'anima.

3. CLASSIFICAZIONE DELLE PASSIONI - Poiché le passioni sono inclinazioni portate ad un alto grado
d'intensità e di potenza, il loro numero sarà in rapporto a quello degli istinti e delle inclinazioni. Si tratterà
pertanto di distinguere il gruppo delle passioni inferiori o sensibili e il gruppo delle passioni superiori o
razionali. Le prime sono innestate sugli istinti elementari (284-286): sono le passioni del bere e del
mangiare (crapula), le passioni sessuali, le passioni dell'eccellenza, connesse all'istinto sociale. A loro volta
queste tre passioni fondamentali possono assumere forme o aspetti molto diversi. Così l'avarizia, che è la
paura di mancare del necessario, è chiaramente in relazione con l'istinto alimentare. Altrettanto dicasi dell'
alcoolismo. L'ambizione (che può raggiungere un grado d'esaltazione frenetica) è una forma evidente dell'
istinto sociale. La passione del giuoco è un aspetto dell'avarizia e della cupidigia. La gelosia è uno stato
passionale connesso all'uno o all'altro degli istinti elementari.
Il secondo gruppo, in rapporto con le inclinazioni razionali (295-299) è quello delle passioni superiori,
protese alla ricerca del vero, alla produzione del bello, al progresso del bene e della giustizia, che sono
espressioni diverse di una ragione che si esercita nel senso delle sue finalità essenziali.

248 Cfr. S. Tommaso: «Passio est motus appetitus sensitivi». - Cartesio, Traité des Passions, I, XXVII: «Mi pare che si
possano generalmente definire (le passioni) come percezioni, o sentimenti, o emozioni dell'animo, che ad esso
particolarmente vengono riferite, e che sono causate e conservate e fortificate da qualche movimento delle
inclinazioni». – Malebranche, Recherche de la Vérité, 3 voll., Parigi, 1946, V, c. I: «Io chiamo qui passioni tutte le
emozioni che l'animo prova naturalmente in occasione dei movimenti straordinari delle inclinazioni animali nel
sangue».
206

Queste osservazioni dovrebbero portare all'attribuzione di nomi differenti a cose tanto differenti, quali
appunto le passioni sensibili e le passioni razionali. Infatti, questi gruppi sono specificamente distinti e le
passioni che compongono l'uno e quelle che compongono l'altro non possono essere caratterizzate allo stesso
modo. Non soltanto sono differenti le loro cause, ma i loro effetti altresì possono essere, e normalmente
sono, diametralmente opposti. Se, come indica la parola, la passione è uno stato nel quale noi siamo passivi,
dominati, trascinati e sommersi, il vocabolo 'passione' mal converrà a designare i generosi e potenti ardori
che lo spirito dispiega al servizio della scienza, dell'arte, della carità o della religione, e che sono
eminentemente il segno e l'effetto di un dinamismo razionale e volontario. È pur vero che lo scienziato,
l'artista, il mistico appaiono spesso, a chi li osservi dal di fuori, come succubi dell'automatismo tirannico di
un'idea. Ma si tratta precisamente, in modo preponderante, di una mera apparenza, in quanto, in essi,
l'imperio dell'idea è opera di una volontà protesa, con perseverante energia, al fine che essa si è prescelto. La
passione sensibile, al contrario, significa propriamente la vittoria dell'automatismo affettivo sulla ragione e
sulla volontà.
Perché queste due categorie di sentimenti appassionati possano essere fatte entrare in uno stesso gruppo,
bisogna ridurle all'esaltazione di una inclinazione divenuta predominante: e appunto ciò sembra avere indotto
il linguaggio, vale a dire il senso comune, a dare loro il medesimo nome. Sennonché questa unificazione
verbale comporta il grave inconveniente di accantonare l'essenziale, e di dissimulare le profonde differenze
che distinguono e mettono in opposizione le passioni sensibili e le passioni razionali.

§ 2 - Cause delle passioni

345 - Le cause delle passioni possono ricercarsi sia nel temperamento e nelle disposizioni ereditarie, sia
nel comportamento intellettuale e volontario.

1. IL TEMPERAMENTO - La passione, abbiamo detto, è una inclinazione portata ad un alto grado


d'intensità. Siccome le inclinazioni hanno come base immediatamente l'istinto, cioè la natura, ne consegue
che le passioni derivano in parte dal temperamento o dalle disposizioni ereditarie fisiche e morali. Le
inclinazioni, senza dubbio, si danno mutuo equilibrio: non tuttavia in maniera assolutamente perfetta. Esse,
in realtà, sono inegualmente sviluppate, secondo l'eredità e il temperamento fisico. Ciò è appunto facile
notare nei fanciulli, che manifestano talvolta inclinazioni e gusti tanto precoci. Se ne deduce che quando noi
diamo più corda alle inclinazioni predominanti, siamo sulla strada delle passioni; e si può dire che queste
esistono in germe nel nostro temperamento fisico e morale.
Questo germe può crescere sotto l'influenza delle circostanze esteriori, quali l'educazione, gli esempi, le
compagnie. La passione ora si sviluppa lentamente, per cristallizzazione progressiva, ora scoppia folgorante
e trasforma di colpo tutto l'orientamento della vita.

Tutte queste osservazioni sono valide tanto per le passioni superiori come per le passioni sensibili. Gli eroi
della scienza, dell'arte e della santità si sono portati seco dalla nascita delle disposizioni più o meno spiccate,
esattamente come altri sono naturalmente inclinati alla dissolutezza, alla avarizia o all'alcoolismo. Queste
disposizioni non danno luogo, almeno di norma, a fatalità alcuna; esse semplicemente orientano le energie
dello spirito in un certo senso, che permetterà loro di svilupparsi liberamente. Le influenze ereditarie, poi, né
dispensano dallo sforzo, né (salvo i casi patologici) sopprimono completamente l'apporto della libertà
morale.

346 - 2. RAGIONE E VOLONTÀ - Ma la parte più importante nella genesi delle passioni è finalmente
quella delle cause propriamente psicologiche. La ragione e la volontà, alle quali spetta ordinare e governare
le inclinazioni nei loro interventi, abdicano alla loro funzione di direzione e di controllo e ad altro più non
servono che a fornire alla passione - spesso, del resto, con una ingegnosità senza pari - i mezzi di
soddisfazione. Anziché impegnarsi ad inibire la passione nascente, a distornare dal suo oggetto il corso
dell'immaginazione, al fine di opporsi al suo determinismo naturale, la volontà si lascia a poco a poco
soppiantare dal desiderio e dalle sue esigenze forsennate, e la ragione diventa serva dell'immaginazione
passionale. L'avaro e il dissoluto hanno un bell'essere prodigiosamente ingegnosi a profitto delle loro
passioni: ma queste inesorabilmente denunceranno lo svanire simultaneo della ragione e della volontà. I
moralisti, che vedono nella volontà la causa principale della passione, non vogliono dire altro che questo:
infatti se il delirio passionale indica lo scadimento della libera volontà, questo scadimento. normalmente, è
opera sua o, quanto meno, ha richiesto la sua tacita complicità.
207

Le passioni superiori, al contrario, hanno come caratteristica una esaltazione della ragione e della volontà.
La volontà deve intervenire spesso in maniera estremamente energica e perseverante, per eliminare le
distrazioni, la dispersione degli sforzi, per dominare le inclinazioni che intervengono in senso contrario. Con
le più belle disposizioni del mondo, molti uomini si arenano nella mediocrità. Altri, meno dotati, bruciano di
passioni ardenti per la bellezza, per la carità, per la giustizia, per la scienza, e producono opere meravigliose.
Ai primi ha soprattutto fatto difetto la volontà, il metodo, la perseveranza. Gli altri hanno talvolta dovuto
sacrificare, con fiera energia, la loro tranquillità, la loro fortuna, la loro salute e la loro vita alla attuazione del
loro ideale.

§ 3 - Effetti delle passioni

347 - Questi effetti interessano l'intelligenza e la volontà.

1. EFFETTI SULL'INTELLIGENZA - Si possono riassumere in quelli che noi chiameremo «cerchio


passionale» e «logica passionale».

a) Il cerchio passionale. Effetto della passione è di accentrare le attività dello spirito sull'oggetto della
passione e al tempo stesso di sospendere ogni forma di attività che non sia strettamente richiesta dai fini
passionali. Ne deriva in tal modo una specie di unificazione dello spirito. È questo uno degli effetti più facili
da constatare, ed uno dei più sfruttati nella letteratura e nel teatro. Harpagon e Grandet non pensano
veramente che al loro oro. Fedra «è Venere tutta avvinghiata alla sua preda». Otello non vede, non ode e non
comprende se non ciò che alimenta la sua gelosia. Ad un livello inferiore, ci sono tutti i maniaci che
sembrano vivere soltanto per ciò che accarezza la loro mania. La passione, in questi diversi casi, unifica lo
spirito, ma impoverendolo, perché essa lo svuota di tutto ciò che va oltre l'ordine sensibile, e, in questo stesso
ordine, di tutto quello che non è l'oggetto della passione. L'appassionato gira nel cerchio stretto delle
immagini che lo assediano, e non conosce altro più: né ragione, né verità, né giustizia. Pertanto s'è potuto
giustamente paragonare la passione al delirio.

Nelle passioni superiori, si ha spesso l'impressione di trovarsi di fronte ad una sorta di monoideismo. Non
si vada a parlare di politica o di scienza al tal musicista! Egli vi risponderà armonia e contrappunto. Quanto
poi a quell'appassionato di matematica, sarebbe pronto a scambiarvi per un teorema! Le aneddotiche
distrazioni degli scienziati, lo scarso senso pratico degli artisti sono appunto effetto di questa concentrazione
dello psichismo, che conferisce loro talvolta un che di strano o di comico. Si ha dunque, in un certo senso,
impoverimento. Tuttavia, questo impoverimento è in realtà un arricchimento, perché viene ad essere a tutto
beneficio delle funzioni superiori e di un'attività intellettuale più intensa. In realtà, se consideriamo il piano
delle attività naturali stesse, rimane vero che «chi perde la sua vita la guadagna».

b) La logica passionale. Si attribuisce spesso alla passione l'effetto di produrre una attivazione
dell'intelligenza. La passione, si dice, unificando lo spirito, permette all'intelligenza di consacrarsi totalmente
ed esclusivamente ai fini che essa persegue. L'appassionato arriva spesso ad attuare prodigi di ingegnosità
per il fatto stesso di concentrare la sua attenzione sul medesimo punto, con una perseveranza che non vien
meno di fronte a qualsiasi ostacolo e non conosce altro interesse se non quello della passione.

Queste considerazioni indicano fatti certi. Ma perché esse abbiano il loro vero senso, bisogna notare che,
nelle passioni sensibili, l'intelligenza, realmente sovrattivata, sfugge al controllo della ragione. È proprio
questo che ha voluto affermare Ribot, parlando di una logica dei sentimenti, o logica passionale, cioè di un
modo di trovare e mettere insieme gli argomenti e di condurre i ragionamenti inteso ad ottenere, anziché le
conclusioni che le premesse esigono, i risultati pretesi dalla passione, senza alcuna preoccupazione di
coerenza e di verità. L'appassionato è generalmente un ragionatore esasperato; ma egli non ragiona che per
giustificare in anticipo o dopo il fatto la sua passione: e, come per miracolo, tutti gli argomenti portano a tale
giustificazione. Ma è pure chiaro che, in questo caso, la parola 'logica' può servire a designare
semplicemente la soggezione passiva ad un mero determinismo psicologico, in cui i «siccome» e i «pertanto»
che intervengono in abbondanza non servono che a mascherare lo sviamento della ragione e del buon senso.

Nulla di simile nelle passioni superiori, nelle quali l'intelligenza, sovrattivata a sua volta dall'intensità
stessa del sentimento, non si esercita che nel quadro di una ragione esigente. È impossibile per esse un urto
208
contro le leggi morali o contro le esigenze della verità e della giustizia, di cui sono tributarie e che,
direttamente o indirettamente, sono zelantemente impegnate a servire. Per un effetto contrario a quello delle
passioni sensibili, esse conferiscono un che di nobile all'uomo che ne è posseduto. Bisogna, anzi, aggiungere,
col Pascal, che proprio in virtù di queste passioni l'uomo diviene grande.

348 - 2. EFFETTI SULLA VOLONTÀ - Abbiamo già indirettamente indicato gli effetti delle passioni
sulla volontà, studiando la funzione di questa facoltà nella genesi delle passioni. Per precisare questo punto,
converrebbe ora fare ricorso alla distinzione che fanno i moralisti fra passione antecedente e passione
conseguente. Tale distinzione chiarirebbe qui che, se la volontà prima che la passione sia formata,
s'impegna sempre in qualche modo a favorirla e ad alimentarla, essa però in seguito non ha altro che una
funzione apparente e decorativa. Infatti, essa è ormai passivamente succube della violenza impetuosa del
desiderio, che gli appassionati designano spesso (con coscienza di malafede) come una volontà superiore alla
loro. Le passioni giungono pertanto a dominare lo spirito soltanto per l'abdicazione della volontà.

Al contrario, nelle passioni superiori, sono le energie dello spirito che risultano esaltate: dapprima perché
la passione non può svilupparsi ed affermarsi senza sforzo e persino senza eroismo, poi perché essa non può
conservarsi e sostenersi se non per effetto di una tensione estrema della volontà. Le grandi passioni
reclamano il dono totale dell'uomo.

349 - 3. IL PROBLEMA DELLA FINALITÀ DELLE PASSIONI Gli psicologi si chiedono a che cosa
servano le passioni, e talvolta rispondono che esse hanno come funzione biologica generale quella di
rafforzare gli istinti e le inclinazioni. Ma questa risposta è troppo vaga e si trascina dietro alquante difficoltà.
Infatti, si tratta di sapere se l'esaltazione morbosa di una inclinazione, se il disordine e le perversioni che le
passioni introducono nel giuoco degli istinti, rispondano in qualche modo alla voce della natura. Gli
animali, che non hanno passioni, hanno istinti meglio regolati.
In realtà non si potrà risolvere il problema della funzione delle passioni nella vita umana, se non
distinguendo ancora fra passioni sensibili o inferiori e passioni razionali o superiori. È qui, anzi, che si rileva
più nettamente la differenza essenziale che già abbiamo sottolineato fra le une e le altre: ché se le passioni
razionali hanno una finalità certa, le passioni sensibili avranno proprio come caratteristica quella di
provocare il disordine nella vita umana.

a) Il disordine passionale. Se è vero che le passioni sensibili sono sregolatezze dell'affettività, non a causa
della loro intensità, ma in quanto esse sfuggono al controllo della ragione, - non si capisce più qual senso
possa conservare il problema della loro finalità. Un disordine non ha né scopo né senso, ed è proprio per ciò
che esso è un disordine. Si afferma talvolta, è vero, che le passioni sensibili hanno una funzione biologica in
quanto la ragione le moderi, le armonizzi, le governi. Ma si tratterebbe di sapere se delle passioni in tal
modo temperate e dirette dalla ragione sono ancora passioni! È certamente più esatto considerare le passioni
come stati di delirio e di vertigine, che niente permette di considerare in relazione alla legge dell'ordine
biologico e psicologico, e quindi giudicarle nefaste, a causa dello squilibrio profondo che esse provocano e
degli scadimenti che ne conseguono.

b) Valore delle passioni razionali. La finalità delle passioni razionali non può essere differente da quella
della ragione stessa, la cui funzione è di promuovere, nelle forme molteplici che essa riveste, la grandezza
propria dell'uomo. Le passioni superiori sono pertanto buone e feconde in sé e per sé, giacché esse esaltano
ciò che di meglio è in noi, e manifestano l'ambizione fondamentale, intima all'uomo e tale da definirlo, di
superarsi incessantemente. Infatti, come ha ben dimostrato Bergson, tutti i progressi dell'umanità sono opera
dei grandi appassionati.
209

LIBRO II

LA VITA INTELLETTUALE

350 - Noi non passiamo dalla vita sensibile alla vita intellettuale per semplice continuità. Se lo studio
dell'istinto ci ha portati ad ammettere la realtà di una intelligenza animale, abbiamo pure visto al tempo
stesso che questa intelligenza (estimativa), anche negli animali superiori, è totalmente compresa entro i limiti
dell'istinto e conseguentemente priva di quel carattere di universalità onde la ragione umana è così
nettamente definita, che persino le operazioni che l'uomo ha in comune con gli animali, percezione,
immaginazione, memoria, emozioni ed istinti, si trovano profondamente modificate per il clima razionale nel
quale esse si compiono. I sensi dell'uomo sono già completamente penetrati di ragione, ed il pensiero si
esprime non soltanto nel linguaggio, così prodigiosamente vario in confronto ai gridi degli animali, ma
perfino nel corpo umano, che è pensiero vivente.
Questa ragione, appunto, ci accingiamo a studiare: sia nelle sue attività conoscitive che nei movimenti che
essa ispira e governa.

PARTE PRIMA

LA CONOSCENZA INTELLETTUALE

Il pensiero va oltre la conoscenza intellettuale, ma proprio nelle operazioni del pensiero, concezione ed
idea, giudizio e credenza, ragione e princìpi direttivi, individuiamo più nettamente i caratteri dell'attività
conoscitiva dello spirito. Cosi, attorno a queste nozioni condurremo il nostro studio della funzione
intellettuale del conoscere e della sua condizione più generale, che è l'attenzione.

CAPITOLO PRIMO

L'ATTENZIONE

SOMMARIO249

Art. I - DEFINIZIONE E DIVISIONE. Le specie dell'attenzione - Attenzione sensoriale ed intellettuale - Le


forme dell'attenzione - Attenzione spontanea ed attenzione volontaria - Le fonti dell'attenzione - La
legge d'interesse. I fattori d'interesse Teoria sensistica dell'attenzione.

Art. II - NATURA DELL'ATTENZIONE. Psicologia dell'attenzione - Caratteri dell'attenzione - Problema


dell'attenzione molteplice - La durata dell'attenzione - La misura dell'attenzione - Fisiologia
dell'attenzione - Le condizioni organiche - Teoria periferica dell'attenzione.

Art. I - Definizione e divisione


351 - Il fenomeno dell'attenzione si può discernere facilmente a causa degli atteggiamenti che,
interiormente ed esteriormente, gli sono impliciti. In generale questo fenomeno rappresenta un orientamento

249 Cfr. Ribot, Psychologie de l'attention, Parigi, 1889. - P. Janet, Névroses et idées fixes, Parigi, 1898. - Meunier,
Pathologie de l'attention, Parigi, 1908. A. Gemelli, Ricerche sull'attenzione, «Archivio ital. di Psicologia», I, 1-2, 1920
J. De La Vaissière, Éléments de psychologie expérimentale, p. 240 sg. - Koffka, Principles of Gestalt Psychology, p.
204-210, 386-400, 358 sg. - Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. IV, p. 3 sg. - (Piéron). - Bal, L'attention et ses
maladies, Parigi, 1952.
210
determinato della conoscenza, sensibile o intellettuale, riguardante, in diversi modi, un oggetto isolato dagli
altri a causa dell'interesse che presenta. Questo fenomeno psichico si estrinseca attraverso una mimica
specifica e con reazioni viscerali e vaso-motrici.

§ l - Le specie dell'attenzione

Si possono distinguere nell'attenzione differenti specie, secondo che si considerino le funzioni (senso o
intelligenza) di cui si serve, - oppure le forme diverse che essa può. assumere, - o, infine, le cause che la
producono.

A. ATTENZIONE SENSORIALE ED INTELLETTUALE

1. I DUE TIPI D'ATTENZIONE - Il gatto che attende al varco un topo, il fanciullo che segue il movimento
delle nuvole nel cielo, l'uomo che cerca un oggetto smarrito, esplicano un'attenzione sensoriale, in quanto la
loro attenzione è diretta verso un oggetto sensibile e si esercita mediante i sensi. Lo studente che cerca la
soluzione di un problema, o che studia il canovaccio di una tragedia, il musicista che mette insieme i temi di
una composizione, l'uomo che ammira un quadro d'autore, esplicano una attenzione intellettuale, in quanto
questa attenzione riguarda oggetti intelligibili.
Sennonché si nota subito che se la distinzione delle due attenzioni è netta in linea di principio, essa diviene
in pratica piuttosto difficile non appena le due attenzioni entrino in giuoco insieme. L'azione di ammirare un
quadro presuppone contemporaneamente una attività sensoriale ed una attività intellettuale. Ascoltare una
conferenza non costituisce semplicemente un atto dello spirito: è pure un'attività sensoriale. Vi sono poi casi
nei quali ci si può chiedere qual sia l'attenzione che predomina. Comunque sia, è cosa certa che l'animale non
può esercitare che un'attenzione puramente sensoriale e che l'attenzione specificamente intellettuale,
riguardante cioè degli oggetti che sono fuori dello spazio e del tempo, è peculiare dell'uomo.

2. DIVISIONE DEI DUE TIPI D'ATTENZIONE - L'attenzione sensoriale, che è molto studiata nei
laboratori, può riguardare ciascuno dei sensi esterni: può essere tattile (si pensi ai ciechi), visiva (pittori),
auditiva (musicisti), olfattiva (animali), ecc.
L'attenzione intellettuale assume a sua volta forme assai diverse, indicate con termini quali riflessione,
meditazione, contemplazione, esame, deliberazione, ecc. Sotto questi differenti aspetti, essa è l'intelligenza
stessa, la cui ampiezza, la cui penetrazione, il cui rigore dipendono dalla capacità d'attenzione volontaria.
L'attenzione affettiva e l'attenzione volitiva, di cui talvolta si tratta, non sono specie distinte dell'attenzione,
ma semplicemente aspetti particolari dell'attenzione sensoriale o intellettuale.

B. OSSERVAZIONE E RIFLESSIONE

352 - Si distingue un'attenzione oggettiva (osservazione), e un'attenzione soggettiva (riflessione), secondo


che l'attenzione riguarda un oggetto distinto dal soggetto, oppure il soggetto stesso.

1. L'OSSERVAZIONE - Io seguo le vicende di un incontro calcistico, leggo un romanzo o un'opera di


storia, osservo dalla finestra l'andirivieni della strada, mi sforzo, in laboratorio, di cogliere esattamente gli
elementi di un'esperienza, contemplo un quadro di Raffaello cercando di discernere la composizione generale
e i particolari dell'opera: sono tutti casi di osservazione, la cui caratteristica è data dal fatto che io sono
semplice spettatore, che desidero ottenere un effettivo adattamento fisico e mentale, quanto più perfetto
possibile, alla tale o tal' altra situazione, per coglierla meglio, ma senza che io vi abbia ad intervenire.

L'attenzione aspettante comporta una specie di tensione interiore. Il gatto aspetta al varco il topo che ha
fiutato o udito. Il cacciatore è alla posta di un animale selvatico che il cane è impegnato a stancare. La
sentinella è in guardia, pronta a sparare. Questi esempi indicano un'attenzione rivolta verso un oggetto non
ancora presente, ma anticipato dall’immaginazione o dal pensiero, in relazione a certi segni esteriori. Ad
essa si accompagna una preparazione all'atto da compiere non appena l'oggetto sarà divenuto presente.

2. LA RIFLESSIONE

l) Il problema della riflessione. La riflessione (etimologicamente, atto di ripiegarsi su se stesso), pone un


problema difficile, che viene ad essere, in sostanza, quello della sua possibilità. Bisogna, infatti, distinguere
211
due tipi di riflessione, uno dei quali è soltanto impropriamente riflessione (se questa è ritorno su se stesso), e
l'altro, sembra, è realmente inconcepibile.
C'è anzitutto una specie di «riflessione oggettiva», che altro non è se non l'attenzione, non già a se stesso
come soggetto, ma al contenuto della coscienza come tale. Precisamente ad una «riflessione» di questo
genere ci riferiamo quando diciamo: «Ho bisogno di riflettere su questo problema» o «su questa idea». Nel
campo metafisico, ogni attenzione, per definizione stessa, è «riflessione», poiché noi non possiamo cogliere
l'oggetto metafisico (per esempio i concetti di essere, di causa, di verità) se non all'interno del nostro
pensiero. Ma se così è, questa riflessione è evidentemente soltanto una forma di osservazione, cioè
d'attenzione ad un oggetto: non solo essa non riguarda il soggetto, ma addirittura lo esclude, come tale.
Si tratta pertanto di sapere se c'è una «riflessione soggettiva», cioè una attenzione che riguardi
direttamente la soggettività. Pare che se ne possa dubitare. Infatti, la riflessione così concepita avrebbe per
effetto di trasformare il soggetto in oggetto: diverrebbe una forma di quell'attenzione oggettiva di cui
abbiamo or ora delineato i caratteri. Si dirà forse che io posso, mediante la memoria, cogliere riflessivamente
i miei propri stati trascorsi? Ma tale memoria di me non sarà mai riflessione soggettiva, poiché in questo
modo io non potrò conoscermi se non alla stessa maniera in cui io conosco un oggetto: l'atto passato che io
richiamo non è più, e se si tratta di me-stesso-al-passato, saremo ancora di fronte ad una soggettività
oggettiva.

b) La soggettività cosciente. In realtà, v'è pure una riflessione soggettiva: ma va intesa in senso diverso da
quello che le viene comunemente attribuito. Questa riflessione non è attenzione, giacché ogni attenzione è
oggettivante, ma coscienza di soggettività, cioè soggettività cosciente. La soggettività non è necessariamente
cosciente di sé: non lo è nel vegetale e nell'animale: non è tale sempre in atto nell'uomo che, di solito, vive in
certo qual modo nelle cose. Tuttavia, nell'uomo, una certa coscienza di sé come soggetto (coscienza
«riflessa») è coestensiva ad ogni sua attività. Sennonché essa rimane implicita e sorda. Essa può d'altra parte
intensificarsi ed attualizzarsi: ciò si verifica ogni volta che essa diviene esplicitamente sentimento di un «io»
come principio e forma della nostra esistenza. Ma è chiaro che il vocabolo «riflessione» designa qui non
tanto un «ritorno su di sé», quanto l'attualità di una coscienza di soggettività, cioè l'atto mediante il quale io
affermo ed assumo, esercitandola (sono due cose che si riducono esistenzialmente ad una sola), la mia
peculiare soggettività (II, 126)250.

c) La distrazione. Soprattutto a proposito della riflessione (e per entrambe le sue forme) si afferma che essa
conferisce «l'aria assente», cioè distratta. La distrazione, con tutti gli equivoci e gli abbagli che ne
conseguono, altro non è, in questo caso, che l'aspetto e il segno di una «riflessione oggettiva» o di una
concentrazione intensa. Come tale, essa differisce completamente da quanto si verifica nello stato di
dispersione mentale, in cui la distrazione è effetto di una impotenza, provvisoria o definitiva, a fissare la
mente su di un oggetto (ipoprosessia), o di una impotenza ad eliminare dalla mente un'immagine assediante
(paraprosessia).

C. ATTENZIONE SPONTANEA E ATTENZIONE VOLONTARIA

353 - 1. L'ATTENZIONE SPONTANEA - È l'attenzione che deriva dal giuoco degli interessi, cioè delle
tendenze istintive o acquisite. L'attenzione dell'animale, come pure quella del fanciullo, non ha altra causa
che questa. Nell'adulto, poi, essa continuamente orienta il corso dell'attività mentale e fa discernere nella
massa delle percezioni quelle che corrispondono agli interessi ed alle inclinazioni del soggetto. Il pittore è
spontaneamente attento alle linee ed ai colori, il musicista ai suoni, e, in generale, chi esercita una
professione alle cose inerenti la propria attività.

Questa attenzione ha uno spiccato aspetto di automatismo nel fatto di seguire il corso dell'interesse.
Tuttavia bisogna ben guardarsi dal farnee uno stato passivo, giacché l'attenzione, anche spontanea. è
un'azione, e precisamente l'atto di tendere (ad-tendere) verso un oggetto, per coglierlo e conoscerlo bene.
Malebranche, sotto questo aspetto, opportunamente definiva l'attenzione come «una preghiera naturale» che

250 Si comprende così il senso che bisogna dare all'espressione «coscienza della coscienza», con la quale noi
definiamo (II, 126) questa «soggettività riflessa». Non è che la coscienza si prenda per oggetto, altrimenti andremmo
all'infinito, come in un giuoco di specchi: la coscienza si rincorrerebbe senza fine, senza poter mai raggiungersi, poiché
essa è soggetto e non oggetto. Essa si abolirebbe in questa corsa pazza di riflesso riflettente. In realtà, per «coscienza
della coscienza» non si deve intendere altro che una coscienza la quale, come coscienza, fa tutt'uno con sé, cioè una
coscienza soggettiva in atto.
212
la mente rivolge alla verità (Méditations, XIII, § II). Se l'attrazione esercitata dall'oggetto fosse «forzata»
(secondo l'espressione di Bossuet), come nei casi di ossessione o di mania, non si potrebbe più parlare, se
non impropriamente, di attenzione.

2. ATTENZIONE VOLONTARIA - Come indica l'aggettivo, l'attenzione dipende qui dalla volontà, cioè
dall'iniziativa del soggetto, e non dall'attrazione dell'oggetto. Nondimeno, questo potere d'iniziativa non è
illimitato. Non è che si eserciti attenzione a checchessia. La legge d'interesse interviene ancora
nell'attenzione volontaria, come nell'attenzione spontanea, benché sotto un'altra forma, in quanto gli interessi
che muovono la volontà sono destinati a prevalere spesso sugli interessi immediati che sollecitano
l'attenzione in altre direzioni. Lo studente sportivo che deve restare in casa a lavorare in una splendida
giornata di sole, nella quale potrebbe fare magnifiche partite, deve, con uno sforzo energico, far precedere
l'interesse per il suo lavoro all’interesse spontaneo per il giuoco. L'attenzione che egli rivolge ai suoi studi
sarà dunque il duplice frutto di una inibizione e di una applicazione. Durante l'intero corso del suo lavoro
egli potrà trovarsi a dovere rinnovare, contro le sollecitazioni del giuoco, il suo primo sforzo d'attenzione
volontaria. Ove questa attenzione non venisse sostenuta, essa tenderebbe ad affievolirsi, sino a lasciar campo
libero alle immagini del giuoco, momentaneamente respinte: a meno che l'interesse insito nel lavoro
intellettuale, risvegliato dallo sforzo iniziale, non finisca col dominare, eliminando l'interesse per il giuoco.
In questo ultimo caso l'attenzione volontaria si accoppia all'attenzione spontanea.
Il grado d'energia intellettuale dell'adulto è indicato appunto dalla capacità d'attenzione volontaria.
Inversamente, sia in dipendenza da lesioni cerebrali, sia in seguito a disordini psicogeni (isterismo,
psicastenia), l'anormale è un individuo divenuto incapace d'attenzione volontaria ed in balia del
determinismo delle immagini (aprosessia).

P. Janet (Les Névroses, p. 337, 343, 346-357) ritiene che fra le nevrosi particolarmente l'isterismo e la
psicastenia (stati ansiosi di dubbio, d'agitazione, d'ossessione) siano caratterizzati dai disordini
dell'attenzione. Nella psicastenia, il campo dell'attenzione non è che sia ristretto, ma vago e fluido; esso non
è, per così dire, a fuoco. Viceversa, nell'isterismo si ha restrizione del campo d'attenzione: gli isterici sono in
uno stato di distrazione continua, che loro impedisce di rivolgere la loro attenzione su di un oggetto diverso
da quello che occupa attualmente la loro mente.

354 - 1. LA LEGGE D'INTERESSE - Abbiamo già constatato che l'attenzione, sia essa spontanea o
volontaria, è sempre determinata dall'interesse. Non esiste attenzione disinteressata. Nei casi di attenzione
spontanea, è l'oggetto stesso che esercita, a causa del suo rapporto immediato con le tendenze, una specie
d'attrazione sulla mente o sull'immaginazione. Nell'attenzione volontaria, l'immaginazione o la intelligenza
devono applicarsi attivamente ad un oggetto privo di attrattiva immediata. Ma financo in quest'ultimo caso la
legge d'interesse continua a farsi sentire presente, giacché lo sforzo da compiere è coronato da successo solo
in quanto noi si riesca a rendere in qualche modo interessante l'oggetto da considerare. Senza di che, non
sarebbe possibile attenzione alcuna.

2. I FATTORI D'INTERESSE - Si può pertanto affermare in maniera universale che tutti gli stati
d'attenzione rivelano l'intervento, chiaro o latente, di qualche interesse. Nella sua forma e nella sua intensità
questo intervento dipenderà a sua volta sia da condizioni oggettive, sia da condizioni soggettive.

a) Le condizioni oggettive. Queste condizioni sono di due tipi: l'intensità e il carattere contrastante o
singolare dell'oggetto.
Vi sono oggetti che sembrano forzare l'attenzione unicamente in forza dell'intensità delle loro
manifestazioni. Così si spiega come non sia possibile non prestare attenzione ad un forte tuono, ad un lampo,
ad una detonazione inattesa. Tuttavia, ci si può chiedere se l'attenzione sia determinata proprio soltanto
dall'intensità con la quale l'oggetto s'impone alla percezione. Sembrerebbe piuttosto, secondo il nostro studio
sull'istinto, che l'attenzione e l'emozione, che qui sono tutt'uno, siano reazioni istintive.

Al concerto o alla conferenza dei vicini bisbigliano: essi finiscono con l'attirare l'attenzione in maniera
esasperante. Una luce insolita appare e scompare all'orizzonte durante la notte: essa richiama l'attenzione.
Ogni particolarità che spicchi, nei lineamenti o nell'abito, attira l'attenzione dei passanti, i quali si volgono
indietro e scambiano le loro riflessioni. Galvani nota, con sua grande sorpresa, che gli arti di una rana
scorticata si contraggono, non appena siano messi a contatto, mediante un filo di rame, con una verga di
ferro. Questi differenti casi si spiegano sia con la curiosità, spontanea o scientifica, sia con lo sforzo
213
d'inibizione necessario ad escludere un rumore molesto, e che finisce col fissare l'attenzione proprio su tale
rumore. Sono pertanto sempre in causa fattori soggettivi d'interesse.

b) Condizioni soggettive. Tutto finalmente viene a dipendere nell'attenzione dall'intervento delle condizioni
soggettive, poiché tutto dipende dal rapporto fra gli oggetti della percezione e, da una parte, le tendenze
istintive o acquisite, dall' altra il contenuto presente della coscienza. Le contrazioni degli arti della rana
avevano un interesse speciale per Galvani, date le sue ricerche sull'elettricità. L'ascoltatore appassionato che,
alla conferenza o al concerto, è infastidito dai bisbigli dei vicini, a stento si accorgerebbe di questi se non
sentisse interesse per i brani eseguiti dall'orchestra o per le idee esposte dal conferenziere. Sicché
constatiamo che il determinismo che governa gli stati d'attenzione non è tanto quello meccanico degli
oggetti, quanto il determinismo finalistico delle tendenze e delle inclinazioni.

Lo studio delle condizioni d'efficacia della pubblicità è a questo riguardo molto suggestivo. S'è potuto
valutare l'effetto di certe condizioni oggettive: si constata per esempio che le inserzioni pubblicitarie su
giornali e riviste hanno maggiore effetto sulla pagina di destra che su quella di sinistra, e nel lato inferiore
che in qualsiasi altro punto, che l'effetto è raddoppiato quando siano inquadrate da una linea, che questo
effetto aumenta in rapporto diretto alla grandezza dell'avviso ed alla concisione del testo. La ripetizione
ostinata porta a sua volta a buoni risultati. Ma la maggiore efficacia l'hanno di gran lunga i procedimenti che
mirano a risvegliare ed a stimolare il bisogno al quale si riferisce l'oggetto della pubblicità. Gli «annunci-
bisogno» sono senz'altro i più letti (nella proporzione del 39%) e i ricordi che essi lasciano nei lettori
superano dell'11 % quelli degli altri annunci (cfr. H. Wallon, Principes de Psychologie appliquée, Parigi,
1930, p. 185-193).

355 - 3. TEORIA SENSISTICA DELL'ATTENZIONE - Le osservazioni che precedono ci permetteranno


ora di giudicare la teoria sensistica dell'attenzione, così come è stata proposta da Condillac e da Taine e
modificata da Ribot.

a) L'attenzione, sensazione predominante. Condillac pretende ridurre l'attenzione ad una «sensazione


predominante». Taine dichiara dal canto suo che l'attenzione è «il fascino esercitato sullo spirito da
un'immagine ossessionante». Ebbene, lo studio che precede ci dimostra che queste definizioni calzerebbero
già assai male all'attenzione spontanea, per la quale una sensazione non è mai predominante in sé e per sé,
ma soltanto in relazione all'istinto che essa stimola o al meccanismo abituale che essa mette in movimento,
cioè in relazione a fattori interni. A maggior ragione queste teorie falliscono completamente nella
spiegazione dell'attenzione volontaria, che ha proprio una direzione opposta a quella delle sensazioni e che è
agli antipodi dell'ossessione.

356 - Riduzione dell'attenzione volontaria all'attenzione spontanea. Il Ribot ha cercato di evitare l'ostacolo
che l'attenzione volontaria costituisce per questa teoria. Ed eccolo fare ogni sforzo per ridurre l'attenzione
volontaria all'attenzione spontanea, invocando l'intervento della legge di «transfert». Non v'è altra
attenzione, egli sostiene, che quella spontanea. Non si può ottenere che l'attenzione si rivolga ad un oggetto
non corrispondente agli interessi immediati, se non associandolo a questi interessi («transfert»). Perché
questo studente sportivo rimane in casa a studiare la geometria, per la quale non prova nessun gusto? Perché
è stato annesso a tale studio l'interesse naturale che lo studente ha per i suoi successi scolastici o per la sua
carriera. Alla stessa maniera, con la promessa di una ricompensa si inducono i fanciulli a prestare la loro
attenzione a composizioni che li annoiano. Si potrebbe persino dimostrare che tutta la civiltà poggia
sull'intervento infinitamente vario di questa legge di «transfert». Quasi mai gli uomini fanno quello che piace
loro. Nella maggior parte dei casi essi devono agire contro i loro gusti innati e le loro inclinazioni spontanee.
E fanno ciò, tuttavia, generalmente bene, perché la società ha associato a queste attività fastidiose o
indifferenti provvidenze d'ogni genere (guadagno, onori, punizioni contro i delinquenti, ecc.), che ad esse
comunicano i loro particolari interessi.
Questa teoria ingegnosa è insufficiente quanto quella di Condillac e di Taine. Com'è possibile ridurre
l'attenzione volontaria ad un fenomeno di passività? Il «transfert» può bensì spiegare certi casi d'attenzione
volontaria, ma non li spiega tutti, poiché è cosa certa che esso non sempre interviene, e che comunque
interviene molto irregolarmente. Anche le più allettanti promesse non riescono a far decidere un ragazzo ad
applicarsi a un dovere che egli trovi pesante; né le sanzioni sociali riescono ad impedire che gli uomini si
comportino male. D'altra parte, questa teoria non può spiegare lo sforzo che accompagna l'attenzione
volontaria. La trasformazione dell'attenzione volontaria in attenzione spontanea (per effetto del «transfert»
214
d'interesse) dovrebbe portare alla soppressione dello sforzo. Orbene, se è vero che l'intensità dello sforzo
richiesto può diminuire per effetto d'un «transfert» d'interesse, è pur vero che ne permane sempre l'esigenza.
Per quanto alti siano i salari attribuiti a certi mestieri pericolosi o penosi, le attività richieste rimarranno
sempre difficili e dure.

Art. II - Natura dell'attenzione


§ l - Psicologia dell'attenzione

A. I CARATTERI DELL'ATTENZIONE

357 - L'attenzione, quale appunto abbiamo ora descritto nelle sue differenti forme, presenta essenzialmente
due aspetti: un aspetto negativo, costituito dall'esclusione dal campo della coscienza di tutti gli elementi
estranei all'oggetto dell'attenzione, ed un aspetto positivo, che consiste nel rafforzamento della percezione.

1. L'INIBIZIONE - L'attenzione, sia che riguardi un oggetto esteriore, sia che riguardi un oggetto interiore,
esige ed attua l'esclusione quanto più completa possibile di tutti gli oggetti estranei. Si constata,
effettivamente, che l'uomo assorbito nella sua meditazione sembra non vedere e non udire più niente. Ma
anche a prescindere da simili casi di applicazione intensa, l'attenzione normale richiesta dai compiti abituali
in cui ci troviamo impegnati ha già per effetto e per condizione di attenuare notevolmente il richiamo degli
oggetti esteriori. Questa inibizione ha dei gradi e non è mai totale, quasi che gli organi sensoriali non
percepissero più niente. L'uomo che se ne va per la via tutto assorto nella sua riflessione, ometterà di salutare
gli amici che incontra, e non li noterà forse neanche, ma schiverà a dovere i vari mezzi di trasporto. Non
diversamente, il lettore, assorto nella lettura di un romanzo dalle vicende appassionanti, nonostante tutto ode
almeno vagamente le domande che gli sono poste. Egli non risponde a queste con immediatezza, a meno che
voglia fare lo sforzo di adattamento richiesto. Ma, chiuso il libro, o risponde alle domande rimaste senza
risposta, o chiede che esse gli vengano ripetute. Alla stessa maniera, il passante distratto si ricorda, al suo
rientro, di avere incontrato diversi amici senza rispondere al loro saluto. Ritroveremo questi differenti casi,
quando studieremo il subcosciente.

358 - 2. INTENSIFICAZIONE DELLA PERCEZIONE

a) Il monoideismo dell' attenzione. L'inibizione attua dunque una concentrazione dello sguardo della
coscienza su di un oggetto messo a fuoco in piena luce. Ecco perché Ribot parlava del monoideismo
dell'attenzione. Tuttavia, non bisognerebbe intendere questa espressione nel significato di una specie di vuoto
coscienziale, come si ha negli animali. L'immagine, l'idea, il ricordo che sono fissati dall'attenzione sono
colti al contrario nella loro ricchezza, nella varietà dei loro particolari e dei loro aspetti. Altrimenti
l'attenzione sarebbe presto esaurita per mancanza d'oggetto, o produrrebbe una sorta di obnubilazione
interiore, simile al sonno ipnotico. L'attenzione continua è costituita, in realtà, da una moltitudine successiva
di atti percettivi.

b) L'effetto selettivo dell' attenzione. Per effetto di questa concentrazione, l'oggetto dell'attenzione è
percepito con una intensità singolare, che risulta non precisamente dal fatto che esso è osservato o
considerato in modo più energico, giacché l'attenzione non modifica niente nell'oggetto, ma dal fatto che esso
è isolato da un complesso, considerato a parte, e che appare pertanto sotto un aspetto che non aveva come
semplice elemento di un tutto. Ritroviamo dunque a questo punto le leggi della percezione, che ci aiutano a
comprendere meglio il meccanismo selettivo dell'attenzione e gli sforzi che questa richiede per fissare,
separare e studiare in tutto un elemento isolato dagli altri. La principale difficoltà dell'opera d'inibizione non
è data tanto dalla necessità di eliminare gli apporti contingenti della percezione esteriore, quanto dalla
necessità d'impedire la ricostituzione del tutto di cui fa parte l'elemento considerato.

c) L'autoscopia. Si conoscono gli effetti dell'autoscopia, pratica consueta per i malati che soffrono di dolori
interni e si lasciano prendere dalle sensazioni derivanti dalla loro cenestesia, - o per i malinconici che una
riflessione ostinata riconduce costantemente a rimuginare le cause della loro tristezza. - Si potrebbe pensare
che l'attenzione abbia per effetto di accrescere il disagio fisico o morale: ipotesi tanto più verosimile, in
quanto, trovando il mezzo di distrarre questi malati, si riesce a far loro dimenticare per un momento il loro
male. Nonostante tutto, rimane vero che l'attenzione, anche in casi di questo generale, non modifica in sé e
215
per sé l'oggetto. In quanto poi si tratta di sentimenti interni, essa ha soltanto l'effetto di intensificare
l'influsso nervoso, e, per ciò stesso, la forza dell'eccitazione.
B. IL PROBLEMA DELL'ATTENZIONE MOLTEPLICE

359 - La soluzione del problema di sapere se è mai possibile prestare attenzione a più cose
contemporaneamente si evince da quanto abbiamo ora detto. Poiché l'attenzione ha come caratteristica la
concentrazione della coscienza, essa non può ammettere più oggetti simultanei, l'effetto dei quali sarebbe
necessariamente quello di disperdere lo sguardo della coscienza. In obiezione a ciò si adducono fatti di varia
specie. Ma noi vedremo che questi sono male interpretati.

1. I CASI DI ATTENZIONI ALTERNANTISI - Si cita il caso di Cesare che dettava tre lettere differenti
nello stesso tempo in cui egli ne scriveva a sua volta una quarta. Si ha, del resto, il caso frequente
dell'operaio che attende contemporaneamente a più macchine. I giocatori di scacchi, a loro volta, fanno
attenzione contemporaneamente a tutti gli elementi del loro giuoco ed a tutti quelli del giuoco
dell'avversario. Si tratta in realtà di casi d'attenzioni successive ed alternantisi, in un rapidissimo passaggio
da un oggetto ad un altro.

2. I CASI D'ATTENZIONE E D'AUTOMATISMO SIMULTANEI Esempi tipici, in questo gruppo, sono


quelli del pianista che legge il giornale o un romanzo mentre esegue scale ed arpeggi, - dell'automobilista che
guida la sua vettura mentre sostiene una conversazione animata, - del dentista che, per distrarre il suo cliente,
gli parla di cose suscettibili di destargli interesse. Neppure in questi casi si tratta di attenzione simultanea a
diversi oggetti, ma di attenzione ad un solo oggetto, grazie all'esecuzione automatica dell'altra azione . In
rapporto alla cessazione dell'intervento di questo automatismo, l'una o l'altra delle due azioni è parimenti
interrotta, o viene eseguita obliquamente: il pianista legge il suo giornale mentre si esercita nelle scale, ma si
troverebbe in difficoltà a fare altrettanto se dovesse suonare uno studio impegnativo; l'automobilista
interrompe la sua conversazione, non appena la guida della vettura richiede un'attenzione particolare, ecc.

3. I CASI D'ATTENZIONE PANORAMICA - Si adducono infine i casi di attenzione che riguardi vasti
complessi, panorami, brani di musica complessa, partite di calcio, ecc. L'attenzione sembra cogliere
simultaneamente tutti gli elementi di questi complessi. In realtà, si constata che la percezione complessiva si
fa sempre più confusa, man mano che essa tenda a cogliere in modo esplicito un maggior numero di
elementi251. Così si spiega come al concerto l'attenzione rivolta agli strumenti considerati isolatamente o agli
dementi musicali distinti dalla massa sonora finisce con l'essere solo un'attenzione oscillante quanto agli
elementi e confusa quanto all'assieme. Oppure gli elementi come tali rimangono in secondo piano, e sarà il
tutto, sarà la forma, la struttura, il disegno o il ritmo ad essere oggetto diretto dell'attenzione ed a costituire
l'unità necessaria ad una percezione chiara e distinta.

360 - 4. LA DURATA DELL'ATTENZIONE - Il problema della durata dell'attenzione esige una


distinzione fra stato d'attenzione ed atto d'attenzione.

a) Lo stato d'attenzione. Lo stato d'attenzione è compatibile con distensioni e distrazioni relativamente


numerose. Esso è infatti continuamente punteggiato d'ostacoli quali percezioni, ricordi, immagini, che
tendono a ridurlo ed a sviarlo verso altri oggetti. Ogni stato d'attenzione è dunque più o meno intermittente.
Si può considerare che esso duri fin tanto che l'attenzione ritorni, senza interruzione notevole, al medesimo
oggetto.

La durata di uno stato d'attenzione è estremamente variabile secondo gli individui, secondo le età, secondo
le circostanze. Il fanciullo non è in grado di rimanere a lungo attento. Si possono ottenere da lui atti di
attenzione intensa, ma non stati prolungati d'attenzione. Questa è in lui di un'estrema mobilità. Egli si stanca
molto presto. Nell'adulto, la durata dello stato d'attenzione dipende dalla potenza d'applicazione,
dall'interesse dell'oggetto, dalle condizioni fisiche (nei periodi di stanchezza l'attenzione è difficile, talvolta
anche impossibile). Comunque, lo stato d'attenzione non può durare indefinitamente. La stanchezza che esso
provoca richiede, dopo tempi variabili, un riposo più o meno prolungato. Il sonno potrebbe essere definito
come uno stato di nonattenzione destinato a compensare le fatiche dell'attenzione vigile.
251 Myers (A text-book of Exp. Ps., p. 321-313) cita diverse esperienze, e fra le altre questa: Se si mostrano all'occhio
simultaneamente più segni (lettere, punti, linee) senza che l'occhio faccia movimenti durante l'esperienza, si constata
che il massimo delle percezioni nette simultanee è di cinque. Oltre cinque, la percezione degli elementi si fa confusa.
216

b) L'atto d'attenzione. Lo stato d'attenzione consta di atti multipli d'attenzione, che sono come delle unità
nell'ambito dell'attenzione che dura. Ebbene, questi atti d'attenzione, considerati in se stessi, si presentano
come soggetti ad una sorta d'oscillazione o di ritmo, a causa di un duplice movimento di tensione e di
distensione.

Un'esperienza semplicissima consiste nel porre un orologio ad una .certa distanza dal soggetto: distanza
calcolata in modo tale che egli possa giusto udire il tic-tac dell'orologio. Lo si invita a fare un segno ogni
volta che egli lo percepisce, e un altro segno non appena cessi di percepirlo. Ebbene, si constata che la
percezione del tic-tac è interrotta ad intervalli sensibilmente uguali.

361 - 5. LA MISURA DELL'ATTENZIONE. Procedimenti e risultati. Si sono escogitati diversi mezzi


sperimentali per misurare la capacità d'attenzione, nelle sue differenti forme. Ma da queste esperienze non ci
possiamo attendere che delle medie poco precise, a causa dei molteplici (o variabili) fattori che intervengono
nell'attenzione: natura ed intensità dello stimolo, abitudini, condizioni mentali, stato nervoso, grado
d'applicazione volontaria, - ed anche a causa dell'impossibilità in cui ci si trova di determinare ogni volta il
valore esatto di questi diversi fattori nel complesso attenzionale.

a) Procedimenti. Per l'attenzione aspettante ci si serve delle prove sperimentali dei tempi di reazione,
secondo i metodi da noi già esposti. Per l'attenzione di discernimento s'è fatto frequente ricorso al metodo
della cancellazione. Il soggetto deve cancellare con un tratto di matita alcune lettere o gruppi di lettere (per
esempio, tutte le a, o tutte le s, o la seconda lettera nelle doppie, o tutte le vocali interconsonantiche) in un
testo che gli viene sottoposto e che non contiene parole a lui note. Questa tecnica può anche essere applicata
sotto un'altra forma: invece d'avere delle lettere da cancellare, il soggetto deve reagire a certi segni agendo su
di una chiave Morse. L'esperienza dura da tre a quattro minuti ogni volta, ed i segni presentati ammontano a
duecento ogni trenta secondi. Si registrano, insieme, (mediante il chimografo e segnali Desprez) sia il
momento del segnale che il momento della reazione. Si può cosi misurare la durata dell'atto di attenzione del
soggetto, cioè la lunghezza di tempo durante la quale il soggetto è capace di mantenere fissa la sua
attenzione.

b) Risultati. Calcolando, per ogni intervallo di tempo, la durata delle reazioni e il numero degli errori, si
ottiene la durata media di un'onda di attenzione. Si constata, mettendo a confronto i risultati ottenuti su
numerosi oggetti, che l'onda media è d'una durata cortissima, inferiore a due secondi.
Una volta stabilita questa durata, si può cercare di determinare la durata dello stato d'attenzione; a questo
scopo si studiano i risultati ottenuti per l'intero intervallo di tempo (da due a tre minuti): la media dei risultati
delle diverse sedute dà una media generale della capacità d'attenzione e caratterizza il comportamento di un
soggetto. Si constatano qui differenze molto sensibili fra i diversi soggetti, differenze che consentono di
distinguere i tipi attenzionali seguenti: soggetti nei quali le onde dell'attenzione si fanno via via più grandi ed
in maniera uniforme: essi giungono a stabilizzare il loro tempo di reazione ed il numero dei loro errori; -
soggetti nei quali le onde d'attenzione aumentano, ma con intermittenze: la loro attenzione è periodica; -
soggetti la cui attenzione diminuisce rapidamente: onde prolungate sono a loro caratteristiche; ma in
compenso i tempi di reazione aumentano in fretta, così come il numero degli errori; - soggetti che si adattano
lentamente, ma che una volta adattati hanno reazioni sempre più pronte ed errori sempre meno numerosi; -
soggetti dal comportamento disordinato252.

§ 2 - Fisiologia dell'attenzione

362 - 1. LE CONDIZIONI ORGANICHE - L'attenzione comporta fenomeni organici generali e fenomeni


speciali. I primi concernono la circolazione (accelerazione del ritmo cardiaco e vaso-costrizione periferica), -
la respirazione (diminuzione delle espirazioni, aumento delle inspirazioni), - il sistema muscolare (in
generale, immobilizzazione).
I fenomeni organici speciali risultano dall'adattamento dei differenti organi sensoriali nell'intento di
ottenere la migliore percezione possibile: assunzione di direzione e convergenza degli occhi, rotazione della
testa, orientamento del padiglione auricolare verso l'oggetto e tensione dei muscoli del timpano; aspirazioni
nasali; palpazione, ecc. Inoltre, l'attenzione ha una sua mimica molto espressiva: atto di chinare la testa, di

252 Cfr. Gemelli-Galli, Ricerche sull'attenzione, «Archivio ital. di Psicologia», I, 1-2, 1920.
217
alzare gli occhi o di chiuderli, corrugamento della fronte, aggrottamento del sopracciglio, atto di chiudersi la
testa fra le mani, ecc.

2. TEORIA PERIFERICA DELL'ATTENZIONE - Alcuni psicologi hanno voluto rifarsi, per l'attenzione, a
questi fenomeni organici e fisiologici. Ecco dunque Ribot affermare che le manifestazioni motrici
dell'attenzione non sono né effetti, né cause, ma elementi, che, congiunti allo stato di coscienza che
costituisce l'aspetto soggettivo di questo fenomeno, danno luogo all'attenzione.

Questa tesi va accostata alla teoria periferica dell'emozione, che già abbiamo discussa (332). Essa non è
più accettabile di quest'ultima. Abbiamo infatti constatato che l'emozione non è spiegabile che come reazione
ad una rappresentazione: ebbene, questo carattere è ancor più evidente nell'attenzione, particolarmente
nell'attenzione volontaria. Le modificazioni organiche che intervengono nell'attenzione sono conseguenze
dell'attività attenzionale, ma non costituiscono quest'ultima. L'attenzione è essenzialmente un fenomeno
mentale, che comporta condizioni fisiologiche centrali e periferiche. Del resto, la tesi di Ribot cadrebbe
completamente nella spiegazione dell'attenzione riflessiva. Ci si spiegano i fenomeni organici quando si
tratta d'attenzione rivolta ad un oggetto esterno. Ma come si spiegherebbe una loro funzione quando si tratti
di ottenere l'attenzione ad un oggetto interiore al pensiero? Infine, numerosi sono i casi in cui si deve prestare
attenzione inibendo le manifestazioni esterne dell'attenzione (per educazione, per prudenza, per riservatezza,
ecc.), o anche ostentando la maggior indifferenza di questo mondo. Da tutto ciò si deduce che l’attenzione è
relativamente indipendente dalle sue condizioni ed espressioni somatiche.
218

CAPITOLO SECONDO

IL PENSIERO

Nozioni Generali

SOMMARIO253

Art. I - LA NOZIONE DI PENSIERO. Logica e psicologia del pensiero. - Difficoltà - Metodi.

Art. II - NATURA EMPIRICA DEL PENSIERO. Il comportamento intelligente. - L'intelligenza negli


animali - L'intelligenza umana - I livelli intellettuali - Livelli intellettuali negli animali - Nell'uomo -
La patologia mentale - Intelligenza e ragione. Limiti del comportamento intelligente nell'animale. -
La ragione - Il pensiero.

Art. III - IL PENSIERO E IL LINGUAGGIO. Il pensiero senza linguaggio - Il gesto e la mimica - Casi di
sordomutismo - Il pensiero implicito - Il pensiero e il discorso - Discorso interiore ed esteriore - Il
linguaggio concettuale - Pensiero e società - L'origine del linguaggio.

Art. I - La nozione di pensiero


363 - 1. LOGICA E PSICOLOGIA DEL PENSIERO

a) Il pensiero in generale. La parola pensiero che, etimologicamente significa pesare (pensare), cioè
misurare, stimare e comparare, è riferita ad operazioni mentali molto varie: analisi e sintesi, associazione e
dissociazione, paragone e relazione, invenzione ed organizzazione, intuizione e discorso, ecc. I logici, da
Platone ed Aristotele in poi, gli riconoscono come caratteristiche essenziali le tre operazioni di concepire
delle idee, di giudicare e di ragionare. Ma se è vero che concepire, giudicare e ragionare sono
incontestabilmente operazioni intellettuali che si incontrano costantemente nell'attività del pensiero,
quest'ultimo, considerato psicologicamente, è qualcosa di più semplice e di più generale, che bisogna cercare
di descrivere anzitutto in maniera oggettiva nelle condizioni di fatto delle sue manifestazioni. Soltanto in
seguito lo studieremo pertanto nei suoi mezzi universali, che sono l'idea, il giudizio, il ragionamento.

b) Empirismo ed idealismo. Si vede subito, dunque, quanto arbitrari siano i problemi che gli empiristi e gli
idealisti pongono comunemente alla base della psicologia dell'intelligenza. Partendo non già dal pensiero, ma
dalle sue forme logiche essi si sforzano di stabilire quale di queste sia la più primitiva e la più essenziale. Per
Platone è l'intuizione delle Idee, cioè secondo la sua dottrina, l'intuizione delle Forme pure o Essenze del
mondo intelligibile. Per Cartesio e per Kant, come pure per numerosi filosofi moderni, l'essenza del pensiero
sta nel giudizio. Wundt ritiene invece che la funzione prima ed essenziale del pensiero sia quella propria del
ragionamento.

Queste discussioni dipendono da un postulato contestabile, che si ritrova identico nell'empirismo e


nell'idealismo: l'elemento dato, cioè consisterebbe in termini-atomi. Si tratta di spiegare i rapporti coi quali
questi termini sono fra di loro collegati: essi sarebbero, per gli empiristi, il risultato di pure associazioni
meccaniche delle immagini, e per gli idealisti opera di una ragione che al caos sensibile impone
253 Cfr. M. Blondel, La pensèe, t. I, Parigi, 1934. - Binet, Étude experimentale de l'intelligence, Parigi, 1904. - Piaget,
Le langage et la pensée chez l'enfant, Parigi, 1924; La Psychologie de l'intelligence, Parigi, 1947. - Bourdon,
L'intelligence, Parigi, 1926. - Thorndike, Animal intelligence, Nuova York, 1911. Buytendije, La psychologie des
animaux, Parigi, 1928. - Kohler, Intelligenzprufungen an Anthropoiden, II ed., 1924; L'intelligence des singes
supérieurs, trad. Guillaume, Parigi, 1927. - Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. V, p. 85 sg. (Delacroix). - L.
Guillaume, La psychologie animale, Parigi, 1940, c. V. - Dwelshauvers, L'étude de la pensèe, Parigi, 1935. - J. Paliard,
Pensèe implicite et perception visuelle, Parigi, 1949.
219
sovranamente il suo ordine e le sue proprie leggi. Ma lo studio della percezione ha mostrato ciò che v'è
d'arbitrario in queste dottrine. Da una parte, infatti, non vi sono oggetti puri, atomi di percezione: ogni
oggetto implica una organizzazione o ad un'organizzazione è connesso (141, 210). D'altra parte, ci sono
relazioni che sono percepite primitivamente, mentre i loro termini, considerati isolatamente, non hanno
alcuna realtà psicologica (Guillaume, Psychologie de la Forme, p. 165). Non è dunque il caso che noi ci
addentriamo qui in problemi specificamente filosofici, ma che limitiamo il nostro studio al pensiero nelle sue
condizioni più generali.

364 - 2. DIFFICOLTÀ - Lo studio psicologico del pensiero ha in sé difficoltà particolari. Anzitutto, le


operazioni intellettuali sono costantemente associate a fenomeni sensibili. Ciò è quanto Aristotele notava in
una celebre formula: «Non si pensa senza immagine». Al che si può aggiungere che il soggetto intelligente
non può immaginare senza pensare. Come discernere in questo complesso psicologico tanto intricato ciò che
è pensiero propriamente detto da ciò che è pura. attività sensibile? Si è voluto trovare un criterio
nell'astrazione. I fenomeni intellettuali sarebbero essenzialmente quelli che risentono di un carattere astratto,
cioè quelli che concernono oggetti spogliati della loro singolarità concreta: l'uomo, e non. quell'uomo che è
Callia, la tavola e non questa tavola sulla quale io sto scrivendo, l'essere in generale e non quell'essere.
Vedremo che queste sono osservazioni giuste. Ma appare difficile adottarle in partenza, dovendo la nozione
d'astrazione essere accuratamente precisata e distinta da certe forme astrattive già presenti nell'attività
sensibile. Il partire dalla nozione di astrazione sarebbe come dare un giudizio anticipato nella soluzione del
problema del pensiero.

Una seconda difficoltà inerente questo studio sta nel carattere transitivo delle operazioni intellettuali. Gli
empiristi hanno voluto girare l'ostacolo considerando soltanto gli elementi o i prodotti del pensiero, ridotti a
loro volta a cose nella coscienza. Ma questo si chiama falsare fondamentalmente, sin dalla partenza, lo studio
del pensiero: giacché questo è atto, e pertanto, almeno così come è esercitato dall'uomo, dinamismo e
movimento. E si sa quanto sia difficile da osservare e da descrivere ciò che è mobile.

365 - 3. METODI - Bisogna, qui come altrove, fare anzitutto ricorso ai procedimenti sperimentali. Questi
procedimenti sono sia oggettivi, sia introspettivi.

a) Metodi oggettivi. Obiettivamente, il pensiero si trova evidentemente fissato nel linguaggio scritto e
parlato. Leibniz osserva giustamente che i linguaggi sono lo specchio della mente umana e che «un'analisi
esatta del significato delle parole farebbe conoscere meglio di ogni altra cosa le operazioni dell'intelletto».
Tuttavia, il linguaggio ci mette in possesso soltanto di un pensiero compiuto, eminentemente rivelatore per il
logico e per il grammatico, ma non sufficientemente rivelatore, per lo psicologo, dei processi costitutivi ed
elementari del pensiero, quali, per esempio, si possono osservare nel fanciullo, prima che diventi padrone del
linguaggio.
Quanto poi allo studio del comportamento, esso può dare migliori risultati allo psicologo. Si tratterà di
discernere, nella maniera di reagire a determinati stimoli, ciò che può servire a caratterizzare l'operazione
propriamente intellettuale.

b) Metodi introspettivi. In fatto di metodi introspettivi, vanno citati gli interrogatori orali (Ribot) ed il
procedimento cosiddetto di retrospezione di Binet e della Scuola di Wurzburg (Kulpe, Bohler). Abbiamo già
parlato, nell'introduzione, degli uni e degli altri (31-33) ed abbiamo notato che questi procedimenti possono,
a certe condizioni, dare risultati apprezzabili. I loro limiti sono segnati dal rischio, difficile da eliminare, di
far cogliere soltanto i risultati delle operazioni intellettuali e non le tappe e i mezzi di queste ultime. Il
soggetto, teso verso la risposta da dare o la risoluzione da trovare, è pressoché incapace di notare e di
segnalare le fasi dell'elaborazione, l'andirivieni a zigzag del procedere del pensiero. L'esperimentatore rischia
pertanto di aver provocato e d'aver colto, alla fine, semplicemente delle reazioni elementari e non la
complessità vivente di un pensiero in movimento.

Art. II - Natura empirica del pensiero


366 - Nostro scopo è quello di cercare di definire sperimentalmente i caratteri specifici dell'intelligenza, in
modo da determinare sia le condizioni radicali della vita intellettuale, sia i processi tipici dell'intelligenza.
220
§ l - Il comportamento intelligente.

A. L'INTELLIGENZA NEGLI ANIMALI.

Ci interessa partire dalla psicologia animale e indagare in qual misura ed in qual forma l'intelligenza possa
esistere nel mondo animale. Questo studio è infatti suscettibile di rivelarci alcuni aspetti molto generali
dell'intelligenza e di chiarirci, almeno per contrasto, il comportamento intelligente dell'uomo.

1. L'ADATTAMENTO ALLE SITUAZIONI CONCRETE - Abbiamo già visto che nell'istinto


l'adattamento ad una data situazione è specifico ed invariabile (266-267). Onde si parla d'intelligenza
qualora l'adattamento comporti un certo margine di variabilità, cioè implichi una reazione improvvisata ed
inedita ad un'eccitazione nuova ed inattesa. L'adattamento, in questo caso, procede per selezione di mezzi o,
in altri termini, di processi che, in se
stessi ed isolati dal complesso, non
hanno alcun senso e non sono
intelligibili se non in rapporto al fine
perseguito. Il Kohler
(Intelligenzprufungen an
Anthropoiden, cfr. tr. fr., p. 11-48)
offre un grande numero di esempi,
alcuni dei quali citeremo qui.

a) Esperienza della deviazione. Si


offre ad una scimmia il suo cibo.
Essa vi si dirige per la via più breve.
Ma se si interpongono fra la scimmia
ed il cibo ostacoli vari, che
costringano a deviazioni, si constata
che gli scimpanzé da quattro a sette
anni «sanno immediatamente
aggirare ogni ostacolo interposto fra
loro e la meta, se hanno una visione
sufficiente dello spazio che contiene
le curve di deviazione possibili». In
situazioni simili, un cane ed un gatto
si mostrano molto impacciati, una
gallina è completamente spaesata e si
dà a movimenti disordinati (Fig.
14a).

b) Esperienza della fune (Fig. 14).


Un problema più difficile consiste
per lo scimpanzé nell'impossessarsi
di un'esca per il tramite di uno strumento. Eccone una prima maniera: l'esca è attaccata ad una funicella o ad
un fuscello di paglia. «L'oggetto era per terra, ad un metro circa dalla rete della gabbia; un fuscello flessibile
vi era attaccato e con la sua estremità libera, sul suolo nudo del resto, giungeva sino alla rete. Non appena
Nueva ebbe visto lo scopo, afferrò la paglia e se ne servì con precauzione per attirare l'oggetto» (Fig. 14b).
La ripetizione della medesima esperienza con altri scimpanzé dimostra che «il gesto di tirare a sé è sempre
stato fatto in vista dell'oggetto: uno sguardo all'oggetto, e l'animale incomincia a tirare, dirigendo la sua
attenzione allo scopo e non alla corda». Niente di simile con cani e cavalli: essi si lascerebbero morire di
fame in situazioni in cui per lo scimpanzé e per l'uomo si tratterebbe di un semplice problema. Tuttavia, lo
scimpanzé tira a sé la fune soltanto se questa e l'esca si trovano in contatto ottico. Se il filo è molto lungo,
l'animale tira la corda soltanto se s'interessa a questa in sé e per sé, e non più come mezzo per avere l'esca.
Kohler ne deduce che il «legame» corda-esca pare sia per lo scimpanzé soltanto un contatto ottico di grado
più o meno elevato.
221
c) Esperienza del bastone. Si tratta sempre di un'esca da avvicinare, ma in condizioni che aumentano
ancora la difficoltà. Lo scimpanzé deve far venire l'esca alla sua portata per mezzo di un bastone vicino. Si
constata che le scimmie inferiori ne sono incapaci; esse manovrano semplicemente sul bastone che vedono in
contatto con l'esca, ma non cercano mai di avvicinarsi questa mediante colpi atti a farla giungere a poco a
poco a portata di mano. Lo scimpanzé, invece, si serve del bastone proprio a questo scopo, benché in modo
alquanto goffo (Fig. 14 c).

d) Esperienza della cassa. L'esca è situata in alto, fuori dalla portata dello scimpanzé, e nella gabbia è
posta una cassa. Dopo diversi tentativi per raggiungere l'oggetto con salti in altezza, lo scimpanzé trascina la
cassa sotto l'esca, vi sale sopra e coglie l'esca bramata (Fig. 14d) 254.

367 - 2. ADATTAMENTO E CASO - Questi comportamenti degli scimpanzé pare debbano essere distinti
da quelli che, nel processo per «prove ed errori» (72), danno risultati semplicemente fortuiti. In questi ultimi
casi non c'è intelligenza reale del problema da risolvere. L'intelligenza, invece, sembra avere come
caratteristica un adattamento immediato e generalizzabile insieme. Questo adattamento, d'altronde, può
rimanere immediato comportando diverse prove infruttuose, quando queste prove sono orientate
direttamente verso la soluzione del problema. La soluzione può non essere immediata, ma l'adattamento lo è
realmente. Ed è pure generalizzabile: lo scimpanzé che si è servito di una cassa per raggiungere un'esca
situata in alto saprà in seguito servirsi di un'altra scimmia come sgabello, oppure collocherà più casse una
sopra l'altra (cfr. Kohler, op. cit., p. 128; Guillaume e Meyerson, Recherches sur l'usage de l'instrument chez
les singes, «Journal de Psychologie normale et pathologique», 1937, p. 425 sg.).

Vi sono bensì casi in cui l'intelligenza è una sorta d'ostacolo. Ma in tali. circostanze essa si manifesta
altrettanto chiaramente che nei suoi successi. La scimmia inferiore (gibbone) risolve talvolta mediante
semplici tentativi alla cieca problemi che la scimmia superiore e soprattutto il fanciullo considerano
dapprima con imbarazzo, avvertendo delle difficoltà e non procedendo essi per «prove ed errori». Boutan
(Les deux méthodes de l'enfant, Bordeaux, 1914) osserva che il fanciullo, in presenza di scatole dal
meccanismo invisibile, anziché toccare dappertutto ottenendo un risultato positivo per puro caso, riflette e se
ne sta cheto. Il suo imbarazzo è evidentemente indice di superiorità 255.

I successi ottenuti col procedimento dei tentativi alla cieca costituiscono casi fortuiti soltanto nel
comportamento puramente istintivo. In un comportamento intelligente, prove ed errori servono a chiarire la
situazione ed a definire una direzione. I successi sono pertanto una soluzione e non un semplice risultato.
All'opposto, per gli animali inferiori, l'insuccesso è assoluto: o viene ripetuta a non finire una reazione
assurda, oppure ogni tentativo viene abbandonato. Nel comportamento intelligente, invece, l'insuccesso
costituisce un insegnamento: esso porta ad inventare altre soluzioni più efficaci. Da ciò si vede che non è
precisamente il procedimento per tentativi che si oppone all'intelligenza, bensì il tentativo meccanico, non
finalizzato. Lo scimpanzé non procede mai, come riconosce Kohler, se non per prove ed errori. Altrettanto fa
il bimbo. Ma sia il fanciullo che la scimmia superiore sanno far tesoro dei loro insuccessi, sanno sfruttare e
fino ad un certo punto generalizzare gli accidenti fortunati.

B. L'INTELLIGENZA UMANA.

368 - 1. LA CULTURA, OPERA DELL'«HOMO FABER» Nell'uomo, evidentemente, scopriamo il più


eloquente tipo di comportamento intelligente. L'uomo, che, nei confronti dell'animale, è povero in istinti, ha
in compenso una quantità enorme di bisogni che richiedono adattamenti costantemente nuovi e, per ciò
stesso, una funzione specifica d'invenzione e d'organizzazione. Quel che si chiama civiltà o cultura non è che
un insieme prodigiosamente complesso di adattamenti, relativi ai bisogni materiali e spirituali dell'uomo.
Dalle sue origini, e sia nelle forme intime che nelle più nobili della cultura, l'umanità è essenzialmente una
specie che si pone dei problemi e che li risolve mediante gli strumenti che essa continuamente produce con
inesauribile ingegnosità. Nell'invenzione delle arti meccaniche, nelle tecniche della logica, nelle teorie
scientifiche e nelle speculazioni dei filosofi, nelle tecniche del diritto e nelle costituzioni politiche, scopriamo
sempre lo stesso tipo di sforzo intellettuale, derivante biologicamente dalla necessità vitale di soddisfare ai
bisogni complessi dell'uomo, attraverso la soluzione di problemi costantemente rinnovati, col ricorso a

254 Cfr. Guillaume, La Psychologie des singes, in Dumas, N. Traité de Psychologie, t. VIII, p. 261-290.
255 Cfr. A. Rey, L'intelligence pratique chez l'enfant, Parigi, 1935.
222
strumenti sempre più numerosi e precisi. L'uomo, da questo punto di vista, può essere caratteristicamente
considerato come fabbricante di strumenti ed utensili. Homo faber (Bergson).

2. I CARATTERI DELL'INTELLIGENZA UMANA - Se è vero che la peculiarità dell'intelligenza sta nel


fatto di risolvere problemi nuovi attraverso adattamenti inediti di mezzi ad un fine, o, secondo la formula di
Auguste Comte, se l'intelligenza appare come «l'attitudine a modificare il proprio comportamento
conformemente alle circostanze di ogni caso», dovremo dire che l'intelligenza consiste nel comprendere una
situazione, cioè nel percepire un complesso di dati in quanto coordinati fra di loro, nell'inventare o scoprire i
mezzi adatti ad un fine, nel criticare, cioè scegliere fra soluzioni possibili quella che meglio risponde al fine
che si persegue, infine, nel dirigere od organizzare il comportamento, fisico o morale, in un determinato
senso, attraverso una serie di aggiustamenti finalizzati. In altri termini, che tutto riassumono, l'intelligenza
trova una sua chiara caratteristica nella funzione d'organizzazione mentale che si crea gli strumenti
appropriati e che, proprio perciò, coglie e mette in funzione dei rapporti 256.

§ 2 - I livelli intellettuali

369 - Dal punto di vista psicologico, si è portati a discernere differenti livelli o gradi d'intelligenza, sia
nella specie animale che in quella umana. D'altra parte, insorge il problema di sapere se è possibile passare
dall'animale, fosse anche il più intelligente, all'uomo, fosse anche il più sprovveduto, per semplice continuità:
sapere, insomma, se fra l'animale e l'uomo esiste semplicemente una differenza di grado.

A. LIVELLI INTELLETTUALI NEGLI ANIMALI.

Se alla parola intelligenza non si vuol dare un significato ben definito, onde venga ad essere sinonimo di
ragione, non v'è proprio motivo di negare l'intelligenza agli animali. Si è anzi portati a distinguere fra gli
stessi animali, specie ed individui, dei gradi d'intelligenza, cioè gradi nella capacità di adattarsi a situazioni
nuove mediante invenzione di mezzi appropriati.

1. DIFFERENZA FRA LE SPECIE - Anzitutto, si constatano notevoli differenze fra una specie e l'altra.
Abbiamo per esempio già visto come gli scimpanzé riescano a risolvere problemi di fronte ai quali
rimangono impotenti cani, gatti o cavalli. Alcuni animali, poi, come le galline, sembrano particolarmente
stupidi. Gli insetti, meravigliosamente dotati quanto agli istinti, sono estremamente poveri in fatto di
intelligenza.

È il caso di notare che la determinazione dei livelli di intelligenza negli animali è alquanto ipotetica ed
incerta. Mancano osservazioni precise per la maggior parte delle specie, così come sono molto insufficienti i
mezzi d'investigazione. Kohler, dopo molti altri psicologi, ha voluto stabilire una correlazione costante fra
l'intelligenza animale e lo sviluppo morfologico, particolarmente del cervello. Ma questa correlazione è
alquanto discutibile. Bierens De Haan («Journal de Psychologie normale et pathologique», 1937, p. 374-375)
dimostra attraverso parecchie esperienze che il grado d'intelligenza non dipende dal posto che gli animali
occupano nel sistema zoologico, e che in fatto di «intelligenza creatrice» gli scimpanzé sono lungi
dall'occupare il posto d'onore.

2. DIFFERENZE FRA GLI INDIVIDUI - All'interno di ogni specie, si osservano ancora notevoli
differenze fra gli individui. Le esperienze di Thorndike e di Kohler hanno dimostrato ciò abbondantemente
per quanto riguarda le scimmie; si sa d'altra parte come solitamente si fa distinzione fra cani o cavalli più o
meno intelligenti, vale a dire più o meno capaci di adattarsi rapidamente alle situazioni nuove.

B. LIVELLI INTELLETTUALI NELL'UOMO.

370 – 1. I TIPI D'INTELLIGENZA - È un fatto d'esperienza comune che numerosi sono i gradi e le forme
d'intelligenza nell'uomo: e non solo nel senso che alcuni individui sono molto dotati ed altri poco, ma altresì
nel senso che le attitudini intellettuali sono straordinariamente varie. Certuni hanno disposizioni
particolarmente spiccate per le arti meccaniche; altri sono naturalmente artisti, speculativi, matematici,
commercianti, ecc. Si sono studiate numerose tecniche in vista di determinare, nella maniera più precisa

256 Cfr. Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. V, p. 104-106 (Delacroix).


223
possibile, i livelli intellettuali ed i tipi d'intelligenza. Queste ricerche hanno un grande interesse pratico per
l'orientamento e la selezione professionali.

2. LE PROVE D'INTELLIGENZA - Poiché l'intelligenza si manifesta empiricamente come una funzione


di adattamento, tutte le tecniche di discriminazione consisteranno nel porre problemi. I gradi d'intelligenza
saranno stabiliti in base alla rapidità e all'esattezza della soluzione.

a) Il problema dell'«intelligenza generale». L'intelligenza generale, in quanto funzione globale, è


accessibile solo difficilmente col metodo delle prove sperimentali. Anzitutto, infatti, il genere di prova cui si
ricorre dipende spesso da una concezione filosofica sulla natura dell'intelligenza. Per alcuni, l'intelligenza è
data dalla potenza di percezione del reale; per altri, dall'attitudine a cogliere delle relazioni, o ancora dalla
funzione logica257. D'altra. parte, l'intelligenza è polimorfa e vi sono aspetti dell'intelligenza (funzioni mentali
primarie) che non hanno fra di loro alcuna correlazione necessaria.

Si constatano spesso fatti di questo genere: matematici che fuori della matematica ragionano come
selvaggi; mirabili osservatori che sono privi di senso logico; logici che si distinguono, ma falliscono nella
meno complicata delle osservazioni; artisti meravigliosamente dotati che non hanno alcun senso pratico;
individui incapaci di cultura teorica che manifestano genialità meccanica, ecc.

Una buona prova


sperimentale
d'intelligenza
dovrebbe pertanto
chiamare in causa
tutti questi differenti
aspetti. Si tratta di
una prova ideale,
alquanto difficile da
attuarsi. Tanto che
conviene ricorrere a
prove varie, dalle
quali sia possibile
mettere in chiaro il
complesso delle
funzioni intellettuali.
In ciò consiste
appunto l'idea e il
tentativo pratico del
Binet.

371 - b) I tests
analitici. Il metodo
consiste
nell'esaminare più
operazioni
intellettuali di natura
differente (attenzione; percezione; memoria visiva, auditiva, numerica; comprensione; combinazione;
destrezza; immaginazione; osservazione), quindi nel totalizzare i risultati ottenuti 258. Si pensa di ottenere in
questo modo una certa valutazione del valore intellettuale generale (Fig. 15).

257 Cfr. Ballard, The new examiner, Londra, 1924; Spearman, General Intelligence objectively determined and
measured, in «American Journal of Psych.», 1904, p. 201-292; Thorndike, The measurement of Intelligence, Nuova
York, 1927; Lahy, Un test d'intelligence logique, in «Le travail humain», Parigi, 1933, p. 129-151.
258 Cfr. Binet et Simon, La mesure du développement de l'intelligence chez les jeunes enfants, nuova ed., Parigi, 1945.
- Decroly et Degand, La mesure de l'intelligence chez les enfants normaux d'après les tests Binet Simon, in «Archives
de Psychologie», 1910, p. 81-108. - R. Zazzo, Intelligence et quotient d'ages, Parigi, 1946.
224
Si propongono a fanciulli i seguenti problemi. A soggetti dell'età di tre anni: indicare il naso; ripetere due
cifre; enumerare gli oggetti di una vignetta; ridire sei sillabe. A fanciulli di cinque anni: copiare un quadrato;
ripetere una frase di otto sillabe; contare cinque monete; ripetere quattro numeri; mostrare e nominare quattro
oggetti differenti e dirne l'uso. Dagli otto ai dieci anni: mostrare le lacune di una figura; riprodurre un
disegno molto semplice; ordinare in serie crescente cinque pesi differenti; contare per numeri pari; definire
un oggetto indipendentemente dal suo uso; completare una frase in cui manchino certe parole; comporre una
frase comprendente due parole date «Francia, gloria»; ricomporre una frase intelligibile con parole date
senza ordine; discernere le assurdità di un'asserzione (il ferro è più leggero della carta), di un disegno, di un
racconto259.

Sia ben chiaro, comunque, come abbiamo già osservato (40), che questo procedimento dà soltanto valori
relativi e che i suoi risultati offrono di solito semplicemente delle indicazioni, dato che la precocità di un
fanciullo non è necessariamente indice di una superiorità definitiva, né d'altra parte la tardività segno di una
inferiorità irrimediabile.

b) I tests attitudinali. Quando poi si tratta di adulti, la nozione astratta d'intelligenza è di portata ancor
minore che nei fanciulli, nei quali la differenziazione delle varie funzioni intellettuali è spesso scarsamente
accentuata. Nell'adulto, l'intelligenza è normalmente specializzata e dipende pure, non soltanto dallo
sviluppo più spiccato di una o più funzioni intellettuali, ma ancora dall'armonizzazione più o meno perfetta
di funzioni differenti e praticamente solidali, determinata dal giuoco della volontà e degli interessi. Un
individuo superiormente dotato sotto un certo rapporto può in realtà, se è pigro od abulico, essere molto
inferiore ad un altro individuo, pur mediocremente dotato sotto il medesimo rapporto, ma fornito di
un'energia potente e perseverante. L'intelligenza, anche speciale, non è dunque praticamente mai isolabile
dal complesso psichico che definisce un individuo.
Fatte queste riserve, è possibile, per mezzo di tests appropriati, di cui molto ci si serve negli istituti di
psicotecnica, determinare le attitudini di un individuo. Ora ci si sforzerà di stabilire i gradi delle funzioni di
comprensione, d'invenzione, di critica, d'organizzazione, o ancora i tipi di pensiero intuitivo o analitico,
pratico o speculativo, affettivo, immaginativo o logico, oppure i tipi vivo o lento, sensoriale o motorio, visivo
o auditivo, ecc.; ora, se possibile, si spingerà più lontano la precisione, tentando di scoprire, attraverso
diversi esperimenti, le attitudini concrete (meccaniche, artistiche, verbali, simboliche, ecc.) di ciascun
individuo. In tutti i casi, si tratterà della soluzione di problemi speciali, che esigono una facoltà di
adattamento rapido a situazioni concrete ben definite.

C. LA PATOLOGIA MENTALE

372 - La patologia mentale, studio delle malattie mentali o tipi patologici come tali (psicosi), così come la
psicologia patologica, studio dei disordini funzionali (amnesie, allucinazioni, iperestesie, ecc.), considerati in
se stessi, indipendentemente dalla psicosi da cui dipendono, oltrepassano ampiamente il campo
dell'intelligenza, poiché esse riguardano ugualmente i disordini dell'affettività e quelli dell'attività. Tuttavia,
qui come nello stato normale, tutte le funzioni sono solidali; l'attività intellettuale è spesso turbata o inibita
per il venir meno dell'affettività, e viceversa: il torpore intellettuale è frequentemente connesso alla
depressione nervosa o alla psicastenia; la diminuzione del numero degli interessi deriva solitamente dalla
povertà, innata o accidentale, dell'immaginazione e della attenzione, ecc.
Fatte queste osservazioni, si possono nondimeno classificare i disordini intellettuali da vari punti di vista.
Anzitutto dal punto di vista della loro durata, essi sono definitivi (idiozia, imbecillità) o transitori (delirio
momentaneo). Dal punto di vista della loro natura, si distinguono i disordini per eccesso (iper), per difetto
(ipo) e per deviazione o perversione (para).

373 - 1. I DISORDINI PER ECCESSO. Questi disordini non sono generati da un eccesso d'intelligenza,
giacché non v'è possibilità di eccesso nell'intelligenza. In realtà, essi interessano certi strumenti (sensoriali,
memoria, linguaggio) al servizio della funzione intellettuale: iperestesia, ipermnesia, logorrea, psicosi
allucinatoria, ecc.

259 Si è cercato di determinare, per ciascuna età, i vari quesiti che la maggior parte dei soggetti può risolvere (età
mentale). Quando un fanciullo non riesce a risolvere i quesiti della sua età, si dice che la sua età mentale è inferiore alla
sua età reale: un fanciullo di sette anni che non risolve se non i quesiti di cinque anni ha l'età mentale di cinque anni.
Inversamente, un fanciullo di cinque anni che riesce nelle prove proprie dei sette anni ha l'età mentale di sette anni.
225

2. I DISORDINI PER DIFETTO: Si distinguono qui gli arresti di sviluppo, le regressioni e i casi di
confusione mentale.

a) Arresti di sviluppo. Si possono raggruppare in questa categoria: la debolezza mentale: il fanciullo non è
idoneo alle acquisizioni normali ed è incapace di discernimento e d'iniziativa; l'arretratezza intellettuale e
l'imbecillità: l'azione è di pura imitazione, priva di senso e di continuità; l'idiozia, dai caratteristici segni
fisici ed indicata psicologicamente dal ristagno dell'attività, destinata alla ripetizione all'infinito dei medesimi
gesti, dall'obnubilazione dell'intelletto e dall'assenza di sentimenti morali.

b) Regressioni. Le regressioni o lente degenerazioni mentali si hanno sia nella vecchiaia (demenza senile),
sia in conseguenza di malattie cerebrali: demenza precoce e paralisi generale. La demenza precoce è data da
una lenta degenerazione cellulare dovuta ad infezione o intossicazione. Essa si manifesta psicologicamente
con la dissoluzione dell'unità della vita cosciente con un distacco dal reale, chiamato, generalmente,
schizofrenia. La paralisi generale, da meningo-encefalite diffusa, comporta psicologicamente l'amnesia
retrograda progressiva (22), il crollo graduale dell'attenzione, del giudizio e del ragionamento,
l'obnubilazione del senso morale, manifestazioni deliranti e finalmente l'infermità integrale.

c) I sognatori morbosi. Questo caso, già da noi incontrato nello studio del sogno (232), richiede alcune
osservazioni. Lo si fa entrare di solito nella categoria delle schizofrenie, che ha come caratteristica la
dislocazione dell'unità della coscienza o la dispersione intrapsichica. Si tratta di individui che non vivono se
non nell'immaginario. Il carattere patologico del loro comportamento non è precisamente dato dal fatto che
essi preferiscano i prodotti della loro immaginazione in quanto più ricchi, più belli e più seducenti di quel
che non offra la realtà, cioè in relazione al loro contenuto, ma piuttosto in relazione al loro stato
immaginario, cioè alla loro forma. Ne consegue che il reale, anche se arriva alla pienezza dei loro sogni, non
li soddisfa mai, giacché esso è sempre per loro non già al di qua del mondo immaginario, ma qualcosa di
diverso da questo, su di un piano in cui lo schizofrenico non vuole vivere, non potendovi adattare il suo
comportamento. Il sogno, invece, non esige alcun adattamento; esso è alla mercé di chi sogna da sveglio;
esso non ammette né rischi né novità e si trasforma a piacimento secondo la fantasia o l'instabilità mentale
del sognatore stesso. Questo mondo immaginario è finalmente di una povertà e di una banalità estreme, in
rapporto al reale.

d) Confusione mentale. L'organicità di questa affezione pare sia semplicemente accidentale (infezioni
connesse a febbre tifoidea, a tubercolosi, a cancro, ad alcolismo). Psicologicamente, essa si manifesta con un
intorpidimento delle facoltà superiori, accompagnato o no da agitazione. È infatti ora di forma astenica
(ottusità intellettuale, passività, ebetismo), ora di forma delirante (crisi alterne di agitazione delirante con
allucinazione).

374 - 3. DISORDINI PER DEVIAZIONI E PERVERSIONE. Le forme di paranoia hanno la particolarità


di unire due sintomi che sembrerebbero a tutta prima inconciliabili: da un lato le concezioni deliranti (per
esempio la convinzione di essere principe, genio incompreso) e dall'altro l'integrità intellettuale e sensoriale
(niente allucinazioni, se non del tutto accidentalmente). Fuori dall'ambito del delirio, i paranoici sono
intellettualmente normali; nell'ambito del delirio, le deduzioni sono corrette e spesso persino di una
sottigliezza sconcertante. Il demente interpreta i fatti secondo l'idea delirante, ma ragiona correttamente sulla
base di queste interpretazioni. Di qui il nome di follia ragionante. Si noverano sette tipi di paranoici: i
perseguitati, gli ipocondriaci, i megalomani, gli innamorati, i gelosi, i mistici e gli autoaccusatori 260.

§ 3 - Intelligenza e ragione

375 - Fino a questo punto, non abbiamo avuto modo di notare una differenza essenziale fra l'intelligenza
degli animali superiori e quella dell'uomo, fanciullo e adulto. Tuttavia, questo problema si pone: si tratta di
sapere se il vocabolo 'intelligenza' può essere univocamente usato e per l'animale e per l'uomo. Si può del
resto abbordare la questione dal punto di vista sperimentale e ridurla ad un piccolo numero di osservazioni.

260 Cfr. Dr. Ch. Blondel, La conscience morbide, Parigi, 1914; Regis, Précis de Psychiatrie, 6a ed., Parigi, 1923; Dr.
Mallet, La démence, Parigi, 1935. H. Dehove, Notions de Psychologie pathologique et de Pathologie mentale, Parigi,
1934.
226

A. LIMITI DEL COMPORTAMENTO INTELLIGENTE NELL'ANIMALE

Abbiamo notato, nello studio dell'istinto (272), che nell'animale l'intelligenza è interamente compresa
entro i limiti dell'istinto, cioè che essa non costituisce affatto uno psichismo autonomo, specificamente
distinto dall'istinto stesso. In altri termini ancora, l'intelligenza nell'animale non è una facoltà o una
funzione. È semplicemente una qualità dell'istinto. Tuttavia, alcuni animali superiori, come lo scimpanzé,
sono apparsi dotati di un'intelligenza relativamente autonoma. Possiamo attenerci, su questo punto, alle
osservazioni di Kohler. L'importante è coglierne esattamente il significato.

1. LA SERVITÙ DEL PRESENTE - Tutte le esperienze di Kohler sugli antropoidi dimostrano che le
situazioni nelle quali vengono posti da queste esperienze devono sempre essere presentate per intero
simultaneamente: devono cioè costituire un complesso ottico presente. Della fune, del bastone, della cassa, lo
scimpanzé non si serve, per raggiungere l'esca, se non in quanto gli siano presentati insieme all'esca stessa. In
caso contrario, l'antropoide non arriva a risolvere il problema posto. Si provi ad immaginare, per contrasto,
l'umanità primitiva limitata allo psichismo della scimmia più intelligente: essa non sarebbe mai arrivata al
minimo grado di civiltà. Né sarebbe stato inventato il fuoco, né sarebbero state costruite case, né sarebbe
stata coltivata la terra, né, a maggior ragione, sarebbero nate le arti e le tecniche dell'industria.
La causa di questa differenza sta nel fatto evidente che la scimmia è determinata soltanto dal presente
sensibile e non ha alcuna percezione o anticipazione del non-presente; essa, cioè, non ha altra
rappresentazione che quella offertale dall'oggetto immediatamente presente. Anzi, anche questi complessi
ottici immediati le sono estremamente oscuri, a meno che si tratti dei casi semplicissimi su cui si basano i
problemi proposti: non solo le soluzioni da trovare sono subordinate alla struttura ottica del campo, ma
inoltre i problemi divengono insolubili per lo scimpanzé «quando la struttura del campo esige troppo dalla
sua facoltà di comprensione ottica». (Kohler, Intelligenzprufungen an Anthropoiden; cfr. tr. fr., p. 254). Il che
è quanto dire che lo scimpanzé non pensa (i rapporti tra mezzi e fine, più che pensarli, esso li esercita),
giacché il pensiero è per essenza la facoltà di abbracciare il non-presente, di trascendere lo spazio ed il
tempo, di cogliere relazioni necessarie fra mezzi e fini 261.

376 - 2. L'ASSENZA DEL LINGUAGGIO. - In relazione con le considerazioni che precedono, c'è ancora
da osservare che l'antropoide non parla, mentre il fanciullo, come l'uomo più primitivo, ha a sua disposizione
un linguaggio. La parola è il segno del pensiero, sia, anzitutto, in quanto essa traduce rappresentazioni non
presenti e libera l'uomo dalla servitù dell'attuale, sia, d'altra parte, proprio in quanto essa significa la realtà di
un ordine interiore, riflesso e cosciente. Essa è indice caratteristico di un'autonomia.

Ciò non vuol dire che gli animali non abbiano alcuna specie di linguaggio. Si è potuto stabilire, per
esempio, che le api che hanno scoperto un posto particolarmente favorevole alla mielatura fanno spuntar su
delle vescichette fra il quinto e il sesto segmento addominale; queste vescichette sprigionano un odore che
viene avvertito dalle api vicine. Inoltre, l'ape raccoglitrice, ritornando all'arnia, avverte le api presenti con
una specie di danza. Questo caso ed altri del medesimo genere non concernono ancora quello che si chiama
«linguaggio animale»: si tratta soltanto di segni in relazione a riflessi emozionali innati, provocati da
situazioni concrete (278). Il linguaggio animale è fatto di gridi diversi, che sono altrettanti segni dal senso
definito e percepiti dai congeneri. Ma anche qui, questo significato è meramente affettivo: non traduce che
emozioni istintive (341-343). Ciò, appunto, viene nettamente riconosciuto da osservatori attenti e
consapevoli quali Yerkes e Kohler.

Si invertono dunque senz'altro i termini del problema quando si scrive (Kohler, op. cit., p. 254) che proprio
«l'assenza di linguaggio [... è responsabile] della considerevole differenza che esiste fra l'antropoide e l'uomo
più primitivo». È mai concepibile che esseri che pensano siano incapaci di esprimere il loro pensiero, - o che

261 Se si hanno, da parte delle più intelligenti fra le scimmie, risultati sorprendenti (Sultan del Kohler e soprattutto
Nicole di Guillaume e Meyerson) che potrebbero indurre a parlare di «pensiero» o di «idea», è però comunque certo che
del pensiero queste scimmie «non hanno potuto acquisire che il più umile germe e che di questo vantaggio non hanno
saputo profittare in modo corrispondente alle loro immense possibilità», ed è altrettanto certo che «così raro e così
incerto appare in loro l'uso spontaneo di questo nuovo strumento mentale, che ci si potrebbe quasi chiedere se non sia
stato suscitato in loro precipuamente dalla presenza, dall'azione, dalla stimolazione dell'uomo e se non sia stato alle
volte proprio l'esperimento in sé a creare le condizioni essenziali del fenomeno che si voleva semplicemente rivelato
dalla prova» (M. Pradines, Psychologie générale, II, I, p. 112-113).
227
esseri incapaci d'esprimere il loro pensiero siano tuttavia capaci di pensare? La verità è che presenza ed
assenza del linguaggio sono effetti e non cause. Non si deve dire: l'animale non pensa perché non parla, ma:
l'animale non parla perché non pensa.

Kohler riconosce del resto che per quanto riguarda l'organizzazione lo scimpanzé mostra una debolezza che
lo rende simile più alle scimmie inferiori che all'uomo. E ciò è quanto dire che esso non pensa, giacché
l'organizzazione implica costruzione riflessa di un ordine mediante un complesso di rappresentazioni libere.

377 - 3. L'ANIMALE E IL FANCIULLO - Spesso si paragona il bambino all'animale 262.


Kohler pensa che sarebbe possibile stabilire, mediante prove, «in qual misura dei fanciulli normali o tardivi
se la cavino praticamente in determinate situazioni concrete» e di ugual natura rispetto a quelle che servono
per gli scimpanzé.
Ma ciò non significherebbe nulla, in quanto il bimbo non costituisce una specie particolare. L'antropoide,
divenuto adulto, rimane un antropoide. Il fanciullo è un uomo in via di sviluppo e che, ben presto, parla,
pensa, giudica, ragiona come l'adulto.
Sia che, nei suoi primi anni, il fanciullo non se la cavi nella soluzione dei problemi proposti agli antropoidi,
sia che li risolva come questi, avremo l'indicazione di uno sviluppo insufficiente, e non già di una natura
matura e fissa ormai nei suoi limiti (72)263.
Piaget «Journal de Psychologie normale et pathologique», 1937, p. 112-113) ha sostenuto che il pensiero
del fanciullo differisce dal pensiero adulto: certi modi di pensare sarebbero peculiari del fanciullo e
scomparirebbero nelle età successive. In altri termini, lo sviluppo del fanciullo sarebbe qualitativo e non
soltanto quantitativo. Numerose esperienze infirmano questa opinione: tutte infatti stabiliscono che il
pensiero del fanciullo, dal punto di vista qualitativo, è identico a quello dell'adulto, che tutta la differenza
consiste nel difetto d’esperienza del fanciullo e che l'adulto commette gli stessi errori del fanciullo quando
deve attendere a cose che non gli sono familiari.

B. LA RAGIONE

378 - l. L'INTELLIGENZA RAZIONALE - Fra l'animale, anche superiore, e l'uomo, anche non civile,
dobbiamo pertanto riconoscere due differenze essenziali. Da una parte, nelle sue rappresentazioni e nella
sua attività l'uomo non è asservito, come l'animale, ai dati sensoriali attuali; egli può servirsi di immagini
libere; egli può, prima di agire, organizzare mentalmente la sua azione secondo un piano. L'animale, invece,
è talmente schiavo del reale sensibile da non evocare le immagini motrici se non man mano che si esplica
l'azione264.
Fr. Alverdes (Social life in the animal world, Londra, 1927) pretende di spiegare ogni attività, umana ed
animale, con la seguente formula: A = f (C, V), dove A = atto, C = elementi istintivi, V = variante che in
alcuni casi dà una reazione adeguata ad una data situazione e in altri casi una reazione imprevedibile. La
differenza fra le attività istintiva ed intellettuale consisterebbe nel fatto che nella prima è la costante che
predomina, nella seconda la variante. Il carattere ipotetico di una formula siffatta, che implica una semplice
differenza accidentale fra il comportamento costante ed il comportamento variabile, è evidente. Si tratterebbe
precisamente di sapere, anzitutto se la variabilità delle reazioni è sempre del medesimo tipo (272), poi se la
distinzione di un'attività costante e di un'attività variabile non costituisca una differenza essenziale.
D'altra parte, l'uomo ha il potere di far prevalere su di una tendenza istintiva una tendenza antagonista.
Nessuna traccia di un potere simile nell'animale, proprio a causa dell'asservimento in cui l'animale si trova
rispetto al dato sensoriale presente.
A proposito degli scimpanzé è il caso di notare - e ne conviene Kohler - che essi, fin dalla loro più giovane
età, devono avere avuto esperienza degli oggetti mobili; essi devono essersi serviti di un ramo giocando,

262 Cfr. Kellog, The ape and the child, Nuova York e Londra, 1935.
263 N. Kohts («Journal de Psychologie normale et pathologique», 1937, p. 494 sg.), confrontando il comportamento
del piccolo dello scimpanzé con quello del bimbo, propone le seguenti conclusioni: «Il piccolo scimpanzé appare [...]
come un essere che possiede rudimenti di certe qualità o attitudini specificamente umane, ma che non ha alcuna
tendenza ad esercitarle o a perfezionarle, nemmeno quando in tal modo potrebbe ottenere reali vantaggi [...]. È un essere
inveterato nell'angusto cerchio delle sue imperfezioni innate, un essere «regressivo», se lo si paragona all'uomo, un
essere che non vuole né può impegnarsi sulla via del progresso (p. 530)». («Che non vuole» è di troppo, giacché non si
rifiuta se non ciò di cui si è in qualche modo capaci).
264 Cfr. Mc Dougall, An Outline of Psychology, p. 204 sg.
228
devono aver provato a raspare con questo il suolo, ad arrampicarsi su di un ramo per raggiungere un frutto.
Questi animali risolvono i problemi che loro si pongono soltanto in virtù di quello che hanno appreso. Le
reazioni muscolari imposte dalla situazione creata dal problema sono già costituite e le immagini motrici
preesistono ai problemi stessi.
Si potrebbero riassumere questi due punti dicendo che l'uomo, grazie al giuoco delle sue libere
rappresentazioni, ha il privilegio, rispetto all'animale, di dominare l'universo e di dominare se stesso.
Questo privilegio è evidentemente effetto di una funzione originale, irriducibile ai meccanismi, istintivi ed
emozionali, che governano il comportamento animale. Questo potere è indicato dalla parola ragione o
facoltà di percepire e di produrre ordine, cioè di cogliere i rapporti intelligibili che esistono fra le cose e di
unificare l'insieme del sapere.

2. L'INTELLIGENZA INFRARAZIONALE - Non si tratta di negare l'intelligenza all'animale, ma soltanto


di riconoscere che questa intelligenza è specificamente differente dall'intelligenza umana. L'istinto è una
forma d'intelligenza, ma oggettiva e dominata dalla natura. Nell'animale superiore l'istinto si fa più
arrendevole, più prontamente agile nei vari adattamenti: l'intelligenza pare farne spicco in una certa misura.
Ma si tratta di ben poca cosa, e comunque sempre infrarazionale, in quanto l'antropoide permane schiavo del
dato sensoriale.

C. IL PENSIERO.

379 - L'intelligenza, che abbiamo empiricamente indicata in base alla sua caratteristica di potenza di
adattamento, ci appare dunque ora, nelle sue forme superiori, propriamente umane, in funzioni o potenze
molto diverse, che si possono ricondurre alle funzioni generali di analisi e di sintesi ed alle operazioni
originali che danno vita a queste funzioni.

1. L'ANALISI E LA SINTESI - Il pensiero umano non riceve il dato in forma caotica. Attraverso
operazioni di dissociazione, di scomposizione, di divisione, di distinzione, essa si sforza costantemente di
cogliere gli elementi dell'esperienza, di confrontarli fra di loro in vista di determinare i loro rapporti di
somiglianza e l'ordine sistematico che li unisce.
La sintesi consiste nel ricostruire i complessi partendo dagli elementi, non solo in vista di cogliere gli
oggetti dell'esperienza, anticipatamente analizzati e scomposti, nella loro unità complessa e nella loro
molteplicità organica, ma anche in vista di creare oggetti nuovi. Tutte le tecniche, tutte le scienze e tutte le
arti sono prodotti di questa potenza di sintesi, che culmina nel pensiero filosofico, sforzo di sintesi razionale
ambiziosamente inteso a pensare l'universo come un tutto.

2. I MEZZI DEL PENSIERO - Il pensiero umano ha come strumenti il concetto, il giudizio, il


ragionamento. Mediante l'idea o concetto, rappresentazione astratta, il pensiero è liberato dalla servitù
dell'immagine e del presente sensoriale. Esso varca i limiti dello spazio e del tempo. Il giudizio ed il
ragionamento sono i mezzi coi quali l'intelligenza umana coglie il reale, non più soltanto come un complesso
confuso di oggetti diversi, ma ancora come un sistema ordinato di nature e di essenze e, per ricorso ai
princìpi ed alle cause, costruisce un universo mentale che permette all'uomo di trascendere l'universo
sensibile.

380 - 3. IL SIMBOLISMO INTELLETTUALE - Di qui tutto il significato del linguaggio umano. Questo
è, come aveva indicato Cartesio, il segno della ragione, la sola capace di usare simboli che fungano da
sostituti alle cose e, per ciò stesso, capace di liberarsi dalla schiavitù del dato sensibile immediato.
L'indifferenza del segno articolato (quale viene indicato da quelle convenzioni infinitamente varie che sono
le lingue umane) non fa che tradurre la realtà di un pensiero capace di astrarre e di generalizzare delle
esperienze, tale cioè da dominare lo spazio ed il tempo.

4. SEGNI FISICI DEL LIVELLO INTELLETTUALE. Si è sempre spontaneamente stabilito un nesso fra
lo stato del cervello, ed in particolare il più o meno accentuato sviluppo del cranio, e lo stato intellettuale.
Orbene, ci si è dedicati a ricerche metodiche intese a controllare e precisare questo punto.
229
a) Volume del cranio. Ci sono statistiche che permettono di confrontare fra di loro le differenti razze
umane. Lo
specchio qui
riportato (Fig. 16)
mostra che non è
possibile stabilire
un rapporto fisico
fra lo sviluppo
cranico ed il livello
intellettuale.
Tuttavia Binet
(Signes physiques
de l'intelligence,
«Année psych.»,
1910, p. 3-12) ha
stabilito, attraverso
numerose
esperienze, che si
può arrivare a
conclusioni
abbastanza precise
basandosi sulla
misurazione
cranica di soggetti
della stessa razza e
della medesima
età. Il procedimento consiste nel misurare con apposito compasso il diametro anteroposteriore della testa, il
diametro trasversale, il diametro in larghezza sopra e davanti agli orecchi, infine l'altezza del cranio. Si
totalizzano le cinque misure per ogni soggetto e si stabilisce la media per tutti i soggetti della medesima età. I
soggetti che oltrepassano la media si dicono maggiorati cefalici, quelli che vi sono inferiori minorati cefalici.
Il seguente quadro, che riassume le esperienze di Binet condotte su fanciulli delle scuole municipali di
Parigi, offre il rapporto fra lo stato cefalico e lo stato intellettuale.

Queste esperienze portano, secondo Binet, alle seguenti conclusioni: «Per quanto riguarda il gruppo, il
significato di queste misure è così precisato da poter servire ad una diagnostica globale [...]. Ma se invece di
presentarmi i fanciulli in gruppo qualcuno me li conducesse qui a uno a uno e mi invitasse ad esprimere un
giudizio su ciascuno in base alla grossezza del cranio, io sarei costretto a rinunciare a rispondere».
R. Zazzo (Intelligence et quotient d'ages, Parigi, 1946) contesta il valore delle prove di Binet-Simon e
dimostra
che i
quozienti
che si

stabiliscono attraverso queste prove sono relativi non già a quantità d'intelligenza, ma ad età. «Si definisce
normale il fanciullo in base al posto medio che egli occupa nella popolazione dei fanciulli della medesima
età, e non in base ad una determinata quantità d'intelligenza; non attraverso l'aritmetica che consente
230
d'addizionare, di sottrarre, di moltiplicare o di dividere dei valori, ma attraverso la statistica che situa un
individuo in rapporto ad un gruppo biologicamente e socialmente definito» (p. 45). Come già notavamo
(371) non si tratterebbe qui che di numeri ordinali.

b) Stato della massa encefalica. A questo riguardo numerose ipotesi sono state proposte. Si è voluto
mettere l'intelligenza in relazione con la superficie encefalica o con la molteplicità delle circonvoluzioni, o
ancora con la conformazione di queste ultime. In realtà, nessuno di questi criteri è decisivo. L'ultimo sembra
tuttavia fornire alcune indicazioni, soprattutto negative, in quanto gli alienati presentano frequenti anomalie
nei solchi cerebrali. I due primi criteri sono senz'altro infondati.
Quanto poi al peso della massa cerebrale, esso non ha un significato assoluto dal punto di vista individuale.
Il cervello umano ha un peso medio di 1.360 grammi. Il cervello di Cuvier pesava 1.830 grammi; quello di
Byron 2.238; quello di Cromwell 2.231; quello di Gambetta non pesava che 1.294 grammi.

c) Qualità della sostanza encefalica. Il fattore qualità rimane evidentemente il più decisivo. Questo è però
il meno accessibile, in sé e per sé. Ogni volta che si è preteso misurarlo, ci si è sempre ritrovati,
conformemente al processo normale della scienza, (I, 131), al criterio quantitativo, con tutte le incertezze a
quest'ultimo inerenti.

D. PENSIERO E SOCIETÀ.

381 - 1. LA TESI SOCIOLOGICA - La scuola sociologica contemporanea si è sforzata di spiegare con la


società il complesso della vita intellettuale. Durkheim osserva anzitutto che il linguaggio, attraverso il quale
si trasmettono le idee e tutte le acquisizioni del sapere, è essenzialmente di natura sociale e,
conseguentemente, d'origine sociale.
Del resto, se si analizzano gli elementi del pensiero, il loro valore e la loro origine sociale non sono meno
evidenti. Il concetto, per esempio, è impersonale, immutabile, universale; esso domina e governa il pensiero
individuale. Ebbene, questi caratteri sono precisamente quelli onde si definisce la società (I, 223). Inoltre, il
concetto implica una gerarchia di generi e di specie. E le nozioni di genere e di specie, come quella di
gerarchia, sono d'origine sociale (famiglia, clan, tribù, patria), giacché la natura non ne offre esempi
(Durkheim, Formes élémentaires de la vie religieuse, p. 205211). Si potrebbero ripetere le medesime
osservazioni per tutta la logica. Le categorie di cui questa si serve (principio, causa, fine, sostanza, ecc.), le
regole ideali che essa formula (princìpi di ragione) hanno tutti i caratteri del fatto sociale, come sarebbero
l'universalità, l'immutabilità e il valore costruttivo, e d'altra parte, le cose stesse che esse esprimono sono
originariamente sociali (la causa, per esempio, che significa l'efficienza, è primitivamente il mana). Senza
dubbio, aggiunge Durkheim, l'individuo come tale ha bensì il sentimento confuso di una certa costanza nelle
cose, delle somiglianze che esse contengono, dell'ordine onde sono in relazione le une con le altre. Ma qui si
tratta di qualcosa di ben differente dalle categorie e dai concetti; questi governano imperativamente tutte le
nostre rappresentazioni empiriche e non possono provenire se non da una realtà che sta oltre l'individuo, cioè
dalla società.
Questa concezione, secondo Durkheim, spiega sia la trascendenza del concetto e delle categorie della
ragione, trascendenza non riconosciuta dall'empirismo, sia il loro valore naturale o sperimentale, non
riconosciuto dal razionalismo idealistico, poiché la società che li produce è «la più alta manifestazione della
natura». (Formes élémentaires, p. 18 sg.).

382 - 2. DISCUSSIONE - La teoria di Durkheim parte da un certo numero di osservazioni giuste, ma ne fa


derivare conseguenze gratuite.

a) L'intervento delle influenze sociali. Bisogna convenire che le influenze sociali hanno una parte
considerevole nelle espressioni della vita intellettuale, idee e linguaggio. Non solo, infatti, la società
assicura, mediante il linguaggio, la trasmissione da una generazione all'altra di una tradizione di pensiero,
che comporta un materiale enorme di concetti e di forme logiche rigorose, ma, di più, essa continuamente
influisce sul nostro pensiero per imprimergli direzioni e comportamenti collettivi. E con ciò, appunto, ci
spieghiamo quelle caratteristiche comuni alle mentalità, alla scienza, alla filosofia di ogni epoca.

b) Natura della causalità sociale. Tutto sta nel definire la natura della causalità sociale. È questa, come
vuole Durkheim, creatrice delle funzioni mentali in virtù delle quali noi pensiamo per concetti e
sottomettiamo le nostre operazioni intellettuali a princìpi universali e necessari? È cosa assai difficile ad
231
ammettersi. Da una parte, infatti, la società stessa non è possibile se non attraverso quelle funzioni mentali,
la cui produzione è ad essa attribuita. Non si dà società umana se non in quanto gli individui pensino per
concetti ed obbediscano a leggi logiche universali. In mancanza di queste condizioni primarie, l'umanità
vivrebbe a branchi e a mandrie, né più né meno che gli animali.
D'altra parte, gli argomenti proposti da Durkheim non sono altro che supposizioni. Partendo dalla
considerazione che il concetto è impersonale, universale e stabile, egli conclude immediatamente che esso è
opera della società. Ma ciò implica gratuitamente che tutto ciò che è impersonale, universale e stabile non
può provenire che dalla società. Bisognerebbe però dimostrare questo. L'ipotesi di una ragione comune a tutti
i membri della specie umana, benché variabile in alcune sue manifestazioni e tale da condizionare l'esistenza
stessa della società, è almeno altrettanto plausibile che il postulato di Durkheim. Quanto agli argomenti che
tendono a spiegare le categorie del pensiero (genere e specie logici, categorie di causa, di fine, di sostanza, di
sacro, ecc.) partendo da realtà sociali, essi si basano su dati positivi più che mai incerti, e vi scorgiamo la
medesima gratuità.

Per esempio, la nozione di causa sarebbe originariamente quella di mana. Ma, ammettendo la realtà del
mana primitivo (forza diffusa universale), si può a più giusta ragione pensare che sia la nozione di causalità
ad esprimersi sotto forma di mana: sicché da questo punto di vista sarebbe proprio l'idea di causa a dover
essere considerata come primitiva, e non quella di mana. Alla stessa maniera, pensa R. Hubert 265, il sacro è
primitivamente il tabù (ciò che è oggetto di interdizione e che non si deve toccare). Ma non si potrebbe del
pari ammettere che l'interdizione rituale propria del tabù risulti a sua volta dall'idea di sacro?

Riassumendo, diremo che la nostra vita intellettuale dipende, per una parte considerevole, dalle influenze
sociali. La società, che ha una sua propria natura e suoi propri fini, plasma e specifica parzialmente il nostro
pensiero. Però non lo crea, poiché la società non è possibile se non precisamente in virtù del pensiero, né lo
giustifica, poiché la vita intellettuale non si esercita e non si sviluppa se non liberandosi delle servitù
collettive e dei meccanismi dell'abitudine. Non v'è infatti altro pensiero autentico che quello che assimila,
mediante l'attività personale, i materiali concettuali trasmessi dalla società, e che li esamina e critica alla luce
di norme assolute di cui la società, come gli individui, è universalmente tributaria.

Maine De Biran (Défense de la philosophie, ediz. Naville, Oeuvres inédites, Parigi, 1857, t. III) ha criticato
vigorosamente la teoria sociologica, quale gli si presentava, già elaborata nelle sue linee essenziali dal De
Bonald nella sua Théorie du Pouvoir politique et religieux, (in Oeuvres, 3 voll., Parigi, 1859). Nulla, egli
afferma (p. 207), è meno sostenibile di questa nuova «metafisica sociale». «Come se la società fosse un
essere misterioso, di per sé esistente, indipendentemente dagli individui e differente dalla loro riunione;
come se la società, senza gli individui, fosse in possesso di un sistema di verità che le sarebbero state date
primitivamente, e che gli individui riceverebbero passivamente, senza neppure avere il diritto di esaminare,
né, di conseguenza, i mezzi per intendere queste verità esteriori; come se quell'insegnamento, qualunque esso
sia, che la società impartisce a ciascuno dei suoi membri, non fosse sempre e necessariamente una
trasmissione orale di individui ad altri individui; come se le nozioni o i sentimenti comuni a tutta la specie
potessero avere la loro causa e la loro ragione altrove che nella natura stessa degli individui, o nelle facoltà
egualmente date a ciascuno dall'autore della loro esistenza; infine come se non fosse quasi un andare in un
ridicolo circolo codesto spiegare la natura umana e le leggi primordiali della sua intelligenza ricorrendo alla
società, quando la società ha evidentemente bisogno essa stessa d'essere spiegata attraverso l'uomo dotato,
sia primitivamente, al momento della creazione, sia posteriormente per una sorta di transcreazione
miracolosa, dotato, dico, di facoltà, di nozioni, di sentimenti o d'istinti, relativi allo stato sociale nel quale era
destinato a vivere».

Art. III - Il pensiero e il linguaggio


§ l - L'assoluto della ragione

383 – 1. RAGIONE, PENSIERO E PAROLA - Può sembrare vano chiedersi che cosa vada considerato al
primo posto, se il pensiero o il linguaggio, dal momento che il linguaggio attesta il pensiero e con esso
praticamente si confonde. Tuttavia, nel complesso pensiero-linguaggio, è senz'altro possibile stabilire quale
sia l'aspetto o l'elemento che detiene il primato vero e proprio: determinare, cioè, un ordine logico. Ebbene,

265 Hubert, Manuel élémentaire de Sociologie, 2a ediz., Parigi, 1930, p. 82.


232
da questo punto di vista, è evidentemente al pensiero che va attribuita la parte essenziale, poiché, se è vero
che il pensiero si attua nella parola e attraverso la parola, è altrettanto vero che questa non fa che esprimere il
pensiero. Senza pensiero, non vi sarebbe linguaggio, ma si avrebbero semplicemente delle reazioni
emozionali strettamente espressive dello stato affettivo di un individuo incapace di staccarsi da se stesso per
conseguire una posizione oggettiva266.

Per parlare con precisione ancor maggiore e per evitare equivoci, sarebbe meglio dire che il primato
assoluto, secondo l'ordine logico, spetta alla ragione, poiché è questa a rendere possibile sia il pensiero che il
linguaggio, i quali, effettivamente, sono tutt'uno. Il pensiero, in quanto è atto e discorso, si confonde con la
parola che gli dà forma e corpo. Che se vogliamo distinguere il pensiero da questa sorta di incarnazione, esso
altro non è che la potenza radicale cui noi diamo il nome di ragione.

384 - 2. GESTO E MIMICA NELL'UOMO - Il gesto e la mimica non sono necessariamente espressivi di
pensiero. Spesso essi non fanno che tradurre riflessi emozionali. Ciò è appunto quanto avviene negli animali.
Ma, già nel bambino, il gesto e la mimica sono, in difetto di espressioni verbali, reazioni che significano il
pensiero.
Si può constatare, per esempio, che il fanciullo possiede l'idea di cappello prima ancora di conoscere la
parola «cappello»: basti considerare il fatto che egli si copre la testa con tutti gli oggetti che servono da
copricapo (berretti, cuffie, caschi, elmi, ecc.) che gli capitino sotto mano. È evidente che egli ha constatato
che questi oggetti di varia forma vengono usati per coprirsi la testa, prima di possedere l'espressione verbale
di questa azione: l'idea empirica (ciò-che-si-mettesulla-testa) ha preceduto il vocabolo. Alla stessa maniera,
le sue reazioni (smorfia o gesto di rifiuto o espressione di soddisfazione e gesto di prendere), in presenza di
certe qualità da lui isolate in complessi sensoriali differenti, stanno a testimoniare della presenza di una
nozione empirica di queste qualità. Tale è il caso del fanciullo che respinge ora la scodella di latte, ora il
piatto di minestra o la tazza di tisana che gli sembrino troppo caldi: una certa quale nozione generale del
calore è implicita nel suo gesto. C'è già, in lui, la presenza del pensiero, perché il gesto è gravido di
un'intenzione e di un significato.
Si constatano, è vero - e lo si è già visto (366) - fatti analoghi negli animali. Lo scimpanzé, per avvicinare
il boccone, si serve di oggetti molto differenti: bastone, ramo, canna, tavola, ecc. Il cane si ritira di fronte ad
alimenti troppo caldi, qualunque sia la forma di tali alimenti. Ma notevole è la differenza fra il fanciullo e
l'animale. Quest'ultimo, quando per esempio si tratta di alimenti caldi, s'avvicina regolarmente a fiutare
l'alimento, per poi ritirarsi per effetto della sensazione di calore. Così, se l'animale riconosce
immediatamente gli esseri (congeneri e nemici) con i quali esso è in relazione, cionondimeno non è il caso di
parlare di idee generali: si tratta soltanto di percezioni di strutture e di forme che fanno corpo con l'istinto (e
ciò si spiega col fatto che queste percezioni sono innate, specifiche ed ereditarie), mentre il fanciullo ha
bisogno dell'esperienza e progredisce quindi continuamente. Quanto all'uso di strumenti vari da parte della
scimmia, non è che si spieghi con la presenza di un'idea: si tratta soltanto di un'attitudine relativamente
notevole a riconoscere strutture e forme spaziali di ugual tipo, il che dà luogo bensì ad un comportamento
che mima l'astrazione, ma in un ordine puramente sensoriale, talché questo comportamento si riduce a
ripetere, con oggetti svariati, il medesimo gesto efficace compiuto una prima volta.

385 - 3. IL DISCORSO INTERIORE - La parola non è sempre necessariamente esteriore. Il linguaggio


non si riduce tutto quanto ad un fenomeno sonoro. Se è vero che pensare e parlare sono tutt'uno, si ha
anzitutto una parola interiore, che è poi la formulazione stessa del pensiero, parola primitiva ed autentica
mediante la quale l'idea riceve la sua prima esistenza, e che propriamente consiste nell'atto con il quale
1'essere ragionevole prende distanza rispetto al mondo e, opponendosi alle cose, dice a se stesso quello che
le cose sono per lui. L'animale, invece, ignora quanto emerge fuori dal mondo, e proprio per questo fatto né
pensa, né parla.

I casi di sordomutismo ed il pensiero implicito inducono senz'altro alla distinzione fra parola interiore e
parola esteriore. È pacifico che i sordomuti di nascita, benché messi in difficoltà dal difetto di linguaggio 267,
esercitano tutte le operazioni intellettuali dell'uomo. L'uso dell'alfabeto Braille non fa che offrire corpo ad un

266 Cfr. Delacroix, Le langage et la pensée, Parigi, 1930. - G. Gusdorf, La Parole, Parigi, 1953.
267 Il fatto di parlare il proprio pensiero costituisce regola: tanto che osserva M. Scheler (Formalismus in der Ethik,
Halle, 1921, cfr. tr. it. parziale, Milano, 1943) - «un uomo che abbia la lingua paralizzata comprende meno bene quel
che scrive di quanto non comprenda un uomo sano».
233
pensiero che gli preesisteva. Ancor più impressionante è il caso delle «anime in prigione», cioè dei
sordomuti-ciechi nati, che, attraverso metodi di educazione impostati sull'uso del tatto, si riesce a rendere
capaci di una vita intellettuale e morale meravigliosamente ricca, che si spiega con questo «discorso
interiore», senza il quale essa sarebbe impossibile 268.
È cosa certa, del resto, che, in questo caso, come d'altra parte nel dialogo che noi continuamente andiamo
istituendo con noi stessi, la parola interiore consta di immagini motrici d'articolazione e di pronuncia
abbozzate (azione ideo-motrice delle immagini) (197): e ciò è precisamente la forma normale della
riflessione, della percezione e dell'azione, tanto che per i primitivi il pensiero è caratterizzato dall'atto di
«parlare al di dentro», e che, in certi momenti di sorpresa o di stupore, l'incapacità di parlare altro non è che
l'effetto di una specie di inerzia o momentanea paralisi del discorso interiore.
L'uomo è comunque ben lungi dal parlare interiormente tutto il suo pensiero. Anzitutto, nell'azione, noi
produciamo una quantità di percezioni e d'operazioni intellettuali che sfidano la più minuziosa delle analisi e
non comportano se non un linguaggio interiore sommario, ellittico e discontinuo. La stessa osservazione vale
per il lavoro d'invenzione che, operando nell'ignoto (schema dinamico) e spesso con una rapidità prodigiosa,
lascia da parte sistematicamente l'espressione verbale, in cui non troverebbe che il duplice impaccio di una
fissità e di una rigidità incompatibili col suo dinamismo (230).

§ 2 - L'origine del linguaggio

386 - Quello dell'origine del linguaggio è un problema filosofico, trattandosi di una questione di struttura
ontologica, mentre il problema della formazione e dell'evoluzione delle lingue è una questione di tecnica
fonetica e di storia e concerne soltanto la struttura morfologica (organica) dell'essere parlante.
Tuttavia, stabilendo un nesso tra il linguaggio e la ragione, quale sua condizione assolutamente prima
(condizione di possibilità), non abbiamo ancora risolto il problema dell'origine del linguaggio, che per noi si
pone sul piano fenomenico. Né, a sostituire una spiegazione psicologica, potrebbe bastare un ricorso alla
metafisica. Noi dobbiamo pertanto ora chiederei quali siano le condizioni primordiali (condizioni di realtà)
della parola esteriore.

A. TRE TEORIE SULL'ORIGINE DEL LINGUAGGIO.

Distinguiamo tre principali tipi di spiegazione dell'origine del linguaggio: teoria emotiva, teoria imitativa,
teoria sociale. Queste tre teorie hanno in comune il fatto che tendono tutte a ricondurre il linguaggio ad un
genere di comportamento generale, di cui la parola articolata non sarebbe che una specie.

Ci limiteremo a far menzione della teoria dell'origine soprannaturale, che ha avuto grande fortuna in seno
alla Scuola tradizionalistica. Dio, diceva De Bonald, deve aver rivelato all'uomo, creandolo, sia il linguaggio
che le principali verità morali e religiose. L'uomo sarebbe stato infatti del tutto incapace d'inventare il
linguaggio, in quanto per inventare un linguaggio bisogna possederne già un altro. D'altra parte, poiché la
parola è, secondo De Bonald, la condizione e lo strumento di ogni pensiero, l'uomo deve avere avuto da Dio
il linguaggio, così come ha da Lui la ragione.
Questa teoria ha il torto, anzitutto, di fare appello al «soprannaturale», che non può evidentemente recar
lumi sul piano psicologico. È bensì vero che il linguaggio presuppone come condizione assoluta la ragione,
che viene da Dio. Ma l'invenzione del linguaggio è un'opera umana e naturale. Quanto poi all'affermazione
che «per inventare un linguaggio bisogna possederne già un altro», si tratta di confusione fra lingua e
linguaggio, fra invenzione socializzata e natura269.

387 - 1. TEORIA DELL'ORIGINE ATTIVA.

268 Cfr. L. Arnould, Ames en prison, Parigi, 1910.


269 Cfr. De Bonald, Recherches philosophiques sur les premiers obiets des connaissances morales, in Oeuvres, 3 voll.,
Parigi, 1859, c. II. - Come Maine De Biran faceva notare, criticando la tesi di Bonald (cfr. Origine du langage. ed.
Naville, Oeuvres inédites de Maine de Biran, Parigi, 1857-59, t. III, p. 247), «credere che prima del segno nulla vi
fosse, e che sia stato assolutamente necessario che un segno rivelato venisse, non già ad eccitare, a risvegliare, ma a
creare l'idea, è volere che lo stampo sia stato fatto dalla cosa stampata, è negare l'attività della mente umana». In realtà,
aggiunge Biran (p. 277), «nessun uomo è capace di ricevere la verità dal di fuori o di comprenderla se essa non è già in
lui. Dei segni che siano dati o appresi non possono trarre dall'intelletto se non quanto già vi era senza di essi, più o
meno oscuramente».
234
a) Enunciazione. Questa teoria, proposta da Lucrezio270, da De Brosses271, da Darwin, da De Humboldt,
considera il linguaggio come una differenziazione ed uno sviluppo del gesto spontaneo, del grido e delle
interiezioni, di ciò che, insomma, si è chiamato linguaggio naturale. Esso non sarebbe originariamente che
una mimica vocale delle emozioni e sarebbe derivato dai segni naturali, usati intenzionalmente272.

Infatti, il grido, il gesto, l'atteggiamento sono segni intelligibili a tutti, in quanto a tutti comuni. Essi
divengono propriamente un linguaggio dal momento in cui sono dati da una intenzione. Il fanciullo che grida
per chiamare la madre comincia contemporaneamente a pensare ed a parlare, poiché ricorre ad una relazione
di significato.

b) Discussione. Il difetto di questa teoria sta nel fatto che essa si basa sulla nozione equivoca di
«linguaggio naturale», come se la mimica, il gesto, il grido, che troviamo nell'uomo, potessero formare un
genere univoco con il grido e la mimica degli animali. Se, invero, si vogliono chiamare «linguaggio
naturale» le espressioni emozionali dell'animale, allora l'uomo, dal momento che parla, è già oltre siffatto
linguaggio, e non è concepibile alcun passaggio da questo alla parola 273.
Infatti, nell'animale, il gesto ed il grido non sono che espressioni strettamente coincidenti con i suoi stati
emotivi, mentre nell'uomo essi sono carichi d'intenzionalità e manifestano, al di là della situazione emotiva,
una mira ed un progetto, cioè un «senso». Essi traducono l'aspetto che assumono le cose nella sua
esperienza. le relazioni che si istituiscono fra un soggetto libero ed il mondo.

Se l'«espressione» fosse la forma prima del linguaggio, l'animale sarebbe sulla strada che conduce alla
parola. E ciò, del resto, è precisamente ammesso, e con molta coerenza, dai sostenitori della teoria. Il leone
che ruggisce - essi affermano - non si limita ad una mera espressione di collera, ma fa ciò per intimidire; - il
gatto che gratta la porta, intende farla aprire: ecco abbozzato il primo meccanismo della parola. Ma questa è
una concezione che si deve a un vero e proprio antropomorfismo. Il leone non ruggisce per intimidire, né il
gatto gratta per fare aprire la porta: si tratta qui di operazioni intellettuali che si prestano loro gratuitamente.
In realtà tutto qui si riduce ad un complesso d'immagini, che formano una struttura globale: «ruggito-fuga-
del nemico», «grattamento-apertura», cioè ad un fenomeno di adattamento. Sì, nel grido e nel gesto c'è pure
una finalità, ma puramente oggettiva, mentre nell'uomo essa ha un carattere soggettivo: essa è pensata,
insomma, e come tale assunta.
Nel bambino, come abbiamo notato, il gesto e la mimica sono reazioni che significano il pensiero, che cioè
manifestano delle intenzioni relativamente alle cose del suo ambiente. Il fanciullo che grida perché il latte
che gli si presenta è troppo caldo, altro non fa che esternare uno stato di disagio o di malcontento: egli rifiuta
il latte e chiede che questo sia meno caldo. In questo modo, il bambino si afferma già, coi mezzi di cui
dispone, come un soggetto autonomo e libero. L'espressione, in lui, è non soltanto manifestazione
d'emotività, ma posizione di sé.

388 - 2. TEORIA DELL'ORIGINE IMITATIVA

a) Enunciazione. Questa teoria, sostenuta da Leibniz, da Herder, da Tylor, da F. De Saussure 274, fa notare
come il linguaggio consista in un sistema di significati, ed afferma che esso ha potuto essere elaborato
soltanto per opposizione al «linguaggio naturale», il quale (contrariamente alla concezione della teoria
precedente) non è in alcun modo un linguaggio, poiché ogni gesto e ogni grido, proprio per il fatto di essere
spontaneo ed automatico, esclude il significato intenzionale. Il linguaggio esiste pertanto propriamente solo
come comportamento simbolico e significativo e il suo carattere essenziale consiste nell'esprimere
un'intenzione relativa all'oggetto.
Quanto alla sua origine prima, andrebbe cercata nell'istinto d'imitazione, che porta a «riprodurre il mondo».

270 De rerum nat., V, 1926-1102, ed. con comm., Oxford, 1947.


271 Théorie de la formation mécanique des langues, 1765. De Brosses fa pure appello all'imitazione, che egli
considera anzi come elemento che avrebbe avuto influenza preponderante.
272 Si chiama segno naturale quello che è connesso alla cosa significata per rapporto naturale (il fumo è segno
naturale del fuoco). Il segno convenzionale è il risultato di una decisione arbitraria (il ramo d'ulivo, segno di pace) (I,
39).
273 Cfr. Merleau - Ponty, Phénoménologie de la Perception, p. 491.
274 Cours de linguistique générale, Parigi, 1922.
235
Il problema concernente il come si sia attualizzata questa tendenza riproduttrice ed imitatrice è alquanto
oscuro. Si nota anzitutto quanto ci è familiare il gesto che, per significare un'azione, imita questa stessa
azione: tale è il gesto del fanciullo che si copre gli occhi con le mani per significare che la luce gli dà noia e
che bisogna tirare le tende. L'azione mimata è un linguaggio ideografico che presuppone dei concetti, né più
né meno di quanto li presuppongano le parole. Ben si sa come i sordomuti, ridotti a questo linguaggio, ne
facciano uso con una meravigliosa ingegnosità. Ma questa forma di espressione è pur sempre confusa e di
scarso valore rispetto al linguaggio vocale.
Non sono tuttavia unicamente i vantaggi del linguaggio articolato che ce ne spiegano, almeno a sufficienza,
l'apparizione. La sua superiorità sul gesto e sulla mimica è senz'altro evidente: è un linguaggio di cui ci si
può servire nell'oscurità come in piena luce; è più preciso e più chiaro; richiede un dispendio muscolare
semplicemente mediocre; non interrompe né ostacola il lavoro o l'attività corporale. Ma tutti questi vantaggi
insieme non riescono a far sì che gli animali aggiungano al «linguaggio emozionale» il linguaggio parlato 275.
Bisogna dunque ammettere che all'origine del linguaggio parlato sta un'attitudine ed una tendenza innate a
sfruttare le possibilità, molto ampie, di articolazioni vocali.
Al punto d'origine, si ritiene, devono avere intuito due specie di elementi fonetici. In primo luogo, le
onomatopee, che imitano i rumori naturali. È facile constatare che tutti i fanciulli elaborano un linguaggio di
questo genere (il cane è in un primo tempo il bau-bau) e che anche le lingue più evolute conservano una
quantità di radici che esprimono onomatopee (ronzare, stridere, fischiare, sibilare, gorgogliare; cri-cri, tic-
tac, din-don-dan, ecc.). D'altra parte, le vocalizzazioni naturali, mediante le quali l'uomo, fornito di una
gamma straordinariamente varia di articolazioni sonore, trova modo di creare dei segni che vengono a poco a
poco fissati dall'imitazione e dalla tradizione.

b) Discussione. La critica della teoria dell'origine emotiva ci permette già di cogliere sia quel che v’è di
erroneo che quel che v'è di giusto nella teoria del linguaggio come imitazione. In fondo, l'errore è qui
inverso, ma di ugual genere rispetto a quello che abbiamo più sopra fatto notare: e consiste appunto nel non
riconoscere il carattere espressivo del linguaggio. Questo ha certamente, e persino al livello del gesto e del
grido, un carattere intenzionale di relazione col mondo. Ma esso è altresì, ed ancor più fondamentalmente,
espressivo di un soggetto, che si afferma di fronte al mondo. La parola è certamente significativa di
un'intenzione; ma essa è anzitutto liberatrice, in quanto distacca dal mondo delle cose. Essa è ad un tempo e
solidalmente questo e quello, e l'opposizione fra un linguaggio-espressione pura della soggettività ed un
linguaggio pura intenzionalità è assolutamente arbitraria: tale opposizione porta ad astrazioni, separando gli
elementi biologici dagli elementi psicologici e sociali, che fanno del linguaggio l'espressione d'un pensiero e
l'affermazione di un soggetto e di una comunità.
Il far nascere il linguaggio dall'imitazione dei rumori degli oggetti reali è tanto illusorio quanto il farlo
nascere dalla mimica vocale delle emozioni. Infatti, l'elemento imitativo, una volta introdotto nel linguaggio,
non ha assolutamente più lo stesso senso, ed in esso non conserva più niente di imitativo: esso esprime la
cosa in generale e come staccata dall'esperienza particolare. L'espressione può qui bensì chiedere in prestito
il suo simbolo all'onomatopea, ma a questa non si riduce, ed a ben altro tende: all'idea276.

389 - 3. TEORIA DELL'ORIGINE SOCIALE - Stando a questa teoria, che è poi quella della Scuola
sociologica, e che è stata ripresa, del resto in vesti e forme alquanto differenti, da Revecz 277, il linguaggio è
essenzialmente un prodotto del gruppo e dell'esistenza in comune. Esso non è, originariamente, né espressivo
né significativo, ma soltanto ed essenzialmente azione sociale costituita: esso è nato dalla trasmissione dei
successi e dei progetti tecnici dell'uomo e dai molteplici e potenti rapporti di collaborazione che da questi
derivano278.
Abbiamo altrove (381-382) discusso la tesi sociologica che vuole spiegare con la società tutte le
manifestazioni della civiltà. Le obiezioni che dobbiamo fare qui saranno pertanto una ripresa delle
precedenti. Osserveremo anzitutto che l'errore certo di questa teoria consiste nell'escludere a priori il
carattere espressivo e quello significativo del linguaggio, ed aggiungendo che, di conseguenza, altro errore è

275 Questa osservazione ha tanto più valore in quanto la conformazione degli organi vocali dello scimpanzé non
differisce notevolmente da quella dell'uomo. Delacroix (Nouveau Traité de Psychologie di Dumas, v. p. 269)
giustamente osserva che «nella fonetica dello scimpanzé vi sono tanti elementi fonetici del linguaggio umano, che non
si può imputare a difetti dello strumento tale assenza della funzione verbale» (376).
276 Cfr. M. Pradines, Psychologie générale, II, I parte, p. 504 e 510.
277 G. Revecz, Origine et préhistoire du langage, Parigi, 1950.
278 Cfr. Durkheim, De la Division du travail social, Parigi, 1893.
236
quello di volere far derivare il linguaggio dalla società. C'è infatti nella parola qualcosa che è evidentemente
presociale (logicamente, almeno) e che consiste in una fondamentale manifestazione di un ionel-mondo. La
parola che sgorga spontaneamente per tradurre l'esperienza umana del mondo è l'atto mediante il quale
l'uomo prende più chiaramente coscienza del suo potere creatore. Le cose del mondo, proprio per il fatto di
essere nominate, compongono un mondo nuovo, umano in tutto e per tutto. Miracolo permanente, la parola
attesta e consacra l'indipendenza e la sovranità dell'uomo.

Ecco quel che non ha compreso Durkheim, - e questo è soltanto un caso particolare dell'errore
fondamentale che gli fa negare, al di là della società, la realtà della ragione e dell'umano, che spiegano la
società. In compenso, però, egli ha opportunamente valorizzato tutto ciò che il linguaggio, come l'intera
civiltà, deve alla società. È infatti fuori discussione che l'atto della parola non può organizzarsi se non in
una comunità di soggetti incarnati. Il linguaggio si sviluppa su di un piano d'esistenze intersoggettive. Ed è
proprio questo che spiega il suo orientamento verso i significati spersonalizzati, onde la sua funzione si
estrinseca, per astrazione, nella pura e semplice comunicazione. Mezzo d'azione, il linguaggio diviene una
specie di intermediario neutro e di comunità linguistica, segno sistematizzato impersonale, moneta che tutti
gli individui possono usare per lo scambio, in rapporto ai bisogni pratici della vita 279.

B. LA TRIPLICE RADICE DEL LINGUAGGIO

390 – 1. ESPRESSIONE, SIGNIFICATO, COMUNICAZIONE La precedente disamina ci ha permesso di


stabilire che ciascuna delle teorie criticate ha bensì colto un aspetto autentico del linguaggio, ma ha altresì
commesso una deviazione volendo fare di questo aspetto particolare un carattere esclusivo. In realtà, il
linguaggio è nato dal triplice bisogno d'esprimere, di significare, di comunicare. Perché lo si possa
comprendere, conviene prendere le mosse dalla situazione esistenziale dell'uomo, che consiste nell'esser
questi un io-incarnato ed incarnantesi con altri in un mondo comune.

a) Espressione. L'atto fondamentale da cui procede il linguaggio è l'espressione di un io che, diffondendosi


nel mondo ed umanizzando l'universo della propria esperienza, si afferma spontaneamente come un soggetto.
Il linguaggio è pertanto, originariamente, 1'effetto e il segno di una liberazione e di una autonomia.

b) Significato. Ma il significato è già presente nella espressione stessa di sé, che è per se stessa
significativa. Contrariamente a quel che avviene nell'animale, in cui l'espressione dell'individuo mediante la
mimica e il grido è una cieca spinta della natura, l'espressione, nell'uomo, è già carica d'intenzionalità più o
meno esplicita. Soggetto libero in un mondo che egli foggia a suo modo con il linguaggio, l'uomo
necessariamente afferma il suo progetto, incarnando in ogni gesto e in ogni parola un disegno d'avvenire.
Ecco come il linguaggio rappresenta il senso che 1'uomo ambisce dare al mondo; e questa intenzione è la
conseguenza stessa della liberazione prodotta dall'espressione: questa fa corpo con quella, ed entrambe
traducono il duplice aspetto di un soggetto che, incarnandosi nel mondo, ordina questo mondo intorno a sé
come il suo proprio mondo, il mondo della sua azione e della sua espansione.

391 - c) Comunicazione. Il soggetto incarnato non è un puro soggetto, un individuo isolato e separato.
Esso si trova nel mondo con altri soggetti e deve comunicare con questi per mandare ad effetto i suoi
progetti e per arrivare al compimento della propria liberazione e della propria autonomia.
Come non sarebbe possibile ridurre l'invenzione del linguaggio all'azione di questo istinto sociale, così non
si può, d'altra parte, minimizzarne l'importanza. Non è la società che spiega la nascita del linguaggio, poiché
la società non è possibile se non in virtù del linguaggio. Ma la socializzazione del pensiero ha esercitato sul
linguaggio stesso un'immensa influenza: e questa è consistita nel conferire al linguaggio, a poco a poco, la
fissità e l'universalità, peraltro già implicite, a dire il vero, anche nelle più modeste forme del pensiero, ma
tali da non potere raggiungere la loro perfezione se non attraverso l'intervento potente del fattore sociale.
Linguaggio e società vanno necessariamente insieme, e sono in tale rapporto di causalità reciproca, che si
può dire al tempo stesso che la società procede dal linguaggio e che il linguaggio procede dalla società.

279 È caratteristico, osserva Claparide (Psichologie de l'enfant, Ginevra, 1909, p. 524; cfr. tr. it., Pavia, 1911), che
quando il fanciullo chiede che cos'è questo o quello, la risposta che egli attende è un nome da dare e non una
definizione. Da una parte, il nome consacra per lui una presa di possesso dell'oggetto - e, d'altro canto, esso offre la
possibilità di un'azione efficace.
237
Effetto di questa socializzazione è stata l'impersonalità e, insieme, l'universalità. E queste sono appunto le
condizioni della comunicazione intersoggettiva, in cui si attua nella sua pienezza quella «trascendenza
attiva» rispetto al mondo, che è precisamente ciò che caratterizza l'uomo. È pur vero che, attraverso questa
spersonalizzazione, il linguaggio perde il suo rapporto immediato con l'immagine, che sta alla base della
denominazione, e che si trova ad avere un aspetto artificiale e convenzionale. Si è persino voluto fare un
ideale di questa artificialità e di questa neutralità rispetto all'immaginario originale. Ma è questo un
fraintendere il fenomeno della socializzazione linguistica. Quest'ultima, infatti, non è che uno stato instabile
fra l'immaginazione donde procede la parola e la convenzione in cui il valore espressivo della parola si
perde. Infatti, il linguaggio non ha senso se non in quanto conservi i suoi legami con la potenza creatrice
dell'immagine. Distaccate da questa, le parole invecchiano e muoiono. Perché esse possano durare e vivere,
devono ricaricarsi continuamente di forza espressiva. La parte che vi ha la società impone dunque al
linguaggio una tensione permanente fra la neutralità del segno che essa reclama e la ricchezza della fonte
d'immagini che assicura la vitalità della parola; ed è proprio questa tensione che fa del linguaggio una
storia. Non si riuscirà a togliere di mezzo questo equivoco, ma se ne comprenderà il senso ritrovando nel
linguaggio il duplice aspetto di una creazione la quale, col nome, inventa il mondo affermando nello stesso
tempo il soggetto, e di una intersoggettività la quale non può avere la sua efficacia se non attraverso la
mediazione dell'universale e dell'impersonale.

392 - 2. PROBLEMA DI LINGUISTICA GENERALE - Quanto poi al problema di sapere come si sia
esercitato concretamente all'origine l'atto della parola, è una questione di linguistica generale. Se si ammette
che le relazioni costitutive del linguaggio si ritrovano in sostanza negli elementi della frase (sostantivo,
aggettivo e verbo), si impone la determinazione di quale possa essere stata la relazione fondamentale onde
s'è sviluppato il linguaggio. Max Muller 280 ha sostenuto la teoria della generazione predicativa (sol ardet
sarebbe una semplificazione di sol ardens). Schuchardt281 e Meyer hanno proposto la teoria verbale (il verbo,
cioè l'espressione dell'azione e della passione, è stato il principio generale delle altre parti del discorso).
Infine, alcuni linguisti, come Michel Breal 282, hanno ammesso, facendo seguito a Condillac (Grammaire, in
«Corpus générale des philosophes français», 3 voll., Parigi, 1947-51, 2 p., c. l), la teoria sostantiva, cioè la
derivazione del verbo e dell'aggettivo dal sostantivo.

3. L'INVENZIONE PERMANENTE DEL LINGUAGGIO - Bisogna infine comprendere bene che tutto
ciò, espressione, intenzione, comunicazione, non è assolutamente di pertinenza del passato, né, d'altra parte,
della riflessione. Mera illusione è la speranza di raggiungere l'origine del linguaggio nel passato: come se il
linguaggio fosse stato inventato una volta per tutte e non si trattasse poi che di riceverlo bell'e pronto dalla
tradizione. Se è certo che l'esercizio immemorabile della parola ha fissato nella specie attitudini che hanno
dovuto dapprima essere acquisite (o attuate) 283 non è però men vero che il linguaggio è un'invenzione
perpetua: esso nasce quotidianamente dalla potenza creatrice che caratterizza la ragioneincarnata-in-grembo-
al-mondo. È nel presente stesso che il linguaggio sorge, come sforzo per pensare, cioè misurare, controllare,
organizzare un mondo dapprima dato come un tutto globale ed inarticolato, e come atto, per l'uomo, di
cogliere se stesso o di divenire coscienza esplicita di codesta «prensione» del mondo, ed è appunto in tutto
questo la meraviglia costantemente rinnovata della nostra presenza nel mondo.
Questo nascimento, d'altra parte, non è affatto debitore verso alcuna iniziativa volontaria. L'uomo scopre la
parola, ma non la costituisce. La parola è l'opera spontanea del suo essere-al-mondo; persino il senso della
parola, senza il quale, come s'è visto, la parola stessa è inconcepibile, da altro non nasce che dal commercio
dell'uomo con il mondo: esso è una forma del suo comportamento, alla stessa stregua del gesto o della
mimica, ed è per questo che, anche una volta fissato, rimane tuttavia aperto ed indefinibile, come l'individuo
che in virtù di esso si esprime.
Quel che ora s'è detto della parola non vuol significare che essa fornisca la struttura elementare del
linguaggio. Essa ne è l'elemento materiale, né più né meno di quanto l'idea (come vedremo) è l'elemento
materiale del giudizio. Ma come il giudizio è l'unità concreta del pensiero, così è la frase significante, e non
la parola, a costituire la struttura elementare del linguaggio. Infatti, la parola fissa bensì l'idea, ma non la
fissa certamente per intero: l'idea, con la sua complessità, va ben oltre, immensamente oltre il suo segno
verbale. Inoltre, la medesima parola può valere per molteplici idee. Ne consegue che la parola riceve il suo

280 Le verbe, «Rev. Phil.», 1888, II, p. 588-591.


281 Ueber die Lautgesetze, Berlino, 1885.
282 Mélanges de mythologie et de linguistique, Parigi, 1878.
283 Cfr. M. Pradines, Psychologie générale, II, p. 472.
238
significato reale soltanto nell'ambito della frase; fuori di questa, essa non ha più che una funzione
proposizionale. Come tale, la parola ha dunque soltanto una esistenza virtuale; essa non riceve senso preciso
che con il suo inserimento nelle strutture complesse che la integrano 284. Ecco perché, rigorosamente
parlando, non si può dire che la frase è composta di parole, giacché le parole, in quanto significanti, non
esistono nella coscienza prima dell'uso che se ne fa 285. Ben si vede come queste osservazioni si riconnettano
a quelle che facevamo più sopra (135) riguardo la priorità del tutto sugli elementi.

§ 3 - Il linguaggio concettuale

393 - Il linguaggio muove costantemente dall'immagine alla nozione. Effettivamente, come s'è visto, la
nozione è interiore all'immagine; questa virtualmente contiene il significato, e il sapere, evolvendosi
nell'astratto, non fa che esplicitare le ricchezze immanenti dell'immagine. In questo senso, appunto,
Aristotele affermava che «nulla v'è nell'intelligenza che non sia stato prima nel senso». Il linguaggio
concettuale è dunque in continuità con le forme primarie dell'espressività. Ma se la parola è sempre indice di
pensiero, quest'ultimo estrinseca la sua realtà formale soltanto entro e attraverso l'idea, che è un segno
spirituale. Cerchiamo di precisare come avvenga questa esplicitazione e come essa si traduca nel linguaggio
stesso.

394 – 1. LE TAPPE DEL PROGRESSO INTELLETTUALE - L'imporsi del pensiero propriamente detto è
in relazione all'uso cosciente del segno. Questo, è vero, interviene costantemente anche nella vita
dell'animale: sennonché l'animale non percepisce la relazione di significazione. Percepire questa relazione
come tale, è precisamente, come abbiamo già notato (145), privilegio del pensiero umano.
Ebbene, dal punto di vista psicologico, per chi voglia cogliere la natura del pensiero non v'è maniera più
efficace che quella di cercare d'assistere in certo qual modo alla sua genesi nel mondo mentale del fanciullo.
S'è pensato di ricorrere ad esperienze di due tipi per definire la struttura mentale del fanciullo: le une tendono
a scoprire come il fanciullo arrivi ad astrarre da una data percezione globale certi aspetti determinati (imporsi
dell'idea astratta); le altre tendono a conoscere i procedimenti e le tappe che portano alla generalizzazione
(imporsi del concetto).

a) L'imporsi dell'idea. Le prime esperienze ricorrono al linguaggio e al disegno. Si presentano ad un


fanciullo immagini di scene semplicissime (per esempio, quelle che illustrano la favola della volpe e del
corvo) e lo si invita a dire quel che vede. A due anni, il fanciullo non fa che enumerare le persone e gli
oggetti (la volpe, il corvo, il formaggio, l'albero). Più tardi, verso i tre o i quattro anni, egli nota delle azioni e
incomincia a precisare le relazioni concrete fra persone ed oggetti: la volpe parla al corvo; il corvo lascia
cadere il formaggio. Verso i cinque anni, il fanciullo è capace d'interpretare il complesso della situazione,
cioè di descrivere le relazioni, non soltanto materiali, ma anche morali, degli attori della scena.
Lo studio del disegno infantile porta ai medesimi risultati. I primi disegni del fanciullo, anche se eseguiti su
modello, sono essenzialmente schematici: i caratteri individuali costantemente cedono il posto al tipo
generico; le relazioni e le proporzioni sono ignorate o trattate in maniera molto approssimativa. È soltanto
relativamente tardi, verso i sette o gli otto anni, che il fanciullo mostra di curarsi più esattamente delle
proporzioni e delle relazioni e si preoccupa di riprodurre, in un tutto complesso (una bicicletta, per esempio),
il coordinamento meccanico ed i rapporti fra gli elementi.
Queste prove dimostrano che il progresso del fanciullo è in relazione all'uso dei segni. Primitivamente, il
bimbo ha soltanto delle immagini. L'idea incomincia a spuntare nel momento in cui il fanciullo inventa un
segno rappresentante l'oggetto. Questo segno (parola o disegno) è dapprima intimamente congiunto
all'immagine e, mancando una percezione sufficiente delle relazioni, rimane tipico e generico. Non è ancora
un astratto, ma semplicemente l'espressione della struttura e della forma che caratterizzano la percezione.
Tuttavia l'idea propriamente detta c'è già per il fatto che il segno è non soltanto esercitato (come
284 Quando il fanciullo non si serve che di una sola parola, questa parola, in realtà, ha valore di frase: questa,
implicitamente o esplicitamente, è la forma stessa del linguaggio, come il giudizio è la forma del pensiero.
L'assimilazione della lingua parlata, nel fanciullo, procede dalle parole - frasi, o proposizioni uninominali, mediante le
quali egli indica una situazione («fame» = desidero mangiare; «andare» = è il momento della passeggiata), - alle frasi di
più parole semplicemente giustapposte («bimbo - bibi - mano» = il bimbo s'è fatto male alla mano) - e, finalmente, alle
frasi articolate.
285 Quando si segue l'evoluzione morfologica e semantica delle parole, si seguono per ciò stesso, come nota J. P.
Sartre (L'Etre et le Néant, Parigi, 1943, p. 598), le tracce del passaggio delle frasi nel corso del tempo. Le parole sono i
prodotti che il pensiero ha dati nel corso della sua evoluzione.
239
nell'animale), ma anche usato come tale per simbolizzare tutti gli oggetti della medesima specie. Esso
implica ormai quella relazione di significato (fra la parola o il disegno e l'oggetto, cioè fra il segno e la cosa
significata) che è la forma stessa dell'idea. L'ulteriore progresso consisterà nel fare uso di segni sempre più
numerosi e vari, quindi nel passare dai segni d'oggetti ai segni di relazioni: e ciò indicherà appunto
l'accessione del pensiero infantile alle nozioni astratte di causalità e di finalità. A questo stadio, il fanciullo
possiede ed usa i segni logici più astratti, che traducono le forme relazionali del linguaggio (perché, poiché,
come, a causa di, per mezzo di, in vista di, benché, se, ecc.).

b) L'imporsi del concetto. Le esperienze di scelta servono a scoprire quando e come il fanciullo accede al
concetto, cioè, qui, all'idea precisamente universale, che consiste nel simboleggiare con un segno astratto un
carattere comune ad un'intera classe di oggetti e come tale, appunto, colto. Il principio di queste esperienze
consiste nella presentazione di un assortimento di oggetti simili. Si invita per esempio il fanciullo a scegliere,
tra un mucchio di cartoni differenti per forma, grandezza e colore, i cartoni simili. Il fanciullo di due o tre
anni metterà insieme i cartoni rossi, senza preoccuparsi della loro forma, o i cartoni quadrati senza badare al
loro colore. Più tardi, il fanciullo si avvede che diversi sono i criteri possibili di scelta e che si possono
raggruppare i cartoni sia rispetto la forma, sia secondo il colore, sia tenendo conto della grandezza. È allora
che il fanciullo ha acquisito i segni (cioè le nozioni) di circolo e di quadrato e quelle dei differenti colori: egli
ha differenziato dei caratteri e, perciò stesso, associato dei caratteri sotto il medesimo segno. Il progresso del
suo pensiero è consistito nel considerare il medesimo oggetto sotto diversi punti di vista e nel cogliere qualità
o caratteri per se stessi, per astrazione dal tutto complessivo in cui sono dati e come suscettibili di esistere
identici in oggetti multipli. In questo modo, il pensiero del fanciullo si è decisamente staccato dalle cose
concrete. In possesso di molteplici relazioni di significato (idee e concetti), il pensiero trascende l'immagine
e si sviluppa nell'universale286.

395 - 2. IL SIMBOLISMO CONCETTUALE - Le osservazioni precedenti chiaramente dimostrano che il


progresso del fanciullo dipende dal progresso stesso del simbolismo. Il simbolismo è già presente
nell'immagine schematica o generica della percezione sensibile, che provvede l'immaginazione di strutture e
di forme (194). Ma, a questo stadio, la rappresentazione non si distingue dall'oggetto sensibile. Tutte le
esperienze di scelta che sono state praticate sugli animali dimostrano che, in loro, la scelta è connessa al
meccanismo delle immagini. Il fanciullo, invece, si eleva a poco a poco ad una differenziazione
prodigiosamente varia del mondo sensibile, grazie ad un sistema di segni astratti che l'educazione gli
fornisce e mediante i quali egli si libera delle cose. Il pensiero è proprio questo: la creazione, cioè, di un
universo mentale che simbolizza l'universo oggettivo e la sua inesauribile complessità.

396 - 3. LE IDEE E LE PAROLE - L'idea stessa è, in quanto struttura astratta, potentemente servita dal
linguaggio, sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista individuale. Se il linguaggio sembra fatto
anzitutto per permettere la comunicazione del pensiero, esso serve prima che ad ogni altra cosa a pensare.
Pensare è il più delle volte parlare a se stesso. D'altra parte, il nostro sapere, le nostre esperienze, i nostri
sentimenti sono in certo qual modo fissati nelle parole, che conferiscono loro una stabilità, una
maneggevolezza, una disponibilità che altrimenti non avrebbero.

a) La parola fissa l'idea. Infatti, le idee hanno una specie di fluidità e d'instabilità che costituiscono come
una forma di tormento per il pensiero che vuole essere preciso. Le parole le fissano dando loro corpo.
Pertanto cercare di ritrovare un'idea è il più delle volte cercare una parola nella memoria. Nello stesso
senso, ogni idea nuova, ogni scienza, ogni tecnica nuove comportano invenzione di parole nuove, che
fissino, anzitutto per l'inventore stesso, poi per il pubblico, gli elementi essenziali della scoperta. Di qui si
spiega come si sia potuto dire che una scienza non è che una lingua ben fatta (Condillac) e che la lingua di un
popolo è lo specchio delle sue idee.

b) La parola rende duttile l'idea. Le parole, inoltre, offrono il vantaggio di procurare alle idee una grande
duttilità. L'idea è già di per sé il sostituto della cosa ed è già dotata, relativamente a quest'ultima, di una
duttilità assai superiore: essa è infatti sempre a nostra disposizione, contrariamente a quanto avviene per la
cosa. La parola, segno dell'idea, costituisce nel medesimo ordine un nuovo progresso, proprio in virtù della

286 Cfr. Piaget, La naissance de l'intelligence chez l'enfant, Parigi, 1935; La construction du réel chez l'enfant, Parigi,
1937; H. Wallon, Les origines de la pensée chez l'enfant, Parigi, 1946. J. Chateau, Le réel et l'immaginaire dans le jeu
de l'enfant, Parigi, 1946.
240
sua fissità e della sua stabilità. L'uso dei dizionari ne è una prova tangibile: essi sono come un serbatoio di
idee disponibili, sicché il nostro pensiero vi possa trovare la sua forma d'espressione più adeguata e possa,
per così dire, manipolare a piacimento la moneta intelligibile di cui noi abbiamo bisogno.
Si può dunque ammettere che il più delle volte si pensa con parole, nel senso che le operazioni sui segni
equivalgono alle operazioni sulle cose significate. Non che, come nell'algebra, il segno valga per se stesso e
significhi una cosa, quale che essa sia: ma, pur significando un'idea definita (altrimenti il linguaggio
finirebbe per essere un mero psittacismo e sarebbe una nullità di pensiero), la parola riduce e semplifica
l'idea, la cui complessità e ricchezza interna, se si estrinsecassero, sarebbero un ostacolo al progresso del
discorso (I, 98).
L'idea e la parola sono associate e formano un unico tutto cosciente: l'idea «è» la parola, la parola «è»
l'idea. Ma da un lato, l'idea, che comporta una notevole complessità interna, finisce col non avere nella
parola che la esprime se non una sorta d'esistenza virtuale. Ce ne rendiamo precisamente conto ogni volta
che si tratta di definire il senso di una parola: una vera moltitudine d'idee vengono allora spesso ad affluire al
pensiero. D'altro canto, e proprio per conseguenza, noi disponiamo molto meno di parole che di idee, e le
parole debbono servire a significare idee molteplici (polisemantismo): esse hanno in certo qual modo un
compito d'economia, in cui ben si rileva la loro funzione essenziale, che è non già quella di sostituirsi al
pensiero, ma quella di servirlo senza opprimerlo.

c) Psittacismo e formalismo. Così si spiega come tanto si discuta sulle parole. Il loro contenuto virtuale,
che è precisamente quello dell'idea, permette di considerarle in sensi diversi e molteplici. Onde è opportuno,
in una discussione, mettersi ben d'accordo sul senso delle parole usate, cioè definirle (I, 51). Le parole, da
tale momento, hanno il valore di una definizione e dispensano dall'attualizzare, durante il discorso, il loro
contenuto intelligibile.
Per contro, si abuserebbe se si desse maggiore importanza alle parole che alle idee (formalismo). In un
certo senso, la parola (cioè tale o tal'altra parola di una determinata lingua) è indifferente al pensiero,
poiché essa non è, come tale, che un segno convenzionale. Se è indispensabile che ci si intenda sulle
convenzioni, cioè che si accetti di parlare la medesima lingua, bisogna saper discernere, sotto le forme
talvolta imperfette o approssimate dell'espressione verbale, le idee che essa vuole tradurre. Esiste una forma
di attaccamento alle parole che denuncia, più che precisione mentale, pigrizia o povertà intellettuale.

E. IL LINGUAGGIO SCRITTO

397 - Il linguaggio scritto ha ben presto, nell'umanità, esteso le benemerenze del linguaggio parlato,
consentendo una vittoria sui limiti di tempo e di spazio. Le tappe dello sviluppo della scrittura pare siano
state le seguenti:

l. IL PITTOGRAFISMO - Uno stadio del tutto primitivo è contrassegnato dall'uso di segni convenzionali
(tacche fatte su bastoni: piume tagliuzzate in tale o tal'altra forma, ecc.), per significare determinate
situazioni. La scrittura si abbozza nella forma figurativa, che consiste nel rappresentare direttamente o
simbolicamente le cose o le situazioni stesse. Questa rappresentazione è in relazione diretta con il linguaggio
per gesti (pittogrammi).

2. L'IDEOGRAFISMO - La scrittura propriamente detta incomincia con l'ideogramma o disegno stilizzato


dell'oggetto di cui si deve evocare l'idea. Praticamente, l'ideogramma è dunque una «pittura d'idea».
Una fase di transizione consiste nel simbolizzare, mediante il disegno di un oggetto o un segno convenuto,
non più la cosa stessa, ma il suo nome, quindi le idee che ne vengono evocate (ideogrammichiave o rebus).

3. IL FONETISMO - L'evoluzione avviene, come si vede, dal concreto all'astratto, nel senso che il segno si
distacca a poco a poco dall'immagine concreta primitiva. Questa evoluzione sfocia, con il geroglifico
egiziano, ad un sistema in cui ogni ideogramma diventa il segno della prima sillaba del nome evocato
(scrittura sillabica). Così il segno che schematizza originariamente la bocca, ha significato in seguito la
parola rou (bocca). Poi, il medesimo segno significò semplicemente la lettera R (prima lettera della parola
rou). La scrittura, a questo stadio, era divenuta alfabetica, vale a dire che essa significava un unico fonéma o
suono.
I Fenici perfezionarono ancora questo sistema scegliendo, fra gli antichi segni alfabetici, 22 grafismi che
servirono a designare le consonanti della loro lingua. Gli Ebrei ed i Greci adottarono questo sistema grafico,
dal quale dipendono tutte le lingue moderne.
241
242

CAPITOLO TERZO

L'IDEA

SOMMARIO287

Art. I - NATURA PSICOLOGICA DELL'IDEA. I tipi di idee. – Concezione ed idea - Classificazione delle
idee - L'immagine e l'idea Teorie empiristiche e nominalistiche - I procedimenti sperimentali -
Conclusioni.

Art. II - L'ASTRAZIONE. Il problema degli universali - Punto di vista psicologico - Le soluzioni-tipo -


Natura dell'astrazione - La nozione d'astrazione - Teoria dell'astrazione passiva - L'astrazione attiva -
I gradi d'astrazione.

Art. III - L'INTELLEZIONE. Le condizioni dell'intellezione - Intellettoagente e specie impressa - Intelletto


passivo e specie espressa - L'oggetto dell'intelligenza - L'intelligenza, facoltà dell'essere -
L'intelligenza umana - Le teorie idealistiche Nozione dell'idealismo - L'idealismo problematico -
L'idealismo critico - L'idealismo dogmatico - Conclusione.

398 - Gli psicologi dell'intelligenza, i logici soprattutto, hanno ridotto a tre le funzioni essenziali del
pensiero: la concezione delle idee, il giudizio e il ragionamento. Precisamente queste funzioni noi dobbiamo
ora studiare, ma unicamente dal punto di vista psicologico, cioè dal punto di vista delle condizioni immediate
del loro esercizio. Relativamente all'idea, i problemi che si pongono riguardano la sua natura psicologica, la
sua origine e l'atto propriamente detto d'intellezione.

Art. I - Natura psicologica dell'idea


§ l - I tipi di idee

A. CONCEZIONE ED IDEA

1. LA VISIONE INTELLIGIBILE - La parola idea deriva da una parola greca che significa vedere (ίδείν,
videre). Etimologicamente, avere un'idea è pertanto esercitare una percezione intellettuale: concepire l'idea
del circolo è un'operazione analoga a quella di vedere un circolo disegnato alla lavagna (intuizione). La
differenza consiste nel fatto che la vista del circolo concreto è percezione di un oggetto sensibile, mentre
l'idea del circolo è percezione di un oggetto intelligibile. Il problema psicologico che si pone è quello di
verificare sperimentalmente questi dati del senso comune.
Il vocabolo concezione è ugualmente molto espressivo: significa generazione, l'atto di produrre
interiormente, nel seno stesso del pensiero, quell'essere nuovo di natura immateriale che si chiama idea o
concetto.

2. L'IDEA COME MEZZO DI CONOSCENZA - L'esperienza più comune della vita intellettuale basta a
farci apprendere che l'idea o concetto non è ciò che noi conosciamo, ma ciò grazie a cui conosciamo. Noi
captiamo non delle idee, ma degli oggetti per mezzo delle idee. Concepire l'idea del circolo è pensare
all'oggetto definito come circolo: la rappresentazione mentale (alla quale del resto si associano immagini
concrete più o meno precise) non è affatto, come tale, il termine del pensiero, ma unicamente il suo mezzo.
287 Cfr. Aristotele, De Anima, III, IV-VIII; S. Tommaso, De Veritate, q. 2, 3 e 10; q. 84-89; Ribot, L'évolution des
idées générales, Parigi, 1897; Rousselot, L'intellectualisme de S. Thomas, 2a ed., Parigi, 1924; M. Blondel, La Pensée,
t. II; Delacroix, Le langage et la pensée, Parigi, 1930; Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. V, p. 85 sg.
(Delacroix); J. De Tonquédec, La Critique de la connaissance, Parigi, 1929, p. 133 sg.; A. Burloud, La Pensée
conceptuelle, Parigi, 1927; Maritain, Réflexions sur l'intelligence et sa vie propre, Parigi, 1924, c. II e IX; R. Jolivet,
L'intuition intellectuelle, Parigi. 1934; Les Sources de l'idéalisme, Parigi, 1936; Y. Simon, L'ontologie du connaître,
Parigi, 1934; Rabeau, Species. Verbum, Parigi, 1938; La Porte, L'abstraction, Parigi, 1940.
243
Quel che già abbiamo avuto l'occasione di far notare a proposito dell'immagine (192) vale ugualmente a
proposito dell'idea.

B. CLASSIFICAZIONE DELLE IDEE

399 - Noi intendiamo classificare le idee non già dal punto di vista della loro forma, cosa pertinente alla
Logica (I, 46), ma dal punto di vista del loro contenuto. Sotto questo aspetto, si distinguono due grandi
categorie d'idee: quelle empiriche e quelle razionali o logiche, - le idee individuali e le idee generali.

1. LE IDEE EMPIRICHE E QUELLE RAZIONALI

a) L'idea empirica. Questa idea, come è indicato dall'aggettivo empirica, esprime prima di tutto
un'esperienza e dipende da questa esperienza. Essa significa molto meno quello che la cosa è in se stessa che
quel che essa è rispetto a noi. Ecco che, per il fanciullo, il latte è ciò che serve al nutrimento; per il
commerciante si tratta di una merce che rappresenta un determinato guadagno. Allo stesso modo, un
paesaggio è anzitutto, per un coltivatore, un insieme di colture; per il pittore, un insieme di linee e di colori;
una macchina per cucire per una cucitrice significa un certo lavoro, una certa fatica, un certo guadagno; per
un meccanico è un complesso meccanico che consta di diversi pezzi.
Le idee empiriche sono evidentemente ricche e confuse al tempo stesso. Esse riassumono, senza
discriminazione né ordine, le esperienze molteplici relative ad un oggetto, e le evocano insieme
indeterminatamente, anche se il più delle volte sia predominante il tale o il tal altro carattere, relativo ad un
interesse saliente. Le idee empiriche sono per ciò stesso estremamente cangianti, via via che le esperienze
vengano ad arricchire o a trasformare le prime rappresentazioni. Ne consegue che non soltanto fra popolo e
popolo, fra razza e razza, ma anche fra individuo ed individuo dello stesso tempo e della stessa città sia
talvolta tanto difficile intendersi. Ciascuno fa riferimento alle proprie idee empiriche, che non sono
esattamente quelle degli altri. Ciò spiega pure quanto sia difficile trasferire da una lingua ad un'altra delle
idee empiriche: le parole che servono a tradurle rischiano di non evocare né il medesimo contenuto o le
medesime sfumature, né il medesimo tono affettivo che hanno nella lingua originale 288.

Le idee empiriche, come si vede, stanno per così dire a mezza strada fra quegli schemi percettivi che sono
frutto spontaneo di una sorta di astrazione o di schematizzazione immaginativa (I, 145) e il concetto
razionale. Quest'ultimo, tuttavia, ha qualcosa in comune con esse, come ha d'altra parte qualcosa in comune
con gli schemi percettivi, benché questi siano più vicini all'immagine (194). Nell'uomo, la percezione
sensibile, in tutti i suoi gradi, è già impregnata di ragione.

400 - b) L'idea razionale. L'idea razionale, o idea propriamente detta, significa a rigore la pura essenza
delle cose, ciò che queste sono in sé e per conseguenza ciò che esse sono per ogni pensiero «impersonale».
Tali sono le idee scientifiche. Ridotte, secondo il grado della loro esattezza, all'espressione delle proprietà
essenziali delle cose, alleggerite di tutti gli elementi accidentali ed affettivi che fanno corpo con le idee
empiriche, esse sono per principio trascendenti rispetto allo spazio e al tempo e costituiscono il sapere nella
sua forma più oggettiva. Esse in tal modo permettono, in virtù della loro precisione e della loro fissità, un
dialogo esente da quiproquo e malintesi. Ed ecco che si può intavolare una fruttuosa conversazione spirituale
attraverso i secoli: noi conversiamo così con Platone, Aristotele, San Tommaso, Cartesio o Kant. Euclide ed
Achimede diventano contemporanei di Poincarè e di Einstein... In questo stesso senso, è infinitamente più
facile tradurre da una lingua ad un'altra un trattato di filosofia o un corso di fisica che un romanzo di Dickens
o di Balzac.
Questo, comunque, in teoria. In pratica, giacché l'immagine concreta è sempre, come si vedrà, più o meno
congiunta al pensiero, anche al più razionale, le idee logiche (salvo il campo della matematica, in cui
l'oggetto coincide strettamente con la definizione che lo genera, I, 148) comportano sempre un certo qual
margine di empirismo latente, che spiega in gran parte le ambiguità dell'espressione e della discussione
scientifiche. Per esempio, le idee di Dio, dell'anima, dello spirito, della vita, per quanto astratte si
propongano presso i filosofi, non sono senz'altro assolutamente identiche in Platone e in Aristotele, in San
Tommaso e in Cartesio, in Kant e in Maine De Biran. Certamente sono differenze di dottrine quelle espresse

288 Quel che di solito si denomina mentalità è precisamente quell'insieme empirico ch'è dato dalla razza e dal clima,
dall'educazione e dalle attitudini professionali ed ereditarie, dalle influenze politiche e dalle credenze religiose, che
caratterizza la maniera specifica di pensare ed agire di un dato popolo ad una data epoca.
244
da queste differenze nei concetti; ma le differenze di dottrine procedono a loro volta, in parte, dagli elementi
empirici associati accidentalmente alle nozioni. Le differenze, comunque, tendono ad attenuarsi, in quanto lo
sforzo del pensiero scientifico e filosofico è teso a captare in maniera sempre più precisa l'essenza degli enti.
Se le idee razionali a loro volta si evolvono, ciò avviene nel senso della precisione formale, dell'oggettività e
dell'universalità.

Queste osservazioni concernono soprattutto le nozioni filosofiche, quelle più astratte di tutte e che mirano,
per definizione, a significare le essenze delle cose. Quanto alle scienze della natura, più esse si fanno
concrete, passando dalla meccanica alla fisica ed alla chimica, dalla biologia e dalla psicologia alla
sociologia (I, 135), più si debbono assoggettare all'empirismo e ricorrere a concetti dai significati meno
rigidamente definiti, e inoltre, quando intervengono nuove scoperte, ammettere una maggiore variabilità
nelle loro nozioni.

401 - 2. IDEE INDIVIDUALI E IDEE GENERALI

a) Principio della distinzione. Sappiamo dalla Logica (I, 46) che l'idea individuale o singolare è quella che
riguarda soltanto un individuo, mentre l'idea generale conviene a tutti gli individui di una specie o di una
data classe. Noi ricorriamo evidentemente a questi due tipi di idee, poiché pensiamo ora individui, o cose
individuate (Pietro, Paolo, Giovanni; il mio cane, questo libro, la mia casa, la mia via), ora generi e specie
(l'uomo, il cane, il libro, la casa, la via).
Tuttavia, la distinzione fra idee individuali e idee generali è piuttosto relativa al termine delle idee (cioè
all'oggetto significato dall'idea) che all'idea stessa, e ci si può chiedere se noi abbiamo realmente delle idee
che siano, come tali e in sé, cioè per il loro «contenuto», individuali e singolari 289.

b) Il problema dell'idea individuale concreta. Se l'idea, come tale, è astratta e per conseguenza generale,
l'idea individuale concreta equivarrebbe ad un circolo quadrato. Ma noi dobbiamo esaminare il problema dal
punto di vista psicologico. Ebbene, sotto questo aspetto, possiamo constatare che noi pensiamo realmente
l'individuo soltanto grazie a nozioni generali ed a segni individualizzanti. L'albero che io vedo dalla mia
finestra è questo albero, cioè propriamente l'albero (nozione generale) che io indico. È chiaro che si tratterà
di una quercia o di un melo. Ma questa quercia o questo melo, ancora, altro non sono che la quercia o il melo
che io mostro. La stessa cosa per le persone e per gli esseri che designiamo con nomi propri: Pietro è per noi
un uomo distinto da tutti gli altri per qualità fisiche e morali che io riassumo nel nome Pietro, che equivale
alla designazione «quest'uomo», alla stessa stregua onde dicevo «quest'albero».
L'idea, come tale, è dunque sempre generale, e l'astratto è inevitabilmente l'intermediario attraverso il quale
deve passare ogni conoscenza intellettuale individuale. Tuttavia, il problema non è risolto. Infatti, è cosa
altrettanto certa che la nostra intelligenza coglie il singolare come tale, altrimenti sarebbero impossibili
giudizi dal soggetto singolare («Pietro è aviatore», «Giacomo è sapiente», «Pietro non è Giacomo»). Come
dunque è possibile, per mezzo di idee generali, pensare l'individuale? Abbiamo visto or ora qual sia il
processo generale dell'idea individuale. Si tratta, dicevamo, di una designazione dell'individuo nell'ambito di
una classe o di una specie. Ma tale designazione implica l'apprendimento dell'individuale come tale, senza di
che essa sarebbe inintelligibile. La soluzione più ovvia si prospetta in questi termini: per una sorta di
riflessione spontanea, l'intelligenza riporta l'oggetto di pensiero universale (l'uomo: idea generale) alle
immagini (qualità fisiche e morali che designano Pietro) in cui l'uomo è stato colto. In altre parole,
l'intelligenza coglie direttamente l'universale, e, attraverso l'immagine che è in continuità con l'idea
universale, coglie al tempo stesso mediante un atto unico, benché complesso (poiché esso comporta la
duplice attività dell'intelligenza e della percezione sensibile), il modo nel quale l'universale assume realtà
concreta290.

402 - 3. IDEA E CONCETTO - Nel campo delle idee generali, si possono ancora distinguere due specie di
idee. L'una, denominata dagli Scolastici universale potenziale (o diretto), l'altra universale attuale (o
riflesso). L'universale potenziale esprime anzitutto e principalmente la comprensione di un'idea, ma non si
riferisce che confusamente alla sua estensione (I, 41). Questo è per esempio il caso che si verifica quando io

289 Come fatto di coscienza, è evidente che ogni idea è individuale, essendo necessariamente l'idea formata, hic et
nunc, da Pietro o da Paolo.
290 Cfr. S. Tommaso, S. C. G., I, c. LXV: De Anima, III, lect. 8 (Cathala, n. 712): Summa theologica, 1a, q. 86: De
Veritate, q. l, a. 6. (Sull'intera questione, cfr. R. Jolivet, L'intuition intellectuelle, Parigi, Beauchesne, 1934, p. 24-32).
245
penso alla nozione di virtù, senza evocare espressamente le differenti virtù. L'universale attuale implica
invece espresso riferimento all'estensione dell'idea ed è tanto più perfetto in quanto il pensiero più
precisamente e più propriamente in esso colga tutti gli inferiori che contiene. È evidente che l'universale
attuale comporta anche e primariamente l'atto di coglier l'essenza oggettiva.

I moderni si servono qui piuttosto dei due termini d'idea (universale diretto) e di concetto (universale
riflesso). Ma va ben inteso che il concetto altro non è che un'idea su cui insiste un'intenzione formale
d'universalità, e che l'idea è sempre, in potenza almeno generale ed universale.
Da tutto ciò consegue che idea e concetto non sono intelligibili se non attraverso la relazione. Infatti, la
definizione propria della comprensione (idea) è essenzialmente questa: espressione di un rapporto tra
oggetti di pensiero (soggetto e predicato), dato da quel lavoro di composizione e di divisione che tende a
ritrovar l'unità complessa o l'ordine interno del reale. D'altra parte, il concetto, nel quale prevale l'intenzione
di generalità, è l'espressione del rapporto che una molteplicità indefinita di oggetti hanno tra di loro e che
sotto questo aspetto li unifica nel pensiero. Infine, la scienza, in tutti i campi, è un sistema di relazioni intese
ad unificare, in tutto o in parte, gli esseri dell' universo. Ogni pensiero autentico è perciò relazione: fare uso
di idee o di concetti, è sempre scoprire e porre relazioni.
Aggiungiamo che, proprio perciò, il pensiero è essenzialmente dinamico, poiché, essendo relazionale, esso
implica un movimento costante fra i termini relati: esso è, più esattamente, questo movimento stesso, questa
tensione interna in vista di mantenere una unità che l'analisi o la divisione continuamente vanno disfacendo,
e di scoprire, nell'unità confusa che ci è data, l'inesauribile diversità che fa la sua ricchezza. Pensare è
dunque, in un certo senso, anche creare: e persino nel suo atto più alto, che è la contemplazione, l'intelligenza
non coglie veramente se non ciò che essa in certo qual modo genera.

§ 2 - L'immagine e l'idea

403 - Le nozioni precedenti non sono ancora che analisi empiriche. Esse tendono a determinare sotto quale
forma appaiono le idee di cui il pensiero si serve. Rimane il problema della loro vera natura, che non è risolto
da definizioni o descrizioni empiriche. Questo problema ha due aspetti: si tratta di sapere se l'idea è
realmente una realtà psichica distinta dall'immagine e se esiste un pensiero senza immagini.

A. LE TEORIE EMPIRISTICHE E NOMINALISTICHE

Numerosi filosofi, chiamati empiristi o nominalisti, hanno sostenuto che l'idea universale è una realtà
puramente mitica e si può ridurre ad immagini singolari e concrete. Tocca, beninteso, a questi filosofi, dare
una spiegazione, partendo dalle immagini, delle forme psichiche illusorie (presumibilmente) che noi
chiamiamo idee generali e che abbiamo ora descritte. Tuttavia, si può ritenere che il problema dell'idea
universale è suscettibile di un trattamento sperimentale, più sicuro, nei suoi risultati, di quanto non lo
possano essere le teorie elaborate in funzione di postulati troppo spesso arbitrari.

404 - 1. LE TEORIE EMPIRISTICHE - Queste teorie si basano su due tipi d'argomenti.

a) Ogni rappresentazione è determinata. Dall'antichità ai nostri giorni (Epicuro, Zenone, Ockam, Nicola
D'Autrecourt, Gassendi, Condillac, Berkeley, Hume, Kant, Mill, Taine, Goblot), gli empiristi non fanno che
riprendere continuamente questo argomento. È impossibile, essi affermano, pensare realmente un essere
generale, che non esiste nella esperienza. Pensare l'uomo è rappresentarsi Pietro, Paolo o Giovanni, coi loro
caratteri singolari; pensare il triangolo è necessariamente rappresentarsi un triangolo ben definito, isoscele o
scaleno o rettangolo. L'idea generale, al di fuori del pensiero, è dunque un mito: nulla vi corrisponde, poiché
nulla esiste che non sia individualizzato. Nel pensiero, essa non è che un'immagine confusa, un residuo più o
meno schematico d'immagini molteplici relative ad individui della medesima classe.

Questo argomento non è persuasivo. È bensì vero che l'immagine è suscettibile di una certa generalità. Ma
l'identificare senz'altro l'immagine schematica con l'idea generale costituisce un'arbitraria semplificazione del
problema. Prima di tutto, infatti, l'immagine, anche «generica» (194), esprime soltanto l'aspetto materiale
sensibile di un oggetto, mentre l'idea significa quel che è essenzialmente l'oggetto. Sono due cose molto
differenti: rappresentarsi un barometro, fosse pure schematicamente, non è assolutamente aver l'idea del
barometro, in quanto strumento che serve a misurare la pressione dell'aria; rappresentarsi la pesantezza
attraverso un'immagine cinestetica è ben altra cosa che concepire la pesantezza come effetto dell'attrazione
246
dei corpi verso il centro della terra. In realtà, si può immaginare nettamente un oggetto sensibile (una pianta,
un animale, una macchina) senza sapere che cos'è, cioè senza averne un'idea, e, inversamente, si può avere
un'idea precisa di un oggetto irrappresentabile all'immaginazione, quale potrebbe essere un miriagono.
In secondo luogo, l'immagine è strettamente limitata al mondo materiale e sensibile. Proprio perciò, noi
non avremmo, senza immagini corrispondenti, alcuna nozione degli esseri immateriali. Sennonché è cosa
certa che il nostro pensiero è ricco di tali nozioni, relative sia ad esseri spirituali (Dio, l'anima, la mente), sia
a qualità immateriali (intelligenza, pensiero, virtù, libertà, giustizia), sia ad entità logiche (causalità, finalità,
relazione). Di queste diverse realtà non v'è immagine, per definizione. Tuttavia, noi le pensiamo realmente,
e, pensandole, siamo sicuri di pensare qualcosa di reale e di oggettivo.

405 - b) L'universale non è che un sostituto. Questo argomento tende a spiegare il paradosso delle
immagini che si presentano, secondo l'empirismo, come idee. Esso è stato abbondantemente sviluppato dai
nominalisti medievali (Ockam e Nicola D'Autrecourt), e ripreso dal Taine. Costoro ammettono, in un certo
senso, che l'idea universale esista realmente nella mente, ma che la sua funzione si riduca a quella di
«supplire» le realtà singolari dell'esperienza. L'universale non è affatto una rappresentazione delle essenze,
ma un semplice segno o sostituto, che in quanto tale evoca un oggetto di natura completamente differente.
Questo segno può essere naturale (allo stesso modo in cui il grido indica il dolore), o, il più delle volte,
arbitrario, qual è il caso delle parole che noi usiamo per designare cose singolari molteplici. Perciò, oggetto
immediato della mente non è affatto la cosa stessa, ma ciò che «suggerisce» in vece sua, ciò che ne
costituisce il sostituto mentale o verbale. Pensare l'uomo o l'albero, non è pensare un'essenza, ma unicamente
evocare, mediante le parole «uomo» o «albero», l'uno o l'altro, indifferentemente, degli uomini o degli alberi
individuali. L'idea generale, sotto questo aspetto ancora, si riduce ad immagini.

Questa teoria, per quanto ingegnosa, cade a sua volta nella riduzione dell'idea alle immagini. Infatti,
abbiamo già visto (396) che l'idea e la sua espressione verbale sono indipendenti ed indifferenti fra di loro,
e che spesso il possedere una parola non equivale al, possesso di un'idea (psittacismo), o inversamente che
l'idea esiste talvolta realmente senza la sua espressione verbale. Inoltre, non si vede come mai le parole
sarebbero arrivate a servire da sostituti alle idee, sia pure ridotte ad immagini, se l'idea non avesse
(logicamente) preceduto la parola per conferirle il suo senso generale. Nella teoria della «sostituzione» o del
segno arbitrario, noi dovremmo avere a nostra disposizione soltanto parole indicanti oggetti singolari ed
altrettante parole quante immagini. Il fatto stesso che noi facciamo uso di «nomi comuni» implica
evidentemente che abbiamo anche «nozioni comuni», cioè idee. Sono le idee che spiegano le parole, e non,
come affermano i nominalisti, le parole che spiegano le idee.

B. I PROCEDIMENTI SPERIMENTALI

406 - Le teorie empiristiche lasciano dunque il problema irrisolto. L'idea, considerata nella sua realtà
empirica, resiste a tutti i tentativi di riduzione. Lasciamo da parte, quindi, le teorie, e cerchiamo di ricorrere
ai procedimenti sperimentali.

a) Le prove di idee generali. Nella sua indagine sulle idee generali (L'évolution des idées générales, Parigi,
1897), Ribot ha cercato di risolvere il seguente problema: «Quando si pensa, quando si ode, quando si legge
un termine generale, che cosa c'è in più del segno, nella coscienza, immediatamente e senza riflessione?». Il
procedimento consisteva nel pronunciare parecchie parole di fronte ad un soggetto all'oscuro dello scopo
delle esperienze, e nell'invitarlo a dire immediatamente se queste parole non evocassero nulla alla sua mente,
o se al contrario esse evocassero qualche cosa e che cosa 291. La risposta veniva subito segnata. Se essa
tardava più di sette secondi, la si considerava dubbia. Queste esperienze riguardarono centotre adulti dei due
sessi, di professioni e cultura molto differenti. Ribot si servì pure, agli stessi fini, di frasi brevissime, nelle
quali una parola saliente doveva attirare l'attenzione.

b) Risultati. I risultati furono i seguenti. Si constata, in tutti i soggetti, la presenza di un elemento chiaro, la
parola, accompagnato spesso da un'immagine o da un frammento d'immagine, visiva, auditiva, motrice.
L'immagine, quando è data, è molto spesso molto differente dal senso della parola: la parola «infinito» evoca
in parecchi soggetti un buco nero; la parola «tempo» un metronomo, la parola «giustizia» una bilancia, ecc.

291 Le parole usate furono: cane, animale, colore, forma, giustizia, bontà, virtù, legge, numero, forza, tempo, rapporto,
causa, infinito.
247
D'altra parte, nonché della parola e dell'immagine associata, i soggetti danno prova della presenza nella loro
coscienza del senso della parola, percepito come distinto ed indipendente dall'immagine. Tuttavia, questo
elemento è spesso dichiarato oscuro, poco cosciente, in certo qual modo latente, tale da esigere, per essere
precisato, un certo sforzo. Infine, numerosi soggetti hanno risposto che le parole proposte non evocavano
nulla alla loro coscienza. In ciò, secondo Ribot, non andava visto un nulla di pensiero, ma soltanto l'assenza
di ogni immagine definita e, insieme, un sapere potenziale, una abitudine.
Ribot conclude, in base alle sue esperienze, che le idee generali sono abitudini intellettuali. Quando
l'abitudine è perfetta, l'idea si presenta senza sforzo all'appello della parola: la parola è compresa
immediatamente e pienamente. All'abitudine imperfetta corrisponde uno sforzo più o meno penoso, con
evocazione confusa d'immagini visive, auditive, motrici, distinte dal senso delle parole.

c) Discussione. Da queste esperienze si dovrebbe concludere che l'immagine e l'idea sono nettamente
distinte. Ma questo non è il parere di Ribot, che interpreta «l'abitudine intellettuale» in funzione del suo
nominalismo. L'abitudine intellettuale si riduce infatti per lui alla soppressione dello sforzo necessario per
estrinsecare il sapere latente sotto la copertura delle parole. Semplice alleggerimento della memoria,
l'abitudine ha l'effetto di svuotare il concetto del suo contenuto, di sostituire l'idea all'immagine e la parola
all'idea. E questa d'altra parte, altro non è mai, per Ribot che un residuo o una semplificazione del pensiero
concreto e immaginato.
Questo nominalismo ci sembra incapace di fornire il senso delle esperienze su cui si basa il Ribot. Esse
mostrano chiaramente che ci sono abitudini intellettuali, ma dal significato ben diverso da quello che viene
loro attribuito. Esse rappresentano forme astratte d'organizzazione che caratterizzano il dinamismo mentale,
cioè forme viventi, «divenute a poco a poco consostanziali all'intelligenza e capaci di prestarsi ciascuna a
contenuti di un certo genere», sia incorporandosi in un'intenzione della mente orientata verso un contenuto
virtuale di pensiero, sia intervenendo in maniera automatica 292.

Sotto questo aspetto, non solo il concetto, ma la ragione stessa (come sistema di categorie) sono abitudini
intellettuali (habitus: 73). Essi costituiscono, secondo l'espressione di Kant, ma in diverso senso, quell'«arte
nascosta nelle profondità dell'animo umano», che riveste la forma di un automatismo spirituale, parallelo
all'automatismo volontario delle virtù, e che ha, come tale, quell'aspetto a priori ed innato, tante volte
sottolineato da San Tommaso.

407 - 2. ESPERIENZE DI MESSER E DI BULHER

a) Le «attitudini di coscienza». Le esperienze della Scuola di Würzburg, hanno anzitutto stabilito


l'esistenza di intenzioni (o di tensioni orientate), alquanto simili ai fenomeni che Bergson ha descritto sotto la
denominazione di schema dinamico (230), e che sono sentimenti o intuizioni, improvvise ed irriducibili alle
immagini, della regola da seguire per risolvere un problema, dei rapporti logici d'identità, di convenienza o
di contraddizione, della vicinanza di un ricordo che si cerca, ecc. Queste attitudini intellettuali
(Bewusstseinslagen) si distinguono dal pensiero propriamente detto, ma lo preformano e manifestano già la
sua indipendenza rispetto alle immagini.

b) Il «pensiero senza immagini». Le esperienze hanno mirato a stabilire se si può pensare senza immagini;
problema che comporta due aspetti, e cioè: può il pensiero esercitarsi senza accompagnamento di alcuna
sorta di immagine apprezzabile? Può il pensiero esercitarsi quando sia accompagnato da immagini
insufficienti ad illustrarlo completamente?293

Test di Messer. Due gruppi d'esperienze. I sei primi test consistevano nel pronunciare in presenza del
soggetto un sostantivo di tre sillabe, a titolo di parola induttrice. Il soggetto doveva indicare sia una nozione
subordinata, sia una nozione comprendente nella sua estensione quella parola induttrice, sia il tutto di cui la
nozione della parola induttrice era un elemento. Subito dopo la risposta, il soggetto descriveva il processo
psicologico dell'elaborazione della risposta. Cinque altre prove consistevano nel proporre coppie di parole

292 A. Burloud, La Pensée conceptuelle, p. 302,


293 Conviene far menzione anche delle esperienze di Binet, che ricorrono al medesimo metodo, e procedono per
interrogatorio orale. Si faceva una domanda ai soggetti (in numero di venti); la risposta poteva essere data oralmente,
per iscritto o mediante un disegno. Il soggetto veniva quindi interrogato sulle immagini e sul processo psicologico che
avevano accompagnato l'elaborazione della risposta.
248
(per esempio, Platone-Aristotele): il soggetto doveva dare il risultato del confronto fra le due parole e
precisare se immagini visive o auditive, e quali precisamente, erano intervenute nel giudizio - risposta (cfr.
Messer, Untersuschungen über das Denken, in «Archiv für gesamte Psychologie», t. VIII, p. 1-124).

Test Buhler. Buhler propone una serie di domande corrispondenti al sapere o ai gusti del soggetto. («Il
monismo è la negazione della personalità?» «Sapete che cosa l'Eucken vuol significare parlando di
appercezione mondiale?» «Sapete calcolare la velocità di un corpo in caduta libera?»). Il soggetto deve
rispondere con un sì o con un no ed esporre subito dopo quel che è avvenuto nella sua coscienza. D'altra
parte, per evitare l'intervento dell'associazione (con la quale gli associazionisti pretendono di spiegare il
giudizio), Buhler prende una serie di quindici aforismi o proverbi, li tronca ciascuno in due parti, e di seguito
legge, anzitutto le prime quindici parti, poi, in un ordine differente, le seconde quindici parti. Il soggetto deve
dire quale sia la prima parte dell'aforisma di cui ha appena udito la parte finale (Esempi; «La minima brezza
strappa all'uomo la sua corona di fiori» - «Chi si sottrae interamente alla riconoscenza» - «V'è gente che
crede di conoscere un uccello» - «Si risparmia anche l'ingratitudine» - «Perché ha visto l'uovo donde è
uscito» - «Ma la sua corona di spine resiste alla bufera»). Infine, Buhler legge una serie di proverbi, indi,
senz'ordine, un certo numero di vocaboli caratteristici tolti da tali proverbi. Il soggetto deve dire a quali
proverbi appartengono queste parole e spiegare come ha fatto a ritrovare i proverbi.

3. Conclusioni della Scuola di Würzburg. Gli sperimentatori di Würzburg hanno creduto di poter affermare
che le loro esperienze stabiliscono che c'è un pensiero senza immagini. In molti casi, il soggetto comprende
la parola o il giudizio senza qualsiasi traccia d'immagine e addirittura senza discorso interiore. D'altra parte,
le prove sperimentali hanno permesso di precisare i rapporti fra pensiero e le immagini che spesso
l'accompagnano. Si nota anzitutto che le immagini, gli schemi, il discorso interiore sono appena
«sottoprodotti». Essi si presentano soltanto in rapporto all'esitazione del pensiero; meno il pensiero è sicuro
di se stesso, più il discorso interiore nonché le immagini si fanno abbondanti.
Infine, il pensiero è indipendente dall'elaborazione di immagini. Esso interpreta l'immagine, spesso
informe e frammentaria e talvolta persino in contrasto col pensiero stesso. Frequentemente, il soggetto, che
cerca la risposta da dare, constata semplicemente la presenza delle immagini, e fa procedere il suo pensiero
sia trascurando queste, sia respingendole. L'appello all'immagine si ha soprattutto quando il problema da
risolvere esige il ricorso ai dati sensoriali.
Buhler in base a queste esperienze conclude che la logica del pensiero è completamente distinta dal campo
delle immagini e che un elemento quale l'immagine, che appare in modo così frammentario, così arbitrario e
accidentale nella coscienza, non può assolutamente essere considerato né come costitutivo, né come supporto
del pensiero294.

408 - 4. DISCUSSIONE DELLE CONCLUSIONI - Le esperienze della Scuola di Wurzburg hanno dato
certamente l'apporto di risultati preziosi. Non si può tuttavia affermare che si accettano tutte le conclusioni
che da tali esperienze si sono volute trarre. Ci sono riserve da fare, sia per quanto riguarda il metodo che per
quanto riguarda le asserzioni che ne riassumono i risultati 295.
Quanto al metodo, si osserverà che è efficace per descrivere i prodotti del pensiero piuttosto che la
formazione stessa del pensiero (365). Questa assenza di prospettiva genetica spiega come la «Psicologia del
pensiero» porti semplicemente a risultati negativi, che in ultima analisi consistono nel toglier di mezzo
l'empirismo, che vuole riportare l'idea all'immagine. La Scuola di Wurzburg ha perfettamente dimostrato che

294 Cfr. Buhler, Tatsachen und Probleme zur einer Psychologie der Denkvorgange, in «Archiv für die gesarnte
Psychologie», t. IX, p. 12 sg.; A. Burloud, La Pensée d'après les recherches expérimentales de Watt, de Messer et de
Buhler, Parigi, 1927.
295 Alcuni critici s'ispirano a teorie più o meno valide. Così ci spieghiamo come Wundt abbia obiettato che il pensiero
è un complexus d'immagini troppo numerose per essere simultaneamente presenti; esse rimangono - egli afferma come
sullo sfondo e non si manifestano se non man mano che il pensiero va svolgendosi. Ma chi non vede gli apriori
contenuti in questa obiezione? Può darsi che un pensiero che si sviluppa evochi via via immagini molteplici. Ma, da una
parte, si tratta di definire il rapporto di queste immagini col pensiero, mentre Wundt afferma, senz'altro aggiungere, che
questo non è se non un «complexus d'immagini», ciò che appunto è da discutere, d'altra parte, parecchi soggetti
affermano che il pensiero non si forma durante il processo della sua espressione verbale, ma è presente come un tutto,
precedentemente alla prima parola, senza che il campo d'immagini mentale vi si accompagni. Wundt, facendo di questo
pensiero ancora inespresso e globale una sorta di coscienza affettiva sorda, finisce con l'identificare pensiero e
sentimento. Senz'altro si deve ammettere l'esistenza di sentimenti intellettuali (cfr. A. Burloud, La Pensée conceptuelle,
p. 29 sg.). Ma si tratta, appunto, di stati di coscienza che è impossibile ridurre semplicemente a meri stati affettivi.
249
l'attività intellettuale comporta sempre elementi che non possono spiegarsi attraverso le sensazioni e le
immagini. Ma ciò non basta a costituire una psicologia del pensiero.

In realtà, in quanto mira a risultati positivi, la Scuola di Wurzburg, costretta dal suo metodo ad attenersi
alla mera descrizione ed all'analisi degli stadi terminali dell'evoluzione intellettuale, sfocia soprattutto con
Buhler - in una sorta di panlogismo, che consiste nel fare del pensiero il semplice specchio della logica.

Questo difetto del metodo spiega l'equivoco delle conclusioni che ci si propongono. La nozione di un
«pensiero senza immagini» rischia infatti di essere fraintesa, e la confusione ch'essa dissimula sarebbe spesso
da addebitarsi a Buhler. Questi ha bensì dimostrato, contro l'empirismo, che c'è un pensiero che trascende il
campo delle immagini o che non è composto d'immagini, ma non, come egli afferma, che esiste un pensiero
non accompagnato da immagini. In realtà, si dovrebbe dire, secondo i punti di vista, sia che si pensa senza
immagini, nel senso che il pensiero è specificamente distinto dall'immaginazione, sia che non si pensa senza
immagini, in quanto il campo delle immagini sottende costantemente, in modo più o meno esplicito, l'attività
della mente296.
C'è dunque una certa qual dipendenza del pensiero rispetto all'immaginazione. La natura e la misura esatta
di questa dipendenza rimangono ancora da stabilire: di qui nasce appunto il problema che ci accingiamo ad
affrontare: con lo studio dell'astrazione.

Art. II - L'astrazione
409 - L'idea, la cui realtà specifica appare certa, rimane pur sempre qualcosa di alquanto paradossale. Essa
è un segno del reale, ma, a causa del suo carattere di generalità e di universalità, sembra non corrispondere
ad alcunché di reale. Infatti, tutto ciò che è reale è individuale. L'uomo in generale non esiste, ma esiste
soltanto, come insisteva Aristotele, questo uomo che si chiama Callia, o Pietro o Giovanni. Ora si tratta di
spiegare questo paradosso apparente. Come si formano le nostre idee? Quale valore si deve ad esse attribuire,
come mezzi per la conoscenza del reale? 297

§ l - Il problema degli universali

Abbiamo già avuto l'occasione di parlare del problema degli universali (I, 43). Qui, non ci rimane che di
ricordare le principali posizioni che esso comporta e delimitare il suo aspetto psicologico.

1. IL PUNTO DI VISTA PSICOLOGICO - Il problema che si pone alla psicologia è quello di sapere quale
realtà mentale convenga riconoscere all'idea universale. L'idea, nel pensiero, è qualcosa di irriducibile alle
immagini ed alle parole? Ha essa una realtà specifica propria? Questo è appunto il problema che abbiamo
testé studiato nelle precedenti pagine. Siamo stati portati a concludere che l'idea universale era qualche cosa
di reale nel pensiero e qualche cosa d'essenzialmente distinto dalle rappresentazioni sensibili. Ma rimane
sempre da sapere come si formano le idee, ciò che costituisce il problema dell'astrazione.

2. PSICOLOGIA E CRITICA - Gli aspetti psicologici e critici del problema delle idee sono intimamente
connessi fra di loro. E chiaro infatti che il problema del valore delle idee generali (Critica) dipende dalla
soluzione che si dà al problema della natura dell'idea generale e del suo modo di formarsi. Tutta la
psicologia della conoscenza è effettivamente connessa al problema critico, e viceversa. Nonostante tutto,
conviene mantenere la distinzione dei punti di vista, avendo la Critica, come fine, quello di giudicare la
ragione come facoltà dell'essere, e la Psicologia semplicemente quello di descrivere l'intervento di questa
stessa ragione. Il problema del valore dell'idea si presenterà pertanto in maniera differente in Critica ed in
Psicologia. In quest'ultima, si tratterà soltanto di determinare il suo particolare modo di rappresentazione
(valore empirico), mentre in Critica si tratterà di definire il suo valore assoluto, cioè di giudicare la pretesa,

296 Si è ancora obiettato, contro le tesi di Buhler, che esse non reggono quando si tratta di stabilire la realtà di un
pensiero senza immagine, perché, ad ogni modo, resta sempre «l'immagine verbale». Ma si tratta a nostro avviso di una
difficoltà senza peso. Infatti l'«immagine verbale», come tale, non è qui in causa. Bisogna pure che essa sia presente
poiché nello sperimentare ce ne serviamo per evocare le idee. Ma, oltre a ciò, essa fa corpo normalmente col senso della
parola: vale a dire che qui si parla di «immagine» in un senso improprio.
297 Cfr. Pradines, Psychologie générale, II, 2, p. 139 IV.
250
da parte del pensiero, di cogliere l'essere al di là dei fenomeni, le cause ed i primi princìpi al di là del
sensibile e del molteplice dell'esperienza.

410 - 3. LE SOLUZIONI - TIPO - Le grandi soluzioni proposte nella storia per questo problema hanno
dunque necessariamente un duplice aspetto, psicologico e critico. Ora non dobbiamo fare altro che
sottolineare il primo aspetto.

a) Nominalismo. Il nominalismo comporta due gradi. Anzitutto il nominalismo radicale: le idee universali
non hanno alcuna realtà, né oggettiva, né soggettiva; esse sono pure parole (o nomi) vuote di contenuto
(donde il termine nominalismo). Per il nominalismo moderato, chiamato anche concettualismo o, nel Medio
Evo, terminismo, l'idea è qualcosa di reale nella mente, ma questa realtà è inspiegabile mediante l'esperienza:
essa è sia il prodotto d'una intuizione delle pure essenze esistenti in un mondo intelligibile (idealismo
oggettivo, sostenuto da Platone), sia qualcosa di innato nella mente e che questa non fa che trarre dal proprio
fondo, senza ricorso all'esperienza, se non a titolo di condizione accidentale (idealismo soggettivo, sostenuto
da Cartesio e Kant, sotto forme diverse). All'idealismo oggettivo, si può riallacciare l'ontologismo del
Malebranche, per il quale le idee sono viste in Dio, e il panteismo dello Spinoza e del Fichte, per i quali le
idee sono in noi dei modi del Pensiero divino.

b) Realismo - Per il realismo, sostenuto da Aristotele e San Tommaso, le nostre idee sono ad un tempo
qualcosa di reale nella mente e qualcosa che esprime autenticamente, benché sotto forma astratta, il reale
dato all'esperienza (Fig. 18).

Questo quadro schematizza soluzioni


dai gradi molto vari e che si
richiamano, più o meno, le une alle
altre. Così si spiega come ogni
idealismo sia una specie di innatismo e
come ogni innatismo implichi in modo
più o meno preciso una parte
d'ontologismo.
Si distinguono comunemente il
realismo esagerato (che è l'idealismo
ontologico di Platone) e il realismo
moderato (quello di Aristotele e di San
Tommaso). Ma questa distinzione, come
i termini («esagerato», «moderato») per
mezzo dei quali essa si esprime, dipende
dal punto di vista critico.
Psicologicamente, non ci sono
realmente che due posizioni, quella del
nominalismo (l'idea non deriva in alcun
modo dall'esperienza) e quella del
realismo (l'idea viene dall'esperienza).
L'idealismo di Platone, come
l'occasionalismo di Cartesio e di
Malebranche o l'idealismo di Kant, non
sono che tentativi per risolvere i
problemi posti dal nominalismo iniziale.
È dunque questo nominalismo che
caratterizza essenzialmente queste
dottrine.

411 - La discussione di queste dottrine


va fatta sul terreno dell'esperienza, giacché si tratta essenzialmente di sapere, una volta stabilita la loro realtà
mentale, come effettivamente si formino le idee generali. Le numerose teorie che a questo proposito sono
state avanzate sono da tenere in considerazione non per la loro ingegnosità, ma nella misura in cui sono atte a
render ragione dell'esperienza.
251

§ 2 - Natura dell'astrazione

Tutto il problema, come s'è visto, sta nel cercare di sapere se l'idea sia spiegabile partendo dall'esperienza.
Noi dobbiamo pertanto indagare se la soluzione realistica, che si presenta come la più ovvia e la più
conforme alle esigenze del senso comune, possa essere considerata valida. Questa soluzione riposa
essenzialmente nell'affermazione secondo cui le idee si formano per astrazione partendo dall' esperienza
sensibile.

A. LA NOZIONE D'ASTRAZIONE

Nel senso più generale, astrarre (ab-trahere) significa separare. Dal punto di vista della conoscenza,
astrarre è considerare in un oggetto un elemento o un aspetto separatamente dagli altri. Astrarre implica
pertanto una sorta di analisi o di scomposizione di un tutto nei suoi elementi. In una casa si può, per esempio,
tener conto dell'aspetto pratico o dell'aspetto estetico; in un quadro, si può considerare il colore o il disegno.
Si può anche, in un oggetto, discernere l'essenza dai caratteri accidentali: si dirà in questo senso, e per
astrazione dalle particolarità razziali (giallo, nero, bianco) o individuali (alto o basso, dotto o ignorante,
giovane o vecchio, ecc.) che l'uomo è un animale ragionevole. Abbiamo così due tipi d'astrazione, dei quali
bisogna accuratamente precisare la natura.

412 - 1. L'ASTRAZIONE - SEPARAZIONE - In una prima forma, astrarre è essenzialmente separare, o


dividere un tutto reale nelle sue parti fisiche (I, 52). Questo appunto facciamo, quando, in un quadro,
consideriamo a parte i colori e le forme; in uno Stato la costituzione politica, le istituzioni giuridiche,
l'esercito, i pubblici costumi, ecc.; nell'umanità, le diverse razze che la compongono.

2. L'ASTRAZIONE DELLE ESSENZE - Questa è l'astrazione propriamente detta, che consiste nel
cogliere, nei singoli esseri dell'esperienza, i tipi d'essere che vi si trovano attuati (generi e specie). L'idea di
uomo, per esempio, è una nozione ottenuta per astrazione, in quanto il tipo o l'essenza «uomo» (= animale
ragionevole) è colto entro e attraverso l'esperienza che noi ci siamo fatta degli uomini individuali, Pietro,
Giacomo, Giovanni. L'idea d'essere è data dall'astrazione della essenza dell'essere (= ciò che è, comunque
esso sia) nei singoli e diversi enti dati dall'esperienza. Qui, si tratta precisamente di questa astrazione, la sola
che sia in causa.
Questa sorta di astrazione è pure, in un ceno senso, una separazione o una divisione, giacché consiste nel
mettere fra parentesi l'essenza della cosa, cioè nel separarla mentalmente dai caratteri individuali con i quali
essa è sempre data nel reale. Ma è importante intendere bene che l'astratto. in questo caso, non è una parte
del tutto, ma il tutto stesso. Infatti, l'astratto significa non soltanto l'essenza della cosa, che esso dichiara
esplicitamente, ma anche, benché in forma implicita e potenziale, tutte le proprietà e tutte le caratteristiche
individuali che possono interessare ed indicare questa essenza. Ecco pertanto che la nozione astratta
dell'uomo esprime ad un tempo esplicitamente l'essenza «animale ragionevole» e potenzialmente tutte le
proprietà e tutti gli accidenti fisici e morali suscettibili di determinare l'animale ragionevole (bianco, giallo o
nero, alto e basso, virtuoso e vizioso, paziente e collerico, dotto e ignorante, assennato o folle, fisico,
chimico, meccanico, matematico, ecc.).

Si chiama quest'astrazione col nome di astrazione formale (abstractio formalis), in quanto essa consiste nel
considerare la forma separatamente rispetto alla materia (II, 85), o, ancor più generalmente, l'atto
separatamente dalla potenza che esso attua o fa esistere. La più elevata astrazione formale, che, come si
vedrà, offre l'oggetto suo precipuo alla Metafisica, è l'astrazione dell'essere comune (ens in quantum ens).

B. TEORIA DELL'ASTRAZIONE PASSIVA

413 - Le definizioni che precedono non costituiscono, evidentemente, delle soluzioni. Esse pongono
semplicemente il problema e lo delimitano; eccolo formulato: il processo astrattivo è una realtà psicologica
o, al contrario, una illusione suscettibile d'essere spiegata per riduzione a processi elementari (per esempio
all'attività dell'immaginazione simbolica e schematica)? Esaminiamo dapprima le soluzioni che sono state
proposte dall'empirismo.
252
1. IL PUNTO DI VISTA EMPIRISTICO E NOMINALISTICO - Questo punto di vista si è espresso in due
differenti forme:

a) L'idea generale si riduce ad un'immagine. Per gli empiristi del secolo XVIII, e per Hume in particolare,
l'idea generale non è che un'immagine impoverita per restrizione dell'attenzione, e, per ciò stesso,
disindividualizzata e banalizzata. L'idea astratta è dunque in realtà soltanto un'immagine astratta, che si
ottiene in certo qual modo automaticamente, in quanto ogni immagine tende per se stessa, in conseguenza
del progressivo cancellarsi dei caratteri singolari, ad assumere una forma generica e schematica (194).
L'evocazione delle idee si riduce pertanto, di fatto, ad un semplice richiamo d'immagini generali,
rappresentanti, ciascuna, un'intera classe di oggetti.

b) L'idea generale si riduce ad un'abitudine motrice. Il punto di vista degli empiristi è stato ripreso, sotto
nuova forma, da Taine. Nel suo libro De l'Intelligence, Taine dichiara che l'idea generale ha come punto di
partenza una tendenza che dà luogo ad un'espressione ed in particolare un nome: la massa d'impressioni
simili, provocate da una moltitudine di oggetti particolari, risulta sintetizzata dal movimento identico che
esse, tutte, determinano. In altre parole la generalità della rappresentazione è data dal fatto che fenomeni o
oggetti differenti sono classificati nel medesimo gruppo, in quanto mezzi «equivalenti» per ottenere un certo
risultato. Per esempio, l'idea di alimento altro non esprime che l'identità di comportamento dell'individuo
relativamente ad oggetti molteplici e diversi, capaci di sedare la sua fame.

Bergson (La pensée et le mouvant, Parigi, 1934, p. 67 sg.), senza voler negare la specificità del concetto,
ritiene che il punto di partenza dell'idea generale sia costituito da un sentimento confuso di qualità spiccata o
di somiglianza fra gli oggetti. Questa somiglianza è messa in evidenza dall'azione e consiste nell'identità
delle reazioni del vivente ad azioni parzialmente differenti: «È l'erba in generale che attira l'erbivoro: il
colore e l'odore dell'erba, sentiti e subiti come forze (non arriveremo a dire: pensati come qualità o generi)
sono i soli dati immediati della sua percezione esteriore». (Matière et Mémoire, p. 173). Tuttavia, Bergson
vuole spiegare in questo modo solo la generalità, che sarebbe identità d'attitudine, cioè abitudine, e non
l'astratto propriamente detto, che è una generalizzazione cosciente e data dalla riflessione, che mette capo al
concetto o nozione di generi e di specie.

Altre teorie sono molto più radicali e pretendono spiegare del tutto l'idea generale con l'abitudine motrice.
Siccome questa ha per effetto di fissare reazioni in una disposizione funzionale stabile, l'eccitazione
singolare, una volta costituita l'abitudine, provocherebbe la reazione globale e complessa che noi chiamiamo
illusoriamente «idea generale».

414 - 2. DISCUSSIONE - Il punto di vista empiristico e nominalistico cozza contro le seguenti


osservazioni:

a) L'immagine schematica è essenzialmente differente dall'idea astratta. Noi sappiamo che la percezione
consiste prima di tutto nel cogliere una struttura o una forma che abbia significato (145). L'immagine
schematica non richiede dunque alcuna delle spiegazioni complicate che si sono proposte 298. Essa sta
realmente all'inizio della conoscenza, che muove pertanto da una sorta di percezione generale. Da questo
punto di vista, completamente opposto a quello sensistico ed empiristico, secondo cui la conoscenza
inizierebbe con sensazioni isolate d'elementi o sensazioni-atomi, quel che andrebbe spiegato sarebbe dunque
piuttosto il modo di cogliere l'individuale e l'elementare.

Tuttavia, questa immagine schematica della percezione sensibile non è affatto l'idea astratta
dell'intelligenza. Empiricamente, e indipendentemente da ogni teoria, immagine schematica ed idea astratta
differiscono per alcune loro caratteristiche irriducibili. Anzitutto, l'immagine schematica è una
rappresentazione concreta di una struttura e di una forma sensibile. Non è qui che troviamo l'astratto
propriamente detto, che è non più rappresentazione di una struttura sensibile, ma, almeno in linea di
principio, concezione di una essenza indipendente da ogni forma sensibile. La percezione ci offre
un'immagine schematica dell'uomo: conformazione fisica, atteggiamenti e mimica, ma l'idea di «animale
ragionevole» è qualcosa di ben differente e di irriducibile all'immagine, quale che sia il grado di
schematizzazione e di «generalità» di questa.

298 Le ipotesi della fusione e della sovrapposizione delle singole immagini (Galton) sono universalmente abbandonate.
253
In secondo luogo, v'è una quantità d'oggetti ai quali non può corrispondere alcuna immagine schematica,
per il fatto che questi oggetti non appartengono all'ordine sensibile: tali sono, per esempio, le nozioni astratte
di causa, di fine, di sostanza, di limite, di legge, d'infinito, d'essenza, d'assoluto, di essere, ecc. Per siffatti
oggetti, l'immagine che è talvolta congiunta all'idea si oppone a quest'ultima, lungi dal costituirla.

È appena il caso di discutere la tesi di Stuart Mill (System of Logic, Ratiocinative and Inductive, 9a ed.,
Londra, 1875; tr. fr. Logique, p. 255-257), secondo la quale il concetto altro non è che un'immagine isolata da
parte dell'attenzione in un tutto complessivo. È fin troppo chiaro, infatti, che il carattere o l'aspetto fissati
dall'attenzione sono altrettanto concreti ed individuali che il tutto dal quale essi sono isolati. Se noi
concentriamo la nostra attenzione sul colore di un fiore, al punto di perdere la coscienza degli altri caratteri
del fiore stesso, non è che otteniamo in questo modo l'idea di colore; quest'ultima è tutt'altra cosa che la
contemplazione ostinata ed esclusiva di un oggetto particolare.

415 - b) L'astrazione non si riduce alla generalizzazione. L'errore fondamentale che si ritrova in tutte le
teorie empiristiche consiste nel fatto che vi si definisce l'astrazione come una generalizzazione, cioè viene
presa in considerazione soltanto l'astrazione-separazione. Ebbene, da una parte, queste teorie non riescono
neppure a spiegarci, in questo modo, la generalità del concetto, poiché l'immagine, per schematica che possa
essere, rimane su di un piano di generalità molto al di sotto e ben differente rispetto a quello del concetto.
D'altra parte, generalizzare non è astrarre. Anzi, ogni generalizzazione, nell'ordine concettuale, implica una
precedente astrazione. Di conseguenza, bisogna rinunciare all'illusione di spiegare l'astratto partendo dal
generale, giacché è semplicemente ed esattamente il contrario che si deve fare.

Bergson (Matière et Mémoire, p. 170) ritiene che «per generalizzare, bisogna anzitutto astrarre, ma [che]
per astrarre utilmente bisogna già saper generalizzare». Infatti, se - come afferma Bergson - astrarre è in
ultima analisi un «estrarre qualità comuni», occorre, onde queste qualità appaiano come comuni, che esse
abbiano prima subito un'opera di generalizzazione. Sennonché questa opinione è evidentemente basata su di
una nozione erronea dell'astrazione. Bergson riporta questa al procedimento di associazione e di separazione.
Ma non di questo si tratta, giacché l'astrazione propriamente detta non è un «mettere fra parentesi», per così
dire, una qualità o un aspetto, ma il cogliere un'essenza: il che è radicalmente differente. Così stando le cose,
si può affermare che l'astrazione precede la generalizzazione fornendole la base. La generalizzazione non è
possibile se non attraverso l'astrazione.

c) Immagine schematica ed abitudine motrice non sono degli astratti. Il ricorso all'immagine schematica ed
all'abitudine motrice per spiegare l'idea astratta neppure corrisponde ai dati del problema. Se infatti
l'immagine schematica è una rappresentazione più o meno generale, essa non è certo un astratto, ma una
rappresentazione generale concreta. Parimenti, l'abitudine motrice è una sorta di attitudine generale, ma non
rappresentazione. Del resto, l'abitudine tende a dispensare dai concetti, lungi dal costituirli. Essa è
precisamente, nel mondo animale, sprovvisto di pensiero, il sostituto di quello strumento universale che è,
nell'uomo, il pensiero fondato sui concetti.

Non si può rifarsi, per il concetto, alle immagini schematiche o agli schemi percettivi. Ciò tuttavia non
significa che non ci sia, fra l'uno e gli altri, alcuna relazione. Anzi, immagini e schemi sono ad un tempo i
sostituti ed i primi abbozzi del concetto. Sono proprio essi che suppliscono il concetto, non soltanto negli
animali, ma pure nell'uomo, per più di tre quarti della sua vita (194). È certo, d'altra parte, come osserva
Burloud299, che «se gli schemi percettivi non sono ancora veri e propri concetti, è quanto meno vero che i
concetti sono in essi contenuti virtualmente o in potenza» e che «proprio ritrovando, mediante la riflessione,
nel mondo già organizzato dell'azione e della percezione, gli schemi cui si è ricorsi nel costruirlo, e fissandoli
per mezzo del linguaggio ed estrinsecandoli con operazioni intellettuali» la mente forma la maggior parte dei
concetti empirici (399), che, come si sa, hanno per contenuto essenziale determinazioni geometriche, o
meccaniche, strutture e figure.

C. L'ASTRAZIONE ATTIVA

416 - 1. IL VERO PROBLEMA - La precedente discussione basta a dimostrare che tutte le teorie
empiristiche cercano di risolvere uno pseudo-problema, che nasce da una nozione inesatta dell'astrazione. Il

299 A. Burloud, La Pensée conceptuelle, p. 121-122.


254
problema dell'astrazione propriamente detta, che consiste nel cogliere le essenze e non già nel considerare
esclusivamente qualità isolate dal tutto complessivo, rimane intatto. Quanto poi a dirlo illusorio, è
impossibile: abbiamo visto infatti che esso è posto dalla natura stessa dell'idea e del concetto, sulla base dei
più sicuri dati sperimentali.

2. L'ATTO DI COGLIERE LE ESSENZE - L'astrazione delle essenze è dunque, come vuole Bergson, «un
raffinamento dell'intelligenza»? Essa è comunque la forma stessa dell'attività intellettuale. Quanto al punto di
partenza di quest'ultima, lo si può individuare nelle percezioni schematiche: la nostra percezione è in certo
qual modo naturalmente orientata verso la forma astratta, grazie alla mediazione delle immagini di strutture
e di forme che ci provvedono oggetti o qualità «generali». È proprio in queste immagini più o meno
schematizzate che l'intelligenza opera per cogliere quel che le cose sono in se stesse, le loro nature, le loro
essenze, le quali si esprimono sotto forma d'idee o di concetti, che dicono il puro significato delle cose.

L'idea (nozione o εϊδοσ) è relativa all'ordine dell'essere; essa consiste nel cogliere o fare apparire delle
proprietà o delle relazioni che appartengono all'essenza della cosa e la costituiscono. La percezione è
relativa, invece, all'ordine dei fenomeni o delle apparizioni. Ma l'essenza è sempre implicita nella percezione
stessa, a tal punto che l'elaborazione dell'idea non è a sua volta possibile se non per il fatto che l'essenza è
«già presente» nella percezione. In un certo senso, la definizione non va verso l'essenza: essa ne procede. È
questo appunto il senso preciso dell'assioma secondo il quale «non v'è nulla nell'intelligenza che non sia stato
nel senso».

Ed è così in tutta l'estensione della conoscenza. Anche le nozioni ultra-astratte di causa e di fine, di numero
e di legge, di relativo e d'assoluto, di sostanza e d'essere, hanno la loro base empirica nelle nostre esperienze
sensibili: ecco pertanto che l'idea di causa (= ciò per cui una cosa incomincia ad essere) deriva da una
elaborazione dell'intelligenza sulle esperienze esterne ed interne di efficienza; la nozione di fine (= ciò in
vista di cui una cosa è o vien fatta) è generata dalla mente partendo dalle nostre esperienze d'intenzione o di
organizzazione sistematica. Così, precisamente, si costruisce a poco a poco l'universo del sapere, sistema di
nature e d'essenze, astratte dal mondo sensibile mediante lo sforzo dell'intelligenza, e connesse fra di loro
dalle cause e dai princìpi, a loro volta astratti dall'esperienza come condizioni dell'intelligibilità dell'essere.

Per una parte molto importante, le nostre idee sono delle sintesi operate partendo da elementi ottenuti
mediante l'astrazione. Così l'aritmetica, partendo dalla nozione astratta dell'unità trattata dall'addizione,
costruisce tutta la serie dei numeri. Così la geometria, partendo dal punto e dal movimento nello spazio,
genera tutta la moltitudine delle figure geometriche (I, 144). Da un altro punto di vista, le idee
problematiche (movimento perpetuo), i concetti negativi (nulla, zero), i concetti-limite (il numero infinito, il
movimento istantaneo o a velocità infinita), sono dati da sintesi operate dall'intelligenza. Ma, in tutti i casi, il
punto di partenza è preso dall'esperienza sensibile, e queste nozioni sintetiche non sono possibili se non con
l'intervento dell'astrazione. Anche le costruzioni assurde (circolo quadrato, verità falsa, Dio ingiusto) si
ottengono mediante elementi astratti dell'esperienza.

417 - 3. FUNZIONE DEL MONDO DELLE IMMAGINI - Si comprenderà meglio, adesso, la funzione
dell'immagine, ad un tempo principio e termine dell'astrazione.

a) Ogni idea procede da un'immagine. Anzitutto, ogni idea, per quanto astratta possa essere, procede,
direttamente o indirettamente, da un'immagine. Tutte le nostre conoscenze derivano dal sensibile, secondo la
celebre formula d'Aristotele: «Non v'è nulla nell'intelletto che non sia prima stato nel senso». Non fanno
eccezione nemmeno le stesse idee dell'anima e di Dio. Dell'anima o dello spirito noi non possiamo avere
alcuna idea se non in quanto e per quanto siano sperimentati: ne consegue che, certi della loro esistenza
grazie ad intuizione immediata, noi non abbiamo che una nozione inadeguata ed impropria della loro
essenza, in mancanza, da parte nostra, di una vera e propria esperienza dello spirituale. Pertanto ci serviamo,
per definire la natura di questi esseri, di analogie tolte in prestito al sensibile: anima (soffio) per anima,
spiritus (aria sottile) per spirito. Allo stesso modo, la nostra idea di Dio non è, a sua volta, che una nozione
analogica, presa in prestito alla nostra esperienza: l'idea di una causa prima universale, analoga alle cause che
noi conosciamo nell'universo e particolarmente alla causa intelligente e libera quale possiamo essere noi
stessi nella nostra azione.
255
b) «Non si pensa senza immagini». Da tutto questo, appunto, ci spieghiamo come l'immagine sia
inseparabile dall'idea, per quanto astratta questa possa essere. «Non si pensa senza immagini», diceva
Aristotele, perché ogni idea ha il suo principio in un'immagine e mantiene la sua connessione col sensibile
donde essa procede per astrazione. Ne consegue che sempre uno sciame d'immagini confuse o di frammenti
d'immagini formano come un alone che attornia le nostre idee. Noi pensiamo l'uomo, animale ragionevole,
soltanto formando un'immagine più o meno schematica dell'uomo concreto. L'idea di bianco evoca immagini
confuse di cose bianche (neve, carta, muri bianchi). L'immagine tende naturalmente, secondo l'espressione di
E. Husserl, a fornire un «riempimento» o un contenuto intuitivo al significato: quest'ultimo rimane legato
alle immagini sensibili.

Quanto alle esperienze che abbiamo analizzate (407) e che sembrano stabilire l'esistenza di un pensiero
senza immagini, non contraddicono affatto il punto di vista aristotelico, giacché esse implicano
semplicemente che, nel pensiero per concetti, l'immagine può essere estremamente sfumata, e quasi
inafferrabile, che l'atto di giudicare è essenzialmente distinto dall'attività delle immagini, e che il pensiero, in
generale, trascende il campo delle immagini sensibili. Questo è tutto quanto Binet e Buhler hanno potuto
stabilire. Ma la loro tesi (quella di Buhler, almeno) si spinge all' eccesso opposto evitato invece dalla teoria
aristotelica, consistente nel negare che si possa pensare con immagini. In realtà, si potrebbe pur dire, in un
certo senso, che non si pensa se non con immagini, che è quanto dire che si pensa soltanto in quanto ogni
idea ha il suo principio in un'esperienza sensibile. Ma, inoltre, è pur certo che l'immagine come tale può
essere uno strumento del pensiero e che bisogna ammettere l'esistenza di processi diversi di comprensione
per immagini.

c) La comprensione per immagini. Si possono infatti distinguere, relativamente all'intervento delle


immagini, due tipi d'intellezione. Anzitutto, una comprensione pura, senza intervento esplicito
dell'immagine: quest'ultima, nella misura in cui esiste, non è presa in considerazione; essa può addirittura
passare come inavvertita, quando la comprensione (concetto) è immediata. V'è poi una comprensione per
immagini, che si ha quando il pensiero fa esplicitamente uso della immagine e vi si riferisce in qualche
modo: l'immagine, in questo caso, pare sia uno degli elementi del processo di comprensione, in quanto segno
o simbolo dell'idea, sia che essa rappresenti la tappa empirica di un pensiero ancora tutto impegnato nelle
esperienze singole (399), sia che non esprima se non un aspetto o un elemento di un concetto suscettibile di
molteplici determinazioni (il «genio militare della Francia» si traduce nel mio pensiero con le
rappresentazioni di Turenne, di Napoleone, di Foch), sia che essa rimandi espressamente alle intuizioni
sensibili che stanno al principio del concetto, sia finalmente che il concetto si elabori in virtù di analogie
d'ordine sensibile (il che avviene, in particolare, quando lo sforzo di comprensione riguarda puri intelligibili).

418 - 4. LA «METAFISICA SPERIMENTALE» - Il nostro pensiero non può dunque ridursi alle immagini.
Se è vero che tutta la nostra conoscenza trova la propria origine in immagini, è altrettanto vero che essa va
ben al di là del campo dell'immaginazione, nel senso che coglie, nell'esperienza, le nature e le essenze, i
princìpi e le cause che rendono intelligibile l'esperienza, ma che rimangono, come tali, inaccessibili alla
percezione sensibile.
Si può, senz'altro parlare di una «metafisica sperimentale», giacché il principio di ogni metafisica, come
scienza dell'essere, è l'esperienza sensibile, e l'opera metafisica rimane soggetta, in tutta la sua estensione,
alla giurisdizione di questa esperienza. Ma, nel dato sperimentale, l'intelligenza umana è atta a cogliere una
realtà infinitamente più ampia di quanta non ne offra la percezione sensibile. Essa non va del resto al di là
del dato sensibile immediato, se non in virtù delle esigenze intelligibili insite in questo dato stesso: ed essa
sola è in grado di coglierle.

D. I GRADI D'ASTRAZIONE

419 – 1. I TRE GRADI D'INTELLIGIBILITÀ - L'astrazione può essere più o meno completa. L'idea di
«tavola rotonda», per esempio, è meno astratta di quella di «tavola»; il concetto di «supporto» è più astratto
di quello di «tavola» (la tavola è, appunto, una specie del genere supporto); l'idea di uomo è meno astratta di
quella di vivente (I, 41). Ci si può in questo modo elevare a poco a poco ad un'astrazione sempre più
completa, che ci porta all'idea più astratta e più universale di tutte: l'idea dell'essere, o idea di ciò che è o
esiste (in qualsiasi maniera).
256
Aristotele ha distinto tre gradi progressivi d'astrazione, mediante i quali si ottiene un grado via via più
elevato di intelligibilità. Infatti, in un oggetto materiale, l'intelligenza può astrarre anzitutto le qualità
sensibili, considerandole indipendentemente dai loro elementi caratteristici: è il grado d'astrazione proprio
delle scienze della natura, che assumono come oggetto, per esempio, il calore, il peso, la forza, la velocità, la
luce, la vita, ecc.; inoltre può astrarre la quantità come tale, indipendentemente dalle qualità sensibili che la
indicano: è il grado di astrazione proprio della matematica, che ha per oggetto i numeri e le figure, infine può
astrarre l'essere stesso, considerato indipendentemente da ogni materia, puramente e semplicemente come
essere: è il grado di astrazione proprio della metafisica (I, 21).

420 - 2. ASTRAZIONE ED INDETERMINAZIONE DEI CONCETTI - I concetti sono sempre meno


determinati, man mano che ci si eleva nell'astrazione. L'idea di essere è la meno determinata di tutte, poiché
essa conviene a tutto ciò che è o può essere. Inversamente, l'individuo (Pietro, questo cane, questo quadro) è
la realtà più determinata.

3. L'IDEA DI ESSERE - Questa idea, che è data dal primo sguardo dell'intelligenza sulle cose, dà
immediatamente origine a giudizi che si chiamano princìpi primi, i quali non fanno che esprimere le leggi
dell'essere, intuitivamente colte nell'essere. Essi sono: il principio d'identità («quel che è è», o anche «l'essere
è identico a se stesso»), e il principio di non-contraddizione («una medesima cosa non può al tempo stesso e
sotto il medesimo rapporto essere e non essere»).

4. LE IDEE DI CAUSA, SOSTANZA E FINE - Fra le nozioni che intuitivamente, benché confusamente, ci
vengono offerte dal primo contatto della mente con le cose, conviene ancora citare le nozioni di causa, o di
«ciò-che-produce-qualcosa», di sostanza, o di «ciò-che-sussiste-sotto-il-mutamento», di fine, o di «ciò-in-
vista-di-cui-una-cosa-è-fatta». Come l'idea di essere, queste nozioni danno origine a princìpi universali:
principi di causalità, di sostanza, di finalità. Il problema del valore di queste nozioni e di questi principi
appartiene alla Critica della conoscenza.

Art. III - L'intellezione


421 - Nelle precedenti discussioni abbiamo dunque dovuto concludere affermando il realismo della
conoscenza. Ma non abbiamo ancora stabilito, dal punto di vista psicologico, la verità di fatto del realismo.
Ci rimane da indagare, sotto l'aspetto propriamente filosofico, come si opera il passaggio dall'immagine
all'idea, cioè come si produce l'atto d'intellezione.

§ l - Le condizioni dell'intellezione

1. INTELLETTO AGENTE E SPECIE IMPRESSA - La condizione radicale della formazione delle idee è
data dal concorso di una facoltà che San Tommaso, seguendo Aristotele, ha designato col nome d' intelletto
agente (o attivo). Infatti, le immagini formate nei sensi con la conoscenza sensibile non sono in grado di
agire da sé sull'intelligenza, che è completamente immateriale, perché esse rimangono sottoposte alle
condizioni della materia, in quanto rappresentano oggetti materiali determinati. Ciò è appunto quanto si
esprime quando si dice che esse non sono intelligibili in atto, vale a dire conoscibili come tali
dall'intelligenza. Per divenire intelligibili in atto, le immagini devono essere elevate al livello d'immaterialità
della intelligenza, e per conseguenza spogliate delle loro condizioni sensibili, singolari e concrete. Questa
operazione si attua mediante una sorta d'illuminazione delle immagini, in cui consiste la funzione peculiare
dell' intelletto agente e che costituisce l'astrazione intellettuale.
L'operazione dell'intelletto agente produce ciò che gli Scolastici chiamano specie impressa intellettuale
(species impressa intelligibilis). Già abbiamo incontrato e spiegato questa nozione di specie impressa
(species impressa sensibilis) nello studio della conoscenza sensibile (130). Le ragioni che ne impongono la
realtà nell'ambito della conoscenza sensibile valgono a fortiori ora che si tratta di conoscenza intellettuale.
Ogni conoscenza implica infatti che la somiglianza dell'oggetto da conoscere sia presente nella facoltà
conoscente (condizione onde si definisce l'essenza stessa del conoscere). Orbene, nella conoscenza
intellettuale, l'oggetto, che è originariamente di natura sensibile, non è assimilabile dall'intelligenza se non
è in qualche modo smaterializzato300. È proprio compito dell'intelletto agente effettuare questa

300 Cfr. G. Rabeau, Specìes. Verbum. L'activité intellectuelle élémentaire selon saint Thomas d'Aquin, Parigi, 1938, p.
56-61.
257
smaterializzazione e formare in tal modo la similitudine che, informando l'intelletto, lo rende capace di
conoscere in atto.

422 - 2. INTELLETTO PASSIVO E SPECIE ESPRESSA

a) L'intelletto passivo. L'intelletto agente è dunque una facoltà attiva che agisce come condizione radicale
dell'intellezione. L'intelligenza propriamente detta (facoltà passiva) è chiamata intelletto passivo, in quanto
riceve le specie intelligibili formate dall'intervento dell'intelletto agente. Queste specie intelligibili
fecondano, per così dire, l'intelligenza, che potrà quindi produrre l'atto d'intellezione o atto di conoscenza
intellettuale, il quale trova compimento nella formazione dell' idea propriamente detta, chiamata anche, dagli
Scolastici, specie espressa (species expressa), o anche verbo mentale (verbum), cioè parola interiore,
mediante la quale il conoscente dice a se stesso quel che è la cosa conosciuta tramite la specie impressa.

b). Necessità della specie espressa. La specie espressa (verbum, similitudo intellecta, intentio intellecta,
concetto, idea) è evidentemente indispensabile per l'intellezione. Nel caso della conoscenza sensibile, la
specie impressa o similitudine formata nel senso ad opera dell'oggetto, appare sufficiente per arrivare a
cogliere conoscitivamente l'oggetto, giacché quest'ultimo è presente al senso nel suo essere fisico. Non è
però altrettanto quando l'oggetto non è fisicamente presente alla facoltà conoscente: caso, questo, della
conoscenza intellettuale. Nessuna immagine proveniente dai sensi è in grado di rappresentare all'intelligenza
oggetti astratti, come l'essere, l'umanità, la bellezza, la giustizia, il bene, ecc., dei quali sappiamo che non
hanno, come tali, realtà esistenziale (I, 38). L'immagine degli oggetti concreti (i differenti enti: il tale uomo,
il tale atto di giustizia, ecc.) non è che una sollecitazione all'intelligenza perché formi, mediante l'intervento
dell'intelletto agente, delle similitudini intelligibili, sì che sia resa possibile l'intellezione. Con queste,
l'intelligenza diventa in atto capace di conoscere. Ma perché si compia l'operazione vitale della conoscenza,
cioè perché si produca l'atto d'intellezione propriamente detto, bisogna ancora che l'intelligenza esprima a se
stessa ciò che è divenuta grazie alla specie impressa, vale a dire che essa generi l'idea propriamente detta.
Sarà proprio nell' ambito e in virtù di questa idea che l'intelligenza conoscerà in atto, in forma astratta ed
universale, gli oggetti prima colti dai sensi301.
Poiché la specie espressa non è ciò che viene dapprima e direttamente conosciuto, ma ciò in cui e per cui
l'oggetto stesso è conosciuto, essa non può evidentemente essere colta se non per riflessione del soggetto su
se stesso.

§ 2 - L'oggetto dell'intelligenza

423 - Come abbiamo potuto, da un punto di vista filosofico e già metafisico, definire, partendo
dall'esperienza, quel che si può chiamare ontologia dell'essere, così, allo stesso modo, siamo ora in grado di
precisare qual è l'oggetto formale dell'intelligenza umana.
A. L'INTELLIGENZA, FACOLTÀ DELL'ESSERE

1. L'OGGETTO FORMALE PROPRIO DELL'INTELLIGENZA, COME TALE - L'intelligenza,


considerata in se stessa ed indipendentemente dalle modalità che la diversificano nei differenti esseri
intelligenti (Dio, gli spiriti, l'uomo) 302, ha per oggetto essenziale l'essere in quanto tale. L'essere così
considerato è ad un tempo l'essere preso al più alto grado di astrazione, semplicemente come idea di ciò che
è o esiste in qualsiasi maniera, e le innumerevoli determinazioni dell'essere che costituiscono le essenze degli
enti concreti.

301 Cfr. S. Tommaso, De Potentia, q. 8, a. I: «Intelligens in intelligendo ad quatuor potest habere ordinem: scilicet ad
rem quae intelligitur, ad speciem intelligibilem, qua fit intellectus in actu, ad suum intelligere et ad conceptionem
intellectus. Quae quidero conceptio a tribus praedictis differt. A re quidem intellecta, quia res intellecta est interdum
extra intellectum, conceptio autem intellectus non est nisi in intellectu, et iterum conceptio intellectus ordinatur ad rem
intellectam sicut ad finem; propter enim hoc intellectus conceptionem rei in se format ut rem intellectam cognoscat.
Differt autem a specie intelligibili: nam species intelligibilis, qua fit intellectus in actu, consideratur ut principium
actionis intellectus, cum omne agens agat secundum quod est actu, actu autem fit per aliquam formam, quam oportet
esse actionis principium [...] Differt autem ab actione intellectus, quia praedicta conceptio consideratur ut terminus
actionis et quasi per ipsam constitutum».
302 Non si tratta più ormai che di intelligenza soggettiva, considerata cioè come facoltà autonoma e distinta, e non di
intelligenza oggettiva, esistente nel mondo animale.
258
2. LE OPERAZIONI INTELLETTUALI, DAL PUNTO DI VISTA DELL'ESSERE - L'analisi delle
operazioni intellettuali mostra che l'intelligenza è essenzialmente chiamata a cogliere l'essere.

a) La concezione delle idee. L'idea, s'è già visto, è il farsi nozione di ciò che la cosa è: l'idea di uomo è la
nozione di un essere che è l'animale ragionevole; l'idea di triangolo è la nozione di un essere che è una figura
composta di tre lati. È questo essere che viene espresso dalla definizione 303. D'altra parte, l'intelligenza è atta
a cogliere nell’essenza che essa astrae la ragione d'essere intrinseca ed estrinseca degli elementi
caratteristici che si trovano componenti in una con questa essenza. Così nella nozione di animale
ragionevole l'intelligenza coglie la ragione d'essere delle facoltà e proprietà dell'uomo, e nella nozione di
triangolo la ragione d'essere delle proprietà del triangolo. In ciò sta appunto la distinzione essenziale, come
abbiamo dimostrato, fra l'immagine di un oggetto (il termometro come figura concreta) e l'idea di questo
oggetto (il termometro come strumento che serve a misurare la temperatura).

b) Il giudizio. Il giudizio consiste nell'affermare ciò che è l'oggetto, sia in se stesso (Pietro è uomo), sia
relativamente ad altri (Pietro è figlio di Giovanni; l'universo è opera di Dio) (I, 53).

c) Il ragionamento. Attraverso il ragionamento, l'intelligenza cerca di scoprire la ragion d'essere di un


oggetto, in quanto contenuta in uno o più altri oggetti già noti.

3. ESSERE ED INTELLIGIBILITÀ - Da quanto precede si evince che proprio l'essere è la misura


dell'intelligibilità (ens et verum convertuntur) e che in sé un oggetto è tanto più intelligibile, quanto più
perfetto è il grado di essere che esso possiede.
Effettivamente, il grado d'intelligibilità di un essere dipende dalla proporzione esistente fra questo essere e
la facoltà conoscente. Dio, Essere infinito, è in sé il Supremo intelligibile. Ma per noi, che non possiamo
conoscere se non partendo dalle immagini, Egli è il Sovrintelligibile, pressappoco alla stessa maniera in cui il
sole, supremamente visibile in quanto sorgente della luce, supera, per l'intensità stessa della luce che ne
emana, le possibilità del nostro sguardo.

B. L'INTELLIGENZA UMANA

424 - L'intelligenza umana è quella di un ente corporeo. Questa condizione carnale dello spirito determina
il modo d'esercizio specifico della nostra intelligenza.

1. L'OGGETTO FORMALE PROPRIO E DIRETTO DELL'INTELLIGENZA

a) L'atto di cogliere le essenze. Poiché la conoscenza umana parte dal sensibile, la nostra intelligenza ha
come proprio oggetto formale l'essere o la quiddità 304 delle cose materiali (ens in sensibili existens).
L'intelligenza umana è chiamata essenzialmente all'atto di cogliere l'essenza delle cose sensibili. Ciò non
significa affatto che essa colga sempre ed immediatamente le essenze, quali sono definite dalla prossimità
generica e dalla differenza specifica (I, 50). Queste essenze non vengono conosciute che raramente
dall'intelligenza: al di fuori della matematica, in cui le essenze sono generate dall'intelligenza, noi ricorriamo
a sostituti vari (proprietà, descrizione, origine o anche puri simboli) per designare l'essenza ignota in sé.
Anche nei casi in cui l'essenza metafisica ci è accessibile, l'intelligenza non arriva il più delle volte a
conoscerla se non a prezzo di molteplici e prolungati sforzi. Ciò non toglie, comunque, che, chiaramente o
confusamente, l'intelligenza tenda spontaneamente e naturalmente a cogliere ciò che la cosa è (quiddità).

b) Il modo astratto ed universale del conoscere. Queste essenze o sostituti dell'essenza sono conosciuti
dall'intelligenza in forma astratta ed universale. Infatti, le quiddità, nella loro realtà esistenziale, sono
singolari e concrete; esse hanno realtà nella materia individuale. Non possono pertanto essere colte se non

303 Ciò in linea di principio. In pratica, infatti, l'intelligenza umana è lungi dall'apprendere tutte le essenze delle cose,
mancando una penetrazione sufficiente. E il più delle volte essa ricorre a sostituti, che significano o simboleggiano le
essenze delle cose, che rimangono ignote in se stesse (I, 50-51).
304 La parola «quiddità» (quidditas, ciò che costituisce il quid di una cosa) è usata dagli Scolastici in ragione della sua
generalità. Essa infatti si applica egualmente bene a proposito dell'essere in generale, dei trascendentali (nozioni
dell'uno, del vero, del bene, che convengono a tutto ciò che è o può essere, in qualsiasi modo), a proposito delle
categorie o modi più generali dell'essere (I, 44), come a proposito dei sostituti delle essenze ignote in sé.
259
per astrazione dalla materia e dai caratteri individuali, cioè in forma immateriale. Come tali, esse sono
universali, in quanto appaiono all'intelligenza come suscettibili di trovare realtà in un numero indefinito di
individui.
Queste considerazioni non devono peraltro fare dimenticare che tutta l'attività intellettuale mira, attraverso
l'essenza o la quiddità, all'essere stesso per cui l'essenza è. Come abbiamo visto in Logica, studiando il verbo
(I, 56), e come vedremo più avanti analizzando il giudizio, termine del pensiero è sempre l'esistenza,
esercitata o significata: l'essenza è la forma, o modo, in cui qualche cosa è o esiste.

425 - 2. L'OGGETTO INDIRETTO DELL'INTELLIGENZA

a) La conoscenza di sé. L'intelligenza è atta a conoscere indirettamente, per riflessione sulle sue proprie
operazioni, le sue idee, in quanto forme soggettive, proprio come soggetto pensante che ne è il principio.
Questa riflessione è in fondo una intuizione: l'anima si percepisce esistente, in quanto coglie se stessa come
principio primo (il principio prossimo essendo la facoltà) delle sue operazioni, ed al tempo stesso essa
percepisce confusamente la propria natura, in quanto si conosce come principio di un atto che produce una
rappresentazione immateriale ed universale 305.

b) La conoscenza analogica. Infine, l'intelligenza estende immensamente il suo campo grazie


all'intervento dell'analogia. Infatti, partendo dalle quiddità dell'ordine sensibile, essa si innalza alla
conoscenza degli esseri immateriali, princìpi e cause che l'intelligibilità dell'essere dato all'esperienza esige .
In un certo senso, questi oggetti sono ancora contenuti nel sensibile, oggetto diretto dell'intelligenza, in
quanto sono indispensabili per spiegare l'universo e la sua organizzazione (così, per la ragione, Dio è
anzitutto affermato come esigenza, data l'impossibilità, da parte dell'universo, di spiegarsi da sé). Ma,
essendo sovrasensibili, le loro nature non sono direttamente accessibili all'intelligenza. Questa non li conosce
se non per via analogica (I, 48), ed è incapace di farsene una idea veramente adeguata, in conseguenza del
fatto che tutti i concetti di cui essa si serve hanno come origine prima il sensibile.

426 - 3. IL REALISMO DELL'INTELLIGENZA - Senza voler affrontare l'aspetto critico, si possono sin
d'ora notare diverse conseguenze, che scaturiscono dalle precedenti considerazioni e che torneranno poi utili
nella Critica della conoscenza.

a) Il conoscente in atto è il conosciuto in atto. Attraverso l'atto d'intellezione, l'intelligenza: divenuta


conoscente in atto, è intenzionalmente (cioè per l'idea o intentio intellecta), la cosa stessa conosciuta in
quanto tale (cognoscens in actu est cognitum in actu). La stessa cosa precisamente è espressa dall'altro
assioma, più comune e più generale: cognitum et cognoscens sunt idem, il conosciuto, come tale, ed il
conoscente, come tale, sono una sola e medesima cosa. In altri termini, l'oggetto intelligibile (o quiddità) è
identicamente lo stesso nell'idea e nel reale: unica differenza è nel modo o forma d'esistenza, immateriale ed
astratta nell'intelligenza, materiale e concreta nel reale.

b) I due fattori del conoscere. L'esistenza della specie intelligibile o idea risulta, insieme, dall'attività della
mente che coglie e «libera» l'intelligibile, e dall'azione delle cose, che all'intelligibile conferisce
determinazione specifica306. Così, è dato all'empirismo quello che gli spetta, poiché è certo che le nostre idee
provengono originariamente dal sensibile. Ma nello stesso tempo, e contrariamente alle concezioni
semplicistiche dell'empirismo, rimane salvaguardato il carattere proprio ed irriducibile della conoscenza
intellettuale, in quanto essa è concepita come un' attività chiamata a liberare dal sensibile le forme
intelligibili dell'essere.
Per questa stessa ragione, tale attività originale non può apparire (come nella dottrina degli idealisti) come
capace di produrre dal proprio intimo l'oggetto intelligibile, in virtù di una spontaneità misteriosa. Al
contrario, essa è per natura conforme alle determinazioni date nel reale: essa pensa questo o quello in
rapporto alle esigenze del reale, così come questo s'impone ai sensi. Donde il nome di intelletto passivo dato
all'intelligenza.

305 S. Tommaso, De Anima, III, 4; De Veritate, X, art. 8.


306 S. Tommaso, De Veritate, q. 10, art. 7: «Intellectus possibilis recipit formas intelligibiles actu ex virtute intellectus
agentis, sed ut similitudines determinatas rerum ex cognitione phantasmatum». Cfr. Rabeau, Species. Verbum. L'activité
intellectuelle élémentaire selon saint Thomas d'Aquin, p. 40 sg.
260
Ecco perché finalmente, è la cosa stessa ad essere conosciuta ad opera dell'idea, giacché l'intelligenza,
conoscendo, si percepisce determinata a formare tale o tal altra idea dalla azione delle cose stesse. L'idea
come tale, in quanto forma soggettiva, non è conosciuta se non per riflessione dell'intelligenza sul suo atto.
Direttamente e in primo luogo, è il reale oggettivo che viene ad essere colto dall'atto di intellezione, benché
in forma immateriale. In ciò appunto consiste quel che si chiama realismo della conoscenza intellettuale.

4. L'INTELLIGENZA, FACOLTÀ INORGANICA - Infine, da tutto quanto precede, si deduce che


l'intelligenza non può essere considerata che come facoltà inorganica. Non si pensa senza organo, diceva
giustamente Aristotele. Infatti, l'immaterialità e l'universalità delle idee, la capacità di arrivare al possesso di
sé attraverso la riflessione, implicano l'indipendenza intrinseca dell'intelligenza rispetto ad ogni organo
corporale. Se l'intelligenza dipende estrinsecamente dagli organi corporali, in quanto questi condizionano il
suo esercizio, non però con questi organi essa produce le sue operazioni.

§ 3 - Le teorie idealistiche

A. NOZIONE DELL'IDEALISMO

427 - 1. IL POSTULATO NOMINALISTICO - Il nominalismo consiste nel negare la realtà soggettiva, o,


più comunemente, il valore ontologico delle nozioni generali ed astratte. Questa dottrina è comune
all'empirismo ed all'idealismo, che altro non sono se non differenti tentativi di risolvere i problemi posti dalla
negazione iniziale donde entrambi procedono. L'empirismo si sforza infatti di ridurre ad immagini l'idea
generale: il sensismo di E. Condillac, l'associazionismo di D. Hume, di S. Mill, di H. Taine ne sono le forme
principali307. Abbiamo più sopra discusso gli argomenti mediante i quali esso si sforza di stabilire che le idee
non sono niente nel pensiero (403-405), o quanto meno non corrispondono ad alcunché fuori del pensiero
(413-415). Non è il caso di ritornarci sopra. L'idealismo, ammettendo da una parte la realtà psicologica delle
nozioni universali, ma negando d'altra parte la possibilità di darne comunque una spiegazione partendo
dall'esperienza sensibile, è costretto a farne, in forme diverse, dei dati a priori dell'intelletto. Noi dovremo
ora brevemente esaminare le teorie che interessano questo punto di vista. Queste teorie non sono da
respingere per la semplice ragione che esse non si accordano con la dottrina testé esposta: vi sarebbe in ciò
un circolo vizioso. Ma si possono confrontare con i dati dell'esperienza, che, in ultima analisi, giudica tutti i
sistemi.

2. DIVISIONE DELL' IDEALISMO - È difficile proporre una suddivisione precisa delle teorie
idealistiche, a causa della loro grande molteplicità e diversità. Tuttavia, da un punto di vista soprattutto
pratico, si possono distinguere tre forme principali. L'idealismo problematico, secondo il quale le idee sono
innate nella mente e costituiscono la sola realtà immediatamente conosciuta. La realtà di un mondo esteriore
sensibile diviene quindi un problema, risolto ora affermativamente (Platone, Cartesio, Malebranche,
Leibniz), ora negativamente (Berkeley). L'idealismo critico (Kant), secondo cui i fenomeni, cioè tutto
l'universo, sono dati nella loro organizzazione sistematica dalle forme a priori della sensibilità e
dell'intelletto. L'idealismo dogmatico (Spinoza, Fichte, Schelling, Hegel), secondo il quale l'universo è
generato dal soggetto pensante, concepito ora come ragione individuale, ora come Ragione cosciente
universale, ora come un sistema di Idee indipendenti dalle coscienze 308.

B. L'IDEALISMO PROBLEMATICO

428 - L'INNATISMO CARTESIANO - Per Cartesio, le nozioni semplici (nozioni di verità, di bene, di
pensiero, d'anima, di Dio, di causa, di sostanza, nozioni matematiche e logiche, ecc.), come pure i princìpi

307 Il sensismo, sostenuto nell'antichità da Epicuro e presso i moderni da Hobbes, da Locke e da Condillac, vuole
spiegare tutta la vita intellettuale attraverso le trasformazioni della sensazione. Condillac immagina una statua di cui
egli apra successivamente tutti i sensi: con il solo odorato, questa statua diverrebbe anzitutto sensazione di odori, poi
attenzione, in conseguenza di una sensazione predominante, poi comparazione fra sensazioni differenti, poi giudizi
relativi a queste sensazioni, infine principi che generalizzano questi giudizi. Abbiamo discusso la teoria dell'attenzione
(355). Ma se si considera questa dottrina come una spiegazione di tutta la conoscenza, si può affermare, senza essere
impertinenti, che è difficile prenderla sul serio. Ché l'animale, infatti, può ben avere tutti i propri sensi aperti e provare
autentiche sensazioni, ma con tutto ciò esso non formula ancora dei giudizi, né enuncia i primi principi della ragione.
308 Cfr. Lalande, «Vocabulaire technique et critique de la Philosophie,» ed. 1928, t. I, p. 322-323.
261
universali, che Cartesio chiama «nozioni comuni», sono innati nella mente 309. Quest'ultima o le possiede
senz'altro tutte formate (nozioni semplici), o le forma dal suo intimo in occasione dell'esperienza, cioè dei
movimenti che si producono nei corpi.
Locke ha vivamente criticato, da un punto di vista empiristico, questa teoria cartesiana delle idee innate,
che Leibniz chiama, da parte sua, «filosofia pigra». È cosa certa che essa non si accorda in alcun modo con i
dati dell' esperienza. Quest'ultima prova, infatti, che noi non abbiamo idee innate, né in atto, poiché abbiamo
coscienza di elaborare a poco a poco le nostre idee, partendo dal sensibile, e che i soggetti privi per nascita
dell'uso di un senso non possono avere immagini corrispondenti a questo senso, né virtualmente, poiché la
volontà non basta ad acquisirle, come avverrebbe se esse fossero virtualmente a disposizione
dell'intelligenza310. Quanto poi a dire che i movimenti prodotti nel corpo costituiscono occasione di formarle,
è cosa ben difficile da comprendere in un sistema che non vede alcuna relazione di somiglianza fra questi
movimenti e le immagini.

429 - L'ONTOLOGISMO - Per Platone, le Idee o Essenze universali costituiscono un universo


intelligibile, superiore al mondo sensibile, e nel quale le anime, prima di essere unite ad un corpo, le hanno
contemplate. Incarnate a mo' di castigo, le anime si ricordano le Idee, in occasione della loro percezione
degli oggetti sensibili, ombre e partecipazioni delle Idee. Tale è la dottrina espressa dall'allegoria della
Caverna311.
È chiaro che questa dottrina è una sorta d'innatismo, poiché l'evocazione delle idee vi è spiegata come una
reminiscenza. Essa viene dunque ad incontrare la duplice difficoltà dell'innatismo e dell'ontologismo o
«realismo esagerato», supponendo degli universali sussistenti (I, 43), senza parlare dell'ipotesi gratuita della
preesistenza delle anime.
Malebranche ha proposto una dottrina affine a quella di Platone. La nostra conoscenza intelligibile, egli
osserva, non può essere data dagli oggetti corporei, impotenti ad agire sull'anima, che è spirituale. In realtà,
le idee sono viste in Dio, che è il «luogo di tutte le idee», cioè la causa esemplare o il modello di tutto ciò che
esiste. Questa teoria è smentita dal fatto che ogni nostra attività intellettuale si esercita in dipendenza dai dati
sensibili, tanto che le nostre stesse nozioni delle realtà spirituali sono a loro volta, nella loro forma analogica,
funzione dei concetti tratti dal sensibile (417).

C. L'IDEALISMO CRITICO

430 - Si chiama così (dal titolo della Critica della Ragion pura) o anche idealismo trascendentale la
dottrina idealistica di Kant.

1. LE FORME A PRIORI - Kant osserva che ogni nostra conoscenza, matematica, fisica e metafisica
riposa su nozioni generali (nozioni di causa, di fine, di sostanza, d'anima, di Dio), e su princìpi (princìpi di
causalità, di finalità, di sostanza), che, essendo universali e necessari, non possono derivare dall'esperienza
sensibile, la quale ci fornisce soltanto il contingente ed il singolare 312. Per spiegare queste nozioni o categorie
e questi princìpi, Kant propone di ammettere che si tratta di forme innate all'intelletto e che risultano dalla

309 Cartesio distingue due altre sorta d'idee: quelle avventizie, che sono le immagini delle cose sensibili - e quelle
fittizie, che sono inventate da noi. Quanto alle idee avventizie, sono innate esse pure, ma non si rivelano alla mente se
non in occasione dei movimenti prodotti dalle cose nei sensi, senza un qualsiasi rapporto con un'immagine, e meno
ancora con un'idea. Quanto alle idee fittizie, esse risultano dalla combinazione di più idee (tali ad esempio sono le idee
di chiliagono o di chimera). Cfr. Méditations troisième et cinquième; Principes de la Philosophie, 1,10, in Oeuvres de
D., a cura di Adam e Tannery, 11 voll., Parigi, 1897-1909; cfr. tr. it., Meditazioni metafisiche, 3a ed., Bari, 1954 e
Princìpi di filosofia, 3a ed., Bari, 1934.
310 La teoria delle virtualità è propria di Leibniz, il quale in un primo tempo ha ammesso che le idee e i principi sono
innati alla mente come «preformazioni» che si attualizzano attraverso il giuoco dell'esperienza. Più tardi, nella
Monadologia, Leibniz afferma che l'anima (o Monade), incapace di ricevere alcunché dal di fuori, perché da se stessa
compone un universo chiuso, senza porte né finestre, deve attingere da se stessa tutte le sue idee, che possiede in germe
o virtualmente sin dalla sua nascita. Quanto poi all'immaterialismo di Berkeley, esso poggia, come del resto i sistemi di
Cartesio e di Leibniz, su di una critica delle nozioni di materia, di estensione, di spazio e di sostanza, che noi abbiamo
discusso in Cosmologia (II, 8-9, 13-14).
311 Platone, Repubblica, VII, 1-2 in Platonis opera, 6 voll., Oxford, 1892-1906; cfr. tr. it., 3 voll., Milano, 1953-54.
L'anima umana è paragonata nel suo stato presente, cioè nello stato di unione con un corpo, ad un prigioniero incatenato
in una caverna, che volga il tergo alla luce e non veda le cose esteriori, ma unicamente le ombre che esse proiettano sul
fondo della caverna.
262
sua struttura. Questa ipotesi, imposta dal principio nominalistico della dottrina 313 sembra a Kant sia la sola
capace di spiegarci la nostra illusione che il pensiero astratto sia l'espressione fedele di un ordine esteriore. In
realtà il pensiero è il vero legislatore dell'universo; la natura è opera nostra e siamo noi che ci ritroviamo in
essa. L'intelletto impone alla massa dei fenomeni che colpiscono i sensi e che costituiscono l'unica materia
della conoscenza, le forme proprie della sensibilità e della ragione, cioè le forme a priori dello spazio e del
tempo e le categorie razionali: causalità, finalità, sostanzialità. È grazie all'intervento di queste forme a
priori, cioè innate e che costituiscono la nostra struttura mentale, che l'universo ci appare come governato da
leggi universali e necessarie 314. Così si spiega l'affermarsi della scienza; essa non fa che ritrovare nei
fenomeni quell'ordine che la ragione vi costituisce necessariamente. Così, d'altra parte, si spiega l'insuccesso
della metafisica, giacché questa, per speculare su quanto è al di là dell'esperienza (noumeni), si serve di
categorie e di principi che non hanno valore se non nel mondo dell'esperienza (fenomeni).

431 - b) Discussione. La dottrina di Kant dovrà essere discussa in Critica, poiché essa concerne anzitutto
il problema del valore della ragione metafisica. Dal punto di vista psicologico, ci possiamo limitare a due
osservazioni. La prima è che la ragione per la quale Kant scarta l'ipotesi dell'astrazione dell'universale
partendo dall'esperienza sensibile costituisce un mero sofisma. Egli scrive infatti, nella sua dissertazione del
1770, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (sectio 1a, § 5): «Per quanto concerne gli
intelligibili come tali e propriamente detti, nei quali l'esercizio dell'intelligenza è reale, bisogna dire che i
concetti che rappresentano tanto oggetti intelligibili quanto rapporti, derivano dalla natura stessa
dell'intelligenza, che essi non sono affatto astratti dall'esperienza mediante un qualsiasi intervento della
conoscenza sensibile, e che non contengono alcun elemento che provenga dalla conoscenza sensibile come
tale, perché un'astrazione operata nel sensibile non può fornire concetti che oltrepassano il piano della
conoscenza sensibile, così che, per quanto spinta possa essere l'astrazione, essi restano indefinitamente dei
concetti sensibili (immagini)». Da ciò si vede che l'astrazione non è mai, agli occhi di Kant, altro che un
semplice processo di generalizzazione delle immagini fornite dall'esperienza. Noi abbiamo visto (414) che
questa concezione è erronea e smentita ad un tempo dall'analisi dell'idea astratta e dai risultati dei processi
sperimentali.
In secondo luogo, l'asserzione di Kant secondo cui la teoria delle forme a priori è la sola capace di render
ragione del fatto che la scienza abbia successo, mal s'accorda col fatto che la scienza, nel campo stesso
dell'esperienza, non fa che cozzare contro la natura. Si può anzi affermare che essa progredisce soltanto in
virtù di questi urti, il che sarebbe inconcepibile se la natura non fosse altro che opera della nostra mente.
Come si spiegherebbe l'universale convinzione di trovarci di fronte ad un ordine di cose che ci sfugge in gran
parte e che possiamo conoscere solo a forza di pazienza e di perspicacia? 315.

D. L'IDEALISMO DOGMATICO

432 - 1. IL POSTULATO PANTEISTICO - Nelle dottrine raggruppate sotto il nome di idealismo


dogmatico (o assoluto), le idee diventano i modi finiti del Pensiero divino, sia che questo Pensiero venga
concepito come esprimentesi entro e attraverso le ragioni individuali, sia alla maniera di un Assioma eterno,

312 Kant considera questi princìpi come «sintetici a priori». Avremo modo di discutere più innanzi questa concezione,
nello studio dei princìpi di ragione.
313 Kant confessa infatti che Hume, cioè il nominalismo empiristico, ha il merito di averlo risvegliato dal suo «sonno
dogmatico».
314 Cfr. Kritik der reinen (teoretischen) Vernunft, Introduzione della prima edizione: «Si danno conoscenze universali,
che hanno al tempo stesso il carattere di una necessità intrinseca, che devono essere chiare e certe per se stesse
indipendentemente dall'esperienza. Vengono chiamate per questa ragione conoscenze a priori; al contrario, ciò che è
preso unicamente dall'esperienza non è conosciuto, secondo le espressioni d'uso, che a posteriori o empiricamente. Si
vede ora, ed è una cosa molto notevole, che alle nostre stesse conoscenze si mescolano conoscenze che hanno
necessariamente un'origine a priori e che forse servono soltanto a connettere le nostre rappresentazioni sensibili. Infatti,
se da queste esperienze si scarta tutto ciò che appartiene ai sensi, rimangono ancora certi concetti primitivi con i giudizi
che ne derivano, concetti e giudizi che devono prodursi senz'altro a priori, cioè indipendentemente dall'esperienza,
poiché essi fan sì che si possa dire, o per lo meno che si creda di poter dire, degli oggetti che appariscono ai sensi, più di
quanto non insegnerebbe la sola esperienza, e siffatte asserzioni implicano una vera e propria universalità ed una
necessità rigorosa che la conoscenza puramente empirica non produrrebbe proprio». (Cfr. Critica della Ragion pura, tr.
it. di Gentile e Lombardo-Radice, 2 voll., Bari, 1910).
315 Sull'idealismo contemporaneo in Italia, specialmente sull'attualismo di G. Gentile, cfr. M. F. Sciacca, La filosofia
oggi, Milano, 1954, vol. II, passim.
263
che sviluppa senza fine le sue conseguenze necessarie. Queste dottrine, che sono tutte d'ispirazione
panteistica, sono in genere molto astruse. Le ritroveremo in Teologia naturale. In quanto e per quanto si può
loro scoprire una forma comune, dal punto di vista psicologico, esse si riducono al tema seguente. Né le idee
né le leggi del pensiero possono provenire in alcun modo dal sensibile (postulato nominalistico). Esse non
sono dunque altro che le manifestazioni finite di un Pensiero infinito e trascendente che si pensa da sé, e
pensandosi genera l'universo. Come oggetti pensati, esse compongono il mondo; come atto di pensare, sono
il Principio universale di tutto ciò che esiste. In quanto trascendente (atto di pensare), il Pensiero è Dio; in
quanto immanente (oggetti pensati), esso costituisce il divino.

2. IL PROBLEMA DEL REALE - Le teorie di questo genere manifestano un completo disprezzo


dell'esperienza, che ben le ripaga. Infatti, se gli enti dell'esperienza altro non sono che puri oggetti pensati o
puri contenuti immanenti del Pensiero, come hanno essi coscienza d'essere in sé e per sé, cioè d'essere delle
realtà sussistenti e dei soggetti pensanti? Come può il Pensiero bastare a costituire un universo d'enti reali
che si pensino e si affermino reali? Ciò è ben difficile da capire. Senza contare che i processi psicologici per
mezzo dei quali noi abbiamo coscienza di elaborare le nostre idee partendo dall'esperienza sensibile
costituiscono, partendo da queste premesse, il meno intelligibile dei misteri.

E. CONCLUSIONE

433 - Si comprende ora come la dottrina dell'astrazione, che ci è stata imposta da una rigorosa analisi dei
processi della mente nella formazione delle idee, comprende tutto ciò che v'è di giusto sia nell' empirismo
che nell'idealismo.

1. L'IDEA È REALE - L'empirismo è talmente preoccupato di conservare all'idea il suo carattere reale,
cioè oggettivo, che esso crede necessario a questo scopo ridurla all'immagine, espressione immediata del
reale sensibile. Questa preoccupazione è legittima, perché l'idea, per astratta che sia, deve procedere sempre
da un'esperienza sensibile, e tutte le nostre idee, nell'intero campo della conoscenza e finanche in metafisica,
sono soggette all'esperienza. Ma non ne consegue, contrariamente a ciò che pensano gli empiristi, che l'idea
non possa essere altro che un'immagine più o meno elaborata. Astratta ed universale, tale da significare
direttamente o indirettamente una essenza, l'idea conserva, come tale, il carattere reale che 1'empirismo a
buon diritto esige, poiché l'intelligenza la coglie nell'immagine stessa, grazie all'intervento dell'astrazione
formale.

2. IL REALE È IDEA. - L'idealismo non vuole ammettere se non il reale razionale. Le cose o immagini
dell' empirismo gli sembrano, molto giustamente, inassimilabili, come tali, al pensiero. Esse costituiscono
infatti (se si fa astrazione dei rapporti intelligibili delle essenze, dei princìpi e delle leggi) un universo
atomistico, discontinuo e inconsistente, una molteplicità pura, assolutamente impensabile, perché sprovvista
del carattere essenziale dell'essere, che è l'unità. Tutto ciò è giusto ed è uno dei grandi meriti che si devono
riconoscere all'idealismo quello di aver ben messo in luce questo punto. Ma il suo errore è stato, col pretesto
di assicurare la razionalità dell'universo, di fare dell'idea qualcosa di estraneo al reale sensibile, riprendendo
così, ma in senso inverso, il tema dell'empirismo. L'empirismo e l'idealismo ritengono infatti che bisogna
scegliere tra il reale sensibile e l'idea. Se l'idea è reale, ritiene l'idealismo, essa non è razionale. Se l'idea è
razionale, obietta l'empirismo, essa non è reale. Sennonché noi sappiamo che l'idea è ad un tempo reale e
razionale: reale, perché proviene dall'esperienza sensibile; razionale, perché esprime ciò che, nel reale, è
analogo alla mente, cioè le forme e le essenze che definiscono gli enti dell'esperienza.

Questo è appunto il senso stesso della dottrina dell'astrazione delle idee che si trova indirettamente
confermato dalla sua attitudine a conciliare, in quanto hanno di fondato e di giusto, i contrari punti di vista
dell'empirismo e dell'idealismo.
264

CAPITOLO QUARTO

IL GIUDIZIO

SOMMARIO316

Art. I - DIVISIONE - Giudizi riflessi e spontanei - Giudizi certi e opinativi - Giudizi d'essere e giudizi di
valore - Giudizi espliciti ed impliciti.

Art. II - NATURA DEL GIUDIZIO. Essenza del giudizio - Il giudizio come sintesi - Giudizio e concetto - Le
teorie empiristiche - Il sensualismo - L'associazionismo.

Art. III - IL GIUDIZIO DI VALORE. La teoria dei valori - Il valore è fondato sull'essere.

Art. IV - VERITÀ ED ERRORE. La verità logica - Il riferimento al reale - L'intelligenza è in ordine al reale
- Ogni verità è oggettiva - Verità e coerenza - L'errore - Nozione e cause - Classificazione - La
logica dei sentimenti.

434 - Abbiamo definito il giudizio, in Logica (I, 53), come l'atto mediante il quale la mente afferma (o
nega) di un soggetto sia l'esistenza reale, sia una determinazione. Questa definizione è valida per la
Psicologia. Ma, mentre la Logica considera le condizioni di validità del giudizio, la Psicologia guarda a
questo soltanto come all'atto vitale ed immanente di assentire, espresso nella proposizione. In altri termini, la
Logica ha per oggetto l'opera attuata dall'intelligenza (che è poi il giudizio come proposizione), mentre la
Psicologia studia l'operazione in sé (il giudizio come atto).

Art. I - Divisione
Considerato dal punto di vista psicologico, il giudizio comprende le seguenti categorie.

1. GIUDIZI RIFLESSI O SPONTANEI - Ora il giudizio è dato da un raffronto attivo e riflesso dei due
termini in presenza, ora, invece, il giudizio è effetto di una sorta di spontaneità razionale e non comporta né
esame né deliberazione. In questo ultimo caso, non si tratta dei giudizi buttati là alla leggera, per
trascuratezza e pigrizia mentale, bensì dei giudizi che si impongono con immediatezza alla mente, a causa
della loro evidenza assoluta (per esempio, «ciò che è è», «ciò che non è non è», «il tutto è maggiore della
parte», «io penso», «io vedo», ecc.).

2. GIUDIZI MEDIATI O IMMEDIATI - I giudizi mediati sono quelli che servono come conclusione ad un
ragionamento. I giudizi immediati sono formulati senza ragionamento. Un giudizio spontaneo è
necessariamente immediato. Non però inversamente, in quanto il giudizio immediato può essere frutto di
un'abitudine acquisita o di un habitus scientifico: per un'altra mente, non dotata del medesimo habitus
scientifico, occorrerebbe un ragionamento.

435 - 3. GIUDIZI CERTI ED OPINATIVI - Nella mente che li formula, i primi non comportano alcun
rischio d'errore. I giudizi d'opinione sono invece formulati soltanto a titolo di approssimazioni più o meno
plausibili della verità.

316 Aristotele, Catego., Anal. Pr. - S. Tommaso, la q. 77-80, 84-89. Taine, De l'Intelligence, Newman, Grammar of
assent, Londra, 1875; cfr. tr. it.. Filosofia della religione, Modena, 1943. - Goblot, Traité de Logique, Parigi, 1918. -
Brunschvicg, La modalité du jugement, Parigi, 1894. - Husserl, Logische Untersuchungen, Halle, 1900-1901. -
Meyerson, Identité et Réalité, Parigi, 1912. - Piaget, Le jugement et le raisonnement chez l'enfant, Parigi, 1924. -
Rabeau, Le jugement d'existence, Parigi, 1938. - A. Forest, La réalité concrète et la dialectique, Parigi, 1931. - Pradines,
Psychologie générale, II, fasc. 2, p. 171 sg.
265
Solo i giudizi certi rispondono alle esigenze del sapere scientifico. La scienza si oppone all'opinione, e
quando le capita di legittimare un'opinione, ciò avviene per ragioni estranee, in quanto l'opinione traduce
spesso dei bisogni anziché delle conoscenze; essa coglie le cose dal punto di vista della loro utilità, più che
da quello del loro essere oggettivo. La scienza, a rigore (I, 121), non si concede opinioni.

4. GIUDIZI D'ESSERE E GIUDIZI DI VALORE

a) I giudizi d'essere. Questi giudizi sono quelli che riguardano l'esistenza (giudizi esistenziali: «Dio è»,
«non vi sono montagne d'oro»), - e quelli che riguardano l'essenza (giudizi d'attribuzione: «l'uomo è un
essere ragionevole»).

b) I giudizi di valore. Questi giudizi enunciano il valore di un soggetto («Una buona fama val più di una
cintura dorata»). Essi contengono, non già l'affermazione di un gusto o di una preferenza oggettiva, come in
queste proposizioni: «io amo la musica», «l'automobile mi stanca», il che costituisce una semplice
enunciazione di un fatto, - ma l'affermazione di un valore di diritto ed oggettivo, affermazione tale da poter
essere universalizzata («la virtù è il maggiore dei beni», «la morte è preferibile al disonore», ecc.). I giudizi
di valore pongono un problema particolare, che esamineremo a suo tempo.

436 - 5. SI DEVONO DISTINGUERE GIUDIZI ESPLICITI ED IMPLICITI? - I giudizi espliciti sono


quelli che si formulano in modo discorsivo e cosciente nella mente. Come esempi di giudizi impliciti, cioè
non formulati e più o meno subcoscienti, alcuni psicologi citano sia gli apprezzamenti di rapporti concreti
(identità, somiglianza, differenza, causalità, finalità, grandezze, distanze, forme, ecc.), che accompagnano
costantemente la nostra azione pratica, - sia i giudizi intuitivi, in virtù dei quali noi apprezziamo
continuamente le nostre attività psichiche, idee, parole, gesti, o gli oggetti dell'esperienza, cose e persone.
Questa distinzione sembra tuttavia poco fondata. Infatti, i cosiddetti giudizi impliciti o si riducono a
semplici impressioni affettive, che non meritano il nome di giudizi, o a stime pratiche, che non hanno a che
vedere con l'intelligenza propriamente detta 317, - oppure, infine, non sono che opinioni, enunciate dal punto
di vista dell'utilità pratica e non dal punto di vista dell'essere, e tali, conseguentemente, da non avere che
l'apparenza di giudizi. Insomma, ogni giudizio autentico è esplicito, ma può benissimo prescindere da
discorsi preliminari, come nel caso dei giudizi spontanei ed immediati 318.

Art. II - Natura del giudizio


§ 1. L'essenza del giudizio

437 - 1. IL GIUDIZIO COME SINTESI

a) L'affermazione, forma del giudizio. La caratteristica essenziale del giudizio non consiste nell'atto di
collegare fra di loro in un modo qualunque due oggetti di pensiero: non v'è giudizio autentico nel fatto di
pensare insieme «tempo» e «freddo», «Pietro» e «dotto», che per la mente altro non sono che nozioni
complesse, suscettibili soltanto di diventare materia di giudizio. Il giudizio è per essenza l'atto di affermare
(o di negare) l'esistenza di un soggetto o di una determinazione del soggetto.

Abbiamo in Logica (I, 56) sottolineato il duplice senso del verbo «è» nel giudizio, e precisamente: il senso
copulativo nei giudizi d'attribuzione («L'uomo è mortale», «Socrate è filosofo»), ed il senso esistenziale nei
giudizi d'esistenza («Dio è», «Non ci sono Chimere»), e così pure l'irriducibilità di queste due forme di
giudizio.

317 Sono queste stime spontanee ed istintive dell'utile e del dannoso, quelle che gli Scolastici chiamavano estimativa
negli animali e cogitativa o ragione particolare nell'uomo, che costituiscono delle sorta di giudizi sensibili. Noi
abbiamo estesamente studiato la estimativa sotto il nome di istinto, come più volentieri la chiamano i moderni. Se,
nell'uomo, questa facoltà riceve il nome di «cogitativa» o «ragione particolare», ciò è in quanto essa implica in una
certa qual misura il fatto di afferrare e di paragonare, nei singoli oggetti che sono messi in rapporto, le nature che
definiscono questi oggetti.
318 Il problema dei giudizi analitici e sintetici appartiene ad un tempo alla Logica, ove è stato trattato (I,51) ed alla
Critica della conoscenza, ove lo ritroveremo.
266
Tuttavia è pur sempre vero che, in entrambi i casi, è in gioco l'esistenza, sia che si affermi l'esistenza del
soggetto, sia che si affermi l'esistenza di una determinazione del soggetto. Con questa differenza, che nel
giudizio d'attribuzione l'esistenza è semplicemente significata, cioè si danno come cosa unica nell'esistenza il
soggetto e la sua determinazione (predicato), distinti nel pensiero, supposta essendo l'esistenza del soggetto,
mentre il giudizio esistenziale mette in campo l'esistenza reale del soggetto stesso.

b) Semplicità del giudizio. Il giudizio, come atto di assenso o di diniego, è dunque un atto essenzialmente
semplice ed indivisibile. Se è vero che la proposizione con la quale esso si formula è composta di parti, l'atto
di giudicare si concentra però nell'affermazione, che è un'operazione unica ed indivisibile.

2. GIUDIZIO E CONCETTO - Gli psicologi si sono chiesti che cosa nel nostro pensiero sia primo, se il
concetto o il giudizio. La soluzione di questo problema verrà dalle osservazioni che seguono:

438 - a) Esercizio e specificazione. La distinzione fra i due aspetti dell'esercizio e della specificazione è
fondamentale. Se ci si pone dal punto di vista dell'esercizio (ordine cronologico), bisogna convenire che è
primo il giudizio, in quanto il pensiero non si esercita che in forma di giudizio. Dal punto di vista della
specificazione, vale a dire di ciò per cui il pensiero è tale o tal altro pensiero determinato ( ordine logico),
primo è il concetto, in quanto il giudizio non è possibile se non preliminarmente cogliendo gli oggetti
intelligibili sui quali si esercita il pensiero.

b) Concetto e giudizi virtuali. L'obiezione che il più delle volte si avanza contro la priorità logica del
concetto consiste nell'affermare che il concetto stesso non è altro che un insieme di giudizi virtuali. «La
generalità di una nozione, scrive Goblot, (Logique, Parigi, 1918, p. 87), è la possibilità di una infinità di
giudizi che hanno per attributo questa nozione. Uomo è un termine generale perché v'è un'infinità di soggetti
di cui uomo può essere l'attributo». Di conseguenza, il concetto sarebbe un giudizio ridotto ad un attributo
espresso. Non soltanto, dunque, il giudizio sarebbe primo, ma sarebbe la sola operazione del pensiero.

439 - c) Il primato dell'intelligibile. L'ipotesi sostenuta da Goblot incontra gravi difficoltà. Affermare
infatti che il concetto si riduce a giudizi virtuali è come dire, in sostanza, che il suo senso dipende da questi
giudizi virtuali. Per esempio, il concetto di virtù riceve un senso soltanto per quanto significa: la generosità,
la pazienza, la modestia, ecc. sono virtù. Orbene, questi giudizi constano a loro volta di concetti (generosità,
pazienza, modestia, ecc.) che, secondo la teoria di Goblot, dovranno dal canto loro rifarsi, per avere un
senso, ai giudizi virtuali che essi contengono: i quali, a loro volta ancora, consteranno di concetti il cui senso
non sarà dato che dalla riduzione ad altri giudizi virtuali, e così all'infinito. E siccome la regressione
continua all'infinito, ne consegue che riuscirà impossibile dare un senso sia ai concetti che ai giudizi . In
altre parole, il pensiero si svolgerebbe nel vuoto e sboccherebbe al nulla. In realtà, non si eviterà questo
suicidio se non ammettendo che il concetto è anteriore al giudizio nell'ordine della specificazione, vale a dire
che il giudizio, che consiste essenzialmente nel cogliere e nell' affermare l'essere, si esercita soltanto a
condizione che vengano preliminarmente affermati l'essere e le sue leggi universali.

Quanto all'argomento secondo cui il concetto non è compreso se non è definito, cioè ridotto ad una serie di
asserzioni che concernono la sua comprensione e che precisano la sua estensione, e per conseguenza è
posteriore al giudizio, si tratta di un ritorno alla teoria del concettogiudizio virtuale, con le confusioni
inerenti. Definire un concetto è infatti giudicare, e il concetto, in questo senso, non è «compreso» se non ad
opera del giudizio che formula la sua definizione. Sennonché questo stesso giudizio non è possibile se non
ad opera del concetto che lo specifica, che è quanto dire, di nuovo, che bisogna distinguere l'ordine
d'esercizio dall'ordine di specificazione. Il concetto e il giudizio rimangono pertanto due operazioni
irriducibili. Per affermare un rapporto bisogna anzitutto cogliere i termini di questo rapporto: soltanto
cogliendo i termini viene ad essere specificato l'atto di mettere in rapporto.

§ 2 - Le teorie empiristiche

440 - Riducendo il pensiero all'intervento delle immagini nella coscienza, trascurando quindi l'attività
propria dell'intelligenza, l'empirismo non poteva proporre che una teoria meccanica del giudizio. Noi
incontriamo in questo ordine le teorie di Condillac e di Hume.
267
1. IL SENSISMO - È stato Condillac a darne la formula: «Giudicare è sentire». Infatti, egli asserisce,
giudicare è confrontare, e confrontare è fare un duplice atto d'attenzione. E siccome l'attenzione si riduce ad
una sensazione predominante, il giudizio è dato dalla simultanea presenza di due sensazioni predominanti.

Il principio di questa teoria (l'attenzione non è che una sensazione predominante) è stato discusso più sopra
(355). Rimane qui da osservare che i termini del giudizio non sono necessariamente delle immagini, ma
delle nozioni universali, che il giudizio non consiste nel semplice raffronto dei termini, ma nell'affermazione
o nella negazione del loro rapporto. La teoria di Condillac spiega soltanto (e del resto molto male) nel
giudizio proprio ciò che non lo costituisce.

2. L'ASSOCIAZIONISMO - Il giudizio, per Hume e gli associazionisti, è il risultato di un'associazione


automatica, formata dall'abitudine. «La neve è bianca» non è che la espressione dell'associazione abituale
delle immagini della neve e del bianco.
Abbiamo a lungo discusso l'associazionismo come teoria generale della coscienza (205-213). Ci basterà
dunque osservare che il giudizio autentico è proprio quanto vi possa essere di più contrario al meccanismo
ed all'inerzia che caratterizzano le associazioni, così come le intendono Hume, Stuart Mill, Taine. Il
giudizio, infatti, è un atto della mente, che percepisce ed afferma un rapporto intelligibile fra due oggetti di
pensiero. Molto spesso il giudizio lungi dal subire i complessi sensoriali formati dall'abitudine, li dissocia e li
disloca. Tutto il sapere filosofico e scientifico è dato infatti da uno sforzo perseverante inteso a superare il
dato sensoriale immediato ed a sistematizzare il reale, non già secondo il meccanismo dell'immaginazione,
ma secondo le leggi intelligibili accessibili alla sola ragione.

Art. III - Il giudizio di valore


441 - 1. LA «TEORIA DEI VALORI» (GELTUNGSTHEORIE) - Il giudizio di valore ha posto un
problema speciale quando alcuni filosofi moderni (Kant, Lotze, Scheler, N. Hartmann, Heidegger) hanno
creduto di dover affermare, in forme diverse, che l'essere ed il valore costituiscono due campi senza alcuna
relazione. Di conseguenza, sarebbe opportuno distinguere due tipi irriducibili di giudizi: il «giudizio reale»,
pronunciato in funzione dell'essere, esistenziale o essenziale, e il «giudizio di valore», che sarebbe
specificato non dall'essere dato nel concetto, ma dal fatto di cogliere il valore (stima o valutazione: Geltung),
essenzialmente distinto dal fatto di cogliere l'essere ontologico.
Sotto questo aspetto, è chiaro che viene ad essere impossibile spiegare l'aspetto ontologico o reale del
valore. Tutte le sottigliezze dialettiche vanno incontro all'insuccesso quando tentano di dissimulare l'aspetto
puramente soggettivo del valore e di mascherare il fatto che i giudizi che enunciano quel che è bene o male,
buono o cattivo, non hanno altro più che un senso arbitrario, relativo e mutevole. La morale e il diritto, qui,
perdono ogni loro valore assoluto.

2. IL VALORE SI BASA SULL'ESSERE - Per risolvere il problema del valore, noi distingueremo, con
Aristotele e San Tommaso, il valore in generale (bonum o bene trascendentale) dai valori particolari (bona),
come, per esempio, il bene morale, il bene piacevole, il bene utile. Se il valore in generale si basa sull'essere,
i diversi valori particolari si baseranno sui differenti aspetti dell'essere 319.

a) Il valore è una proprietà dell'essere. Infatti, esso indica essenzialmente la relazione fra l'essere ed una
tendenza o un appetito che l'essere può colmare. Una cosa ci sembra aver valore, cioè ci sembra buona, in
quanto essa è tale da poter appagare un bisogno: il pane, realtà ontologica, ha valore di nutrimento per chi
ha fame, cioè il suo valore è dato effettivamente dalla sua relazione col bisogno di nutrimento. Il bene o il
valore è dunque un aspetto del reale oggettivo. Tutto ciò viene a significare che la relazione è
necessariamente contenuta nella nozione di valore e che è impossibile definire un valore o un bene senza
riferimento, per lo meno implicito (o trascendentale, I, 47), ad una tendenza. Il bene è essere più una
relazione ad una tendenza (sensibile o intellettuale).

442 - b) Il fondamento oggettivo del valore. Ma come distinguere l'essere (ens) dal valore (bonum)? Il
bene non aggiunge all'essere alcuna realtà nuova, altrimenti questa realtà che si aggiungerebbe all'essere non

319 Cfr. S. Tommaso, De Veritate, q. 21, a. 5: «Essentialis bonitas non attenditur secundum considerationem naturae
absolutam, sed secundum esse ipsius: humanitas enim non habet rationem boni vel bonitatis nisi in quantum esse
habet».
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sarebbe essere. Che cos'è dunque il bene o valore? È, come abbiamo detto, il rapporto con una tendenza. Ma
in questo modo non se ne viene a fare un mero essere di ragione, cioè una cosa che non ha esistenza se non
nella mente? Niente affatto, poiché noi diciamo che se il valore è effettivamente un essere di ragione (I, 43),
è però un essere di ragione oggettivamente fondata: insomma, una qualità o proprietà realmente inerente
all’essere.
Infatti, il bene in quanto appetibile o desiderabile significa lo stesso che «ciò che perfeziona» e «ciò che è
perfetto». La tendenza si volge a ciò che apporta una perfezione; e ciò che apporta una perfezione deve, per
definizione, possedere questa perfezione, cioè essere perfetto (almeno relativamente). Di conseguenza, il
bene-relazione (appetibile) si basa sul bene perfezione (bene in sé). La perfezione oggettiva (cioè la
maggiore o minore pienezza d'essere) è pertanto il fondamento oggettivo dell'appetibilità o del valore. Sotto
questo aspetto, il Bene supremo sarà necessariamente l'Essere supremo, nel quale si trova la pienezza
dell'essere. Principio universale del bene, così come è principio universale dell'essere, Dio è necessariamente
l'oggetto universale e necessario del desiderio, cioè Fine universale. Quod omnia appetunt.

c) I valori particolari. Questi valori sono proprietà degli esseri particolari. Infatti, da quanto precede si
evince che la tendenza o la finalità presuppone in un oggetto una bontà ed una perfezione intrinseche. Così
vengono a trovarsi spiegati e giustificati i due aspetti apparentemente opposti dei valori: il loro aspetto
relativo ed il loro aspetto assoluto, la loro contingenza e la loro necessità, la loro mutevolezza e la loro
eternità. Poiché il fatto che il valore o il bene significhino relazione ad una tendenza spiega, in concreto,
come il valore non sia «attualizzato» se non per una tendenza effettivamente in atto: donde gli alti e i bassi,
individuali e collettivi, dei valori concreti. Ma il fatto che il valore e il bene siano, oggettivamente, la
perfezione stessa dell'essere (relazione trascendentale alla tendenza) spiega che il valore e il bene restano,
attraverso tutte le vicissitudini delle loro attualizzazioni concrete, delle realtà immutevoli, assolute, eterne, e
costituiscono perciò la base di giudizi egualmente necessari ed assoluti.
Quanto poi alla questione della gerarchia dei valori, essa riguarda la Morale e dipende della Metafisica,
poiché va stabilita in funzione della gerarchia degli esseri 320.

Art. IV - Verità ed errore


443 - È precisamente col giudizio che s'introduce l'aspetto della verità e dell'errore, giacché la verità è
data soltanto nel giudizio, e non nelle idee come tali. Le idee, in se stesse, non sono né vere né a sé, perché
esse non pongono alcuna affermazione. Esse diverranno vere o false solo mediante l'atto di giudicare, che
stabilisce fra di loro un rapporto che è (verità) o non è (errore) conforme al reale. Il problema della verità e
dell'errore riguarda la Logica (I, 101-107) e la Critica. Alcuni aspetti tuttavia concernono la Psicologia.

§ 1 - La verità logica

1. IL RIFERIMENTO AL REALE - Si parla del vero, in contrapposizione al falso, come di una qualità che
determina certi atti della mente, giudizi e credenze: la verità e la falsità non si attribuiscono agli oggetti ed ai
fatti, ma soltanto alle operazioni intellettuali. D'altra parte, tuttavia, si vuol dire che i giudizi sono veri o falsi
in quanto prendono valore da qualcos'altro e sono riferiti a termini reali ed oggettivi, senza i quali
perderebbero ogni importanza ed ogni significato. I giudizi non hanno senso, cioè non sono suscettibili
d'essere qualificati veri o falsi, se non in riferimento a qualche cosa che sta al di là del giudizio stesso e che
in qualche modo lo misura.

2. L'INTELLIGENZA È ESSENZIALMENTE IN ORDINE AL REALE - L'attività giudicativa prende


origine nel bisogno di rispondere alle domande: «è o non è?», «è così o non è così?». Il giudizio è veramente
formato e diviene esplicito dal momento in cui è data una risposta a queste domande. Queste ultime non
hanno senso, evidentemente, se non in quanto e per quanto si ammetta che l'esigenza di verità è inerente alla
mente, e, di conseguenza, nella misura in cui questa è ritenuta capace di arrivare alla cosa in sé, cioè, in
ultima analisi, all'esistenza stessa. Ciò non vuol dire che basti pensare per affermare sempre e comunque la
verità; gli errori dimostrano abbastanza il contrario. Ma la possibilità di rendersi conto dell'errore, la capacità
di correggersi, ben dimostra la correlazione organica della mente, in quanto conoscente, con la verità.
L'intelligenza è fatta, in linea di principio, per il raggiungimento del reale.

320 Cfr. R. Ruyer, Le monde des valeurs, Parigi, 1948; Philosophie de la valeur, Parigi, 1952.
269
3. OGNI VERITÀ È OGGETTIVA - Ci si è provati talvolta a distinguere fra «verità oggettiva» e «verità
soggettiva», come cose fra di loro opposte. In questo caso, bisognerebbe ammettere l'esistenza di una verità
valida unicamente per colui che la crede, senza che la sua negazione costituisca un errore. Ma ciò è
insostenibile. Se è vero che certi giudizi d'esistenza, in quanto si riferiscono all'io individuale «ho mal di
testa», «sono triste», ecc.) hanno un contenuto soggettivo, ciò non toglie che essi abbiano tuttavia qualcosa di
oggettivamente reale, per chi li formula ed anche per altri, in rapporto alla fiducia che negli altri appunto si
abbia. In linea di principio, ciò che è vero per l'uno lo è per tutti, perché è sempre in funzione dell'essere
oggettivo che si enunciano i giudizi.

444 - 4. VERITÀ E COERENZA - La verità, quale l'analisi psicologica del giudizio ci permette di
definire, non può dunque essere ridotta alla semplice coerenza del pensiero con se stesso, come sostengono
Cartesio e gli idealisti. Questi infatti non riconoscono altro universo evidentemente certo che l'universo
interiore al pensiero, e non possono di conseguenza considerare la verità come una conformità della mente
con il reale: per loro il fondamento della verità altro non è che l'accordo del pensiero con se stesso. Di qui la
dottrina di Cartesio, secondo cui il criterio della verità sta nella chiarezza e nella distinzione dell'idea, cioè
nella compossibilità degli elementi dell'idea (I, 102).
E' evidente che una tesi di questo genere postula la verità dell'idealismo, cioè di un sistema in cui non si
avrebbe a che fare se non con puri intelligibili immanenti al pensiero. In questo caso, l'unico criterio di verità
sarebbe effettivamente la coerenza delle idee. Senza entrare nel merito della discussione sull'idealismo, che
riguarda la Critica, possiamo qui osservare che è senz'altro un errore quello di affermare che la verità si
esaurisce nella coerenza delle idee, poiché si possono di fatto costruire sistemi d'idee molto differenti e
persino contraddittori fra di loro, ma egualmente coerenti in se stessi ed egualmente lontani dalla realtà.
Ecco perché osservavamo, in Cosmologia (II, 11-12), che le geometrie di Euclide, di Lobatchevsky e di
Riemann sono esenti tutt'e tre da contraddizione interna, ma non possono essere vere contemporaneamente.
La coerenza interna non basta a determinare la verità.

A nulla servirebbe addurre ad esempio, qui, il campo scientifico in cui spesso si ricorre con eguale
legittimità a due o più teorie esplicative, senza che si possano fornire ragioni intrinseche atte a giustificare la
scelta dell'una piuttosto che delle altre (I, 179-181). In realtà, queste teorie non sono che ampie ipotesi,
valide come finzioni o convenzioni pratiche a spiegare l'esperienza. Ma esse non possono essere vere nel
senso preciso della parola, contemporaneamente, come è dimostrato dal fatto che devono l'una dopo l'altra
essere successivamente abbandonate o modificate in conseguenza di una più perfetta conoscenza del reale.
La loro coerenza interna non basta dunque a conferir loro il carattere della verità; direttamente o
indirettamente, esse rimandano sempre al criterio dell'adeguamento al reale.

D'altra parte, si può dimostrare che la teoria della coerenza finisce col contraddirsi da sé. Infatti, per sapere
se un'idea o una proposizione sono coerenti in se stesse, cioè non contengono elementi che reciprocamente si
escludano, bisogna che noi facciamo riferimento al principio di non contraddizione (una medesima cosa non
può al tempo stesso e sotto il medesimo rapporto essere e non essere, essere e non essere tale), cioè ad un
giudizio immediatamente evidente enunciante la legge universale dell'essere. Ne consegue, da una parte, che
non è la coerenza come tale che rivela la verità, ma piuttosto il principio di non contraddizione, in quanto
immediatamente evidente, e, d'altra parte, che poiché questo principio è formulato in funzione dell'essere, è
appunto in funzione dell'essere che si stabilisce ogni verità. Il nostro pensiero, universalmente, è misurato
dall'essere.

W. James, col titolo di pragmatismo, ha proposto una teoria della verità, in cui questa viene ad essere
definita dalla comodità e dal successo. Il sentimento di razionalità, egli scrive, si riduce ad uno stato
soggettivo di tranquillità e di riposo. «Tutte le volte che il corso del nostro pensiero si svolge con perfetta
fluidità, l'oggetto del nostro pensiero ci sembra razionale» (The Will to Believe etc., Nuova York, 1897; cfr. tr.
it. La volontà di credere, Messina 1941). Il «razionale» è anzitutto ciò che per noi viene ad essere economia
di sforzo. Quanto ai principi che pare governino il nostro pensiero, essi non trovano altra giustificazione che
nell'utilità. «Dopo l'interesse che l'uomo ha di respirare liberamente, il più grande di tutti i suoi interessi,
quello che, a differenza degli interessi dell'ordine fisico, non conosce né fluttuazione né declino, è l'interesse
che egli ha di non contraddirsi, di sentire che ciò che pensa in questo momento va d'accordo con ciò che
pensa in altre occasioni» (Pragmatism: a New Name for some old Ways of Thintking, Nuova York, 1907).
Abbiamo discusso altrove questa dottrina (I, 110). Osserviamo qui soltanto che essa costituisce un circolo
vizioso. Infatti, se v'è interesse a non contraddirsi, ciò implica che già si sappia che cos'è contraddirsi e che
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cos'è non contraddirsi, cioè che si sia in possesso delle nozioni di verità e d'errore. Queste nozioni non sono
dunque convenzioni comode, e sono giustificate da altro che dal successo. Il successo che deriva
dall'obbedienza al vero può bensì servire a confermarlo, ma non a definirlo.

§ 2 - L'errore

445 - 1. NOZIONE - L'errore, che è il contrario della verità, consiste in una mancanza di conformità del
giudizio con il reale. L'errore come la verità non può pertanto incontrarsi che nel giudizio: non nel semplice
atto di cogliere un oggetto.

2. LE CAUSE DELL'ERRORE - Possiamo distinguere: la causa immediata, la causa remota e la causa


prima dell'errore.

a) L'ignoranza, causa immediata. L'errore deriva da una insufficienza della visione. Chi si inganna non
comprende ciò in cui si inganna. Ecco perché l'intelligenza, in quanto facoltà dei primi princìpi, non
s'inganna mai, poiché questi princìpi sono visti in piena chiarezza (evidenza). Ecco ancora perché
l'intelligenza, lasciata unicamente all'azione del suo proprio oggetto, sarebbe infallibile, giacché appartiene
alla sua natura affermare unicamente ciò che essa comprende e solo fin dove comprende, dubitare di fronte
all'incertezza, negare di fronte alla falsità, attenersi esattamente a quello che vede. Ma non si dà intelligenza
senza volontà e senza una relativa libertà. Inoltre, nell'uomo, l'intelligenza è associata alla sensibilità, alle
passioni, agli interessi, che influiscono su di essa, l'orientano ai loro propri fini e la inducono a giudicare
senza vedere.
Di qui l'errore, che deriva sempre da ignoranza, in quanto esso consiste precisamente nell'affermare ciò che
non si vede, o ciò che non si sa, a generalizzare imprudentemente, a seguire analogie ingannevoli, a fare
induzioni senza sufficiente fondamento. L'errore è senza dubbio formalmente un atto della mente, ma di una
mente preoccupata e come appannata, contrariata dai sensi o da altre facoltà, e tale da cercare ove non è il
criterio della verità.

446 - b) La volontà, causa remota. Se l'ignoranza è causa immediata dell'errore, essa è a sua volta più o
meno imputabile alla volontà. Infatti, poiché nell'errore l'assenso non è dato conformemente alle esigenze
evidenti dell'oggetto, è sotto l'influsso irrazionale della volontà che si formula il giudizio erroneo.
Quanto alla colpevolezza di questo intervento volontario, essa va valutata sia in base al grado d'obbligo,
cui siamo soggetti in generale o caso per caso, di controllare l'uso delle nostre facoltà, sia in base ai mezzi di
cui disponiamo di fatto per esercitare questo controllo 321.

c) La debolezza dell'intelligenza, causa prima. È evidente che, in ultima analisi, l'errore è possibile solo in
rapporto alla debolezza della nostra intelligenza. In mancanza di penetrazione, l'intelligenza umana incontra
costantemente oggetti privi di quell'evidenza che determina con la sua sola forza il giudizio vero. Ma se
questa debolezza innata dell'intelligenza rende l'errore possibile e, di fatto, così frequente, essa tuttavia non
lo rende assolutamente necessario, giacché, consci dei nostri limiti, noi dovremmo essere convenientemente
circospetti e cauti nelle nostre affermazioni ed astenerci dal giudicare ogni volta che l'evidenza fa difetto.

447 - 3. CLASSIFICAZIONE DEGLI ERRORI - Diversi punti di vista sono possibili per la
classificazione degli errori. Aristotele li ha catalogati sotto il nome di sofismi (I, 93-94). Questa
classificazione, condotta dal punto di vista logico, è la più rigorosa che sia stata proposta. Le classificazioni
di Bacone e di Malebranche sono ispirate al punto di vista psicologico e non riguardano tanto l'errore in sé,
quanto le cause materiali dell'errore.

a) Classificazione di Bacone. Bacone distingue quattro sorta di errori (De Dignitate et Augmentis
scientiarum, V, c. IV; Novum Organum, I, apoph. 62 e sg.). Gli uni derivano dalla natura umana stessa: sono
gli idoli della tribù (idola tribus). Tali sono gli errori dovuti alla propensione troppo umana a riferire tutto
alla nostra maniera di vedere, a considerare sempre nei fatti ciò che giustifica le nostre idee e i nostri
sentimenti, ecc. Altri errori derivano dai difetti personali: sono gli idoli della caverna (idola specus): il
misantropo diffida di tutti; l'imprudente si fida del primo che capita; l'avaro trova sempre la scusa per

321 Cfr. Brochard, De l'erreur, Parigi, 1897. - Roland - Gosselin, L'erreur, in Mélanges thomistes, Parigi, 1923, p. 266-
269.
271
rifiutare l'elemosina; l'amante non vede che perfezione nell'oggetto del suo amore; il matematico nega tutto
ciò che non può essere ridotto in equazione, ecc. Altri errori sono provocati dal linguaggio: sono gli equivoci
ed i sofismi dell'eloquenza o idoli del foro (idola fori). Altri, infine, sono dati dalle sette dei filosofi,
paragonati da Bacone a ciarlatani sulla scena teatrale (idola theatri).

b) Classificazione di Malebranche. Nella sua opera sulla Recherche de la vérité (I, c. IV), Malebranche
riduce tutti gli errori a cinque classi: errori dei sensi, errori dell'immaginazione, errori dell'intelletto, errori
delle inclinazioni (inquietudine, curiosità, amore di grandezza, di ricchezza, di piacere, di onore), errori delle
passioni.

4. LA LOGICA DEI SENTIMENTI - Così è stata chiamata, sulla scorta di un titolo di Ribot, una specie di
psicologia dell’errore, analoga a quelle di Bacone e di Malebranche. La logica dei sentimenti consiste,
infatti, nel partire non da una verità o da un fatto certo per trarre legittime conseguenze, ma da una asserzione
posta in anticipo come conforme a quanto ci si augura o si desidera, e che si giustifica in tutte le maniere.
Questa logica tende a risultati più che a conclusioni, poiché i giudizi che essa ispira sono governati ed
imposti non dalle esigenze oggettive del reale, ma dai bisogni affettivi e dagli interessi (I, 31).
272

CAPITOLO QUINTO

LA CREDENZA

SOMMARIO322

Art. I - NATURA DELLA CREDENZA. Nozione - La credenza come assenso - Credenza e scienza -
Credenza e certezza - Le differenti forme della credenza - Credenza reale e credenza nozionale
Credenza implicita e credenza esplicita - Credenza spontanea e riflessa - Credenza abituale e
credenza attuale.

Art. II - LE CAUSE DELLA CREDENZA. L'assenso nella scienza e nella credenza - L'assenso nella scienza
- L'assenso nella credenza Funzione della volontà nella credenza - Influenza diretta - Influenza
indiretta.

448 - Il fenomeno psicologico della credenza offre un caso particolare dell'attività giudicativa. La
credenza, infatti, aggiunge al giudizio un elemento nuovo: il riferimento alla certezza dell’enunciato del
giudizio. È senz'altro vero che il giudizio comporta già di per sé l'adesione della mente alla verità della
proposizione. Tuttavia questa adesione fa corpo con l'affermazione e non se ne stacca. Nella credenza,
l'assenso si esprime in un atto speciale mediante il quale, ritornando sul giudizio enunciato, la mente dichiara
la sua adesione al giudizio. È questo fenomeno dai molteplici aspetti che noi ora studieremo nella sua natura
e nelle sue cause.

Art. I - Natura della credenza


1. LA CREDENZA COME ASSENSO - La parola credenza è riferita ora, soggettivamente, all'assenso dato
ad una asserzione considerata vera, ora, oggettivamente, agli oggetti stessi dell'assenso (credenze religiose,
credenze morali, ecc.). Qui, noi dovremo interessarcene soltanto sotto l'aspetto soggettivo, come adesione
attiva data alla verità dell'affermazione. Così appunto siamo soliti dire: «credo che Dio esiste», «credo che
Pietro dice la verità», «credo che l'estate sarà calda», ecc. È dunque propriamente l'assenso che specifica la
credenza, e sotto questo aspetto ogni giudizio, di qualsiasi ordine, è oggetto di credenza dal momento che
l'affermazione che esso formula è essa stessa oggetto d'un assenso: da questo punto di vista, «credo che Dio
esiste», «credo che due più due fanno quattro», «credo al trionfo della giustizia», «credo che la Terra gira
intorno al Sole», «credo di esistere», «credo che domani farà bel tempo», sono altrettante espressioni di
credenza.

449 - 2. CREDENZA E SCIENZA - Si è portati a cercare che cosa determini quel raddoppiamento
dell'affermazione che costituisce lo «io credo».

a) I giudizi di scienza. Si constata che vi sono parecchi giudizi in cui l'assenso, almeno in linea di
principio, non è chiamato ad esprimersi. In questa categoria rientrano tutti i giudizi di scienza, che implicano
sia percezione immediata ed evidente della verità, sia dimostrazione razionale che esclude ogni sorta di
dubbio. Certo, questi giudizi, come s'è appena visto, possono anche rivestire la forma della credenza («credo
che due più due fanno quattro», «che la luce percorre 300.000 chilometri al secondo», «credo di esistere»),
ma ciò non è dovuto che a ragioni polemiche (dialogo o discussione): si tratta ogni volta di affermare ad
altri che si assente a siffatte proposizioni. L'assenso è richiesto non dalla natura della proposizione (giacché
322 Cfr. S. Tommaso, De Veritate, q. 14. - Giovanni di S. Tommaso, Cursus philosophicus, 2a p., q. 26. – Pascal, De
l'esprit géométrique, sezione Il, edit. Brunschvicg di Pensées et Opuscules, p. 184 sg.; tr. it., Milano, 1952 - Newman,
Grammar of assent, Londra, 1875; cfr. tr. fr. di Jankélévitch (Oeuvres philosophiques de Newman, Parigi, 1946). - Ollé -
Laprune, La certitude morale, Parigi, 1880. Renouvier, Essai de critique générale, Parigi, 1861-1864. - W. James. The
Varieties of Religious Experience, Nuova York, 1902; cfr. tr. it., 2a ed., Torino, 1917. M. Blondel, La Pensée, t. II;
L'action. - Dumas, Nouveau Traité de Psycologie, t. V, p. 185 sg. (Delacroix). - G. Marcel, Du refus à l'invocation,
Parigi, 1940, p. 158-182, 220-225. - Stoetzel, Théorie des opinions, Parigi, 1943.
273
la mente non ha, per ipotesi, da formulare a se stessa il suo assenso), ma unicamente dal fatto della
contestazione, dell'esitazione o del dubbio altrui.

b) Il giudizio di credenza. In tutti i casi in cui non v'è scienza propriamente detta, l'assenso espresso dall'«io
credo» è un atteggiamento attivo della mente che formula a se stessa l'adesione data ad un enunciato, ove
manchi l'uno o l'altro degli elementi richiesti perché si abbia sapere scientifico, cioè, da una parte,
soggettivamente, la certezza perfetta, che esclude il rischio d'errore, e dall'altra, oggettivamente, l'evidenza
capace d'imporsi a tutte le menti. Sotto questo aspetto, l'assenso indica ed esprime una scelta tra la
affermazione e la negazione possibili, o fra più enunciati possibili.
La prima categoria (asserzioni che implicano formalmente il rischio d'errore) è costituita da tutti gli
enunciati che si designano col nome di opinioni. La seconda categoria (asserzioni non suscettibili d'evidenza
immediata che s'imponga a tutte le menti) consta di tutti gli enunciati relativi a fatti o realtà d'ordine non
sensibile: ipotesi scientifiche, enunciati storici, metafisici, morali e religiosi (credenze ragionate).

450 - 3. CREDENZA E CERTEZZA - È chiaro ormai che, nel suo senso più stretto, la credenza implica la
possibilità di dubitare, sia soggettivamente, nella mente che assente (opinione), sia oggettivamente, di fronte
ad oggetti troppo complessi o troppo distanti dal sensibile per imporre da soli ed immediatamente l'assenso
di tutti (credenze ragionate).
Di qui la differenza essenziale che bisogna fare tra le credenze-opinioni e le credenze ragionate, dal punto
di vista della certezza. L'opinione comporta per se stessa il rischio d'errore, in quanto insufficientemente
fondata dal punto di vista sperimentale o razionale, e tale rischio è necessariamente riconosciuto da chi
opina. La credenza ragionata, invece, può ammettere le forme più perfette della certezza, che escludono in
chi l'enuncia ogni rischio d'errore. Le certezze metafisiche, morali, religiose, non sono per nulla inferiori, per
le menti informate e rette, alle certezze sperimentali. Esse anzi sono spesso superiori a queste (I, 26-27). Se,
nondimeno, esse sono comunemente poste nella categoria della credenza, ciò è dovuto unicamente al fatto
che i loro enunciati, complessi, riguardanti realtà non sensibili e data l'esigenza, talvolta, di sottili
dimostrazioni, o sono suscettibili di contestazione da parte d'altri, ove manchino quell'informazione e quel
rigore razionali che si convengono: lo «io credo», in questo caso, ha essenzialmente il valore polemico di cui
sono suscettibili i giudizi di scienza, - oppure non possiedono l'evidenza attuale che costringe all'assenso: lo
«io credo», in questo caso tende più o meno ad avvicinarsi all'opinione.
Si comprende così come tanto spesso si confondano i due tipi di credenza (credenze-opinioni e credenze
ragionate) e come si parli comunemente di «opinioni religiose» o di «opinioni filosofiche». In sé, né le une
né le altre sono opinioni, poiché si presentano come suscettibili di prove razionali certe o di conferme
rigorose. Ma, di fatto, esse possono trasformarsi in semplici credenze-opinioni, dal momento che sono
enunciate senza riferimento alle ragioni su cui si basano, per scelta più o meno arbitraria, ed ammettendo
soggettivamente il rischio d'errore. Nel medesimo senso, considerate come opinioni da parte di chi non le
ammette, esse potranno essere credenze razionali rigorose in chi le enuncia in piena certezza.

§ 2 - Le differenti forme della credenza

451 - Si è cercato di distinguere le forme diverse sotto le quali può presentarsi la credenza, sia che si tratti
della credenza-opinione, sia che si tratti della credenza ragionata. Queste distinzioni, per lo più, non hanno
che un carattere accidentale, o non oppongono realmente dei termini irriducibili fra di loro (I, 52).

l. CREDENZA REALE E CREDENZA NOZIONALE - Questa distinzione si presenta talvolta in forma


equivoca. Si oppone infatti la «credenza reale» o assenso a verità empiriche, cioè constatabili in dati
d'esperienza («credo che Cesare vinse Pompeo», «credo che Nuova York è una città molto grande»), alla
«credenza nozionale» o assenso alle verità logiche («credo che gli angoli del triangolo danno una somma di
un angolo piatto»). Ma parecchie credenze possono essere simultaneamente reali e nozionali: per esempio,
«tutti gli uomini sono mortali» è contemporaneamente un'asserzione empirica ed un giudizio d'essenza.
Questo giudizio, anzi, non è neppure controllabile logicamente se non dal punto di vista dell'essenza (I, 61,
88). Parimenti, gli enunciati delle scienze della natura sono ad un tempo «reali», in quanto riducibili
all'esperienza, e «nozionali», in quanto formulati con l'ausilio di nozioni o di simboli sempre più astratti (I,
166).
Nella sua Grammair of assent (c. IV), Newman ha proposto questa medesima distinzione in una forma
però alquanto differente. Egli distingue due specie di assensi: l'assenso reale (real assent) e l'assenso
274
nozionale (notional assent), il primo riguardante le nozioni intuitive dei singoli oggetti e che comporta la
cooperazione dell'immaginazione; il secondo riguardante nozioni puramente astratte ed universali. Tuttavia,
Newman ammette che alcune verità accessibili alla sola intelligenza possano essere oggetti di real assent,
quando interessano vivamente le potenze affettive del conoscente: tale il caso dell'esistenza di Dio per colui
che vive intensamente le fede cristiana. Di conseguenza, l'opposizione fra real assent e notional assent si
riduce praticamente a quella che esiste fra l'assenso ad una verità determinante uno stato affettivo intenso e
l'assenso ad una verità che non interessa le potenze affettive («due più due fanno quattro», «la luce percorre
300.000 chilometri al secondo»). Newman precisa del resto che l'assenso reale non è determinato
semplicemente da considerazioni astratte, ma presuppone esperienze personali. Si tratterebbe dunque,
diremmo poi, su questa scorta, e senza dubbio, di un modo e di una espressione dell'essere, più che di un
modo del conoscere.

452 - 2. CREDENZA IMPLICITA E CREDENZA ESPLICITA - La distinzione fra credenza implicita


(credenza non articolata nella coscienza) e credenza esplicita (discorsivamente e coscientemente formulata) è
altrettanto controversa. Infatti, se il credere consiste nell'assentire, come vi sarebbe credenza ove l'assenso fa
difetto? In un solo senso si potrebbe parlare di «credenza implicita» e, quindi, di assenso implicito: quando si
dicesse che si crede, senza percepirle attualmente, a tutte le conseguenze che le credenze formalmente ed
esplicitamente formulate comportano. Così, credere in Dio implica che si creda nella sapienza, nella
giustizia, nella provvidenza divina. Ma la logica della credenza non coincide sempre con quella
dell'implicazione: un tale può credere fermamente in Dio, senza ritenersi obbligato per ciò a credere nella
giustizia divina.
La psicologia del comportamento (14) definisce come credenza implicita le reazioni alle situazioni
percepite e riconosciute. Una rappresentazione comporta la credenza in quanto essa determina reazioni
affettive e motrici. Ma v'è qui un uso abusivo del termine di credenza. Le reazioni di cui si parla sono
soltanto dei riflessi e non atteggiamenti della mente; esse dipendono così poco dalla credenza, che possono
prodursi in una situazione in cui il giudizio è in contraddizione con le stesse: tale l'uomo che subisce le
reazioni della paura in un momento in cui la sua ragione gli dice chiaramente che non v'è alcun pericolo.
Inversamente, ci sono molte credenze che non comportano reazioni: molti hanno delle credenze religiose
senza alcuna vita religiosa; l'uomo coraggioso può, pur credendo al pericolo, non avere reazioni di paura.
Ammettendo questi fatti, i behavioristi obiettano che in ogni caso il passaggio dalla credenza agli atti resta
sempre possibile e si attua dal momento in cui sono date certe condizioni secondarie. Orbene, ciò è certo, ma
non significa più nulla. Infatti, se la reazione affettiva o motrice è solo possibile, non sarà essa a
caratterizzare la credenza, poiché potrà esistere senza reazione. Siccome, d'altra parte, abbiamo or ora
constatato che la reazione motrice può esistere anche senza credenza, bisogna concludere che è
assolutamente illegittimo ridurre la credenza al determinismo della rappresentazione e delle reazioni motrici
o affettive che essa comporta.

453 - 3. CREDENZA SPONTANEA E CREDENZA RIFLESSA - È opportuno distinguere queste due


forme di credenza. In molti casi, infatti, noi accordiamo spontaneamente ed immediatamente il nostro
assenso. D'altra parte, l'assenso deriva da un esame più o meno lungo ed attento delle ragioni su cui si basa.
Tuttavia, sarebbe falso considerare l'assenso spontaneo come sinonimo di assenso insufficientemente
fondato. Ci sono infatti delle credenze spontanee che portano a cogliere immediatamente e sicuramente le
ragioni su cui si basano: l'esistenza di Dio può essere, per talune menti, l'oggetto di una credenza di questo
genere; così si può credere spontaneamente nella realtà di un ordine morale. Altrettanto bisogna dire
dell'assenso spontaneo («credenza su parola») alle affermazioni di un'altra persona sul proprio conto, o alle
asserzioni della sua competenza: questo assenso non è necessariamente irrazionale, poiché riposa spesso
sulla percezione intuitiva dei motivi (prestigio morale, autorità) che giustifica la fiducia. Inversamente, vi
sono credenze riflesse che non implicano una certezza assoluta: vi sono molte opinioni alle quali si aderisce
dopo riflessione, ma ammettendo il rischio d'errore.
Quanto poi all'assenso spontaneo che deriva da uno slancio di fiducia cieca, senza alcun elemento di critica
o di giustificazione razionale, ed equivale ad una specie d'indifferenza logica (credulità), non merita il nome
di credenza, perché ha solo le apparenze d'un atto della mente: in realtà esso è l'effetto di una sottomissione
passiva alla potenza motrice della rappresentazione 323.

323 In questa categoria di pseudocredenze vanno evidentemente compresi tutti i casi patologici in cui la distinzione del
reale e del fittizio, del reale e dell'immaginario non esiste più, e parimenti lo psichismo del sogno. Tutti questi casi non
dipendono che dal determinismo motore della rappresentazione.
275

4. CREDENZA ABITUALE E CREDENZA ATTUALE - Noi crediamo evidentemente molto per


abitudine. Le nostre credenze si sono incorporate alla nostra vita intellettuale e pratica e la governano più o
meno a nostra insaputa. Ma bisogna anche notare che l'automatismo dell'abitudine, in rapporto al suo
imporsi, diviene direttamente contrario all' assenso che specifica la credenza. L'assenso è infatti un
atteggiamento attivo della mente; il pensiero, giudizio e credenza, sembra piuttosto connesso alla capacità di
affrancarsi dal determinismo dell'abitudine. Da questo punto di vista, ogni credenza è attuale.
Tuttavia, si può parlare di «credenze abituali» non più nel senso di meccanismi incoscienti (pratica usuale),
ma per designare credenze che hanno acquisito, con la loro durata, la loro fermezza e la loro vitalità, la
stabilità e la facilità che caratterizzano le abitudini attive.

Art. II - Le cause della credenza


§ l - L'assenso nella scienza e nella credenza

454 - Le precedenti analisi permettono di precisare la differenza che passa tra l'assenso di scienza e
l'assenso di credenza.

1. L'ASSENSO NELLA SCIENZA

a) La necessitazione del vero. Nel senso stretto della parola, ed assolutamente parlando, la scienza si
esprime in giudizi o sistemi di giudizi fondati sull'evidenza. (I, 109). Anche per ciò il giudizio della scienza
non è libero. L'assenso è necessario, dal momento che l'evidenza è data alla mente. Ma questa necessità non
è una coartazione materiale. Essa coincide con la ragione stessa, e non è altro che l'obbligazione in cui si
trova la ragione d'essere se stessa, d'obbedire alla sua legge essenziale, che è quella di conformarsi all'essere,
di vedere ciò ch'essa vede.

b) L'errore del volontarismo. Bisogna pertanto respingere l'opinione di Cartesio, secondo la quale il
giudizio è essenzialmente l'atto della volontà (volontarismo). Cartesio infatti ritiene che l'intelletto, essendo
puramente passivo, non può che concepire le idee, senza affermare o negare alcunché. Solo la volontà,
potenza libera ed attiva, potrebbe risolvere l'indeterminazione dell'intelletto attraverso l'affermazione o la
negazione, come è dimostrato, secondo Cartesio, dal fatto che noi possiamo sempre sospendere il nostro
assenso (Principes de la Philosophie, I, c. XXXII-XXXIX, in: Oeuvres de D., ed. di Adam e Tannery, Parigi,
1897-1909, tr. it., 3a ed., Bari, 1934).
Basterebbe quest'ultima asserzione ad infirmare la teoria cartesiana, giacché è assolutamente certo che vi
sono numerosi casi in cui la volontà non è chiamata in causa nel giudizio ed è impotente quanto alla
sospensione dell'assenso. I giudizi d'esperienza immediata (io penso, io cammino, io vivo, io soffro); i
giudizi enuncianti delle evidenze («ciò che è è», «il tutto è maggiore della parte», «nulla incomincia ad
esistere senza causa», «bisogna fare il bene ed evitare il male», ecc.) si formulano necessariamente e
semplicemente cogliendone i termini e comportano di per sé l'assenso. Contro questo nulla può la volontà. È
questo il caso di tutti i giudizi di scienza come tali. In siffatti giudizi, la volontà non può esercitare se non
una influenza indiretta, per distornare la mente dalla considerazione dei termini del giudizio, cioè per
impedire, non già il giudizio, ma l'esercizio del pensiero. Analogicamente, possiamo pensare a quanto
avviene per gli occhi rispetto alla luce: io non posso, se ho gli occhi aperti, non vedere ciò che è posto sotto il
mio sguardo in piena luce; la mia volontà non ha qui potere, né pro, né contro; ma posso volontariamente
chiudere gli occhi e non veder nulla. In questo caso, la volontà interviene soltanto per impedire l'esercizio
della visione.

Renouvier, (Traité de Psychologie rationnelle, Parigi, 1875, t. I, c. XVI, p. 366 sg.) ha ripreso in una forma
nuova e molto più radicale il volontarismo cartesiano. L'essenziale della sua dottrina può essere così
condensato. Oggettivamente, se si considera la certezza nella sua accezione stretta (ciò che esclude
assolutamente il dubbio), non esiste niente di certo, e non v'è posto che per la credenza. Soggettivamente, il
giudizio non diviene veramente nostro (personale), se non per i motivi, cioè per le ragioni alle quali noi
consentiamo, dopo aver consentito a considerarli. Pertanto, in ogni maniera, l'assenso dipende dalla volontà
libera ed ogni giudizio è un fatto di credenza. Si vedono immediatamente i difetti di tale dottrina.
Oggettivamente, essa postula uno scetticismo assoluto ed universale, che mette in causa persino giudizi di
questo genere: «io penso», «io esisto», «ciò che è è». Soggettivamente, essa fa dipendere l'assenso dalla
276
volontà libera: il che non è altro se non una conseguenza del postulato scettico, e confonde l'ordine
d'esercizio, in cui la volontà ha effettivamente una funzione indiretta, con l'ordine di specificazione, in cui,
dal momento che v'è evidenza, la volontà non ha per niente giurisdizione.

2. L'ASSENSO NELLA CREDENZA - La credenza implica, contrariamente alla scienza, l'intervento più o
meno attivo della volontà, poiché l'assenso non è determinato da ragioni che escludano ogni possibilità
d'errore ed ogni possibilità di contestazione, o riguarda enunciati privi d'evidenza intrinseca. Tutto il
problema qui viene ad essere quello di definire la funzione ed il valore dell'intervento della volontà. Questo
intervento può essere ora diretto, ora indiretto. Il solo intervento diretto specifica la credenza.

§ 2 - Funzione della volontà nella credenza

A. INFLUENZA DIRETTA

455 - Cerchiamo dunque di mettere in chiaro l'intervento della volontà nelle due specie di credenza che
abbiamo distinto.

1. CREDENZE-OPINIONI

a) Le forme dell'intervento volontario. Le opinioni, abbiamo detto, sono asserzioni formulate col
sentimento implicito di una certa qual possibilità d'errore, per il fatto che esse non sono che approssimative,
parziali o di parte e non abbastanza fondate. In generale, esse non dipendono tanto da ragioni oggettive,
quanto da impulsi d'ordine affettivo, da interessi di comodo, da abitudini, da pregiudizi 324, nonché dalla
necessità pratica di decidere un proprio atteggiamento ed impegnarsi per una soluzione od un'altra. Tutto ciò
significa che esse sono governate dalla volontà.
Così spiega come si sia soliti affermare che «le opinioni sono libere»: ciò va inteso nel senso che esse sono
prive dalla necessitazione dell'evidenza, onde non possono essere imposte, ma non nel senso che esse siano
intercambiabili a discrezione. L'opinione rimane infatti un atto della mente e in linea di principio ha la sua
giustificazione razionale. In pratica, si constata che le opinioni sono molto variabili, anzitutto perché le
ragioni su cui si fondano non sono mai, per definizione, determinanti, e possono cedere ad altre ragioni
contrarie, poi e soprattutto per effetto di tutte le pressioni irrazionali alle quali si cede troppo facilmente: un
tale il quale giudichi che tutto va di traverso, da quando soffre disturbi di fegato, pensa invece che tutto va
bene quando la sua cenestesia si comporta a modo; si sa peraltro come i nostri giudizi sul prossimo siano vari
per lo più in rapporto alle oscillazioni misteriose della nostra simpatia.

456 - b) Il criterio della probabilità. L'opinione è legittimata dal grado di probabilità dell'asserzione che
essa enuncia. In numerosissimi casi, è impossibile, sia soggettivamente, perché bisogna agire e risolversi ad
una decisione, sia oggettivamente, perché l'oggetto dell'asserzione è estremamente complesso, andare oltre il
piano dell'opinione. Questo fatto stesso rende legittima l'opinione, dal momento che essa viene enunciata in
funzione non già di una certezza attualmente impossibile, ma delle probabilità (I, 95). Quanto poi
all'opinione capricciosa e stravagante, formulata per semplice riferimento agli interessi e alle passioni, ai
pregiudizi incontrollati o alla moda, si tratta di cosa evidentemente condannabile, poiché l'intelligenza qui
viene a trovarsi asservita. A stento si può ancora, in questo caso, parlare d'opinione, non trattandosi più di un
atteggiamento intellettuale, ma dell'effetto di un determinismo meccanico, affettivo o passionale.
c) L'opinione nelle scienze della natura. C'è, nelle scienze naturali, tutto un vasto campo che non può
essere oggetto se non di opinione. È questo il caso, per esempio, delle grandi teorie, le quali altro non sono
che ipotesi, giustificabili per la loro comodità o per il loro grado di fecondità pratica. Ma c'è di più: il fatto
scientifico è un fatto interpretato o razionalizzato (I, 147): la sua intelligenza, cioè, è funzione della legge o
del sistema di cui esso fa parte. Così stando le cose, esso non può ottener altro che un assenso di opinione.
D'altro canto, la parte d'esperienza bruta che il fatto scientifico contiene in sé è a sua volta di valore
semplicemente approssimativo, tanto che, quando si tratta di fenomeni di grande complessità, non si può più

324 Pascal (Pensèes, ed. Brunschvigg, n. 82 sg.), dopo Montaigne, ha molto insistito su questo punto: «La volontà è
uno dei principali organi della credenza: non che essa formi la credenza, ma perché le cose sono vere o false secondo il
lato da cui si guardano. La volontà che indulge ad un lato piuttosto che all'altro distorna la mente dal considerare le
qualità del lato che non le va di vedere, e così la mente, al passo con la volontà, si sofferma a guardare il lato che a
questa piace e giudica pertanto per quel che vede».
277
fare appello che a leggi statistiche (I, 157). Tutto ciò spiega come, nonostante le apparenze, vi sia meno
certezza nelle scienze della natura che nella metafisica 325.

457 - 2. CREDENZE RAGIONATE - Si comprendono in questa categoria gli assensi agli enunciati storici,
metafisici e religiosi.

Noi definiamo razionali, nel loro insieme, queste credenze, per contrapporle all'opinione, che esclude per
definizione la certezza e dipende da condizioni irrazionali, mentre gli enunciati storici, metafisici e religiosi
sono suscettibili di una perfetta giustificazione o controllo razionale, sia in se stessi (certezza intrinseca), sia
per l'autorità su cui si fondano (certezza estrinseca).

a) La credenza in istoria. Gli enunciati storici che si annoverano spesso fra quelli che esigono la credenza,
sono in realtà attinenti alla scienza in quanto e per quanto i loro oggetti (i fatti passati come tali) possono
essere stabiliti in modo certo. È ben vero che bisogna sempre ricorrere alla testimonianza altrui, ma questa
testimonianza non è accettata qui sulla parola, ma a titolo di fatto oggettivo, suscettibile d'un controllo quasi
sperimentale (I, 203-208). Il controllo, si sa, può essere insufficiente; i fatti possono essere troppo
complessi perché sia ammessa una vera certezza. In questo caso, gli enunciati storici restano oggetti di
credenza. Lo sono soprattutto in quanto che il loro ordine di successione e la loro interdipendenza sono
dovuti in gran parte all'interpretazione dello storico e ad ipotesi più o meno fondate. Se v'è un insieme di
fatti storici singolari che toccano il livello della certezza scientifica, la storia, come tale, resta oggetto di
credenza.

b) La credenza in metafisica. Gli enunciati metafisici riguardano sia le astrazioni dell' ordine razionale
(nozioni d'essere, di sostanza, di causa, di fine, di relazione, di verità, di quantità, di movimento, di spazio, di
vita, di pensiero, ecc.), sia realtà ontologiche dell'ordine non sensibile (Dio e l'anima). Gli uni e gli altri
sono, per principio, oggetti di scienza e dipendono dal ragionamento fondato sull'esperienza. Taluni, come i
primi princìpi speculativi e pratici, sono anche necessariamente, di fatto, a causa della loro assoluta evidenza,
oggetti di intuizione immediata.
Tuttavia, la complessità dei problemi e soprattutto l'estrema distanza dal sensibile, fanno sì che il maggior
numero delle asserzioni metafisiche non possano essere ammesse per molte intelligenze se non in forma di
credenze. Proprio ciò, oltre alla molteplicità e varietà delle dottrine, le fa comunemente considerare come
oggetti di credenza.

458 - c) La fede religiosa. La religione è per eccellenza il campo della credenza. Infatti, gli enunciati
propriamente religiosi riguardano misteri soprannaturali (Trinità, Incarnazione, Redenzione, grazia e
giustificazione, sacramenti, ecc.). Questi enunciati non possono essere che oggetti di fede, perché
oltrepassano infinitamente, in se stessi, la portata della nostra intelligenza. Essi sono formulati soltanto sotto
l'influsso della volontà, giustificato dai motivi di credibilità (testimonianza, storicamente dimostrabile, di Dio
che rivela i misteri). D'altra parte, essi richiedono ancora l'intervento attivo della volontà in quanto implicano
conseguenze d'importanza capitale per la nostra condotta morale. L'agire umano si sente profondamente
influenzato dalla fede religiosa, e per questo stesso fatto, la volontà può, qui più che altrove, secondo le
disposizioni morali del soggetto, esercitare un'azione decisiva.
L'assenso della fede è dunque doppiamente opera della volontà, perché dipende ad un tempo dalla volontà
libera, in quanto i misteri, essendo al di sopra della ragione, non s'impongono per se stessi, e dalla volontà
retta, in quanto l'assenso non è perfetto se non è completo, cioè speculativo e pratico.

È chiaro quanto questa concezione sia lontana da quella dei fideisti, per i quali la credenza religiosa è
interamente irrazionale. Schleiermacher (Reden uber die Religion, 1a ed., Berlino, 1799) e S. Kierkegaard
soprattutto hanno sostenuto questo punto di vista. Kierkegaard ritiene che la fede religiosa sussista solo per
«l'incertezza oggettiva». La vera fede, dice, è quella dell'uomo che resta, fino alla fine, su settantamila
braccia d'acqua (Stadier paa Livets Vei [Stadi nel cammino della vita] 1845, ora nelle Samlede Werke, 15
voll., Copenaghen, 1920-27). «Se voglio restare nella fede, bisogna che mi preoccupi di mantenere
l'incertezza oggettiva, di trovarmi in questa incertezza oggettiva sulle settantamila braccia d'acqua, e di

325 Cfr. Pascal, Pensées, n. 79 (ed. Brunschvigg): «Bisogna dire, grosso modo «Ciò avviene per figura e movimento»,
giacché ciò è vero. Ma quanto a dire quali, e comporre la macchina, è ridicolo. Ché si tratta di cosa inutile, ed incerta e
difficile».
278
credere malgrado ciò». Nel Postscriptum della stessa opera, Kierkegaard parla anche del «martirio di credere
contro la ragione». Sarebbe, infatti, un autentico martirio il «salto nell'assurdo» di cui parla altrove S.
Kierkegaard! In realtà, è cosa indegna dell'uomo credere «contro la ragione». Se l'intelligenza umana deve
confessare misteri che sono al di sopra delle sue capacità (ma non contro la ragione), essa ha il diritto e il
dovere di esigere che gli enunciati di fede presentino i loro titoli alla credenza, con motivi di credibilità che
loro conferiscono l'evidenza estrinseca di cui essi sono soltanto suscettibili, ma che costituisce per la ragione
la più sicura giustificazione.

459 - 3. L'ERRORE DELL'INTELLETTUALISMO - Le teorie intellettualistiche della credenza,


escludendo totalmente l'intervento della volontà nella credenza, propongono un errore simmetricamente
inverso a quello del volontarismo cartesiano. Gli uni (Hume) affermano, infatti, che la credenza è solo uno
stato forte che determina come tale il sentimento della realtà. Abbiamo già dovuto criticare questa opinione,
quando s'è trattato di distinguere l'immagine dalla percezione (174176). Possiamo ora aggiungere che essa
ha il torto di trascurare, nel giudizio della credenza, l'assenso che le dà la sua forma essenziale e che implica
l'attività della mente, e d'altra parte che essa non potrebbe comunque applicarsi agli enunciati intorno a fatti
contrari alle percezioni sensibili (rotazione della terra attorno al sole).
Spinoza, da parte sua, dichiara che l'assenso non è altro che l'idea che s'impone da se stessa mediante la sua
sola chiarezza326. Ma a ciò si oppone il fatto che molti assensi, perfettamente fermi, non sono determinati
dalla sola chiarezza dell'oggetto, ed inoltre che, quando c'è realmente evidenza, quest'ultima non è
semplicemente l'evidenza di una o parecchie idee, ma quella del rapporto che le unisce. Infine, la evidenza
stessa del rapporto, trae seco, è bensì vero, il giudizio, ma dal giudizio resta formalmente distinta, essendo
questo, come s'è visto, non solo percezione d'un rapporto di convenienza o d'identità fra due oggetti di
pensiero, ma anche affermazione della verità di questo rapporto.

B. INFLUENZA INDIRETTA.

Si esce qui dal campo della credenza, in quanto l'intervento della volontà non riguarda più l'assenso come
tale, ma le condizioni generali del pensiero. Dipende infatti dalla volontà l'applicare o no la mente, con
l'attenzione, l'informazione, la penetrazione e la perseveranza necessarie ai problemi che sollecitano l'esame,
come pure lo scartare le obiezioni fallaci, il frenare gli interessi e le passioni che fanno da ostacolo alla
conoscenza della verità, e, per riassumere tutto con la parola di Pascal, l'«attendere a pensar bene»: poiché in
questo senso infatti essa è «il principio della morale».

326 Cfr, Ethica (ed. Gentile, Bari, 1915) 2a pars, propositio 49: «In Mente nulla datur volitio, sive affirmatio et
negatio, praeter illam quam idea, quatenus idea, involvit». E ciò B. Spinoza dimostra così: «Nella mente, non esiste
alcuna facoltà assoluta di volere o non volere, ma vi sono soltanto delle volizioni particolari, come tale o tal'altra
affermazione, tale o tal'altra negazione. Concepiamo dunque una volizione particolare qualunque, ossia: il modo del
pensiero per il quale la mente afferma che i tre angoli di un triangolo sono eguali a due retti. Questa affermazione
comporta la concezione (o idea) del triangolo. Ciò è quanto dire che A deve comportare la concezione (idea) di B o che
A non può essere concepito senza B [...]. Per conseguenza, questa affermazione appartiene all'essenza dell'idea del
triangolo e non è cosa diversa rispetto a questa stessa essenza. Così ogni volizione, quale che essa sia, non è cosa
diversa rispetto all'idea stessa».
279

CAPITOLO SESTO

IL RAGIONAMENTO E LA RAGIONE

SOMMARIO327

Art. I - IL RAGIONAMENTO. Il ragionamento dal punto di vista psicologico - Forme empiriche del
ragionamento - Il ragionamento come giustificazione - Le tappe del ragionamento - Il ragionamento
infantile - Esiste una mentalità prelogica? - Teoria empirica del ragionamento - Tesi associazionistica
- Discussione.

Art. II - LA RAGIONE. I princìpi direttivi della conoscenza - Il principio d'identità - Il principio di ragion
d'essere - L'intelligibilità - Principio di causalità - Principio di finalità Principio di sostanza -
Caratteri dei princìpi primi - Origine dei princìpi primi - Nozioni e princìpi - La formazione dei
princìpi.

Art. I - Il ragionamento
460 - Qui, come nel campo dell'idea e del giudizio, il punto di vista logico, che è quello dei procedimenti
di diritto e delle regole ideali del pensiero, è distinto dal punto di vista psicologico, che concerne le
operazioni e i fenomeni intellettuali come dati empirici. Tuttavia, la psicologia delle operazioni intellettuali è
strettamente connessa alla logica di queste stesse operazioni, perché, come s'è visto (I, 32), il punto di
partenza della logica scientifica non può rivelarsi se non nell'esperienza intellettuale riconosciuta come
valida e corretta. Le leggi che governano il procedere della mente non possono essere conosciute se non
attraverso la riflessione della mente sulla sua propria attività.
Questa osservazione è soprattutto valida a proposito del ragionamento, del quale la logica più progredita,
attraverso lo studio dei metodi, ha descritto le forme estremamente complesse, al fine di stabilire le leggi alle
quali deve obbedire il pensiero secondo gli oggetti cui questo si applica. Una parte notevole della psicologia
del ragionamento viene dunque a trovarsi necessariamente incorporato alla logica. Non abbiamo motivo di
ritornare su questo argomento nel presente capitolo, se non per riassumere gli aspetti propriamente
psicologici del problema e precisare le forme empiriche del ragionamento.

§ l - Il ragionamento dal punto di vista psicologico

A. LE FORME EMPIRICHE DEL RAGIONAMENTO

461 - Si distinguono il ragionamento di scoperta o di invenzione e il ragionamento di verificazione.

1. FORME DEL RAGIONAMENTO DI SCOPERTA

a) Ragionamento per analogia. Il ragionamento analogico (I, 43) consiste nell'arrivare a conclusioni circa
l'identità di due o più termini in ragione della loro analogia (rassomiglianza parziale). Nella vita pratica, un
gran numero di ragionamenti si basano sulle analogie fornite dall'esperienza. Abbiamo già visto (228-229),

327 Aristotele, Categ. e Anal. Post. - S. Tommaso, De Veritate, q. 2, 3 e 10; Ia, q. 77-80, 84-89. - Rabeau, Verbum
Species, Parigi, 1938. - Piaget, Le jugement et le raisonnement chez l'enfant, Parigi, 1924. - Lévy-Bruhl, La mentalité
primitive, 4a ediz., 1925, L'ame primitive, 4a ediz., 1930. - O. Leroy, La raison primitive, Parigi, 1930. - M. Blondel, La
pensée, t. II, Parigi, 1934. - L. Rouger, Les paralogismes du rationalisme, Parigi, 1920. - Kant, Critica della ragion
pura. Dialettica trascendentale. - Lachelier, Le fondement de l'induction, 2a ed., Parigi, 1896. - Ribot, La logique des
sentiments, Parigi, 1905. - Goblot, Traité de Logique, c. IX-XVIII, Parigi, 1918. - Dumas, Nouveau Traité de
Psychologie, t. V, p. 186 sg. (Delacroix). - Descoqs, Institutiones Metaphysicae generalis, Parigi, 1925, p. 431-578. -
Pradines, Traité de Psychologie générale, 3 voll., Parigi, 1948, II, fasc. 2, p. 190 sg.
280
del resto, che l'analogia è una delle grandi risorse sia dell'immaginazione creatrice che delle scienze
sperimentali.
Il ragionamento analogico non offre normalmente che ipotesi, giacché le analogie che troviamo fra due o
più termini non costituiscono una prova certa della loro identità. Queste ipotesi esigono una successiva
verificazione, sperimentale o razionale328.

b) Ragionamento per esempi. Il ragionamento per esempi, o casi particolari, differisce dal ragionamento
analogico, in quanto non si tratta d'identificare due o più termini, ma di scoprire un caso o una legge generale
partendo da fatti particolari. Ciò è quanto la logica definisce col nome di induzione (I, 90-92), ed è per
eccellenza il ragionamento in uso nelle scienze della natura.

462 - 2. FORME DEL RAGIONAMENTO DI VERIFICAZIONE La verificazione avviene per


sussunzione, per sostituzione o per connessione di termini.

a) La sussunzione dei termini. Il procedimento della sussunzione è essenzialmente quello della deduzione o
del sillogismo categorico (I, 68). I termini sono ordinati secondo i loro rapporti di generalità, in modo da
permettere il passaggio dal più generale (termine maggiore) al meno generale (termine minore) attraverso la
mediazione di un termine medio, compreso nell'estensione del termine maggiore e comprendente il termine
minore nella sua estensione. La forma schematica di questo ragionamento è la seguente: B fa parte di A; C fa
parte di B; quindi C fa parte di A. Se ci si pone dal punto di vista della comprensione, correlativo a quello
dell'estensione, si ha, schematicamente: B implica A; C implica B; quindi C implica A.

b) La sostituzione dei termini. Il procedimento della sostituzione è quello proprio del ragionamento
matematico. Non è più il criterio della generalità che dirige il ragionamento, ma quello delle relazioni
d'eguaglianza o d'equivalenza, in virtù del quale una grandezza è sostituita ad un'altra attraverso termini
intermedi, numerosi quanto occorra. Schematicamente: A = B, B = C, C = D, D = E, quindi A = E (I,
128).

c) La connessione dei termini. Questo procedimento è quello proprio di tutti i ragionamenti ipotetici. Esso
consiste nel collegare gli effetti alle cause, le conseguenze ai princìpi, i condizionati ai condizionari (I, 74).
Si tratta del procedimento cui si ricorre nelle scienze sperimentali e, in genere, in tutti i ragionamenti che
tendono a spiegare i fatti dell'esperienza. Schematicamente: A dipende da B, B dipende da C, C dipende da
D, quindi A dipende da D.

B. IL RAGIONAMENTO COME GIUSTIFICAZIONE

463 - In tutte le forme empiriche che esso può assumere, il ragionamento può essere ridotto al processo
fondamentale della giustificazione. Si tratti di scoperta o di verificazione, l'attività di ragione si manifesta
sempre sotto forma di giustificazione. Infatti, la scoperta e l'invenzione consistono nella ricerca della prova o
della dimostrazione di un'ipotesi; nella verificazione, la mente cerca il fondamento di una verità già
conosciuta e ammessa come tale.

1. LA GIUSTIFICAZIONE COME CONCLUSIONE E CONSEGUENZA

- La giustificazione che il ragionamento dà può mirare a stabilire sia la verità incondizionata di una
proposizione, sia semplicemente la sua relazione logica con altre proposizioni. Nel primo caso, il
ragionamento parte da premesse che si considerano vere, in vista di dimostrare una conclusione che sarà
ugualmente considerata come vera. Nel secondo caso, il ragionamento parte da proposizioni quali che siano
adottate a titolo ipotetico, e ne deduce delle conseguenze il cui valore sarà relativo a quello delle premesse.
Si sa che la dimostrazione per assurdo consiste nel provare la falsità di un'asserzione prendendola come
punto di partenza di un ragionamento che porta a conseguenze assurde. In questo caso, si tratta ancora di
giustificare, ma per via indiretta, la proposizione contraddittoria a quella che porta all'assurdo.
In questi due casi, il ragionamento si svolge secondo le esigenze logiche e tende a stabilire il vero, sia
assolutamente, sia ipoteticamente. Effettivamente, se ci si pone sul piano logico, entrambi stabiliscono
contemporaneamente sia conclusioni che conseguenze: nel primo caso, la conclusione è una conseguenza

328 Cfr. M. Dorolle, Le Raisonnement par analogie, Parigi, 1949.


281
delle premesse; nel secondo, la conseguenza è la conclusione del ragionamento. Ma, psicologicamente,
soltanto il primo ragionamento conclude, cioè compie il processo discorsivo. Il ragionamento che non miri
se non alla conseguenza in sé e per sé rimane incompiuto dal punto di vista della verità oggettiva, termine
ultimo dell'attività ragionativa. Esso risulta tuttavia diretto dall'idea di verità, in quanto si sottomette alle
norme logiche e richiede una ulteriore verificazione della conseguenza, attraverso il controllo sperimentale o
razionale.

464 - 2. LA GIUSTIFICAZIONE COME SEMPLICE RISULTATO


V'è una intera categoria di ragionamenti che non si riferiscono in alcun modo, né direttamente, né
indirettamente, alla verità. Tali sono quelli che ci danno la cosiddetta logica dei sentimenti (447) e che si
ritrovano, sotto una forma patologica, in tutte le specie di follia ragionante. I ragionamenti di questa
categoria possono essere perfettamente rigorosi dal punto di vista della conseguenza: i pazzi sono spesso dei
ragionatori logicissimi. Ma, nell'argomentazione passionale, la concatenazione delle proposizioni è
solitamente d'una illogicità sconcertante: premesse contraddittorie portano infallibilmente, attraverso
un'argomentazione tanto abbondante quanto stravagante, al medesimo risultato. Ecco perché giustamente si
dice che si perde il proprio tempo quando si discute con i fissati, i maniaci e le persone ostinatamente
sottomesse al determinismo della passione.
In tutti i casi, non si tratta, logicamente parlando, che di pseudo - ragionamenti, in quanto
l'argomentazione mira soltanto a risultati e non a conclusioni. Se poi le leggi della conseguenza si trovano ad
essere rispettate, non si tratta che di un fatto accidentale: non v'è, cioè, sottomissione alle norme logiche, ma
semplicemente la coincidenza della conseguenza regolare con le esigenze del determinismo passionale, che
rimane sempre il principio motore dell'argomentazione.

C. LE TAPPE DEL RAGIONAMENTO

465 – 1. IL RAGIONAMENTO INFANTILE - Soltanto verso i sette anni il fanciullo incomincia ad


abbozzare qualche ragionamento. Ed anche a tale età non si tratta che di ragionamenti riguardanti casi reali,
poiché il fanciullo non è in grado, prima degli undici o dodici anni, di ragionare partendo da semplici ipotesi.
I ragionamenti infantili sono di tipo estremamente sommario. Contraddistinti dalla congiunzione perché, essi
sono destinati ad indicare sia una causa («piango perché Paolo mi ha dato le busse»), sia un motivo («voglio
un cavallo meccanico perché Paolo ne ha uno». A poco a poco, il ragionamento si evolve verso forme più
logiche e tende a formulare delle conclusioni. Il fanciullo che dichiara: «Paolo ha avuto paura, poiché si è
messo a correre», stabilisce fra due proposizioni una connessione logica, che costituisce una vera e propria
deduzione. Ma questo tipo di ragionamento affiora soltanto intorno ai nove o ai dieci anni,
contemporaneamente alle altre forme logiche contraddistinte dall'uso delle differenti congiunzioni: benché,
sebbene, poiché, quindi, ecc.329.

466 - 2. ESISTE UNA MENTALITÀ PRELOGICA? - Alcuni sociologi contemporanei, particolarmente


Lévy-Bruhl, hanno sostenuto la tesi che la mentalità primitiva fosse di natura «mistica e prelogica», cioè
meramente emozionale ed estranea al principio di contraddizione: che governa le operazioni logiche dei
civili.

Lévy-Bruhl («Bulletin de la Société de Philosophie», aprile 1923) dichiara: «Come l'ambiente sociale in
cui vivono i primitivi è differente dal nostro, così il mondo esteriore che essi percepiscono differisce da
quello che percepiamo noi. Quale che sia l'oggetto che a loro si presenta, esso possiede delle proprietà
occulte, senza le quali non riescono ad immaginarlo. Non esistono per loro fatti puramente fisici». Il
primitivo è indifferente alla contraddizione, come è dimostrato dalla legge di partecipazione. «Secondo
questa legge, gli oggetti, gli esseri, i fenomeni possono essere, in modo per noi incomprensibile,
contemporaneamente se stessi e qualcos'altro; presenti, ad un dato momento, in un certo luogo, e presenti,
nello stesso momento; in un altro luogo distante dal primo. Altrettanto incomprensibilmente, essi emanano e
ricevono forze, virtù, qualità, azioni mistiche, che si fanno sentire a distanza, pur continuando ad essere.
dove sono».

Questa tesi non ha, in verità, incontrato che lo scetticismo degli specialisti in etnologia, a causa dei vari
equivoci ad essa inerenti (I, 32). Noi ci limiteremo qui a riassumere le critiche che vi si possono muovere.

329 Cfr. Piaget, Le jugement et le raisonnement chez l'enfant, Parigi, 1924.


282

a) Il mito del «primitivo». Abbiamo già visto (I, 201-204) quanto equivoco ed improprio sia il termine
primitivo, per la continua confusione che si in genera fra il senso qualitativo (semplice, rozzo) e il senso
cronologico (antico, primo), come se fosse pacifico che questi due sensi coincidano, mentre proprio questo è
da vedere. In realtà, Lévy-Bruhl ed i sociologi della sua scuola mettono insieme alla rinfusa, senza critica né
discriminazione (tranne che per toglier di mezzo o minimizzare i documenti contrari alla loro tesi) fatti
culturali attinti sia alle civiltà rudimentali, sia alle civiltà complesse, evolute o regressive. È impossibile
scoprire in queste costruzioni arbitrarie una immagine autentica del primitivo 330.

b) La ragion primitiva. Se si tiene conto dei fatti bene accertati, si è portati a riconoscere che i «primitivi»
sono spesso uguali, se non superiori ai Bianchi, quando si tratta di imparare le loro lingue e d'iniziarsi alla
loro civiltà. La loro lingua è meno ricca, quanto a termini astratti, della nostra; l'abbondanza dei termini
concreti, poi, è spiegata dalle necessità della vita pratica e si riscontra sia nei fanciulli che nelle persone
incolte e dedite alle occupazioni materiali. La loro numerazione non ha nulla di particolare. Se credono nella
potenza mistica di certi numeri, è pur vero che molti uomini civili, superstiziosi, in ciò assomigliano a loro.
Del resto, questa credenza pare sia assente dalle civiltà più rudimentali. Infine, i «primitivi» ragionano come
i civili e talvolta meglio di questi. Comunque, se il loro stato mentale è, in genere, inferiore, ciò va imputato
alla mancanza degli stimolanti necessari della vita intellettuale ed allo stato di anchilosi in cui essi vegetano
da secoli e secoli, date le loro condizioni di habitat. Per queste ragioni è impossibile trovare negli incivili
un'immagine precisa dell'infanzia dell'umanità. Si tratterà piuttosto di «un'immagine di decrepitezza e di
senilità». (R. Allier, Le non-civilisé et nous, Parigi, 1927, p. 268).

467 - c) Valore e limiti delle «partecipazioni mistiche». Qual è il senso della «legge di partecipazione»? In
realtà, si tratta qui di associazioni simboliche fra oggetti differenti, unificati dal punto di vista pratico
(equivalenza fisica del segno e del significato), mai trasformate però in pure identità.
Questo fenomeno chiamato «partecipazione» si riscontra nelle seguenti pratiche. Invocazione dei nomi
mitici: il mago si identifica con l'eroe di cui invoca ed assume il nome. Procedimenti di magia simpatica, che
consistono nel dare realtà simbolicamente all' effetto atteso realmente, quasi che il simbolo potesse
equivalere alla realtà e addirittura produrla: così, per far piovere, lo stregone spruzza la terra; per ottenere
tuberi abbondanti egli sotterra, al momento della semina, pietre magiche della stessa forma dei tuberi
desiderati, ecc.331. Malefizi: forare con un punzone l'immagine o il simulacro di un nemico equivale a dar la
morte a tale nemico. Totemismo: un essere sacro, generalmente animale, talvolta vegetale, dà il suo nome al
clan o alla tribù e ne costituisce l'emblema; fenomeno di natura sociale, connesso alla tendenza, da parte di
determinate unità sociali, ad associarsi con oggetti o simboli di valore emozionale, in vista di salvaguardare
la coesione del gruppo332. Pratiche d'idolatria: creazione di simboli del divino, che vengono adorati come dèi
e tali da mettere a disposizione del mago le forze psichiche universali.
In tutti i casi, il segno conserva sempre la sua relazione di significato rispetto ad un'altra cosa.
L’identificazione significa l'equivalenza fisica del segno e del significato. Ma la relazione d'operazione o di
causalità efficiente implica la distinzione della causa e dell'effetto, cioè del segno e del significato. Il
principio d'identità non è dunque misconosciuto fondamentalmente nel suo valore ontologico 333.

d) Il primitivo e il fanciullo. Insomma, la mentalità primitiva è una mentalità da fanciullo. Questi, fin verso
i dodici anni, tiene poco conto delle relazioni oggettive. Egli attribuisce facilmente alla propria volontà un
potere diretto sulle cose e sugli avvenimenti. Egli manifesta una sorta di animismo, confondendo l'oggettivo
e il soggettivo e cercando ostinatamente spiegazioni finalistiche, ove i fenomeni naturali siano in relazione
con una volontà che li determini nella loro esistenza e nella loro forma.
330 O. Leroy, La raison primitive, Parigi, 1927, ha fatto una critica serrata e decisiva delle fonti di Lévy-Bruhl.
331 Queste pratiche di magia simpatica, come del resto le altre, non costituiscono una peculiarità dei «primitivi». Ecco
per esempio che il «Journal de CommuneAffranchie» (Lione), del 23 frimaio anno II, racconta un «banchetto fraterno»
in cui si trovavano riuniti amministratori e militari: vi si intonano inni civili, dice il giornale; il cittadino Grandmaison,
comandante della gendarmeria, reca alcune pinte di vino rosso in una cazzeruola che rappresenta la coppa
dell'uguaglianza. «Ecco, grida Dorfeuille, il sangue dei re. Repubblicani, beviamo!». Il vaso circola e, aggiunge il
giornale, «ogni bocca, sollecita, avida, credeva, bevendo tale liquore, di disseccare le vene dei tiranni dell'Europa» (Ed.
Herriot, Lyon n'est plus, t. III, p. 203).
332 Cfr. Goldenweiser, Totemism, an analytical study, «Journal of American Folklore», XXIII (1910), p. 179 sg. -
Lowie, Traité de Sociologie primitive, trad. fr., Parigi, 1935, p. 144 sg.
333 Cfr. J. Maritain, Signe et symbole, p. 102, in Quatre essais sur l'esprit dans sa condition charnelle, Parigi, 1939.
283
In tutto ciò, il ragionamento infantile, come quello del «primitivo», procede secondo le forme proprie
dell'adulto, ma, in mancanza di esperienza e di critica, confonde i gradi e i tipi della causalità e si esercita in
un regime immaginativo, in cui l'intelligenza è bensì presente, ma non ancora liberata.

§ 2 - Teoria empiristica del ragionamento

468 – 1. LA TESI ASSOCIAZIONISTICA - Gli empiristi hanno tentato di spiegare il ragionamento


mediante l'intervento dell'associazione. Ogni ragionamento, osserva Stuart Mill, essendo di tipo analogico, si
riduce ad un'associazione per rassomiglianza, cioè ad un'abitudine. Il ragionamento non è che la evoluzione
spontanea di immagini successive, associate dall'esperienza. Per esempio, il fanciullo che s'è scottato si
guarderà bene d'ora in poi dal fuoco per il solo fatto che l'immagine della scottatura si è associata a quella del
fuoco. Notiamo qui un ragionamento che procede per idee generali: in realtà, tutto si riduce al meccanismo
dell'associazione334.

2. DISCUSSIONE - L'esempio adotto da J. Stuart Mill non riesce a dar sostegno alla tesi associazionistica.
Anzitutto, esso è equivoco. Infatti, il ragionamento di cui si tratta è un caso speciale, nel quale la successione
immediata (fuocoscottatura) è al tempo stesso un rapporto tra causa ed effetto. Orbene, tutto il problema sta
nel sapere se la reazione del fanciullo o dell'adulto di fronte al fuoco è governata unicamente dall'intervento
delle immagini associate o dalla percezione di un rapporto causa1e. Il fanciullo, è vero, viene concludendo
dal particolare al particolare, e la prossimità del fuoco determina un riflesso che non ha niente a che vedere
con il ragionamento. Ma egli arriva presto a distinguere i rapporti di causalità dai rapporti di successione, e
precisamente a questo punto si dice che incomincia a ragionare (I, 75).
D'altra parte, la teoria di J. Stuart Mill non è tale da poter spiegare le altre forme del ragionamento, in cui
intervengono delle nozioni generali e processi logici irriducibili all'analogia ed all'associazione meccanica.
Anche nei ragionamenti fondati sull'analogia, questa serve così poco a determinare la validità
dell'argomentazione che bisogna sempre ricorrere ad una verificazione ulteriore. Quanto poi alle
associazioni, che, in realtà, si riducono a strutture, sperimentali o razionali, è compito precipuo del
ragionamento scientifico sottoporle alla critica, lungi dal subirle passivamente. Ragionare, nel senso logico
della parola, significa essenzialmente sottrarsi al determinismo dell'abitudine.

Art. II - La ragione
469 - Il ragionamento non è la ragione, poiché vi sono ragionamenti buoni e ragionamenti cattivi. Il
ragionamento non è regolare e valido se non in quanto sia conforme alle esigenze della ragione.
L'intelligenza stessa, in certo qual modo, può essere distinta dalla ragione, poiché le sue operazioni
dipendono da norme che hanno per essa valore di leggi universali ed assolute e che definiscono quel che si
chiama ragione. Tuttavia, la ragione non designa una facoltà distinta dall'intelligenza, ma soltanto un aspetto
dell'intelligenza, e precisamente ciò che, nell'intelligenza, fa sì che questa si eserciti secondo la sua legge
essenziale; che consiste nell'essere conforme all'essere. Solo in questo senso si può parlare, ed in maniera del
resto alquanto impropria, della ragione come facoltà dei princìpi primi 335.
Il problema della ragione è dunque essenzialmente quello dei princìpi primi, dei quali si tratta di sapere in
che cosa consistano e quale ne sia l'origine.

§ l - I princìpi direttivi della conoscenza

470 - L'analisi delle operazioni della mente indica che il pensiero si riferisce costantemente a due norme
supreme o princìpi primi: il principio d'identità e il principio di ragion d'essere. Abbiamo già visto, in Logica,
che la condizione prima ed universale della verità logica sta nel rispetto del principio d'identità o di non
contraddizione (quel che è è, una stessa cosa non può al tempo stesso e sotto il medesimo rapporto essere e
non essere). Tutte le regole della logica altro non sono che applicazioni o conseguenze di questa norma
universale, insieme legge dell' essere e del pensiero, poiché se l’assurdo è impensabile, ciò è anzitutto
dovuto al fatto che esso è impossibile.

334 Rignano, Psychologie du raisonnement, Parigi, 1920, ha ripreso la tesi empiristica di Hume e di Stuart Mill, senza
aggiungervi niente d'essenziale.
335 Gli Scolastici chiamavano ragione (ratio) ciò che i moderni chiamano intelligenza e intelligenza (intellectus
principiorum) ciò che i moderni chiamano ragione.
284
Quando si tratta non più semplicemente di definire delle essenze, ma di determinare le relazioni reciproche
degli esseri, interviene un altro principio, da Leibniz chiamato principio di ragion sufficiente. Infatti, i
rapporti degli esseri fra di loro non sono tutti, almeno per la nostra ragione, rapporti di diritto, nell'ambito
giurisdizionale del principio d'identità, ma rapporti di fatto, che noi non possiamo conoscere se non
attraverso il ragionamento fondato sull'esperienza e destinato a svelare le ragioni d'essere delle cose. In
questa investigazione noi siamo guidati dalla convinzione che tutto ha la sua ragion d'essere (o che nulla
esiste senza ragione): il che è poi la formula del principio di ragion d'essere. Quanto all'epiteto «sufficiente»
che troviamo nella formula di Leibniz, diremo che esso ha soprattutto valore logico e serve solo a
sottolineare, insieme, le esigenze ed i limiti del principio di ragione, poiché le ragioni d'essere stabilite dal
ragionamento devono bastare, senza alcuna aggiunta, a spiegare una cosa o un fenomeno.

A. IL PRINCIPIO D'IDENTITÀ

471 - 1. LA LEGGE FONDAMENTALE DELL'ESSERE - Se il pensiero si riconosce sottomesso


assolutamente alla necessità di ammettere che ciò che è è (principio d'identità) o, in forma negativa, che una
stessa cosa non può al tempo stesso e sotto il medesimo rapporto essere e non essere, essere tale e non
essere tale (principio di non contraddizione, chiamato anche principio di contraddizione), ciò si deve
innanzitutto ad una esigenza oggettiva. Legge del pensiero, il principio d'identità è anzitutto la legge
fondamentale dell' essere: ogni essere è quel che è. Questa è la ragione per cui ogni attività intellettuale si
svolge alla luce di questo principio, che assicura nel contempo la coerenza del pensiero e l'intelligibilità delle
essenze.

2. FORME DERIVATE DAL PRINCIPIO D'IDENTITÀ - Il principio d'identità origina immediatamente


princìpi derivati che partecipano della sua evidenza assoluta.

a) Principio del terzo escluso. Questo principio si enuncia così: non c'è medio termine, per un essere, fra
essere e non essere. Infatti, se vi fosse un terzo termine, esso consisterebbe, per questo essere, nell'essere e
non essere al tempo stesso: ciò che è assurdo.

b) Principio del terzo equivalente. Lo si esprime in questa forma: due cose identiche ad una terza
medesima sono identiche tra loro. In matematica questo principio assume quest'altra formulazione: due
quantità uguali ad una terza medesima sono uguali fra di loro 336.

B. IL PRINCIPIO DI RAGION D'ESSERE

472 - 1. L'INTELLIGIBILITÀ - La ricerca delle ragioni e delle cause è contemporanea al destarsi


dell'intelligenza, come ben dimostrano i «perché» e i «come» del fanciullo. Questa sollecitudine d'ottenere la
spiegazione è la forma stessa della ragione, che si definisce principalmente col ragionamento proprio e
soltanto in quanto essa è ricerca delle cause e dei princìpi. Questa ricerca è guidata dall'idea che tutto ha la
sua ragion d'essere, o, ancora, che solo l'essere spiega l'essere e lo rende intelligibile. In questo senso, il
principio di ragion d'essere è anche il principio dell'universale intelligibilità.
Ogni essere è suscettibile di una duplice intelligibilità, secondo che si voglia spiegare la sua esistenza o la
sua natura. Il primo aspetto, che riguarda la ragione per la quale l'essere esiste (attualmente o
potenzialmente) è quello dell'intelligibilità estrinseca. Il secondo, che riguarda la ragione per la quale
l'essere è quel che è o agisce come agisce, è quello dell'intelligibilità intrinseca. Donde le forme del principio
di ragione: principio di causalità, principio di finalità e principio di sostanza.

473 – 2. PRINCIPIO DI CAUSALITÀ - Lo si esprime così: tutto ciò che incomincia ad essere esiste in
virtù di un altro337; cioè deve avere la sua ragion d'essere in un altro che lo fa esistere. Questo principio è
suscettibile a sua volta di diverse applicazioni, i diversi tipi di causalità che la ragione discerne
nell'esperienza.

336 Esamineremo in Metafisica l'ordine ed il valore rispettivo di questi diversi principi.


337 Le formule correnti: «ogni effetto ha una causa» o «non si dà effetto senza causa» sono tautologiche. Poiché
l'effetto è «ciò che è prodotto da una causa», esse vengono quindi a significare: «Tutto ciò che è prodotto da una causa
ha una causa».
285
a) Causa agente. La causa efficiente o causa agente è quella che, con la propria azione, produce un dato
effetto: si pensi, per esempio, all'operaio che getta una tegola dall'alto del tetto o che, nel suo lavoro, lascia
involontariamente scivolare una tegola dall'alto del tetto.

b) Causa antecedente. La causa antecedente è la condizione o l'insieme delle condizioni da cui dipende
l'esistenza di un fenomeno: la caduta della tegola può essere spiegata dal suo stato d'equilibrio instabile e
dall'azione del vento violento che s'è levato. L'antecedente è chiamato causa soltanto in senso improprio. Si
sa che le scienze della natura si limitano alla determinazione dei rapporti fra antecedente e conseguente, cioè
che cercano di scoprire il fenomeno o l'insieme dei fenomeni (antecedente) che condiziona costantemente
l'apparizione o la variazione di un altro fenomeno o gruppo di fenomeni (conseguente) (I, 150). Così
concepita, la spiegazione causale non risponde più alla domanda «perché?», ma alla domanda «come?» , e
non offre che una intelligibilità funzionale.
Il principio di causalità, nelle scienze della natura, assume la forma del principio del determinismo: «nelle
stesse circostanze, i medesimi antecedenti sono seguiti dai medesimi conseguenti».

c) Ogni essere agisce secondo ciò che è. Questo principio è una forma derivata dal principio di causalità.
Esso dà la ragion d’essere, non più dell’effetto in quanto effetto, ma della sua natura e delle sue modalità.
Soltanto la natura della causa o degli antecedenti può spiegare la qualità dell'effetto o del fenomeno prodotti.
Una cosa qualsivoglia non produce una cosa qualsivoglia. In quanto la causa si eserciti senza ostacolo, si ha
sempre una proporzione fra essa e l'effetto. Tutta l'indagine intorno alle cause ed ai princìpi è fondata su
questo principio.

3. PRINCIPIO DI FINALITÀ

474 - a) La finalità soggettiva. Il fine, nel senso più generale della parola, è l'effetto voluto o prodotto
mediante un'attività intenzionale. L'architetto che costruisce una casa ha come fine della sua attività la casa
stessa ed eventualmente il profitto che egli ricaverà dalla sua attività. E ciò chiamiamo finalità soggettiva o
d'intenzione: essa presuppone o, come nell'uomo, un'intelligenza, capace di proporsi e di volere un effetto,
nonché di mettere in azione i mezzi adeguati all'effetto, oppure, come nell'animale, un'attività determinata a
produrre un effetto mediante intervento di una rappresentazione sensibile 338. In entrambi i casi, è l'effetto da
produrre che costituisce la ragion d'essere dell'attività e che la rende intelligibile. Di qui la formula del
principio di finalità: ogni agente agisce per un fine.

Si distinguono il fine dell'opera (finis operis), che è la cosa stessa da produrre: la casa, se si tratta
dell'architetto, e il fine dell'agente (finis operantis), che può essere diverso dal primo: l'architetto può aver di
mira sia il guadagno, sia la fama, sia semplicemente la soddisfazione di produrre un'opera bella. Il fine
dell'agente è il fine ultimo e si subordina l'opera considerandola alla stregua di mezzo.

b) La finalità oggettiva. Dalla finalità soggettiva o di intenzione si passa naturalmente alla finalità
oggettiva o di adattamento. Come infatti l'attività intenzionale dispone di mezzi che si subordinano gli uni
agli altri e che, insieme, sono in rapporto al fine da raggiungere, così ogni organizzazione o coordinamento
di elementi molteplici e diversi che compongano un complesso unificato non può avere la sua ragion di
essere se non in un’idea del complesso stesso. Infatti, gli elementi, presi isolatamente, sono indifferenti
all'insieme; ogni loro senso è un senso funzionale o strumentale che loro deriva dal tutto che compongono. Il
complesso è appunto la ragion d'essere sia della loro esistenza che della loro forma e delle loro operazioni (I,
170; II, 114-157).
Ciò non costringe affatto, contrariamente a quanto obietta Kant contro questa dottrina, a cercare intenzioni
coscienti nella natura. La natura, secondo l'espressione di Cuenot, è geometra e non artigiana. Ma non è men
certo che la realtà dei sistemi e dei sistemi di sistemi che l’esperienza ci rivela non può spiegarsi se non con
delle idee (o forme) immanenti a tali sistemi. Il mondo appare così come un pensiero cosmico o oggettivo 339.
Problema successivo sarà poi quello di cercare se questo pensiero cosmico possa spiegarsi a sua volta senza
un Pensiero supercosmico.

338 È chiaro che la parola intenzione è qui presa nel suo senso più lato, per designare una tendenza orientata verso un
termine definito (in-tendere: tendere verso).
339 Cfr. M. Blondel, La Pensée, (La genése de la pensée et les paliers de son ascension spontanée), Parigi, 1934, t. l, p.
3 sg.
286

Si discute per sapere se sia la finalità oggettiva a derivare dalla finalità soggettiva, o viceversa. Osserviamo
che si tratta di due aspetti della medesima finalità. Chi dice finalità dice intenzione (nel senso che abbiamo
più sopra precisato). Va solo notato che nella finalità soggettiva si tratta di un'intenzione che mira ad un
effetto esteriore all'agente, mentre nella finalità oggettiva si tratta di un'intenzione in vista di un effetto
immanente all'agente e tale da organizzare questo dal di dentro. Precisamente a ciò abbiamo dato il nome di
forma in Cosmologia (II, 88). Sotto questo aspetto, non v'è proprio scandalo nel passare dalla finalità
soggettiva a quella oggettiva; e questo passaggio è tanto più plausibile in quanto noi prendiamo
necessariamente avvio dalla coscienza della nostra stessa attività intenzionale, disponendo i mezzi in vista di
un fine. E ciò spiega come il fanciullo, né più né meno del «primitivo», sia portato a vedere ovunque
intenzioni soggettive e manifesti una spiccata tendenza animistica. Il progresso del pensiero non porta del
resto a sostituire il meccanismo alla finalità, ma a concepire la finalità negli esseri della natura per analogia
con la finalità della nostra attività ed il meccanismo per analogia con i mezzi di cui ci serviamo per il
raggiungimento dei nostri fini.

4. IL PRINCIPIO DI SOSTANZA

475 - a) L'esperienza del mutamento. La nostra esperienza delle cose e di noi stessi ci impone
costantemente la distinzione del permanente e dell'instabile, dell'apparente e del reale, dell'interno e
dell'esterno, dell'essenziale e dell'accidentale. Infatti, gli enti sono in perpetuo mutamento, qualitativo e
quantitativo, e rimangono tuttavia quel che sono. Mutare, per essi, è propriamente divenire altro e non un
altro. Noi siamo immediatamente portati da questa esperienza ad attribuire il mutamento ad un soggetto,
perché il cambiamento non è intelligibile se non con la permanenza di un soggetto. Infatti, senza soggetto
permanente, ogni mutamento sarebbe annichilamento dell'ente che muta e creazione di un nuovo ente (II,
30). Questa evidenza è espressa dalla distinzione della sostanza (o soggetto permanente) e delle proprietà,
qualità o quantità (accidenti) che questo soggetto può ricevere o perdere. Il principio di sostanza altro non fa,
nelle sue diverse forme, che esprimere questa evidenza.

b) La triplice causalità della sostanza. Nella sua forma più generale, il principio di sostanza si enuncia
così: ogni mutamento presuppone un soggetto permanente. La considerazione dei rapporti del soggetto
permanente con le proprietà o modalità variabili che esso può ricevere, offre tre applicazioni del principio di
sostanza. Infatti, la sostanza appare ad un tempo come soggetto degli accidenti, vale a dire ciò in cui gli
accidenti sono ricevuti o ineriscono, come fine degli accidenti, in quanto la sostanza o soggetto ha bisogno
degli accidenti per esercitare l'attività corrispondente alla sua stessa natura, infine come principio degli
accidenti, almeno degli accidenti propri o proprietà (I, 42), in quanto queste ultime risultano naturalmente e
necessariamente da quel che essa è.

c) Sostanza, ragion d'essere ed identità. Il principio di sostanza è dunque una forma del principio di ragion
d'essere ed enuncia le condizioni di intelligibilità intrinseche dell'essere. Sotto un altro aspetto, esso è in
relazione pure col principio d'identità, in quanto afferma l'unità e l'identità dell'essere sotto le molteplici e
variabili determinazioni onde questo può rivestirsi.

C. CARATTERI DEI PRINCÌPI PRIMI

476 - I princìpi primi sono evidenti, universali e necessari.

1. EVIDENZA DEI PRINCÌPI PRIMI - Per giustificare i princìpi primi della ragione non si esige alcuna
dimostrazione. Essi si impongono alla mente per loro propria chiarezza, dal momento che ne sono dati i
termini. Ecco perché la dimostrazione è non soltanto inutile, ma addirittura impossibile. Non si dimostra
l'evidenza, poiché questa nulla presuppone che sia più chiaro e più certo che essa stessa.

2. NECESSITÀ DEI PRINCÌPI PRIMI - I princìpi primi sono necessari oggettivamente, in quanto si
presentano come leggi il cui contrario è assolutamente impossibile, - e soggettivamente, in quanto essi sono
implicitamente inerenti ad ogni pensiero e la loro negazione porterebbe alla pura assurdità.
287
3. UNIVERSALITÀ DEI PRINCÌPI PRIMI - Per questo stesso fatto, essi sono universali, sia
oggettivamente, in quanto essi costituiscono le leggi di tutti gli enti, reali o possibili, sia soggettivamente, in
quanto appartengono a tutte le intelligenze, per lo meno sotto forma di un esercizio naturale e spontaneo.

§ 2 - Origine dei princìpi primi

A. NOZIONI E PRINCÌPI

477 - 1. FORMA DEL PROBLEMA - Il problema dell'origine dei princìpi primi è soprattutto un problema
critico, poiché è in causa il valore della ragione. Tuttavia, come tutto ciò che attiene la Critica, esso ha un
aspetto psicologico. E precisamente questo aspetto sarà ora oggetto della nostra considerazione. Sotto questo
punto di vista, tutto si riduce alla ricerca sul come si acquisiscano le nozioni universali d'identità, di causa, di
fine e di sostanza, che danno i termini dei princìpi. Questi ultimi, infatti, non sono, psicologicamente, distinti
da tali nozioni, poiché attraverso un medesimo movimento della mente le nozioni universali d'identità, di
causa, di fine e di sostanza sono formate dalla ragione ed i princìpi primi sono, se non esplicitamente
formulati, quanto meno esercitati dalla ragione. Ed effettivamente, come si vedrà, il mettere in causa i
princìpi significa sempre mettere in causa le nozioni che li costituiscono.

Per J. Lachelier (Le fondement de l'induction, p. 37, 2a ed. Parigi, 1896), «non sono possibili che tre
maniere per spiegarci i princìpi, perché non ci sono, del pari, che tre maniere di concepire la realtà e l'atto col
quale la nostra mente entra in commercio con essa. Si può anzitutto ammettere, con D. Hume e S. Mill, che
ogni realtà è fenomeno e che ogni conoscenza è, in ultima analisi, una sensazione: i princìpi, se si possono
tuttavia chiamare in causa in questa ipotesi, non saranno allora che i risultati più generali dell'esperienza
universale. Si può ancora supporre, con la scuola scozzese e con Cousin, che i fenomeni non siano che la
manifestazione di un mondo d'entità inaccessibili ai nostri sensi; e in questo caso, la principale fonte delle
nostre conoscenze deve essere una sorta d'intuizione intellettuale, che ci svela ad un tempo la natura di
queste entità e l'azione che esse esercitano sul mondo sensibile. Ma c'è una terza ipotesi, introdotta da Kant
nella filosofia, per cui si pretende che, quale che possa essere il fondamento misterioso sul quale si basano i
fenomeni, l'ordine secondo il quale essi si succedono è determinato esclusivamente dalle esigenze del nostro
proprio pensiero».
Ebbene, c'è in realtà una quarta maniera onde si possano spiegare i princìpi: una maniera completamente
differente, sia da quella proposta dall'empirismo associazionistico, sia da quella propria del misticismo degli
Scozzesi, sia da quella dell'idealismo trascendentale di Kant. Essa così si sintetizza: i princìpi sono
conosciuti intuitivamente nelle nozioni universali di causa, di fine, di sostanza, astratte dalla esperienza
sensibile. Né si può dire davvero che questa sia l'ipotesi degli Scozzesi, poiché le nozioni universali non sono
concepite come componenti un «mondo d'entità» esteriore o superiore al sensibile, ma come presenti
nell'esperienza sensibile stessa, donde sono astratte dall'intelligenza.

478 - 2. L'INTERVENTO DELL'ASTRAZIONE - La questione dell'origine delle nozioni d'identità, di


causa, di fine, di sostanza, non è che un caso particolare del problema dell'origine e della formazione delle
idee generali. Queste nozioni, come tutte le altre, sono astratte dall'esperienza, esterna ed interna, che
continuamente ci impone fatti singoli nei quali l'intelligenza coglie, secondo la sua peculiare funzione, delle
essenze intelligibili (416).

a) L'identità. L'esperienza dell'identico e del medesimo è la più comune di tutte: una cosa non è l'altra, ogni
cosa è quel che è ed è riconosciuta solo in quanto essa rimane identica a se stessa. Il fanciullo formula senza
posa dei giudizi che implicano manifestamente questa nozione dell'identico. Nella sua forma astratta ed
universale altro non è che l'elaborazione dell'esperienza sensibile.

b) La causa. Già abbiamo visto quale uso faccia il fanciullo della nozione di causa, a partire dall'idea di
causa agente, che è quella che s'impone dapprima alla sua esperienza. Il ricorso alla causalità efficiente
sembra addirittura esagerato nel fanciullo, che spontaneamente e naturalmente attribuisce a cause agenti tutto
ciò che accade intorno a lui. Ogni nostra esperienza si trova ad essere, in realtà, come saturata di fatti
concreti di causalità. Noi ci conosciamo, con una evidenza immediata, causa degli atti che produciamo. Il
dire: «ho fatto questo o quello» è già esercitare nella maniera più chiara la nozione di causalità. L'esperienza
esterna, a sua volta, non fa che offrirci rapporti fra causa ed effetto e una stragrande parte della nostra
attività pratica consiste nel cercare le cause degli avvenimenti che ci riguardano. La nozione universale di
288
causa, nella sua forma filosofica, si trova implicata in tutte queste esperienze e questi comportamenti, di cui
essa non fa che enunciare il senso più generale.

479 - c) Il fine. L'esperienza dell'intenzione ci è poi così familiare e torna così ovvia, che il progresso del
pensiero sta piuttosto nel limitarne le applicazioni che nel rafforzarla. Il fanciullo cerca ovunque delle
intenzioni: le cose per lui hanno un senso solo in quanto e per quanto gli si possa spiegare perché, vale a dire
a qual fine le cose sono fatte o fatte così. Questa nozione fondamentale potrà in seguito assumere aspetti più
complessi; ma continuerà ad imporsi al pensiero, non solo nella forma dell'intenzionalità cosciente e
volontaria, ma anche, e persino nel sapere scientifico, nella forma delle esperienze d'ordine e
d'organizzazione, che le cose della natura ci offrono. La finalità, prima d'essere una nozione universale, è
appunto, come osservava Claude Bernard, un dato sperimentale.
d) La sostanza. Abbiamo più sopra dimostrato come la nozione di sostanza sia imposta dall'esperienza del
mutamento. Il suo punto di partenza, nel campo sensibile, consiste nel cogliere il permanente. Noi mutiamo
incessantemente, e tuttavia rimaniamo sempre lo stesso soggetto. Le cose si trasformano qualitativamente e
quantitativamente, ma restano «le stesse». Per quanto complesso appaia il concetto filosofico di sostanza,
esso affonda evidentemente le sue radici nell'esperienza più comune e più concreta. Tutte le nostre azioni
pratiche sono tributarie di questa esperienza elementare che ci fa distinguere ovunque il soggetto che perdura
dalle modificazioni accidentali che possono accompagnarlo.

B. LA FORMAZIONE DEI PRINCÌPI

480 - 1. IL PROBLEMA, DAL PUNTO DI VISTA NOMINALISTICO - Kant, riassumendo tutta la


tradizione empiristica e nominalistica, propone questo problema nella seguente forma: come spiegarci
attraverso l'esperienza, che è singolare e contingente, princìpi che sono universali e necessari? In altri
termini, come spiegare e legittimare il passaggio dal fatto (esperienza sensibile) al diritto, o teoria (leggi
universali assolute)? Su questo punto, le teorie abbondano. Sono le stesse che abbiamo incontrato a proposito
delle idee generali (404-405, 413, 427-433), poiché, come abbiamo già chiarito, il problema dei princìpi
non è che un aspetto di quello delle idee 340. Chi nega la realtà mentale delle nozioni universali o almeno la
loro origine sperimentale deve, per questo fatto stesso, contestare il valore ontologico dei princìpi. Ma
simultaneamente viene ad esser posto il problema psicologico della loro realtà soggettiva, che non può essere
contestata, e che bisogna spiegare.

481 - 2. IL VALORE aNTOLOGICO DEI PRINCÌPI

a) L'implicazione dei princìpi nelle nozioni. I princìpi, come i termini che li compongono, si spiegano ad un
tempo con l'esperienza e con la ragione. Infatti, abbiamo visto che i loro termini (nozioni d'identità, di causa,
di fine, di sostanza) sono astratti dall'esperienza. Ebbene, questi termini, per il fatto stesso che sono astratti,
implicano tutti i rapporti formulati dai princìpi. La nozione di «ciò che è identico a se stesso» implica
l'identità di ogni cosa con se stessa: e questa è la formula del principio di identità. La nozione di «ciò per cui
una cosa incomincia ad esistere» (causa) implica che ciò che incomincia ad esistere dipende da altro, diverso
da sé (principio di causalità). La nozione di «ciò in vista di cui una cosa è o agisce (fine) implica che ciò che
è o agisce, agisce o è in vista di qualche cosa (principio di finalità). Infine la nozione di «ciò che è soggetto
del mutamento» (sostanza) implica che il mutamento ha un soggetto (principio di sostanza).

b) La spiegazione dei princìpi. Il passaggio dalle nozioni ai princìpi si spiega dunque come un passaggio
dall'implicito all'esplicito, poiché i princìpi sono materialmente contenuti nelle nozioni universali. Alla
ragione si attribuisce questa spiegazione. Bisogna tuttavia ben intendere come qui la sua operazione non sia
realmente distinta da quella che astrae dall'esperienza le nozioni universali. La ragione vede i princìpi nelle
nozioni e li vede come un'esigenza dell'intelligenza di queste nozioni; e siccome queste nozioni sono astratte
dall'essere reale ed oggettivo, la ragione conosce immediatamente i princìpi come leggi dell'essere reale ed
oggettivo. È pur vero che i princìpi, come le nozioni, possono divenire oggetto di riflessione filosofica, e,
come tali, subire un'elaborazione più o meno estesa, intesa a conferire loro la massima precisione formale
possibile. Princìpi e nozioni sono però anzitutto esercitati e vissuti con una spontaneità ed una necessità che
costituisce il segno più chiaro della loro evidenza assoluta.

340 Ecco perché non è il caso di ritornare in questo capitolo su tali teorie. Il loro punto di vista è il medesimo sia
quanto alle idee che quanto ai princìpi.
289

482 - c) Necessità ed universalità dei princìpi. Da questo punto di vista, la necessità e l'universalità dei
princìpi non hanno più nulla di misterioso. Esse, infatti, non fanno che tradurre le esigenze intelligibili delle
nozioni universali, la necessità per esse di essere ciò che sono e d'implicare tutto ciò che implicano. Queste
nozioni non avrebbero più senso e sarebbero assurde, cioè contraddittorie in se stesse, se i princìpi non
fossero necessariamente veri. E siccome queste nozioni provengono dall'esperienza oggettiva, l'universo
dell'esperienza sarebbe esso stesso inintelligibile ed assurdo, se i princìpi non fossero necessariamente veri.
Tutto ciò viene a significare che la necessità soggettiva dei princìpi non è che l'effetto della loro necessità
oggettiva.

Queste asserzioni, del resto, sono verificabili. Si può dimostrare, per ciascuna nozione, che la negazione
del principio corrispondente porta all'assurdità vera e propria. Negare il principio di causalità significa infatti
negare il principio di identità, giacché se una cosa può incominciare ad essere da sé, ne consegue che essa
può essere prima ancora di essere, vale a dire essere e non essere. Negare il principio di finalità significa che
l'ordine deriva dal caso. Negare il principio di sostanza significa che ciò che muta non muta, giacché se il
mutamento può esistere senza soggetto permanente, è l'essere intero che al tempo stesso e sotto il medesimo
rapporto diviene altro pur restando lo stesso. Quanto al principio d'identità, esso esprime la legge più
fondamentale dell'essere, che cioè se una cosa è, è: evidenza prima ed assoluta, che garantisce tutte le altre.
Si vede così che se si negano i principi, le nozioni e di conseguenza le esperienze d'identità, di causalità, di
finalità, di sostanzialità non hanno più né senso né realtà. L'assurdo diventa la legge dell'universo.

483 - d) Carattere analitico dei princìpi. Non si fa che riassumere quanto precede affermando che i
princìpi sono analitici, cioè che possono verificarsi per semplice analisi dell'uno o dell'altro termine,
indipendentemente dall'esperienza (I, 59). Tuttavia, ci è dato precisare questa asserzione. Anzitutto, per
quanto concerne il carattere analitico dei princìpi. Soltanto il principio d'identità, per definizione stessa, si
esprime in una formula in cui l'attributo è identico al soggetto: «l'essere è l'essere», «ogni essere è ciò che è».
Gli altri princìpi sono ugualmente analitici, in quanto la connessione del predicato e del soggetto è necessaria
date le esigenze dell'oggetto (causa, fine, sostanza); solo che queste esigenze oggettive non sono più definite
per mezzo dell'identità, ma di proprietà. Così, nel principio di causalità, la nozione di «essere prodotto da un
altro» non è compresa nella nozione di «ciò che incomincia ad essere», ma ne risulta immediatamente a
titolo di proprietà. Allo stesso modo, nel principio di finalità, la nozione di fine o d'intenzione è connessa a
titolo di proprietà alla nozione di agente ed alla nozione d'ordine o di organizzazione. Infine, nel principio di
sostanza, la nozione di soggetto permanente non è compresa in quella di mutamento, ma ne risulta
immediatamente a titolo di proprietà essenziale di tutto ciò che muta.

Kant pretende che i princìpi primi della ragione (causalità, finalità, sostanzialità) siano sintetici a priori:
sintetici, perché il predicato non è compreso nella nozione del soggetto, a priori, perché sono necessari ed
universali, e sotto questo aspetto indipendenti dall'esperienza. Sennonché abbiamo visto or ora che i princìpi,
anziché sintetici, sono analitici. L'errore di Kant sta nel non conoscere altri giudizi analitici che quelli in cui
il predicato è contenuto nella nozione del soggetto (praedicatio per se primo modo) (I, 45), mentre bisogna
considerare parimenti analitici i giudizi in cui è il soggetto ad essere parte integrante del predicato
(praedicatio per se secundo modo), non già a titolo di parte intrinseca, ma a titolo di materia nella quale il
predicato è ricevuto per la sua natura di proprietà essenziale. Questo è appunto il senso dell'osservazione
d'Aristotele, secondo cui naso integra camuso, come numero integra pari e dispari, vale a dire che il soggetto
vero e proprio è necessariamente legato alle sue proprietà essenziali. È esattamente il caso dei princìpi di
causalità, di finalità e di sostanza, che come tali sono analitici ed immediatamente evidenti alla ragione.

Analitici, i princìpi sono di conseguenza a priori, cioè evidenti in sé, indipendentemente dall'esperienza.
Ciò non significa che essi non abbiano nulla a che vedere con l'esperienza, poiché da questa procedono e
questa essi governano universalmente. Ma li si dice a priori in quanto essi sono colti immediatamente nelle
nozioni d'identità, di causa, di fine, di sostanza, come leggi universali dell'essere. Il loro carattere a priori
significa dunque soltanto l'immediatezza e la necessità della loro percezione o del loro esercizio.

È chiaro pertanto che cosa si debba intendere per innatezza dei princìpi. Quanto alla loro specificazione,
essi non sono innati, poiché dipendono dalle nozioni universali, che sono astratte dall'esperienza. Ma quanto
al loro esercizio, si possono dire innati nel senso che sono contemporanei al destarsi della vita intellettuale, o,
ancor più precisamente, nel senso che sono implicati nella capacità d'astrarre dell'intelligenza.
290
291

PARTE SECONDA

L'ATTIVITA' VOLONTARIA

484 - Tutti i nostri studi precedenti avevano per oggetto le diverse forme dell'attività psicologica: sia
quando si trattava di conoscenza sensibile o intellettuale, oppure di istinti o di inclinazioni, avevamo sempre
a che fare con manifestazioni di dinamismo. Però la parola «attività» può essere intesa in senso più limitato
per designare i movimenti esterni oppure l'insieme dei movimenti esterni resi necessari dalla vita di
relazione. Questi movimenti vengono eseguiti per mezzo di meccanismi neuro-muscolari, ma sono
comandati dall'interno, cioè da una potenza che li tiene in un certo modo a sua disposizione e li utilizza per i
fini propri dell'essere vivente.
Mentre nell'animale questi movimenti esterni sono tutti quanti automatici, cioè risultanti immediatamente
dalle eccitazioni, nell'uomo è automatica solo una parte considerevole di essi. Però l'uomo produce anche
altri movimenti, che sono chiamati volontari per far capire che non dipendono immediatamente dalle
rappresentazioni, ma da una specie di comando di colui che li compie. Siccome il dinamismo dell'essere
vivente sembra culminare in questa forma di attività, cosciente e padrona di sé, per questo l'attività
volontaria viene considerata come l'attività. per eccellenza. Questa attività, chiamata anche appetito
razionale, in quanto si esercita alle dipendenze della ragione, noi cominciamo ora a studiare nel suo
principio, che è la volontà, e nella sua proprietà essenziale, che è la libertà.

CAPITOLO PRIMO

LA VOLONTA'

SOMMARIO341

Art. I - I MOVIMENTI VOLONTARI. Elementi del movimento volontario. Movimenti indeliberati - Analisi
del movimento volontario Natura dell' attività volontaria - Esperienze - Il problema delle fasi del
volere - Le fasi dell'azione volontaria - Discussione.

Art. II - LE TEORIE SULLA VOLONTÀ - Teorie sensistiche - Volontà e desiderio - Discussione - Volontà e
affettività - L'attività impulsiva - Discussione - Volontà e campo psichico - Teoria fisiologica - La
tesi dell'Associazionismo - Discussione Teorie intellettualistiche - La volontà ridotta all'intelligenza
Discussione - Teoria sociologica - Discussione.

Art. III - NATURA DELLA VOLONTÀ. La volontà come espressione della personalità - La volontà come
sintesi - La volontà, espressione dell'unità personale - La volontà come appetito razionale - Il bene
conosciuto, oggetto della volontà - Forma del conflitto interiore - Determinazione e indeterminazione
La volizione concreta.

Art. IV - DEPOTENZIAMENTI DELL' ATTIVITÀ VOLONTARIA. L'automatismo normale - Le abitudini -


La distrazione - L'automatismo anormale - Patologia mentale - Patologia della volontà.

341 Cfr. S. Tommaso. I.a, q. 82-83; 1-2, q. 6-17. - Fonsegrive, Essai sur le libre arbitre, Parigi, 1896. - Michotte e
Prum, Etudes expérimentales sur le choix volontaire, «Archives de Psychologie», t. X, p. 113-320. - Paulhan, La
volonté, Parigi, 1910. - Ribot, Les maladies de la volonté, Parigi, 1884. P. Janet, L'automatisme psychologique, Parigi,
1889; Obsessions et psychasténies, Parigi, 1903. - Fouillée, La liberté et le déterminisme. - Segond, Traité de
Psychologie, c. VII, Parigi, 1930. - Bergson, Les données immédiates de la conscience. - W. James, The Principles of
Psychology, 2 voll. Nuova York. 1890; tr. it. Milano, 1901. - Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. VI, p. 317 sg.
(Ch. Blondel). - L. Lavelle, De l'Acte, Parigi, 1938, c. VII, XI-XII, XXV. M. Blondel, L'Action, Parigi, 1893 (n. ed.
1950); tr. it., con passi della n. ed., Torino, 1950.
292

Art. I - I movimenti volontari


485 - Anziché iniziare con una definizione astratta della volontà, cercheremo di afferrarne le caratteristiche
nei movimenti riconosciuti come volontari, cioè sia in questi movimenti stessi, sia negli antecedenti che essi
implicano nell'ambito della coscienza e che possono essere messi in evidenza con sufficiente precisione, per
mezzo di adeguati esperimenti.

§ l - Elementi del movimento volontario

1. I MOVIMENTI INDELIBERATI - Abbiamo studiato, sotto il nome di reazioni, diverse specie di


movimenti: l'irritabilità cellulare, per la quale la cellula animale reagisce, in un modo suo proprio, all'azione
degli stimoli esterni producendo fenomeni luminosi, termici, elettrici, anatomici, motori (II, 109-113), il
riflesso, o fenomeno nervoso in forza del quale un'eccitazione periferica o interna, origina automaticamente,
per l'azione dei legami nervosi prestabiliti, una reazione di un determinato genere (secrezione, contrazione
muscolare ecc.). (57 - 60), il movimento istintivo, nel quale la reazione o la serie di reazioni da produrre
vengono eseguite automaticamente dietro il richiamo di un'eccitazione sensibile o di un'immagine (270), i
movimenti abituali che scaturiscono fisiologicamente dal fenomeno del «transfert» associativo (riflesso
condizionato) e che funzionano psicologicamente come gli istinti (71). Citiamo infine i movimenti che
scaturiscono dall'automatismo psicologico, normale o anormale, che studieremo in seguito.
Tutti questi movimenti hanno la caratteristica di essere indeliberati, cioè automatici. I movimenti volontari
si distinguono dai suddetti non, come si dice talvolta, in quanto procedono da un fenomeno psicologico,
perché ciò è comune sia ad essi che all'abitudine e all'istinto, ma in quanto sono deliberati, cioè anticipati e
scelti coscientemente. L'analisi del movimento volontario ci aiuterà ad essere più esatti.

486 - 2. ANALISI DEL MOVIMENTO VOLONTARIO - Il movimento volontario è assai più complesso
di quanto sembri a prima vista. Analizzandolo, noi vi scopriamo i seguenti elementi:

a) Meccanismi neuro-muscolari - Ogni movimento volontario si compie per mezzo di meccanismi riflessi,
istintivi e abituali, che noi coordiniamo in modo più o meno perfetto in considerazione del risultato che si
vuol conseguire. Se, sotto il punto di vista del funzionamento, questi meccanismi sono molto semplici, essi
risultano invece straordinariamente complessi quanto agli elementi neuromuscolari che mettono in azione: si
pensi, per esempio, a ciò che rappresenta, sotto questo aspetto, l'atto di suonare il pianoforte o di scrivere a
macchina. Questi meccanismi neuro-muscolari godono di una certa indipendenza che spiega il loro
funzionamento automatico sotto la spinta di una determinata situazione o di un fine da raggiungere. Una
volta messi in moto, essi funzionano come dei riflessi, e, perciò in modo pressappoco inconscio.
La volontà non interviene dunque direttamente in questi meccanismi. La sua funzione in rapporto ad essi
consiste nel metterli in moto, utilizzando a tale scopo la motricità specifica delle immagini, e nell'adattare i
movimenti allo scopo perseguito, nell'inibire le immagini estranee che possono sovrapporsi dannosamente ai
meccanismi coi quali viene eseguito il movimento volontario.

b) La rappresentazione - Ogni attività volontaria prende l'avvio da una rappresentazione che può essere una
percezione, un'immagine o un'idea e che ha l'effetto di presentare all'appetito sensibile o intellettuale un
oggetto da desiderare o da evitare.

c) L'appetizione - Ogni movimento volontario include, più o meno accentuato ma sempre presente, un
certo tono affettivo che deriva dal fatto che la rappresentazione ha eccitato un desiderio o una tendenza. Di
per sé, la rappresentazione non è motrice. Quando lo è, ciò avviene attraverso la tendenza che essa mette in
atto. È così che si deve intendere quello che Fouillèe ha chiamato carattere motorio delle idee ( azione ideo-
motrice: 197). Un'idea che non destasse né desiderio né tendenza, non avrebbe nessun potere motorio; essa
sarebbe una rappresentazione e niente altro. Questo elemento affettivo-motorio costituisce la cosiddetta
appetizione.

d) Il giudizio pratico - La rappresentazione, l'appetizione ed i meccanismi neuro-muscolari non bastano a


definire il movimento volontario, mentre bastano a spiegare tutti i movimenti che derivano dall'automatismo
psicologico. In questi ultimi, appena sono presenti questi elementi, il moto o l'atto si producono sempre.
293
Viceversa, nell'attività volontaria, non c'è passaggio automatico dall'appetizione all'atto. Quest'ultimo
dipende da un processo intermedio che sembra caratterizzare l'atto volontario e che sembra consistere in un
giudizio pratico, in un giudizio cioè che definisce la condotta da tenere.

§ 2 - Natura dell'attività volontaria

487 - Gli psicologi hanno introdotto diversi esperimenti allo scopo di precisare la natura e la funzione
degli elementi psicologici che ci vengono fatti conoscere dall'analisi. Noi riassumiamo qui brevemente i
risultati di questi esperimenti e le conclusioni a cui questi conducono.

A. ESPERIMENTI RELATIVI ALL'ATTIVITÀ VOLONTARIA.

1. ESPERIMENTI DI ACH - Questi esperimenti mirano a scoprire come venga determinato il corso delle
immagini nell'attività volontaria. La tecnica degli esperimenti includeva diversi tipi di prove, e
particolarmente le seguenti: il soggetto, a cui viene presentato un foglio di carta su cui sono scritti due
numeri, deve scegliere fra l'addizionare, sottrarre, dividere quei due numeri oppure non eseguire nessuna
operazione. Subito dopo, il soggetto rende conto di ciò che si è verificato in lui. Altre prove erano destinate a
distinguere gli atti comandati da un giudizio di tipo «bisogna» da quelli comandati da un giudizio di tipo
«devo»342.
I referti di ACH portano ad ammettere che nella coscienza esiste una tendenza determinante, ma che questa
tendenza è distinta dalle immagini delle quali dirige il corso. In altre parole, ciò che comanda il movimento e
ne regola il corso, è l'attitudine mentale che è stata adottata inizialmente dal soggetto343.

2. ESPERIMENTI DI DÜRR - Gli esperimenti di Dürr avevano per oggetto principale l'attenzione. Essi lo
portarono naturalmente a studiare l'atto volontario, di cui, come si sa, l'attenzione è una delle forme
caratteristiche (353). l soggetti dovevano scegliere fra diverse attività possibili, oppure eseguire un ordine
dato.
Dürr riferisce i risultati seguenti: L'atto volontario non è in nessun modo costituito dai motivi che
provocano il piacere o la pena. L'atto volontario non include necessariamente uno stato di tensione speciale.
Un'immagine o un'idea provocano la reazione, e il soggetto si sente semplice spettatore. Gli atti riconosciuti
come volontari sembrano fondati su una produzione o riproduzione di immagini o di idee, senza che
intervenga la coscienza dell'io o un sentimento344.

488 - 3. ESPERIMENTI DI MICHOTTE E PRUM - Michotte e Prum si sono sforzati di determinare gli
antecedenti immediati della scelta volontaria. La tecnica dell'esperimento è organizzata in modo da fare
intervenire la produzione dell'atto volontario esattamente fra il momento dell'eccitazione e quello della
risposta-reazione. Così il soggetto, a cui venivano presentati due numeri, doveva scegliere fra due operazioni
da fare con quei numeri stessi e gli veniva raccomandato di fare la sua scelta basandosi su motivi seri. Ma
siccome, dopo che era stata fatta la scelta, l'esecuzione dell'operazione rischiava di far dimenticare o di
alterare il ricordo degli stati di coscienza che avevano accompagnato la scelta, Michotte e Prum soppressero
l'esecuzione stessa. Il soggetto doveva limitarsi a indicare che la scelta era fatta.
I numerosi referti fissati dagli sperimentatori danno i risultati seguenti 345: Quando si tratta di un'alternativa,
si tende ad esaminare per prima la risoluzione che ha maggior valore di spontaneità. «Quando i valori
opposti sono ambedue negativi, il loro valore relativo, sotto il punto di vista della determinazione, non è
equivalente a un valore positivo». - «La coscienza dell'azione è caratteristica del fenomeno volontario; la
coscienza dell'io vi si trova inclusa, anche se non vi è espressa formalmente 346. La coscienza dell'azione
scompare sotto l'influsso dell'esercizio». - «La scelta volontaria riveste la forma del consenso quando

342 Cfr. Michotte e Prum, Etudes expérimentales sur le choix volontaire, in «Archives de Psychologie», t. X, p. 300-
315.
343 Ach propone in particolare la «legge di determinazione speciale»: «è più difficile realizzare un'attività generale che
un'attività speciale», oppure, in altre parole: «la realizzazione di quel che vogliamo è tanto più rapida e sicura, quanto
più è specializzato l'orientamento della nostra volontà».
344 Michotte e Prum, op.cit., p. 123 sg.
345 Michotte e Prum, op. cit., pp. 113-320.
346 Questa conclusione si spiega in parte con le condizioni stesse dell'esperienza, perché il soggetto viene avvertito di
dover porre attenzione al proprio stato psicologico e di doverne fare la descrizione.
294
l'alternativa favorita nell'esame dei motivi (o il valore che vi si è annesso) riappare nella coscienza al
momento della scelta». «Quando mancano queste condizioni, la scelta viene fatta sotto forma di decisione.
La decisione può essere vivida oppure fredda. Le decisioni vivide sono accompagnate da accentuate
contrazioni muscolari, e sono condizionate dalla presenza di una forte tensione muscolare durante l'esame
critico dei motivi».

B. ELEMENTI PSICOLOGICI DELL'ATTIVITÀ VOLONTARIA.

489 - I risultati ottenuti dai diversi sperimentatori possono condurre alle seguenti conclusioni, che
confermano e precisano, in certi aspetti, quelle dell'analisi psicologica.

Questi risultati meritano più credito nel loro insieme, che presi separatamente. Difatti, è difficile capire
come alcuni esperimenti, fatti su sillabe o su numeri, possano condurre a risultati di grande precisione in
materia di attività volontaria. Senza dubbio, Michotte e Prum chiedevano ai loro soggetti (che erano a piena
conoscenza di quelle ricerche di laboratorio) di operare soltanto «per motivi seri». Ma anche ammettendo
che i motivi di addizionare, anziché di sottrarre o di dividere i due numeri presentati dal cambia-carte fossero
«seri», quale relazione esiste fra questo genere di attività e, per esempio, l'atto di scegliere la morte, anziché
l'apostasia o il disonore? Queste osservazioni non tendono a eliminare l'interesse per le ricerche sperimentali,
ma solo a far notare che esse non possono aver che un valore globale e generale. Non ci si meraviglierà
quindi se le conclusioni a cui portano quelle ricerche, si limitano soltanto a chiarificare l'èsperienza
psicologica più comune.

1. IL COMPITO DELLA RAPPRESENTAZIONE - L'attività volontaria è provocata (ma non costituita)


da rappresentazioni preliminari (immagini o idee) senza le quali non sarebbe né concepibile né possibile
alcuna realizzazione di tendenze. Ciò dimostra assai bene, in forma negativa, il caso degli psicastenici e degli
abulici, i quali, mancando di una sufficiente attività rappresentativa, restano inerti ogni volta che si trovano
dinanzi a qualcosa di nuovo347. Queste rappresentazioni sorgono, in rapporto alle tendenze da esse attuate, da
stati affettivi più o meno forti (tensione psicologica). Ma l'attività volontaria si dimostra distinta da questa
tensione. Inoltre, le riprove di Ach e di Dürr sembrano confermare che il volontario come tale non è
sensibile.

490 - 2. IL GIUDIZIO - Le reazioni motrici non sono automatiche, cioè fra queste reazioni e l'eccitazione
(o rappresentazione) si inserisce un giudizio di scelta. Ciò risulta da tutte le esperienze precedenti, le quali
stabiliscono che lo stato affettivo indeliberato, risultante dalla presentazione, sotto forma di immagini o di
idee, di un risultato da ottenere (o da evitare, non costituisce l'atto volontario. Ach, Dürr e Michotte sono
ugualmente precisi su questo punto: il soggetto si sente semplicemente spettatore (cioè passivo) di fronte alla
reazione (affettivo-motrice) che è provocata da un'immagine o da un'idea. L'attività volontaria è
caratterizzata invece da un giudizio di scelta fra più risoluzioni possibili (alternative).
Tale giudizio è un giudizio pratico, ossia un giudizio che esprime un comando e che determina il
movimento da eseguire o l'azione da compiere. Da questo giudizio, e non dalle immagini o idee, derivano il
movimento e l'azione. Esso è dunque il contrassegno specifico dell'attività volontaria.

Di qui si comprende quale illusione ci sia nel pretendere che l'attività volitiva sia provata dal
funzionamento dei meccanismi motori. E' quello che si fa quando si dice: «Alzo il braccio perché lo voglio
alzare». Ora il fatto di alzare il braccio non prova la presenza di un atto volontario, perché anche l'animale
muove se stesso senza che intervenga nessun atto di volontà, né il fatto di non alzare il braccio esprime
necessariamente l'assenza di tale atto. Difatti può esistere un giudizio pratico che comanda un movimento o
un'azione, senza che questo movimento o questa azione vengano prodotte, perché sembrano, o sono,
impossibili o troppo difficili.

347 Cfr. P. Janet, État mental des hystériques, p. 123; «Non solo è difficile che M. prenda un oggetto nuovo, ma ella si
trova incapace a compiere tutti gli atti in cui c'è qualcosa di nuovo. L'inizio. L'inizio dell'atto, il suo avvio, è sempre
faticoso; però è necessario che si capisca bene ciò che chiamo qui inizio di un atto. Non si tratta del fatto materiale di
mettere in movimento i muscoli quando sono in riposo (...,). Intendo invece di parlare della formazione di quel
complesso aggregato di idee e di immagini col quale è necessario rappresentarsi l'atto onde afferrare un oggetto
determinato». «Ciò che manca, conclude P. Janet, non è dunque un meccanismo fabbricatore di immagini che sia capace
di muovere il braccio, ma il giudizio preliminare: «Voglio muovere il braccio per prendere quel determinato oggetto».
295
D'altra parte, il giudizio pratico è reale e efficace solo nella misura in cui esso è conservato nella coscienza
in maniera da assicurargli la preponderanza pratica. Esso è dunque nello stesso tempo un'attività elettiva, in
quanto sceglie l'atto da produrre, e un'attività inibitrice, in quanto respinge i giudizi contrari. Ciò spiega lo
stato di tensione della coscienza, quando il giudizio pratico viene formulato in opposizione a potenti interessi
sensibili che impongono un grande sforzo di inibizione. Ma questa tensione è accidentale all'attività
volontaria, la quale, come è ben dimostrato dagli esperimenti di Michotte e di Dürr, può essere perfetta,
anche se manca ogni tensione.

3. IL COMPITO DELLE IMMAGINI - Il movimento volontario può eseguirsi soltanto tramite le


immagini, la cui specifica motricità viene utilizzata o adoperata per produrre il movimento. D'altronde,
queste immagini si limitano assai spesso ad attraversare la coscienza con estrema rapidità e secondo un
ordine determinato e attuato automaticamente. La funzionalità motrice, innata o acquisita, delle immagini è
confermata dal fatto che i disturbi nel regolamento delle immagini relative ai movimenti di un membro,
rendono questi movimenti difficili, goffi e impacciati o talvolta impossibili (caso dei paralitici).

§ 3 - Il problema delle fasi del volere

491 - Dalle analisi precedenti che, in fin dei conti, non fanno altro che consentire con i dati del senso
comune, alcuni filosofi hanno voluto dedurre una specie di schema nel quale l'azione volontaria si
organizzerebbe e si svilupperebbe secondo fasi successive ben distinte.

A. LE FASI DELL'AZIONE VOLONTARIA

1. DESCRIZIONE DI COUSIN - E' stato Cousin a fornire la prima forma dello schema della volontà che
permette, a suo dire, di distinguere tre fasi successive: la predeterminazione dell’azione da produrre, o
concezione dello scopo da raggiungere, la deliberazione, relativa ai motivi che si hanno per agire o per non
agire in un modo o in un altro, - la decisione, o atto proprio della volontà348.

2. DESCRIZIONE DI W. JAMES - W. James ha ripreso la descrizione di Cousin precisandola. All'inizio


dell'attività volontaria, egli dice, vi è una rappresentazione dello scopo da raggiungere. Successivamente
viene la fase della deliberazione la quale include: l’intellezione delle diverse alternative; quella delle ragioni
pro o contro ciascuna di esse, tanto ragioni d'ordine sensibile e affettivo (moventi), quanto pure d'ordine
razionale (motivi); e infine l'esame valutativo delle ragioni.
Fin qui tutto si riduce ad una riflessione. Anche quando la deliberazione porta ad un giudizio speculativo
come questo: «ecco il partito migliore», ancora non c'è volontà, perché volere equivale a decidere. La fase
più importante ed essenziale dell'attività volontaria è dunque la decisione, il «voglio» o fiat supremo da cui
prorompe l'azione. Quanto all'esecuzione che Cousin non considera neppure come fase, essa è di fatto
estrinseca al volere: come la sua esistenza non prova la presenza della volontà, così la sua assenza non prova
la mancanza della volontà medesima.

492 - B. DISCUSSIONE

Questa descrizione è stata criticata da diversi punti di vista più o meno fondati. Prima di tutto, James,
riprendendo la descrizione di Cousin, si preoccupa di mostrare che la volontà può essere presente in ogni
fase del volere. Ma ciò significa per lui che l'atto della volontà implica ogni volta le fasi successive della
descrizione. Ed è il principio stesso di questo schema, e l'ordine che esso consente, ciò che è stato
vivacemente contestato da Bergson.

1. LA VOLONTÀ È IN TUTTE LE FASI - Cousin vede l'operazione propria della volontà solo nella fase
della decisione o del fiat. Le fasi antecedenti, e cioè la rappresentazione e la deliberazione, sono per lui
puramente speculative. Tutto ciò, osserva James, è poco conforme all'esperienza psicologica, la quale ci

348 Cfr. V. Cousin, Fragments de Philosophie contemporaine, 5a ed., 4 voll., Parigi, 1866, p. 24: «Il fenomeno della
volontà presenta i momenti seguenti: 1° predeterminare l'atto da compiere; 2° deliberare; 3° risolversi. Se non si sta
attenti, la ragione costituisce tutto il primo e anche il secondo, perché a deliberare c'é anche essa, ma non è lei che
risolve e si determina. Però la ragione si intreccia qui con la volontà, vi si intreccia in una forma riflessa: concepire uno
scopo, deliberare, include l'idea di riflessione. La riflessione è quindi la condizione di ogni atto volontario, qualora tale
atto supponga una predeterminazione del suo oggetto e una deliberazione.»
296
mostra che la volontà è presente dappertutto, ossia ci mostra che ogni fase dell'atto volontario implica atti di
volontà più o meno numerosi. Per questo, nella deliberazione, la volontà si manifesta come inibizione
dell'azione ideo-motoria delle immagini e delle idee, le quali, lasciate in balìa di se stesse, svilupperebbero
automaticamente il movimento e l'atto, - e anche come attenzione attiva ai motivi e ai moventi. - Nella
decisione, la quale non risulta dalla vittoria del motivo o del movente più forte, è la volontà quella che
sceglie sovranamente, con un atto positivo, il motivo o il movente che deve avere il sopravvento sugli altri. -
Nell'esecuzione infine, almeno quando essa è difficile e lunga, la volontà deve intervenire, non nel
meccanismo della esecuzione, ma per conservare la sua preponderanza all'idea che comanda l'esecuzione
stessa; e ciò può esigere nuove deliberazioni e nuove decisioni.

2. L'ESECUZIONE È PARTE INTEGRANTE DELL'ATTIVITÀ VOLONTARIA - Si è potuto rilevare che


W. James insiste nell'osservare che se la volontà interviene o può intervenire nella esecuzione, questa rimane
ancora, come tale, estrinseca al volere, il quale è integralmente ed esclusivamente definito dalla decisione o
fiat. In ciò vi è un errore sicuro. Ogni autentica volizione implica esecuzione: il volere, senza l'atto che lo
esprime e gli dà consistenza, non è niente altro che un'attitudine speculativa dell'intelligenza, ossia non è più
volere.
È verissimo che in certi casi l'atto è impedito sia a causa di un difetto organico, sia a causa di circostanze
esterne. Ma è certo che, se vi è stata una vera e propria volizione, questa non si è limitata a decidere la
scelta, ma ne ha deciso parimenti l'esecuzione e l'ha attuata nella misura possibile. Quanto all'esempio del
debole, il quale «decide», si dice, con energia ma non fa mai niente, bisogna negarne il valore: il debole,
propriamente parlando, non «vuole»: se in lui ci fosse una vera e propria volizione, da questa ne seguirebbe
l'azione. L'esecuzione, o atto, non sono dunque estrinseci al volere, ma ne formano uno degli elementi
essenziali. Se volere è decidere, la vera decisione consiste nell'eseguire.

493 - SI DEVONO DISTINGUERE DELLE FASI? - Questa critica va assai più lontano delle critiche
precedenti, perché contesta il principio stesso della distinzione delle fasi successive.

a) Teoria bergsoniana. L'analisi psicologica, osserva Bergson (Les données immédiates de la conscience, p.
107 sg.) consiste nello scomporre l'atto volontario e nel mostrare che questo consiste essenzialmente per la
volontà, dopo aver deliberato o riflettuto sui motivi e sui moventi che ci spingono ad agire, nel dare con
piena indipendenza la preferenza ad uno di essi. La libertà si esprime in questa elezione. Ma questa analisi è
fallace, perché, in realtà, l'atto volontario comporta proprio l'ordine inverso di quello dell'analisi. La
decisione precede la deliberazione, la quale ultima è della prima solo una giustificazione a fatto avvenuto. In
altre parole, tutto si verifica come se l'effetto precedesse la causa 349. Sta di fatto che ogni motivo è
espressione del volere, e la volontà non deve essere pensata come una potenza estranea che intervenga nel
conflitto dei motivi e dei moventi per esserne l'arbitra suprema, ma come immanente al complesso della
coscienza, del quale essa non è che un aspetto. In tal senso, l'atto volontario e libero non è quello scelto fra
gli altri atti possibili, ma quello che impegna nell'azione tutta la persona, ossia l'atto attraverso cui
esprimiamo noi stessi nella nostra totalità 350. Questo atto è, come tale, indipendente dai motivi e dalle
ragioni con cui si giustifica, fino al punto che spesso «la mancanza di una ragione tangibile ci si dimostra con
tanta maggior forza quanto più profondamente siamo liberi» (Bergson, op. cit., p. 131).

b) Verità e falsità dello schema. Bergson ha certamente ragione nel mettere in luce il carattere artificiale
dell'analisi psicologica dell'atto volontario nelle fasi distinte e successive di deliberazione, decisione o
volizione, esecuzione. La verità è che, in pratica, queste fasi sono spesso intrinseche le une alle altre, che la
deliberazione è già una scelta e la scelta è già un'esecuzione. Inoltre sta di fatto che la deliberazione
raziocinata viene spesso dopo la decisione e che le ragioni dello scegliere sono spesso le ragioni dell'avere
scelto.

349 Cfr. Données immédiates, p. 121: «Se interroghiamo scrupolosamente noi stessi, vedremo che ci capita di
soppesare dei motivi, di deliberare, quando la nostra risoluzione è già presa. Una voce interna, appena percettibile,
mormora: «Perché questa deliberazione? Tu ne riconosci già il risultato e sai bene ciò che stai per fare». Ma che
importa! Pare che ci teniamo a salvaguardare il principio del meccanismo (...). L'intervento brusco della volontà è come
un colpo di stato di cui la nostra intelligenza ha il presentimento e che giustifica in precedenza per mezzo di una
deliberazione regolare».
350 Cfr. Données immédiates, p. 128: «È proprio da tutta l'anima che sgorga la decisione libera; e l'atto sarà tanto più
libero, quanto più la serie dinamica, a cui fa capo, tenderà a identificarsi coll'io fondamentale».
297
Tutto ciò è vero, ma non prova niente, perché, in realtà, nell'analisi psicologica si tratta di ben altro. Il
frammentare l'atto volontario in fasi cronologicamente distinte non è che un modo convenzionale di esporre,
destinato più a distinguere dei momenti logici o degli elementi essenziali che delle fasi cronologiche (le quali,
d'altronde, possono verificarsi qualche volta) 351. Questi momenti logici o elementi essenziali si ritrovano
necessariamente anche nel processo volontario istantaneo. Lo schema di Cousin e di James è dunque
inaccettabile in senso cronologico. Ma qualora lo si intenda in senso logico, esso sottolinea giustamente, con
la sua distinzione fra la deliberazione e la decisione e col fare astrazione dallo svolgimento nel tempo, il
carattere razionale della scelta volontaria. Poco importa infatti che l'atto di scelta o decisione sia,
cronologicamente, anteriore all'esposizione valutativa dei motivi: è necessario, anzi basta, che questi motivi
siano veramente immanenti alla decisione; facendo tutt'uno con questa, sono tuttavia questi motivi che la
spiegano e che, sotto tale aspetto, sono ad essa in senso logico anteriori. La giustificazione post rem serve
soltanto a rendere chiaro ciò che è certo: cioè che la decisione aveva la sua profonda origine nella ragione.

494 - Bergson non ha dunque torto a criticare le scomposizioni arbitrarie dell'atto libero fatte talvolta con
compiacenza dagli psicologi col loro stendere nello spazio, come se fossero blocchi affiancati, fasi che si
implicano a vicenda. Ma egli si inganna quando pretende di capovolgere i termini di questa analisi e di far
passare la deliberazione per una pura illusione. Ciò vuol dire sia misconoscere il valore logico dello schema,
sia eliminare dall'atto volontario ciò che esso ha di più caratteristico: cioè l' immanenza della ragione al
volere.

In tal modo, né la deliberazione raziocinata, né la decisione stessa, qualora questa venga considerata come
un arbitraggio che pone fine al conflitto dei moventi, sono essenziali alla volontà. Come si è visto sopra
(490) esse sono della volontà soltanto delle modalità accidentali. Esistono atti perfettamente volontari che
non comportano né una deliberazione raziocinata né un arbitraggio. E non per questo sono meno razionali e
meno pienamente fatti suoi dal soggetto che li produce. La deliberazione e la decisione non sono altro, nella
loro essenza, che questa razionalità e questa appropriazione, e queste due cose ne formano una sola che
costituisce, come vedremo in Morale, il volontario (volontarium)352.

495 - 4. CRITICA DEL VOLONTARISMO

a) Il circolo vizioso del volontarismo. Un'altra difficoltà che sembra trovarsi nello schema in questione,
anche se considerato soltanto nel suo senso logico, è che esso non spiega niente. Infatti fa consistere il volere
nella decisione. Ma decidere e volere sono un'unica e identica cosa, cosicché, quando si afferma che l'atto
volontario consiste essenzialmente nel decidere, nello scegliere o nel comandare non si fa che ripetere che
l'atto di volontà consiste nel volere. Non si tratta che di pura tautologia e di petizione di principio che dànno
solo una spiegazione apparente.
L'origine di questo errore si deve ricercare nel supporre che la volontà sia una facoltà estranea agli
elementi che compongono l'atto volontario, come una macchina è estrinseca ai prodotti che essa serve a
fabbricare. La volontà, intesa in tal senso, è una specie di potenza sovrana, che assiste alle contese della
coscienza e produce, quando riesce di suo garbo, atti volontari con la stessa naturalezza con cui un melo
produce le mele e una pianta di fico produce i fichi 353.

b) La volontà come facoltà. Questa critica è innegabilmente diretta contro certi modi di concepire la
volontà, specialmente contro quello che si trova nei sistemi di Cousin e di James 354. Difatti, per sfuggire a
tale critica, non basta dire, come fa James, che la volontà è presente ovunque in tutta l'attività volontaria,

351 Questo avviene in alcuni casi molto complessi in cui si ha una deliberazione assai lunga, che può includere varie
oscillazioni da un parere all'altro, prima di prendere una risoluzione definitiva.
352 Ciò è stato ben dimostrato da S. Tommaso (Ia IIae, q. 8-17) quando ha analizzato, con una meravigliosa
profondità, il processo psicologico dell'atto libero. Per lui, è assurdo immaginare la volontà come un arbitro che fa
prevalere uno dei partiti in conflitto, come se essa si librasse al di sopra dei partiti. Di fatto, siccome essa è
essenzialmente tendenza, non è capace di sovrapporsi alle tendenze medesime, - altrimenti si sarebbe costretti ad un
regresso all'infinito. L'arbitrato, nelle proporzioni in cui è richiesto, sorge dal giudizio della ragione, e la funzione che
svolge la volontà consiste nel tendere verso un fine concepito dalla ragione, senza essere necessitata, a causa della sua
stessa indeterminazione. da nessuno dei beni finiti che le vengono proposti dalla ragione.
353 Cfr. Ebbinghaus, Grundzuge der Psychologie, Lipsia, 1897; tr. fr., p. 117 Binet, «Année Psychologique», t. XVII
(1911), p. 36 - Blondel, Traité de Psychologie (Dumas), t. II, p. 371 - J. Segond, Traité de Psychologie, Parigi, 1930. p.
432.
298
perché tale affermazione non fa che rendere maggiore la difficoltà, qualora si debba ritenere che la volontà
sia una decisione o un fiat capace di essere percepito separatamente come atto distinto da tutti gli altri.
L'esperienza non ci offre niente di simile: la volontà non si manifesta attraverso stati speciali e il volere,
come osserva Hoffding e come confermano i processi sperimentali, non può venire isolato né dalle ragioni di
volere, né dalle cose volute.
Tutto questo non vuol dire che la volontà non sia una facoltà, cioè una potenza originaria, distinta
dall'intelletto e dall'appetito sensibile (ciò che sarebbe almeno da dimostrare), ma vuol dire soltanto che una
facoltà, o principio di attività, non può essere percepita al di fuori degli atti che ne derivano. Dal punto di
vista psicologico, l'intelligenza è l'insieme delle operazioni intellettuali; parimenti, la volontà è l'insieme
delle operazioni dette volontarie. Il problema sta nel sapere in che cosa consistano precisamente queste
operazioni.

W. James ha preteso di scoprire lo stato psicologico della volontà nel sentimento dello sforzo. Questo
sentimento, egli dice, accompagna il volere o l'attenzione la quale si muove «in direzione della resistenza più
grande» e si incontra ogni volta che si ricorre «a un motivo raro e ideale onde neutralizzare le impressioni
abituali e istintive». (The Principles of Psichology, cfr. tr. fr., p. 589). Ma in ciò vi è un errore, perché il
senso dello sforzo o della tensione non è il segno caratteristico del volere. Infatti, da un lato, vi sono atti di
volontà o di attenzione volontaria che esigono uno sforzo leggero, ed altri ancora che non ne esigono alcuno,
perché vanno nella direzione degli interessi spontanei; dall'altro, si potrebbe affermare che la quantità dello
sforzo è inversamente proporzionale alla potenza del volere. Di fatto, il senso dello sforzo è più comune
negli indecisi e negli abulici che nelle persone energiche. Infine, le riprove sperimentali ci hanno portato a
considerare l'attività volontaria come distinta dallo stato di tensione o di sforzo.

Art. II - Le teorie sulla volontà


496 - Le teorie sulla volontà sono numerose quanto gli elementi che intervengono nel movimento
volontario, perché gli psicologi hanno cercato di definire la volontà ora con l'uno, ora con l'altro di questi
elementi. Lo studio di queste teorie ci aiuterà a precisare la natura e la funzione dei diversi elementi che
concorrono a produrre l'attività volontaria.

§ l - Teorie sensistiche

Nella categoria delle teorie sensistiche entrano tutte le dottrine che riducono la volontà o al desiderio
(Condillac), o all'attività (Wundt, Lewin), o all'associazione delle sensazioni e delle immagini (Spencer -
Ribot).

A. VOLONTÀ E DESIDERIO

1. VOLONTÀ E DESIDERIO PREDOMINANTE - Condillac vede nella volontà soltanto un desiderio


predominante, allo stesso modo che egli riduce l'attenzione ad un sensazione predominante. «Se la statua,
egli scrive, si ricorda che il desiderio da lei formulato è stato altre volte seguito dal godimento, si lusingherà
sempre più, via via che il suo bisogno sarà più grande. Così due cause contribuiscono alla sua fiducia:
l'esperienza di aver soddisfatto un simile desiderio, e l'interesse che esso sia ancora appagato. Da quel
momento, essa non si limita più a desiderare, ma vuole; perché per volontà si intende un desiderio che sia
assoluto e sia tale da farci pensare che una cosa desiderata è in nostro potere» (Traité des Sensations, in
Oeuvres philos. de C., 3 voll., Parigi, 1947 - 51; la parte, III, 9; cfr. tr. it., Firenze, 1953).

2. DISCUSSIONE - Abbiamo già constatato che il movimento volontario include necessariamente la


realizzazione di una tendenza senza la quale il movimento sarebbe inconcepibile. Il desiderio è la forma della
tendenza in atto. Ma basta il solo desiderio a formare il volere? Condillac asserisce che basta, a due
condizioni: prima, che esso porti ad una cosa possibile; seconda, che escluda tutti gli altri desideri. Se ciò si
attua, esso diviene volontà. Ma, se la prima condizione è evidente (perché si può desiderare l'impossibile, ma

354 D'altronde questa concezione deriva direttamente dal cartesianismo. Per Cartesio la volontà è una facoltà autonoma
perché gode di una ampiezza infinita in quanto consiste solo nel volere (e non nel volere questo o quello), ed il volere,
per se stesso, non include nessuna limitazione. «Non si può affatto avere l'idea di qualche altra volontà più ampia e più
estesa» (Quarta meditazione)
299
non si può volere che il possibile), la seconda, che è essenziale, è incompatibile col volere: difatti
l'esperienza psicologica dimostra come il volere sia così raramente identificabile col desiderio predominante
che spesso il primo entra in conflitto col secondo, e che, quando l'uno va nella medesima direzione
dell'altro, ciò avviene perché lo sceglie, non perché lo subisce. Via via che il desiderio si trasforma, per sua
propria forza, in azione, ci sembra come di cedere a una specie di costrizione che è proprio il contrario della
volontà355.
B. VOLONTÀ E AFFETTIVITÀ

497 - 1. L'ATTIVITÀ IMPULSIVA - Wundt parte dal fatto che ogni rappresentazione si riveste anche di
uno stato affettivo, e che ogni stato affettivo è accompagnato da movimenti fisiologici e organici che sono
per lo più incoscienti. Quando le circostanze lo permettono, i sentimenti che accompagnano le
rappresentazioni si organizzano, si fortificano a vicenda e producono l'emozione che è la risultante originale
degli affetti elementari. L'emozione provoca, a sua volta, movimenti o atti che possono aver l'effetto di far
scomparire l'emozione stessa (così l'animale affamato che piomba sulla sua preda e la divora: alla fame è
subentrato il piacere di essere saziato).
Proprio ciò (ossia l'emozione e l'atto da essa eccitato e da cui è fatta scomparire) costituisce il processo
volontario. Nella sua forma più semplice, questo consiste dunque nella attività impulsiva, che è un atto
volontario semplice determinato da un sentimento unico. Nell'uomo, il processo volontario diviene per lo più
un arto di scelta, in quanto un sentimento di esitazione, che nasce dal conflitto fra i diversi motivi e moventi,
mette in evidenza le oscillazioni delle forze affettive presenti, finché una di esse non prende il sopravvento.
In tutti i casi, la rappresentazione, che svolge la funzione di motivo, è accompagnata da un sentimento che
agisce da movente: sono sempre i moventi ad avere l'importanza decisiva (Wundt, Grundzuge der
Physiologischen Psychologie, 5a ed., Lipsia, 1908-11, c. XXVII).

498 - 2. DISCUSSIONE - Le osservazioni rese necessarie da questa teoria si possono ridurre a due punti
principali.

a) Volontà e riflesso. La difficoltà capitale della teoria di Wundt consiste nel fatto che essa confonde
l'attività volontaria e l'attività riflessa, le quali, a suo dire, non differiscono che per il loro grado di
complicazione psico-fisiologica. Infatti anche il riflesso dovrebbe essere considerato come una degradazione
dell'attività volontaria. E questa infatti, via via che la rappresentazione (motivo) perde la propria tonalità
affettiva, tende a divenire puramente automatica: l'eccitazione produce subito la reazione, come nel riflesso.
Per conseguenza, si può affermare giustamente che il riflesso è un atto volontario semplice, e che l'atto
volontario è un riflesso alquanto complesso; e ciò equivale ad affermare sia che non esiste volontà, ma
soltanto dei processi affettivi seguiti da reazioni motorie, - sia che la volontà è presente ovunque in tutta la
coscienza come dinamismo psicologico356.
Ma con tale concezione noi siamo ben lungi da ciò che ci impone l'analisi della coscienza, perché
l'esperienza del volere è proprio il contrario di un' esperienza di impulsività e di passività. A questo riguardo
si dovrebbero ripetere le osservazioni con cui è stata criticata la tesi di Condillac, perché l'affettività non è
che un aspetto del desiderio accampato da Condillac.

499 - b) Motivi e moventi. La teoria di Wundt pretende che nei complessi «rappresentazioni-sentimenti»,
ossia «motivimoventi», che son le «ragioni» dei nostri atti, i sentimenti o moventi abbiano sempre il
sopravvento, perché le rappresentazioni possono agire solo attraverso l'affettività. Questa concezione
racchiude però un grande equivoco. Difatti, se è vero che la motricità non appartiene alle rappresentazioni,
ma al complesso affettivo da queste suscitato, da ciò non ne consegue, come suppone Wundt, che tale
complesso affettivo-motorio abbia sempre fatalmente il sopravvento. La caratteristica dell'azione volontaria
consiste proprio nel fatto che una rappresentazione, anche se è potentemente affettiva, possa venire inibita o
repressa e sostituita da un'altra. Senza dubbio è quindi un altro complesso affettivo-motorio a prendere
posto nella coscienza. Ma, per essere esatti, l'atto volontario è caratterizzato da questo potere di dominare il
corso delle rappresentazioni e, attraverso di esse, anche il corso dell'affettività. Allo stesso modo che la
rappresentazione agisce solo quando ha per interprete l'affettività, così questa non é possibile che attraverso
la rappresentazione, quantunque dominare la rappresentazione equivalga a dominare l'affettività 357. Questa è

355 Cfr. G. Le Roy, La Psychologie de Condillac, Parigi, 1934.


356 Cfr. Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. VI, p. 353, (Blondel).
300
la conclusione principale, conforme del resto ai risultati sperimentali, a cui ci conduce la critica della teoria
di Wundt.

Possiamo inoltre mettere in evidenza un altro aspetto paradossale di questa teoria, come, d'altronde, di
quella di Condillac. Tutto in essa viene stabilito in termini di affettività, in quanto la rappresentazione stessa
non ha valore che per il suo coefficiente affettivo. Ne consegue che fra gli affetti derivanti dai bisogni
organici (fame, sessualità) e i sentimenti derivanti dagli imperativi morali e religiosi c'è solo una differenza
quantitativa.

C. VOLONTÀ E CAMPO PSICHICO.

500 - L LA TEORIA GESTALTISTICA - Lewin ha fornito ai Gestaltisti la formula dell'attività


volontaria358. La volontà, egli dice, non può essere colta direttamente ed il «voglio» non è mai la prova
sufficiente di ciò. La migliore cosa consiste dunque nel ricorrere a un'analisi funzionale del dinamismo
psichico. In tal caso, siamo indotti a far distinzione fra «azioni di campo» e «azioni controllate». Infatti ci
sono casi in cui l'atto dipende completamente dalle forze che formano il campo estrinseco al soggetto, e casi
in cui l'atto dipende dalle forze controllate dal soggetto stesso (campo psichico).
È evidente che l'atto volontario appartiene a quest'ultimo tipo. Ma basta ciò? Sembra di no, perché le
attività impulsive e istintive sono anch'esse controllate del soggetto. Che cosa vi è dunque di speciale
nell'attività volontaria? A dire di Lewin, vi è il fatto che l'organizzazione delle forze del campo esterno e del
campo psichico è ben diversa da quella che si trova nell'attività riflessa. Quest'ultima, che è di tipo
meccanico, viene caratterizzata dall'uniformità e dall'infallibilità della reazione agli stimoli esterni.
Nell'attività volontaria, vi è interdipendenza fra il campo esterno e quello psichico: l'aspetto dell'oggetto
dipende dal soggetto, mentre il bisogno del soggetto dipende dall'aspetto dell’oggetto 359. In altre parole, il
campo esterno e il campo psichico dànno origine a un campo totale che è il risultato della tensione fra le
forze contrapposte. Da ciò nasce l'esperienza del volere, il quale non è altro che il sentimento di questa
tensione, che varia secondo l'azione delle diverse forze che la sostengono, la trasformano o la risolvono. La
volontà si riduce così ad un sentimento di conflitto.

501 - 2. DISCUSSIONE - Di questa teoria si può dire in genere che essa non spiega niente. Qualunque sia
la natura della volontà, è certo che non è possibile comprenderla indipendentemente dalle forze che essa
impiega. Sotto tale aspetto, ogni descrizione dell'attività volontaria concreta si può, teoricamente, ridurre a
un calcolo di forze, e l'atto della volontà si può definire come la soluzione o come la modificazione di uno
stato di tensione. Ciò però è giusto soltanto qualora non si pretenda di mettere tutte le forze sul medesimo
piano, come se fossero della stessa natura. Tutto il problema della volontà consiste appunto nel sapere se
una forza di un genere speciale e assolutamente originale non intervenga nell'insieme delle forze
determinate dal sistema affettivo-motorio360. Il fatto che questa forza non può essere compresa senza le altre,
non autorizza a negarne l'esistenza, allo stesso modo che non sarebbe giusto negare l'originalità dell'attività
volontaria per la ragione che essa si manifesta attraverso gli stessi meccanismi neuromuscolari del riflesso e
dell'istinto361.

§ 2. - TEORIA FISIOLOGISTICA

357 La teoria di Mc Dougall, che di solito viene ritenuta volontaristica, è di fatto semplicemente sensistica e del
medesimo tipo di quella di Wundt. Perciò esige le stesse critiche. Mc Dougall ammette chiaramente che l'atto volontario
si esprime in un giudizio del tipo: «Ecco quel che devo fare». Ma per lui, questo stesso giudizio è solo un risultato delle
disposizioni emotive, nelle quali bisogna scorgere la radice affettivo-motoria (conative-affective root) di tutto il sistema
della coscienza. (Cfr. An Introduction to social psychology, p. 438).
358 Cfr. Vorsatz, Wille und Bedurfnis, in «Psychologische Forschung», t. VII (1926), pp. 330-385.
359 Cfr. Guillaume, La Psychologie de la Forme, p. 135.
360 Koppka (Principles of Gestalt Psychology, p. 419), osservando che si parla di volontà quando la soluzione (o la
risoluzione) è stata controllata, aggiunge che il controllo serve solo a creare una nuova struttura del campo totale e che
tutto si riduce poi al meccanismo. Ma in tal modo si lascia sempre sospeso il vero problema. Certamente il controllo che
interviene, sotto forma di «intenzione», ossia di un idea) è una forza che va a modificare la struttura del campo in cui
esso si introduce. Si tratta però di una forza come le altre? Per conoscere una forza e necessario che si tenga conto della
sua direzione, ossia della sua qualità.
361 Sarebbe opportuno inoltre dire che l'attività volontaria non include necessariamente la coscienza di una tensione di
ordine affettivo. Questo rilievo lo abbiamo già fatto riguardo al «sentimento» di sforzo di W. James.
301

502 - La caratteristica di questa teoria consiste nell'affermare che la volontà si deve spiegare, come tutti gli
altri fatti psichici, per mezzo della fisiologia generale. Partendo dalla sensazione, la quale è solo l'espressione
cosciente delle modificazioni molecolari, si deve arrivare, attraverso differenziazioni e concatenazioni
progressive delle condizioni elementari, al fenomeno della volontà.

1. LA TESI DELL'ASSOCIAZIONISMO - Gli associazionisti, soprattutto Bain e Spencer, hanno cercato


di montare, pezzo su pezzo, il meccanismo che si chiama volontà, oppure, in altre parole, di descrivere gli
stadi dell'evoluzione, la quale, partendo dal riflesso semplice, termina nella volizione 362. Nella sua forma più
semplice, il riflesso non è che un fenomeno di associazione delle vie nervose. A poco a poco, per il fatto che
si accumulano le esperienze individuali sensibilmente uniformi, l'organizzazione del sistema nervoso si
adatta all'ambiente e diviene ereditaria: ai riflessi semplici si aggiungono quelli composti e gli atteggiamenti
specifici. Nell'uomo si è osservato un nuovo progresso perché il cervello, divenuto preponderante, non è più
un semplice luogo di passaggio delle eccitazioni, ma uno strumento straordinariamente complesso di
informazione, di elaborazione e di reazione.
Tutti i fenomeni psicologici possono essere dedotti da questo stato nervoso e soprattutto dalla condizione
del cervello. Al livello del semplice riflesso, la coscienza (quando esiste) si riduce a constatare, sotto forma
di sensazioni differenziate, specialmente cinestetiche, l'eccitazione subita e la risposta che ne risulta
automaticamente: quanto al loro collegamento, esso sfugge totalmente alla coscienza. Le cose avvengono
allo stesso modo al livello di riflessi composti, ma con la differenza che la complicazione e la durata dei
processi nervosi mettono in evidenza gli stati affettivi. Con l'istinto, siccome il processo cerebrale si
complica ancor più e perciò si rallenta, la coscienza comprende non solo le sensazioni in atto, ma anche le
immagini e le idee delle eccitazioni e delle reazioni passate. Passando dal livello dei movimenti specifici a
quello dei movimenti individuali, la straordinaria complessità delle vie nervose e dei meccanismi cerebrali dà
un'intensità del tutto speciale al fenomeno di interferenza del passato e del presente. Questo non è più ormai
qualcosa di assolutamente nuovo; esso risveglia le eccitazioni e le reazioni passate che sono di natura
analoga, e quindi si capisce come si abbia coscienza delle diverse risposte possibili e comunque la previsione
e l’anticipazione della reazione (idea o movimento) che sta per prodursi. La volontà consiste proprio in
questo: essa si spiega completamente, fin nelle sue forme più complesse, come una previsione ed
un'anticipazione dell'idea o del movimento che stanno per essere prodotti, in corrispondenza a una data
situazione363.

Th. Ribot, in Les maladies de la volonté, Parigi, 1919, adotta questo criterio, anche se sotto una forma un
po' diversa. La volizione, egli dice, che è impulso ed inibizione, deve essere definita come «la reazione
propria di un individuo». Ciò ha un significato tanto fisiologico che psicologico: «Fisiologicamente, significa
che l'atto volontario differisce sia dal riflesso semplice (in cui una sola una sola impressione è seguita da un
insieme di contrazioni), sia dalle forme più complesse (in cui una sola impressione è seguita da un insieme di
contrazioni); significa inoltre che l'atto volontario è il risultato dell'intera organizzazione nervosa, la quale a
sua volta riflette la natura di tutto l'organismo e reagisce in conseguenza» (p. 32). Perciò si deve dire che il
voglio constata una situazione, ma non la costituisce.

503 - DISCUSSIONE,

a) Psicologia e fisiologia - Nel caso che questa teoria volesse soltanto dimostrare che ogni attività psichica
è, in qualche modo, sottesa o condizionata da fenomeni organici e fisiologici, non richiederebbe nessuna
obiezione di principio. Si potrebbe osservare che i dati della fisiologia nervosa sono ancora molto incerti, ma
niente impedisce di sperare che si arriverà a precisarli, tanto più che ci sono già dei punti che sembrano
acquisiti. Così, al meccanismo dell'inibizione, corrispondono, sul piano fisiologico, i fenomeni di
interferenza delle vie nervose descritti da Lapicque (II, 123). Per quanto riguarda la volontà, si è creduto
perfino di poter distinguere i muscoli volontari (muscoli rossi e striati) da quelli involontari (muscoli bianchi
e lisci). Però questa divisione è quanto mai dubbia: da un lato, il cuore, che è un muscolo striato, non si trova
sotto il controllo diretto della volontà; dall'altro, uno. stesso muscolo può servire tanto per i riflessi che per i
movimenti volontari. Pare invece che la distinzione fra volontario e non volontario si riduca,
fisiologicamente, ad una diversità nel modo dell'innervazione. L'innervazione volontaria sembra utilizzare di

362 Cfr. H. Spencer, Principles of Psychology, 2 voll., 2a ed., Londra, 1870-72; tr. fr. t. l, 4a parte, cap. IX, p. 218.
363 Cfr. Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. VI, p. 345 sg.
302
solito il fascio piramidale che attraversa la protuberanza e il bulbo per raggiungere il midollo e trasmettere ai
muscoli del corpo le eccitazioni che vengono dal cervello. Ma questa azione nervosa può avvenire anche per
altre vie, ad esempio per mezzo di eccitazioni che giungono sia dal talamo (cervello intermedio), sia da altre
zone della corteccia cerebrale.

504 - b) Il paralogismo psico-fisiologico - Non esiste niente di più certo dell'aspetto organico e fisiologico
di tutti i fatti psichici. Ma è possibile dedurre da ciò che la coscienza si possa adeguatamente spiegare per
mezzo dei meccanismi fisiologici e dei processi di differenziazione e di complicazione che si sarebbero
prodotti, a poco a poco, nel corso dell'evoluzione? Un tal modo di ragionare implicherebbe sia un postulato
gratuito, sia un sofisma: da un lato, difatti, appellarsi all'evoluzione, nella forma che questo appello ha qui,
non è che un'ipotesi, e per giunta delle più arbitrarie; inoltre, l'argomentazione con cui, dal fatto che l'aspetto
fisiologico e quello psicologico sono congiunti, si conclude immediatamente che l'elemento psicologico si
riduce a quello fisiologico e che la coscienza è soltanto un epifenomeno, costituisce un evidente
paralogismo364.
Se ci si mette ancor più particolarmente dal punto di vista della volontà, la coscienza-epifenomeno appare,
qui come altrove, incapace a spiegare il fatto sperimentale. La volizione, qualunque ne sia la natura, non è
assolutamente una coscienza di anticipazione di un'idea che sta per sorgere o di un movimento che sta per
prodursi, cioè non è una coscienza che fa da spettatrice, ma una coscienza che agisce. D'altronde, il
funzionamento della volontà esige l'intervento di tutto il sistema di valori e di imperativi morali (dovere,
bene e male, obbligo, giustizia, società, Dio ecc.) che difficilmente si spiegano per mezzo della fisiologia.

§ 3 - Teorie intellettualistiche

505 – 1. LA VOLONTÀ RIDOTTA ALL'INTELLIGENZA - Le teorie intellettualistiche che riducono la


volontà all'intelligenza, si presentano in due diverse forme che prendono il nome da Spinoza e da Herbart.

a) La volontà intesa come facoltà di affermare e di negare. Spinoza distingue tre generi di conoscenza:
l'immaginazione, che coglie soltanto i fenomeni e i modi fuggitivi e ci fornisce solo idee confuse,
l'intellezione, che si eleva attraverso il ragionamento fino alla conoscenza delle cause e ci offre idee chiare, la
scienza intuitiva, che è conoscenza perfetta, adeguata, assoluta, in quanto ci fa afferrare il reale sub specie
aeterni.
La teoria dell'attività corrisponde a quella della conoscenza. La legge fondamentale di ogni attività finita
viene enunciata così: ogni cosa si sforza, per quanto è in suo potere, di perseverare nel proprio essere, e
questo sforzo non è che l'essenza in atto di quella cosa medesima (Ethica, III, th. 6 e 7). Tale sforzo si chiama
volontà quando si riferisce alla sola anima, e si chiama appetito e desiderio quando si riferisce sia all'anima
che al corpo365. Il desiderio è il principio di tutte le passioni. La volontà corrisponde alle idee chiare della
ragione, come la passione corrisponde alle idee confuse dell'immaginazione. Essa è la facoltà di affermare e
di negare e non il desiderio, cioè si confonde col determinismo che è proprio dell'idea. La volontà e
l'intelligenza sono dunque una sola, identica cosa (Ethica, II, th. 49).

506 - b) La volontà come risultato del dinamismo delle rappresentazioni. Nel sistema di Spinoza, la
volontà si trova tanto identificata col determinismo dell'idea chiara (la quale si afferma da se stessa solo a
causa della sua chiarezza), che la nozione di forza e di dinamismo riprende il suo significato solo al di fuori
della volontà, cioè nel desiderio e nell'appetito. Proprio su questo punto Herbart modifica la teoria di
Spinoza. Per lui, la realtà psicologica è formata soltanto dalle rappresentazioni e dai loro rapporti. Ma queste
rappresentazioni, in quanto tendono a perseverare nell'essere, sono dotate di dinamismo interno: si
fortificano a vicenda, si fondono le une nelle altre o si respingono sotto la soglia della coscienza. Le
rappresentazioni così represse continuano a sussistere sotto forma di tendenze. Proprio questo conflitto fra le
rappresentazioni e le tendenze viene manifestato dagli stati affettivi e volontari, i quali non hanno dunque
364 Bergson ha insistito molto su ciò. Cfr. L'Energie spirituelle, p. 38: «Che cosa ci dice l'esperienza? Ci dice che (...)
la vita della coscienza è legata a quella del corpo, che fra esse vi è solidarietà, niente altro. Ma questo punto non è mai
stato contestato da nessuno, e siamo ben lungi dal sostenere che il cerebrale è l'equivalente del mentale, e che si
potrebbe leggere in un cervello tutto ciò che si svolge nella coscienza corrispondente... Quanto ci permettono di dire
l'osservazione, l'esperienza, la scienza, consiste nell'affermare che esiste una certa relazione fra il cervello e la
coscienza».
365 Appetito e desiderio sono sinonimi, tranne nel fatto che il desiderio include l'idea di coscienza: «Il desiderio è un
appetito di cui abbiamo coscienza». (Ethica III, scholion del th. IX).
303
nessuna realtà specifica distinta da quella delle rappresentazioni. Quali semplici modi di essere di queste
ultime, l'affettività e la volontà sono soltanto un aspetto del contenuto rappresentativo della coscienza :
l'affettività rivela il conflitto delle rappresentazioni, mentre la volontà rivela il desiderio congiunto all'idea
della sua attuazione.

2. DISCUSSIONE - Com'è concepito in queste due forme, il punto di vista intellettualistico è ugualmente
inaccettabile. Infatti Spinoza, col suo ridurre la volontà a un semplice modo di essere dell'idea chiara, urta
contro il fatto psicologicamente accertato che le idee non agiscono in forza del loro contenuto
rappresentativo, ma delle tendenze e dei sentimenti che vengono da esse attuati. Herbart fino a un certo
punto lo riconosce, perché considera la rappresentazione come dotata di una forza propria. Ma siccome tale
forza viene concepita come risultante della rappresentazione in quanto tale, egli finisce col fare del soggetto
un semplice spettatore dei conflitti delle rappresentazioni: infatti non si può immaginare che il soggetto
intervenga in questo conflitto, perché tale intervento richiederebbe 1'esistenza di una forza diversa da quella
delle rappresentazioni; per la stessa ragione non è possibile neppure pensare che il soggetto abbia qualche
potere sul movimento delle rappresentazioni. In tal modo, la volizione è un fenomeno in cui il soggetto non
svolge nessuna parte attiva.
D'altronde, in queste due teorie è impossibile capire il disaccordo esistente fra la rappresentazione e
l'azione, anche se tale disaccordo è frequente: infatti si può avere un'intelligenza perspicace e un cuore
perverso, una scienza molto vasta e una virtù mediocre, e si può avere un valore morale maggiore o minore
di quanto non valgano le nostre idee. Parimenti, la conoscenza può essere imperfetta e dare origine ad una
passione fortissima: viceversa, la passione può essere debole anche con una conoscenza perfetta.
Concludendo: se è fuori discussione che una volontà è una realtà psicologica che non può esistere senza il
presupposto dell'intelligenza, il volere non si può ridurre né ad un'idea, né ad un conflitto di idee, né ad un
giudizio speculativo. Esso significa, come osserva Ribot, una «affermazione pratica», cioè un giudizio che
impone un atto od un movimento.

§ 4 - Teoria sociologistica

507 - 1. LA VOLONTÀ E GLI IMPERATIVI COLLETTIVI - I filosofi della scuola sociologica


ammettono che è impossibile ridurre la volontà ad uno dei suoi elementi costitutivi e che una teoria sulla
volontà deve tener conto di tutta l'esperienza che rientra nell'attività volontaria. Però questa esperienza si
presenta essenzialmente come quella di un conflitto di rappresentazioni (moventi e motivi) che avviene
nell'ambito della coscienza: conflitto che deve risolversi in un fiat che costituisce la decisione. Come si può
spiegare quest'ultima? James ha visto bene affermando che la volontà indica una «forza addizionale», capace
di metter fine al conflitto. Ma egli non riesce a spiegare donde venga questa forza addizionale. Per spiegarla,
dicono questi filosofi, bisogna sorpassare l'individuo e fare appello agli imperativi collettivi i quali non
cessano di avere la loro influenza su noi e di determinare un atteggiamento diverso da quello che risulterebbe
dal determinismo dei desideri e degli appetiti individuali. Propriamente parlando, la volontà è dunque la
resistenza che gli imperativi collettivi oppongono ai nostri appetiti individuali e l'ordine che i primi
impongono ai secondi 366.

Sotto tale aspetto, confessa Blondel, il fiat è assai meno decisione di quanto non sia, «propriamente
parlando, obbedienza acconsentita se si vuole, ma pertanto vera obbedienza, perché la coscienza riceve la sua
legge dall'esterno» (Nouveau Traité de Psychologie, t. VI, p. 355). Si può continuare a parlare di volontà:
prima, perché l'obbedienza agli imperativi collettivi finisce per formare in noi una nuova personalità: essa
garantisce alla nostra azione un potere, una continuità ed una coerenza che non possederebbe se cedesse alle
sollecitazioni del desiderio, poi, perché si basa su un sistema di concetti che si possono applicare a tutta la
condotta umana: in forza di essi, l'attività volontaria è in pari tempo anche attività ragionevole.

508 - 2. DISCUSSIONE - Questa teoria dipende da postulati di cui poco sopra (391-392) abbiamo
dimostrato il carattere arbitrario. Circa il problema dell'attività, non sembra che essa riesca a dare una
spiegazione soddisfacente dell'esperienza del volere. Difatti, se il volere, come ammette Durkheim, è attività
e decisione, come può questa esperienza nascere dall'obbedienza ad imperativi imposti dall'esterno? Una
366 Cfr. Durkheim, L'education morale, pp. 46-47: «In forza dell'autorità che hanno, le regole morali sono vere forze
contro le quali vengono a cozzare i nostri desideri, i nostri bisogni e i nostri appetiti di ogni genere, quando tendono a
divenire smoderati (...). Noi le sentiamo bene come tali, ogni volta che cominciamo ad agire contro di esse; perché
quelle regole ci oppongono una resistenza di cui non ci è sempre possibile trionfare».
304
tale obbedienza, anche se acconsentita, è un atto di costrizione, cioè esattamente il contrario del volere, il
quale appare come autonomo e libero367.

Blondel (op. cit., p. 361) avverte, è vero, che per scoprire una autentica volontà non bisogna andare a
cercarla nella massa, da cui gli imperativi collettivi vengono subiti, ma nell'élite che crea i princìpi direttivi
del proprio pensiero e della propria condotta 368. Tuttavia, anche in questo, l'élite continua ad obbedire a
qualcosa che sorpassa l'individuo: «le coscienze di élite sono unanimi nel volere e nell'affermare che i
princìpi direttivi, scientifici, estetici, economici, morali o sociali, che esse lanciano nel mondo, non sono
creazioni arbitrarie del loro capriccio individuale, ma verità che valgono per tutti gli uomini». Ma,
aggiungiamo noi, quante pretese non avanzano queste élites da un punto di vista sociologico! Anche
supponendo che queste pretese fossero fondate, non sarebbe più semplice e più comprensibile ammettere che
i princìpi e le norme a cui fanno appello tali élites sorpassano tanto l'individuo che la società, dato che esse
vogliono trasformare gli individui e la società proprio in nome di quei princìpi? 369 Non c'è dubbio che in
questo modo si spiegherebbe assai meglio che con la pressione degli ideali collettivi l'esperienza del volere e
soprattutto la sensazione che, quando si obbedisce al dovere, non si obbedisce ad una coercizione esterna, ma
ad una esigenza della ragione.

Art. III - Natura della volontà


509 - La critica delle teorie precedentemente esposte non ci ha dato soltanto risultati negativi, ma ci ha
invece aiutati a formarci un concetto più giusto e più completo dell'attività volontaria e per conseguenza
della volontà propriamente detta. Adesso non ci rimane che riunire, a mo' di conclusione, gli elementi che
entrano a costituire questa nozione, vale a dire un potere dell'attività razionale che esprime integralmente
tutta la personalità.

Gli Scolastici definivano la volontà come un appetito od una inclinazione razionale (appetitus rationalis
sequens intellectum seu tendens in objecta ab intellectu proposita). Il medesimo concetto era stato espresso
da Aristotele in questi termini: «La volontà è l'appetito compenetrato di intelligenza o l'intelligenza
compenetrata di appetito». La razionalità consta dunque sia di intelligenza che di volontà: in altre parole, la
volontà e l'intelligenza si includono a vicenda.

A. LA VOLONTÀ COME ESPRESSIONE DELLA PERSONALITÀ

1. LA VOLONTÀ COME SINTESI - Che la volontà sia una attività sintetica risulta evidente dal fatto che è
assolutamente impossibile ridurla sia alle rappresentazioni, sia alle tendenze e agli impulsi, sia agli stati
affettivi e al desiderio. Di fatto essa è la sintesi di tutti gli stati, immagini e idee, tendenze e affetti, coscienti
e subcoscienti, che formano l'io in un determinato momento 370. Analizziamo, da questo punto di vista, i due
casi possibili della volizione, e cioè con o senza conflitto interiore.
Quando manca il conflitto fra idee e tendenze antagonistiche, la personalità si manifesta in un modo
semplice e armonioso: l'atto volontario diviene allora soltanto adesione intelligente ai fini indiscussi di tutta
la persona. Nel conflitto la volontà manifesta la reazione del tutto su uno degli elementi, oppure una specie di

367 Durkheim concepisce l'azione delle rappresentazioni collettive sotto la forma di costrizione. Ma tale idea è rimasta
in lui vaga ed equivoca (I, 220).
368 Sembrerebbe invece, dal punto di vista sociologico, che il fatto di subire gli ideali collettivi dovrebbe rinvigorire la
coscienza che abbiamo della nostra volontà. Questa coscienza dovrebbe scomparire nelle élites, per il fatto stesso che
esse creano il loro ideale e non subiscono più la pressione degli ideali collettivi. Tutto questo, non è davvero molto
chiaro.
369 E ciò che fa giustamente osservare Bergson in Les deux sources de la Morale et de la Religion. Egli ammette una
morale «statica e chiusa», ridotta agli imperativi collettivi. Ma, al di sopra di questa, vi è una morale «dinamica e
aperta» principio di progresso e di liberazione, la quale non deriva dalla società, ma dalle credenze (Bergson le chiama
intuizioni) che trascendono l'individuo e la società.
370 Ciò viene affermato da Ribot: «L'atto volontario, nella sua forma completa, non è semplice trasformazioni di uno
stato di coscienza in movimento, ma suppone la partecipazione di tutto quel gruppo di stati coscienti e subcoscienti che
costitUiscono l'io in un determinato momento». (Les maladies de la volontè, p. 32). Tuttavia, si sa (502) che per Ribot
questo «insieme che costituisce l'io» è soltanto il riflesso dell'organizzazione nervosa. Sotto tale aspetto, la volontà non
è un'attività razionale, e l'indeterminazione, che siamo costretti a riconoscere in essa, non esprime che un'oscillazione
delle forze contrapposte.
305
coalizione momentanea di tendenze molteplici contro una tendenza particolare. In tal modo si vede quanto vi
è di inadeguato nell'ipotesi del «motivo preponderante» oppure delle «tendenze dominanti» con cui si cerca
di spiegare la decisione. Sta di fatto che il motivo è preponderante e la tendenza è dominante solo in quanto
sono scelti; ossia la loro forza dipende più dall'insieme della personalità che da ciò che essi sono in se
medesimi. Altrimenti, come si spiegherebbe il sentimento di sforzo che accompagna la volizione nei diversi
stadi del conflitto?

510 - 2. LA VOLONTÀ COME ESPRESSIONE DELL'UNITÀ PERSONALE - Quando per definire la


volontà si parla di sintesi, questo termine deve essere preso nel suo significato più stretto. Infatti la volizione
non è il risultato di una collezione di tendenze aggruppate o affiancate, proprio come un organismo vivente
non è il prodotto di diversi e molteplici elementi. La volizione è espressione di unità e di organizzazione e
solo per questa sua caratteristica esprime la personalità. La volontà sarà dunque tanto più vigorosa ed
efficace, quanto più l'unità personale sarà perfetta, cioè quanto più fortemente sarà stato organizzato e
coordinato l'insieme degli appetiti e delle tendenze. La volontà esige una concentrazione interiore, mentre
l'incostanza, l'incoerenza, l'instabilità e il capriccio esprimono una specie di dispersione interna e
manifestano uno psichismo molto più vicino ad una colonia che ad un organismo.

B. LA VOLONTÀ COME APPETITO RAZIONALE

511 – 1. IL BENE CONOSCIUTO, OGGETTO DELLA VOLONTÀ Quando la volontà viene definita
come un'inclinazione od un'attività razionale, non solo si intende sottolineare che questa attività o
inclinazione hanno il loro primo principio e la loro condizione essenziale in una rappresentazione che
propone alle tendenze un oggetto da cercare o da fuggire (perché anche la stessa attività istintiva deriva da
una rappresentazione), ma anche e soprattutto che questa rappresentazione propone un oggetto sotto
l'aspetto di bene.
Proprio in ciò consiste la differenza formale fra la volontà e l'impulso istintivo. L'animale, che può avere
soltanto rappresentazioni sensibili, non percepisce l'oggetto che sotto l'aspetto con cui esso risponde hic et
nunc ad un appetito determinato, e, di conseguenza, l'azione segue meccanicamente la rappresentazione.
L'uomo, invece, in forza dell'universalità della sua intelligenza percepisce l'oggetto rappresentato non
semplicemente perché questo è capace di soddisfare una determinata tendenza, ma anche perché esprime un
grado di appetibilità o di bene; cioè lo percepisce e lo apprezza in funzione dell'idea generale di bene: sub
specie boni.

Ad esempio, l'animale affamato si getta automaticamente sul cibo che trova, perché la rappresentazione del
cibo è adeguatamente ed esclusivamente l'immagine di «ciò-che-può-saziare-la-sua-fame». L'uomo che ha
fame, posto nelle condizioni di potersi impadronire di un pane, non rappresenta a se stesso questo pane
soltanto come ciò che può sedargli la fame, ma anche come proprietà altrui: cioè il pane si presenta come
aspetti diversi che ne stabiliscono il valore in rapporto alla idea di bene. Di qui nasce la possibilità di
comportarsi in diversi modi a seconda del punto di vista che sarà scelto come meglio corrispondente hic et
nunc al bene da preferirsi. Si capisce subito che tutto ciò esige una ragione e dei concetti.

2. FORMA DEL CONFLITTO INTERIORE - Questa specie di polivalenza della rappresentazione e delle
cose stesse spiega i conflitti interiori: questi si producono fra tendenze antagonistiche messe in atto dai
diversi aspetti di bontà (o di appetibilità) di un medesimo oggetto - e ciò esige in maniera evidente in primo
luogo l'intervento di un'intelligenza che pensa con idee generali - poi un'intelligenza che giudica le cose
sotto l'aspetto di bene.

Per esempio, Paolo è occupato nel fare un componimento verso cui si sente poco attratto, ma che deve
finire e consegnare entro due ore. Contemporaneamente egli tiene sul tavolo un romanzo di avventure che lo
avvince. Ogni volta che lo sguardo gli cade sul romanzo, egli prova una grande voglia di riprenderne la
lettura e di mettere da parte quel componimento noioso. Però non lo fa. E ciò avviene soltanto perché il
romanzo viene inteso e valutato in relazione all'idea del dovere presente, cioè del bene, e non semplicemente
sotto l'aspetto particolare di piacevole distrazione: il punto di vista «lettura-contraria-al-dovere» entra in
conflitto e prende il sopravvento su quello di «lettura-avvincente». Ambedue i punti di vista sono intrinseci
alla rappresentazione, ma per essere percepiti suppongono un'intelligenza.
306
512 - 3. DETERMINAZIONE E INDETERMINAZIONE - Le osservazioni precedenti spiegano sia la
determinazione che l'indeterminazione della volontà. Infatti, la volizione è determinata dal bene percepito e
non agisce che in funzione del bene. Ogni attività volontaria si spiega adeguatamente come una
determinazione in virtù del bene conosciuto. In tal modo, come osserva Pascal, anche colui che va ad
impiccarsi cerca il proprio bene (che però non coincide con il bene)371; il ladro che ruba e l'assassino che
uccide agiscono allo stesso modo. Questo principio evidente è messo ben in chiaro dalla formula socratica:
«Nessuno fa il male volontariamente» ossia, nessuno può desiderare a se stesso ciò che è male, inteso per lui
come vero autentico male372.
Inoltre, per il fatto stesso che in un oggetto rappresentato la ragione percepisce vari e multiformi aspetti di
bontà, nessuno dei quali rappresenta il bene assoluto e totale, la volontà resta (in teoria, se non di fatto)
indeterminata: nessun bene, cioè nessun aspetto del bene è capace di determinarla, proprio perché si tratta
soltanto di beni parziali e limitati, cioè di cose che sono buone solo sotto un aspetto o sotto un altro. La
volontà, determinata a volere le cose sotto l'aspetto di bene (volontà come natura), resta libera di scegliere
fra i diversi beni che le si offrono (volontà come facoltà)373.
Il romanzo che è sul tavolo di Paolo è avvincente e quindi costituisce un bene indiscutibile; ma in quel
momento esso è contrario al dovere, ciò che gli impedisce di essere il bene. Il componimento rappresenta il
dovere, e come tale è un bene; e parimenti un bene anche a causa del profitto intellettuale che arreca, ecc. Ma
é noioso ed esige uno sforzo grave: dunque non è il bene. Anche la virtù è sempre soltanto un bene e non il
bene perfetto, perché impone sacrifici, sforzi e lotte che non coincidono coll'idea di bene perfetto.

513 - 4. LA VOLIZIONE CONCRETA - Così si spiega la scelta di un determinato bene, il compimento di


un determinato atto, come pure il duplice aspetto di determinazione e di in determinazione che in essa viene
rivelato dall'analisi. Empiricamente, la volizione concreta sarà definita, in base alle precedenti osservazioni,
come un'espressione della personalità intesa come un tutto unificato e coordinato armonicamente. Il fatto che
venga scelto un determinato aspetto del bene (o un dato bene) costituisce l'effetto e la conseguenza di ciò che
siamo, coscientemente e inconsciamente (perché la personalità totale si estende fino alle radici inconsci e
della nostra condotta), nel momento in cui facciamo la scelta: il volere concreto rivela in tal modo, con assai
maggior chiarezza di ogni discorso, l'essere che noi siamo.
Ma perfino questo nostro reale essere è voluto e scelto, e ciò sembra rinchiuderci in un cerchio, se è vero
che la mia scelta concreta dipende da ciò che io sono, e se ciò che sono dipende da ciò che voglio essere. Ma
di fatto questo cerchio non esiste, perché io mi attualizzo così come voglio essere soltanto attraverso le scelte
concrete che faccio. La volontà non è mai un oggetto che si possa contemplare e afferrare in qualche modo
allo stato puro, dall'esterno. Essa è, come ha ben compreso K. Jaspers 374 «una coscienza di sé in cui mi
comporto attivamente nei confronti di me stesso». La volontà esprime quell'atto misterioso con cui in realtà
pongo e perfino creo me stesso. «Scegliere», osserva Kierkegaard, vuole dire sempre «scegliersi», allo stesso
modo che «scegliersi» o «volersi» significa sempre volere o scegliere questa o quella cosa.

Art. IV - Depotenziamenti dell'attività volontaria


514 - L'automatismo ha un posto considerevole nella nostra vita. Abbiamo già visto, studiando il
movimento volontario, che questo si serve dei meccanismi neuro-muscolari i quali, una volta messi in moto,
compiono un'attività automatica. Ancor più intimamente nell'attività volontaria, e cioè nello stesso campo
psicologico, l'automatismo occupa un posto più o meno grande e fa pesare sulla volontà la minaccia di
dissolverla in semplici meccanismi automatici. In certi casi, l'automatismo prende forme nettamente
patologiche.

§ l - L'automatismo normale

1. LE ABITUDINI - L'automatismo motorio, definito dai meccanismi fisiologici già «caricati» di cui ci
serviamo secondo i bisogni di ciascun istante, si riveste anche di numerosi automatismi psicologici, alcuni

371 Soggettivamente, in seguito ad un errore di giudizio, è possibile che sembri esserci coincidenza e quindi non-
colpevolezza.
372 Cfr. Senofonte, Memorabili III, IX, 4-5. Sulla spiegazione della teoria socratica, cfr. R. Simeterre, La Théorie
socratique de la Vertu-Science selon les «Memorables» de Xenophon, Parigi, 1938.
373 Cfr. S. Tommaso, Summa theologica, I.a II.ae., q. 10, a. 2.
374 K. Jaspers, Philosophie, Il, (Existenzerhellung), 2. ed., Berlino, 1948, f. 151.
307
dei quali sono acquisiti e derivano dall'attività volontaria. Questo lo abbiamo già constatato nello studio
dell'abitudine (72-37), la quale, nelle sue forme superiori, è, si potrebbe dire, soltanto volontà resa
automatica o sistematizzata, e quindi una condizione di continuità e di progresso. Le nostre abitudini
professionali e morali sono in gran parte di questa specie e agiscono in noi come una seconda natura.
Viceversa, questo automatismo, che è nato dall'attività volontaria (sotto forma di attenzione, di metodo, di
sforzi ripetuti e continui) tende ad attenuarsi trasformandosi in consuetudine, in routine ed in inerzia; ciò
avviene quando scompaiono la riflessione o lo spirito di iniziativa da cui vengono rinnovate continuamente
le abitudini, aggiungendo al patrimonio acquisito e da esse rappresentato le nuove conquiste già attuate dalla
riflessione e dallo spirito di iniziativa. Perché esiste anche l'abitudine di dominare le abitudini e di
controllarle continuamente affinché restino sempre alle dipendenze dell'iniziativa volontaria da cui sono nate.

2. LA DISTRAZIONE - Nella vita quotidiana si può constatare che l'automatismo è normale nella misura
in cui resta sotto il controllo latente della coscienza. I movimenti più automatizzati (andare e venire,
salutare, raccogliere un oggetto che strascica, riconoscimento fisionomico, ecc.) in certe circostanze si
trovano di fatto inibiti. Entrando nel nostro ufficio, ci chiniamo automaticamente per raccogliere un pezzo di
carta, mentre ci guardiamo bene dal compiere il medesimo gesto nel salotto in cui ci troviamo per visita. La
distrazione consiste precisamente nel lasciare agire un automatismo che manca di controllo e di adattamento
alle circostanze: si tratta essenzialmente di un automatismo non sorvegliato. Nella vita normale
l'automatismo del nostro contegno è un fenomeno inevitabile che però talvolta raggiunge tali proporzioni per
cui il distratto offende le convenienze sociali oppure le esigenze elementari della prudenza 375.

§ 2 - L'automatismo anormale

515 - L'automatismo anormale o patologico include due categorie o gradi, cioè gli automatismi che sono
legati ad un indebolimento intellettuale, congenito o acquisito, acuto o cronico, e le forme di automatismo
che sono legate ad una deficienza dell'attività volontaria.

A. PATOLOGIA MENTALE.

1. LE DEMENZE - In tutte le forme di demenze (demenza precoce, paralisi progressiva, demenza senile,
alle quali si può aggiungere anche l'idiozia), l'intelligenza è più o meno profondamente turbata e lavora senza
disciplina; nei casi più gravi si ha l'obnubilazione completa. In rapporto a ciò, tutto il contegno mette in
evidenza un sempre maggior automatismo. Nella forma di delirio, si ha un'esaltazione dei fenomeni normali
di automatismo, che sfuggono ormai al controllo del malato, ma non sempre alla sua coscienza (ciò che
cagiona in lui un sentimento angoscioso di «spersonalizzazione»). Tale stato è però compatibile col persistere
di un buon numero di automatismi normali che agiscono normalmente: chi è colpito da paralisi progressiva
continua ancora a lungo ad esercitare la sua professione, prima di piombare nella demenza; il demente senile
rimane talvolta nella vita di società un uomo compito, che può reggere una conversazione assennata, mentre
di fatto i suoi gesti e le sue parole sono solo i resti automatici di una vita mentale che non c'è più.
Quando vi è la forma di vera e propria demenza (alienazione), l'unità affettiva della personalità è distrutta
e, propriamente parlando, è l'automatismo, nella forma più incosciente, a dirigere tutto il contegno del
malato.

2. SUGGESTIONE, ISTERISMO, IPNOTISMO - I fenomeni che scaturiscono dalla suggestione, fra cui
oggi vengono inclusi l'isterismo e l'ipnotismo, sono ancora mal conosciuti e molto discussi. D'altronde noi
qui dobbiamo solo osservare che essi sorgono dall'automatismo psicologico, sia in forma di etero-
suggestione: una rappresentazione che viene dall'esterno si impadronisce subito della coscienza e, per il fatto
di non essere inibita da altre rappresentazioni, sviluppa da sé tutta la propria azione ideo-motrice, - sia in
forma di auto-suggestione, che si ha quando il medesimo individuo è insieme suggestionatore e
suggestionato. L'etero-suggestione e l'auto-suggestione, se restano in certi limiti, non presentano nessuna
anomalia. Le loro forme anormali e patologiche sono rispettivamente l'ipnotismo e l'isterismo.

375 È noto il ritratto di Menalca (La Bruyère, Caractéres, c. XI, in Oeuvres de L. B., 2a ed., 3 voll., Parigi, 1912, tr. it.,
Milano, 1931): «Menalca scende le scale, apre la porta per uscire; la richiude. Si accorge di essere in berretto da notte;
e, cominciando ad esaminarsi meglio, si trova rasato a metà (...). Se cammina per le piazze, si sente a un tratto colpire
violentemente allo stomaco o al viso; egli non ha la minima idea di quel che possa essere, fino al momento in cui, aperti
gli occhi e svegliatosi, si trova dinanzi il timone di una carrozza».
308
Esistono molte forme di automatismo morale che non sono che vari aspetti della nevrosi ossessiva. La
forma più comune di questo automatismo consiste nell'attribuire un valore morale sia ad atteggiamenti
puramente meccanici, sia a fatti esterni indipendenti dalla volontà. Nel primo caso, l'ossessionato impone a
se stesso pratiche minuziose che hanno di solito un carattere stravagante: si obbliga, ogni volta che attraversa
un passaggio pedonale, a camminare posando il piede su tutti i chiodi del passaggio stesso; se le esigenze
della circolazione lo costringono a passare più svelto e a saltare qualche chiodo, egli ritorna indietro e
ricomincia da capo. Un altro si costringe a scendere a due a due gli scalini del proprio appartamento posto al
terzo piano; se giù per le scale incontra qualcuno, si mette a scendere in modo normale, per paura di passare
da ridicolo (però, nei casi gravi, questo timore non ha più alcuna influenza), ma poi risale al terzo piano per
scendere proprio come si è «obbligato» a fare.
Nella vita religiosa, certe pratiche automatizzate e di una minuziosità ridicola (che caratterizzano quello che
di solito si chiama scrupolo) rientrano in questo genere di automatismi morali. Nella seconda categoria si
devono includere tutti gli atteggiamenti superstiziosi che consistono nell'attribuire un significato morale ad
eventi fortuiti o ad incidenti. Di solito, queste due specie di fatti rappresentano fenomeni di compensazione:
le reazioni automatizzate tendono infatti sia a compensare una vera e propria deficienza morale, sia ad
equilibrare, per mezzo di inibizioni «volontarie», alcune inibizioni ossessive irreprimibili, sia a nascondere
un complesso di inferiorità.

B. PATOLOGIA DELLA VOLONTÀ

516 - Qui vengono trattate le malattie della volontà, non quelle mentali. Ma gli stretti rapporti che esistono
fra intelligenza e volontà ci devono far ben comprendere che questi casi 376 riguardano anche le facoltà
mentali e che, parlando di «patologia della volontà», si vuole soprattutto indicare l'aspetto principale delle
diverse psico-nevrosi. Circa le malattie della volontà, esistono diverse classificazioni possibili: esse si
possono distribuire in tre categorie, stabilite in base alle tre fasi dell'attività volontaria, oppure si possono
dividere secondo i tipi di automatismo che includono.

1. LE TRE CATEGORIE DI ABULIA

a) Patologia della deliberazione. Si fa distinzione fra l'abulia degli impulsivi e quella degli intellettuali.

Abulia degli «impulsivi». La volontà non giunge a rendere possibile la deliberazione; gli abulici subiscono
passivamente i propri impulsi e si può dire che essi non comprendono l'azione ma la subiscono. Il capriccio
è dello stesso genere.

Abulia degli «intellettuali». È il caso di coloro che non fanno altro che deliberare, senza passare mai alla
decisione; essi rimettono continuamente sul tappeto gli stessi problemi, ma non possono risolversi a
concluderne l'esame valutativo. Per loro la deliberazione non si conclude mai.

b) Patologia della decisione. Altri, invece, possono arrivare fino a concludere la deliberazione e a
formulare un giudizio teorico. Ma per loro è impossibile il passaggio dalla decisione all'atto: essi si fermano
alla constatazione di ciò che dovrebbero fare, senza decidersi a volerlo fare. Oppure aspettano che le
circostanze decidano per loro: è l'abulia dei velleitari.

c) Patologia dell'esecuzione. Vi si distingue: l'abulia dei deboli, quegli degli ossessionati e la caparbietà.

Abulia dei deboli: il debole dà l'impressione di decidere e talvolta perfino con energia; ma raramente passa
all'esecuzione: egli non cessa mai di ritornare sulle sue pretese decisioni e lo fa con tanto maggior forza,
quanto meno le manda ad esecuzione. Se comincia ad agire, cede alla prima difficoltà e talvolta desidera e
provoca questa difficoltà che lo dispenserà dal mandare a compimento il suo volere.

Abulia degli ossessionati: è il caso di coloro che subiscono l'azione di un'idea fissa. Quando questa malattia
è in forma benigna, gli ossessionati possono essere presi per tipi volitivi. Ma, proprio all'inverso, la volontà è
assente in loro perché questa consiste nell'essere padroni di sé, mentre gli ossessionati sono comandati e
guidati dalla loro idea fissa.

376 P. Janet (Obsessions et Phychasthénies, l, p. 354) scopre in essi un indebolimento della sintesi mentale.
309

La caparbietà. Può essere avvicinata all'ossessione: i caparbi sono coloro che niente può smontare dalle
loro idee o ghiribizzi. Si tratta di una vera forma di ossessione, e la caparbietà manifesta assai più
l'impotenza del volere che una vera e propria volontà: infatti deriva dall'esaltazione morbosa degli istinti di
voler affermare se stessi e di contraddire gli altri. Il caparbio viene dominato da questi istinti, mentre invece
dovrebbe essere la sua volontà a dominarli.

517 - 2. TIPI DI AUTOMATISMO - La divisione in base a tipi di automatismo che noi proponiamo,
crediamo che dia una classificazione migliore perché il suo punto di vista è più formale di quello della
divisione precedente. Questa infatti non ci fa comprendere le cause delle diverse forme di abulia e si inspira
al criterio che «la volontà» rappresenti (o debba rappresentare) una funzione dittatoriale e, allo stesso tempo,
inesplicabile. L'automatismo psicologico può derivare sia da inibizioni interne anormali che contrastano
l'attività normale, come al contrario da un indebolimento delle funzioni inibitorie.

a) Le inibizioni interne. Una rappresentazione oppure un insieme di rappresentazioni o di sentimenti


paralizzano l'attività normale. Nel caso di ossessione, queste inibizioni generano, per reazione o per
compensazione, degli atteggiamenti più o meno bizzarri (manìe, tic) i quali prendono alla loro volta la forma
di impulsi ossessivi.
Esempi: nella ossessione di contagio, il malato gira alla larga e non si avvicina a certi determinati oggetti;
non osa aprire né gli occhi né la bocca, è sempre a lavarsi le mani usando disinfettanti che, a suo avviso, non
sono mai troppo energici, ha paura di tutti coloro con cui entra in relazione, scruta continuamente le proprie
vesti, specialmente la biancheria intima, per controllare se sono pulite, ecc. Una donna è preoccupata dallo
scrupolo di camminare involontariamente su una croce. Per strada, essa pensa soltanto a osservare
continuamente dove mette i piedi per paura di pestare qualche foglio in cui sia disegnata una croce. Per
precauzione, raccoglie diligentemente tutti i fogli che vede. Se per caso trascura di farlo, perché prova un
timore normalissimo di farsi notare, essa non si dà più pace né tregua: per riavere la sua calma, bisogna che
ritorni sui propri passi ad esaminare il foglio che era stato trascurato, ecc.

I casi di depressione (malinconie, depressioni nervose e psicastenie, nevrastenie) si riferiscono a stati in


cui la volontà è patologicamente inibita e nei quali manca l'inclinazione agli atti volontari (naturali negli
individui normali), sia a causa di ostacoli interni o esterni che impediscono l'attenzione, sia perché in genere
manca la capacità di trasferire nel campo della coscienza le ragioni di agire. Siccome, in questo caso, la
volontà si nasconde in forza delle inibizioni che essa non arriva a dominare, l'attività (d'altronde ridotta) è
lasciata, in modo quasi completo, in balìa dell'automatismo.
Questo automatismo, come è stato dimostrato da P. Janet (Obsessions et Psychasthénies) si rapporta,
propriamente parlando, all'attività mentale e non, come si usa ripetere, alle rappresentazioni. Almeno quando
si parla per dirla in breve, di «automatismo delle rappresentazioni», bisogna capire che esso non si riduce
all'azione meccanica di un'idea ossessiva (monoideismo), ma che è costituito dalla riproduzione spamodica
della ossessione inibitrice. L'immagine non si impone all'ossessionato da se stessa, ma è costui che se la
impone. Il terrore, da lui talvolta manifestato, che gli ritorni l'immagine ossessiva (e le inibizioni che ne sono
la conseguenza) è solo una forma e un segno che essa si riproduce in modo automatico. Proprio in ciò
consiste l'aspetto patologico del suo caso che è un processo di auto-ossessione e di auto-inibizione.

b) I difetti di inibizione. In questa categoria rientrano tutti i casi in cui le funzioni normali di inibizione e di
controllo sono menomate o assenti. Tali sono le psicopatie di forma abulica: abulie dei deboli, degli
«intellettuali», dei velleitari, degli impulsivi, dei capricciosi. Tutti questi malati si lasciano passivamente
trascinare dall'automatismo delle tendenze e degli istinti 377.

377 Cfr. Juliette Boutonìer, Les défaillances de la volonté, Parigi, 1945.


310

CAPITOLO SECONDO

LA LIBERTA'

SOMMARIO378

Art. I - CONCETTO DI LIBERTÀ. Natura dell'indeterminazione - Necessità e contingenza - Determinazione


e indeterminazione - Contingenza e libertà - Libertà di fare e libertà di volere - Libertà di fare -
Libertà di volere.

Art. II - LE PROVE DEL LIBERO ARBITRIO. Le prove dell'esperienza - Testimonianza della coscienza
psicologica - Testimonianza della coscienza morale - Testimonianza della coscienza sociale Prova
metafisica - Principi dell'argomento - L'argomento.

Art. III - NATURA DEL LIBERO ARBITRIO. Libertà e indifferenza - L'indifferenza di equilibrio -
L'indifferenza è un mito e una cosa impossibile - Libertà e determinismo psicologico - Il privilegio
del «motivo più forte» - Il determinismo psicologico distrugge la libertà - Libertà e auto-
determinazione - La spontaneità - L'autodeterminazione.

Art. IV - GLI ARGOMENTI DEL DETERMINISMO. Fatalismo e predeterminazione - Il fato - Il


determinismo fisico - Libertà e causalità Libertà e conservazione dell'energia - Libertà e società -
Conclusione - La conoscenza di sé - La rettitudine del volere.

518 - La volontà ci è apparsa, psicologicamente, caratterizzata dal sentimento di libertà interna. Bergson
considera questo sentimento come uno di quei «dati immediati della coscienza» che si impongono da se
stessi per loro propria evidenza. Si deve però supporre che i filosofi non si lascino molto convincere da tale
genere di evidenza, perché se tutti sono d'accordo sulla realtà empirica del sentimento di libertà, parecchi di
essi pretendono di non scoprire in tale sentimento che una pura illusione. La libertà costituisce dunque un
problema i cui aspetti essenziali si riferiscono alla natura della libertà e agli argomenti con cui i filosofi si
sforzano o di stabilirne, oppure di negarne la possibilità e la realtà.

Art. I - Concetto di libertà


Per avere un concetto preciso della libertà, basta che ci riferiamo allo studio fatto sulla volontà, perché la
libertà non è che il modo con cui si esercita il vero e proprio volere. D'altronde abbiamo visto che la volontà
era, sotto i diversi aspetti, sia determinata che indeterminata: determinata quanto al bene che costituisce il
termine necessario di ogni attività volontaria; indeterminata (almeno idealmente), quanto ai diversi e parziali
aspetti sotto cui il bene si presenta alla volontà stessa. È evidente che questa indeterminazione ideale forma
ciò che caratterizza la libertà morale. Ora non ci resta che di precisarne la natura.

A. DETERMINAZIONE E INDETERMINAZIONE

378 Cfr. S. Tommaso, la, q. 82-83; la IIae, q. 6-17 - E. Gilson, La Doctrine cartésienne de la liberté et la théologie,
Parigi, 1913. - J. Nabert, L'expérience intérieure de la liberté, Parigi, 1923. - J. Lequier, La liberté, textes inédits
présentés par J. Glanier, Parigi, 1936. - J. Laporte, La conscience de liberté, Parigi, 1947. - H. Bergson, Les données
immédiates de la conscience. - J. Maritain, De Bergson à Thomas d'Aquin, Parigi, 1947, cap. V e VI. - Berdiaeff, De
l'esclavage et de la liberté de l'homme, Parigi, 1946. - M. Heidegger, Sein und Zeit, 1929, Essere e tempo. tr. it., Milano-
Roma, 1953. - K. Jaspers. Philosophie, t. II (Existenzerhdlung). - J. P. Sartre, L'Etre et le Néant. Parigi, 1943, - Fr.
Jeasson, Le problème moral et la pensée de Sartre, Parigi, 1947, 3a p., cap. 1. - Simone De Beauvoir, Pour une morale
de l'ambiguité, Parigi, 1947. - P. Ricoeur, G. Marcel et K. Jaspers. Parigi, 1947, p. 207-2.64. . Merleau-Ponty,
Phénoménologie de la perception. Parigi. 1945. 3a p., cap. 3. - Y. Simon, Traité du libre arbitre, Liegi. 1951.
311
519 - È necessario che si comprenda con esattezza il senso dei termini con cui vengono specificati la
libertà del volere e l'atto libero. La maggior parte delle difficoltà che vengono fatte al concetto di libertà
morale deriva dal carattere ambiguo ed equivoco dei termini adoperati 379.

1. NECESSITÀ E DETERMINAZIONE - Si dice determinato ciò che si può spiegare, in qualsiasi modo,
per mezzo dei suoi antecedenti. Esistono perciò tanti tipi di determinazione, quanti sono i tipi di causalità (I,
184-185). Sotto tale aspetto, distingueremo: la determinazione meccanica, quella affettiva e quella
razionale, a seconda che la cosa o l'atto hanno per antecedente immediato o una forza meccanica (come nei
fenomeni della natura), o una potenza affettiva (istinti e tendenze, ossessioni, passioni ed emozioni), oppure
un giudizio della ragione.
D'altra parte, la determinazione meccanica e quella affettiva sono necessarie, nel senso che il conseguente
non può non risultare dall'antecedente, né essere diverso da come lo esige l'antecedente stesso ( determinatio
ad unum). Invece la determinazione razionale non è necessitante, perché non appartiene al medesimo ordine
della costrizione: la ragione propone, sotto forma di giudizio pratico, una condotta a cui la volontà può o non
può conformarsi, ossia l'ultimo giudizio pratico - quello da cui scaturisce l'atto - rimane sempre nel dominio
della volontà

2. DETERMINAZIONE E LIBERTÀ - Se è vero che tutto ciò che è, è intelligibile, e per conseguenza in
qualche modo determinato, l'atto libero dovrà anch'esso comportare la sua propria determinazione. Sta di
fatto che la sola determinazione che esso può ammettere è - come è stato dimostrato dall'esame della volontà
- la determinazione razionale, perché quella meccanica (che d'altronde ha valore solo per le cose) e quella
affettiva (quando è lasciata in balìa di se stessa) sono tanto l'una che l'altra necessitanti, e per conseguenza
incompatibili con la libertà.
Tuttavia, anche se sotto l'aspetto razionale l'atto libero è determinato (in virtù del giudizio pratico che lo
condiziona), esso è anche indeterminato, sia perché procede dalla ragione, che è la facoltà capace di liberarsi
da tutte le determinazioni estranee alla propria legge, sia inoltre perché risulta da una volontà che è dotata di
indifferenza attiva circa i giudizi pratici della ragione. Tocca ad essa difatti - fra gli atti possibili che
l'intelligenza propone come buoni in rapporto a questo o a quel fine - di scegliere in ultima istanza il bene da
compiere, come quello che è, hic et nunc, in più stretto rapporto col bene assoluto (o beatitudine) che è il
termine necessario del suo movimento; e ciò si afferma dicendo che l'ultimo giudizio pratico è sotto il
dominio della volontà. Questa indeterminazione (o indifferenza attiva), circa i giudizi della ragione
costituisce la forma stessa del libero arbitrio.

3. LA LIBERTÀ UMANA - Queste considerazioni si possono trasportare sul piano psicologico, cioè in
quello della volontà umana, sollecitata da diversi tipi di bene. In senso concreto, l'atto libero è determinato,
cioè si spiega attraverso i suoi antecedenti, ossia attraverso l'attrazione di un bene (o di un fine) conosciuto e
proposto dalla ragione (tutto ciò si riassume nel termine: ultimo giudizio pratico), ma esso è tuttavia, sotto un
altro aspetto, idealmente indeterminato, in quanto la volontà ha il dominio dell'ultimo giudizio pratico in
forza del quale determina se stessa. Proprio in questa indeterminazione consiste la libertà del volere in ciò
che essa ha di più formale. L'indeterminazione ideale del volere e la sua determinazione effettiva
compongono quindi una vera e propria auto-determinazione.

Così si vede che l'atto libero è il frutto comune sia dell'intelletto che della volontà, perché ambedue
concorrono insieme ad una medesima condeterminazione. Infatti, se dipende dalla volontà che un
determinato bene sia scelto dall'ultimo giudizio pratico dell'intelletto, la volontà può da se stessa mettere in
atto questa scelta solo a condizione che ne sia formalmente determinata dal giudizio della ragione: giudizio
che è reso efficace dalla scelta della volontà. In altre parole, la specificazione razionale dell'atto, cioè del
bene che conviene scegliere hic et nunc, dipende dall'esercizio della volontà; ma questo stesso esercizio è
possibile solo a condizione che vengano presentati dalla ragione i diversi beni che sono attualmente
realizzabili. Esiste quindi una causalità reciproca fra l'intelletto e la volontà. Il principio prossimo della
libertà consiste nell'indeterminazione dell'ultimo giudizio pratico, mentre il principio remoto si trova nella
ragione stessa.
Tutto ciò dimostra come la libertà è, nella sua stessa essenza, proprio quella potestas ad opposita o potere
dei contrari (libertà di scelta, libertas arbitrii) su cui hanno continuamente richiamato l'attenzione gli
psicologi. Ma la scelta si deve intendere più in senso metafisico che psicologico. Essa non significa

379 Cfr. P. Ricoeur, Philosophie de la volonté, Parigi. 1950. t. I. p. 172-180.


312
l'intervento arbitrario della volontà in un conflitto che le è estraneo, ma solo una capacità a determinare se
stessa in rapporto a beni, nessuno dei quali è, di per sé, assolutamente determinante. Perfino quando,
psicologicamente, non c'è nessuna scelta (ossia, in questo caso, nessuna decisione che ponga fine ad una
oscillazione), la scelta, cioè l'auto-determinazione, definisce, nella sua essenza, il concetto stesso di volontà
libera.

B. - LIBERTÀ DI FARE E LIBERTÀ DI VOLERE

520 - L'atto libero esclude, nel campo della volontà, ogni specie di necessità e cioè la costrizione esterna,
ossia: l'azione di un agente esterno che si imponga con la forza (libertas a coactione), e la costrizione
interna, ossia tutto ciò che scaturisce dall'automatismo meccanico e assimila l'attività al riflesso e all'istinto
(libertas arbitrii). Nel campo dell'azione, un atto esterno si dice libero quando non subisce nessuna
costrizione esterna. Si possono quindi distinguere due tipi di libertà: la libertà di fare e la libertà di volere.

1. LA LIBERTÀ DI FARE - L'unica condizione per una siffatta libertà consiste nell'essere esente da ogni
costrizione esterna. A tale genere di libertà appartengono la libertà fisica, o libertà di muoversi; la libertà
civile, o potere di agire secondo i propri criteri, però nei limiti fissati dalle leggi civili; la libertà politica o
diritto di prendere parte, nelle forme stabilite dalla costituzione, al governo dei diversi gruppi politici
(comune, Stato); la libertà di coscienza e la libertà di pensiero, ossia la facoltà di potere agire esternamente
secondo la propria coscienza e di esprimere esternamente il proprio pensiero con scritti o con parole.
Tutte queste libertà di carattere esterno non coincidono affatto col concetto di libertà interna o libero
arbitrio: esse possono mancare senza che faccia difetto la libertà di volere, come anche possono essere
esercitate tutte senza la libertà interna.

521 - 2. LA LIBERTÀ DI VOLERE - Questa libertà si chiama pure libertà morale (o interiore) o libero
arbitrio (perché definisce la volizione che non subisce alcuna costrizione o necessità interna), che deriva dal
fatto di essere padrone di sé (arbiter sui) e sta alla base dell'attività morale. Bisogna quindi fare attenzione a
non ridurre questa libertà alla spontaneità, la quale esclude solo la costrizione esterna e può essere
compatibile con la necessità, come avviene nel caso della determinazione affettiva.

La libertà di volere si esercita in diverse forme. Infatti si fa distinzione fra: la libertà di esercizio (o di
contraddizione), ossia la libertà di agire o non agire, la libertà di specificazione, ossia di agire in un modo o
in un altro, di compiere un'azione oppure un'altra, la libertà di fare il bene oppure il male (o libertà di
contrarietà)380. Nessuna di queste forme di libero arbitrio esclude la determinazione, perché, se non si vuol
cadere nel ridicolo, si devono sempre avere delle ragioni per agire o non agire, per agire in un modo o in un
altro, per fare il bene oppure il male. La mancanza di determinazione, lungi dal costituire l'atto libero, lo
distruggerebbe nella sua essenza, perché equivarrebbe al puro caso, che è un aspetto della necessità
meccanica (II, 71).

Art. II - Le prove del libero arbitrio


522 - La realtà del libero arbitrio si fonda su ragioni dedotte dall'esperienza e su un argomento metafisico.

§ l - Le prove dell'esperienza

A. TESTIMONIANZA DELLA COSCIENZA PSICOLOGICA

1. L'ARGOMENTO - Questo argomento invoca la coscienza, ossia l'intuizione della libertà. Può
presentarsi in diverse forme. Talvolta si ricorre al sentimento, comune ad ogni uomo, di essere un essere
libero. «Ciascuno di noi ascolti e consulti se stesso, scrive Bossuet (Traité du libre arbitre, cap. lI), e sentirà
di essere libero allo stesso modo che sente di essere ragionevole». Talvolta (W. James), esso consiste nel
dimostrare che l'atto volontario è intelligibile solo per mezzo della libertà, perché né la deliberazione, né la
decisione, né l'esecuzione hanno alcun significato senza la libertà la quale viene da esse esigita e manifestata

380 Noi sappiamo che il male può essere voluto solo sotto l'aspetto in cui è, o appare buono a colui che lo compie. In
senso materiale, esso è sempre qualcosa di buono. In senso morale, è un male in quanto e nella misura in cui questo
bene non è quello esigito dalla norma della moralità oggettiva.
313
(492). Talvolta, l'argomento insiste, non propriamente sul sentimento generale di libertà, ma sull'esperienza
di libertà che è immanente all'atto libero e che, di fatto, forma con esso una sola cosa. Noi abbiamo, dice
Cartesio, un «vivo sentimento interno» della libertà, che «si riconosce per tale senza bisogno di prove, per la
sola esperienza che ne abbiamo». Nel medesimo senso, J. Lequier scrive: «Io prendo coscienza della mia
libertà, senza averne nessuna conoscenza».

K. Jaspers(Philosophie, t. II, (Existenzerhellung), p. 177-180) dimostra che lo stesso problema della libertà
esige in modo lampante l’esistenza della libertà medesima. Infatti, egli dice, il problema di sapere se sono
libero ha la sua prima origine in me stesso: voglio che la libertà sia. Solo in forza di ciò si trova posta la
questione sulla possibilità della libertà, perché soltanto un essere libero o capace di libertà può interrogare se
stesso sulla libertà. Altrimenti, il problema stesso sarebbe privo di senso, e l'idea di libertà non
corrisponderebbe a nessuna esperienza comprensibile. Ma l'uomo solleva tale problema solo perché questo è
radicato nel più profondo del suo essere personale come un'esigenza assoluta della sua volontà. E così, o la
libertà è un nulla, oppure è già presente come una volontà originale di essere libero: la volontà vuole se
stessa, e volersi equivale per lei ad esistere.
Osserviamo infine che i sostenitori del libero arbitrio (inteso soprattutto nel senso di libertà di indifferenza)
adducono spesso come prova le attività gratuite 381.

2. DISCUSSIONE - All'argomento psicologico sono state opposte due specie di obiezioni.

a) Non esiste coscienza di potere. Stuart Mill dice che noi abbiamo una reale coscienza solo dell'atto, non
del potere o del possibile: la coscienza può anche dirmi quel che faccio hic et nunc, ma non quel che sarei
capace di fare e non faccio, perché questo non esiste.

Questa obiezione è senza dubbio valida contro le prime due forme dell'argomento, come pure contro
l'aspetto delle attività gratuite, nella misura in cui esse invocano una coscienza di potere puro. Si può
d'altronde ribattere che l'atto gratuito, cioè completamente indeterminato, non può essere un atto libero. Tale
atto non è concepibile in un essere ragionevole: l'uomo di Reid non sceglie la moneta con cui paga, proprio
perché non ha nessuna ragione di sceglierla (ossia perché ha una ragione per non sceglierla). In altri casi, la
volontà di compiere un atto assolutamente gratuito (il Lafcadio di Gide), fa sì che tale atto non sia più
propriamente gratuito382. D'altronde è evidente che gli «atti insignificanti» di Reid, compiuti senza che si
abbia coscienza del motivo determinante, non sono atti volontari, ma solo automatici o semi-automatici.

All'argomentazione di S. Mill si risponde spesso che se la coscienza non può di fatto percepire l'atto
possibile (che non esiste, dal momento che è solo possibile), almeno essa può percepire il potere attuale
reale che il soggetto possiede di compiere, o meno, un atto, di compiere atti differenti e anche di percepire se
stessa come non necessitata dalle premesse ma come arbitra della propria scelta. Tuttavia questa risposta ha
vero valore solo a condizione che si stabilisca che il sentimento di questo potere (o virtualità) e di questa
mancanza di costrizione interna non è un'illusione.

Proprio questo vuol provare l'argomento di Cartesio e di Lequier, i quali, accettando l'obiezione sulla
coscienza di un potere puro, affermano che la mia coscienza di libertà forma un tutto unico con 1'atto libero,
nel momento stesso in cui lo pongo: in tal caso la mia coscienza di libertà è identica alla libertà della mia
coscienza (cioè del mio atto). Sotto tale aspetto, l'argomento è meno discutibile, pur rimanendolo ancora un

381 Cfr. Bossuet, Traité du libre arbitre, in Oeuvres complétes, 10 voll., Bar-leDuc, 1877 cap. 2: «Sento che alzando la
mano, io posso o volerla tenere immobile, o volerle dare un movimento, e che, risolvendomi a muoverla, posso
muoverla con uguale facilità a destra o a sinistra: perché la natura ha disposto gli organi del movimento in maniera che
io non provo né maggior fatica né maggior piacere nel fare l'uno o l'altro di questi gesti; cosicché quanto più seriamente
e profondamente rifletto a ciò che mi porta a questo anziché a quello, tanto più chiaramente sento che a determinarci
non è che la mia volontà, senza che possa trovare nessun'altra ragione a farlo». – Reid, a sua volta, scrive: «Quanto a
me, faccio ogni giorno moltissime azioni insignificanti, senza aver coscienza di nessun motivo che mi determini ad
esse». Un uomo che ha da pagare una moneta e ne possiede duecento, ne dà una qualunque, senza nessuna ragione di
scegliere l'una piuttosto che dell'altra. (Th. Reid, The Works of. T. R., 8a ed, Edimburgo. 1895, tr. fr., Oeuvres (Jouffroy),
t. VI, p. 214).
382 Cfr. Leibniz, Theodicée, I, 45 in Die Philosophischen Schriften von G. W.L., 7 voll. a cura di C. J. Gerhardt,
Berlino, 1875-90: «Quando si prende una decisione per capriccio allo scopo di dimostrare la propria libertà, il piacere o
il vantaggio che si crede di trovare in questa ostentazione, è una delle ragioni che ci inducono ad essa».
314
poco. Affinché non lo fosse più, bisognerebbe anche provare che l'illusione è impossibile, ossia che la
coscienza della libertà non è solo una libertà nominale, ma una libertà reale. Ma proprio su questo verte la
discussione. Perciò, crediamo che l'argomento psicologico abbia un autentico valore solo se viene integrato
coll'argomento metafisico, il quale, col dimostrarci che noi dobbiamo essere liberi, giustifica il sentimento di
libertà.

Il punto di vista di Jaspers sfugge a queste difficoltà. Esso dimostra chiaramente: da un lato, che la libertà è
possibile dal momento che me lo domando, e dall'altro, che essa è esigita, a meno che io non voglia cadere
nell'assurdo, dalla mia volontà di essere libero: una volontà adeguatamente determinata e che si pretenda
libera può essere concepita con la stessa facilità di un circolo quadrato o di un animale che rivendicasse la
razionalità. L'argomento di Jaspers associa dunque efficacemente il punto di vista metafisico con quello
psicologico.

523 - b) La coscienza della libertà è illusoria. Difatti si dice che, prima dell'atto, la libertà consiste
nell'avere coscienza delle oscillazioni che precedono la determinazione. Dopo l'atto, essa consiste solo
nell'aver coscienza retrospettiva di queste oscillazioni e nel sentire che l'atto è nostro oppure spontaneo.
Nell'atto stesso della volizione, l'esperienza della libertà può essere apparente e trovare piena spiegazione
nell'ignoranza che è in noi delle cause che ci hanno determinato ad agire 383. È questo il caso di chi dorme,
dell'ubriaco, dell'ipnotizzato, dell'isterico, i quali tutti sono convinti di agire liberamente, nel momento stesso
in cui subiscono una costrizione irresistibile. Così, conclude Bayle, la banderuola fatta girare dal vento, se
avesse coscienza dei propri movimenti senza conoscerne la causa, ne attribuirebbe a se stessa il merito e
l'iniziativa.

A queste difficoltà possiamo rispondere, prima di tutto, che esse non sono sufficienti per dimostrare che la
libertà è un'illusione e che, a rigor di termini, esse proverebbero solo il fatto che può essere tale. Ma queste
difficoltà riescono a dimostrarlo? Si osserva al contrario che se il principio della obiezione fosse esatto, ne
seguirebbe che noi dovremmo sentirci tanto più liberi, quanto più attenuata fosse in noi la coscienza di una
determinazione interna in forza delle idee o dei sentimenti. E ciò tuttavia non si verifica. L'esperienza che
abbiamo della libertà include un sentimento di determinazione, nel senso che noi sappiamo e vediamo
(almeno intuitivamente) il motivo per cui compiamo un'azione o la compiamo in quel determinato modo. Si
potrebbe anche dire che la determinazione necessaria sopprimerebbe la coscienza di determinazione
(razionale) (ossia la coscienza di sé), perché essa costituirebbe in cosa esterna la mia coscienza e, per ciò
stesso, la distruggerebbe. Io formerei un tutto unico con le cose che mi determinano. Al pari di un animale,
anch'io sarei estraneo a me stesso.

Questa risposta è certamente forte e stabilisce almeno che la libertà ha una grandissima probabilità di
esistere. Ma contro di essa è stato tuttavia obiettato che l'esperienza cui si appella, si potrebbe spiegare, a
rigor di termini, con la reale esistenza dei diversi gradi di determinazione e dei loro conflitti: quando sono
sollecitato da diverse tendenze passionali, potrei avere l'illusione di non essere determinato ad unum e di
essere in grado di scegliere, senza che la «scelta» sia veramente libera. Rimane comunque il fatto, si
potrebbe aggiungere, che la capacità di riflettere, ossia di scrutarsi e di possedere se stesso, sembra
incompatibile con la necessità. Ma proprio questo è l'argomento metafisico. Da questo nostro esame
concluderemo dunque che la coscienza psicologica ha pieno valore solo quando esige in pari tempo quella
che si potrebbe chiamare coscienza metafisica della libertà.

B. TESTIMONIANZA DELLA COSCIENZA MORALE

383 Cfr. Spinoza, Ethica, II, prop. XXXV, scholion: «Falluntur homines quod se liberos esse putant; quae opinio in hoc
solo consistit quod suarum actionum sunt conscii et ignari causarum a quibus determinantur. Haec ergo est eorum
libertatis idea, quod suarum actionum nullam cognoscant causam. Nam quod aiunt, humanas actiones a voluntate
pendere, verba sunt, quorum nullam habent ideam». Leibniz parimenti scrive (Theodicée. I, 50): «La ragione che è stata
portata onde provare l'indipendenza delle nostre azioni libere per mezzo di un preteso vivo sentimento interno, non ha
alcuna forza. Propriamente parlando, noi non possiamo sentire la nostra indipendenza, né sempre ci accorgiamo delle
cause, spesso impercettibili, da cui dipende la nostra risoluzione. È come se l'ago calamitato trovasse gusto nel volgersi
verso il nord; perché esso potrebbe credere di volgersi indipendentemente da qualsiasi altra causa, dato che non si
accorge dei movimenti sensibili della materia magnetica». Schopenhauer, Uber die Freiheit des Menschlichen Willens,
cap. 2.
315
524 - 1. ARGOMENTO - Senza la libertà, per l'uomo non esisterebbero: né il dovere o obbligazione
morale, perché non può esistere obbligazione morale o dovere che per un essere indipendente da ogni
costrizione, né la responsabilità morale, perché si deve rispondere solo degli atti di cui siamo gli autori, né
merito o demerito, né sanzione di sorta, perché queste cose sono comprensibili solo in funzione della libertà.

Questo argomento viene adoperato da Kant, nella Critica della ragione pratica, per stabilire la libertà, la
quale è però considerata solo un postulato. La libertà è postulata dal dovere, il quale senza di essa non
avrebbe alcun senso; ma non è né esperimentata (perché il sentimento della libertà è illusorio, per il fatto che
l'esperienza dei fenomeni soggiace al più rigido determinismo), né dimostrata, perché, per dimostrarla,
bisognerebbe fare un uso trascendente della ragione: uso che involgerebbe un sofisma, dato che la ragione ha
valore solo nel campo dei fenomeni. La libertà che viene postulata dal dovere non fa quindi parte dell'ordine
fenomenico, ma è, dice Kant, una libertà noumenica, ossia una libertà che si esplica al di fuori dello spazio e
del tempo e crea il nostro carattere intelligibile.

525 2. DIFFICOLTÀ - Contro questo argomento si obietta che il sentimento di obbligazione potrebbe
risultare dalla costrizione sociale. Ma tale obiezione, che non ha valore, sarebbe certamente meno speciosa
se si comprendesse a pieno tutto ciò che è reso necessario dal sentimento di responsabilità morale.

a) L'obbligazione e la costrizione sociale. L'obbligazione si regge sul principio stesso dell'argomento


basato sulla coscienza morale e contesta il fatto che il libero arbitrio debba essere necessariamente legato
all'obbligazione e alla responsabilità. Infatti, l'obbligazione può essere nella coscienza soltanto 1'effetto della
costrizione sociale (507), allo stesso modo che la responsabilità si può ridurre al sentimento di avere agito in
conformità o in opposizione agli imperativi sociali (l'animale deve provare qualcosa di simile perché lo si
vede sopportare e temere le sanzioni inflitte ai suoi atti). Inoltre sta di fatto che noi applichiamo delle
sanzioni nei confronti di esseri che consideriamo irresponsabili: fanciulli. dementi, animali.

Questa obiezione non regge. Da un lato infatti, spiegare i sentimenti di obbligazione e di responsabilità
con la costrizione sociale non è che un postulato gratuito e tra i meno intelligibili (391-392). Dall'altro, se
l'animale dimostra di aspettarsi la sanzione dei suoi atti, ciò non deriva dal fatto che esso se ne riconosce
responsabile, ma semplicemente dal fatto che la sanzione, in forza dell'ammaestramento, ha finito col
formare un tutto unico (una struttura) con l'atto sanzionato. Infine, se è vero che sugli irresponsabili si
esercitano varie costrizioni, ciò avviene unicamente per ragioni correzionali e difensive, non per ragioni di
sanzione penale o di castigo. Propriamente parlando non si sanzionano che gli atti degli esseri responsabili 384.

b) Responsabilità e libertà. Onde dare tutto il suo peso all'argomento derivato dalla coscienza morale,
conviene osservare che esso consiste più nell'affermare il concetto di libertà nella responsabilità, che nel
dedurre la libertà dalla responsabilità stessa. Ciò significa che l'argomento è più di carattere psicologico che
morale e, per tale motivo, esso sfugge a tutte le difficoltà che si possono opporre ad una coscienza pura di
libertà.

Onde riuscire a comprenderlo, analizziamo il sentimento di responsabilità morale. Noi constatiamo che la
persona interviene tutta in questa analisi: vi impegna tutto il suo valore morale. Risponde di ciò che ha fatto o
voluto; attribuisce quindi a se stessa il valore dei propri atti con l'assumersi un peso che nessuna inclinazione
naturale e nessun interesse la inducono a portare e che anzi contraddice le sue tendenze naturali. Il sospetto
che si tratti di un'illusione (che potrebbe sorgere da un modo abituale di giudicare) perde qui ogni
fondamento. Il peso metafisico della responsabilità, quale prova della libertà, non solo è più grande di
quello dell'argomento basato sulla coscienza di auto-determinazione, ma ne è anche completamente diverso.
Ciò che, nell'argomento dedotto dalla coscienza di libertà, resta ancora soltanto implicito, e cioè la presa di
posizione morale attuale della persona di fronte a se stessa e, quando è necessario, contro se stessa - ecco
che cosa si manifesta chiaramente nella responsabilità. Perché questa posizione non ha ovviamente la forma
di una semplice coscienza di qualcosa; non è soltanto una presa di posizione «apparente» (o fenomenica),
dietro la quale si potrebbe nascondere qualcos'altro, ma è immediatamente la cosa stessa, ossia la realtà
concreta della vita morale, la vita morale nella sua realtà oggettiva. L'atto di assumere su se stesso la

384 Ciò è dimostrato dalla discriminazione che ci si sforza di fare fra i delinquenti responsabili e quelli irresponsabili.
Nei casi dubbi o difficili, l'indagine necessaria viene affidata a medici specializzati.
316
responsabilità è un atto reale, che non si lascia contestare in alcun modo e che ha il medesimo peso oggettivo
dell'azione o del volere.

Da questa analisi, che mette in evidenza un fatto che accompagna e compenetra tutta l'attività propriamente
morale, si deve concludere che un essere il quale si assuma e si addossi la responsabilità dei propri atti,
ossia che se ne riconosca principio ed autore, deve essere in qualche modo capace di questa condotta . Ma il
concetto esatto di questa capacità non è altro che il concetto di libertà morale. E così, la libertà si manifesta
nell'atto di addossarsi e di sopportare la responsabilità, non è un principio che rimane come nel retro della
coscienza, in una specie di sfondo metafisico, ma è, nel senso più rigoroso, la libertà della coscienza morale
personale. In ciò si trovano attuate le due condizioni enunciate da Kant e da Leibniz: da un lato, l'autonomia
della coscienza; dall'altro, l'autonomia della persona. L'una e l'altra, prese insieme, danno con precisione gli
elementi che sono indispensabili al controllo di un'autentica libertà morale 385.

C. TESTIMONIANZA DELLA COSCIENZA MORALE

1. ARGOMENTO - Viene proposto così: le leggi, i contratti, i consigli e le esortazioni, le promesse e le


minacce presuppongono l'esistenza reale del libero arbitrio. Queste cose non avrebbero alcun significato se
ci sapessimo necessitati da costruzioni interne: nessuno si impegna per contratto a qualcosa, se non allo
scopo di vincolare la propria volontà che è ritenuta libera.

2. DIFFICOLTÀ - A quanto sopra si obietta che ciò induce invece a credere nel determinismo, perché se a
qualcuno si fa prendere un impegno contrattuale, se gli si impongono delle leggi e delle regole, se gli si
domandano promesse, ciò avviene perché si pensa che queste leggi e questi contratti determineranno la sua
condotta futura. Ma questa obiezione non regge, perché l'esecuzione dei contratti, delle promesse ecc.
dimostra che esiste di fatto una determinazione degli atti umani in forza dell'idea di dovere, di giustizia,
d'interesse ma non esiste il determinismo, ossia, in questo caso, la necessità. Infatti le leggi, i contratti e le
promesse vengono spesso violate.

Così ragionano coloro che patrocinano o che avversano la prova per mezzo della coscienza sociale. Infatti,
né la prova, né l'obiezione, né la risposta sembrano molto convincenti e per conseguenza non hanno valore
né a favore, né contro la libertà morale. Si può tuttavia ammettere che il consenso generale in favore della
libertà merita di essere preso in considerazione. Ma, mentre da un lato, esso potrebbe bastare a se stesso,
dall'altro, tale consenso ci rimanda agli argomenti dedotti sia dalla coscienza psicologica, che da quella
morale.

§ 2 - Prova metafisica

526 - Questa prova è più solida e più profonda delle altre, perché ci dà la spiegazione razionale del libero
arbitrio, dimostrandoci che esso è una conseguenza necessaria (o proprietà) della ragione.

1. PRINCÌPI DELL'ARGOMENTO - I princìpi di questo argomento ci sono già familiari, perché stanno
alla base di tutto il nostro studio sulla volontà e sulla libertà. Infatti abbiamo già visto che la volontà resta
(idealmente) indeterminata in quanto ha per oggetto, non il bene assoluto universale, ma dei beni parziali e
finiti, che non sono in grado di colmare la capacità illimitata della volontà e, per conseguenza, neppure di
determinarla necessariamente. La libertà non è che il nome di questa indeterminazione ideale.

2. ARGOMENTO - Si può riassumere così: La volontà è una potenza razionale che ha per oggetto il bene
conosciuto dalla ragione in forma universale (bonum in communi). Solo questo bene universale determina
necessariamente la volontà, la quale, di fatto, non può desiderare niente che non si presenti sotto l'aspetto di
bene. Ma siccome le cose che, di fatto, attualizzano l'inclinazione al bene rappresentano solo aspetti del bene,
cioè dei beni limitati e parziali (bona particularia), la volontà non viene necessariamente determinata da
nessuno di essi, ossia è libera. La libertà è quindi una conseguenza necessaria della ragione 386.
385 Cfr. N. Hartmann, Ethik, Berlino, 1935, p. 659-672.
386 Cfr. S. Tommaso, Summa theologica, 1a, q.82, a. 2: «Voluntas in nihil potest tendere nisi sub ratione boni. Sed quia
bonum multiplex est, propter hoc non ex necessitate determinatur ad unum». - In ogni tempo, gli psicologi e i moralisti
hanno insieme insistito sia sulla necessità in cui si trova l'uomo di perseguire il bene (o felicità), sia sulle difficoltà che
incontra nel discernere, fra i beni che gli si offrono, quelli che possono assicurare efficacemente il suo bene o la sua
317
Per gli esistenzialisti, specialmente per J. P. Sartre, la libertà è una specie di esigenza immediata, in quanto
costituisce l'essenza stessa dell'uomo. Se infatti l'esistenza precede l'essenza, oppure se l'esistenza non ha
l'essenza distinta da se stessa, ne deriva immediatamente che la realtà propria dell'esistenza non potendo
venire collegata a qualcosa che sia al di là di se stessa, è una contingenza radicale ed una finitezza
irrimediabile. L'esistenza è «gettata» in tale abbandono da non riposare altro che su se stessa e da non poter
contare su niente al di fuori di sé. Ciò equivale a dire che essa è essenzialmente libertà, nel senso preciso che
non dipende da niente altro che da sé. Libertà significa quindi contingenza assoluta e definisce
adeguatamente l'essere dell'esistenza. L'uomo, dice Sartre, è «condannato ad essere libero», in quanto la
scelta dei suoi fini dipende esclusivamente da lui, ed è quindi incondizionata, senza ragione e
ingiustificabile; inoltre l'uomo non può sottrarsi a questa scelta allo stesso modo che non può rifiutarsi di
essere, ciò che, del resto, sarebbe solo un'altra maniera di scegliere e di essere. (Cfr. Sartre, L'Etre et le
Néant, Parigi, 1943, p. 541-561).

Questa argomentazione, quantunque nella forma in cui si presenta sia da respingere, tuttavia continua a
basarsi su un giusto sentimento dell'esigenza metafisica di libertà che si trova nella struttura stessa della
realtà-umana. In un certo senso, difatti, è indubbio che l'uomo è «condannato ad essere libero», in quanto la
libertà è una proprietà essenziale dell'essere ragionevole che lo costituisce. L'uomo è libero per il fatto stesso
che è uomo e che è, e se egli può abdicare alla propria libertà, anche questa abdicazione è opera della sua
libertà. Ma l'espressione «condannato ad essere libero» ha, in Sartre, un senso che noi non possiamo
accettare, perché significa, nell'uomo, una contingenza tanto assoluta nella scelta dei suoi fini, che la libertà
ne diviene (come dice Sartre) essenzialmente assurda. Noi crediamo invece che, se la libertà è un aspetto
della razionalità e, per conseguenza, dell'essenza dell'uomo, essa è, come tale, lo strumento per mezzo del
quale l'uomo deve realizzarsi come ragionevole, ossia egli deve fare esistere, col suo sforzo e seguendo le
norme della ragione, un'essenza che deve essere la sua opera più personale. L'uomo non è «condannato» alla
libertà, come in conseguenza di una fatalità che sia costretto a subire senza comprenderne il significato; ma
deve invece consentire alla libertà, ossia alla ragione stessa, in cui la libertà trova insieme il suo fondamento
e la sua legge.

Art. III - Natura del libero arbitrio


527 - Le prove dell' esperienza e la prova metafisica stabiliscono, in una maniera assolutamente certa, la
realtà della libertà morale. Basta intendere bene queste prove per afferrarne tutta la forza. In pari tempo, esse
ci aiutano a capire meglio la natura del libero arbitrio perché ci fanno comprendere che le obiezioni avanzate
contro la libertà morale provengono di solito da concetti inadeguati o falsi del libero arbitrio, sia quando
questi esagerano o svisano l'intederminazione (libertà di indifferenza), - sia quando esagerano o svisano la
determinazione (determinismo psicologico). Il concetto che viene imposto dall'esperienza é dall'analisi si
trova a metà strada fra questi errori opposti, perché deve tener in giusto conto sia la determinazione, sia la
indeterminazione (libertà di auto-determinazione).

A. LIBERTÀ E INDIFFERENZA

1. L'INDIFFERENZA DI EQUILIBRIO - È la concezione di Cartesio, di Reid e della scuola scozzese, di


V. Cousin e degli Eclettici, secondo i quali la libertà si definisce coll'indifferenza nei confronti dei motivi o
con lo stato di equilibrio, ossia come potere di decidere se stesso indipendentemente da ogni influenza
esterna o interna: potere «che non è determinato da niente, neppure da ciò che costituisce il soggetto prima
dell'ultimo istante precedente l'azione». (Renouvier, La Science de la Morale, Parigi, 1869, I, p. 1). Da ciò
deriva che Cartesio mette in Dio la volontà avanti all'intelligenza e dichiara apertamente che non esistono
«verità eterne», perché esse sono create da Dio che avrebbe potuto benissimo creare ciò che noi chiamiamo
assurdo; il quale, in questa ipotesi, sarebbe stato per noi una verità assoluta e necessaria.

felicità. Cfr. Seneca, De vita beata: «Vivere omnes beate volunt: sed ad pervidendum quid sit quod beatam vitam
efficiat, caligant». - Pascal, Pensées (Brunschvicg, n. 169): «Nonostante le proprie miserie, l'uomo vuole essere felice e
non vuole essere che felice e non può non volerlo essere» - M. Blondel, nella Action, ha dimostrato con grande efficacia
la realtà di questa volontà volente (voluntas ut natura) che è all'inizio di ogni nostra attività e che a questa impone
quella logica della felicità che si esprime perfino nelle incertezze e negli errori, negli accecamenti e negli sbagli della
volontà voluta (voluntas ut facultas).
318
2. L'INDIFFERENZA È UN MITO ED UNA COSA IMPOSSIBILE La teoria della libertà di indifferenza
è incomprensibile e contraria ai dati di fatto. L'ipotesi di due motivi di forza uguale (ipotesi che ha per
simbolo «l'asino di Buridano»)387, e che lascerebbero l'uomo in uno stato di equilibrio impossibile a
modificare, è irrealizzabile e implica inoltre una concezione meccanica del volere che è priva di senso388.
Quanto alla supposizione che la volontà spazia, per così dire, al di sopra dei motivi e decide
dispoticamente, abbiamo già visto che essa è impossibile: non solo la volizione sarebbe priva di una ragione
dimostrabile, ma anzi, mancando di una ragione, si ridurrebbe all'automatismo puro. Difatti la libertà di
indifferenza è proprio quella degli automi, i quali restano impassibili alle pressioni che vengono esercitate su
di loro e si muovono secondo le leggi di equilibrio delle forze.

B. LIBERTÀ E DETERMINISMO PSICOLOGICO

528 - 1. Il privilegio del «motivo più forte». Come abbiamo veduto sopra, Leibniz ha vigorosamente
criticato la libertà di indifferenza e dimostrato che non esiste nessun atto volontario che sia privo di motivo o
di ragione. Siccome d'altronde la volontà non può restare in stato di equilibrio fra più motivi, secondo
Leibniz, è necessariamente il motivo più forte a prendere il sopravvento e a determinare la volizione.
Tuttavia, secondo Leibniz, l'atto prodotto in tal modo resta libero, perché è: intelligente, per il fatto che il
motivo più forte è tale solo per l'attenzione che si è concentrata su di lui - spontaneo, ossia prodotto senza
costrizione esterna, contingente, ossia non metafisicamente necessario. Leibniz riassume tutto ciò dicendo
che l'atto libero è quello che viene compiuto infallibiliter, certo, sed non necessario.
In questa concezione, aggiunge Leibniz, è evidente che devono esserci dei gradi di libertà; e questi, in
proporzione alla parte di ragione esistente nelle nostre decisioni. La libertà più bassa, che confina
coll'automatismo, sarà quella che ha la sua ragione d'essere soltanto nell'obbedienza agli imperativi collettivi.
La libertà più alta (libertà di perfezione) sarà quella in cui tutta la decisione e tutte le decisioni deriveranno
dalla ragione. Infine, siccome la libertà è in proporzione alla ragione, essa si definirà come il determinismo
del migliore: si potrebbero perfino prevedere in anticipo tutti gli atti liberi, se si conoscesse (come conosce
Dio) tutto ciò che interviene nel funzionamento di questo determinismo 389.

529 - 2. IL DETERMINISMO PSICOLOGICO DISTRUGGE LA LIBERTÀ - Non pare che la concezione


di Leibniz si possa accordare con la vera e propria libertà, perché essa sembra includere, qualunque cosa ne
dica il suo autore, una determinazione necessaria del volere. Se questo è «infallibilmente e sicuramente»
determinato dal motivo più forte, non si riesce ti vedere come si possa sfuggire alla necessità . Leibniz dice
giustamente che è l'attenzione a far sì che un determinato motivo sia il più forte, e quindi l'anima è libera di
considerare, o no, i propri desideri, di confrontarli fra loro e di fermarsi su uno di essi (libertà di esercizio).
Ma non è meno vero che, dal punto di vista della specificazione, è il desiderio (o motivo) più forte a
prendere da se stesso il sopravvento dal momento in cui viene presentato alla ragione. Insomma Leibniz
riduce tutta la libertà alla libertà di esercizio: noi possiamo concedere o ritrarre la nostra attenzione 390; ma

387 Cfr. Leibniz, Theodicée, I, 49: «Questo inoltre fa sì che il caso dell'asino di Buridano posto fra due prati
ugualmente spinto verso l'uno e verso l'altro, sia un artificio che non si potrebbe avverare nell'universo, nell'ordine della
natura.... Veramente, se il caso fosse possibile, bisognerebbe dire che l'asino si lascerebbe morire di fame: ma la
questione è, nella sua essenza, basata sull'impossibile». (in Die Philosophischen Schriften von G. W. L., 7 voll., a cura di
C. J. Gerhardt, Berlino, 1875-90).
388 Cfr. Leibniz, Theodicée, I, 46: «Esiste dunque una libertà di contingenza o, in un certo modo, di indifferenza,
ammesso che per indifferenza si intenda che noi non siamo necessitati da niente per l'una o l'altra decisione; ma non
esiste mai indifferenza in cui tutto, da una parte e dall'altra, sia perfettamente uguale, senza che non si verifichi una
maggiore inclinazione da una parte. Un numero infinito di movimenti interni ed esterni, grandi e piccoli, concorrono
insieme a noi, senza che per lo più ce ne accorgiamo: ed ho già detto che, quando si esce da una stanza, vi sono
determinate ragioni che ci decidono, senza che si rifletta, a mettere avanti un piede anziché l'altro».
389 Cfr. Leibniz, Nouveaux Essais sur l'entendement humain, 1704, II. 13.54. (Phil. Schrif., ed. Gerhardt.).
390 Cfr. Nouveaux Essais, II, 47: «L'anima ha il potere di sospendere il compimento di alcuni suoi desideri, e, per
conseguenza, è nella libertà di considerarli uno dopo l'altro, e di confrontarli fra loro. Proprio in ciò consiste la libertà
dell'uomo e quello che noi chiamiamo, anche se a mio avviso impropriamente, libero arbitrio».
319
supposto che la concediamo, è necessario che agiamo seguendo il motivo più forte 391. La volizione è quindi
un risultato, e non un atto.
D'altronde, la contingenza metafisica con cui Leibniz definisce la libertà, non è altro, a rigor di termini, che
la possibilità in astratto: l'atto metafisicamente contingente è quello che nella sua essenza ideale, non ha
niente che lo faccia esistere necessariamente. Ma ciò non ha niente a vedere con l'atto libero, il quale, se è
veramente libero, deve essere psicologicamente contingente.

C. LIBERTÀ E AUTODETERMINAZIONE.

530 - Dalle due discussioni precedenti risulta che essere libero non vuol dire essere indifferente alle
tendenze che si manifestano nella coscienza, né tanto meno subire necessariamente l'azione della più potente
di esse, ma vuol dire essenzialmente determinare se stesso. Ciò era stato espresso da Aristotele in questa
forma: non è la volontà a volere, ma l'uomo per mezzo della volontà, e per conseguenza, se esiste una libertà
del volere, tale libertà è quella dell'uomo stesso; oppure, in altre parole, se è certo che non ci può essere atto
libero senza motivo, quest'ultimo non è causa dell'atto (ciò che ci porterebbe al determinismo), anche se ne è
parte integrante e, più esattamente ancora, lo costituisce come libero. Essere libero, propriamente, vuol dire
produrre un atto motivato: concetto che esprimiamo col termine di auto-determinazione. Esistono tuttavia
diversi modi di concepire questa auto determinazione ed è molto importante che li distinguiamo bene.

1. LA SPONTANEITÀ.

a) La teoria bergsoniana. Bergson chiama libero l'atto «che emana dall'io e soltanto dall'io» quello «di cui
il solo io sia stato l'autore» (Essai sur les données immédiates de la conscience, p. 127): «La decisione libera
emana da tutta l'anima; e l'atto sarà tanto più libero, quanto più la serie dinamica a cui si collega tenderà a
identificarsi coll'io fondamentale».
Questo atto, che nella sua completezza ci compendia, dice Bergson, di solito è irriflesso. Non è invero
irrazionale, ma la riflessione gli è superflua. Se questa vi si aggiunge, ciò avviene solo ad atto avvenuto:
«essa constata, spiega, ma non costituisce; al massimo servirà a preparare gli atti futuri». L'atto veramente
libero è infine quello «a cui ci siamo decisi senza ragione, forse anche contro ogni ragione» ( Données
immédiates, p. 130).

In Matière et Mémoire, p. 16 sg., Bergson dimostra che la condizione della libertà consiste nel fatto che il
cervello si interpone fra le eccitazioni e i movimenti. Il cervello è essenzialmente un organo di adattamento e
di scelta, in quanto, diventando le vie motrici che ne dipendono, sempre più numerose via via che si sale
nella scala animale, la risposta all'eccitazione recata dall'influsso nervoso acquista una indeterminazione
sempre più vasta. La libertà si basa su tale indeterminazione: più questa è grande, tanto maggiore dominio o
potere di azione acquisterà la libertà. Nell'animale, il margine di indeterminazione è piccolo e può essere
ritenuto nullo, mentre nell'uomo è immenso.

b) Discussione. Sembra che la dottrina bergsoniana riduca l'autodeterminazione a pura spontaneità, ossia
all'azione immune da ogni costrizione esterna (consistente, secondo Bergson, nella pressione sociale o
collettiva, come pure nella meccanizzazione della condotta, la quale esprime il peso esercitato dalle cose
sulla nostra coscienza). Certamente Bergson ammette pure che la ragione interviene nell'atto libero, poiché
questo non è «irrazionale». Ma essa non vi interviene come potenza che giudica e dirige, perché costituisce
solo un elemento della corrente da cui viene originata la decisione. Per questo Bergson insiste tanto nel
disporre la deliberazione dopo l'atto. Noi abbiamo veduto che ciò poteva essere vero dal punto di vista
cronologico (494), mentre per Bergson è vero anche da un punto di vista logico: cioè le ragioni sono soltanto
una visione parziale e ritardata dello slancio totale che costituisce l'atto libero. È quindi alla semplice
spontaneità che si riduce l'auto-determinazione, quale viene concepita da Bergson.

391 Cfr. Nouveaux Essais, II, 47: «L'esecuzione del nostro desiderio è sospesa o arrestata quando questo desiderio non
è tanto forte da muoverci e da superare la fatica o l'incomodo che si incontra nel soddisfarlo (...). Ma quando il desiderio
è di per sé abbastanza forte da commuoverci, se niente l'impedisce, esso può essere fermato da inclinazioni contrarie,
sia che queste consistano in una semplice tendenza, che è come l'elemento o l'inizio del desiderio, sia che esse arrivino
fino a divenire desiderio. Tuttavia, quantunque queste inclinazioni, queste tendenze e questi desideri contrari si debbano
già trovare nell'anima, questa non li ha in suo potere, e per conseguenza non potrebbe resistere in una maniera libera e
volontaria, in cui possa aver parte la ragione, se non avesse anche un altro mezzo, che consiste nel volgere altrove la
mente».
320

Per Bergson, il segno più chiaro e sicuro che noi possiamo avere della nostra libertà, consiste nell'armonia
perfetta dell'anima, cioè nella sua piena e completa determinazione. Bergson, per illustrare questo aspetto
(Essai sur le données immédiates, p. 126-127), arriva fino a dire che se una simpatia, un'avversione od un
odio raggiungono una sufficiente profondità, ciascuno di questi sentimenti riflette l'intera personalità e
costituisce, proprio per questo, il cosiddetto atto libero perché in essi e per essi si esprime l'io totale e l'io
profondo (in opposizione all'io superficiale che è dominato da un automatismo cosciente). In tal caso,
bisogna dunque dire, secondo la giusta osservazione di Pradines (Psychologie générale, III, p. 376) che «i
miei vizi profondi possono rendermi più libero che le mie virtù superficiali»! Da ciò si vede bene che l'errore
di Bergson sta nell'avere misconosciuto che se la caratteristica propria della volontà consiste di fatto
nell'unificarci, questa unificazione non si può conseguire che attraverso la subordinazione delle passioni
sensibili al piano superiore della ragione392.

2. L'AUTO - DETERMINAZIONE

531 - a) Sua natura. La spontaneità è una vera esigenza per l'auto-determinazione, perché la prima
condizione che questa esige è che l'azione proceda dall'iniziativa propria dell'agente. Ma ciò non basta,
perché la spontaneità esclude solo la costrizione esterna ed è compatibile col più rigido determinismo
interiore. L'auto-determinismo che caratterizza la libertà dovrà quindi escludere anche ogni specie di
costrizione interna 393. Siccome però la costrizione interna può scaturire sia dalla tirannia di una
rappresentazione che si impone senza che il soggetto abbia su di essa nessun potere (caso degli animali e
degli automatismi risultanti da idee o da immagini ossessive), sia da un'impotenza a dominare e a fissare il
flusso delle rappresentazioni (automatismi delle diverse specie di abulia: (517), ne consegue che
l'autodeterminazione atta a definire la libertà consiste nel potere di. dominare il corso delle
rappresentazioni, e di fissare o stabilire questo corso sotto forma di un ultimo giudizio pratico che dica ciò
che si deve fare.
Quest'ultimo giudizio, per non cadere nell'assurdo, ha evidentemente la sua ragione sufficiente nella
disposizione totale del soggetto nel momento della decisione, ossia, come è stato già visto (509-510), nella
personalità concreta. Qualis unisquisque est, talis finis videtur ei (S. Tommaso, Summa Theol., 1a, q. 83, a.
l)394. Ma ciò, escludendo la concezione dispotica del volere, non implica nessun ritorno al determinismo,
perché la disposizione del soggetto (cioè la sintesi psicologica che determina la personalità concreta) dipende
dal soggetto stesso.

b) Sua prima radice. In ultima analisi, l'auto-determinazione significa, nel soggetto intelligente, il potere di
essere da se stesso ciò che vuole essere (529). La libertà è la forma di questo potere in relazione all'atto: il
quale atto, proprio come il soggetto che lo produce, è libero nella misura in cui il soggetto è ciò che vuole
essere. L'atto veramente libero è sempre ben diverso da quello che si potrebbe spiegare per mezzo di una
causa esterna. Ma non può essere diverso da quello che è agli occhi di chi ha voluto l'ordine spirituale da cui
procede e che esso mette in pari tempo in evidenza.

Schopenhauer, nel suo Uber die Preiheit des Menschlichen Willens [Saggio sul libero arbitrio] (Werke, ed.
W. Ernst, t. III, p. 488) adopera una formula di questo tipo: «L'uomo non fa mai quel che vuole, e quindi
agisce sempre necessariamente. La ragione di ciò sta nel fatto che egli è già ciò che vuole: perché da ciò che
egli è, emana naturalmente tutto ciò che fa». Ma il senso è ben diverso: Schopenhauer difatti si riferisce
espressamente alla dottrina kantiana della libertà trascendentale o del carattere intelligibile e nega ogni
specie di libertà nell'ordine empirico. Il suo pensiero si esprimerebbe assai meglio nella formula familiare a
Hegel: «La libertà è la necessità compresa».

392 Hamelin (Essai sur lex éléments principaux de la représentation, 2a ed., Parigi, 1925, p. 380) ha messo bene in
luce questo punto, osservando che «in se stessa, la spontaneità non si garantisce come assoluta», perché rendere ragione
di tutto ciò che si compie o si produce non vuol dire rendere ragione di se stesso e neppure riconoscersi come sorgente.
di azione realmente prima. La coscienza della spontaneità potrebbe coesistere col determinismo radicale. Per
conseguenza, la libertà si potrebbe identificare solo con una spontaneità che porta in se stessa la propria garanzia».
Hamelin aggiunge a buon diritto che una siffatta spontaneità è essenzialmente quella che implica contingenza.
393 Cfr. P. Ricoeur, Philosophie de la volonté, t. I, p. 152-155.
394 L'assioma: operari sequitur esse significa la stessa cosa.
321
Quanto alla radice prima di questo potere di essere se stesso, essa è la ragione con la quale l'uomo è
insieme libero dalla servitù delle cose sensibili, e capace di prendere possesso di se stesso con la riflessione.

Art. IV - Gli argomenti del determinismo


532 - I patrocinatori del determinismo non hanno soltanto cercato di confutare le prove della libertà
morale, ma hanno anche dato importanza a un certo numero di argomenti destinati a dimostrare che la libertà
morale non può esistere. Secondo queste dottrine, essa sarebbe inconciliabile sia con la potenza divina, sia
con le leggi naturali395.

§ l - Fatalismo e predeterminazione

A. IL FATO

Il fatalismo si presenta in due forme diverse che sono il fatalismo musulmano e il fatalismo panteistico.

1. IL FATALISMO MUSULMANO - Questa forma di fatalismo è stata ammessa dagli antichi Greci e
soprattutto dai Maomettani («Era scritto»), i quali suppongono che una forza anonima e inflessibile (fato o
destino) diriga il corso delle cose, senza che nessuno sforzo umano vi possa recare alcun cambiamento.
Perfino il nostro sforzo tendente a modificare gli avvenimenti fa parte del destino come uno dei suoi
elementi.
Questa concezione non si deve confondere col determinismo, tanto più che essa è compatibile col credere
nella libertà morale, dato che il Destino può utilizzare per i suoi fini le azioni libere degli uomini.

2. FATALISMO PANTEISTICO - Il panteismo, invece, non può conciliarsi in nessun modo con la
credenza nella libertà. Se tutto è Dio, oppure, se Dio è il Tutto, ogni cosa è necessaria come Dio. Questa
dottrina è evidentemente dipendente dall' ipotesi pantestica che dovremo discutere in Teologia naturale.

B. PRESCIENZA E PREDETERMINAZIONE DIVINA

533 - Talvolta si è voluto avvicinare a queste concezioni fatalistiche la dottrina teologica della prescienza e
della predestinazione divina.

1. PUNTO DI VISTA TEOLOGICO - Dio, dicono i teologi, prevede necessariamente ed infallibilmente, in


virtù della sua onniscienza, non solo tutti gli avvenimenti necessari, ma anche tutti i «futuri liberi», ossia tutti
gli avvenimenti che dipendono dal libero arbitrio. D'altra parte, Dio è la sorgente universale dell'essere e
tutto ciò che si produce nell'universo non può esistere che per l'influsso della potenza creatrice di lui. Ne
consegue che anche i futuri liberi sono fisicamente predeterminati da Dio (premozione fisica).

2. OBIEZIONI E RISPOSTE - Da questi princìpi, che scaturiscono logicamente dalla natura di Dio e da
quella delle cose create, alcuni hanno voluto dedurre che la libertà umana è apparente, perché Dio, non solo
conosce in anticipo gli atti che sono per definizione imprevedibili, ma predetermina anche gli atti che per
definizione non possono essere predeterminati.

I teologi però protestano contro queste conclusioni che non sono assolutamente imposte dai princìpi che
essi enunciano. Da un lato infatti, la previsione divina è in realtà una visione, perché Dio è al di fuori del
tempo. Dall'altro, i futuri liberi sono previsti e predeterminati come liberi, perché Dio muove ogni essere
secondo la sua natura: gli esseri necessari li muove come necessari, quelli liberi come liberi. Bisogna tuttavia
riconoscere che se questa dottrina teologica non ha niente a che fare col fatalismo perché lo esclude in modo
assoluto, lascia tuttavia sussistere un certo mistero che dimostra la nostra impotenza a comprendere
adeguatamente il modo di essere della causalità divina.

§ 2 - Il determinismo fisico

395 Cfr. G. Mottier, Determinisme et liberté. Neuchatel. 1948.


322
534 - Gli argomenti sono adesso presi dal campo delle scienze naturali. Il concetto di atto libero sarebbe
proprio l'opposto del principio di causalità e di quello di conservazione dell'energia.

A. LIBERTÀ E CAUSALITÀ

1. IL DETERMINISMO FENOMENICO - Kant pensa che la libertà sia un postulato del dovere. Ma la
libertà così postulata è di ordine atemporale (libertà noumenica). Nell'ordine fenomenico, invece, non c'è
possibilità di libertà, perché tutti i fenomeni sono retti dal principio di causalità, in forza del quale, dice Kant
certe premesse producono necessariamente certe conseguenze. «I princìpi determinanti di ogni (nostra)
azione si basano su ciò che appartiene al passato, su ciò che non è più in (nostro) potere» ( Critica della
ragione pratica); se noi conoscessimo bene tutte le condizioni esterne e interne degli atti di un individuo
potremmo calcolare la sua futura condotta «con la stessa certezza di un'eclissi di luna o di sole».

2. DISCUSSIONE - Senza insistere qui su quanto sia difficile capire come un'azione possa essere
simultaneamente libera e necessaria, dobbiamo tuttavia osservare che il principio di causalità (il quale è, di
fatto, condizione d'intelligibilità) esige che «tutto ciò che comincia ad essere sia prodotto da un altro
(causa)», ma non, come dice Kant, che sia prodotto necessariamente. Le cause o premesse possono agire
necessariamente o liberamente. L'errore di Kant consiste nel ridurre arbitrariamente ogni causalità a quella
meccanica (I, 183-184).

535 - 3. LA CRITICA DI BOUTROUX. Nella sua opera su La contingence des lois de la nature, Parigi,
1874, tr. it., Milano, 1925, egli ha voluto dimostrare che, contrariamente a quanto affermano i deterministi,
nel mondo esiste una certa contingenza e si trova sempre più, via via che si sale nella gerarchia degli esseri.
Ciò si deduce dalla classificazione delle scienze fatta da Auguste Comte (I, 137). In essa si vede che la
complessità sempre più vasta dei fenomeni non solo esige l'esistenza di forme di essere che sono in se stesse
sempre meno determinate396. Questa argomentazione di Boutroux non stabilisce, a rigor di termini, la reale
esistenza del libero arbitrio, ma solo la sua possibilità o la sua probabilità. D'altronde essa include un
equivoco, perché la contingenza, che Boutroux scopre nella natura, non è affatto del medesimo ordine di
quella che caratterizza l'atto libero. Infatti, nella natura, la contingenza delle leggi, che aumenta a misura che
si progredisce nella scala delle scienze, non è che la conseguenza della complessità dei fenomeni e mette
assai più in risalto l'interferenza fra i vari determinismi che la mancanza di ogni determinismo. La
contingenza, che determina l'atto libero, esclude invece il determinismo (inteso come determinazione
necessaria). Tuttavia, Boutroux è riuscito a dimostrare chiaramente che «necessità e determinazione sono due
cose distinte» (L'Idée de loi naturelle dans la science et la philosophie contemporaine, Parigi, 1875, p. 141;
cfr. tr. it., Verona, 1953).

2. IL VOLONTARISMO DI RENOUVIER - Renouvier propone, col nome di neo-criticismo, un Kantismo


liberato dal mondo noumenico, e che ammette come unica realtà i fenomeni i quali sono, alla loro volta,
interpretati come relazione. In un mondo siffatto non c'è posto per la libertà. Tuttavia Renouvier, utilizzando
in ciò alcune idee di Lequier, crede che la libertà debba essere postulata come «condizione necessaria che
renda possibili la conoscenza e l'azione umana, le quali hanno senso soltanto se sono libere». «(Ci sono) due
ipotesi, dice Lequier: la libertà o la necessità. Si deve scegliere fra l'una o l'altra, con l'una o con l'altra. lo
non posso affermare o negare l'una o l'altra che per mezzo dell'una o dell'altra. Preferisco affermare la libertà
ed affermare che io affermo in nome della libertà. In tal modo io rinunzio ad imitare coloro che cercano di
affermare qualcosa che li costringa ad affermare. Rinunzio a continuare l'opera di una conoscenza che non
sarebbe mia. lo abbraccio la certezza di cui sono l'autore». (Lequier, citato da Renouvier, Traité de
Psychologie rationnelle, Parigi, 1875, I, 138).

Questa dottrina non potrà passare per una prova della libertà, perché la scelta di quest'ultima è effetto di
una opzione che non si può razionalmente giustificare. Il postulato che sta alla base dell'opzione è d'altronde
un vero e proprio sofisma, perché quel «qualcosa che ci costringe ad affermare» non è che l'evidenza, la
quale sola salva la libertà dell'affermazione collegandola alle esigenze della ragione, e sola fa sì che la
certezza sia mia col giustificarla dinanzi alla mia ragione. D'altronde, supponendo che la libertà sia il sostrato
della certezza, ne deriva che le credenze e le decisioni volontarie saranno tanto varie quanto gli individui, e

396 Cfr. Boutroux, De l'Idée de loi naturelle dans la science et la philosophie contemporaine, p. 135 sg.
323
che non esisteranno più né verità generali né princìpi comuni di condotta: e così si fomentano lo scetticismo
e l'anarchia morale, che invece Renouvier pretende appunto evitare.

B. LIBERTÀ E CONSERVAZIONE DELL'ENERGIA

536 – 1. LA LIBERTÀ IMPLICHEREBBE CREAZIONE DI ENERGIA C'è chi dice che l'atto libero è un
atto non determinato dai suoi antecedenti e, per conseguenza, un atto che esige sia creazione di energia, per
tutto quel che di nuovo esso arreca, sia annientamento di energia, perché l'energia che è propria agli
antecedenti resta, almeno in parte, inefficace. Ma tutto ciò è contrario al principio della conservazione
dell'energia, in forza del quale ogni fenomeno non fa che riprodurre, in una nuova forma, l'energia dei suoi
antecedenti; oppure, in altre parole, la quantità di energia di un determinato sistema resta costante attraverso
tutte le sue intime trasformazioni.

2. DISCUSSIONE - Il principio della conservazione dell'energia è un postulato della fisica. Questo


postulato vale d'altronde solo per i sistemi chiusi ed ha senso solo nel campo della quantità. La qualità invece
esige, perfino in fisica, che sia completato col principio della degradazione dell'energia, in forza del quale
questa, pur restando costante quantitativamente, ha la proprietà di suddividersi fra i corpi in modo sempre
più uniforme. A più forte ragione si deve tener conto di questo principio nel campo psicologico.

Alcuni filosofi hanno voluto stabilire che la libertà è possibile, partendo dagli stessi dati scientifici. Già
Cartesio, nonostante il proprio principio della conservazione del movimento, corretto da Leibniz in principio
di conservazione dell'energia, ci offre lo schema di questa argomentazione quando osserva che la
conservazione del movimento non esige che la sua direzione sia costante: l'anima, per conseguenza, può, con
la sua azione sulla glandola pineale, modificare il senso del movimento degli spiriti animali senza
modificarne la quantità. (Traité des Passions, 41). Cournot, nel secolo XIX, dimostrò che, in certi sistemi
meccanici, una forza infima può produrre degli effetti che sono ad essa sproporzionati (una scintilla
determina un'esplosione). Wundt applica questa osservazione alla biologia ed alla psicologia chiamandola
principio di energia crescente, in forza del quale le reazioni sono superiori alle eccitazioni. Infine,
aggiungono altri, la fisica contemporanea stabilisce che il determinismo ha valore solo nella scala
macroscopica, ma fa naufragio nel mondo infra-atomico, in cui sembra che la natura proceda in modo
analogo a quella che noi chiamiamo libertà o scelta dell'ordine psicologico.
Questi argomenti vogliono combattere, sul suo proprio terreno, la teoria deterministica fondata sulle
scienze. Ma proprio per questo essi involgono il medesimo equivoco, che consiste nell'identificare due campi
(quello fisico e quello psichico) che sono tra loro irriducibili. Perciò nessuno di questi argomenti sembra
tanto efficace da dimostrare neppure la semplice possibilità o la probabilità della libertà morale 397. Quando
all'«indeterminismo fisico» (I, 186), il quale, si afferma, induce a pensare che la natura ammette una certa
graduazione di contingenza e, per conseguenza, che la libertà è possibile, noi crediamo che circa questo
«indeterminismo» (parola che sembra rimpiazzare quella di «caso») e la libertà, che implica una
determinazione razionale, non esista nessuna possibilità di ridurli alla stessa cosa.

C. LIBERTÀ E SOCIETÀ

537 – 1. IL DETERMINISMO SOCIALE - Le teorie sociologiche contemporanee sembrano avere


rinvigorito l'argomento del determinismo dedotto dalla costrizione che la società esercita sugli individui.
Onde giustificare l'affermazione secondo la quale l'individuo subisce necessariamente l'azione dell'ambiente
sociale in cui vive, si fa appello soprattutto alle statistiche. Queste difatti sembrano stabilire che, in
determinate condizioni, certi fenomeni sociali reputati dipendenti dalla volontà umana, hanno una frequenza
costante. Durkheim ha per esempio dimostrato che li suicidio, in un determinato ambiente sociale, presenta
una percentuale di frequenza molto più regolare che la mortalità. Un economista osserva nello stesso senso
che «il movimento di transito sulla ferrovia Lione-Marsiglia subisce minori variazioni che il volume di
portata del Rodano che quella ferrovia segue nel suo corso» (Ch. Gide, Cours d'économie politique, 10.a ed.,
Parigi, 1930, cap. I, § 3):

2. DISCUSSIONE

397 Qui si può dire solo che, essendo la libertà dimostrata in altro modo, il sistema nervoso, con le articolazioni
sinaptiche sembra trovarsi in accordo coll'attività della libertà (59).
324

a) Significato delle medie statistiche. L'argomento basato sulle statistiche non ha tutto il valore che gli si
vorrebbe attribuire. Prima di tutto si deve osservare che la costante delle medie è in relazione ad un numero
astratto di individui qualsiasi, non a determinati individui. Ciò vuol dire non solo che le leggi statistiche
sono compatibili con l'indeterminazione degli elementi, ma che implicano questa stessa indeterminazione (I,
240). Meno gli elementi sono in se stessi determinati, più la legge statistica sarà precisa. Infatti, se si tratta di
in determinazione pura (caso), l'inerzia totale degli elementi circa la distribuzione dei risultati darà, nei
numeri grandi delle medie rigorosamente precise. Se si tratta di indeterminazione di carattere psicologico,
l'esattezza delle medie sarà parimenti proporzionale al grado di indeterminazione, perché quest'ultima
esprime la capacità di determinarsi in virtù di ragioni: quanto più gli elementi individuali saranno accessibili
alle ragioni che si esprimono nelle leggi morali, civili e sociali tanto più il loro modo di comportarsi sarà
costante. Viceversa, più essi saranno sotto il controllo degli automatismi irrazionali, tanto meno il loro
comportamento sarà costante. Nel caso limite, cioè in una società di dementi (ammesso che questi possano
formare una società), le medie del modo di regolarsi sarebbero di una instabilità esasperante.

La costante dei casi di suicidio in una determinata società non è infatti che un aspetto della costante delle
determinazioni di ordine razionale (morale o religioso) che regolano la vita umana, e, per conseguenza, della
deliberazione del massimo numero di individui in rapporto agli automatismi irrazionali. Gli indici di
mortalità non possono avere una simile costante, proprio perché la percentuale di mortalità dipende da
condizioni molto più contingenti colle quali non ha niente a che fare la libertà. In tal modo è chiaro che la
costante delle medie statistiche esige, di principio, sia la determinazione degli elementi individuali attraverso
leggi fisiche o morali, sia l'indeterminazione di questi stessi elementi individuali in rapporto al risultato
complessivo. La determinazione rende conto della costanza delle medie, l'indeterminazione spiega la
contingenza assoluta della distribuzione dei casi individuali negli indici di costanza.

538 - b) Natura dell'influsso sociale. Quanto all'influenza della società, essa non è del tutto incompatibile
con la libertà morale. Infatti, l'organismo sociale è ordinato a fini che sono super-individuali. Ma esso è
opera dell'individuo ragionevole e libero, il quale, riconoscendosi membro di una società uniforma
volontariamente i propri atti ai fini di quella società. Se talvolta la società compie qualche costrizione fisica:
in primo luogo questa costrizione non riguarda che la «libertà di fare»; in secondo luogo, rimane accidentale,
perché è soprattutto in base al concetto di bene comune che l'individuo, quale membro della società, ordina
liberamente la propria condotta (I, 224).

Se l'influenza sociale così intesa, non minaccia in niente la libertà morale, questa, invece, è assolutamente
incompatibile con la concezione di Durkheim. Secondo costui infatti, la costrizione della società si esercita
sugli individui dall'esterno perché la società è una realtà estrinseca alle coscienze individuali. In tal caso, si
tratterrebbe dunque di una costrizione meccanica del volere, che è quanto vi possa essere di più contrario alla
libertà. Inoltre, Durkheim può anche affermare che questo determinismo sociale dà un'impressione
giustificata di maggiore libertà, perché esso libera l'individuo dalla tirannia dei suoi appetiti e dei suoi
istinti398: ma ciò equivarrebbe a dire che l'uomo è liberato dai suoi istinti e appetiti individuali (che almeno
sono propriamente suoi solo per divenire schiavo di imperativi sociali, i quali (come li presenta Durkheim)
gli sono estranei e non hanno altra proprietà che la loro forza.

§ 3 - Conclusione

539 - Da questo nostro studio e dalla critica che ne abbiamo fatto possiamo dunque concludere che la
libertà morale è una realtà di tale certezza che nessun argomento riesce a scuotere. Ma da ciò non ne deriva
che la libertà sia in ogni uomo qualcosa di rifinito, una perfezione attuata di colpo. In un certo senso, si
dovrebbe anzi dire che l'uomo non nasce libero, ma che lo diviene via via che si affida sempre più alla
ragione. In tal modo, al progresso della libertà si offre un campo quasi illimitato, perché la perfetta libertà
include un possesso tanto completo di sé ed un orientamento tanto perseverante del volere verso i fini
supremi dell'uomo, quanto più essa costituisce, più che una realtà, un ideale. La nostra grandezza dipende
dallo sforzo che facciamo onde realizzare in noi stessi le condizioni per le quali assurgeremo gradualmente
ad una libertà più alta, e cioè alla conoscenza di noi stessi ed alla rettitudine del volere.

398 Cfr. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, Parigi, 1912, p. 388 - Fauconnet, La responsabilité, p.
386 sg.
325

1. LA CONOSCENZA DI SÈ - L'uomo possiede se stesso in forza della riflessione. Come voleva Socrate,
la prima condizione della libertà sta nel fatto che l'uomo conosca se stesso, cioè che sia conscio del proprio
temperamento, del proprio carattere, delle proprie abitudini e delle proprie inclinazioni, e che conosca e
giudichi via via le tendenze che si attuano nella sua coscienza. Proprio in tal senso si dice che gli atti liberi
sono «deliberati», ossia sono prodotti in piena coscienza di ciò che sono e di ciò che devono essere: per
questo investono la responsabilità del soggetto da cui emanano.

2. LA RETTITUDINE DEL VOLERE - La rettitudine del volere non è che la rettitudine dei giudizi pratici
con cui orientiamo la nostra azione e la vita nostra. È dunque da uno sforzo tendente a razionalizzare il
nostro volere che dipende la libertà morale, perché noi siamo tanto più liberi quanto meno le nostre decisioni
siano asservite agli impulsi irrazionali dell'istinto e del capriccio, ai meccanismi della routine ed alla tirannia
delle passioni, e quanto più la ragione, in forza di una visione sempre più giusta e serena della gerarchia dei
valori, orienti con maggior chiarezza la volontà verso i fini morali e spirituali che soli sono atti procurare
all'uomo la vera felicità. Così noi vediamo, ancora una volta, che la libertà è sospesa alla ragione, in forza
della quale l'uomo è in grado di sfuggire alla schiavitù degli elementi sensibili, di possedere se stesso con la
riflessione e quindi di divenire padrone di sé e del proprio destino

3. LA LIBERTÀ COME ASCESI - La libertà, riaffermata e vissuta nelle sue principali espressioni si trova
di solito in una specie di impotenza ad attuare una totale rigenerazione del mondo a sua immagine, e quei
medesimi limiti che l'uomo tende continuamente a varcare (perché aspira a superare se stesso) ci orientano
invincibilmente verso il mondo dei valori. Questi ultimi infatti si impongono sempre, si potrebbe dire,
all'interferenza di una libertà che è aspirazione, slancio e richiamo, e di un reale che la asseconda e insieme le
resiste. L'esercizio della libertà morale e spirituale non cessa di convincerci di ciò: essa suppone l'unità
dell'uomo con se stesso, ma tale unità non costituisce se stessa che per distruggersi. Essa è ascesi, ossia, per
definizione, sforzo e lotta, perché la nostra presenza nel mondo e il peso di materialità che ci impone non
cessa di alimentare l'ambiguità della nostra condizione e di dividerci nel più profondo di noi stessi e nelle
relazioni con gli altri. E se l'amore ci può unificare, ciò avviene a prezzo di un conflitto, che è senza dubbio
talvolta vittorioso, ma tuttavia cosiffatto che le nostre contraddizioni essenziali vi restano sempre presenti. Di
qui deriva infine il fatto che i pensatori cristiani hanno stimato attuabile una soluzione solo attraverso la
grazia e il concorso con essa della nostra libertà; la libertà non è per loro, in definitiva, che l'atto con cui noi
scegliamo Dio o lo rifiutiamo, cosicché la natura e la ragione, in qualche modo, invocano e già annunzia no
la presenza della grazia399.

399 Cfr. J. Delasalle, Liberté et Valeur, Lovanio, 1950.


326

LIBRO III

IL SOGGETTO PSICOLOGICO

IL SOGGETTO PSICOLOGICO

540 - Finora non abbiamo studiato che fenomeni, proprietà e qualità, come pure le varie attività. Adesso
dobbiamo esaminare il soggetto di questi fenomeni psicologici. Infatti è ben evidente che essi suppongono
tutti un soggetto da cui procedono e che essi empiricamente manifestano: propriamente parlando,
l'immaginazione o gli istinti, l'intelligenza o la volontà non sono che strumenti o mezzi con cui un soggetto,
uomo od animale, agisce in conformità alla sua natura. Non è l'intelligenza a pensare, né la volontà a volere,
ma l'uomo che pensa con l'intelligenza e vuole con la volontà.

1. IL SOGGETTO EMPIRICO - Siamo quindi arrivati al punto di dover esaminare il soggetto di tutta la
vita psicologica. Questo soggetto ci è dato da principio in modo empirico, come un io fisico e morale che
continua a sussistere attraverso tutte le trasformazioni psicologiche e fa da sostrato al sentimento della nostra
identità personale. L' «io» è quindi, oggettivamente, l'insieme di tutti i fenomeni organici, fisiologici e
psicologici che costituiscono un determinato soggetto. Ma questo io oggettivo ha nell'uomo il potere di
conoscere se stesso con la riflessione, ossia di esistere per se stesso. Tale coscienza soggettiva è d'altronde
preparata e condizionata dal sentimento confuso e vago di esistere come soggetto che accompagna tutti i
fenomeni psichici e che l'animale deve possedere al pari dell'uomo. Ma il «me» propriamente detto, che non
solo esige coscienza di soggettività, ma anche concetto di soggettività e possesso di sé per mezzo della
riflessione, è privilegio dell'uomo, il quale solo è in grado di dire «io».

2. IL SOGGETTO METAFISICO - Lo studio del soggetto psicologico non termina con la descrizione
dell'io empirico e delle sue condizioni. Rimane infatti da cercare qual è la natura di questo soggetto e qual è
la sua relazione coi meccanismi organici e fisiologici attraverso i quali esso esercita le proprie attività . Nel
trattare questo soggetto metafisico non si abbandona, d'altronde, il campo dell'esperienza, perché spetta
ancora ai dati sperimentali imporre le conclusioni che sorpassano l'esperienza immediata.
Questo è il piano generale delle indagini che ci restano da fare onde concludere tutte le nostre ricerche
psicologiche.

PARTE PRIMA

IL SOGGETTO EMPIRICO

CAPITOLO PRIMO

L'IO E LA PERSONALITÀ

SOMMARIO400

400 Cfr. San Tommaso, De Veritate, q. 10, a. 8 - Ribot, Les maladies de la personnalité, Parigi, 1895 - Binet, Les
altérations de la personnalité, Parigi, 1892 Janet, L'automatisme psychologique, Parigi, 1889 - Névroses et idées fixes,
Parigi, 1898 - P. Malapert, La caractère, Parigi, 1902 - D. M. Auliffe, Les tempéraments, Parigi, 1926 - J. Poyer, Les
problèmes généraux de l'hérédité pysichologique, Parigi, 1921 - Allers, Das Werden der sittlichen Person, Friburgo in
B., 1931 - L. Klages, Grurzdlagen der Charakterkunde, 11a ed., Bonn, 1951; Les principes de la Caractérologie, trad.
fr., Parigi, 1932 - G. Thibon, La science du caractère, Parigi, 1934 - J. Lhermitte, L'image de notre corps, Parigi, 1939 -
A. Burloud, Le caractère, Parigi, 1942 - H. Wallon, L'évolution psychologique de l' enfant, Parigi, 1941 - R. Le Senne,
Traité de Caractérologie, Parigi, 1946 - E. Mounier, Traité du Caractère, Parigi, 1946 - L. Lavelle, Les Puissances du
327
Art. I - NATURA DEL «ME». Analisi descrittiva - Il «me» e l'«io» Gli elementi del «me» - I fattori della
sintesi psichica - Le fasi successive della personalità - Patologia della personalità - Gli sdoppiamenti
- Le spersonalizzazioni.

Art. II - TEORIE SULLA PERSONALITÀ. Teorie fenomenistiche - Argomenti del fenomenismo -


Discussione - Teoria kantiana Teorie sostanzialistiche - La «cosa che pensa» di Cartesio Il «me»
come esperienza di forza - Il «me» come illazione - Conclusione.

Art. III - IL CARATTERE. Natura del carattere - Gli elementi del carattere - Classificazione dei caratteri -
L'evoluzione del carattere - Le variazioni del carattere - Le modificazioni del carattere.

Art. I - Natura del «me»


§ l - Analisi descrittiva

A. IL «ME» E L'«IO»

541 - 1. IL «MIO» - Il concetto di «mio» ha un'estensione assai più vasta di quella del «me», perché vi
sono molte cose che sono mie senza essere «me». Tuttavia il tipo stesso del mio, ossia ciò che lo è al
massimo, è fatto di tutto ciò che costituisce la mia vita organica e psicologica, ed è in rapporto a questo mio,
formalmente e strettamente inteso, che si determinano i gradi con cui possediamo gli esseri e le cose. Per
effetto dell'amicizia, la quale di due esseri ne forma moralmente uno solo, l'amico può divenire un altro noi-
stesso. Quanto alle cose che noi diciamo «nostre», esse di fatto sono tali solo nella misura in cui sono frutto
del nostro lavoro, e come tali, qualcosa di noi medesimi e come un prolungamento del nostro io. Altrimenti,
il «mio» non esprimerebbe che un legame giuridico ed una convenzione più o meno arbitraria. In tal modo,
constatiamo che il «mio» ci riporta sempre al «me», ossia a ciò che compone o integra il soggetto fisico e
morale che ci costituisce.

2. L'«IO-SOGGETTO» - Il mio è quindi inizialmente ed essenzialmente tutto ciò che io sono, cioè tutto ciò
che può servire di attributo ad un «io». Così si verifica quella specie di sdoppiamento dell'io messo in
evidenza dalla distinzione fra il me e l'io: in quanto il «me» indica l'insieme organico, fisiologico e psichico
che mi costituisce (me-oggetto) e l'«io», il soggetto o principio a cui sono attribuiti tutti gli elementi di
questo insieme (io-soggetto). Proprio questo «io» dà ai fatti psicologici la loro forma propria, ossia la
forma di fatti personali, e la vita psicologica diviene sempre più personalizzata a misura che l'«io»,
culminante infine nell'attività volontaria, domina ed unifica più saldamente l'insieme dell'io oggettivo.
La coscienza del «me» mi si impone irresistibilmente come la coscienza di un «io» incarnato. Non
soltanto tutto ciò che esiste è me stesso come incarnato, ma inoltre io posso affermare resistenza di una cosa
solo nella misura in cui essa è collegata col mio corpo, e cioè capace di essere messa in contatto con esso,
anche se in modo indiretto 401. Noi ci conosciamo come corpi prima di conoscerei come persone e per tutta la
vita la coscienza del corpo non cessa mai di esserci presente, anzi di restare praticamente identica a se stessa.
L'analisi esistenziale dell'incarnazione porta quindi sia a porre l'unione dell' anima col corpo in una sola
realtà, sia a porre l'unione tra il «me» incarnato e il resto del mondo, cioè il fatto di essere-al-mondo.

542 - 3. I CARATTERI DELL'«IO» - L'«io» significa la presa di possesso che il «me» fa di se stesso. Il
«me», mentre nella coscienza sensitiva dell'animale deve essere un semplice oggetto percepito e sentito,
diviene nell'uomo (e sempre più a misura che egli si possiede maggiormente per mezzo della ragione e della
volontà) un «sé» ed un «per sé», cioè una persona, coi caratteri di unità e di identità, di ragione e di
autonomia che la caratterizzano.

a) L'unità. L'unità espressa dall'«io» implica dapprima, nella sua forma elementare, che tutti gli stati
straordinariamente vari, mobili e transitori della nostra vita interiore vadano a convergere verso un centro
unico che se li addossi tutti come suoi. Implica inoltre, come è stato dimostrato da Cartesio, un vivo

moi, Parigi, 1948 - Ch. Blondel, La Personnalité (Nouveau Traité de Psychologie de Dumas VII, 3) - P. Grieger, Le
diagnostic caractérologique, Parigi, 1952 - G. Berger, Caractère et personnalité, Parigi, 1954.
401 Cfr. G. Marcel, Etre et Avoir, Parigi, 1935, p. 9.
328
sentimento di unità ontologica, ossia il sentimento di formare, nella infinita molteplicità degli stati di
coscienza, una cosa od un essere.
Tale sentimento può avere, nella sua prima forma, diversi gradi. Esso non è mai un sentimento di unità
perfetta, perché noi proviamo simultaneamente un sentimento di molteplicità, non solo a causa del numero
dei fenomeni che si succedono nella coscienza, ma anche e soprattutto perché la sintesi interiore resta sempre
incompiuta e fragile (30). Infatti i nostri diversi «me» sono talvolta in conflitto fra loro; ad ogni istante, la
distrazione demolisce l'unità faticosamente attuata dall'attenzione volontaria; la parte considerevole di
inconscio, inclusa nella nostra vita, forma come un altro «me» che il volere non riesce ad afferrare; il
meccanismo è l'attività consapevole svolgono due parti parallele e parzialmente indipendenti. Ma niente di
tutto ciò intacca gravemente, quando si è in uno stato normale, il nostro sentimento di unità ontologica che è
la base più solida della nostra coscienza di unità.

543 - b) L'identità. Per quanto siano continui i cambiamenti della nostra vita intima, ognuno di noi si
riconosce sempre identico a se stesso, e, dall'infanzia alla vecchiaia, sempre «lo stesso», ossia noi
attribuiamo tutti i nostri stati di coscienza sempre al medesimo «io» che resta in qualche modo invariabile in
mezzo al fluttuare incessante della nostra vita psichica.
Veramente, se si tenesse conto solo dei fenomeni o degli elementi del «me», questo sentimento di identità
avrebbe qualcosa di singolare, più di quanto non lo abbia quello di unità. E infatti, quanto poco
rassomigliamo a noi stessi col passare del tempo! L'adulto e il vecchio devono faticare per riconoscersi nei
sentimenti, nelle emozioni, negli atteggiamenti che ebbero nell'adolescenza o nell'infanzia. Talvolta sembra
loro che quei ricordi si riferiscano ad un essere diverso o quasi estraneo. Al di fuori di quei casi-limite,
d'altronde assai frequenti, il nostro passato viene sempre più o meno ricostruito per mezzo dei frammenti che
di esso sussistono nella nostra memoria: il passato non è più qualcosa di vivo, ma si trasforma in una pagina
di storia. Si ha dunque ben ragione di dire che il sentimento di identità personale comporta una graduazione.
Ma sarebbe pure incomprensibile che tale sentimento non si fondasse, come quello di unità, soprattutto su
una coscienza di continuità ontologica.

c) L'autonomia. L'«io» riconosce se stesso anche come principio degli stati interiori. Da esso noi sentiamo
scaturire i nostri pensieri, i nostri atti di volontà, le nostre azioni. Ma ciò non basterebbe a spiegare
adeguatamente l'«io», il quale esige, inoltre, il sentimento di essere causa cosciente e volontaria dell'attività
che da esso scaturisce. Via via che l'attività diviene automatica e incosciente, il sentimento dell'«io» si
attenua e si mitiga fino ad esprimere solo una coscienza confusa della spontaneità vitale. E così il sentimento
di autonomia e di responsabilità culmina nell'attività volontaria che è il segno decisivo della personalità.

B. GENESI DELL'IO

544 - I fenomenologi contemporanei hanno dato un importante contributo al chiarimento del problema
sulla genesi dell'io e sui rapporti tra il «me» e 1'«io».
Già prima di loro, tuttavia, Rosmini aveva proposto su queste questioni, concezioni di grande interesse,
tali da precorrere anzi quelle della fenomenologia.
Il «me» e «l'io» secondo Rosmini. Questa terminologia, che usa i vocaboli «me» ed «io» non è di Rosmini,
ma rende esattamente il suo pensiero, che anzitutto mira a significare la natura del «me oggettivo», quindi a
spiegare come diventi cosciente di sé questo «me oggettivo», cioè com'esso diventi un «io» 402.

a) Il problema. Il metodo di Rosmini è analitico e consiste nel partire dalla nozione sintetica e confusa
dell'anima per estrarne in certo modo ciò che risponde all'idea dell'«io» ossia la coscienza di sé 403. Bisogna
dapprima ammettere, in generale, dice Rosmini, un atto di riflessione su di sé, poiché «l'io» implica
evidentemente una presa di possesso del me o dell'anima 404. Questo rapporto dell'«io» al «me» mediante la
riflessione è da Rosmini chiamato «relazione d'identità»: con questa espressione egli vuol indicare come la

402 In realtà, questi termini, comodi come sono, non sono però perfettamente adeguati. «Me oggettivo» in realtà, potrà
apparire espressione impropria per designare la nuda sostanza dell'anima, poiché appunto per Rosmini, essa
originariamente non è né oggetto né soggetto; e diviene l'uno e l'altro in senso stretto solo attraverso l'atto della
percezione. Tuttavia nella terminologia della psicologia moderna «me oggettivo» o semplicemente «me» significa una
pura materia. In quanto tale il termine vale ad esprimere il pensiero di Rosmini.
403 Cfr. Rosmini, Il mio sistema filosofico, Torino, 1854, n. 123.
404 Rosmini, Psicologia, 2 voll., Novara, 1850, n. 167. (ora in Edizione Nazionale, voll. XV - XVIII, Milano, 1941).
329
dualità, determinata dalla relazione tra due termini, si risolve nel sentimento dell'unità, in cui i due termini si
trovano identificati.
Niente di più semplice, apparentemente, perché l'esperienza psicologica a questo riguardo cela i problemi,
senza tuttavia eliminarli. Poiché, si domanda Rosmini, è forse necessario che il «me» sia un «io»? In altri
termini, come si può spiegare la genesi della coscienza di sé (ciò che Sartre chiama: «la grande avventura
dell'in-sé»)? Se l'io risulta dal pensiero riflesso, sembra che questo d'altronde significhi qualche cosa di
superfluo, un soprappiù. Altrimenti come si potrebbe intendere l'inconscio anteriore ad ogni riflessione e
l'inconscio accidentale (o il subcosciente) nel quale è immersa, come in un'atmosfera, per così dire, la nostra
intera vita psichica?

b) Il «sentimento fondamentale». Se l'anima percepisce se stessa, se dice «io» con il sentimento di


coincidere con se medesima, come è possibile rendere conto di questo fenomeno senza cadere nella
contraddizione consistente nel dire che il me si afferma prima di esistere? La originalità peculiare di Rosmini
sta nel suo ridurre questo problema a quello più generale della percezione. Conoscere se stesso come oggetto
equivale propriamente a percepirsi. Ora, essendo la percezione posizione d'oggetto come distinto dal
soggetto (149), attraverso la mediazione dell'idea d'essere data originariamente allo spirito umano come
forma universale di qualsivoglia conoscenza, in questo caso, per attuarsi, essa implica, da una parte, la
presenza anteriore dell'idea dell'essere, e, d'altra parte, un termine sensibile al quale s'applica questa idea per
fame un oggetto-soggetto; tale termine dev'essere certo quanto Rosmini chiama sentimento fondamentale,
cioè la pura essenza dell'anima anteriore alla coscienza 405. Così, s'attuano insieme e per reciproca efficacia
la soggettività («l'io») e l'oggettività, (cioè l'anima come termine della percezione) ed entrambe appaiono
nello stesso tempo in atto d'identificarsi mutuamente (relazione d'identità ).

2. LA FENOMENOLOGIA

a) Il riconoscimento immediato. Nello stesso senso che Rosmini, Merleau-Ponty mostra che alla radice di
tutti i nostri atti di riflessione e di tutte le nostre esperienze, vi è un essere che riconosce se stesso
immediatamente. Tale essere «si riconosce», perché già si conosceva immediatamente, ma alla maniera di
ciò che è vissuto, non di quanto è pensato o riflesso. In realtà, l'essere che così si riconosce, è propriamente
sapere di sé, in modo tale, che la sua propria esistenza non costituisce, per esso, una constatazione, nel senso
obbiettivo del termine, e neppure un fatto o un dato, e ancor meno una inferenza che si intenda fondata su di
un'idea di se stesso, ma un contatto immediato e diretto con se medesima. Così il cerchio del riconoscimento,
vizioso apparentemente, si risolve nell'esperienza vissuta dell'esistenza (che è quanto Rosmini chiamava
sentimento fondamentale)406.

b) Soggettività fondamentale. Diremo dunque che vi è una soggettività, ineliminabile, sebbene tacita, sulla
quale s'inseriscono tutte le nostre «soggettivazioni» esplicite e chiare. È essa l'esperienza radicale del me
anteriore all'io, o ancora, se si vuole, e per riprendere le espressioni di Rosmini stesso, l'essenza (o l'anima)
prima della «realizzazione» dell'esistenza (o dell'io). L'anima come realtà (cioè come pura sostanza o come
sentimento fondamentale) non si pensa ancora ed esige di essere rivelata. La rivelazione è la stessa
esistenza, l'io attuoso e secondo (nel senso che assumeva il termine «atto secondo» presso gli Scolastici). In
tal senso, non v'è altro Cogito che quello giunto a conquistare se stesso sul silenzio dell'anima: atto che è
fatto emergere in certo modo sul puro stato.
Vi è dunque un fondo d'esistenza non costituito dal Cogito (o «io»), ma da esso vissuto nell'identità. Il
rapporto di sé a sé del sé implicito ed originario al sé esplicito ed attuoso, determina, come sosteneva
Rosmini, l'interiorità o ipseità. D'altra parte, come presenza assoluta a se medesimo, questa genesi dell'«io»
che s'origina dalla presenza implicita a se stesso, non è un evento compiuto una volta per sempre. Esso si
esplica invece nella vita stessa dell'«io», che mai cessa di emergere nuovo e sempre anteriore a sé: perciò
stesso, nascendo incessantemente, è sempre il medesimo, sempre presente e già posto.

c) Il campo d'esistenza. Così ogni attività riflessa si situa in un campo d'esistenza dato previamente. Il «sé»
(come s'esprime Rosmini), condizione per la quale io colgo me in atto e mi pongo come soggetto, precede
l'io attuoso. Ma la totalità diversa ed identica insieme del «sé» e del me (cioè dell'anima e dell'io) o ancora la
«relazione d'identità» è essa stessa compresa in un'esistenza più vasta, quella del mondo con cui essa

405 Cfr. Rosmini, Psicologia, n. 122.


406 Cfr. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la Perception, Parigi, 1945, p. 426.
330
s'articola. La soggettività del «sé» o, se così potesse esprimere, dell'anima nuda e l'oggettività del mondo
costituiscono insieme una specie di «generalità esistenziale previa» secondo l'espressione di MerleauPonty
(140).
È questo il motivo per cui anche lo sforzo più esasperato per cogliere a ritroso la mia origine mi rimanda
nello stesso tempo ad un'esistenza, che, prima che io dica «me» e mi costituisca così in prima persona, o
«io», già era posta, e ad un mondo che già porto in me come forma di tutti i miei pensieri e contenuto del mio
Cogito. Nei momenti dunque di dispersione, in cui ricado in quello stato di «latenza» che è quasi il fondo di
me stesso, sono ridotto soltanto ad un elemento del mondo, prima che la coscienza s'elevi sopra tale
confusione originaria e s'opponga al mondo in virtù del quale essa è.

C. GLI ELEMENTI DEL «ME»

545 - 1. IL CONTENUTO DELLA COSCIENZA - In senso materiale, il «me» è ciò di cui prendo
coscienza in forza delle continue modificazioni che provo in quanto costituiscono l'essere che io sono. Il
«me» equivale quindi praticamente al contenuto della coscienza. Le modificazioni che proviamo sono di due
specie: le prime sono organiche e si riferiscono al corpo; le altre sono psicologiche e si riferiscono all'anima.
Corpo ed anima compongono insieme il mio «me», mentre tanto l'uno che l'altra comprendono una varietà
prodigiosa di fenomeni che si intrecciano e si compenetrano, si succedono e si urtano senza interruzione.

2. I GRADI DI INTERIORITÀ - In questa massa di elementi organici in movimento ci è facile scoprire dei
gradi di interiorità. Gli elementi conoscitivi, immagini e idee, che costituiscono il mondo esterno divenuto
presente alla nostra coscienza, restano, per così dire, alla superficie del «me». Viceversa, gli stati affettivi
sono accompagnati da un vivo sentimento di interiorità e si presentano come una peculiarità di quel
determinato «me» che li prova, da divenire incomunicabili, all'opposto degli elementi rappresentativi che
tanto facilmente si trasmettono da una coscienza all'altra. Come è stato già visto (338), sono gli stati affettivi
a rivelare l'uomo a se stesso, e, per tutto il corso della vita, la coscienza di sé viene continuamente risvegliata
e ravvivata dalle oscillazioni più o meno ampie (sentimenti) o dalle crisi (emozioni) dell'affettività.
Più innanzi ancora, o più vicino al centro del «me», le tendenze e le inclinazioni ci fanno sentire di essere
come le sorgenti permanenti della nostra vita intima e della nostra attività. Questo stesso insieme è stato più
o meno saldamente organizzato e sistematizzato dalla volontà, che noi abbiamo visto essere l'espressione
della sintesi psicologica che determina la personalità concreta (509). Così, quanto più l'attività volontaria
domina la nostra vita psicologica, tanto più questa appare come un tutto unificato: i molteplici «me» che lo
compongono, formano, sotto il dominio di una volontà penetrata di ragione, un organismo disposto in modo
fortemente gerarchico.

D. I FATTORI DELLA SINTESI PSICHICA

546 - Questa sintesi e questo organismo psichici, di cui abbiamo parlato sopra, non si attuano
spontaneamente. La sintesi psicologica, preformata e condizionata entro l'organismo fisico, è come una
conquista sull'anarchia naturale delle tendenze, conseguita in virtù dei progressi della ragione e della volontà
e in virtù del concorso della società. La sintesi psichica dipende quindi da fattori di tre specie: organici,
psicologici e sociali.

1. FATTORI ORGANICI

a) L'individualità organica. Il corpo è uno di un'unità intima in cui tutto è solidale e disposto in ordine
gerarchico, grazie soprattutto al sistema nervoso che accentra e coordina le attività fondamentali e le fa
convergere verso il cervello in virtù del quale si attua l'unità di azione. L'unità funzionale del sistema
nervoso offre dunque una base fisiologica all'unità della coscienza. Lo stesso si dica dell'identità psicologica
che è basata sull'identità fisica. Gli elementi del corpo si rinnovano incessantemente ma la sua figura resta
pressappoco la medesima col passare del tempo. L'autonomia stessa del «me» si basa sulla potente
centralizzazione del sistema nervoso e sulla straordinaria varietà dei nessi sinaptici (60), in forza dei quali le
iniziative della volontà acquistano un campo in certo modo illimitato.

b) Natura del fattore organico. L'organismo fisico è la condizione dell'organismo psichico, come è provato
dalle trasformazioni parallele che vengono subite dall'organismo corporeo e dallo psichismo. Certe lesioni
centrali sconvolgono le funzioni psicologiche, e, come si vedrà, turbano più o meno profondamente la
331
coscienza di unità e di identità personali. Certe secrezioni interne trasformano l'affettività in modo talvolta
radicale. La malattia e la salute si ripercuotono in tutto il sistema mentale e affettivo.
Si deve supporre che la personalità psicologica non solo è condizionata, ma è costituita dall'unità e
dall'identità organiche e psicologiche? Alcuni psicologi l'hanno pensato. Ribot specialmente crede di poter
ridurre il sentimento della personalità alla cenestesia (116). «È l'organismo, e il cervello, sua suprema
configurazione, a costituire la personalità reale. L'unità dell'io... (è) la coordinazione di un certo numero di
stati continuamente rinascenti, che hanno per solo punto di appoggio il sentimento vago del nostro corpo».
(Les maladies de la personnalité, p. 170). E ciò sarebbe provato, secondo Ribot, dal fatto che ad ogni
perturbazione della cenestesia corrisponderebbe una perturbazione della personalità.
Tale opinione sarebbe accettabile se si trattasse soltanto dell'individualità (ossia dell'unità e dell'identità),
non della personalità (autonomia). Infatti l'individualità (come abbiamo già visto in Cosmologia II, 97)
risulta dalla materia quantificata (o capace di ricevere questa o quella determinazione quantitativa). Ma ciò
che è in discussione adesso è la personalità, la quale viene determinata essenzialmente dalla ragione e
dall'autonomia. È evidente che i fattori organici sono in questo insufficienti.

547 - 2. FATTORI PSICOLOGICI - Psicologicamente, la personalità appare come una sintesi di tutte le
funzioni psichiche. Essa forma una specie di organismo immateriale, composto di funzioni differenziate, che
agiscono in una maniera solidale sotto il controllo e la direzione della ragione. L'identità di questo organismo
psichico attraverso il tempo viene assicurata dalla memoria. La sua autonomia è opera della volontà libera
che è l'espressione più alta del dinamismo originale della personalità.
Se la personalità non esiste subito fin da principio, ciò non avviene soltanto perché le sue funzioni
organiche non sono ancora pienamente attuate, ma avviene perché è inerente alla sua natura di essere una
conquista progressiva. L'esperienza ci dimostra assai bene attraverso quali vicissitudini passi questa difficile
conquista, che d'altronde non viene mai ultimata ed è sempre più o meno minacciata da un rilassamento del
dominio esercitato dalla volontà sugli impulsi irrazionali dell'istinto.

3. FATTORI SOCIALI

548 - a) L'aspetto sociologico. I sociologi contemporanei hanno pensato che i fattori essenziali della sintesi
psichica non fossero i fattori fisiologici e psicologici, ma quelli sociali. Se il concetto di individuo si riduce
in modo esaustivo all'elemento fisiologico e psicologico, la persona è un prodotto della società. Difatti essa
viene definita attraverso l'autonomia. Ma questa autonomia ha il suo principio nella ragione, che è universale
e, per conseguenza, di origine sociale (391). Lo sviluppo della ragione e dell'autonomia personale sembra
essere stato legato al continuo disgregarsi del comunismo primitivo, all'allargarsi sempre più ampio dei
gruppi sociali e alla divisione del lavoro: l'individuo, liberato dalla tirannia di gruppi ristretti e chiusi, ha
potuto spiegare un'attività più libera nelle forme e nei mezzi e raggiungere così, attraverso l'interiorizzarsi
progressivo della regola morale, la personalità 407.

b) DISCUSSIONE - È possibile che il progresso di interiorizzazione della norma e del diritto (e


dell'autonomia personale da essa presupposta) sia legato alla disgregazione progressiva del «comunismo
primitivo». Ma non è assolutamente possibile che la morale, la personalità e l'autonomia siano semplici
effetti della disgregazione del comunismo primitivo. Sarebbe assai più facile ammettere che questo
comunismo (d'altronde ipotetico) si sia dilatato e disgregato solo sotto la pressione sempre più attiva di un
sentimento di personalità e di autonomia che preesisteva già nelle coscienze individuali. Veramente
Durkheim e, successivamente, Davy assicurano che se la ragione, la morale e il diritto hanno potuto
interiorizzarsi e individualizzarsi e rendere in tal modo possibile il sorgere dell'autonomia personale, ciò è
avvenuto perché quegli elementi risiedevano dapprima nel gruppo stesso sotto la forma sociale. Ma se si
ammette come evidente che il gruppo o la socialità sono cose morali solo per coscienze che possono
afferrarle sotto tale aspetto, non si fa che dare gratuitamente per dimostrato quel che è in discussione.
La verità è che il fattore sociale ha una grande importanza nello sviluppo della personalità, ma non la
costituisce. La società ci aiuta moltissimo, col linguaggio, con l'educazione morale, con la tradizione, coi
costumi, le abitudini e le sanzioni a dominare e a disporre armonicamente gli elementi psicologici della
personalità. Inoltre, la società aiuta a mantenere l'identità personale: essa non può difatti accettare le
fluttuazioni della personalità, i contratti e gli impegni escludono l'instabilità ed esigono una costanza di

407 Cfr. Durkheim, La division du travail - Dumas, Nouveau Traité de Psychologie, t. VI, p. 153 sg. (Davy), p. 335 sg.
(Blondel).
332
condotta; l'individuo sociale, che è stato formato dalle circostanze, deve restare uguale a se stesso, per quante
siano le variazioni personali, la cui ampiezza viene d'altronde, sotto questo punto di vista, parzialmente
limitata.
I fattori sociali sono quindi importanti e numerosi nel costituire e mantenere la sintesi psicologica, ma non
svolgono una parte esclusiva e neppure primaria. La persona è infatti molto di più che l'individuo sociale. La
sintesi psichica non viene costruita dal di fuori, ma dal di dentro: i suoi fattori essenziali risiedono nel
progresso della ragione e del dominio di sé, che la società può benissimo favorire, ma non può produrre.

D. LE FASI SUCCESSIVE DELLA PERSONALITÀ

549 - Noi sappiamo adesso quali sono i fattori che condizionano la formazione dell'«io» o personalità.
Resta da precisare quali sono le fasi successive di questa formazione. Vedremo subito che il processo,
partendo da un periodo dominato dall'indifferenziazione, consiste in una specie di interiorizzazione
attraverso la quale il fanciullo conquista e unifica a poco a poco gli elementi del proprio «me».

1. PERIODO DI INDISTINZIONE - Sembra che da principio il bambino non distingua l'elemento


soggettivo da quello oggettivo e che la sua coscienza sia formata da diversi «me» distinti (cerebrale,
sensoriale, spinale) fra loro non collegati, tanto che appena si può parlare di coscienza. Si tratta piuttosto di
una corrente confusa e caotica, dalla quale non emerge niente, perché manca una capacità di attenzione che
non ha ancora trovato le proprie condizioni organiche. Tuttavia, a poco a poco, il fanciullo comincia a
distinguere in questo caos alcuni elementi, e cioè delle sensazioni interne, legate alle funzioni organiche, e
quindi delle sensazioni esterne che si riferiscono alle qualità delle cose (soprattutto alla luce). Fin da allora il
di dentro si contrappone al di fuori come conseguenza degli sforzi di adattamento al mondo esterno e degli
ostacoli da essi incontrati. Sembra, secondo Piaget, che il sentimento chiaro di questa antitesi si riveli assai
tardi, non nel senso che l'opposizione del «me» e del «non-me» non sarebbe sentita, ma nel senso che i due
campi sarebbero ancora mal determinati. Così avviene che per il fanciullo il sogno è spesso una cosa
oggettiva che avrebbe potuto essere vista da un'altra persona coricata nella stessa camera. Quanto ai valori
affettivi, il fanciullo, con grande naturalezza, nello stesso tempo che li prova come realtà soggettive, li mette
anche nelle cose: per lui il latte è buono per lo stesso motivo che è bianco e caldo. Infine gli oggetti si
staccano dal continuo colorato e resistente con cui dapprima si confondevano.

2. IL «ME» FISICO - A questo punto si sta per formare il «me» in contrapposizione al «non-me» (146). Il
«me», per il bambino, è dapprima il corpo. Questo si afferma attraverso gli stati affettivi; esso appare,
attraverso gli sforzi di esplorazione, come ciò che è allo stesso tempo il senziente e il sentito, poi come un
oggetto che si può muovere a piacere, che è continuamente presente, e oltre il quale non si sente più nulla. A
poco a poco, il corpo finisce quindi per costituire il dominio del «me» e i suoi limiti si confondono con le
frontiere del medesimo.

550 - 3. IL «ME» PSICOLOGICO - La formazione della sintesi psicologica avviene relativamente tardi,
perché suppone una distinzione almeno vissuta fra la vita organica e quella interiore, come pure una
riflessione su quest'ultima. Tale distinzione viene fatta quando il fanciullo si accorge che la propria vita
organica non costituisce tutto il proprio «me», che egli può vivere dentro di sé e, se vuole, conservare per sé
ciò che avviene nel suo interno. D'altronde tutto ciò non può essere da principio che molto confuso e si
riduce alla coscienza di un «dentro», in opposizione al corpo, che diviene un «fuori», o meglio un
contenente. Queste cose si chiarificheranno solo più tardi, grazie ai contributi dell'educazione morale e
religiosa, insieme con la nozione di un'anima distinta dal corpo, che costituisce il «me» spirituale;
Questo progresso viene rilevato attraverso l'impiego dei pronomi fatto dal fanciullo. Fin verso il ventesimo
mese, il bambino, per designare se stesso, si serve soltanto del proprio nome, proprio come fa per indicare un
oggetto. Verso i due anni, compare il pronome, e il suo primo uso mette in evidenza il sorgere del sentimento
di soggettività. Ma questo sentimento è dapprima confuso perché il fanciullo comincia a dire me e solo più
tardi passa all'io. Con l'io si introducono anche gli altri pronomi: tu ed egli. All'inizio, questi tre pronomi
significano funzioni distinte: colui che parla, colui a cui si parla e colui di cui si parla. Solo più tardi essi
divengono segni della personalità e il fanciullo con l'io si riconosce e si afferma come persona.
Il fanciullo ormai, verso i dieci o dodici anni, è in possesso del proprio «me». Questo si è interiorizzato;
essendo formato soprattutto dagli elementi psicologici, esso ha, per così dire, spinto il corpo verso la
periferia. Lo sviluppo della ragione, le esigenze dell'educazione morale, religiosa e sociale non fanno che
accentuare ancor più questa interiorizzazione del «me» facendo sì che l'adolescente arrivi a comprendere che
333
il suo «me» si concentra in qualche modo in un «io» che è in grado di dominarlo, dirigerlo e trasformarlo. Da
allora, la conquista del «me» diviene il lavoro di tutta la vita, e il suo progresso determina il grado di
perfezione morale a cui ciascun uomo ha potuto elevarsi.

§ 2. - Patologia della personalità

551 - I disturbi della personalità sono quelli della coscienza del «me», e sono legati ad alterazioni più o
meno profonde degli elementi organici o psichici che lo costituiscono. Si possono dividere in due categorie: i
fatti di sdoppiamento e di disgregazione della personalità, - i fatti di spersonalizzazione.

1. GLI SDOPPIAMENTI

a) Gli sdoppiamenti successivi. Negli individui colpiti da questa malattia, la vita si è scissa in due o più
sistemi che si evolvono, gli uni indipendentemente dagli altri. Il soggetto passa attraverso stati che non
comportano più la continuità normale: allo stato secondo, non vi è più alcun ricordo dello stato primo, ma la
memoria di esso riaffiorerà appena egli sarà di nuovo nello stato primo (fenomeno delle memorie alternate).
Ad ognuno di questi stati possono corrispondere un carattere, un comportamento e anche un nome diverso.
Alcuni casi di tal genere sono rimasti celebri negli annali della psichiatria (Félida X, Miss Beauchamp, Mary
Reynolds). Si ammette, è vero, che le condizioni di osservazione di questi soggetti anormali, che sono quanto
mai suggestionabili e gravemente ciclotimici 408, hanno dovuto contribuire a formare i fenomeni di
sdoppiamento successivo, ma sarebbe esagerato, sembra, supporre che a produrli siano stati questi fenomeni
stessi per il fatto che si trovano in germe in certi stati normali 409.

b) Gli sdoppiamenti simultanei. I fenoméni di sdoppiamento simultaneo sono messi in evidenza soprattutto
dal fatto della scrittura automatica. Si arriva a svolgere una lunga conversazione con un soggetto il quale,
mentre parla, fa per esempio delle operazioni aritmetiche. Tuttavia, la maggior parte dei casi di questo genere
sembrano dubbi. Si è dovuto riconoscere che diversi fenomeni di sdoppiamento simultaneo sono prodotti
artificiosamente e involontariamente dalle suggestioni dello psichiatra. D'altronde, lo sdoppiamento non è
mai perfettamente simultaneo: sembra invece che ci sia un continuo e rapido passaggio da un'operazione
all'altra410.

552 - 2. LE SPERSONALIZZAZIONI - Si tratta di fenomeni completamente diversi da quelli precedenti.


Il soggetto non riconosce più una parte e neppure l'insieme del proprio «me». Talvolta è il corpo a sembrare
cambiato: certi malati assicurano che il loro corpo è di vetro o senza vita. Talvolta è lo psichismo a subire
misteriosi cambiamenti: il soggetto afferma che gli è stata tolta la volontà, che si sente dominato da forze
estranee; perde completamente il ricordo della vita passata, ecc. Talvolta infine il mondo esterno prende un
aspetto completamente nuovo, sia perché la forma e l'ordine delle cose si trasformano come nel sogno, sia
perché prendono un nuovo significato.
Però in tutti questi casi, sia di sdoppiamento, che di spersonalizzazione, i disturbi non riguardano che
l'unità e identità empirica del «me». Ciò che si disgrega è unicamente la sintesi psicologica. L'unità
fondamentale del «me» resta intatta e quindi, non solo essa può essere restaurata nei casi di disturbi
psicogeni e in molti casi di psicosi lesionali 411, ma perfino nello stato di disgregazione, i soggetti conservano

408 La costituzione ciclotimica è caratterizzata da oscillazioni improvvise, frequenti e irregolari dell'umore.


409 Il momento del risveglio, soprattutto se avviene bruscamente in pieno sogno, è spesso un istante di indecisione per
la coscienza della personalità. Parimenti uno choc emotivo violento può far sì che ci si senta profondamente trasformati
e come rivestiti di una nuova personalità. I casi di conversione, quando essa avviene bruscamente, di punto in bianco, si
ricollegano al caso precedente.
410 Cfr. P. Janet, Les névroses, Parigi, 1909, p. 270. In molti casi, la spiegazione più ovvia è quella dell'automatismo
psico-fisiologico. Questo automatismo comincia a prodursi perché sollecitato da una percezione subcosciente. In tal
modo si provocano movimenti complessi di adattamento, ponendo nella mano anestetizzata (e nascosta) di un soggetto
isterico degli oggetti conosciuti (coltello, matita, scatola di fiammiferi): il contatto di questi oggetti determina i
movimenti appropriati. Cfr. Binet, Les altérations de la personnalité, Parigi, 1892, p. 106). Tutto ciò si spiega bene per
mezzo del subcosciente, senza che ci sia bisogno di ricorrere a due «me». Su ciò dovremo ritornare quando studieremo
il subcosciente.
411 Si fa distinzione fra le psicosi costituzionali, la cui prima origine si trova in certe disposizioni originarie dei
soggetti: da ciò deriva il fatto che esse si chiamano psicogene o endogene ma la questione se esse includano, o no,
elemento organico è un problema insoluto -; e le psicosi lesionali, derivanti da alterazioni anatomico-fisiologiche.
334
il sentimento spontaneo della loro unità fondamentale e manifestano spesso un certo stupore dinanzi
all'incoerenza del loro stesso psichismo.

Art. II - Teorie sulla personalità


553 - I filosofi si sono posti il problema di spiegare i caratteri che determinano l'«io», ossia la personalità.
Su ciò si hanno molte teorie che spessissimo dipendono da princìpi estranei all'esperienza psicologica, ma
che son da valutare in rapporto a questa esperienza stessa. Esse si possono d'altronde ridurre a due gruppi
principali, a seconda che si basino sull'una o sull'altra delle due ipotesi che si possono fare a questo punto.
Infatti, l'analisi precedente scaturisce da due realtà empiriche che sono: da un lato, i fenomeni molteplici e
vari che costituiscono il «me»; e dall'altro, un soggetto di attribuzione di tutti questi fenomeni chiamato «io».
Si può dunque scegliere fra due spiegazioni: o spiegare l'«io», con le sue caratteristiche di unità, identità e
autonomia per mezzo dei soli fenomeni, oppure spiegare i caratteri della personalità per mezzo di un
soggetto. Il primo punto di vista è quello delle teorie fenomenistiche; il secondo, quello delle teorie
sostanzialistiche.

§ l - Teorie fenomenistiche

554 - Queste teorie sonò state proposte dagli empiristi del secolo XVIII e XIX. Il loro principio generale è
che la personalità può e deve spiegarsi attraverso i soli fenomeni, considerati come capaci, in certe
condizioni, di formare una somma o collezione contrassegnata dai caratteri che determinano il «me»
personale.

A. ARGOMENTI DEL FENOMENISMO

Questi argomenti sono di tre specie. Gli uni sono puramente negativi e tendono a provare che l'ipotesi di un
soggetto sostanziale è incomprensibile. I secondi impugnano il valore sperimentale del concetto di
personalità. I terzi cercano di dar ragione senza alcun soggetto dei caratteri della personalità.

1. CRITICA DEL CONCETTO DI SOSTANZA - Tutti gli empiristi del XVIII secolo (Locke, Condillac,
Berkeley, Hume) considerano inintelligibile il concetto di soggetto sostanziale. Una sostanza o un soggetto,
dicono costoro, è per definizione qualcosa che si trova posto sotto i fenomeni (sub-jacere, sub-stare), cioè un
sostrato o sostegno. Però una tale realtà, se esistesse, sarebbe in se stessa inconoscibile, perché l'esperienza
non ci presenta mai altro che le qualità o fenomeni, inutile, perché sarebbe immobile e inerte sotto il flusso
dei fenomeni, - impensabile in se stessa, perché dovrebbe essere considerata come una cosa priva di ogni
determinazione, infine contraddittoria, perché, pur essendo destinata a servire da sostegno ai fenomeni,
anch'essa avrebbe bisogno di sostegno (Locke, An Essay on human Understanding, L II, c. XXIII, in Works
of J. L., 4 voll., Londra, 1777; tr. it., Bari, 1951).
Bisogna quindi rinunziare ad ogni idea di soggetto sostanziale, il quale non ha altro fondamento
nell'esperienza che un gruppo di qualità costanti sostrato delle qualità variabili.
La sostanza piombo, per esempio, si riduce ad un complesso di qualità: colore opaco e biancastro, un
determinato grado di pesantezza, di durezza, di duttilità e di fusibilità. Il soggetto uomo non è che un
complesso di qualità estese e di qualità dette spirituali. Il soggetto anima o spirito non è che una collezione
di fatti interni che coesistono per l'azione della memoria.

555 - 2. CRITICA DELL'ESPERIENZA DI PERSONALITÀ Questa critica è opera soprattutto di Hume,


il quale si sforza di dimostrare che noi siamo ben lungi dall'avere una coscienza precisa e ferma dell'unità e
dell'identità del «me». Infatti non constatiamo in noi stessi nessuna impressione costante e invariabile 412. Il
sentimento dell'«io» (Self), di cui si fa tanto conto, non è un'esperienza, ma una costruzione da filosofo,
perché per quanto avanti io penetri in me stesso, non arrivo mai ad afferrare altro che delle percezioni
particolari. Tutti questi argomenti (già inclusi nell'affermazione di Condillac, che il «me» è soltanto una
collezione di sensazioni), sono stati ripresi nel secolo XVIII da Taine per il quale il «me» si riduce

412 A Treatise of human Nature, 4a parte, sez. VI: «Senza tener conto di alcuni metafisici, io oso affermare, quanto al
resto degli uomini, che essi non sono che un fascio od una collezione di diverse percezioni, le quali si succedono con
una rapidità inconcepibile e sono in un flusso e in un movimento perpetui».
335
interamente ad una «serie di avvenimenti» e ad un «ramificarsi tentacolare di immagini». (De l'Intelligence,
2 voll., Parigi, 1870, t. I, p. 350).
556 - 3. GENESI DELL'ILLUSIONE DELL'«IO-SOGGETTO»

a) Come funziona l'associazione. Tutto si può spiegare, secondo Hume, con l'associazione. L'idea di
soggetto rappresenta soltanto una generalizzazione del concetto comune di cosa. Difatti, questa ha tre
proprietà: è unità di una molteplicità coesistente; è unità di una molteplicità successiva; è un sostrato le cui
modificazioni sono rappresentate dalle qualità sensibili. È. dunque facile dimostrare che tutte queste
proprietà risultano da come funziona l'associazione. La prima è prodotta dalla coesistenza delle qualità nella
percezione: lo spirito rappresenta a se stesso tutte insieme queste qualità e tratta questa collezione come un
tutto organico, designandola con una sola parola. A poco a poco, l'unità verbale si trasforma in unità reale. La
seconda proprietà deriva dal fatto che la cosa non sembra cambiare, od almeno non cambia, in modo
rilevante che in un tempo relativamente lungo: da ciò deriva il fatto che la cosa ci appare identica a se stessa.
Ma siccome questa identità non può essere attribuita alle qualità palesemente cangianti, noi l'attribuiamo al
raggruppamento stesso delle qualità e, al di là di queste, ad un soggetto comune immobile delle
modificazioni.

b) Genesi della persona-soggetto. Proprio allo stesso modo noi ci formiamo l'idea di sostanza spirituale.
Come la sostanzialità delle cose esterne per noi proviene dalla rassomiglianza che esse presentano nel tempo,
così la sostanzialità del «me» nasce dalla memoria. Infatti questa basta a spiegare il nostro sentimento di
identità personale: essa ci dà, insieme alla continuità successiva delle nostre percezioni interne, il sentimento
della causalità reciproca di queste percezioni, ossia del loro concatenamento, ed infine raggruppa queste
percezioni in base alla loro rassomiglianza. Da queste diverse relazioni conservate dalla memoria nasce il
concetto della nostra identità personale e sostanziale. Però quest'ultima non è, in definitiva, che l'identità
sostanziale del legame che esiste in una serie di cause e di effetti (Treatise, of Human Nature, Oxford, 1951,
tr. it., Bari, 1948, 1. I, 1a parte, sez. VI).
Taine e Stuart Mill, partendo dallo stesso principio di Hume, propongono spiegazioni un po' diverse.
Secondo Taine, fra i fatti psicologici, che sono l'unica realtà concreta alcuni sono stati forti e, in quanto tali,
prendono forma di interiorità e si innalzano fino a diventare corpo e «me»; gli stati deboli invece vengono
respinti e compongono il mondo degli oggetti o «non-me». Insomma, l'idea di personalità si riduce a quella
di stati psichici interni, e gli oggetti o mondo esterno sono effetto di una «allucinazione vera». (Taine, De
l'Intelligence, t. II, libro III, c. I). Quanto a Stuart Mill egli definisce il «me» come una «possibilità
permanente di sensazioni». «Credere che il mio spirito esiste, anche quando esso non sente se stesso, non si
pensa, non ha coscienza della propria esistenza, si riduce a credere in una possibilità permanente di questi
stati... Io non vedo niente che ci impedisca di considerare lo spirito come ciò che è soltanto la serie delle
nostre sensazioni, quali esse si presentano di fatto, aggiungendovi le possibilità indefinite di sentire che
esigono, onde esser tradotte in atto, delle condizioni che possono aver luogo o no, ma che, in quanto
possibili, esistono sempre e molte delle quali possono realizzarsi a volontà». (An Examination of Sir W.
Hamilton's Philosophy, Londra, 1865; tr., fr., p. 228).

B. DISCUSSIONE

557 - Dobbiamo esaminare brevemente le tre categorie di argomenti fenomenistici.

1. IL SOGGETTO NON È UN SOSTRATO INERTE - La critica del concetto di sostanza è basata tutta. su
un equivoco. Il termine soggetto non equivale a sostrato inerte del cambiamento sul quale verrebbero in
qualche modo ad appiccicarsi le qualità, come un vestito che aderisce al corpo o come una vernice che
ricopre la superficie delle cose. Questa concezione è assurda. Infatti, il soggetto non costituisce con le sue
qualità che un unico essere completo, anche se, propriamente parlando, non sono le qualità a cambiare, ma è
il soggetto che cambia con esse e per esse. Il soggetto cambia quindi continuamente secondo il succedersi.
dei fenomeni che lo investono: la permanenza e la stabilità fanno parte soltanto della sua essenza, non della
sua realtà concreta. Da ciò si vede bene come l'obiezione di Hume, secondo il quale il soggetto sarebbe
impensabile in se stesso, non ha nessuna importanza. Il soggetto viene in sé determinato sia dalle sue
proprietà essenziali, sia dalle qualità che lo individualizzano, perché il soggetto concreto è composto da tutte
queste cose prese insieme.
336
558 - 2. LA REALTÀ EMPIRICA DELL'«IO» - Hume impugna invano l'esperienza psicologica dell'«io».
Tale esperienza può avere dei gradi, ma è un fatto evidente quanto la molteplicità degli stati di coscienza.
Inoltre, contrariamente a quanto immaginano gli empiristi, questo «io» non è costruito cominciando dai suoi
elementi, come se questi esistessero dapprima come isolati e dispersi, e fossero in seguito riuniti in un tutto.
È il tutto quello che viene per primo, e gli elementi, in quanto tali, non sono percepiti e distinti che
successivamente.
Ciò che abbiamo detto sopra circa la formazione del «me» nel fanciullo non è in contraddizione con questa
osservazione, perché, propriamente parlando, il fanciullo non costruisce il suo «me», ma lo scopre
progressivamente, via via che si realizzano le condizioni degli organi, dell'esperienza e della ragione. Quanto
alla sintesi psicologica, essa non risulta nel fanciullo da una disposizione di elementi preesistenti, ma da una
presa di coscienza sempre più approfondita di un ordine di diritto incluso e preformato entro la ragione. Essa
dunque è, in quanto tale, anteriore agli elementi.
Infine, non fa meraviglia che Hume non arrivi a scoprire l'«io» nella sua esperienza: l'«io» che egli cerca
non esiste e non può esistere, perché non è un sostrato che esista separato dagli stati di coscienza, ma è
l'insieme stesso del «me» dotato dei caratteri di unità e di identità personali.

3. CONFUTAZIONE DELL'ASSOCIAZIONISMO - Le ragioni addotte da Hume per spiegare la


formazione dell'idea di cosa o di soggetto permanente sono delle autentiche petizioni di principio. Se infatti
le cosiddette «collezioni» vengono designate con una sola parola, è evidente che ciò avviene perché fin dal
loro sorgere ciascuna di esse appare come un tutto organico. È inutile che i sassi di un mucchio si presentino
insieme alla percezione; nonostante ciò, essi continuano a formare un mucchio, cioè una collezione, non una
cosa o un soggetto. D'altronde, è davvero impossibile. pensare che una collezione o serie di stati di coscienza
possa giungere a conoscere se stessa come unità identica a se stessa 413. Hume medesimo, d'altronde, finì col
rendersene conto, dicendo che, nell'ipotesi dell'io-collezione. è impossibile ammettere l'esperienza di unità e
identità e che l'unica soluzione plausibile sarebbe quella di un soggetto permanente 414.

C. TEORIA KANTIANA

559 - KANT è un empirista nominalista il quale, partendo dagli stessi princìpi di Hume, cerca per altra via
la soluzione dei problemi posti dall'empirismo. La sua via è quella delle forme a priori dell'intellezione e
della sensibilità. Di questa teoria, Kant fa alla psicologia dell'«io» la seguente applicazione.

1. L'UNITÀ FORMALE DELL'IO. - L'idea di un soggetto permanente, posto al di là dei fenomeni, deve
essere rigettata perché non ha alcun appoggio nell'esperienza. Tuttavia, la coscienza di unità, di identità e di
autonomia è un fatto innegabile. Come spiegarla? Essa si spiega, dice Kant, con la medesima funzione di
appercezione che ci fa riunire, nel concetto di un oggetto, tutta la diversità e la molteplicità di un'intuizione.
Tale funzione produce un'unità trascendentale (ossia un oggetto), collegando i diversi elementi
dell'intuizione, e produce un «io» collegando i diversi e molteplici stati della coscienza. (Critica della
ragione pura, Analitica trasc., § 178; Dialettica trasc., c. I). L'unità del «me», dal punto di vista empirico,
non è quindi che un'unità formale. In senso materiale, il «me» è solo una collezione e una successione di
fenomeni.

2. DISCUSSIONE - La teoria di Kant non porta alcuna soluzione alle difficoltà scaturite dall'empirismo.
Prima di tutto anch'essa costituisce una petizione di principio: per spiegare come gli stati di coscienza vari e
mutevoli prendano la forma dell'«io», Kant dichiara che ciò avviene perché sono percepiti come unità; ma

413 La spiegazione di Taine è altrettanto arbitraria. Non si riesce a capire come, esistendo soltanto gli stati psicologici,
la loro differenza di intensità sia tale da poter bastare a trasformarli in mondo interno od esterno, reale od immaginario.
414 Treatise, I. I, 4a part., Appendice: «A dirla in breve, vi sono due princìpi che io non riesco ad accordare, senza che
possa rinunziare ancor più all'uno o all'altro e cioè: il principio che le nostre percezioni distinte sono esistenze distinte, e
che la mente non percepisce mai alcun nesso reale fra esistenze distinte. Non vi sarebbe più nessuna difficoltà se si
ammettesse sia che le nostre percezioni sono inerenti a qualcosa di semplice e di individuale, sia che la mente
percepisce qualche nesso reale fra loro. Per ciò che mi riguarda, io devo confessare che questa difficoltà sorpassa la mia
comprensione...». S. Mill confessa la stessa cosa: «Se consideriamo lo spirito come una serie di stati di coscienza, siamo
obbligati a completare la proposizione chiamandola serie di stati di coscienza che conosce se stessa come passata e
futura: e siamo ridotti a dover scegliere fra il credere che lo spirito, o «io», è una cosa ben diversa dalle serie di stati di
coscienza possibili, e l'ammettere il paradosso per cui qualcosa che, per ipotesi, è solo una serie di stati di coscienza,
può conoscere se stessa come serie». (An Exarnination of Sir W. Hamilton's Philosophy, Londra, 1865; tr. fr., p. 235).
337
siccome per formare questa percezione ci vuole un soggetto, ne deriva che il soggetto serve a spiegare ciò
che invece dovrebbe servire a spiegarlo!
D'altra parte, in questa teoria si ritrova l'errore che caratterizza tutto l'empirismo e che consiste nel pensare
che il molteplice e il diverso esistano prima dell'unità, e che l'unità sia il resultato di una costruzione
artificiale. Mai l'empirismo è riuscito a dare una spiegazione intelligibile dei processi con cui si dovrebbe
attuare questa difficile operazione. D'altronde l'esperienza contraddice chiaramente queste concezioni,
dimostrandoci che le unità, o tutti organici, precedono i loro elementi, e che gli oggetti, in quanto forme o
strutture, sono dati immediati della percezione.

§ 2. Teorie sostanzialistiche

560 - Siccome le teorie fenomenistiche non sono in grado di spiegare l'esperienza dell'«io», è necessario
affrontare l'altra ipotesi che cerca la spiegazione nel soggetto sostanziale. Veramente le teorie
sostanzialistiche sono sorte prima del fenomenismo, perché corrispondono alle esigenze del senso comune, il
quale vuole un soggetto a sostegno del cambiamento; tuttavia non possono né appagarsi delle concezioni
insufficientemente elaborate del senso comune, né fare a meno di tener conto delle critiche opposte dal
fenomenismo a certe forme discutibili di sostanzialismo.

A. LA «COSA CHE PENSA» DI CARTESIO.

1. IL «COGITO» - Per Cartesio, il «me pensante», cioè «cosa che pensa» è prima di tutto un' esperienza.
Infatti il soggetto pensante percepisce se stesso nell'atto di pensare come «una sostanza di cui tutta l'essenza
o la natura non consiste che nel pensare». «Io penso, dunque sono» non è un ragionamento, ma un'intuizione
in cui il pensiero e l'essere formano una sola cosa. L'essere così concepito, insiste Cartesio, non può essere
che una sostanza o un soggetto415.

561 - 2. VALORE DEL «COGITO» - Sopra abbiamo veduto che gli empiristi contestano la realtà
dell'intuizione di un me-soggetto. I loro argomenti sono tuttavia inefficaci, poiché si riducono tutti a dire che
noi non abbiamo nessuna «coscienza pura del me-sostanza come essere individuale», cosa evidente, ma fuori
di discussione. Si tratta invece di sapere se sia possibile avere una coscienza empirica del «me» che non sia
in pari tempo e necessariamente coscienza di essere un soggetto. In questo, il Cogito cartesiano resiste a tutti
gli assalti. Se possiamo dire o pensare: «io sono pensante», «sono vivente», «sono sofferente», ciò avviene
perché percepiamo noi stessi come «cosa che pensa, che vive e che soffre», cioè come soggetto permanente
di modificazioni molteplici e diverse. Il me-soggetto è originariamente una realtà di esperienza.
Di fatto, la concezione cartesiana non esclude delle difficoltà. Cartesio infatti identifica arbitrariamente il
pensiero coll'essere. Vi sono degli enti che non sono pensiero, e il pensiero non è un ente, ma un modo di
essere. Tuttavia queste difficoltà non scalfiscono il significato profondo del Cogito.

3. CRITICA EMPIRISTICA DEL COGITO - Dal punto di vista empiristico, si obbietta che il Cogito
cartesiano fa confusione fra il «me empirico», quale ci viene rivelato dalla coscienza, e il «me sostanziale» a
cui arriva la metafisica, obiezione che non ha tuttavia alcun significato intelligibile. Infatti, non vi sono due
«me», uno empirico e l'altro sostanziale. Se si ha l'intuizione del primo, si ha per ciò stesso anche l'intuizione
del secondo, perché ambedue formano una cosa sola. La verità è che il concetto metafisico di anima
spirituale è soltanto implicito nell'intuizione del «me» empirico e solo attraverso la riflessione e il
ragionamento, partendo dall'intuizione del «me» empirico, arriveremo a esplicitarlo. Ma ciò non toglie niente
al valore dell'esperienza che facciamo intuitiva mente della nostra esistenza come soggetto.

B. L'IO COME ESPERIENZA DI FORZA.

562 - 1. LA SENSAZIONE DI SFORZO - Maine De Biran riconosce che esiste di fatto, proprio come
voleva Cartesio, una appercezione immediata, cioè un'intuizione, del soggetto fatta da lui stesso. Tuttavia,
egli stima che questa intuizione non è quella dell'essere nel pensiero o del soggetto pensante, ma quella di
una relazione fra l'io e il non-io: relazione messa in evidenza dallo sforzo compiuto dall'io per dominare il

415 Cfr. Maine De Biran, Mémoire sur la décomposition de la pensée in Oeuvres (Tisserand, l4 voll., Parigi, 1920-49),
t. VII e IV.
338
non-io che gli resiste. Proprio in questo sforzo continuo noi percepiamo l'unità, la permanenza e l'identità
dell'io nel tempo416.
2. L'INTUIZIONE DELL'IO COME SOGGETTO ATTIVO - La spiegazione offerta da Biran può essere
impugnata, almeno in quel che si riferisce alla natura della sensazione di sforzo, che è di origine periferica e
non centrale (115). Tuttavia, Biran ha ben compreso che l'intuizione dell'io non è intuizione di una sostanza
passiva, ma di un soggetto o principio attivo della vita psicologica. In ciò sta il senso profondo della sua
dottrina. L'«io», quale è rivelato dall'intuizione, è di fatto percepito nei fenomeni vari e molteplici (idee,
immagini, affezioni, percezioni, emozioni, sentimenti, volizioni, ecc.) che emanano da lui stesso o lo
investono. Esso è intrinseco a tutti i suoi stati, ma proprio nello sforzo volontario esso è oggetto di
un'esperienza vissuta particolarmente intensa, perché in nessun'altra parte si afferma così chiaramente come
principio e causa.

C. L'IO COME ILLAZIONE.

563 - 1. TEORIA DI REID - La scuola scozzese con Reid e gli eclettici, con Royer-Collard e V. Cousin,
stimano necessario ammettere la realtà di un soggetto onde spiegare l'esperienza psicologica, ma dicono che
esso può essere unicamente il risultato di un ragionamento. Il soggetto è dedotto, non intuìto. Il principio di
questo ragionamento, afferma Reid, non è che il principio di sostanza: ogni cambiamento esige un soggetto.

2. DISCUSSIONE - In questa teoria si fa confusione fra l'esperienza e le ragioni che la rendono


intelligibile. La nozione di soggetto della vita psicologica non è effetto di un ragionamento, neppure
implicito (ammesso che ne esistano), ma un dato immediato, un «fatto primordiale» della coscienza che
accompagna, in forma più o meno chiara, tutta la nostra vita psicologica.
Solo successivamente la riflessione su questa intuizione ci permette di comprendere, in modo discorsivo,
l'evidenza intelligibile che essa include. Inoltre, è necessario rendersi conto che questa esperienza, lungi
dall'essere giustificata dal principio di sostanza, è invece, insieme con l'intuizione dell'io, una intuizione di
questo principio (481).

D. CONCLUSIONE

564 - 1. NECESSITÀ DI UN SOGGETTO - Lo studio delle diverse teorie riguardanti la personalità ci


porta a concludere che l'esperienza e i caratteri dell’«io» non hanno altra spiegazione possibile che per
mezzo di un soggetto sostanziale. Il fenomenismo, sotto qualunque forma si presenti, è infatti incapace di
spiegare questa esperienza. Una collezione di cose non è un ente; una serie od una carovana non formano un
tutto organico; una serie successiva od una collezione simultanea non possono riconoscere se stesse né come
serie, né come collezione, né tanto meno come unità.
Viceversa, l'unità e l'identità divengono intelligibili appena si ammette che esse esprimano la realtà di un
soggetto sottoposto al mutamento e di un soggetto che continua ad esistere mutando. Quanto all' autonomia,
se essa esige ben altro che l'unità e l'identità, le quali sono i caratteri della individualità (indivisum in se et
divisum a quolibet alio), almeno essa trova nell'individualità la propria condizione necessaria: solo un
individuo (e non una colonia od una serie) può essere persona, cioè essere intelligente e libero, padrone di sé
(individuum ratione praeditum, sui juris).

565 - 2. L’INTUIZIONE DELL' IO

a) Forma dell'intuizione. Il soggetto che noi siamo non è una costruzione dello spirito, ma un dato
dell'esperienza. L'intuizione del me-soggetto si deve estendere a tutta la nostra vita psicologica, nel senso
che noi non cessiamo di essere in qualche modo ontologicamente presenti a noi stessi e cogliamo questa
presenza ontologica negli atti che ne emanano417.

416 Cartesio, Discours de la Méthode, 4° part., tr. it., 11a ed., Firenze, 1954.; Principes de la Philosophie, I, c. XI:
«Osserveremo che è ben chiaro, in forza di una luce naturale che è nelle nostre anime, che il niente non ha alcuna
qualità né proprietà sua propria e che, nel caso in cui ne trovassimo qualcuna, bisogna necessariamente trovare una cosa
o sostanza da cui dipende».
417 S. Tommaso, De Veritate, q. 10 a. 8: «Quantum ad cognitionem habitualem, sic dico quod anima p.er essentiam
suam se videt, id est, ex hoc ipso quod essenti a sua est praesens, est potens éxire in actum cognitionis sui ipsius [...] Ad
hoc autem quod percipiat anima se esse et quid in seipsa agatur attendat, sufficit sola essentia animae, quae menti est
339
Tale coscienza di sé come soggetto è una coscienza abituale. Affinché divenga coscienza attuale, si deve
compiere un atto di riflessione su se stessi. Anche quando è coscienza attuale e riflessa, essa non è mai
quell'intuizione dell'io puro che gli empiristi si accaniscono a pretendere e che è impossibile. Infatti il
soggetto può cogliere se stesso solo nei suoi atti e attraverso i suoi atti, dai quali non è possibile distinguerlo
che per mezzo di un'astrazione della mente. Infine, la coscienza, o intuizione di sé come soggetto, non è una
conoscenza intuitiva della natura del soggetto che ci costituisce. Essa è soltanto colta a partire da una realtà
esistenziale di cui si arriverà a conoscere con precisione la natura solo a prezzo di analisi minuziose e
difficili418.

b) Contenuto dell'intuizione. Qual è il vero e proprio contenuto di questa intuizione esistenziale? Noi
percepiamo noi stessi come un soggetto complesso, che è principio di fenomeni e di attività di natura assai
diversa, perché diciamo con uguale verità: «io mangio», «digerisco», «soffro», «amo», «ragiono», «voglio».
Questa complessità lascia dunque sussistere nell'intuizione l'unità essenziale del soggetto; ma nell'intuizione
dell'io si manifestano, in qualche modo, anche due poli: il polo fisico (corpo) e il polo psichico (anima).
Niente di tutto questo si precisa con chiarezza al livello dell'intuizione empirica dell'io. Però, come abbiamo
già detto, proprio in questa intuizione l'analisi metafisica giunge a distinguere la natura e il modo con cui si
uniscono i princìpi dai quali risulta la complessa unità della persona umana.

Art. III - Il carattere


566 - Il concetto di carattere è legato a quello di personalità. Col nome di carattere si intende difatti sia la
personalità concreta, cioè l'insieme delle disposizioni psicologiche e degli atteggiamenti abituali di una
persona, sia la capacità e l'abitudine dell'energia nel volere e nell'azione (in tal senso si dice che una persona
ha «carattere»). Questo concetto è ancora relativo alla personalità, che però viene qui considerata nella sua
più alta manifestazione, ossia nella volontà. Adesso dobbiamo occuparci soprattutto del carattere inteso nel
primo senso. Su di esso si pongono due questioni: quella della sua natura e quella della sua evoluzione.

§ l - Natura del carattere

L'idea di carattere importa un riferimento all'individualità, ossia a ciò che rende un individuo distinto da
tutti gli altri e per cui si può riconoscere. Ogni individuo, in quanto tale, include infatti delle caratteristiche o
contrassegni propri che sono le «differenze individuali» o note individuanti (I, 41), che l'intuizione completa
e la conoscenza possono arrivare a percepire per simpatia o per connaturalità. Questi contrassegni individuali
(idiosincrasia) sono di natura fisiologica e psicologica.

A. GLI ELEMENTI DEL CARATTERE

567 – 1. IL TEMPERAMENTO - L'individualità, abbiamo detto sopra, viene dal corpo. Ciò equivale a
dire che il carattere ha per prima base il temperamento o individualità fisica. Il temperamento
(etimologicamente = equilibrio), secondo il pensiero di Ippocrate e di Galeno, è un miscuglio, in proporzioni
variabili dei quattro umori fondamentali: linfa, bile, nervi e sangue. Da questa concezione è sorta la divisione
classica dei caratteri in linfatico, bilioso, nervoso e sanguigno; a seconda dell'elemento che pare predominare
nel temperamento corrispondente. In realtà, sembra probabile sia la distinzione dei caratteri a determinare
quella dei temperamenti.

Oggi si pensa che il temperamento risulti dei cinque elementi seguenti: costituzione anatomica, -
morfologica, - chimica, - sistema neurovegetativo, - e cerebro-spinale.

a) La costituzione anatomica. Si distinguono quattro grandi sistemi anatomici: bronco-polmonare, gastro-


intestinale, muscolare, cerebro-spinale. A seconda del sistema predominante, si dice che un temperamento

praesens: ex ea cnim actus progrediuntur, in quibus actualiter ipsa percipitur». 1a, q. 43, a. 5, ad 2um: «Illa quae sunt
per essentiam sui in anima cognoscuntur experimentali cognitione, in quantum homo experitur per actus principia
intrinseca».
418 Cfr: S. Tommaso, De Veritate, q. 10, a. 8, ad 8 in contr.: «Secundum hoc scientia de anima est certissima quod
unusquisque experitur se animam habere et actus animae sibi inesse, sed cognoscere quid sit anima difficillimum est».
340
risulta di tipo respiratorio, o digestivo, o muscolare oppure cerebrale 419.

b) Costituzione morfologica. In essa si tiene conto, da un lato, della struttura generale del corpo; dall'altro,
della struttura del cranio. Sotto il primo aspetto, si distinguono due tipi: il tipo «piatto» e il tipo «tondo». (In
generale, gli individui «longilinei» sono «piatti», mentre gli individui «tozzi» sono «tondi». Quanto al
carattere, si osserva che, di solito, i tipi «piatti» sono concentrati e taciturni, mentre gli individui «tozzi» sono
aperti e espansivi). La struttura cranica ha permesso a Eugène Ledos (Traité de physionomie humaine, Parigi,
1894) di distinguere otto tipi diversi ed otto caratteri corrispondenti.

c) Costituzione chimica. In essa tutto dipende dalle glandole endocrine o glandole a secrezione interna.
L'influsso di queste secrezioni sullo psichismo è certo e sembra considerevole. Si distinguono diversi
temperamenti endocrini, secondo che una glandola predomini sulle altre e in misura del grado «iper» oppure
«ipo» della stessa (temperamento ipertiroideo ed ipotiroideo, iper o ipogenitale, ecc.).

d) Sistema neuro-vegetativo. Si suddivide in parasimpatico (che produce pessimisti, a causa del loro
eccessivo dispendio di energia) e in simpatico (ottimisti, espansivi).

e) Sistema cerebro-spinale. L'affettività sembra dipendere soprattutto dagli organi che si trovano alla base
del cervello (terzo ventricolo, talamo e corpo striato). In questa regione sembra risiedere probabilmente il
patrimonio istintivo, impulsivo e affettivo dell'individuo.
Questi diversi sistemi possono dare luogo a combinazioni straordinariamente varie che spiegano l'infinita
moltitudine di individualità e di caratteri420.

568 - 2. ELEMENTI PSICOLOGICI - Questi elementi costituiscono il carattere propriamente detto. Essi
comprendono prima di tutto e come fondamento il cosiddetto «naturale», quindi le abitudini acquisite e
infine le influenze dell'ambiente e della professione.

a) Il naturale. Col nome di «naturale», si designano tutte le disposizioni psicologiche innate ed ereditarie,
provenienti dalla famiglia o dalla razza, che compongono il temperamento morale. Queste disposizioni
riguardano l'intelligenza che è tanto varia di ampiezza e di forma da un individuo all'altro, - la volontà, che è
parimenti così diversa per potenza e per continuità a seconda degli individui, - ed infine la affettività,
attraverso la quale soprattutto si distinguono meglio i diversi caratteri.
La questione dell'ereditarietà psicologica, fatto accertato quanto quello dell'ereditarietà fisica, è ancora in
se stessa molto oscura. Si constata che esiste una trasmissione di qualità psichiche e che le malattie mentali,
trasmettendosi spesso si trasformano (talvolta, in qualche modo, cambiano di segno, inibiti psichici hanno
per discendenti individui minorati circa le funzioni di inibizione, e viceversa). Quanto all' ereditarietà dei
caratteri acquisiti, ossia alla differenza esistente fra la norma e la fluttuazione 421 non si sa niente di
assolutamente sicuro. Sembra soltanto che le modificazioni acquisite non debbano agire sul germe e per
conseguenza non si possano trasmettere (II, 112). Ciò che si trasmette è solo una predisposizione o
«terreno». Queste osservazioni, a proposito dei caratteri morfologici e fisiologici, valgono ancor più per i
caratteri psicologici acquisiti, la cui trasmissione è, di principio e di fatto, quanto mai incerta.

569 - b) Le abitudini. L'abitudine è, dopo l'eredità, il fattore che più influisce sul carattere psicologico: è il
passato dell'individuo che viene ad aggiungersi al passato atavico per rinforzarlo, modificarlo, rinnegarlo e
talvolta per liberarsi da esso.

c) L'ambiente e la professione. Il carattere di ogni uomo dipende in parte anche dal suo ambiente, da cui
esso prende, per mimetismo o come per osmosi, le disposizioni morali, i sentimenti, i pregiudizi e le
passioni. La professione esercita la sua influenza solo più tardi, e su un carattere già formato. Ma essa non
419 Il tipo respiratorio è di preferenza sportivo; quello digestivo è esuberante, buontempone, ottimista; quello muscolare è
combattivo; quello cerebrale manifesta una grande attività intellettuale, speculativa, estetica od organizzativa.
420 Queste classificazioni rimangono ancora molto incerte e ben lungi dall'aver raggiunto il livello scientifico. Cfr.
Poirier, La Phychologie des caractères (N. Tr. de Psychologie de Dumas, VII, 2).
421 Cfr. L. Cuènot, La genèse des espèces animales, Parigi, 1911, p. 109: «La norma per una certa razza di vacche è di
produrre quindici litri di latte al giorno; se una vacca di questa razza, nutrita abbondantemente e trattata con speciali
accorgimenti, arriva fino a produrre venti litri, il «carattere acquisito» è per quella bestia di venti meno quindici, ossia la
facoltà di produrre cinque litri più del normale».
341
manca di avere una influenza talvolta considerevole. Ogni professione include abitudini sia esterne sia
morali, che finiscono col divenire parte integrante della personalità e, in certi casi, perfino col trasformare le
sembianze fisiche. Anche se il carattere professionale scompare di solito quando non si è nell'esercizio della
propria funzione, succede però talvolta che esso si inserisca così intimamente nell'insieme psicologico da
divenire, anch'esso, come una seconda natura di cui non è possibile spogliarsi.

B. CLASSIFICAZIONE DEI CARATTERI

570 - 1. TENTATIVI DI CLASSIFICAZIONE - La classificazione dei caratteri secondo i temperamenti e i


diversi elementi che li compongono è quanto mai vaga e incerta nelle sue basi. Si è tentato anche di
classificare i caratteri secondo che predomini l'una o l'altra delle grandi funzioni psichiche. Per esempio, le
differenze di sensibilità darebbero il carattere brutale, rozzo, delicato, emotivo, sentimentale ecc.; le diversità
intellettuali darebbero i caratteri speculativo, intuitivo, scientifico, estetico, pratico ecc.; tutto ciò è ancora
tuttavia assai impreciso.
Contro le classificazioni di questo genere si obietta talvolta che esse sono sempre soltanto divisioni astratte
e senza valore circa l'individualità, perché. esistono molte maniere di essere speculativi, sensitivi, o volitivi
ecc. L'obiezione è però esagerata, perché è ben chiaro che se la classificazione dovesse tener conto di tutte le
differenze individuali, vi sarebbero tante classi quanti sono gli individui.

2. LE RICERCHE PSICOGRAFICHE - Allo scopo di ottenere maggior precisione nel definire e


classificare i caratteri, sono stati adoperati diversi procedimenti. Il più in uso è quello delle ricerche
psicografiche. Esso consiste nell'ottenere da persone competenti (medici, professori, educatori), descrizioni
particolareggiate di moltissimi soggetti. Tali descrizioni sono fatte sulla base di un questionario uniforme che
tiene conto di tutti gli elementi del carattere. In un secondo tempo si cerca si stabilire, col metodo statistico,
quali sono le qualità che si trovano più spesso insieme e qual è, in ogni gruppo, la frequenza delle altre
qualità422.
Heymans e Wiersma (dei quali ha utilizzato il sistema tecnico Le Senne, nel suo Traité de Caractérologie,
Parigi, 1946) sono giunti, attraverso i procedimenti della psicografia, a stabilire tre proprietà fondamentali:
l'emotività (emotivi: E; non-emotivi: nE), - l'attività (attivi: A; non-attivi: nA), - ripercussioni delle
rappresentazioni (Heymans e Wiersma distinguono qui due classi: i «primari», nei quali la ripercussione non
si spinge molto al di là del presente: P, e i «secondari» nei quali esso va molto al di là: S). La combinazione
di queste tre proprietà fondamentali dà otto caratteri-tipo, cioè:

1. nE nAP (non-emotivi non-attivi primari): amorfi.


2. n.E nAS (non-emotivi non-attivi secondari): apatici.
3. nE AP (non-emotivi attivi primari): sanguigni.
4. nE AS (non-emotivi attivi secondari): flemmatici.
5. En AP (emotivi non-attivi primari): nervosi.
6. En AS (emotivi non-attivi secondari): sentimentali.
7. E AP (emotivi attivi primari): collerici.
8. E AS (emotivi attivi secondari): appassionati423.

§ 2 - L'evoluzione del carattere

571 - È stato talvolta messo in dubbio il fatto che i caratteri si evolvano. In favore dell'immutabilità del
carattere propende anche il sentimento comune. «Chassez le naturel, il revient au galop». «Contro natura
invan arte si adopra). Parimenti Kant, Bichat, Schopenhauer, Lombroso, per ragioni diverse, hanno sostenuto
che il carattere non può subire modificazioni: una volta stabilito, non cambierà più. Si vede subito che una
tesi di questo genere è troppo assoluta. L'esperienza quotidiana, nostra e degli altri, dimostra assai bene che i
caratteri si modificano424. Tuttavia qui si rende necessario di far distinzione fra i diversi elementi del

422 Cfr. G. Poyer, Les problèmes généraux de l'hérédité psychologique, Parigi, 1921. Lo studio scientifico del carattere
viene oggi chiamato caratterologia oppure psicologia individuale.
423 Per una diversa classificazione, cfr. R. Maistriaux, L'étude des caractères, Bruxelles, 1950.
424 Voltaire (Dictionnaire philosophique, art.. Caractère, ed. Benda, Parigi, t. I, p. 89, cfr. tr. it., Torino, 1950), obietta
che «se si potesse cambiare il proprio carattere e se ne potesse prendere un altro, si sarebbe padroni della natura». Non è
mai esistito nessuno che sia stato perfetto. Ma in tal modo si dimentica che gli sforzi, spesso lunghi e faticosi, sono
342
carattere, e di ricercare se essi sono, o no, capaci di variazioni passive, in seguito a circostanze accidentali o a
modificazioni provenienti dalla natura del soggetto.

1. LE VARIAZIONI DEL CARATTERE - Alcuni elementi del carattere sono sicuramente variabili: le
abitudini acquisite possono cambiare per dissuetudine o a causa dei contrasti che incontrano. Parimenti, il
cambiamento di ambiente o di professione ha spesso un'influenza notevole sul carattere.
Quanto al naturale, sembra necessario riconoscergli una plasticità assai grande. Infatti si constata che esso
si modifica in seguito alle trasformazioni organiche derivanti dall'età, dalle malattie croniche (tubercolosi,
arteriosclerosi, artrite) o accidentali (malattie di stomaco o di fegato), in seguito ad un cambiamento di
regime (differenze fra i vegetariani ed i carnivori, fra gli astemi e i bevitori di vino), a un cambiamento di
clima e di igiene, ecc. Il naturale psicologico che è formato soprattutto dagli istinti, è in sé relativamente
plastico e cambia con l'età, l'esperienza, la cultura intellettuale, l'ambiente morale, ecc.

È stato obiettato che le cause secondarie di variazione producono l'effetto solo nella misura in cui sono
accolte dal carattere innato e che esse si limitano a mettere in evidenza la virtualità di quest'ultimo,
osservazione tuttavia non molto illuminante. Prima di tutto, proprio per definizione, noi non possiamo
conoscere le virtualità che quando si rivelano. Inoltre, si tratta di sapere se il carattere reale e concreto (non
quello astratto e teorico) includa davvero tutte queste pretese virtualità. Infine, il fatto di accogliere le
influenze esterne e di lasciarsi da esse modificare, può magari anche esprimere un aspetto del naturale, ma la
circostanza non elimina il fatto ch'esso si trasforma in maniera più o meno profonda.

572 - 2. LE MODIFICAZIONI DEL CARATTERE - In questa modificazione si svolge l'azione dello


sforzo personale nel quale si attua il paradosso della causalità reciproca, perché la volontà è in pari tempo
causa ed effetto del carattere. Proprio in questo senso, dicevamo sopra (531) che il volere esprime la
personalità concreta nel momento della decisione, ma che anche la personalità è opera della volontà.
I mezzi di cui dispone l'uomo onde conseguire la trasformazione del proprio carattere sono quegli stessi
che producono le variazioni passive del carattere. L'uomo ha in suo potere le proprie abitudini. Può cambiare
l'ambiente e la professione, ossia modificare le influenze che agiscono su di lui. Può anche crearsi un nuovo
regime di immaginazione, rinunciando, per esempio, a letture che esercitano un influsso nefasto sulla sua
condotta morale. Onde agire. sulle basi stesse del suo temperamento, può anche fare uso di intelligenti
modificazioni al proprio regime alimentare o igienico.
Tutto ciò ci dimostra che, se il volere concreto è conforme alla sintesi psichica e al carattere, sia
quest'ultimo che la sintesi psichica, dipendono, in gran parte, dalla volontà. L'uomo di volontà è proprio colui
che sa crearsi un carattere e attraverso di esso determina la propria condotta morale.

Quali limiti può avere di solito questa possibilità data all'uomo di svincolarsi dalla fatalità e di trasformare
o modificare il proprio carattere? Essi variano secondo gli individui. Alcuni sembrano avere un potere
indefinito di rinnovamento, altri sembrano chiusi in un cerchio infrangibile di una costituzione immutabile,
oppure (quando la volontà cerca di sfuggire a questa schiavitù) sembrano votati ad una lotta estenuante e
senza risultati (se non morali) contro una natura ingrata. Fra questi due limiti estremi si trovano, di fatto, la
massima parte dei caratteri. Nella maggior parte degli uomini, di solito il carattere include un sostrato
elementare formato da elementi psico-fisiologici che sarebbe inutile pretendere di trasformare
profondamente, ma l'uso e la direzione dei quali si trova sotto il dominio della volontà. L'entusiasmo, la
spontaneità affettiva, l'emotività, l'aggressività sono fatti che bisogna di solito accettare o sui quali non si può
agire che in minima parte; ma dipende da ciascuno di noi orientare in un modo o nell'altro questi elementi
fondamentali. In questo campo dell'esercizio (che è quello delle virtù e dei vizi) le possibilità di trasformarsi
trovano la loro più vasta estensione.

D'altronde si deve osservare che il coefficiente di plasticità del carattere varia coll'età e va rapidamente
diminuendo dopo il periodo migliore, quello dell'infanzia e della pubertà. Le modificazioni profonde, come
pure i cambiamenti di orientamento, richiedono di solito, via via che si avanza negli anni, sforzi sempre più
faticosi.

necessari per modificare il carattere e che assai pochi hanno il coraggio di compierli o la perseveranza di continuarli
fino al successo.
343

CAPITOLO SECONDO

LA COSCIENZA

SOMMARIO425

Art. I - NATURA DELLA COSCIENZA. Le forme della coscienza. Nozione - Caratteri dei fatti di coscienza
- I gradi della coscienza - Le condizioni della coscienza - Condizioni biologiche - Condizioni
psicologiche.

Art. II - IL SUBCOSCIENTE E L'INCONSCIO. Il subcosciente. Nella vita normale - Nella vita anormale - I
lapsus - Gli sdoppiamenti - Le due forme di subcosciente - L'inconscio - Delimitazione dell'inconscio
- Dominio e funzione dell'inconscio.

Art. III - LA STRUTTURA DELL'APPARATO PSICHICO. Teoria delle personalità molteplici -


L'abbassamento della tensione psichica - Teoria della coscienza subliminale - L'io subliminale -
Valutazione Teoria della repressione - Valutazione - Conclusione – Unità della coscienza - La
struttura psichica.

573 - L'indagine del «me» e della personalità ci ha portato naturalmente allo studio della coscienza, in
quanto il «me» e l'«io» consistono nella coscienza che il soggetto ha della propria vita psicologica e nella
coscienza di se stesso quale soggetto e principio di questa vita psicologica. Adesso dobbiamo occuparci di
questo potere di conoscere noi stessi. I problemi che si pongono su di essa riguardano la sua natura e i suoi
gradi.

Art. I - Natura della coscienza


È facile distinguere la coscienza psicologica da quella morale. Questa formula giudizi sul bene e sul male;
quella si limita a informarci, come semplice testimone, sugli avvenimenti della nostra vita intima, senza
valutarli. Adesso viene trattata solo la coscienza psicologica.

§ l - Le forme della coscienza

A. NOZIONE

1. LA COSCIENZA SOGGETTIVA - La coscienza è la funzione con cui conosciamo la nostra vita intima.
Spesso si usa la parola coscienza anche in senso oggettivo, per designare il contenuto, o materia, della vita
psicologica (me oggettivo); in tal senso si parla di stati di coscienza. Adesso affrontiamo solo la coscienza
soggettiva che è, si potrebbe dire, una coscienza della coscienza (io soggettivo).

Tale coscienza, che Reid e Royer-Collard consideravano una facoltà speciale col nome di senso intimo, non
è in realtà distinta dai fatti psicologici che essa ci fa conoscere; è invece soltanto la proprietà insita in questi
fatti per cui essi appaiono al loro proprio soggetto.

425 Cfr. Janet, L'automatisme psychologique - Binet, Les altérations de la personnalité - M. James, The Varieties of
Religious Experience, Nuova York, 1902, tr. il., 2a ed., Torino, 1917 . Freud, Vorlesungen zur Einfuhrung in die
Psychoanalyse, Vienna e Zurigo, 1916-17; tr., it., Roma, 1948; Die Traumdeutung, Lipsia e Vienna, 1900; tr. it., Roma,
1948; cfr. Gesammelte Schriften, II voll., Vienna, 1925-28 - Jastrow, Subconscience, Parigi, 1908 - E. Jones, Papers on
Psychoanalysis, Londra-Nuova York, 1913; La Psychanalyse, tr. fr., Parigi, 1925 - D. A. Marie, La psychanalyse et les
nouvelles mèthodes d'investigation de l'inconscient, Parigi, 1925 J. De La Vaissière, La théorie psychanalytique dte
Freud, Parigi, 1929 - Dwelshauvers, L'inconscient, Parigi, 1929 - Dehove, Mélanges Psychologiques, Parigi, 1931
Dalbiez, La méthode psychanalytique et la doctrine freudienne, 2 voll., Parigi, 1936. L. Jugnet R., Allers ou l'Anti-
Freud, Parigi, 1950.
344

2. COSCIENZA SPONTANEA E COSCIENZA RIFLESSA - L'esperienza dei nostri stati psichici può
esistere in due forme diverse: quella spontanea e quella riflessa.

a) Coscienza spontanea. È la coscienza nella sua forma più semplice: quella che abbiamo dei nostri stati
soggettivi semplicemente perché li viviamo. Senza questa coscienza, tutti questi stati ci sarebbero estranei,
proprio come i fenomeni della vita vegetativa. La coscienza spontanea è confusa e indistinta: è una specie di
sentimento globale della vita psicologica, per il quale questa ci viene presentata soprattutto nella sua
continuità e nel suo flusso (stream of consciousness).

b) Coscienza riflessa - Lo studio sulla riflessione (352) ci ha già introdotti in questa maniera di assumere
se stesso come soggettività, la quale è stata da noi definita come coscienza riflessa. Questa coscienza è
privilegio dell'essere ragionevole e forma stessa del cosiddetto «io» o «persona» (541); ossia di un essere
che può attivamente possedere se stesso e quindi sfuggire al determinismo delle rappresentazioni.

Ogni coscienza è necessariamente coscienza di qualche cosa. L'intenzionalità (ossia l'atto di tendere verso
qualcosa di diverso da se stesso) è il carattere di ogni coscienza in atto. La coscienza non passa in atto e non
esiste quindi come coscienza che in virtù di un'altra cosa distinta da lei.
Tutte queste formule sono equivalenti, cioè esigono che la coscienza come tale (ossia come coscienza di se
stessa) non sia distinta dalla coscienza della cosa (di quel quadro che vedo, per esempio). Avere coscienza di
un oggetto presente (fisicamente o in immagine) non significa portare lo sguardo sulla coscienza onde
afferrarne il contenuto, - ciò che involgerebbe un regresso all'infinito, - ma significa insieme ed essere
l'oggetto in quanto conosciuto, ossia intenzionalmente, ed essere rivelato a se stesso come coscienza del
proprio io. In tal modo, l'intenzione cosciente è, secondo la formula di Heidegger, rivelante-rivelata. Ciò
veniva espresso da San Tommaso in quest'altra forma: il conoscere in atto è il conosciuto in atto (cognoscens
in actu et cognitum in actu sunt idem)426.
Da ciò ne deriva che la coscienza riflessa non è altro che una coscienza seconda, perché la riflessione
suppone già la coscienza non-riflessiva, ossia la coscienza di avere (o meglio: di essere) coscienza di
qualcosa (che noi poco avanti abbiamo chiamato coscienza spontanea).

B. CARATTERI DEI FATTI DI COSCIENZA

574 - I dati della coscienza hanno proprietà che li distinguono da tutti gli altri fatti della percezione
esterna: sono immediati, personali e immateriali.

1. L'IMMEDIATEZZA - I dati della coscienza, per il fatto stesso che sono l'esperienza che il soggetto ha di
se stesso, non comportano nessun elemento intermedio. Essi sono alla portata del soggetto senza che vi
intervenga un ragionamento o un'illazione. Da tale immediatezza, la Scuola scozzese e gli eclettici, come
pure alcuni filosofi contemporanei, hanno voluto concludere affermando il carattere assoluto e infallibile dei
dati della coscienza stessa. L'illazione è nondimeno discutibile. Senza dubbio, lo stato di coscienza è dato in
una intuizione concreta e non in un concetto. Ma questa intuizione, quando è al livello di coscienza
spontanea o concomitante, è spesso confusa a causa della sua molteplicità interna; quando è al livello di
coscienza riflessa, essa viene più o meno modificata dall'atto che l'isola dalla «corrente della coscienza»
medesima e la osserva con la memoria. Il fatto di prendere riflessivamente coscienza di un atto, esige che a
quest'atto si sovrapponga una nuova modalità. La coscienza è quindi, per la immediatezza, un testimone
prezioso della vita psicologica, pur essendo un testimone da controllare.

575 - 2. LA PERSONALITÀ - I dati della coscienza sono, per il soggetto, personali e quindi
incomunicabili ed inviolabili.

426 Cfr. nello stesso senso J. P. Sartre, L' Etre et le Néant, p. 18: «Se la mia coscienza non fosse coscienza di essere
coscienza di tavola, essa sarebbe coscienza di questa tavola senza aver coscienza di esserlo o, in altre parole, una
coscienza che ignorerebbe se stessa, una coscienza inconscia - ciò che è assurdo». P. 19: «Questa coscienza spontanea
della mia percezione è costitutiva della mia coscienza percettiva. In altri termini, ogni coscienza «posizionale» d'oggetto
è in pari tempo una coscienza «non posizionale di se stessa».
345
a) L'incomunicabilità. I dati della coscienza, in quanto stati soggettivi, non sono trasmissibili ad altri. Essi
possono anche avere un contenuto impersonale, come nel caso delle rappresentazioni; ma, come forme
soggettive della coscienza, appartengono solo al soggetto ed hanno il contrassegno incomunicabile della sua
personalità. A maggior ragione, accade lo stesso circa gli stati affettivi. Indubbiamente il soggetto può
esporre ad altri ciò che si è verificato in lui: un sogno, un ragionamento, un dolore. Ma la forma vissuta di
questi eventi psichici non può essere rappresentata agli altri.

b) L'inviolabilità. Nessuno può penetrare dentro la coscienza degli altri: si tratta di un mondo chiuso. Se
possiamo arrivare, con la mimica, coi riflessi o con le parole d'altri, a farci una certa immagine di ciò che
avviene in lui, tale immagine è modellata sulle nostre esperienze personali e ci rappresenta gli eventi interiori
altrui in maniera approssimativa o schematica. Inoltre, esistono parecchi fatti psichici che non hanno alcuna
espressione esterna.

c) L'immaterialità. I fatti di coscienza non sono né nello spazio, né in un dato luogo È vero che si parla
continuamente di «fatti interni», e sopra abbiamo detto che l'io «si interiorizza» progressivamente, ma queste
espressioni debbono essere intese in contrapposizione al non-io, che appare come «il di fuori» e «l'esterno»
(il «mondo esterno»), e anche come ciò che è collocato nello spazio. Tuttavia, la coscienza viene spesso
concepita come se fosse nell'interno del corpo, come se questo rappresentasse la periferia dell'io. Si tratta ciò
nonostante di immagini inesatte, le quali servono a manifestare un certo sentimento, secondo il quale le
condizioni organiche della coscienza non sono periferiche ma centrali (63). In realtà la coscienza avvolge il
corpo perché il corpo può essere oggetto della coscienza. Perciò sarebbe più giusto dire che il corpo è nella
coscienza; sennonché in questo caso le parole «fuori» e «dentro», essendo termini di spazio, debbono essere
prese solo analogicamente. I fatti di coscienza come tali, ossia come realtà soggettive immateriali, non
possono quindi avere né rapporti di posizione, dato che non si trovano in un luogo, né di dimensione e di
misura, dato che non sono quantitativi, ma esclusivamente qualitativi (40).

C. I GRADI DELLA COSCIENZA

576 - 1. IL PRINCIPIO DELLA CONTINUITÀ - Per Cartesio, l'anima è «una sostanza, tutta l'essenza
della quale consiste nel pensare» e il pensiero si riduce alla coscienza. «Col nome di pensiero, io comprendo
tutto ciò che è talmente in noi da percepirlo immediatamente in noi stessi» (Appendice delle Réponses aux
deuxièmes objections).

Ne deriva che niente può accadere nell'anima senza che essa automaticamente se ne renda conto: ossia il
fatto psichico è identico al fatto di coscienza. Una coscienza oscura, sotto tale aspetto, è inintelligibile. A
questa concezione Leibniz oppone la propria teoria dei gradi di coscienza, fondata sia sull'esperienza, che
dimostra come la coscienza può essere più o meno chiara, sia su ciò che Leibniz chiama principio di
continuità, in virtù del quale la natura non fa salti e procede sempre per gradazioni insensibili 427.

577 - 2. PERCEZIONI E APPERCEZIONI - Leibniz basa la sua teoria dei gradi sulle «piccole
percezioni». Una cosa, egli dice, è percepita fin dal momento in cui essa produce sulla coscienza una
impressione qualsiasi, per quanto debole; è appercepita solo a patto che quell'impressione sia abbastanza
forte da fermare l'attenzione. Ne consegue che noi percepiamo molte più cose di quelle che «appercepiamo»
e per conseguenza, sotto la coscienza chiara, c'è un margine enorme di coscienza oscura. Per esempio,
trovandoci sulla spiaggia, si è colpiti dal mormorio del mare: si tratta di una appercezione, composta però da
un numero infinito di piccole percezioni prodotte dai rumori elementari delle onde e delle gocce di acqua.
Questi singoli rumori devono arrivare ad insinuarsi realmente nella coscienza, anche se in maniera
estremamente sorda: senza di essi le appercezioni sarebbero impossibili.

Però queste stesse appercezioni possono cessare, quando manca l'attenzione necessaria: posso camminare
in riva al mare senza rilevare il rumore, perché sono completamente assorto in una lettura. Tuttavia le piccole

427 Leibniz, Nouveaux Essais. III, § 12, cfr. tr. it. 2 voll., Bari, 1910-11. «Esiste fra i corpi e gli spiriti questa analogia:
allo stesso modo che non c'è nessun vuoto nelle varietà del mondo corporeo, non vi è minor varietà nelle creature
intelligenti. A cominciare da noi uomini e scendendo giù fino alle cose infime, vi è una china che si scende a
piccolissimi gradi e con una serie continua di cose che, in ogni tappa della discesa, differiscono pochissimo l'una
dall'altra».
346
percezioni non vengono a mancare, anche se non si impongono alla coscienza, occupata altrove. Questo
fenomeno si ripete continuamente nella nostra vita: ad ogni istante, la coscienza assorbe una quantità infinita
di piccole percezioni che rimarranno oscure e latenti fino a quando su di esse non si applicherà la coscienza
(in Die philosophischen Schriften von G. W. L., 7 voll., Berlino. 1875-90; Nouveaux Essais, Prefazione).

578 - 3. COSCIENZA E SUBCOSCIENZA - In tal modo Leibniz giunge a distinguere una serie continua
di gradi di coscienza, che vanno dagli stati chiari e distinti a quelli oscuri e sordi, e infine agli «stati più che
sordi». Questi ultimi sono ancora, secondo Leibniz, stati coscienti, quantunque la loro esistenza non possa
essere rivelata che per mezzo del ragionamento.

Al di sotto di essi, non c'è più niente. Leibniz, rimanendo in ciò fedele a Cartesio, non crede che la
coscienza oggettiva sia più vasta di quella soggettiva. Per lui non esiste dunque l'inconscio propriamente
detto. Qualunque cosa si possa dire di quest'ultimo punto che pone un problema speciale, è necessario
ammettere con Leibniz che si devono distinguere due gradi principali di coscienza: il conscio (stati chiari) e
il subcosciente (stati sordi).

§ 2 - Le condizioni della coscienza

579 - Quali sono i fattori che condizionano la coscienza? Alcuni sono biologici; altri psicologici.

A. CONDIZIONI BIOLOGICHE

1. INSUFFICIENZA DEL FATTORE «INTENSITÀ» - Sembrerebbe che oggettivamente il fattore


necessario e sufficiente per avere la coscienza sia l'intensità dell'impressione, affermazione tuttavia da
precisare. Infatti, il fattore «intensità» è molto relativo. Un determinato fatto esterno, che produce
un'impressione notevole su un individuo, viene da un altro appena percepito, anche se costui si trova nelle
medesime condizioni esterne, ma è assorto in una profonda riflessione. Sotto un altro aspetto, l'intensità è
sempre più o meno relativa sia agli interessi del momento (il cacciatore percepisce molto distintamente
rumori che sfuggono del tutto a chi cammina per svago; il pittore vede sfumature che passano inosservate al
profano, ecc.), sia all'abitudine (colui che visita un'officina di fabbroferraio è assordato dal rumore che gli
operai percepiscono ormai solo confusamente).

2. IL DISADATTAMENTO - Le osservazioni precedenti dimostrano che la condizione oggettiva della


coscienza si trova in una rottura di equilibrio fra il vivente e il suo ambiente. Ciò si constata sotto forme
molto varie. Abbiamo veduto, per esempio, che spesso abbiamo coscienza di percepire gli oggetti o le qualità
solo a causa dei cambiamenti che in essi si verificano (83). Bain parte proprio da questo rilievo per
affermare che noi percepiamo soltanto differenze. Sappiamo parimenti che gli stati affettivi includono
variazioni costanti di sfumatura e di intensità; via via che queste oscillazioni si alternano secondo un ritmo
sempre più tranquillo e regolare, del pari si affievolisce la coscienza affettiva (338). Viceversa, l'emozione
che si presenta come un improvviso disadattamento, costituisce un fatto di coscienza straordinariamente
intenso. Nello stesso senso, gli automatismi (meccanismi motorii) che agiscono inconsciamente, divengono
consci quando incontrano un ostacolo, e i ricordi rimangono inconsci fino a quando una lacuna nella
memoria dell'esperienza passata li richiama alla coscienza. I nostri ricordi sono, in parte, funzione delle
nostre dimenticanze. Infine, abbiamo osservato, (291-292) che le tendenze si rivelano alla coscienza
soprattutto per mezzo degli ostacoli contro cui vanno a urtare. Un'inclinazione divenuta abituale continua
regolarmente a non accorgersi di se stessa fino al momento in cui non cozza contro qualche inciampo.

580 - 3. IL SENSO BIOLOGICO DELLA COSCIENZA - Noi possiamo intendere perciò il senso
biologico della coscienza. Essa è, nella sua forma spontanea una funzione di adattamento alla realtà e per
conseguenza è in proporzione ai bisogni dell'azione. Quanto più i meccanismi motorii agiscono con
perfezione e si adattano con precisione alle condizioni concrete dell'azione, tanto meno la coscienza rischiara
lo psichismo. Negli insetti, in cui i meccanismi istintivi funzionano in modo così regolare e preciso, la
coscienza deve essere straordinariamente sorda. Ma via via che ci si eleva nella scala animale e l'istinto
diviene più duttile, anche la coscienza deve divenire più chiara. Nell'uomo, essa raggiunge un grado di
perspicacia davvero straordinario a causa del margine enorme di iniziativa che vi reca l'intelligenza. Ma tanto
nel primo che nel secondo caso la coscienza risponde sempre al medesimo bisogno biologico di adattare alla
realtà l'attività animale od umana.
347

B. CONDIZIONI PSICOLOGICHE

581 – 1. LA LEGGE DI INTERESSE - Il fattore psicologico della coscienza risiede nell'attenzione,


spontanea o volontaria. Ciò non ci obbliga ad abbandonare l'aspetto precedente, perché l'attenzione stessa
viene determinata dalla legge di interesse (354), cioè dai rapporti col reale delle tendenze e delle
inclinazioni.

2. LA VOLONTÀ - Tuttavia, se l'attenzione risulta in definitiva dalla legge di interesse, i nostri interessi
dipendono, in parte, da noi stessi: ciò equivale a dire che anche la nostra capacità di coscienza, spontanea o
riflessa, dipenderà, in gran parte, da noi stessi. Questo si armonizza con le osservazioni che facevamo a
proposito della personalità e della volontà. Allo stesso modo che il nostro volere concreto è conforme a ciò
che siamo, e tuttavia noi siamo ciò che vogliamo essere, parimenti la nostra coscienza è proporzionata alla
natura e al potere dei nostri interessi, ma dipende da noi (nei limiti che ci sono imposti dalle circostanze
concrete della nostra vita) imporci numerosi interessi che siano elevati e saldamente strutturati. L'intensità
della coscienza è in ragione diretta alla forza di questi interessi, perché anch'essa risulta dalla ricchezza degli
elementi psicologici, che essi in volgono, e dalla precisione con cui questi elementi sono ordinati
gerarchicamente ed unificati.

Art. II - Il subcosciente e l'inconscio


582 - L'attenuarsi della coscienza, dagli stati chiari a quelli sordi, porta naturalmente a spingerci ancora
oltre e a fare l'ipotesi che vi possano essere degli stati o dei fatti psichici completamente inconsci. Su questo
si sono fatte obiezioni di principio tendenti sia a negare sia a dimostrare a priori la possibilità di una vita
psichica inconscia, ma tanto l'affermazione che la negazione aprioristica devono essere scartate l'una dopo
l'altra. Infatti, l'affermazione si basa sull'argomento delle piccole percezioni o degli elementi inconsci della
sensazione e noi sappiamo che tale argomento è erroneo (100). La negazione si fonda su una petizione di
principio, perché pretende che un fatto di coscienza inconscio sia una contraddizione in termini. In realtà non
vi è niente di assurdo nel supporre che un fatto di coscienza, ossia una realtà psichica, possa non essere
percepita dal soggetto, cioè essere inconscio. La questione dell'inconscio è quindi una questione di fatto che
bisogna cercare di risolvere coi mezzi offerti dall'esperienza.

L'argomento che J. P. Sartre (L'Etre et le Neant, p. 88) oppone a una nozione di inconscio psichico,
affermando che necessariamente «l'essere della coscienza è la coscienza di essere», si fonda interamente su
un equivoco. È verissimo che la coscienza non è una cosa o un recipiente, che ogni coscienza è coscienza di
qualche cosa, e che per conseguenza non si può concepire una coscienza che esista come coscienza di
qualche cosa senza esistere insieme come coscienza di sé. Questo argomento si può validamente addurre
contro la concezione in voga (tipicamente freudiana) di un'attività inconscia. Ma essa non regge affatto
contro la nozione di potenzialità o virtualità inconsce, perché appunto questo inconscio è, per definizione, al
di sotto del livello dell'atto, ossia dell'essere. Esso è potenza, e può essere potenza attiva, cioè dinamismo.
Da ciò ne deriva che, non esistendo l'essere della coscienza, non può esistere neppure nessuna coscienza di
essere. Però, Sartre, che esclude la categoria di potenza, non può accogliere questo punto di vista e per
questo la sua posizione non si può difendere come non si può difendere (per una ragione esattamente
opposta) quella di Freud.
La sola obiezione che si potrebbe sollevare contro la nozione di inconscio potenziale è che essa finirebbe
col ristabilire il concetto mitico di coscienza-recipiente (o coscienza-cosa); questa obiezione stessa tuttavia
attesta la tendenza a ridurre l'essere alla categoria di cosa (e infatti proprio questo è uno degli argomenti che
formano il sostrato di tutto l'Etre et le Néant). Viceversa noi diciamo che la «coscienza potenziale» non è
coscienza (soggettiva) di sorta (o lo è, per dirla con Sartre, nella maniera di non esserlo) e le potenzialità o
virtualità in discussione hanno come soggetto il corpo e le sue strutture, innate o acquisite.

§ l - Il subcosciente

583 - Se si vuol essere precisi nella questione dell'inconscio bisogna distinguere fra ciò che si riferisce al
subcosciente e ciò che appartiene all'inconscio. Moltissime volte si adducono confusamente a prova
348
dell'inconscio psicologico fatti che non sono di natura psichica oppure che sono in realtà solo subcoscienti.
Però il subcosciente, o inconscio relativo, si deve ben distinguere dall'inconscio assoluto propriamente detto.
Il subcosciente non pone nessun problema speciale e non ci resta che di descrivere le forme principali che
riveste. In tal modo il campo dell'inconscio propriamente detto verrà meglio delimitato e il problema che ne
scaturisce sarà formulato con maggiore esattezza.

A. NELLA VITA NORMALE

Lo psichismo subconscio costituisce una parte considerevole della nostra vita normale. Noi lo vedremo ora
all'opera nell'automatismo, nella distrazione e sotto forma di coscienza di assenza e di coscienza latente.

1. L'AUTOMATISMO - L'automatismo include sia una parte di inconscio che il subcosciente. I


meccanismi, che esso utilizza, sono evidentemente inconsci, perché, una volta costituiti, non hanno più
niente di psicologico: come è stato visto sopra, essi divengono consci solo a causa degli ostacoli che
incontrano e che richiamano l'attenzione sul loro funzionamento. Ma l'attività automatica non elimina ogni
specie di coscienza, quanto invece permette alla coscienza chiara di applicarsi con tutto il suo potere ad una
determinata azione (70). Il pianista ha una coscienza tanto più intensa del valore estetico (temi, sviluppo,
ritmi ecc.) del pezzo che suona, quanto più il suo meccanismo pianistico si svolge in maniera automatica 428.

D'altra parte, al di là del punto preciso in cui si applica la coscienza ci può essere una massa di fenomeni
che sono percepiti solo in modo estremamente confuso. Mentre eseguisco un Notturno di Fauré con una
attenzione che mi occupa tutto il campo della coscienza, attorno a me c'è chi va e chi viene, si aprono e si
chiudono porte, si parla a voce bassa e mi si rivolge perfino qualche domanda che resta senza risposta.
Sembra che io non abbia inteso niente. Tuttavia, appena chiuso il pianoforte, diverse circostanze mi tornano
alla memoria: mi ricordo di un nome pronunziato, su cui in quel momento non avevo fatto nessuna
attenzione, della domanda rivoltami che non avevo «intesa», ecc. Infatti tutte queste circostanze erano state
percepite, anche se in modo sordo, cioè subcosciente, altrimenti non sarei in grado di richiamarle alla
memoria più di quanto non possa richiamare alla mente gli avvenimenti che accadevano in quel medesimo
istante a San Francisco.

584 - 2. LA DISTRAZIONE - Questo caso si ricollega in parte al precedente. lo posso camminare per la
via leggendo un libro o un giornale che assorbe tutta la mia attenzione e mi distoglie da tutto il resto.
Apparentemente non percepisco niente di quanto accade intorno a me. Tuttavia adatto continuamente il passo
alle circostanze variabili del transito: evito gli ostacoli,- percorro un cammino intricato, e, senza saper come,
arrivo proprio dove volevo andare. Vi è dunque una. certa percezione di queste circostanze.
Ciò è provato anche in altro modo e cioè dai diversi particolari di cui mi sembrava non avere avuto nessuna
percezione e che invece mi possono ritornare alla memoria. Per esempio, tornato a casa, una conversazione
casuale mi fa ricordare di aver incontrato quel tale conoscente che non ho salutato e che era vestito in quel
determinato modo (cosa cui non avevo posto la minima attenzione). Sembrava che tutto ciò mi fosse
completamente sfuggito, e invece il ricordo che affiora dimostra che vi è stata una percezione subcosciente
(ossia non organizzata) (357).

585 - 3. LA COSCIENZA DI ASSENZA - W. James chiama così il sentimento di disagio che si prova in
certi mancamenti della memoria. Io mi metto a ricercare un verso che ho dimenticato, ma non l'ho
dimenticato del tutto, perché so quel che cerco e scarto via via le false soluzioni che mi si presentano. Di
quel verso ho quindi una coscienza sorda. Il medesimo fenomeno si produce quando si vuole ricordare un
nome proprio, che a un tratto ci sfugge. È una specie di forma schematica di cui si vuol trovare il contenuto
esatto che è lì, proprio «sulla punta della lingua», non allo stato inconscio, ma subcosciente. Una persona,
mentre parla, a forza di aprire parentesi, finisce per non saper più con esattezza dove è andata a cacciarsi e
domanda: «a che punto ero rimasto?» cercando di riallacciare il filo. Infatti, il filo non è rotto; l'argomento e

428 Pradines (Psychologie génerale, t. I, p. 81) osserva giustamente, seguendo Blondel (Dumas, Nouveau Traité de
Psychologie, IV, p. 360-383) che l'automatismo non esclude la spontaneità e non è necessariamente sinonimo di
meccanico. «La caratteristica propria degli automatismi riflessi che sostengono la vita psichica consiste, invece,
nell'includere una spontaneità ed una finalità che sono soltanto la forma primordiale di questi caratteri nei
comportamenti propriamente riflessi e che perciò ammettono in pieno la collaborazione, o almeno il controllo di questi
ultimi».
349
l'ordine del discorso restano presenti ed orientano la ricerca delle idee da riprendere, ma l'attenzione richiesta
dalle digressioni, li ha fatti passare momentaneamente allo stato subcosciente.

4. LA COSCIENZA LATENTE - La nostra giornata include un obbligo preciso (una visita da fare ad
un'ora determinata e segnata sull'agenda). Il lavoro abituale ce la fa dimenticare; ma tutt'a un tratto, al
momento preciso in cui bisogna partire per fare la visita promessa, ne ritorna bruscamente il ricordo. Di fatto
essa non era stata dimenticata, ma respinta nel subcosciente. Casi dello stesso genere, ma ancora più
caratteristici, si constatano nel sonno. Abbiamo veduto (236), che nel sonno la coscienza non è sempre
scomparsa del tutto, ma appare in proporzione degli interessi attuali di chi dorme. Così una madre si sveglia
al minimo gemito del suo bambino e si sveglia bruscamente ad un'ora insolita, perché ha deciso di alzarsi
prima per compiere una faccenda urgente. Tanto il primo che il secondo caso non si spiegano che per mezzo
della coscienza latente, cioè di uno stato subcosciente.
Questo fenomeno della coscienza latente si può constatare in altra forma. Devo andare a svolgere una
pratica seccante, e me ne distraggo con un lavoro così accanito da sembrare che me ne sia dimenticato del
tutto. Tuttavia, mi si fa osservare che sono di cattivo umore o che ho un aspetto preoccupato. lo mi difendo in
buona fede e affermo solennemente che non ne avrei nessuna ragione. La verità è che il pensiero della pratica
noiosa da svolgere è lì, presente, in forma subcosciente, e, a mia insaputa, mi incupisce l'umore.

B. NELLA VITA ANORMALE

586 - Abbiamo qui due categorie di fatti: i lapsus e i fenomeni di sdoppiamento. Veramente i lapsus
appartengono alla vita normale, ma costituiscono casi eccezionali: per questo si possono trattare adesso.

1. I LAPSUS – Freud li ha studiati in modo particolare 429, interpretandoli in rapporto alla sua teoria della
repressione, che esamineremo in seguito. Per il momento li dobbiamo considerare solo come fatti
psicologici.

a) Le varie forme di lapsus. Etimologicamente, il lapsus è un atto mancato (sbagli di elocuzione, di visione,
di audizione o di trascrizione) consistente nell'esprimere, leggere, intendere o scrivere una parola per un'altra.
Un professore di filosofia nello spiegare Bergson, annunzia che dedicherà la sua lezione alla teoria della
«purée dure» mentre avrebbe dovuto e voluto dire «durée pure» (= durata pura) (Affinché al lettore italiano
non sfugga l'effetto comico di questo lapsus si ricorda che il vocabolo «purée» ha, in francese; e anche da
noi, una sua propria accezione come termine culinario e significa «passata» es. purée di patate. N. d. Tr.).
Un farmacista che è andato a far una visita in campagna assicura che l'ingresso della casa dei suoi amici è
sormontato da una magnifica glicerina (per glicine). Un muratore francese che ha commesso un delitto, di
cui fino ad allora nessuno lo sospetta autore, dice regolarmente èchaufaud (= patibolo) invece che
èchafaudage (= impalcatura). Un tipografo si trova in difficoltà con le Assicurazioni (Previdenze) Sociali e
compone così il testo di una circolare: «Signore, sono in grado di riconfermare le mie assicurazioni sociali
circa…» Naturalmente il testo da comporre non parlava che di assicurazioni. Si parla ad una signora in
termini molto lusinghieri di una persona che essa odia, ma che vuol far credere di stimare molto. Per non
restare indietro nei complimenti, essa risponde: «Avete ragione, la signora X è perfetta. io la detesto molto».
(Voleva dire: io la stimo molto). Freud cita il caso seguente (Einfuhrung in die Psychoanalyse; cfr. tr. it. Bari,
1939): un assassino, spacciandosi per batteriologo, era riuscito a procurarsi delle culture di microbi patogeni
molto virulenti, di cui si serviva per sopprimere le persone che gli erano vicine. Fu catturato perché un
giorno in una lettera indirizzata al direttore del laboratorio egli scrisse: «Nel corso dei miei esperimenti sugli
uomini» (invece che sulle cavie).

b) Natura psicologica del lapsus. Una spiegazione corrente consiste nell'attribuirne la causa alla
stanchezza, allo stato nervoso, alla distrazione oppure ad una fusione di immagini motorie (caso di «purée
dure» per «durée pure» , di glicerina per glicine). Questa infatti spiega una parte considerevole di lapsus, ma
non tutti i lapsus, né interamente il lapsus. La stanchezza, lo stato nervoso, la distrazione, la fusione delle
immagini non fanno che favorire la frequenza dei lapsus: spiegano cioè il fatto che si dica o scriva una parola
per un'altra, ma non proprio quella tale parola al posto della tale altra.

429 S. Freud, Einfuhrung in die Psychoanalyse e Zur Psychopathologie des Alltagslebens, op. cit.
350
La vera causa dei lapsus è diversa e si trova nell'interferenza improvvisa (preparata o facilitata dallo
snervamento, dalla fatica, dalla distrazione) di due intenzioni, di cui l'una è «turbata» (quella che sì mostra
apertamente) e l'altra è «perturbatrice» (quella segreta). Questa, a causa di una flessione accidentale di
attenzione, si incrocia con la prima e ne prende il posto nel campo della coscienza chiara. La maggior parte
dei casi di lapsus si spiega quindi con l'attività subcosciente e prova che la nostra coscienza chiara è in
continuità con uno psichismo inferiore che talvolta irrompe bruscamente nel nostro atteggiamento esterno.

587 - 2. GLI SDOPPIAMENTI

a) I fatti. Abbiamo già parlato di questi fenomeni nello studio del «me» (551); ora basta aggiungere tre
esempi a quello già citato. Questi fenomeni sono frequenti nell'isterismo.
«Prendiamo, scrive Binet (Les alterations de la personnalité, p. 184), la mano insensibile (di una isterica); la
poniamo dietro lo schermo e la pungiamo nove volte con uno spillo. Quindi, o subito o un po' dopo,
domandiamo a quella persona di pensare un numero qualunque e di comunicarcelo: essa risponde di aver
scelto il numero nove, ossia quello che corrisponde al numero delle punzecchiature». Binet riferisce
quest'altro esperimento (Ibidem, p. 188): «Se si fanno scrivere alla mano anestetizzata diversi numeri e si
dispongono gli uni sotto gli altri come per fare una addizione, il soggetto [...] non pensa a tutta la serie di
quei numeri, ma al numero totale». «Ho cercato, scrive P. Janet parlando di un soggetto isterico, questa volta
in stato di distrazione, di fargli dare giudizi inconsci. Le suggestioni vengono fatte durante il sonno ipnotico
ben accertato; poi il soggetto viene completamente svegliato, e i segni e l'esecuzione avvengono quando è
sveglio». «Quando io dirò due lettere come queste, l'una dopo l'altra, voi vi irrigidirete». «Dopo il risveglio,
pronunzio a voce bassa le lettere a... c... d... a... a...; Lucia si mette immobile e tutta irrigidita: ecco un
giudizio di rassomiglianza inconscio» (L'automatisme psychologique, Parigi, 1889, p. 263).

b) Soluzione per mezzo del subcosciente. Molti psichiatri, fra cui Binet e Janet, parlano, riguardo a ciò, di
doppia personalità simultanea che include un io normale ed un io secondo. In realtà, tutto si può spiegare
molto più semplicemente per mezzo dell' azione della coscienza chiara e del subcosciente di un unico io. La
mano della isterica che è stata punta nove volte, ha potuto sentire confusamente le punzecchiature, e Janet
stesso fa questa ipotesi. (Les névroses, p. 192). Binet, a sua volta, osserva che il soggetto «ha sentito
indubbiamente qualcosa, come è provato dalla concordanza» fra il numero delle punzecchiature e quello
denunziato. Binet aggiunge che «l'eccitazione, quantunque non percepita dall'io normale, ha prodotto un
certo effetto su questo io, cioè vi ha portato un'idea: quella del numero delle punzecchiature». Ma è chiaro
che «l'io normale» accampato da Binet non è qui che il nome del subcosciente. Anche l'addizione si può
spiegare benissimo allo stesso modo, senza bisogno di ricorrere allo sdoppiamento.
Quanto al «giudizio di rassomiglianza inconscio» di cui parla P. Janet, anch'esso sembra basarsi sulla
percezione subcosciente delle suggestioni avute durante il sonno ipnotico. Altrimenti sarebbe impossibile
comprendere come la suggestione possa «essere ritrovata come facente parte di una specie di seconda
coscienza»430.

C. LE DUE FORME DI SUBCOSCIENTE

588 - I casi che abbiamo studiato sopra dimostrano che lo psichismo subcosciente può presentarsi in due
forme e cioè nella forma dispersa e nella forma marginale.

1. LA COSCIENZA DISPERSA - Una parte enorme dell'attività subcosciente è costituita dagli stati di
coscienza dispersa. Ciò avviene in tutti i casi in cui la sintesi mentale non è ancora costituita, oppure si
trova accidentalmente allentata. Il primo caso si ha nel bambino, il quale, mancando di potere di attenzione,

430 Janet, Automatisme, p. 283 - È assai difficile prendere alla lettera la spiegazione di Binet. «È probabile, scrive
costui (Altérations, p. 159), che il personaggio inconscio, che è in ogni isterico, comprenda subito il pensiero di colui
che fa l'esperimento; sente che questi interroga il paziente e gli domanda di pensare un numero; percepisce nello stesso
tempo che l'esperimentatore fa un dato numero di punzecchiature alla mano insensibile [...] È questo inconscio, non ne
dubito, che suggerisce l'idea del numero alla coscienza primitiva, la quale riceve l'idea senza sapere donde venga». A
dire il vero, dobbiamo avanzare dei forti dubbi su quanto sopra, perché tale affermazione è senza senso. Tutto invece
diviene chiaro quando al posto dell'inconscio si metta il subcosciente e al posto della «coscienza primitiva» la coscienza
senza nessun appellativo. Binet confessa d'altronde che nel corso delle ricerche potrebbe benissimo nell'isterico
presentarsi «un ritorno di sensibilità di cui bisogna sempre diffidare». (Altérations, p. 116).
351
riceve passivamente un gran numero di impressioni che non riesce a coordinare e a unificare e che quindi
determinano solo una coscienza estremamente vaga.
Il secondo caso è costituito: nello stato normale, dallo psichismo della distrazione profonda, del
fantasticare, del sonno, come pure dallo psichismo che segue immediatamente il risveglio o la fine di una
sincope; - nello stato anormale, dai casi patologici dell'isterismo, dell'ipnosi, ecc.

2. IL SUBCOSCIENTE MARGINALE - Anche nei momenti in cui la sintesi mentale viene formata e
mantenuta dalla volontà e dall'attenzione, vi è, sotto o attorno alla coscienza chiara, tutto un mondo di
immagini, di stati affettivi, di tendenze più o meno realizzate in desideri, che l'attenzione alla vita non cessa
di reprimere, ma che fluttuano in qualche modo in una specie di foschia indecisa che non è la vera e propria
incoscienza: si tratta di ciò che James ha chiamato psichismo marginale. Questa massa di stati, che sono in
rapporto più o meno preciso con la sintesi mentale del momento e formano come una zona esterna o frangia
oscura intorno al fuoco della coscienza, esercitano su di essa una specie di pressione e spesso possono
irrompere improvvisamente nella coscienza chiara oppure influenzare fortemente il nostro comportamento.
Proprio questo subcosciente, nella prima o nella seconda forma, spiega tutti i fatti che abbiamo citati.
Questi fatti esigono tanto meno che si ricorra all'inconscio, in quanto se con tale parola si intendesse
l'inconscio assoluto essi diverrebbero, tanto gli uni che gli altri, incomprensibili 431.

§ 2 - L'inconscio

589 - Si può supporre che la coscienza, a forza di estenuarsi, finisca con lo sparire completamente, senza
che i fatti psicologici, fin allora rivelati in modo più o meno chiaro, cessino parimenti di esistere? Tale è il
problema dell'inconscio psicologico.

Non è il caso di fermarsi di fronte all'obiezione secondo la quale l'inconscio come tale, se esistesse, non
potrebbe essere conosciuto e osservato. È evidente che esso non può venir osservato in se stesso, ma si può
conoscere indirettamente dalle sue conseguenze. Per esempio, se l'immagine di un passato lontano, di cui
non credevo aver conservato il minimo ricordo, mi ritorna alla memoria, si deve supporre che questo ricordo
continuava ancora ad esistere anche se in modo completamente inconscio.

Il problema dell'inconscio viene spesso trattato in modo molto impreciso. Talvolta, quando si vuol sapere
se esistano veramente dei fatti - psicologici - inconsci, si portano a prova dell'inconscio alcune realtà
psicologiche - che non sono fatti, - oppure fatti che non sono psicologici, oppure finalmente fatti psicologici
che non sono inconsci. È difficile immaginare una sorgente cosi generosa di equivoci. Perciò dobbiamo
eliminare subito quanto non è in relazione col problema.

A. DELIMITAZIONE DELL'INCONSCIO

590 – 1. FATTI E VIRTUALITÀ

a) Il virtuale è evidentemente inconscio. Parlando di fatti psicologici, è necessario che con tale termine si
intendano gli atti prodotti dall'una o dall'altra delle potenze psichiche. Ora, onde provare la realtà dei fatti
inconsci, ossia di una attività psicologica inconscia, si adducono delle realtà le quali sono soltanto semplici
virtualità che, come tali, non raggiungono neppure il livello di fatto o di atto, e per conseguenza sono
evidentemente inconsce.

b) Tendenze e ricordi. Le due categorie di realtà che ora si adducono sono le tendenze e i ricordi. Si mostra
che le tendenze, fino al momento in cui non vengono realizzate in desideri, sono completamente inconsce. In
questo si ha certo ragione, ma le tendenze (istinti o inclinazione) non sono né atti né fatti psicologici, ma
semplici virtualità, necessariamente inconsce, perché sono «qualcosa» unicamente su un piano metafisico
(291). In quanto tali, ossia quando non attuate, esse sono niente nel piano dell'esperienza.
Lo stesso si deve dire dei ricordi. I ricordi non sussistono in atto, come se fossero cose o atomi (189), ma
solo in potenza o virtualmente. Essi non possono essere che inconsci, perché non essendo attuati in
immagini concrete, fisicamente non sono niente.

431 Abramowski, Le subconscient normal, Parigi, 1914.


352
591 - 2. PSICOLOGIA E FISIOLOGIA

a) Stati organici e fisiologici. A prova dell'inconscio psicologico non si possono addurre fatti non
psicologici. Invece questo si fa quando si parla di «processi cerebrali inconsci», oppure delle «modificazioni
dello stato organico dei nervi» (Stuart Mill), - oppure quando si sottolinea l'incoscienza del fenomeno di
fusione delle due immagini della rètina in una sola (visione bioculare), - come pure l'incoscienza del
raddrizzamento dell'immagine della rètina 432. Questi fenomeni non sono in discussione, perché sono
fenomeni fisici e fisiologici e per niente psicologici. Come tali, essi sono chiaramente inconsci perché noi
non possiamo concepire ciò che accade nelle nostre cellule e neppure i fenomeni chimici del cervello. Si
dovrebbe anche dire che essi sono al di sotto dell'inconscio perché, propriamente parlando, appartengono alla
vita vegetativa e non a quella sensitiva.

b) La cenestesia. Quanto alla cenestesia, in cui Wallon (Dumas, Traité de Psychologie, I, 224) vede una
specie di sintesi o di effetto globale degli stati molteplici che di solito vengono ignorati dalla coscienza, essa
non potrebbe essere considerata come completamente inconscia senza contraddizione, perché si presenta
come una sensibilità organica generale. Per lo più è subcosciente e diviene oggetto della coscienza chiara
soltanto quando vi è un disordine funzionale.

Freud fa giustamente osservare (Vorlesungen zur Einfuhrung in die Psychoanalyse, Vienna e Zurigo, 1916-
17, Essais de Phychanalyse, tr. fr. di Jankélévitch, pp. 187-188; cfr. trad. it., Roma, 1948) che le sensazioni
interne, le quali ci fanno conoscere il nostro corpo in quanto è proprio il nostro, non possono essere inconsce.
Una sensazione interna (affettiva) inconscia è una contraddizione in termini. Tuttavia Freud sembra
ammettere la possibilità di stati affettivi inconsci, ma, egli dice, in una forma non del tutto paragonabile a
quella delle rappresentazioni. ossia a quella dell'atto come l'intende Freud. E infatti vedremo che gli effetti
possono divenire inconsci sotto forma di virtualità, le quali corrispondono assai bene ad una cosiddetta
«tonalità affettiva».
È vero d'altronde che la sensibilità organica risulta da una moltitudine di stati elementari. Ma noi
ritroviamo qui un caso di percezione globale: esiste un gran numero di eccitazioni interne, ma una sola
percezione che costituisce la coscienza cenestesica. Le eccitazioni elementari non sono né inconsce (ma
straordinariamente vaghe e confuse allo stato normale), né percepite una ad una e poi sommate dalla
coscienza, ma percepite tutte insieme in un'impressione che è, fin dall'inizio, integrale e non scomponibile
(100) e corrisponde al nome di cenestesia.

592 - 3. INCOSCIENZA E SUBCOSCIENZA - Il problema sta nel sapere se esistano dei fatti inconsci. Di
conseguenza a questo proposito non si deve tener conto del subcosciente, perché questo è ancora qualcosa di
conscio. Ora una parte considerevole dei fatti psicologici che si adducono come prova dell'inconscio non
scaturisce di fatto che dal subcosciente. E infatti si ricorre allo psichismo delle funzioni intellettuali, alle
sensazioni, alle associazioni, alla memoria, alla immaginazione, al ragionamento, senza fare la distinzione
necessaria fra l'inconscio e il subcosciente. Lo possiamo constatare con qualche esempio.

a) Sensazione. Abbiamo già visto (95) che possono esistere sensazioni relativamente inconsce, sia a causa
della distrazione, sia a causa di lesioni o di anestesia dei centri nervosi; sembra tuttavia che non si possa
ammettere l'esistenza di sensazioni assolutamente inconsce.

Freud osserva tuttavia (Essais de Psychanalyse, tr. fr. p. 188), che la percezione può essere distinta dalla
coscienza della percezione, quantunque per lo più le sensazioni, esterne siano consce. Questa opinione ci
sembra poggiare su un equivoco. Se col nome di percezione (o sensazione) si intende l'atto vitale
d'apprensione di un oggetto, quest'atto non può essere assolutamente inconscio. Se si vuole chiamare ancora
percezione l'impressione che un oggetto esercita sulla rètina senza che da parte del soggetto vi sia alcuna
reazione conoscitiva, allora il fenomeno è del tutto inconscio: nel che, propriamente parlando, non vi è però
né sensazione, né percezione (61).

Il solo caso, che potrebbe essere addotto qui, è quello degli animali a cui sia stato asportato il cervello. Si
pensa che essi provino delle vere sensazioni, perché reagiscono a certe eccitazioni, - e che tali sensazioni

432 Questa concezione deriva da Cartesio, per il quale l'inconscio si riduce a processi nervosi di natura semplicemente
fisiologica (cfr. Passions de l'ame, I, c. XVI-XVII).
353
siano inconsce, perché è stato tolto il cervello che è l'organo della coscienza. Ma tale ragionamento è
specioso, perché bisognerebbe prima dimostrare che il cervello è la condizione essenziale e assoluta della
coscienza sensibile. Invece sembra che il midollo spinale sia un organo secondario della coscienza, capace di
garantire un certo grado di coscienza straordinariamente vaga, ma ancora in atto. In tal modo resta facile
spiegare i riflessi degli animali privati del cervello, i quali proverebbero delle sensazioni non inconsce, ma
subcoscienti.

Si citano ancor come esempi di sensazioni inconsce le numerosissime immagini che si imprimono sulla
rètina quando camminiamo per strada, la pressione esercitata dalle vesti sul corpo, il tic-tac dell'orologio, il
rumore del mulino ecc. Però abbiamo visto sopra che in tutti questi casi si tratta solo di subcosciente.

b) L'associazione. Le «catene associative» sono percorse nell'incoscienza degli anelli intermedi? È difficile
ammetterlo. Se Hobbes sentendo parlare della morte di Carlo I, si domanda qual è il valore del «denarius»
romano, e può in seguito rendersi conto di essere passato attraverso i seguenti intermedi: Carlo I venduto
dagli Scozzesi - come Gesù da Giuda - per trenta denari, - ciò avviene evidentemente perché gli intermedi
sono stati solo subcoscienti; altrimenti come avrebbe potuto fare a riconoscerli dopo?

Si dice che ciò avviene per mezzo di una pura congettura. Ma, senza discutere qui la natura di questi fatti di
«associazione», si osserva che l'esperienza di tali fatti prova che, a cose avvenute, si cercano nella memoria
gli anelli intermedi e che, facendo qualche sforzo, essi vengono per lo più ricordati: ciò dimostra che sono
stati subcoscienti.

593 - Immaginazione. A riprova dello psichismo inconscio si adducono soprattutto i fenomeni che
accompagnano lo sforzo di invenzione o di creazione artistica o scientifica. Si dice che in molti casi
l'inventore è il primo a meravigliarsi della sua scoperta, la quale sarebbe stata preparata e perfino attuata
senza di lui nella profondità del suo inconscio (Cfr. H. Poincaré, Science et Méthode, in Oeuvres, 10 voll.,
Parigi, 1916, p. 52; cfr. tr. it., Firenze, 1950). Esiste inoltre il caso, a tutti familiare, in cui ci si corica dopo
aver lavorato inutilmente a risolvere un problema complicato: appena svegliati, dopo una notte tranquilla, la
soluzione si presenta da sé alla mente. È stato dunque l'inconscio, si conclude, a trovarla durante il sonno 433.
Se si prova subito diffidenza dinanzi a spiegazioni di questo genere, ciò non avviene per partito preso, ma
esclusivamente perché la cosa appare, a seconda dei punti di vista, o troppo semplice o troppo complicata.
Un'attività cosciente di sé e fortemente tesa verso uno scopo ben delineato, non può mai arrivare a risolvere
un problema, la cui soluzione sarebbe elaborata da un'attività puramente automatica: questa è un'ipotesi che,
per essere accettata, richiederebbe delle prove assolutamente inconfutabili. Però, mentre da un lato queste
prove mancano, dall'altro, i fatti di tal genere si possono spiegare in modo meno strano (230).

Si faccia, per esempio, il caso dell'invenzione improvvisa, in cui la scoperta sembra «piovuta» come una
«rivelazione » all'artista o allo scienziato, spesso dopo un lungo periodo di insuccessi, o dopo una lunga
dimenticanza. Il caso si può spiegare col concorso di molteplici circostanze in cui l'inconscio non ha nessuna
influenza attiva. Spesso la scoperta non era potuta avvenire perché non erano state attuate tutte le sue
condizioni: basta che manchi un solo elemento, talvolta di minima importanza, per paralizzare per molto
tempo il progresso della fantasia creatrice. Poi, ad un tratto, a causa di una riflessione finalmente azzeccata e
talvolta proprio per caso, in seguito a un lungo riposo che ha disteso la mente senza che il lavoro
subcosciente sia mai stato completamente interrotto, ecco che quest'ultima condizione viene attuata e la
scoperta si compie all'improvviso e si presenta come da sé allo sguardo dell'artista o dello scienziato. Quanto
ai problemi, la cui soluzione si presenta al momento del risveglio, si può ammettere che, durante il sonno, si
è potuto compiere un lavoro subcosciente, oppure che la soluzione è stata elaborata d'un tratto, al momento
del risveglio per conseguenza del riposo notturno.

594 - d) Il ragionamento. Innanzi tutto si osserva che spesso i ragionamenti si svolgono con tale rapidità,
da dover ritenere inconsci la maggior parte dei passaggi logici intermedi fra le premesse e la conclusione.
Talvolta perfino le premesse sono invisibili, non percepite e inconsce, e solo le conclusioni appaiono evidenti
alla coscienza chiara. Insomma, in casi come questi, bisogna ricorrere all'abitudine perché esiste anche

433 L'inconscio, secondo Poincaré, non solo risolve problemi che sorpassano la coscienza chiara, ma è anche «capace
di discernimento: ha tatto, delicatezza; sa scegliere, sa scrutare » (Science et Méthode, Parigi, 1949, p. 55). In queste
condizioni si può intendere come la coscienza appaia una specie di sventura!
354
un'abitudine di pensare che lavora con tanta maggior sicurezza quanto più lavora inconsciamente. Vogliamo
turbare il funzionamento di questo pensiero divenuto abitudine? Basta che vi applichiamo la riflessione.
In queste osservazioni non si fa però confusione fra il pensiero spontaneo e quello riflesso? La rapidità dei
ragionamenti non esige che gli intermedi siano inconsci, ma solo che non vi si fermi la riflessione perché la
coscienza segue, senza interromperlo, il determinismo logico del pensiero. Spesso inoltre l'insieme
dell'argomentazione si presenta in modo sintetico, come in un'intuizione globale. In ciò non vi è niente di
inconscio, ma anzi, quando tutto viene percepito a questo modo e cioè come istantaneamente, la coscienza
raggiunge un grado superiore di intensità, in una specie di immobilità che è la forma più perfetta
dell'intelligenza.

B. CAMPO E FUNZIONE DELL'INCONSCIO

595 - Sembra che in definitiva, il dominio dell'inconscio sia costituito unicamente di virtualità. Non siamo
stati capaci di scoprire in esso gli indizi di un'attività propriamente detta: tutti i fatti psicologici che servono
di solito a dimostrare l'esistenza reale di un'attività psichica inconscia non sono che qualcosa di subcosciente.
Se tuttavia il dominio dell'inconscio viene ridotto alle virtualità, non si pensi che sia poca cosa, perché questo
dominio è immenso ed ha una importanza enorme per l'insieme della nostra vita psichica.

1. IL DOMINIO DELL’INCONSCIO - Questo dominio include l'insieme delle tendenze (istinti e


inclinazioni) che compongono l'inconscio biologico, quindi l'insieme degli stati abituali acquisiti (abitudini
motorie, meccanismi motorii), l'insieme dei ricordi e delle rappresentazioni (immagini, princìpi astratti),
infine l'insieme dei sentimenti abituali che compongono l'inconscio psicologico. Tutto ciò sussiste, non in
atto, ma in potenza oppure in forma virtuale. Ciò è evidente circa le tendenze, ma non è meno certo per
quanto riguarda l'inconscio psicologico. Questa è un'osservazione che abbiamo dovuto fare ripetutamente
contro le concezioni atomistiche e materialistiche della coscienza: in generale si può dire che non si
conservano né i ricordi, né le immagini, né i meccanismi motorii, ma il potere di riprodurre queste immagini,
questi ricordi e questi meccanismi (189).
È vero che è difficile farsi un'idea precisa di queste virtualità, ma questa difficoltà si comprende benissimo
dal momento che non si può avere un'idea precisa che dell'atto, cioè dell'essere. Il virtuale invece non è,
propriamente parlando, un essere, ma potenza e principio, cioè realtà concepibili e pensabili non in se stesse,
ma unicamente in rapporto agli effetti e agli atti che ne derivano. D'altronde, quand'anche l'inconscio
psichico si considerasse come composto di fatti propriamente detti, si potrebbe rappresentare unicamente per
mezzo di ciò che accade nella coscienza chiara. In se stesso, esso resta per definizione, in qualunque modo si
intenda, irraggiungibile.

596 - 2. FUNZIONE DELL’INCONSCIO - Se il virtuale non è un atto, non è neppure una cosa inerte in
fondo alla coscienza, ma è invece una potenza attiva, un principio di vita psichica. Le tendenze includono,
per natura, un dinamismo interno che non cessa di influire su tutta l'attività cosciente. Gli stati abituali e le
abitudini motorie dirigono, a causa del loro dinamismo automatico, una parte considerevole del nostro
atteggiamento cosciente. Lo stesso si dica dei ricordi e delle immagini che, divenute virtuali, conservano, in
tale stato, una potenza propria434 e formano come una atmosfera in cui si alimenta in gran parte il nostro
psichismo cosciente o, se si vuole, il terreno da cui questo attinge continuamente.

L'attenzione al presente (resa necessaria dai bisogni pratici) e le esigenze della disciplina morale
oppongono una barriera affinché questo inconscio non faccia irruzione nella coscienza. Appena tuttavia
questa attenzione o questo controllo si allentano un poco, soprattutto nel sonno, il dinamismo che caratterizza
le virtualità dell'inconscio fa varcare la soglia della coscienza ad alcune immagini, idee, ricordi, desideri e fa
agire meccanismi motorii che, un istante prima, non sembravano esister più in alcun modo.

Art. III - Struttura dell'apparato psichico


597 - L'inconscio psicologico ha esercitato una parte piuttosto decorativa fino al momento in cui uno
studio approfondito delle nevrosi e delle psicosi ha indotto i cultori della psicopatologia a concedergli un
posto considerevole nell'insieme della vita psicologica e nella spiegazione dei casi anormali. Il problema che

434 Bergson (Matière et Mémoire, p. 74) osserva che i ricordi non sono nella memoria sempre allo stato di impronte
inerti; «essi vi stanno, come i vapori in una caldaia, più o meno in pressione».
355
si poneva fin da allora consisteva nello spiegare le sue relazioni con la vita cosciente e nell'offrire un quadro
intelligibile dell'apparato psichico. Le principali teorie concernenti questo problema sono quelle di Janet, di
James e di Freud. Le studieremo brevemente, insistendo particolarmente sulla teoria freudiana che ha avuto
un notevole successo.

§ l - Teoria delle personalità multiple

1. L'ABBASSAMENTO DELLA TENSIONE PSICHICA - Sotto l'influsso di Charcot, Bernheim e di tutti


i teorici dell'ipnotismo, P. Janet propose, verso il 1890, una teoria quasi esclusivamente psicologica
dell'isterismo. La coscienza dell'uomo normale, osserva Janet, impone alla molteplicità dei fatti psicologici
l'unità della personalità nel senso che è sempre lo stesso io a compiere i diversi atti di percepire, di riflettere,
di volere, di immaginare, di ragionare, di giudicare ecc. Tuttavia questa unificazione resta sempre imperfetta;
perfino nell'uomo più equilibrato, essa è continuamente minacciata e più o meno turbata dagli automatismi
della passione o dell'abitudine. Quando, per qualsiasi ragione, che si deve però supporre di natura organica,
la sintesi mentale si rilassa, la coscienza prende l'andamento sbandato che abbiamo notato sopra e alcuni
gruppi di fenomeni psicologici si costituiscono in sistemi più o meno indipendenti fra loro, mentre una parte
dello psichismo resta collegata alla personalità primaria. In conseguenza di ciò vi saranno dunque diverse
personalità aberranti che sfuggiranno alla direzione e al controllo dell'io centrale e che comporranno in
qualche modo lo psichismo inconscio di quest'ultimo. Tale psichismo inconscio, lo psichiatra non riuscirà a
raggiungerlo che per mezzo dell'ipnosi.
Il punto più importante di questa teoria è che essa spiega la dissociazione dell'io empirico in modo negativo
per mezzo dell'abbassamento della tensione psichica, ossia col collasso, di origine psicologica, del potere di
sintesi mentale.

2. VALUTAZIONE - Abbiamo visto che certe applicazioni di questa teoria sembrano assai contestabili.
Essendo stati confutati i casi di sdoppiamento simultaneo (propri agli isterici) sui quali soprattutto si fondava
Janet, la sua teoria è stata nel suo insieme abbandonata. D'altra parte, si può pensare che le nevrosi, coi
fenomeni da esse cagionati (idee fisse, ossessioni, allucinazioni ecc) non si possono spiegare come se fossero
semplici deficienze, ma includono un senso positivo che bisogna scoprire. L'abbassamento della tensione
psichica può spiegare magari la comparsa dei disturbi psichici, non la loro natura e la loro forma. La teoria di
Janet ha quindi bisogno di essere completata. Questa è stata la critica che Freud ha mosso a Janet, e si può
affermare che tale critica è giustificata 435.

§ 2 - Teoria della coscienza subliminale

598 - 1. L'IO SUBLIMINALE - W. James, riprendendo idee esposte sommariamente da Myers 436, pensa
che certi fatti controllati da ricerche metafisiche, per esempio la telepatia, sembrano dimostrare che la
coscienza psichica sorpassa immensamente ciò che di essa percepisce la coscienza chiara e che essa si spinge
fino ad una regione più profonda, più vitale e più attiva che il dominio dell'intelligenza. In tal modo si
sarebbe quindi portati a distinguere due regioni e due vite corrispondenti: la regione e la vita sopraliminale,
la regione e la vita subliminale, la prima delle quali è cosciente, la seconda inconscia ; ambedue però sono in
continuità reale fra loro e si influenzano a vicenda.
La vita sopraliminale è. secondo James, individuale e personale. Ma la vita subliminale potrebbe essere
comune a diversi individui, ai quali essa soggiace (simile a un blocco di ghiaccio unico, scrive James, che
emerge dal mare come icebergs indipendenti). Ciò permetterebbe di comprendere fenomeni come la
telepatia, la simpatia, e, in pari tempo, i fatti così numerosi che non si possono spiegare con la coscienza
chiara: le conversioni repentine, la vita mistica, quella religiosa, le ispirazioni dell'artista e dello scienziato,
ecc.437. Inoltre, James arriva a supporre che attraverso l'io subliminale (o inconscio) si potrebbe attuare la

435 Sarebbe meno giustificata se si ammettesse l'ipotesi che le psiconevrosi siano organiche, la quale spiegherebbe la
natura dell'affezione nevrotica; ma la critica conserverebbe ancora un valore, perché anche nell'ipotesi dell'organicità,
resterebbe da spiegare il contenuto psicologico dell'affezione: la spiegazione dovrebbe avere un senso positivo.
436 Cfr. Myers, La personnalité humaine et ses survivances.
437 «Secondo me, scrive James, la coscienza mistica o religiosa è inseparabile da un io subliminale che debba lasciar
filtrare messaggi attraverso il suo esile diaframma. In tal modo noi siamo debitamente messi al corrente della presenza
di una sfera di vita più grande e più potente che la nostra coscienza ordinaria, di pii essa è perciò soltanto un
prolungamento. Le impressioni, le emozioni, le eccitazioni che ce ne derivano ci aiutano a vivere; esse recano
l'insensibile conferma di un mondo che è al di là dei sensi, ci commuovono, danno a tutto un significato e un prezzo che
356
comunicazione con Dio. L'io inconscio si estende sempre più in una zona oscura i cui limiti si possono
spingere all'infinito: il nostro io fondamentale sarebbe immerso in un oceano di spiritualità.

2. VALUTAZIONE - È facile vedere come James passi dalla psicologia a vaste ipotesi metafisiche. Se ci si
attiene al punto di vista psicologico, si può osservare che la teoria di James distingue giustamente nello
psichismo due campi, quello cosciente e quello inconscio, ma la parte assegnata all'io subliminale sembra
sorpassare di gran lunga ciò che ci viene rivelato dall’esperienza. La reale esistenza di un influsso
vicendevole fra il cosciente e l'inconscio è cosa certa; però, nell'ipotesi di James, l'inconscio non si limita a
risolvere dei problemi, ma vuole essere la sorgente inesauribile dell'arte, della scienza, della mistica, della
religione, della morale. Questa concezione sembra essere ben degna (proprio per le medesime ragioni)
dell'appellativo di filosofia pigra che Leibniz dava all'innatismo. Infine, l'ipotesi di una vita subliminale
comune a diversi individui è puramente gratuita e poco intelligibile.

§ 3 - Teoria della rimozione


599 - Freud ha successivamente proposto sull'apparato psichico, due teorie destinate a spiegare le relazioni
fra il cosciente e l'inconscio specialmente nei lapsus, nei sogni e nelle nevrosi. Queste teorie sono tuttavia
soltanto secondari nell'opera di Freud, la quale è innanzi tutto un metodo per esplorare l'inconscio e non una
filosofia438. Esse hanno avuto però una grande diffusione e servono spesso a coordinare l'insieme dello
psichismo: è quindi utile che ne facciamo l'esame.

1. PRIMO SCHEMA

a) Conscio, preconscio, inconscio. La prima sistematizzazione dell'apparato psichico è esposta da Freud


nella Scienza dei sogni. Freud parte dell'opposizione che esiste fra la percezione (coscienza) e il ricordo (di
solito inconscio). Osserva che nel campo del non-cosciente bisogna distinguere due regioni molto diverse:
quella dell'inconscio propriamente detto, che è inaccessibile alla evocazione volontaria, e quella del
preconscio, che può essere evocato, quando esistono determinate condizioni 439. Tutto ciò si può
rappresentare in forma di schema. (Fig. 19).

b) La censura. Fra
l'inconscio e il preconscio
esiste una specie di censura
che sbarra il passaggio alle
tendenze che appaiono
contrarie ai desideri coscienti
dell'individuo. Ma non
bisogna rappresentarci questa
censura «sotto l'aspetto di un
controllore sempliciotto e
severo, oppure di una facoltà
accampata in uno
scompartimento del
cervello». (Essais de
Psychanalyse, tr. fr., p. 156).
La parola «censura» serve a
indicare l'insieme dei ricordi,
delle idee, dei desideri e dei sentimenti che inibiscono altri gruppi di idee, di sentimenti e di ricordi.

ci rendono felici ... Esiste qualcosa che non è il nostro io immediato e che influisce sulla nostra vita». (Lettera del 16
giugno 1901 a Rankin in cui abbozza le teorie che James sta per sviluppare nel libro su The Varieties of Religious
Experience).
438 Cfr. R. Dalbiez, La méthode psychanalytique et la doctrine freudienne, II ed., Parigi, 1950, p. 1.
439 Jones spiega così il preconscio freudiano: «Freud si serve della parola «preconscio» (Vorbewusste) per designare i
processi di cui possiamo spontaneamente e volontariamente divenire coscienti (per esempio i ricordi che sono
momentaneamente scomparsi dalla memoria, ma che possiamo facilmente richiamarvi quando ne abbiamo bisogno). «Il
preconscio freudiano comprende dunque il subcosciente, ma è di esso più vasto». (Jones, Essay on applied
Psychoanalysis, Londra, 1951; tr. fr. Jankelévitch, p. 314).
357
600 - c) Il conflitto. Per Freud la coscienza normale è teatro di un conflitto irriducibile fra gli Ichtriebe
(tendenze dell'io) che sono di natura morale, sociale, artistica, religiosa e tendono verso l'ordine, ed i
Sexualtriebe (tendenze sessuali), che sono essenzialmente espansivi e sono attivamente refrattari all'ordine.
Repressi dall' attività della censura, gli istinti sessuali continuano a vivere nell' inconscio e, non potendo
riuscire a soddisfare se stessi, si esprimono attraverso forme simboliche oppure, nei casi più gravi, danno
origine a disordini psichici più o meno profondi.

d) La liberazione. L'inconscio propriamente detto non può essere evocato volontariamente, ma può essere
liberato. La possibilità e i metodi di questa liberazione devono essere intesi in rapporto alle cause che
rendono l'inconscio inaccessibile al richiamo volontario. Queste cause possono essere intrinseche ai ricordi
inconsci, cioè possono consistere nella mancanza di dinamismo nell'elemento inconscio. Ma la spiegazione
non vale per tutti i casi in cui l'elemento rimosso produce gravi perturbazioni nello psichismo. La causa di
inacessibilità di questo elemento non può quindi essere che estrinseca e cioè la rimozione. L'elemento è
inaccessibile, perché è sistematicamente rimosso dalla censura. Ma siccome esso è in pari tempo fortemente
dinamico,440 dalla sua repressione derivano gravi disturbi. Questi disturbi possono essere guariti unicamente
attraverso la liberazione che consiste nel far risalire allo stato di coscienza chiara il ricordo inconscio,
emancipandolo dalle forme anormali e regressive in cui si era fissato.

601 - 2. SECONDO SCHEMA. In seguito Freud dovette modificare il primo schema onde adattarlo ad una
concezione più
precisa della
rimozione (cfr.
Freud, Das Ich
und das Es,
Vienna e Zurigo,
1923; tr. fr.,
Parigi, 1923).

a) La
rimozione
inconscia. Il
punto essenziale
sta nel fatto che,
sulla base del
primo schema, si
potrebbe credere
che la tendenza
rimovente parta
dall'io. Essa però
non è, nei
malati, né
cosciente e neppure subcosciente, ma completamente inconscia. Lo schema dello apparato psichico deve
quindi includere anche un altro elemento, cioè il processo rimovente inconscio.

b) L'Io, il Super-io e l'Es. Il nuovo schema può essere reso ancor più preciso dalla distinzione fra l'io, il
super-io e l'Es. L'io si compone degli elementi coscienti e preconsci. Il super-io è formato dall'inconscio
rimovente441; l'Es (termine tedesco che significa il pronome neutro di terza persona preso sostantivamente -
N.d.T.) è formato dall'inconscio442. Il super-io è l'elemento ideale (morale, sociale, estetico, religioso) e
svolge tutte le funzioni che nel primo schema erano svolte dalla censura. Abbiamo già veduto (308) che
secondo Freud, esso risulta da una sublimazione dell'istinto, specialmente di quello sessuale.

440 Siccome per Freud la rimozione procede dagli imperativi morali e sociali, l'inconscio, che è costituito dalle
tendenze e dagli istinti rimossi, è di natura bestiale, infantile (perché la rimozione è un effetto della disciplina
educativa), alogica (o irrazionale) e sessuale (gli elementi sessuali vi sono di gran lunga predominanti).
441 L'Es. secondo Freud, sopravanza il rimosso, ossia tutto l'incoscio non scaturisce necessariamente dall'Es il quale è
essenzialmente formato dagli istinti rimossi e si trova sotto il dominio assoluto del principio del piacere.
442 Cfr. R. Dalbiez, La méthode psychanalytique, p. 586-649.
358

602 - 3. Valutazione: In queste teorie vi è un aspetto che noi abbiamo già esaminato (309). Abbiamo
soprattutto dimostrato il grave errore che sta alla base del pansessualismo freudiano. Adesso ci rimane da
valutare criticamente la teoria della struttura dell'apparato psichico e specialmente il problema della
rimozione.

a) La struttura psichica. Freud mette in piena luce la realtà del duplice campo del cosciente e
dell'inconscio, come pure il dinamismo che caratterizza quest'ultimo. Ma se è vero che l'inconscio può essere
in parte composto da tendenze rimosse, non si capisce come tutto nell'inconscio faccia parte del rimosso, e
come mai tutto il rimosso sia bestiale, alogico e sessuale. Da un lato infatti l'inconscio primitivo è formato
da tutti gli istinti e non solo da quello sessuale, alla stessa stregua di tutte le inclinazioni che sono legate alla
natura razionale dell'uomo. Un numero rilevante di queste tendenze restano inconsce, non per effetto di una
rimozione, ma perché mancano le condizioni che possano tradurle in atto.
Dall'altro, la rimozione non ha sempre per oggetto i Sexualtriebe. Anche le tendenze ideali possono essere
rimosse e il conflitto psichico può essere caratterizzato da segni contrari a quelli di Freud. Infatti, l'inconscio
è infinitamente più complesso e più ricco di quanto non lo supponga Freud, perché in esso si trova
preformata, in modo potenziale e virtuale, tutta la varietà dello psichismo.

b) Carattere della rimozione. La rimozione non sembra, di per sé, necessariamente inconscia, anzi non lo è
mai completamente. Se l'abitudine di conformarsi agli imperativi morali, religiosi e sociali esige un esercizio
quasi spontaneo e naturale della rimozione, questa non arriva mai ad essere un puro automatismo. Di solito
essa è chiaramente volontaria e pretende una coscienza viva e tesa degli sforzi che la rimozione stessa rende
necessari.

§ 4 - Conclusione

603 - L L'UNITÀ DELLA COSCIENZA - Le teorie, che abbiamo studiato sopra, sembrano includere tutte
quante, anche se in forma diversa, l'errore di fare dell'inconscio un mondo a parte, segregato dal mondo
cosciente o in
conflitto
sistematico con
esso, e per
conseguenza di
compromettere
l'unità della
personalità. Ora,
se si eccettuano i
casi patologici, per
i quali si richiede
una spiegazione
speciale,
l'inconscio non
solo è in
continuità col
cosciente, ma in
gran parte è sotto
il controllo e
perfino a
disposizione della
coscienza.
L'attività della
censura o
sbarramento, su
cui hanno insistito Janet e Freud, esprime, è vero, se si vuole, un conflitto, ma non un conflitto fra due
personalità: il conflitto avviene in seno all'unico io, che è consapevole delle potenze antagoniste che in esso
359
si affrontano, che lo esprimono in parte tanto le une che le altre, e che l'io deve disporre in ordine gerarchico
e uniforme443.

604 - 2. LA STRUTTURA PSICHICA - La struttura psichica dovrebbe quindi essere rappresentata da


diverse zone in cui la coscienza si degrada sempre più, a misura che i fatti o gli avvenimenti psichici sono
meno collegati alle immagini personali dell'io (azioni, rappresentazioni, ricordi in atto, sentimenti, interessi)
(Fig. 21)444. Via via che aumenta questo distaccarsi delle immagini personali dell'io, i fatti psichici tendono a
trasformarsi in pure virtualità, ossia a divenire inconsci. Viceversa, le virtualità si traducono in atto in
ragione e in proporzione del loro rapporto alle immagini e agli interessi personali dell'io.

Quanto agli elementi subcoscienti, essendo essi in rapporto accidentale o essenziale con le immagini
personali dell'io, viene loro impedito di passare nella coscienza chiara sia a causa di un ostacolo passeggero
(organico: disturbi sensoriali; psichico: distrazioni, preoccupazione, automatismo, ecc.), sia a causa di una
censura volontaria (attuale o abituale). Tutti questi elementi subcoscienti lasciano però qualche traccia di sé
nella coscienza e possono essere messi in chiaro quando sono allacciati o confrontati con le immagini e coi
ricordi coscienti dell'io.

443 Cfr. su questo punto la critica vivace che J. P. Sartre (L'Etre et le Néant, p. 89-93) fa alla teoria freudiana della
rimozione e della censura.
444 È evidente che un simile schema ha solo valore analogico, dato che la coscienza non si può dividere in
scompartimenti. Freud, nel presentare i propri schemi diceva molto giustamente: «Non credo che nessuno abbia mai
immaginato di ricostruire l'apparato psichico partendo da una simile scomposizione. In essa non vi è alcun rischio».
(Die Traumdeutung; Science des reves, tr. fr., p. 530; cfr. tr. it., Roma, 1953).
360

PARTE SECONDA

L'ANIMA UMANA

605 - Abbiamo dovuto ammettere un soggetto della vita psicologica. Ora dobbiamo cercare quale sia la
natura di questo soggetto. Veramente l'esperienza ci ha già fatto intravedere la complessità del soggetto
empirico, perché ci ha mostrato che lo stesso «io» si attribuisce fenomeni così diversi quali sono quelli della
vita vegetativa e quelli della vita intellettiva. Sono però affermazioni da precisare. A tal fine noi dobbiamo
procedere per via metafisica - perché vogliamo andare oltre l'esperienza immediata. Sappiamo già (I, 13)
d'altronde che noi sorpassiamo l'esperienza immediata solo in forza delle esigenze intelligibili dell'essere che
si presenta in questa esperienza; in altre parole, la realtà metafisica viene afferrata dalla ragione
nell'esperienza stessa in cui essa è implicata.
Questa realtà metafisica viene qui designata col nome di anima, principio primo della vita e per
conseguenza di tutti i fenomeni fisiologici e psicologici. I problemi che si pongono in rapporto ad essa
riguardano la sua natura, il suo modo di unione col corpo, e infine la sua origine e il suo destino.

CAPITOLO PRIMO

NATURA DELL'ANIMA

SOMMARIO445

Art. I - LA SPIRITUALITÀ DELL'ANIMA - Semplicità dell'anima - Prova per mezzo della percezione e
della riflessione - Obiezione La spiritualità dell'anima - Gli argomenti - Valore degli argomenti.

Art. II - LE TEORIE MATERIALISTICHE - Il materialismo meccanicistico Argomenti - Discussione - Il


materialismo dinamicistico Il parallelismo psicologico - L'epifenomenismo - Discussione Il
materialismo evoluzionistico - Gli argomenti - L'animismo Il manismo - Il totemismo - Discussione
dei fatti - Critica dei princìpi - Conclusione.

606 - L'indagine oggettiva dei fenomeni psichici porta ad affermare che l'uomo possiede un'anima che è
una sostanza semplice e spirituale. Via via che dimostreremo questo asserto e lo difenderemo contro le
obiezioni del materialismo, vedremo che il nostro compito si riduce a trarre le conclusioni già implicite nei
risultati positivi dei nostri precedenti studi di Cosmologia e Psicologia.

Art. I - La spiritualità dell'anima


La spiritualità presuppone la semplicità, mentre la semplicità non implica necessariamente la spiritualità,
ossia l'indipendenza dalla materia. L'anima degli animali è immateriale e semplice; però non è spirituale.
Solo l'anima dell'uomo è insieme semplice e spirituale.

445 Cfr. Aristotele, De anima, II; Métaph. VII, c. VI. - S. Tommaso, Ia, q. 57-77; Q. disp. de Anima. - Unge, Die
Geschichte des Materialismus und die Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, 10a ed., Lipsia 1921; tr. it. 2 voll.,
Milano, 193Z; Histoire du materialisme, 2 voll., tr. Pomerol, Parigi, 1877-1879 - Rohde, Psyche Seelenkult und
Unsterblickeitsglaube der Griechen, 2 voll., Friburgo in B., 1890-94; tr. it., 2 voll., Bari, 1914-16. - A. Forest, La
structure métaphysique du concret, selon saint Thomas d'Aquin, Parigi, 1931 - Sertillanges, Saint Thomas d'Aquin,
Parigi, 191Z, t. I, pp. 69 sgg. - M. Blondel, La Pensée, t. II - L. Lavelle, De l'Acte, Parigi, 1937, cap. XXV-XXVII -
Bergson, Matière et Mémoire; L'énergie spirituelle - Chevauer, La vie morale et l'au-delà, Parigi, 1938.
361
§ 1 - La semplicità dell'anima

L'anima non è soltanto una di numero ed una nel numero e una nel tempo, cioè identica a se stessa, ma è
anche una nella essenza, ossia semplice e indivisibile, all'opposto delle cose materiali che sono composte e
divisibili. Ciò viene dimostrato dall'analisi delle operazioni dell'anima.

1. PROVE PER MEZZO DELLA PERCEZIONE E DELLA RIFLESSIONE

a) La percezione. Noi abbiamo delle cose materiali una percezione indivisa; ciò si può spiegare solo con la
semplicità dell'anima. Se infatti l'anima fosse composta di parti, ciascuna di queste parti percepirebbe o tutto
l’oggetto o soltanto una sua parte. Nel primo caso, avremmo quindi tante percezioni totali quante sono le
parti da cui è composta l'anima; nel secondo, tante percezioni parziali quante sarebbero le parti dell'anima,
mai però una percezione una e indivisa dell'oggetto.

b) La riflessione. L'anima può ritornare e in qualche modo «ripiegarsi» su se stessa per conoscersi nei
propri atti (352). Infatti ciò che è composto di parti non può conoscere se stesso come tutto, perché le parti
del composto restano necessariamente le une estrinseche alle altre. Supporre che una parte arrivi a conoscere
solo se stessa, vuol dire ammettere che le altre parti le restano sempre estranee. Solo una sostanza semplice è
in grado di ripiegarsi e di ritornare su se stessa, ossia di comportarsi riflessivamente.

607 - 2. OBIEZIONE - W. Wundt ha obiettato che questi argomenti fanno confusione fra l'unità e la
semplicità e nondivisibilità quantitativa Infatti, egli dice, «donde si attinge la convinzione che l'anima debba
essere un ente semplice?.. Un ente uno non è la stessa cosa che un ente semplice. L'organismo corporeo è
uno e tuttavia si compone di una pluralità di organi. Anche nella coscienza noi incontriamo, tanto
successivamente che simultaneamente, una molteplicità che attesta una pluralità della sua base
fondamentale» (Grundzuge der Physiologischen Psychologie, 6a ed., 3 voll, Lipsia, 1908-11, II; tr. fr., p.
508).

Wundt ha perfettamente ragione a sottolineare la molteplicità successiva e simultanea della coscienza o


dell'anima. Ma tale molteplicità non si oppone alla semplicità di cui stiamo trattando adesso e quest'ultima
esclude soltanto la composizione quantitativa o divisibilità in parti omogenee (II, 3). Ma un ente semplice e
per conseguenza immateriale può includere diverse potenze e facoltà (molteplicità interna simultanea) e
produrre atti molteplici e diversi (molteplicità successiva). Proprio questo è il caso dell'anima umana che è
quindi insieme una e semplice.

Queste osservazioni possono consentire indubbiamente di dare un senso alla concezione di J. P. Sartre che
identifica la realtà-umana, cioè la coscienza o per-sé, ad un «niente-nientificante». Sartre ha infatti ben
compreso che se la coscienza fosse una cosa (o corpo), sarebbe un principio contraddittorio e assurdo, perché
una «cosa» è soltanto ciò che è, opaca, corporea e piena, mentre la coscienza impone un'idea di trasparenza e
di disponibilità infinita. Se conoscere consiste essenzialmente nel divenire il conosciuto, bisogna che il
conoscente (o coscienza), come tale, sia «niente»: se fosse «qualcosa» escluderebbe per conseguenza ogni
possibilità di conoscere, perché appartiene alla essenza delle cose materiali di essere le une estrinseche alle
altre ed escludersi a vicenda. Che la coscienza sia un «niente» risulta anche dal fatto accertato che non esiste
una coscienza vuota o coscienza nuda, perché ciò sarebbe un niente di coscienza. È vero che si parla di
«contenuti di coscienza», ma questa espressione è assolutamente impropria, perché fa supporre che la
coscienza sia un contenente che potrebbe esistere come tale, vuoto di ogni contenuto. Di fatto, ogni
coscienza è coscienza di qualcosa, e «il contenuto di coscienza» non è che la coscienza medesima
qualificata variamente (573).

Sartre ha quindi descritto in modo giusto i fatti, servendosi della analisi fenomenologica che concorda in
ciò con altre analisi di antica data. Il suo errore tuttavia sta nel concettualizzare nelle nozioni equivoche di
«rien» e di «néant» alcune osservazioni che sono perfettamente fondate. Perché se è principio indiscutibile
che la coscienza non è né una cosa né un contenente vuoto, in cui possano venire a prender posto gli stati di
coscienza, questo principio non diviene più intelligibile se si fa della coscienza un niente ontologico, e meno
ancora un niente «nientificante», ossia che agisce (perché negare o affermare vuol dire ancora agire).
Affermare che in ciò consiste la grande e inesplicabile «avventura dell'essere» è solo un modo di confessare
l'assurdità di questa ipotesi. Invece le proprietà della coscienza e la condizione radicale della sua
362
intenzionalità essenziale si possono spiegare definendo la coscienza come una forma immateriale (e,
nell'uomo, spirituale). La spiritualità è allo stesso tempo sia questo «nulla» (o niente di materia) che fonda la
trasparenza della coscienza e la coscienza medesima, sia questa maniera di essere che fa di un ente un
soggetto capace di «nientificare», ossia di essere per sé, in opposizione all'in sé che esso diviene in quanto
conoscente. Tuttavia per consentire questo punto di vista bisognerebbe indubbiamente rinunziare a porre
univocamente tutto l'essere nella categoria di «cosa».

§ 2 - La spiritualità dell'anima

A. ARGOMENTI

608 - Si dice spirituale quell'ente che non dipende dalla materia né nella sua esistenza, né nelle sue
operazioni. Noi affermiamo, è vero, che l'anima umana è spirituale, ma bisogna intender bene in quale senso
lo diciamo. È indiscutibile che le operazioni sensitive dell'anima si avvalgono del concorso diretto del corpo
e che le operazioni superiori, quelle della intelligenza e della volontà, non possono venire esercitate che con
la mediazione di certe condizioni organiche. Ma l'anima, per la sua stessa natura, rimane indipendente dal
corpo, nel senso che essa esercita senza organo le sue funzioni superiori di intelligenza e di volontà e nel
senso che può esistere senza il corpo. Premesso ciò, quali sono le prove della spiritualità dell'anima?

1. PROVA PER MEZZO DELL'INTELLIGENZA - Ogni essere agisce a seconda di quello che è, ossia
produce atti conformi alla sua natura. È quindi possibile dedurre la natura di un essere dai suoi atti. Ora le
operazioni dell'intelligenza non dipendono, in se stesse e intrinsecamente, dal corpo. Infatti queste
operazioni concernono oggetti immateriali e universali e mirano ad enunciare relazioni necessarie, universali
e atemporali. Ciò esclude che tali funzioni si compiano tramite un organo corporeo, perché questo può
esercitare solo un'attività particolare, concreta, estesa, come si è visto nella conoscenza sensibile.
L'intelligenza non è dunque una potenza organica, ma una potenza o facoltà spirituale, e l'anima, da cui
procede, non può essere in se stessa che un essere spirituale, ossia intrinsecamente indipendente dal corpo.

609 - 2. PROVA PER MEZZO DELLA VOLONTÀ - Gli atti della volontà libera manifestano parimenti la
spiritualità dell'anima.

a) L'aspirazione al bene infinito. La volontà non può esercitarsi che sotto la determinazione del bene
universale (sub specie boni) (526): ciò vuol dire che possiede la medesima immaterialità dell'intelligenza.
Questa tendenza, necessaria e incoercibile, al bene universale fa sì che l'appetito razionale non sia mai
saziato dai beni particolari, finiti e mutevoli che può raggiungere, ma tenda sempre oltre, verso un bene
stabile, perfetto e incorruttibile, e per conseguenza spirituale, che solo è in grado di soddisfare le sue
profonde aspirazioni. Ora tutto ciò esige in un modo evidente che la volontà debba essere una potenza non
organica ma veramente spirituale, perché nessuna potenza orienta la propria attività verso ciò che la
sorpassa essenzialmente e le è per conseguenza inaccessibile e inconoscibile; nessun essere desidera ciò che
supera essenzialmente la sua natura: né la pietra desidera la sensibilità, né l'animale desidera di pensare.
Dobbiamo quindi concludere che l'anima, da cui procede la volontà, è un essere spirituale.

b) La libertà. La libertà del volere ci porta alla medesima conclusione, perché libertà significa
indipendenza in rapporto al sensibile. L'attività libera, fondata sulla ragione per cui l'uomo è innanzi tutto
svincolato dalla schiavitù del sensibile, ossia dallo spazio e dal tempo, non si può in alcun modo esercitare
per mezzo di un organo corporeo. Essa è contrassegno di un ente in grado di esistere e di agire
indipendentemente dal corpo, cioè di un ente di natura spirituale.

B. VALORE DEGLI ARGOMENTI

610 - È necessario cogliere bene che cosa significhino gli argomenti precedentemente esposti, ma bisogna
anche non attribuire ad essi più del loro valore autentico.

1. L'ANIMA NON È UNO SPIRITO PURO - Difatti, essa è spirituale solo in modo imperfetto, perché,
come abbiamo già visto, certe sue funzioni (vegetative e sensitive) dipendono intrinsecamente dagli organi
del corpo, mentre le sue funzioni superiori (intelletto e volontà) ne dipendono in un modo estrinseco (63-
67). Quindi l'anima deve essere considerata una sostanza incompleta, destinata ad essere unita ad un corpo
363
onde formare con esso una sola unica sostanza composta che, per questa ragione, si chiama « composto
umano».

2. L'ANIMA COME SOSTANZA - La nozione di sostanza, abbiamo già detto, non corrisponde affatto a
quella di «cosa», la quale, sotto il fluire dei fenomeni, resta inerte. L'anima umana si adatta a questo rozzo
modo di pensare ancor meno che le realtà materiali. Il concetto di sostanza indica infatti una realtà non
sensibile, immanente a tutti i fenomeni che ne procedono, la manifestano e che serve ad essi in qualche modo
da intimo legame. Questa unità sintetica viene attuata in virtù della forma sostanziale che è il principio primo
dell'esistenza sostanziale (II, 78, 87).
L'anima appare dunque come la forma sostanziale del corpo umano, ossia come il principio semplice per
cui la materia diviene qualcosa di determinato, cioè quel dato essere e quel dato corpo vivente. Siccome
però, da un lato, questo primo principio esercita funzioni che sorpassano le possibilità della materia e del
corpo, siamo obbligati a considerare l'anima come soggetto autonomo e indipendente di queste funzioni,
ossia come un ente sostanziale. D'altra parte, nondimeno, l'anima, forma del corpo umano, non può essere
considerata come perfettamente sostanziale, ossia capace di sussistere da se stessa senza il corpo, in tutto ciò
ch'essa è e per tutto ciò che è. Infatti, le sue potenze vegetative e sensitive non possono essere esercitate che
per mezzo di organi corporei. Ecco, in senso esatto ed univoco, che significa, applicata all'anima umana,
l'espressione «sostanza incompleta».

Art. II - Le teorie materialistiche


611 - Le teorie materialistiche furono proposte nella antichità dagli atomisti (Democrito, Epicuro,
Lucrezio) e dagli stoici (Zenone, Crisippo). I primi considerano l'anima come composta di atomi sottili e
leggeri, di forma rotonda e liscia (II, 63). I secondi dicono che l'anima è un alito, un composto di aria e di
fuoco, che, dice Crisippo, «è unito alla nostra natura, e che, penetrando tutto il corpo, ne forma l'unità». Tutto
nell'uomo, fino alle forme più alte della vita intellettiva, risulterebbe sia dagli atomi e dalla forma degli
edifici atomici (materialismo atomistico), sia dalla tensione del principio igneo (materialismo dinamicistico).
In queste due concezioni abbiamo le due forme in cui si è espresso il materialismo nel corso dei secoli 446.

§ l - Il materialismo meccanicistico

1. ARGOMENTI - Il materialismo meccanicistico è stato propugnato, nel secolo XVII, da Hobbes che
considera lo spirito come «un corpo sottile»447, nel XVIII secolo, da La Mettrie (L’Homme-machine, Londra,
1751, cfr. tr. it., Milano, 1955), D'Holbach (Système de la nature ou des lois du monde physiquè et due
monde moral, Londra, 1772), e Helvetius (De l'Esprit, Parigi, 1758; De l'Homme, Parigi, 1772), - nel XIX
secolo, dagli ideologi Destutt De Tracy (Eléments d'Idéologie, Parigi, 1801-1815) e Cabanis (Rapports du
physique et du moral de l'homme, Parigi, 1802).
Gli argomenti proposti da questi teorici si possono ridurre ai due seguenti: le ricerche sperimentali non
permettono di scoprire nel corpo niente altro che materia organizzata 448; «la materia organizzata è dotata di
un principio motorio, il quale solo la differenzia da quella che non è organizzata e negli animali tutto dipende
dalla diversità delle organizzazioni» (La Mettrie, L'Homme-machine, p. 68), oppure, in forma più generale:
«il movimento è una maniera d'essere che deriva necessariamente dall'essenza della materia» (D'Holbach,
Système de la nature, p. 22)449.

612 - DISCUSSIONE - È facile capire che questi due argomenti sono semplicemente petizioni di
principio. Se l'anima è immateriale, è evidente che non potrà essere raggiunta per mezzo di strumenti
materiali, i quali possono scoprire e toccare solo ciò che è corporeo. D'altronde questo argomento avrebbe un
valore proporzionale per tutte le scienze. Queste hanno per oggetto realtà qualitative non sensibili che

446 Cfr. Lange, Geschichte des Materialismus.


447 Per lo più sono stati presentati come materialisti Gassendi nel secolo XVII, e Condillac nel secolo XVIII, ma non
sono tali né l'uno né l'altro: ambedue sono convinti spiritualisti. Il problema è un altro, e consiste nel sapere se e in qual
misura lo spiritualismo sia compatibile con la teoria che attribuisce agli atomi una sensibilità (Gassendi) e con la teoria
che riduce tutta l'attività psicologica dell'uomo alla sensazione (Condillac).
448 Il medico Broussais riassumeva questo tipo di argomento dicendo che egli avrebbe acconsentito a credere
nell'anima solo quando l'avesse trovata con la punta del bisturi.
449 In forza di questo principio Cabanis scrive che «il cervello [...] compie organicamente la secrezione del pensiero».
364
vengono raggiunte solo indirettamente con la riduzione alla quantità e ad effetti calcolabili (II, 58). Così
procede anche la scienza dell'anima: essa deduce legittimamente la realtà e la natura dell'anima partendo dai
fatti psicologici, se non calcolabili, almeno constatabili e verificabili, che sono offerti dall'esperienza.
Quanto all'argomento, secondo il quale il movimento risulta essenzialmente dalla materia, esso consiste
nell'affermare gratuitamente tutto ciò che è in discussione. Questo principio è d'altronde contrario ai dati
scientifici perché l'esperienza insegna che la materia è caratterizzata dall'inerzia assoluta.

§ 2 - Il materialismo dinamicistico

A. ARGOMENTI

613 - Nella seconda metà del secolo XIX, il materialismo prende la forma dinamicistica dell'antico
stoicismo. I principali difensori di questa concezione sono Taine, Moleschott, Vogt, Buchner (Kraft und Stoff,
[Materia ed energia], Francoforte, 1855); Haeckel (Die Weltratsel, [Gli enigmi del mondo], Bonn, 1899). I
loro argomenti si riassumono nel parallelismo psico-fisiologico e nell'epifenomenismo.

1. IL PARALLELISMO PSICO-FISIOLOGICO - L'esperienza dimostra, dicono i materialisti, che ad ogni


fenomeno psichico corrisponde un fenomeno nervoso e viceversa. Dunque queste due serie di fenomeni
stanno fra loro in rapporto di causa ad effetto: il fenomeno psicologico viene prodotto dagli organi corporei.
Questo argomento si basa sul fatto sperimentale che non si dà mai forza senza materia, né materia senza
forza. L'aspetto dinamico e qualitativo della vita può quindi venire legittimamente considerato come effetto
della materia; viceversa, ogni volta che si constaterà una presenza di dinamismo o di fenomeni qualitativi, si
dovrà cercare la realtà materiale e quantitativa che ne è il principio unico ed immediato 450.

Di qui derivano diverse formule che fanno riscontro a quella di Broussais: «L'anima è un cervello che
agisce e niente altro». «Senza fosforo non c'è pensiero». (Moleschott). «Il cervello secerne il pensiero, come
il fegato secerne la bile» (Taine). «Nella materia stanno tutte le forze della natura e tutte le forze spirituali; la
materia è il fondo ultimo di ogni essere». (Buchner).

2. L'EPIFENOMENISMO - L'argomento epifenomenistico deriva soprattutto dai fisiologi (Huxley, Loeb,


Soury). Taine l'aveva proposto prima di loro, ma in forma ambigua. Esso consiste nel dire che esiste solo
un'attività reale: quella organica e fisiologica. La coscienza è solo un fenomeno che si sovrappone a questa
attività fisiologica, ma non comporta di per sé né una esistenza reale né un'efficacia proprie.

B. DISCUSSIONE

614 - 1. CRITICA DEL PARALLELISMO - Il parallelismo psico-fisiologico può designare ora un fatto,
ora un metodo, ora una dottrina. La discussione per essere utile, deve distinguere questi tre aspetti.

a) Il parallelismo come fatto. L'influsso vicendevole (interazione) fra il corpo e l'anima o, come si dice con
una formula quanto mai vaga, «fra il fisico e il morale» è evidente. Ma il parallelismo fra la serie fisiologica
e quella psicologica è soltanto un fatto generale e globale, che non si verifica nei singoli casi. Da un lato,
infatti, è impossibile stabilire due serie di fenomeni collegati l'un l'altro con precisione e regolarità.
Dall'altro, esistono fenomeni di natura organica che non hanno corrispondenti psichici (per esempio, le
eccitazioni che non arrivano alle soglie della coscienza (83), e fenomeni psichici ai quali non si conosce
nessun corrispondente organico (idea, giudizio, volontà, fatti patologici delle psiconevrosi ecc.).

b) Il parallelismo come metodo. Dal punto di vista metodologico, il parallelismo significa che la psicologia
deve continuamente sforzarsi di collegare i fenomeni psicologici alle loro condizioni fisiologiche. Quando
non vi è nessun tentativo di ridurre il conseguente psicologico all'antecedente fisiologico, non vi è niente da
obiettare circa l'impiego di questo metodo, che corrisponde ad una concezione positiva e sperimentale della
psicologia (15).

450 Come è stato già visto (14) questa opinione è stata ripresa da certi teorici del behaviorismo (filosofia del
comportamento), specialmente da Watson.
365
615 - c) Il parallelismo come dottrina. Da un punto di vista dottrinale, il parallelismo psico-fisiologico
consiste spesso nell'affermare che i fenomeni psichici non differiscono essenzialmente dai fenomeni
materiali e non sono che l'aspetto dinamico della materia. Però questa affermazione è un semplice
paralogismo. Infatti abbiamo visto poco sopra che i fatti di corrispondenza fra tanto costanti e universali
affermazione.
D'altra parte, se anche fossero costanti, non lo sarebbero però fino al punto di dimostrare immediatamente
che fra il fisico e lo psichico esiste una relazione di causa ad effetto, ossia, in questo caso, un'identità di
natura e di essenza. I fatti di corrispondenza giustificherebbero soltanto l'affermazione che vi è relazione fra
le due serie, e niente più. La natura di questa relazione rimarrebbe da determinare (II, 52).
D'altronde la psicologia afferma che questa relazione non può essere causale. Ciò infatti è stato dimostrato
dalle indagini che abbiamo fatto sulle condizioni fisiologiche generali della vita psichica (65-67). Inoltre,
non si riesce assolutamente a intendere come un meccanismo fisico o chimico produca il pensiero; cioè, in
termini più generici, come un'entità per noi indeterminata ne produca un'altra, altrettanto indeterminata.
Infine, il fatto che materia e forza si incontrano sempre insieme non dà la possibilità di provare, senza fare
un circolo vizioso, che corpo e anima siano identici. Perché ciò che è in discussione circa il parallelismo
consiste proprio nel sapere se il fatto che due serie di fenomeni esistono insieme, giustifichi l'affermazione
che questi fenomeni sono della stessa natura.

Sotto questo aspetto, il materialismo consiste nel ridurre l'attività cosciente ad un semplice modello
meccanico: il cervello reagirebbe alle impressioni, proprio come un automa reagisce ad una azione esterna.
Ora, come è stato chiaramente dimostrato da Ruyer (La conscience el le corps, Parigi, 1937, p. 70-85), ciò
non ha di fatto alcun senso. Infatti, abbiamo veduto che la nostra percezione è caratterizzata da una grande
duttilità (duttilità che esiste già nelle percezioni dell'animale), noi percepiamo le forme e le strutture sotto
aspetti estremamente vari riconoscendo che sono le medesime forme e le medesime strutture. Ciò che è stato
dimostrato da Bergson (Matière el Mémoire, p. 124) circa le immagini auditive vale per tutta la percezione:
noi non reagiamo ad immagini singolarmente definite, ma a forme «astratte» o schematizzate. Tutte queste
cose invero non potrebbero essere compiute dall'automa, per il quale le «reazioni» esigono identità assoluta
di «eccitazione» e non si adattano mai a forme diverse del medesimo modello, proprio come una serratura
obbedisce soltanto alla medesima chiave (che può essere numericamente multipla, ma che resta sempre, nella
sua forma caratteristica, identicamente la stessa chiave) e non può adattarsi a forme diverse da questa chiave.

Invece, si potrebbe indubbiamente pensare ad una specie di «funzione di schematizzazione» aggruppante in


un fascio unico gli atti fisiologici relativi ad un oggetto. Da questa opinione tuttavia si trarrebbero ben pochi
vantaggi perché bisognerebbe ancora spiegare in qual modo il cervello (ossia, per ipotesi, l'automa) possa
«riconoscere» un oggetto particolare (quel determinato cappello, quel determinato calamaio) come
appartenente al gruppo «calamaio» o «cappello», mentre questi oggetti si possono rappresentare sotto tanti
aspetti e attraverso processi sensoriali così straordinariamente vari. In altre parole, l'ipotesi presuppone il
problema già risolto poiché si concede puramente e semplicemente la funzione astrattiva che bisognerebbe
spiegare meccanicamente. In realtà, la percezione è un adattamento, mentre la reazione di un automa si
produce solo se questo viene adattato in precedenza: in altre parole, la reazione automatica è essenzialmente
passiva, mentre la reazione percettiva è essenzialmente attiva.
D'altra parte, l'ammettere che le funzioni motorie, eliminate distruggendo gran parte degli emisferi
cerebrali, possano essere supplite da altre zone più piccole ci allontana definitivamente dal modello
meccanico nel quale è evidentemente incomprensibile qualunque sostituzione.

616 - 2. CRITICA DELL'EPIFENOMENISMO - L'epifenomenismo si basa, in parte, sul parallelismo


psico-fisiologico e per conseguenza incappa nelle medesime difficoltà. Inoltre: quando esso afferma che la
coscienza è solo un «riflesso» dell'attività organica, una «fosforescenza» o l'«ombra del corpo», ci offre, al
massimo, qualche parola invece di argomenti, ma presenta una spiegazione soltanto illusoria.
E non solo la spiegazione è apparente, ma anche se ad essa si concedesse un valore, questo andrebbe
contro il principio del determinismo; cosa che, per una teoria materialistica, è una sventura letale. Infatti la
coscienza, in questo sistema, è un fenomeno senza ragione sufficiente, perché non serve a niente, e senza una
determinata condizione di esistenza, perché i suoi modi di manifestarsi non sottostanno a nessuna legge
(perché la coscienza è talvolta presente, talvolta assente, talvolta debole e sorda, talvolta forte e chiara?). È
quindi impossibile intenderne sia l'esistenza, sia la natura.
366
Gli epifenomenisti rispondono tuttavia che la coscienza appare nel momento e nella misura in cui sono
attuate le sue condizioni fisiologiche (cfr. Paulhan, Les Phénomènes affectifs et les lois de leur apparition,
Parigi, 1901, p. 12). Stando così le cose, la coscienza non è più un semplice epifenomeno, ma è collegata, in
qualità di conseguente, agli stati fisiologici, e niente permette di affermare a priori che questo conseguente
sia soltanto un puro e semplice effetto.

Infine, contrariamente a quanto afferma l'epifenomenismo, la coscienza non è un inutile lusso. L'esperienza
dimostra che essa è qualcosa di più del fenomeno fisiologico e che ha una sua propria efficacia. Quando
interviene la coscienza, essa può determinare una completa trasformazione della situazione psicologica 451.

§ 3. Il materialismo evoluzionistico

Le teorie evoluzionistiche moderne (animismo di Tylor, - manismo preanimista di Marett, - sociologismo


di Durkheim) non fanno che riprendere gli argomenti del materialismo atomistico e dinamicistico o, più
esattamente, considerare il materialismo come già dimostrato e di per sé evidente. Per queste teorie si tratta
solamente di offrire al materialismo una specie di giustificazione storica, dimostrando che il concetto di
anima si è formato partendo da esperienze che non hanno niente a che fare con l'idea di un ente spirituale. Il
concetto di anima spirituale, riportato alle sue origini, perderebbe in tal modo il senso metafisico che si
pretende di assegnargli.

617 - A. GLI ARGOMENTI DELL'EVOLUZIONISMO.

L'ANIMISMO - Secondo Tylor452, l'idea di anima deriva dalla credenza negli spiriti. Tale credenza ha in se
stessa per principio, negli uomini primitivi, l'osservazione di certi fenomeni biologici: sonno, veglia, estasi,
malattia, morte, sogni e visioni. L'uomo primitivo, constatando che nel sonno può trasportarsi lontano dal
luogo in cui riposa il suo corpo, conclude immediatamente con l'ammettere la realtà di un doppio più sottile e
più leggero del corpo. Proprio questo doppio diverrà a poco a poco l'anima, che è una cosa più o meno
indipendente dal corpo e in grado di sopravvivere a quest'ultimo, perché può distaccarsene nel sonno, ed
anche in grado di passare in altri corpi (metempsicosi). L'uomo primitivo giunge in seguito ad ammettere
l'esistenza di un'anima simile anche negli altri enti e perfino negli animali. Di qui deriva il culto dei morti,
cioè delle anime disincarnate, che porta logicamente all'idea di spiriti puri. Questi sono poi concepiti come
dotati del potere di introdursi nei corpi per portarvi le malattie o la morte, e anche in certi oggetti materiali,
tronchi d'albero, pietre sacre, feticci. Il feticismo è l'ultimo avatar o incarnazione dell'invenzione del doppio,
cioè dell'anima umana.

618 - 2. IL MANISMO PREANIMISTICO - Marett (The Threshold of Religion, Londra, 1909) trovò che
l'animismo di Tylor non spiegava sufficientemente le prime forme dell'idea di anima. L'idea di spirito non
può infatti, secondo Marett, essere primitiva, neppure nella forma del doppio psichico. Ciò che è primitivo è
l'idea di una forza impersonale che è diffusa ovunque nella natura. I selvaggi attuali credono ancora ad una
tale forza che si chiama: Mana, fra gli abitanti della Melanesia, - Orenda, fra gli Indiani, - Manitù, fra gli
Algonchini, Boylya, fra gli Australiani. A poco a poco, da questa forma impersonale si sarebbe compiuta
l'evoluzione fino a raggiungere il concetto di anima, che sarebbe una partecipazione individuale al Mana.

3. IL TOTEMISMO - Durkheim453 ha creduto di scoprire che l'anima originariamente è soltanto «il


principio del totem incarnato in ogni individuo». Siccome questo principio viene concepito sia come
materiale (soffio o aria sottile) sia come invisibile, il concetto di anima conserva nei primitivi un senso
ambiguo: l'anima non si confonde col corpo, perché può abbandonarlo, ma tuttavia è ad esso strettamente
unita per mezzo di certi organi, specialmente per mezzo del cuore (talvolta risiede anche nel sangue). Inoltre,
a causa del carattere sacro del totem, l'anima stessa diviene qualcosa di sacro e come una scintilla della

451 Cfr. Ribot, Les maladies de la personnalitè, p. 15: «Quando uno stato fisiologico è divenuto stato di coscienza, ha
per ciò stesso acquistato un carattere particolare... Esso può essere richiamato, cioè si riconosce che ha occupato una
posizione precisa fra diversi altri stati di coscienza. Dunque è divenuto un nuovo fattore nella vita psichica
dell'individuo: risultato che può servire da punto di partenza a qualche nuova attività cosciente o inconscia».
452 Tylor, Primitive culture. Researches into the Development of Mythology, Religion, Art and Custom, Londra, 1872.
453 Durkheim, Formes élementaires de la vie religieuse, II, c. VII. - Cfr. Mauss, Esquisse d'une théorie générale de la
Magie, in «Année sociologique» 1902-1903.
367
divinità. A poco a poco, essa acquista la spiritualità e l'immortalità; ciò, pensa Durkheim, è solo una
traduzione adeguata dei caratteri della società e mostra che l'anima è una creazione ed un'espressione
dell'elemento sociale.

B. DISCUSSIONE

619 - Queste teorie includono fatti e principi che bisogna esaminare separatamente.

1. DISCUSSIONE DEI FATTI - I fatti su cui pretendono di basarsi tutte queste teorie sono quanto mai
incerti e rappresentano assai più costruzioni della mente umana che realtà oggettive.

a) Critica dell'animismo. La teoria di Tylor è stata vigorosamente e giustamente criticata da Durkheim


(Formes élémentaires de la vie religieuse, p. 78 e sgg.), il quale dimostra che la base sperimentale di questa
teoria è di una straordinaria fragilità. Infatti, Tylor afferma che il sogno è all'origine dell'idea di doppio o
anima. Ma non c'è niente di meno sicuro: perché colui che dorme non avrebbe potuto immaginare che,
durante il sonno, aveva il potere di vedere a distanza? «Per attribuirsi un tale potere, osserva Durkheim,
occorreva meno dispendio di immaginazione che non per costruire il concetto cosi complesso di doppio,
composto di una sostanza eterea, semi-invisibile, tale che l'esperienza diretta non ne offriva esempio».
D'altronde, l'esperienza quotidiana avrebbe fatto continuamente fallire. questa idea di doppio. Capita che si
creda, nel sonno, di vedere o di sentire ora l'uno ora l'altro dei propri contemporanei. Secondo Tylor, l'uomo
primitivo spiegherà questi fatti immaginando che il suo fantasma abbia visitato o incontrato quello dell'uno o
dell'altro suo compagno. Ma «basterà che, appena svegliato, egli li interroghi per constatare che la loro
esperienza non coincide con la propria». Come mai il primitivo non sarebbe così indotto a confessare a se
stesso di essere stato vittima di qualche illusione e che l'ipotetico doppio è soltanto una chimera?
Infine non è accertato che l'uomo primitivo abbia tentato di cercare una spiegazione ai propri sogni, perché
sembra che questa ricerca sia una raffinatezza da uomo civile.

620 - b) Critica del manismo. Il concetto di mana è ben lungi dall'essere chiarito. Codrington, in uno
studio pubblicato nel 1891, riteneva che il mana appartenesse esclusivamente agli spiriti della natura e che le
cose considerate in se stesse non lo possedessero mai (Cfr. Rohr, Das Wesen der Mana, «Anthropos», 1919,
p. 209). Viceversa, Van Gennep («Mercure de France», 1924, p. 493) afferma che «il principio semicivile del
mana non differisce essenzialmente, ma solo per grado dal nostro principio scientifico moderno di energia»).
Quanto all'Orenda degli Irochesi, Radin («Journal of American Folklore», 1914, p. 211 sg.), che ha
interrogato i Sioux-Winnebago e gli Algonchini-Ogibuei, pretende che questa espressione indichi sempre
spiriti determinati. D'altra parte, P. Coze (L'oiseau-Tonnerre, Parigi, 1938, p. 247 sg.), che ha vissuto a lungo
fra gli Indiani, dichiara che l'Orenda è una forza intermedia fra lo spirito e la materia, di natura mortale,
fluida, vibratile, sottile, e distinta sia dal corpo che dall'anima.
Bisogna confessare che ci vuole ardire straordinario per tentare di costruire l'idea dell'anima (e quindi tutta
la religione) partendo da un concetto di cui gli etnologi non arrivano neppure a definire il senso esatto; la
sola affermazione in cui quegli scienziati sono unanimi consiste nel dire che il mana non ha niente a che
vedere con l'anima, ciò che è in pieno contrasto con le concezioni avventate di Tylor.

c) Critica del totemismo. Il totemismo, come fatto, è lungi dall'avere il significato e l'importanza che gli
attribuisce Durkheim. Prima di tutto, non sembra che esista un totemismo; vi sono soltanto dei totemismi, fra
loro diversissimi454. Storicamente, il totemismo è un fenomeno molteplice che praticamente si risolve in una
serie di problemi distinti riferentisi ai modi di associazione, senza che vi siano relazioni essenziali tra gli uni
e gli altri. I fatti totemici sono di natura fondamentalmente diversa fra loro. Volerli riunire, come fa
Durkheim, sotto un nome comune e prendere questo nome per una essenza vera e propria o per una realtà
etnografica equivale a fare la confusione più deplorevole.

621 - 2. DISCUSSIONE DEI PRINCÌPI - Se le basi di esperienza o storiche delle teorie evoluzionistiche
sono fragili, i princìpi da esse implicati non hanno maggiore attendibilità.
454 Cfr. Goldenweiser, Totemism, an analytical study, in «Journal of American Folklore», XXIII, p. 179-293. Talvolta
il totemismo sembra derivare dall'abitudine di assegnare soprannomi di animali: di qui sarebbero nati, attraverso
complicate trasformazioni, i tabù che proibiscono di uccidere o mangiare un individuo della specie del totem. - Talvolta
il totemismo è in relazione ad una proibizione di carattere esogamico. - Talvolta è una pratica comandata dai bisogni
economici. Talvolta il totem è l'antenato del clan, ecc.
368

a) Principio dell'evoluzionismo. Secondo questo principio, le forme successive della cultura vengono
generate, le une dalle altre, attraverso una complessità crescente. Però questo principio non ha alcun valore
né di fatto né di diritto, perché non è stato dimostrato che ciò che è più semplice sia sempre
cronologicamente il primo, né che il movimento della storia si compia necessariamente nella forma
presupposta da questo principio: la storia è contrassegnata da periodi di progresso e di decadenza, da
complicazioni e da semplificazioni, da evoluzioni e da involuzioni 455.

b) Principio della riduzione del significato alle immagini. Gli evoluzionisti pensano che il problema
riguardante il significato di una nozione venga risolto nel momento in cui si riesce a ridurre questa nozione
alle immagini atte ad esprimerla. Ma in ciò vi è un grave errore: sappiamo infatti che il pensiero è
indipendente dalla produzione delle immagini. Il significato di un concetto non è interamente incluso nelle
immagini e neppure viene sempre correttamente espresso dalle immagini: quando si tratta di concetti
metafisici, ogni immagine è, per definizione, inadeguata (417). Per conseguenza, anche supponendo che si
arrivi a fare la storia esatta di tutte le immagini di un concetto (rappresentazioni, miti, leggende), ciò non
vuoI dire che si sia riusciti a provare qualcosa circa il senso di questo concetto, il quale resta indipendente
dalle forme sensibili accidentali attraverso le quali cerca di esprimersi.
Così si spiega perché le rappresentazioni dell'anima siano state, nel corso dei secoli, indiscutibilmente assai
varie456; molte di esse, nel regime notturno dell'immaginazione (I, 32), sono state assai rudimentali.

Il vero problema tuttavia consiste nel sapere che cosa vogliano dire queste immagini. Sta di fatto che esse
procedono ovunque dal bisogno di simbolizzare un principio distinto dal corpo e in grado di sopravvivere al
corpo in una vita ultraterrena (concepita di solito come un prolungamento della vita presente). Questo
concetto, che negli individui non civili si traduce in immagini e miti e che conserva le tracce della sua
formazione analogica perfino nel pensiero filosofico (anima, dal lat. anima = aria, spirito, dal lat. spiritus =
soffio) questo concetto, ripetiamo, è così essenziale all'uomo, essere ragionevole, quanto può essere
essenziale per l'uomo, realtà biologica, la funzione glicogenica del fegato.

3. CONCLUSIONE - Lo spiritualismo rimane quindi dimostrato, positivamente dagli argomenti di ragione


basati sull'esperienza psicologica e destinati a rendere intelligibile questa esperienza, e negativamente, dalla
incapacità del materialismo, in qualunque forma si presenti, sia a confutare gli argomenti dello spiritualismo,
sia a proporre una interpretazione giusta di tutta l'esperienza psicologica.
Resta da definire, nell'esame dello spiritualismo che abbiamo finito di precisare poco sopra, quale sia il
modo di unione fra l'anima e il corpo.

455 Cfr. Lalande, Les illusions évolutionnistes, Parigi, 1930.


456 Cfr. Rhode, Psyche, Seelenkult, ecc.
369

CAPITOLO SECONDO

UNIONE DELL'ANIMA COL CORPO

SOMMARIO457

Art. I - IL COMPOSTO SOSTANZIALE - L'unione sostanziale - Unione accidentale e sostanziale - Principi


del composto sostanziale Il composto umano - Il tutto sostanziale - Rapporti fra il fisico e il morale.

Art. II - PROBLEMA DELLA COMUNICAZIONE DELLE SOSTANZE - Lo spiritualismo cartesiano - Le


dottrine - Il principio del dualismo L'occasionalismo - L'armonia prestabilita - Discussione Queste
soluzioni sono arbitrarie - Dallo spiritualismo idealistico a quello bergsoniano - L'idealismo - Lo
spiritualismo bergsoniano - Discussione - Conclusione.

622 - La questione del modo d'unione dell'anima col corpo non dipende da un principio di risoluzione
particolare. In realtà, poiché l'anima ci è apparsa come forma sostanziale o atto del corpo organico, il modo
d'unione dell'anima col corpo, sarà quello dell'unione della materia con la forma.

Art. I - Il composto sostanziale


A. L'UNIONE SOSTANZIALE.

1. UNIONE ACCIDENTALE E SOSTANZIALE - Si devono distinguere due modi d'unione


essenzialmente differenti: l'unione accidentale, che esiste fra due esseri di per sé completi e indipendenti
l'uno dall'altro: tale è l'unione degli anelli di una catena, dei pezzi di una macchina oppure dei cittadini di uno
stesso stato e l'unione sostanziale, per la quale due realtà incomplete formano insieme una sostanza unica,
anche se composta (I, 52).

2. I PRINCÌPI DEL COMPOSTO SOSTANZIALE - Quando si parla di realtà incomplete, non bisogna
pensare, come abbiamo già notato, ad elementi o esseri che sarebbero incompiuti o mutilati, ma a entità reali
incompletamente sostanziali, ossia a primi princìpi la cui natura non include il potere di sussistere da soli (II,
78). Questi princìpi sono la materia e la forma sostanziale.

La materia è incompleta per essenza perché di per sé è pura potenza, assolutamente indeterminata. Ma
l'anima umana, come forma, è anche incompletamente sostanziale, in quanto le sue potenze inferiori (vita
vegetativa e sensitiva) esigono necessariamente il concorso del corpo. Solo in forza delle sue potenze
superiori intelletto e volontà, che sono assolutamente inorganiche, essa ha il potere di sussistere senza il
corpo, benché una tale sussistenza sembri meno conforme alla sua natura, che implica l'unione col corpo.

B. IL COMPOSTO UMANO

623 - 1. IL TUTTO SOSTANZIALE - Il problema dei rapporti fra anima e corpo può venire risolto in
modo comprensibile solo ammettendo che il corpo e l'anima si uniscono in un unico tutto sostanziale o, in
altri termini spiegati in Cosmologia, che l'anima è la forma immediata e unica del corpo. Vale a dire: solo
per questa unione l'uomo non solo è uomo, ma anche animale vivente, corpo, sostanza ed essere (II, 91,
124). L'unione si compie dunque senza elementi intermedi, in quanto i due princìpi si uniscono in ragione di
potenza pura e di atto sostanziale, e, come tali, esercitano, l'uno in rapporto all'altro una causalità intrinseca
che non esige nessun agente esterno.

457 Per la bibliografia vedi cap. precedente.


370
Ne consegue che l'anima non è nel corpo come un pilota sulla nave (unione accidentale) ma che, formando
con esso un unico tutto naturale, l'anima è intera in tutto il corpo e intera in ogni parte del corpo. L'uomo
non è composto di due enti, ma è un solo ente complesso.

Principio di questa dottrina dell'unione dell'anima col corpo è che la forma sia di per sé indivisibile. Per il
fatto stesso che la correlazione fra materia e forma è strettissima (II, 87), l'anima è necessariamente
presente: intera e indivisibile in tutte le parti del corpo come nel tutto stesso. Essa tuttavia «anima», cioè
vivifica, ciascuna parte in modo diverso, a seconda della natura dei diversi organi: la sua attività è
determinata, in ogni organo, dalla funzione di questo organo stesso. Inoltre l'anima, essendo forma
sostanziale del corpo, non è forma corporea secondo tutto ciò ch'essa è, perché svolge funzioni che solo
accidentalmente esigono (in forza delle condizioni di esercizio) organi corporei. In virtù delle sue facoltà
vegetative e: sensitive (che definiscono l'animazione), l'anima è forma del corpo. In virtù delle sue funzioni
superiori (intelletto e volontà), l'anima trascende il corpo da lei vivificato e perciò sopravvive alla
dissoluzione di quest'ultimo.

2. RAPPORTI «FRA IL FISICO E IL MORALE» - Solo questa unione sostanziale può spiegare quelli che,
con termine improprio, si chiamano rapporti fra il fisico e il morale, ossia l'influsso vicendevole fra le
funzioni vegetativa, sensitiva e intellettiva. Una digestione laboriosa, un'emicrania e ancor più lesioni
cerebrali rendono impossibile il lavoro della mente. Viceversa, un'intensa attività intellettuale arresta la
digestione, accelera o rallenta il movimento del cuore, dà luogo ad una fatica organica. Tutti questi fatti ben
noti possono essere spiegati in modo soddisfacente solo ammettendo che corpo e anima formino insieme una
sola e medesima sostanza in cui tutte le funzioni siano strettamente unite.

Art. II - Problema della «comunicazione delle sostanze»


624 - L'espressione «problema della comunicazione delle sostanze» designa, nei secoli XVII e XVIII, la
questione dell'unione dell'anima col corpo. I termini medesimi di questo ultimo problema implicano dal
punto di partenza che l'anima e il corpo vengono considerati come due sostanze o due enti di per sé completi
e sufficienti, e d'essi si vuol sapere il modo dell'unione atta a formare un solo tutto. È facile prevedere che
questa concezione iniziale porterà inevitabilmente ad ammettere solo un'unione accidentale.
Le teorie derivanti dalla corrente cartesiana si possono dividere in due gruppi: il primo è formato dalle
teorie che pongono il problema dell'unione nei medesimi termini in cui lo pose Cartesio, il secondo è formato
dalle teorie che, riconoscendo l'impossibilità di giungere ad una soluzione di tipo cartesiano, si affidano
all'idealismo, d'altronde contenuto implicitamente nell'ambigua dottrina di Cartesio, perché salvi la
concezione spiritualistica dell'uomo e del mondo.

§ 1 - Lo spiritualismo cartesiano

A. LE DOTTRINE

625 - Noi troviamo in questo campo tre dottrine, quella di Cartesio, quella di Malebranche e quella di
Leibniz le quali, pur essendo d'accordo sui medesimi princìpi, propongono tre diverse soluzioni al problema
dell'unione dell'anima col corpo.

1. IL PRINCIPIO DEL DUALISMO

a) Natura dell'anima. Abbiamo visto che Cartesio scopre l'anima nel Cogito, cioè nell'atto con cui l'essere
pensante percepisce intuitivamente se stesso come pensiero. Io penso, dunque sono, cioè: io sono un pensiero
o una cosa che pensa (res cogitans), oppure «una cosa che dubita, che intende, che concepisce, che afferma,
che nega, che vuole, che non vuole, e inoltre che immagina e che sente» (2a Méditation).

Il Cogito mi fa percepire non solo la mia propria esistenza, ma anche ciò che sono. Difatti, siccome io
posso far le viste di non avere il corpo, senza che necessariamente ne consegua che io cessi di pensare e per
conseguenza di esistere, devo affermare che sono «una sostanza, tutta la natura e l'essenza della quale sta
solo nel pensare e che, per essere, non ha bisogno di nessun luogo, né dipende da qualcosa di materiale».
(Discours de la Méthode, 4a parte). Nella mia essenza io sono dunque un pensiero; il corpo non fa parte
dell'essenza dell'uomo; l'anima è una sostanza completa che basta assolutamente a se stessa.
371

b) Natura del corpo. Per Cartesio, il corpo è soltanto un puro automa, una semplice macchina che si muove
da sé. È stato pensato che fosse l'anima a causare nel corpo il calore naturale e tutti i movimenti che ne
dipendono, ma si tratta di un grave errore. I movimenti che avvengono nel corpo «non dipendono che dalla
conformazione delle nostre membra e dal corso che gli spiriti 458, eccitati dal calore del cuore, seguono per
natura nel cervello, nei nervi e nei muscoli, allo stesso modo che il movimento di un orologio viene prodotto
dalla sola forza della sua molla e della configurazione delle sue ruote (Passions, I, 16) (205).

626 - c) Problema dell'unione. Abbiamo dunque due sostanze complete, l'una la cui essenza consiste
interamente nel pensare, l'altra la cui essenza consiste interamente nell'essere estesa e suscettibile di figura e
movimento. Come spiegare la loro unione? Cartesio non offre alcuna spiegazione e si limita a considerare
l'unione come un fatto evidente, poiché, dice, «non v'è alcun soggetto che agisca contro la nostra anima più
immediatamente del corpo cui essa è unita». (Passions, l, 2)459 Benché l'anima sia unita a tutto il corpo, lo è
in modo ancor più particolare e immediato alla glandola pineale, perché questa glandola è un organo unico,
mentre le altre parti del cervello sono doppie (Passions, I, 11-13, 30, 34).
Resta da spiegare come sia possibile l'azione dell'anima sul corpo e viceversa. Per Cartesio questa
spiegazione è particolarmente difficile perché egli ha separato in modo così radicale il pensiero
dall'estensione. Sembrerebbe che le due sostanze debbano restare estranee l'una all'altra. Se dunque i fatti
costringono ad ammettere un'influenza reciproca, questa potrà consistere semplicemente nella
corrispondenza di due sviluppi paralleli. Cartesio si ferma qui, ma apre la via all'occasionalismo di
Malebranche.

La teoria cartesiana, secondo la quale l'unione dell'anima col corpo sfugge all'analisi, non è di per sé falsa.
È solo impossibile metterla d'accordo con il principio cartesiano dell'idea chiara e distinta (criterio assoluto e
unico di verità) e con la concezione delle due sostanze complete ed autosufficienti. Però, non tenendo conto
di queste contraddizioni interne del sistema, Cartesio enuncia una verità certa. In realtà, sul piano
speculativo, il problema dell'unione presuppone la scomposizione dell'ente unico che è formato sia
dall'anima che dal corpo, ossia esige il fatto che io prenda come oggetto il corpo affinché lo possa pensare.
Soltanto, come fa osservare G. Marcel (Le monde cassé, Parigi, 1933, p. 268), il corpo così oggettivato non è
più il mio corpo, ma l'idea del corpo. Da questa illusione procede la teoria cartesiana la quale, riducendo il
corpo all'idea di corpo, fa consistere l'essenza dell'uomo solo nell'anima. (L'uomo è un'anima che ha un
corpo, possiede un corpo e adopera un corpo: il corpo, da soggetto, è diventato oggetto). Però l'esperienza
dell'azione mi dimostra invece che il mio corpo è «me», che la mia realtà consiste in una totalità completa e
che questa realtà, se è complessa, non può essere né ricostituita né compresa partendo da elementi
antecedenti. In tal modo si vede come il problema dell'unione viene falsificato in massima parte dall'illusione
analitica. Di questo problema si può comprendere il senso e dare una soluzione intelligibile solo per mezzo
delle nozioni di materia e di forma che escludono categoricamente un certo modo di analisi, perché queste
nozioni definiscono princìpi e non enti (II, 78). D'altronde è necessario aggiungere che l'analisi riprende il
suo dominio quando nell'anima umana si considera ciò che la rende sussistente di diritto. Ma, contrariamente
al modo di procedere di Cartesio, non è dall'alto, si potrebbe dire, che bisogna affrontare il problema
dell'unione, ma dal basso, ossia partendo da ciò che è, nell'anima, principio della vita sensitiva ed organica.

627 - 2. L'OCCASIONALISMO - Malebranche completa il movimento cominciato da Cartesio. Partendo


da un dualismo, concepito in modo ancor più radicale 460, egli afferma che i movimenti che si producono nel

458 Si tratta degli «spiriti animali», che sono «tutte le parti più vive e più sottili del sangue». «Ciò che qui io chiamo
spiriti sono soltanto corpi, i quali non hanno altra proprietà che quella di essere corpi piccolissimi che si muovono
velocemente, come le parti della fiamma che esce da una fiaccola; di modo che essi non si fermano in nessun luogo e
via via che qualcuno di essi entra nella cavità del cervello, alcuni altri parimenti escono dai pori che sono in quella
sostanza. Questi pori li portano nei nervi e di qui nei muscoli e in tal modo muovono essi il corpo in tutte le diverse
maniere in cui può essere mosso». (Passions, I, 10).
459 In realtà, questa unione è incomprensibile nel cartesianismo, perché non può essere rappresentata da nessuna idea
chiara e distinta, mentre, per Cartesio, è proprio la chiarezza e la distinzione dell'idea quella che forma il criterio di
verità (3a Meditation).
460 Conf. Entretiens sur la Métaphysique, 2 voll., Parigi, 1922, IV, § XI: «Non vi è nessun rapporto necessario fra le
due sostanze di cui siamo composti; le modalità del nostro corpo non possono, per propria efficacia cambiare quelle del
nostro spirito (...). Non vi è alcun rapporto di causalità da corpo a spirito. Che dico! non ce ne è alcuno neppure da
spirito a corpo».
372
corpo sono soltanto un'occasione per la quale Iddio, causa unica universale, produce nell'anima le percezioni
che corrispondono a quei movimenti.461

3. L'ARMONIA PRESTABILITA - Leibniz sostituisce all'occasionalismo di Malebranche la teoria


dell'armonia prestabilita. Il corpo e l'anima sono come due orologi indipendenti l'uno dall'altro, ma accordati
dal Creatore in modo che i loro movimenti abbiano una perfetta corrispondenza 462.

B. DISCUSSIONE

628 - Queste dottrine, se vengono considerate solo in rapporto al problema in discussione, non hanno
bisogno che di qualche breve osservazione.

1. L'UNIONE È SOLO ACCIDENTALE - Queste tre teorie, sotto qualunque aspetto si presentino,
propongono tra l'anima e il corpo solo una unione accidentale, perché due sostanze complete non possono
unirsi in altro modo. Vero è che l'unione accidentale esige, per essere intelligibile, un principio unificatore
distinto dalle cose unificate. E proprio questa difficoltà Aristotele opponeva a Platone che per primo propose
il dualismo: se l'anima e il corpo sono in se stessi completi, per unirli è necessario un principio o elemento
che partecipi dell'uno e dell'altro, e così il problema dell'unione ricompare in altra forma, con l'aggravante di
avere a che fare con tre princìpi anziché con due. (Aristotele, Metaph., VII, c. VI; De Anima, II, c. l, 412 b).

2. QUESTE SOLUZIONI SONO ARBITRARIE - L'esperienza che facciamo continuamente circa l'unione
così intima fra lo psichico e il fisico, circa la loro profonda interazione e circa l'unità e l'identità dell'«io»,
non può essere spiegata dalla concezione dualistica. Tale spiegazione Cartesio non la cerca neppure; anzi
supponendo l'unione come un dato di fatto di cui egli non sa dire come avvenga, dichiara che l'anima muove
il corpo tramite la glandola pineale. Però rimane ancora da spiegare in che modo una sostanza spirituale
come l'anima possa agire dall' esterno su una sostanza corporea qual è la glandola pineale. Tale difficoltà è
insormontabile nel cartesianismo ed è tale ancor più al di fuori di quel sistema.
Quanto all'occasionalismo e all'armonia prestabilita, il loro carattere artificioso e gratuito risulta evidente.
Infatti, l'esperienza non ci mette sulla via di tali soluzioni, perché ci impone la realtà di un rapporto
immediato fra il fisico e lo psichico, né ad esse si adatta la metafisica, perché in quei sistemi Dio farebbe
basare tutta l'esperienza umana su un'illusione, il che appare indegno della sapienza divina.

§ 2 - Dallo spiritualismo idealistico a quello bergsoniano

629 - 1. L'IDEALISMO - Dobbiamo qui limitarci solo a qualche indicazione perché lo spiritualismo si
distacca sempre più dalla psicologia per formularsi in teorie generali che hanno di solito forma idealistica
(427). Infatti i filosofi non riuscendo più a capire l'unione dell'anima col corpo, cercarono di risolvere il
problema sopprimendo uno dei due termini: mentre i materialisti conservano soltanto il corpo, gli idealisti
rinunziarono al corpo, il quale, infatti, nelle teorie derivate dal cartesianismo, poteva avere ormai soltanto
una parte in qualche modo onorifica e decorativa, e pensarono di basare lo spiritualismo sull'affermazione
che la sola ed unica realtà esistente non è neppure la «cosa che pensa» di Cartesio, ma soltanto il pensiero.
In tal modo abbiamo tutta una serie di dottrine (panteismo di Spinoza, immaterialismo di Berkeley,
criticismo di Kant, teorie panteistiche di Fichte, Schelling, Hegel, neo-criticismo di Renouvier e Hamelin,
idealismo di Lachelier e di Brunschvicg) che non partono più dalla psicologia e sono inoltre in conflitto
permanente coi dati più chiari dell'esperienza psicologica. Ritroveremo queste dottrine in metafisica.

461 Entretiens sur la Métaphysique, VII, § XIII: «Dio ha voluto che io avessi certi sentimenti, certe emozioni, quando
ci fossero nel mio cervello certe impressioni, certe agitazioni di spirito. Egli ha voluto, insomma, e vuole continuamente
che i modi di essere dello spirito e del corpo siano reciproci. Ecco l'unione e la dipendenza delle due parti di cui siamo
composti».
462 Leibniz, Troisième éclaircissement du Système nouveau de la Nature et de la communication des substances
(Erdmann, p. 134) «Immaginatevi due orologi a pendolo o due orologi tascabili che siano perfettamente armonizzati»,
cioè che siano costruiti «con tanta arte e precisione da poter essere certi del loro successivo accordo»... Mettete adesso
l'anima e il corpo al posto dei due orologi. Il loro accordo o simpatia si verificherà per mezzo [...] dell'armonia
prestabilita, per mezzo di un artificio divino preveniente, il quale ha formato, fin da principio, ciascuna di queste
sostanze in modo sì perfetto e regolato con tanta esattezza che, seguendo unicamente le sue proprie leggi, da essa
ricevute col suo essere, ciascuna di esse si accorda perciò con l'altra proprio come se ci fosse un'influenza vicendevole».
373
630 - 2. LO SPIRITUALISMO BergsonIANO

a) L'intuizione dello spirito. Ai nostri giorni, Bergson si è proposto di rinnovare la tradizione spiritualistica
derivante da Cartesio attraverso Maine De Biran e Ravaisson.

Maine De Biran pensa che l'anima conosca intuitivamente se stessa come causa e principio dei propri atti.
Abbiamo veduto (562) che questa soluzione era, per Biran, implicita nel sentimento di sforzo con cui l'io
percepisce direttamente se stesso come opposto al non-io. Tuttavia, secondo Biran, questa intuizione fa
percepire soltanto il soggetto esistente e non la sua natura. Ravaisson (Rapport sur la philosophie française
en France au XIX siècle, Parigi, 1867), spingendosi più in là di Biran, pensa che la riflessione permetta di
afferrare intuitivamente sia l'esistenza sia la natura del principio spirituale, e quest'ultimo a sua volta si
manifesti come tendenza, cioè come forza e amore.

Dopo aver stabilito l'inconsistenza della dottrina materialistica, Bergson ha creduto di poter basare lo
spiritualismo sull'intuizione dello spirito. Esso sarebbe percepito, attraverso un approfondimento della vita
psicologica non come cosa, ma come «progresso» o «slancio». Inoltre, noi possiamo con lo stesso
movimento arrivare ad afferrare perfino il principio stesso della vita, che è divenire, slancio e dinamismo
creatore. (Évolution créatrice, Parigi, 1907, pp. 193, 258, 290 sg., cfr. tr. it., Firenze, 1951). La psicologia,
intesa così, senza cessare di essere positiva e sperimentale, diviene la disciplina metafisica per eccellenza 463.

631 - b) Natura dell'anima e del corpo. In virtù di questa intuizione e dell'analisi che ne descrive le
ricchezze, noi possiamo afferrare sia la natura del corpo e dello spirito, sia il modo della loro unione. Essa ci
impone infatti la duplice realtà del corpo e dell'anima, cioè della materia (estensione omogenea e quantità) e
dello spirito (intensità eterogenea e qualità). Ma come si spiega la loro unione?
Per comprendere la possibilità e il senso di questa unione bisogna partire dalla percezione, la quale ci offre
infatti un'immagine della materia in quanto è molteplicità unificata. Percepire vuol dire condensare periodi
immensi di un'esistenza infinitamente diluita in momenti straordinariamente intensi e riassumere in tal modo
una lunga storia: così una sensazione di rosso condensa in un istante indivisibile 400 trilioni di vibrazioni 464.
Ora, siccome la nostra percezione si trova più nelle cose che nello spirito (148), nel senso che essa coincide,
almeno in teoria, col suo oggetto e ci fa percepire gli aspetti veri della realtà, ci istruisce sulla natura della
materia. Questa deve essere indivisibile come la nostra percezione: a spezzettarla sono i bisogni dell'azione.
In se stessa la materia è continuità e indivisibilità, ossia include quella tensione interna che impedisce alla
molteplicità potenziale da cui è costituita di distendersi e di disperdersi in pluralità. Al pari della sensazione,
«essa si spiega, immobile in superficie, ma vive e vibra in profondità» (Matière et Mémoire, p. 218). La
materia si potrà dunque definire una durata diluita.
Lo spirito, si definirà invece come una tensione estrema, una condensazione di durata; pure la percezione
d'essa ci aiuta ad afferrare la natura, in quanto afferra nell'indivisibile e nell'istantaneo quella molteplicità
prodigiosa di movimenti che la materia svolge in qualche modo nel tempo. Lo spirito è quindi durata di
tensione ed istantaneità, qualità ed eterogeneità mentre la materia è orientata verso l'omogeneità e la
dispersione nello spazio e nel tempo.

632 - c) L'unione dell'anima col corpo. Queste nozioni ci permetteranno di risolvere il problema
dell'unione dell'anima col corpo; tale problema rimane misterioso solo se la distinzione viene proposta in
termini di spazio, perché pensando la materia, come essenzialmente divisibile ed ogni stato d'animo come
assolutamente inesteso, si tronca la comunicazione fra i due termini. Viceversa, se la distinzione viene intesa
in funzione del tempo, tutto appare chiaro. Da un lato, infatti, la materia che è durata diluita si avvicina allo
spirito in quanto possiede nella sua essenza l'indivisibilità reale, e lo spirito si avvicina alla materia o
all'estensione a misura che si evolve verso l'azione che divide e spezzetta il reale continuo. «Questi due
termini, percezione e materia, camminano così l'uno verso l'altro, via via che ci spogliamo sempre più di

463 Cfr. J. Chevalier, Bergson, Parigi, 1926, p. 153 sgg., 186-187. Cfr. ed. it, Brescia (Morcelliana), 1946.
464 Matière et Mémoire, p. 229: «Immaginiamo una coscienza che assistesse al susseguirsi di 400 trilioni di vibrazioni
istantanee, ma separate le une dalle altre solo dai due millesimi di secondo necessari per distinguerle. Un calcolo
semplicissimo dimostra che per compiere questa operazione ci vorrebbero più di 25.000 anni. Perciò quella sensazione
di luce rossa, da noi percepita in un secondo, corrisponde, in sé, a una successione di fenomeni che, se si svolgessero
nella nostra durata con la massima economia di tempo possibile, occuperebbero più di duecento cinquanta secoli della
nostra storia».
374
quelli che si potrebbero chiamare i pregiudizi dell'azione: la sensazione riconquista la dilatazione nello
spazio, l'estensione concreta riprende la sua continuità e la sua indivisibilità naturali». (Matière et Mémoire,
p. 245). Si può quindi pensare ormai all’unione, perché i due termini non sono assolutamente eterogenei: in
questa ipotesi, lo spirito e il corpo non sono più «come due binari che si debbano incrociare ad angolo retto»,
ma come due verghe che «disegnando una curva si riuniscono in modo che si può insensibilmente passare da
un binario all'altro» (Matière et Mémoire, p. 248).
Così si possono spiegare sia la distinzione sia la solidarietà che esiste fra l'anima e il corpo. In pari tempo,
si intende come il corpo, essendo strumento dell'anima, manifesti della vita dello spirito soltanto ciò che di
essa può essere rappresentato, ossia ciò che si riferisce all'azione sulle cose e si può esprimere in movimenti.
Perciò vi sono più cose in una coscienza che nel cervello corrispondente ed è impossibile ridurre la prima al
secondo. Non solo questa riduzione è inattuabile, ma è anche priva di senso. Perché se l'anima è solidale col
corpo, ciò avviene nello stesso senso di un vestito che è solidale col chiodo a cui è appeso: l’anima è
agganciata al cervello, ma il cervello non è il duplicato o l’equivalente dell’anima più di quanto il chiodo
non sia l’equivalente del vestito.

633 - DISCUSSIONE - Onde valutare nelle giuste proporzioni la dottrina bergsoniana, si deve prima di
tutto osservare che essa in forza della critica vigorosa e decisiva che ha fatto al materialismo psicologico ha
dato luogo ad un innegabile rifiorire dello spiritualismo. Quanto però al loro valore positivo, le concezioni di
Bergson sono più discutibili.

a) Insufficienza dell'intuizione. Innanzitutto il metodo dell'intuizione sembra procedere da ambizioni


eccessive (28-29). Abbiamo visto che l'intuizione dell'io ci permette di raggiungere solo il soggetto empirico
della vita psicologica senza informarci sulla sua natura. Noi non abbiamo nessuna intuizione dello
spirituale465, ma solo l'intuizione di una realtà complessa, psico-organica, di cui soltanto il ragionamento,
fondato sull'esperienza psicologica, può arrivare a definire la natura e i princìpi.
Ciò è ben provato, d'altronde, dalla confusione stessa che esiste nei dati di questa intuizione quale ci viene
descritta da Bergson. Tale intuizione, egli dice, ci fa afferrare la vita come slancio, come una continuità
dinamica che sembra costituire lo spirito stesso nella sua essenza. Tutto ciò tuttavia non è per l'appunto
spirito, ma solo un elemento biologico o vitale, come implicitamente ammette lo stesso Bergson quando
riduce il concetto di spirito a quello di vita. La vita profonda, di cui abbiamo l'intuizione nella nostra attività,
consiste in questo insieme di energie diverse che compongono ciò che noi abbiamo chiamato soggetto
empirico. Ci si può anche domandare se l'intuizione, di cui Bergson faceva tanto conto, non sia qualcosa di
meno dell'apprendimento del soggetto empirico della vita psichica. Infatti, l'intuizione, che ci fa divenire
identici al «ritmo interiore», alla «durata di tensione», al «puro divenire», che dovrebbe costituire l'essenza
movente dell'io e del reale, forse, in sostanza è soltanto una specie di apprendimento della cenestesia. E ciò è
evidentemente troppo poco perché ci si debba basare sopra lo spiritualismo!

b) L'unione rimane accidentale. Il paragone di cui si serve Bergson, sembra ammettere solo un'unione
accidentale estrinseca, fra l'anima e il corpo. Se l'anima è unita al corpo come la veste al chiodo che la
sostiene, non si potrà parlare di unione che in un senso estremamente improprio. Il vestito non è in realtà
unito al chiodo, ma è con esso in rapporto accidentale. Ciò d'altronde, come abbiamo già fatto notare, è poco
comprensibile. Chiodo e vestito sono infatti oggetti materiali; e quindi quale senso si deve attribuire a questo
paragone, dato che qui si tratta di materia e di spirito?

c) Il monismo del divenire. La soluzione verso cui si orienta Bergson sembra essere, in fin dei conti, quella
del monismo. Bergson ha ragione quando afferma che corpo ed anima sono due realtà distinte; ma questa
distinzione si riduce a quella di due tendenze divergenti di una medesima realtà fondamentale, la quale
costituisce l’essenza stessa del reale, cioè la durata o divenire puro. Lo spirito è durata condensata, slancio
ascendente; il corpo è durata diluita, slancio che cade, «psichismo invertito». Come si può continuare a
parlare di due realtà distinte? Sembra che il problema dell' unione si risolva con una identificazione: cioè il
corpo e l'anima finirebbero con l'essere soltanto due gradi di un'unica e medesima realtà.
Infine, tutta l'ontologia bergsoniana entra adesso in discussione. Le difficoltà della teoria dell'anima e del
corpo sono semplicemente un aspetto di quelle che comporta una dottrina appesantita, nei suoi fondamenti,
da gravi ambiguità, sulle quali ritorneremo in seguito.

465 Cfr. Dwelshauvers, L'Etude de la pensée, p. 152-176.


375
C. CONCLUSIONE.

634 - L'insufficienza delle teorie idealistiche, da Cartesio in poi, a spiegare in maniera comprensibile i
rapporti fra l'anima e il corpo si deve ascrivere soprattutto ai princìpi metafisici e critici che stanno alla base
di queste dottrine. Infatti queste teorie hanno assai più il compito di introdurre l'esperienza ideologica nei
sistemi che le caratterizzano che quello di dare un'interpretazione e una spiegazione ai dati positivi di tale
esperienza. L'esame di queste teorie parte dunque essenzialmente da considerazioni metafisiche. Il loro
fallimento tuttavia sul piano psicologico propriamente detto significa già che i princìpi da cui esse dipendono
sono in se stessi errati, perché in definitiva dare il giudizio sui sistemi tocca sempre all'esperienza: cioè, non
è questa che deve adattarsi ai sistemi, ma sono i sistemi che devono sottomettersi all'esperienza e renderla
intelligibile.
Qui invece noi vediamo che lo spiritualismo viene, in ultima analisi, compromesso da quelle stesse teorie
stimate capaci di giustificarlo.
Ciò che diceva Lachelier circa il sistema cartesiano, a cui egli attribuiva, in massima parte, la
responsabilità del trionfo del materialismo nel secolo XVIII 466, si può ripetere di tutte le dottrine idealistiche,
le quali, riducendo l'essere al pensiero e questo ai fenomeni, arrivano fino a identificare lo spirito alle cose e
attraverso tale giro vizioso portano al materialismo.

466 Lalande, Vocabulaire technique et critique de la Philosophie. t. I, p. 793.


376

CAPITOLO TERZO

ORIGINE E DESTINO DELL'ANIMA

SOMMARIO467

Art. I - ORIGINE DELL'ANIMA UMANA - Origine dell'anima - La generazione dell'anima è impossibile -


Modo della creazione dell'anima - Momento della creazione - Origine della specie umana - I dati
della paleontologia - Discussione - I limiti dell'evoluzione - La questione degli intermedi - Il punto di
vista filosofico.

Art. II - IL DESTINO DELL'ANIMA - Concetto di immortalità - Definizione e condizioni - Concezioni


errate - Prove dell'immortalità - Immortalità intrinseca - Immortalità estrinseca.

Art. I - L'origine dell'anima umana


635 - È evidente che questo problema non esiste per il materialismo, dato che l'anima, in quel sistema, è
solo un modo di essere della materia. Rimane tuttavia da spiegare l'esistenza di questo «modo di essere».
Abbiamo visto che le teorie materialistiche non vi riescono. Quella soluzione che esse non sono in grado di
fornire per mezzo della filosofia, si affaticano a domandarla al principio dell’evoluzione: l'uomo sarebbe il
termine di un lungo sviluppo che, cominciato dalla materia inorganica, sarebbe arrivato, attraverso le fasi
successive della serie animale, alla formazione della specie umana. La prima parte di questa asserzione
(autobiogenesi o generazione spontanea della vita) è stata discussa in cosmologia (II, 129-132) e noi non
dobbiamo ritornarci sopra. La questione che rimane da trattare riguarda le origini dell'uomo e si suddivide in
due parti: quella dell'origine dell'anima umana, e quella dell' origine della specie umana, ossia, in questo
caso, del corpo umano.

§ l - L'origine dell'anima

636 - In rapporto all'origine dell'anima umana, si possono fare due ipotesi: o l'anima è generata insieme col
corpo, oppure è immediatamente creata da Dio. Siccome la prima ipotesi non può essere accettata, dobbiamo
affidarci alla seconda.

A. LA GENERAZIONE DELL' ANIMA È IMPOSSIBILE

La generazione dell'anima si può concepire in due forme diverse, di cui l'una consiste nell'affermare che
l'anima viene generata insieme col corpo (traducianesimo corporeo), e l'altra che essa è generata partendo
dall'anima dei genitori (traducianesimo spirituale). Nessuna di queste due concezioni può essere accettata.

1. ESCLUSIONE DEL TRADUCIANESIMO CORPOREO - Questa teoria pone la generazione dell'anima


umana alla pari di quella dell'anima dei bruti. Però questa assimilazione non si può fare, perché l'anima dei
bruti è intrinsecamente dipendente dalla materia, mentre l'anima umana è intrinsecamente indipendente dal
corpo (610). Essa non può quindi venire trasmessa tramite il corpo.

467 Cfr. S. Tommaso, S. c. G., II, 84, - la, q. 75, a. 6 - Sertillanges, Saint Thomas d'Aquin, 2 voll. Parigi, 1916, t. II, p.
140-157. - Bergson, L'Evolution créatrice, 42a ed., Parigi, 1932. - M. Boule, Les Hommes fossiles, Parigi, 1946. -
Vialleton, Membres et ceintures des vertébrés tetrapodes; Critique morphologique du transformisme, Parigi, 1924;
L'origine des etres vivants. L'illusion transformiste, Parigi, 1929. – Ed. Le Roy, Les origines humaines et l'évolution de
l'intelligence, Parigi, 1928. - Teilhard De Chardin, Une importante découverte en paléontologie humaine: le
Sinanthropus pekinensis, «Revue des Questions scientifiques», 20 luglio 1930; Le Phénomène humain, «Revue des
Questions historiques», 20 novembre 1930. - Colin et Dalbiez, Le Transformisme, Parigi, 1927. - Goury, Origine et
évolution de l'Homme. - L. Joleaud, Eléments de Paléontologie, 2 voll., Parigi 1931. - Vayson De Pradennes, La
préhistoire, Parigi, 1938. - Arambourg, Le génèse de l'humanité, Parigi, 1944. - Weiner, L'homme préhistorique, Parigi,
1934. - Vandel, L'homme et l'évolution, Parigi, 1949.
377

2. ESCLUSIONE DEL TRADUCIANESIMO SPIRITUALE - L'anima umana non può essere generata
neppure dall'anima dei genitori. Infatti questo tipo di generazione esigerebbe che l'anima dei genitori
comunicasse una parte di sé; ma ciò è assurdo perché l'anima spirituale non è divisibile. Resta quindi l'ipotesi
che l'anima umana venga creata da Dio.

B. MODO DELLA CREAZIONE DELL'ANIMA.

637 - Quanto alla creazione dell'anima, ci possiamo domandare se l'anima venga creata immediatamente
da Dio al momento della generazione del corpo, oppure se essa preesista al corpo che deve animare. Due
ragioni principali costringono ad ammettere la creazione immediata.

1. L'INDIVIDUAZIONE - Abbiamo veduto in Cosmologia (II, 93-97) che l'individuazione e la


moltiplicazione degli esseri di una medesima specie derivano dalla materia quantificata. Per conseguenza
l'anima viene individuata, ossia diviene quella singola anima, solo in forza del corpo a cui è unita. Essa non
può quindi preesistere al corpo, perché è destinata per natura ad essere unita ad un corpo; perciò non può
esistere che in forma individuale.

2. RAPPORTO DELL'ANIMA COL CORPO - L'anima, che è fatta per essere unita ad un corpo, non può,
senza il corpo, raggiungere la perfezione della propria natura. Sappiamo infatti che l'esercizio delle sue
funzioni superiori (intelletto e volontà) esige il concorso estrinseco del corpo. Ne deriva che se l'anima
preesistesse al corpo, dovrebbe essere creata in uno stato imperfetto ciò che sembra incompatibile con la
sapienza divina.

La teoria platonica della preesistenza delle anime (429) sembra corrispondere più a un bisogno di carattere
morale che ad una esigenza di carattere metafisico. Per Platone, infatti, si tratta di spiegare l'origine del male:
mancandogli il concetto cristiano di peccato originale, egli suppone che le anime abbiano peccato in una vita
antecedente e siano state «precipitate» in un corpo per punizione della loro colpa.

C. MOMENTO DELLA CREAZIONE.

638 - 1. LE IPOTESI - In quale momento viene creata l'anima? A questo proposito sono state avanzate tre
opinioni. La prima, proposta fra gli altri da San Tommaso (cfr. Summa contra Gentiles, II, c. 88; 1a, q. 118,
a. 2), presuppone che dapprima, cioè subito dopo la concezione, esista soltanto un'anima vegetativa la quale
in seguito, quando l'organismo ha raggiunto un grado sufficiente di perfezione, viene sostituita da un'anima
sensitiva e infine, quando l'embrione è abbastanza sviluppato, da un'anima razionale che viene creata da Dio
in quel momento468.
Una seconda opinione ritiene che, nel momento della concezione, l'embrione venga informato da un'anima
sensitiva che è in pari tempo anche vegetativa (perché ogni essere di grado superiore compie anche le
funzioni del grado inferiore: (II, 126), e a questa anima sensitiva succeda, quando l'embrione è
sufficientemente evoluto, l'anima razionale.
Infine, secondo un'altra opinione, l'embrione viene immediatamente informato dall'anima spirituale fin dal
primo momento della concezione.

2. SOLUZIONE COMUNE - La terza opinione è oggi la più comune. Generalmente si ammette che fin dal
momento della concezione (attuata attraverso la congiunzione delle cellule germinali maschili e femminili)
esiste una organizzazione speciale che ha già le disposizioni prossime per l'infusione dell'anima razionale, e
per conseguenza questa viene creata senza essere stata preceduta da nessun'anima preesistente. Poiché
sebbene ogni forma sostanziale esiga le sue disposizioni speciali, risulta dal dimorfismo sessuale che queste
disposizioni non dipendono assolutamente da un tipo estrinseco469.

Questa creazione dell'anima spirituale non deve essere considerata in un senso univoco a quello che
definisce la produzione di un essere «ex nihilo sui et subjecti» (creazione nel senso assoluto della parola).
Difatti l'anima, qualunque ne sia la natura, viene prodotta da Dio in un soggetto, perché è forma del corpo, e

468 Cfr. Sertillanges. Saint Thomas d'Aquin, II, p. 152-157.


469 Cfr. Gredt, Elementa philosophiae aristotelico-thomistica, l. I, p. 422.
378
in funzione delle esigenze di questo soggetto, dato che nella sua qualità di forma del corpo, essa dipende da
questo quanto alla sua individuazione.

§ 2. Origine della specie umana

639 - Il problema dell'origine della specie umana è solo un aspetto del problema generale dell'origine della
vita e delle specie viventi, che abbiamo già studiato in Cosmologia (II, 128-157). Allora siamo arrivati a
concludere che è assolutamente impossibile, di fatto o di diritto, far derivare la vita dalla materia per
generazione spontanea, - che l'evoluzione, in base ai dati positivi di oggi, non sembra sufficiente a spiegare
la formazione delle grandi strutture della vita, infine che questa stessa formazione non si può spiegare
adeguatamente per mezzo dei fattori esterni fisico-chimici, ma esige l'intervento di fattori interni, ossia
dell'idea o forma che costituisce il vivente, con tutti i poteri di trasformazione inclusi in questa idea o forma
immanente all'essere vivente. Da questi dati positivi noi dobbiamo partire per trattare il problema delle
origini umane cioè la questione se l'uomo, in quanto specie animale, sia il termine di un'evoluzione iniziata
dalle specie non-razionali.

A. I DATI DELLA PALEONTOLOGIA.

640 - Si è tentato di ricollegare l'uomo (homo sapiens) ai primati sub-umani470 attraverso le differenti
forme fossili che segnerebbero le tappe dell'ascensione progressiva dei primati verso l'Homo sapiens. I
principali fossili rinvenuti nelle ricerche paleontologiche sono i seguenti:

1. IL PITECANTROPO - Questo fossile fu scoperto da E. Dubois nell'isola di Giava nel 1891 e 1892. Di
fatto, gli elementi fossili si riducono ad una parte di cranio, a un femore, e a due denti; questi resti erano
troppo distanti gli uni dagli altri, perché si possa affermare con certezza siano appartenuti al medesimo
individuo (Fig. 22). Diversi antropologi, specialmente Boule, lo considerano un esemplare del gibbone
gigante, che avrebbe acquistato per convergenza certe sembianze simili a quelle umane. Altri, più numerosi,
lo ritengono un ominide471 soprattutto dopo la Scoperta del Sinantropo pechinese.

641 - 2. IL SINANTROPO - Black e il P. Teilhard De Chardin hanno scoperto nel 1929 a CiuKuTien,
presso Pechino, numerosi crani fossili che hanno le medesime dimensioni di quello di Pitecantropo (da 900 a
1200 cmc.). Gli antropologi hanno dapprima pensato che il Sinantropo fosse una forma di grado superiore al
Pitecantropo. Oggi tuttavia si ammette che le due forme non differiscono sensibilmente fra loro. Perciò il
Pitecantropo o segna il caso limite umano, oppure viene respinto verso i primati sub-umani, a seconda che il
Sinantropo stesso apparirà come un esemplare umano, oppure come un esemplare di primate.

Ambedue queste ipotesi hanno oggi sostentitori. Gli uni considerano il Sinantropo un fossile decisamente
umano, sia a causa dell'insieme del cranio (quantunque la mandibola sia quasi scimpanzoide) che,
soprattutto, per la presenza di vestigia di utensili e di fuoco trovati nei giacimenti (pleistocene) di
CiuKuTien472.
Altri studiosi di antropologia oppongono invece a tale ammissione serie obiezioni. Nei giacimenti di
CiuKuTien si trovano numerose vestigia di una industria costituita da scheggie di quarzo ottenute rompendo
il nucleo fra due pietre: pochi utensili sono stati elaborati e l'industria sembra rudimentale (circostanza
spiegabile, d'altronde, con la cattiva qualità del materiale). La questione consiste nel sapere se questa
industria ed i focolari contemporanei al Sinantropo siano opera di quest'ultimo, oppure di un Homo che
sarebbe stato in pari tempo, e fabbricatore di utensili e cacciatore di Sinantropi. I crani di questi ultimi, in tal
caso, sarebbero unicamente trofei di caccia. Il fatto che in quei giacimenti non si riscontra che nessuna o

470 Linneo ha chiamato primati i viventi che occupano il grado più elevato nella scala animale. Egli poneva in questo
gruppo l'uomo, le scimmie, i lemuridi e i chirotteri (pipistrelli). Oggi si chiamano primati le proscimmie (lemuri,
chiromidi, tarsi) e le scimmie (scimmie platirrine, scimmie catarrine, antropoidi ominidi).
471 Cfr. Joleaud, Élements de Paleontologie, Parigi, 1931, t. II, p. 121: «La calotta cranica del Pitecantropo è
morfologicamente intermedia fra quella di un antropoide, come lo scimpanzé o il gibbone, e quella di un uomo arcaico,
come l'Homo di Neandertal. La sua superficie interna mostra circonvoluzioni meno semplici di quelle dei gibboni e si
può già confrontare con quella dell'uomo: tuttavia la regione frontale vi è ancora assai poco sviluppata. I denti
rassomigliano assai a quelli dell'orango. Il femore è quasi umano e denota un essere che cammina eretto».
472 Cfr. R. Vaufray, L'anthropologie, Parigi, 1913, p. HZ.
379
poche tracce di Homo non prova niente, perché il caso è normale nelle caverne quaternarie, in cui si trovano
vestigia di industria umana e ossa di animali, ma non fossili umani 473.
Nel 1909, a Mauer, presso Heidelberg, in terreni fossiliferi che sembrano essere della stessa epoca di quelli
di CiuKuTien fu trovata una mascella inferiore in mezzo a fossili di animali. Questa mascella possiede
caratteri scimmieschi e di ominide474.

642 - 3. L'AFRICANTROPO - Durante una spedizione etnologica nell'Africa orientale, Kohl-Larsen


scoprì, nel 1935, presso il lago Niarasa, in mezzo a scheletri neolitici, frammenti di due o tre crani che
sembrano poter risalire al tempo del pleistocene superiore e ai quali Weinert ha dato il nome di
Africanthropus niarasensis. La scatola cranica è, nella sua forma generale, molto vicina a quella del
Sinantropo. I denti sono di grandezza media, ma i canini sono più sviluppati di quelli dell'uomo attuale. Il
suo prognatismo è molto accentuato.
A questi fossili si può avvicinare la scatola cranica di un fanciullo di un anno e mezzo, scoperta nel 1936 a
Modjokerto (isola di Giava). La capacità cranica che gli sarebbe corrisposta in un adulto non avrebbe
superato i 1.100 cmc.
4. IL TIPO DI
NEANDERTAL - Il primo
esemplare di questo tipo fu
trovato nel 1865 a Neandertal,
presso Dusseldorf: si tratta di
una calotta cranica che rivela
un cranio molto basso e arcate
orbitarie enormi. Uno scheletro
intero fu scoperto nel 1908 da
A. J. Bouyssonie a La
Chapelle-aux-Saints (Corrèze),
quindi un altro, nel 1909, da
Hauser, nel rifugio di Moustier
(Dordogna). Altri resti sono
stati ritrovati a La Ferrassie
(Dordogna), a La Quina
(Charente), a Broken Hill
(Rodesia), Saccopastore
(presso Roma), sul Monte
Circeo, a Baitum (Siberia), ecc.

5. LA RAZZA DI CRO-
MAGNON - Questo fossile è
stato scoperto a Cro-Magnon
(Dordogna) in un terreno
maddaleniano (paleolitico
superiore). Morfologicamente
esso sembra avvicinarsi all'Homo Neandertalensis, ma la sua industria è molto più perfezionata 475.

B. DISCUSSIONE

473 Cfr. Vayson De Pradenne, La préhistoire, Parigi, 1938, p. 183-184.


474 Cfr. Joleaud, op. cit., p. 130: «La mandibola di Mauer è notevole per le sue grandi proporzioni, per le branche
montanti assai forti e la sua sinfisi, che descrive una curva sfuggente verso il basso e all'indietro. Diverse singole
particolarità ostrologiche di questa mandibola si riscontrano nel gibbone; la parte anteriore di essa lascia alla lingua uno
spazio più ampio che negli antropoidi, ma tuttavia più stretto che negli uomini attuali». (Quest'ultimo punto è stato
vivacemente contestato).
475 fr. Joleaud, I. c., p. 174: «Come caratteristica generale, la testa degli uomini del gruppo Cro-Magnon presenta un
cranio dolicocefalo ed una faccia corta; sulle arcate sopraccigliari poco prominenti si leva la fronte che viene continuata
dalla volta parieto-occipitale: l'insieme rivela uno sviluppo intellettuale assai avanzato (…). La razza di Cro-Magnon è
notevole per la grande statura (da m. 1,79 a m. 1,94), per la volta cranica appiattita, la faccia larga, il naso stretto e
lungo, il mento prominente.
380
Esistono due problemi, che vengono spesso confusi ma che devono essere ben distinti: il primo,
antropologico, che riguarda il valore e il significato dei dati positivi della paleontologia, l'altro che riguarda
l'interpretazione filosofica di questi dati. Circa il primo punto di vista, restando su un terreno strettamente
positivo, occorre fare le seguenti osservazioni:

643 - l. I LIMITI DELL'EVOLUZIONE - Secondo il parere unanime degli antropologi, nessuna delle
forme fossili finora scoperta rappresenta un antenato (o intermedio genetico) dell'uomo attuale. Gli
evoluzionisti pensano quindi che le forme fossili rappresentino semplicemente dei rami provenienti da un
medesimo ceppo, comune a queste forme e all'Homo sapiens, ma poste su un altro tronco evolutivo. Degli
antenati dell'Homo sapiens non si possiede nessun esemplare. Si constata soltanto che in una determinata
epoca (quaternario superiore) l'Homo sapiens è diffuso ovunque 476.

a) Cro-Magnon. Prima di tutto


bisogna togliere di discussione,
senza lasciar adito a nessuna
incertezza possibile, il tipo Cro-
Magnon che è certamente un
esemplare di Homo sapiens. Il fatto
che esso è dotato di certe
caratteristiche scimmiesche non
basta a fame un intermedio sub-
umano, se si tiene conto che esso
possiede sia un insieme di caratteri
morfologici propriamente umani,
sia le caratteristiche psichiche
dell'Homo sapiens.

b) Neandertal. Il tipo di
Neandertal deve essere
evidentemente posto molto al di
sotto di quello di Cro-Magnon. Da
un lato infatti, bisogna riconoscere
il carattere veramente particolare di
questo tipo, e cioè la robustezza e il carattere bestiale della faccia contrassegnata da arcate orbitarie
sporgenti, a visiera477. Dall'altro lato però, accanto a queste disposizioni scimmioidi, si devono rilevare, dal
punto di vista morfologico, due caratteristiche propriamente umane: il portamento eretto e la capacità cranica
(1.450 cmc. di media). Si è voluto ridurre, è vero, l'importanza di quest'ultima caratteristica osservando che il
valore assoluto della capacità endocranica risulta solo dalle grandi dimensioni dell'insieme del cranio, e
soprattutto che la morfologia generale dell'encefalo rivela molti caratteri scimmieschi ed una inferiorità
intellettuale indubbia.
Tuttavia il valore critico di queste osservazioni viene molto limitato dal fatto che i Neandertaliani erano
fabbricatori di utensili e sotterravano i loro morti. Sembrerebbe quindi, come ammette Boule 478, che il tipo di
Neandertal sia già un tipo umano, nonostante l'inferiorità morfologica del suo cervello e niente affatto un
preominide, e che esso rappresenti una razza arcaica che sarebbe scomparsa in seguito 479.
Per quanto riguarda la mandibola di Mauer (Homo Heidelbergensis), osserviamo che essa possiede
caratteri umani nettamente definiti (Fig. 23). I caratteri scimmieschi sono parimenti reali, ma sembrano
476 Cfr. Plattard, Les races et l'Histoire, p. 380. - Vialleton, L'origine des étres vivants, p. Z79-280.
477 Cfr. L. Vialleton, L'origine des etres vivants, p. 275-276.
478 M. Boule, Les Hommes-Fossiles, Parigi, 1924, p. 400.
479 Cfr. L. Vialleton, L'origine des étres vivants, p. 277. - Sergi, Il posto dell'uomo nella natura, che ha studiato
soprattutto il tipo neandertaliano pensa (p. 202) che «esso sia un ramo del tronco umano di origine afro-europea o
africana soltanto, che aveva tutti i caratteri umani [...] e si è spento precocemente in Europa». Tale opinione viene molto
rinforzata dalla scoperta recente (1947) nella grotta di Fontéchevade (Montdron, Charente), di una calotta cranica
appartenente ad un uomo fossile anteriore a quello di Neandertal. Sembra che ci si trovi in presenza di un esemplare di
Homo sapiens. Se l'esame dei resti esumati conformerà tale attribuzione, il fossile di Fontéchevade sarà il fossile umano
più antico finora conosciuto. In tal caso bisognerà ammettere l'esistenza dell' Homo sapiens fin dal Quaternario
superiore.
381
essere stati un po' forzati da Boule. Il suo esame è stato ripreso da Sergi ( Il posto dell'uomo nella natura,
Torino, 1929, p. 143 sgg.) il quale afferma che la mandibola di Mauer è certamente umana, ma comprende
caratteri particolari che la fanno considerare come una forma speciali diversa da quella di Neanderthal e
molto lontana dal tipo antropoide480.

644 - c) Pitecantropo. L'opinione di Boule, secondo la quale il Pitecantropo sarebbe un gibbone gigante
più evoluto degli altri da noi conosciuti e che costituirebbe la razza intermedia fra il primate sub-umano e
l'Homo sapiens è generalmente abbandonata. Boule basava la sua convinzione sulla presenza simultanea di
certi caratteri specificatori dei due estremi: cranio intermedio fra l'antropoide e l'uomo, con circonvoluzioni
che si avvicinano a quelle dell'uomo, - femore pressoché umano, - dentatura di orango, - industria molto
rudimentale, che sono indice di un'intelligenza che supera quella degli animali, ma molto al di sotto di quella
dell'uomo di Neandertal. Purtroppo i fatti non giustificano questa opinione. Da un lato infatti, è incerto se gli
elementi fossili siano appartenenti al medesimo individuo perché il femore fu trovato a 15 metri di distanza
dal cranio. Dall'altro, Dubois ha rivelato più tardi di avere scoperto, contemporaneamente ai due molari
scimmieschi, un terzo molare indiscutibilmente umano, - quindi cinque femori frammentari dai caratteri
umanoidi, - infine due crani di Homo sapiens481.
Da tutti questi elementi sembra si debba dedurre che, verso la fine del Terziario o gli inizi del Quaternario,
siano esistiti e una specie di gibbone gigante e un tipo di Homo sapiens con caratteristiche di gibbone
gigante, come pure un tipo autentico di uomo che sembra assai vicino al Sinantropo di CiuKuTien.

c) Sinantropo - Il problema del Sinantropo è lungi dall'essere chiarito. Tuttavia sembra che la sua soluzione
sia collegata a quella presentata per il Pitecantropo, e gli stessi argomenti si possono addurre a suo riguardo
onde farne l'esemplare di un antichissimo ramo umano. Da un lato infatti, la sua capacità cranica ha
caratteristiche umane (un cranio di Sinantropo, scoperto nel 1938, raggiunge 1.200 cmc.). Dall'altro, niente
proibisce di attribuire ad esso l'industria litica e la fabbricazione di utensili di legno e di osso, come pure
l'uso del fuoco attestato dai giacimenti di Ciu-Ku-Tien 482. Quanto all'Africantropo e al fanciullo di
Modjokerto, per il momento è difficile precisare la loro posizione. Si può dire soltanto che i caratteri rivelati
da questi fossili si allontanano molto dal tipo di Neandertal e sembrano formare delle varianti al gruppo
pitecantroposinantropo483.

645 - IL PROBLEMA DEGLI INTERMEDI - La sola questione che si pone non è quindi quella degli
antenati dell'uomo attuale, ma quella di sapere se sono state veramente scoperte delle forme che possono
essere considerate come intermedie fra i primati sub-umani e l'Homo sapiens. Se si arrivasse a stabilire la
reale esistenza di tali intermedi morfologici, si avrebbe ragione di pensare che la specie umana potrebbe
essere derivata essa pure per evoluzione da un ceppo animale. La questione di fatto però rimarrebbe ancora
insoluta. Bisogna però prima di tutto ben precisare il concetto di «intermedio», se si vogliono evitare le
polemiche confuse a cui ha dato luogo questo problema.

480 Sergi ha preteso soprattutto di confutare l'asserzione di Boule, seconda la quale la mandibola di Mauer non
lasciava che uno spazio molto limitato alla lingua e riduceva proporzionalmente la facoltà del linguaggio. Sergi ha
trovato la grandezza di tale spazio uguale a quella dei gruppi umani recenti. D'altra parte Dehaut, ha descritto, nel 1924
(«Compte rendu de la Société de Biologie», t. XC, p. 538), la mandibola di un negro attuale che presenta grande
rassomiglianza con quella di Mauer.
481 Cfr. Montandon, L'Homme préhistorique et les Préhumains, Parigi, 1943.
482 L'opmione di Boule che fa del Sinantropo una selvaggina da caccia di un uomo suo contemporaneo e lo considera
un minuscolo ramo antropoide, il cui sviluppo sarebbe stato bruscamente interrotto, non può essere scartata a priori. ma
non ha neppure nessun argomento che la avvalori.
483 Gli scavi fatti a Giava, nei letti del fiume Trinil, a partire dal 1936, da von Konigswald, sembra che permettano di
ridurre l'intervallo che separa il gruppo pitecantropiano dagli antropoidi. Infatti, compaiono nuovi tipi di Pitecantropo
(Meganthropus e Pithecanthropus robustus) che sembrano derivare da forme più arcaiche e più scimmiesche che quelle
del Pithecanthropus erectus (e del Sinanthropus). Scavi, fatti nel 1953 sotto la direzione di Camille Arambourg a
Ternifin-Palikao (Algeria) hanno messo in luce elementi fossili di grande interesse, cioè, fra l'altro dei resti umani
(mandibola e semi-mandibola) sotterrati circa 500.000 anni fa e circondati da utensili molto primitivi. Questi resti
umani sembrano appartenere al gruppo del pitecantropo e del sinantropo, dai quali però si differenziano per certi
particolari. Arambourg ha dato a questo uomo primitivo il nome di Atlanthropus Mauritanicus. Egli pensa che questa
scoperta confermi l'ipotesi, da lui già sostenuta, che gli ominidi, come pure tutto il gruppo dei primati, abbiano origine
africana.
382
a) Concetto di intermedio morfologico. Per definizione l'intermedio partecipa, in proporzioni variabili, dei
caratteri dei due termini estremi.
D'altronde, nel tipo intermedio si deve ritrovare, in forma abbozzata ma chiara, la presenza di un carattere
specificatore del termine superiore e, in pari tempo, in forza della legge di correlazione (I, 193), la presenza
degli altri caratteri coordinati al primo. Se si trattasse solo di caratteri accidentali, non si potrebbe più parlare
di vero e proprio intermedio. Solo per questo non si respingono verso i primati antropoidi gli individui attuali
dotati di un prognatismo accentuato o di una fronte sfuggente: infatti il loro psichismo e gli altri connotati
morfologici che li contraddistinguono assicurano ad essi sufficienti caratteri umani. Parimenti, l'inferiorità
intellettuale non può bastare a far sì che un individuo sia considerato un sub-uomo, perché una intelligenza
inferiore è ancora intelligenza, si differenzia essenzialmente dallo psichismo animale (375-377) e si
ricollega inoltre ai caratteri morfologici che sono propri della specie umana.

b) Morfologia dei primati e morfologia umana. Riassumiamo brevemente i caratteri morfologici delle
scimmie antropoidi484 e dell'uomo, allo scopo di definire in maniera concreta l'ipotetico «tipo intermedio».

Morfologicamente, l'angolo facciale della scimmia non supera i 35 gradi; il peso del cervello del gorilla è
fra i 400 e i 500 gr., il volume cranico dello scimpanzé è di 421 cmc., quello del gorilla di 531 cmc., le
scimmie antropomorfe hanno uno scheletro di carattere nettamente quadrupede. Psicologicamente abbiamo
visto che le grandi scimmie subiscono il determinismo delle immagini e dell'istinto.
Morfologicamente l'uomo è un mammifero verticale. Il suo tronco è disposto in modo che il punto di
appoggio della testa sulla colonna cervicale sia sull'asse verticale. L'angolo facciale dell'uomo varia fra i 70 e
i 90 gradi; il peso del cervello non è mai inferiore a 1.000 gr.; il volume cranico varia fra i 1.200 e i 1.600
cmc. Psicologicamente, l'Homo sapiens, rappresenta, anche nei «primitivi» un caso che è senza analogie
nella specie animale: la ragione, o facoltà di pensare per mezzo di idee generali, si manifesta in lui
empiricamente con la fabbricazione degli utensili (Homo faber).

c) L'Australopiteco e il Plesiantropo. I casi più importanti che siano stati finora proposti come
corrispondenti alla nozione di intermedio morfologico sono quelli dell'Australopiteco e del Plesiantropo
transwaalense. Il paleontologo Dart scoprì, nel 1924, nel Bechuanaland una parte di cranio, come pure un
calco endocranico naturale appartenente ad un fanciullo di cinque o sei anni. Dapprima questi elementi
furono considerati come resti di una scimmia antropoide che presentava qualche caratteristica umana 485. Di
qui il nome di Australopiteco africano con cui fu chiamato. Successivamente, fra il 1936 e il 1938, Broom
scoprì in una grotta di Sterkfontein, presso Pretoria, diversi frammenti (cranio di adulto, denti isolati,
frammenti di mascellare destro, ecc). che egli attribuì ad una razza distinta da quella dei, resti precedenti e
che fu chiamato Plesianthropus transwaalensis. Questi fossili sembrano risalire all'inizio del Quaternario 486.
Nel 1957, i paleontologi Robinson, Brain e Mason hanno scoperto, di nuovo a Sterkfontein, i resti d'un
individuo che camminava eretto e aveva un cervello più voluminoso di quello dell'Australopiteco (detto
«uomoscimmia»). Questa scoperta (che sembra confermi quella di Broom) dimostrerebbe che l'uomo
primitivo si differenzia da quest'ultimo, che si era voluto considerare come il diretto antenato dell'umanità e
ch'esso giunse in quella regione verso la fine dell'epoca dell'«uomoscimmia» arrecandovi una cultura
relativamente progredita e tale da superare comunque, di gran lunga, le possibilità dell'Australopiteco.

3. L'IPOTESI TRASFORMISTICA - È stato supposto che questi fossili, chiamati di solito, con termine
equivoco, parantropiani, possano costituire gli intermedi morfologici (che fino ad allora mancavano) fra gli
ominidi e i primati terziari487. Sta di fatto però che non si trova nessuna ragione decisiva per collegare i
«parantropiani» con gli ominidi anziché con gli antropoidi.
Tuttavia è necessario che si comprendano bene i motivi per cui il trasformismo acquista una certa
attendibilità. L'argomento principale consiste, a questo proposito, nel fatto che le leggi fondamentali della
paleontologia (II, 153) sembrano verificarsi nei primati come negli altri ordini del mondo animale, perché,

484 A. Urbain e P. Rhode, Les singes anthropoides, Parigi, 1946.


485 Capacità cranica di circa 500 cmc., che corrisponderebbe in un adulto maschio ad una capacità fra i 600 e i 700
cmc. (uguale a quella del gorilla, il più grande degli antropoidi attuali, ma assai superiore a quella dello scimpanzé, che
è al massimo di 450 cmc). L'insieme della dentatura, come pure la struttura particolare dei denti, denota invece un
predominio dei caratteri umani, uniti ad altri caratteri antropoidi.
486 Cfr. F. M. Bergougnioux e A. Glory, Les premiers hommes, Parigi, 1943, p. 100.
487 Cfr. Montandon, L'Homme Préhistorique et les Préhumains, Parigi, 1943.
383
fin dall'apparizione dei primi rappresentanti del gruppo, si constata, sembra, l'azione di una tendenza tipica a
quella che si può chiamare la «cerebralizzazione», ossia l'aumento del volume del cranio e - certamente per
semplice conseguenza - la riduzione della faccia, la comparsa di una dentatura onnivora e la diminuizione dei
mezzi protettivi. Sotto tale aspetto, l'uomo appare come il termine naturale di un movimento orientato verso
la specializzazione cerebrale (che è la caratteristica essenziale della specie umana) in correlazione con
l'aumentare delle risorse intellettuali e con la riduzione dei mezzi di difesa.

646 - 4. CONCLUSIONE - Da quanto precede, risulta chiaro che bisogna distinguere due elementi: le
prove di fatto, relative all'origine dell'uomo, e le prove generali dell'ipotesi trasformistica.
Circa il primo punto, nessun fatto permette fino ad oggi di fornire il minimo abbozzo del phylum evolutivo
dell'uomo. I fossili che sono stati ritrovati appartengono infatti sia ad antropoidi, sia a rappresentanti del
gruppo ominide, a livelli più o meno elevati di civiltà e di cultura, ma morfologicamente e psicologicamente
simili, - simili, diciamo, ma non identici - agli uomini d'oggi, nonostante i caratteri scimmioidi, che
d'altronde si trovano anche nei rappresentanti attuali della specie umana.
Tuttavia, questo argomento negativo, dedotto dall'incapacità in cui ci troviamo di dimostrare il ramo
fìletico dell'uomo, ha scarso valore dal punto di vista del mutazionismo, ossia nell'ipotesi, generalmente
ammessa, per la quale i cambiamenti organici importanti si producono per variazioni a scatti successivi. Non
si può quindi escludere, in maniera semplice e definitiva, l'idea di una evoluzione. Anzi si deve dire che
quest'ultima balza evidente dal confronto dei fossili, i quali, dal Pitecantropo, all'Africantropo ed ai
Neandertaliani, segnano le tappe successive di uno sviluppo che ha profondamente modificato la struttura
anatomica dell'uomo. Questa evoluzione tuttavia si è svolta entro i limiti del tipo ominide. Se sembra
opportuno conservare a questo gruppo una autonomia relativa (stadio antropiano), i suoi rappresentanti
devono essere considerati ominidi primitivi e non, come si è preteso, una specie di ramo scimmiesco
abortito. Questa affermazione vale ancor più per il tipo di Neandertal, che sembra essere il ceppo da cui si
sono a poco a poco differenziate le razze di Homo sapiens che compaiono fin dal periodo aurignaziano
(paleolitico superiore).
Si può, partendo da questi dati, in qualche modo azzardare un'illazione e supporre che la schiatta umana si
ricongiunga in basso, in forza dell'evoluzione, ad un ceppo comune ad ipotetici «ominidi» e ai primati
antropomorfi488? Bisogna realmente, ammettere che per arrivare a tanto mancano i documenti decisivi. Ma in
favore dell'ipotesi trasformistica rimane, da un lato, il movimento evolutivo che si constata nel gruppo dei
primati, e, dall'altro, il fatto indiscusso di un'evoluzione continua della stirpe umana verso il tipo di Homo
sapiens. - dato che l'evoluzione porta ad ammettere che il corpo del l'uomo proviene da antenati che
possedevano un certo numero di caratteri scimmieschi. Finora, il trasformismo prende forza più da queste
visioni sistematiche generali, che non dai fatti con cui si è cercato di confermarle.

647 - 5. IL PUNTO DI VISTA FILOSOFICO - In ogni modo, il punto di vista filosofico è indipendente da
quello positivo. Infatti, anche supponendo che l'antropologia fosse in grado di stabilire l'esistenza reale delle
forme intermedie fra gli antropoidi e l'Homo sapiens, da ciò non ne deriva affatto che l'uomo sia solo un
animale più sviluppato degli altri. Infatti fra l'animale e l'uomo esiste un fossato invalicabile, una rottura
radicale. Se l'evoluzione ci fosse stata davvero, si sarebbe quindi limitata alla preparazione del corpo umano,
il quale non è divenuto effettivamente corpo umano che attraverso la creazione dell'anima umana fatta da
Dio. Anche in tal caso bisognerebbe dunque parlare di una creazione immediata, da parte di Dio, del corpo e
dell'anima del primo uomo. Propriamente parlando l'uomo è dunque veramente senza antenati.

Art. II - Il destino dell'anima umana


648 - L'unione dell'anima col corpo non è indissolubile: viene infatti il giorno in cui essa si rompe.
Sappiamo ciò che diviene il corpo, ma che accade dell'anima? Moriamo interamente? Tutto ciò che sappiamo
della natura dell'anima umana, che è forma spirituale intrinsecamente indipendente dal corpo, ci induce ad
ammettere che l'anima è immortale. Prima di esporre le prove di questa affermazione, è però necessario
chiarire bene ciò che si deve intendere per immortalità.

§ 1. Concetto di immortalità

488 In ogni modo viene ammesso da tutti che è impossibile considerare gli antropomorfi come gli ascendenti diretti
dell'uomo. Secondo l'ipotesi evoluzionistica, le rassomiglianze esistenti fra i due gruppi si spiegano come gli effetti di
una evoluzione parallela di due rami di un tronco comune, ma separati fin da tempi remotissimi.
384

1. DEFINIZIONE E CONDIZIONI - L'immortalità naturale è quella proprietà in forza della quale un


essere non può morire. Tale è l'immortalità dell'anima umana, che si chiama naturale, in quanto deriva dalla
natura stessa dell'anima. L'immortalità naturale implica tre condizioni, cioè, che l'anima continui ad esistere
dopo la distruzione del composto umano, - che, in questa sopravvivenza, l’anima conservi la propria
individualità e per conseguenza rimanga cosciente di se stessa e della propria identità, - che la sopravvivenza
sia illimitata.

649 - 2. CONCEZIONI ERRATE DELL'IMMORTALITÀ

a) L'immortalità panteistica. Noi dovremo esaminare criticamente il panteismo in teologia naturale. Qui ci
basterà osservare che questa dottrina asserisce che l'anima umana (o il pensiero o lo spirito) forma una sola
identica sostanza con Dio, di cui sarebbe una emanazione o una manifestazione transeunte. Dopo la morte,
l'anima andrebbe a riunirsi al Tutto, in cui essa non possederebbe più né l'individualità, né la coscienza di se
stessa. Solo abusivamente tale dottrina continua a parlare di immortalità dell'anima, perché l'immortalità
esclude assolutamente l'annientamento della personalità. L'immortalità, per essere vera, esige una
sopravvivenza individuale e sostanziale, così da poter conservare il nostro potere di conoscere e di amare, la
coscienza di noi stessi e della nostra identità personale.

b) Spiritismo e metempsicosi. Lo spiritismo si è presentato come la scienza delle relazioni con gli spiriti
disincarnati, che si presume di poter attuare cori l'interposizione di individui detti medium. Ne deriverebbe il
fatto che l'immortalità dell'anima sarebbe da considerare dimostrata sperimentalmente. Sennonché tale
scienza è frutto di fantasia: nessuno dei fatti addotti dagli spiritisti o dai metapsichici si è mai potuto stabilire
in modo serio. Quanto alla teoria della metempsicosi, la quale suppone che l'anima umana si reincarni
successivamente in molti corpi umani, essa è semplicemente gratuita e ancor più incomprensibile. Infatti, in
questa ipotesi, si dovrebbe immaginare che l'anima riceva molteplici individuazioni, e quindi che divenga
ogni volta un'anima numericamente diversa dalle precedenti.

§ 2. Prove dell'immortalità dell'anima.

650 - Dobbiamo dimostrare che l'anima umana è immortale di diritto e di fatto. Tale divisione degli
argomenti è resa necessaria dal fatto che se anche l'anima è immortale per natura, ossia per diritto, rimane
ancora da dimostrare il fatto che nessuna potenza esterna la può annientare.

A. L'IMMORTALITÀ INTRINSECA.

L'anima è intrinsecamente immortale, ossia è, per natura, incorruttibile ed immortale. Ciò si può dimostrare
con tre argomenti principali:

l. PROVA METAFISICA - Questa prova si basa sulla semplicità dell'anima. Una sostanza può perire in due
modi: direttamente (per se) oppure indirettamente (per accidens). Una sostanza scompare direttamente,
quando viene separata dal principio da cui trae l'essere, la vita e le sue funzioni: così il corpo, separato
dall'anima, che ne è il principio vitale, si decompone e si risolve nei suoi elementi. Una sostanza perisce
indirettamente o per accidens, quando viene privata del soggetto senza del quale non può esercitare le sue
funzioni vitali: è il caso dell'anima delle bestie, nelle quali tutte le funzioni sono organiche e non possono per
conseguenza esercitarsi senza il corpo.
Però l'anima umana non può perire né direttamente, perché è una sostanza semplice e quindi incapace di
decomporsi; né indirettamente, perché non ha intrinsecamente bisogno del corpo e dei suoi organi per
esercitare le proprie funzioni di conoscenza e di volontà. L'anima dell'uomo è quindi, per sua stessa natura,
incorruttibile ed immortale.
Bergson, dopo di aver dimostrato che «il pensiero è in gran parte indipendente dal cervello» ( Énergie
spirituelle, pp. 45-46) e che «tutto avviene come se il corpo fosse soltanto adoperato dallo spirito» conclude
che «perciò non abbiamo nessuna ragione per supporre che il corpo e lo spirito siano legati inseparabilmente
l'uno a l'altro». (Ibidem, p. 61. Cfr. Matiere et Mémoire, pp. 150 e 195). In tal modo si stabilisce, aggiunge
Bergson, soltanto la verosimiglianza della sopravvivenza dell'anima, ed è compito di altre discipline (cioè,
senza dubbio, della religione) dire se il tempo della sopravvivenza dell'anima sia limitato o no. Tuttavia
questo risultato, anche se è forse modesto, per il fatto stesso che risulta dall'esperienza, è più prezioso che gli
385
argomenti della «metafisica tradizionale», «dedotti dall'essenza ipotetica del corpo e dell'anima», che sono
per lo più molto fragili. (Énergie spirituelle, p. 62). In questo modo di ragionare vi è, crediamo, un grave
equivoco. In primo luogo, l'argomento bergsoniano circa la sopravvivenza dell'anima non è di esperienza, ma
è un vero argomento metafisico, perché consiste nel dedurre (molto giustamente, d'altronde) l'immortalità
dell'anima dalla sua spiritualità, la quale è stata definita dalla metafisica, tradizionale o no (608-610) con la
stessa efficacia dimostrata da Bergson, come l'indipendenza intrinseca dell' anima dal corpo. D'altra parte,
quando Bergson afferma in seguito che gli argomenti metafisici sono per lo più fragili, non solo trascura il
fatto che questi argomenti si basano, proprio come il suo, sull'esperienza psicologica, ma egli fa un torto alla
propria argomentazione la quale propone, in modo molto logico, una conclusione che sorpassa l'esperienza
immediata. Infatti, col suo gettare un sospetto di principio su ogni argomentazione razionale, egli si espone a
sentirsi contestare perfino la modesta affermazione di sopravvivenza che pretende d'aver raggiunta.

651 - 2. LA PROVA PSICOLOGICA - Questa prova è basata sulle tendenze essenziali della nostra natura.
Sta di fatto che noi aspiriamo a conoscere la verità assoluta e a possedere il bene supremo e la bontà perfetta,
cioè a godere di oggetti che trascendono lo spazio e il tempo. Ciò è tanto vero che noi non siamo mai sazi di
verità e felicità; quanto più avanziamo nella conoscenza del vero, nella pratica e nell'amore del bene, tanto
più si accresce il nostro desiderio, il quale sembra non possa essere soddisfatto che dalla Verità, dalla Bontà e
dalla Bellezza perfette, cioè da Dio. Quello è invero il nostro fine, come ci manifestano le nostre più
profonde e tenaci tendenze, le quali dimostrano quindi come l'anima sorpassi ogni tempo particolare e finito
e sia realmente immortale per natura.
L'argomento psicologico si può basare direttamente sull' aspirazione all'immortalità. Questa aspirazione è
così spontanea, irresistibile, universale (anche quando resta implicita), che sarebbe difficile scoprirvi soltanto
uno slancio affettivo, privo di valore ontologico. Essa sembra invece tradurre, per così dire, il senso che la
vita ha di se stessa, ed avere perciò una infallibilità che, per la sua origine e la sua natura, supera le certezze
derivate dalle più rigorose cognizioni scientifiche.
Contro di ciò è stato obiettato che l'aspirazione dell'immortalità è soltanto la forma del desiderio di
perpetuarsi che la specie prova, in ogni uomo. Questa obiezione sembra però in sé contraddittoria: perché se
è la specie ad aspirare a perpetuarsi (ed essa vi aspira veramente), questo anelito e questo bisogno vengono
saziati dalla procreazione. L'individuo, in quanto singolo, non ha nessuna ragione di desiderare e pretendere
una perpetuità che sia propria della specie. Addirittura, l'aspirazione all'immortalità è, in tal caso,
assolutamente incomprensibile (e di fatto, essa non può esistere nell'animale). Ma appunto, se l'uomo, come
persona individua, aspira ad un'immortalità che gli conservi la propria identità e la propria coscienza
personali, in ciò sta la prova più chiara che egli non si riduce ad un semplice individuo trasmettitore della
specie, ma che ha un destino personale sopravanzante l'intera specie. D'altronde, come si potrebbe concepire
che la «natura» produca delle persone (cioè degli esseri ragionevoli, coscienti e liberi) ed ispiri loro il
desiderio profondo di perpetuarsi come persone, unicamente allo scopo di annientarle? (Infatti sostituire
l'immortalità della specie all'immortalità individuale equivale ad eliminare l'immortalità).
Ma la stessa pretesa di riservare l'immortalità alla specie è quanto mai significativa, perché dimostra, nel
modo più evidente che, quando si tratta dell'uomo, è assurdo il sentimento di considerare la morte come un
fenomeno definitivamente conclusivo senza che abbia qualsiasi altro significato. La morte è quindi una
specie di scandalo, anzi uno scandalo così profondo, che sembra impossibile pensarla come termine 489, cioè
introdurla nella serie degli avvenimenti della mia vita, come il loro ultimo compimento. Esiste dunque una
vera esigenza di immortalità di cui lo scandalo della morte è solo l'aspetto negativo, come pure (perché se
l'immortalità della specie fosse in grado di soddisfare le nostre aspirazioni, dovrebbe escludere negli
individui ogni scandalo ed ogni spavento della morte) una esigenza di immortalità personale, la quale ha
senso, solo se manifesta una struttura ontologica della realtà umana 490.

652 - 3. PROVA MORALE - Questa prova è stata presentata in diverse forme che hanno un valore
disuguale.

a) Le esigenze della giustizia. La giustizia esige che il bene e il male ricevano le sanzioni che sono loro
dovute, cioè la ricompensa o la punizione. Quaggiù, le sanzioni del bene e del male sono chiaramente
insufficienti: spesso anzi è il male quello che trionfa e la virtù che è umiliata. Siccome però la giustizia vuole

489 Cfr. la discussione di J.- P. Sartre (L'Etre et le Néant, pp. 618-630), a proposito della teoria di Heidegger, come
pure R. Jolivet, Le problème de la mort chez Heidegger et J.- P. Sartre, Parigi, 1950.
490 Cfr. P. Lamy, Le problème de la destinée, Parigi, pp. 40-50 e 139-141.
386
che ciascuno sia trattato secondo le proprie opere, ciò può verificarsi solo a condizione che l'anima sia
immortale.
Nonostante il favore che gode, questo argomento, così presentato, si manifesta debole. Infatti, non si vede
come la giustizia possa esigere altro che una certa sopravvivenza dell'anima onde sia ristabilito l'ordine che
la vita terrena non ha potuto attuare. L'immortalità, sotto tale aspetto, sembra costituire un'esigenza che è
impossibile giustificare. D'altronde, come credere che si possa basare un argomento solido su una base
fragile qual è l'apprezzamento dei nostri meriti e la stima della felicità che è ad essi dovuta ? In ciò vi è una
pretesa che sembra inspirarsi proprio ad un materialismo camuffato, perché si può affermare che la virtù
viene quaggiù derisa e il male trionfa, soltanto riferendosi a criteri puramente materiali (ricchezze, onore,
potere ecc.), come se la felicità autentica trovasse il suo. coronamento nel possesso di questi beni. Infine,
sembra che questo argomento, lungi dal dimostrare l'immortalità dell'anima, desuma invece da essa, certa
in virtù di altre ragioni, la forza di cui si avvale. Supponiamo infatti che la vita futura ci sia garantita solo a
condizione che essa abbracci ancora tutte le ingiustizie che, a nostro dire, ci fanno ribellare nella vita
presente: in tal caso non vi sarebbe forse alcun cambiamento nella nostra profonda aspirazione a
sopravvivere?

b) Prova per mezzo delle esigenze della perfezione. Platone ha esposto nel Fedone (107-108) la prova
morale dell'immortalità dell'anima basata sulle esigenze della giustizia, ma egli pretende piuttosto di esigere
da quell'argomento una dimostrazione dell'immortalità personale, dato che l'immortalità in genere era stata
stabilita per altra via.
Kant invece ha dimostrato che la condizione suprema del sommo bene è la virtù, ossia «la conformità
completa delle intenzioni alla legge morale». Siccome tale perfezione tuttavia non può essere ottenuta
nell'esistenza terrena, dobbiamo quindi ammettere (o postulare) per l'uomo la possibilità di un
perfezionamento senza fine che lo avvicini sempre più all'ideale della santità. Però questo progresso
indefinito è in sé possibile solo a condizione di supporre che l'essere ragionevole continui ad esistere, in
modo personale, nell'infinità di una durata che solo Dio può abbracciare. (Critica della ragione pratica, trad.
it., Bari, 1909). Sembra difficile accordare questo argomento di Kant con la concezione kantiana della buona
volontà la quale è o non è (perché consiste in qualcosa di indivisibile e per conseguenza non può ammettere
un «progresso indefinito»). Inoltre, l'ipotesi di un progresso indefinito fin oltre la vita terrena è arbitrario.
Infine, ciò che questo argomento ha di valido sembra scaturire piuttosto dalla prova psicologica,
sottolineando quell'ideale di perfezione morale che è in noi contrassegno ed effetto di una grandezza che
trascende lo spazio e il tempo.

c) Il valore assoluto dell'ordine morale. La prova morale può essere infine presentata nella forma seguente.
La coscienza impone il rispetto assoluto dei valori morali ed afferma quindi che non può essere
assolutamente indifferente l'essere stati buoni o l'essere stati cattivi. Da ciò deriva che la moralità esige
l'immortalità perché ogni essere-morale è necessariamente immortale. Infatti, supponendo che gli esseri
sottoposti alla legge morale vadano a finire nel niente finale, diverrebbe indifferente essere stati buoni o
cattivi; il bene e il male diverrebbero equivalenti, o comunque non avrebbero che un valore temporaneo,
relativo e accidentale, ciò che è contrario alle esigenze morali della coscienza. Così presentata, la prova
morale sfugge senza dubbio alle obiezioni che si possono fare alle forme precedenti. Ma, come per
l'argomento psicologico, è necessario supporre stabilito in altro modo che le esigenze della coscienza morale
abbiano un valore assoluto e scaturiscano dalla struttura ontologica dell'essere-morale.

4. - IMPORTANZA DEGLI ARGOMENTI - L'argomento metafisico è dunque quello che appare più
decisivo onde provare l'immortalità dell'anima. La prova psicologica e quella morale vi si aggiungono a mo'
di complemento, ma hanno in se stesse valore soltanto per gli elementi metafisici che vi sono implicati.
Infatti, sia l'una che l'altra, confermano la spiritualità dell'anima e stabiliscono per di più che la sola
immortalità personale corrisponde alle esigenze assolute di un essere cosciente di sé come persona
intelligente e libera e quindi sottoposta alla legge del dovere; perché la persona umana non potrebbe
scomparire, al momento della morte, né dopo una sopravvivenza più o meno lunga, in un Tutto anonimo,
senza essere frustrata nelle sue più profonde aspirazioni che scaturiscono dalla sua stessa natura, e senza che
l'ordine morale perda improvvisamente ogni significato e valore 491.

491 Cfr. S. Tommaso, I.a, q. 75, a. 6: «Intellectus apprehendit esse absolute et secundum omne tempus. Unde omne
habens intellectum naturaliter desiderat esse semper. Naturale autem desiderium non potest esse inane. Omnis igitur
intellectualis substantia est incorruptibilis». Cfr. ancora: S. c. G. II, 79 - 81; Quodlibet, X, a. 6; Quaestio de anima, a. 14
- e, in un altro senso, F. Alquier, Le désir d'éternité, Parigi, 1947. - Cfr. Max Scheler, Mort et survie, Parigi, 1952. (Cfr.
387

B. L'IMMORTALITÀ ESTRINSECA

653 - L'anima è dunque immortale di diritto. Ma è tale anche di fatto? Perché ciò sia acquisito, è
necessario che nessuna forza estrinseca all'anima venga ad annientarla. È evidente che può annientare solo
colui che crea: solo Dio, quindi, potrebbe rigettare l'anima nel niente. Ma la ragione ci dimostra che egli non
lo farà perché ha dato all'anima una natura immortale solo allo scopo di assicurarle, di fatto, l’immortalità.
Lo esigono la sua sapienza e la sua bontà.
Infatti, la sapienza del Creatore esige che egli non distrugga la sua opera: l'architetto non costruisce per
demolire, e Dio non ha dato all'anima una natura incorruttibile per poi rigettarla nel niente. La bontà di Dio
esige che l'anima goda di quell'immortalità, senza la quale le sue più ardenti e profonde aspirazioni
rimarrebbero insoddisfatte. Se fosse frustrata nelle sue tendenze essenziali, l'anima umana subirebbe una
sorte peggiore di quella degli animali, i quali per lo meno raggiungono il loro scopo, e sarebbe votata alla
disperazione. Ciò sarebbe indegno della bontà divina. Perciò, sia di diritto che di fatto, l'anima è immortale
di un'immortalità personale e senza fine.
L'argomento che prova l'immortalità estrinseca dell'anima conserva tutto il suo valore anche senza ricorrere
all'idea di Dio. Tale idea, che verrà precisata in teologia naturale, viene qui anticipata senza nessun
inconveniente logico. Infatti, anche facendo astrazione dell'idea di Dio, si può affermare che l'anima, essendo
immortale per natura o per diritto, non potrebbe essere annientata che da una causa estrinseca. Ma l'ipotesi
di una causa estrinseca che sia in grado di annientare l'anima è assurda, perché nessuna causa (ad eccezione
della Causa creatrice, da cui facciamo astrazione) ha il potere di annientare, nel senso rigoroso della parola,
ma solo quello di trasformare per dissociazione ciò che è composto di parti. Ora sta di fatto che l'anima,
essendo semplice, sfugge completamente ad ogni processo di dissociazione e, per conseguenza, il suo
annientamento è realmente inconcepibile492.

Gesammelte Werke, Berna, 1955 sgg.).


492 Cfr. M. Blondel, La Pensée, Parigi, 1934, t. II, p. 245: «Riflettiamo a ciò che è reso necessario da questa coscienza
della morte e da quella specie di venerazione per ciò stesso che sembrerebbe distruggere tutti i timori, tutte le
differenze, tutti i riguardi. Se non avessimo un senso metafisico per porre, dietro a tutti i fenomeni, che si succedono e
scompaiono, una realtà permanente, non saremmo in grado di concepire né una sopravvivenza e neppure (affermazione
più paradossale ma ugualmente certa) una morte, nel senso che diamo a questa parola. L'idea di morte non è possibile,
non è reale che per la certezza che abbiamo dell'immortalità... Solo per il fatto che l'uomo si conosce e, per conoscersi
ha bisogno di affermare la verità dei princìpi atemporali e di Dio stesso, sembra sfuggire con la sua natura ragionevole
alla legge biologica del deperimento e della morte».
388

INDICE ANALITICO
Introduzione pag. 5

CAP . I - OGGETTO E METODO DELLA PSICOLOGIA. pag. 6

Art. I - OGGETTO DELLA PSICOLOGIA. Psicologia sperimentale e psicologia razionale -


Definizioni - La psicologia sperimentale - Psicologia e filosofia - Oggetto della psicologia -
Posizione del problema - Definizione dello psichico. pag. 14

Art. II - METODO DELLA PSICOLOGIA. Princìpi del metodo - Metodo soggettivo e metodo
oggettivo - I processi introspettivi - Notazione dei fatti - Questionari e tests - Metodo
d'interrogazione I procedimenti oggettivi - Metodi comparativi - La psicologia animale - Metodi
di laboratorio - Le leggi psicologiche - Il determinismo psicologico - Le grandi leggi funzionali -
Valore delle leggi psicologiche - L'ipotesi pag. 31

Art. III - DIVISIONE DELLA PSICOLOGIA

CAP. II - LE CONDIZIONI FISIOLOGICHE GENERALI DELLA VITA PSICOLOGICA pag. 33

Art. I - IL TESSUTO NERVOSO. Morfologia nervosa - Gli elementi Legamento dei neuroni -
Proprietà dei neuroni e delle fibre nervose - Conduttività - Metabolismo - Eccitabilità - Il
riflesso - Nozione - Riflessi assoluti e riflessi acquisiti - Il determinismo La sinergia vitale pag. 33

Art. II - IL SISTEMA NERVOSO. Percorso della sensibilità - Percorso di partenza e di


conduzione - Il problema delle localizzazioni Sistema frenologico di GALL - Sistema di
BROCA e di CHARCOT Stato attuale delle ricerche - La telecenfalizzazione - Struttura e
funzione - Le localizzazioni delle funzioni superiori pag. 38

CAP. III - L'ABITUDINE pag. 43

Art. I - NOZIONE. Definizione - La vita e il sistema nervoso Natura - Abitudine e inerzia -


Abitudine e assuefazione Abitudine e dinamismo - Funzione e effetti pag. 43

Art. II - FORMAZIONE DELLE ABITUDINI. Condizioni di formazione Condizioni


biologiche - Condizioni fisiologiche - Prove ed errori - L'apprendimento - Il metodo -
Condizioni della cessazione d'abitudine - L'astensione - La sostituzione. pag. 47

LIBRO PRIMO - LA VITA SENSIBILE

PARTE PRIMA - LA CONOSCENZA SENSIBILE

CAP . I - LE CONDIZIONI SENSORIALI DELLA PERCEZIONE pag. 53

Art. I - NOZIONE DELLA SENSAZIONE. Le sensazioni non sono elementi - Definizione -


Processo della sensazione pag. 54

Art. II - FISIOLOGIA DELLA SENSAZIONE. L'eccitazione - Natura dello stimolo - Natura


dell'eccitazione - Nozione della soglia La questione della soglia - Soglia primitiva e
differenziale Legge della soglia - Problema della misura delle sensazioni Forma del problema -
Discussione - Legge psico-fìsiologica di Fechner - L'impressione organica - Teoria di Muller -
Discussione - Sede della sensazione - Il problema - Tropismi, riflessi, cervello pag. 55

Art. III - PSICOLOGIA DELLA SENSAZIONE. L'atto di sentire - La sensazione come


intuizione - Durata della sensazione - Misura - I vari tempi - Le qualità sensitive - L'atomismo
associazionistico - Semplicità e complessità delle sensazioni - Relatività delle sensazioni pag. 62
389
Art. IV - LE DIVERSE SENSAZIONI. Princìpi di distinzione - Sensi esterni e interni - I gruppi
di sensibili - I vari sensi - Il gusto L'odorato - L'udito - La vita - Il tatto. pag. 65

Art. V - I SENSIBILI COMUNI. Nozioni generali - I tre sensibili comuni - Esperienze, nozioni,
teorie - Lo spazio - I tre spazi La durata - Durata viscerale e sensorio-motrice - Durata e tempo
- Il movimento - Movimenti oggettivi e soggettivi Nozione del movimento - Sensazione e
percezione - I complessi sensibili - Elementi e condizioni pag. 72

Art. VI - FILOSOFIA DELLA SENSAZIONE. L'atto di conoscenza - La nozione di conoscenza


- La sensazione come conoscenza L'impressione rappresentativa - L'intuizione sensibile pag. 78

CAP. II - LA PERCEZIONE pag. 82

Art. I - PROBLEMATICA DELLA PERCEZIONE. Uno pseudo-problema I postulati genetistici


- Il primato del tutto - Il processo percettivo - Il punto di vista funzionale pag. 82

Art. II - LE LEGGI DELLA PERCEZIONE. Senso generale delle leggi della percezione - Le
leggi - Legge di massima economia - Legge del carattere definito della percezione - Legge di
costanza relativa - Legge dell'unificazione funzionale - Conclusioni pag. 87

Art. III - ESTERIORITÀ E LOCALIZZAZIONE DEGLI OGGETTI. Il passaggio dall'oggettivo


al soggettivo - Le teorie genetistiche - L'inferenza - L'allucinazione vera - Teoria monistica di
Bergson L'esteriorità naturale pag. 89

Art. IV - LE FORME DELLA PERCEZIONE. Gli errori dei sensi - La tesi scettica -
L'infallibilità del senso - Il punto di vista sperimentale - I fatti - Interpretazione dei fatti - Le
illusioni dei sensi - Illusioni normali - Interpretazione - Illusioni anormali Le allucinazioni - I
fenomeni di allucinazione - Natura della allucinazione - Le teorie - Allucinazione e percezione -
Le paramnesie - I fatti di falso riconoscimento - L'illusione del già vissuto - Teoria
dell'immagine allucinatoria - Teoria patologica - Teoria della non attenzione alla vita. pag. 91

CAP. III - L'IMMAGINAZIONE pag. 102

Art. I - NATURA DELLE IMMAGINI. Le specie d'immagini - Le sorgenti delle immagini -


Problema delle immagini affettice - Tesi affermativa - Tesi negativa - Natura psicologica
dell'immagine - Somiglianza delle senzasioni e delle immagini - La distinzione delle immagini e
delle percezioni - Può esserci confusione tra immagine e percezione? pag. 103

Art. II - FISSAZIONE E CONSERVAZIONE DELLE IMMAGINI. Fissazione delle immagini -


Difficoltà della questione - Condizioni - Condizioni generali dell'immaginazione - Natura e
senso del problema - Condizioni fisiologiche della formazione delle immagini - Condizioni
fisiologiche della conservazione - Immagini e immaginazione - L'immaginazione, funzione
psichica - Motricità delle immagini pag. 111

Art. III - L'ASSOCIAZIONE DELLE IDEE. Nozioni generali - Definizione - Storia -


L'associazionismo - Le leggi dell'associazione - Riduzione - Discussione - La spontaneità della
mente - Teoria scozzese - L'organizzazione e la sistematizzazione pag. 119

Art. IV - LA CREAZIONE IMMAGINATIVA. Natura dell'immaginazione creatrice -


Riproduzione e creazione - Immaginazione e invenzione - I fattori dell'invenzione - Fattori
fisiologici - Fattori psicologici - Fattori sociali - Lo sforzo d'invenzione - I processi
dell'immaginazione creatrice - Lo sforzo d'invenzione pag. 126

Art. V - FANTASTICHERIA. SOGNO. SONNI PATOLOGICI. La fantasticheria - Il sonno e il


sogno - Il sonnanbulismo - L'ipnosi pag. 134
390
CAP. IV - LA MEMORIA pag. 144

Art. I - Nozione - Definizione - Reminiscenza e ricordo pag. 144

Art. - II FISSAZIONE E CONSERVAZIONE. Le condizioni di fissazione - L'organizzazione La


memoria immediata - La dimenticanza - La dissoluzione dei gruppi - Inibizione retroattiva ed
anteroattiva - La deformazione - Cause - Processi - Trasformazione del ricordo in sapere pag. 146

Art. III - L'EVOCAZIONE DEI RICORDI. Evocazione spontanea - Influenza del


raggruppamento - Influenza del campo intemediario - Evocazione volontaria - Il problema -
Organizzazione e reintegrazione pag. 149

Art. IV - RICONOSCIMENTO E LOCALIZZAZIONE. Il riconoscimento nella percezione -


Riconoscimento incosciente - Riconoscimento cosciente - Riconoscimento nella memoria - Il
problema dei criteri - La distinzione immediata - Casi di riconoscimento laborioso -
Localizzazione - Riconoscimento e localizzazione - Il quadro temporale pag. 151

Art. V - DISMNESIE, AMNESIE, IPERMNESIE. Le dismnesie - Amnesie sistematizzate,


localizzate, aprassiche - Amnesie istantanee o progressive - Le ipermnesie pag. 153

PARTE SECONDA - LA VITA AFFETTIVA

Introduzione pag. 155

CAP. I L'ISTINTO pag. 157

Art. I - CARATTERISTICHE DELL'ISTINTO. Caratteri primari - L'innatezza - La permanenza


- Caratteri secondari - Universalità specifica - Ignoranza del fine pag. 158

Art. II PSICOLOGIA DEL COMPORTAMENTO ISTINTIVO. L'attività conoscitiva nell'istinto


- La catena degli atti istintivi - L'intelligenza al servizio dell'istinto - Carattere finalistico
dell'istinto - Segni distintivi dell'attività intenzionale - L'istinto come attività intenzionale -
Istinto e tropismi - L'istinto, fatto di struttura - I fenomeni affettivi nell'istinto - Istinto, emozioni
e sentimenti pag. 161

Art. III - CLASSIFICAZIONE DEGLI ISTINTI. Princìpi e metodi - Criteri inadeguati - Il


criterio degli oggetti - Istinti primari Istinti alimentare, sessuale e gregario pag. 165

CAP. II - LE INCLINAZIONI pag. 171

Art. I - GLI ISTINTI NELLA SPECIE UMANA. Gli interventi dell'intelligenza e della volontà -
Istinto ed intelligenza - Istinto e volontà - Le tendenze e la realtà oggettiva - Le tendenze di
fronte alla coscienza - Incoscienza - Impulso e desiderio pag. 171

Art. II - TENDENZE ED INCLINAZIONI SPECIFICAMENTE UMANE. L'istinto sessuale


nell'uomo - Il pudore istintivo - Natura del pudore - Le inclinazioni razionali - Il vero, il bene e
il bello L'istinto religioso - Le inclinazioni sociali - La simpatia - L'imitazione - Il gioco. pag. 173

Art. III - LEGGI DI VARIAZIONE DELLE TENDENZE. Legge d'evoluzione e d'involuzione -


Legge di caducità - Legge di sopravvivenza - Legge di conflitto e di fusione - Legge d'inibizione
Legge di sistemazione - Legge di specializzazione - Legge di «transfert» pag. 177

Art. IV - LA RIDUZIONE DELLE INCLINAZIONI. Tentativo di riduzione alla sessualità - Il


pansessualismo freudiano - Discussione Conclusione. pag. 179

CAP. III - IL PIACERE E IL DOLORE pag. 184


391
Art. I - NATURA DEL PIACERE E DEL DOLORE. Nozioni. - Impressioni piacevoli e
spiacevoli - Ordine fisico ed ordine morale Esistono stati affettivi puri? - Esistono stati affettivi
neutri? Il dolore - Relatività del piacere e del dolore - Legge di contrasto - Legge delle
circostanze - Legge di saturazione Legge d'adattamento. pag. 184

Art. II - FUNZIONE DEL PIACERE E DEL DOLORE. Cause del piacere e del dolore. - Teorie
intellettualistiche - Discussione - Teoria dell'affettività - Discussione - Teoria dell'attività -
Discussione Complementi alla teoria d'Aristotele - Finalità del piacere e del dolore - Gli stimoli
del piacere e del dolore - L'ufficio della ragione. pag. 187

CAP. IV - EMOZIONI, SENTIMENTI, PASSIONI pag. 191

Art. I - ANALISI DEI FENOMENI EMOTIVI. Fisiologia delle emozioni e dei sentimenti -
Emozioni - Sentimenti - Lo psichismo nell'emozione e nel sentimento - Lo psichismo
emozionale - Psichismo dei sentimenti - Identità delle emozioni e dei sentimenti. pag. 191

Art. II - NATURA DEGLI STATI EMOTIVI. Teoria intellettualistica Enunciazione e


discussione - Teoria fisiologica - Argomenti e discussione - Conclusioni - Risultati delle
esperienze - Le reazioni non emotive - Osservazioni di psicopatologia - La teoria pag. 196
psicofisiologica.

Art. III - LA FUNZIONE DEGLI STATI EMOTIVI. Teoria meccanicistica - Il disordine


emozionale - Le scariche nervose - Teoria biologica - Spiegazione dei fatti - Funzione pag. 199
regolatrice dei sentimenti - L'emozione.

Art. IV - IL LINGUAGGIO EMOZIONALE - Origine delle reazioni emozionali sistematizzate - pag. 203
L'interven-to dell'analogia - Influenza dell'imitazione - L'interpretazione dei segni emozionali.

Art. V - LE PASSIONI. Definizioni - I due sensi della parola passione - Definizione - Passioni
sensibili e passioni razionali - Cause delle passioni - Le disposizioni ereditarie - L'intervento
dell'intelligenza e della volontà - Effetti delle passioni Effetti sull'intelligenza - Effetti sulla pag. 205
volontà - Finalità delle passioni.

LIBRO SECONDO - LA VITA INTELLETTUALE

PARTE PRIMA - LA CONOSCENZA INTELLETTUALE


pag. 209
CAP. I - L'ATTENZIONE

Art. I - DEFINIZIONE E DIVISIONE. Le specie dell'attenzione Attenzione sensoriale ed


intellettuale - Le forme dell'attenzione - Attenzione spontanea ed attenzione volontaria - Le fonti pag. 209
dell'attenzione - La legge d'interesse. I fattori d'interesse Teoria sensistica dell'attenzione.

Art. II - NATURA DELL'ATTENZIONE. Psicologia dell'attenzione Caratteri dell'attenzione -


Problema dell'attenzione molteplice - La durata dell'attenzione - La misura dell'attenzione - pag. 214
Fisiologia dell'attenzione - Le condizioni organiche - Teoria periferica dell'attenzione.
pag. 219
CAP. II - IL PENSIERO - Nozioni generali
pag. 218
Art. I - LA NOZIONE DI PENSIERO. Logica e psicologia del pensiero. - Difficoltà - Metodi.

Art. II - NATURA EMPIRICA DEL PENSIERO. Il comportamento intelligente. - L'intelligenza


negli animali - L'intelligenza umana I livelli intellettuali - Livelli intellettuali negli animali -
Nell'uomo - La patologia mentale - Intelligenza e ragione. - Limiti del comportamento pag. 219
intelligente nell'animale. - La ragione - Il pensiero.
392

Art. III - IL PENSIERO E IL LINGUAGGIO. Il pensiero senza linguaggio - Il gesto e la mimica


- Casi di sordomutismo - Il pensiero implicito - Il pensiero e il discorso - Discorso interiore ed pag. 231
esteriore - Il linguaggio concettuale - Pensiero e società L'origine del linguaggio.
pag. 241
CAP. III - L'IDEA

Art. I - NATURA PSICOLOGICA DELL'IDEA. I tipi di idee. - Concezione ed idea -


Classificazione delle idee - L'immagine e l'idea - Teorie empiristiche e nominalistiche - I pag. 241
procedimenti sperimentali - Conclusioni.

Art. II - L'ASTRAZIONE. Il problema degli universali - Punto di vista psicologico - Le


soluzioni-tipo - Natura dell'astrazione La nozione d'astrazione - Teoria dell'astrazione passiva pag. 248
L'astrazione attiva - I gradi d'astrazione.

Art. III - L'INTELLEZIONE. Le condizioni dell'intellezione - Intelletto agente e specie impressa


- Intelletto passivo e specie espressa - L'oggetto dell'intelligenza - L'intelligenza, facoltà
dell'essere - L'intelligenza umana - Le teorie idealistiche - Nozione dell'idealismo - L'idealismo pag. 255
problematico - L'idealismo critico - L'idealismo dogmatico - Conclusione.
pag. 263
CAP. IV - IL GIUDIZIO

Art. I - DIVISIONE - Giudizi riflessi e spontanei - Giudizi certi e opinativi - Giudizi d'essere e pag. 263
giudizi di valore - Giudizi espliciti ed impliciti.

Art. II - NATURA DEL GIUDIZIO. Essenza del giudizio - Il giudizio come sintesi - Giudizio e
concetto - Le teorie empiristiche - Il sensismo - L'associazionismo. pag. 264

Art. III - IL GIUDIZIO DI VALORE. La teoria dei valori - Il valore è fondato sull'essere. pag. 266

Art. IV - VERITÀ ED ERRORE. La verità logica - Il riferimento al reale - L'intelligenza è in


ordine al reale - Ogni verità è oggettiva - Verità e coerenza - L'errore - Nozione e cause pag. 267
Classificazione - La logica dei sentimenti.
pag. 271
CAP. V - LA CREDENZA

Art. I - NATURA DELLA CREDENZA. Nozione - La credenza come assenso - Credenza e


scienza - Credenza e certezza - Le differenti forme della credenza - Credenza reale e credenza
nozionale - Credenza implicita e credenza esplicita - Credenza spontanea e riflessa - Credenza pag. 271
abituale e credenza attuale.

Art. II - LE CAUSE DELLA CREDENZA. L'assenso nella scienza e nella credenza - L'assenso
nella scienza - L'assenso della credenza - Funzione della volontà nella credenza Influenza pag. 274
diretta - Influenza indiretta.
pag. 278
CAP. VI - IL RAGIONAMENTO E LA RAGIONE

Art. I - IL RAGIONAMENTO. Il ragionamento dal punto di vista psicologico - Forme


empiriche del ragionamento - Il ragionamento come giustificazione - Le tappe del ragionamento
- Il ragionamento infantile - Esiste una mentalità prelogica? Teoria empiristica del ragionamento pag. 278
- Tesi associazionistica - Discussione.

Art. II LA RAGIONE. I princìpi direttivi della conoscenza - Il principio d'identità - Il principio


di ragion d'essere - L'intelligibilità - Principio di causalità - Principio di finalità - Principio di
sostanza - Caratteri dei princìpi primi - Origine dei princìpi primi - Nozioni e princìpi - La pag. 282
formazione dei princìpi.
393
PARTE SECONDA - L'ATTIVITÀ VOLONTARIA
pag. 289
CAP. I - LA VOLONTÀ

Art. I - I MOVIMENTI VOLONTARI. Elementi del movimento volontario. Movimenti


indeliberati - Analisi del movimento volontario - Natura dell'attività volontaria - Esperienze - Il pag. 290
problema delle fasi del volere - Le fasi dell'azione volontaria - Discussione.

Art. II - LE TEORIE SULLA VOLONTÀ. Teorie sensistiche - Volontà e desiderio - Discussione


- Volontà e affettività - L'attività impulsiva - Discussione - Volontà e campo psichico - Teoria
fisiologica - La tesi dell'Associazionismo - Discussione - Teorie intellettualistiche - La volontà pag. 296
ridotta all'intelligenza - Discussione - Teoria sociologica - Discussione.

Art. III - NATURA DELLA VOLONTÀ. La volontà come espressione della personalità - La
volontà come sintesi - La volontà, espressione dell'unità personale - La volontà come appetito pag. 302
razionale - Il bene conosciuto, oggetto della volontà - Forma del conflitto interiore -
Determinazione e indeterminazione - La volizione concreta.

Art. IV - DEPOTENZIAMENTI DELL'ATTIVITÀ VOLONTARIA. L'automatismo normale -


Le abitudini - La distrazione - L'automatismo anormale - Patologia mentale - Patologia della pag. 304
volontà.
pag. 308
CAP. II - LA LIBERTÀ

Art. I - CONCETTO DI LIBERTÀ. Natura dell'indeterminazione Necessità e contingenza -


Determinazione e in determinazione Contingenza e libertà - Libertà di fare e libertà di volere pag. 308
Libertà di fare - Libertà di volere.

Art. II - LE PROVE DEL LIBERO ARBITRIO. Le prove dell'esperienza Testimonianza della


coscienza psicologica - Testimonianza della coscienza morale - Testimonianza della coscienza pag. 310
sociale Prova metafisica - Princìpi dell'argomento - L'argomento.

Art. III - NATURA DEL LIBERO ARBITRIO. Libertà e indifferenza L'indifferenza di


equilibrio - L'indifferenza è un mito e una cosa impossibile - Libertà e determinismo psicologico
- Il privilegio del «motivo più forte» - Il determinismo psicologico distrugge la libertà - Libertà e pag. 315
auto-determinazione - La spontaneità - L'autodeterminazione.

Art. IV - GLI ARGOMENTI DEL DETERMINISMO. Fatalismo e predeterminazione - Il fato -


Il determinismo fisico - Libertà e causalità - Libertà e conservazione dell'energia - Libertà e pag. 318
società - Conclusione - La conoscenza di sé - La rettitudine del volere.

LIBRO TERZO - IL SOGGETTO PSICOLOGICO


pag. 324
PARTE PRIMA - IL SOGGETTO EMPIRICO
pag. 324
CAP. I - L'IO E LA PERSONALITÀ

Art. I - NATURA DEL «ME». Analisi descrittiva - Il «me» e 1'«io» - Gli elementi del «me» - I
fattori della sintesi psichica - Le fasi successive della personalità - Patologia della personalità - pag. 325
Gli sdoppiamenti - Le spersonalizzazioni.

Art. II - TEORIE SULLA PERSONALITÀ. Teorie fenomenistiche Argomenti del fenomenismo


- Discussione - Teoria kantiana Teorie sostanzialistiche - La «cosa che pensa» di Cartesio L'io pag. 332
come esperienza di forza - L'io come illazione - Conclusione.

Art. III - IL CARATTERE. Natura del carattere - Gli elementi del carattere - Classificazione dei pag. 337
caratteri - L'evoluzione del carattere - Le variazioni del carattere - Le modificazioni del carattere
394
pag. 341
CAP. II - LA COSCIENZA

Art. I - NATURA DELLA COSCIENZA. Le forme della coscienza Nozione - Caratteri dei fatti
di coscienza - I gradi della coscienza - Le condizioni della coscienza - Condizioni biologiche - pag. 341
Condizioni psicologiche.

Art. II - IL SUBCOSCIENTE E L'INCONSCIO. Il subcosciente. Nella vita normale - Nella vita


anormale - I lapsus - Gli sdoppiamenti - Le due forme di subcosciente - L'inconscio - pag. 345
Delimitazione dell'inconscio - Dominio e funzione dell'inconscio.

Art. III - LA STRUTTURA DELL'APPRATO PSICHICO. Teoria delle personalità molteplici -


L'abbassamento della tensione psichica Teoria della coscienza subliminale - L'io subliminale -
Valutazione - Teoria della repressione - Valutazione - Conclusione Unità della coscienza - La pag. 352
struttura psichica.

PARTE SECONDA - L'ANIMA UMANA


pag. 358
CAP. I - NATURA DELL'ANIMA

Art. I - LA SPIRITUALITÀ DELL'ANIMA - Semplicità dell'anima Prova per mezzo della


percezione e della riflessione - Obiezione - La spiritualità dell'anima - Gli argomenti - Valore pag. 358
degli argomenti.

Art. II - LE TEORIE MATERIALISTICHE - Il materialismo meccanicistico - Argomenti -


Discussione - Il materialismo dinamicistico Il parallelismo psicologico - L'epifenomenismo -
Discussione Il materialismo evoluzionistico - Gli argomenti - L'animismo Il manismo - Il pag. 361
totemismo - Discussione dei fatti - Critica dei princìpi - Conclusione.
pag. 367
CAP. II - L'UNIONE DELL'ANIMA COL CORPO

Art. I - IL COMPOSTO SOSTANZIALE - L'unione sostanziale - Unione accidentale e


sostanziale - Princìpi del composto sostanziale Il composto umano - Il tutto sostanziale - pag. 367
Rapporti fra il fisico e il morale.

Art. II - PROBLEMA DELLA COMUNICAZIONE DELLE SOSTANZE - Lo spiritualismo


cartesiano - Le dottrine - Il principio del dualismo - L'occasionalismo - L'armonia prestabilita -
Discussione Queste soluzioni sono arbitrarie - Dallo spiritualismo idealistico a quello pag. 368
bergsoniano - L'idealismo - Lo spiritualismo bergsoniano - Discussione - Conclusione.
pag. 374
CAP. III - ORIGINE E DESTINO DELL'ANIMA

Art. I - ORIGINE DELL'ANIMA UMANA - Origine dell'anima - La generazione dell'anima è


impossibile - Modo della creazione dell'anima - Momento della creazione - Origine della specie
umana - I dati della paleontologia - Discussione - I limiti dell'evoluzione - La questione degli pag. 374
intermedi - Il punto di vista filosofico.

Art. II - IL DESTINO DELL'ANIMA UMANA - Concetto di immortalità Definizione e


condizioni - Concezioni errate - Prove dell'immortalità - Immortalità intrinseca - Immortalità pag. 381
estrinseca.
pag. 386
INDICE ANALITICO

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