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La Pinacoteca

di Filostrato Maggiore

Aesthetica
Aesthetica 71
Collana del Centro Internazionale Studi di Estetica

Il Centro Internazionale Studi di Estetica è un Istituto di Alta Cultura costi­


tuito nel novembre del 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d.p.r.
del 7 ago­sto 1990 è stato ri­co­nosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della
ricerca scien­ti­­fica e della promozione culturale, organizza regolarmente Con­
vegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze;
cu­ra la collana Aesthetica (edita da Aesthetica Edizioni) e pubblica il periodico
Aesthetica Preprint con i suoi Supplementa. Ha se­de presso l’Università degli
Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.
Questo volume è pubblicato col patrocinio della Società Italiana d’Estetica.
Filostrato Maggiore

La Pinacoteca
a cura di Giuseppe Pucci
traduzione di Giovanni Lombardo

Aesthetica Edizioni
2010 © Aesthetica edizioni via Giusti 25 90144 Palermo
Fono-Fax: 091-308290
E-Mail: estetica@unipa.it
Internet: www.unipa.it/~estetica/editrice.html

isbn 978-88-7726-082-6

2010: prima edizione


Indice

Presentazione
di Giuseppe Pucci 7
La Pinacoteca
di Filostrato Maggiore
Libro primo
Prologo 27
1. Scamandro 28
2. Komos 28
3. Le Favole 29
4. Meneceo 30
5. I Cùbiti 31
6. Gli Amori 31
7. Memnone 33
8. Amimone 33
9. La Palude 34
10. Amfione 35
11. Fetonte 36
12. Il Bosforo 37
13. [I Pescatori] 38
14. Semele 39
15. Arianna 40
16. Pasifae 41
17. Ippodamia 41
18. Le Baccanti 42
19. I Tirreni 43
20. I Satiri 44
21. Olimpo 45
22. Mida 45
23. Narciso 46
24. Giacinto 47
25. Gli abitanti di Andros 48
26. La nascita di Ermete 48
27. Amfiarao 49
28. I Cacciatori 50
29. Perseo 52
30. Pelope 53
31. Doni ospitali 54
Libro secondo
1. Le Cantatrici di inni 55
2. L’educazione di Achille 56
3. Le Centaure 57
4. Ippolito 58
5. Rodogune 58
6. Arrichione 60
7. Antiloco 61
8. Melete 62
9. Pantea 63
10. Cassandra 64
11. Pan 65
12. Pindaro 66
13. Le Gire 66
14. La Tessaglia 67
15. Glauco, dio del Ponto 68
16. Palemone 69
17. Le Isole 69
18. Il Ciclope 73
19. Forba 74
20. Atlante 75
21. Anteo 76
22. Eracle tra i Pigmei 77
23. La follia di Eracle 77
24. Teodamante 78
25. Le esequie di Abdero 79
26. Doni ospitali 80
27. La nascita di Atena 80
28. Le Tele 81
29. Antigone 82
30. Evadne 82
31. Temistocle 83
32. Palestra 84
33. Dodona 84
34. Le Ore 85

Note 87
Appendice biobibliografica 107
Indice dei nomi 121
Presentazione
di Giuseppe Pucci

1. L’opera e il suo titolo


Sotto il nome di Filostrato, che la critica moderna è d’accordo
nell’identificare con il retore vissuto a cavallo tra il ii e il iii sec. d.C.,
figura di primo piano della cosiddetta Seconda Sofistica, ci è pervenuta
quest’operetta, che contiene la descrizione di 65 (in realtà 64: uno
è erroneamente “sdoppiato”) quadri antichi, perlopiù di contenuto
mitologico.
A detta dell’autore, si tratterebbe della redazione scritta di una
visita guidata estemporanea da lui fatta in una galleria napoletana a
beneficio di un gruppo di giovani, tra i quali il figlio appena decenne
della persona che al momento lo ospitava in quella città. Un’opera
di circostanza, dunque, come tante altre che i sofisti dell’epoca com­
ponevano, nata dalle insistenti richieste di un pubblico selezionato, a
cui Filostrato, dopo essersi inizialmente schermito, aveva finalmente
acconsentito. Almeno, questo è il set che l’autore (ricordiamolo: un
retore consumato) ha predisposto per i suoi lettori.
Nei manoscritti che ce l’hanno conservata l’opera porta il titolo
di Eikónes, letteralmente: Immagini. Questa parola però non ricorre
mai all’interno del testo, dove per indicare i quadri è impiegato una
sola volta il termine pínax 1 e tutte le altre graphé, parola che pertiene
sia al campo semantico dello scrivere che a quello del disegnare e/o
dipingere, e che forse proprio per questa ambivalenza – assai confa­
cente, come si vedrà, all’operazione filostratea – potrebbe essere stata
preferita dall’autore.
Filostrato Minore, che scrisse a sua volta un volume di Eikónes
dichiarando nel proemio di aver voluto seguire le orme del suo più
anziano omonimo, si riferisce all’opera di quest’ultimo con le parole tis
graphikês érgon ékphrasis (letteralmente: una certa descrizione di opere
di grafica). Si è anche pensato perciò che il titolo originale dell’opera
di Filostrato Maggiore potesse essere stato Ekphráseis 2; ma l’uso del
singolare da parte del nipote non conforta questa ipotesi. A dire il vero,
la voce della Suda relativa a Filostrato Maggiore parla di un’opera inti­
tolata «Eikónes o Ekphráseis», ma quel lessico bizantino notoriamente
non è sempre affidabile e la sua testimonianza non è perciò decisiva.
Una cosa è certa, comunque: la parola ékphrasis non ricorre mai

7
nel testo dell’opera; e quando Filostrato deve annunciare al suo udito­
rio l’imminente inizio della sua performance 3, la definisce una epídeixis
(lezione, esposizione).
Nell’apprestare questa nuova edizione italiana, ci si è chiesti se
mantenere il titolo Immagini (quello adottato peraltro dalla prima
traduzione in lingua italiana e poi mantenuto da tutte le successive)
o trovare un’alternativa che riducesse la latitudine semantica di quel
termine a vantaggio di un più immediato orientamento del lettore non
specialista. Si è optato alla fine per La Pinacoteca, sull’esempio della
scelta a suo tempo fatta da Auguste Bougot (La Galerie de Tableaux),
riconfermata nella riedizione di Hadot e Lissarrague 4.

2. I personaggi
Filostrato – ce ne si accorge presto – è un grande illusionista. La
prima illusione che realizza in questa Pinacoteca è quella di farci credere
reale la presenza di personaggi che invece sono fittizi. Per farci meglio
cadere nell’incantesimo di figure fatte di parole – suo scopo ultimo –
egli comincia col proporre un adeguato contesto ambientale (Napoli, la
raffinata graeca urbs per antonomasia) e col disporvi suasivamente dei
personaggi verisimili, ma creati di fatto con una sapiente ethopoiía 5.
Lo stesso io narrante è a ben vedere una maschera: l’autore ha adottato
la persona del sofista famoso e blasé che, trovandosi temporaneamen­
te a Napoli, non ha voglia di esibirsi davanti a quello che sarebbe il
suo pubblico naturale (ossia la vivace intelligencija locale, di rinomata
cultura) ma – vuoi per cortesia, vuoi per il gusto di fare un’esperienza
diversa e per certi versi intrigante – si “concede” invece a un gruppo
di giovanetti (meirákia), alla cui testa è il figlio della persona di cui è
ospite, un ragazzino (paîs) di circa dieci anni che lo ha favorevolmente
impressionato per la voglia di apprendere che mostra. A tale inusitata
audience il retore acclamato si degnerà, cedendo a una richiesta partita
proprio dal piccolo amico, di spezzare il pane della propria scienza nel
corso della visita guidata e privata alla galleria di quadri.
Così Filostrato introduce quella che potremmo definire la rappre­
sentazione “drammatica” di sessanta e passa quadri, la materia, appun­
to, della Pinacoteca. Infatti, nonostante gli altri giovani siano solo delle
comparse mute e il paîs abbia solo poche battute, tutta l’esposizione è
concepita come la replica di una pièce già andata in scena, e la forma
dialogica, oltre a richiamare illustri precedenti filosofici, serve a man­
tenere la finzione della performance orale in presenza di un pubblico.
Varrà la pena di ricordare, a questo proposito, che i testi dei retori
(così come quelli degli storici, almeno a partire da Erodoto) erano in
buona misura destinati alla lettura pubblica.
Se poi la galleria dove avviene la visita/lezione sia da pensare nella
casa stessa dell’ospite o altrove 6, è dettaglio secondario che non mo­
difica l’impianto dell’opera. Questa si presenta in ogni caso costruita

8
come una variazione – abbastanza originale, bisogna riconoscerlo – su
un tema che all’epoca di Filostrato era già ben codificato: l’esperto che
interviene a spiegare l’opera d’arte a qualcuno che non possiede gli
strumenti culturali adeguati. Basterà ricordare il Vecchio Saggio della
Tavola di Cebete o il suo corrsipondente parodico, lo scalcinato poeta
Eumolpo del Satyricon.

3. La struttura
Filostrato specifica che la sua performance ebbe luogo nel periodo
in cui a Napoli si tenevano i Giochi 7 (probabile motivo, si è pensato,
della sua presenza in quella città). Ora, questa circostanza non è irrile­
vante, né – presumibilmente - casuale, giacché inquadra subito l’opera
nel genere agonistico. Ha un bel far crederci il Nostro di parlare a
dei ragazzi, anzi in particolare a un bambino: la verità è che anche
adottando il registro colloquiale e simulando di adeguare il proprio
discorso a un pubblico ancora intellettualmente acerbo, benché con
buone cognizioni di base, egli fronteggia comunque delle sfide.
La prima è quella implicita in qualunque attività retorica, segnata­
mente nell’epoca della Seconda Sofistica: parlare meglio di chiunque
altro. Qui però il retore non scende in lizza con altri retori (come
avviene anche nella Sala di Luciano), ossia con duellanti armati della
sua stessa panoplia, ma deve misurarsi direttamente con avversari che
maneggiano altre armi: i pittori. E allora la sua strategia si fa sottile: la
sua lezione (epídeixis) rientrerà in effetti nel genere dell’elogio (épai-
nos) – lo aveva peraltro deciso, ci fa sapere, prima ancora di proporla
ai giovani – senza apparentemente dar vita a nessuna competizione.
Dei quadri, in effetti, non si dirà che bene, non uno sarà oggetto di
critica; mai egli suggerirà palesemente al suo pubblico di star ren­
dendo meglio a parole quello che l’artista ha espresso col pennello.
Eppure la gara è aperta, e la vera scommessa è ingaggiata non con
i pittori ma con il pubblico: Filostrato dovrà far credere a chi legge
di vedere realmente qualcosa che invece non vede. I veri destinatari
non sono gli adolescenti che assistono alla conferenza (se il paîs non
è mai chiamato per nome, forse è anche per consentire a chiunque di
prendere idealmente il suo posto) ma i lettori futuri che, riattualiz­
zando il testo (è necessario ricordare che all’epoca si leggeva sempre
a voce alta?), si troveranno nella identica situazione di quella fittizia
turba di ragazzini più o meno cresciuti. Ma solo virtualmente, perché
anche udendo le stesse parole non saranno materialmente di fronte
agli oggetti descritti: dovranno fidarsi, cedere alla suggestione evoca­
tiva di quei suoni per sottoscrivere volontariamente il patto ecfrastico.
Impresa certo più ardua che impressionare degli studentelli: si tratta
di sedurre un’audience colta e mondana, esigente e smaliziata.
Per fare ciò il retore deve moltiplicare allusioni, citazioni, ammicca­
menti, deve creare una connivenza con la sua audience. A questo servo­

9
no gli innumerevoli rimandi intertestuali di cui è contesta la trama di
tutte le descrizioni: a riconoscersi membri di uno stesso club esclusivo
(i béltistoi, la “crema”, per usare ancora una definizione di Luciano).
Non è certo un caso che la stragrande maggioranza dei quadri della
Pinacoteca siano di soggetto letterario e/o mitologico. Col mito aveva a
che fare, più o meno direttamente, tutto quel che di importante aveva
prodotto la cultura antica in campo artistico, da Omero fino allo stes­
so Filostrato. Dare per scontata nei propri lettori una conoscenza di
quelle opere tale da consentire loro di giocare da pari a pari al gioco
raffinato che gli propone, è da parte di Filostrato la mossa vincente.
Per accattivarsi l’uditorio non è necessario sorprenderlo con audaci
novità. Anzi è sconsigliato. L’abilità consiste nel creare un’atmosfera
di bon ton, badando bene a sollecitare (e a solleticare) l’audience senza
per questo schiacciarla sotto il peso di un’erudizione straripante. La
formula giusta sta nel dare – e chiedere – prova di cultura restando in
equilibrio tra ammaestramento e intrattenimento.
Visto in quest’ottica il personaggio del paîs ha una funzione evi­
dente: molte delle cose dette dal retore suonerebbero eccessivamente
didascaliche e pedanti se dirette a degli adulti pepaideuménoi, piena­
mente formati, come li definisce Luciano, mentre risultano accettabili
se indirizzate, con benevola condiscendenza, a qualcuno la cui forma­
zione culturale è in progress o addirittura appena agli inizi. Il presunto
“occhio innocente” del suo piccolo ammiratore è lo strumento di cui
il narratore si serve per giustificare l’analiticità delle descrizioni e le
molte delucidazioni di carattere mitologico. La differenza di età giusti­
fica il tono informale con cui chi parla si rivolge a chi ascolta. «Ti sei
reso conto, ragazzo…?» è l’incipit del primo quadro (i, 1, 1), quello
che dà il la all’intera opera e, insieme ad altre frasi simili che la con­
trappuntano, concorre a creare l’illusione di una autentica homilía 8.
Ed è appunto per ciò che la presenza del ragazzo viene costantemente
rammentata con domande, sollecitazioni, suggerimenti a lui rivolti,
il più frequente dei quali è: «guarda!». Ma per chi legge o ascolta
questo significa in realtà: “immagina! Immagina che io stia parlando
a qualcuno che vede questo quadro e immagina di vedere le cose che
lui vede”. È questo il momento magico, che Bryson chiama «moment
of fusion» 9, in cui le parole diventano immagini e le immagini la cosa
reale. L’ékphrasis non fa vedere un’immagine reale, ma piuttosto la
maniera in cui l’immagine fa realmente vedere qualcosa: quello che
Dominique Kunz ha finemente definito «un sentiment d’image» 10.
Da parte sua, il ragazzo ascolta compunto e interloquisce poco:
talvolta manifestando un volenteroso entusiasmo 11, talaltra tradendo
una qualche insofferenza per il dilungarsi dell’esposizione («Perché
non passi a un altro quadro? Mi sembra che le cose del Bosforo sia­
no state esaminate a sufficienza» 12): in sostanza un altro trucco ben
giocato del nostro illusionista, perché non dobbiamo mai scordare che

10
la Pinacoteca non è la registrazione fedele di un evento informale e
privato, ma un “fictional text” che (ri)costruisce con mímesis sapiente
una performance professionale; è una sperimentazione ben riuscita del
potere di seduzione del testo che invita all’accettazione dell’illusione
pur nella consapevolezza che si tratta di un artificio, come è proprio
appunto della “fiction”.
Non va del resto dimenticato che la Pinacoteca appartiene alla stessa
epoca che vede fiorire il romanzo antico 13, e che con quest’ultimo con­
divide la fascinazione per la finzione, per la creazione di mondi imma­
ginari in cui il lettore/ascoltatore entra trascinato dai sensi. Distinguere
tra verità e finzione è il discrimine tra infanzia ed età adulta, il passaggio
che segna la perdita dell’innocenza 14. Per questo il destinatario privile­
giato dell’ékphrasis di Filostrato è un bambino, e per questo proviamo
piacere a metterci al suo posto e a farci stupire dal giocoliere.
L’ékphrasis di Filostrato è così intrigante perché rappresenta la
rappresentazione. Mette in scena a beneficio di una audience reale, ma
in effetti potenziale e impersonale (i lettori) una audience almeno in
parte individualmente caratterizzata (il paîs) ma fittizia, che pure rende
con verità “drammatica” la cooperazione nel processo di ricezione.
Così facendo Filostrato è riuscito a oggettivizzare in un testo (scritto)
la fruizione di un altro testo (orale).

4. La Philostratfrage
Ma i quadri descritti da Filostrato sono veri o di invenzione? Que­
sto è – o meglio, questo è stato in passato – il problema. Da un certo
punto in poi, comunque; perché al momento della prima edizione
moderna di questo testo (quella aldina del 1503), e poi per tutto il
Rinascimento, nessuno se lo pose. Anzi, artisti del calibro di Raffaello,
Giulio Romano, Baldassarre Peruzzi, Tiziano, Poussin, per citare soli
i maggiori, credettero di potervi rintracciare la perduta pittura degli
antichi e vi trovarono ispirazione per le loro opere 15. Anche per Blaise
de Vigenère, primo traduttore francese di Filostrato e vero iniziatore
della sua fortuna moderna, il quesito non era così fondamentale. Nel
1578 egli scriveva: «Si les tableaux décrits par Philostrate ont estés
à la verité peint tous tels […] ou bien que ce soyent quelques nou­
veaux sujects dressez par lui à l’imitation des antiques (comme il est
bien plus vraisemblable) il ne nous en doit pas beaucoup chaler».
Altrove stava per lui l’interesse dell’opera : nella possibilità per i pit­
tori di «pescher à souhait beaucoup de belles fantaisises, les mesler,
desguiser et deversifier» 16 e soprattutto nel repertorio di allegorie
moraleggianti che l’opera forniva se letta nella prospettiva aperta dagli
Emblemata dell’Alciati (1531) e dai Hieroglyphica di Pierio Valeriano
(1556). Grandi studiosi come Winckelmann (che peraltro ci ha lasciato
un’ékphrasis superlativa, quella dell’Apollo del Belvedere, piena di echi
filostratei 17), Lessing, Visconti non esternarono mai nessun dubbio.

11
Il primo a chiedersi quanto affidabile fosse Filostrato fu, intorno
alla metà del Settecento, il conte di Caylus, rinomato antiquario, che
concluse per l’inesistenza della pinacoteca; ma per Heyne, nel 1796, la
questione rimaneva ancora aperta (anche perché nel frattempo le pitture
di Pompei ed Ercolano, sempre meglio note, erano venute a offrire qual­
che confronto archeologico, se non altro dal punto di vista dei contenuti
tematici, alle scene descritte da Filostrato). Venne poi Goethe, che tanto
credette alla veridicità della Pinacoteca da promuoverne un’edizione in
cui ogni quadro doveva essere accompagnato dalla sua ricostruzione, af­
fidata ad un artista della cerchia di Weimar. L’impresa non andò a buon
fine, ma questo non impedì a Goethe di manifestare tutta la sua am­
mirazione per Filostrato traducendo e rimaneggiando (si potrebbe dire:
proponendo una sorta di propria ékphrasis delle ekphráseis originali)
l’opera 18. La sua indiscussa autorità sopì per alcuni decenni il dibattito.
Questo riprese col Friederichs, agguerrito esponente dell’archeolo­
gia filologica tedesca, che nel 1860 si espresse per la totale inattendi­
bilità della Pinacoteca. La sua presa di posizione provocò la reazione
del Brunn (1861) e originò una diatriba che vide prestigiosi nomi
dell’Altertumswissenschaft dividersi in due opposte fazioni. La storia di
questa querelle è stata riassunta più volte 19, e sarebbe tedioso ripercor­
rerla qui ancora una volta. Basterà ricordare che lo sforzo maggiore a
sostegno della veridicità di Filostrato fu fatto dal Lehmann-Hartleben
che, nel 1941, produsse anche una ingegnosa ricostruzione spaziale
della pinacoteca e tentò di stabilire l’originale disposizione dei qua­
dri all’interno di essa. Il tutto, però, a costo di non poche forzature
metodologiche, chiaramente evidenziate dal Bryson in un acuminato
saggio del 1994 che tuttavia rende allo studioso criticato l’onore delle
armi. La lettura di Lehmann-Hartleben è definita infatti una «lettura
eroica», per la passione con cui vuole a tutti i costi resuscitare “la car­
ne” della perduta pittura romana, allo stesso modo in cui il romanzo
di Bulwer-Lytton aveva ridato polpa nell’immaginario collettivo allo
scheletro di Pompei restituito dalle ceneri del Vesuvio 20.

5. Vero e falso
Negli anni a noi più vicini il problema dell’autenticità dei quadri
filostratei ha smesso di appassionare la critica. Preso atto che, no­
nostante la dottrina profusa nella ricerca 21, per nessuno di essi gli
archeologi sono in grado oggi di indicare il preciso referente monu­
mentale, l’opinione oggi prevalente è che Filostrato ha confezionato a
tavolino i suoi quadri, partendo dai testi letterari che li sostanziano, in
qualche caso avendo presenti opere da lui realmente viste in luoghi e
momenti diversi, in qualche altro attingendo al cultura figurativa del
suo tempo (in questo senso è un testimone prezioso del Kunstwollen
dell’età severiana) e alle cognizioni storico-artistiche condivise dalle
élites dell’Impero romano.

12
La Pinacoteca è insomma un museo immaginario per il fatto stesso
che è fatto di immagini, e non di oggetti tangibili. Che poi quelle im­
magini, che il retore abilmente ci dà a vedere senza che le vediamo,
siano vere (nel senso che hanno un referente reale) o solo “ben trova­
te” (perché plausibilmente costruite assemblando tasselli di memoria
visiva) in fondo poco importa. Potremmo anche dire, rifacendoci alla
terminologia usata da Genette 22, che i quadri di Filostrato sono iper­
testi costruiti a partire non da un solo ipotesto ma da una pluralità di
ipotesti sezionati, manipolati, smontati e rimontati in un caleidoscopio
di citazioni, echi e rimandi reciproci.
Cercare l’autore dei singoli ipotesti non ha molto senso, tanto è
scolorita in questo contesto la nozione di autore. Importante è solo
il “cucitore”, che in greco porta un nome assai evocativo: il rapsodo.
È lui, il retore, che predispone la rete dei collegamenti testuali che il
lettore è chiamato a esplorare all’interno del patto ecfrastico. Quanto
alla “verità” del quadro, essa non va certo valutata sulla realtà fattuale
di esso, ma caso mai sul grado di verisimiglianza mimetica del suo
contenuto. Ha ragione Elias Canetti: «Le immagini sono reti, quel che
vi appare è la pesca che rimane» 23.

6. Un confronto calzante
La macchina apprestata da Filostrato ha infatti molti punti in co­
mune (tra l’altro anche di ambientazione) con quella che molti seco­
li più tardi avrebbe costruito il Cavalier Marino con la sua Galeria
(1619) 24. Nell’intenzione dell’autore, questa doveva costituire una
specie di visita guidata alle opere d’arte che il principe di Conca, suo
mecenate, esponeva nella galleria del suo palazzo di Napoli. Il pro­
getto si presenta dichiaratamente referenziale, in quanto si asserisce
di voler rendere omaggio a delle opere pittoriche e scultoree raccon­
tandole attraverso la parola poetica; ma benché il Marino pretenda di
condurci entro degli spazi reali («Entra, entra uomo, ne’ penetrali di
questo portico stupendo, spazia entro i ricessi di questo bel teatro,
considera le prospettive, gli artifici e le maraviglie di questa divina
architettura»), di fatto le descrizioni, pur potentemente illusive, risul­
tano in sostanza sofisticatamente elusive, sì che da tempo la critica ha
constatato la vacuità, prima ancora che l’impossibilità di una esatta
identificazione delle opere descritte in versi.
Nel caso di Marino, insomma, l’immagine a cui il testo rimanda,
quella fissata da un artista su un supporto materiale, può esistere o
meno nella realtà, ma non è veramente importante. Lo è invece quella
prodotta dall’intelletto e attualizzata in parole.

7. Ecfrasi nozionale
Se, come è verisimile, la stessa cosa si può dire della Pinacoteca di
Filostrato, allora questa si colloca formalmente in una terra di mezzo tra

13
le due nozioni della tipologia ecfrastica proposta da Hollander 25, ossia
tra la notional ékphrasis – quella che descrive oggetti d’arte inesistenti
o immaginari, come lo scudo di Achille – e la actual ékphrasis – quella
che al contrario ha come referente un oggetto pittorico o scultoreo
realmente esistente. Ma solo formalmente: giacché – non potendosi,
come si è visto, di nessuno dei quadri in essa descritti additare il refe­
rente preciso – rientra sostanzialmente nella prima. E poiché ha ragione
Hollander a sostenere che è proprio l’ékphrasis di tipo nozionale ad
avere introdotto le strategie interpretative poi confluite nell’ecfrastica
moderna, è giusto che l’estetica moderna guardi a Filostrato come a
un padre nobile di quella.
Se le Vite del Vasari sono, secondo la lettura che ne ha dato Svet­
lana Alpers 26, un esempio perfetto di «verbal evocations of actual
paintings, the rhetorical figure of ékphrasis», un testo capitale della
moderna ékphrasis nozionale come l’Ode on a Grecian Urn di Keats
(1820) discende in linea diretta da Filostrato.

8. Immagini e memoria
Anche ammettendo che la galleria di quadri descritta da Filostrato
sia realmente esistita e che il retore vi abbia veramente fatto quella
visita guidata, nel momento in cui egli decise di darle forma scritta
non si rivolgeva più a quegli stessi happy few che l’avevano potuta
godere dal vivo, davanti ai quadri. Scrisse per dei lettori futuri che
non avrebbero comunque avuto sotto gli occhi quei quadri. E questo
muta radicalmente la prospettiva. Dobbiamo accettare il fatto che il
quadro non esiste al di fuori dell’ékphrasis. Per noi come anche per
i lettori contemporanei di Filostrato l’ékphrasis “è” il quadro. Perciò
nel testo che ci è arrivato non mette conto inseguire ombre destinate
a restare inafferabili, ma piuttosto cercare di scoprire le petites ficelles
del mestiere del retore.
Se ci mettiamo in questa prospettiva capiamo subito che è stato
giocoforza per lui rifarsi a delle immagini tipiche, o meglio tipizzarle
riconducendole a un’enciclopedia familiare ai suoi lettori: perché, per
usare le parole di Goethe, «Wir sehen nur das, was wir wissen». Op­
portunamente Settis 27 recupera in proposito la nozione di Gedanken-
bild elaborata nella Vienna dei primi del secolo scorso da Julius von
Schlosser e da altri studiosi a lui vicini: è sulle immagini depositate
nella memoria che si basa in gran parte il meccanismo di trasmissione-
ricezione dell’immagine ecfrastica.
Ma il retore e il suo pubblico non hanno in comune soltanto uno
stesso patrimonio visuale. Nella memoria condivisa sono ben sedi­
mentati anche quei testi della paidéia antica che fornivano la comune
base dell’identità culturale, e che infatti affiorano quasi in ogni rigo
delle descrizioni filostratee, talvolta in forma di citazione esplicita, più
spesso come allusione intertestuale. In questo senso Filostrato appare

14
quasi un sacerdote della Kultur, come lo erano quegli artisti che in
età romana ricreavano le opere dei grandi maestri della Grecia clas­
sica non copiando pedissequamente ma piuttosto citando, alludendo,
emulando. Così facendo essi mettevano in sostanza in atto una sorta
di liturgia della memoria grazie alla quale era possibile trasportarsi in
un passato idealizzato 28.

9. L’ékphrasis antica
La parola greca ékphrasis è formata sulla stessa radice del verbo
phrázein (che significa propriamente: dire mostrando), preceduta dal
prefisso ek- in funzione rafforzativa, sicché una traduzione puntua­
le sarebbe: “descrizione esauriente” (tenendo tuttavia presente che
nell’italiano “descrizione”, come nel latino descriptio da cui deriva,
l’area semantica di riferimento è quella della scrittura, mentre in greco
la sfera implicata è quella dell’oralità).
Ékphrasis indicava originariamente una pratica descrittiva assai più
generica rispetto a quella che oggi va sotto lo stesso nome. Dai ma­
nuali in uso nelle scuole di retorica (progymnásmata) sappiamo che gli
allievi venivano fatti esercitare nella descrizione di «persone, oggetti,
situazioni, luoghi, tempi e molte altre cose» 29. La descrizione di og­
getti artistici poteva dunque rientrarvi, ma non vi aveva un ruolo pre­
ponderante. Nicolao di Mira, un retore del v secolo d.C. è il primo a
includere esplicitamente tra i possibili temi dell’ékphrasis anche statue
e dipinti, benché, come è noto, descrizioni di opere d’arte si trovino
nella letteratura antica fin dai primordi (lo scudo di Achille in Omero,
quello di Eracle nello pseudo-Esiodo) e nei più diversi generi: oltre
che nell’epica, nella lirica, nel teatro, nella storiografia, nel romanzo. È
tuttavia all’epoca della Seconda Sofistica (con Luciano, i due Filostrati
e Callistrato) che diventa un genere letterario a sé stante.
Le caratteristiche fondamentali dell’ékphrasis si evincono dalla de­
finizione che, con minime varianti, ne danno i progymnásmata. Nel
più antico di essi, quello di Elio Teone (i sec. d.C.) è detto di questa
figura che è «un discorso descrittivo (lógos periegematikós) che porta
(ágon) ciò che mostra (tò deloúmenon) sotto gli occhi (hyp’ópsin) con
vivida chiarezza (enargós)» 30. Scopo dell’ékphrasis è insomma quello
di utilizzare il linguaggio per creare una sorta di finestra attraverso
cui l’ascoltatore o il lettore abbia l’illusione di visualizzare ciò che gli
viene descritto. Il retore ottiene questo risultato grazie alla chiarezza
(saphéneia) e alla vividezza (enárgeia) con cui costruisce il suo discor­
so. Dei due ingredienti, il più importante è certamente l’enárgeia 31.
Secondo Nicolao di Mira è l’enárgeia che distingue l’ékphrasis dalla
semplice narrazione e «tenta di trasformare gli ascoltatori in spettato­
ri». Etimologicamente, enárgeia e i suoi derivati (l’aggettivo enargés,
l’avverbio enargós) designano ciò che luccica e perciò spicca alla vista
(se quodam modo ostendit 32), ciò che risulta bene evidente per se

15
stesso (evidentia è la parola che le corrisponde nel lessico retorico
latino, sebbene vengano usate alternativamente altre espressioni, come
inlustratio, perspicuitas, sub oculis subiectio 33). A questa vividezza la
parola deve il potere di ri-creare l’immagine.
Va sottolineato il fatto che nella definizione dei progymnásmata
l’enárgeia è messa in relazione con un tipo particolare di discorso,
quello periegematikós. Ora, periegéomai vuol dire propriamente “por­
tare in giro a far vedere”: dunque l’ékphrasis implica uno sguardo in
movimento, un percorso testuale 34 che proietta l’enárgeia in una di­
mensione spaziale. La descrizione ha una sintassi che si impone allo
sguardo determinandone in qualche modo il tragitto, e la parola che
sceglie una strategia narrativa piuttosto che un’altra decide un cammino
all’interno dell’immagine 35. Le ekphráseis di Filostrato sono la migliore
esemplificazione di questa circostanza: il retore conduce in effetti lo
sguardo del suo pubblico a esplorare lo spazio del quadro (cioè del
testo) secondo modalità strategicamente congegnate e fra loro diver­
sificate, che vanno dalla panoramica (La Tessaglia) alla carrellata (La
palude), dal campo lungo al primo piano (come in Rodogune), talvolta
allo zoom (i ragni nelle Tele).
La complessità di costruzione dei quadri pluriscenici (quelli in
cui Wickhoff trovava conferma alla propria teoria della narrazione
continua come costituente originale dell’arte romana 36) comporta di
necessità peregrinazioni e divagazioni, ma anche di quadri più semplici
Filostrato finisce per dare una lettura sequenziale, mettendo a fuoco
un evento dopo l’altro, perché l’ékphrasis non può per sua natura ab­
bracciare sinteticamente ma è costretta a essere analitica, a procedere
per accumulo.
L’aporia ecfrastica si fa più evidente nei quadri che inscenano miti
di metamorfosi (ad esempio Fetonte, Le Baccanti, I Tirreni) dove Fi­
lostrato dà fondo alle risorse del linguaggio nello sforzo di emulare il
pittore che può embricare in un’unica immagine fissa più piani tempo­
rali. Anche nella descrizione dei colori, terreno privilegiato dell’enárgeia
filostratea, i toni cangianti, il contrasto chiaroscurale, le ombre portate,
i riverberi, i repentini bagliori chiedono a uno sguardo sempre mo­
bile di spostarsi ora in un punto ora in un altro del quadro. A volte
il procedere per tappe dello sguardo è dettato da un’astuzia retorica
precisa: fornire all’audience uno dopo l’altro, come in una sorta di
caccia al tesoro, gli indizi che, una volta sommati, chiariranno il senso
dell’intera rappresentazione. Introducendo progressivamente gnorísma-
ta (attributi) e sýmbola (simboli) connessi ai protagonisti ancora non
nominati del quadro, Filostrato crea una suspense che poi si scioglierà
nel piacere del riconoscimento.

10. Enárgeia e phantasía


Ma come opera esattamente l’enárgeia? Come può la vividezza

16
della parola trasformarsi in vividezza di immagine, portare la cosa
descritta prò ommáton, “davanti agli occhi”, come dice Aristotele nel
iii libro della Retorica 37? La spiegazione sta nel rapporto che esiste
tra enárgeia e phantasía 38. Occorre preliminarmente ricordare che per
Aristotele la memoria è costituita da una sorta di pittura (zográphema)
che la sensazione (páthos) produce nell’anima, e che anche il movi­
mento vi lascia una impronta (týpos), «allo stesso modo di quelli che
imprimono il loro sigillo con un anello» 39.
Sarebbe interessante approfondire il rapporto tra queste affermazio­
ni di Aristotele e i concetti warburghiani di engramma e pathosformel.
Qui basterà rilevare che questa idea che le sensazioni fissano nella
memoria una sorta di galleria di quadri è ripresa nella dottrina della
phantasía. L’enárgeia del discorso, riproducendo determinate sensazio­
ni, riattiva queste immagini conservate nella memoria dell’ascoltatore,
e gliele fa visualizzare con gli occhi della mente. Perché ciò avvenga,
dice Quintiliano 40, basterà che la descrizione corrisponda a ciò che
l’ascoltatore ha già in memoria. La conformità alle sue aspettative è più
importante della verità di ciascun dettaglio, e si potrà anche inventare
(adfingere) qualcosa, purché sia compatibile con quanto l’ascoltatore
sa già e si aspetta di sentire.
Paradossalmente, dunque, l’enargés finisce per avvicinarsi al luogo
comune 41. Nel caso dell’ékphrasis di opere d’arte, l’enárgeia si attiva
sull’immaginario stratificato nella memoria collettiva. Resta però il fat­
to che in ogni caso la descrizione verbale, per evocare delle immagini,
deve realizzare la mímesis di sensazioni. E questo non può che avve­
nire per mezzo di associazioni tra parole e sensazioni, tra sensazioni
e rappresentazioni mentali.

11. Ékphrasis e desiderio


Muovendo da punti nodali come questo, che hanno evidenti tangen­
ze con gli studi sulla struttura della psiche, la ricerca moderna sull’ék-
phrasis – su quella di Filostrato, ma non solo – ha esplorato percorsi
nuovi e inconsueti. Jaš Elsner 42 parte dall’assunto che l’ékphrasis opera
nell’ambito dell’immaginario, lì dove si collocano la sublimazione e il
transfert, e che si basa sulla deliberata manipolazione dell’immagina­
zione e del desiderio tanto del locutore quanto dell’ascoltatore. Quindi
istituisce un confronto tra il funzionamento dell’ékphrasis e il mecca­
nismo del motto di spirito analizzato da Freud 43. In sintesi, la tesi di
Freud è che l’autore di un motto di spirito formula un’idea attraverso
il linguaggio dei processi primari (lo stesso in cui si esprimono i sogni).
Tale idea viene poi tradotta nel linguaggio verbale naturale. Dall’altra
parte, l’ascoltatore opera il processo di decodifica inverso: dall’immagine
verbale egli risale al suo contenuto primario o inconscio. Nel modello di
Freud il locutore (archetipicamente maschio) è motivato da un impulso
libidinale verso l’oggetto del suo discorso (archetipicamente di genere

17
femminile). La resistenza che questo gli oppone scatena l’aggressività
che si risolve in un motto di spirito – dal contenuto esplicitamente o
implicitamente sessuale – diretto a una terza persona (un altro maschio).
In questo triangolo il locutore espone l’oggetto del proprio desiderio
all’ascoltatore, trovando uno sfogo alla propria libido attraverso il pia­
cere (la risata) che provoca in una terza persona, la quale diventa così
suo alleato e complice. Per Elsner tutto ciò è rispecchiato nell’ékphra-
sis, dove l’opera d’arte assente, ma sostituita dalla descrizione retorica,
tiene il luogo della donna desiderata (e parimenti assente) ed è come
quella oggetto di desiderio, non soggetto essa stessa, mentre il locutore
manipola l’ascoltatore per ottenerne la complicità.
Anche un pensatore come Lacan può, secondo Elsner, servire a
disvelare alcuni meccanismi dell’ékphrasis. Come è noto, per Lacan
lo sguardo è desiderio: desiderio che tuttavia non può mai realizzarsi,
perché l’oggetto che si vorrebbe vedere non coincide mai con quello
che realmente si vede, resta sempre inaccessibile: «ciò a cui si guarda è
ciò che non può essere visto». In una prospettiva lacaniana, il quadro
assente e inattingibile è un objet petit a, formula che nel lessico di
questo pensatore indica non l’oggetto del desiderio ma ciò che mette
in moto il desiderio: sia quello del pubblico di ascoltare e godere che
quello dell’oratore di parlare e di sedurre.

12. Il piacere del riconoscimento


Ma perché si gode ad ascoltare o a leggere un’ékphrasis? Tra i
motivi, un posto preminente occupa certamente il piacere del ricono­
scimento. Gadamer, commentando quanto dice in proposito Aristotele
nel quarto capitolo della Poetica 44, osserva però che «riconoscere non
vuol dire vedere di nuovo una cosa già vista una volta [...]. Che cosa
sia il riconoscimento, nella sua essenza più profonda, non lo si capi­
sce se ci si limita a osservare che in esso viene conosciuto di nuovo
qualcosa che già si conosce, che il conosciuto viene riconosciuto. Il
piacere del riconoscimento consiste piuttosto nel fatto che in esso si
conosce più di ciò che già si conosceva. Nel riconoscimento la cosa
conosciuta emerge, per così dire, come attraverso una nuova illumi­
nazione [...]» 45. Come un mistagogo che rivela all’iniziato il senso più
profondo di ciò che gli è familiare, l’esegeta è in grado di far scoprire
al lettore/ascoltatore una complessità impensata nelle immagini che
pure sono presenti alla sua mente. L’ékphrasis è perciò in questo senso
una thick description, per usare la nota formula di Clifford Geertz.

13. Ékphrasis e páthe


Si è detto che per conseguire appieno il suo obiettivo, l’ékphrasis
deve condurre il lettore/ascoltatore non solo a “vedere” ma anche a
“sentire” le immagini. Filostrato cerca sempre perciò di comunicare al
suo uditorio gli stimoli sensoriali che la vista del quadro dà 46, e nello

18
stesso tempo si preoccupa di stabilire quell’empatia tra osservatore
e soggetto rappresentato che è condizione necessaria di una corretta
ricezione. Egli stesso ne spiega la ragione nella Vita di Apollonio di
Tiana: «Non potremmo ammirare l’Aiace di Timomaco, raffigurato
in preda alla follia, se non richiamassimo alla mente una certa im­
magine di Aiace e se non ripercorressimo con l’immaginazione come
egli sedesse esausto dopo avere sterminato le greggi intorno a Troia,
risolvendo di uccidere anche se stesso» 47.
Il giudizio estetico non può darsi se non come esito di un processo
in cui l’osservatore, dopo aver riconosciuto il personaggio rappresen­
tato sulla base di conoscenze pregresse, si immedesima in esso e ne
rivive i páthe in una sorta di Einfühlung. Filostrato – è stato osser­
vato 48 – arriva in questo modo a unire creatore ed osservatore in un
unico atto di mímesis, e nella Pinacoteca non di rado riesce a restituirci
l’emozione di cogliere questo atto in fieri. Il compito che il retore ri­
serva a se stesso è quello di favorire e pilotare questo processo grazie
alla sophía di cui è detentore.
Egli d’altra parte sa rendere gratificante il percorso dell’ascoltatore/
lettore facendogli provare quel piacere del riconoscimento di cui si
è detto prima attraverso un avvertito dosaggio di spiegazioni, sugge­
rimenti, rimemorazioni. Filostrato fa sì che nel suo nuoversi dentro
l’architettura del quadro l’osservatore ritrovi i pezzi della sua cultura,
come se rivisitasse i loci per ritrovarvi le immagini che vi erano collo­
cate, secondo i dettami dell’ars memorativa. Lo spazio dell’ékphrasis
è anche un teatro della memoria.

14. Dal testo iconico al testo linguistico


I dipinti che la Pinacoteca descrive sono porte verso una realtà altra,
insieme visiva e verbale, di cui il retore, con il suo magistero, possiede
la chiave. Il patto ecfrastico consente di accedere ad un mondo pa­
rallelo, rivelato della parola sapiente e suadente. La pittura parlante
trasforma l’ascoltatore in spettatore, facendogli provare le sensazioni e
le emozioni che proverebbe se assistesse a ciò di cui Filostrato descrive
la rappresentazione pittorica.
Ma l’emozione va poi in ogni caso verbalizzata. È questo il modo
in cui si suppone debba reagire l’osservatore colto, teste Luciano: «un
uomo istruito che osservi qualcosa di bello, non si accontenterà di
prenderne piacere soltanto con gli occhi, non accetterà di essere spet­
tatore muto della bellezza; cercherà invece di prolungare quel piacere
il più possibile e di rispondere a ciò che vede con la parola» 49. Nella
visione logocentrica della Seconda Sofistica non c’è esperienza estetica
che possa prescindere dalla parola, e proprio a una trama di parole
l’ékphrasis ci invita a ricondurre in ultima istanza l’immagine 50.
Filostrato si propone appunto di insegnare ai giovani bennati la
tecnica corretta di tradurre l’esperienza di un testo iconico in un te­

19
sto linguistico, a produrre qualcosa di molto vicino all’iconotesto di
Wagner, nel quale «the verbal and the visual signs mingle to produce
rhetoric that depends on the co-presence of words and images» 51,
solo che qui la parola non abdica mai totalmente alla sua egemonia.
Bisogna anzi che la mantenga, perché altrimenti – argomenta ancora
Luciano – saremmo disarmati di fronte alla stupefacente meraviglia
(thaûma) della bellezza.
Anche Filostrato sembra condividere la convinzione che solo con
l’arma della parola possiamo controllare il potere dell’immagine 52,
talché la sua ékphrasis è sempre didatticamente attenta a spezzare al
momento giusto un incantesimo visivo troppo intenso con spiegazioni
erudite o osservazioni tecniche che indirizzano diversamente l’attenzio­
ne dello spettatore e la fanno uscire da quella sorta di trance ipnotica
in cui rischia di sprofondare.

15. Magia della parola e sinestesia


Sul fatto che l’ékphrasis confini per Filostrato con la magia e sul
fatto che egli si consideri intimamente una sorta di sciamano (un po’
sul modello del suo eroe Apollonio di Tiana), ci possono essere pochi
dubbi. Filostrato Minore sarà ancora più esplicito nel rivendicare il
buon uso dell’illusione operata dalla parola: «star davanti a cose che
non esistono come se esistessero ed essere trascinati (ágesthai) fino a
pensare che esistono» è una dolce illusione (hedeîa apáte) che risulta
in una forma di intrattenimento (psichagogêsai) appropriato ed esente
da biasimo 53.
Dolce è dunque il filtro che il retore mesce al suo pubblico nell’ék-
phrasis. Esso ha lo stesso sapore di quell’apáte a cui faceva riferimen­
to Gorgia 54 a proposito della tragedia: un’illusione che si realizza
attraverso l’hedonè lógon, il piacere incantatore della parola. Questa
capacità di metamorfosi dell’ascoltare in vedere non è nuova nella
cultura greca: essa appartiene da sempre agli aedi e ai poeti, che la
derivano dalle Muse. Grazie al dono di queste ultime, i poeti sanno
dare piacere (térpein) ed anche incantare (thélgein), facendo vedere
attraverso l’udito 55. Sarà Gorgia a trasportare il potere di incanta­
mento che i Greci attribuivano alla parola poetica nella prosa, e non
stupisce che la Seconda Sofistica rivendichi orgogliosamente questa
eredità, tanto più che la malìa di Gorgia ha una giustificazione pe­
dagogica: rende sophóteros chi ne cade vittima. Anche l’ékphrasis di
Filostrato è dunque un vero phármakon, che ammalia, stordisce, ma
anche rinvigorisce intellettualmente, facendo rivivere empaticamente
quelle vicende esemplari, di altissimo valore paideutico, proposte dalla
sophía di letterati e pittori.
Per fare in modo che il lettore/ascoltatore si consegni di buon
grado all’inganno, ne assapori tutte le delizie ma introietti allo stesso
tempo tutti i valori veicolati dal racconto, Filostrato non si risparmia,

20
e chiama in causa altri sensi, oltre a quello della vista. Anche l’odo­
rato, infatti, gioca un ruolo importante nell’ékphrasis. Nel quadro di
Komos (i, 2, 4) le rose sono «dipinte insieme al loro profumo», così
come nell’Educazione di Achille (ii, 2, 3) la fragranza delle «mele belle
e profumate […] sembra essere dipinta». Le mele profumano anche
nei Doni ospitali (i, 31, 2), mentre nel Temistocle (ii, 31, 1) «sentiamo
anche il profumo dell’incenso e della mirra», nella Nascita di Atena
(ii, 27, 3) «il fumo è dipinto come se ne sentissimo il buon odore» e
nelle Ore (ii, 34, 2) i fiori «olezzano più dolci» delle stesse dee.
Talvolta la sensazione olfattiva viene stimolata richiedendo l’inter­
vento attivo del paîs: «Non senti il profumo che s’emana dal giardino?
O hai l’olfatto un po’ lento? Ma ascolta attentamente, perché durante
la mia descrizione ti raggiungerà anche l’odore delle mele» (Gli Amori,
i, 6, 1); ma quando in Arianna (i, 15, 3), alla descrizione dell’alito
della fanciulla, profumato di mele e di uve, segue l’esortazione: «Ba­
ciala: e ce lo confermerai», difficilmente l’invito sarà davvero diretto al
bimbo decenne: attraverso questo personaggio è piuttosto l’ascoltatore
ideale adulto che l’astuto retore vuole titillare.
Analogo discorso vale per l’udito. Nel Komos (i, 2, 5) il retore
chiede al paîs: «Non ti colpisce il suono dei crotali? E il suono dei
flauti? E il canto disordinato?» In Pan (i, 14, 4) lo esorta: «ascolta
Pan». Nel Meneceo (i, 4, 4) gli promette: «tra poco sentirai il suo
gemito», e nel Bosforo (i, 12, 5): «udrai il muggito dei buoi, mentre il
suono degli zufoli ti riecheggerà intorno». Nei Satiri (i, 20, 1) Olimpo
«risponde al vento con i respiri che trae dal petto». Nell’Ippodamia (i,
17, 1) si sentono le grida di coloro che assistono sbigottiti alla caduta
di Enomao. Talora si sentono suoni di strumenti: nei Cùbiti (i, 5, 1)
sentiamo il «suono dei sistri, che risuonano sempre in quelle acque»
e nei Tirreni (i, 19, 1) «i suoni tipici dei riti orgiastici si diffondono
sul mare». A volte sono suoni della natura a farsi avvertire, come nel
quadro di Palemone (ii, 16, 1), dove il témenos di Poseidone «ripete
dolcemente il mormorio del mare con il canto dei suoi pini chiomati».
Nel Narciso (i, 23, 2) «uccellini gorgheggiano sapientemente», mentre
negli Amori (i, 6, 2) le ali degli eroti «percuotono l’aria in modo da
produrre un suono armonioso» e «c’è chi batte le mani, c’è chi grida»
(ibid., i, 6, 5). Spesso si ode cantare. Negli Abitanti di Andros (i, 25,
1), gli isolani cantano «insieme alle loro donne e ai loro figli» e nelle
Cantatrici di inni (ii, 1, 3 ) «le ragazze stanno cantando. Sì, stanno
cantando: la maestra lancia un’occhiata a una di loro che è andata
fuori tempo e, battendo le mani, cerca di ricondurla sulla giusta ca­
denza» e più oltre (ibid., 4) «anche il canto è stato, in qualche modo,
dipinto». E le Ore (ii, 34, 3) «come sembrano cantare!».
Insomma, tutta la Pinacoteca brulica, si può dire, di suggestioni
sinestetiche abilmente indotte. Nella Rodogune (ii, 5, 5) si arriva ad­
dirittura a prefigurarrne una potenziale, la cui piena realizzazione di­

21
penderà dal livello di cooperazione posto in atto dall’audience: «Se
vorremo ascoltarla attentamente, forse la sentiremo parlare in greco».
Il fine dell’ékphrasis è in fondo sempre il medesimo: non tanto
superare l’immagine con la parola, quanto superare i limiti della pa­
rola rispetto al linguaggio visuale. L’ékphrasis, per quanto sofisticata,
utilizza pur sempre un medium – il linguaggio – non visuale e produce
perciò soltanto delle icone verbali. D’altra parte, come ci ha spiegato
Mitchell, non esistono media totalmente ed esclusivamente visuali 56.
Neppure la pittura lo è. Essa «è sempre costituita – scrive lo studioso
americano citando Tom Wolfe – da “parole dipinte”». Le due tracce
sensoriali, nettamente distinte a livello semiotico, possono tuttavia fon­
dersi in un’esperienza sinestetica nella mente del lettore/ascoltatore. La
condizione perché si realizzi appieno la phantasía è l’intervento attivo
del lector in tabula 57. Filostrato mostra ampiamente di contare sulla
capacità/volontà dei lettori di integrare la descrizione sulla base delle
proprie esperienze cognitive e percettive, in ciò quasi precorrendo, si
sarebbe tentati di dire, la teoria “del supplemento” di Derrida 58.

16. La speranza ecfrastica


Il visibile e la parola – affermò Foucault nella sua celebre analisi
de Las Meninas 59 – «sono irriducibili l’uno all’altra: per quanto ci si
sforzi di dire ciò che si vede, ciò che si vede non risiede mai in ciò
che si dice». Una presa di posizione molto drastica, che sembrò allora
eradicare definitivamente l’opposta convinzione che aveva piantato le
sue radici nella cultura occidentale già con Simonide di Ceo e che,
avendo trovato il suo emblematico vessillo nell’oraziano ut pictura po-
esis, aveva poi attraversato la storia delle idee ora con maggiore ora
con minore fortuna, ma sempre «con una capacità di adattamento
all’ambiente degna di un Proteo» 60. Eppure lo stesso Foucalt, mentre
bollava come vano ogni tentativo «di far vedere, a mezzo di immagini,
metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo [...]», concedeva a denti
stretti che la descrizione, pur restando un espediente artificioso, co­
munque permette «di far passare furtivamente dallo spazio in cui si
parla allo spazio in cui si guarda».
Lo spiraglio è molto angusto, ma attraverso di esso può forse an­
cora sgusciare la Pinacoteca di Filostrato e continuare ad alimentare
quell’«ekphrastic hope» che ci ha additato Tom Mitchell in uno dei
più intriganti lavori moderni su questo tema 61.

Questa traduzione delle Eikónes (Imagines) di Filostrato Maggiore è con­


dotta sul testo stabilito da Arthur Fairbanks, per cui cfr.: Philostratus the
Elder, Imagines, Philostratus the Younger, Imagines, Callistratus, Descriptions,
with an english translation by Ar. Fairbanks, Cambridge (Mass.) and London
1931, pp. 1-271 (= Fairbanks 1931).

22
Quando le esigenze del commento suggeriscono di adottare una lezione
diversa se ne dà avviso nelle note. Senza ricalcare pedissequamente il testo
greco e senza tuttavia tradirne lo spirito, la traduzione ha cercato di offrire ai
lettori italiani uno stile ecfrastico di moderna ed elegante leggibilità. [G. L.]

1 Vedi nota al testo n. 16.


2 È l’idea di Fuchs 1987, p. 15.
3 Proemio, 4.
4 Bougot 1881, Hadot - Lissarrague 1991.
5 Webb 2006.
6 Cfr . nota al testo 14.
7 Cfr. nota al testo 12.
8 Secondo la definizione di Elio Aristide (Orat., xxviii, 71 Keil), una conversazione

informale che riuniva un ristretto numero di persone.


9 Bryson 1994, p. 269.
10 Kunz 1997.
11 In ii, 17, 1.
12 i, 13, 1.
13 Webb 2006.
14 Webb 2006, 133 ss.
15 Vedi Förster 1904.
16 Lissarrague 1995, p. 88 ss., Crescenzo 1999, p. 10 ss.
17 Harloe 2007.
18 Cfr. Venuti 2005.
19 Da ultimo in Abbondanza 2008, p. 10 ss.
20 Bryson 1994, p. 274 ss.
21 Vedi specialmente Ghedini 2000 e 2004.
22 Genette 1997.
23 Citato da Bolzoni 2002, p. xxx.
24
Paulicelli 1996; Surliuga 2002.
25
Hollander 1988.
26
Alpers 1960.
27
Settis 2006, p. 35.
28
Pucci 2008.
29
Ermogene, Inst. Or., Progymn., ii, 118.
30
Progymn., ii, 12, 11, p. 118 Sp.
31
Sull’enárgeia in relazione all’ékphrasis vedi Clüver 1998, Zangara 2004, Zanker
1981.
32
Quintil., Inst. Or., viii, 3, 61.
33
Dubel 1997.
34
Ibidem.
35
Spinicci 2008, p. 167.
36
Wickhoff 1900.
37
1411b 22‑1412a 10. Cfr. Quint., Inst. Or., ix, 2,40, e Scholz 1998.
38 Sul concetto di phantasía in Filostrato vedi Watson 1994, p. 4766 ss.
39 De mem. et rem., 450 a 25-32.
40 vi, 3, 31
41 Webb 1997.
42 Elsner 2004.
43 Freud pubblicò Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten nel 1905.
44 1448b 12.
45 Gadamer 1989, p. 146.

23
46
Sul vocabolario della vista in Filostrato vedi Palazzini 1996.
47
ii, 22.
48
Maffei 1991, p. 611 ss.
49
De dom., 2
50 Spinicci 2008, p. 172.
51 Wagner 1996, p. 16.
52 Newby 2009.
53 Proem., 4. Sugli effetti psicagogici dell’ekphrasis vedi Goldhill 2001, p. 166.
54 Nell’Encomio di Elena, ma anche nel fr. B 23 D.-K. (Plut. Gl. Ath., 348c).
55 Calame 1991, p. 203.
56 Mitchell 2005.
57 Il calembour è già stato usato da Calabrese 1982 e Pucci 1989.
58 Su cui D’Alessandro 2008, p. 29 ss.
59 Foucault 1966, p. 25.
60 Pinotti 2007, p. 203.
61 Mitchell 1992.

24
La Pinacoteca
di Filostrato Maggiore
Libro primo

Prologo
[1] Chi non ama la pittura si dimostra ingiusto verso la verità 1 e
ingiusto verso la sapienza che è propria dei poeti 2: uguale è infatti
il contributo dell’una e dell’altra alle imprese e alle immagini degli
eroi 3. Ma non rispetta neanche la proporzione, attraverso la quale
l’arte si conforma alla ragione 4. Per chi voglia considerare le cose con
attenzione, la pittura è un’invenzione degli dèi: lo attestano le figure
che le Stagioni 5 disegnano sui prati e i fenomeni del cielo. Ma per
chi esamina l’origine dell’arte, l’imitazione è la scoperta più antica e
più confacente alla natura. La trovarono infatti uomini sapienti: alcuni
chiamandola pittura, altri arte plastica. [2] Le forme della plastica
sono molte: c’è infatti la plastica propriamente detta, c’è l’imitazio­
ne attraverso il bronzo; poi ci sono coloro che intagliano il marmo
Ligdio o Pario; poi c’è l’avorio; e – per Zeus! – anche la glittica è
un’arte plastica. La pittura risulta dai colori 6. E non fa solo questo:
ma compie con maestria, attraverso quest’unico mezzo, molto di più
di quanto un’altra arte compie con mezzi più numerosi 7. Essa infatti
mostra l’ombra 8 e conosce lo sguardo dell’uomo folle, dell’uomo che
soffre e dell’uomo che gioisce. Un artista della plastica riesce a stento
a rappresentare le diverse qualità dello sguardo, mentre la pittura sa
rendere l’occhio grigio, l’occhio azzurro e l’occhio nero; sa rendere i
capelli biondi, i capelli rossi, i capelli dorati, e il colore delle vesti e
delle armi, e le stanze e le case e i boschi e i monti e le fonti e l’aria,
in cui tutte queste cose si trovano. [3] Quanti raggiunsero il vertice
di questa conoscenza, quante città e quanti sovrani ne furono appas­
sionati è stato detto da altri e soprattutto da Aristodemo di Caria, che
io, proprio a causa della pittura, ebbi mio ospite per quattro anni 9.
Dipingeva alla maniera di Eumelo 10, ma apportandovi una grazia
molto maggiore. Ma ora il discorso non verte sui pittori, né sulle loro
biografie. Proponiamo invece degli esempi di pittura che abbiamo fat­
to oggetto di conversazioni con alcuni giovani, dalle quali essi possano
apprendere a interpretare le pitture e ad apprezzarne il valore 11. [4]
Ecco quale fu il punto d’avvio di questi discorsi. Presso i napoletani
si stavano tenendo i Giochi 12: Napoli è una città dell’Italia e i suoi
abitanti, di origine greca, sono molto colti e lo dimostra anche il loro

27
interesse, veramente greco, per i discorsi 13. Io non volevo tenere con­
ferenze in pubblico, ma i ragazzi che frequentavano la casa del mio
ospite mi tormentavano con la loro insistenza. Perciò me ne andai 14
fuori dalle mura della città, in un sobborgo che dava sul mare e in
cui era costruito un portico su quattro, credo, o su cinque piani 15, ri­
volto verso il vento di zefiro e affacciato sul mar Tirreno. Risplendeva
dunque di tutti i marmi che il lusso può elogiare, ma soprattutto si
fregiava di dipinti su tavola 16 adattati alle pareti e scelti, mi sembrava,
con un certa competenza, visto che dimostravano la maestria di parec­
chi pittori 17. [5] Io, per parte mia, mi ero già convinto che bisognasse
tessere l’elogio di quei quadri 18. Ma c’era con me il figlio del mio
ospite, davvero un ragazzino, sui dieci anni, già desideroso di ascoltare
e felice di imparare: mi guardava trascorrere da un quadro all’altro
e mi chiedeva di spiegarglieli. Non volendo passare per una persona
sgarbata, «Va bene», dissi, «ne faremo l’oggetto di una lezione quando
gli altri giovani saranno giunti». E quando i giovani giunsero, dissi:
«Il vostro compagno mi si ponga di fronte e a lui io dedico l’impegno
del mio discorso. E voi seguitemi, non soltanto approvando ma anche
facendo domande, se qualcosa non dovessi dirla chiaramente».

1. Scamandro
[1] Ti sei reso conto, ragazzo, che questo quadro s’ispira a Ome­
ro 19? Oppure, condotto evidentemente a chiederti con sorpresa come
mai il fuoco possa vivere nell’acqua, non te ne sei ancora reso conto?
Cerchiamo dunque di capire che cosa il quadro significhi. Distogli lo
sguardo dal disegno, in modo da considerare soltanto i fatti da cui esso
parte. Conosci certo quel passo in cui Omero fa insorgere Achille a
causa della morte di Patroclo e in cui gli dèi si muovono a combattere
l’uno contro l’altro. Il quadro ignora ogni altro aspetto della battaglia
tra gli dèi e ci parla soltanto di Efesto che irrompe possente e violento
sullo Scamandro. [2] Guarda di nuovo il quadro: tutto deriva da quel
passo. Ecco l’alta cittadella, ecco i bastioni di Ilio. Qui la grande pianura
s’estende quanto basta a schierare l’Europa contro l’Asia. E sulla pianura
la piena del fuoco s’ingrossa e striscia possente lungo le rive del fiume,
sì da bruciarvi ogni albero. Il fuoco intorno a Efesto scorre sull’acqua e
il fiume, straziato dal dolore, invoca la pietà di Efesto. Ma il fiume non
è dipinto con la sua solita capigliatura, perché il fuoco gli ha bruciato i
capelli. Ed Efesto non zoppica, perché è lanciato nella corsa. La fiamma
del fuoco non è rossastra e non ha il suo aspetto abituale, ma brilla
come l’oro e come il sole. Queste cose non sono in Omero 20.

2. Komos
[1] Il demone Komos, da cui viene agli uomini il komázein (il fare
baldoria), si è fermato alle porte del talamo 21. Porte dorate, credo: ma
lo si percepisce a stento, perché sono avvolte dalla notte. La notte non

28
è dipinta come un’entità personificata, ma attraverso la rappresenta­
zione di un particolare momento 22: il vestibolo mostra che nel letto
giacciono due novelli sposi alquanto benestanti. [2] Komos è giunto,
giovane presso i due giovani: con la sua tenerezza ancora impubere,
paonazzo per il vino e barcollante per la sonnolenza dell’ebbrezza.
Dorme piegando il volto sul petto, sì da non lasciare apparire il col­
lo, e tiene la mano sinistra sull’orecchio. Ma, benché sembri avere
afferrato l’orecchio, la mano è in realtà rilassata e negligente, come
capita sempre quando cominciamo a dormire: accarezzata dal sonno,
la nostra mente cade nell’oblio di ciò che la occupava. Perciò anche
la fiaccola sembra scivolare via dalla mano destra, ormai languida per
il sonno. Temendo che il fuoco gli lambisca la gamba, Komos porta
la coscia destra accanto alla sinistra e sposta da questo stesso lato la
torcia, tenendo la mano lontana dalla sporgenza del ginocchio, per
sottrarla al soffio del fuoco. [3] I pittori si fanno un dovere di raffi­
gurare i volti dei giovani, perché i quadri che ne siano privi sembrano
ciechi. Ma Komos non ha quasi bisogno di mostrare quel suo volto
piegato nell’ombra del capo. Il pittore invita, credo, le persone così
giovani a non fare festa senza coprirsi il volto. Tutte le altre parti del
corpo sono dipinte con grande precisione e la torcia le fa brillare
portandole alla luce 23. [4] Va apprezzata la corona delle rose: non
certo per la sua forma (perché non è impresa difficile imitare, quan­
do capita, con colori gialli o azzurri le forme dei fiori), ma bisogna
lodare la dolcezza e la delicatezza della corona. E io plaudo anche
alla rugiada delle rose e affermo che sono state dipinte insieme al
loro profumo 24. [5] Cosa resta da dire sulla festa? Che altro, se non
che ci sono i festeggianti? Non ti colpisce il suono dei crotali? E il
suono dei flauti? E il canto disordinato? La luce delle torce permette
ai festeggianti di vedere le cose a loro prossime e lo impedisce a noi.
Si raduna una folla ridanciana: le donne vanno insieme agli uomini e
indossano calzari e cinture inusuali: la festa consente infatti alle donne
di comportarsi come gli uomini e agli uomini di comportarsi come le
donne e di assumere un’andatura femminea. Le corone non sono più
fiorenti: adattate al capo e scompigliate lungo la corsa, hanno perso il
loro aspetto gioioso, giacché la libertà dei fiori non tollera mani che
li facciano appassire prima del tempo. Il quadro rappresenta anche il
frastuono, indispensabile alla festa. E la mano destra batte a pugno
chiuso nel cavo della sinistra, così da produrre un battito unisono,
alla maniera dei cembali.

3. Le Favole
[1] Le Favole vengono a trovare Esopo 25, perché lo amano, dato
che egli se ne è preso cura. Della favola si interessarono anche Omero,
Esiodo e Archiloco, a proposito di Licambe: ma Esopo ha composto
favole con tutti gli aspetti della vita umana. E per indurci a ragionare

29
ha dato la ragione anche agli animali. Infatti biasima la cupidigia, re­
spinge l’arroganza e la frode, assegnando un ruolo a un leone, a una
volpe e a un cavallo: e, per Zeus!, neppure la tartaruga è muta. E da
questi animali i fanciulli diventano discepoli dei fatti della vita. [2]
Rinomate grazie a Esopo, le Favole vengono alle porte del saggio per
cingere le sue tempia di bende e per incoronarlo con una ghirlanda
di ulivo. Egli attende, credo, all’intreccio di una favola: lo dimostra­
no il sorriso di Esopo e i suoi occhi fissi al suolo. Il pittore sa che
la composizione delle favole richiede una mente serena. E il dipinto
raffigura sapientemente 26 anche il corpo delle favole: fondendo sem­
bianze animali a sembianze umane, colloca intorno a Esopo una danza
tratta dal suo stesso teatro e vi dipinge come corifea la volpe. Esopo
infatti ne fa lo strumento della maggior parte dei suoi temi, così come
la commedia ricorre al servitore Davo.

4. Meneceo
[1] Ecco l’assedio di Tebe: la città ha infatti sette porte. Ed ecco
l’esercito di Polinice, il figlio di Edipo. Ci sono sette schiere. Si avvi­
cina Amfiarao con l’aria sfiduciata di chi presagisce cosa accadrà. E
anche gli altri comandanti sono in apprensione: per questo levano le
braccia verso Zeus. Capaneo osserva le mura, pensando sprezzante che
i bastioni si possano assalire. Ma dai bastioni non si lanciano ancora
dardi, perché i Tebani esitano ad attaccare battaglia. [2] La trovata 27
del pittore è piacevole. Nel collocare uomini armati intorno alle mura,
alcuni ce li fa vedere per intero, di altri nasconde le gambe, altri ce li
mostra per metà, di altri si vede solo il petto, di altri ancora si vedo­
no gli elmi o la punta delle lance. Questo è tenere giusto conto delle
proporzioni, ragazzo: bisogna infatti ingannare gli occhi, in modo che
circolino per il quadro secondo opportuni percorsi 28. [3] E a Tebe
non mancano i profeti. Tiresia infatti pronuncia un oracolo: quando
Meneceo morirà presso il covo di un serpente, la città sarà libera 29.
Ed egli muore, all’insaputa del padre: degno di compassione per la
sua giovane età, ma fortunato per il suo ardimento. Osserva l’arte del
pittore. Non dipinge un giovane pallido e dissoluto, ma un giovane
vitale e atletico, con quella fiorente carnagione mielata che piace al
figlio di Aristone 30. E gli dà rilievo con il colorito del petto e con la
proporzione dei fianchi, dei glutei e delle cosce. Le spalle attestano
forza, il collo non è rigido e la chioma è fluente ma non profusa. [4] Si
è fermato presso il covo del serpente, la spada sguainata e già immersa
nel fianco. Raccogliamo, ragazzo, il suo sangue offrendogli un golfo
dai nostri abiti 31: esso scorre e l’anima già se ne invola e tra poco
sentirai il suo gemito. Anche le anime provano amore dei bei corpi,
allorché, loro malgrado, devono abbandonarli. A mano a mano che il
sangue scorre, egli si sente mancare e accoglie gioioso la morte, con
lo sguardo bello e dolce di chi sembra cedere al sonno.

30
5. I Cùbiti
[1] Intorno al Nilo 32, giuocano i Cùbiti, fanciulli di statura uguale
al loro nome 33. Il Nilo li ama: tra l’altro, anche perché annunciano
agli Egiziani la quantità delle sue tracimazioni. Sono condotti dalla
corrente quasi emergendone, fanciulli delicati e sorridenti e – direi
– anche chiacchierini. Alcuni si posano sulle spalle del fiume, altri si
lasciano pendere dai riccioli delle sue chiome, altri dormono nelle sue
braccia, altri si divertono sul suo petto. E il fiume li cosparge dei fiori
del suo grembo e delle sue braccia, affinché ne intreccino corone e
si addormentino, sacri e odorosi, su un giaciglio floreale. E i fanciulli
salgono gli uni sulle spalle degli altri, al suono dei sistri, che risuonano
sempre in quelle acque. [2] I coccodrilli e gl’ippopotami, che alcuni
artisti dipingono nel Nilo, se ne stanno ora nel gorgo profondo per
non spaventare i fanciulli. I simboli dell’agricoltura e della navigazione
dimostrano, o ragazzo, che si tratta del fiume Nilo per questa ragione:
il Nilo rende l’Egitto navigabile e, assorbito dalle pianure, concede
che si goda di una terra molto fertile. E in Etiopia, dove il fiume ha
la sua sorgiva, c’è un dio che dispensa le acque in giusta proporzione
secondo le stagioni. Da come è stato dipinto, s’intuisce che questo dio
è di statura tale da toccare il cielo: il suo piede poggia sulle fonti e il
suo capo annuisce, come fa Poseidone: il fiume si volge a guardarlo e
lo prega di fargli avere molti figli.

6. Gli Amori
[1] Guarda: gli Amori raccolgono mele 34. Non meravigliarti se so-
no così numerosi: sono figli delle Ninfe e governano tutto il genere dei
mortali. Sono molti perché molte sono le cose che gli uomini amano. E
d’altra parte dicono che l’amore celeste regge le cose divine. Non senti
il profumo che s’emana dal giardino? O hai l’olfatto un po’ lento? Ma
ascolta attentamente: perché durante la mia descrizione ti raggiungerà
anche l’odore delle mele. [2] Questi filari di piante si alzano diritti in
modo che, tra di essi, si liberi uno spazio per le passeggiate mentre
l’erba che cresce tenera al margine dei sentieri offre un giaciglio a chi
vi si voglia sdraiare. Dall’estremità dei rami, mele auree, rosseggianti
e gialle invitano l’intero sciame degli Amori a raccoglierle. Le faretre
sono rivestite in oro e anche i dardi sono dorati e tutto il gruppo vola
nudo e leggero appendendo le faretre ai meli, e i mantelli giacciono
sull’erba variopinti d’una miriade di colori. E non portano ghirlande,
quasi che la loro chioma bastasse a incoronarli. Le ali sono azzur­
re, purpuree e talvolta auree, ma tutte percuotono l’aria in modo da
produrre un suono armonioso. E i canestri in cui ripongono le mele!
Quante sardoniche li adornano, quanti smeraldi, quante perle auten­
tiche! Li diresti opera di Efesto. Ma non hanno bisogno che il dio
procuri loro scale per raggiungere la cima degli alberi: volano infatti
all’altezza dei meli. [3] Ma per non parlare soltanto di quelli che dan­

31
zano, che corrono o che si divertono a mangiare mele, guardiamo cosa
significhino questi altri. Guarda quei quattro Amori, un po’ distaccati
dagli altri: sono i più belli di tutti. Due di loro si rilanciano una mela
l’uno con l’altro, gli altri due si scambiano dardi. Non un segno di
minaccia nei loro volti: l’uno offre il petto all’altro, pronto a ricevere
il colpo. È un bell’enigma: guarda perciò se riesco a capire il pittore.
Si tratta, ragazzo mio, dell’amicizia e del desiderio reciproco. Infatti
quelli che giuocano con la mela cominciano solo ora a provare il de­
siderio: per cui, l’uno lancia la mela dopo averla baciata, l’altro l’acco­
glie con le braccia protese: ed è chiaro che, se la prenderà, la bacerà
a sua volta prima di rilanciarla. La coppia degli arcieri va rafforzando
un amore cominciato già da tempo. E ritengo che i primi giuochino
perché cominciano a innamorarsi, gli altri dardeggiano perché l’amore
non abbia mai a cessare. [4] Quelli circondati da una folla di spet­
tatori sono accesi dalla collera e una lotta li impegna: ti descriverò
anche questa, visto che ne hai tanta voglia. Uno ha preso l’avversario
assalendolo alle spalle e, mentre lo attanaglia fin quasi a soffocarlo, lo
avvinghia con le gambe. L’altro non si arrende: si leva ritto in piedi e
riesce a sottrarsi alla mano che lo stringe, distorcendone un dito, così
che le altre dita, incapaci di tenerlo, allentino la presa. Straziato dal
dolore, quello col dito slogato morde l’orecchio dell’avversario: ma gli
Amori che osservano la scena, indignati per una condotta così scorret­
ta e contraria alle regole della lotta, lo lapidano con le mele. [5] Non
ci sfugga quella lepre: diamole la caccia insieme agli Amori. Eccola
acquattata sotto i meli: mangia i frutti caduti dall’albero e ne lascia
molti semirosicchiati. Quelli le dànno la caccia, spingendola di qua
e di là: c’è chi batte le mani, c’è chi grida e c’è chi agita il mantello.
Alcuni le volano sopra con grande baccano, altri la inseguono a piedi,
passo dopo passo: e uno di loro le si lancia addosso per afferrarla, ma
l’animale scappa dall’altra parte. Un altro tenta di acchiappare la lepre
per la zampa, ma quella, appena si sente presa, fugge via. Ed essi se
la ridono, gettandosi per terra, alcuni sul fianco, altri a faccia in giù,
altri a faccia in su: tutti in una posa di delusione. Nessuno usa l’arco:
tentano di catturare l’animale vivo, perché è l’offerta più gradita ad
Afrodite. [6] Come sai, si dice che la lepre partecipi moltissimo dei
doni di Afrodite. Della lepre femmina dicono che, mentre allatta il
suo cucciolo, ne generi un altro nutrendolo con lo stesso latte. E poi
rimane ancora gravida e non c’è stagione in cui non sia pregna. Quan­
to al maschio della lepre, non si limita all’inseminazione, secondo la
natura maschile, ma – evento del tutto innaturale – rimane anch’esso
gravido 35. E gli amanti pervertiti, trovando la lepre eroticamente allet­
tante, ne traggono una tecnica violenta per corteggiare i loro amati 36.
[7] Ma lasciamo queste cose agli uomini ingiusti e indegni di ricevere
amore. Guarda invece Afrodite. In quale parte del frutteto si trova?
Vedi quell’antro scavato nella roccia, donde sgorga un fiotto d’acqua

32
azzurrissimo, fresco e dissetante, che poi scorre di qua e di là in modo
da irrigare i meli? Puoi stare certo che lì c’è Afrodite: credo che ve
l’abbiano collocata le Ninfe, perché, rendendole madri degli Amori,
ha dato loro figli molto belli. E quello specchio argenteo, quel sandalo
dorato, quella spilla d’oro, tutte queste cose non sono state appese lì
inutilmente, ma si dichiarano offerte ad Afrodite: lo conferma l’iscri­
zione in cui si legge che sono doni delle Ninfe. E gli Amori offrono
le primizie dei meli e, standole intorno, pregano che il loro giardino
rimanga sempre così bello.

7. Memnone
[1] Ecco l’esercito di Memnone. Le armi sono state messe da parte
dai suoi uomini, che ora espongono il corpo del più grande tra loro
per il compianto funebre. Mi pare che sia stato colpito in pieno petto
da una lancia di frassino. Quando infatti trovo una vasta pianura,
tende, un accampamento fortificato, una città ricinta di bastioni, non
posso non dire che questi sono gli Etiopi, che questa è Troia e che
si sta compiangendo Memnone, il figlio dell’Aurora 37. Dicono che,
quando venne per difendere Troia, il figlio di Peleo lo uccise, benché
egli fosse un grande guerriero, per nulla inferiore al suo avversario.
[2] Guarda come il suo corpo si distende al suolo, guarda la chioma
dei suoi riccioli, che egli curava – credo – per offrirli al Nilo. Se infatti
le prime bocche del fiume sono degli Egizî, le sorgenti spettano agli
Etiopi. E guarda com’è imponente la sua figura, anche con gli occhi
ormai spenti. Guarda quella leggera barba: segno che egli aveva la
stessa età del suo uccisore. Né diresti che Memnone avesse la pelle
nera 38: infatti in quel nero così intenso risplende un che di fulgente.
[3] Ecco le divinità del cielo. Aurora, in lutto per il figlio, rende il
Sole oscuro e prega la Notte di giungere in anticipo a coprire l’accam­
pamento, affinché le sia possibile sottrarre, con l’assenso di Zeus, la
spoglia del figlio. Vedi: il corpo viene sottratto e si trova già sui bordi
del quadro. E ora in quale parte della terra si trova? Il sepolcro di
Memnone non si trova da nessuna parte, perché lo stesso Memnone
è in Etiopia, trasformato in una statua di pietra nera: una figura assi­
sa d’aspetto, credo, simile a quello che vediamo qui. I raggi del sole
battono sulla statua e, quasi fossero un plettro, fanno vibrare le labbra
di Memnone traendone un voce che, con un suono artificiale, consola
la dea del Mattino 39.

8. Amimone
[1] Credo che in Omero avrai incontrato Poseidone che incede
sulle acque, quando da Ege muove verso gli Achei, mentre il mare in
bonaccia lo accompagna con i suoi cavalli e con i suoi mostri. Come
nei versi omerici, anche qui essi seguono Poseidone e gli fanno festa.
Ma lì – credo – ti accorgi che sono cavalli di terra ferma, perché Ome­

33
ro li dice «zoccoli bronzei», «rapido volanti» e sferzati dal frustino.
Qui invece il carro è tirato da cavalli marini, dotati di zoccoli acqua­
tici, abili nuotatori e occhiazzurrini: sembrano delfini, per Zeus! In
Omero, Poseidone ha l’aria irritata di chi se la prende con Zeus perché
fa ripiegare l’esercito greco e ne decide la sconfitta; qui invece egli è
dipinto raggiante, con lo sguardo pieno di felicità: perché è preda di
un grande amore. [2] Amimone, la figlia di Danao 40, usando indugiare
sulle acque dell’Inaco, ha infatti soggiogato il dio e, senza rendersi
ancora conto di essere amata, lo spinge tuttavia a farle la corte. L’ap­
prensione della fanciulla, la sua agitazione, quell’aurea brocca cadutale
dalle mani dimostrano che Amimone è frastornata e non sa con quali
intenti Poseidone lascia con tanta fretta il mare 41. L’oro della brocca
risplende attorno al suo pallore naturale, mescolandosi al riflesso dalle
acque. Allontaniamoci dalla ninfa, ragazzo. Infatti l’onda s’inarca già
per le nozze: ancora azzurra e con un che di gioioso, ma Poseidone
sta per tingerla di porpora 42.

9. La Palude
[1] Il terreno è umido e produce canne e felci che la grande fertilità
delle paludi lascia crescere spontaneamente, inseminate e incoltivate.
Ma vi sono raffigurati anche la tamerice e il cipresso: anche queste sono
infatti piante delle paludi. Tutto intorno svettano fino al cielo montagne
di varia natura. Alcune accolgono il pino, indizio di un terreno leggero.
Altre verdeggiano di cipressi, segno di un terreno argilloso. E quegli
abeti, che altro dicono se non che il monte è aspro e battuto dalle
tempeste? Non amano infatti le zolle né il calore solare, e dunque se ne
vanno a stare lontano dalle pianure, perché sui monti, con l’aiuto del
vento, cresceranno meglio. Le sorgenti scaturiscono dai monti e, fluendo
verso la valle, mescolano le loro acque trasformando la pianura in una
palude, che non ha però l’aspetto disordinato degli acquitrini fangosi.
Il disegno ne dirige infatti la corrente come se la stessa natura, sagace
in ogni cosa, la dirigesse: e la avvolge in molti meandri, germoglianti
di apio, dove possono facilmente nuotare gli uccelli acquatici. [2] Puoi
infatti vedere le anatre che scivolano a fior d’onda, espirando dai becchi
zampilli d’acqua. E che dire di quella tribù di oche? Anch’esse sono
dipinte secondo la loro natura, mentre navigano sulla superficie dell’ac­
qua. E quegli uccelli con le zampe lunghissime e con il becco enorme?
Ti accorgi, credo, che sono un po’ strani e delicati, ciascuno con un
piumaggio diverso. E anche le loro pose sono varie. Uno se ne sta su
una rupe, prima su due zampe, poi su una sola. Un altro si asciuga le
ali, un altro se le pulisce, un altro ha estratto qualcosa dall’acqua, un
altro ha proteso il capo verso la terra, per trovare qualcosa da mangiare.
[3] Non c’è da stupirsi se i cigni sono cavalcati dagli Amori: sono infatti
dèi insolenti e abili a giuocare con gli uccelli 43. Perciò non trascuriamo
questa cavalcata e il tratto di acqua in cui si compie. È infatti l’acqua

34
più bella della palude: sgorga proprio dalla sorgente e forma un bacino
bellissimo. In mezzo all’acqua, gli amaranti si protendono piegando da
una parte e dall’altra le loro gradevoli spighe, sì che l’acqua ne fiorisca.
Tutt’intorno, gli Amori guidano i sacri uccelli, che mordono un aureo
freno. Qualcuno allenta le redini, qualcun altro le stringe, un altro fa
una virata, un altro ancora si spinge attorno al punto di svolta (mentre
incitano i cigni, mi sembra di sentirli scambiarsi minacce e improperi:
glieli si legge infatti sui volti). E un altro tenta di disarcionare il vicino,
un altro c’è già riuscito, un altro si diverte invece a lasciarsi cadere dal
suo cigno, per prendere un bagno nella corsia della gara. [4] Intorno
alle rive, stanno i cigni più canori e intonano – direi – la melodia or-
tia 44, la più adatta a questo tipo di gare 45. Quel giovane alato che
tu vedi lì, sta a indicare che si sta cantando: è il vento Zefiro e dà la
nota d’attacco al canto dei cigni. È dipinto con un aspetto delicato
e aggraziato, simbolo del suo soffio mite. E, al suo spirare, le ali dei
cigni si allargano. [5] Guarda: dalla palude esce anche un fiume con
la sua corrente ampia e torrentizia: caprai e pastori lo attraversano su
un ponte 46. Ma se tu elogiassi il pittore per il modo in cui ha dipinto
le capre, saltellanti e sfacciate; o per il modo in cui ha dipinto le pe­
core, con quel loro incedere indolente, quasi gravate dal peso dei loro
velli; o se indugiassimo a esaminare gli zufoli e coloro che li suonano
gonfiando le labbra apprezzeremmo la parte meno rilevante del dipinto
(quella relativa all’imitazione), ma non sapremmo elogiarne la dottrina
e la scelta di una circostanza felicemente espressiva, che mi sembrano
i tratti più importanti dell’arte 47. [6] Qual è dunque questa maestria?
Il pittore ha gettato sul fiume un ponte di palme e c’è in questo un
motivo di grande tenerezza. Avendo appreso la leggenda secondo cui
gli alberi di palma possono essere maschi o femmine e avendo anche
sentito che possono accoppiarsi – giacché i maschi traggono a sé le
femmine circondadole con i rami e protendendosi verso di esse – ha
dipinto una palma maschio su una riva e una palma femmina sull’altra
riva 48. Perciò la palma maschio, innamoratosi della palma femmina, si
piega verso di essa fin oltre il fiume: ma, non potendola raggiungere,
perché quella è piuttosto distante, si allunga sull’acqua e finisce per
servire da ponte, offrendo a chi lo attraversa il passaggio sicuro della
sua rude corteccia.

10. Amfione
[1] Si dice che sia stato Ermete il primo a inventare il congegno
della lira 49, con due corni, un ponte traverso e un guscio di tartaruga.
E si dice che l’abbia offerta in dono anzitutto ad Apollo e alle Muse e
poi al tebano Amfione 50. Costui, abitando a Tebe quando la città non
era ancora cinta di mura, indirizzò i suoi canti alle pietre e le pietre,
ascoltandolo, accorsero insieme verso di lui. Questo è il tema del qua­
dro. [2] Anzitutto osserva dunque se la lira è dipinta come si deve.

35
Il corno è quello «della capra saltellante», come dicono i poeti 51: il
musicista lo usa per la lira, l’arciere per le sue proprie armi 52. Come
vedi, i corni sono neri e dentellati, tali da sferrare colpi impressionanti.
I legni sono quelli occorrenti per la lira: tutti di bosso duro e senza
nodi. Nessuna parte della lira è in avorio: gli uomini non conoscevano
ancora l’elefante, né gli usi ricavabili dalle sue zanne. Anche il guscio
della tartaruga è disegnato con grande precisione naturale: su di esso,
anelli irregolari e concentrici girano attorno a borchie gialle. La par­
te inferiore delle corde converge sotto il ponticello, stringendosi alle
borchie; la parte superiore, sotto la traversa, sembra libera: perché
questa disposizione è quella che meglio si rapporta al loro corretto
distendersi sulla lira. [3] E Amfione che dice? Non fa altro che pen­
sare alla lira e lascia vedere i denti quanto basta a chi sta cantando.
Inneggia, ritengo, alla terra, che è la genitrice e la madre di tutte le
cose e che ora gli offre quelle mura pronte a levarsi da sole. Dipinta
con piacevole realismo, la sua chioma fluisce scomposta sulla fronte
e, mischiandosi alla barba dietro l’orecchio, biondeggia come l’oro.
Ma riesce ancora più gradevole per effetto della mitra: che, a dire dei
poeti dei Versi segreti 53, «fu tessuta dalle Grazie come l’ornamento
più amabile» – e sta certo molto bene a chi suona la lira. E mi pare
che Ermete, preso da amore per Amfione, gli abbia fatto entrambi
i doni. Ma anche quella clamide che egli indossa proviene forse da
Ermete: perché non rimane di un unico colore ma è cangiante e sgar­
giante d’ogni sfumatura dell’Iride. [4] Assiso su un poggio, Amfione
batte il tempo con il piede e tenta le corde con la mano destra 54. Ma
anche la sinistra suona, con le dita tese in avanti: un gesto che credevo
possibile solo all’audacia della scultura 55. Ma andiamo avanti. [5] Le
pietre, come sono raffigurate? Tutte accorrono al canto: lo ascoltano
e diventano una muraglia: qui essa è già compiuta, qui è ancora in
costruzione, qui si sono appena gettate le fondamenta. E come sono
belle queste pietre che competono tra loro, docili alla musica! Le
mura hanno sette porte perché le corde della lira sono sette.

11. Fetonte
[1] Quelle lacrime auree sono delle Eliadi 56. La leggenda dice che
scorrano a causa di Fetonte, il figlio del Sole che, per la sua passione
di auriga, osò guidare il carro del padre ma, non sapendo tenerne le
redini, si rovesciò e cadde nell’Eridano 57 (i filosofi vedono qui un’al­
legoria dell’eccessivo calore solare 58, per i poeti e per i pittori si tratta
realmente di un carro e di un cavallo): il cielo ne rimase sconvolto. [2]
Guarda infatti: la notte respinge il giorno dal suo splendore meridia­
no e il cerchio del sole, precipitando verso la terra, trascina con sé le
stelle. Le Ore, lasciando la guardia delle porte, fuggono verso la Notte
che avanza verso di loro, e intanto i cavalli, discioltisi dal giogo, cor­
rono via imbizzarriti. La Terra tende supplice le mani al cielo, mentre

36
il furore del fuoco le si fa incontro. Il giovane, sbalzato via dal carro,
precipita nel vuoto, la chioma avvolta dalle fiamme e il petto avvolto
dal fumo 59: finirà nell’Eridano e fornirà un mito a questo fiume. [3]
Giacché i cigni 60, sospirando dolcemente da ogni parte, comporran­
no un canto per il giovane e, levandosi in volo a stormo, canteranno
questi eventi al Caistro 61 e all’Istro 62 e ogni luogo riecheggerà di
questo racconto. Ovunque, il loro canto potrà valersi dell’agile scorta
di Zefiro che, secondo la leggenda, ha promesso ai cigni di unirsi al
loro compianto. Perciò il vento soffia in mezzo a questi uccelli, così
da farli suonare – lo vedi? – quasi fossero strumenti musicali. [4] Le
donne sulla riva, non ancora fattesi alberi, attestano che le Eliadi, in
lutto per il fratello, mutarono la loro natura e, trasformatesi appun­
to in alberi, continuano a versare lacrime. Il quadro conosce bene la
loro storia: perché colloca le radici degli alberi ai lori piedi e alcune
le dipinge come alberi fino alla cintola di altre mostra le braccia che
già si mutano in ramoscelli 63. Che strazio, quelle chiome fattesi tutte
pioppo! Che strazio, le loro lacrime dorate! Fluiscono dal fondo degli
occhi e, con quelle pupille cilestrine, sembrano trarne un raggio di so-
le. Scintillano sul roseo incarnato delle guance e, stillando sul petto,
sono già tutte d’oro. [5] Anche il fiume piange e trattiene le correnti,
mentre – nell’atto di chi sta per offrire accoglienza – allarga il proprio
grembo a Fetonte. Presto avvierà la coltivazione delle Eliadi: col dono
delle sue gelide brezze, cambierà le loro lagrime in pietre 64, in modo
che, cadendo sulle sue limpide acque, il pulviscolo dei pioppi giunga
fino alle popolazioni barbare dell’Oceano.

12. Il Bosforo
[1] Quelle donne sulla spiaggia gridano: sembra che incitino i ca­
valli a non far cadere i giovani e a non rigettare il morso, ma a impe­
gnarsi nella corsa calpestando la selvaggina. Si direbbe che i cavalli
obbediscano ed eseguano gli ordini. Alla fine della caccia e dopo aver
preso un pasto, i cacciatori vengono traghettati su una nave dall’Euro­
pa all’Asia per circa quattro stadî 65 (tanto infatti distano i due paesi)
ed essi stessi siedono ai remi. [2] Guarda: gettano l’ancora e li accoglie
una casa molto spaziosa, che lascia vedere camere da letto, stanze per
gli uomini, il profilo delle finestre e, tutto intorno, un muro con un
parapetto. La cosa più bella è quel portico semicircolare lungo il mare:
giallo, come le pietre di cui è fatto e che traggono origine dalle acque
sorgive. Un fiotto caldo fluisce infatti dalle falde montane della bassa
Frigia e, scorrendo entro le cave di marmo, sommerge alcune pietre in
modo che riaffiorino intrise d’acqua: donde la varietà dei loro colori.
Dove è stagnante e fangosa, l’acqua conferisce alle pietre un colore
giallo, ma dove è pura leviga pietre cristalline e, secondo i varî modi
in cui è assorbita, dà alla roccia mille sfumature. [3] L’alta scogliera
reca i segni di questo mito. Una ragazza e un ragazzo, belli entrambi

37
ed entrambi discepoli dello stesso maestro, arsero d’amore reciproco
ma, non potendo abbracciarsi senza timore, decisero di morire da
questa rupe: e da qui si lanciarono in mare, stretti in un abbraccio
primo e fatale 66. Dalla rupe, Eros tende la mano verso il mare: per­
ché il pittore vuole così alludere al mito. [4] In quella casa lì vicino,
vive da sola una donna che, infastidita dei suoi giovani corteggiatori,
ha dovuto lasciare la città: minacciavano di rapirla e, corteggiandola
senza ritegno, la allettavano con i regali. Ma io credo che, trattandoli
con un’aria sprezzante, voglia provocare ancora di più i giovani e
perciò, ritiratasi qui, se ne sta in una sicura dimora. Guarda com’è
fortificata: una scogliera svetta sul mare e, mentre in basso s’arretra
battuta dai flutti, in alto s’avanza tenendo la casa sospesa sulle acque.
Agli occhi che lo ammirano da qui il mare sembra più azzurro e, se
non fosse immobile, il promontorio avrebbe tutti i tratti di una nave.
Pur essendo venuta in questo castello, la donna non ha scoraggiato
i suoi innamorati. Tutti si sono imbarcati e navigano verso di lei: chi
su una prora azzurra, chi su una prora aurea, altri su altre barche
dei più varî colori. Una chiassosa brigata di bei giovani inghirlandati.
Uno di loro suona il flauto, un altro batte le mani, un altro ancora
– così sembra – canta. Gettano via le corone e mandano baci. Ora
non vogano più: arrestano i remi e approdano alla scogliera. Dalla
casa, la donna osserva la scena come da un’alta vedetta e ride di quel
festoso corteo, compiacendosi di aver costretto i suoi spasimanti non
solo a navigare ma anche a nuotare verso di lei. [5] Andando avanti
nel quadro, incontrerai greggi e udrai il muggito dei buoi, mentre il
suono degli zufoli ti riecheggerà intorno. Poi t’imbatterai nei caccia­
tori, nei contadini, nei fiumi, negli stagni, nelle sorgenti. Il quadro
ha rappresentato le cose presenti, le cose passate e perfino alcune di
quelle che potrebbero darsi 67. La moltitudine delle cose non ha fatto
meno realistica la descrizione, ma ogni cosa è resa secondo la verità
sua propria, come se il pittore la stesse dipingendo isolatamente. Alla
fine, giungiamo a un santuario. E lì tu vedi bene, credo, il tempio e
le colonne che lo circondano. E il faro che, all’ingresso dello stretto,
manda segnali alle navi provenienti dal Ponto.

13. [I Pescatori] 68
[6] «Perché non passi a un altro quadro? Mi sembra che le cose
del Bosforo siano state esaminate a sufficienza» 69. Che dici? Mi sono
ancora rimasti i pescatori: all’inizio, ho promesso di parlarne. Lascia­
mo stare le figure minori e soffermiamoci sui soggetti degni di nota.
Non ci occupiamo quindi di quelli che pescano con la canna o che si
dànno da fare con la nassa o che tirano la rete o che arpionano con
la fiocina tridentata (al riguardo, avresti infatti poco da apprendere:
ti accorgerai che sono motivi ornamentali del quadro), ma osserviamo
bene coloro che attendono alla pesca del tonno: una pesca importante

38
che merita perciò di essere studiata. [7] I tonni provengono dal mare
esterno al Ponto Eusino, dove essi nascono e dove si nutrono di pesci,
di limo e degli altri depositi fangosi che l’Istro e la palude Meotide 70
vi immettono rendendo così le acque del Ponto più dolci e più pota­
bili di quelle di ogni altro mare. Procedono ordinati come una falange
militare 71, fluttuando vicendevolmente in file di otto, di sedici o di
trentadue e nuotando gli uni sugli altri, tanto in profondità quanto in
larghezza. [8] I modi in cui i tonni vengono catturati sono molteplici:
li si può trafiggere con un ferro affilato, si può spargere una polvere
velenosa a fior d’acqua, ma può anche bastare una piccola rete se
ci si accontenta di prendere solo una parte del branco. La migliore
forma di pesca è comunque questa. Sulla cima di un alto palo sale in
vedetta un uomo rapido nel contare e di vista acuta. Occorre infatti
che tenga gli occhi fissi al mare, allungando lo sguardo quanto più
lontano possibile. Quando vede i tonni avvicinarsi, deve gridare a gran
voce verso coloro che sono sulle barche, dicendo quante migliaia ce
ne siano. E i pescatori, sbarrando il passo ai tonni con una rete chiusa
e profonda, fanno un bottino superbo, tale da arricchire il capo della
battuta di pesca. [9] Ora guarda il quadro: e vedrai come queste cose
si svolgano. L’avvistatore perlustra il mare girando da ogni parte lo
sguardo per cogliere il numero dei tonni. Nell’azzurro del mare, va­
riano i colori dei pesci. Quelli in superficie sembrano neri, quelli che
seguono lo sono un po’ di meno e quelli immediatamente successivi
già ingannano la vista: poi sembrano nell’ombra, poi confusi col mare
e, più lo sguardo s’inabissa, più diventa cieco e non sa distinguere cosa
si celi nell’acqua 72. [10] Ma com’è bella quella turba di pescatori con
la pelle abbronzata per il sole! Uno di loro allaccia un remo, un altro
rema gonfiando i muscoli per lo sforzo, un altro esorta il suo vicino,
un altro ancora colpisce chi non vuol remare. Un grido dei pescatori
si leva quando i pesci cadono nella rete: alcuni sono già stati presi,
altri stanno per essere presi. Non sapendo cosa fare di un bottino così
abbondante, allargano la rete e permettono che alcuni tonni fuggano
e ricadano in mare: tanto lussuosa è la loro pesca!

14. Semele
[1] Bronte dura in volto, Astrape che dardeggia bagliori dagli oc­
chi 73 e il fuoco che si abbatte furioso sulle dimore regali riguardano
il mito seguente, che forse non ti è ignoto. [2] Una nube di fuoco,
avvolgendo Tebe, si apre sulla casa di Cadmo, dove Zeus si sta diver­
tendo con Semele. A quanto sembra, Semele perde la vita, ma genera
Dioniso, – credo, o Zeus! – per effetto del fuoco. Si vede appena l’im­
magine sfocata di Semele che sale al cielo, dove le Muse la canteranno.
E intanto Dioniso salta fuori dal grembo squarciato della madre e,
brillando come un astro, offusca la luce del fuoco 74. [3] La fiamma,
aprendosi, disegna in chiaroscuro 75 per Dioniso una cavità più bella

39
di ogni antro dell’Assiria o della Lidia. Tutto intorno, fioriscono le
edere con le loro bacche a grappolo e già crescono le viti; e gli alberi
di tirso sono prodotti dalla terra così spontaneamente che alcuni di
essi si levano in mezzo al fuoco. E non dobbiamo meravigliarci se, in
onore di Dioniso, la terra inghirlanda anche il fuoco: anch’essa bac­
cheggerà infatti con il dio e concederà che dalle fonti zampilli il vino
e che dalle zolle e dalle rocce il latte venga estratto come dalle mam­
melle. [4] Ascolta Pan: come sembra inneggiare a Dioniso, danzando
sulle cime del Citerone una danza Evia 76. E intanto il Citerone, con
l’aspetto di un uomo, piange le sventure che tra poco tempo dovrà
sopportare: una corona di edera gli scivola giù dal capo, perché si è
inghirlandato senza nessuna voglia. Megera 77 pianta un abete e fa
scaturire una fonte d’acqua: indizio – mi pare – della morte cruenta
di Atteone 78 e di Penteo 79.

15. Arianna
[1] Che Teseo si comportò ingiustamente verso Arianna, quando
la abbandonò addormentata sull’isola di Dia 80 (anche se alcuni dico­
no che non fu un’ingiustizia, ma un volere di Dioniso) certo te lo ha
raccontato la tua nutrice. Le nutrici sono molto brave a raccontare
queste fiabe e, narrandole, si mettono a piangere a volontà 81. Non ho
dunque bisogno di dire che quel personaggio sulla barca è Teseo, né
che quello sulla riva è Dioniso. E se ti invito a volgerti verso quella
donna che dorme dolcemente sulle rocce, non è perché penso che tu
non sappia di chi si tratti. [2] Ma non basta elogiare il pittore nelle
cose per quali anche un altro artista potrebbe essere elogiato. Riesce
infatti facile a chiunque tratteggiare una bella Arianna o un bel Teseo.
Le sembianze di Dioniso sono molteplici: se chi vuole dipingerlo o
scolpirlo ne indovina anche un piccolo particolare, ha colto il dio.
Infatti una corona di bacche d’edera lascia sùbito riconoscere Dio­
niso, anche nell’opera di un artista modesto; le corna che sbucano
dalla fronte indicano Dioniso e la comparsa di una pantera è pure un
simbolo del dio. Ma questo Dioniso è raffigurato solo come un in-
namorato. Ha messo da parte le vesti fiorite, i tirsi, le nebridi perché
tutto ciò è estraneo a questo momento speciale 82. Ora le Baccanti non
agitano i cembali, né i Satiri flauteggiano; e anche Pan arresta la sua
danza scomposta, per non turbare il sonno della giovane. Indossata
una veste purpurea e ricintosi il capo di rose, Dioniso si accosta ad
Arianna, ebbro d’amore, come dice il poeta di Teo 83 degli amanti
troppo appassionati. [3] Anche Teseo è innamorato, ma del fumo che
si leva da Atene. Non riconosce più Arianna né mai l’ha conosciuta.
Dico anzi che ha dimenticato perfino il labirinto e non saprebbe spie­
gare perché mai ha navigato fino a Creta: vede soltanto ciò che sta
davanti alla sua prua. Ma tu osserva anche Arianna o piuttosto il suo
sonno. Il petto è nudo fino alla vita. Il collo, reclinato all’indietro, mo­

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stra una gola delicata. Tutta la spalla destra è scoperta, mentre l’altra
mano trattiene le vesti, affinché il vento non abbia indecorosamente a
sollevarle 84. Com’è dolce, o Dioniso, il suo respiro! Profuma di mele
e di uve. Baciala: e ce lo confermerai!

16. Pasifae
[1] Pasifae s’innamora del toro, prega Dedalo di escogitare qualche
mezzo per allettare la bestia e Dedalo allestisce una giovenca di legno
cavo, del tutto simile alla giovenca cui il toro è abituato nella sua man­
dria. Che essi si siano accoppiati lo dimostra l’aspetto del Minotauro,
mostro di natura ibrida. Qui però viene rappresentata non già questa
unione, ma l’officina di Dedalo, circondato da tante statue: alcune
appena delineate, altre già complete che sembrano in movimento o
nell’atto di incamminarsi. Prima di Dedalo, la statuaria non aveva rea-
lizzato nulla del genere 85. Dedalo ha qui un’aria tipicamente attica:
con l’aspetto da grande sapiente e con lo sguardo pensoso. Ma è attico
anche il suo abbigliamento: è avvolto infatti da un mantello scuro ed è
dipinto senza calzari, anche questo un vezzo assolutamente ateniese 86.
[2] Mentre allestisce la giovenca, se ne sta seduto e fa degli Amori i
suoi assistenti, perché ha anche bisogno di qualche potere di Afrodite.
E infatti, ragazzo, si vedono benissimo gli Amori intenti, alcuni, a fare
girare il trapano, altri a piallare con l’ascia le parti della giovenca non
ancora rifinite, altri alla misura delle proporzioni, essenziale nel lavoro
artistico 87. Ma quelli con la sega in mano superano ogni invenzione
nell’abilità del disegno e del colore 88. [3] Guarda infatti: la sega inve­
ste il legno e già lo trapassa. La manovrano due Amori, l’uno da terra,
l’altro da un’impalcatura, chinandosi verso il basso e tendendosi verso
l’alto, in modo da darci l’impressione di un movimento alterno. E
infatti uno s’è abbassato e accenna a risollevarsi, l’altro s’è risollevato
e accenna ad abbassarsi. E il primo, da terra, respira a pieni polmoni;
il secondo, dall’alto, rigonfia il ventre appoggiandosi con le mani alla
sega. [4] Fuori dall’officina, Pasifae, in mezzo al bestiame, ammira
il toro. Spera di sedurlo con la sua bellezza e con quella sua veste
più splendida di ogni arcobaleno. Ma nel suo sguardo c’è una certa
sfiducia: sa infatti di che bestia s’è invaghita. Ha voglia di abbracciare
l’animale, ma quello non le dà conto e guarda la sua solita giovenca. Il
toro è ritratto con la fierezza del capobranco: ha belle corna, è bianco,
ha un’aria di provetto amatore e getta uno sguardo carezzevole sulla
sua compagna. Ma la giovenca – bianca anch’essa, ma con la testa
nera – se ne va in giro senza curarsi del toro. E salta di qua e di là,
come una ragazza che voglia evitare un corteggiatore molesto.

17. Ippodamia
[1] La costernazione di questa scena è per l’Arcade Enomao 89.
Quelli che gridano intorno a lui (quasi li senti, infatti) sono il popolo

41
dell’Arcadia e di tutto il Peloponneso. Per l’insidia di Mirtilo, il carro
si è rovesciato ed è in pezzi: era un carro a quattro cavalli. Allora, non
si aveva ancora il coraggio di portare la quadriga in guerra, ma nelle
corse essa era ben nota e apprezzata. Ma i Lidî, grandi appassionati
di cavalli, già al tempo di Pelope aggiogavano quattro corsieri ai loro
carri. Poi introdussero anche quattro timoni e si dice che siano stati
i primi a usare otto cavalli. [2] Guarda, ragazzo, i cavalli di Enomao,
come sono impressionanti: vogliono sfrenarsi al galoppo, pieni di rab­
bia e di schiuma (tra gli Arcadi se ne trovano molti come questi). Sono
neri, perché sono stati aggiogati per uno scopo mostruoso e maledet­
to. I cavalli di Pelope sono invece bianchi, docili alla briglia e amici
della Persuasione: il loro nitrito è dolce e presago di vittoria. Enomao
giace lì, simile al tracio Diomede, con un aspetto barbaro e crudele.
Quanto a Pelope, non dubiterai – credo – che una volta Poseidone
si sia invaghito della sua bellezza, quando sul monte Sipilo faceva il
coppiere degli dèi: per amore, lo mise a guidare questo carro, benché
fosse ancora giovanissimo. Il carro può andare ugualmente per terra e
per mare: ma non una goccia d’acqua schizza sull’asse, perché il mare
sostiene i cavalli solido come la terra. [3] Pelope e Ippodamia vincono
dunque la corsa: entrambi dritti sul carro e ormai uniti, sembrano tanto
presi l’uno dell’altra da essere quasi sul punto di abbracciarsi. L’uno è
vestito secondo l’elegante foggia lidia e mostra l’età e la bellezza che
hai potuto vedere poc’anzi 90, quando chiedeva i cavalli a Poseidone.
L’altra indossa un abito nuziale e ha appena scoperto il volto, perché
la vittoria le ha conquistato un marito. E anche l’Alfeo 91 salta fuori
dai suoi gorghi per offrire una corona d’olivo a Pelope, che si sta avvi­
cinando alla riva. [4] Nelle tombe lungo la pista di corsa sono sepolti
i pretendenti. Tredici giovani che Enomao ha ucciso per rinviare le
nozze della figlia. Ma la terra fa crescere fiori attorno a queste tombe,
affinché anche i pretendenti sembrino incoronarsi, ora che Enomao ha
avuto quello che meritava 92.

18. Le Baccanti
[1] Qui, o ragazzo, sono rappresentate anche scene del Citerone 93:
i cori delle Baccanti, le rocce intrise di vino, il nettare che stilla dai
grappoli e la terra che rende le zolle ricche di latte. Ecco l’edera ram­
picante, i serpenti con la testa diritta e gli alberi di tirso gocciolanti
– parrebbe – di miele. Questo abete è riverso a terra per un gesto
violento delle Baccanti punte da Dioniso: è caduto quando le Baccanti
l’hanno scosso per catturare Penteo, che sembrava loro un leone. E ora
fanno a brani la loro preda, la madre e le sorelle della madre: queste gli
staccano le braccia, quella trascina il figlio per i capelli 94. Diresti che
cantino vittoria: il petto ansante sembra gridare evoè. Lo stesso Dioniso
se ne sta in vedetta su un poggio, le guance rosse di collera, e stimola
le donne a baccheggiare. Esse non vedono quanto sta succedendo e,

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quando Penteo le supplica, dicono di udire un leone ruggente. [2]
Questo accade sul monte. La scena più vicina rappresenta Tebe e la
casa di Cadmo. C’è un lamento funebre sulla preda uccisa: i parenti di
Penteo ne ricompongono le membra dilaniate, per custodirle almeno
in una tomba. La testa che giace a terra è quella di Penteo: non più
irriconoscibile, ma anzi tale che lo stesso Dioniso avrebbe pietà di quel
volto così giovane, di quel mento tenero, di quelle chiome fulve mai
ricinte dall’edera, dallo smilace o dal pampino, mai agitate dal flauto
o dal delirio. Irritato dalle donne, egli le irritava a sua volta: ma la sua
pazzia fu proprio il rifiuto di impazzire con Dioniso. [3] Dobbiamo
giudicare degna di pietà anche la vicenda delle donne: quante cose
esse ignoravano sul Citerone; di quante cose ora si rendono conto!
Le ha abbandonate non solo il loro furore, ma anche la forza che le
spingeva a delirare. Sul Citerone, frementi per la lotta, esse facevano
riecheggiare la montagna del loro grido; qui invece se ne stanno ormai
calme e hanno capito i misfatti del loro delirio. Sedute per terra, una di
loro piega la testa tra le ginocchia, un’altra sulla spalla, mentre Agave
fa per abbracciare il figlio, ma esita a toccarlo: le sue mani, il suo volto,
il suo seno nudo grondano del sangue del figlio 95. [4] Ci sono anche
Armonia e Cadmo 96, ma non più nelle loro sembianze originarie: stan­
no diventando serpenti dalle cosce in giù e le squame già li avvolgono.
Spariscono i loro piedi, sparisce la loro schiena e il cambiamento del
loro aspetto avanza verso l’alto. Atterriti, essi si abbracciano, come per
trattenere il loro corpo residuo, sì da non farselo sfuggire.

19. I Tirreni
[1] Una nave sacra e una nave pirata. Al timone della prima nave
c’è Dioniso; sulla seconda si sono imbarcati i Tirreni, predoni del loro
mare. Sulla nave sacra, Dioniso si disfrena secondato dal grido delle
Baccanti: i suoni tipici dei riti orgiastici si diffondono sul mare, che
porge docile il suo dorso a Dioniso, quasi fosse il suolo della Lidia.
Sull’altra nave, tutti sono presi da follia: non pensano più a remare e
molti hanno già perso le mani. [2] Cosa rappresenta questo quadro?
Rappresenta l’insidia tesa dai Tirreni a Dioniso 97. Hanno sentito dire
che Dioniso è un effeminato e un vagabondo; e che la sua nave, colma
di ricchezze, è quasi una miniera d’oro; e che lo accompagnano donne
lidie, Satiri, sonatori di flauto e un vecchio portatore di ferula; e che
c’è anche un carico di vino Maronio con Marone in persona. Avendo
anche sentito che insieme a Dioniso navigano i Pan con l’aspetto di
caproni, avevano in mente di rapire le Baccanti e di lasciare ai Pan le
capre che vivono nella terra dei Tirreni. [3] La nave pirata naviga in
assetto da guerra. È infatti armata di speroni, di rostro, di maniglie
di ferro, di lance e di lunghi pali sormontati da falci. Per atterrire chi
si imbatte sulla sua rotta, la nave vuole apparire una sorta di mostro
marino: è dipinta con toni verdastri e sembra guardare dalla prua con

43
occhi truci; a poppa invece si assottiglia a forma di mezzaluna, come
la coda di un pesce. [4] La nave di Dioniso ha un aspetto singolare.
A poppa appare squamosa, ricoperta com’è di cembali adattati l’uno
sull’altro, affinché, qualora i Satiri, avvinazzati, si addormentino, Dio­
niso possa comunque navigare in mezzo al frastuono. Sulla prua è in­
vece raffigurata, in rilievo, una pantera d’oro. Dioniso ama la pantera
perché è il più ardente tra gli animali e salta leggera come una Mena­
de. Qui vedi peraltro un’autentica pantera, che naviga con Dioniso e
si lancia contro i pirati, senza attendere alcun cenno. Questo tirso è
cresciuto in mezzo alla nave e ora funge da albero maestro, cui sono
adattate vele purpuree che brillano gonfiandosi al vento: un ricamo
in oro vi disegna le Baccanti sul Tmolo 98 e i fatti di Dioniso in Lidia.
Che la nave si mostri avvolta dalla vite e dall’edera e che i grappoli
vi oscillino sopra è certo uno spettacolo meraviglioso. Ma ancora più
meravigliosa è quella fonte di vino che la nave ricurva fa zampillare
e scorrere. [5] Ma torniamo ai Tirreni, finché sono ancora lì. Dioniso
li ha fatti impazzire e ora il sembiante dei delfini va impadronendosi
di loro (non sono però i delfini cui siamo abituati e che nascono in
mare). E uno ha già i fianchi azzurri, un altro ha il petto viscido, a
questo spunta una pinna sulla schiena, a quello sta crescendo una
coda; quello ha il capo mozzo; quest’altro ha perso il resto del corpo;
a quello si scioglie una mano; quell’altro grida mentre vede svanire i
suoi piedi. [6] Dioniso, dalla prora, ride di tutto ciò e impartisce or­
dini ai Tirreni, che hanno cambiato il loro aspetto di uomini in quello
di pesci e la loro condotta disonesta in una condotta onesta. Tra poco
infatti Palemone 99 navigherà su un delfino e, senza svegliarsi, dormirà
disteso sul dorso dell’animale. E Arione 100, sul Tenaro, dimostra che
i delfini sono compagni degli uomini e amano il canto: e sanno fron­
teggiare i pirati a difesa degli uomini e della musica.

20. I Satiri
[1] Stando alle fonti e all’antro, il luogo dovrebbe essere Cele­
ne 101. Marsia si è però allontanato o per pascolare le greggi o per la
sua contesa con Apollo. Non sprecare elogi per l’acqua: anche se è
rappresentata calma e fresca, troverai molto più gradevole Olimpo 102.
Egli sta dormendo, dopo avere sonato il flauto, mollemente su un mol­
le giaciglio floreale: e il suo sudore si mescola alla rugiada del prato.
Zefiro lo invita a svegliarsi, soffiandogli tra i capelli ed egli risponde
al vento con i respiri che trae dal petto; e intanto le canne canore gli
stanno già vicine, con i ferri atti a forare i flauti. [2] Invaghitasi di
lui, una schiera di Satiri paonazzi e sogghignanti contempla il giovane:
uno di loro vorrebbe toccargli il petto, un altro vorrebbe stringersi
al suo collo, un altro arde dalla voglia di strappargli un bacio. Lo
cospargono di fiori e lo venerano come un simulacro. E il più accorto
tra loro, estraendo la linguetta di un flauto ancora caldo delle labbra

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di Olimpo, la morde nell’illusione di baciare lo stesso Olimpo e poi
va dicendo di avere gustato l’alito del giovane.

21. Olimpo
[1] Per chi suoni il flauto, Olimpo? Che bisogno hai della musica,
in tanta solitudine? Lì vicino a te non c’è un pastore, non c’è un ca­
praio: né suoni per le Ninfe, che certo comincerebbero le loro belle
danze al suono del tuo flauto. Non so comprendere che piacere tu
provi a osservare l’acqua che scorre sulla roccia. Cos’hai da dividere
con quest’acqua? Non sta gorgogliando per te, né canterà insieme al
tuo flauto. D’altra parte, noi non guardiamo quanto duri il tuo giorno;
noi che vorremmo prolungare il suono del flauto fino a notte fonda.
Se poi cerchi la tua bellezza, lascia perdere l’acqua: noi siamo molto
più bravi a spiegartela tutta quanta 103. [2] I tuoi occhi sono lucenti
e fissano quasi sempre il flauto; il tuo sopracciglio s’inarca, quasi a
indicare il senso di ciò che stai sonando; la guancia sembra scuotersi
come danzando secondo la musica; e tu soffi soltanto nel flauto, senza
gonfiare il tuo volto. I tuoi capelli non sono trascurati, ma non sono
nemmeno imbrillantinati come quelli di un giovanottino della città:
sembrano arruffati, perché sono un po’ secchi, ma le foglie aguzze
e verdi del pino ne nascondono la secchezza. È davvero una bella
corona ed è adattissima ai giovani della tua età: lasciamo che i fiori
crescano per le donne e che producano per le ragazze il loro rossore.
E io dico che il tuo petto non è pieno soltanto del tuo respiro, ma
anche dei tuoi pensieri musicali e della tua arte esecutiva. [3] L’acqua
ti ritrae fino al punto in cui tu ti sporgi verso di essa dalla roccia. Se
ti avesse ritratto in piedi, non avrebbe rappresentato adeguatamente
la parte dal petto in giù: le immagini che l’acqua riflette in superfi­
cie presentano infatti dimensioni distorte 104. Il tuo profilo sull’acqua
oscilla: sia perché, mentre tu flauteggi, il soffio increspa le onde; sia
anche perché Zefiro viene a fondersi con ogni cosa: con te che suoni
il flauto, con il flauto che accoglie i soffi, con l’acqua della fonte che
s’increspa mentre tu suoni.

22. Mida
[1] Il Satiro 105 sta dormendo. Parliamone sottovoce, in modo che
non si svegli e non faccia svanire le cose che osserviamo. In Frigia,
proprio presso i monti che qui vedi, Mida lo ha catturato con il vino,
mescolandolo all’acqua della fonte presso la quale ora egli giace e
vomita il vino durante il sonno. Ci piace la forza dei Satiri, quando
danzano, ci piacciono i loro modi buffoneschi, quando ridono. Ec­
cellenti amatori, sottomettono le donne lidie, lusingandole con arte.
Ecco le altre caratteristiche che li ritraggono: membra rigide, modi
impetuosi e sanguigni, lunghe orecchie, gambe ricurve, gesti sempre
insolenti, coda equina. [2] Il prigioniero di Mida è raffigurato come

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quegli altri Satiri, ma respira affannosamente per il suo stato d’eb­
brezza 106. Potrebbe bere l’intera sorgente più facilmente di quanto
chiunque altro potrebbe bere una coppa. Le Ninfe danzano intorno al
Satiro, deridendolo perché s’è addormentato. E Mida: com’è tenero,
com’è sereno! Attende alla sua mitra e ai suoi riccioli, porta il tirso e
una veste dorata. Guarda anche le sue grandi orecchie 107: la dolcezza
dello sguardo ne trae un aspetto assonnato, che suscita un’impressione
di indolenza. Il dipinto vuole accortamente farci capire che questi fatti
sono stati divulgati e circolano già tra la gente per opera del calamo,
perché la terra non sa tenere segrete le cose che ha sentito.

23. Narciso
[1] La fonte ritrae Narciso, il dipinto ritrae la fonte e tutta la vicen­
da di Narciso 108. Un giovane, appena rientrato dalla caccia, si ferma
sul bordo di una fonte e prova desiderio di sé stesso: innamorandosi
della propria bellezza, riflette sull’acqua – come puoi vedere – tutto il
suo splendore. [2] L’antro è quello di Acheloo 109 e delle Ninfe ed è
dipinto con un certo realismo: le statue denunciano un’arte rozza e sono
ottenute da una pietra del luogo: alcune le ha erose il tempo, altre le
hanno danneggiate i figli dei bovari e dei pastori, quando erano ancora
piccoli e non percepivano la presenza della divinità. La fonte non è
ignara dei riti bacchici, dato che Dioniso l’ha manifestata alle Lenee:
è coperta di vite, di edera, di belle piante rampicanti e non mancano
i grappoli e gli alberi da cui nascono i tirsi. Su di essa, uccellini gor­
gheggiano sapientemente ciascuno a suo modo. Tutt’intorno, crescono
fiorellini bianchi non ancora sbocciati, ma stanno già dischiudendosi
per il giovane. Fedele alla realtà 110, il dipinto fa gocciolare un po’ di
rugiada dai fiori, sui quali si posa anche un’ape. E non saprei dire se è
un’ape vera, tratta in inganno dal dipinto o se siamo noi a ingannarci,
credendo che sia una vera ape 111. Ma lasciamo andare. [3] Quanto a
te, o giovane, non è un dipinto che ti ha ingannato, né ti struggi per
i colori o per la cera 112. Ma non sai che l’acqua in cui rivedi te stesso
ti sta rispecchiando e non ti accorgi dell’artificio della fonte. Eppure
ti basterebbe sollevare il capo, cambiare espressione, muovere appena
una mano, invece di startene fermo lì. Ma tu, quasi avessi incontrato un
amico, aspetti quello che avverrà. Pensi forse che la fonte si metterà a
conversare con te? Ma questo giovane, tutto immerso, orecchie e occhi,
nell’acqua, non ci ascolta. Tocca solo a noi spiegare come il quadro è
stato dipinto 113. [4] Il giovane, in piedi, si riposa incrociando i piedi e
appoggiando la mano sinistra al giavellotto confitto al suolo. Mette la
mano destra al fianco, come per sostenersi, nella posa di chi, inclinato
sul lato sinistro, solleva i glutei 114. Il braccio mostra un varco all’angolo
del gomito e una ruga alla curva del polso, da cui si diparte un’ombra
che arriva fino al palmo della mano, irradiandosi obliquamente, perché
le dita si piegano verso l’interno. Il petto è ansante: non so se è l’affanno

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della caccia o se è già un palpito d’amore. Lo sguardo è certo quello di
un innamorato: naturalmente luminoso e fiero, s’addolcisce tuttavia nel
desiderio languido di chi spera di essere riamato da quell’immagine che
lo rimira come egli la mira. [5] Anche sui capelli avremmo potuto dire
tante cose, se avessimo incontrato Narciso durante la caccia: la corsa e,
soprattutto, i soffi del vento li avrebbero infatti mossi in mille direzioni.
Ma, anche così, abbiamo di che parlare. Abbondante e come dorata,
la chioma ricade in parte sul collo, in parte si divide sulle orecchie, in
parte ondeggia sulla fronte, in parte fluisce sulla barba. I due Narcisi
hanno la stessa figura e appaiono l’uno uguale all’altro: sennonché il
primo è in piedi all’aria aperta, il secondo è immerso nella fonte. Infatti
il giovane sta immobile davanti all’acqua anch’essa immobile e anzi tutta
affisata in lui e quasi assetata della sua bellezza 115.

24. Giacinto
[1] Riconosci il giacinto. C’è infatti un’iscrizione: dice che il fiore
è nato dalla terra in onore di un bel giovinetto e lo piange all’inizio
della primavera perché – direi – ha tratto vita dalla sua morte 116. Non
lasciarti forviare da questo prato: il fiore è nato proprio da qui, come
dalla terra nascono le piante. Il dipinto ci dice anche che il giovane ha
una capigliatura color giacinto e che il suo sangue, dando vita alla ter­
ra, ha conferito al fiore il suo colore caratteristico. Scorre dalla testa,
là dove il disco ha colpito il giovane: sembra incredibile, ma si dice
che questo errore tremendo sia stato commesso da Apollo. Noi però
non veniamo qui come esperti di mitologia, né vogliamo atteggiarci a
scettici 117: vogliamo soltanto ammirare i dipinti. Esaminiamo dunque
il quadro e anzitutto la base da cui il disco è stato lanciato. [2] È una
piccola base, distaccata dal suolo in modo da sostenere una sola perso­
na che, in piedi, sollevi la parte posteriore del corpo e la gamba destra
e protenda il busto in avanti, mentre l’altra gamba si leva per il lancio
e si sposta insieme al braccio destro. È l’atteggiamento del discobolo:
girando il capo sulla destra, deve voltarsi in modo da guardare il pro­
prio fianco e deve scagliare il disco come tirandolo dal basso, facendo
forza con tutta la parte destra del corpo 118. [3] Apollo ha eseguito
il lancio proprio in questo modo: né poteva eseguirlo altrimenti. Il
disco è andato a cadere sul ragazzo che ora vi giace sopra 119. È un
giovane Làcone: diritto di gambe, allenato alla corsa, svelto di braccia,
la sua carnagione lascia intravedere una bella ossatura. Ancora in piedi
sulla pedana di lancio, Apollo gira gli occhi dall’altra parte e guar­
da per terra. Diresti che è confitto al suolo: tanto è rimasto colpito
dall’accaduto. [4] Per vendicarsi del dio, quello sconsigliato di Zefiro
ha diretto il disco contro il giovane e ora ride di tutto ciò e dileggia
Apollo, osservandolo da un’altura. Credo che tu possa riconoscerlo
dalla tempia alata 120 e dalla figura delicata. Cinge una ghirlanda di
fiori d’ogni tipo: tra poco vi intreccerà anche il giacinto.

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25. Gli abitanti di Andros
[1] Ecco il soggetto di questo quadro: il fiume di vino che scorre
nell’isola di Andros e gli isolani che quindi si ubbriacano 121. Per opera
di Dioniso, la terra ha fatto sgorgare per gli abitanti di Andros questo
fiume di vino e lo ha offerto loro. Se hai in mente i corsi d’acqua, ti
sembra piccolo, ma se pensi che porta vino ti sembra grande e anzi
sovrumano. Chi vi attinge può trascurare il Nilo e l’Istro e dire che
questi grandi fiumi sarebbero tuttavia più apprezzati se, anche più pic­
coli, portassero anch’essi vino. [2] Gli isolani stanno cantando – pare
– queste cose insieme alle loro donne e ai loro figli, incoronati di edera
e di smilace: alcuni di loro danzano, altri sono adagiati su entrambe
le rive. Probabilmente celebrano temi come questi: l’Acheloo 122 che
produce canne, il Peneo 123 che irriga la valle di Tempe, il Pattolo 124
che <...> fiori. E che questo fiume rende gli uomini facoltosi, portati
agli affari pubblici e premurosi con gli amici; e che li fa anche belli
perché, quando sono bassi, ne solleva la statura a quattro cùbiti. E
certo cantano anche che questo è l’unico fiume non battuto da greggi
e da cavalli: Dioniso stesso lo fa scorrere affinché venga bevuto in tutta
la sua purezza, versandosi soltanto per gli uomini. Puoi immaginare
di sentire queste cose mentre alcuni di loro le cantano, con la voce
balbettante per il vino. [3] Osserva dunque quello che il quadro ci
mostra. Il fiume si stende su un letto di grappoli spinge fuori i suoi
fiotti purissimi e ha un aspetto alticcio: tutt’intorno crescono i tirsi,
così come le canne crescono intorno ai corsi d’acqua. E chi si allontana
dalla terra e dai simposî vede venirgli incontro, presso le foci del fiume,
i Tritoni, che attingono vino con le conchiglie: alcuni lo bevono, altri
lo fanno zampillare soffiandolo in aria, altri si ubbriacano e danzano.
Anche Dioniso naviga verso le feste di Andros e la sua nave è già or­
meggiata in porto. Guida i Satiri, in confusa brigata, le Baccanti e tutti
i Sileni. Porta con sé il Riso e il Komos 125, le due divinità più allegre e
più adatte ai simposî, affinché il fiume possa essere vendemmiato con
il maggiore piacere.

26 La nascita di Ermete
[1] Questo bambino così piccolo e ancora in fasce, che spinge le
giovenche in una cavità della terra e che poi, ancora lui, ruba i dardi
di Apollo è Ermete. I furti del dio sono davvero spiritosi. Si racconta
infatti che, quando fu generato da Maia, Ermete dimostrò sùbito la
passione e l’abilità di rubare: lo faceva non già perché gli mancasse
qualcosa, ma solo per divertirsi e per giocare 126. Vuoi seguirlo passo
dopo passo? Osserva bene quello che il quadro rappresenta. Ermete
è appena nato sulle vette dell’Olimpo, proprio nel punto più alto,
dov’è la sede degli dèi. Là, dice Omero 127, non si percepiscono le
piogge, non si sentono i venti, non batte la neve: tanto alto è questo
luogo assolutamente divino e libero da tutti i mali di cui invece sono

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affette le altre montagne degli uomini. [2] Qui le Ore si prendono
cura di Ermete neonato 128. Anch’esse sono ritratte, ciascuna secondo
la sua propria bellezza, mentre lo avvolgono in fasce, disponendovi i
fiori più belli perché queste non siano insignificanti. E mentre le Ore
si volgono a guardare la madre di Ermete, ancora distesa sul letto del
parto, il dio scivola fuori dalle fasce, comincia sùbito a camminare e
scende giù dall’Olimpo. La montagna se ne compiace (e ne sorride
con fattezze umane): devi infatti pensare che l’Olimpo è orgoglioso di
avere dato i natali a Ermete. [3] In cosa consiste dunque il furto? Le
giovenche che pascolano alle falde dell’Olimpo hanno le corna d’oro
e il manto più bianco della neve (sono infatti consacrate ad Apollo).
Ermete le guida, sospingendole in una fenditura della terra, non certo
per lasciarle morire ma per farle sparire solo un giorno: quanto basta
a dare un dispiacere ad Apollo. E intanto egli, come se l’accaduto
non lo riguardasse, torna a infilarsi nella culla. Ma ecco: Apollo viene
a reclamare le sue giovenche da Maia: incredula, ella pensa che il dio
stia scherzando. [4] Vuoi sapere che cosa dice Apollo? Mi sembra
infatti non soltanto di sentirne le voce ma di comprenderne i discorsi
dall’espressione del volto. Ha l’aria di rivolgersi a Maia per dirle: «Il
figlio che hai generato ieri mi ha offeso: ha fatto cadere sulla terra,
non so dove, le giovenche che erano la mia gioia. Anch’egli morirà
e sarà a sua volta precipitato più in basso delle giovenche». Maia si
stupisce e non riesce a capire questo discorso 129. [5] Mentre i due
stanno ancora parlando, Ermete si mette dietro Apollo e, saltando
leggermente sulla sua spalla, ne sfila l’arco e lo ruba senza fare rumore
e senza farsi notare. Ma, a furto avvenuto, il ladro non può sfuggire.
E qui si mostra la bravura 130 dell’artista. Stempera la collera di Apol­
lo e lo dipinge sorridente: è il sorriso misurato che si posa sul volto
quando appunto la collera cede a una divertita indulgenza.

27. Amfiarao
[1] Questo carro tirato da due cavalli (gli eroi di quel tempo non
usavano ancora il carro a quattro cavalli, tranne il prode Ettore) porta
Amfiarao che ritorna da Tebe: si dice che allora la terra si aprisse
al suo passaggio, affinché egli, saggio tra i più saggi, fosse in Attica
profeta di verità 131. Di quei sette che tentarono di assicurare il potere
al tebano Polinice, nessuno, all’infuori di Adrasto e di Amfiarao, fece
ritorno. Gli altri li trattenne il suolo della Cadmea. Morirono tutti: chi
colpito da una lancia, chi da un masso, chi da una scure. Ma si dice
che Capaneo sia stato colpito dal fulmine perché a quanto pare per
primo si era scagliato contro Zeus con la sua tracotanza 132. [2] Ma
questi personaggi appartengono a un’altra storia. Il quadro ci invita a
osservare Amfiarao mentre scende sotto terra con le sue bende e con
le sue foglie d’alloro 133. Tirate da cavalli bianchi, le ruote sembrano
girare come un vortice. E i cavalli soffiano a piene froge, bagnando

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la terra di schiuma. La loro criniera è cadente. Sui loro fianchi umidi
di sudore si posa una leggera polvere, che se li rende meno belli ha
tuttavia un effetto di grande realismo. Peraltro Amfiarao è armato di
tutto punto: gli manca soltanto l’elmo, perché il suo capo è sacro ad
Apollo. E infatti nei suoi occhi c’è un che di sacerdotale e di profetico.
[3] Il quadro raffigura anche Oropo 134, un giovinetto fra donne vestite
d’azzurro: sono le Ninfe del mare. E il luogo in cui Amfiarao va a me­
ditare: un sacro e divino recesso. C’è anche la Verità, biancovestita e
c’è anche la porta dei sogni: perché chi giunge là a consultare l’oracolo
deve dormire 135. Perciò viene dipinto anche il Sogno: con un aspetto
pieno d’abbandono e con un manto bianco su una veste nera, per si­
gnificarne, credo, l’aspetto notturno e insieme diurno. Tiene anche un
corno tra le mani, perché guida i sogni dalla porta della verità 136.

28. I Cacciatori
[1] Non oltrepassateci, o cacciatori, non incitate i vostri cavalli,
prima che anche noi avremo indovinato quali siano il vostro intento
e la vostra preda. Voi dite di andare alla caccia di un cinghiale sel­
vaggio 137. E infatti vedo i danni che la bestia ha causato: ha divelto
gli ulivi, ha stracciato i vigneti, non ha lasciato intatto un solo fico,
una sola mela o il fiore di un melo; ha eradicato dal suolo ogni cosa o
scavando o saltandovi sopra o strisciandovi. Lo vedo mentre, le setole
irte e gli occhi infocati, fa stridere i denti contro di voi, o valorosi cac­
ciatori! Queste bestie hanno un udito impressionante, perché riescono
a percepire anche un vocio molto lontano. Eppure io credo che voi,
mentre andavate alla caccia della beltà di quel giovane, ne siate stati
catturati e ora siate pronti ad affrontare qualunque rischio. Perché
gli state così da presso? Perché quasi lo toccate? Perché vi siete volti
a guardarlo? Perché i vostri cavalli urtano l’uno contro l’altro? [2]
Che mi è successo? Il quadro mi ha indotto a credere che questi non
fossero personaggi dipinti ma esseri reali, che si muovono e amano
davvero: tanto che io scherzo con loro come se potessero ascoltarmi e
ho l’impressione di essere udito a mia volta. Né tu hai detto nulla per
distogliermi dal mio errore, vinto come sei al pari di me e incapace di
liberarti dall’illusione e dal sogno in cui essa t’ha avvolto. Ma osser­
viamo il dipinto: perché stiamo appunto davanti a un dipinto 138. [3]
Circondano quel giovane altri giovani, belli e a bell’opre intenti, come
si conviene a rampolli di buon casato. Chi ha l’aspetto maschio della
palestra, chi ha un’aria aggraziata, chi ha modi eleganti; e c’è anche
chi – vorresti dire – ha appena sollevato il capo da un libro. I cavalli
su cui incedono mostrano tutti un manto diverso: c’è il cavallo bianco,
c’è il cavallo sauro, c’è il cavallo nero e il cavallo baio. Hanno redini
d’argento e bardature variopinte e dorate (si dice peraltro che i bar­
bari residenti presso l’Oceano versino questi colori sul bronzo incan­
descente, di modo che poi, condensati e petrigni, possano mantenere

50
le figure in essi tratteggiate) 139. E anche i giovani sono abbigliati ed
equipaggiati ciascuno con una foggia diversa. C’è chi cavalca legando
una tunica leggera con una bella cintura: credo che sia un abile lan­
ciatore di giavellotto. Uno di loro ha il petto coperto da un’armatura,
quasi minacciando battaglia al cinghiale. Un altro protegge gli stinchi,
un altro ancora le gambe. [4] Il giovane incede su un cavallo bianco
che però, come puoi vedere, ha la testa nera: sulla fronte, porta un
disco bianco ben tornito a forma di luna piena, ha bardature in oro e
morde un freno di colore scarlatto persiano – una tinta che, accanto
all’oro, emette i bagliori delle pietre infocate. Il giovane veste una
clamide leggermente rigonfia per il vento e colorata di quella porpora
tiria che i Fenici apprezzano tanto e che va davvero preferita a tutte
le altre: scura com’è, dà infatti l’impressione di strappare qualcosa alla
bellezza del sole e di essere come screziata dal suo caldo splendore.
Pel pudore di mostrarsi nudo ai presenti, il giovane ha indossato una
corta tunica di porpora, che lo copre fino a metà della coscia e fino
alla piega del gomito. Sorride con uno sguardo lucente: la sua chio­
ma è profusa, ma non tanto da coprire gli occhi quando il vento la
investe. Altri elogeranno forse le guance del ragazzo, il disegno del
suo naso e ogni altro particolare del suo volto, io invece ammiro la
sua fierezza: è infatti forte come deve esserlo un cacciatore, è orgo­
glioso del suo destriero e sa bene di essere amato 140. [5] I bagagli dei
cacciatori sono trasportati da alcuni muli con un mulattiere: trappole,
reti, aste, giavellotti, lance con lame dentate. Alla battuta di caccia
partecipano anche mute di segugi con le loro guide, esploratori e
cani di ogni razza: non solo quelli che hanno un fiuto sopraffino, ma
anche i cani veloci e i cani aggressivi, perché davanti al cinghiale ci
vuole coraggio. Il dipinto mostra razze della Locride, della Laconia,
dell’India e di Creta: alcuni cani hanno un’aria altezzosa e abbaiano
<...>, altri sembrano intenti a qualcosa, altri ancora seguono le tracce,
digrignando i denti. [6] Quando si saranno allontanati, i cacciatori in­
toneranno un inno per Artemide Agrotera 141. Lì c’è infatti un tempio
della dèa, con un simulacro levigato dal tempo e con le offerte votive
di teste di cinghiali e di orsi. Varî animali sacri alla dèa pascolano
in libertà. Cerbiatti, lupi e lepri: tutti mansuefatti, non hanno paura
degli uomini. Dopo avere levato una preghiera, i cacciatori ripren­
dono la caccia. [7] Il cinghiale, che non sa starsene nascosto, sbuca
fuori da un cespuglio e si getta sui cavalieri mettendoli in trambusto
con il suo assalto. Vinto dai loro dardi, non viene tuttavia trafitto a
morte: sia perché è resistente ai colpi, sia perché i cacciatori non sono
abbastanza spavaldi. Indebolito da una ferita superficiale alla coscia,
l’animale fugge attraverso la boscaglia e trova riparo in una palude
profonda e nello stagno contiguo. [8] Mentre tutti gli altri, vocianti,
inseguono la preda fino allo stagno, il giovane si lancia sul cinghiale
con questi quattro cani. La bestia salta su per ferire il cavallo, ma il

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giovane, tenendosi in equilibrio sulla sella, si piega verso destra e, con
tutta la forza del suo braccio, vibra un colpo che raggiunge la preda
proprio al raccordo tra la spalla e il collo. Da lì i cani trascinano il
cinghiale all’asciutto, mentre sulla riva gl’innamorati acclamano, quasi
gareggiando a chi grida più forte. E uno di loro, avendo spaventato il
cavallo proprio mentre tentava di governarlo, ne è stato disarcionato.
Un altro intreccia una corona per il giovane, con i fiori del prato che
circonda la palude. Egli, ancora nello stagno, mantiene la posa di chi
ha appena scagliato un giavellotto. Gli altri, stupefatti, lo ammirano
come se ammirassero una figura dipinta 142.

29. Perseo
[1] Questo non è il Mar Rosso e questi non sono gl’Indi. Si tratta
degli Etiopi e di un eroe greco. E dell’impresa che quest’eroe volle
compiere per amore. Credo che anche tu, ragazzo, avrai sentito parlare
di Perseo: uccise, dicono, un mostro emerso dal mare Atlantico, che in
Etiopia devastava al suo passaggio mandrie e genti. [2] Il pittore am­
mira questa impresa e prova pietà per Andromeda, lasciata in balìa del
mostro. Il combattimento si è concluso: e ora il mostro marino giace
riverso sulla spiaggia, immerso nella pozza del suo sangue che colora il
mare di rosso 143. A liberare Andromeda dai suoi lacci è stato Eros 144:
qui dipinto, secondo la consuetudine, come un dio alato, ma anche
– tratto inconsueto – come un giovinetto affannato e ancora provato
dalla fatica. Perseo aveva infatti pregato Eros di assisterlo nell’impresa
e di assalire insieme a lui il mostro. Ed Eros lo aveva ascoltato ed era
venuto. [3] La giovane è molto carina, perché è una donna bianca in
terra d’Etiopia. Ed è dolce anche il suo aspetto: vincerebbe la delicatez­
za di una donna Lidia, la maestà di una donna Attica, la forza di una
donna Spartana. La situazione la rende ancora più bella: incredula, la
gioia si mesce in lei alla sorpresa, mentre guarda Perseo e già gli manda
un sorriso. Non lontano da lei, egli giace sull’erba tenera e odorosa,
distillando sudore sulla terra e tenendo nascosto il mostruoso volto del­
la Gorgone, per non fare di sasso quanti lo incontrano. Molti pastori
offrono da bere latte e vino: nonostante l’insolito colore della pelle,
questi Etiopi si rendono graditi e, con quel loro sorriso un po’ truce,
non celano la loro gaiezza – ma sembrano davvero tutti uguali. [4]
Perseo accoglie con gioia i loro doni e, appoggiato sul gomito sinistro,
solleva il petto ansante, guardando la giovane e lasciando che la sua
clamide ondeggi al vento. È una clamide purpurea, ora macchiata dalle
gocce del sangue schizzato durante la lotta con il mostro. A paragone
delle spalle di Perseo, possiamo pure lasciar perdere i Pelopidi 145! La
fatica aggiunge un che di florido alla quella sua sanguigna bellezza, a
quelle sue vene rigonfie, per effetto della respirazione accelerata. Ma
tutta la scena trae molto profitto anche dalle presenza della ragazza.

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30. Pelope
[1] Una veste elegante, di foggia Lidia, un giovinetto con la prima
peluria al mento e Poseidone che gli sorride, onorandolo del dono dei
cavalli, ci indicano che si tratta di Pelope Lidio, giunto qui sul mare
per invocare il soccorso di Poseidone contro Enomao 146. Deciso a non
avere alcun genero, Enomao ha ucciso i pretendenti di Ippodamia e
ora medita di trarre dalle loro spoglie trofei, come fanno i cacciatori
con le teste degli orsi o dei leoni catturati. Alla preghiera di Pelope,
emerge dal mare un aureo carro, tirato da cavalli di terra ferma ma ca­
paci di attraversare l’Egeo senza bagnare l’asse e con un’agile corsa 147.
Pelope porterà a buon fine la sua impresa; noi dobbiamo invece esa­
minare l’impresa 148 del pittore. [2] Certo, non è un cimento da poco
mettere insieme quattro cavalli senza che le loro zampe si confondano
l’una con l’altra e immettere in essi, insieme al morso, la capacità di
stare fermi: benché poi il primo sembri inarrestabile, il secondo sem­
bri voglioso di lanciarsi al galoppo, il terzo sembri <ergere il capo>,
il quarto sembri allargare le froge in un nitrito, compiacendosi della
bellezza di Pelope. [3] Ma anche questo è un segno di bravura 149.
Poseidone ama il giovane e ripensa al lebete e a Cloto 150, quando
Pelope sembrò abbagliarlo con la sua spalla. E tuttavia, senza distrarlo
dalle nozze cui aspira, s’accontenta di toccarne la mano: stringe perciò
la destra di Pelope e gli dà istruzioni per la gara. Ed egli respira già
superbamente l’aria dell’Alfeo e tiene d’occhio i cavalli. Il suo sguardo
dolce si fa altero tuttavia per l’orgoglio di portare la tiara, donde la
chioma del giovane sembra ondeggiare aurea: fluendo armonicamente
sulla fronte e quasi fiorendo insieme alla barba, ricade da entrambe le
parti del viso e si assesta nel modo più giusto. [4] Il dipinto nasconde
i glutei, il petto e tutte le altre parti descrivibili del corpo nudo di
Pelope: la veste s’allunga sulle braccia e anche sulle gambe. I Lidi e i
barbari del nord recludono la loro bellezza entro abiti cosiffatti 151 e
vanno fieri di questi tessuti, quando potrebbero benissimo essere fieri
del loro aspetto naturale. Mentre dunque tutto il resto della figura,
rimanendo dentro la veste, non è visibile, la tunica lascia scoperta,
con studiata trascuratezza, la spalla sinistra, perché lo splendore non
si tenga nascosto. Scende infatti la notte: e il giovane è illuminato dalla
sua spalla come la notte dall’astro della sera.

31. Doni ospitali 152


[1] È bello raccogliere i fichi e non trascurare quelli qui esposti.
Fichi neri, trasudanti il loro succo, si ammucchiano su foglie di vite
e sono dipinti con le fenditure della buccia. Alcuni si sono aperti e
distillano miele, altri sono così maturi che quasi si spaccano. Presso
di essi s’allunga un ramo, tutt’altro che nudo – per Zeus! – o privo di
frutti. Alla sua ombra crescono fichi: alcuni sono ancora verdi o tar­
divi, altri sono grinzosi e appassiti, altri spaccandosi mostrano il loro

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splendido succo, un altro, sull’estremità del ramo, è stato morsicchiato
dal becco di un passerotto: a quanto sembra, questa è la fine dei fichi
più dolci. [2] Tutto il suolo è cosparso di noci: alcune hanno perso
il guscio, altre lo mantengono ancora ma dischiuso, altre mostrano
l’interna membrana. Ma guarda: le pere si ammucchiano sulle pere,
le mele si ammucchiano sulle mele 153, a formare pile di dieci piani:
tutte profumano, lucenti come l’oro. Diresti che quel colore rosato
non sia stato dipinto sulla loro superficie ma sia fiorito dall’interno.
[3] Ecco i doni del ciliegio: qui c’è un grappolo di frutti in un cesto: e
il cesto non è stato intrecciato con vimini diversi da quelli della pianta
stessa. E se osserverai l’annodarsi dei tralci, i grappoli pendenti e gli
acini, ciascuno singolarmente distinto, so bene che canterai Dioniso e
intonerai l’inno per la vigna. «O veneranda madre dei grappoli» 154!
Si direbbe che anche i grappoli del dipinto siano maturi e pieni di
succo. [4] E anche questo è un particolare delizioso: sul frondoso
ramo di un fico miele giallo già coperto di cera e pronto a traboccare,
solo operando una piccola pressione. Su un’altra foglia un formaggio
appena cagliato e ancora tremolante; e ciotole di latte non solo bianco
ma addirittura splendente: giacché sembra davvero risplendere per la
crema che spumeggia in superficie.

54
Libro secondo

1. Le Cantatrici di inni
[1] In un boschetto di teneri mirti tenere fanciulle cantano un’Afro­
dite eburnea. Le guida una maestra esperta ma non ancora anziana: le
sue prime rughe ritengono infatti una certa grazia che porta la maestà
della vecchiezza a mescersi con il fiore ancora integro dell’età. Il tipo
della statua è quello dell’Afrodite Pudica, nuda ma in atteggiamento
decoroso 155; e il materiale è un avorio composto di blocchi ben serrati.
Ma la dèa non vuole darci l’impressione di essere dipinta e risalta dallo
sfondo come per farsi toccare 156. [2] Vuoi che facciamo al suo altare la
libagione di un discorso? Peraltro, ha già sufficienti offerte d’incenso,
di cannella e di mirra: e mi sembra di sentire in qualche modo l’aroma
di Saffo. L’arte del pittore va dunque elogiata anzitutto perché, dispo­
nendo una cornice di pietre preziose, le ha riprodotte non già secondo
il colore ma secondo la luce e vi ha immesso uno splendore che s’irra­
dia come la pupilla dall’occhio; e poi va elogiata perché riesce a darci
la sensazione di ascoltare il canto. [3] Infatti le ragazze stanno cantan­
do. Sì, stanno cantando: la maestra lancia un’occhiata a una di loro
che è andata fuori tempo e, battendo le mani, cerca di ricondurla sulla
giusta cadenza <...> Giacché la loro veste è estremamente semplice e
tale da non creare alcun impaccio se volessero giocare. La cintura ben
avvinta ai fianchi, il braccio non coperto dal chitone, la gioia con cui,
a piedi nudi, calpestano l’erba tenera, traendo refrigerio dalla rugiada,
il prato ricamato sulla loro veste e i colori del ricamo perfettamente
intonati l’uno all’altro: tutto ciò è rappresentato con divina maestria.
Del resto, gli artisti che non rappresentano cose che ben si accordano
fra loro, non sanno dipingere secondo verità 157. Quanto alla bellezza
delle fanciulle, Paride o qualche altro giudice, cui eventualmente la
esponessimo, avrebbero difficoltà a dare un voto: a tal punto esse si
uguagliano gareggiando con le loro braccia rosate, con i loro occhi
lucenti, con le loro belle guance e con le loro «voci di miele» – per
dirla con la dolce formula di Saffo 158. [4] Lì vicino, Eros, piegando
al centro il suo arco, ne tenta per loro la corda: e questa canta con
grande armonia, affermando di possedere tutte le prerogative della lira.
Il dio ha uno sguardo mobilissimo: direi che segua col pensiero qual­
che ritmo. Ma che cosa stanno cantando le ragazze? Anche il canto

55
è stato, in qualche modo, dipinto: raccontano che Afrodite è nata dal
mare, fecondato dal fiotto vitale di Urano. Non dicono ancora a quale
tra le isole sia approdata, ma credo che presto nomineranno Pafo159.
Si limitano a cantare la nascita della dèa: fissando gli occhi al cielo, ci
fanno capire che la dèa proviene da Urano; levando le braccia con le
palme rivolte verso l’alto, ci mostrano che la dèa proviene dal mare. E
nel loro sorriso s’indovina un clima di bonaccia.

2. L’educazione di Achille
[1] Un cerbiatto e una lepre: sono queste, per ora, le prede di
Achille 160, l’eroe destinato a catturare città, cavalli e schiere di armati.
I fiumi combatteranno con lui, quando vorrà fermarne il corso 161. E in
premio delle sue gesta avrà Briseide e sette fanciulle di Lesbo e oro e
tripodi. E avrà gli Achei a lui sottomessi. Ma le imprese compiute pres­
so Chirone sembrano degne piuttosto di frutta e di miele. E tu, Achille,
che ora apprezzi piccoli doni, un giorno disprezzerai intere città e la
parentela di Agamennone. L’eroe che, fermo in trincea, soltanto con il
suo grido costringe alla ritirata i Troiani, che semina morte ovunque si
volga, che fa rosseggiare di sangue lo Scamandro, che conduce i suoi
corsieri immortali, che trascina il cadavere di Ettore, che si strazia di
dolore sul petto di Patroclo: questo eroe lo ha dipinto Omero. E ce lo
rappresenta anche mentre canta, mentre prega, mentre accoglie Priamo
nella sua tenda. [2] Ma questo Achille qui non è ancora consapevole
del suo valore. È un giovinetto che Chirone nutre con il latte, con il
midollo e con il miele, offrendo al pittore la possibilità di raffigura­
re un giovane delicato, ma fiero e agile: le gambe del ragazzo sono
infatti ben dritte e le braccia – preziose scorte durante la corsa – gli
arrivano al ginocchio. La chioma è bella e mossa: e Zefiro giuoca a
scompigliarla, lasciandola ricadere ora da una parte ora dall’altra, di
modo che il ragazzo sembri cambiare espressione. Peraltro, quel tan­
to di supercilioso che traspira dal giovane, quel suo aspetto ardito e
arrogante vengono a mitigarsi in uno sguardo senza cattiveria, nella
grande bontà del suo profilo, nel suo sorriso pronto a intenerirsi. La
clamide che lo avvolge proviene – sembrerebbe – dalla madre, perché
è bella e ha un colore di porpora marina: un rosso fuoco con cangianti
sfumature di blu. [3] Chirone lo adula, dicendogli che cattura le lepri
come un leone e che corre veloce come i cerbiatti. E avendo appena
catturato un cerbiatto, egli viene a reclamare un premio. Chirone si
compiace della richiesta e, piegandosi sulle zampe anteriori per trovarsi
alla stessa altezza del ragazzo, gli offre mele belle e profumate (anche
la loro fragranza sembra essere dipinta), traendole da una sacca della
veste; e allunga la mano per porgergli anche un favo tutto gocciolante
di miele, perché proviene da api ben pasciute. Infatti quando le api
trovano prati fiorenti ne rimangono fecondate e i favi si riempiono di
tanto miele che le celle ne traboccano. [4] Chirone è ritratto come

56
un vero e proprio centauro. Non c’è da stupirsi se un cavallo venga
composto insieme a un uomo. Ma fondere e unificare le due parti e,
per Zeus!, fare in modo che l’una finisca e l’altra cominci e sfuggire
agli occhi che cercano di scoprire il confine della parte umana è opera
– ritengo – di un bravo pittore 162. A fare apparire gentile lo sguardo
di Chirone è il sentimento di giustizia da cui egli ha tratto anche la
sua saggezza. Ma non meno importante è l’azione della cetra, che lo
ha educato al culto delle Muse. E in lui c’è anche un tratto affettuoso:
perché egli certamente sa che l’affetto raddolcisce i giovani e li nutre
più che il latte. [5] Tutto questo accade sulla soglia dell’antro. Il gio­
vane cavaliere che, nella pianura, si diverte in groppa al centauro è
ancora lui: Achille. Chirone gli sta insegnando a cavalcare e si fa usare
come cavalcatura: modera il suo trotto secondo le capacità del ragazzo
e, sentendo la sua irrefrenabile risata di gioia, gli si volge sorridente e
gli dice più o meno queste parole: «Ecco: per te, galoppo senza subire
il frustino. Ecco: per te, m’impartisco ordini. Un cavallo impetuoso
non sopporterebbe certo questa tua risata. Ti ho insegnato a cavalcare
con dolcezza, o divino ragazzo, e sei adatto a montare questo tipo
di cavallo. Ma un giorno monterai su Xanto e su Balio: conquisterai
molte città, ucciderai molti uomini, inseguendoli mentre tenteranno di
sfuggirti». Sono queste le profezie di Chirone, belle e ben auguranti.
Del tutto diverse da quelle di Xanto 163.

3. Le Centaure
[1] Tu credevi che la stirpe dei Centauri fosse nata dalle querce,
dalle rocce o, per Zeus!, soltanto da quelle cavalle che, come dicono,
furono violentate dal figlio di Issione 164: donde i Centauri, unificate
due nature, vennero a una fusione. Ma essi avevano madri della stessa
stirpe: donne e puledre insieme, come del resto i loro neonati, che
vivevano in una dimora piacevolissima. Non credo infatti che tu abbia
qualcosa da ridire contro il Pelio 165, contro il modo in cui lì si vive o
contro l’albero del frassino che, nutrito dal vento, procura lance ben
diritte e, insieme, tali da non spezzarsi mai nella punta. Lì ci sono an­
tri bellissimi e sorgenti attorno alle quali vivono appunto le Centaure.
Sembrano Naiadi, se ne tralasciamo la parte equina. Se invece consi­
deriamo anche il loro corpo di cavalle, sembrano Amazzoni. Infatti, la
delicatezza della loro componente femminile si rafforza quando viene
guardata insieme alla loro natura di cavalle. [2] Alcuni tra i centauri
neonati stanno ancora tra le fasce, altri se ne liberano, altri sembrano
piangere, altri gioire e sorridere succhiando il latte che fluisce dal seno
materno, altri ancora capriolano sotto le loro madri, altri le abbrac­
ciano mentre quelle s’inginocchiano verso di loro; e qualcuno fa già il
monello e tira un sasso alla madre! L’aspetto dei piccoli non è ancora
definito, imbevuti come sembrano di latte. Ma alcuni già scalpitano
mostrando un che di selvatico, benché abbiano una criniera appena

57
incipiente e zoccoli ancora teneri 166. Ma come sono belle le Centaure,
anche nella loro metà equina! Alcune sono nate da cavalle bianche,
altre si approssimano a cavalle baie, altre hanno un manto screziato,
ma tutte hanno la lucentezza propria delle cavalle molto curate. C’è
anche una Centaura bianca nata da una cavalla nera, ma il contrasto
dei colori s’accorda alla bellezza dell’insieme 167.

4. Ippolito
[1] Il mostro è l’effetto della maledizione di Teseo. Piomba sui ca­
valli di Ippolito nella forma di un toro bianco e guizzante come un del­
fino, emergendo dal mare contro il giovane del tutto ingiustamente 168.
Infatti Fedra, la matrigna di Ippolito, ha montato un falso racconto,
dicendo di essere amata da Ippolito, quando invece è lei ad esserne
innamorata. Teseo si lascia così ingannare e scaglia contro il figlio le
maledizioni che qui si possono vedere. [2] Guarda: i cavalli, incuranti
del giogo, drizzano libera la criniera e non galoppano più come cavalli
focosi e tuttavia assennati. Presi dalla paura e dall’eccitazione, bagnano
di bava il suolo: uno di essi si volge al mostro e fugge, un altro gli salta
contro, un altro lo fissa torvo, un altro ancora è spinto dal suo stesso
slancio verso il mare, quasi obliando la terra e sé stesso. E tutti, dalle
froge erette, levano alti nitriti – a meno che tu fraintenda il dipinto.
Una delle ruote del carro ha perso tutti i raggi quando il carro stesso
le si è piegato sopra, un’altra, staccatasi dall’asse, va ancora rotolando
da sola per effetto della sua stessa spinta. [3] E tu, o giovane, amando
la saggezza, hai patito gl’ingiusti atti della tua matrigna e gli atti ancora
più ingiusti di tuo padre. Tanto che anche il quadro ti compiange e
compone una sorta di lamento poetico per te. Le alture su cui andavi
a caccia con Artemide hanno l’aspetto di donne che si straziano le
guance. I prati – con il volto di quei giovinetti che tu dicevi inconta­
minati – per te lasciano ora appassire i loro fiori. Emergendo da queste
fonti, le Ninfe, le tue nutrici, si strappano i capelli, mentre i loro seni
grondano d’acqua. [4] Non ti hanno protetto né il tuo valore, né il
tuo braccio. Le tue membra giacciono dilaniate o calpestate. La tua
chioma è imbrattata. Il tuo petto ansima, come se non volesse staccarsi
dall’anima. Il tuo sguardo rimira le tue ferite. Ah, quella tua bellez­
za! Non avevamo capito che nessuna ferita poteva scalfirla! Neppure
adesso infatti abbandona il giovane, ma anzi da quelle piaghe sembra
rilucere ancora di più.

5. Rodogune
[1] Il sangue versato accanto alle armi bronzee e alle vesti purpuree
conferisce un certo bagliore alla scena dell’accampamento e i punti at­
traenti del quadro 169 sono gli uomini caduti chi in un posto chi in un
altro, i cavalli atterriti e sbandati, le acque contaminate nel fiume lungo
il quale questi eventi accadono, i prigionieri e il trofeo per la vittoria.

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Rodogune 170 e i Persiani trionfano sugli Armeni che hanno violato i
patti: si dice che, in quell’occasione, Rodogune si imponesse in battaglia
senza neanche permettersi di indugiare un momento a sistemarsi la chio­
ma sul lato destro. Non è forse fiera e orgogliosa della sua vittoria? Non
è forse consapevole che, ovunque ci siano Greci, questa sua impresa
offrirà materia di canto alla cetra e al flauto? [2] Viene raffigurata anche
la sua cavalla: una Nisea nera con le zampe bianche, il petto bianco, il
fiato emesso da bianche froge e una <macchia bianca>, perfettamente
rotonda, sulla fronte. Rodogune ha disposto sulla cavalla gemme, collane
e ogni più raffinata bardatura, affinché, traendo vanto dal suo addobbo,
l’animale morda il freno più dolcemente. La donna invece risplende – in
tutto il corpo fuorché nel volto – per i suoi indumenti scarlatti. Una
bella cintura le tiene la veste all’altezza del ginocchio e i bei calzoni mo­
strano un ricamo. Disposti a intervalli dall’omero al gomito, i fermagli
legano la veste, lasciando il braccio scoperto, nel punto della legatura,
e la spalla coperta. Non è certo l’abbigliamento di un’Amazzone. [3]
Dobbiamo poi ammirare lo scudo: di media grandezza, basta a coprire
il petto. E d’altra parte dobbiamo qui esaminare tutta la forza di questo
quadro. Oltre l’impugnatura dello scudo, la mano sinistra stringe una
lancia mantenendo lo scudo medesimo un po’ distaccato dal petto, ma
in modo che il bordo dell’arma rimanga diritto e ne faccia vedere la
parte esterna: quelle figure auree non sembrano viventi? La parte inter­
na, dove c’è la mano, è in porpora e dà risalto all’avambraccio. [4] Mi
sembra, ragazzo, che tu percepisca la bellezza di questa figura e voglia
sentire qualcosa anche al riguardo. Ascolta, dunque. Rodogune è intenta
a una libagione per il trionfo sugli Armeni: il pittore ha qui in mente
una donna che prega. Ed ella prega appunto di potersi sempre imporre
sugli uomini così come si è imposta oggi: non mi sembra infatti che
ami essere amata. Nella loro parte legata, i capelli le dànno l’ornamento
di un pudore che ne mitiga la fierezza, nella parte disciolta le dànno
invece vigore e un aspetto di baccante: così scomposta, la chioma è più
bionda dell’oro, mentre la chioma restante, essendo raccolta, irradia una
diversa tonalità. Ed è molto carino che le sopracciglia comincino dallo
stesso punto e nascano insieme alla base del naso. Ma molto più carino
è il loro inarcarsi: infatti devono non soltanto spingersi oltre l’occhio
ma anche rotargli sopra. [5] Dagli occhi dipende anche quella guancia
così desiderabile e così amabilmente gioiosa (un volto sorride soprat­
tutto con la guancia). Il loro colore varia dall’azzurro al nero ed essi
traggono gioia dall’occasione, beltà dalla natura, fierezza dal primato.
La sua bocca delicata, più che matura per l’amore, sarebbe dolcissima
a baciare: una cosa indescrivibile. Ma osserva, ragazzo, quanto ora devi
apprendere. Le labbra di Rodogune sono fiorenti e armoniche e la sua
bocca è ben disegnata, mentre pronuncia la preghiera di ringraziamento
per la vittoria. Se vorremo ascoltarla attentamente, forse la sentiremo
parlare in greco 171.

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6. Arrichione
[1] Sei arrivato proprio ai giuochi Olimpici e anzi alla gara più
bella fra quelle di Olimpia: il pancrazio degli uomini. Viene incoro­
nato per questa gara Arrichione, morto sùbito dopo la vittoria 172. A
incoronarlo è un giudice di gara: e possiamo dirlo giudice rigoroso, sia
perché è attento alla verità, sia perché è raffigurato con l’aspetto tipico
di quei giudici. Il terreno stesso fornisce lo stadio: un avvallamento
semplice ma sufficientemente esteso, donde sgorga l’agile corso dell’Al­
feo, il solo fiume che possa scorrere, come si sa, anche sulle onde del
mare 173. Tutt’intorno crescono olivi selvatici di colore verdastro, belli
e intrecciati come l’apio. [2] Ma osserveremo queste e molte altre cose
dopo avere osservato lo stadio. Guardiamo anzitutto l’impresa di Ar­
richione, prima che giunga al suo compimento. Sembra infatti che egli
abbia conquistato non solo il suo avversario, ma anche l’intera Grecia.
Gli spettatori gridano sobbalzando sui loro seggi: alcuni sollevano le
braccia ondeggianti, altri agitano la veste, altri si alzano dal suolo, altri
s’azzuffano scherzosi con i vicini. Una gara così avvincente non consen­
te infatti al pubblico di mantenere l’autocontrollo. Chi sarebbe tanto
insensibile da non acclamare un atleta di tale bravura? Egli era già
grande per avere conseguito ben due vittorie a Olimpia. Ma la vittoria
di oggi è ancora più grande: perché, conquistata al costo della vita, lo
invia alla landa dei beati ancora imbrattato dalla polvere del campo.
E non pensare che tutto ciò sia dovuto a una coincidenza: egli aveva
pianificato la vittoria con molta sagacia. [3] E che dire della lotta? I
gareggianti nel pancrazio ricorrono, o ragazzo, alla più pericolosa tra le
varietà di lotta. Bisogna infatti colpire al volto, esponendo il lottatore
a gravi danni. Bisogna intrecciare una serie di corpo a corpo in cui
ci si può imporre solo simulando di cadere. Bisogna avere un’abilità
provetta per avvinghiare l’avversario ora in un punto ora in un altro. E
si lotta anche con le caviglie o torcendo il braccio dell’avversario, senza
cessare di colpirlo e di assalirlo. Nel pancrazio, tutte queste forme di
aggressione sono permesse; è invece proibito mordere e cavare gli oc­
chi. Gli Spartani ammettono anche tali mezzi d’offesa, credo perché in
questo modo si esercitano alle vere battaglie. I giuochi dell’Elide invece
li vietano, ma permettono di strangolare l’avversario. [4] E appunto
l’avversario, avendo già afferrato Arrichione alla cintola, con l’intento
di ucciderlo, gli pianta un gomito sulla gola per ostruirgli il respiro.
Poi gli appoggia le gambe all’inguine e gli inserisce la punta dei piedi
alla piega delle due ginocchia, riuscendo così a soffocarlo per primo.
Un mortale stordimento sembra ora invadere i sensi di Arrichione. Ma
quando l’avversario, non prevedendo il piano di Arrichione, allenta la
morsa delle gambe, Arrichione scalcia via da sé la pianta del piede che
lo comprime (esponendo il suo fianco destro ha corso un grave peri­
colo: e infatti ora il ginocchio pende spezzato) e lo stringe all’inguine,
impedendogli ogni contromossa. Poi gli si poggia sul fianco sinistro e,

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comprimendogli con il suo ginocchio la punta del piede, fa un brusco
spostamento verso l’esterno e gli strappa la caviglia dalla giuntura 174.
Quando l’anima s’invola, toglie al corpo ogni forza, ma gli dà una certa
possanza rispetto al suolo su cui esso poggia 175. [5] L’uomo che ha
soffocato Arrichione è dipinto in tutto e per tutto come un cadavere
e indica con la mano la sua resa. Arrichione è invece dipinto come un
vero vincitore. Il suo sangue ha un colore vivo, il suo sudore è ancora
grondante. Ed egli sorride, come fanno i lottatori sopravvissuti allo
scontro, quando si accorgono di avere vinto.

7. Antiloco
[1] Che Achille amasse Antiloco hai potuto scoprirlo, credo, in
Omero, considerando che Antiloco era il guerriero più giovane 176 e
pensando a quel mezzo talento d’oro che gli fu dato in premio dopo la
battaglia 177. È Antiloco che porta ad Achille la notizia della morte di
Patroclo: perché Menelao aveva saggiamente pensato che per Achille
sarebbe stato un motivo di consolazione potere volgere lo sguardo
sull’amato giovinetto al momento di quell’annuncio. Antiloco piange,
condividendo il lutto dell’innamorato, e gli stringe le mani per impedir­
gli di uccidersi. E credo che Achille sia contento se Antiloco lo tocca e
piange con lui. [2] Questa è la descrizione di Omero 178. Vediamo ora
l’azione raffigurata dal pittore. Giunto dall’Etiopia, Memnone 179 ucci­
de Antiloco (che lo aveva affrontato per difendere il padre) e semina
il terrore tra gli Achei (prima di Memnone, dei negri si favoleggiava
soltanto). Dopo che gli Achei ne hanno recuperato il corpo, Antiloco
viene pianto dagli Atridi, dall’eroe di Itaca 180, dal figlio di Tideo 181 e
dai due eroi con lo stesso nome 182. L’Itacese si lascia individuare dal
suo sembiante austero e accorto. Menelao dal suo tratto gentile. Aga­
mennone dal suo portamento divino. Il figlio di Tideo è contrassegnato
invece dal suo spirito indomito, mentre potrai ravvisare il Telamonio
dalla sua aria truce e il Locrese dalla sua spavalderia. [3] Tutti i soldati
compiangono il giovane e gemono in piedi intorno a lui. Incrociando le
gambe, si appoggiano alle lance piantate al suolo e molti di loro recli­
nano il capo afflitti. [4] Achille non è riconoscibile dalla chioma (l’ha
infatti recisa dopo la morte di Patroclo), ma dalla sua bella figura, dalla
sua statura e dai capelli per l’appunto rasati. Piange, piegato sul petto
di Antiloco e gli promette, credo, un rogo funebre, le offerte estreme e
forse anche le armi e la testa di Memnone. Costui infatti pagherà il suo
fio proprio come Ettore, affinché Antiloco non riceva onori inferiori
a quelli di Patroclo. Memnone se ne sta dritto e terribile, nell’esercito
degli Etiopi: stringe la lancia, avvolto da una pelle leonina, e guarda
Achille con un torvo sorriso. [5] Osserviamo dunque anche Antiloco.
È nel fiore della giovinezza, appena dopo la prima peluria e ha una
lunga chioma bionda. La sua gamba è leggera e il suo corpo è ben
proporzionato e agile alla corsa. La lancia lo ha trafitto al petto, dove

61
ora il sangue gli scorre come un fiotto rossovivo sull’avorio. Il giovane
giace con un’aria tutt’altro che triste: non sembra neanche morto, ma
è ancora gioioso e sorridente. Credo perché Antiloco è stato ucciso
dalla lancia proprio mentre aveva sul volto la gioia per avere salvato il
padre. E l’anima non lo ha abbandonato con un’espressione dolente,
ma con un’espressione piena di letizia 183.

8. Melete
[1] La vicenda di Enipeo e l’amore di Tiro per il fiume è stata nar­
rata da Omero (che racconta anche l’inganno di Poseidone e il maroso
fiorito ad accoglierne il letto coniugale) 184. Questo racconto è diverso e
non viene dalla Tessaglia, ma dalla Ionia. Appunto nella Ionia, Criteide
s’invaghisce del fiume Melete che, mostrandosi con le fattezze di un
giovinetto interamente visibile allo spettatore, si versa in mare nello
stesso punto da cui sgorga. Pur non avendo sete, Criteide ne beve le
acque, attingendole con la mano e conversando con esse come se la
corrente gorgogliasse con voce umana. Lacrime d’amore gocciolano
nell’acqua: e il fiume – che ricambia questo amore – gioisce di me­
scolarvisi. [2] Ma la cosa bella del quadro 185 è proprio il Melete che,
adagiato tra lo zafferano, il loto e il giacinto, un fiore a lui caro per
la sua freschezza, ci offre quel suo aspetto delicato di giovinetto non
privo d’una certa saggezza: diresti infatti che gli occhi di Melete siano
assorti in qualche contemplazione poetica. Un’altra cosa bella del qua­
dro è che il fiume non sgorga da sorgenti impetuose (secondo l’uso di
dipingere i fiumi con tratti brutali) ma, incidendo la terra con la punta
delle dita 186, accoglie nel palmo delle mani l’acqua che zampilla senza
alcuno scroscio. E questo fiume si lascia vedere da noi così come si
lascia vedere da Criteide, assisa, come si dice, accanto al suo sogno. [3]
Ma tutto ciò non è un sogno, o Criteide, né stai scrivendo il tuo amore
sull’acqua 187. Il fiume infatti ti ama, lo so bene: e già progetta una
camera da letto per voi due, sollevando l’ondata sotto la quale dovrà
stare il vostro giaciglio nuziale. Se non ci credi, ti spiegherò anche la
tecnica costruttiva di questa camera. Un leggero venticello soffia sotto
la corrente e la rigonfia, rendendola risonante e anche rilucente: i riflessi
del sole proiettano infatti colori sull’acqua sospesa nell’aria 188. [4] Ma
perché, ragazzo, mi tiri via? Perché non mi lasci esaminare anche la
parte restante del quadro? Se vuoi, possiamo descrivere anche Criteide,
poiché ti dici contento quando il discorso si dilunga su questi temi.
Parliamone, dunque. Ha quell’aspetto delicato che è davvero tipico
delle donne ioniche: il pudore le traluce in volto quanto basta a colo­
rire le guance, e la chioma, sollevata dietro l’orecchio, è adorna d’un
velo purpureo. Credo che questo velo sia il dono di una Nereide o di
una Naiade: com’è infatti naturale, queste dèe intrecciano danze sulle
rive del Melete che offre loro sorgenti non lontane dalle foci. [5] Nel
suo sguardo c’è un che di dolce e di semplice, tanto che nemmeno le

62
lacrime riescono a spegnerne la gentilezza. E il suo collo è ancora più
amabile proprio perché non è ingioiellato. Catenine, gemme lucenti,
collane conferiscono infatti alle donne non eccessivamente belle un’aura
non sgradevole e, per Zeus!, le rendono anche attraenti! Ma sia nelle
donne brutte sia nelle donne bellissime sortiscono l’effetto opposto:
perché accentuano la bruttezza delle prime e sottraggono bellezza alle
seconde. Osserviamo ora le sue mani. Le dita, morbide e ben affusolate,
hanno lo stesso candore del braccio. Ma guarda come la veste bianca fa
apparire il braccio ancora più bianco, mentre i seni risaltano splendidi
sotto il panneggio. [6] Ma perché qui ci sono le Muse? Perché stanno
sulle sorgenti del Melete? Quando gli Ateniesi mossero a colonizzare
la Ionia, le Muse, in sembianza di api, ne guidavano la flotta. Esse
infatti si compiacevano della Ionia proprio a causa del Melete, che ha
acque più dolci di quelle del Cefiso e dell’Olmeo 189. E un giorno potrai
forse incontrarle qui, mentre danzano. Ma ora, per volere delle Moire,
stanno filando la nascita di Omero 190. E il Melete, pel tramite del
figlio, concederà al Peneo di essere un fiume dall’argentea corrente, al
Titaresio di essere leggero e rapido, all’Enipeo di essere divino, all’Axio
di essere bellissimo; e concederà anche allo Xanto di nascere da Zeus
e all’Oceano di dare origine a tutti i fiumi 191.

9. Pantea
[1] Senofonte ci ha descritto il carattere della bella Pantea: come ella
respinse Araspe, come non si piegò a Ciro, come volle essere sepolta
insieme ad Abradata 192. Ma come fossero la sua chioma e il disegno
delle sue sopracciglia, quale fosse il suo sguardo e quale bocca avesse
– Senofonte non ce lo ha detto, pur essendo assai abile a parlare in
dettaglio anche di queste cose. E invece un uomo poco portato alla
scrittura ma bravissimo nella pittura, un uomo che non aveva mai incon­
trato Pantea ma aveva frequentato Senofonte, ci ritrae Pantea secondo
gl’indizî che la sua mente gli suggerisce 193. [2] Le mura, o ragazzo,
e le case in fiamme lasciamole ai Persiani. Lasciamo che rapiscano
le belle donne Lidie e che saccheggino quanto c’è da saccheggiare.
Di Creso, cui il rogo è destinato, non fa menzione neanche Senofon­
te (e il pittore forse non lo conosce o forse vuole fare posto al solo
Ciro). Dato che il quadro intende occuparsi di Abradata e di Pantea
che muore con lui, esaminiamo il loro dramma. I due erano stretti da
grande amore e la donna aveva fatto dei suoi gioielli armi per lo sposo,
quando egli combatteva per Ciro contro Creso su un carro a quattro
timoni con otto cavalli. Ancora con la prima peluria al mento, <cad­
de> giovanissimo, come quegli alberi teneri che si meritano anche la
pietà dei poeti quando vengono strappati dalla terra. [3] Le sue ferite
vengono da nemici armati di spada, perché i colpi di lama sono tipici
dei combattimenti con quest’arma. Il suo sangue fluisce puro sulle armi
e sul corpo, ma arriva a spruzzare anche il cimiero che spicca, color

63
del giacinto, sull’elmo dorato: e l’oro ne trae nuovo splendore. [4]
Anche queste armi sono un bel dono funebre per chi non le ha mai
disonorate, né le ha mai abbandonate durante la mischia. E Ciro porta
all’eroico giovane molte offerte assire e lidie, tra cui un carro ricolmo di
una sabbia aurea proveniente dai superflui tesori di Creso. Ma Pantea,
giudicando che il sepolcro non avrebbe onoranze sufficienti se ella stessa
non diventasse un’offerta funebre per Abradata, si è già immersa una
spada in petto, con una forza tale da non emettere un solo gemito. [5]
E ora giace. Ma la sua bocca mantiene quel suo contorno armonico
e, per Zeus!, quella bellezza che le fiorisce sulle labbra così tanto da
apparire anche quando tacciono. Pantea non ha ancora ritratto la spada
ma, appoggiandosi all’elsa (a quell’elsa simile a un fusto dorato su cui
s’innestano rami di smeraldi), la stringe con le dita che ne risaltano
più amabili. Il dolore non ha mutato affatto il suo aspetto. Anzi: non
sembra neanche soffrire, ma sembra contenta di andarsene là dove
ella stessa ha deciso di avviarsi. Ma non se ne va come la moglie di
Protesilao, ricinta dalle ghirlande dei riti bacchici; né abbigliata per il
sacrificio, come la moglie di Capaneo 194. Pantea se ne va conservando
e traendo seco la stessa bellezza disadorna che offriva ad Abradata in
vita. Mentre la nera chioma le fluisce folta sulle spalle e sul collo, ella
mostra la sua candida gola, che i graffi del dolore hanno straziato senza
deturpazioni: i segni delle unghie sembrano infatti più attraenti di un
disegno 195. [6] Né il rossore vanisce dalle guance della morente: perché
ancora ve lo soffondono la grazia e il pudore. Guarda: anche le narici,
sollevandosi quanto basta, offrono al naso una base dove, come due
virgulti semilunari, le sopracciglia nereggiano sotto la fronte bianca.
Non ci interessa, ragazzo, se gli occhi di Pantea siano grandi o scuri;
ci interessa l’intelligenza che ne traluce, intrisa, per Zeus!, di tutte le
virtù dell’anima. Attirano la pietà, ma non hanno rinunciato alla loro
letizia. Si mostrano intrepidi, ma il loro coraggio è prudente piuttosto
che inconsulto. Consapevoli della morte ormai prossima, non hanno
ancora lasciato la vita. E il desiderio, compagno dell’amore, vi si è a
tal punto insinuato che essi lo distillano apertamente. [6] D’altra parte,
lo stesso Amore è qui dipinto quale parte integrante del racconto. E,
come puoi vedere, è dipinta anche la Lidia, mentre raccoglie il sangue
di Pantea in un’aurea piega della veste 196.

10. Cassandra
[1] Quei corpi riversi di qua e di là nella sala del banchetto, quel
sangue misto al vino, quegli uomini che spirano presso le mense, quella
coppa spinta via con un calcio da un uomo agonizzante là vicino, quella
giovane donna in abiti di profetessa che fissa una scure incombente su
di lei: in questo modo Clitemnestra accoglie Agamennone che rientra da
Troia. E mentre gli altri uccidono i compagni del re, talmente ubbriachi
che anche Egisto trova il coraggio di unirsi all’impresa, Clitemnestra,

64
avendo avvolto Agamennone nella trappola di un peplo inestricabile,
lo colpisce con una scure bipenne che saprebbe abbattere anche un
albero enorme e, sùbito dopo, dirige la stessa scure, ancora insanguina­
ta, contro la figlia di Priamo: perché Agamennone aveva giudicato più
bella della moglie quella profetessa che cantava senza essere creduta. Se
esaminiamo la scena come un dramma, o ragazzo, una grande tragedia
si sta compiendo in un brevissimo tempo 197. Ma se la esaminiamo co-
me un dipinto, potrai vedervi molto di più di quanto vedresti in un
dramma 198. [2] Osserva, dunque. Mentre queste torce diffondono la
luce (tutto accade infatti di notte), quelle coppe dorate risplendono più
del fuoco. Le mense sono imbandite con i cibi convenienti a un pasto
di eroi regali: ma tutto è in disordine, giacché i commensali, morendo,
hanno respinto con un calcio alcune cose, altre le hanno fracassate,
altre ancora le hanno spostate più in là. Quasi tutti i calici cadono dalle
loro mani colmi di sangue insozzato e i morenti hanno la fiacchezza
tipica degli ubbriachi. [3] Essi peraltro giacciono in varie posizioni. A
qualcuno è stata tagliata la gola, proprio mentre ingoiava il cibo o il
vino. A qualcun altro è stata invece tagliata la testa, proprio mentre
si chinava sulla coppa. A un altro è stata mozzata la mano, proprio
mentre portava una bevanda alla bocca. Un altro ancora, cadendo dal
divano, trascina con sé il tavolo. Un altro è riverso con la testa sulle
spalle («a capofitto», direbbe il poeta 199). Un altro non vuol credere
che gli tocchi morire. Un altro non trova la forza per scappare, come
se la sbornia gli avesse gettato una catena alle gambe. Ma nessuno di
loro è pallido: perché chi muore in uno stato di ebbrezza non perde
sùbito il suo colorito. [4] Il personaggio che s’impone su tutta la scena
è certo Agamennone, caduto non già sui campi di Troia o sulle sponde
dello Scamandro, ma in mezzo a ragazzotti e donnicciuole: «bue alla
mangiatoia» 200 – come si dice quando un banchetto viene a coronare
le fatiche. Ma il personaggio che s’impone alla nostra pietà è Cassandra.
La scure in pugno, Clitemnestra la sovrasta con quei suoi occhi furenti,
quelle chiome scomposte, quelle braccia selvagge. E Cassandra, con
un atto tenero e come ispirato, tenta di spingersi verso Agamennone,
lanciando lontano da sé le sacre bende, quasi volesse fasciarlo con la
sua sacra arte. E, mentre solleva gli occhi sulla scure che già le piomba
addosso, emette un grido di dolore così commovente che, all’udirlo, lo
stesso Agamennone, negli ultimi istanti della sua vita, ne prova pietà.
E infatti nell’Ade lo rievocherà a Ulisse e alle altre anime convenute
intorno a lui 201.

11. Pan
[1] Le Ninfe dicono che Pan danza in maniera volgare, si lancia
in alto oltre misura e salta sfacciato come un caprone; e vorrebbero
insegnargli una danza diversa e di più aggraziate movenze. Ma egli
non le ascolta neanche e anzi prova a sedurle, tirandosi su la veste 202.

65
Perciò le Ninfe lo assaltano verso mezzogiorno, quando si dice che
Pan, rientrato dalla caccia, si addormenti. [2] Prima d’ora dormiva
rilassato, espirando dal naso un che di mansueto 203, quasi che il sonno
riuscisse a placare la sua tempra collerica. Ma oggi è su tutte le furie.
Le Ninfe gli sono infatti piombate addosso e gli hanno già legato le
mani. Ed egli teme ora per le sue gambe, che quelle cercano di affer­
rare. La sua barba – cui tanto egli teneva – è stata rasata da forbici
molto aggressive. Le sue assalitrici gli promettono che convinceranno
Eco a disprezzarlo e a non parlargli mai più. [3] Le Ninfe stanno qui
tutte insieme. Tu però cerca di guardarle secondo i loro gruppi di
appartenenza. Alcune di loro hanno infatti l’atteggiamento delle Na­
iadi, perché scuotono le chiome spruzzando goccioline d’acqua. Ma i
capelli secchi delle Ninfe Agresti non sono meno attraenti dei capelli
roridi. Le Ninfe Floreali mostrano invece un crine naturale del tutto
simile ai fiori di giacinto.

12. Pindaro
[1] Ti sorprenderà, credo, che queste api siano state dipinte tanto
minuziosamente. Il loro pungiglione si distingue benissimo, le loro
zampette, le loro ali, il colore del loro manto non sono affatto fuori
posto e il quadro le rappresenta con la stessa varietà dei loro colori
naturali. Ma perché questi insetti così industri non se ne stanno negli
alveari? Cosa fanno in città? Ronzano festose alle porte di Daifanto 204:
come puoi vedere, è nato Pindaro ed esse vogliono forgiarlo fin dalle
fasce, affinché diventi un poeta armonioso e musicale 205. E già atten­
dono a quest’ufficio. [2] Il bambino posa sull’alloro e su ramoscelli di
mirto: il padre aveva immaginato che gli era toccato un figlio sacro,
perché, proprio al momento della nascita, tutta la casa echeggiò d’un
suono di cembali e s’udirono i timpani di Rea. E si dice che le Ninfe
danzarono per il bimbo e che Pan si mise a saltellare. Si dice anche
che lo stesso Pan, quando Pindaro cominciò a comporre poesie, si
diede a cantarne i versi 206, senza saltare più. [3] La statua di Rea,
ben lavorata, è collocata proprio davanti alle porte. Mi pare che sia
una statua di marmo, dato che il dipinto ne fa qui apparire tutta la
durezza: e, comunque, cos’altro potrebbe essere se non pietra intaglia­
ta 207? Il pittore introduce anche le Ninfe umide di rugiada, come se
uscissero dalle loro fonti, e Pan intento a danzare su certi suoi ritmi:
il suo volto è gioioso e le sue narici non esalano alcuna collera. [4]
Dentro casa, le api si affaccendano intorno al bambino, versando il
loro miele e ritraendo i loro aculei, pel timore di pungerlo. Vengono
certo dall’Imetto e dalla città splendida e degna di essere cantata 208:
ed è appunto questo il miele che ora istillano in Pindaro 209.

13. Le Gire
[1] Rocce che emergono dai flutti mentre il mare ribolle tutt’intor­

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no. Sulle rocce, un eroe che, con uno sguardo potente, sfida superbo
il mare. È Aiace il Locrese 210. Colpita dalla folgore, la sua nave ha
preso fuoco ed egli è saltato in acqua e ora si dibatte contro i marosi:
o aprendosi un varco o lasciandosi risucchiare o prendendo l’onda
di petto. Alla fine, è approdato sulle Gire, gli scogli che spiccano
nel golfo dell’Egeo 211, e ha cominciato a lanciare sprezzanti parole
proprio contro gli dèi. Allora, lo stesso Poseidone s’avventa contro le
Gire: terribile, o ragazzo, rigonfio di tempeste e irto nel crine. Eppure
un tempo il dio aveva combattuto al fianco del Locrese contro Ilio,
quando Aiace era assennato e rispettoso degli dèi. E lo aveva confor­
tato con il suo scettro. Ma ora che lo vede così arrogante dirige contro
di lui il tridente: e la cresta dello scoglio cui l’eroe s’aggrappa verrà
investita, sì da travolgere Aiace con tutta la sua arroganza. [2] Questo
è il soggetto del quadro. Si vede tutto benissimo: il biancore del mare
ondeggiante, le rocce dilavate dal continuo urto dei flutti, il fuoco che
s’innalza dal centro della nave e il vento che, soffiando, la fa ancora
navigare, quasi che le fiamme fungessero da vele. Come riavendosi da
una sbornia, Aiace perlustra il mare, senza vedere né una nave, né una
riva. L’incombere di Poseidone non lo spaventa, ma anzi egli sembra
volerglisi opporre: la forza non ha ancora lasciato le sue braccia e il
suo collo si alza fiero come quando fronteggiava Ettore e i Troiani.
Poseidone vibra il suo tridente e distrugge quello spezzone di roccia
con Aiace. Ma i resti delle Gire dureranno quanto durerà il mare e si
leveranno inviolabili anche per Poseidone.

14. La Tessaglia
[1] A un primo sguardo, il quadro ha un certo sapore d’Egitto:
eppure il suo tema non è l’Egitto ma, ritengo, la Tessaglia. Se infatti
il Nilo ha dato agli Egizî la loro terra, il Peneo non ha permesso che
anticamente i Tessali avessero una terra, perché tutte le pianure erano
circondate dai monti e inondate dal corso del fiume, ancora privo di
sbocchi. Poseidone vorrà perciò spaccare col tridente le montagne,
per offrire un varco alle acque 212. [2] Appunto a quest’opera il dio
è ora intento, impegnandosi a portare le pianure allo scoperto: e già
la sua mano si leva per vibrare il colpo. Ma, prima di essere colpite,
la montagne si separano quanto basta a lasciar passare il fiume. La
tecnica pittorica si sforza di rendere la scena in maniera assai vivida:
il lato destro di Poseidone sembra arretrare e insieme avanzare, quasi
che egli stesse per colpire non già con la sola mano ma con tutto il
suo corpo. Ed egli non è dipinto come un dio azzurro e marino, ma
come un dio della terraferma: per questo saluta contento le pianure,
vedendole estese e uniformi quanto i mari. [3] Quasi gonfio d’orgo­
glio, il fiume gioisce e, conservando la sua posa piegata sul gomito
(un fiume non è infatti abituato a stare eretto), accoglie in sé il Titare­
sio 213, perché le sue acque leggere sono le più dissetanti. Poi assicura

67
a Poseidone che scorrerà lungo il percorso che gli è stato aperto. Così,
mentre le acque defluiscono, emerge la Tessaglia: chiomata d’ulivi e
di spighe e nell’atto di accarezzare un puledro che le emerge vicino.
E anche il cavallo le verrà offerto da Poseidone: quando la terra ac­
coglierà il fecondo flusso del dio dormente per concepirne appunto
un cavallo.

15. Glauco, dio del Ponto


[1] Dopo avere navigato attraverso il Bosforo e le Simplegadi 214,
la nave Argo fende già l’impetuosa corrente del Ponto Eusino, mentre
Orfeo ammalia il mare cantando: e infatti il Ponto lo ascolta e, a quel
canto, si placa. La nave trasporta i Dioscuri, Eracle, gli Eacidi 215, i
figli di Borea 216 e il fior fiore dei semidei di quel tempo. Le è stato
adattato, come chiglia, il legno dell’antico albero presso cui, a Do­
dona, Zeus emetteva i suoi oracoli 217. [2] La missione della nave è
la seguente: fra i Colchi si custodisce il vello di quell’ariete che – si
dice – anticamente aveva traghettato attraverso il cielo Elle insieme
a Frisso. Per impossessarsi di questo vello, Giasone si cimenta, o ra­
gazzo, in una vera e propria lotta: perché alla guardia del vello è un
serpente che gli si avvolge intorno con occhi terribili e sprezzanti del
sonno. Giasone è quindi al comando della nave, perché la responsa­
bilità della spedizione lo riguarda direttamente. [3] Ma al timone, o
ragazzo, c’è Tifi: dicono che costui sia stato il primo uomo ad avere
il coraggio di dedicarsi all’arte del timoniere, prima di lui considerata
malfida. A prua sta invece Linceo, figlio di Afareo. Con la sua vista
formidabilmente estesa, egli scruta le profondità degli abissi, percepi­
sce per primo gli scogli occulti e per primo saluta il lontano profilarsi
d’una terra. [4] Ma ora mi sembra che anche lo sguardo di Linceo
resti attonito per quell’apparizione che, facendosi loro incontro, ha
già paralizzato i cinquanta rematori. Solo Eracle, tante volte imbattu­
tosi in eventi consimili, rimane impassibile davanti a uno spettacolo
così prodigioso. Perché credo che tutti gli altri gridino appunto al
prodigio vedendo Glauco, il dio del Ponto. Si dice che un tempo co­
stui abitasse nell’antica Antedone e che, avendo gustato di una certa
erba sulla riva del mare, fu risucchiato da un’ondata improvvisa e fu
portato giù fino alle tane dei pesci. [5] Ora, com’è probabile, Glauco
sta pronunciando qualche oracolo, giacché si distingue per la sua arte
profetica 218. Quanto al suo aspetto, la barba gli s’arriccia sul mento
umida e bianca, a vedersi, come un fiotto spumeggiante, e le chiome
intrecciate ricadono pesantemente sulle spalle, sgocciolandovi l’acqua
assorbita in mare. Le sue folte sopracciglia s’allacciano insieme quasi a
formarne uno solo. E quelle sue braccia! Esercitate dal mare a fendere
senza posa le onde e ad appianarle nel nuoto! E quel suo torace! Con
quella peluria diffusa e fitta di alghe e di altre erbe marine! Il suo
ventre si è invece abbassato, trasformandosi fin quasi a scomparire.

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[6] Che nel resto del corpo Glauco sia un pesce lo dimostra la coda
rialzata e rivolta verso i lombi, nella forma d’una mezzaluna colorata
di porpora marina. Corrono intorno a lui le Alcioni e, mentre cantano
quelle gesta degli uomini per cui anch’esse (un tempo creature umane,
come Glauco) furono trasformate 219, dimostrano a Orfeo che il loro
canto rende musicale anche il mare.

16. Palemone
[1] Il popolo intento a un sacrificio sull’Istmo potrebbe essere il
popolo di Corinto. E questo re tra il suo popolo possiamo ritenere che
sia Sisifo. Quel recinto che ripete dolcemente il mormorio del mare
con il canto dei suoi pini chiomati è sacro a Poseidone. Tutte queste
cose, ragazzo, ci indicano che Ino s’è gettata dalla terra in mare con
il figlio 220. Per parte sua, ella diventerà Leucotea e sarà accolta nella
cerchia delle Nereidi. Quanto al figlio, la terra si prenderà il bimbo,
col nome di Palemone. [2] E già il bambino approda su un delfino
che gli offre mansueto il suo dorso e lo trasporta ancora dormente,
scivolando senza fragore sull’onda placida, per non turbarne il sonno.
Al suo arrivo, un sacro recesso si apre per lui sull’Istmo, perché la ter­
ra s’è spalancata a un cenno di Poseidone. E, a quanto mi sembra, il
dio sta ora annunciando a Sisifo l’arrivo del bambino, che va salutato
con un sacrificio. [3] Sisifo immola perciò questo toro nero, avendo­
lo tratto, credo, dalle mandrie di Poseidone. Il valore del sacrificio,
l’abbigliamento degli officianti, il modo stesso di officiare, o ragazzo,
e l’uso di sgozzare le vittime sono tratti esclusivi dei riti di Palemone.
Si tratta infatti di quella dottrina venerabile e del tutto segreta cui il
sapiente Sisifo ha conferito un alone mistico: che sia un uomo sapiente
lo conferma peraltro la concentrazione del suo volto. Quanto al volto
di Poseidone, se il dio fosse sul punto di fracassare le rupi Gire o
i monti di Tessaglia, il suo volto sarebbe dipinto con l’aria terribile
di chi sta per vibrare un colpo. Ma qui, dovendo offrire ospitalità a
Melicerte per nasconderlo nella terra, gli sorride mentre sta appro­
dando e ordina all’Istmo di allargare il suo grembo e di fare da casa
a Melicerte. [4] L’Istmo, o ragazzo, è dipinto con l’aspetto di un dio
che giace supino sulla terra. La natura lo ha disposto in modo che si
distenda tra l’Egeo e l’Adriatico, come per aggiogare i due mari. Alla
sua destra, c’è un giovinetto, certamente Lecheo 221. Alla sua sinistra,
stanno due ragazze 222: sono i due mari e s’allungano, belli e piuttosto
calmi, sulla terra che rappresenta l’Istmo.

17. Le Isole
[1] Ragazzo, vuoi che parliamo di queste isole come se le osservas­
simo da una nave, navigando intorno a esse in primavera, quando Ze­
firo, alitando la sua brezza, rende il mare ridente? Ma tu devi essere
disposto a dimenticare la terra ferma. E questo mare dovrà sembrarti

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non già agitato o impetuoso e neanche piatto o in bonaccia ma navi­
gabile e come animato da un respiro vitale. Ecco: ci siamo imbarcati.
Sei d’accordo? E il ragazzo risponde: «Sono d’accordo: possiamo sal­
pare». Come vedi, è un mare piuttosto esteso, costellato di isole ben
diverse, per Zeus!, da Lesbo, da Imbro e da Lemno. Si tratta infatti di
un arcipelago di isolette 223 che sembrano piccoli villaggi adatti a una
sosta o addirittura, per Zeus!, stalle sul mare. [i 2] La prima di queste
isole è ripida e scoscesa, con una fortificazione naturale. Svettando
altissime, le sue cime sono la vedetta di Poseidone. Ricca di corsi d’ac­
qua e d’umidità, nutre anche le api con i fiori montani che le Nereidi,
com’è ovvio, colgono quando giuocano sul mare. [ii 3] L’isola succes­
siva, essendo pianeggiante e piena di terra, è abitata da pescatori e da
contadini che convengono nello stesso mercato per vendere, gli uni,
quanto hanno coltivato, gli altri, quanto hanno pescato. E hanno eret­
to la statua di questo Poseidone agricoltore sopra un aratro e un giogo,
assegnandogli i prodotti della terra. Ma, affinché Poseidone non appa­
risse troppo radicato alla terra ferma, hanno adattato all’aratro una
prua, quasi che il dio, navigando, solcasse la terra. [iii 4] Le due isole
successive un tempo erano una sola isola che, spaccata a metà dal mare,
fu separata in due parti dall’ampio corso di un fiume. Ma questo, ra­
gazzo, puoi apprenderlo dal dipinto. Vedi infatti che le due parti
dell’isola sono simili e si corrispondono reciprocamente in modo che
la metà concava venga a combaciare con la metà contrapposta. Tutto
ciò accadde una volta anche in Europa, nella zona di Tempe, in Tes­
saglia. Da quando i terremoti spaccarono anche quella terra, le lesioni
indicano una concorde linea montuosa. E sono ancora visibili cavità
rocciose del tutto simili alle rocce corrispondenti che le hanno deter­
minate. Né sono scomparse le tracce dei boschi cresciuti, com’è natu­
rale, in seguito alla spaccatura delle montagne: i giacigli degli alberi
sono ancora lì. Possiamo dunque supporre che anche in quest’isola sia
accaduta una cosa del genere. Ma sulle acque dello stretto passaggio è
stato gettato un ponte, in modo che l’isola ne sembrasse unificata: e
sotto il ponte si viaggia in barca, sopra il ponte si viaggia sui carri. Vedi
infatti che quanti vi passano sopra sono viandanti, quanti vi passano
sotto sono marinai. [iv 5] L’isola vicina, o ragazzo, consideriamola pure
una meraviglia. Lungo tutto il suo sottosuolo cova infatti un fuoco che
scorre tra fessure e cavità: attraversandole, la lava si apre varchi simili
a caverne e crea paurosi torrenti donde poi sgorgano fiumi infocati che
vanno a ribollire in mare. Chi voglia spiegare scientificamente questi
fenomeni, deve considerare che l’isola ha una produzione naturale di
bitume e di zolfo: quando il mare rimescola questi elementi, l’isola
prende fuoco per i venti che trascinano dalle acque materia infiamma­
bile. Ma il dipinto, d’accordo con i poeti, ci descrive l’origine mitica
dell’isola. Una volta, un gigante fu precipitato proprio in quel punto.
Poiché stentava a morire, fu collocata sopra il suo corpo quest’isola,

70
come per incatenarlo. Ma il gigante, che si trova ancora sotto terra,
non si arrende e lotta eruttando questa lava minacciosa. Si dice che la
stessa cosa vogliano fare Tifone in Sicilia 224 e Encelado qui in Italia 225:
oppressi da interi continenti e da intere isole, questi giganti non sono
ancora morti, ma sono sempre prossimi a morire. E tu, ragazzo, puoi
avere l’impressione di non avere lasciato il luogo della battaglia, se
guardi alla cima della montagna. Si vede infatti Zeus che scaglia i suoi
fulmini contro il gigante e si vede il gigante che, mentre già viene meno,
s’affida tuttavia alla terra. Ma la terra deve rinunciare a soccorrerlo,
perché Poseidone non le consente di arrestarsi. L’artista ha avvolto
tutta la scena in un velame caliginoso, affinché sembrasse svolgersi
piuttosto nel passato che nel presente. [iva 6] Questa collina circonda­
ta dalle acque è la dimora di un serpente, custode – pare – di un te­
soro che giace sotto terra. Si dice infatti che questo animale sia ben
disposto verso l’oro: quando vede un oggetto dorato lo coccola e lo
cova. Perciò il vello della Colchide e i pomi delle Esperidi, avendo un
aureo aspetto, erano protetti da due serpenti sempre vigili, che li tene­
vano come una loro proprietà. E anche il serpente di Atena, che anco­
ra oggi vive sull’Acropoli, ama, a mio parere, gli Ateniesi per l’oro con
cui erano realizzate le cicale che ornavano la chioma di quel popolo 226.
Anche questo serpente qui è d’oro: estrae infatti la testa dalla tana,
temendo, credo, per il suo tesoro sotterraneo. [v 7] Quest’altra isola
ricoperta di edera, di smilace e di viti ci dice che è consacrata a Dio­
niso. Ma per ora Dioniso se n’è andato a officiare i suoi riti bacchici
sul continente e ha affidato a Sileno gli oggetti per celebrare i misteri
su quest’isola. Oggetti come i cembali riversi al suolo, gli aurei crateri
capovolti, i flauti ancora caldi e i timpani che giacciono silenti. Zefiro
sembra sollevare da terra le pelli di cerbiatto, mentre i serpenti s’in­
trecciano ai tirsi oppure, in un’ebbra sonnolenza, lasciano che le Bac­
canti li usino come cinture. [8] Alcuni grappoli sono maturi, altri van­
no assumendo una tinta scura, altri sono acerbi, altri sembrano fiorire
solo ora: perché Dioniso ha progettato diverse stagioni per tutte le
varietà di vite, in modo che si possa vendemmiare sempre. I grappoli
sono talmente abbondanti che pendono anche dalle rocce e si allunga­
no sul mare. Uccelli d’acqua e di terra volano a cibarsene: Dioniso
infatti offre la vite quale pasto comune a tutti gli uccelli, fuorché alla
civetta che, rendendo inviso agli uomini il vino, viene tenuta lontana
dai grappoli. Se infatti un bambino, prima ancora di avere cominciato
a parlare e di avere gustato il vino, avrà mangiato uova di civetta,
odierà il vino per tutta la vita, non ne berrà mai e avrà paura di chi lo
beve. [9] Ma tu, ragazzo, sei abbastanza ardito per non avere paura di
questo Sileno, il guardiano dell’isola, che avvinazzato tenta di abbrac­
ciare una Baccante. Costei non lo degna di uno sguardo, perché è in­
namorata di Dioniso e ne modella e ne raffigura l’immagine col pen­
siero, sì da vederlo anche quando non c’è: e i suoi occhi fuggitivi non

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sono privi di una certa vaghezza erotica. [vi 10] La natura, mettendo
insieme le montagne, ha creato quest’isola boschiva, piena di foreste e
di alberi quali l’alto cipresso, il pino, l’abete, la quercia e il cedro.
Ciascun albero è stato dipinto secondo la foggia sua propria. Nelle
parti dell’isola abitate da bestie selvatiche, cacciatori di cinghiali e di
cervi seguono le orme delle prede: alcuni puntano contro gli animali
le lance, altri gli archi. Ma coloro che hanno il coraggio di combattere
da vicino, o ragazzo, portano anche coltellacci e clave. Queste reti sono
state gettate in tutta la foresta: o per inviluppare l’animale oppure per
legarlo o anche per impedirne la corsa. Alcune bestie sono state già
catturate, altre si dibattono, altre s’impongono invece sul cacciatore.
Ogni braccio di giovane è in azione e i cani abbaiano unendosi alle
grida degli uomini, sì che la stessa Eco si direbbe coinvolta nella fre­
nesia della caccia. I boscaioli sfrondano grandi alberi e cominciano a
tagliarli: uno solleva la scure, un altro ha appena vibrato il colpo, un
altro affila la sua ascia, trovandola smussata dall’usura dei colpi, un
altro esamina attentamente un abete, valutando la possibilità di trarne
l’albero maestro di una nave, un altro ancora taglia alberi teneri e ben
diritti, per ottenerne i remi. [via 11] La scogliera scoscesa e i gabbiani
che accerchiano, a stormo, un altro uccello sono stati dipinti per il
motivo seguente. Gli uomini tentano di acchiappare i gabbiani, ma, per
Zeus!, non certo per quelle loro carni nerastre, nocive e tali da disgu­
stare anche un affamato. È che il loro stomaco fornisce ai seguaci
dell’arte medica un rimedio che restituisce appetito e agilità a quanti
lo assaggiano. Sono peraltro uccelli sonnolenti e facilmente catturabili
con le torce: e infatti li acchiappano di notte, investendoli di luce.
Perciò i gabbiani dividono con la sterna una porzione del cibo che si
sono procurati e così la inducono a fare da sentinella, rimanendo in
vedetta per loro. La sterna è un uccello marino sempliciotto, inoffen­
sivo e inabile a cacciare; ma ha la forza di resistere al sonno e dorme
infatti assai poco. Così può offrire i suoi occhi ai gabbiani in cambio
di una ricompensa. Quando i gabbiani volano via in cerca del cibo, la
sterna rimane di guardia attorno alla roccia. Verso sera, i gabbiani ri­
entrano e le dànno la decima parte del loro bottino: poi s’addormen­
tano attorno alla sterna che invece non dorme e non si lascia piegare
dal sonno senza il volere dei gabbiani. Se avverte un pericolo immi­
nente, lancia un grido squillante e acuto: a quel segnale, i gabbiani si
levano in fuga, sostenendo il loro guardiano, nel timore che in volo si
senta venir meno. In questo quadro la sterna è però ferma a sorveglia­
re i suoi gabbiani. E sta in mezzo a questi uccelli come Proteo sta in
mezzo alle foche 227: ma, essendo insonne, vale più di Proteo. [12]
Possiamo approdare anche qui, ragazzo. Non conosco il nome di
quest’isola: mi piacerebbe chiamarla l’isola Dorata, se i poeti non ap­
plicassero avventatamente questo appellativo a ogni luogo bello e mi­
rabile. È stata costruita in modo da accogliere una piccola reggia. Non

72
vi si può praticare né l’aratura, né la viticultura, ma è ricca di sorgen­
ti: alcune sgorgano cristalline e fresche, altre caldissime. Possiamo dire
che sia percorsa da tanta acqua da versarne l’eccesso in mare. Questo
fragore viene dalle fonti che, fluttuando, ribollono come se fossero ri­
mescolate in un calderone e ne traboccassero, mentre l’isola si leva
intorno a esse. Ma sulla stupefacente origine di queste fonti – se cioè
si debba ritenere che esse sgorghino dalla terra oppure siano collocate
in mare – deciderà ora Proteo: sta infatti venendo per dare un giudizio
al riguardo. [13] Ma osserviamo come è stata costruita la città. È rea­
lizzata sull’immagine di una città bella e splendida, ma è piccola quan­
to una casa. Al suo interno, viene cresciuto il piccolo figlio di un re,
che appunto in questa città trova il suo passatempo. C’è infatti un te­
atro di dimensioni tali da ospitare il principino e i suoi piccoli compa­
gni di giuoco. È stato allestito anche un ippodromo sufficiente alle
corse dei piccoli cani maltesi. Il bambino li usa come cavalli e, legan­
doli al giogo e al carro, ne affida le redini ad alcune scimmie, che egli
tratta come sue inservienti. [14] Credo che questa lepre sia entrata in
casa solo ieri: è legata a un guinzaglio di porpora, come se fosse un
cane. Ma, non sopportando di essere legata, tenta di liberarsi con l’aiu­
to delle zampe anteriori. In una gabbia intrecciata, un pappagallo e una
gazza fanno echeggiare il loro canto in tutta l’isola, come le Sirene: la
gazza canta ciò che sa, il pappagallo ciò che gli insegnano.

18. Il Ciclope
[1] Quella gente che miete il grano e vendemmia le uve non ha
mai arato né coltivato i campi, o ragazzo, perché la terra le offre spon­
taneamente il raccolto. Si tratta dei Ciclopi: i poeti vogliono (non so
perché) che per loro i frutti della terra si producano da soli. La terra
li ha resi anche pastori, nutrendo le loro pecore: ed essi considerano il
latte bevanda e insieme cibo. Ignari di piazze, di assemblee e di case,
dimorano in antri montani. [2] Lasciamo da parte gli altri ciclopi. Qui
abita il più selvaggio di loro, Polifemo, figlio di Poseidone. Il suo unico
sopracciglio s’inarca sull’unico occhio, mentre quel suo naso schiaccia­
to s’allunga fino alle labbra: ed egli mangia carni umane, come il più
feroce dei leoni. Ora però si astiene dal suo pasto abituale, perché non
vuole fare la figura di un mangione screanzato. Si è infatti invaghito
di Galatea 228, che viene a giocare su questo mare, e la guarda dalla
cima del monte. [3] La zampogna tace ancora sotto il suo braccio, ma
egli ha già pronta una canzone pastorale, per cantare che Galatea è
candida, sdegnosa e più dolce d’un grappolo acerbo; e che egli per lei
alleva cerbiatti e orsetti. Canta queste cose standosene sotto un leccio e
non sa più dove le sue pecore vadano a pascolare o quante siano, né sa
più dove sia la terra. Il dipinto ne fa un abominevole montanaro che
agita una chioma irta e folta come il fogliame d’un pino e che mostra
dalle mascelle insaziabili i suoi dentacci appuntiti, mentre un fitto pelo

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gli copre il petto, il ventre e tutto il corpo, fino alle unghie dei piedi.
Essendo innamorato, presume di avere uno sguardo mansueto: ma i
suoi occhi sono sempre selvaggi e nascondono quell’aria malfida tipica
delle belve strette da qualche necessità. [4] Galatea intanto giuoca
su un mare placido, guidando un carro tirato da quattro delfini, che
un solo giogo stringe e un solo afflato: ma le vergini figlie di Tritone,
ancelle di Galatea, li governano, frenando con le redini ogni even­
tuale baldanza e ogni brusco strappo. Una veste leggera, colore della
porpora marina, si solleva ai soffi dello zefiro sulla testa di Galatea,
offrendo a lei ombra e al carro una vela: ma quel bagliore che la
veste riflette sulla fronte e sul capo di Galatea non sono comunque
più amabili del fiorente colorito delle sue guance. Né lo zefiro riesce
a scuotere i suoi capelli: sono così bagnati da vincere il vento. Il suo
gomito destro sporge un po’, mentre ella piega il bianco avambraccio,
posando le dita sulla spalla delicata e movendo le braccia flessuose. I
suoi seni sono ben dritti e le sue ginocchia non mancano di bellezza.
Il suo piede, che s’allunga grazioso sul fiore dell’onda, è dipinto, o
ragazzo, mentre sfiora il mare, quasi fosse il timone del carro. E i suoi
occhi sono una meraviglia: scrutano infatti oltre l’orizzonte, come se
viaggiassero per l’alto mare aperto.

19. Forba
[1] Il fiume, ragazzo, è il Cefiso, in Beozia ed è tra i fiumi non
ignoti alle Muse. Sulle sue rive s’accampano i Flegii, un popolo bar­
baro che non abita ancora nelle città. In uno dei due personaggi che
fanno a pugni puoi riconoscere, mi pare, Apollo. L’altro è Forba229:
i Flegii lo hanno scelto come re perché la sua statura si imponeva su
tutti e perché era l’uomo più crudele di quel popolo. Apollo lo assale
a pugni per liberare una strada. Da quando infatti Forba occupa la via
che porta direttamente a Focea e a Delfi, nessuno a Pito fa più sacri­
ficî, né guida peani per il dio: gli oracoli, le profezie e i responsi del
tripode sono stati tutti abbandonati. [2] Forba vive come un predone,
tenendosi lontano dagli altri Flegii. Ha fatto di questa quercia la sua
casa, o ragazzo: ed è qui, in una reggia cosiffatta, che i Flegii vengono
a trovarlo, certo per ottenere giustizia. Forba cattura tutti coloro che
marciano verso il tempio e ne invia i vecchi e i bambini al campo co­
mune dei Flegii, perché siano depredati e trattenuti come ostaggi per
un riscatto. Sfida invece i più forti a gareggiare con lui: alcuni li sovra­
sta nella lotta, altri nella corsa, altri ancora li vince nel pancrazio, altri
nel lancio del disco. Poi decapita gli avversarî, ne attacca le teste alla
sua quercia e passa la vita sotto quei trofei putrescenti. Puoi vedere le
teste pendere dai rami: alcune sono già decomposte, altre cominciano
a decomporsi, altre lasciano già scoperto il cranio e, mostrando una
sinistra dentatura, sembrano gemere ai soffi penetranti del vento. [3]
Mentre egli mena vanto di queste sue singolari vittorie “olimpiche”,

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sopraggiunge Apollo, con le fattezze di un giovane pugilatore. Quanto
all’aspetto, o ragazzo, il dio è dipinto con le chiome intonse e allaccia­
te, in modo da battersi agevolmente con una fascetta intorno al capo.
La sua fronte è radiosa e le sue guance lanciano sorrisi non privi di
furore. I suoi occhi mirano sicuri al bersaglio, seguendo l’innalzarsi
delle braccia. E le sue mani strette da cinghie di cuoio non riuscireb­
bero più attraenti se fossero adorne di ghirlande. [4] I pugni del dio
hanno ormai avuto la meglio: la mano mostra infatti tutta la forza d’un
montante destro ed è ancora nell’atto di sferrare il colpo. Il Flegio è
già al tappeto: il poeta ci dirà per quanto spazio vi si distenda 230. Il
pugno lo ha ferito alla tempia e ora il sangue scorre fuori come da
una fontanella. È rappresentato con un aspetto selvaggio e famelico,
quasi fosse avvezzo a divorare gli stranieri oltre che a ucciderli. Il
fulmine scagliato dal cielo sulla quercia ha incenerito l’albero, ma non
ne ha cancellato il ricordo. Perché, ragazzo, il luogo in cui questi fatti
accaddero è chiamato ancora oggi “Teste della Quercia” 231.

20. Atlante
[1] Benché Euristeo non glielo avesse imposto, Eracle si misurò
anche con Atlante, dicendo che avrebbe potuto sostenere il cielo su
di sé meglio di Atlante. Lo vedeva infatti ricurvo e oppresso da quel
peso, piegato su un solo ginocchio 232 e ormai barcollante e incapace
di stare fermo. Egli invece avrebbe potuto sollevare il cielo e tenerlo
in alto standosene immobile per lungo tempo. Senza lasciar trapelare
le sue vere ambizioni, Eracle dice ad Atlante che, provando dispiacere
per la sua fatica, vuole condividere con lui quella gravosa pena. Atlan­
te accoglie con gioia la proposta di Eracle e lo supplica di accollarsi
il suo carico. [2] Nel dipinto, Atlante è stremato, a quanto s’indovina
dal sudore che gocciola copioso e a quanto si capisce dal braccio tre­
mante. Eracle invece brama questa prova: lo dimostra lo slancio del
suo volto, il bastone buttato via e le mani che fremono di cimentarsi.
Non ci si deve stupire se le ombre sul corpo di Eracle sono rese con
mano sicura: le figure sdraiate o erette diffondono in genere ombre
tanto nette che riprodurle con precisione non richiede alcuna speciale
bravura. Ma le ombre sul corpo di Atlante sono frutto di vera mae­
stria. Le sue membra sono talmente contratte che le ombre ricadono
le une sulle altre e, senza coprire le parti emergenti, gettano luce sulle
cavità e sulle rientranze. Perciò, anche se Atlante è piegato in avanti,
possiamo vederne il ventre e quasi sentirne l’ànsito. I corpi celesti, di
cui egli sostiene il peso, sono dipinti nell’etere intorno agli astri 233. È
possibile distinguere un toro, che è appunto la costellazione del Toro.
E due orse identiche alle Orse che si vedono in cielo. Quanto ai venti,
alcuni sono raffigurati mentre spirano nello stesso senso, altri mentre
spirano in senso contrario. E alcuni hanno un soffio unanime, altri
sembrano invece mantenere le loro zuffe anche in cielo. [3] Per ora,

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dunque, sosterrai il peso di questi astri, o Eracle. Ma tra non molto
vivrai con essi in cielo, bevendo e abbracciando la bella Ebe. E trarrai
sposa la più giovane e la più venerabile tra le dèe. Per lei, anche gli
dèi restano giovani.

21. Anteo
[1] Polvere come quella che si leva nelle famose arene della lotta
presso la fonte d’olio. Due atleti: uno di loro si lega alle orecchie una
cuffia protettiva, l’altro si slaccia dalle spalle un manto leonino. Intorno,
tumuli funerarî, stele, lettere incise. Siamo in Libia e questo è Anteo 234,
nato dalla Terra per depredare gli stranieri, attirandoli, si direbbe, in
una lotta furfantesca. [2] Mentre costui, come puoi vedere, è intento
alle sue gare e a seppellire sul luogo stesso della lotta gli avversarî uc­
cisi, il quadro introduce Eracle che ha già conquistato gli aurei pomi
delle Esperidi: l’impresa lo renderà degno di canto, benché la cosa
straordinaria non sia tanto la vittoria sulle Esperidi, quanto l’uccisione
del serpente. Senza neanche – come si dice – piegare il ginocchio e an­
cora affannato per il viaggio, l’eroe si spoglia per affrontare Anteo. Ha
gli occhi assorti in qualche pensiero (forse predispone le mosse della
lotta) e tiene a freno il suo furore, per non lasciarsi trasportare da gesti
imprudenti. Ma Anteo, borioso e sprezzante, sembra gridare contro
Eracle: «Schiatta di miserabili!» 235 (o qualcosa del genere), mostran­
do la sua spavalda arroganza. [3] Se Eracle fosse stato un lottatore di
professione, il suo fisico sarebbe stato comunque dipinto com’è dipinto
qui: muscoloso e con le membra ben proporzionate da un continuo
esercizio. Data la sua statura sovrumana, potrebbe essere anche un
gigante. Il suo colorito è sanguigno e le sue vene sono turgide, come
se qualche contrarietà vi avesse iniettato un flusso di collera. [4] Si
direbbe che Anteo ti faccia paura, ragazzo. Somiglia a una bestia sel­
vaggia e la larghezza del suo corpo ne uguaglia quasi l’altezza. Il collo
è aggiogato alle spalle che, in gran parte, vi s’ammassano; e le braccia
girano altrettanto voluminose. Il torace e il ventre sembrano battuti al
martello 236, mentre quella gamba storta e sgraziata conferisce ad Anteo
un aspetto robusto ma anche impacciato e maldestro 237. E poi egli è
nero, perché l’esposizione al sole gli ha dato una tinta bronzea. Tutto
ciò riguarda dunque i due lottatori prima dell’incontro. [5] Ma guar­
dali anche mentre lottano. O piuttosto: al termine della lotta, quando
Eracle ha già vinto. Egli s’è imposto sollevando l’avversario dal suolo,
perché la Terra combatteva insieme ad Anteo, inarcandosi per rimet­
terlo in piedi quando veniva steso. Non sapendo come fronteggiare
la Terra, Eracle afferra Anteo a metà del corpo, all’altezza dei fianchi
sopra il bacino; e lo solleva con entrambe le mani per metterselo diritto
sulla coscia: da qui gli sferra sul ventre molle e ansimante una gomitata
che gli blocca il respiro e lo uccide, perché le costole si ripiegano tra­
figgendogli il fegato. E ora puoi vedere Anteo mentre geme e guarda

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la Terra che non sa più aiutarlo, mentre Eracle ride possente della
sua impresa. [6] Ma non gettare uno sguardo distratto alla cima della
montagna. Devi supporre che gli dèi abbiano lì un palco panoramico
sulla gara: infatti è stata dipinta una nuvola d’oro perché funga, direi,
da baldacchino. Ed ecco: giudicando che abbia lottato da campione,
Ermete viene già a incoronare Eracle.

22. Eracle tra i Pigmei


[1] Mentre Eracle, dopo l’impresa contro Anteo, sta dormendo in
Libia, i Pigmei muovono contro di lui col pretesto di vendicare An­
teo 238, di cui si dichiarano fratelli: valorosi come lui, ancorché poco
atletici e non altrettanto versati nella lotta. Figli della terra, sono co­
munque forti e, quando emergono dal suolo, la sabbia si solleva ondeg­
giante. I Pigmei dimorano infatti sotto terra, proprio come le formiche,
e lì tengono il magazzino delle loro scorte. Non si cercano il cibo altro­
ve ma vivono del loro proprio lavoro, seminando, mietendo e arando
il terreno con una coppia di cavalli nani. E si dice anche che con una
scure recidano le spighe, convinti che siano alberi. Quanta audacia
dimostrano, nel lanciarsi contro Eracle, per ucciderlo mentre dorme!
Ma non sarebbero meno arditi se l’eroe fosse sveglio. [2] Eracle infatti
s’è addormentato sulla morbida sabbia, stremato dalle fatiche della
lotta, e dorme a sonno pieno, respirando da tutto il torace con la bocca
spalancata. Il Sonno in persona s’è posato presso di lui, con l’aspetto,
si direbbe, di chi si vanta di aver fatto cadere Eracle in tanto torpore.
Anche Anteo giace disteso: ma se l’arte del pittore dipinge Eracle nel
calore vitale del suo respiro, fa di Anteo un cadavere rinsecchito e ab­
bandonato alla terra. [3] L’esercito dei Pigmei accerchia dunque Eracle.
Quest’unica falange dà l’assalto alla mano sinistra, mentre contro la
mano destra, che è più forte, marciano questi due drappelli. Intanto
una truppa di arcieri e di frombolieri cinge d’assedio i suoi piedi, non
senza sbigottirsi davanti a quelle enormi gambe. Coloro che muovono
alla conquista della testa sono guidati dallo stesso re. Ritengono infatti
che il punto più difficilmente espugnabile sia qui e perciò vi trascina­
no macchine da guerra adatte all’assalto di una cittadella: fuoco per
bruciare i capelli, un forcone a due punte per cavare gli occhi, una
specie di porta per chiudere la bocca e questi sportelli per applicarli,
credo, alle narici dell’eroe, affinché non possa respirare quando la sua
testa sarà stata conquistata. [4] Tutto ciò accade mentre Eracle dorme.
Ma guarda: già egli si alza e, resosi conto del pericolo, ride dei suoi
nemici. Li spazza via tutti in mucchio e li mette nella sua pelle leonina
per portarli, suppongo, a Euristeo.

23. La follia di Eracle


[1] Battetevi con Eracle, o valorosi servitori, e avanzate, affinché
egli risparmi almeno il terzo figlio. Gli altri due giacciono ormai al

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suolo, mentre la sua mano tende la corda dell’arco per colpire ancora,
con quella mira sicura ch’è propria di Eracle. La vostra impresa è ar­
dua e non meno impegnativa delle imprese che egli stesso ha compiuto
prima della sua follia 239. Ma non temete: è lontano da voi e crede di
vedere Argo e di uccidere i figli di Euristeo. Ho appreso in Euripide
che Eracle, incitando i cavalli alla guida del suo carro, minaccia di
distruggere la casa di Euristeo. La pazzia è ingannatrice ed è capace di
portare dalle cose presenti alle cose assenti. [2] Ma su questi servitori è
sufficiente quanto s’è detto. È tempo che tu ti occupi del dipinto. Nella
stanza verso cui Eracle si è precipitato stanno Megara e il figlio ancora
superstite. Canestri, bacinelle, chicchi d’orzo, legname da ardere, la
coppa, tutti i sacri oggetti di Zeus Erceo sono stati sbattuti a calci di
qua e di là. Il toro è rimasto, ma sull’altare ci sono ora i nobili figli
dell’eroe, gettati lì come vittime, insieme alla pelle leonina del padre.
Uno di loro è stato colpito al collo e la freccia gli ha attraversato la
tenera gola. L’altro è piegato sul proprio petto: la punta delle frecce
s’è conficcata in mezzo alle vertebre, come dimostra la sua posizione
riversa su un fianco. Le loro guance sono bagnate di lagrime. Ma non
meravigliarti se hanno pianto più del normale: i bambini piangono a
dirotto quando provano una grande o anche una piccola paura. [3]
Tutta la servitù di casa circonda Eracle in delirio, come i bovari in­
torno a un toro imbizzarrito. C’è chi prova a legarlo, chi si sforza per
tenerlo fermo, chi gli grida contro, chi lo afferra per i polsi, chi tenta
di sgambettarlo, chi gli salta addosso. Egli non ha alcuna percezione
di tutto ciò: e respinge o calpesta coloro che gli si avvicinano. Sulle
labbra schiumanti di bava ha un sorriso raccapricciante e anormale: i
suoi occhi sono fissi su ciò che fa, ma il suo pensiero è lontano dal
vedere l’inganno in cui è finito. [4] La sua gola muggisce, le sue vene si
gonfiano intorno al collo dilatato, lasciando affluire la piena del morbo
alle parti vitali della testa. Potente artefice di tutto ciò è l’Erinni che hai
visto più volte sulla scena. Ma ora non la vedi più, perché s’è insediata
in Eracle: gli balla in petto, gli scalcia dentro e gli annebbia la ragio­
ne. Il dipinto arriva fino a qui. Ma i poeti aggiungono altri elementi
di scherno: incatenano Eracle, dicendo addirittura che Prometeo era
stato liberato da lui 240.

24. Teodamante
[1] Ecco un uomo di modi aspri, per Zeus!, in una terra altrettanto
aspra: è l’isola di Rodi e i Lindi ne abitano la zona più aspra. La terra
è però buona a produrre uve e fichi, anche se non può essere arata né
percorsa da carri. Questo contadino rude e precocemente canuto me­
rita la nostra attenzione: si tratta di Teodamante da Lindo, di cui forse
hai già sentito parlare. Quanta baldanza, però! Teodamante è in collera
con Eracle che, standogli vicino, sgozza uno dei suoi buoi e lo divora,
abituato com’è a pasti cosiffatti. [2] Avrai certo letto in Pindaro 241 di

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quando Eracle, giunto alle case di Corono, trangugiò un bue intero,
senza neanche sputarne le ossa! Ora è venuto a trovare Teodamante
verso il tramonto, quando i buoi vengono liberati; e, avendo acceso
un fuoco con il loro letame (che è facilmente infiammabile), si cucina
un bue arrosto: ogni tanto controlla la cottura, per vedere se le carni
sono già tenere, e non si lamenta di nulla fuorché della lentezza della
fiamma. [3] I dettagli del quadro sono tali da non trascurare l’aspetto
del terreno: infatti, anche dove si presta un poco all’aratura, il suolo
appare – se ho ben capito – piuttosto povero. Eracle concentra tutta
la forza dei suoi pensieri sull’arrosto: le imprecazioni di Teodamante
non lo scompongono e gli strappano appena un sorriso, mentre il
contadino lancia pietre contro di lui. Eracle indossa una veste dorica:
la sua chioma è incolta e sucida intorno alla fronte. Le sue ginocchia
e le sue braccia sono quelle che una terra tanto amata concede ai
suoi atleti. [4] Questa è l’impresa di Eracle. Ma anche Teodamante è
venerando presso la gente di Lindo: che infatti sacrifica a Eracle un
bove aratore e dà inizio al rito levando, a quanto parrebbe, le stesse
imprecazioni un tempo proferite dal contadino. Eracle se ne compiace
e, proprio per queste imprecazioni, concede prosperità ai Lindi 242.

25. Le esequie di Abdero


[1] Non penseremo certo, ragazzo, che le cavalle di Diomede siano
state un cimento impegnativo per Eracle: le ha già catturate e le ha
massacrate con la clava. E ora una cavalla giace al suolo, un’altra ran­
tola, un’altra diresti che tenta di risollevarsi, un’altra stramazza. Hanno
le criniere arruffate e gli zoccoli irsuti come le bestie selvagge. Le loro
greppie sono piene delle membra e delle ossa umane che Diomede
dava loro in pasto. D’altra parte costui, l’allevatore delle cavalle, ha un
aspetto ancora più selvaggio delle sue bestie, presso cui ora è caduto.
Dobbiamo invece ritenere che la prova attuale sia per Eracle la più
dura: perché gli è stata imposta da Eros in aggiunta a tante altre e per­
ché è stata compiuta con un dolore non irrilevante. Eracle sta infatti
portando il corpo semidivorato di Abdero, dopo averlo strappato alle
cavalle, intente a sbranare questo giovinetto ancora tenero 243: non ave­
va neanche raggiunto l’età di Ifito, a quanto è possibile giudicare dai
suoi resti, ancora così belli nel manto leonino in cui sono raccolti. [2]
Le lacrime versate su queste spoglie, gli abbracci, le parole strazianti,
il volto scavato dal peso del dolore sono attribuibili a qualunque altro
amante. E qualunque amante può anche innalzare in onore del suo bel
diletto un monumento funebre. Ma, diversamente dalla maggior parte
degli amanti, Eracle fonda per Abdero la città che oggi chiamiamo
dal suo nome. E lì istituirà poi anche i giuochi per Abdero: in suo
omaggio, si terranno gare di pugilato, di pancrazio, di lotta e ogni
altra competizione, fuorché la corsa dei cavalli.

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26. Doni ospitali
[1] La lepre in gabbia è stata intrappolata con la rete. Seduta sulle
zampe posteriori, agita le zampe anteriori tendendo le orecchie e gi­
rando lo sguardo da ogni parte: vuole infatti guardarsi anche le spalle
perché è sospettosa e tende sempre a starsene rintanata. La lepre ap­
pesa a quella quercia secca, con il ventre squarciato e con due zampe
scuoiate, attesta la rapidità del cane, ora accovacciato sotto la quercia
a riposarsi e a mostrare che ha catturato la lepre da solo. Le anatre
vicino alla lepre (puoi contarle: sono dieci) e le oche (dieci anch’esse,
come le anatre) non occorre palparle: sono state loro strappate tut­
te le penne intorno al petto, perché, negli uccelli acquatici, il grasso
s’addensa proprio lì. [2] Se ti piace il pane lievitato oppure il pane in
otto porzioni, nell’ampio canestro qui vicino trovi entrambe le varietà.
Se ti occorre un condimento, le pagnotte lo contengono già: alcune
sono infatti aromatizzate con il finocchio, altre con il sedano, altre
con i semi di papavero, che dànno un dolce sapore al sonno. Se poi
hai voglia di una seconda pietanza, manda tutto ciò ai cuochi e gusta,
nel frattempo, i cibi che non vanno cotti. [3] Ma perché non prendi
la frutta matura ammucchiata su quest’altro canestro? Non sai che
tra poco, spogliata della sua rosea fragranza, non la troverai più nello
stesso stato? Né puoi disdegnare le dolcezze dell’ultima portata, se ti
piacciono le nespole o le ghiande di Zeus, che il più liscio tra gli alberi
nutre in quell’involucro irto di spine che va sbucciato in un modo
particolare. Lascia pure da parte il miele, se qui c’è questa paláthe 244
(o come preferisci chiamarla): un dolce davvero squisito! Avvolta dalle
sue stesse foglie, sembra ancora più invitante. [4] Credo che il quadro
offra questi doni ospitali al padrone della fattoria, che intanto prende
un bagno, vagheggiando forse i vini di Pramno 245 o di Taso: eppure
potrebbe bere il dolce vino novello della sua tavola e, rientrando in
città odoroso di vinaccia, potrebbe, con quella sua aria sfaccendata 246,
eruttarlo sulla faccia dei cittadini.

27. La nascita di Atena


[1] Quelle figure sbigottite sono gli dèi e le dèe: è stato loro ordi­
nato di non allontanarsi dal cielo. Anche le Ninfe devono restare lì,
con i fiumi da cui sono nate. Sono tutti percorsi da un brivido perché
Atena, armata di tutto punto, è appena stata espulsa dalla testa di Zeus,
con gli espedienti di Efesto, come ci attesta quella scure 247. [2] Non
è facile indovinare il materiale dell’armatura. I colori delle armi sono
infatti cangianti come i colori dell’iride, che passano continuamente da
un riflesso all’altro. Efesto sembra perplesso: non sa come ingraziarsi
una dèa che, essendo nata già in armi, gli ha sottratto in anticipo la
possibilità di lusingarla con un dono. Zeus è un po’ affannato, ma è
contento, come chi si sia impegnato in un grande cimento per conse­
guire un grande premio. E osserva con ogni cura la figlia, orgoglioso

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della sua nascita. Qui Era non mostra alcuna stizza: ma è anzi lieta,
come se Atena fosse nata anche da lei. [3] Già due popoli offrono
sacrificî ad Atena: gli Ateniesi e i Rodiesi, sulla terra e sul mare, uo­
mini <nati sul mare> e uomini nati sulla terra. Ma mentre i sacrificî
dei Rodiesi restano senza fuoco e incompleti, lì ad Atene il popolo
accende il fuoco e offre il grasso delle vittime. Il fumo è dipinto come
se ne sentissimo il buon odore e come se si levasse per l’appunto dal
grasso. La dèa è venuta presso gli Ateniesi proprio perché sono un
popolo più ingegnoso, che sa celebrare bene i sacrificî. Quanto ai Ro­
diesi, si dice che l’oro, piovendo dal cielo, ne abbia riempito le case
e le viuzze: Zeus infatti squarciò una nube per loro, perché anch’essi
s’erano dedicati al culto di Atena. [4] Sulla cima della loro acropoli
siede dunque il dio Pluto: è dipinto alato, perché è sceso dalle nuvole,
ma anche dorato, perché è apparso in questa forma. Inoltre è rappre­
sentato come se vedesse 248: infatti è venuto presso di loro avendo già
prefigurato la sua missione.

28. Le Tele
[1] Dato che tu canti le lodi della tela di Penelope se vedi un qua­
dro che la raffigura come si deve (un quadro, cioè, in cui ti sembrano
presenti tutti gli elementi del telaio: un ordito ben disteso, con i fiori
che spuntano dai fili e dove per poco non si sentono il cigolio della
spola e Penelope che piange quelle lacrime con cui Omero scioglie
la neve 249, mentre è intenta a disfare quanto ha tessuto) considera se
il ragno che sta tessendo la sua tela qui vicino non superi sia Pene­
lope sia addirittura i Seri 250, che fanno tessuti tanto sottili da essere
a stento visibili. [2] Questo è l’ingresso di una casa certo non ben
messa. Diresti che sia ormai priva dei suoi padroni. Dentro si scorge
una sala deserta: le colonne non riescono più a sostenerla, perché sono
dissestate e crollate. Può essere abitata solo dai ragni: questi insetti
amano infatti tessere la loro tela in tutta tranquillità. Osserva anche
il formarsi della tela. I ragni sputano il filo, lasciandolo arrivare fino
a terra. E il pittore li mostra anche mentre scendono lungo il filo e
poi si arrampicano – «sospesi nell’aere », come direbbe Esiodo 251 –
cercando di spiccare il volo. Intessono i loro nidi sugli angoli: alcuni
sono spaziosi, altre sono piccole cavità. D’estate si servono dei nidi
più spaziosi, d’inverno tessono invece i nidi cavi. [3] E anche questo è
un bel risultato per il pittore: essersi sforzato di descrivere minuziosa­
mente il ragno nella sua screziatura naturale e averne dipinto anche la
perfida tela e la natura selvaggia, dimostrandosi artista provetto e abile
a riprodurre realisticamente le cose. Guarda: qui un filo a forma di
quadrato è stato disposto intorno agli angoli della tela, come una cor­
da di sostegno da cui la tela stessa pende sottile e fatta di molti cerchi
concentrici. Qui alcuni nodi si tendono dal primo cerchio esterno fino
al più piccolo cerchio interno, intrecciandosi a intervalli uguali alla

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distanza tra i cerchi. E le filatrici li percorrono per ridare tensione ai
fili allentati. [4] Ma ottengono una mercede per la loro tessitura, dato
che si cibano delle mosche intrappolate nella trama. Perciò il pittore
non ha trascurato queste loro prede. Una mosca è rimasta impigliata
con la zampetta, un’altra con la punta dell’ala, un’altra ha la testa
divorata. Tutte si dibattono, tentando di fuggire, ma non riescono a
strappare né a sciogliere la tela 252.

29. Antigone
[1] Gli Ateniesi stanno per seppellire i compagni di Tideo e di
Capaneo, siano essi Ippomedonte o Partenopeo, dopo avere ingaggiato
una battaglia per i loro corpi. Ma Polinice, figlio di Edipo, è sepolto
dalla sorella Antigone, uscita di notte dalle mura, benché un proclama
vieti di seppellirlo e di ricongiungerlo a quella terra che egli voleva
fare schiava. [2] Nella pianura, ci sono cadaveri su cadaveri, cavalli
stramazzati al suolo, armi scivolate dalle mani dei caduti e la fanghiglia
insanguinata tanto gradita, dicono, a Enyo 253. Sotto le mura, giacciono
i corpi di altri comandanti (di statura imponente e superiore a quella
degli uomini comuni). E Capaneo, che somiglia a un gigante: oltre che
per la statura, si distingue per essere stato folgorato da Zeus e manda
ancora fumo 254. Antigone ha sollevato il corpo di Polinice 255, che non
è meno imponente degli altri, e vuole seppellirlo vicino al sepolcro di
Eteocle, credendo così di riconciliare, per quello che ancora le resta
possibile, i due fratelli. [3] Che diremo, o ragazzo, della sapiente com­
posizione del quadro? La luna irradia una luce malfida agli occhi e la
ragazza, piena di spavento, vorrebbe esplodere in pianto, mentre getta
le sue forti braccia attorno al corpo del fratello. Ma domina i singhioz­
zi, perché teme di essere udita dalle sentinelle. E benché sia intenta a
tenere sott’occhio lo spazio circostante, volge tuttavia lo sguardo al fra­
tello, piegando al suolo il ginocchio. [4] Quel virgulto di melograno è
nato da solo, o ragazzo. Si dice infatti che le Erinni lo facciano crescere
sul sepolcro: se ne strapperai un frutto, sanguinerà ancora. Mirabile è
anche quel fuoco sui sacrificî funebri, perché non è né compatto né
fuso in un’unica fiamma, ma si volge da una parte e dall’altra: dimostra
che i fratelli restano divisi anche nel sepolcro 256.

30. Evadne
[1] Una pira con le vittime sgozzate. Sulla pira, un cadavere che
sembra più grande di un uomo. Una donna che salta con un forte
slancio tra le fiamme. Ecco, o ragazzo, come vanno intesi i soggetti di
questo quadro. Capaneo viene seppellito dai suoi uomini ad Argo 257,
ma è morto per opera di Zeus a Tebe, quando già ne aveva scalato i
baluardi. Hai certamente appreso dai poeti che, per un atto di arro­
ganza contro Zeus, egli fu colpito dalla folgore e morì ancora prima
di toccare il suolo, quando anche molti altri condottieri caddero sulla

82
terra cadmea. [2] La vittoria degli Ateniesi garantisce che tutti venga­
no sepolti. Capaneo ottiene le stesse esequie di Tideo, di Ippomedonte
e degli altri, ma si distingue dagli altri capitani e dagli altri sovrani
per questo privilegio: la moglie Evadne decide di morire con lui, ma
non si taglia la gola con la spada sguainata, né si impicca a una corda
(come fanno in genere le donne per amore dei mariti morti). Si lancia
invece nella pira, quasi che le fiamme ritenessero di non poter brucia­
re il marito senza bruciare anche la moglie 258. Questi sono gli onori
funebri per Capaneo. La moglie si è addobbata, come si fa quando si
adornano le vittime sacrificali con ghirlande e oro, affinché vengano
immolate in una forma luminosa e gradita agli dèi. Con uno sguardo
che non vuole impietosirci, salta tra le fiamme, chiamando, suppongo,
il marito: infatti sembra che stia gridando. E io credo che, per amore
di Capaneo, avrebbe offerto il suo capo alla folgore. [3] Gli Amori,
assumendosi questo compito, accendono la pira dalle loro torce e
dicono che il fuoco non resta contaminato, ma che anzi risplende più
bello e più puro, perché serve al funerale di coloro che hanno dato
una così mirabile prova d’amore.

31. Temistocle
[1] Un greco tra i barbari. Un uomo in mezzo a una gente dis­
soluta e licenziosa, che non appartiene agli uomini 259. Il mantello lo
dimostra Ateniese 260: si direbbe che stia facendo un saggio discorso
per convertire costoro e per distoglierli dal loro lusso sfrenato. Questi
sono i Medi e questo è il centro di Babilonia. Ecco il vessillo regale:
un’aquila d’oro su uno scudo. Ed ecco il re, assiso su un trono aureo
e trapunto di gemme lucenti come un pavone. Il pittore non va tanto
lodato perché ha riprodotto fedelmente la tiara, la veste e la soprav­
veste oppure le mostruose forme di animali ricamate sugli abiti dei
barbari; va piuttosto elogiato per il modo con cui ha dipinto l’oro,
intessendolo così bene da mantenerlo sempre stretto alla sua trama;
e per l’aspetto degli eunuchi. Anche la corte dev’essere in oro: infatti
non sembra un edificio dipinto, ma una vera e propria costruzione.
E sentiamo anche il profumo dell’incenso e della mirra: con queste
esalazioni i barbari usano contaminare l’aria libera. I lancieri parlano
tra loro, colpiti da quel Greco, perché hanno una vaga intuizione delle
sue grandi imprese. [2] Direi infatti che Temistocle, figlio di Neocle,
dopo la divina vittoria di Salamina, non sapendo in quale parte della
Grecia rifugiarsi, sia venuto da Atene a Babilonia e stia ora ricordan­
do al Re quanto lo avesse favorito quando era al comando dei Greci.
La gran pompa dei Medi non lo intimidisce affatto, ma ostenta anzi
un’aria ardita, come se stesse diritto sulla sua tribuna. Temistocle non
usa però la nostra lingua: sta parlando in persiano, una lingua che
aveva appreso, non senza fatica, stando in quella terra 261. Se non ci
credi, osserva i suoi ascoltatori: il loro sguardo attesta che capiscono

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facilmente. E guarda Temistocle: la posizione del suo volto è proprio
quella dell’oratore, ma i suoi occhi vagano qua e là, perché sta par­
lando in una lingua imparata da poco.

32. Palestra
[1] Il luogo è l’Arcadia e anzi il posto più bello dell’Arcadia, quel­
lo più caro a Zeus: noi lo chiamiamo Olimpia. Non c’è ancora alcun
premio per la lotta, né c’è ancora alcun desiderio di lottare, ma presto
ci sarà. Infatti Palestra – la figlia di Ermete, che ha raggiunto ora,
proprio in Arcadia, il fiore dell’età – ha inventato la lotta e la terra si
compiace di questa invenzione, perché gli uomini deporranno il ferro,
arma di guerra, per un periodo di tregua: gli stadî sembreranno loro
più piacevoli degli accampamenti e gareggeranno nudi. [2] Le figu­
re della lotta sono affidate a fanciulli che saltano insolenti intorno a
Palestra, piegandosi su di lei ora in un modo, ora in un altro. Potreb­
bero essere nati dalla terra, perché la giovane, con quel suo aspetto
virile, attesta di non avere alcuna volontà di sposarsi e di portare figli
in grembo. Le figure della lotta sono tutte diverse l’una dall’altra,
ma la più potente è quella che si congiunge al pugilato. [3] Quanto
all’aspetto di Palestra, paragonata a un ragazzo, sembra una ragazza,
ma paragonata a una ragazza sembra un ragazzo. La sua chioma non
è abbastanza lunga per essere composta in una treccia, il suo sguardo
potrebbe riferirsi a entrambi i sessi, il suo disprezzo investe tanto gli
amanti quanto i lottatori. Ella infatti dichiara di sentirsi abbastanza
forte da resistere a entrambi i sessi: nemmeno durante una lotta le si
potrebbe sfiorare il seno, a tal punto eccelle nella sua arte. Peraltro,
i suoi seni mostrano solo un modesto rigonfiamento, come quelli di
un tenero giovinetto. Sdegnosa di qualunque femminilità, non vuole
mostrare braccia candide ma anzi disapprova le Driadi perché cu­
stodiscono all’ombra la loro carnagione bianca. Abitando nelle valli
dell’Arcadia, prega il Sole di abbronzarla: e il Sole, con un giusto ca­
lore, lascia come fiorire su di lei un rossore bruno. [4] Che la giovane
se ne stia seduta, o ragazzo, è un altro segno della grande bravura del
pittore. Nelle persone sedute le ombre si moltiplicano e la posizione
assisa fa di questa giovane una figura abbastanza bella: a quest’effetto
concorre anche il ramo d’olivo sul seno nudo. Palestra predilige infatti
questa pianta, perché dà un olio che viene utilizzato nella lotta e gli
uomini ne godono ampiamente 262.

33. Dodona
[1] L’aurea colomba sta ancora sulla quercia, sagace per le sue pro­
fezie. E ci sono gli oracoli che essa pronuncia, ispirata da Zeus. Lì gia­
ce la scure, abbandonata dal boscaiolo Ello, da cui discendono gli Elli
di Dodona. Alla quercia sono appese bende, perché, come il tripode
di Pito, essa emette appunto oracoli 263. C’è chi viene per interrogarla,

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c’è chi viene per offrirle un sacrificio. Ora essa è attorniata da un coro
di Tebani che riportano la sapienza dell’albero alla loro patria, perché
proprio qui – a quanto pare – l’aurea colomba cadde nella rete. [2]
Gl’interpreti di Zeus – che, com’era noto a Omero, non lavano mai i
piedi e dormono per terra – conducono un’esistenza selvatica, senza
procurarsi i mezzi per vivere: d’altra parte, affermano di non volerseli
procurare perché Zeus è contento di loro, se amano vivere così come
viene. Essi sono appunto sacerdoti. Uno di loro presiede alle ghirlan­
de, un altro alle preghiere, un altro deve preparare le sacre focacce, un
altro l’orzo e i canestri; questo predispone un sacrificio, quello vieta
a chiunque altro di scuoiare la sacra vittima. Ecco le sacerdotesse di
Dodona, con la loro aria austera e sacrale, quasi respirassero l’incenso
e il fumo delle libagioni. [3] Peraltro tutto il luogo, o ragazzo, è raf­
figurato in una nube di incenso ed è tutto pervaso da voci oracolari.
Anche la ninfa Eco è qui venerata con un simulacro di bronzo: puoi
vederla, mi sembra, mentre mette la mano alla bocca. A Dodona era
stato infatti offerto a Zeus un bronzeo calderone, che risonava per
quasi tutto il giorno, senza tacere fino a quando qualcuno non fosse
venuto a toccarlo.

34. Le Ore
[1] Che le Ore stiano davanti alle porte del cielo lasciamo che lo
ritenga e che lo dica Omero 264: è infatti probabile che egli sia vissuto
insieme alle Ore, quando gli toccò in sorte il cielo. Ma l’argomento di
cui questo quadro si occupa può facilmente comprenderlo anche una
persona qualunque. Giacché le Ore vengono sulla terra nelle forme
loro proprie e, stringendosi per mano, dànno inizio, direi, alla danza
dell’anno: e la terra, nella sua saggezza, produce con esse tutti i frutti
dell’annata. [2] Non dirò alle Ore primaverili: «Non calpestate il giacin­
to e le rose!». Perché sotto il passo delle Ore questi fiori appaiono più
belli e olezzano più dolci delle stesse Ore. Non dirò alle Ore invernali:
«Non camminate sui teneri solchi!». Perché sotto il passo delle Ore
nasceranno le spighe. Esse sono bionde e incedono sulla punta delle
spighe, senza tuttavia spezzarle o piegarle 265: sono così lievi che il grano
non s’incurva. Siete incantevoli, o viti, mentre tentate di catturare le Ore
autunnali: voi infatti amate queste Ore perché vi fanno belle e datrici di
dolce vino 266. [3] E questo è, per così dire, il raccolto del quadro 267.
Le Ore sono davvero piacevoli: il parto di un’arte straordinaria. Come
sembrano cantare! Com’è vorticoso il giro della loro danza! Nessuna
di loro ci volge le spalle, ma tutte sembrano venirci incontro, le braccia
sollevate, la chioma liberamente disciolta, le guance tepide, gli occhi
tutti compresi nella danza. Forse ci permetteranno di intessere un rac­
conto sul pittore 268. Mi sembra infatti che, essendosi imbattuto nelle
Ore, egli sia stato catturato dalla loro arte 269: perché le dèe volevano
forse fargli intendere che occorre dipingere in un’ora di grazia 270.

85
Note

1 La pittura è per Filostrato rispettosa della verità. Nella Vita di Apollonio di Tia-

na, (ii, 22) il rapporto tra verità e pittura è ribadito in forma ancora più lapidaria:
«Apollonio: Credi tu che ci sia un’arte del dipingere ? – Damis: Sì, se esiste una ve­
rità». Considerando quanto egli afferma poco oltre a proposito dell’invenzione della
mímesis, si direbbe che sia quest’ultima a farsi garante della conformità tra il vero e la
sua rappresentazione artistica. L’affermazione è però fatalmente destinata a fare i conti
con le ben note riserve avanzate dall’ontologia platonica sulla corrispondenza tra verità
e rappresentazione mimetica di un mondo sensibile già di per sé distante dalla verità
dell’idea. Va detto tuttavia che nel Timeo (28 A-B) Platone stesso ammette la possibilità
che l’artista riesca ad imitare non solo l’accidente dell’apparenza sensibile ma ciò che
permane invariato nel modello non creato. Questa sorta di mímesis “visionaria” di
Platone anticipa in qualche modo (vedi Pollitt 1974, p. 47) la teoria della phantasía (su
cui vedi supra, p. 18) caposaldo dell’estetica filostratea. La nozione che sta alla base di
essa è stata messa in relazione con il pensiero stoico, soprattutto nell’elaborazione di
Panezio e Posidonio, e proprio quest’ultimo potrebbe averla applicata per primo alle
arti visive. Nel sostenere la “verità” della pittura Filostrato ha certamente in mente
non solo e non tanto la mímesis, per così dire, tradizionale, ma appunto la phantasía,
questa facoltà mentale che, come egli stesso spiega (Vita di Apollonio di Tiana, 6, 19),
è capace di rendere secondo verità anche le cose non percepite con i sensi in quanto
riesce comunque a relazionarle con la loro essenza ontologica (hypothésetai gàr autò
pròs tèn anaphoràn toû óntos). Per una esauriente trattazione della mímesis nell’antichità
vedi Halliwell 2009.
2 Per Solone (fr. 1 D) l’abilità di chi esercitava una téchne, governata dall’empiria

e mortificata dalla fatica fisica, si collocava su un piano nettamente inferiore rispetto


all’attività del poeta, caratterizzata dalla sophía che le proviene da uno stretto rapporto
con la divinità (il poeta cantava quello che la Musa gli dettava). Col tempo la distinzio­
ne si farà meno rigida. Nel Protagora di Platone (312 d), Socrate concede che i pittori
possono dirsi sapienti (sophoí), anche se solo nell’ambito del proprio mestiere di facitori
di immagini (pròs tén apergasían tèn tôn eikónon). Aristotele, poi, nell’Etica a Nicomaco
(1141a ss.) afferma che a coloro che nell’ambito di ciascuna téchne lavorano con mag­
giore akríbeia (akribéstatoi) osservando scrupolosamente le regole dell’arte), vale a dire
ai maestri come Fidia per il marmo e Policleto per il bronzo, va riconosciuta la sophía.
Quest’ultima però non è più solo mera abilità tecnica, perché il sophós non solamente
deve conoscere ciò che deriva dai princìpi, ma deve avere anche una conoscenza vera
(aletheúein) di tali princìpi. In un altro contesto (Metaph. 1013a) Aristotele arriva a
dare a Policleto la qualifica di mousikós, cioè provvisto di mousiké; e mousiké, prima
di specializzarsi nel significato di musica, significava tutto ciò che ha attinenza con le
Muse, quindi un sapere simile a quello di filosofi e intellettuali. Va ricordato a questo
proposito che con Policleto, autore di un trattato sulla scultura (vedi infra nota 4) la
pratica artistica, fino a quel momento consegnata all’oralità, entra nello spazio letterario
(Settis 1973) e che molti altri artisti lo seguiranno (Settis 1993). Per Aristotele insomma
la sophía è sia ragione intuitiva (noûs) sia scienza (epistéme), anzi scienza delle cose

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più importanti (tôn timiotáton) e dunque di primo rango (kephalén échousa). Filostrato
si ricollega a questa linea di pensiero, portandola alle estreme conseguenze, poiché
la sapienza che i pittori condividono coi poeti travalica evidentemente le specifiche
cognizioni del proprio ambito specialistico (quella che Aristotele chiama la sophía katà
méros) e si porta ad un livello gnoseologico più elevato. Ciò risulta più chiaro alla
luce del famoso passo della Vita di Apollonio di Tiana (6, 19) dove viene illustrata la
teoria della phantasía. È nell’esercizio di questa facoltà puramente mentale che vengono
meno le differenze tra le diverse tipologie della creazione artistica e perdono peso gli
specialismi tecnici: ut pictura poesis erit, e viceversa, perché identiche sono le premesse
dell’atto poietico nel pittore e nel poeta: saper vedere con gli occhi della mente e saper
tradurre in immagini – materiali e non – ciò che la gnóme nella mente contempla e
modella. È il motivo per cui il Fidia dell’Orazione Olimpica di Dione di Prusa (12, 78)
potrà non solo paragonarsi a Omero, ma sostenere addirittura di averlo superato. Su
questi temi si vedano Rispoli 1985, Maffei 1991, Watson 1994.
3 Proprio perché la sophía che condividono è fondata su una stessa cultura, poeta

e pittore possono entrambi creare immagini a partire dai miti, di cui essi hanno una
conoscenza approfondita anche relativamente al loro significato morale, usando le for­
mule retoriche o iconografiche più appropriate per dilettare, commuovere, educare.
Posta in esordio dell’opera, l’affermazione serve a sorreggere tutta l’impresa ecfrastica
filostratea: creare immagini e comunicare conoscenze ed emozioni unificando nella
propria persona le competenze del retore e dell’artista figurativo.
4 Il concetto di symmetría (o – come scrive Filostrato – xymmetría) è fondamentale

nell’estetica classica. Da sempre i Greci ravvisarono nel mondo un kósmos, un “ordine


bello” che scaturiva dal meraviglioso accordarsi, in un progetto razionale riconoscibile,
di tutta la realtà sensibile. Il bello ineriva dunque all’ordine, ma l’ordine consisteva nella
corretta proporzione tra le parti, e questa derivava a sua volta dalla misura. Platone
dirà nel Filebo (64e) che “misura” e “proporzione” «sono dappertutto identificabili
con bellezza ed eccellenza». L’universo appariva in effetti ai Greci come un organismo
“disegnato” secondo proporzioni appropriate. E l’organismo più complesso e perfetto
di cui avessero conoscenza – il corpo umano – ne rispecchiava, come un microcosmo,
la sintassi. Nelle proporzioni delle membra dell’Uomo – davvero misura di tutte le cose
– si ricercò razionalmente tò eû, la perfezione (ma letteralmente “il buono”, “il bene”:
i due concetti sono intimamente connessi per i Greci) da parte degli architetti (vedi
Vitruvio, iii, 1, 5) e degli artisti figurativi. Nel v sec. a.C. il grande scultore Policleto
scrisse un trattato, che chiamò Kanón (Canone, Regola) dove si indicava il procedimen­
to per stabilire le proporzioni ottimali con cui rappresentare la figura umana. L’opera
non ci è pervenuta, ma da citazioni di autori posteriori ricaviamo che per Policleto il
bello nasceva appunto dalla symmetría, intesa – come è implicito nell’etimologia del
termine – come la possibilità di con-misurare l’estensione delle diverse parti tra di loro
e rispetto al tutto: «di un dito rispetto a un altro dito, di tutte le dita rispetto al carpo
e al metacarpo, di questi rispetto all’avambraccio, dell’avambraccio rispetto al braccio,
e insomma di tutte le parti fra di loro» (vedi Pucci 2003, p. 12 ss., e Pucci 2008a). La
symmetría, come bene dice Filostrato, che nel trattato sulla Ginnastica (25-26) mostra
di conoscere assai bene il Canone policleteo (Pigeaud 2003, p. 18 ss.) – è anche il
punto di saldatura tra téchne e lógos. È convinzione generale che i fondamenti della
teoria delle proporzioni siano da ricercare nel pensiero pitagorico. Per Pitagora tutti i
fenomeni discreti risultano dall’imposizione di numeri a un continuum infinito, come
avviene per la musica, che si crea stabilendo delle symmetríai, ovvero dei rapporti pro­
porzionali entro il continuum delle vibrazioni sonore. E come nella musica, anche nelle
arti figurative rapporti proporzionali ottimali realizzano una suprema armonia, sicché
anche il bello in ultima istanza è un fenomeno razionalmente determinabile attraverso
i numeri. In un passo di Plutarco, che probabilmente cita il Canone di Policleto (De
recta ratione audiendi, 45 c-d) si dice che «in ogni opera il bello si realizza per mezzo
della simmetria e dell’armonia, attraverso molti numeri che convergono verso quello
appropriato». Lo studio delle proporzioni occupò intensamente anche i pittori. Con­

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temporaneo di Policleto fu Agatarco, che scrisse un trattato sulla skenographía, cioè
sulla tecnica di rappresentazione prospettica nelle scenografie teatrali (lavorò anche per
Eschilo), che a detta di Vitruvio (Praef. ad lib. vii, 11) sarebbe servito di esempio ad
Anassagora e Democrito per i loro libri sulla prospettiva. La prospettiva comportava
evidentemente uno studio delle proporzioni. Più tardi Eufranore scrisse dei volumi de
symmetría et coloribus (Plinio, Nat. hist., 35, 129) e anche Asclepiodoro eccelleva, per
riconoscimento dello stesso Apelle, in questo campo (Nat. hist., 35, 107). L’idea che la
bellezza sia legata alla proporzione ha avuto lunghissima fortuna anche oltre l’antichità
classica, fino alla seconda metà dell’Ottocento. A ragione Tatarkiewicz la chiama «la
Grande Teoria dell’estetica europea» (Tatarkiewicz 1997, p. 147 ss.).
5 Le Stagioni, ossia le Ore (in greco Hôrai), compaiono da protagoniste nell’ultimo

quadro descritto nella Pinacoteca filostratea (ii, 34).


6 Filostrato fa consistere la pittura esclusivamente nei colori, mentre in greco essa è

solitamente definita da una endiadi che al colore (chrôma) abbina la figura (schêma) o
il disegno (grámma) o la linea (grammé). Nelle ekphráseis filostratee in effetti il colore
ha un ruolo assolutamente preminente rispetto al disegno (di cui pure si discute nella
Vita di Apollonio di Tiana, ii, 22). Solo nella descrizione del quadro di Pasifae (i, 16,
2) viene lodato, oltre al colore, il disegno, anche se per alludere ad esso il nostro re­
tore ricorre a una metonimia, lodando la sapienza (sophía) della mano (cheír). È stato
osservato peraltro (Dubel 2009) che quasi tutti i riferimenti cromatici fatti da Filostrato
derivano da testi letterari (i poemi omerici in primo luogo). Nonostante tenga a essere
considerato un esperto d’arte, il Nostro non sembra attingere in misura significativa al
lessico specialistico della trattatistica sulla pittura. Inoltre gran parte delle sue osserva­
zioni in fatto di colore concernono non tutto il quadro ma un singolo dettaglio di esso,
portato a testimonianza di felice inventio da parte del pittore: richiamando l’attenzione
del lettore/ascoltatore su quel punto che attirerebbe l’occhio dell’osservatore in pre­
senza di un quadro reale, Filostrato mira principalmente a rafforzare, con un effetto
di enárgeia, l’illusione della sua ékphrasis.
7 Filostrato assegna alla pittura una posizione di preminenza rispetto alle altre arti,

in quanto per mezzo del solo colore riesce ad attuare una mímesis più efficace che –
come si chiarisce subito dopo – è in grado di rappresentare stati d’animo e caratteri
dei propri soggetti. Lo stesso merito le viene riconosciuto nei Memorabili di Senofonte
(iii, 10, 1 ss.), dove Socrate, conversando con il pittore Parrasio, afferma che la pittura
è in grado di rendere il carattere dell’animo (tês psychês êthos); e tuttavia poco oltre,
a colloquio con lo scultore Kleiton (che qualche studioso ha proposto di identificare
con Policleto), Socrate sostiene che anche la scultura può rendere l’illusione della vita
(tò zotikòn phaínestai), imitare le emozioni (páthe) – riproducendo per esempio lo
sguardo minaccioso (apeiletikà ómmata ) dei lottatori e l’espressione trionfante dei
vincitori (tôn dè nenikekóton euphrainoménon he ópsis) – e in definitiva esprimere tutti
i fatti dell’animo (tà tês psychês érga). Neppure l’entusiastico elogio della pittura di Elio
Aristide (Rh., i, 162) implica necessariamente una svalutazione della scultura, dato che
il retore si limita a sottolineare l’ovvia differenza tra le due téchnai nell’utilizzazione del
colore. La posizione di Filostrato, decisamente più sbilanciata a favore della pittura, è
probabilmente motivata anche dal suo assunto: tessere l’elogio dei quadri della Pinaco-
teca (Prologo, 5). Su queste tematiche vedi Abbondanza 1991, p. 127 ss.
8 L’invenzione del chiaroscuro in pittura (skiagraphía = pittura di ombre) era at­

tribuita ad Apollodoro di Atene, attivo nella seconda metà del v sec. a.C. A detta di
Plutarco (De glor. Ath., 2) la nuova tecnica di Apollodoro era basata sull’attenuazione
(phthorá) e l’intensificazione (apóchrosis) dei colori, cioè sulle sfumature in grado di
creare l’effetto del volume.
9 Artista altrimenti sconosciuto, del quale Filostrato lascia intendere di essere stato

intimo, se non addirittura allievo. Specificando che Aristodemo dipingeva katà tèn
sophían di Eumelo, Filostrato vuole senza dubbio sottolineare la consonanza tecnica
e stilistica tra i due artisti; ma l’allusione agli scritti di Aristodemo suggerisce che egli
possedeva non solo l’abilità tecnica ma anche l’approfondita conoscenza teorica della

89
sua arte, come si conviene ad un artista davvero sophós (vedi supra nota 2). Risulta
quindi naturale per il lettore inferirne che negli anni passati insieme a lui Filostrato
abbia acquisito non solo delle conoscenze pratiche – allo stesso modo Luciano ricorda
(Somn. 8) di aver iniziato da giovane la carriera di scultore – ma anche una adeguata
competenza in fatto di estetica. Filostrato vuole in sostanza accreditarsi come esperto
di arte a tutti i livelli.
10 L’unica fonte a menzionare questo pittore è Filostrato, che nelle Vite dei sofisti

(ii, 5) ne ricorda un quadro, raffigurante Elena, visibile a Roma, nel Foro.


11 L’autore definisce qui il suo programma: spiegare (hermeneúein) al suo udito­

rio i quadri della pinacoteca, richiamando quelle cognizioni di carattere mitologico e


letterario indispensabili alla comprensione del soggetto e fornendo gli elementi atti a
valutare i meriti dell’artista nel trattare il tema.
12 Filostrato allude con ogni probabilità agli Italikà Rhomaîa Sebastà Isolympia, i

più importanti giochi di tipo greco della parte occidentale dell’Impero romano, che si
tenevano a Napoli ogni quattro anni, a partire dalla loro istituzione sotto Augusto nel
2 d.C. Comprendevano sia gare atletiche ed equestri che concorsi musicali, teatrali e
poetici e duravano parecchi giorni. Vedi Geer 1935.
13 Napoli (Neapolis) fu fondata verso l’inizio del vii sec. a.C. dai greci di Cuma,

e mantenne la fisionomia di graeca urbs anche dopo la conquista romana (Strabone,


v, 4, 7; Tacito, Ann. xv, 33). La sua fama di città di grande cultura e la sua passione
per l’oratoria sono testimoniate anche da un altro esponente della Seconda Sofistica,
Favorino di Arles, che ai Napoletani indirizzò una suo discorso (pervenutoci tra quelli
di Dione di Prusa col n. lxiv).
14 Va detto che la maggior parte dei commentatori traduce il verbo katéleuon con

“alloggiavo” e intende così che il portico con i dipinti facesse parte della residenza
stessa dell’ospite di Filostrato. In questo caso però risulta difficile comprendere per­
ché poco più avanti Filostrato si riferisca a colui che ha messo insieme la pinacoteca
usando, nel testo originale, un generico tis (qualcuno), come se ne ignorasse l’identità
(a meno che – cosa possibile – costui non fosse persona diversa dal proprietario, per
conto del quale avrebbe operato. Cfr. Quet 2006, pp. 42-43).
15 Fuchs 1987 traduce orophaí non con “piani”, come generalmente si fa, ma – sulla

scorta di Od., xxii, 298 – con “soffitti”, e suggerisce che il portico potesse constare
di una sequenza di quattro o cinque sale con soffitto a volta, come è di solito nei
criptoportici.
16 Il termine pínakes (tavole) dovrebbe riferirsi appunto a quadri da cavalletto

inseriti nella muratura delle pareti (e non semplicemente appesi ad esse), secondo un
uso attestato dalle fonti e testimoniato anche a Pompei. Nella città vesuviana, infatti,
sono stati messe in luce pareti dove erano stati realizzati degli alloggiamenti per vere
tavole dipinte, che potevano essere protette da sportelli di legno; in altri casi poi, come
nella Casa dell’Ara Massima (o di Narciso), nella Casa Omerica (o del Poeta Tragico)
e nella c.d. Villa Imperiale, abbiamo dei finti quadri, completi di finti sportelli (ovvia­
mente aperti), dipinti illusionisticamente sulle pareti (vedi Van Buren 1938). Lehmann-
Hartleben 1941 pensa invece (p. 41) che tutti i quadri della galleria di Filostrato siano
da immaginare come pannelli figurati facenti tutt’uno con il resto della della parete,
dipinta con motivi decorativi più semplici, sul modello delle case pompeiane, special­
mente dei cosiddetti Terzo e Quarto Stile.
17 Non uno dei quali viene nominato da Filostrato, coerentemente con quanto

affermato poco prima (Prologo, 3), e cioè che la sua lezione non verterà sugli artisti e
sulla loro personalità ma soltanto sui quadri esposti.
18 Nonostante indichi come scopo della sua lezione quello di fare apprezzare il

valore dei quadri descritti, Filostrato si produce in effetti più in elogi che in veri giudizi
critici. In ogni quadro egli evidenzia i motivi per cui esso merita di essere ammirato,
ma non quelli per cui potrebbe essere criticato. Non c’è mai un giudizio comparativo,
e nessuno è peggiore o migliore di un altro (Lissarrague 2004, p. 5).
19 L’episodio è contenuto in Il., xxi, 342 ss. Lo Scamandro è il fiume che scorre

90
nella piana di Troia. Indignato per la strage di guerrieri troiani che Achille, furente,
compie nelle sue acque, lo Scamandro straripa e insegue minaccioso l’eroe finché
– chiamato da Era – non interviene Efesto, il quale contrastandolo con il fuoco lo
costringe a desistere. Scamandro è spesso rappresentato come divinità fluviale, ma
nell’episodio qui descritto compare solamente in una miniatura dell’Iliade Ambrosiana,
databile a v-vi sec. d.C. ma ispirata a composizioni di età ellenistica (Bianchi Ban­
dinelli 1955, p. 8, Limc, s.v. Skamandros, n. 13). La scena tuttavia non corrisponde
esattamente a quella descritta da Filostrato. Scamandro è rappresentato sdraiato sulla
propria sorgente, con un’idria da cui scorga l’acqua sotto il braccio sinistro e la mano
destra portata alla testa, mentre Efesto compare con due con due torce nelle mani.
Non sono raffigurati né Troia né gli effetti del fuoco sulla pianura.
20 Filostrato sottolinea le varianti che l’immagine dipinta presenta rispetto al testo

omerico per rivendicare – ed è certo significativo che ciò avvenga nel primo quadro
descritto – la reciproca autonomia del linguaggio pittorico e di quello letterario.
21 Komos, demone del simposio, sembra qui sostituirsi a Imeneo, il dio del corteo

nuziale che ci saremmo aspettati di trovare. L’iconografia di quest’ultimo corrisponde


peraltro a quella descritta da Filostrato, tanto che si è supposto un fraintendimento
da parte del retore (e da ciò si è voluto dedurre che avrebbe descritto un quadro
realmente esistente); ma va detto che in un mosaico del iii sec. da Filippoli (Limc,
s.v. Komos) Komos compare anch’egli – insieme a Imeneo – in una scena nuziale (lo
sposalizio di Peleo e Teti).
22 Il testo greco fa riferimento al kairós, ovvero al “momento giusto”. Il pitto­

re, mostrando attraverso la porta aperta gli sposi già distesi sul talamo nuziale, e
rappresentando Komos dormiente, ha fatto in modo di connotare temporalmente
la scena.
23 In tutta la descrizione è evidente la preoccupazione di Filostrato di rendere gli

effetti di luce realizzati dal pittore. Possiamo immaginare uno studio accurato delle
zone d’ombra e di quelle pienamente illuminate in relazione alle fonti di luce (le torce
di Komos e dei festeggianti, quelle che rischiarano l’interno della casa). Un quadro
di Antifilo (Il fanciullo che soffia sul fuoco), ricordato da Plinio (Nat. hist., 35, 138),
era famoso proprio per lo stesso genere di effetti, riscontrabili tanto sul volto del
protagonista che nella resa dell’ambiente (domo splendescente ipisusque pueri ore).
24 È questa la prima delle tante notazioni, presenti in varie descrizioni filostratee,

relative a sensi diversi dalla vista, come odorato e udito (vedi Manieri 1999 e supra,
p. 22 ss.).
25 Figura semi-leggendaria, vissuta secondo la tradizione nel vi sec. a.C. Sarebbe

stato originario della Tracia o della Frigia e per un certo periodo avrebbe risieduto a
Samo come schiavo di un certo Xanthos. Ottenuta la libertà, avrebbe peregrinato in
molte città greche, compresa l’Atene di Pisistrato. Sarebbe stato ucciso a Delfi, per
aver denunciato il modo in cui la gente del posto sfruttava cinicamente l’oracolo. Sot­
to il suo nome va un corpus di 358 favole, brevi componimenti che hanno in genere
a protagonisti degli animali, dai quali si ricava una morale educativa. È il capostipite
di un genere letterario che vanta illustri epigoni, come Fedro, La Fontaine, Trilussa
e lo stesso George Orwell.
Proverbiale era secondo gli antichi la bruttezza di Esopo (cfr. Lissarrague 2000).
Un suo ritratto caricaturale viene riconosciuto nella figura seduta su una roccia a
colloquio con una volpe dipinta sul fondo di una tazza attica del v sec. a.C. trovata
a Vulci e ora ai Musei Vaticani e a lui viene tradizionalmente riferito un busto con­
servato a Villa Albani che raffigura un uomo deforme. Anche Velázquez gli diede dei
tratti di vera bruttezza in un ritratto ideale oggi al Prado. Filostrato, al contrario, non
accenna affatto alla bruttezza di Esopo ma lo rappresenta come un saggio assorto
nell’atto creativo e attorniato dalle sue creature.
26 Il termine usato da Filostrato (philosopheî) vuole sottolineare, oltre alla mae-

stria tecnica, la particolare sophía qui dispiegata dall’artista nel concepire la scena
nel suo complesso.

91
27
Sóphisma riporta al campo semantico della sophía del pittore, declinandola come
ingegnosità non disgiunta da un solido sapere tecnico.
28
Il passo non è del tutto perspicuo. Probabilmente vi va letto un elogio della
prospettiva, ma nel testo si parla di analogía (propriamente: la proporzione). Analogía
è un concetto strettamente connesso a quello di symmetría, di cui Filostrato discute
nel Prologo, 1 (vedi supra, n. 4). Secondo Vitruvio la seconda scaturisce infatti dalla
prima: ea autem paritur a proportione, quae graece analogia dicitur (iii, 1, 1). Chiara­
mente l’effetto prospettico si basa sulle differenze di proporzioni nelle figure (Pigeaud
2003, p. 15 s.).
29 Meneceo era figlio del re Creonte. Appresa la profezia di Tiresia, si sacrificò vo­

lontariamente per salvare la città. Nelle Fenicie di Euripide (991 ss.) il suicidio avviene
però sulle mura di Tebe. Anche negli scarsi monumenti figurati in cui si è proposto di
riconoscere questo personaggio (vedi Limc, s.v. Menoikeus), egli è sempre rappresentato
sulle mura della città assediata. In questo quadro invece il suicidio avviene presso la
tana del serpente che Cadmo aveva ucciso prima di fondare la città.
30 Si allude a Platone e a un passo della Repubblica (v, 474e) in cui si parla di una

carnagione melíchloros. Plutarco, nel citare lo stesso passo (Come distinguere l’adulatore
dall’amico, 56d), riporta però melíchroon, come Filostrato.
31 Cfr. il quadro di Pantea (ii, 9, 7). Qui è da notare che il ragazzo viene invitato a

proiettarsi nella dimensione fantasmatica e ad interagire con le immagini dipinte.


32 In questo quadro il Nilo è rappresentato secondo l’iconografia canonica, attestata

da molti monumenti (tra cui cfr. la colossale statua-fontana trovata a Roma nell’Iseo del
Campo Marzio e ora al Museo Chiaramonti in Vaticano; Limc, s.v. Neilos, n. 1).
33 Il cubito misurava – a seconda delle varie regioni – da circa 44 a circa 52 cm. e

corrispondeva idealmente alla distanza dal gomito alla punta del dito medio nell’avam­
braccio umano.
34 La scena è ambientata nel giardino di Afrodite Pandemos. Lo stretto rapporto

tra Eros e le mele è attestato da molti miti, fra cui quello di Aconzio e Cidippe, ma
qui gli Eroti sono rappresentati in una molteplicità di schemi, tutti ben documentati
nell’arte romana (vedi Limc, s.v. Eros/Amor, Cupido, e Stuveras 1969). Questa Imma-
gine di Filostrato ispirò parecchi artisti del Rinascimento, fra cui Tiziano, Rubens e
Giulio Romano.
35 Queste notizie erudite sono ricavate da Erodoto iii, 108,2; Aristotele, De gen.

anim., 777a32; Eliano, Hist. anim. 13,12.


36
La lepre – animale ritenuto sessualmente insaziabile – era il tipico dono che
l’uomo maturo offriva nel corteggiamento pederastico al giovanetto da sedurre, con­
tando che l’animale, come per magia simpatica, avrebbe costretto l’oggetto del proprio
desiderio a cedere anche contro la propria volontà.
37
Memnone, condottiero degli Etiopi, era figlio di Eos (Aurora) e Tithonos, fratello
di Priamo. Durante la guerra di Troia accorse col suo esercito in aiuto dello zio e uccise
in duello Antiloco, figlio di Nestore (vedi infra il quadro ii, 7), ma fu a sua volta ucciso
da Achille. Durante il duello con quest’ultimo, Zeus “pesò” le anime dei contendenti
alla presenza delle rispettive madri: nella psicostasia l’anima di Memnone risultò più
pesante, e ciò segnò la sua sorte. Eos ne raccolse il corpo e lo trasportò in Etiopia (le
lacrime che versò sono le gocce di rugiada che bagnano ogni mattina la terra). La vicen­
da era narrata nell’Etiopide, un poema perduto del Ciclo Troiano. Il duello tra Achille
e Memnone è un tema iconografico assai diffuso nell’arte greca (Limc, s.vv. Achilleus e
Memnon), almeno dal vii sec. a.C.: Pausania (v, 19, 2) ci attesta infatti che figurava già
sulla famosa arca che Cipselo, tiranno di Corinto, aveva dedicato a Olimpia.
38
La negritudine di Memnone non trova riscontro nell’arte figurativa, dove l’eroe
non è mai raffigurato con la pelle scura (non lo era neppure in un quadro di Polignoto,
descritto da Pausania, 10, 31, 7). La descrizione filostratrea è giocata su una sapiente
ambiguità cromatica, che risolve il nero in una indefinita luminosità.
39 Si allude qui al cosiddetto Colosso di Memnone (in realtà una statua di Amenofi

iii), presso Tebe in Egitto. La statua, ancor oggi conservata, insieme a una seconda,

92
del tutto simile, quando all’alba veniva riscaldata dai raggi del sole emetteva un suono
“come di corde di cetra che si spezzassero”, che gli antichi interpretavano come il
saluto dell’eroe alla madre. Il curioso fenomeno attirava molti visitatori. Nel 120 d.C.
visitò il sito anche l’imperatore Adriano, accompagnato dalla moglie Sabina e dalla
poetessa Iulia Balbilla, della quale sono rimasti, incisi sulle gambe dei colossi, quattro
epigrammi, due dei quali cantano appunto l’eroe Memnone. Dopo un restauro dell’epo­
ca di Settimio Severo, nel 199 d.C., il suono cessò per sempre.
40 Quando Danao si trasferì dalla Libia ad Argo, Amimone lo accompagnò. Ma

il paese era senz’acqua, a causa della collera di Poseidone che voleva per sé quelle
contrade, attribuite invece ad Era. Danao inviò perciò le figlie alla ricerca dell’acqua.
Durante la ricerca avvenne che Poseidone salvò Amimone dalle insidie di un satiro e se
ne innamorò. Dopo essersi unito a lei, fece scaturire una fonte che prese il suo nome.
Filostrato semplifica molto l’intreccio del mito, quale ci è tramandato da Apollodoro,
Ovidio, Pausania e Igino. Qui il dio si invaghisce della fanciulla semplicemente ammi­
randola le volte in cui ella si reca ad attingere l’acqua al fiume.
41 Il tema godette di ampia fortuna iconografica. Tra le testimonianze più vicine

alla scena descritta da Filostrato si possono ricordare una pittura da Pompei (Limc,
s.v. Amymone, n. 27) e un mosaico da Paphos (ibid., n. 32).
42 Già in Omero (Od., xi, 241 ss.) Poseidone fa dell’onda il talamo su cui possederà

Tiro, la figlia di Salmoneo. Filostrato userà ancora questa immagine nella descrizione
del quadro di Melete (ii, 8, 3). L’allusione al colore della porpora ha una chiara impli­
cazione sessuale, e l’invito ad allontanarsi dal quadro rivolto al ragazzo sembra quasi
dettato dallo scrupolo che egli possa “vedere” con la mente qualcosa di sconveniente
(la deflorazione della vergine) che il quadro non mostra ma consente di immaginare:
un’astuzia del retore per rafforzare l’illusione ecfrastica. Da notare anche il verbo qui
usato (grápsei): come se il dio prendesse egli stesso il posto del pittore.
43 Paesaggi palustri, popolati di uccelli acquatici, sono frequenti nell’arte romana

di età imperiale. Un confronto calzante per il quadro filostrateo è offerto da un mo­


saico da Utica, pressoché contemporaneo della Pinacoteca, che presenta una scena con
divinità marine e un nugolo di Eroti che, volando a cavalcioni di cigni, pavoni e gru,
danno la caccia ad altri uccelli (Limc, s.v. Eros/Amor, Cupido, n. 352). Wickhoff 1900,
p. 167 ss., ebbe a sottolineare l’affinità tra il tipo di paesaggio qui descritto da Filostrato
e alcune decorazioni a mosaico tardo-romane copiate e parzialmente interpolate da
Jacopo Torriti nelle absidi di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore.
44
Canto dal tono molto acuto.
45
Cigni canori figurano anche nel quadro di Fetonte (i, 11, 3).
46
Al paesaggio acquatico di prima subentra ora un paesaggio bucolico rientrante in
una tipologia ben nota e riassunta da Vitruvio (vii, 5, 2) e Plinio (Nat. hist., 35,116). Un
affresco da Pompei oggi al Museo Nazionale di Napoli (inv. 9488) mostra ad esempio
un paesaggio con un pastore e una capra che attraversano un ponte e altri animali al
pascolo. Scene simili si trovano nelle decorazioni a fresco della Casa di Livia e della
Villa della Farnesina a Roma.
47
Filostrato antepone qui alla mímesis (la fedeltà al vero) la sophía (la dottrina
dell’artista, che non si limita al padroneggiamento della tecnica pittorica ma comprende
competenze culturali più estese, cfr. supra nota 2) e il kairós (la scelta oculata di un
particolare “opportuno”, tale da esprimere con efficacia un concetto o una situazione,
cfr. supra nota 22).
48
La distinzione del sesso delle palme si trova in Erodoto (i, 193, 5) e in Eliano
(Hist. plant., ii, 6, 6).
49
Il racconto è nello pseudo-omerico Inno a Hermes (vv. 41-52).
50 Amfione era figlio di Zeus e di Antiope. Alla nascita fu esposto insieme al gemel­

lo Zeto dal prozio Lico. In seguito i due fratelli si vendicarono di Lico e della moglie di
lui, Dirce, che aveva per anni umiliato e angariato la loro madre, e regnarono su Tebe.
Anche la lira rientrava fra i doni che l’erastés (l’amante adulto) offriva all’erómenos (il
fanciullo concupito): cfr. supra, nota 35.

93
51
Cfr. Il., iv, 105.
52
Cfr. Eraclito, fr. 22 B 51 DK.
53
Platone (Phaedr. 252B) cita anch’egli dei versi segreti (apothétoi) attribuiti agli
Omeridi.
54 La posa richiama l’iconografia di Orfeo, al quale le fiere accorrevano e obbedi­

vano, come ad Amfione le pietre.


55 Filostrato sembra ridimensionare qui quel primato della pittura sulla plastica che

aveva sancito nel Prologo, 2.


56 Sorelle di Fetonte, e dunque come lui figlie di Elio, dio del Sole.
57 Fiume che i Greci collocavano vagamente nell’Europa settentrionale e che in età

romana finì per essere identificato con il Po.


58 Una interpretazione razionalistica del mito di Fetonte si trova nel poema filoso­

fico di Lucrezio (De rer. nat., v, 392 ss).


59 La caduta di Fetonte è un tema che compare abbastanza spesso sui sarcofagi roma­

ni (vedi Limc, s.v. Phaeton I, nn. 9-20), talora in composizioni che, per la presenza degli
stessi personaggi di contorno, risultano assai simili a quella del quadro filostrateo.
60 I cigni sono collegati al mito di Fetonte attraverso la figura di Cicno, re ligure

amico dello sventurato giovane che ne pianse la morte e fu infine trasformato nell’ele­
gante uccello.
61 Fiume della Lidia presso la cui foce sorgeva Efeso.
62 Il Danubio.
63 Un espediente usato già dall’arte greca di età arcaica per rendere la progressione

della metamorfosi all’interno di una singola scena è quello di rappresentare alcuni per­
sonaggi in diversi momenti del racconto: si veda la tazza attica a figure nere del 560-550
a.C. ora al Museum of Fine Arts di Boston, dove i compagni di Odisseo tramutati in
bestie da Circe sono rappresentati alcuni ancora interamente umani, altri con la sola te­
sta animalesca, altri ancora con anche le braccia tramutate in zampe (cfr. Wærn-Sperber
2001). La progressiva trasformazione delle Eliadi in pioppi è resa nello stesso modo qui
descritto da Filostrato in alcuni monumenti di età romana, tra cui un sarcofago del iii
sec. d.C. (Limc, s.v. Phaeton, n. 16, p. 352) la cui composizione è nell’insieme sensibil­
mente vicina a quella del quadro in oggetto.
64 È questa per gli antichi l’origine mitica dell’ambra, la resina fossile che dalle

coste del Baltico giungeva fin dall’età preistorica alle regioni mediterranee.
65
Uno stadio misurava all’incirca 200 metri.
66
La storia è narrata da Senofonte (Conv., 4,23).
67
C’è qui forse un’allusione al famoso enunciato aristotelico (Eth. nic. 1140a, 10-
15), secondo cui la poíesis artistica è la messa in essere (génesis) mediante un’abilità
tecnica (tò technázein) e una elaborazione intellettuale (tò theoreîn) di qualcosa che può
essere o anche non essere. In ogni caso, il quadro in esame presenta una composizione
straordinariamente complessa, nella quale almeno tre distinti nuclei narrativi (la caccia
dei giovani e l’attraversamento del Bosforo, la novella dei due ragazzi suicidi per amore
e il corteggiamento della donna che respinge e attira gli spasimanti con sottile gioco di
seduzione) si dislocano in un paesaggio estremamente composito, anche se riconducibile
al repertorio della pittura parietale romano-campana: cfr. Dawson 1944, Leach 1988
Elsner 2000, La Rocca 2008.
68
Non si tratta con tutta evidenza della descrizione di un quadro a sé stante, bensì
della prosecuzione del precedente. L’equivoco nasce dalla lezione di un manoscritto
secondario, il Laudianus 12, ma l’attribuzione di un numero e un titolo propri è ormai
una prassi invalsa nelle edizioni moderne, e per praticità la si è mantenuta anche qui.
69
A interloquire è il fanciullino primo beneficiario di tutta la visita guidata. Mo­
strandolo palesemente annoiato dal dilungarsi del commento, Filostrato vivacizza il
discorso con un ulteriore tocco di enárgeia.
70 Il Mar d’Azov.
71 Si confrontino in proposito le affermazioni di Oppiano (Halieut., 3, 643) e di

Plutarco (Mor., 979f).

94
72
Fimiani 2002, che offre una raffinatissima lettura estetologica di questo quadro,
definisce la scena una mise en abîme dello sguardo nel testo (cfr. anche Fimiani 2006
ed Elsner 2004, p. 167 ss.). In effetti lo sguardo diventa qui insieme soggetto e oggetto
della descrizione.
73 Rispettivamente le personificazioni del Tuono e del Fulmine. Esse erano state di­

pinte anche da Apelle, il grande pittore del iv sec. a.C. Plinio (Nat. hist., 35, 96) porta
tali soggetti a riprova della capacità dell’artista di rappresentare anche l’impossibile a
rappresentarsi (quae pingi non possunt).
74 La scena della nascita di Dioniso nel fuoco non trova confronti iconografici nei

monumenti antichi, dove il parto di Semele è rappresentato in maniera assai meno


drammatica.
75 Il testo greco ha skiagrapheî, che sta a significare un effetto chiaroscurale, ma

potrebbe anche voler indicare una resa prospettica.


76 Dal grido bacchico euoî (evoé), che accompagnava tali danze.
77 Megera (Mégaira) è una delle Erinni. Aveva un culto sul Citerone, ma Filostrato

è l’unico autore che la associa con Atteone e Penteo.


78 Atteone fu sbranato dai suoi cani durante una battuta di caccia sul Citerone.

Secondo la versione raccolta da Apollodoro, fu punito così da Zeus proprio per aver
osato corteggiare Semele; secondo altri autori, invece, fu Artemide a farlo perire perché
era stata veduta da lui mentre prendeva il bagno nuda a una fonte.
79 Penteo spiò nasconto tra le fronde di un abete (o di un pino) la madre Agave

che con altre donne sul monte Citerone celebrava segretamente i riti del nuovo culto
dionisiaco. Scoperto, venne fatto a pezzi dalle Menadi che, accecate dal furore bacchi­
co, lo avevano scambiato per un leone. Come è noto, il mito fu portato sulla scena da
Euripide con le Baccanti nel 403 a.C. La tragica fine di Penteo è rappresentata insieme
a quella di Atteone su un sarcofago romano oggi al Camposanto di Pisa (Limc, s.v.
Aktaion, n. 79).
80 Altro nome dell’isola di Nasso.
81 Il ruolo delle nutrici nella trasmissione orale dei miti è un topos che ricorre in una

quantità di autori antichi, da Platone a Plutarco: vedi Anderson 2000, Renger 2005.
82 Il termine usato da Filostrato è ancora una volta kairós. Cfr. supra il quadro

della Palude (i, 9, 5).


83 Anacreonte, fr. 31 Page.
84
Numerosissime sono le attestazioni iconografiche di Arianna a Nasso, sia in
pittura che in scultura. Oltre alla documentazione raccolta nel Limc, s.v.. Ariadne, si
vedano Camaggio 1930, Mcnally 1985, Wolf 2002, Elsner 2007a e 2007b.
85
Sotto il nome di Dedalo (più che un nome, un soprannome: il realizzatore di
daídala, ossia di manufatti preziosi), i Greci riassunsero tutta la più antica arte plastica,
dalla toreutica delle civiltà egee dell’età del bronzo alla statuaria in legno, alla scultura
in pietra di grandi dimensioni che si afferma in Attica e nel resto della Grecia dalla
metà del vii sec. a.C. Secondo Diodoro (i sec. a.C) Dedalo fu «il primo a rappresentare
gli occhi aperti e a fare le gambe separate, le braccia e le mani staccate dal corpo».
Questa innovazione, che superando la rigidezza monovolumetrica dell’erma e dello
xóanon inseriva la figura umana nello spazio tridimensionale, è all’origine della leg­
genda – citata ancora da Tzetze nel xii secolo d.C. – secondo cui le statue dedaliche
parlavano e si muovevano, e addirittura dovevano essere legate perché non scappassero.
Vedi Pucci 2003, p. 9. ss., e Pugliara 2003, p. 161 ss.
86
Per Filostrato Dedalo è senz’altro ateniese. In realtà è soltanto dopo le guerre
persiane che Atene si appropria della figura di Dedalo, dandogli una genealogia attica.
Quando la scultura attica imbocca decisamente la strada della mímesis naturalistica
proietta all’indietro, focalizzandola sul leggendario artefice, l’origine della nuova sensi­
bilità estetica (Pucci 2003, p. 11). Filostrato, grande ammiratore degli ateniesi, suffraga
la sua convinzione con l’aspetto del personaggio, rappresentato come un meditabondo
sapiente vestito di un modesto abito da lavoro (tríbon), secondo il cliché idealizzato del
valente e sobrio technítes ateniese.

95
87
Nella descrizione dell’officina il lessico filostrateo si fa decisamente tecnico: har-
monía per l’esatto assemblaggio dei pezzi, ekriboména (da akríbeia) per la rifinitura a
regola d’arte, xymmetría per il calcolo delle proporzioni, enargeîs per la vividezza delle
figure. L’episodio di Dedalo e Pasifae fu molto popolare in età romana, come provano i
molti monumenti figurati ad esso relativi (Limc, s.v. Pasiphae). Nella composizione del
quadro di Filostrato entrano molti elementi che trovano singolarmente confronti nella
pittura pompeiana, e in particolare gli Eroti falegnami, attestati in un noto affresco della
casa dei Vettii, ancorché non in relazione con Dedalo (Camaggio 1930).
88 Vedi supra nota 6.
89 Enomao, sovrano di Pisa, nell’Elide, aveva avuto da Sterope una figlia, Ippoda­

mia. Costei era ambita da vari corteggiatori, ma Enomao non intendeva darla in moglie
a nessuno, per gelosia o perché un oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto per
mano del genero. Costringeva perciò i pretendenti a gareggiare con lui nella corsa coi
carri, col patto che, se fossero risultati vincitori, avrebbero avuto la mano della fanciul­
la, ma se invece avessero perduto, sarebbero stati uccisi. E poiché i suoi cavalli gli erano
stati donati da Ares, nessuno sfidante era mai riuscito a superarlo. Le cose andarono
diversamente quando a sostenere la prova si presentò Pelope. Ippodamia, invaghita del
giovane eroe, lo aiutò a corrompere l’auriga del padre, il quale ne manomise il carro,
in modo da favorire la vittoria di Pelope. Questi vinse anche grazie al cocchio datogli
da Poseidone, dal quale era amato per la sua bellezza. Dopo aver sposato Ippodamia
Pelope regnò su tutto il Peloponneso e fondò i Giochi di Olimpia.
90 Sembrerebbe che Filostrato si riferisca qui al quadro Pelope, che in realtà verrà

descritto più avanti (i, 30). Questa circostanza, dovuta forse a un disordine prodottosi
nella tradizione manoscritta, ha dato adito a sofisticate congetture da parte di chi crede
alla realtà storica della pinacoteca napoletana.
91 Fiume che scorre nell’Elide.
92 Secondo alcune fonti il perfido re, sbalzato dal suo carro dopo il cedimento

di una ruota causato proditoriamente da Mirtilo, rimase impigliato nelle redini e fu


trascinato dai suoi cavalli imbizzarriti, che ne fecero scempio. Secondo un’altra ver­
sione sarebbe stato ucciso dallo stesso Pelope. La tragica gara era già stata oggetto di
ékphrasis da parte di Apollonio Rodio, che la inserisce tra le scene che decoravano il
mantello di Giasone (Arg., i, 752 ss.), ma il quadro filostrateo dipende in buona parte
dalla Olimpica i di Pindaro. Oltre che nel frontone est del tempio di Zeus a Olimpia,
il mito è rappresentato in molti monumenti figurati, dai vasi italioti alle urne etrusche
ai sarcofagi romani. Uno di questi, oggi al Louvre (Limc, s.v. Hippodameia i, n. 33) il­
lustra – ancorché molto più sinteticamente del quadro filostrateo – tutto lo svolgimento
della vicenda, fino alle nozze di Ippodamia e Pelope, che però non sono rappresentati
insieme sul carro, come invece avviene in un sarcofago attico del Museo Nazionale di
Atene (Limc, ibid., n. 27).
93 Ritroviamo in questo quadro alcuni dei personaggi ai quali si allude nel prece­

dente quadro di Semele (i, 14).


94 Il dilaniamento (sparagmós) di Penteo è raffigurato con crudo realismo sulla

ceramica attica a figure rosse (Limc, s.v. Pentheus, nn. 39-44). Altri monumenti, come
la pittura della Casa dei Vettii a Pompei (ibid., n. 28), mostrano invece il momento
precedente: le Menadi che scoprono Penteo e lo assalgono, anche a colpi di pietre.
95 Elsner 2007c, p. 313 ss., osserva che la pittura verbale di Filostrato attua qui uno

sparagmós del testo delle Baccanti di Euripide (sua fonte principale) e una successiva
ricostituzione come ékphrasis, analogamente a quanto avviene nella tragedia con il
corpo di Penteo. Filostrato si confronta così con Euripide sullo stesso terreno, dato
che l’eccidio di Penteo – come tutti i fatti di sangue del teatro greco – avviene fuori
scena e viene descritto agli spettatori da un messaggero.
96 Cadmo, diventato signore di Tebe, ebbe in moglie da Zeus Armonia, figlia di

Ares e Afrodite. Sul finire della loro vita, carichi di amarezze, essi lasciarono il trono
al nipote Penteo e si trasferirono in Illiria. Qui Cadmo chiese di poter espiare tutte le
sue colpe e di essere trasformato in serpente (forma di contrappasso per l’uccisione

96
del serpente di Ares da lui compiuta in gioventù, vedi supra nota 29); per non essere
divisa dal marito, Armonia chiese e ottenne di condividerne la sorte. Nell’ékphrasis
del presunto testo iconico trova spazio anche la metamorfosi di Cadmo e Armonia,
che in Euripide è solo profetizzata, ma che l’enárgeia dell’ékphrasis filostratea può in-
vece rendere in tutto il pathos del suo divenire. Per essa non si conoscono confronti
nell’arte figurativa.
97 La vicenda dei pirati che rapiscono Dioniso e sono da questi trasformati in del­

fini è narrata in dettaglio nell’Inno a Dioniso pseudo-omerico (vii). A quell’episodio è


ispirata la celebre kylix di Exechias da Vulci, oggi a Monaco (Limc, s.v. Dionysos, n.
788), che raffigura il dio disteso su una nave, il cui albero si è trasformato in una vite
carica di grappoli mentre in mare nuotano sette delfini. La versione di Filostrato, che
contempla la compresenza di due distinte navi, non ha confronti né letterari né icono­
grafici. Abbastanza vicino al quadro qui descritto è comunque un mosaico da Thugga,
oggi al Museo del Bardo di Tunisi, databile verso la metà del iii sec. d.C. (Limc, s.v.
Dionysos/Bacchus in peripheria occidentali, Addenda, n. 25). Esso mostra Dioniso che, in
piedi sulla nave, osserva i pirati caduti in mare, già parzialmente trasformati in delfini,
e la pantera che, sporgendosi oltre il parapetto dell’imbarcazione, ne azzanna uno.
98 Monte della Lidia.
99 Melicerte, figlio di Ino, morì insieme alla madre quando questa si gettò, portan­

dolo con sé, nel mare davanti a Megara. Raccolto da un un delfino, fu divinizzato col
nome di Palemone e diventò il protettore dei Giochi Istmici. Palemone è il soggetto
principale di un quadro descritto più avanti da Filostrato (ii, 16).
100 Il leggendario cantore Arione stava per essere ucciso dalla ciurma della nave che

dalla Magna Grecia lo stava riportando a Corinto, dal suo patrono Periandro. Chiese
però la grazia di poter cantare ancora una volta, e al suono della sua impareggiabile
voce accorsero subito dei delfini. Arione si lanciò allora in acqua e un delfino lo portò
sul dorso fino al Capo Tenaro.
101 Città della Frigia dove avvenne la sfida tra Apollo e il satiro Marsia.
102 Flautista frigio, allievo e amante di Marsia, spesso raffigurato nei monumenti

figurati mentre viene istruito dal suo maestro, o mentre assiste alla sfida di questi con
Apollo. Qui invece è presentato assopito dopo un’esecuzione col suo strumento e con­
cupito da Satiri vogliosi, secondo uno schema iconografico tipico delle figure dormienti,
come forse avviene, se l’identificazione è esatta, in uno specchio di bronzo da Medma
del v sec. a.C. (Limc, s.v. Olympos i, n. 1a). Il quadro costituisce idealmente il seguito
di quello che il retore descrive subito dopo (i, 21).
103 Filostrato apostrofa direttamente il personaggio del quadro ma, usando il “noi”,

quasi si sdoppia, coinvolgendo potenzialmente anche i suoi ascoltatori nel colloquio


con il soggetto che abita lo spazio dipinto, al quale è destinata, in una sorta di mise
en abîme del procedimento ecfrastico, la minuziosa e penetrante descrizione di ciò
che lo rende bello.
104 Da buon maestro dell’illusione, Filostrato è interessato anche alle illusioni otti­

che. Le osservazioni sulla distorsione delle immagini riflesse dall’acqua riprendono quel­
le di un trattato di catoptrica di Erone di Alessandria (vedi Balensiefen 1990, p. 15).
105 Sileno, figlio di Pan
106 La descrizione richiama una celebre scultura ellenistica, ora alla Gliptoteca di

Monaco, nota come Fauno Barberini. Essa rappresenta un giovane satiro che, ebbro,
dorme sdraiato su una roccia (Limc, s.v. Silenoi, n. 220). Dalla roccia sgorgava l’acqua
di una fontana, e la frase successiva di Filostrato sembrerebbe avvalorare l’ipotesi che
il retore avesse in mente proprio quella statua o un’altra versione simile del medesimo
soggetto.
107 Apollo punì Mida, che si era espresso a favore di Marsia nella gara tra questi

e il dio, facendogli spuntare delle orecchie d’asino. Invano Mida le nascose sotto la
mitra. Il suo barbiere le vide e, incapace di tenere per sé una notizia così enorme, fece
una buca nel suolo e la confidò alla terra. Il brusio delle canne agitate dal vento la
rese poi di dominio pubblico.

97
108
Il mito di Narciso che si innamora della propria immagine riflessa nell’acqua
è abbastanza tardo. Fino a non molto tempo fa si pensava addirittura che fosse stato
creato dall’autore che per primo ne tratta, Ovidio (Met., iii, 339 ss.). Nel 2004 ne è
stata però scoperta, in un papiro di Ossirinco, una versione più antica, attribuita a
Partenio di Nicea.
109 Il fiume più grande della Grecia (il nome moderno è Aspropotamo), che scorre

in Etolia.
110 Il testo definisce letteralmente il quadro “rispettoso della verità” (timôsa dè he

graphè tèn alétheian): cfr. supra nota 1.


111 Si tratta di una variazione sul tema della celebre gara tra Zeusi e Parrasio (Plin.,

Nat. hist., 35, 65). Zeusi aveva dipinto dell’uva in maniera tanto realistica da ingannare
degli uccelli. Parrasio dipinse a sua volta una tenda in modo così perfetto che Zeusi
gli chiese di sollevarla e di mostrargli il dipinto che credeva coprisse. Qui il retore
pretende di non poter stabilire quale delle due illusioni il quadro ha prodotto. Cfr.
Bann 1989, p. 27 ss.
112 Nella pittura a encausto i pigmenti di colore venivano incorporati nella cera

resa liquida dal calore.


113 Si noti come il retore entra ed esce dal quadro, ora osservandolo oggettivamente

dall’esterno, ora interloquendo direttamente con il protagonista del dipinto quasi fosse
una persona reale, compatendolo per non essersi accorto dell’inganno (sóphisma) della
fonte, ora confessando a proposito dell’ape di non poter distinguere egli stesso la verità
dall’artificio, ora ricordando al proprio uditorio che si tratta solo di un’immagine da
spiegare e passando a descriverla come se si trattasse di una statua (vedi Newby 2009,
p. 337 ss.).
114 Le raffigurazioni di Narciso più vicine alla descrizione di Filostrato si trovano

su una stoffa copta del iv sec. d.C. conservata al Louvre (Limc, s.v. Narkissos, n. 52)
e su una gemma del Museo Thorvaldsen di Copenhagen (ibid., n. 54). Lo schema e la
ponderazione sono quelli delle statue di efebi che si appoggiano alla lancia che Plinio
(Nat. hist., 34,18) definisce «achillee».
115 L’illusione ecfrastica si fa qui vertiginosa: ci illudiamo di vedere un gruppo di

persone davanti a un dipinto dove si vede un’immagine dipinta che si illude di vedere
una persona reale in un’altra immagine dipinta che noi riconosciamo come illusoria.
116 Il soggetto del quadro è il giovane amato da Apollo, ucciso da un disco che il

dio aveva lanciato ma che Zefiro, geloso, aveva deviato in modo che colpisse l’infelice
Non è chiaro se l’iscrizione di cui si parla vada intesa come una didascalia presente nel
quadro o se Filostrato alluda alle lettere (aiai) che si riteneva fossero riconoscibili sui
petali del fiore nato dal sangue di Giacinto (cfr. Ovidio, Met., x, 162-219).
117 Nonostante sia indubitabilmente uno straordinario esperto di mitologia, Filostra­

to è attento a che il suo discorso non rimanga sul piano della pura erudizione, e perciò
si ferma un momento per rammentare ai suoi ascoltatori il vero scopo della visita: go-
dersi le opere esposte nella pinacoteca. Ma già a partire dalla frase successiva tutte le
sue parole stanno a dimostrare che il solo approccio per conseguire questo risultato è
quello ermeneutico, che si avvale di un buon uso dell’erudizione.
118 Filostrato tratta del lancio del disco anche in un’altra sua opera (Gym., 31). Lo

schêma qui illustrato è assai vicino a quello della famosa statua di Mirone, descritta, fra
gli altri, anche da Luciano (Philopseud. 18). Interessanti precisazioni in Harris 1961.
Una cornalina incisa del British Museum (Limc, s.v. Hyakintos, n. 48) rappresenta lo
stesso Giacinto nella posa che qui Filostrato riferisce ad Apollo.
119
La morte di Giacinto era il soggetto di un famoso quadro di Nicia (iv sec. a.C.),
ricordato da Plinio (Nat. hist., 35, 131), che Augusto aveva fatto portato a Roma da
Alessandria. Nulla di preciso si può dire invece dei quadri con Giacinto menzionati
da Petronio (Satyricon, 83) e da Marziale (Epigr., xiv, 173).
120 Così è rappresentato Zefiro in un mosaico da Merida (Limc, s.v. Zephyrus, n.

9), all’incirca della stessa epoca della Pinacoteca di Filostrato.


121 A detta di Pausania (vi, 26, 2) ad Andros durante la festa trieteride di Dioniso

98
da una sorgente sull’acropoli fluiva del vino automáton, ossia senza apparente intervento
umano. Plinio (Nat. hist., 31, 16) aggiunge che la fonte gettava vino per sette giorni con­
secutivi, ma che se portato via da quel luogo il liquido prendeva il sapore dell’acqua.
122
Cfr. supra nota 109.
123 Il fiume della Tessaglia, ricordato anche nel succssivo quadro ii, 14.
124 Fiume dell’Asia Minore, presso cui sorgeva Sardi, antica capitale della Lidia.

Un tempo era ricco di sabbie aurifere, la cui origine il mito faceva risalire al re Mida.
Questi vi si sarebbe infatti immerso per liberarsi dal dono di trasformare tutto ciò
che toccava in oro, che incautamente aveva chiesto a Dioniso come ricompensa della
liberazione di Sileno.
125 Cfr supra nota 21.
126 La fonte di ispirazione è qui l’Inno a Hermes pseudo-omerico.
127 Od., vi, 42.
128 Cfr. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, v, 15 e Alceo, fr. 143 L. P.
129 Un’idria ceretana della seconda metà del vi sec. a.C., oggi al Louvre (Limc, s.v.

Hermes, n. 241), illustra in maniera molto gustosa la scena qui descritta da Filostrato:
Apollo protesta con Maia e Zeus davanti a un insospettabile Hermes in fasce mentre
i buoi rubati sono nascosti in una grotta
130 In greco: sophía. Anche in questo caso Filostrato non loda semplicemente il

mestiere dell’artista ma il modo in cui ha felicemente penetrato e reso lo stato d’animo


del personaggio in quel particolare frangente.
131 Amfiarao, re di Argo, aveva ereditato dall’avo Melampo il dono di prevedere gli

eventi futuri. Quando il cugino Adrasto lo volle fra i Sette della famosa spedizione che
si proponeva di rimettere Polinice sul trono di Tebe, Amfiarao, che ne conosceva in
anticipo l’esito infausto, cercò di sottrarsi. Durante la ritirata da Tebe stava per essere
ucciso, ma per volere di Zeus la terra gli si aprì davanti, inghiottendolo insieme al suo
carro. Da allora si trasformò in un divinità infera oracolare.
132 Si ricorderà che Dante lo mette nell’Inferno (xiv, 43-72) fra i violenti contro

Dio.
133 Amfiarao che viene inghiottito dalla terra con tutto il suo carro è rappresentato

su diversi monumenti (Limc, s.v. Amphiaraos, nn. 37-47), tra i quali si segnalano il
frontone in terracotta del tempio di Talamone, oggi al Museo Archeologico di Firenze,
e un sarcofago romano a Villa Doria Pamphili.
134 Personificazione della località dell’Attica dove sorgeva il santuario di Amfiarao.

Non se ne conosce l’iconografia.


135 Pausania (i, 34, 5) ci descrive tutto il rituale dell’oneiromanteía che si praticava

nel santuario. Il fedele sacrificava dapprima un ariete al dio; quindi, stesane la pelle a
terra, vi dormiva sopra e attendeva la rivelazione che giungeva nel sogno.
136 Secondo Omero (Od., xix, 562 ss.) due sono le porte del sogno: una di corno,

veritiera; l’altra d’avorio, menzognera.


137 L’aggettivo chloúnes è lo stesso usato da Omero (Il., ix, 539) per il terribile

cinghiale calidonio.
138 Prima ancora di cominciare a descriverla ai suoi ascoltatori, Filostrato è entrato

nell’immagine e ha iniziato un dialogo con i Cacciatori che vi sono dipinti. Ma se si


è lasciato ingannare dall’arte del pittore fino a crederli reali, e a credere di parlare
con loro, non si fa ingannare da quanto gli dicono: non il cinghiale, ma un giovane
compagno di straordinaria bellezza è il vero oggetto della loro caccia, ed è intorno a
lui che si accalcano smaniosi, eccitandosi a vicenda. Capiamo così che è per empatia
verso i corteggiatori che il retore, sensibile allo stesso richiamo, si è proiettato nello
spazio della finzione da lui stesso creata. Ma bruscamente Filostrato torna compos sui.
Come in una ben costruita scena di commedia, si finge ora imbarazzato per aver reso
manifesto il suo debole per i bei giovani a un uditorio di giovani (ma non sarà stato
proprio quello il suo intento nascosto?) e se la prende con il ragazzo che non lo ha
avvertito dell’illusione di cui era caduto vittima. Ma è un rimprovero che subito si fa
giustificazione: certo neanche lui ha potuto sottrarsi all’inganno (apáte), a quella sorta

99
di trance (hýpnos) indotta dalla contemplazione del quadro. Tra il maestro e l’allievo
c’è ora una complicità (primo passo di una strategia di seduzione?) e la lezione può
riprendere: in fondo è un quadro come un altro quello che abbiamo davanti!
139
Si allude agli smalti prodotti dagli artigiani dell’area celtica.
140 Per il rapporto tra caccia e corteggiamento omoerotico vedi Schnapp 1997, p.

318 ss.
141 Epiclesi che connota la dea come protettrice della caccia. Il mosaico detto della

“piccola caccia” nella villa tardo-antica di Piazza Armerina ha una scena di cacciatori
raccolti attorno a una statua di Diana che Settis 1975, p. 930, ha posto in relazione
con questo quadro della Pinacoteca.
142 La situazione ricorda quella descritta da Platone nel Charmides (154 c-d), quan­

do il protagonista del dialogo viene ammirato come una bella statua. Nel paradosso
ecfrastico, tuttavia, coloro che ammirano il giovane come un dipinto sono essi stessi
figure di un quadro.
143 Sul mito di Andromeda e la sua iconografia vedi Frontisi-Ducroux 1996.
144 L’intervento di Eros, mai attestato nei numerosi monumenti figurati pervenuti­

ci (vedi Limc, s.v. Andromeda) potrebbe essere un’invenzione originale di Filostrato.


Neppure i pastori etiopi che ristorano Perseo dopo la lotta col mostro sono presenti
nei monumenti, però ricorrono in un frammento superstite dell’Andromeda di Euri­
pide (146 N.). Non sappiamo come avesse trattato il tema il pittore Nicia nel quadro
menzionato da Plinio (Nat. Hist., 35, 132).
145 Pelope aveva una spalla di avorio, in sostituzione di quella che Demetra gli

aveva mangiato durante il mostruoso banchetto in cui Tantalo aveva cucinato e servito
agli dèi le membra del figlio.
146 Nel quadro di Ippodamia (i, 17, 3) si fa menzione di questo quadro, dandolo

come visto poco prima: un indizio che l’ordine in cui i quadri compaiono nei mano­
scritti non è quello originalmente previsto da Filostrato.
147 Pelope in abito orientale alla guida dei cavalli alati dono di Poseidone è raffi­

gurato su un’idra attica da Spina (Limc, s.v. Pelops, n. 3).


148 Il termine usato (áthlos) è lo stesso di quello impiegato per l’impresa di Enomao,

ed equipara l’exploit del pittore alla vittoria in una lotta.


149 Qui sophía designa sì la maestria dell’artista, ma anche la sua profonda cono­

scenza della materia mitica.


150 Dopo che gli dèi si resero conto di quale cibo era stato loro imbandito da Tantalo,

il corpo smembrato di Pelope fu rigenerato nel calderone di Cloto, una delle Parche.
Solo la parte consumata da Demetra dovette essere rimpiazzata da una protesi di avorio
(cfr. Pindaro, Ol., i, 26).
151 Erodoto (i, 10, 3) afferma che anche gli uomini lidii consideravano una vergogna

essere visti nudi.


152 Xénia si chiamavano quelle cibarie che il padrone di casa usava offrire ai propri

ospiti (xénoi) e anche le pitture o i mosaici che li rappresentavano (cfr. Vitruvio, vi,
7, 4). La pittura pompeiana offre molti esempi di simili nature morte. (cfr. De Caro
2001). Un accurato confronto tra il testo filostrateo e le testimonianze archeologiche
è in Costa 2007.
153 Il passo riecheggia un verso dell’Odissea (vii, 120).
154 Citazione dalla Pace di Aristofane (v. 520).
155 È un tipo iconografico assai diffuso nel mondo greco-romano, attraverso varie

rielaborazioni e contaminazioni di creazioni ellenistiche di iii e ii sec. a.C., come la


Venere Capitolina o la Venere Medici, nel quale la dea copre il seno con il braccio
destro e il pube con la mano sinistra (Limc, s.v. Aphrodite, nn. 391-422). Nello stesso
tipo viene inclusa dal Limc (ibidem, p. 49) anche l’Afrodite di Cnido di Prassitele, che
però copriva solo il sesso e non il seno.
156 Filostrato loda il pittore per l’effetto tridimensionale che è riuscito a ottenere,

emulando con la sua tecnica le prerogative della scultura (vedi Prologo, 2 e nota 8).
157 Il lessico usato (epiprépein, symbaínein) rimanda alla teoria estetica del prépon

100
(in latino decorum), che fa consistere la bellezza nell’appropriatezza a un determinato
fine o a una determinata funzione. Per dipingere secondo verità è indispensabile atte­
nersi all’armonica congruenza delle parti che il prépon impone.
158
Fr. 185 L.-P. (melíphonos) e 71 L.-P. (mellichóphon[…]) Anche i precedenti agget­
tivi ricorrono in versi di Saffo: cfr. Fr. 53 L.-P. (brhodopáchees); Fr. 44, L.-P. (helikópides).
159 La città dell’isola di Cipro dove la dea approdò dopo essere sorta dal mare e

dove aveva un famoso santuario.


160 È questa la prima scena del quadro che illustra l’infanzia di Achille presso Chi­

rone. Questi era considerato il più mite e insieme il più sapiente dei Centauri, esperto
di tutte le scienze (in particolare della medicina) e di tutte le arti. Filostrato ne parla an­
che nell’Eroico (45, 4). Molti personaggi del mito furono suoi allievi, ma fu soprattutto
la paideía di Achille a ispirare l’arte figurativa (Limc, s.v. Cheiron e Achilleus). Il tema,
sviluppato in cicli che presentano alcune varianti, ebbe grande fortuna specialmente in
età tardo-antica. Tra i monumenti più significativi vanno ricordati la Tensa Capitolina
(un carro da parata rivestito da rilievi in bronzo) e un grande piatto in argento da
Kaiseraugst dove tornano alcune delle scene descritte qui da Filostrato.
161 Cfr. il quadro dello Scamandro (i,1).
162 L’impercettibile trapasso dalla natura umana a quella ferina è parimenti motivo

di elogio da parte di Luciano della centaura dipinta da Zeusi (vedi infra nota 166).
163 Il cavallo dell’eroe, al quale Hera aveva concesso la parola, gli predisse la morte

(Il., xix, 400 ss.).


164 Kentauros, considerato il capostipite della razza dei centauri.
165 Monte della Tessaglia abitato dai centauri e in particolare da Chirone.
166 Zeusi, uno dei più grandi pittori greci, fiorito nella seconda metà del v sec. a.C.,

aveva dipinto un celebre quadro, la Famiglia dei Centauri, di cui Luciano ci ha lascia­
to un’ékphrasis altrettanto famosa (Zeux., 3-7), commentata puntualmente da Maffei
1994.
167 Un’analisi complessiva dell’iconografia delle centaure e della sua fortuna si può

trovare in Giuliano 1979 (ma vedi anche Limc, s.v. Kentauroi et Kentaurides).
168 Antifilo di Naucrati, contemporaneo di Apelle, dipinse un quadro che rap­

presentava Ippolito terrorizzato alla vista del toro. Era esposto a Roma, nel Portico
di Filippo (Plinio, Nat. hist., 35, 114). A un quadro con la morte di Ippolito allude
anche Prudenzio (Contra Symmachum, ii, 54-56). Il tema è comune sulle urne funerarie
etrusche e sui sarcofagi romani (Limc, s.v. Hippolytos I, nn. 107-114, 117-121.).
169 L’espressione charíen tês graphês (letteralmente: “la cosa graziosa del quadro”) ri­

corre anche nel quadro di Melete (ii, 8, 1) e sta a indicare il punto di forza dell’opera.
170 Varie principesse persiane portarono il nome di Rodogune, fra cui la figlia di

Mitridate i (e sorella di Fraate ii), vissuta nel ii sec. a.C. Ma più che con un preciso
personaggio storico, abbiamo qui a che fare con la tipizzazione della regina guerriera
orientale (sul modello di Semiramide e delle mitiche Amazzoni) che sovverte agli occhi
dei Greci i modelli di comportamento del proprio sesso. Di lei si diceva che rifiutasse
ostinatamente i corteggiamenti degli uomini, e forse per questo motivo è accostata nella
Pinacoteca a Ippolito. Il retore Polieno (ii sec. d.C.), che la inserì in una galleria di
condottieri famosi, ricorda che, essendo stata informata di una rivolta in una provincia
mentre usciva dal bagno, con i capelli ancora sciolti montò a cavallo e si mise alla testa
dell’esercito, giurando di non acconciarsi la chioma fino a quando non avesse domato i
ribelli. Per questo motivo era rappresentata anche in monumenti ufficiali con i capelli
scompigliati. In Filostrato invece solo il lato destro è scarmigliato, e il contrasto crea
un effetto originale. Di Rodogune non si conosce nessun documento figurato.
171
Rodogune è fiera di essersi imposta sugli uomini, il cui amore non cerca, ma è
anche lusingata dalla consapevolezza che le sue gesta saranno cantate dai Greci. Anche
il suo supposto pregare in greco la connota, nella prospettiva di un intellettuale greco
come Filostrato, non come una barbara ma come una persona acculturata. Non è im­
probabile che in filigrana si debba cogliere un omaggio a Giulia Domna, l’imperatrice
di origine siriana assai versata nelle lettere, protettrice di Filostrato.

101
172
Pausania (viii, 40, 1-2) ricorda una statua eretta a Figalia in onore di questo
atleta (che però chiama Arrachione), vincitore a Olimpia nel 564 a.C. (e prima ancora
nel 568 e nel 572 a.C.). Dopo aver descritto il suo ultimo eroico combattimento, riporta
che la corona della vittoria fu conferita al cadavere.
173 Secondo il mito, Alfeo, era innamorato della ninfa Aretusa, la quale, per sfuggir­

gli, si trasformò nella fonte che sgorga a Siracusa. Alfeo ottenne dal padre Oceano di
poter attraversare il mare e di mescolare le sue acque a quelle della fonte siciliana.
174 Nel suo Gymnastikós (21), Filostrato aggiunge che la decisione di lottare fino

alla morte fu presa da Arrichione dopo che il suo allenatore Erissia gli ebbe ricordato
a gran voce quanto nobile fosse l’onore postumo di non essersi mai arresi in una gara
olimpica. Sull’interesse di Filostrato per gli atleti del passato vedi König 2009.
175 Non esiste un preciso confronto iconografico per la scena descritta da Filostrato.

In generale sulle raffigurazioni di lottatori in età imperiale romana vedi Newby 2005.
176 Il., xv, 569
177 Ivi, xxiii, 796.
178 Ivi, xviii, 2 ss., 32-33.
179 Vedi supra il quadro Memnone (i, 7).
180 Odisseo.
181 Diomede.
182 Aiace figlio di Oileo, re di Locri, e Aiace figlio di Telamone, re di Salamina.
183 I diversi episodi mitici in cui è implicato Antiloco sono stati spesso rappresen­

tati nei monumenti figurati antichi (Limc, s.v. Antilochos i, Achilleus, Memnon), ma il
quadro filostrateo li compone in un modo che non ha confronti.
184 Od., xi, 238 ss.
185 In greco l’espressione è identica a quella che Filostrato ha già usato nel quadro

di Rodogune (ii, 5, 1) e che userà, nuovamente qui stesso (charíen dè autoû) poco
più avanti, in riferimento all’iconografia del fiume. Ogni volta segnala qualcosa che, a
giudizio del retore, costituisce una prova di sophía da parte del pittore e risulta perciò
accattivante per l’osservatore.
186 Citazione da Euripide, Bacch., 709.
187 Se del modo di dire precedente non conosciamo altre attestazioni, per quest’al­

tro possiamo ricordare Sofocle, fr. 811 Radt.


188 Il tema è caro a Filostrato, che lo ha trattato anche nel quadro di Amimone

(i, 8, 2).
189 Due fiumi della Beozia, la regione dove sorge l’Elicona, la montagna dove ri­

siedevano abitualmente le Muse.


190 Una leggenda voleva appunto che Omero, ritenuto nativo di Smirne, fosse il

frutto degli amori della ninfa Criteide e del fiume Melete, che scorre presso quella città.
Per questo motivo uno degli appellativi di Omero era Melesigene.
191 Tutto quanto in questo passo si predica dei fiumi e dell’Oceano è tratto da

Omero (per il Peneo: Il. ii, 573; per il Titaresio e l’Enipeo, altri fiumi della Tessaglia:
Il., ii, 751 e Od., xi, 238; per l’Axio, che scorre in Macedonia: Il., ii, 580; per lo Xanto,
principale corso d’acqua della Licia: Il., xiv, 234; per l’Oceano: Il., xxi, 195). Né di
Melete né di Criteide possediamo documenti iconografici comparabili alla descrizione
di Filostrato, ma solo immagini su monete, piuttosto convenzionali (Limc, s.v. Meles
i e ii, Kritheis).
192 Cyrop., vi, 1, 31 ss.; v, 1, 6; vi, 4, 6.
193
In virtù quindi di una immagine mentale prodotta dalla phantasía ma basata su
cognizioni (sophía) acquisite per inferenza (cfr. note 1-2).
194
Laodamia ed Evadne costituiscono due esempi mitici di spose amorevoli che
non vollero sopravvivere alla morte del loro sposo. La vicenda di Evadne è al centro
del quadro ii, 7.
195 L’espressione hedío graphês era proverbiale, e Filostrato stesso la usa in Vite dei

Sofisti, ii, 1 (550). In questo contesto però ha il sapore di una studiata concettosità: i
graffi che la vedova si è inflitta durante la rituale lamentazione del defunto sono assi­

102
milati ad una graphé (disegno) naturale che la donna esibisce sul suo stesso corpo e che
risulta più attraente di una graphé fatta ad arte, ma il tutto avviene all’interno di una
graphé artificiosa (il quadro) di cui noi abbiamo cognizione solo in quanto prodotto
del gráphein di Filostrato.
196 L’immagine del sangue del suicida raccolto nella veste c’è anche nel quadro di

Meneceo (i, 4, 4).


197 La stessa portata in scena da Eschilo nell’Agamennone (458 a.C.).
198 In teatro gli episodi cruenti non erano mostrati ma solo raccontati da qualcu­

no (cfr. supra nota 95), e in ogni caso per quanto ne sappiamo l’arredo di scena era
piuttosto essenziale.
199 Il., v, 585.
200 L’espressione proverbiale è messa in bocca ad Agamennone da Omero (vedi

nota seguente).
201 Od., xi, 405 ss.
202 Poiché un Pan vestito non è certamente usuale, alcuni editori correggono il testo

dei manoscritti, e in luogo di “tirandosi su la veste” intendono “palpando loro il seno”.


203 Cfr. Teocrito, Id., i, 18.
204 Il padre di Pindaro.
205 Eliano (Var. hist., 12, 45), Pausania (ix, 23, 2) e l’Anthologia Planudea (305)

riferiscono che Pindaro fu nutrito alla nascita dalle api con miele al posto del latte.
Analoghi racconti esistevano su Omero e Platone. Il nesso tra api e maestri della parola
nella cultura greca è analizzato da Giuman 2008.
206 Che Pan abbia cantato dei versi di Pindaro lo dice Plutarco (Mor., 1103a). Per

certo Pindaro cantò Pan (fr. 95 Maehler).


207 Pindaro fu particolarmente devoto a Rea, che cantò in Pyt. 3, 77-78. Pausania

(ix, 25, 3) riferisce che a Tebe, nelle vicinanze della casa di Pindaro, esisteva un tem­
pio della dea, con una statua dedicata dallo stesso Pindaro, opera di due artisti locali,
Aristomede e Socrate. È naturale pensare che sia la stessa che compare nel quadro. Di
essa – dice Filostrato – il pittore è riuscito a rendere la durezza (katesklekuías). Ciò può
voler dire che è riuscito a rendere col colore la consistenza materica della pietra (una
conferma della supremazia della pittura sulla scultura teorizzata nel Prologo) ma forse
anche che ha riprodotto la “secchezza” di un’opera di età arcaica (nel lessico retorico
latino durus corrisponde appunto al greco sklerós).
208 Pindaro elogiò in effetti Atene (fr. 65) e la città lo ricompensò erigendogli una

statua bronzea (Pausania, i, 8, 4).


209 Per un’analisi dettagliata di questo quadro vedi Grilli 1995.
210 La morte di Aiace, figlio di Oileo, che è il soggetto di questo quadro, è descritta

da Omero nell’Odissea (iv, 499 ss.). Atena, volendo punire l’eroe per il sacrilego ratto
di Cassandra, nel viaggio di ritorno da Troia fece naufragare la sua nave. Aggrappato
alle Gire, e credendosi ormai in salvo, Aiace tornò a irridere nella sua iattanza gli dèi,
finché Poseidone, che pure in passato lo aveva aiutato, non colpì col tridente lo scoglio
su cui stava e non lo fece annegare. Filostrato narra l’episodio anche nell’Eroico, 31-
32. Aiace era stato rappresentato come naufrago da Polignoto nella Lesche dei Cnidi
a Delfi (Pausania, x, 31, 1-2).
211 Nelle vicinanze di Mykonos, o secondo altri di fronte all’estremità meridionale

dell’Eubea.
212 Cfr. Erodoto, vii, 29.
213
Nominato anche in ii, 8, 6.
214
Due isole all’ingresso del Ponto Eusino, così chiamate perché avevano la pro­
prietà di sbattere l’una contro l’altra (sympléssein) all’improvviso, schiacchiando le navi
che in quel momento si fossero trovate in mezzo ad esse. Aiutato dal veggente Fineo,
Giasone fece in modo che Argo le superasse senza gravi danni, e dal quel momento
non si mossero più.
215 Telamone e Peleo.
216 Calaide e Zete.

103
217
L’oracolo di Zeus a Dodona, in Epiro, era considerato il più antico di tutta la
Grecia. Il dio si manifestava attraverso il mormorio delle fronde di una quercia, che
i sacerdoti interpretavano (vedi il quadro ii, 33). Anche la chiglia della nave Argo,
ricavata da quella quercia, aveva il dono della profezia.
218 Glauco predisse a Eracle, che faceva parte della spedizione di Giasone, le sue

imprese. L’incontro degli Argonauti con Glauco è narrato nel poema di Apollonio Rodio
(i, 1310 ss.).
219 Sulle Alcioni esistevano diversi miti. Secondo uno di questi le figlie del gigante

Alcioneo, disperate per l’uccisione del padre da parte di Eracle, si gettarono in mare
e furono trasformate in uccelli marini.
220 Ino, figlia di Cadmo e moglie di Atamante, fu resa folle da Hera e si gettò in

mare col figlio Melicerte. Cfr. supra i, 19, 6 e nota 99.


221 Lecheo è il porto settentrionale di Corinto, sul golfo omonimo.
222 Forse le personificazione di Kenkrai, il porto meridionale, sul golfo Saronico.
223 Welcker (Jacobs-Welcker 1825) pensò che Filostrato avesse inteso descrivere le

Eolie. Moffit 1990 ritiene invece, con argomenti abbastanza convincenti, che la descri­
zione si attagli alle mitiche Isole Fortunate, identificate già dagli antichi con le Canarie.
In ogni caso, anche se per talune particolarità geologiche ha tenuto presente scritti di
geografi e viaggiatori, Filostrato ha combinato in questa descrizione un serie di paesaggi
ideali, ricorrendo anche a molti prestiti letterari, da Omero a Esiodo a Pindaro.
224 Tifone, mostruoso figlio di Gea e di Tartaro, fu seppellito da Zeus sotto l’Etna.
225 Varie zone vulcaniche dell’Italia e della stessa Sicilia venivano indicate come

luogo dove era stato seppellito il gigante Encelado.


226 Vedi Erodoto, viii, 41, 3.
227 Così lo descrive Omero (Od., iv, 411 ss.)
228 L’amore del mostruoso Ciclope per la leggiadra nereide Galatea era l’argomento

di un dramma satiresco di Euripide, che non ci è arrivato. L’ékphrasis filostratea si


ispira a Teocrito (Id., xi, 19 ss.). Il tema è trattato più volte nella pittura di Pompei ed
Ercolano (Limc, s.v. Galateia, add. nn. 9-22), dove però Polifemo non ha un aspetto
così spaventoso come in questo quadro di Filostrato.
229 Personaggio che conosciamo da uno scolio all’Iliade (xxiii, 660) e dalle Meta-

morfosi di Ovidio (xi, 413).


230 Omero spesso riporta misure impressionanti di personaggi atterrati (es. Il., xxi,

407; Od., xi, 577).


231 Una località con questo nome esisteva, a detta di Erodoto (ix, 30), in Beozia. È

impossibile dire se si tratti di una omonimia o di una confusione fatta da Filostrato. Va


aggiunto che secondo Lehmann-Hartleben 1941, che crede all’effettiva esistenza della
galleria di quadri napoletana, Filostrato avrebbe confuso addirittura il personaggio:
non del brigante Forbas si tratterebbe in questo quadro, ma di Amico, il re dei Bebrici
vinto al pugilato da Polluce nel corso della spedizione degli Argonauti. Essendo Amico
figlio di Poseidone come Glauco e il Ciclope, si spiegherebbe meglio la sua presenza
accanto a questi ultimi.
232 La posa corrisponde a quella della statua nota come Atlante Farnese (Limc, s.v.

Atlas, n. 32), copia romana di un originale ellenistico conservata nel Museo Nazionale
di Napoli.
233 Atlante che reggeva il cielo e la terra fu dipinto da Panainos in uno dei pannelli

che decoravano la recinzione della statua dello Zeus di Olimpia (Pausania, v, 11, 5).
234
Gigante figlio della Terra e di Poseidone. Viveva in Libia, e obbligava tutti
coloro che attraversavano il suo territorio a lottare con lui. Una volta vinti, li uccideva.
Rappresenta la forza bruta del barbaro non civilizzato, destinata a soccombere a Eracle,
incarnazione dei valori culturali dell’atletismo greco.
235 L’espressione ricorre in Omero (Il., vi, 127; xxi, 151).
236 Il termine sphyrélata fa riferimento alla realizzazione di statue mediante martel­

latura di una lamina bronzea su un’anima di legno intagliata. Teocrito (Id., xxii, 47)
usa lo stesso aggettivo per descrivere Amico (cfr. supra nota 231).

104
237
La descrizione del fisico di Anteo è lontana dai canoni dell’atleta greco: cfr.
Jüthner 1893. Nei monumenti figurati antichi, tuttavia, a partire dal celebre cratere di
Euphronios al Louvre (Limc, s.v. Antaios i, n. 21), egli non ha un aspetto tanto sgrazia­
to. Il momento che precede la lotta è raffigurato in un rilievo da Afrodisia, dove si vede
il Gigante fasciarsi le orecchie come nel quadro di Filostrato. Assai più numerosi sono
i monumenti che illustrano la lotta, e in particolare il momento topico in cui Eracle
solleva il rivale da terra. Si pensa che opere come il gruppo marmoreo di Palazzo Pitti
(Limc, ibid., n. 60) e la pittura del Sepolcro dei Nasoni a Roma (Limc, ibid., n. 39)
derivino da una creazione di Lisippo (cfr. Anth. graec., xvi, 103) o della sua scuola.
238 È uno dei casi in cui nella Pinacoteca la supposta contiguità fisica dei quadri

corrisponde a una continuità narrativa del soggetto. La lotta dei Pigmei con Eracle è
un episodio ignorato da ogni altra fonte, ma rientra nel filone dei racconti parodistici
che avevano a protagonista l’eroe.
239 In preda alla follia, scatenata da Era, Eracle uccise la moglie Megara, figlia del re

di Tebe Creonte, e i tre figli avuti da lei. La vicenda è narrata nell’Heraklés mainómenos
di Euripide – da cui Filostrato prende varie citazioni per decrivere questo quadro – e
nell’Hercules furens di Seneca (echi di queste tragedie si riscontrano anche nella pittura
pompeiana: vedi Coralini 2001). Sappiamo da Plinio (Nat. hist., 35, 141-142) che il
pittore tardo-classico Nearco aveva dipinto un Herculem tristem insaniae poenitentiae,
mentre l’accesso di follia e il conseguente infanticidio sono rappresentati su un vaso
pestano del iv sec. a.C. (Limc, s.v. Herakles, n. 1684) e su altri monumenti di età romana
(ibidem, 1687-1689).
240 La liberazione di Prometeo da parte di Eracle era stata raffigurata da Panainos in

un pannello della recinzione dello Zeus di Olimpia (vedi nota 233) e anche da Euanthes
(Ach. Tat., iii, 6).
241 Al componimento a cui allude Filostrato appartiene con tutta probabilità il fr.

168b Maehler.
242 La storia è raccontata anche da Apollodoro, Bibl. ii, 5, 11.
243 La morte del giovane erómenos di Eracle, durante l’ottava fatica di questi, è

illustrata forse su una coppa d’argento di età augustea trovata nella Casa del Menandro
a Pompei (Limc, s.v. Herakles, n. 2439=1756).
244 Stando a una glossa di Esichio, era una specie di conserva di frutta.
245 Il pramnio, che si produceva nella Ionia e nella Caria, era assai reputato. È

menzionato già nell’Iliade (xi, 638 ss.), dove Nestore lo impiega a fini medicinali, e
nell’Odissea (x, 235 ss.), dove Circe lo serve, mescolato alle sue droghe, ai compagni
di Odisseo.
246 C’è qui una reminiscenza da Aristofane (Nub., 1008)
247 La nascita di Atena è un tema spesso trattato nell’arte attica (Limc, s.v. Athena,

nn. 343-364) ma la versione più famosa è indubbiamente quella che ne diede Fidia nel
frontone est del Partenone (Paus., i, 24, 5).
248 Normalmente Pluto, personificazione della ricchezza, è rappresentato cieco (cfr.

Arist., Plut., 90). Tutta l’ékphrasis è intessuta di citazioni dalla Olimpica vii di Pindaro,
composta per Diagora di Rodi.
249 Il passo a cui Filostrato allude è Od., xix, 204 ss.
250 Sêres è il nome che i Greci davano agli abitanti dell’ attuale nord-est della Cina,

mentre con l’aggettivo serikós (lat. sericus) designavano il prezioso tessuto da essi pro­
dotto, la seta. Si pensa a una derivazione dalla parola cinese si (seta).
251
Op., 777.
252
Il quadro è stato considerato uno dei più antichi esempi di rovinismo pittorico.
In realtà il fuoco della visione, più che sul paesaggio, è concentrato sulla resa virtuo­
sistica dei dettagli che riguardano i minuscoli insetti e la loro opera di filatura. Per
un’analisi più dettagliata vedi McCombie 2002.
253 La figlia (per altri la sorella o la madre) di Ares.
254 La figura di Capaneo collega questo quadro al seguente, ma anche agli altri

ispirati alla saga tebana: quello di Meneceo (i, 4) e quello di Amfiarao (i, 27).

105
255
In questa posa è ritratta Antigone in un sarcofago di Villa Doria Pamphili (Limc,
s.v. Antigone, n. 11).
256
Pausania (ix, 18, 3) riferisce la stessa cosa a proposito dei sacrifici che venivano
fatti sulla tomba dei due fratelli.
257 Nelle Supplici di Euripide – fonte per la scena centrale di questo quadro – viene

però seppellito a Eleusi.


258 Evadne era già stata ricordata come exemplum di amore coniugale nel quadro

di Pantea (ii, 9), insieme a Laodamia. Nell’Eroico (11) Filostrato aggiunge il nome di
Alcesti all’elenco delle spose esemplari.
259 Temistocle, ostracizzato dagli Ateniesi, fu accolto a Susa da Artaserse, re dei

Persiani. Opporre la “barbarie” persiana alla superiore civiltà dei Greci è un tópos a
cui neanche Filostrato rinuncia.
260 Cfr. i, 16, 1.
261 La capacità di apprendere lingue diverse e di muoversi tra culture diverse è una

dote del sofista, e la condizione di Temistocle a Susa trova un parallelo nel rapporto di
Apollonio di Tiana con il re re parto Verdane (Vita di Apollonio di Tiana, i, 29).
262 Dell’inventrice della lotta, la figlia di Ermete cui qui Filostrato attribuisce forme

androgine, possediamo una sola testimonianza iconografica sicura (perché accompagnata


da iscrizione): un medaglione in terracotta gallo-romano che la raffigura seduta, col
busto nudo e una palma in mano (Limc, s.v. Atalante, n. 82).
263 Da Erodoto (ii, 55, 2) e da uno scolio omerico (ad Il., xvi, 234) che fa risalire

l’informazione a Pindaro apprendiamo che una colomba partita dall’Egitto avrebbe


guidato il boscaiolo epirota Ello fino al luogo dove sarebbe sorto il santuario. Vedi
anche il quadro Glauco (ii, 15, 1).
264 Il., v, 749. È stato osservato che la descrizione di quest’ultimo quadro della

Pinacoteca si apre, come quella del primo, con un riferimento a Omero, dal quale sono
prese anche alcune citazioni che seguono. Elsner 2000 parla in proposito di “ring-
composition”.
265 Il., xx, 227.
266 Ivi, ii, 148. Le Ore sono qui divise in quattro gruppi. A partire dall’età elleni­

stica infatti il numero delle stagioni si fissò in quattro, mentre in età arcaica Autunno
e Inverno erano assimilati. È probabile che ogni gruppo contasse tre figure, così da
raggiungere complessivamente il numero dei mesi dell’anno. Filostrato mette quelle
dell’Inverno dopo quelle della Primavera perché legge il cerchio della loro danza da
sinistra a destra e non viceversa. Spesso nelle immagini antiche il movimento procede
in senso antiorario (epì tà dexiá). Gadaleta 2002 sottolinea che nessuna testimonianza
iconografica pervenutaci rispecchia in tutti i dettagli il quadro di Filostrato. Vedi co­
munque Limc, s.v. Horae).
267 Georgíai tês graphês: è evidente l’analogia che Filostrato vuole instaurare con il

prodotto della sua propria ékphrasis, frutto della parola.


268 Per la prima – e ultima – volta l’ékphrasis investe direttamente, almeno in po­

tenza, l’artista e non la sua opera.


269 Si ricorderà che nel Proemio, 1, le Ore sono descritte come artiste che disegnano

(gráphousi) le loro figure sui prati, dimostrando così che la pittura è un’invenzione
degli dèi.
270 Si tratta di un gioco di parole, poiché in greco hóra indica sia la stagione o un

altro lasso di tempo, sia la grazia, l’eleganza; mentre gráphein significa tanto il dipingere
lo scrivere: una brillante agudeza che suggella degnamente l’opera di un maestro di
retorica che ha dato prova di saper dipingere con la parola.

106
Appendice biobibliografica

Cenni biografici
L’autore di quest’opera viene tradizionalmente riconosciuto nel retore Flavio
Filostrato, nato probabilmente a Lemno tra il 160 e il 170 d.C. e morto negli
anni quaranta del iii sec. d.C.
Fece i suoi studi ad Atene, dove fu allievo di Antipatro di Hierapolis, Pro­
clo di Naucrati, Damiano di Efeso. Successivamente si trasferì a Roma, dove
entrò nell’entourage di Giulia Domna, sposa dell’imperatore Settimio Severo.
Al seguito di questi e del figlio Caracalla fece alcuni viaggi nelle province. Nel
217, dopo la morte di Caracalla seguita dal suicidio della madre Giulia Domna,
tornò ad Atene, dove trascorse gli ultimi anni.
Egli è verisimilmente identificabile con il secondo dei tre Filostrati menziona­
ti dall’enciclopedia bizantina Suda. Il primo sarebbe vissuto in epoca neroniana
(ma la cronologia e la sua stessa esistenza sono problematiche), mentre il terzo,
Filostrato figlio di Nerviano, autore di un’opera intitolata anch’essa Eikónes, nel
proemio di quest’ultima si dichiara nipote di lui per parte di madre.
A Filostrato Maggiore, così detto per distinguerlo dall’omonimo nipote, ven­
gono attribuite, su basi stilistiche diverse, altre opere che vanno sotto il nome di
Filostrato, tra le quali la Vita di Apollonio di Tiana, il celebre filosofo-taumaturgo
di età flavia, e le Vite dei Sofisti, biografie degli esponenti della Prima e della
Seconda Sofistica.
Sulla vita e le opere di Filostrato Maggiore e in generale sulla complessa
“questione filostratea” si vedano da ultimo De Lannoy 1997, De Lannoy 1998
e Bowie 2001, con ampia bibliografia.

Edizioni moderne delle Eikones


L’opera ci è pervenuta in un certo numero di manoscritti, i principali dei
quali sono il Laurentianus lxix, 30 (F), databile al xiii sec., il Parisiensis gr.
1696 (P), del xiv sec., il Vaticanus 98 (v) e il Vaticanus 1898 (v2), entrambi
risalenti al xiii sec.
La prima edizione a stampa comparve a Venezia, per i tipi di Aldo Manu­
zio, nel 1503. Un’edizione filologicamente pregevole, che fece a lungo testo, fu
quella di Bendorf-Schenkl 1893. L’edizione di riferimento più recente è quella
di Kalinka-Schönberger 1968, con traduzione tedesca. Quella di Fairbanks 1931,
con traduzione inglese, è però ancora largamente usata, e non soltanto da parte
degli studiosi anglo-americani. In lingua francese, oltre alla celebre traduzione
di Blaise de Vigenère, del 1637 (recentemente ripubblicata con commento da
Graziani 1995) è disponibile la traduzione di Bougot 1881 nell’edizione rivista

107
da F. Lissarrague (Hadot-Lissarrague 1991), mentre in spagnolo esistono le
versioni di Cuenca-Elvira 1993 e di Mestre-Miralles 1996.
La prima traduzione italiana fu quella di Mercuri 1828. Più recentemente
si è avuta quella di Fanizza-Schilardi 1997, con testo greco a fronte, cui si sono
da poco aggiunte quella di Abbondanza 2008, anch’essa con con testo greco a
fronte, e quella di Carbone 2008.

Bibliografia

Si sono adoperate le seguenti abbreviazioni:


AJPh = “American Journal of Philology”
ANRW = “Aufstieg und Niedergang der römischen Welt”
ArtB = “Art Bulletin”
ClPh = “Classical Philology”
ASNP = “Annali della Scuola Normale di Pisa – Classe di lettere e filosofia”
BJA = “British Journal of Aesthetics”
EAA = “Enciclopedia dell’arte antica classica e orientale”
JbClassPhil = “Jahrbücher fur classische Philologie”
JRS = “Journal of Roman Studies”
JWCI = “Journal of the Warburg and Courtald Institutes”
LIMC = “Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae”
QUCC = “Quaderni urbinati di cultura classica“
RACH= “Reallexicon für Antike und Christentum”
RE = “Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft”
RM = “Römische Mitteilungen” (Mitteilungen des Deutschen Archäologischen
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Indice dei nomi

Abbondanza, L., 23, 89, 108. Apollodoro di Atene, 89, 93, 95.
Abdero, 79. Apollonio di Tiana, 19, 20, 87-89, 99,
Abradata, 63, 64. 106.
Achille, 14, 15, 21, 28, 56, 57, 61, 91, Apollonio Rodio, 96, 104.
92, 101, 109. Araspe, 63.
Aconzio, 92. Archiloco, 29.
Adrasto, 49, 99. Ares, 96, 97, 105.
Adriano, 93. Aretusa, 102.
Afareo, 68. Arianna, 21, 40, 95, 111.
Afrodite, 32, 33, 41, 55, 92, 96, 100. Arione, 44, 97.
Agamennone, 56, 61, 64, 65, 103. Aristodemo di Caria, 27, 89.
Agatarco, 89. Aristofane, 100, 105.
Agave, 43, 95. Aristomede, 103.
Aiace di Oileo, 67, 102, 103. Aristone, 30.
Aiace Telamonio, 19, 102. Aristotele, 17, 18, 87, 88, 92, 105.
Alceo, 99. Armonia, 43, 96, 97.
Alcesti, 106. Arrichione, 60, 61, 102.
Alciati, A., 11. Artaserse, 106.
Alcioneo, 104. Artemide, 51, 58, 95.
Alfeo, 42, 53, 102. Asclepiodoro, 89.
Alpers, S., 14, 23, 108. Astrape, 39.
Amenofi iii, 92. Atamante, 104.
Amfiarao, 30, 49, 50, 99, 105. Atena, 21, 71, 80, 81, 105.
Amfione, 35, 36, 94. Atlante, 75, 104.
Amico, 104. Atteone, 40, 95.
Amimone, 33, 34, 93, 102. Augusto, Ottaviano, 90.
Anacreonte, 95. Aurora, 33.
Anassagora, 89. Aygon, M., 108.
Anderson, G., 95, 108.
Andromeda, 52, 100. Balensiefen L., 97, 108.
Anteo, 76, 77, 105. Balio, 57.
Antifilo, 91, 101. Bann, S. , 98, 108.
Antigone, 82, 106. Baxandall, M., 108.
Antiloco, 61, 92, 102. Beall, S. M., 109.
Antiope, 93. Becker, A., 109.
Antipatro di Hierapolis, 107. Belloni, L., 113.
Apelle, 89, 95, 101. Benndorf, O., 107, 109.
Apollo, 35, 44, 47-50, 74, 75, 97-99. Bertrand, E., 109.
Apollodoro, 105. Bianchi Bandinelli, R., 91, 109.

121
Bianchi, M., 110. Colpo, I., 112. 113.
Billault, A., 109. Cometa, M., 110, 116.
Birmelin, E., 109. Conan, M., 110.
Blanchard, M., 109. Conca, Matteo di Capua, principe di,
Boeder, J. M., 109. 13.
Boehm, G., 109, 113. Coralini, A., 105, 110
Bolzoni, L., 23, 109. Corti, C., 110.
Bompaire, J., 109. Cosgrove, B., 110.
Bonfiglioli, S., 117. Costa, S., 100, 110.
Borea, 68. Costantini, M., 110, 112.
Bougot, A, 8, 23, 107, 109, 113. Creonte, 92, 105.
Bowie, E. 107, 109, 111, 114. Crescenzo, R., 23, 110.
Bram, S. 109. Creso, 63, 64.
Braund, D., 118. Criteide, 62, 102.
Briseide, 56. Cuenca, L. A., 108, 110, 111.
Bronte, 39.
Brunn, H., 12, 109. D’Alessandro, P., 24, 111.
Bryson, N., 10, 12, 23, 109, 110. Damiano di Efeso, 107.
Bulwer-Lytton, E., 12. Damis, 87.
Byre, C. S., 110. Danao, 34, 93.
Dante Alighieri, 99.
Cadmo, 39, 43, 92, 96, 97, 104. Davo, 30.
Calaide, 103. Dawson, Ch. M., 94, 111.
Calame, C., 24, 110. De Angelis, F., 110.
Callistrato, 15, 22, 114, 115. De Caro, S., 100, 111.
Camaggio, M., 95, 96, 110. Dedalo, 41, 95, 96, 110.
Camassa, G., 110. De Lannoy, L., 107, 111.
Cämmerer, B., 110. Demetra, 100.
Canetti, E., 13. Democrito, 89.
Capaneo, 30, 49, 64, 82, 83, 105. Derrida, J., 22, 110, 111.
Caracalla, Lucio Settimio Bassiano, Diagora di Rodi, 105.
107. Diana, 100 (vedi anche Artemide).
Carbone, A. L., 108, 110. Diodoro Siculo, 95.
Carrier, D., 110. Diomede, 42, 79, 102.
Cassandra, 64, 65, 103. Dione di Prusa (Dione Crisostomo), 88,
Cassin, B., 109. 90, 112.
Caylus, A.-Cl.-Ph. de Tubières, conte Dioniso, 39, 40-44, 46, 48, 54, 71, 95,
di, 12. 97, 98, 99.
Cebete di Tebe, 111. Dirce, 93.
Chantraine, P., 110. Downey, G., 111.
Cheeke, S., 110. Dubel, S., 23, 89, 111.
Chirone, 56, 57, 101.
Cicno, 94. Ebe, 76.
Cidippe, 92. Eck, V., 111.
Cipselo, 92. Eco, 66, 72, 85.
Circe, 94. Edipo, 30, 82.
Ciro, 63, 64. Efesto, 28, 31, 80, 91.
Clitemnestra, 64, 65. Egisto, 64.
Cloto, 53, 100. Elena, 90.
Clüver, C., 23, 110. Eliano, 92, 93, 103.
Cohen, B., 115. Elio (Sole), 94.
Collatz, C.-F., 111. Elio Aristide, 23, 89.

122
Elio Teone, 15. Fimiani, F., 95, 112.
Elle, 68. Fineo, 103.
Ello, 84, 106. Foley, H. P., 111.
Elsner, J., 17, 18, 23, 94-96, 106, 109, Forba, 74, 104.
111, 114. Förster, R., 23, 112.
Elvira, M. A., 108, 110, 111. Foucault, M., 22, 24, 112.
Encelado, 71, 104. Fowler, D. P., 112.
Enipeo, 62. Fraate ii, 101.
Enomao, 41, 44, 53, 96. Franz, M., 112.
Enyo, 82. Fredrick, D., 118.
Eos, 92. Freud, S., 17, 23.
Era (Hera), 91, 93, 101, 104, 105. Friederichs, K., 12, 112.
Eracle, 15, 68, 75-79, 104, 105, 110. Friedländer, P., 112.
Eraclito, 94. Frisso, 68.
Erissia, 102. Frontisi-Ducroux, F., 100, 112.
Ermete, 35, 36, 48, 49, 77, 84, 99, 106. Fuchs, M., 23, 90, 112.
Ermogene, 23.
Erodoto, 8, 92, 93, 100, 103, 104, 106. Gadaleta, G., 106, 112.
Erone di Alessandria, 97. Gadamer, H. G., 18, 23, 112.
Eros, 38, 52, 79, 92, 100. Galand-Hallyn, P., 112.
Eschilo, 89, 103. Galatea, 73, 74, 104.
Esichio, 105. Gallazzi, C., 118.
Esiodo, 15, 29, 81, 104. Gea, 104.
Esopo, 29, 30, 91. Geer, R. M., 90, 112.
Eteocle, 82. Geertz, C., 18.
Ettore, 49, 56, 61, 67. Genette, G., 13, 23, 113.
Euanthes, 105. Georgoudi, S., 112.
Eufranore, 89. Ghedini, F., 23, 112, 113.
Eumelo, 27, 89. Giacinto, 47, 98.
Eumolpo, 9. Giasone, 68, 96, 103, 104.
Euphronios, 105. Gill, Ch., 118.
Euripide, 72, 92, 95, 96, 97, 100, 102, Giulia Domna, 101, 107.
104, 105, 106. Giuliano, A., 101, 113.
Euristeo, 75, 77, 78. Giulio Romano (Giulio Pippi detto),
Evadne, 82, 83, 102, 106. 11, 92.
Exechias, 97. Giuman, M., 103, 113.
Glauco, 68, 69, 104.
Faedo, L., 112. Goethe, J. W., 12, 14, 113, 118.
Fairbanks, A., 22, 107, 112. Golahny, A., 113.
Fanizza, F., 108, 112. Goldhill, S., 24, 111, 113.
Fano Santi, M., 113. Gorgia, 20.
Farnetti, M., 118. Gorgone, 52.
Fattori, M., 110 Graf, F., 113.
Favaretto, I., 112. Graziani, F., 107, 110, 112, 113.
Favorino di Arles, 90. Grilli, A., 103, 113.
Fedra, 58. Gutzwiller, K. J., 113.
Fedro, 91.
Ferri, S., 112. Hadot, P., 8, 23, 108, 113.
Fetonte, 16, 36, 37, 93, 94. Halliwell, S., 87, 113.
Fidia, 87, 88, 105, 112. Hamon, Ph., 114.
Filippo, 101. Harari, M., 108.
Filostrato Minore, 7, 15, 107. Harloe, K., 23, 114.

123
Harris, H. A., 114. Lévy, C., 111, 115, 118.
Heffernan, J., 114. Licambe, 29.
Henderson, I., 114. Lico, 93.
Hera, vedi Era. Linceo, 98.
Hermes, vedi Ermete. Lissarrague, F., 9, 10, 15, 20, 90, 98,
Heyne, Ch. G., 12, 114. 101, 111, 115.
Hollander, J., 14, 23, 114. Lombardo, G., 115, 118.
Holly, A., 109. Luciano di Samosata, 9, 10, 15, 20, 90,
98, 101, 111, 115.
Ifito, 79. Lucrezio Caro, Tito, 94.
Igino, 93.
Imeneo, 91. Maehler, E., 103, 105.
Ino, 69, 97, 104. Maffei, S., 24, 88, 101, 111, 115.
Ippodamia, 21, 41, 42, 53, 96, 100. Maia, 48, 49, 99.
Ippolito, 58, 101. Manakidou, F., 115.
Ippomedonte, 82, 83. Manieri, A., 91, 115.
Issione, 57. Manuzio, A., 107.
Iulia Balbilla, 93. Marino, G., 13, 118.
Marmo, C., 117.
Jacobs, F., 104, 114. Marone, 43.
James, L., 114. Marsia, 44, 97.
Jongeneel, E., 110, 117. Marziale, Marco Valerio, 98.
Jüthner, J., 105, 114. Mathieu-Castellani, G., 115, 117.
Matz, F., 115.
Kalinka, E., 107. Mazzara, F., 115.
Kalkmann, A., 114. McCombie, D., 105, 115.
Keats, 14. McDowell, F., 114.
Keil, H., 23. McNally, S., 95, 115.
Kennedy, G. A., 114. Medea, 113.
Kentauros, 101. Megara, 78, 105.
Kleiton, 89. Megera, 95.
Kofler, W. K., 117. Melampo, 99.
Komos, 21, 28, 29, 48, 91. Melete, 62, 63, 93, 101, 102.
König, J., 102, 114. Melicerte, 69, 97, 104.
Koortbojian, M., 114. Memnone, 33, 61, 92, 93, 102.
Kotsidu, H., 116. Meneceo, 21, 30, 92, 105.
Kraus, Ch., 111. Menelao, 61.
Krieger, M., 110, 114. Mengaldo, P. V., 115.
Krobb, F., 110. Menna, M. R., 115.
Kunz, D., 10, 23, 114. Mercuri, F., 108, 115.
Mestre, F., 108, 115.
Lacan, J., 18. Michel, Ch., 115, 116.
La Fontaine, J. de, 91. Mida, 45, 46, 97, 99.
Lahusen, H., 116 Milanese, G., 113.
Laodamia, 102, 106. Minotauro, 41.
La Rocca, E., 94, 114. Miralles, C., 108, 115.
Leach, E. W., 94, 115. Mirone, 98.
Lecheo, 69. Mirtilo, 42, 96.
Lee, R. W., 114. Mitchell, W. J. T., 22, 24, 116.
Lehmann-Hartleben, K., 12, 90, 104, 115. Mitridate i, 101.
Lessing, G. E., 11. Moffit, J. F., 104, 116.
Leucotea, 69. Morales, H., 118.

124
Morrison, J., 110. Periandro, 97.
Morton Braund, S., 118. Pernot, L., 111, 115, 118.
Moxey, K. 109. Perry, E., 116, 118.
Munscher, K., 116. Perseo, 52.
Perutelli, A., 116.
Narciso, 21, 46, 98, 111. Peruzzi, B., 11.
Nearco, 105. Petronio Arbitro, 98.
Neocle, 83. Pfotenhauer, H., 109, 113.
Nerviano, 107. Picone, M., 118.
Nestore, 92, 105. Pierio Valeriano Bolzanio, G., 11.
Neumeister, C., 116. Pigeaud, J., 88, 92, 116.
Newby, Z., 24, 98, 102, 116. Pindaro, 66, 78, 96, 100, 103-106.
Nicia, 100. Pinotti, A., 24, 116.
Nicolao di Mira, 15. Pisistrato, 91.
Noack Hilgers, B., 116. Pitagora, 88.
Novello, M. 113. Platone, 87, 88, 92, 94, 95, 100, 103.
Plett, H. P., 112.
Oceano, 37, 51, 63, 102. Plinio il Vecchio (Gaio Plinio Secondo),
Odisseo (vedi anche Ulisse), 65, 94, 102. 89, 91, 93, 95, 99, 100. 105.
Oileo, 102, 103. Plutarco, 88, 89, 92, 94, 95, 103.
Olimpo, 44, 45. Pluto, 81, 105.
Omero, 10, 15, 28, 29, 33, 34, 49, 56, 61- Policleto, 87, 88, 89.
63, 81, 85, 88, 93, 99, 102-106, 110. Polieno, 101.
Oppiano, 94. Polifemo, 73, 104.
Orfeo, 68, 69, 94. Polignoto, 92, 103.
Oropo, 50. Polinice, 30, 49, 82, 99.
Orwell, G., 91. Pollitt, J. J., 87, 116.
Osborne, R., 113. Polluce, 104.
Ovidio, 93, 98, 104. Pommier, E., 115.
Porro, A., 113.
Paiano, S., 118. Poseidone, 21, 31, 33, 34, 42, 53, 62,
Palazzini, S., 24, 116. 67-71, 73, 93, 96, 100. 103, 104.
Palemone, 21, 69, 97. Posidonio, 87.
Palestra, 84. Potestio , A., 111.
Palm, J., 116. Poussin, N., 11.
Pan, 21, 40, 43, 65, 66, 97, 103. Prassitele, 100.
Panainos, 104, 105. Priamo, 65.
Panezio, 87. Proclo di Naucrati, 107.
Pantea, 63, 92, 106. Prometeo, 78, 105.
Paride, 55. Proteo, 22, 72.
Parrasio, 89, 98. Protesilao, 64.
Partenio di Nicea, 98. Prudenzio, 101.
Partenopeo, 82. Pucci, G., 23, 24, 88, 95, 116, 117.
Pasifae, 41, 89, 96, 110. Pugliara, M., 95, 117.
Patroclo, 28, 61.
Paulicelli, E., 23, 116. Quet, M.-H., 90, 117.
Pausania, 92, 93, 98, 99, 102-104, 106. Quintiliano, 17, 23, 117.
Peleo, 33, 91, 103.
Pelope, 42, 53, 96, 100. Radt, S. L., 102.
Penelope, 81. Raffaello Sanzio, 11.
Penteo, 40, 42, 43, 95, 96. Ravenna, G., 117.
Peri, F., 109. Rea, 66, 103.

125
Recht, R., 117. Surliuga, V., 23, 118.
Renger, A.-B., 95, 117.
Riffaterre, M., 117 Tacito, Publio Cornelio, 90.
Rispoli, G. M., 88, 117. Tantalo, 100.
Robillard, V., 110, 117. Tartaro, 104.
Rodogune, 16, 21, 58, 59, 101. Tatarkiewicz, W., 89, 118.
Rolet, S., 110, 112. Telamone, 103.
Rousselle, A., 117. Telò, M., 118.
Rouveret, A., 117. Temistocle, 21, 83, 84, 106.
Rubens, P. P., 92. Teocrito, 104.
Russo, L., 116. Teodamante, 78, 79.
Teseo, 40, 58.
Sabina, 93. Teti, 91.
Saffo, 55, 101. Thein, K., 118.
Salmoneo, 93. Tideo, 61, 82, 83.
Scamandro, 28, 56, 65, 90, 91. Tifi, 68.
Scheffer, Ch., 118. Tifone, 71, 104.
Schenkl, K., 107, 109. Timomaco, 19, 113.
Schilardi, G., 108, 112. Tiresia, 30, 92
Schlosser, J. von, 14. Tiro, 62, 93.
Schnapp, A., 100, 117. Tithonos, 92.
Scholz, B. 23, 117. Tiziano Vecellio, 11, 92.
Schönberger, O., 107. Töchterle, K., 117.
Schweitzer, B., 117. Too, Y. L., 117.
Scott, G. F., 117. Torriti, J., 93.
Sebeok, T. A., 117. Trilussa (Carlo Alberto Salustri), 91.
Semele, 39, 95, 96. Tritone, 74.
Semiramide, 101. Tzetzes, I., 95.
Seneca, Lucio Anneo, 105.
Senofonte, 93, 89, 94. Ulisse (vedi anche Odisseo), 65.
Senza Peluso, M., 117. Umiker-Sebeok, J., 117.
Settimio Severo, Lucio, 93, 107. Urano, 56.
Settis, S., 14, 23, 87, 100, 111, 117, 118.
Shaffer, D., 118. Valtolina, A., 112.
Shapiro, G., 118. Van Buren, A. W., 90, 118.
Sharrock, A., 118. Vasari, G., 14, 108.
Sileno, 71, 97, 99. Vasiliu, A., 118.
Simonide di Ceo, 22. Vattimo, G., 112.
Sisifo, 69. Velázquez, D., 91.
Slater, N., 118. Venere, 100.
Small, J. P., 118. Venturi, G., 118.
Socrate, 87, 89. Venuti, R., 23, 118.
Socrate (scultore), 103. Verdane, 106.
Sofocle, 102. Verdenius J. W., 118.
Solmsen, Fr., 118. Vernant, J.-P., 112.
Solone, 87. Vetters, H., 118.
Spinicci, P., 23, 24, 118. Vidal-Naquet, P. 112.
Sterope, 96. Vigenère, B. de, 11, 107, 113.
Steuben, H. von, 116. Visconti, E., 11.
Stockt, L. Van Der, 118 Vitruvio Pollione, Marco, 88, 89, 92,
Strabone, 90. 93, 100.
Stuveras, R., 92, 118.

126
Wærn-Sperber, A., 94, 119.
Wagner, P., 20, 24, 118. Zangara, A., 23, 118.
Wanlin S. D., 118. Zanker, G., 23, 118.
Watson, G., 23, 88, 118. Zefiro, 35, 37, 44, 45, 47, 56, 69, 71,
Webb, R., 23, 114, 118. 98.
Welcker, T., 104, 114. Zeitlin, F., 120.
Wickhoff, F., 16, 23, 93, 118. Zete, 103.
Wilkins, J., 118. Zeto, 93.
Winckelmann, J. J., 11, 114. Zeus, 30, 33, 34, 39, 49, 63, 68, 71, 80,
Wolf, C. M. , 95, 118. 81, 82, 84, 85, 92, 93, 95, 96, 99,
Wolfe, T., 22. 104, 105.
Zeusi, 98, 101, 110.
Xanto, 57, 63, 102. Zimmermann, B., 118.
Xantos (diverso dal precedente), 91. Zumbo, A., 120.

127
Aesthetica
diretta da Luigi Russo

1 Oggi l’arte è un carcere?, a cura di Luigi Russo


2 Scritti sul Romance, di György Lukács
3 Estetica e psicologia, a cura di Lucia Pizzo Russo
4 La nascita dell’estetica di Freud, di Luigi Russo
5 Le Belle Arti ricondotte a unico principio, di Charles Batteux
6 Il teatro nella società dello spettacolo, a cura di Claudio Vicentini
7 La “morte dell’arte” e l’Estetica, di Dino Formaggio
8 Estetica e linguistica, a cura di Emilio Garroni
9 Estetica del Brutto, di Karl Rosenkranz
10 Letteratura tra consumo e ricerca, a cura di Luigi Russo
11 La parola anteriore come parola ulteriore, di Rosario Assunto
12 Inchiesta sul Bello e il Sublime, di Edmund Burke
13 Riflessioni sulla Poesia, di Alexander Gottlieb Baumgarten
14 Segno e Immagine, di Cesare Brandi
15 L’Acutezza e l’Arte dell’Ingegno, di Baltasar Gracián
16 Il Sublime, di Pseudo Longino
17 Saggio sull’Architettura, di Marc-Antoine Laugier
18 Da Longino a Longino: I luoghi del Sublime, a cura di Luigi Russo
19 Anatomia del Barocco, di Guido Morpurgo-Tagliabue
20 Estetica, di Friedrich Daniel Schleiermacher
21 Il disegno infantile: Storia teoria pratiche, di Lucia Pizzo Russo
22 L’origine della Bellezza, di Francis Hutcheson
23 La Luce nelle sue manifestazioni artistiche, di Hans Sedlmayr
24 Frammenti di Estetica, di Friedrich Schlegel
25 Le arti figurative e la natura, di Friedrich Whilhelm Joseph Schelling
26 Scritti sul Piacere, di Aristotele
27 La metafora inaudita, di Ernesto Grassi
28 Scritti di Estetica, di Karl Philipp Moritz
29 Il romanzo dell’Infinito, di Michele Cometa
30 La perfezione della Pittura, di Roland Fréart de Chambray
31 Sulla Pittura, di Denis Diderot
32 Problemi di Estetica, di Dino Formaggio
33 Laocoonte, di Gotthold Ephraim Lessing
34 La rosa di Kant, di Ermanno Migliorini
35 Saggio sopra la Bellezza, di Giuseppe Spalletti
36 Pensieri sull’educazione artistica, di Rudolf Arnheim
37 Pensieri sull’Imitazione, di Johann Joachim Winckelmann
38 La Bellezza Ideale, di Esteban de Arteaga
39 Storia di sei Idee, di Władysław Tatarkiewicz
40 Critica della Poesia, di John Dennis
41 Plastica, di Johann Gottfried Herder
42 Lettera sulla Scultura, di Frans Hemsterhuis
43 Lettera sugli Spettacoli, di Jean-Jacques Rousseau
44 Lezioni di Estetica, di Karl Wilhelm Ferdinand Solger
45 Pensieri sulla Pittura, di Anton Raphael Mengs
46 Il “non so che”, a cura di Paolo D’Angelo e Stefano Velotti
47 Vedere l’invisibile: Nicea e lo statuto dell’Immagine, a cura di Luigi Russo
48 Il senso della Bellezza, di George Santayana
49 Lezioni di Estetica, di Alexander Gottlieb Baumgarten
50 L’analisi della Bellezza, di William Hogarth
51 Lo Stile, di Demetrio
52 Il Gusto: Storia di una idea estetica, a cura di Luigi Russo
53 Il Sublime e il Comico, di Friedrich Theodor Vischer
54 L’Estetica, di Alexander Gottlieb Baumgarten
55 Il problema della Forma nell’arte figurativa, di Adolf von Hildebrand
56 Il Bello musicale, di Eduard Hanslick
57 Scritti di Estetica, di Hans-Georg Gadamer
58 I piaceri dell’Immaginazione, di Joseph Addison
59 Estetica della Scultura, a cura di Luigi Russo
60 I Moralisti, di Lord Shaftesbury
61 Fiat lux: Una filosofia del sublime, di Baldine Saint Girons
62 Scritti di Estetica, di Moses Mendelssohn
63 L’educazione estetica, di Friedrich Schiller
64 Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura, di Jean-Baptiste Du Bos
65 Scritti sull’arte figurativa, di Konrad Fiedler
66 Teoria dell’arte, di José Jiménez
67 Arte come esperienza, di John Dewey
68 La destituzione filosofica dell’arte, di Arthur C. Danto
69 Il Genio: Storia di una idea estetica, a cura di Luigi Russo
70 L’estetica della mimesis, di Stephen Halliwell
71 La Pinacoteca, di Filostrato Maggiore
Finito di stampare nel maggio 2010
in Palermo
presso la Tipolitografia Luxograph s.r.l.
La Pinacoteca
Una città – Napoli – ricca di cultura e d’arte; un famoso retore di passag­
gio, che per sottrarsi all’invadenza dei suoi fans si reca en touriste a visita­
re una galleria di quadri; un ragazzino che con la sua voglia di imparare
fa breccia nella scontrosità del maturo professore e lo convince a fare – a
lui e ad altri giovani interessati – una visita guidata della ricca pinacoteca:
tale è lo scenario di questa celeberrima opera di Filostrato Maggiore.
Più di sessanta sono i quadri che l’autore, esponente di spicco della Se­
conda Sofistica, vissuto tra Atene e Roma a cavallo tra il ii e il iii secolo
d.C., vi descrive. Reali o immaginari? È una domanda che non si posero
gli artisti del Rinascimento, che attinsero a piene mani a questo testo per
ricreare la vagheggiata pittura degli antichi, e neppure Blaise de Vigenère,
che nella storica volgarizzazione della fine del Cinquecento vi vide soprat­
tutto una somma di allegorie moraleggianti e di simboli sapienziali, alla
maniera dell’emblematica dell’Alciati e dei geroglifici di Pierio Valeriano.
Goethe, che se ne fece ammirato commentatore, lo lesse sotto l’entusiamo
suscitato dalle testimonianze pittoriche che andavano restituendo gli scavi
di Ercolano e Pompei, mentre l’archeologia filologica ottocentesca si sa­
rebbe divisa in opposte fazioni sull’autenticità delle opere descritte.
Oggi la questione dell’esistenza fattuale della pinacoteca ha smesso di ap­
passionarci. Il museo di Filostrato è a tutti gli effetti un museo “imma­
ginario”, perché fatto di immagini che l’abilità del retore ci pone sotto
gli occhi, in un virtuosistico tour de force teso a creare l’illusione di una
sinestesia tale da coinvolge la vista come l’udito e l’olfatto. In questo che
è uno dei testi fondanti dell’ékphrasis come genere letterario autonomo,
la parola sollecita non solo a ricreare con la vista della mente (la phantasía
degli antichi) l’oggetto artistico assente ma anche – ed è questo il gioco
sapiente in cui Filostrato vuole attirarci – a provare le emozioni che pro­
veremmo esperendolo dal vero. L’ermeneutica filostratea fa appello alla
cooperazione del lector in tabula, chiamato qui a farsi per la sua parte
creatore, oltreché osservatore, di una scaltrita mimesi basata su una enci­
clopedia di testi letterari e visuali condivisa dall’audience culta dell’epoca.
La presente edizione, che si giova dell’affilata quanto elegante traduzio­
ne di Giovanni Lombardo, arricchita dalla presentazione e dalle note al
testo di Giuseppe Pucci, che mettono in risalto l’interesse estetotologico
dell’opera e la rapportano al dibattito moderno sull’ékphrasis, è corredata
da esaustivi apparati critici e bibliografici.

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