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Walkscapes : Camminare come pratica estetica di Francesco Careri.

Camminare intesto come strumento critico, come modo ovvio di guardare il paesaggio e forma emergente
di un certo tipo di arte e di architettura.

Opera fornita al gruppo Stalker, composto in quel periodo da studenti di architettura.

Stalker può essere paragonato ai situazionisti, condividono il gusto per l’investigazione urbana, la sensibilità
per le trasformazioni contemporanee in quanto sintomi di una società in mutazione.

L’atto di attraversare lo spazio nasce dal bisogno naturale di muoversi. Ma una volta soddisfatte le esigenze
primarie il camminare si è trasformato in forma simbolica che ha permesso all’uomo di abitare il mondo.

La transumanza nomade, considerata generalmente come l’archetipo di ogni percorso, è stata in realtà lo
sviluppo delle interminabili erranze di caccia del paleolitico.

È solo nell’ultimo secolo che il percorso, svincolandosi dalla religione e dalla letteratura, ha assunto lo
statuto di puro atto estetico.

Anti-Walk

Il camminare viene sperimentato per tutto l’inizio del secolo come forma dell’anti-arte. Nel 1921 Dada
organizza a Parigi una serie di “visite-escursioni” nei luoghi banali della città. Agli inizi degli anni cinquanta
l’Internazionale Lettrista, comincia a costruire la “teoria della deriva”. La deriva urbana lettrista si trasforma
in costruzione di situazioni sperimentando comportamenti ludico-creativi e ambienti unitari.

Constant rielabora la teoria situazioni sta per sviluppare l’idea di una città nomade –New Babylon-
portando il tema del nomadismo nell’ambito dell’architettura.

Land Walk

La seconda metà del secolo vede il camminare come una delle forme dell’arte utilizzate dagli artisti per
intervenire nella natura. Nel 1966 sulla rivista “Artforum” appare il racconto del viaggio di Tony Smith in
un’autostrada in costruzione.
Nel 1967 Richard Long realizza “A Line Made by Walking”, una linea disegnata calpestando l’erba di un
prato, il camminare si trasforma in forma d’arte autonoma.

Transurbanza

Lettura delle città dal punto di vista dell’erranza, condotte da Stalker dal 1995 in alcune città europee.
L’assenza di controllo hanno prodotto un sistema di spazi vuoti che possono essere percorsi andando alla
deriva come nei settori labirintici della New Babylon di Constant.

Il nomadismo in realtà ha sempre vissuto in osmosi con la sedentarietà e la città attuale contiene al suo
interno spazi nomadi (vuoti) e spazi sedentari (pieni), che vivono in equilibrio di reciproci scambi. Oggi la
città nomade vive all’interno della città sedentaria, si nutre dei suoi scarti offrendo la propria presenza, la
natura che può essere percorsa solamente abitandola.

Per una nuova espansione di campo


Con il termine “percorso” si indicano allo stesso tempo l’atto dell’attraversamento, la linea che attraversa lo
spazio, il racconto dello spazio attraversato.
Il camminare si rivela allora uno strumento che, proprio per la sua intrinseca caratteristica di simultanea
lettura e scrittura dello spazio, si presta ad ascoltare e interagre nella mutevolezza di questi spazi.

Il tracciato nomade distribuisce gli uomini in uno spazio aperto, indefinito, non comunicante.

Caino, Abele e l’architettura

Sedentari: abitanti delle città, considerati come gli architetti del mondo

Nomadi: abitanti dei deserti e degli spazi vuoti, anarchitetti, sperimentatori avventurieri.

Rivisitando il mito di Caino e Abele in chiave architettonica, Caino l’anima sedentaria e Abele quella
nomade. Caino si dedica all’agricoltura e Abele alla pastorizia.
Caino accusò Abele di aver sconfinato e lo uccise, condannandosi alla condizione di eterno vagabondo.
Caino è identificabile come l’Homo faber, l’uomo che lavora e che assoggetta la natura per costruire
materialmente un nuovo universo artificiale, mentre Abele potrebbe essere considerato l’Homo ludens,
l’uomo che gioca e che costruisce un effimero sistema di relazioni tra la natura e la vita.

Mentre la maggior parte del tempo di Caino è dedicata al lavoro, Abele ha una grande quantità di tempo
libero da dedicare alla speculazione intellettuale.

Caino sarà punito da Dio con il vagabondaggio: il nomadismo di Abele si trasforma da condizione
privilegiata in punizione divina.

Due modalità di concepire l’architettura: un’architettura intesa come costruzione fisica dello spazio e della
forma contro un’architettura intesa come percezione e costruzione simbolica dello spazio.

“Spazio dello stare” in contrapposizione al nomadismo inteso come “spazio dell’andare”.

Spazio nomade e spazio erratico

Il nomadismo vive infatti in contrapposizione ma anche in osmosi con la sedentarietà: agricoltori e pastori
hanno bisogno di un continuo scambio dei loro prodotti e di uno spazio ibrido, neutro, in cui lo scambio sia
possibile. Il Sahel ha esattamente questa funzione: è il bordo del deserto dove si integrano pastorizia
nomade e agricoltura sedentaria, e forma un margine instabile tra la città sedentaria e la città nomade, tra il
pieno e il vuoto.

Deleuze e Guattari descrivono queste differenti spazialità come: Lo spazio sedentario è striato da muri,
recinti e percorsi fra i recinti, mentre lo spazio nomade è liscio, marcato soltanto da tratti che si cancellano
e si spostano con il tragitto.

In altre parole lo spazio sedentario è più denso, più solido, e quindi pieno, quello nomade è vuoto.
Lo spazio nomade è solcato da vettori, da frecce instabili che costituiscono più delle connessioni
temporanee che dei tracciati.

Evoluzione imparando a orientarsi con riferimenti geografici, e infine a lasciare nel paesaggio alcuni segni di
riconoscimento sempre più stabili (una delle prime mappe raffiguranti un sistema di percorsi, incisione
rupestre in Val Camonica, 10.000 a.C, rappresenta la dinamica di un sistema complesso in cui le linee dei
percorsi nel vuoto si intrecciano per distribuire i diversi elementi pieni del territorio).
Il walkabaout, parola intraducibile se non nel senso letterario di “camminare sopra” o “camminare circa”, è
il sistema di percorsi attraverso cui le popolazioni dell’Australia hanno mappato l’intero continente.
“Le vie dei canti”, che intrecciandosi di continuo, formano un’unica “storia del tempo del Sogno”, la storia
delle origini dell’umanità. A ognuno di questi percorsi è collegato un canto e a ogni canto è collegata una o
più storie mitologiche ambientate nel territorio.

L’insieme delle vie dei canti costituisce una rete di percorsi erratico-simbolici che attraversano e descrivono
lo spazio come una sorta di guida cantata.

Questo tipo di percorso appartiene a uno stadio dell’umanità precedente a quello del nomadismo, un
percorso che si definisce “erratico”. È importante effettuare una distinzione tra i concetti di errare e
nomadismo. Mentre il percorso nomade è legato agli spostamenti ciclici del bestiame durante la
transumanza, quello erratico è legato agli inseguimenti delle prede dell’uomo raccoglitore-cacciatore
dell’età paleolitica.

L’erranza si svolge in uno spazio vuoto non ancora mappato e non ha mete definite. Il percorso nomade è
un’evoluzione culturale dell’erranza. Agricoltura e pastorizia sono due attività che provengono dalla
specializzazione delle due primitive attività produttive, la raccolta e la caccia.

Alla fine del paleolitica il paesaggio era ordinato secondo le direzioni fisse della verticale e dell’orizzontale:
il sole e l’orizzonte.

Dal percorso al menhir

Il sole a differenza dell’orizzonte ha un andamento più incerto, per stabilizzare la direzione verticale fu
creato il primo elemento artificiale dello spazio: il menhir.

I causeways (strade rialzate) e i cursus che attraversano i territori inglesi sono alti terrapieni artificiali lunghi
molti chilometri e servivano probabilmente come percorsi rituali per traguardare il sorgere del sole e delle
grandi costellazioni.

Un altro percorso legato ai megaliti è il sistema dei leys inglesi scoperto da Watkins nel 1921. È una
complessa ragnatela di linee che collegava luoghi importanti dal punto di vista geografico e sacro. Colline,
valichi, allineamenti di menhir, pozzi sacri, fossati, antichi incroci di strade, formavano un reticolo
geometrico visibile.

I menhir appaiono per la prima volta in età neolitica.


Una grande pietra distesa orizzontalmente nel suolo è ancora soltanto una semplice pietra senza
connotazioni simboliche, ma la sua rotazione di 90° e il suo conficca mento nella terra trasformano la pietra
in una nuova presenza che ferma il tempo e lo spazio.

I menhir si pensa svolgessero più funzioni contemporaneamente: legati al culto della fertilità, segnalavano
luoghi …

Il punto (il menhir isolato), la linea (l’allineamento ritmico di più menhir), la superficie (il cromlech, ossia la
porzione di spazio recintata da menhir posti in circolo).

È assai probabile che i menhir funzionassero come un sistema di orientamento territoriale facilmente
intellegibile. Per i romani i menhir non erano altro che simulacri di Mercurio.
Malagrinò riporta l’esempio del più grande monolite di Carnac, il menhir Locmariaquer, alto 23 metri e
pesante 300 tonnellate, per la cui erezione si calcola una forza-lavoro di almeno 3000 persone.

Le zone su cui si costruivano le opere megalitiche erano dunque una sorta di santuari in cui le popolazioni
dei dintorni si spostavano in occasione delle festività, ma anche luoghi di sosta.

Il “benben” e il “ka”

La nascita dello spazio interno era invece collegata al concetto del ka, il simbolo dell’eterna erranza, una
sorta di spirito divino che simboleggiava il movimento, la vita, l’energia.

Il geroglifico del ka è composto da due braccia alzate e indica come l’energia divina venisse trasmessa dal
dio come infusione diretta dall’alto o attraverso l’abbraccio protettivo il cui simbolo è una sorta di ka
capovolto.

Una delle più spettacolari costruzioni egiziane è il grande ipostilo di Karnak (II millennio a.C), un passaggio
all’interno di enormi filari di colonne parallele, che ricorda la spazialità ritmata di Carnac, il più grande
allineamento di menhir esistente al mondo. I grandi ipostili non erano spazi di sosta, ma da percorrere.

La pietra benben, venerata nei templi di Eliopoli, è un monolite di forma conica sulla cui sommità poggia
l’uccello crestato benou. (prima apparizione del dio sole, è l’airone cinerino che per primo si posò sulla
colline originale uscita dal fango).

La visita dadaista

Il 14 aprile 1921 a Parigi, Dada inaugura una serie di escursioni urbane nei luoghi banali della città. È
un’operazione estetica consapevole.

Il primo ready made urbano di Dada segna il passaggio dalla rappresentazione del moto alla costruzione di
un’azione estetica da compiersi nella realtà della vita quotidiana.
La città dadaista è una città del banale che ha abbandonato tutte le utopie ipertecnologiche del futurismo.
La frequentazione e la visita dei luoghi insulsi sono per i dadaisti una forma concreta per operare la
dissacrazione totale dell’arte, per giungere all’unione tra arte e vita.

La passeggiata parigina descritta da Benjamin negli anni ’20 è utilizzata come forma d’arte.

Il “ready made” urbano

Nel 1917 Duchamp aveva proposto come proprio ready made il Woolworth Building di New York, ma si
trattava ancora di un oggetto architettonico e non di uno spazio pubblico. Il ready made urbano che viene
realizzato a Saint-Julien-le-Pauvre è invece la prima operazione simbolica che attribuisce valore estetico a
uno spazio vuoto e non a un oggetto.

Prima dell’azione di Dada l’attività artistica poteva inserirsi nello spazio pubblico attraverso operazioni di
arredo quali l’installazione di oggetti scultorei nelle piazze e nei parchi. L’operazione di Dada offre agli artisti
una nuova possibilità di operare sulla città.

Dada non interviene sul luogo lasciandovi un oggetto né prelevandone degli altri, porta il gruppo di artisti
direttamente sul luogo da svelare, senza compiere alcuna operazione materiale, senza lasciare tracce
fisiche se non la documentazione legata all’operazione, i volantini, le foto, gli articoli, i racconti, e senza
alcun tipo di elaborazione successiva.

Tra le foto che documentavano l’evento ce n’è una che raffigura il gruppo nel giardino della chiesa. Il
soggetto della foto è la presenza di quel particolare gruppo in città, con la consapevolezza dell’azione che
stanno svolgendo e con la coscienza di fare quello che stanno facendo, cioè nulla.

La deambulazione surrealista

Tre anni dopo la visita di Dada, nel 1924, il gruppo dadaista parigino organizza un altro intervento nello
spazio reale. Questa volta si tratta di compiere un percorso erratico (a caso, a piedi e conversando) in un
vasto territorio naturale. Il viaggio è la materializzazione del lachez tout di Breton, un vero e proprio
percorso iniziatico che segna il definitivo passaggio da Dada al surrealismo.

Aragon, Breton, Morise e Vitrac organizzano una deambulazione in aperta campagna nel centro della
Francia. Breton, di ritorno dal viaggio scrive l’introduzione di Poisson Soluble, che diventerà il Primo
Manifesto del Surrealismo (surrealismo: automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia
verbalmente, sia per iscritto il funzionamento reale del pensiero.

A differenza dell’escursione dadaista, questa volta il teatro dell’azione non è la città, ma un territorio vuoto.
La deambulazione è un giungere camminando a uno stato di ipnosi, a una spaesante perdita di controllo, è
un medium attraverso cui entrare in contatto con la parte inconscia del territorio.

La città come liquido amniotico

Nel 1924 Aragon pubblica “Le paysan de Paris”, la città è descritta dal punto di vista di un paysan, un
contadino che si trova alla prese con la vertigine del moderno provocata dalla metropoli.

Da queste prime deambulazioni nasceva l’idea di formalizzare la percezione in mappe influenzali, mappe
basate sulle variazioni di percezione ottenute percorrendo l’ambiente urbano, in cui i posti che amiamo
frequentare sono colorati in bianco, quelli che vogliamo evitare in nero, il resto in grigio.

Dalla città banale alla città inconscia

I situazionisti accuseranno i surrealisti di non aver portato alle estreme conseguenze le potenzialità del
progetto dadaista. La ricerca di un’arte anonima collettiva e rivoluzionaria, saranno raccolte, insieme alla
pratica del camminare, dall’erranza dei lettristi/situazionisti.

La deriva lettrista

La deriva lettrista elabora la lettura soggettiva della città già iniziata dai surrealisti, ma intende trasformarla
in metodo oggettivo di esplorazione della città: lo spazio urbano è un terreno passionale oggettivo e non
solo soggettivo inconscio.

L’arcipelago influenzale

Come per le visite di Dada e per la guida di Fillon, anche Debord per descrivere la città utilizza l’immaginario
del turismo. Aprendo questa strana guida troviamo Parigi esplosa in pezzi, frammenti di città storica che
fluttuano in uno spazio vuoto.
La città è passata al vaglio dell’esperienza soggettiva.

La città ludica contro la città borghese

Alla città inconscia e onirica surrealista si sostituisce con i situazionisti una città ludica spontanea.
Alla base delle teorie dei situazionisti vi erano l’avversione al lavoro e la supposizione di un’imminente
trasformazione dell’uso del tempo nella società: con il mutamento dei sistemi di produzione e il progredire
dell’automazione, si sarebbe ridotto il tempo del lavoro in favore del tempo libero.

Se il tempo dello svago si trasformava sempre più in tempo del consumo passivo, il tempo libero doveva
essere un tempo dedicato al gioco, doveva essere un tempo non utilitaristico ma ludico. (cercare nel
quotidiano i desideri latenti della gente).

La città è un gioco da utilizzare a proprio piacimento, uno spazio da vivere collettivamente e dove
sperimentare comportamenti alternativi. Bisognava costruire delle avventure.

Il mondo come labirinto nomade

È attraverso la New Babylon di Costant che la teoria della deriva acquista contemporaneamente una base
storica e una tridimensionalità architettonica.

Visitando un accampamento nomade che si era stabilito in un terreno di Pinot Gallizio, Costant trova un
intero apparato concettuale con cui propone di scardinare le basi sedentarie dell’architettura funzionalista.
Comincia a lavorare a un progetto per gli zingari di Alba e giunge in un breve tempo a immaginare una città
pensata per una nuova società nomade.

La visione di un mondo che dopo la rivoluzione sarà abitata dalla stirpe di Abele, dall’Homo ludens.
New Babylon è una città ludica, un’opera collettiva edificata dalla creattività architettonica di una nuova
società errante, di una popolazione che costruisce e ricostruisce all’infinito il proprio labirinto in un nuovo
paesaggio artificiale.
Nell’urbanismo unitario l’insieme delle arti concorreranno alla costruzione dello spazio dell’uomo.
L’architetto non sarà più costruttore di forme isolare, ma costruttore di ambienti complessi.
A New Babylon la deriva, i quartieri e lo spazio vuoto sono diventati un’unita inscindibile.

Il viaggio di Tony Smith

Nel dicembre del 1966 sulla rivista “Artforum” viene pubblicato il racconto di un viaggio di Tony Smith su
un’autostrada in costruzione nella periferia di New York. (T.S. : grande vecchio dell’arte minimale
americana).

Una notte, con alcuni studenti della Cooper Union, Smith decide di entrare nel cantiere dell’autostrada e di
percorrere in macchina il nastro nero di asfalto che attraversa come una cesure vuota gli spazi marginali
della periferia americana.

“La strada è una grande parte del paesaggio artificiale; ma non si poteva però qualificarla come opera
d’arte”.

Pochi anni dopo il dubbio di Smith sembra essere risolto (contributo di R.Long e C.Andre) in almeno 2
direzioni. Per Andre la strada vissuta da Smith non solo è arte, ma è la scultura ideale; Long si spinge più in
là, per lui l’arte consiste nell’atto stesso di camminare, nel compierne l’esperienza.
Espansioni di campo

Hegel cerca delle architetture che non traducono immediatamente nella loro forma esteriore un significato
interiore, ma nelle opere in cui il significato è da cercare al di fuori.
Secondo Hegel le prime opere di questa architettura non funzionale e non mimetica sono gli obelischi
egiziani, le statue colossali e le piramidi: “E solamente nella creazione inorganica che l’uomo è pienamente
l’uguale della natura, e che crea sotto l’impulso di un profondo desiderio e senza modello esterno; da
quando l’uomo supera questa frontiera e comincia a creare delle opere organiche, diventa dipendente da
queste, la sua creazione perde ogni autonomia e diventa una semplice imitazione della natura”-

In alcune opere minimali e nelle opere della land art che sono contemporaneamente scultura e architettura
e che si pongono sul territorio come grandi forme astratte libere da ogni mimetismo.

Dal menhir al percorso

Se l’oggetto minimale tende al menhir inteso ancora come oggetto con una presenza interna, la land art
tende invece più direttamente all’architettura e al paesaggio, cioè al menhir come oggetto inanimato da
utilizzare per trasformare il territorio.

Quello a cui tende la land art è la trasformazione fisica del territorio, l’utilizzo di mezzi e tecniche
dell’architettura per costruire una nuova natura e per creare grandi paesaggi artificiali.

Con la land art si assiste a una consapevole ritorno al neolitico. Lunghe file di pietre infisse nel terreno,
recinti di foglie o di rami, spirali di terra, linee e cerchi disegnati nel suolo, grandi monumenti di terra, di
cemento, di ferro e colate informi di materiali industriali vengono utilizzati come mezzi di appropriazione
dello spazio.

Gli spazi in cui avvengono queste operazioni sono spazi privi di architetture e di segni della presenza
umana, spazi vuoti in cui realizzare opere che assumano il significato di segno originario, traccia unica, in un
paesaggio arcaico e atemporale. Sembra quasi una volontà di ricominciare da capo la storia del mondo, di
ritornare da un punto zero.

Calpestare il mondo

Nel 1967, dall’altra parte dell’Atlantico, Richard Long realizza “A Line Made by Walking”, una linea retta
“scolpita” sul terreno semplicemente calpestando l’erba. Segno che rimarrà impresso solo nella pellicola
fotografica e che scomparirà al rialzarsi dell’erba.

(Nel febbraio del 1961, Stanley Brouwn domanda ad alcuni passanti scelti a caso di disegnare le indicazioni
per andare in un altro punto della città. Nel 1969 Yoko Ono, incitando a percorrere la città con una
macchina da bambini, realizza il film “Rape” a Londra scegliendo una donna a caso e inseguendola con la
telecamera per dieci giorni. Lo stesso tipo di pedinamenti vengono messi in atto a NY da Vito Acconci e da
S. Calle).

A soli 23 anni Long combina due attività apparentemente separate: la scultura (la linea) e il camminare
(l’azione). A line (made by) walking.
L’intervento di Long è privo di ogni apporto tecnologico, non incide in profondità la crosta terrestre, ma ne
trasforma la sola superficie e in modo reversibile. Il solo mezzo impiegato è il proprio corpo, il suo
movimento, gli sforzi.

L’esperienza del percorso è rappresentata dalle sole direzioni del vento incontrate lungo il cammino, senza
supporto cartografico. “il vento non soffia solo in alcune direzioni prevalenti, ma riflette anche la forma del
territorio”.

Il viandante sulla mappa

Fulton e Long ricorrono entrambi all’utilizzo della mappa come strumento espressivo. Per Fulton il corpo è
unicamente uno strumento percettivo, mentre per Long è anche uno strumento di disegno.

Nelle gallerie Fulton presenta i suoi percorsi attraverso una sorta di poesia geografica: frasi e segni.

In Long invece il camminare è un azione che si incide sul luogo. È un atto che disegna una figura sul terreno
e che quindi può essere riportato sulla rappresentazione cartografica

L’odissea suburbana

Nel 1967 su “Artforum” una lettere al direttore risponde ironicamente all’articolo di Michael Fried. La firma
è di Robert Smithson, un giovane artista dell’ambiente minimale newyorkese, è il “prologo di un film
spettacolare ancora non scritto, il cui titolo è “Le tribolazioni di Michael Fried”, il modernista ortodosso,
rapito in estasi da Tony Smith, l’agente dell’infinito, è in preda al terrore dell’infinito”.

I labirinti di un tempo senza fine. Smithson comprende che con la “earth art” si aprivano nuovi spazi da
sperimentare e che gli artisti potevano riproporli sotto una nuova ottica, svelarne i valori estetici: la nuova
disciplina estetica dello Studio della Selezione dei Siti era appena cominciata.

Nel dicembre del 1967 su “Artforum” esce un nuovo articolo di Smithson dal titolo The Monuments of
Passaic, 24 fotografie in bianco e nero raffiguranti i monumenti di Passaic. Ma la mostra non è una mostra
fotografica e i monumenti sono in realtà strani oggetti di un paesaggio industriale della periferia. L’invito
era chiaro: il pubblico avrebbe dovuto affittare una macchina e recarsi con l’autore-svelatore-guida lungo il
Passaic River per esplorare una “terra che ha dimenticato il tempo”.

Smithson definisce il viaggio un’odissea suburbana, un’epopea pseudo turistica che celebra come nuovi
monumenti le presenze vive di uno spazio in dissoluzione di un luogo che trent’anni dopo sarà chiamato
non-luogo.

L’opera dunque sta nell’aver compiuto questo percorso, aver condotto altre persone lungo il Passaic River,
nelle foto esposte e in quelle dei visitatori. Il luogo, il percorso, l’invito, l’articolo, le foto, la mappa, gli scritti
precedenti e quelli successivi, tutti questi elementi ne costituiscono il senso.

Molti vorrebbero semplicemente obliare il tempo, perché racchiude un principio di morte.

Il senso ultimo della gita a Passaic è la ricerca di una “terra che ha dimenticato il tempo”, in cui non abitano
presente passato e futuro, ma diverse temporalità sospese, fuori dalla storia.

Il paesaggio entropico
Nel Tour la descrizione del territorio non porta a considerazioni di tipo ecologico-ambientale. Il giudizio è
esclusivamente estetico, non è etico e non è mai estatico. Non c’è nessun godimento, nessun
compiacimento e nessuna partecipazione emotiva nell’attraversare la natura della suburbia.

A piedi nudi nel caos

Intorno alla città era nata una cosa che non era città, il “caos urbano”, un disordine generale al cui interno
era impossibile comprendere altro che frammenti di ordine giustapposti casualmente sul territorio.

Da questa posizione gli architetti si ponevano nei confronti di questa cosa come fa il medico con il paziente:
bisognava curare il cancro, rimettere ordine. Ci si accorse allora che, sempre lì accanto, nella periferia,
c’erano dei grandi vuoti che non venivano più utilizzati, e che potevano prestarsi alla grande operazione di
chirurgia territoriale. Data l’ampiezza della loro scala vennero denominati vuoti urbani.

Riconnettere e ricucire i frammenti, saturare e suturare i vuoti con nuove forme di ordine spesso estratte
dalla qualità della città storica.
Un sistema territoriale, “la città diffusa”. Un sistema di insediamento suburbano a bassa densità che si
estendeva formando tessuti discontinui ed espansi in grandi aree territoriali. Gli abitanti di questa città, i
“diffusi”, erano gente che viveva fuori dalle più elementari regole civili e urbane, abitavano il solo spazio
privato della casa e dell’automobile, e concepivano come soli spazi pubblici i centri commerciali, gli
autogrill, le pompe di benzina e le stazioni ferroviarie.

Il modello della città diffusa descriveva effettivamente ciò che si era formato spontaneamente intorno alle
nostre città.
Effettivamente gli spazi vuoti voltano le spalle alla città per organizzarsi una vita autonoma e parallela, ma
sono abitati. È lì che i loro figli vanno a cercare spazi di libertà e di socializzazione.

Piazze, viali, giardini, parchi, formano un’enorme porzione di territorio non costruito che viene utilizzata e
vissuta in infinito modi diversi. I vuoti sono parte del sistema urbano e sono spazi che abitano la città in
modo nomade, si spostano ogni qual volta il potere tenta di imporre un nuovo ordine.

L’arcipelago frattale

Mentre il certo originario ha mena probabilità di svilupparsi e muta più lentamente, ai margini del sistema
le trasformazioni sono più probabili e più veloci.
La città si rivela come uno spazio dello stare interamente attraversato dai territori dell’andare

Zonzo

Andando a Zonzo all’inizio del scolo scorso, si sapeva sempre se ci si stava dirigendo verso il centro o verso
la periferia.
Quella che credevamo essere una città compatta, si rivela piena di buchi spesso abituati da culture diverse.

Il ready made urbano, aveva svelato l’esistenza di una città che si opponeva sia alle utopie ipertecnologiche
della città futurista sia alla città pseudo culturale del turismo. Aveva compreso che il sistema spettacolare
dell’industria del turismo avrebbe trasformato la città in una simulazione di se stessa, e aveva quindi voluto
mostrarne il nulla, svelarne il vuoto culturale, esaltarne l’assenza di ogni significato, la banalità.

Tra le pieghe di Zonzo sono cresciuti spazi in transito, territori in trasformazione continua nel tempo come
nello spazio, mari percorsi da moltitudini di gente straniera che si nasconde alla città. Qui si sviluppano
nuovi comportamenti, nuovi modi di abitare, nuovi spazi di libertà. La città nomade vive in osmosi con la
città sedentaria, si nutre dei suoi scarti offrendo in cambio la propria presenza come nuova natura, è un
futuro all’abbandono prodotto spontaneamente dell’entropia della città.

Forse lo si dovrebbe fare alla maniera dei neobabilonesi: trasformarla pudicamente dal suo interno,
modificarla durante il viaggio, ridare vita alla primitiva attitudine al gioco delle relazioni che aveva permesso
ad Abele di abitare il mondo.

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