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GIORDANO BRUNO

L’eretico eccitato da Dio

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Vita e opere
Filippo Bruno nasce a Nola, vicino a Napoli, nel 1548. A Quindici anni entra
nell’ordine domenicano e cambia nome assumendo quello di Giordano. Egli si
distingue subito nel convento come un ragazzo prodigio per la sua
eccezionale memoria e per le sue qualità intellettuali. Tuttavia fin dal
diciottesimo anno di età il suo carattere impetuoso e ribelle si manifesta
anche nel pensiero che esce dal seminato della tradizionale dottrina cattolica
e genera il sospetto di eresia. Infatti della sua cultura entrano a far parte
l’ermetismo magico, diffuso nel Rinascimento, l’atomismo epicureo, assunto
attraverso la lettura di Lucrezio del quale era appena (1417) stato scoperto il
capolavoro (Il De rerum natura) e la nuova astronomia copernicana. Tutti
elementi, questi, che lo conducono sempre più lontano dalla scolastica
tommasiana, che si afferma nel contempo come filosofia ufficiale della
Chiesa.

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Vita e opere 2
A diciott’anni, tuttavia, si manifestano solamente
alcune tendenze eterodosse contro le immagini dei
santi, prendono piede nella sua mente dubbi sulla
Trinità e sull’Incarnazione, cioè posizioni squisitamente
teologiche e non ancora saldate ad un complessivo
sistema filosofico e, nondimeno, più che sufficienti a
suscitare la reazione ecclesiale che determina nel 1576
l’abbandono dell’abito domenicano e l’inizio delle sue
peregrinazioni in tutta Europa.

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Dopo essere passato dall’Italia settentrionale si reca a
Ginevra, patria del calvinismo, dove crede di trovare un
ambiente religioso più confacente al suo spirito. Presto però
rimarrà deluso dal rigido dogmatismo calvinista. Di qui allora
passa prima a Tolosa, dove diventa magister artium e può
insegnare alla locale università, e poi a Parigi dove ottiene il
favore di Enrico III per la dedica al re di una delle sue prime
opere, il De umbris idearum (1582), cui seguono altre opere di
mnemotecnica (il Cantus circaeus, 1582) e la commedia in
italiano, il Candelaio (1582).

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L’insegnamento come lettore straordinario all’università genera
subito polemiche anche a Parigi. È questo il motivo per cui Enrico
III decide di inviarlo nell’Inghilterra elisabettiana come gentiluomo
addetto all’ambasciatore di Francia. Bruno viene introdotto subito
nell’ambiente di corte e in quello universitario (Oxford). In questo
periodo compone i dialoghi italiani: La cena delle ceneri (1584); De
la causa principio e uno (1584); De l’infinito universo e mondi
(1584); De gli eroici furori (1585) e Lo spaccio della bestia trionfante
(1585). Tornato a Parigi nel 1586, è ancora coinvolto in una
burrascosa polemica universitaria, che lo convince a spostarsi in
Germania.

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Vita e opere 5
In Germania dalla metà del 1586, insegna a Marburgo, Wittenberg
e Francoforte, componendo gli scritti latini come De triplici minimo
et mensura; De monade, numero et figura; De immenso et
innumerabilibus (tutti nel 1591). Dall’incontro con i librai veneziani
che viaggiavano a Francoforte, nasce l’invito del patrizio della città
lagunare Giovanni Mocenigo a recarsi da lui per istruirlo nelle
pratiche magiche e nella mnemotecnica. Insoddisfatto del suo
insegnamento, il nobile lo denuncia al Sant’Uffizio nel 1592. La
mitezza dei prelati veneti non può però impedire che, dopo
trattative intense con il senato veneziano, l’organo centrale
dell’inquisizione romana ottenga la sua estradizione nell’Urbe.

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Vita e opere 6
Dal febbraio del 1593 al 17 febbraio del 1600, data della sua morte, Bruno è
in carcere a Roma. Egli mantiene un atteggiamento oscillante, ma alla precisa
contestazione di alcune proposizioni tratte dalle sue opere, fattagli dal
cardinale Bellarmino che le indicava come eretiche, Bruno risponde di non
dover ritrattare nulla perché le ritiene perfettamente ortodosse. A questo
punto papa Clemente VIII rompe gli indugi, lo scomunica come eretico e lo
consegna al governatore di Roma per farlo bruciare. Cosa che accade in
Campo dei Fiori, luogo dove al filosofo nolano è stato eretto un monumento
che, malgrado le speculazioni anticlericali dalle quali è sorta l’iniziativa,
ricorda un gravissimo errore di mancanza di misericordia da parte delle
autorità ecclesiastiche del tempo, di cui, non tanto i fumosi ideali di libertà di
pensiero, ma il Vangelo da esse custodito rimarrà sempre criterio di critica
radicale e ineludibile.

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Bruno filosofo del Rinascimento
Vi sono due convinzioni tipicamente rinascimentali da cui la
filosofia di Bruno si può dire che scaturisca in tutta la sua
complessità e in tutto il suo fascino:
•1) l’idea che il pensiero dei moderni deve abbeverarsi alle fonti
antiche, ad una sapienza originaria ed arcana che i filosofi nella
storia hanno sempre valorizzato, studiato ed analizzato in tutte le
epoche, e che si può ritrovare nel nucleo di tutte le grandi filosofie;
•2) l’idea che l’uomo deve riconciliarsi con la natura, che per
l’umanità è costante punto di riferimento. Una natura che è
concepita come essere universale e pulsante da cui scaturisce ogni
vita e ogni intelligenza.

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L’ermetismo
Riguardo al primo punto della precedente slide, l’allusione è a
quegli scritti ermetici cui molti intellettuali del Rinascimento
guardano come ad uno scrigno antichissimo di sapienza
religiosa e filosofica. In realtà sin dal sec. XVII si scoprirà
l’origine molto più tarda (II sec. d.C.) dei libri ermetici attribuiti
al misterioso Ermete Trismegisto, a Orfeo, a Pitagora e a
Mosé. Ma nel tempo di Bruno essi svolgono, grazie all’autorità
data loro dall’antichità, un importante ruolo di stimolo per la
filosofia, che diviene fondamentale nel caso di Bruno.

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Temi ermetici
L’ermetismo fonde assieme platonismo, neoplatonismo, stoicismo
e aristotelismo in una sintesi che caratterizzerà tutta la filosofia
popolare ellenistica e tardo antica. Lo scopo è quello di dar luogo
ad una speculazione soteriologica in cui il tema del divino e delle
modalità della sua conoscenza occupa un posto fondamentale. Dio
è indicato neoplatonicamente come un principio ineffabile e
trascendente, ed è conoscibile solo con una gnosi che porti oltre le
capacità della pura ragione verso una forma di sapere simbolico,
allusivo e mistico. Così, salendo i gradi dell’universo fisico e poi
metafisico, l’uomo viene progressivamente strappato alla sua
corporeità sensibile in un’estasi che lo unisce al divino.

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Sensibilità e sovrasensibile
Benché l’uomo sia un essere sensibile, egli porta con sé una
traccia del principio dal quale egli proviene e da cui si è
allontanato «cadendo» prigioniero del mondo. Ciò fonda la
possibilità del ritorno, anche attraverso i segni, le tracce
del divino presenti nel mondo sensibile che rappresentano
altrettanti gradini approntati per la risalita. Ovviamente un
simile cammino è riservato a pochi eletti, uomini spirituali
che sanno cogliere ciò che la massa ignorante e incolta non
vede né percepisce.

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Gnosticismo cristianizzato
Ciò che consente in epoca rinascimentale di rivalutare la gnosi
ermetica sono i punti di contatto con il cristianesimo. La Chiesa
infatti, già nella sua iniziale battaglia contro lo gnosticismo,
rigettando nel complesso la dottrina gnostica, aveva dovuto
discernere gli aspetti di quest’ultima ritenuti compatibili con la
Rivelazione da quelli, di peso indiscutibilmente maggiore, che non
lo erano. Rispetto all’accoglienza «cristianizzante» dei testi ermetici
nel Rinascimento, la prospettiva di Bruno è qui però radicalizzata,
poiché è la sapienza ermetica ad essere considerata primaria e il
cristianesimo ad essere ritenuto accettabile in quanto compatibile
con l’ermetismo.

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La natura
Nicola Abbagnano individua nell’amore per la natura uno dei tratti
fondamentali della personalità di Bruno, che lo storico della
filosofia afferma essere identificabile con un «amore per la vita
nella sua potenza dionisiaca, nella sua infinita espansione». Natura
è qui infatti l’immensità di tutto l’universo considerato come un
macrocosmo vivente e animato che infinitamente produce dal suo
seno e nel suo seno creature, forme, mondi che non smettono di
incantare l’osservatore e il pensatore con la meraviglia della loro
varietà, bellezza, armonia. Dioniso è la divinità greca che
rappresenta la fecondità della terra e di tutti i viventi, cioè la stessa
infinità e rigogliosa produttività della natura.

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La causa e il principio di tutto
Ora il filosofo cerca la causa e il principio di
tutto ciò che suscita la sua meraviglia.
Causa dell’immenso e meraviglioso
universo non può che essere Dio. Ma
come vanno pensati i concetti di causa e di
principio? E come va pensato Dio?

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Causa
La causa è ciò che produce l’effetto rimanendo
distinto dall’effetto stesso. L’effetto sembra
fuoriuscire infatti dalla causa come, per fare un
esempio non bruniano, in un parto il figlio fuoriesce
dal grembo della madre. Ma, sempre utilizzando
l’esempio del parto, la madre non è solo causa del
figlio, bensì lascia al figlio qualcosa di sé (oggi
diremmo il suo patrimonio genetico).

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Principio
In questo senso essa è anche principio. Il principio si
definisce infatti come ciò che intrinsecamente concorre
alla costituzione di una cosa e rimane nell’effetto. A tale
proposito bisogna pensare all’arché dei presocratici, che
era l’inizio della realtà, ma anche la sua componente
essenziale, l’aspetto della realtà che era presente in tutti
gli altri, in tutte le cose, in tutti gli enti in generale
(pensiamo a titolo di esempio rammemorante all’acqua
di Talete o all’aria di Anassimene).

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Dio
Orbene, Dio è causa e principio di tutta la realtà,
quindi al tempo stesso separato e presente in ogni fibra
di essa.
Per questo al tempo stesso Bruno può dire che Egli è
una mens super ominia (mente-sopra-tutto),
attribuendogli i caratteri neoplatonici ed ermetici di
unità infinità, ineffabilità; e una mens insita omnibus
(mente-dentro-tutto) che pervade con la sua essenza
tutte le cose.

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Panteismo
Via via Bruno andrà sempre più insistendo sul fatto che Dio è
interno alla natura, fino a coincidere con essa. La natura,
peraltro va pensata, essendo il prodotto di un essere infinito,
come infinita nello spazio e nel tempo. Essa è unitaria
(l’universo nel suo complesso è uno come Uno è il suo sommo
principio) ma internamente molteplice, secondo la duplice
prospettiva neoplatonica dell’Uno e dei molti in cui i molti
sensibili però non sono che infinite manifestazioni dello
stesso unico principio divino e universale. Questa visione può
con buone ragioni essere definita panteistica.

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Dove è Dio
Dio, come unica causa e principio (De la causa principio et uno, 1584) della
natura, è nella materia e nella forma, perché il principio d’ordine delle cose,
ciò che le plasma e dà loro l’identità che hanno, è dentro la materia e tutta la
pervade, è una forza seminale: ogni cosa scaturisce da un seme che è posto
dentro di essa e con essa si identifica. La forma in particolare è la
neoplatonica anima del mondo, un intelletto universale e ordinatore che
agisce dall’interno della materia e genera gli esseri naturali con la stessa forza
con cui da un seme si genera la radice e dal tronco i rami di un albero. Tale
forza è causa efficiente delle cose, ed è al tempo stesso lo scopo in vista del
quale le cose sono. Le cose si formano a partire dalla forza intellettiva e
animatrice di Dio (intelletto e anima sono modi di essere e di agire di Dio) per
«costruire» quel Dio che è la natura stessa nelle sue infinite forme. Le quattro
cause aristoteliche sono dunque ridotte all’unica causalità divina al tempo
stesso materiale, formale, efficiente e finale.

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Infinità nel tempo
Il processo di autogenerazione di Dio, per il quale
continuamente Dio, cioè il tutto o la natura, genera nel suo seno
e dal suo seno i suoi infiniti componenti, è tale da sempre.
Dunque Dio è causa e principio, ma non creatore in senso
cristiano. Non vi è stato un momento in cui l’universo non
esisteva e un momento successivo in cui è stato creato. La
creazione, o autoproduzione di Dio è continua ed eterna, è
propriamente “creatività” continua del principio-causa e non
atto singolo e irripetibile, come nel racconto biblico. Se è così, ad
un infinità nello spazio, bisogna associare nella dottrina bruniana
l’idea di un’infinità nel tempo del Dio-natura, al tempo stesso
creatore e creatura, generante e generato.

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La struttura dell’universo naturale:
il minimo
Se noi, nel conoscere l’universo naturale, partiamo dalla
molteplicità degli enti esistenti, notiamo che ogni cosa, per
essere quello che è non può essere concepita come
divisibile infinitamente. Insomma vi deve essere un
componente essenziale delle realtà naturali che ce ne
restituisca il nucleo vivente e le caratterizzi nella loro
identità. Questo è il minimo: in ogni ente sotto i nostri
occhi vi deve essere un minimo al di sotto del quale
l’elemento sfuma nell’indeterminabile e in una sorta di
impossibile non essere.

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Minimo come atomo qualitativo
In Bruno si fondono suggestioni democritee e platoniche. Infatti
il minimo ha tutte le sembianze degli atomi di Democrito, le
minuscole e indivisibili componenti di ogni corpo. Tuttavia in
Democrito gli atomi sono diversi solo per la forma fisica che
posseggono ma sono qualitativamente uguali. In Bruno invece
sembra che vi sia un minimo per ogni genere di cosa, e che
dunque i minimi abbiano qualità intrinseche (siano dotate di
una loro forma, in senso aristotelico-platonico), dalle quali
emergono le qualità dei corpi che, aggregandosi, vanno a
costituire (il minimo dell’uomo unendosi con altri minimi umani
dà luogo all’ente-uomo con tutte le sue proprietà).

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Tra Democrito, Aristotele e Platone
Ora, secondo Bruno gli enti si caratterizzano per l’aggregazione di minimi,
qualitativamente diversi gli uni dagli altri a seconda del genere di cose (uomo,
animale, pianta etc.), non dell’individui, che vanno a formare. Ogni cosa, nel
suo genere, tende a conservare il suo minimo, cioè la sua qualità
fondamentale data dall’aggregazione di minimi di un dato tipo. Il problema è
che se ogni genere di ente ha il suo minimo e vi possono essere enti che
vanno a costituire altri enti, la dottrina del minimo democriteo non appare
compatibile con quella della forma aristotelico platonica (per esempio un
uomo che è costituito dai suoi diversi organi è fatto dai minimi di ciascuno
organo o dai minimi dell’uomo?). Tale aporia è lasciata irrisolta da Bruno, per
in quale, in ogni caso, il reale è il risultato di un’architettura di minimi che
interagiscono fra loro aggregandosi e disaggregandosi mentre in tutti è
presente la forza generatrice dell’intelletto divino universale.

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La struttura dell’universo: la
monade
Se partiamo, nella nostra conoscenza, dalla considerazione
dell’unità del tutto, possiamo apprezzare la presenza dell’Uno-Dio
in tutte le cose. È dalla forza generatrice del medesimo Dio,
presente ovunque che emergono i minimi qualitativamente
differenziati e le dinamiche della loro aggregazione in enti sempre
più complessi.
Quindi dal minimo viene la monade universale (la natura-Dio-
Uno), che è la totalità degli infiniti minimi che costituiscono il reale;
mentre dalla monade, diremmo «per autodiffusione», viene il
minimo in cui la monade esplica in modo «seminale» la sua forza
generativa, diffondendola in ogni minima parte della natura stessa.

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La conoscenza
La nostra facoltà conoscitiva, che pure è in
grado di sviluppare una teoria raffinata del
tutto, non ha accesso alla conoscenza diretta e
totale dell’infinito in sé, nei suoi paradigmi
ideali. Dio in questo senso si conferma come
mens super omnia. La conoscenza dell’infinito si
attua attraverso l’ombra delle idee (De umbris
idearum - 1582).

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Dall’immagine a Dio
Bruno ritiene che queste ombre delle idee siano
immagini, figure attraverso le quali Dio stesso si esprime
nell’infinita varietà della natura: un Dio che in sé è
totalità infinita, e che però si manifesta nelle infinite
immagini finite corrispondenti ai vari aspetti della natura
stessa che noi possiamo indagare con le nostre facoltà e
la nostra intelligenza. Dunque guardando alle ombre (in
senso negativo) che però sono anche immagini (in senso
positivo), l’uomo può ricostruire una “visione”
dell’universo che restituisce a lui, essere finito, un quadro
limitato ma apprezzabile di che cosa sia il Dio-natura
infinito.
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L’etica bruniana: indiarsi
Malgrado i difetti della nostra conoscenza, ci è
dato di raggiungere un unione intima con il Dio-
natura praticamente, ossia attraverso la prassi,
nel nostro concreto comportamento. Tale via
porta l’uomo a «indiarsi», ovvero ad
identificarsi con Dio. Il processo è esemplificato
dal mito di Atteone, così come viene esposto ne
«Gli eroici furori».

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Diana e Atteone
Atteone, mitico cacciatore, giunge a contemplare
Diana, dea della caccia, nella sua nudità, e per
questo viene dalla dea trasformato in cervo. Così il
cacciatore diviene preda e può bene rappresentare
l’anima umana in cerca dei segreti della natura.
Una volta conosciutili, egli diviene preda
dell’oggetto (la natura) che stava cercando e si
può così pienamente identificare con essa.

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Identificarsi con la natura e con il
suo potere creativo
Ma che cosa vuol dire identificarsi con la natura?
Vuol dire diventare tutt’uno con il suo potere
creativo e produttivo per animare dall’interno tutte
le cose e continuamente trasformarle e farle
proprie. Questo è esattamente ciò che Bruno pensa
sia il dovere ultimo dell’uomo: assumere come
propria un’etica del lavoro e dell’operosità,
attraverso la quale appunto l’uomo si assimila a Dio
(s’ «india»).

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L’uomo: la sua mano
Non a caso ciò che distingue l’uomo dagli altri esseri
naturali non è il possesso di un’anima, cosa che è
propria di tutti gli enti, bensì il possesso, nella sua
conformazione corporea, della mano. È la mano lo
strumento tipicamente umano con il quale egli
trasforma le cose, lavorandole, e se ne appropria.
L’intelligenza è sì importante, ma è un’intelligenza nella
materia, al servizio della materia, che trasforma la
materia creando il mondo umano così come lo
conosciamo.

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La magia al servizio dell’agire
Così la conoscenza delle segrete armonie del cosmo
vivente conduce l’uomo ad agire efficacemente dentro di
esso. E tale conoscenza ha un carattere magico, cioè è al
tempo stesso rispettosa del cosmo vivente, ma indirizzata
ad evocarne le forze per meglio dominarlo, per
guadagnare a sé quella potenza che rende il lavoro
umano efficace sul mondo. Così l’uomo, cioè una parte
del cosmo, si specchia nel cosmo stesso conoscendolo e
può riprodurre in sé veramente la forza cosmica che
agisce entro ogni vivente, realizzando compiutamente se
stesso.

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Gli eroici furori
L’uomo nella sua vita ha di fronte tre strade:
•Quella della sapienza contemplativa, che è consapevole
dell’unità dell’uomo con il tutto e ne trae tranquillamente le
conseguenze, rifuggendo dagli estremi dell’esaltazione e
dell’abbattimento.
•Quello del furore (basso) che, difettando di conoscenza si
abbandona alle passioni.
•Quella del furore eroico, in cui passione amorosa per la verità
ed esercizio dell’intelligenza si fondono e la contemplazione
della natura diventa attiva riproduzione in sé della sua infinità
creatività.

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Amore bruniano
Così per Bruno «l’eroico furore è la traduzione
naturalistica del concetto platonico di amore»
(Abbagnano, La filosofia, 2a p. 71). Infatti come in Platone
l’amore è una dimensione della vita che conduce l’uomo
all’assoluto trascendente, così in Bruno esso conduce
all’assoluto immanente. Qui, non venendo meno il libero
volere, che Bruno mai negherebbe all’uomo, quest’ultimo
arriva ad identificarsi con una suprema necessità, quella del
Tutto divino naturale in cui ogni fibra si muove secondo la
razionalità della mens insita omnibus.

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Il destino dell’uomo
L’uomo è come il frammento di un grande specchio (la natura-Dio)
che si è infranto in infinite parti. Queste parti si trasformano
continuamente, nascono e muoiono e morendo tornano al Tutto, al
grande specchio da cui provengono, rinascendo poi in altri
frammenti dello stesso specchio. Ciò significa che l’anima che si
trova ogni nell’uomo, domani, morta la creatura cui dava forma e
persa la sua individualità, si potrebbe ritrovare in un altro uomo, o in
un’altra creatura animale, vegetale o minerale, secondo quell’antica
visione orientale e misterica che, accolta da alcuni intellettuali greci
come Pitagora o Platone, è stata indicata col nome di
“metempsicosi” (della quale si riprende anche il modello
“retributivo”, secondo il quale ad una vita degna corrisponde una
reincarnazione umana, mentre ad una vita non degna una animale o
peggio). L’anima è dunque immortale, come parte del grande
vivente che è la natura, ma non nella sua individualità, bensì solo in
quanto partecipe del tutto.

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La cosmologia bruniana
La lettura di Copernico è decisiva per il nostro filosofo. La sua
immagine dell’universo parte infatti da un’intuizione
squisitamente filosofica: il mondo è infinito, giacché infinita per
definizione non può che essere la sua causa e principio, cioè Dio.
Questa idea viene fatta interagire con la prospettiva copernicana
secondo cui il sole è al centro del sistema dei pianeti. Se è così,
le stelle, che sarebbero secondo l’astronomia classica,
incastonate nell’ultimo cielo, quello delle stelle fisse, potrebbero
benissimo essere nient’altro che ulteriori soli, intorno ai quali
gira, in ciascuno, un sistema di pianeti del tutto analogo al
nostro.

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Le idee rivoluzionarie di Bruno
L’immagine del mondo di Bruno quindi implica che non vi possano
essere confini all’universo (di contro al mondo chiuso e finito di
Aristotele); che i mondi abitabili siano più di uno; che in fondo non
vi sia differenza tra mondo celeste e «sub-lunare» quanto alla loro
composizione materiale. Lo spazio cosmico è dunque il vuoto
infinito in cui hanno sede i corpi celesti (Lucrezio-Democrito,
mentre in Aristotele un luogo vuoto è una contraddizione in
termini). L’universo diviene quindi policentrico, molto simile a
quell’idea di mondo che già Nicola Cusano aveva elaborato,
secondo cui l’universo sarebbe una sfera che ha il centro
dappertutto e la circonferenza in nessun luogo.

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Modernità di Bruno
Come si è visto, il filosofo nolano, appare di una
stupefacente modernità. Egli, pur utilizzando concetti del
tutto a-scientifici, ha fornito alla scienza una cornice entro
cui operare giustificando sperimentalmente e
matematicamente le idee che Bruno aveva elaborato sul
piano filosofico, anche se all’inizio gli stessi ambienti
scientifici (Tyco Brahe, Keplero) rifiutarono le sue teorie o
non le considerarono (Galilei) proprio a motivo del fatto
che anche a loro apparivano troppo estreme e nuove.

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L’eresia
Bruno ebbe un atteggiamento molto duro nei confronti
del cristianesimo, che riteneva fosse religione utile a
tener buone le masse, ma nulla di più (in ciò egli
accomunava cattolici e riformati, gettando i suoi strali,
anzi, preferibilmente contro i secondi). La filosofia, al
contrario della santa asinità promossa da tutte le chiese,
garantiva invece l’accesso alla verità, anche su Dio e sulle
questioni teologiche. Una filosofia che, agli occhi degli
esperti cattolici del tempo apparve decisamente eretica.
Perché?

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In che cosa consiste l’eresia bruniana: una
teologia del Padre, dello Spirito Santo…
Certamente a prima vista gli esiti panteistici della filosofia bruniana
non sono compatibili con il cristianesimo. Ma anche il panteismo di
Bruno lasciava comunque spazio, lo abbiamo visto, alla
trascendenza. Mens super omnia e mens insita omnibus, a pensarci
bene, sono concetti teologicamente riconducibili a Dio padre e
allo Spirito Santo. Come Dio padre è causa del mondo, secondo
l’ormai classica dimostrazione ex causa (che Bruno, in quanto
domenicano, doveva conoscere bene), e si mantiene l’unico
monarca dell’universo, così la mens super omnia ben può
mantenere tali caratteristiche. Come lo Spirito Santo con il suo
amore penetra e vivifica il mondo, così fa la mens insita omnibus.

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…ma non del Figlio
Ciò che Bruno non accettava è che il divino risiedesse in maniera
privilegiata in una persona, l’uomo Gesù Cristo. Non in tutta la creazione,
non in ogni singola produzione divina, ma in una persona da considerarsi
il mediatore tra cielo e terra: questa idea sembrava a Bruno pura e
semplice idolatria. E’ chiaro, dunque, che se la fede cristiana ha come suo
centro il Cristo morto e risorto, che è il Verbo mediatore, che è Dio,
proprio su questo punto non poteva esserci che uno scontro netto e
un’inconciliabilità irresolubile. Le autorità ecclesiali, possiamo dire noi a
distanza di più di cinque secoli, non sbagliarono nel giudizio teologico,
ma nella prassi che vide lo zelo per l’ortodossia sconfinare fino
all’assunzione di un atteggiamento incompatibile con ciò che Gesù aveva
chiesto di fare ai suoi fedeli.

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