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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Spinoza

CAPITOLO III

SPINOZA

Bibliografia. – Le Opere di Spinoza sono edite in 4 volumi da Van Vloten e Land. Sono
tradotte in francese da Appuhn in 5 volumi (Garnier). Il piccolo trattato Della riforma dell’intelletto
dà un’idea del metodo e dell’intuizione centrale di Spinoza. – Su Spinoza, cominciare dal capitolo di
Delbos, Le spinozisme (Vrin). L’opera di Brunschvicg, Spinoza et ses contemporains (P.U.F.) è di
grandissimo interesse ma è falsa dal punto di vista storico, perché Brunschvicg ha ripensato Spinoza
alla luce di Kant, facendone un’idealista.
Biografia. – Baruch De Espinoza è nato ad Amsterdam nel 1632. Apparteneva a una famiglia
di commercianti ebrei emigrati dal Portogallo. Bambino dall’intelligenza vivace, frequentò dapprima
la scuola rabbinica, dove imparò l’ebraico e studio le Sacre scritture. Destinato a divenire a sua volta
rabbino, entrò in contatto con i commenti classici della Bibbia, ovvero il Talmud e la Cabala, e con i
filosofi giudei del Medioevo. Terminate le scuole, acquisì una vasta cultura, specialmente in ambito
matematico. Non sappiamo esattamente da dove tragga origine l’idea direttrice del sistema di
Spinoza: il panteismo potrebbe derivare dalle speculazioni della Cabala o da Giordano Bruno, ma
sappiamo che lesse Cartesio verso il 1654 e che da lì trasse il quadro concettuale e la tecnica logica
del suo sistema.
Spinoza si allontanò a poco a poco dalla religione giudaica ortodossa. Diversi tentativi
intrapresi dai rabbini per ricondurlo se non alla fede, quantomeno alla pratica religiosa, fallirono. Di
conseguenza, venne scomunicato solennemente il 27 luglio 1656. Se ritirò allora a La Haye, dove
condusse una vita semplice, lavorando come tornitore di lenti per occhiali. Crebbe invece la sua
reputazione e con essa la sua cerchia di amicizie solide. Entrò in rapporti con il Grande Pensionario
Johan de Witt, che lo spinse ad accettare un sussidio di 200 fiorini. Ricevette la visita di Leibniz, e
Condé tentò di attirarlo in Francia. L’Elettore palatino gli offrì una cattedra a Heidelberg. Spinoza,
però, teneva prima di tutto alla propria libertà di pensiero.
Durante la sua vita pubblicò poche opere. Nel 1663 vide la luce I principi della filosofia
cartesiana, a cui fu unito I pensieri metafisici, opere non ancora caratterizzate da grande originalità.
Nel 1670 pubblica il Trattato teologico-politico, che definisce i rapporti tra Stato e Chiesa e rivendica
la libertà di pensiero.
Colpito dalla tisi, Spinoza muore nel 1677 all’età di quarantacinque anni, in una pace interiore
perfetta. Aveva chiesto di bruciare tutte le carte che fossero rimaste, ma i suoi amici, andando oltre
la sua volontà, pubblicarono tutto ciò che trovarono.
Le opere postume di Spinoza comprendono: 1° un piccolo trattato sul metodo intitolato Della
riforma dell’intelletto, scritto verso il 1661 e incompleto; 2° un Trattato politico, scritto verso il 1675,
incompleto; 3° il Trattato breve, che presenta una prima bozza del sistema; 4° l’Etica, che è la sua
opera essenziale; 5° infine una grammatica ebraica. Un certo numero di lettere fu conservato e
aggiunto più tardi alla raccolta.
Novalis ha detto di Spinoza che era «un filosofo inebriato di Dio». Affermazione giustissima:
lo scopo di Spinoza è morale, o spirituale: condurre l’uomo alla beatitudine che consiste nel
«diventare una stessa cosa con Dio». Ma è tramite l’esercizio dell’intelligenza che intende
raggiungere questo scopo. Il titolo de l’Ethica è assai rivelatore: Ethica ordine geometrico
demonstrata. Vi si scorge l’influenza di Cartesio. Spinoza imprime al suo pensiero una forma

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«geometrica», procede per definizioni, assiomi, postulati, teoremi, dimostrazioni, corollari. Tuttavia,
tale metodo serve a sviluppare un’intuizione più mistica che razionale: il panteismo.

I
IL METODO

Il trattato De emendatione intellectus corrisponde esattamente alle Regulae ad directionem


ingenii di Cartesio. Non solamente Spinoza definisce il metodo e, per forza di cose, abbozza già i
grandi tratti della sua dottrina, ma adotta anche il criterio cartesiano dell’idea chiara e la concezione
cartesiana della deduzione. In Spinoza ritroviamo persino un analogo della circolarità cartesiana,
perché il metodo porta alla dottrina, ma è la dottrina che giustifica il metodo. Così, il De emendatione
si trova riassunto nell’Etica, cioè nel luogo che all’interno del sistema è il più adeguato (II, 40-47).
Lo scopo della vita è la felicità, e la felicità consiste nella possessione del vero bene che porta
la natura umana al massimo grado di perfezione. La prima condizione per raggiungere la felicità è
quindi la riforma dell’intelletto, ovvero la scoperta di un metodo capace di farci conoscere la verità
su ogni cosa.
1. – I tre generi di conoscenza.
Spinoza inizio col classificare i diversi tipi di conoscenza. La classificazione del De
emendatione non corrisponde esattamente a quella dell’Etica; seguiremo dunque quest’ultima.
Al grado inferiore si trova la conoscenza per testimonianza, cioè per sentito dire o per segno.
Questo è il modo in cui, per esempio, veniamo a conoscenza della nostra data di nascita. Al di sopra
di questo grado si situa «l’esperienza vaga», che altro non è che la percezione sensibile di un singolo
oggetto. Questi due tipi di conoscenza sono raggruppati sotto il nome di «conoscenza del primo
genere». La caratteristica comune è di presentare dei fatti bruti, sparsi, senza nesso, inintelligibili,
«delle conseguenze senza premesse». Tale conoscenza è dubbia e oscura, soggetta a errore. Nella
migliore delle ipotesi, non può elevarsi oltre il rango di mera opinione.
La «conoscenza del secondo genere» è la dimostrazione, o deduzione, concepita secondo il
modello della matematica. La sua caratteristica è di cogliere l’essenza delle cose, spiegandola tramite
principi prossimi. In questo modo, essa apporta l’intelligibilità e, di conseguenza, la verità. Le
dimostrazioni, dice Spinoza, «sono gli occhi tramite i quali l’anima vede e osserva le cose».
La «conoscenza del terzo genere» corrisponde all’intuizione. Qui Spinoza si separa da
Cartesio, perché per lui l’intuizione non consiste nel cogliere una natura semplice qualsiasi. L’oggetto
proprio dell’intuizione è il principio supremo, la ragione d’essere ultima di ogni cosa, cioè Dio.
Tuttavia, potremmo dire che Spinoza è in linea col cartesianesimo, se non più rigoroso ancora, perché
se è vero che l’intuizione deve fondare la deduzione, allora essa deve cogliere direttamente il principio
da cui tutto dipende, la ragione di tutto. Ora, Dio è a tutto anteriore, così nell’ordine della conoscenza
come nell’ordine dell’essere, poiché noi non abbiamo l’idea del finito se non in rapporto all’idea di
infinito.
Possiamo già prevedere in che modo si svilupperà il sistema spinoziano. Esso dedurrà ogni
cosa dell’idea di Dio. Spinoza esprime perfettamente la propria posizione quando dice: «Gli scolastici
partivano dalle cose, Cartesio parte dal pensiero, io invece parto da Dio». In questa frase è già
postulato il panteismo, perché non si sperare di dedurre il mondo a partire da Dio solo se il mondo
deriva da Dio per necessità di natura, senza distinguersi realmente da esso. Se Dio è trascendente, se
crea il mondo liberamente, si potrà certamente risalire tramite analisi dal mondo a Dio come sua causa
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o ragion d’essere, ma non si potrà compiere lo stesso percorso al contrario, procedendo tramite sintesi.
Tutto ciò che deduciamo dall’idea di Dio, dalla sua definizione come essere a se, non sono altro che
suoi attributi.
2. – L’idea vera.
Abbiamo appena visto che l’intuizione e la deduzione sono necessariamente vere. Adesso
bisogna esaminare più da vicino cosa Spinoza intende per verità.
Anzitutto, per lui la verità è una proprietà dell’idea e non del giudizio. L’idea emana
dall’intelletto per pura spontaneità naturale: «Intendo per idea un concetto che lo spirito, mens, forma
perché è una cosa pensante». L’idea si distingue dalla rappresentazione sensibile, che Spinoza chiama
«immaginazione», per due caratteri. Primo, l’idea è un atto, mentre la conoscenza sensibile è passiva.
E soprattutto l’idea è chiara e distinta, mentre la rappresentazione sensibile è confusa. In altre parole,
l’idea è la rappresentazione intellettuale di un’essenza ed è necessariamente chiara.
Ma ecco il punto cruciale: la chiarezza di un’idea coincide con la sua verità. La verità non
consiste nella conformità dell’idea a un oggetto, relazione che Spinoza chiama «denominazione
estrinseca». La verità consiste in una «denominazione intrinseca», vale a dire in una relazione tra
l’idea e l’intelletto che la produce. Spinoza riprende dalla scolastica il termina di adeguazione: un’idea
vera è un’idea «adeguata»; ma ne inverte il rapporto: l’adeguazione che definisce la verità è una
relazione con la mente, non con l’oggetto. Per tradurre la teoria spinoziana in termini scolastici,
bisognerebbe dire che si sta trattando della verità ontologica dell’idea, che l’idea vera è una «vera
idea», cioè un’idea realmente pensata, effettivamente prodotta dalla mente. Del resto, Spinoza scrive
raramente «idea vera», ma quasi sempre «vera idea». Questo fatto, che gli storici non evidenziano a
sufficienza e che i traduttori trascurano, ci sembra molto illuminante.
Il tutto si trova condensato in questa definizione dell’Ethica (II, definizione IV): «Per idea
adeguata, intendo un’idea che, in quanto la si considera in sé stessa senza relazione all’oggetto, ha
tutte le proprietà o denominazioni intrinseche della vera idea. Dico intrinseche per escludere ciò che
le è estrinseco, cioè l’accordo dell’idea con l’oggetto di cui è l’idea». In sostanza, verità – per Spinoza
– significa intelligibilità.
Ciò non impedisce che l’idea vera sia conforme al suo oggetto, anzi lo è necessariamente. È
un addirittura assioma: «un’idea vera, idea vera, deve accordarsi con il proprio oggetto, cum ideato
convenire» (I, assioma VI). Ciò che è degno di nota è che tale conformità dell’idea all’oggetto non
sia la definizione della verità, ma solamente una proprietà secondaria. L’idea è conforme all’oggetto
perché è vera, e non il contrario.
Il passaggio dalla verità ontologica alla verità logica dell’idea sarà giustificato dalla
metafisica, che dimostrerà che c’è un parallelismo esatto tra il pensiero razionale e le cose. Tuttavia,
già da ora è evidente che una vera idea è anche un’idea vera, perché Spinoza, come Descartes, prende
per modello di conoscenza il pensiero matematico. La mente costruisce un’essenza, una figura o un
numero, secondo una legge; la sua idea sarà vera indipendentemente dall’esistenza di tale oggetto, ed
è la verità dell’idea che produce l’oggetto.
Non resta che fare un’osservazione per terminare di definire il metodo. L’idea vera è
necessariamente riconosciuta come tale: non si può avere un’idea vera senza essere anche coscienti
della sua verità. L’idea vera esclude pertanto il timore dell’errore e la possibilità di dubitare. «Colui
che ha un’idea vera al tempo stesso sa di avere un’idea vera e non può dubitare della verità di tale
conoscenza» (II, 43). L’idea vera è criterio a sé stessa. «Così come la luce manifesta al contempo sé
stessa e le tenebre, allo stesso modo la verità è regola di sé stessa e del falso, veritas norma sui et
falsi». Il metodo si riduce quindi, in fin dei conti, alla coscienza intellettuale o riflessione, che Spinoza
chiama «un’idea dell’ide».
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E, di conseguenza, lo scetticismo è impossibile a chi esercita il pensiero. Lo scettico o parla


contro la propria coscienza o è privo di coscienza, oppure semplicemente non pensa affatto.
Detto ciò, seguiamo lo sviluppo dell’Ethica.

II
LA METAFISICA

Il ruolo della metafisica è di determinare le condizioni ontologiche della felicità, cioè di


mostrare in che modo l’uomo può divinizzarsi. Tutte le affermazioni vengono dedotte razionalmente
dall’idea di Dio, a eccezione di alcune verità evidenti, che vengono affermate come assiomi, e di
alcuni fatti dell’esperienza, che sono ammessi come postulati.
1. – La sostanza.
La definizione di sostanza viene fornita fin dalla prima pagina dell’Ethica e, se la accettiamo,
tutto è sistemato: si afferma il panteismo e non bisogna fare altro che trarne le conseguenze.
«Chiamo sostanza ciò che esiste in sé ed è concepito per sé». Il primo membro della
definizione è una semplice ripresa di Aristotele, mentre il secondo è caratteristico di Spinoza.
Va da sé che l’idea di sostanza implica quella di una certa pienezza di esistenza. Per Aristotele,
la sostanza è ciò che esiste in sé, cioè che non necessita di un soggetto nel quale esistere, al contrario
dell’accidente che esiste solo in un altro. Aristotele però tiene la sostanza nella linea dell’inerenza,
senza traslarla in quella della causalità: egli ammette benissimo che una sostanza possa esigere delle
cause che la producano e la mantengano nell’esistenza. Descartes si spinge più avanti, definendo la
sostanza: «ciò che per esistere ha bisogno soltanto del concorso di Dio». Ciò vuol dire slegare la
sostanza da ogni causalità creata, renderla indipendente dalle cause seconde e farla dipendere
unicamente e direttamente dalla causa prima. Spinoza fa ancora un altro passo e finisce per fare della
sostanza un essere pienamente e totalmente indipendente, che basta a sé stesso, che è a se. In effetti,
la sostanza è concepita senza riferimento ad altro, il che equivale a dire che essa ha in sé la propria
ragion d’essere.
Da questa definizione consegue che la sostanza esiste necessariamente, perché la sua essenza
implica la sua esistenza. La prova ontologica è la sola prova che Spinoza possa ammettere, perché è
la sola conforme alle esigenze della «geometria». Successivamente dimostra che la sostanza è infinita,
eterna, perfetta, unica. Infine, la nomina: la sostanza è Dio.
Così Dio è il solo essere, la sola sostanza. Non può produrre altri esseri a titolo di causa
efficiente, perché questi sarebbero delle altre sostanze, e si è appena dimostrato che la sostanza è
unica. Ma Dio può manifestarsi sotto diversi aspetti: è ciò che Spinoza chiama, riprendendo un
termine della scolastica ma svuotandolo del suo senso proprio, la «causalità immanente».
2. – Gli attributi.
Quando Spinoza parla degli attributi di Dio impiega il termine in un senso completamente
nuovo. Un attributo non è una proprietà della sostanza, come quella di essere eterna o infinita, ma
viene definito: «Ciò che l’intelletto concepisce in una sostanza come costituente la sua essenza».
Dio, essendo infinito, ha un’infinità di attributi, che vuol dire che può essere concepito in
un’infinità di maniere. Di fatto, però, noi ne conosciamo soltanto due: l’estensione e il pensiero.
Che si tratti di un fatto, Spinoza si sforza di dissimularlo più che può; ma emerge dai testi.
Che l’estensione sia un attributo di Dio ha un che di sorprendente, perché di solito è vista come una
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proprietà della materia. Il fatto è che Spinoza ha in mente l’estensione intelligibile, che nella
prospettiva del geometra è la condizione per l’intelligibilità di ogni cosa.
Va da sé che facendo dell’estensione e del pensiero non due sostanze, ma due attributi di una
stessa sostanza, Spinoza risolve il problema cartesiano: il dualismo è superato dal panteismo, il che è
ovvio perché il panteismo è un monismo.
Ogni attributo è infinto, perché è l’essenza divina stessa in uno dei suoi aspetti.
3. – I modi.
Gli attributi assumono diversi modi. Questi sono definiti: «le affezioni della sostanza».
Malgrado l’apparenza, siamo agli antipodi di Aristotele. Per lo Stagirita, gli accidenti hanno una certa
realtà, distinta da quella della sostanza, cioè precisamente per il fatto che non esistono «in sé» come
questa, ma solamente «in altro». Per Spinoza, i modi sono delle determinazioni finite della sostanza,
non hanno una realtà altra da questa.
Ogni attributo ha un’infinità di modi finiti. I modi costituiscono il mondo: il mondo materiale
è l’insieme dei modi dell’estensione divina, il mondo spirituale quello dei modi del pensiero divino.
Nell’universo regna la necessità stretta: la stessa necessità di Dio, cioè la necessità per la quale
Dio esiste. E le due serie di modi si sviluppano parallelamente perché non sono altro che
manifestazioni della medesima sostanza.
Tali sono pertanto i rapporti tra Dio e il mondo secondo Spinoza. Non c’è creazione libera di
altri esseri, perché qualsiasi causalità transitiva è abolita. Non c’è neanche emanazione, nel senso di
Plotino, perché sarebbe una degradazione della sostanza. C’è soltanto identità quanto all’essere, con
una differenza di aspetti o di punti di vista. Dio è la «natura naturante», il mondo la «natura naturata».
Possiamo anche dire con Delbos che c’è «produzione necessaria del mondo, paragonata alla
deduzione delle proprietà contenute in una nozione». Dio si esplica, si esplicita, si manifesta in un
mondo, e questo mondo non può essere diverso da com’è, così come Dio non può non essere ciò che
è. Spinoza mantiene quindi che Dio è causa libera del ondo, perché non è costretto dal di fuori, ma
agisce per la sola necessità della sua natura. Questa libertà è quella che la scolastica chiama libertas
a coactione, che non è altro che una semplice spontaneità naturale.

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III
LA PSICOLOGIA

Non si tratta ovviamente di una psicologia sperimentale, ma di una deduzione della natura
umana, ovvero di una metafisica dell’uomo.
Essa riposa su due assiomi: «L’uomo pensa» e «Noi sentiamo che un certo corpo è influenzato
in diverse maniere» (II, assiomi II e IV). A questo proposito noteremo prima di tutto la trasposizione
che Spinoza fa subire al cogito cartesiano. Non dice «io penso», che sarebbe un semplice fatto, una
verità contingente; dice: «l’uomo pensa», il che è una verità necessaria, che può essere eretta ad
assioma, in quanto esprime l’essenza dell’uomo. Cionondimeno Spinoza non dà alcuna definizione
dell’uomo, come sarebbe richiesto per procedere geometricamente; al suo posto vi è questo primo
assioma. Inoltre, notiamo che l’esistenza dei corpi non è dedotta, come fa Cartesio, né ammessa a
titolo di evidenza, come nella scolastica; essa è contenuta implicitamente nel secondo assioma.
Quanto a questo assioma, poi, è difficile vedervi una verità necessaria. Ci sembra piuttosto un fatto
che Spinoza trasforma in diritto.
1. – L’uomo
Ammettendo quindi che l’uomo pensa e che ha un corpo, è sufficiente inserire queste due
verità nel quadro metafisico stabilito in precedenza per dargli tutto il loro senso.
Tramite il proprio corpo, l’uomo è un modo dell’estensione divina; tramite la propria anima è
un modo del pensiero divino; è la medesima realtà, espressa in due modi diversi, eadem res, duobus
modis expressa.
Tra l’anima e il corpo non c’è alcuna interazione. Il corpo non può determinare l’anima a
pensare, e l’anima non può determinare il corpo al movimento o al riposo. La ragione è chiara:
attributi diversi non possono agire l’uno sull’altro.
Diremo forse che vi è unione di anima e corpo? Spinoza impiega il termine, ma soltanto per
conformarsi all’uso comune. Sul piano dell’essere, cioè della sostanza, non c’è unione ma identità.
Sul piano dei modi, cioè dell’apparenza, non c’è unione ma radicale distinzione. In virtù del
parallelismo degli attributi, però, c’è sempre corrispondenza esatta tra gli stati dell’anima e quelli del
corpo.
Consideriamo ora più da vicino la natura dell’anima. Abbiamo appena visto che è un pensiero
o un’idea di Dio, «una parte dell’intelletto infinito di Dio». Ma da un altro punto di vista, poiché
un’idea ha necessariamente un oggetto, l'anima è l'idea di un certo corpo esistente in atto. Ciò equivale
a dire che, in un dato uomo, la sua anima è l’idea del suo corpo, e che con lui ha un inizio e una fine.
E poiché il corpo umano è esso stesso composto da un gran numero di corpi, l’anima – che ne è l’idea
– non è semplice ma composta da un gran numero di idee.
2. – L’intelletto
È soltanto qui che viene individuato il fondamento del metodo. Poiché i due attributi divini, il
pensiero e l’estensione, si sviluppano in parallelo, abbiamo diritto di affermare che «l’ordine e la
connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose» (II, 7). Abbiamo così la
certezza a priori che un’idea adeguata è vera, cioè conforme al suo oggetto. Ma poiché in un progetto
tutto è collegato e concatenato necessariamente, un’idea, per essere adeguata, deve contenere la causa
o la ragione dell’essenza che rappresenta. E dato che in fin dei conti è Dio la ragion d’essere di tutto,
un’idea è adeguata solamente se coglie l’essenza particolare come derivante dall’essenza divina.
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L’oggetto diretto e proporzionato dell’anima umana è il suo proprio corpo, poiché ne è l’idea.
Poiché il corpo subisce l’influsso dei corpi esterni in diversi modi, l’anima conosce questi ultimi per
mezzo del corpo e nella misura in cui il corpo ne è interessato. Cioè conosce i corpi esteriori tramite
le modificazioni del suo corpo proprio e nella misura in cui essi lo influenzano. L’anima conosce
anche sé stessa. Esiste in effetti un’idea dell’anima che le è unita, nello stesso modo in cui l’anima
stessa è unita al corpo. Si ha dunque come una cascata d’idee: prima un’idea del corpo (che è l’anima),
poi un’idea di quest’idea, e poi un’idea di questa idea, e così all’infinito.
Nessuna di queste idee, considerata da sola, è adeguata: l’anima non conosce chiaramente né
il proprio corpo, né i corpi esterni, né la propria natura, anche perché non li deduce da Dio. È per
questo motivo che la psicologia conduce alla morale, la quale accompagna il percorso dell’anima
verso Dio. Ci faremmo però un’idea assolutamente falsa dell’etica spinoziana se credessimo che il
suo ruolo è quello di porre delle regole che la volontà deve seguire liberamente.
3. – La volontà
La psicologia che abbiamo appena delineato non dà alcuno spazio alla nozione di facoltà. Per
Spinoza, le facoltà sono delle «entità metafisica», vale a dire delle «pure invenzioni», perché le sole
realtà spirituali sono le idee.
Segue da qui la soppressione della volontà come facoltà distinta dall’intelletto: «La volontà e
l’intelletto sono una sola e unica cosa» (II, 49 corol.). Da un lato la volontà è definita come il potere
di affermare o di negare, non è un desiderio o una tendenza vero un bene. Dall’altro, l’idea non è «un
dipinto muto su un quadro», cioè una rappresentazione passiva; è dinamica e implica un’affermazione
del suo oggetto. In questo modo la volontà si trova riassorbita nell’intelletto.
Allo stesso tempo sparisce la libertà, che viene negata a duplice titolo. In primo luogo, perché
il suo soggetto, la volontà, viene negato; i partigiani del libero arbitrio non sono soliti collocarla
nell’intelletto. In secondo luogo, e soprattutto, perché l’universo è governato da una stretta necessità.
Dio si esplica in attributi e in modi con necessità pari a quella della sua esistenza.
Da dove viene dunque il sentimento che l’uomo ha di essere libero? Unicamente dal fatto che
egli è cosciente dei suoi atti, ma ignorante delle cause che li determinano; li rapporta allora a un libero
decreto dell’anima. «È così che un neonato crede di volere liberamente il latte, infans lac appetere,
un ragazzo in collera la vendetta, un impaurito la fuga» (III, 2 scol.).

IV
LA MORALE

Posti questi princìpi, tutto il resto è già stabilito. La sola difficoltà che rimane, e non è da poco,
è di sapere precisamente che senso dà Spinoza al titolo della sua opera: etica. Infatti, avendo negato
la libertà come libero arbitrio o potere di scelta ed essendo l’uomo sottomesso al più rigoroso
determinismo, la morale non può più essere una scienza pratica, cioè una scienza delle regole che
l’uomo deve seguire liberamente per raggiungere il suo fine ultimo. La morale è una scienza teorica,
non distinta dalla psicologia e dalla metafisica; il suo scopo è semplicemente di spiegare in cosa
consiste la felicità dell’uomo, non di indicare i mezzi per raggiungerla. Le nozioni di responsabilità,
di bene e di male morale, persino di finalità, sono escluse dall’Ethica. Questo non impedisce a
Spinoza di esprimersi sempre come se l’uomo fosse dotato di libero arbitrio, come se potesse
governare le passioni e trasformarsi con la forza della ragione. A nostro avviso, però, questa non è

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che una maniera di parlare comune e generica; non dev’essere mai presa formalmente, e non può
esserlo proprio in virtù dei principi del sistema.
Ci sono tre tipi di vita, corrispondenti ai tre generi di conoscenza.
1. – La schiavitù
La vita dell’uomo, in quanto fondata sul primo genere di conoscenza, è una schiavitù: l’uomo
è schiavo delle sue passioni perché su tutte le cose ha soltanto delle idee inadeguate.
Le passioni sono dedotte in maniera rigorosa. La passione fondamentale è la tendenza o lo
sforzo, conatus, che ogni essere ha, in ragione della propria essenza, di perseverare nell’essere.
Considerato solamente rispetto all’anima, tale sforzo è chiamato volontà; considerato al contempo
nell’anima e nel corpo, è detto appetito. L’appetito è dunque l’essenza stessa dell’uomo in quanto
questi è determinato a cercare la propria conservazione. L’appetito cosciente è il desiderio.
La gioia è il passaggio da una perfezione inferiore a una più grande, la tristezza è il contrario:
il passaggio da una perfezione superiore a una inferiore. L’amore è una gioia che accompagna l’idea
di una causa esteriore; detto in altre parole, amiamo necessariamente l’oggetto che immaginiamo
capace di produrre in noi un accrescimento di perfezione. L’odio è una tristezza unita all’idea di una
causa esteriore. La speranza è una gioia incostante suscitata dall’idea di un evento il cui esito è dubbio;
il contrario è la paura. La sicurezza è una gioia nata dall’idea di un avvenimento a riguardo del quale
non abbiamo alcun dubbio; il contrario è la disperazione. Il pentimento è una tristezza che
accompagna l’idea di un atto che crediamo di aver fatto per una libera decisione dell’anima; la
vergogna è una tristezza che accompagna l’idea di un’azione che immaginiamo essere biasimata da
un altro. Ecc.
2. – La libertà
La vita umana, nella misura in cui si fonda sulla conoscenza del secondo genere, è libera. Non
si tratta di riabilitare la libertà che era stata precedentemente negata: tutto è necessario nel mondo e
nell’uomo. Ma vuol dire che, in questo secondo tipo di vita, l’intelletto comprende tutto come
derivante dall’essenza divina. Ora, quando viene compresa, la passione si trasforma in azione. È
un’idea che si ritroverà anche in Hegel e Marx: «la libertà non è altro che la necessità compresa».
D’altro canto, è un’idea che si trovava già nello stoicismo: il Saggio, identificato con Dio, non è
sottomesso – contro la propria volontà – agli avvenimenti, bensì li accetta, non pareo sed assentior.
E in effetti questo è il solo genere di libertà che può darsi in una metafisica panteista e determinista.
Il punto centrale, tuttavia, resta per noi abbastanza oscuro. Perché una stessa «affezione» è
una passione quando è l’oggetto di un’idea confusa, e un’azione quando invece è l’oggetto di un’idea
chiara? Chiaramente non si può passare a piacere da un genere di conoscenza a un altro, perché
nessuno può cambiare l’ordine del mondo che esprime l’essenza divina. Si tratta dunque solamente
di un raffronto tra due generi di vita. L’interrogativo sollevata, però, rimane.
La risposta è la seguente. Quando un uomo non conosce le leggi dell’universo, si crede libero,
ma per il fatto stesso, a causa della sua non coscienza, resta in balia degli avvenimenti. Quando, al
contrario, comprende la necessità universale, sa di non essere libero, ma conosce la ragione degli
avvenimenti, si identifica con la Ragione, così che tutto ciò che gli accade proviene dalla propria
ragione: è azione e libertà. E se nuovamente ci si chiede perché Spinoza chiami libertà ciò che invece
è necessità, la risposta è che si accontenta di una «libertà dalla costrizione», pura spontaneità della
natura. Fu in questo senso che chiamò libertà di Dio la fecondità della sua natura, che si dispiega
necessariamente in attributi e modi.

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3. – L’eternità
Il terzo genere di conoscenza procura all’uomo la felicità, che è la vita eterna. «Noi sentiamo
e sperimentiamo di essere eterni» (V, 23 scol.).
Non può trattarsi dell’immortalità dell’anima, poiché questa nozione presuppone che l’anima
sopravviva oltre la morte del corpo e che abbia una sussistenza propria, cioè che sia una sostanza. Ma
l’anima essendo unita al corpo, non dura quanto dura il corpo. Si tratta piuttosto dell’eternità
propriamente detta, l’eternità divina della quale l’anima entra a far parte tramite l’intuizione e l’amore
intellettuale che ne deriva.
La conoscenza di Dio è il bene e virtù suprema dell’uomo; è al tempo stesso il suo massimo
appagamento. D’altra parte, la contemplazione di Dio tramite un’idea adeguata è un’azione, è amore,
amor intellectualis Dei. Amore puro e disinteressato, perché l’uomo che ama Dio non può desiderare
che Dio lo contraccambi. Sarebbe assurdo, dato che Dio non ha alcuna «affezione», non prova né
gioia né tristezza, né amore né odio per le cose finite. Amare Dio vuol dire entrare nell’amore eterno
e immobile che egli ha per sé stesso.
In fondo, la beatitudine consiste nella dissoluzione dell’uomo e della sua personalità finita
nell’oceano infinito della sostanza divina. Non si può dire che l’uomo raggiunga la propria felicità,
perché in realtà cessa di esistere come distinto da Dio. Egli raggiunge piuttosto la beatitudine, quella
di Dio stesso che non è che una cosa sola. La sola personalità, se possiamo dire così, che gli resta, è
di essere l’idea che Dio eternamente ha di quel corpo.
Lo scolio finale dell’Ethica, in cui risuona un contenuto entusiasmo, merita di essere citato.
«Ho terminato ciò che mi ero prefisso di stabilire riguardo la potenza dell’anima sulle sue affezioni e
la libertà dell’anima. Appare evidente da ciò quanto vale il Saggio e quanto il suo potere prevalga
rispetto a quello dell’ignorante guidato dal solo appetito sensibile. L’ignorante, oltre a essere
sballottato in molti modi dalle cause esterne, non possiede mai il vero appagamento interiore. Egli è
in un’incoscienza pressoché completa di sé stesso, di Dio e delle cose, e appena cessa di patire, smette
anche di essere. Il Saggio, al contrario, in quanto tale non conosce affatto il turbamento interiore, ma
avendo per una certa necessità eterna coscienza di sé, di Dio e delle cose, non smette mai di essere e
possiede la vera felicità. Se la via che vi conduce appare ardua, vi si può comunque entrare. E
certamente ciò che si trova così raramente dev’essere anche difficile. Come sarebbe possibile,
altrimenti, se la salvezza fosse a portata di mano e se si potesse ottenere senza grande sforzo, che
quasi tutti la trascurino? Tutto ciò che è bello è difficile quanto raro».
Conclusione
Da qualche parte Renouvier dice che Spinoza rinnova Parmenide. Ci sembra giustissimo. Lo
rinnova, perché viene dopo duemila anni di speculazione, soprattutto dopo Cartesio che gli fornisce
un arsenale concettuale che Parmenide non poteva avere. Sembra un uomo civilizzato, mentre
Parmenide sembra un primitivo. – L’intuizione centrale, però, è la stessa: l’unità dell’essere. Spinoza
è meno intrepido di Parmenide, si sforza di attenuare il rapporto di identità che ammette tra Dio e il
mondo, introducendo degli intermediari: gli attributi e i modi. Ma questi intermediari non hanno
esistenza al di fuori della sostanza, non fanno altro che manifestarla.
La difficoltà fondamentale dello spinozismo consiste precisamente nel rapporto tra i modi
finiti e la sostanza infinita. Come può una sostanza infinita apparire in modi diversi, mutevoli e finiti?
L’interpretazione migliore, storicamente falsa ma più soddisfacente delle altre, è quella di
Brunschvicg: fare di Spinoza un idealista. In questa ipotesi, il mondo non è altro che il pensiero di
Dio, e in fondo non ha realtà alcuna.
Ma allora si va contro i dati più evidenti dell’esperienza interna ed esterna e si è obbligati a
rifiutarne la validità. I sensi, infatti, ci mostrano delle cose diverse e in movimento, e la coscienza ci
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Roger Verneaux Storia della filosofia moderna Spinoza

fa vedere noi stessi come un soggetto personale, distinto da ogni altro. Saremmo quindi portati a
ridurre questi dati a mere illusioni. Ma così facendo il problema non viene risolto, viene soltanto
spostato. Com’è possibile che ci sia illusione in Dio? Si risponderà: l’illusione non è in Dio, è solo
negli esseri finiti: sono distinti da Dio in quanto finiti e soggetti a illusione.
Insomma, c’è qualcosa di vero in questa battuta di Bayle che ridicolizza il panteismo di
Spinoza traducendolo così: «Dio, trasformato in cento Turchi, ha ucciso Dio, trasformato in cento
Cristiani». Va da sé che questi «movimenti» si hanno soltanto a livello dei modi, non a quello della
sostanza. Tuttavia, difficilmente si capisce come una manifestazione di Dio possa ucciderne un’altra.
Si ritorna così allo stesso punto: come può Dio manifestarsi in forme mutevoli, diverse e finite?
Diciamo pure che l’idea è assurda.

Tratto da : Roger Verneaux, Histoire de la philosophie moderne, pp. 52-65, 196818, Paris, Beauchesne, trad. S. Cansella

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