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Don Linus Dr. Dragu Poppian


Mons. Giorgio Dr. Picu
Don Sergiu Dr.Streza

L’ORTODOSSIA
ESPRESSA
NEL
MONTE ATHOS

ESPOSIZIONE DI QUALITÀ E DIFETTI.

Monografia e note di viaggio

ROMA
1977- 2017.
2

PARTE PRIMA

PREFAZIONE

Qualcuno1, nel suo studio su Shakespeare, comincia da Adamo ed Eva. Io tento, però, di
essere più discreto: parlando dei miei viaggi sul Monte Santo dell’Athos, comincio dai miei propri
travagli. È vero, pure, che per comprendere un avvenimento come Athos serve davvero cominciare
da Adamo ed Eva. Da quel paradiso perduto che anche l’Athos, più di altri luoghi, tenta di riprodurre,
i suoi abitanti essendo spinti da una speciale nostalgia del paradiso, tipica di pochi.
Ma quali saranno le ragioni dell’esistenza di questa Montagna incantata, zeppa di originalità
e di ideali supremi? Poteva apparire altrove, se non in Terra greca, frutto del sommo genio greco,
fecondato dal Vangelo?
Ebbene, la Grecia offrì a Gesù la propria lingua per le Divine Scritture, la parola Logos per
esprimere la suprema razionalità di Dio, un Impero e una liturgia somma; però, di vivo e di
struggente, di tutto questo, è rimasto il Monte Athos, in questa Grecia, ricca di vocaboli e di ideali.
Ora, una domanda s’impone:

PERCHÉ VISITARE ATHOS?

Perché visitarlo? È una montagna stracolma di paesaggi di sogno, di monasteri a forma di castelli
e fortezze, -grandi tesori di architettura-, di chiese mistiche, traboccanti di icone uniche e di sacre
reliquie, la cui lista, assai completa, mi riservo di offrirla in queste pagine.
Non parliamo poi delle biblioteche straordinarie, dei manoscritti rari e diversi da quelli dei grandi
musei occidentali2, delle cerimonie inesprimibili, dirette da migliaia di strani personaggi, dalle arie
sovrannaturali, chiamati monaci. Fra i quali, molti, per grazia di Dio, sono diventati Santi. E con la
stessa Grazia e con l’aiuto dei loro superiori, lo diventeranno ancora. (Mentre scrivo queste righe, il
pensiero mi vola a quel umile monaco athonita, il cui superiore si divertiva nel caricarlo con le più
pesanti fatiche, lavori e pesi con i quali non caricava -per pura pietà- i muli del convento). 3 È anche
questo un effetto specifico del genio greco? L’idea di organizzare tutta una penisola di monasteri
come Repubblica teocratica si è incarnata qui, nell’anima bizantina.

1
Il critico Guizot, Storico e ministro francese, conservatore, (1787-1874). Lo accusano (giustamente?) che a causa dei
suoi errori politici è scoppiata la rivoluzione francese del 1848.
2
Sembra che siano più di 13000 manoscritti, greci, slavi, georgiani, romeni, siriaci, ecc….
3
Si tratta di Pacomio di Panaguda.La sua vita è descritta nell’antologia –libro del monaco Damaskinos di Grigoriu,
“Padri athoniti”, originale greco, trad. rom. Ed. S. Nectarie, Arad, 2006, pag.20ss. Vedi avanti.
3

Il paragone regge con Roma. A chi è mai venuto per la mente di organizzare uno Stato
libero per il Capo della Chiesa?
L’Athos, da un punto di vista, è un completamento del… Vaticano. Io l’ho sentito così; e per
essere giusto nei riguardi di questi due apici della spiritualità umana, ho dedicato anche al Vaticano
un mio modesto diario.4
Non fosse altro che per una somiglianza nobilissima: la biblioteca. Se c’è una realtà più vulnerabile,
per quanto più nobile delle altre in una civiltà, quella è la collezione di libri, di manoscritti e di testi
rari, che il primo fuoco o il primo tiranno è disposto ad annientare. Questa tragedia è di casa in
Athos, dove le magnifiche biblioteche, presenti perfino in qualche cella nascosta e apparentemente
dimenticata da tutti, sono in permanente pericolo. Ma esse testimoniano l’altezza spirituale del luogo,
degli ideali e degli uomini vi presenti. Sono un preciso completamento della Biblioteca Vaticana.
A parte questo, l’Athos rimane il massimo di ascetismo e di mistica autentica, attuato oggi, hic et
nunc, sulla terra. Emil Cioran era scettico sull’ascetismo, perché diceva che nella lotta contro le
passioni sessuali, per esempio, l’ascetismo non porta ad alcun risultato. Meglio ammazzarsi subito.
-Puodarsi. Puodarsi. Intanto, andiamo a vedere.
Il poeta filosofo Lucian Blaga scrive:5
“Nell’atmosfera ascetica del Monte Santo, le sue realizzazioni estreme di vita spirituale
ricordano le illuminazioni tibetane e, come disciplina interiore, il rigore degli ioghini dell’India; in
questo quadro sgorgano leggende dionisiache… caratteristiche per lo spirito dell’Ortodossia
orientale”.
Questo può essere vero, soprattutto perché siamo sempre più convinti (come studiosi ed
osservatori) che il monachesimo è un valore indiano trapiantato anche da noi.
Perciò, alla domanda “perché ci si va ad Athos?”, non posso rispondere come nelle guide
turistiche, tipo “si va per pregare” o “per ammirare le bellezze”, o “per imparare”. Però…dato che ci
vai, puoi partire caricato di tutti i risentimenti possibili… ma troverai il luogo e le persone che su
questa terra pensano di vivere la più seria ascesi, la più autentica povertà cristiana, e la più ingenua
modalità di applicare il Divin Vangelo del Redentore. Sarà così ? Ogni dubbio è possibile ! È ciò che
vogliamo scoprire, insieme.

ED IO ? CHI SONO ? PERCHÉ VADO AD ATHOS?

4
Non ancora rifinito, anche se lo scrivo da 40 anni.!!!
5
In “Trilogia culturii”, cap. Spatiul mioritic, Bucarest, 1944, pag.183ss.(rom.)
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Io ? Veramente, il mio posto sulla terra, secondo la mia testa, è Roma. Ed io sono cristiano
cattolico –ortodosso; e, siccome protesto spesso, anche protestante. Conosco la terra ed altri siti,6
tanto da non aspettarmi novità, sorprese e delizie da nessun posto. Sto bene, conficcato nel pavimento
della Piazza di San Pietro, meglio dell’obelisco a cui faccio concorrenza. Soprattutto da quando mio
confratello, Mgr. Giorgio Picu, dirige una sezione dell’Opera Romana Pellegrinaggi, con la sedia di
fronte alla finestra papale.
Ed aspetto, come ogni uomo normale, la risurrezione dei morti…
Sono nato in Romania, il 10 gennaio, 1951, sotto il Comunismo, assumendo tutta la
sofferenza legata a questa tragedia. Mi sono sognato l’Italia e Roma da piccolo, ed a 24 anni l’ho
raggiunta attraverso una miracolosa fuga dal Lager socialista. Pochi vogliono riconoscere,… che
nascere nel 1951 in Romania, o in un qualunque Paese comunista, è la massima disgrazia di una vita,
dunque, anche mia e di tanti altri esseri. Ma anche la massima grazia, perché sai ciò che nessun altro
sa!
Sul mio sentire la Fede ho scritto in altri libri. Ora mi limito a dire che ho appartenuto alla
Chiesa Ortodossa fino al 1970. Sono cattolico romano da allora, in poi, e per sempre. Lo spero. E,
non per sentimento, romanticismo o carriera. Bensì per studio, crisi, certezza filosofico’culturale e
decisione. Cattolico critico, conservatore e progressista, tradizionalista e moderno. Di tutti i riti e di
tutti i tempi. E di tutti gli spazi. Comprendendo dall’inizio e confermandomi nel tempo fin’oggi, che
essere cattolico non è un attributo teologico o religioso, quanto una capacità mentale di ricercare,
trovare, comprendere ed esprimersi dentro un orizzonte culturale e spirituale illimitato,
raggiungendo quasi la coincidentia oppositorum. (E questa capacità è obbligatoria per seguire
Cristo davvero). Ciò che nessun altro vi riesce se non un cattolico esplicito e confesso, che fa parte
esplicitamente dall’Istituzione cattolica romana, fosse essa la più perfida del mondo. (E lo è in
abundantia). Può apparire assurdo, irrazionale, ma è così.
Senza essere consapevole dall’inizio, ho deciso, nel 1970, a 19 anni, di far parte della più
bella e più brutta delle Chiese del mondo. Dal 2014 però, ho deciso di diventare cristiano. Perché,
essere ortodossi, cattolici o protestanti è interessante, ma essere cristiani è meglio, anzi, essenziale.
Ora, per diventare cristiano, dopo 2000 anni di polemiche è davvero difficile, ma obbligatorio! Ed
essere cristiani è tutta un'altra cosa rispetto a tutto ciò che descriviamo in queste pagine !!! Ma è
anche vero che il diventar cristiano è credere all’informazione della Sacra Bibbia e viverla in
modo obiettivo, senza paraocchi, senza leitmotiv confessionale, senza paure di scomuniche e senza
l’aiuto obbligatorio del magistero ulteriore, dei Padri o della tradizione. Se riesci a comportarti in

?
Espressione presa in prestito dall’ Elisir d’amore di Donizetti.
5

questo modo con la Bibbia, raggiungi in maniera miracolosa la teologia cattolica romana talis
qualis; meno il modo di organizzarsi dell’Istituzione cattolica umana, che non ha nulla di Nuovo
Testamento, bensì di Vecchio; e condannando implicitamente la posizione ortodossa o protestante,
pur incontrando dentro la tua comprensione le poche linee geniali di queste due Correnti,
disprezzate dai Padri e teologi cattolici obbedienti; raggiungendo dunque in modo corretto la Sola
Scriptura e il Sacerdozio universale tanto care a Lutero, e non ancora praticate dai cattolici, come
anche la devozione calda, dolce e umile degli ortodossi di tutte le Chiese dell’Oriente … e poi
andare a far parte dell’Istituzione cattolica, pur coi suoi insostenibili limiti, perché hai capito che
l’unica posizione giuridica corretta e gradita a Dio dell’uomo sulla terra è dentro la Chiesa Cattolica
Romana (di tutti i riti). Tentando di farla giungere un giorno a quelle sacre esperienze conosciute da
te. E lottando contro l’odio e il rigetto che sentirai da troppi cattolici, soprattuttoo dalla gerarchia,
ricordandoti come tutti i convertiti, ma anche i grandi santi di questa Chiesa sono stati perseguitati
ed uccisi dal satanico modo di applicare le regole giuridiche e canoniche dell’Istituzione.Vedranno
in te il Cristiano, come i giudei farisei vedevano in Cristo il Salvatore, ma non per accoglierLo
bensì per ucciderlo. Perché tu, come cristiano cattolico in mezzo ai cattolici non ancora cristiani, hai
già un atteggiamento completamente diverso da tutti loro, vecchi e nuovi. Tu hai eliminato già tutto
il formalismo, il fariseismo, le macchinazioni, il fanatismo, l’ambizione, l’autoesaltazione, il
sublimarsi, la freddezza, il calcolo, tutti quanti, orribili condizionamenti presenti perfino nei Santi
cattolici , non solo nei burocrati e carrieristi; riggetando cioè tutto il bagaglio che i primi credenti in
Cristo si sono portati dietro dalla Sinagoga, dal Tempio pagano e dagli Stadi dei giochi olimpici e
dionisiaci. E questo traguardo non ti sarà mai perdonato, che solo dopo la morte, se Dio vorrà farti
canonizzare. (Mi direte che è una cosa impossibile che un cattolico perda queste caratteristiche,
perché penetrate troppo nell’intimo di ogni cattolico; ma per me, convertito, e vissuto nei mondi
non cattolici e buon conoscitore delle perversioni ortodosse, atee, comuniste, islamiche, ebree o
protestanti, è stato più facile indovinarmi la strada, ed evitare questi pericoli, anche se questa
guerra invisibile mi ha costato 50 anni di vita, (più esattamente, da 17 a 67 anni).
I miei confratelli, Gigi e Sergiu, hanno fatto un cammino di Fede diverso, ma con lo stesso,
magnifico, risultato. Che dono grande, immeritato! Dono coronato con la fuga dal Lager comunista,
nel 1975 e collocati dalla Grazia divina a Roma.

Queste note di viaggio nel polmone dell’Ortodossia, che fungono anche da monografia,
rivelano il mio desiderio di allora e quello dei miei amici di raggiungere quel polmone che Roma non
usa…. E di ritornare, da cattolico, convertito, (guarda caso, attraverso Sant’Antonio di Padova !...)
6

nell’infanzia ortodossa e romena. Per capire se vale la pena di usare quel polmone e di sognare
sempre l’infanzia perduta !!!

Un monaco, Cherubino Karambelas7, scrivendo un libro di ricordi sulle sue esperienze in


Athos comincia così: ” L’Athos è una paese singolare, trovatosi a metà strada fra cielo e terra. …Lì
finisce la terra e comincia il cielo. Il modo di vita degli abitanti è nuovo, una pregustazione della
felicità futura. Le loro anime sono infiammate dal pensiero dell’eternità… io sono stupito”.
Verificheremo sul vivo queste parole estasianti, dette da un uomo che fuggì di casa, contro
la volontà di tutti, per andare a vivere e santificarsi sull’Athos, nel 1938. Ma, nel 1942, fu obbligato di
andare via, per causa di una grave malattia. Si fermò, in seguito, in un suburbio di Atene dove fondò
un piccolo monastero di cui fu superiore fino alla morte e dove, dicono, applicò le regole
dell’Athos…..In Athos tornò una sola volta.
Non capisco: probabilmente è difficile obbedire; meglio fare il superiore, anche da monaco.
Evidentemente, io sono dalla parte di Karambelas, anche se la mia scelta di vita è di non comandare e
di non sottostare. Ma non mi venga a parlare della mezza strada fra il cielo e la terra, in Athos, che
lui, invece, abbandona, per accontentarsi di un sobborgo della nuova, insostenibile, Atene.

Il Monte Athos è comunque un pianeta di Monasteri ed è un modello, un corso -più che


universitario- su come impostare la propria vita religiosa, almeno in due modi, secondo il
temperamento, l’istinto supremo di ciascuno: in comunità o da solitari. Ecco perché alcuni godono
dello statuto cenobitico, altri idioritmico. Nel primo caso, la vita dei monaci è organizzata in tutto, in
modo comunitario: alloggio, mensa, vita e lavoro comune. Questo modo di vita, più sicuro per i
novizi, fu difeso dalla legislazione dell’Imperatore Giustiniano ed organizzato con passionalità da
San Teodoro lo Studita, (759- 826). Nel secondo caso, (permesso dopo il 1200), vince il principio
della libertà : i monaci hanno la loro vita indipendente, lavorano, mangiano, pregano per conto loro.
Si radunano per le Celebrazioni eucaristiche e per le feste. La loro indipendenza è sottomessa al Padre
Spirituale, alle regole monastiche che ciascuno vive come meglio può. È lo stato che attira anche me,
libero e critico come mi sento di essere, e nello stesso tempo attaccato alle regole della Vita
consacrata. Questo modo prevalse sull’altro, con tutti gli sforzi dello Studita,…. e dovette venire
Sant’Atanasio in Athos per riproporre la regola dello Stoudion, in una regione lontana dalla capitale,
che non sovreccitava le paure politiche dei grandi magnati. Oggi, nel dopo il 2000, la tendenza
cenobitica ha prevalso nei Monasteri athoniti, segno che il millennio appena iniziato è incapace più

7
(1920-1979), nel libro “Padri spirituali” I, trad. rom.Bucarest,2005, pag 7.
7

degli altri di generare esseri indipendenti, autonomi, autosufficienti e forti nella Fede. Serve loro la
gregge, l’applauso, il campanello. Ecc.!

LUOGO GRECO E LATINO

Riguardo ad Athos, c’è una particolarità, per me, attraente: ci si va in un luogo tutto greco,
almeno per fama… e ci si imbatte in una continua presenza… latina. Meglio, neo-latina, cioè romena,
i cui sovrani, monaci o pellegrini romeni hanno costruito, ricostruito, visitato e rivisitato il Monte
Athos, riempiendolo di donazioni e di lacrime di penitenza, più di altri.
… Ora, io non sento più il bisogno di viaggiare. Avevo però bisogno di toccare certi centri essenziali
della mia anima, ritornando ogni volta nella mia immortale…. Roma.
A qualcuno sembra che esalto fuori misura l’urbe latina, nel parlare di un viaggio nel genio
greco? No. La esalto anche poco, se, come dice bene Rostovcev,8 le eccelse creazioni della Grecia
divennero proprietà dell’Europa moderna solo perché passarono nella loro integrità dall’Italia. Se la
civiltà dell’Oriente e della Grecia non rimase confinata nella parte orientale del mondo antico, ma
divenne la base culturale dell’Occidente e del mondo moderno, questo mondo è debitore all’Italia e a
Roma. La civiltà antica si chiama correttamente greco- romana.

I SOVRANI ROMENI e NOI DUE-TRE

Sull’Athos, sapevo, dunque, di ritrovare una parte del paesaggio della mia infanzia, lo stile
ed il rito delle chiese dei miei villaggi e città e delle loro celebrazioni ed, inoltre, le tracce profonde e
continue dei Sovrani delle piccole Romanie storiche, che nel 1918 hanno formato la Romania
completa. Questa realtà mi ha dato un sottile senso di piacere, soprattutto perché ho trovato molto più
di quanto me lo sarei immaginato.
Quella Romania completa, del dopo 1918, diventava sempre più romana, sempre più
occidentale. Ma poi, con la seconda guerra, quando le nazioni, parenti, dell’Ovest ci abbandonarono
nelle mani dei nemici sovietici, cominciò il nostro continuo esodo di profughi innocenti verso la zona
libera, lontani dal Lager comunista. Io sono arrivato, proprio a Roma, attraverso un miracolo, nel
1975, insieme con il confratello, Gigi Picu 9. Ci preparavamo a molte sorprese, ma non a quella di
essere ricevuti sotto tono e con disagio. I governi, le Chiese e le persone libere dell’Ovest provavano
una specie di complesso di colpa davanti ai tiranni comunisti: solo per il semplice fatto che ci

8
Ottimo studioso russo, in esilio. Cito dalla sua Storia del mondo antico, I, Bompiani,1999, pag23.
9
Giorgio Picu. In romeno Gigi viene da Giorgio.
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concedevano l’asilo politico e dei minimi diritti, come persone di quinto grado. Questo atteggiamento
aumentava il mio malessere, aggiungendo alla nostalgia l’amarezza, la rabbia e lo sconcerto.
Le Autorità cattoliche, grazie all’Ostpolitik, non ci hanno mai accolto, né accettato, né integrato.
Noi, io, soprattutto, vi siamo saliti dentro, saltati dalle finestre segrete o non assai custodite e tutto
l’apostolato, le celebrazioni, la predicazione, l’esempio di vita, il donare la vita stessa sono stati gesti
rubati, repentini, fuggitivi, fra due pontificati, fra le porte, sottobanco, insomma, nel segreto che tutti
conoscevano, ammiravano ed odiavano… e lo fanno ancora oggi, con disinvoltura e accresciuta
colpa, come effetto di una seconda natura, perversa….Ohimé, non so come esprimermi. Se lo potessi,
canterei con Giuseppe Verdi, raccontando in musiche sublimi atrocità e tradimenti inauditi….
Ebbene, per questa sofferenza e per molte altre, dovevo avere una consolazione forte datami
direttamente dall’amoroso Dio. E la provai anche al Monte Athos, dove e quando mi aspettavo di
meno.

Davvero! Una volta arrivati lì, abbiamo constatato con ingenua sorpresa che il nostro
viaggio era un vero ritorno fra le mura e nelle anime dei più illustri dei nostri antenati: i Sovrani
romeni, che ciascuno chiamava come voleva: voievodi, principi, o re ; ma il loro titolo, tutto originale
e romano era DOMN. Aggiungiamo a costoro i boieri10 devoti, i prelati brillanti del passato storico dei
Paesi romeni, che in emulazione con i Domni, offrirono gran parte delle loro ricchezze, del loro cuore
e del loro tempo al Santo Monte, ricostruendo interamente e più volte da capo le chiese, gli edifici, le
strade, gli acquedotti, le biblioteche, salvando così l’esimio complesso sacro dalla scomparsa. Le mie
lacrime nostalgiche ebbero la più ampia consolazione: mi trovai a casa, sotto le mura degli stessi
Sovrani che hanno edificato il mio villaggio,- Bistritza-Vàlcea-, la mia città di Rìmnic, la mia
provincia, Oltenia, le prime metropoli della mia vita, le prime torri della mia immaginazione. Tutti,
assolutamente tutti i monasteri del Monte Athos furono ricostruiti, rifatti, restaurati più volte dai
Sovrani romeni, (fra valacchi, moldavi ed anche transilvani). In tutte, assolutamente tutte le chiese
visitate, trovammo un numero inestimabile di oggetti sacri, di splendori artistici, di affreschi brillanti,
identici ed anche migliori di quelle dei santuari della mia giovinezza, donati dagli stessi Sovrani, i cui
palazzi mi hanno illuminato l’infanzia. Questa munificenza dei romeni superava quella dei bizantini
stessi e dei serbi o dei bulgari, per il semplice fatto che dopo in 1390-1400 il potere di costoro è stato
schiacciato dall’invasore musulmano.

Ebbene, non mi immaginavo un contributo di simili proporzioni da parte di Sovrani di paesi modesti,
come le Signorie romene, occupate, offese e immiserite sistematicamente dai pagani invasori, turchi,
russi o altri. Ci sono stati momenti in cui ho pianto di gioia per questa scoperta. Ma non lo facevo per
patriottismo o nazionalismo. Lontani da me simili sentimenti: è l’infanzia che rincontravo e per essa

10
Il termine romeno classico per nobili.( Prestito slavo:boiari).
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versavo lacrime di dolce felicità; sono le voci di Mami, di Tati, i nonni materni, o di Popa Ion, il
bisnonno, sacerdote, che sgorgavano dalle torri signorili e dai campanili che, in piena Macedonia
greca, parlavano il dolce idioma neolatino, il romeno.

I MIEI TRE VIAGGI AL MONTE ATHOS

Trascrivo qui, interamente, i miei diari di viaggio, scritti giorno per giorno, lì, sul posto,
sotto i proiettili, come si dice….. in compagnia dei dolci arbusti che dovevamo piegare, per avanzare
sui sentieri del monte Athos; o all’ombra delle torri, santificate dal tocco delle campane, ai vespri. Li
completo con alcuni dati storici e considerazioni sgorgate dalle esperienze acquisite in tutti questi
decenni, aggiornando dati ed informazioni al 2007.
Ho compiuto per tre sole volte il pellegrinaggio al Monte Santo dell’Athos: nel 1977, nel
1979 e nel 1983, pur avendo il desiderio, mai assopito, di andarci ogni anno. Nel primo viaggio ero
accompagnato dagli amici, Sergiu Streza e Gigi Picu; eravamo, tutti e tre, studenti delle Pontificie
Università romane… ed alle prese con le barriere insormontabili che uomini cattivi di un mondo
impietoso avevano drizzato contro la nostra ordinazione sacerdotale; andavamo in Athos, anche per
chiedere la grande Grazia, come una volta i pii imperatori, prima di una lunga battaglia. Nel secondo
viaggio, io e Gigi eravamo già sacerdoti cattolici, (Sergiu stava ancora sulla strada delle
raccomandazioni); abbiamo aggiunto alla nostra compagnia due studenti pugliesi, amici, Gigi Locchi
e Vincenzo Stranieri; nel terzo, sempre noi tre, (questa volta, tutti sacerdoti) ed il collega ortodosso,
Padre Vasilescu.
Ognuno dei tre viaggi mi hanno offerto un balsamo consolatore, perché ogni volta ero
appena uscito da una grande tribolazione, formata da ingiustizie indescrivibili, vissute nel mondo
libero e cristiano del modernissimo Occidente, tutte, causate dalla burocrazia e satanica diplomazia
cattolica di quelli anni, che mi avevano ferito profondamente. Ferito, perché innocente e puro. Fossi
stato sporco e lurido, avrei sofferto di meno e sarei stato aplaudito ed esaltato fino agli appartamenti
pontifici….La storia di tutto questo l’ho raccontata altrove. Anche perché è così schifosa, da non
trovare parole nel mio vocabolario.

-Ma non è l’Athos il massimo di radicalismo della Chiesa Ortodossa, avversaria incallita di
Roma e dei latini? Vai ad affrontare il fanatismo dei nuovi talebani?
Rispondo: Io vado (andavo) ad Athos per simpatia, per nostalgia, per sensazioni piacevoli,
traducendo io, a modo mio, le impressioni che offrono la vita, la preghiera, l’arte e l’ascesi dei
carissimi monaci. I quali sono simpatici, perché sinceri, convinti, puri, -innocenti quasi-, anche
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quando danno segni di fanatismo. Non lo fanno per comodità, scetticismo o per interesse materiale;
ma con la convinzione di difendere la Verità.
D’altro canto, il greco-cristiano difende se stesso e la grecità, convinto di difendere il
massimo di capacità filosofico-ascetico-teologico-mistica data da Dio alla persona umana. E, per
molti versi ne ha ragione: è il greco la lingua originale della più importante biblioteca della terra: il
Nuovo Testamento? Ci sarebbe la Filosofia senza i filosofi greci o la Patristica, nella Teologia
cristiana, senza i Padri di lingua greca? Ecco, dunque, la sorgente dell’orgoglio dei monaci athoniti,
anche se non sempre cosciente. E, pensando a tutto questo, io perdono le loro incoerenze e le
ingenuità e li ammiro, li amo, porto loro nostalgia.

EXCURSUS SULL’ORTODOSSIA

Essendo il Monte Athos una sintesi della Chiesa Ortodossa Bizantina Costantinopolitana-
Imperiale, (ecco un nome completo) è necessario fermarci sulle qualità e sui difetti di questa Chiesa,
tema dibattuto in un altro dei miei libri. Riproduco, dunque, in parte, con aggiornamenti necessari, i
capitoli dedicati alla Chiesa Ortodossa di questo mio ultimo libro, cominciando col cap.118.

CHIESA ORTODOSSA COSTANTINOPOLITANA

Non è facile comprendere o spiegare perché, in fondo, la Chiesa Cattolica e le Chiese


Ortodosse, (non solo quella bizantina, ma anche le vecchie orientali), sono diverse, perché si sono
separate, perché non si uniscono immediatamente. Lo studioso non ecclesiastico, Alain Besançon
nel suo ultimo libro “La Sainte Russie” esprime la loro identità meglio di qualunque teologo delle
tre Chiese. “Le Chiese Ortodosse sono depositarie di una forma di Cristianesimo attestata anche
dalla Chiesa Cattolica, per quanto riguarda la fede. Le due Chiese sono separate, ma non eretiche.
La Fede, i Sacramenti, la Successione Apostolica, tutte, sono perfettamente validi lì, secondo la
Chiesa Romana. Però, le stesse dottrine sono proclamate con accenti così diversi, che il malinteso
appare facilmente e costante. È un crudele paradosso: due Chiese separate dalla stessa Fede. Il
problema proviene, in parte, dalla civiltà”……
Questo è un punto di vista obiettivo, scientifico, se vogliamo, ma anche occidentale.
Besançon lo riconosce: secondo la Chiesa Romana. Le Chiese Ortodosse, soprattutto alcune Chiese
radicalizzate di rito bizantino, non riconoscono nulla di valido altrove, tanto meno a Roma, neppure
il Battesimo, neppure la capacità di benedire. È una posizione con la quale si vantano, persino. La
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quale, colloca già queste Chiese nel cono negativo della spiritualità, che loro considerano giusto,
luminoso e unico vero. Sulla scìa di questo fenomenale malinteso-doppiezza vitale, tentiamo di
districarci anche noi, per spiegare il fenomeno dei cristiani d’Oriente, che sembra così ovvio per
tutti e non chiaro, sempre per tutti.

Vogliamo introdurci nel discorso in modo abrupto: la Chiesa Ortodossa, che oggi si
riconosce nel rito bizantino, nel Patriarca di Costantinopoli e nei suoi colleghi, nei 7 sinodi
ecumenici e nei loro canoni, nella Patristica piuttosto greca e negli sviluppi atonito-palamistico-
fanarioto-slavofilo- pan- ortodossi, è cominciata esistere nel 330, meglio dire, il giorno dopo,
attraverso un ordine perentorio dell’Imperatore, il Santo Costantino il Grande. Quest’ordine ha
generato una forzatura politica, religiosa e culturale che abbiamo già ricordato. Una forzatura
felice, fortunata, eroica, originale, un tocco di genio. Il tocco è stato proprio questo tirare fuori un
nuovo Impero-romano-, una capitale dal nulla -una nuova Roma- ed una Chiesa dal nulla-una nuova
Chiesa Cattolica Romana, romea, veramente…. E farla rivaleggiare con l’antica Roma con
immenso successo, in meno di 100 anni. Una Chiesa che ha sostenuto un Impero parallelo a quello
romano- latino, per più di mille anni, più altri grandi e piccoli imperi, (il Russo, il serbo, il bulgaro,
il romeno), come un Bizance après Bizance ! Un tocco di genio, appunto.
È certo che tutti (?) gli ortodossi si scandalizzano nel sentire il nostro discorso, che alla loro
Chiesa mancano i primi secoli, fino al 330. Però, da quei secoli, la Chiesa Ortodossa non ha
conservato nulla, meno un aspetto, che Roma perdette: l’organizzazione autocefala in Chiese locali,
senza un centro di unità compatto. Il centro di unità romana, (il Papato e lo Stato Pontificio, ) come
sono intese oggi, fanno ritardare la Chiesa Romana di 1000 anni o forse di più. Altrimenti, Roma
conserva, ancora oggi, elementi di teologia, di rito, di mentalità, di improvvisazione, tipici di quei
primi tre secoli mancanti alla Chiesa Ortodossa. Quest’ultima non ricorda nulla di quei secoli, salva
l’indipendenza di tipo greco, sopra accennata. Se qualcuno viene con l’argomento del Battesimo
ortodosso per immersione, primitivo ed originario, a differenza di quello latino, ridotto oggi a quasi
un simbolo, - evidentemente per mancanza di acqua, (sic!), - replichiamo che il rito bizantino di
tutti i Sacramenti, (e Sacramentali) è così nuovo, e così riccamente riempito di elementi posteriori,
bellissimi, estasianti, ma totalmente estranei alla semplicità primitiva cristiana, che di tutto l’antico
rito rimane solo il gesto dell’immersione nell’acqua, che alcune nuove Chiesette protestanti hanno
ricuperato molto meglio, nel suo modo originario. Ecc. Ecc….
La Chiesa di Costantinopoli è una Chiesa che si inventò in pochi anni un rito imperiale, una
teologia ricchissima, un arte dorata, una politica, un ambizione, attraverso le quali superò tutto il
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resto del mondo, per molti secoli, lasciando la vera Roma in ombra e concedendo a se stessa un
illusione di vitalità perenne, che fu poi il motivo della sua caduta.
Si inventò come simbolo supremo una cattedrale: la Santa Sofia. Per cui un imperatore come
Giustiniano fu chiamato, a far costruire la Basilica Bizantina per eccelentiam, simbolo perenne,
bellissimo, ricchissimo, mistico, celeste, per quanto immobile nel suo stile, inamovibile… e
perdente.
Il destino di Santa Sofia rispecchia quello della Chiesa Ortodossa: Da Roma a
Costantinopoli, poi a Mosca, poi a Bucarest, poi nelle Americhe… Ed in Athos…
Dove collocare la sua capitale ? In perpetuo esilio e fuga. Che ogni volta che si innesta, deve
farsi i bagagli e cambiare continente. A differenza di Roma, cambia posto, senza cambiare stile.
Roma resta sul posto ma ha già cambiato stili e cambierà ancora.
Costantinopoli ebbe il tempo e la forza di dare alla sua Chiesa un volto definitivo.
Una Chiesa che in breve tempo si aggiustò un nuovo nome che resistette ai tempi:
Ortodossa. Nome inesistente nella Bibbia, nome che, in maniera assoluta, è stato contestato ed è
contestabile per tutti.
Il nuovo Centro sfruttò le qualità eccezionali della sua gente: da Atene ad Antiochia e dalla
Traccia ai margini della Babilonia ha trovato molta più corrispondenza psicologica, linguistica, di
mentalità e di aspirazioni con la realtà del mondo biblico che non la Roma latina, romana e lontana.
Se la Capitale non ha origini apostoliche, come si vanta oggi, esportando questa illusione ai
russi ed ai romeni, (la presenza inesistente di Sant’Andrea), è anche vero che eredita l’apostolicità
di tutte le città greche, consacrate da San Paolo, pur perdendo Antiochia, petrina e paolina insieme,
-se non di tutti gli Apostoli- ed Alessandria, Armenia, Etiopia, Assiria, India. Infatti, non fu capace
di ricuperare i grandi riti antichi ed ancora più venerabili del bizantino. E,… non si sa se per
fanatismo nazionale o per fanatismo teologico, malattie croniche che hanno toccato tutti gli
orientali, fin’oggi, ritornò ad essere piccola, camminante su un solo stretto binario. Si poteva
consolare con l’Asia Minore, la patria dei Cappadoci. Fra Efeso e Gerusalemme, la Capitale
costantiniana ereditò le città dove visse Maria Santissima.
Ma, proprio per questo, in seguitò, offri al mondo il paradigma di una Chiesa ellenizzata, a
differenza di Roma che offrì una Chiesa latinizzata. Quale delle due è più vicina al modello biblico,
in materia di devozione, di culto e di acume filosofico e mistico? Perché dal lato morale, non c’è
dubbio, la Chiesa occidentale è più attenta alle regole. Ma quando studiamo i difetti delle due
Chiese, risulta chiaro che le cose si complicano.
Se ci pensiamo bene, Costantinopoli fu, prima di esistere, un Centro mondiale cristiano,
grazie a Nicea ed al Concilio Ecumenico tenuto lì. Per concentrare poi, in se stesso, tutti gli altri 8-9
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Concili che seguirono, lasciando Roma in perfetta ombra, dal lato spettacolare. Non fu però capace
di fornire i contenuti a questi Concili, che furono pensati a Roma e nei dintorni, come è risaputo.
Interessante è il fatto che, una volta assorbita l'Ortodossia di Antiochia ed Alessandria, queste
ultime divennero eretiche e furono ritrasformate in ortodosse solo formalmente, dalla Capitale
stessa, restando raddoppiate fin'oggi: copti monofisiti in Egitto, giacobiti o nestoriani nel Medio
Oriente, armeni monofisiti, ecc. (Le cui ricchezze liturgiche e mistiche, a causa del disprezzo
reciproco e dell’isolamento furono perse per la Cristianità universale fino ai giorni nostri).
Costantinopoli- seconda Roma, come città e come Centro della Chiesa Cattolica (che doveva
rimpiazzare la vecchia Roma, portando qui il suo Primato), è anche il simbolo, la faccia visibile del
sollievo e della gioia per la svolta storico-mondiale prodottasi nella Cristianità, che fino a poco
tempo prima era ancora perseguitata e repressa (avvenimento da paragonare a quello dell’Europa
dell’Est nel 1989, con la caduta del lager tirannico comunista). È l’incarnazione dell’editto di
Milano, del 313,11 e del suo Santo Imperatore, simile agli Apostoli, costruttore di tutte le basiliche e
centri essenziali del mondo cristiano, fin’oggi.
Il non avere un passato pagano e persecutore, il passare direttamente dalla gioia del Nuovo
Testamento alla gioia di una Chiesa vittoriosa dà ancora oggi la sensazione agli ortodossi di essere
generati direttamente dal Nuovo Testamento, perfino in lingua greca. Da qui la grandezza, ma
anche il rischio di questa Chiesa che poté essere la più brillante, ma non la più forte delle Chiese.
Costantinopoli, diventando capitale di un potente Impero, compì, nei confronti
dell’Occidente, un fenomeno prodigioso a due facce, in opposizione reciproca: fece diminuire
Roma, la quale non raggiunse il suo vecchio e vero splendore che solo dopo la scomparsa della
rivale, nel 1453; ma, nello stesso tempo, Costantinopoli difese Roma, insieme con tutto l’Occidente,
contro i persiani, arabi ed altri, dando ad essa tempo, spazio e tranquillità per svilupparsi, crescere,
progredire, vivere libera e felice. (Tempo che l’Occidente sprecò nella guerra di 100 anni, nelle
crociate contro gli eretici e nella guerra religiosa fra i tre papi, ecc. ecc…).

Connotazioni positive della Chiesa Ortodossa.

Studiata come Chiesa Imperiale, dell’unico Imperatore, immagine di Cristo Pantokrator, ed


avendo tutte le possibilità finanziarie, filosofiche, liturgiche, canoniche di dettare legge a tutti, la
Chiesa Ortodossa non si sarebbe mai sognata di diventare sul terreno una piccola Chiesa, ridotta a
pochi popoli ed alla nostalgia di un passato tramontato per sempre.

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Che la moda distruttrice e necrofile di oggi vuole eliminare, spostandolo agli imperatori persecutori, come la
colpa di Giuda, di Brutto e di tutti i rinnegati e traditori trasformati in eroi.
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Era la Chiesa Cattolica Stessa, senza altri aggettivi, tipo “ortodossa” “bizantina” “orientale”,
ecc…,(tutti, titoli posteriori e libreschi),… titolare del primato petrino infuso in due Rome sempre
più uguali, la cui teologia non aveva diminuito questo primato al livello di oggi, neppure sviluppato
il conciliarismo al livello di oggi. Della tragedia della separazione delle sue Rome è colpevole la
Storia, ma soprattutto l’alto livello di difetti dei popoli dei due Centri e della loro gerarchia. Prima
dello scisma, Costantinopoli avrebbe potuto offrire il suo rito, il più ricco, da tutti i punti di vista, e
la sua teologia delle Icone, a tutto il mondo, ma soprattutto alla vecchia Roma, che rimase ancorata
ad un rito antico, povero e privo di qualunque insegnamento per il pubblico, (salvo quello,
essenziale, della severa semplicità). Il rito latino, come abbiamo detto, si elevò alla bellezza,
all’imitazione del Cielo, grazie alla musica del dopo il 1700, (Bach –Mozart), che rese efficienti e
drammatici gli scarsi movimenti del rito. Mentre il rito imperiale di Costantinopoli, applicato
all’Imperatore Cristo, poteva essere efficiente anche senza musica. Con una simile spettacolarità e
ricchezza teologica di ogni gesto, la Chiesa Universale avrebbe mostrato un volto molto più ricco
al mondo intero.
Il testo di Sebastiano Caputo preso dal suo blog di internet, è molto suggestivo e veritiero,
in questa materia.12
“Vivendo da minoranze in Paesi a maggioranza musulmana queste Chiese d’Oriente non
solo sono riuscite ad integrarsi con virilità, ma anche ad esprimere, senza piagnistei, la loro identità
cristiana adottando la cultura, gli usi e i costumi dei Paesi in cui vivevamo e battendosi per loro
quando questi erano sotto attacco. La grandezza del Cristianesimo orientale è stata quella di
rimanere nel tempo una spiritualità esotica, immersa nella realtà, dignitosamente povera, non
corrotta dai grandi flussi di denaro. Un’immagine ricorrente da quelle parti è il vescovo che fuma
nervosamente le sue sigarette, in barba ad ogni codice morale, come a volersi scrollare di dosso le
difficoltà quotidiane della vita vera, vissuta, consumata. (…)
Da quelle parti il Sacro è una cosa seria; non a caso Eugenio Montale scriveva che “la
religione, compresa quella cristiana, nasce ad Oriente e che in fondo solo lo spirito di quei Paesi
può assimilarla e accettarla totalmente”.

LA CATTEDRALE: Santa Sofia.


La Basilica di Santa Sofia, la Chiesa e l’Islam.

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Nato a Roma, classe 1992. È autore dei saggi “Pensiero in Rivolta (Barbera Editore) e “Franciavanguardia.
Cronaca di una rivoluzione culturale” (Circolo Proudhon Edizioni).
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Sembra che anche la basilica di Santa Sofia possa rispecchiare la realtà storica e
metafisica della Chiesa Orientale, così come San Pietro rispecchia quella di Roma. È suggestiva
la corrispondenza fra i due destini: all’inizio, grandissima, sia la basilica che la Chiesa
dell’Oriente; ridotta dopo, come quantità e statuto, in semilibertà. Enormi le dimensioni di
pianta ( 69,70 x 74,60 metri), eccezionali quella della cupola (31 metri di diametro) che per di
più non poggia su muri pieni ma è “sospesa nell’aria”, impresa mai tentata prima d’allora. La
cupola è più larga di quella di San Pietro, voleva coprire tutto il mondo; ma non è stata così alta
da riuscirci. Alla fine è stata sovrastata dai minareti. Anch’essa come San Pietro fu costruita e
ricostruita. L’imperatore Giustiniano ne decise la ricostruzione, dopo quella di San Costantino,
ridotta a rovina, ma con dimensioni e bellezza tali da superare il tempio di Salomone. Fu eretta
in cinque anni e mezzo, vi lavorarono diecimila operai, e costò 180 quintali d’oro.
La perfezione della bellezza interiore non si discute neppure oggi, malgrado il sacrilegio
anticristiano ed antiartistico compiuto dall’Islam. Entro i limiti, molto ampi, del disegno
generale, le variazioni e le improvvisazioni sono infinite, arrivando talvolta alla pura e semplice
trascuratezza.. Questo conferisce all’edificio come un elemento di sorpresa, un senso di vitalità.
Questa è l’impressione che da anche la Chiesa Orientale, e corrisponde alla realtà.
La basilica fu costruita da due geni architetti, Antemio di Tralles, famoso matematico,
e Isidoro di Mileto, ma dei quali nessun altro edificio è conosciuto.
Anche Santa Sofia, in altro modo di San Pietro, rappresenta la perfezione cristiana che
sovrasta il giudaismo ed il paganesimo; che non lascia spazio al dubbio e non permette ironia;
che, però, a differenza di San Pietro, non risuscita la bellezza pagana, ma la continua,
immergendo la faccia di Zeus in quella del Pantokrator. E, se Dio avesse voluto, essa avrebbe
rappresentato tutto l’Oriente del mondo che la Chiesa Patriarcale avrebbe battezzato, senza
islam e senza paganesimo, esattamente come Roma ha battezzato l’Occidente intero. Non
riuscendovi o non avendo una vocazione veramente missionaria, Costantinopoli, come Impero e
come Chiesa, ha aspettato l’apparizione dell’Islam e la sua occupazione distruttrice. Così si
trova oggi, come basilica in stato di museo, semidistrutta ed in permanente minaccia. E come
Istituzione - Chiesa, altrettanto impressionante e profonda, in via di estinzione.
La basilica non è stata imitata da altre Chiese, che solo nei tempi nostri, modestamente ed in
modo epigonico. In modo maestoso invece, è stata imitata dalle moschee, già dall’inizio.
Questo fatto ci suggerisce che il meglio ed il peggio del sistema islamico è stato imitato dalla
Chiesa bizantina imperiale, più che dalla Chiesa Romana. Il poco di splendore conservato
dall’Islam, pregiudizi ed iconoclasmo permettendo, in arte, nella scuola coranica,
nell’organizzazione religiosa, nella devozione stessa, nel culto del Libro sacro e dei movimenti
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sacri, proviene dall’animo bizantino, non solo copiato, bensì offerto dai rinnegati cristiani al
servizio dei califfi e dei sultani. Idem nel male, cioè nel fanatismo, nell’attaccamento alla lingua
sacra, nel cesaropapismo assoluto, nella confusione fra abitudini popolari e religione, nel
digiuno stretto, nell’esclusivismo ortodosso, si vede la scuola della Chiesa imperiale
sovrapposta a quella delle sinagoghe ebree. Tutto lo splendore teologico, mistico, pedagogico,
artistico, morale, della Chiesa Orientale, che l’Islam non è stato capace di recepire, è stato
eliminato, sia dal pensiero dei musulmani, come dai muri della basilica. La coincidenza è
perfetta, è scuola, precisione caratteriale.
Nel momento in cui un buon musulmano guarda i muri, spogliati e ridotti alla miseria,
della basilica trasformata in moschea e si immagina gli splendori distrutti, compie lo stesso
gesto che un altro, leggendo il Corano, diventa curioso della Bibbia. In quel momento, se ha la
Grazia, senza buttare nulla se non la violenza, completa se stesso e diventa cristiano. È il
lavorio tormentato, segreto e clandestino della logica e della coerenza nel cuore di miliardi di
musulmani lungo un millennio e mezzo di storia.
Si dovrebbe indovinare un’ ipotesi del perché della sconfitta totale della Chiesa
Orientale da parte dell’Islam.

Ritornando all’Istituzione-Chiesa.

Dopo lo scisma del 1054, però, la Chiesa di Costantinopoli non è stata capace di restare
ancorata all’universalità; si è grecizzata, non nel senso in cui la Chiesa Occidentale si è latinizzata,
ma nel senso di aver ereditato esclusivamente le qualità- difetti dei greci e degli ellenisti: il culto
del dettaglio, la perdita dell’insieme, la divisione, l’esclusivismo, ecc…
Così, oggi, la Chiesa Ortodossa è l’espressione perfetta del ritrovamento e della venerazione
del dettaglio, della sfumatura, del particolare, del tocco leggero e della gradazione. Non Le sfugge
alcuna sfumatura, particolarità, minuzia, circostanza. Scansa la sintesi generalizzata perché
privilegia il diamante di altissimo prezzo già recepito, trovato, sperimentato nella sua brillantezza.
È questo il sentire ed il comportarsi dell’ortodosso autentico, in tutti i rami dell’esistere: nella
teologia, nell’ascetica, nella mistica, nella liturgia e nel culto in genere, nell’arte, nella sociologia,
nel diritto ecc. : In tutti questi rami, oggi, la Chiesa Ortodossa, ( come anche le altre Chiese
Ortodosse orientali, copta, armena, nestoriana, indiana, ecc.) offre una linea di pensiero
luminosissima, profumata di mistero, di promessa sacra, di microcosmo, di ottimismo.
Anche se,…. col suo faro, illumina solo un aspetto dell’immensa realtà. Ma anche nelle
attività negative, nella corruzione, nella simonia, nelle punizioni, nelle vendette, nella polemica
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sterile, nel fanatismo, dove saper sfumare, graduare,dettagliare, sminuire, è un arte unica nel suo
genere, essa è capace di offrire ogni tipo di insegnamento, che a suo tempo è stato portato all’apice
dal Bisanzio e dal Fanar.
Per sfortuna, o per voler di Dio, che è la stessa cosa, il semplice fatto di aver dovuto spostare
il centro, la capitale della Chiesa, dalla Basilica già occupata e trasformata in moschea, in una
chiesa marginale di un quartiere tutto marginale della Capitale, oramai invasa, ha influito in modo
del tutto negativo sulla sorte e sull’anima di questa Chiesa. Si è ripiegata, per forza di cose, sulla
difesa della grecità, della nazionalità, della vita popolare della sua gente, non avendo più risorse di
dettare legge per la terra e tener petto a una Chiesa libera e potente come quella Romana o
Protestante. Forse, proprio in questo consiste il suo grande merito e virtù attuali. Si può vantare con
grandi nazioni che la riconoscono, come la Russia o le varie comunità libere e ricche fuori
dall’Islam. E, come per il Buddismo, dove il Tibet del Dalai Lama resta ugualmente valido, anche
se il Capo religioso vive in esilio, così per la Chiesa Ortodossa: il vero suo simbolo e la sua vera
capitale restano e saranno per sempre: il Patriarca e la Città di Costantinopoli, con Santa Sofia,
museo o moschea che sia. Sia essa con soli 1000 ortodossi fedeli.

Universalità e dettaglio

Abbiamo già ricordato il limite invalicabile dell’ecclesiologia eucaristica, in materia di


universalità. Pezzi visibili, Chiese locali indipendenti, legati da tendoni invisibili e forse aleatori, le
due parti incastrandosi reciprocamente e bloccandosi, nell’attesa dell’altra.
La teoria obbliga l’ortodosso all’universalità; l’indole, però, lo frena fino al dissolversi nel
dettaglio di una sola realtà diamantina, sfarzosa, vasta, oceanica, bizantina, appunto, che lui
arricchisce, esalta e idolatrizza. Rimane il grande rispetto per i Testi ed i Personaggi sacri, il modo
devoto e umile con il quale i sublimi Documenti della Rivelazione, (Sacra Bibbia e Santa
Tradizione) sono ricordati, trascritti, nominati, messi in risalto, nella teologia, nella liturgia e nella
coscienza di ogni buon ortodosso.
La Chiesa Ortodossa, nel suo complesso, valorizza tutte le risposte del primo millennio
cristiano, considerate ortodosse da Essa stessa, inclusa la severissima condanna dell’opera e della
persona dei grandi eretici classici, condannati dai primi Concili. Questa severità è identica a quella
della Chiesa Romana dell’epoca inquisitoriale, senza mai raggiungere la terribile severità
dell’Inquisizione. La severità ideologica, però, vi è rimasta intatta, e progredisce in modo radicale
dopo il 2000, superando ogni argine permesso.
Come progredisce ?
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Ecco come : nel senso che, come nell’Occidente cattolico, ma per un altro scopo, nella
Chiesa Ortodossa si sta sviluppando una nuova teologia che ri-scrive la forma e molti dettagli non
trascurabili del contenuto dei dogmi e dei precetti morali, ascetici e mistici. Questo fatto rappresenta
un modo di sviluppo del dettaglio, pura specialità dell’anima bizantina, unita con il desiderio
ardente di delimitarsi da ogni ombra di influsso esterno, soprattutto cattolico romano. Per cui, la vita
ed il pensiero ortodosso si sviluppa in funzione di questa sempre più voluta delimitazione e
separazione.
Ri-scrivere se stessa: cominciando con il dogma del Primato. Semmai fosse stato possibile
vincere l’ambizione di Roma di considerarsi l’unico centro petrino legale per l’esercizio del primato
petrino attraverso i Papi, oggi avremmo avuto il Papa a Costantinopoli. Infatti, non è difficile
constatare che il primato di San Pietro e dei Papi di Roma è esaltato negli scritti dei Padri orientali e
nella Liturgia bizantina come nel Calendario, meglio che in tutta la Patrologia e la Liturgia della
Chiesa Romana. Se le condizioni fossero state diverse, avremmo assistito all’esaltazione del
Primato di Costantinopoli –nuova Roma, nella liturgia, fin’oggi. Ma tutto si dileguò alla fine del
primo millennio, dopo del quale, il primato, in Oriente, fu visto sempre più formale, di puro onore,
inesistente, ecc…
Il Papato della seconda Roma fu bloccato da tre fattori:
-la presenza dell’Imperatore che non poteva e non doveva permettere al Patriarca di
accumulare per sé le tre corone. Del resto, il primato petrino, umanamente parlando, può essere
imposto solo da una posizione di forza: anche quello teologico.
-l’indole stessa del greco che è un essere comunitario, privo di energia e di quella fantasia
politica di considerarsi personalità unica accumulatrice di tutti i poteri. Devi essere l’Erede di un
imperatore, come fu il caso dei Papi, ma essere soprattutto uno spirito adolescenziale, per concepire
una simile enormità, il ché il Papa romano lo fu, aggiungendo al primato evangelico tutta la
sovrastruttura che, in varie forme, chiare o dissimulate, resiste ancora sotto i nostri occhi.
- il tener duro, tipico del vero Papa di Roma, aiutato anche dagli avvenimenti, di proclamare
con forza il primato su basi evangeliche, usando anche la finzione di aver dimenticato il primo
argomento: -quello di Roma come capitale dell’Impero.
Così e solo così, la Chiesa Ortodossa restò profondamente sinodale: (solo teoricamente. Un
Patriarca è assai papale nei comportamenti e lo Tzar, o il Negus, ne furono altrettanto).
Ri-scrive se stessa: La Teologia ortodossa ha già ri-scritto la teologia della divinizzazione,
influenzata in modo perentorio dalla concezione delle energie non create di San Gregorio Palamas.
Per poterlo fare, ri-legge tutta la Patristica ortodossa in funzione della teoria palamitica.
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Intanto la Teologia della salvezza, con i tre aspetti, sacrificio, ricapitolazione e


santificazione è la migliore, nelle Chiese, non trascurando, ( come succede alla teologia latina e
riformata ancora oggi) nessun aspetto biblico di questo essenziale fenomeno. È chiaro che trascura
molti dettagli messi in luce sia dalla tecnicità dei latini, che dall’insistenza dei riformati sul rapporto
preciso Fede -opere. L’aiuto reciproco delle tre teologie è un operazione del futuro, in questa
materia. Fino allora, si va su tre linee paralleli. In questo senso, l’Ortodossia gode anche di una
buona Cristologia, non ancora silurata.
Gli Ortodossi di ogni estrazione ci tengono ai riti fino al dettaglio, convinti del potere che
viene dalla Grazia attraverso il gesto, ma anche perché, attraverso questa fedeltà, pensano di
riprodurre l’atmosfera celeste, che deve emozionare i presenti.
Considerato pieno di efficaccia spirituale e richiesto da Dio, come segno di rispetto e
devozione, il gesto liturgico è obbligatorio, in pubblico ed in privato, come un ordine quasi
divino e necessario, per la perfezione interiore. In questo atteggiamento, l’ Oriente cristiano è stato
imitato dall’ Islam.
In complesso, a causa della devozione e della serietà dei riti, la Chiesa Ortodossa ha la
migliore teologia liturgica.
Non è stata imitata in materia di iconografia. L’Ortodossia vuol dire culto delle icone:
ufficialmente venerazione, inconsciamente adorazione e culto sine qua non. Qui, essa non ha
seguito la sua parte orientale, iconoclasta, semitica, bensì la parte occidentale, greco-latina,
affiancata a Roma. La quale, Roma, non ha mai portato al culmine il culto delle icone, pur
confermando i Concili a favore delle Immagini.
Con tutta la sua fama e pretesa di essere iconodoula, la Chiesa Ortodossa professa un culto delle
Icone, incompleto, polemizzando in modo del tutto illogico contro le statue e contro gli strumenti
musicali, ma, teologicamente e dal lato della devozione, rispetta ed esprime in modo mirabile il
Concilio di Nicea del 787, meglio di qualunque altra Chiesa.
La Teologia dei Sacramenti non è migliore di quella cattolica; ma non esagerando come i
latini, il loro lato giuridico, offre alla contemplazione ed alla devozione più grazia e più profitto
interiore. In questa materia, la discussione è infinita. Di solito gli scismi hanno avuto più a che fare
con la geopolitica che con la teologia. Non è irragionevole l'ipotesi che se Costantinopoli in origine
avesse ospitato il rito latino e Roma il rito bizantino, nel 2017 la Russia sarebbe di rito latino e la
Spagna di rito bizantino (però i canti suonerebbero molto diversi!).
Certo, un buon ortodosso non si immagina, celebrando in rito latino. I latini, invece, celebrano ogni
tipo di rito se ne hanno permesso e conoscenza.
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I Riti toccano l’essenza dei Sacramenti ? Teoricamente, no, ma, praticamente, molti gesti dei
ricchissimi riti orientali sono diventati tabù, quasi di essenza divina, per la devozione superstiziosa
dei fedeli; per cui un semplice gesto mancante o la mancanza della paga adeguata sminuisce o
invalida il Sacramento stesso. Questo, però, è un altro problema che discuteremo a tempo
opportuno.
Altri aspetti della Teologia, come del Diritto e della ricerca sono incompleti, rispetto alla
Chiesa Romana. Non per mancanza di cervelli illuminati, come si presuppone, bensì per necessità
ideologica: la teologia ortodossa non si permette di gonfiare gli orizzonti della teologia come
l’onnipresente Roma.
Detto questo, è importante notare la ricchezza teologica e filosofica dei teologi slavofili, in
patria o in esilio, come anche dei greci e dei romeni del’900, che hanno fornito espressioni e punti
di vista inattesi, presi in prestito e convalidati non solo in sistemi teologici cattolici, tipo quello di
Von Balthasar, ma anche nelle encicliche di qualche Papa. Testi e comportamenti del Vaticano II
sono stati influenzati e nutriti dalla teologia ortodossa, che i vecchi teologi latini non riconoscono e
criticano. In realtà si tratta di aspetti profondamente patristici, scomparsi dal mondo latino degli
ultimi 1000 anni. Un solo esempio per tutti, l’espressione “l’incarnazione di Gesù Cristo tocca ogni
uomo”, appare a molti latini come scandalosa; ma essa è solo un eco del terzo aspetto, obiettivo,
della giustificazione, il ricapitolativo, caro a Sant’Ireneo, che i latini hanno sempre trascurato.

Limiti.

Non avendo più, come Roma, un solo centro del cuore pulsante, mentre il suo sentire è
immerso nella luminosità di un centro scomparso nel passato, (Costantinopoli, la nuova Roma),
l’ortodosso bizantino odierno, (più del copto egiziano e dell’armeno, più aperti agli altri), è
l’espressione di un anima matura, quasi vecchia, semi-orientale, assai scettica davanti al nuovo,
negata alla ricerca, ed assai ancorata ai valori acquisiti i quali potrebbero essere anche sufficienti;
ma è assai sorda alla vita ed all’immediato bisogno dei poveri di Dio. Negando liceità e validità a
tutto ciò che non è creato dentro la Chiesa autochiamatasi ortodossa, questa Chiesa tende ad isolare
i suoi fedeli in un tipo di universalità che condivide con l’Islam.
Essendo, malgrado la sua tenace convinzione del contrario, frutto di un gesto storico tardivo,
(l'apparizione di Costantinopoli e della Chiesa costantinopolitana solo verso la fine del sec. 4-5), la
Chiesa Ortodossa non conosce fenomeni della Chiesa primitiva, come s'immaginano i suoi teologi:
né gesti antichi nella Liturgia, (come nel rito latino), né povertà iconodula o liturgica, neppure resti
giudeo-cristiani.
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Il vero spirito dell'attuale Ortodossia inizia dopo il 7 secolo, forse dopo il nono. Un Cirillo di
Gerusalemme o un Giovanni Crisostomo, (il vero, non quello inventato dalla Liturgia), per non
parlare degli ante-niceni, sono lontani anni luce dalla sensibilità ortodossa -bizantina. Per questo
motivo, la Chiesa Ortodossa è ancora più incapace di Roma, di comprendere le nostalgie dei
riformatori o dei moderni.
Roma non poté aprire alla Riforma, perché si è cinta delle muraglie contro-riforma. Però,
conservando gli elementi dei primi giorni del Cristianesimo dell'antica Roma, è più accorta (non più
disposta) delle sensibilità protestanti, che invocano proprio i primi tre secoli. È questo, il vero
motivo per cui un cattolico romano appare un protestante virtuale: l’antichità romana delle origini
che ancora conserva, più che il suo carattere bambinesco- adolescentino di cui parlavamo all’inizio
lo ispira, gli dà la spinta di provarci.
“Costantinopoli” passa direttamente a una vita teologica liturgica e politica ben compaginata e
filtrata, quella degli altri grandi centri, per cui non vede e non sopporta nulla della povertà-
semplicità evangelica e paolina della Chiesa degli inizi. A Roma, questi elementi si sono collocati
l’una accanto all’altra, o una sull’altra, senza sfigurarsi e senza confondersi: come le architetture
della Sacra città, dal tempo della repubblica romana fino all’attuale repubblica italiana. Nella
Chiesa Cattolica Romana si vedono e si vivono in modo chiaro tutte le epoche, d’un colpo d’occhio,
solo. Epoche di diritto, di liturgia, di dogma, di arte, di sensibilità: al limite fra la sintesi ed il caos,
sul punto bollente, datore di brividi, -ma ancora stabile,- dello scoppio finale, che non scoppia.
Fenomeno impossibile a Costantinopoli, o a Mosca. Qui, la già ricca teologia greca, (con poche
sfumature dei primi Padri latini) ed il ricchissimo rito bizantino ed il ricchissimo immaginario
iconico vengono tenuti vivi dalla musica del culto, che doveva essere impressionante nel primo
millennio greco, ma che oggi è coronato dagli immortali cori russi, importati dall’Italia.
In materia di musica e di arte delle icone bizantine e postbizantine, la Chiesa Ortodossa soffre per
una frattura, una vera contusione: i greci, la cui sensibilità ecclesiastica è da molto tempo asiatica e
non greca, ( greco resta lo scetticismo del popolo, non lontano dal modo romano, sempre europeo,
sottomesso alla razionalità negativa ed alla superstizione) fanno invecchiare tutta la Chiesa
Ortodossa che li segue con l’eterno piagnucolare, il lamento, il nasale della voce, la forma turco-
araba di usare la gola ed i suoni, come anche la fissità dei volti e la ripetizione fanatica del vecchio
stile bizantino, preso per quasi divino…mentre gli slavi, (grazie alla grandezza dell’anima russa,
capace di conservazione, ribellione e rinnovamento), adottando il coro e l’icona rinascimentale
italiana rendono la Chiesa Ortodossa più europea e più giovane. I romeni ortodossi vi sono a metà
strada, tentati oggi di bizantinizzarsi in senso fanariota.
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L’Ortodossia impone a se stessa dei limiti più del necessario, con la strana illusione di
difendere la purezza della fede. Non sviluppa una vera apologetica nel senso della filosofia
cristiana, neppure argomenti razionali, o il confronto con l’ateismo e le altre religioni, ecc. se non
rubacchiando in modo non ufficiale modi e testi agli occidentali. Lo fa, prendendo le divagazioni
teologiche per ispirazione mistica e non fornendo le fonti e le vere prove alle varie affermazioni
teologiche. Se ci fermiamo solamente al Trattato di Teologia di Dumitru Stàniloae, come anche ai
Trattati dei russi, (eccettuando Soloviev) ci troviamo davanti ad opere d’arte mirabilmente costruite,
senza un minimo di obiettività. Gli ortodossi dichiarano che la conoscenza teologica si compie
come un evento mistico, legato alla preghiera. Questo modo di pensare proviene forse dal fatto che
un orientale può fare teologia e può pregare prima di convincersi razionalmente e filosoficamente
che Dio esiste e che sente le preghiere, (a prescindere dal fatto se crede che questa convinzione sia
il frutto della Grazia o della sua propria ricerca). È probabile che la grande differenza fra un
orientale ed un occidentale stia proprio qui. Ma se l’atteggiamento mistico e l’indifferenza nei
riguardi delle prove razionali può essere lodevole, è anche vero che, senza le regole della ragione
logica, si può scendere in qualunque tipo di limitazione soggettiva o di fantasia. Come, per esempio,
nell’arte sacra: nell’arte, si rifiutano le statue e la musica strumentale, senza prove convincenti sul
loro aspetto pagano or sull’aspetto cristiano dell’icona dipinta in modo bizantino….Il capitolo è
penoso, soprattutto per la gente coltivata.
È vero. Non ci si può consolare con il dramma protestante del fideismo, dietro il rifiuto della
ragione, della storicità e della storia sacra, alla Kant o Bultmann. Il rifiuto della logica razionale
applicata alla Fede è sempre dannoso. I Padri greci, veramente europei, ed i latini, lo hanno capito a
perfezione e proprio in questo sta la posanza della Dottrina classica cristiana.
La lista delle autolimitazioni della ricchissima Chiesa Ortodossa è impressionante. Queste
autolimitazioni non sono bibliche, al contrario. Sono gesti di mutilazione, di masochismo, di inutile
impoverimento. D’altra parte, la Chiesa Ortodossa conserva troppi elementi dai quali Cristo, il
Vangelo, le lettere di San Paolo, lo spirito del Cristianesimo ha liberato il credente. Più ancora di
quelle rimaste nella Chiesa Romana e nelle altre Chiese.
La prima gloria della Chiesa Ortodossa Bizantina, dopo quella della Dottrina Cristiana è la
stessa lingua greca che usa, venera ed impone. Essa è una ricchezza in sé, a prescindere da ciò che
in questa lingua, vecchia o nuova, ci è stato trasmesso.
“La grecità contemplata da lontano, ci appare tutta immersa in una quintessenza di fantasia di
arte e di filosofia tutta splendente di forme e di significati interiori”, dice RS.13 Ma, questo,
aggiungiamo noi, può non essere biblico, né evangelico; è grecità, anzi, sofisma, sempre greco. La

13
Qui seguo e replico a Rudolf Steiner, Impulsi evolutivi, pag.14, ss, ed Milano, 1978.
23

Teologia greca patristica è piena di sofismi, ciò che non è il caso della Bibbia, dei Vangeli. Però,
aver tradotto e scritto la Bibbia in greco, ( che è il massimo della ricchezza del linguaggio), è una
fortuna, è una provvidenza, forse voluta da Dio, per le Rivelazione biblica.
“Il greco vuol dire superamento del mero vocabolo, una saturazione di vita dell'anima, la singola
parola che è trasparente, non ci si limita a udirla, ma nella quale se ne scorge un processo che si
sta svolgendo. Questo si esprime nella sonorità e nella struttura grammaticale della lingua greca”.
(idem, pag.14).
Questa ricchezza si abbina in modo paradossale ma non troppo con la fissazione greca bizantina nel
passato. È la vecchia accusa portata all’Ortodossia di essere statica, di non voler muoversi e
muovere, di guardare al passato, senza futuro, di privilegiare il ricordo, non il piano di lavoro.
Ma queste sono caratteristiche dell’anima matura, vecchia, orientale, lo abbiamo già contemplato in
vari capitoli e libri nostri.
Il greco, premio Nobel, 1963, George Seferis lo dice meglio: Il guaio supremo dei bizantini è la
calcificazione; il nostro guaio supremo (dell’Occidente) è la dissoluzione e le nostre eversioni
precipitose.14

A questo punto scendiamo alle


Connotazioni negative. Il sistema despotico-schiavistico-simoniaco.
Le qualità ed i difetti di una Chiesa come di altre Istituzioni e della persona singola sono
collegati all’essere orientale od occidentale, anche se non questa collocazione ne è la sorgente. Il
posto sul meridiano ti dà il temperamento di base. Semmai questo temperamento si trasformasse in
carattere, le caratteristiche istintive si trasformerebbero, l’ente o la persona si sforzerebbe o si
asterrebbe fin quando la formazione diventerebbe la seconda natura.
Ma questa è teoria, sogno, ideale, non realtà. L’istinto vince, soprattutto quando si vive in
modo inconsapevole o sicuri di sé.
Anche qui, però, come nel Cattolicesimo, è l’organizzazione della Chiesa con le sue regole
umane che prevale sulle caratteristiche dei popoli. La Chiesa Ortodossa è un Istituzione
schiavistica. Il dispotismo del superiore, (Patriarca, Vescovo, Parroco, Staretz), è assoluto; è più
forte di quello feudale cattolico, anche se meno organizzato, (essendo orientale e primitivo, non
affinato dalla perfidia romana che li manca).Ed è legiferato dal Diritto canonico, i cui canoni
finiscono sempre allo stesso modo: come vuole il Despota.
La schiavismo ortodosso è leale, aperto, rozzo, perché paleozoico, non coperto da alcuna
ingegnosità di tipo occidentale, cattolico. Non gli serve alcuna ingegnosità, perché può essere

14
In Diari, Giorni di Ankara, pag.215, trad it. Utet.
24

ammorbidito da una borsa sempre più piena di denaro sonante. Anche il titolo del Tiranno è palese,
non coperto da sbavature italiane. Non “Eccellenza”, dunque, bensì Despota: Is pola eti, Despota,
che suona bene nella Liturgia, come è bello anche il baciare di continuo la mano del Despota che
prende o offre, benedice o picchia, ecc…ma sempre nella celebrazione liturgica. Per sfortuna, il
baciamano, al proprio ed al figurato continua nel rapporto di lavoro. Non esistono diritti, ma
neppure capriccio. Se c’è la borsa piena di denaro. Questo è l’unico bene dello schiavismo: lo
schiavo può comprare la sua dignità. Nel feudalesimo non ne è possibile, perché l’ambizione, la
strapotenza sgorgata dall’orgoglio smisurato non si accontenta del denaro. Certo, anche la
prestazione sessuale, omosessuale soprattutto, è gradita, sia dal tiranno schiavista ortodosso, che dal
tiranno feudale cattolico, ma non è regola. La simpatia da una parte e l’interesse dall’altra sono i
movimenti certi.
Potremo fermarci qui, perché gli altri difetti, rispetto a questi ordinamenti arretrati in cui
si compiacciono le Chiese classiche, sono nulla a confronto. Se si riformassero questi sistemi
arretrati, falsi, perfidi ed iniqui, incompatibili col Vangelo e col buon senso, i difetti dei popoli o
quelli sgorgati dalla Dottrina sarebbero ininfluenti. La loro forza consiste nell’essere propulsati di
continuo attraverso questi sistemi. Lo stato di diritto che le democrazie moderne si sforzano di
adempiere è pura eresia nella Chiesa che si crede di Gesù Cristo. (E lo è, ma non in questo
capitolo).
Passiamo dunque alle caratteristiche piuttosto psicologiche dei popoli ortodossi.
L’Orientale tiene tutto unito e considera tutto della stessa importanza e qualità, preferendo
fra l’autentico e la copia, la seconda; fra l’essenziale e l’accessorio, l’accessorio preso per
essenziale; trasformando in sacro ciò che non è sacro, non può e non deve essere. E preferendolo,
imponendolo, al posto o accanto al vero sacro.
La sacralizzazione assoluta è onnipresente nella politica, nella cultura ordinaria, nel folclore,
nelle abitudini più semplici, più ancestrali, più inutili, a cui l’è stata aumentata l’aureola; il suo
culmine arriva allo svuotamento dell’umano, del creato, del normale, del naturale, il quale, a causa
dei tabù, delle proibizioni, delle eccezioni imposte a chi guarda, pensa, usa l’oggetto, diventa
difficile, ed inutile perché impraticabile.
Così si spiegano tutti i gesti, tutti i fenomeni presenti nella liturgia, nella vita, nel pensiero,
nell’arte, nel costume di un cristiano orientale, che sia bizantino, nestoriano, copto o emigrato
all’ovest. È uguale a un ebreo antico ultrarigoroso ed a un buon musulmano di tutti i tempi, fedele
alle regole. Messi uno accanto all’altro, il fanatismo che li consuma li rende identici. Ma non è un
fanatismo formale come potrebbe essere quello occidentale, bensì uno prodotto dalla sincera paura
di perdere Dio, la sua grazia, il suo perdono. Di perdere la Sua benevolenza, in mancanza di questa
25

terribile rigidezza e grettezza. Ripetiamo: mentre in Occidente, il fanatismo, la grettezza, la


rigidezza, il formalismo sono al servizio della propria ambizione, bandiera, ideologia, partito,
passione propria e tutta umana, in Oriente, neppure la propria persona conta, di fronte al dovere per
il divino. I sacrifici umani raffinati ed innumerevoli del passato ed il fenomeno tutto orientale e
piuttosto islamico (e moderno) dei kamikaze, per il dio geloso sono i frutti di questo istinto. Non
così, i sacrifici precolombiani, fatti agli dei per il bene della collettività. In Asia, si pensa al bene
degli dei, o al massimo al nirvana per l’uomo, e non a qualcosa di costruttivo per l’uomo.
L’egoismo dell’uomo orientale, tutto dedicato a se stesso, si manifesta comunque, e in modo
feroce, però anche abile, per dar impressione che sempre del divino si tratta. Il Cristianesimo, per
forza, corregge questa esagerazione, ma non riesce a sottrarre l’uomo dal fatalismo nell’islam, dallo
stato di non ebreo, nell’ebraismo o dall’obbedienza stretta alla propria Chiesa ed alle sue
innumerevoli regole, salvatrici quanto il sangue di Cristo e forse di più.
L’unificazione di tutte le essenze in una sola essenza, senza poter più discernere la scala di
valori da risultati curiosi, si osserva meglio nei difetti che non nelle qualità. Per esempio:
Se la Chiesa Romana, (nella totalità della sua gerarchia, teologi e fedeli istruiti, perfino i
Santi) compie le azioni più sacre e meno sacre, le più straordinarie come le meno ordinarie, usando
sempre un pizzico di scaltrezza, astuzia, sottigliezza, perfidia, formalismo, capriccio ed arbitrio,
(mirabilmente dissimulati da perfetta e segretamente falsa legalità ecc. ecc)….la Chiesa Ortodossa
Costantinopolitana nella sua parte difettosa è l’espressione perfetta della simonia, simonia
profondissima, ontologica: per un misterioso oblìo del precetto morale della gratuità, la cui radice,
veramente, ci sfugge, ma il cui sviluppo è generale e generalizzato. La simonia è congeniale alla
Chiesa Ortodossa bizantina, (o forse anche delle altre piccole Chiese Orientali), il vendere le
funzioni sacre, il chiedere compenso pecuniario per qualunque gesto, anche il più Sacro, non per
ingordigia o per vizio, bensì per necessità ontologica, è una seconda natura di questa Chiesa.
Con altre parole, nel celebrare, nel predicare, nell’offrire parrocchie, nel consacrare,
nell’ordinare, nell’agire in tutti i rami dell’apostolato, l’ortodosso non pensa subito al trucco o al
potere giuridico, come l’occidentale, bensì al guadagno o al proprio tornaconto.
Ciò che nella Chiesa Cattolica è la forza del capriccio (del superiore), come quella
dell’ambizione, in quella Ortodossa è quella del denaro, (richiesto dal Superiore). Arbitrio contro
simonia.
Prima di scendere nei dettagli, è bene rammentare di nuovo lo scritto di Lutero “Alla nobiltà
cristiana”, in cui condanna i mali della Chiesa Romana dei suoi tempi, dei quali, il massimo era la
simonia. Ebbene, oggi, quel discorso, (in parte) non accozza più con la realtà cattolica attuale.
L’apparizione della Riforma ha scosso anche Roma, almeno nel capitolo “simonia”. Nella Chiesa
26

Ortodossa, priva di un Lutero, questa caratteristica è rimasta immutata, anzi, è progredita nel 2000
in maniera inimmaginabile, diventando parte delle azioni sacre. Lo scritto di Lutero è più valido che
mai, oggi, per gli ortodossi, clero e fedeli, perché la diceria su Tetzel è dogma liturgico nelle Chiese
Ortodosse.
Rammentiamo però che questo immane difetto non è apparso nella Chiesa Ortodossa dopo il
1054. La simonia è il peccato quasi naturale della Chiesa Orientale, dal primo giorno, da quando era
Cattolica-Ortodossa, Romana e Costantinopolitana insieme. Bastano, come testimonianze, le tristi
vicende di un Santo come Crisostomo, documentate da un Palladio, per capire che dai tempi di
Simone il Mago, la simonia ha interessato la Chiesa Orientale da un confine all’altro.
Non quella Occidentale-Romana, però, che ha iniziato la sua simonia feroce solo verso
l’ottavo secolo del primo millennio e l’ha tenuta dura fino alla Controriforma.
Il motivo per cui l’Oriente è specialista perfetto nella simonia è e rimane, (oltre il sistema
schiavistico sopra ricordato), il piegamento istintivo dell’orientale, in genere, verso il denaro, verso
il compenso, l’uomo orientale non comprendendo in nessun modo la gratuità. La gratuità, la
solidarietà, il pensare al prossimo è istinto naturale occidentale. Non orientale. Oggi più che mai. E
questa debolezza è applicata agli Dei, e di certo anche al Dio cristiano.
Ecco l’unica piaga descritta dal Rosmini che è ancora valida, almeno per la parte orientale
della Chiesa. Nella Chiesa Cattolica non vi funziona più, non essendone istinto naturale dei suoi
popoli: il potere temporale e spirituale dei Papi e dei Vescovi non è più nutrito oggi dal denaro
come fino a Lutero, ma piuttosto dalla passione della gloria e dalla tronfiezza, usando l’arbitrio
della simpatia.
Il voler compenso e paga ad ogni costo è naturale nell’Islam, dentro e fuori, che obbliga i
sudditi non islamici, in cambio della libertà, alla tassa umiliante che chiamano dhimi. Se l’Islam
fosse apparso in Occidente avrebbe rivestito i caratteri delle sette americane o delle religioni pre-
colombiane, in cui il male è colorato in altri modi.
La simonia non si confonde con lo stipendio o con la tassa di culto, necessaria per la vita del
sacerdote e della Chiesa. E neppure con la decima richiesta ai fedeli, anche se, dentro il
Cristianesimo, non dovrebbe più essere richiesta. Gli ecclesiastici hanno diritto a un buon stipendio,
l’Istituzione Chiesa ha diritto a delle buone offerte, i fedeli hanno il dovere di offrire una vita agiata
al predicatore, santificatore e confessore della loro vita, perché esso abbia il tempo per studiare,
pregare, pensare e trovare soluzioni e miracoli per loro.
La simonia è comprare: il comprare le ordinazioni, i titoli, i benefizi, le parrocchie, le
diocesi, le sedi; o, come nel caso del divorzio e delle seconde terze nozze, togliere di mezzo un
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sacramento, a suon di moneta. È una simonia all’inverso. Non si fa un processo, non si pagano
avvocati, come nel complicato sistema romano.
Qui, non trattiamo, dunque, di offerte, bensì di simonia, azione proibita, sacrilega,
antibiblica, per cui, un gesto gratuito, frutto di una vocazione, come il sacerdozio o un grado
qualunque, le parrocchie, le diocesi, e tutti i titoli sono comprati o venduti mentre si proclama la
gratuità; per cui un gesto peccaminoso, come il divorzio o un sacramento dato in modo non
adeguato è venduto o comprato. Sono questi, ultimi, i gesti di cui la Chiesa Ortodossa è
campionessa, incarnazione del più grave peccato che esiste contro il Sacro, dopo quello del
rinnegamento di Cristo. Anzi, esso è un'altra facciata di questo rinnegamento.
La più patetica simonia è quella applicata al Cielo. Inculcare la convinzione-fede- che il
grado di santificazione, di benedizione, di funzionamento di un Sacramento o di una preghiera è
proporzionale alla quantità di soldi offerti al celebrante o al Santuario dei miracoli è un gesto di tutti
i giorni che preti, vescovi, fedeli semplici ed anche non praticanti condividono pienamente nella
Chiesa Ortodossa del 2017. Un celebrante che praticherebbe un rito in modo gratuito può essere
accusato di invalidità, come nel caso del sottoscritto, nel 2005, da parte di ortodossi romeni.
Dunque, non solo la scomunica provoca l’invalidità, bensì e soprattutto la gratuità.

Se la simonia è per l’Ortodossia ciò che la perfidia farisaica è per il Cattolicesimo, la


domanda che si pone è questa : sarà forse possibile che una delle due manchi dall’altra parte?
Risposta: No, assolutamente. La simonia stà lì per poter mentire in modo grossolano a Dio,
agli altri ed a se stessi. Alain Besançon, nell’opera citata, lo riconosce. L’Oriente è grossolano
nella menzogna, ma sottile nella simonia. L’Occidente è sottile nella menzogna, ma grossolano
in affari di denaro. L’Oriente ti dà l’impressione di fare per te, tutto, gratis, ma solo se tu sei
capace di offrirgli il denaro necessario in modo segreto, fingendo di non aver dato nulla, per non
obbligarlo a ringraziarti. L’Occidente ti chiede apertamente il denaro, i prezzi sono fissi. Per lui la
finzione stà nella falsificazione dei sentimenti, lo scopo è l’umiliazione, il renderti impotente a
reagire.
Di recente, (2015) una Congregazione Vaticana che ha punito un Ordine religioso,
commissariandolo e mettendolo sotto controllo, finisce la lettera punitiva con queste parole: «Infine,
spetterà ai Frati Francescani dell’Immacolata sia il rimborso delle spese sostenute da detto
Commissario e dai collaboratori da lui eventualmente nominati, che l’onorario per il loro
servizio». Molti hanno visto in questo provvedimento “ lo sfregio che evoca l’uso dei regimi
totalitari di addebitare ai familiari dei condannati il costo delle pallottole usate per l’esecuzione” .
Ecco: lo scopo era lo sfregio, il denaro è subordinato.
28

Qui, nella Chiesa Ortodossa, se il denaro funziona, nessuno è più interessato allo sfregio. I
Frati, se fossero stati ortodossi, tramite una busta, piuttosto pesante, sarebbero stati perfino
promossi….

Ma la Chiesa Ortodossa è anche l’incarnazione della totale dedizione (teorica e liturgica) a


Dio, fino all’oblio completo del prossimo, dell’amore per lui, della carità in genere, della
tolleranza. Lo abbiamo già detto: l’orientale, per curare il prossimo, si sforza di compiere una legge
esteriore, imposta, che compie solo formalmente, farisaicamente, convenzionalmente, un gesto
imitato, contro il suo istinto. Mentre per Dio, (cristiano o pagano) egli offre tutto naturalmente.
L’occidentale si cura del prossimo in modo naturale, trascurando Dio, o servendolo per decreto
dell’autorità, o per sforzo razionale, non per natural sentire. (Veramente, Athos, sembra far
eccezione in materia di ospitalità. Lo fa in modo autentico, anche se preferisce l’ortodosso ed il
prete con la barba).
La freddezza naturale, nel rapporto col prossimo, proviene, nell’orientale, dal fatto che, nella
sua persona, il bene ed il male si trovano, (come detto prima) in percentuale quasi uguale. Chiamare
buono un uomo buono al 60% e cattivo, un uomo cattivo al 60% non è esatto; ma è normale in
Oriente. In Occidente si va dal 80-90% in su. Fenomeno che facilita l’intuizione dell’amore o
dell’odio.
La conversione morale, in meglio o in peggio, dell’orientale, essendo un gesto eroico ( verso
il bene) o passionale, (verso il male), cambia la situazione.
Aggiungiamo, a questo punto, un altro dettaglio alla caratteristica dell’ ”inconvertibile”!
Se abbiamo detto che i popoli occidentali sono inconvertibili, ci riferivamo all’aspetto
morale. In materia teologica e filosofica, l’Occidente è facilmente convertibile. L’Oriente, mai e
poi mai. Se è convertibile in materia morale, l’orientale non rinuncia, se non attraverso un miracolo
o ad una malattia, alle sue concezioni, superstizioni, fanatismi, complessi dottrinali. È il fanatismo,
appunto, l’attaccamento morboso al passato, chiamato da Rudolf Steiner ahrimanico, che
impedisce l’anima orientale ad essere elastica, a progredire, o, semplicemente a muoversi. Le
minoranze confermano la regola e sono disprezzate, perseguitate, considerate traditrici, (di che cosa,
non si sa). La parte buona, eccellente di questa caratteristica, è la fedeltà dell’ortodosso alla
Dottrina, anche quando fosse forzato di abiurare. I marrani e gli ebrei spagnoli falsamente convertiti
erano orientali.
Conversione morale. L’Orientale si converte dal bene al male o dal male al bene. Ma non da
una dottrina ad un'altra. L’Oriente cristiano o parsista, o brahmanico è diventato musulmano a
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causa del massacro. Altrimenti sarebbe rimasto identico a se stesso dal momento in cui si è fissato
su un complesso di dottrine.
Al modo come appare una Chiesa o una religione in Oriente o in Asia non si è dedicato
ancora un vero libro, perché ai ricercatori sfugge, pensiamo, un aspetto curioso ma fondamentale
del modo asiatico di essere religioso. Il modo è questo: su una base instabile o vaga di religiosità si
istalla un giorno una certezza fissa: il brahmanesimo su una vacuità della vecchia India; il buddismo
su una vacuità imprecisa della vecchia Cina; il parsismo su una vacuità della vecchia Persia; non
potendo in nessun modo rimpiazzare una dottrina considerata certa. È questo il segreto per cui il
buddismo, tutto indiano, non è approdato in India, la quale è stata assai convinta dal brahmanesimo,
da non volerlo abbandonare. L’islamismo indiano o indonesiano è frutto del massacro, come
dovunque nel mondo dell’Islam, salva l’Arabia, dove l’Islam si è piantato su una vacuità, su una
imprecisione pagano-giudeo-cristiana ed è rimasto come in un suo eterno santuario.
Nel caso dell’Ortodossia orientale cristiana, l’Ortodossia bizantina si è fissata solo nel
secoli IX-XIV, dopo molte vacuità, lotte, imprecisioni, scomuniche e crisi; dopo di ché è rimasta
fissa ed immobile, fedele a se stessa fino all’assurdo. L’Ortodossia armena, egiziana, etiopica,
siriana, indiana, o libanese, idem, e, molto prima, nel 400, 500, 600 del primo millennio,
continuando la sua lotta senza ombra di dubbio e sopravvivendo al massacro, imperiale prima, e
islamico, dopo.
D’allora, salvo l’approdo a Roma di piccoli gruppi Uniti, meno per convinzione religiosa,
quanto per sopravvivenza nazionale, tutti i tipi di Ortodossia sono rimasti fedeli alla sintesi
raggiunta, dopo alcuni secoli di sconvolgimenti.
È il modo tutto asiatico di essere fedeli e di approdare alla certezza. Ciò che non è il caso del
vecchio greco o latino, tanto meno dei popoli diventati cristiani cattolici o protestanti. Dove la
conversione è dottrinale e liturgica; e continua sempre, sotto i nostri occhi, col rischio di
trasformarsi nell’opposto.
Come dicevamo, è il ruolo del Papa per i cattolici e della Bibbia per i Protestanti a bloccare
questo fenomeno. In Oriente, non è la Bibbia, né il Corano, tanto meno il Sacro Sinodo dei
Patriarchi o dei Muftì a bloccare la trasformazione, quanto l’istinto delle masse stesse di essere
arrivati al non plus ultra e di fermarsi lì per sempre.
Se non ci fosse l’Occidente con i suoi stimoli e le tentazioni di cambiamento e di
rivoluzione, l’Oriente rimarrebbe fisso per altri millenni o per sempre in ciò che è oggi. Se non ci
fosse stata la forzatura comunista, tutta occidentale, imposta da Trotzki e Lenin, catapultati in
Russia dal governo imperiale occidentale tedesco, non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione in
Russia. E prima di questa, solo la forzatura di Pietro il Grande, alluno e soggetto occidentale nella
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orientale Russia, fece uscire dal nulla la cultura occidentale russa, la San Pietroburgo europea,
l’icona russo-italiana, il coro e il balletto italo – russo ed in fine l’agitazione dell’anima filosofica
slavofila, che portò a Dostoievski, a Bakunin, a Lenin ed a Soljenitzin .
L’unico cambiamento possibile nell’Oriente solo, senza l’aiuto dell’Occidente sarebbe stato
e sarebbe ancora il massacro compiuto dall’Islam, per cui, un giorno, tutto il mondo orientale
potrebbe diventare islamico.
In Occidente, il mondo potrebbe diventare islamico, o altro, non per terrorismo come si teme
oggi, neppure per invasione, quanto per conversione voluta dalle masse stesse e per la debolezza
delle gerarchie cristiane o atee, di difendere i popoli che sottomettono.

Come dicevamo, la conversione dottrinale è facile in Occidente, difficile se non impossibile


in Oriente.
La conversione morale invece ha un altro tragitto. L’Oriente è peggiorato moralmente nelle
regioni dell’Islam, ma è migliorato nel mondo cristiano.
L’Occidente non cambia moralmente. Rimane onesto o perfido, angelico o diabolico come
dall’inizio, in lotta continua fra le due fazioni, inconvertibili. In questo, l’Occidente cristiano o ateo
combina la sua fissazione morale o immorale con il progresso o regresso della dottrina, atei o
cristiani comportandosi allo stesso modo, in perfetto parallelismo.
In Oriente, invece, abbiamo il religioso puro, amorale, o santo, con due mondi paralleli che
si muovono in sbalorditiva assomiglianza: il Cristianesimo ortodosso e l’Islam.
In funzione di questa coincidenza, fra ieri e oggi troviamo la vera definizione degli
ortodossi: musulmani battezzati. La Chiesa Ortodossa è una Moschea battezzata.
Athos è dunque un Arabia Saudita battezzata.
Un Occidentale non sopporta questa situazione e la abbandona. Come è il caso del
sottoscritto.
Una conversazione con preti ortodossi bizantini nel 2017, greci, russi, romeni o convertiti,
conferma ed apre gli occhi sulla caduta sempre più verso l’esclusivismo della Chiesa Bizantina non
cattolica, la quale non può neppure prendere lezioni dal martirio, ma anche dall’apertura mentale
degli armeni, nestoriani e copti, massacrati dai musulmani nei nostri giorni: fanatici della
superstizione, esclusivisti, post moderni nella stupidità, senza un minimo senso di logica, di
saggezza, di cultura, di elevazione, di nulla, tutti nel kitsch. In mezzo a loro, fedeli orrtodossi o
islamici illuminati e moderni, umani e aperti, vivono un vero martirio o rischio continuo.Con gli
ortodossi e coi musulmani più che coi settari protestanti non avremo nulla che deserto e odio
semmai diriggessero davvero le sorti del pianeta.
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E, con tutto ciò, il vero difetto del Cristianesimo orientale, soprattutto bizantino, che ha
portato alla vittoria spirituale dell’Islam oltre a quella militare, lo dobbiamo ancora descrivere. Esso
è solo in parte comune alle Chiese dell’Occidente. Ed in Oriente, questo difetto-davvero totale- si
osserva meglio in confronto con l’Islam.
Lo descriviamo cominciando con una domanda retorica : in fondo, cosa offre, cosa insegna al
mondo questa Chiesa bizantina Ortodossa, e che cosa obbliga di ingoiare ai nuovi convertiti ed allo
stesso suo popolo ?
Obbliga ad una infinità di regole, di abitudini, di tabù, di distinguo, oltre a una faraginosa
dottrina teologica, liturgica, ascetica e mistica che spaventa il vero religioso, come anche lo
scettico; schiavizza lo scrupoloso e svia l’anima dalla vera essenza del Cristianesimo e dalla
Persona salvatrice di Gesù Cristo, il quale, immerso in queste regole post sinagogali ed in teorie
post pagane non è afferrabile neppure lontanamente e non ha la forza di imporsi da solo, senza
l’infinito bagaglio di queste infinite regole.
Le regole in questione non hanno a che fare con la Bibbia. Così come le abitudini violenti
dell’Islam non hanno a che fare con la rivelazione del Dio Unico data a Maometto, che, lui stesso,
ha confuso e completato con le proprie passioni e gusti. I suoi seguaci riempirono il Corano di
queste regole pagane e violenti, un Corano che poteva rimanere una rivelazione privata piena di
luce a favore del Dio Unico e pluripersonale (Dio parla al plurale, ma non come plurale majestatico,
bensì nel senso biblico della Genesi, a nome degli Archetipi sentiti come Persone, dei quali i
principali sono il Verbo e lo Spirito), e della necessità di semplificare il rapporto con Lui.
La Chiesa Ortodossa ha riempito la Dottrina e la vita del devoto di migliaia di abitudini,
regole e tabù, confuse con i gesti della Salvezza. Per cui, la vera vita di un ortodosso devoto è
complicata e piena di inutilità di ogni genere, di tipi di cucina, tipi di vestiti, tipi di movimenti,
tipi di tabù prese per cose sacre, dal Battesimo sino al proprio funerale.

I trucchi sacri.

Le Chiese Ortodosse insistono, nella celebrazione, sulla santificazione e non sulla parola,
come nelle Chiese Occidentali. Perciò, i trucchi aggiunti, per renderla efficace, non sono quelli delle
eterne spiegazioni e del simbolismo facile, tipico dell’Occidente e neppure del formalismo
burocratico che perseguita la liturgia latina. I trucchi ortodossi riguardano il Sacro stesso e sono
tutti di natura superstiziosa. Alcune stranezze possono essere regolari, in virtù del potere di legare
e sciogliere: come la gradazione del potere sacro dell’acqua benedetta, l’importanza
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dell’antidoron, (il pane benedetto che si dà al posto o insieme con l’Eucaristia), anch’esso superiore
in materia di gradazione del sacro rispetto al semplice pane benedetto, la venerazione esclusiva
dell’Icona e non della statua, il desiderio di possedere la Luce sacra del Sabato Santo ortodosso che
arriva dal cielo a Gerusalemme, la proibizione degli strumenti musicali per le celebrazioni, (come
nell’Islam, ma non presso gli altri orientali),ecc….
Nella stessa categoria entrano i tabù nei riti, nell’alimentazione, nei digiuni, nelle abitudini
sacre, (non passare davanti all’altare; non attraversare le porte imperiali; la donna non entri
nella stanza dell’altare; non si celebri senza barba, -dai greci o dai russi-, non si usino se non
candele di cera; ecc. ecc..
Proibizioni innumerevoli ed officiali.
Esse tolgono l’attenzione dall’essenziale – l’Eucaristia, Gesù presente, ecc.. - e mantengono
nel devoto ortodosso una tensione continua, tipica del fariseismo rituale, a cui dà importanza
suprema.
Ma il fatto di indovinare il futuro attraverso il Testo biblico ed i testi del Rituale, usando
anche le preghiere ed i gesti adatti a questo sortilegio, come l’apertura del libro con una chiave
benedetta, sono abusi generalizzati, che la gerarchia tenta di arginare senza successo.

Sentendo e vedendo, partecipando sempre alle liturgie ortodosse, senza preconcetti e senza
pensiero superstizioso, arrivi alla consapevolezza della loro inutilità, dal punto di vista religioso.
(Sono utili e necessari per promuovere lo specifico nazionale, o il sentimento, le nostalgie, la
bandiera della propria fazione, l’emozione religiosa confusa con l’estasi mistica, ecc. Ma,
altrimenti…. niente, perché nulla di tutto questo è cristiano e biblico).
Pur essendo ricchissime di contenuto e quasi perfette dal lato teologico, liturgico, ascetico e
mistico, queste liturgie non raggiungono (più) lo scopo per cui sono state create e per cui sono
promosse: la vera lode e gloria di Dio, la salvezza delle anime e l’istruzione dei fedeli. Sì, Dio si
merita spettacoli, ma non così formali, incomprensibili, studiati, senza vita, un opera classica senza
arte. A meno che i fedeli ed i celebranti non si immergessero nella contemplazione mistica della
vita di Gesù Cristo, simboleggiata dai gesti sacri della Liturgia. Ma questo fatto sacro della
devozione è sempre più raro, pressoché inesistente oramai in tutte le Chiese.

Nelle Chiese Ortodosse, la lungaggine eccessiva dei riti e delle antiche e nuove preghiere,
(pur se patristiche) dette anche in lingue incomprensibili per il pubblico, (salve eccezioni) rende la
liturgia inefficace e sempre più lontana dal vero scopo. Per non ribadire la non luminosa assenza,
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simile a quella nella Chiesa Romana, della Sacra Bibbia, non-letta, non-riletta, non-studiata con
attenzione a nessun livello, ma semplicemente venerata liturgicamente. 15

Nazionalismo.

La connotazione negativa conosciuta in modo palese e trasformata perfino in motivo di


vanto è l’identificazione delle varie Chiese Ortodosse autocefali con l’anima di una nazione, con il
suo folclore e la sua sensibilità. È l’assurdo del particolarismo, applicato in modo mondano alla
Chiesa di Cristo. Il concentrarsi sull’etnicità spinge il teologo, lo storico o l’artista di esagerare fino
al ridicolo l’identificazione fra la sua sensibilità ed il dettaglio teologico che approfondisce,
estraendolo dal contesto universale ed acculturandolo fino al massimo dentro la sensibilità perfino
pre-cristiana del rispettivo popolo. È questo il motivo principale dell’apparizione dei termini:
slavofilo, greco, romeno, applicati al pensiero.
La corrente slavofila, nella sua parte trionfalistica, idolatra e irrazionale, ha prodotto, fra altri
mali, un penoso complesso di superiorità, nutrendo un illusione crescente dentro il povero- grande
popolo russo, di messianismo, di elezione, portate avanti da grandi scrittori, la cui grandezza ha
confuso il mondo. Ancora una volta, Besançon è maestro nel descrivere questo dramma russo.

Nazione e religione.

Per il serbo che si rispetta, il serbo vero è ortodosso. Se è cattolico, non è più serbo, ma
croato. Il vero romeno, idem, è ortodosso, se diventa cattolico diventa ungherese o al massimo un
buon romeno, ma non romeno vero. Ibidem, i greci, armeni, russi, polacchi, i quali confondono la
loro anima religiosa con il colore delle candele che accendono alla Madonna.
Per grazia di Dio, il nazionalismo occidentale ha perso la connotazione religiosa, altrimenti
avremo il vero fascista italiano cattolico, il vero nazista tedesco protestante, il vero svedese
luterano, ecc….Non si saprebbe dove collocare i protestanti romeni, i musulmani serbi, i polacchi
ortodossi, i svedesi cattolici, ecc….
Dei filosofi e politici seri, (presso i romeni Nae Ionescu o Blaga e vari pensatori legionari e
non solo), hanno predicato queste inezie per decenni, senza pensare agli antichi greci, romani, o
germanici, i quali, ricevendo il Battesimo, sono stati, per la loro gloria, i primi traditori delle loro
nazioni, semmai fosse stato vero che nazione e religione si compenetrassero.

15
Se mi si risponde che tutta la Liturgia orientale è piena di letture bibliche, o che i latini con Lectio Sacra hanno
rinunciato alla proibizione classica di toccare la Scrittura, replico che tutto questo non ha nulla a che fare con un vero
studio biblico e con l’importanza data alla Scrittura che vediamo perfino nelle più sconosciute delle Chiesette
protestanti….
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Qui, più che altrove, ci imbattiamo nella confusione flagrante fra religione e sensibilità,
colori, gusti e ideali nazionali, presi per espressioni religiose. Per disgrazia, questo è il nutrimento
quotidiano delle Chiese Ortodosse, ( non sempre riconosciuto apertamente), che superano in questa
ambizione perfino le pretese dell’islam pan arabico.
Curioso è il fatto che unire lo spirito della Chiesa allo spirito della propria nazione non è
visto come un atto si secolarizzazione, diverso da quello protestante o da quello del mondo
“moderno” autodefinitosi “laico”.

Invece la secolarizzazione del Sacro, di cui è accusato l’Occidente solo negli ultimi due
secoli, è diventata realtà nelle Chiese Ortodosse Bizantine, (o, forse anche nelle altre Chiese
Orientali) già da mille anni e più, attraverso la cura eccessiva per una sola nazione, cura per le
abitudini pre-cristiane di un solo popolo, cura per una sola sensibilità: greco-bizantina, o slava o
greca, e, negli ultimi anni, romena.
Il semplice fatto di dipendere dall’Imperatore, il semplice fatto che l’Imperatore Ortodosso,
bizantino o russo, pensò di poter e dover confermare un Sinodo o un dogma, con la propria volontà,
è, involontariamente, un grave atto di secolarizzazione, seguito in un altro contesto dai Protestanti.
Si aggiungono a questi mali le varie degenerazioni della Tradizione, varie combinazioni fra
il sacro e gesti popolari idolatrati, sintesi perfetta di una strana trinità: superstizione, folclore e
simonia.
Sono tutte, un'altra forma di ipocrisia-simulazione, questa volta, non palesi. Alle quali si
aggiungono varie forme di impressionismo, soggettivismo, autoesaltazione e fanatismo. Al punto
che la maggioranza di coloro che si considerano credenti ortodossi sia, in realtà, una maggioranza
di superstizione, diversa da quella di tipo antico dei cattolici:(“con la loro espressione: la paura ha
creato gli dei”) più il folclorismo nazionalista preso per devozione cristiana.
Essendo piccola, provinciale, nazionalista ed etnica, la Chiesa Ortodossa si inquadra nella
definizione data da Emil Cioran: “optando per l’Ortodossia, la Russia ha manifestato la volontà di
separarsi dall’Occidente. Uno scisma non esprime tanto differenze di dottrina quanto la volontà di
affermazione etnica”. Non per controverse teologiche o filosofiche astratte -riformulate a
posteriori- ma per riflesso nazionale.
Nazionalismi sotto mentite spoglie, ecco gli scismi e le eresie. L’Egitto copto, la Siria
nestoriana, l’Armenia monofisita danno le prime lezioni in materia. Bloccandosi insieme in una
vecchiaia spirituale vicina alla senilità, vivente nell’inerzia di un illusione.
Tentiamo una lista di altri esempi di questo grande errore:
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-Prima di tutto, i nazionalisti cristiani sono fanatici amorali di una dottrina non biblica, qualunque
essa fosse.
-Che si tratti di candele gialle o di uccidere il nemico, lo zelo è uguale.
- legionari romeni ortodossi che considerano martiri e angeli gli assassini vendicatori dei vari
politici anti legionari
- greci che considerano martiri gli uccisori dei turchi invasori.
- trattato di morale ortodossa, scritta da un potente moralista ortodosso del 2000 che esalta il
sacrificio dei grandi assassini di non greci, (turchi islamici, ma anche romeni, slavi, italiani
cristiani) che hanno insanguinato i Balcani per secoli, per renderlo ortodosso e greco.
-La confusione, lo zig zag del passaggio da un cliente ad un altro, da un governo al suo opposto, da
un tiranno al suo opposto, per istinto atavico di lecchinaggio e non di obbedienza dell'autorità ; ecco
un modo del tutto ortodosso e del tutto generalizzato, di sottomettersi alle Autorità, che non si trova
nelle Chiese Occidentali.
&&&&

Nei riti, appare più evidente che altrove lo specifico popolare, nazionale, temperamentale,
confuso con la vera fede e devozione. Cucina, trucco, simbolo, tabù, regole formali ad ogni passo
emomento, insormontabili e disgustosamente difesi.
Si considera nel vero chi sente il gesto o la frase, la melodia o il colore con tutte le forze interiori
dell’anima, sentimento e volontà comprese. Ed è capace di imporlo ad altri con la forza della legge,
del libro, della propaganda, della polizia.
Il filosofo romeno Lucian Blaga nel lodare il sentirsi a casa, il sentirsi già salvato, del
monaco athonita ortodosso, non nutre il minimo sospetto che questa sia un eresia, un male, un
illusione non meno deleteria che l’idea della luce non creata di Palamas. È pur vero che anche la
tensione dell’occidentale-cattolico o protestante- che lui sottolinea-, sono altrettante eresie, errori,
deviazioni di comportamento.
Leggendo Blaga si capisce il vero limite di tutti i nazionalisti: la religione è un pretesto, una faccia
della nazione. Questo non è neppure paganesimo, è pura idolatria.
Voler essere ortodossi per essere romeni, o croati per essere cattolici, o viceversa…..ecc.. i nostri
antenati greci o romani, battezzandosi, hanno tradito la patria, gli antenati, il popolo, la tradizione. I
Cesari dunque avevano ragione di ucciderli. Incredibile.
Lucian Blaga sviluppa una teoria interessante sulle “deviazioni”. Se Blaga ha ragione, la tensione di
voler avere fede a tutti i costi è una deviazione nordica. Quella delle opere buone è deviazione del
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cattolico meridionale. Quello di sentirsi a casa, naturale e calmo, è la deviazione ortodossa, tipica
del fratello del figlio prodigo. Questo modo di pensare significa mettere il dito sulla ferita.
Il cristiano puro, durante la preghiera e nella vita quotidiana, come anche nella
preoccupazione per la propria salvezza, crede senza tensione, compie opere buone senza pensare al
merito e si mette a disposizione di Dio senza l’enfasi di un uomo di casa. Diventi cristiano solo se
rinunci a tutti gli specifici nazionali di ogni genere, innati o imitati.

Questa sarebbe una presa di distanza dai vari specifici, dalle varie spiritualità, impregnate di
sentimenti e caratteri popolari, nazionali, preconcetti non biblici, ecc….
Il cristiano, -oggi, l’ortodosso, più che gli altri-, se confonde la religione con la nazione
dimentica che il cristiano è un uomo biblico. Il comportamento cristiano biblico esula
dall’ebraismo, come esula dall’ellenismo, romanismo, slavismo o anglo-sassonismo.
Ci pare che la migliore immagine del comportamento biblico è quella di Noè, di
Melchisedek, di Giona, di Giobbe, di San Giovanni il Battista, ma soprattutto dell’asina di Balaam.
Tutto il resto è eresia. O illusione.

Palamismo

Sulla stessa scìa, appare nella Chiesa Ortodossa bizantina lo ri-scrivere di tutta la teologia
dogmatica ed ascetico-mistica in funzione del palamismo e dell’isicasmo palamitico; la cui
influenza è ontologicamente diversa dalla scolastica aristotelico- tomistica per la teologia latina,
toccando non solamente la forma e l’organizzazione della materia, bensì il contenuto stesso. In
parallelo a questo fenomeno stranissimo si sviluppa anche l’illusione della fedeltà alle origini, già
compromessa dal palamismo a tempo suo ed ora dalle nuove trovate e riscritture del dettaglio dei
vari teologi, in guerra totale, ma non sempre cosciente, con tutto il resto del pensiero cristiano,
vecchio o moderno che fosse. Questo, nostro, non è un giudizio sul palamismo, bensì sul modo
unilaterale e forzato di ri-vedere tutta la teologia in funzione di questo, che è visto come luce e
spinta propulsiva per tutta la realtà religiosa del Cristianesimo. Ciò che è una pretesa fuori ogni
misura. Sul Palamismo, siamo obbligati di ritornare ogni volta che tocchiamo un luogo in Athos che
lo ricorda o lo esprime.

Sinodalismo
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In materia di Ecclesiologia, la fortuna del sinodalismo, opposto al papismo romano,


(l’espressione appartiene ai teologi ortodossi slavofili), proviene dalla distruzione della Seconda
Roma da parte dei turchi. Lo ripetiamo: con una Costantinopoli fortissima e con un Impero cristiano
come sfondo, (quello fra 330 e 600) nessuno avrebbe mai rinunciato al dogma del Primato di San
Pietro e dei Papi, ultra contemplato nella Patristica e nella liturgia bizantina. Il suo centro sarebbe
stato solamente spostato, come naturale, alla Seconda Roma. Però. Per formulare e sviluppare una
simile ecclesiologia, (del Papismo), hai bisogno di libertà e di forza politica, non basta la
Rivelazione biblica e patristica. Ora, la vera Roma ebbe proprio questo, come dono della Storia,
recte di Dio. Pure la terza Roma, la Mosca degli Tzar lo ebbe, per lungo tempo, ma troppo tardi…,
per riproporla come ortodossa e come vincente nelle coscienze ortodosse. Il sinodalismo ortodosso,
come pure la riduzione protestante della Madre Roma sono solo contrapposizioni (inconsciamente?)
invidiose, nei riguardi della eccessivamente superba Roma… e segni di sconfitta e debolezza
ontologica.
In realtà, come ci esprimiamo anche altrove, un governo vero e proprio non può essere
collettivo, né dal lato biblico, né dal lato della ragione, né del buon senso né del realismo storico e
umano. L’unico governo di una Chiesa è quello Papale, di Roma. Come ogni governo di qualunque
Istituzione, Stato, o Cooperativa agricola. I Protestanti resistono ad essere protestanti, ma non
unitari, il numero delle fazioni crescendo anarchicamente giorno dopo giorno, in mancanza di un
Governo, anche simbolico. I Trattati protestanti di ecclesiologia, anche i più seri, sono penosi,
patetici e privi di serietà, al capitolo “Governo”, fosse Lutero, Calvino, Karl Barth, Pieper, Heppe o
Wayne Grudem.
La Chiesa Ortodossa, in questa materia, vive il massimo di penosità, di apparenza e di
fondamentale ipocrisia. L’incoerenza del sinodalismo ortodosso supera in assurdità tutti i
protestanti e gli eretici cristiani dei 2000 anni di ecclesialità. Non solamente che il Sinodo dei
Gerarchi ortodossi che accettano il calendario gregoriano ed il Sinodo degli stilisti non si
riconoscono reciprocamente, trattandosi da veri pagani, ma neppure gli stilisti che accettano gli altri
non sono accettati e non accettano gli stilisti integralisti. Il Sinodo russo dell’esilio, per 70 anni, non
ha riconosciuto il Sinodo dell’URSS, e così, tutti gli esiliati, non riconoscevano i superiori delle
Chiese del paese d’origine, asserviti ai Regimi. Ne avevano ragione, dal lato politico e morale; ma,
con questo, dimostravano di non essere una sola Chiesa Ortodossa, quella confessata nel Credo.
Lo abbiamo già detto. Il Cristo invisibile, Capo della Chiesa, non può essere invocato se
vuoi avere una Chiesa visibile sulla terra, perché il Cristo invisibile, da solo, è capo della Chiesa
invisibile. L’Istituzione burocratica, giuridica, piena di poteri e di compromessi umani, può anche
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fare riferimento di Fede a Cristo invisibile, ma tenere Lui per unico Capo è un semplice atto di
ipocrisia e di menzogna.
La coerenza voleva che i tre tipi di Chiesa che concorrono sotto i nostri occhi avessero un
Centro e un Capo ciascuno: Per esempio, Roma, Mosca e Londra. E basta. Tutto il resto è Cortina
fumogena. Però. Se si volesse una coerenza anche in queste condizioni, tutte le Chiese, salva quella
Cattolica Romana, dovrebbero confessare di credere in una sola Chiesa invisibile, una santa
apostolica e cattolica, senza badare agli aspetti umani, privi di importanza. In questo caso, fa bene al
Credo di non ricordare anche il nome di “Cristiana”…
Il Non finito, Un altro tipo di ambiguità.

Pur volendo possedere la coscienza dell’unica vera Chiesa cristiana universale, la Chiesa
Ortodossa Bizantina è condannata al particolarismo, alla povertà teologica e liturgica di un piccolo
gruppo di teologi piegati sulle proprie origini, ostinati a non rispondere alle esigenze di un mondo
senza limiti. Forse per questo, la Chiesa Ortodossa Bizantina,- ( a differenza delle altre, occupate
col destino dei propri popoli e particolarità perseguitate o in via di ricupero), - come pensiero
dogmatico, morale, liturgico e politico è oggi più che mai, l’espressione perfetta dell’ambiguità.
Non nel senso della non sincerità o dell’ipocrisia, a modo occidentale. Neppure in quello
programmato, come nell’ambiguità dei testi del Vaticano II. L’ambiguità è qui costituzionale,
ontologica, istintiva e perfino inconscia, che è frutto dell’ incompiutezza che rivela. Ambiguità
molto più profonda di quella occidentale. Gli occidentali la vivono e la adoperano anche per
timidezza infantile, avendo perfino la capacità di riconoscersela. Gli ortodossi non la
riconoscerebbero mai, perché se lo facessero, si sentirebbero automaticamente fuori
dall’Ortodossia. Per cui la nostra lista del tutto incompleta di alcune gravissime ambiguità ed
incoerenze del mondo ortodosso non sarà presa in considerazione da nessun vero ortodosso, istruito
o non istruito:
Nella dogmatica ortodossa, il Papa è e non è il primo; ricusano il primato e l’infallibilità
pontificia, ma conservano nel calendario le feste dei papi e dei santi che hanno creduto, predicato,
difeso e formulato i due dogmi contestati. Proclamano il primato d’onore che non è autentico,
neppure possibile nell’ottica dell’umiltà cristiana.
Il Concilio ecumenico è e non è infallibile, perché deve essere ancora confermato dal
popolo. Il quale però non ha iniziative del genere, senza la gerarchia.
Lo Spirito Santo procede e non procede attraverso il Figlio. Mentre, ancora una volta, il
calendario ortodosso onora molti santi che hanno predicato l’ odiato “filioque”.
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Il palamismo con la sua divisione fra sostanza ed energie in Dio apre un'altra voragine di
ambiguità nell’esposizione dell’opera dello Spirito Santo e della sua processione. Dio è semplice e
non semplice, invisibile e visibile, fra sostanza ed energie non create, tutte esclusivamente
palamitiche. Presentate però, come patristiche.
L’uomo divinizzato diventa e non diventa divino. Rimane creatura, ma impregnato di
energie divine non create, diventate sue.
Il purgatorio non esiste come nome, ma il funzionamento dell’intercessione della Chiesa per
i defunti è identico a quello romano, contestato.
Il merito per le opere buone è e non è.
Il Sacramento del matrimonio è sacramento, ma le seconde e le terze nozze dopo divorzio
non lo sono.
Maria Santissima è purissima, però è toccata dal peccato originale. È assunta in cielo, ma il
dogma dell’Assunzione è condannato. È Genitrice, ma non Madre di Dio.
Il calendario è riformato, ma per la Pasqua è rimasto antico, arretrato. Alcune Chiese sono
rimaste fedeli a tutto il calendario antico, giuliano, pagano, divenuto Santo Calendario (!), ma non
accettano gli stilisti, la cui ossessione è il Santo calendario antico, non riformato dall’anticristo che
fu Papa Gregorio. Incontreremo questo fenomeno lungo il nostro pellegrinaggio in Athos, dove esso
è nato e mantenuto ancora vivo.
Gli ortodossi non riconoscono i Sacramenti degli altri, però non tutti negano la loro validità,
applicando il termine l’economia anche qui, in modo inadeguato. L’Athos, di certo, non riconosce
nulla. Con minime eccezioni, un non ortodosso ed anche un ortodosso non battezzato per
immersione non è cristiano, è pagano e basta.
Il momento della consacrazione dell’eucaristia latina è contestato, ma l’eucaristia latina è
riconosciuta come valida. Oggi, non più da tutti, e i radicali anticattolici si moltiplicano.
Condannano la statua liturgica, ma venerano l’icona fino al limite dell’idolatria.
Condannano le Messe brevi occidentali, portando l’esempio delle liturgie lunghe, durante le quali,
però, la maggioranza dei fedeli, vescovi inclusi si fermano solo alcuni minuti.
I monaci dell’Athos, e non solo, col voto della povertà hanno invece permesso ufficiale di
avere proprietà, di lasciarle in eredità, di conservare veri patrimoni.
Condannano il celibato dei sacerdoti latini, ma mantengono in modo del tutto incoerente il
celibato obbligatorio dei vescovi, obbligando un prete vedovo a diventar monaco solo per essere
consacrato Sevasmiothatos.
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Condannano il matrimonio dei consacrati vedovi, (diaconi, sacerdoti, vescovi) dopo


l’ordinazione, (regola ecclesiastica) ma accettano quello dei laici dopo il divorzio, (contro la legge
di Gesù Cristo).
Condannano la difesa del Papato davanti all’autorità statale, ma amano l’autonomia nei
paesi dove l’Ortodossia è minoritaria. Condannano lo Stato Pontificio, ma il diritto del Basileo,
dello Tzar e perfino delle autorità islamiche o atee-comuniste di intromettersi negli affari della
Chiesa era ed è perfino legiferato.
Ecc.Ecc.Ecc…
La lista delle cose realizzate a metà, delle teorie teologiche rimaste a metà strada, può
continuare, per confermare che il comportamento dogmatico, liturgico, morale, sociale, artistico,
politico della Chiesa Ortodossa è l’incarnazione della politica detta giustamente bizantina,
basculante, ribaltabile ed in fondo disonesta e perdente. Con l’aggravante che essa non è frutto
dell’ inconscio, neppure costruita, conciliativa ed accomodante, in fin di pace, come nei testi del
Vaticano II, bensì programmata, a freddo, e perseguita freddamente sino all’ultimo dettaglio,
per necessità ma anche per impotenza.

È la promozione?

Come avviene nella Chiesa Ortodossa, la promozione ? Sempre per capriccio o per simpatia,
come in quella Cattolica?
No, assolutamente. Bensì esclusivamente a modo simoniaco. Si vende per soldi. O per
promessa di soldi. O per promessa di interessi terribilmente mondani. E non per sempre. Sembra
che qui si innesta, nella mentalità ortodossa, un insegnamento ereditato dai sultani turchi: si offre un
posto o una promozione a chi da di più. E, se, in un secondo momento, il vinto riesce a portare un
dono maggiore, il primo perde il posto, se non moltiplica il suo disonesto obolo.
Il modo simoniaco non è peggiore del capriccio cattolico, come si pensa. In cambio ad un
voluminoso pacco di soldi, un uomo serio, un uomo di Dio può raggiungere (forse) un trono
patriarcale, una buona parrocchia, un buon titolo di superiore ortodosso. Ciò che, col capriccio
cattolico, che non si vende, non è possibile, senza un vero miracolo, o senza compromessi di altra
natura.
Una Chiesa “democrazia” potrebbe debellare tutto questo? Un sindacato nelle Chiese
sarebbe un gesto ottimo, per scongiurare il capriccio, la simonia o la concorrenza sleale ? Chi, però,
lo ha tentato, è stato scomunicato.
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Perché una simile prospettiva è impossibile nelle Chiese classiche ? A causa di Gesù? Del
Vangelo ?
Mai e poi mai, malgrado il falso ed ipocritissimo proclama in questo senso, della Chiesa
“Sposa di Cristo”, ecc.. che non c’entra assolutamente con gli uffici ed il protocollo dei vari
Gerarchi. I criteri di Gesù e dei Vangeli, nel promuovere i Gerarchi superano in santità e profondità
qualunque trovata fraterna o ugualitaria dei moderni. Il vero motivo ne è che l’Istituzione Chiesa è
apparsa in tempi schiavistici e feudali, aventi l’idea del superiore Despota o Eccellenza. E questa
Istituzione non vuole evolversi né per raggiungere almeno le democrazie moderne, né per
raggiungere l’altezza del Vangelo. Conviene ai Gerarchi essere chiamati Despota e Santità,
Beatissime ecc. Ad essere venerati ed adorati come immagini di Dio. A superare in titoli il Santo
Nome di Dio Stesso.
Perché dovrebbero accontentarsi con le bellissime espressioni : ”compagno” o “camerata”
che i tiranni del XXesimo secolo hanno compromesso ?

Qualcuno però avanza qualche domanda: ma è possibile che, secondo l’autore di queste
righe, non ci sia un modo positivo, cristiano, nel promuovere qualcuno in qualunque posto, proprio
nell’Istituzione cristiana, ortodossa o cattolica che sia ?
La mia riposta perentoria, purtroppo, è Si e no. Nei rarissimi casi nei quali funziona
l’obiettività e la correttezza, sembra che nelle Chiese Ortodosse ci sia più giustizia. Forse perché
sono Chiese piccole, addirittura familiari, (La Copta, la Nestoriana, la Etiopica, l’Armena, o la
stessa Chiesa Ortodossa greca o serba, meno quella russa). Ci si attiene alla preparazione ed alla
capacità, per necessità di tener petto all’Islam, al Comunismo, al nemico potente, e non per amor
puro di Gesù o delle anime. Nella Chiesa Russa non si poteva essere giusti nei tempi dello Tzar. A
meno che lo Tzar stesso non scegliesse in maniera competente e non capricciosa o diplomatica i
membri del Sinodo. Sotto il Comunismo non si può parlare di meriti e di giustizia da nessuna parte.
Quando però, sui troni, è finito qualche santo in potenza, il criterio è stato la Grazia di Dio e non la
scelta del Sinodo.
Nella Chiesa di Roma, fra il nepotismo papale e quello dei piccoli vescovi ai margini del
mondo non c’è mai stata differenza. Oggi, a Roma vince la diplomazia, il voler accontentare il
mondo ed i poteri forti, il voler dar impressione che la Chiesa non chieda a nessuno nulla di
particolare, ecc… è la linea di Papa Francesco. Mentre nelle Chiese cattoliche marginali come
quella Romena, latina, tutto si gioca fra i pochi parroci quasi romeni di questa Chiesa, mentre
presso gli Uniti romeni, il nepotismo e la coscienza di clan transilvano sono valori assoluti. Che poi,
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in mezzo a tutto questo, il miracolo di Dio può suscitare dei Gerarchi degni, non ce n’è dubbio
alcuno. Ma lo scopo dell’elezione dei gerarchi non è mai quello di scegliere gerarchi degni e dei
buoni cristiani. Chi si lascia ingannare dai proclami rimane coi proclami. Senza eccezione.

La fissazione sulla “Verità”.

Come nel Cattolicesimo, dove la fissazione sull’Unità produce quei mali che fanno
martirizzare i Santi dalla propria Chiesa, nell’Ortodossia, la fissazione sulla Verità, sulla fedeltà
dogmatica, meglio dire su ciò che si crede essere la Verità, produce il penoso fenomeno
dell’emarginazione fino all’eliminazione del vero teologo, del vero liturgista, del vero storico i quali
potrebbero far svegliare l’Ortodossia dal sonno del soggettivismo e dell’autoesaltazione abituali.
Confondendo la verità con il modo di pensare, pregare, agire, bizantino, coronato dalla sintesi
palamitica, il teologo, l’uomo della Chiesa Ortodossa, in genere, diventa, più che il cattolico o il
protestante, il propagandista di quest’unica forma di spiritualità, polemista indiscutibile contro tutto
ciò che non si inquadra in questa posizione di parte e perfino marginale.
Premere sulla verità è forse più onorabile che sull’unità, a modo dei cattolici, o della
libertà, a modo protestante; il semplice fatto di preferirla, è un merito incontestabile. (Certo,
occuparsi della Carità sarebbe il massimo). Riuscire, però, a spogliare il contenuto rivelato dal
bagaglio sentimentale, emozionale, nazionale, provinciale, dei propri gusti, e soprattutto dal
fanatismo, è difficile per tutti; nella Chiesa Ortodossa, questo è impossibile.
In verità, il primo limite della teologia e della mentalità ortodossa (costantinopolitana) è
sempre la crudele assenza dei primi tre secoli cristiani, di pura Bibbia, Padri apostolici e sub
apostolici, dalla teologia diversificata, avversativa, quasi tutta “eretica” se confrontata a posteriori
con i decreti dei Concili ecumenici, Nicea et &. Questa affermazione è un luogo comune di tutti gli
studiosi. Chi mai, fra gli ortodossi che contano, può mettersi a pari di qualunque francese o tedesco
cattolico o protestante nella matassa storico-teologica non ancora elaborata del primo secolo
cristiano, per riprendere un qualunque discorso da capo, a prescindere dal progresso ulteriore, per
arrivare -forse- ad altri risultati che non quelli accettati? Il semplice sentimento che la Chiesa
Ortodossa sia basata sui 7 concili ecumenici, toglie qualunque chance a una alternativa. O alla
rivoluzionaria (?) idea che l’Ortodossia può e deve essere quella del primo secolo e non dell’ottavo.
Del resto, quest’ultima espressione, che ogni ortodosso la dichiara con orgoglio, è in realtà
la prova più chiara dell’incompiutezza della Chiesa Ortodossa. Una Chiesa dei 7 Concili, è la
Chiesa definita nel 325 e finita nel 787. Se perfino i 20 concili riconosciuti dai cattolici ed i
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centinaia di concili minori, messi insieme, rimpiccioliscono il tesoro dei Vangeli, non riuscendo in
nessun modo ad esprimere la ricchezza completa del Cristianesimo biblico, la dottrina ed i testi dei
7 concili possono esprimere solo una piccola base, neppure assai precisa, sulla quale deve essere
ancora costruita l’integralità della vita cristiana. I 7 Concili non hanno trattato se non la Teologia
della Trinità, la Cristologia, la Mariologia e l’Iconodoulia, non proprio complete. Dove è
l’Ecclesiologia ? La dottrina dei Sacramenti ? La Teologia biblica ? La Teologia della Creazione ?
Quella della Grazia ? L’Antropologia ? L’Escatologia ?
I teologi ortodossi si sono dovuti adattare, orecchiando ai latini, ai protestanti o lasciando
alcuni capitoli nel vago. Non è sembrato loro vero ricevere il Palamismo come una fonte di
riscrittura originale ed anticattolica di (quasi) tutta la Dottrina cristiana.

Conclusione: Cosa è la Chiesa Ortodossa? Uno splendido diamante, il più bello che esiste,
cascato nella polvere della strada. E nessuno è più capace di raccoglierlo e rimetterlo dove si merita.
È questa la vera sorte di tutte le Ortodossie, bizantina, copta, nestoriana, libanese, indiana, armena.
Con la differenza che le altre, continuando sulla via di un continuo martirio, sono destinate a
scomparire sulla terra ed a splendere più luminose ancora, in Cielo.

Come lo abbiamo detto altrove, però, la Chiesa Ortodossa, da un lato è un diamante prezioso
del mondo cristiano, ma da un altro e semplicemente una moschea battezzata, un islam batezzato,
pieno di musulmani battezzati ed inconvertibili.

Dobbiamo, però, puntualizzare una realtà che deve diventare evidente per tutti. Della
separazione di tutte queste Chiese da Roma, della perdita dell’Oriente da parte dell’Occidente è
responsabile esclusiva la Chiesa di Roma, con il suo apparato, con la sua curia, con l’ambizione dei
suoi popoli, con la non cattolicità delle sue concezioni teologiche, liturgiche e umane. A
prescindere dalle immense possibilità che ha avuto da sempre e che non ha mai usato pienamente.

Fermandosi sempre sulle proprie posizioni e chiudendo gli occhi di fronte alle proposte
altrui, usando il letto di Procuste per rimaneggiare i sistemi degli altri, la Chiesa di Roma ha gettato
le altre Chiese nell’isolamento ed essa stessa ha perso la reale cattolicità della sua teologia, della sua
liturgia, della sua stessa sensibilità nei confronti di Dio e dell’uomo.

Il vero peso dello scisma del 1054

Il momento 1054 rese universale uno dei più brutti gesti compiuti dai Capi delle Chiese
quasi dall’inizio della loro esistenza: la scomunica ed il dichiarare invalido o illecito ogni gesto,
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ogni respiro, ogni cenno dell’altro, in modo reciproco e con una passionalità diabolica, mai
incontrata nella storia delle religioni. La sorgente di questa bruttezza fu ed è sempre lo spirito di
parte, di gruppo, l’istinto di vendetta e di imposizione, che trovò nelle Istituzioni cristiane un
inimmaginabile materiale di sfruttamento dei più bassi istinti. I Capi prepotenti dovettero trovare
giustificazioni bibliche, a posteriori, stiracchiando oltre limite il significato di un gesto marginale
descritto da San Paolo in una delle sue lettere; o un espressione infelice di San Giovanni, di non
salutare l’eretico; il buon Apostolo non poteva immaginarsi che, da tutto il suo insegnamento, i
Capi delle Chiese imparassero proprio questo sublime, orribile gesto.
Se, all’inizio, furono rese invalide porzioni ristrette dell’Unica Chiesa, con le crisi delle
eresie condannate dai Concili, aree sempre più estese furono dichiarate “inesistenti” : ariani,
nestoriani, donatisti, pelagiani, monofisiti, monoteliti, iconoclasti, iconodouli, ecc. ecc…
Con il momento 1054, la scomunica fu reciproca e provenuta dai centri essenziali della
Chiesa Madre. Così, una metà della Cristianità, considerò inefficace, inesistente, invalida, l’altra
parte, con differenze di nuances. Dopo il 1960, la Chiesa Romana si decise di riconoscere come
autentiche le Chiese Ortodosse, permettendo l’intercomunione, almeno in caso di necessità.
Da parte ortodossa, invece, l’intransigenza rimase immutata e si radicalizzò. Intere parti
dell’Ortodossia non riconosce come valido il Battesimo cattolico (forse anche il protestante), anche
se eseguito secondo le regole trinitarie; non riconosce la forza della benedizione, Sacramenti,
Sacramentali, segno di Croce, Santi, miracoli, visioni, rivelazioni private dell’altra parte, pur
rubandosi avvicenda accenti teologici, gesti liturgici, stili di arte, modi di comporre libri, gesti di
diplomazia, ecc. ecc…
Così, ancora oggi, un buon ortodosso non può godere dei miracoli di Lourdes, o degli
splendori sacri del Rinascimento, di una Missa di Mozart o di una processione del Corpus Domini,
se non dal solo lato estetico. Altrimenti, è automaticamente scomunicato.
Viceversa, sono dovuti venire i tempi ecumenici perché un buon cattolico abbia il permesso
di entrare in una Chiesa Ortodossa, godersi del Pellegrino russo, o far sentire in San Pietro l’Inno
cherubinico di Bortnianski.
La piaga della scomunica segna la vita spirituale dell’ortodosso, oggi più che mai. Egli non
può godere di nulla dei beni cattolici o protestanti, non solo perché teme la scomunica, ma perché il
profondo della sua anima è stata impregnata dalla paura e dal disprezzo. Paura che si tratti di cose
diaboliche o semplicemente non valide. E disprezzo per tutto ciò che non è ortodosso. Il dramma si
è intensificato nel XXesimo secolo con la guerra dei calendari, giuliano e gregoriano che vide
scomuniche reciproche fra Chiese ortodosse, un attimo prima, unite in toto. Il comunismo divise
l’Ortodossia fra collaborazionisti ed esiliati, con le scomuniche reciproche. La Chiesa Romana si è
45

divisa come abbiamo già accennato fra Chiesa obbediente, Chiesa tradizionalista, Chiesa
sedevacantista ed altri gruppi in formazione. Anche qui, le scomuniche sono all’ordine del giorno,
più l’odio ideologico, con la nostalgia dell’inquisizione per tutti purtroppo sparita.

Nel 2017-2018, il mondo cristiano affronta l’Islam e la Sodoma - Gomorra delle nuove
legislazioni con questo tipo di anima, stupidamente lacerata.

COME ARRIVARE AD ATHOS?

Se si vuole venire all’Athos dall’Occidente, si può percorrere la rotta percorsa da noialtri:


per esempio con il treno (o con la macchina propria) fino a Brindisi, per imbarcarsi per
Igoumenitza e poi di nuovo con la macchina, ( o con il pullman greco di linea, il che è una specie di
montagne russe16), attraversando il nord dello Stato greco, sino a Salonicco. È importante trovarsi a
Salonicco, all’ufficio specifico di Polizia, perché si ha bisogno di certi documenti e di certe
raccomandazioni, senza le quali non puoi mettere piede legalmente sulla Sacra Montagna. Nei
nostri giorni, di libertà sempre più limitata, è ancora più difficile avere i permessi. Se sei ortodosso
o puoi dimostrarlo, te la cavi meglio, con un buon timbro da parte di qualche Vescovo. Ma se sei
cattolico o altro, le cose si complicano; ad ogni modo, le file, le programmazioni, i tempi lunghi
sono inevitabili. E non ti danno più di 4-5 giorni di visto. Ora, devi essere furbo, almeno come lo
siamo stati noi: e ne sarai ricompensato con settimane, mesi di permesso-se lo vuoi- e con tutti gli
onori. Se non sei capace di gesti simili, ebbene, resta a casa.

PERCHÉ TUTTO QUESTO?

Non perché si chiama “il Giardino della Madonna”, ti richiedono più di un „diamonitìrion”
per passare i controlli della polizia greca; ma per rispetto delle regole del luogo -è una clausura- e
per prudenti misure contro i ladri saccheggiatori e ricercatori di tesori.
Come in tutti i casi, le misure precauzionali servono a ben poco: i „pellegrini” sono, per lo
più, turisti, che non sanno e non vogliono rispettare in tutto le regole sacre; non partecipano alle
cerimonie; e -puoi giurare- non sanno farsi il segno della Croce „alla bizantina”, per compiacere
all’occhio vigilante del monaco „ortodosso”. Il quale si vendica come può: nel bel mezzo della

16
?
O, se vuoi un paragone più poetico, tieniti questo: ”Ella sen va notando lenta lenta/ rota e discende, ma non me
n’accorgo/ se non che al viso e di sotto mi venta.” Inferno, XVII,115. Mi dicono, però, che oggi, dopo il 2009, quella
pericolosità è stata sostituita da una comodissima superstrada, in cui, i pericoli saranno altri.
46

Sacra Liturghia, ti senti preso per manico e invitato senza indugio ad abbandonare la chiesa; nel
migliore dei casi, ti si permette di restare vicino alla porta.
L’ospitalità, invece, è tutt’altra cosa: è sacra; e, proprio per questo, gratuita. È di norma che
ti si offra, all’ingresso di ogni convento, una bevanda, un dolce, il pasto del momento e un letto; non
fai male, però, se lasci un’offerta. La tassa minima che versi per avere i timbri necessari serve per
ricordarti ciò che il buon senso comanda: di non approfittare e di essere generoso.
Nei tempi della Madonna, a cui è intestata la Sacra Montagna, non c’era il diamonitirion,
neppure i controlli della polizia greca e tantomeno il consiglio dei saggi che oggi stabiliscono il
numero dei giorni permessi per la visita. Ma questo è come dire: “Ah! Quando per esempio/
cantava Caffariello / quell’aria portentosa, la, ra, la, la, la, la…… “

COME È L’ATHOS ?

Athos è una delle 7 meraviglie.


Com’è ? “Quale splendor vibrato da natura immortal su queste arene di sovrumani
fati di fortunati regni e d’aurei mondi”.17 Magari, leggiamoci il succulento diario di viaggio di
Padre V. Vannutelli, “La penisola monastica del mar Egeo, soggiorno di un mese al Monte Santo
di Macedonia”, Roma, 1888. Chi ci va e non prova una continua estasi, è cieco.18
Scendiamo però nella geografia. Meglio guardare una cartina per vedere come, dalla testa
nordica della Grecia macedone, sorge una forchetta ch’era in possesso del vecchio Athos, - un dio
assai disperato della vita-. Questi diede il suo nome all’ alto monte che sovrasta tutta la posata, (cioè
la penisola Chalkidiké) e sopravvisse per vedere il suo podere occupato dai monaci cristiani, gente
disgustata dalla corruzione del mondo o in ricerca di un conforto spirituale.
Tenterò di dare dettagli sulla storia e sull’arte della repubblica monastica dell’Athos, col
rischio di concorrere le enciclopedie, avare in materia; ricordo che essa si trova nella propaggine più
orientale delle tre piccole penisole : Acte, (Athos), Sithonia,(Sichea) e Pallena, (Kassandra), che si
allungano nel mare Egeo come tre dita della strega Calcidica, nella Macedonia greca. Lì, appunto, si
alza troneggiante il monte Athos, che coi suoi 2033 metri impera sul piccolo promontorio percorso
per tutta la lunghezza da una dorsale calcarea. Essa raggiunge l’estremo meridionale fino al monte-
padrone e precipita sul mare in ripidi pendii.

17

?
Leopardi.
18
Veramente, i diari sull’Athos sono tanti, ma io vorrei indicare solo i non convenzionali. Vedi anche Padre Gaudio da
Massa, cappuccino, Una visita al Monte Athos, appunti di viaggio, Roma, 1928; G.Hofmann,SJ., Die Jesuiten und der
Athos, Roma, 1939; M.Basil Pennington OCSO,O Holy mountain, N.York,1978.
47

Gli antichi, per mettere in risalto l’altezza dell’Athos dicevano che chi stava in cima vi vedeva il
sorgere del sole tre ore prima di quelli che stavano in basso, nella sua parte orientale. Veramente
essi credevano pure che sulla cima dell’Athos si alzava una città nella quale gli uomini vivevano il
doppio degli altri.
Ebbene, questi pendii, protesi verso l’acqua, ospitano gli edifici della grande e ancor viva colonia
monastica, ora costituita come repubblica autonoma, integrata in territorio greco. Di una superficie
di 339 Km, separata dal resto del mondo da uno stretto istmo di circa 1300 m di larghezza, la
“colonia religiosa”, come la chiamano i manuali di scuola, vive su un territorio privo di risorse
agricole, roccioso ed impervio. ( Ci si consola però con i fitti boschi di querce e di castagni, con lo
spineto mescolato ad avellani, cedri, olivi e gelsi, che ci hanno offerto le loro foglie da mangiare
lungo un nostro smarrimento di 6 ore, da un monastero all’altro). Puodarsi che proprio per questo, il
promontorio è diventato una terra benedetta: da una parte, con la sua natura ancora non inquinata,
con il suo verde inconfondibile; da un’altra, attraverso l’impegno spirituale degli abitanti, i monaci
ed i loro simpatizzanti, che creano il minimo necessario per una vita trasparente di spiritualità;
modesti orti di frutta e legumi, piccole vigne e seminagioni. Sono così alte le intenzioni, sono così
profondi gli scopi, gli ideali ed i mezzi vi usati, che puoi anche non vedervi difetti e ombre.

Per la solita ironia della storia, la montagna -diventata santa e giardino della Madonna-, fu
un vero centro di santità per i vecchi greci, pagani, che sul monte in questione adoravano il dio
Athos, la cui superba statua, dicono, si adornava di una corona con diamanti che brillavano da
lontano. Il dio era circondato da dii minori, su questa vera „abitazione degli dei”, frequentata con
devozione da folle speranzose e curiose del futuro.
Mah! A sentire certe voci, la penisola del Monte Athos sarebbe stata la più popolosa delle
tre dita calcidiche che graffiano il Mar Egeo. Per star vicine alle pompose feste ed alle processioni
che ogni anno si organizzavano in onore degli dei, si faceva scendere la grande statua dell’Athos
dalla cima della montagna su una cuspide ben più modesta, il monte Cleonico, ( o Eleonico), di 800
metri. Col tempo, le genti avrebbero formato colà 7 città, oltre a un infinito numero di villaggi di
greci, mescolati a traci.
Le 7 città principali, (di cui 5 ricordate da Erodoto19) sarebbero state collocate nei siti sui quali
troneggiano oggi vari monasteri:
Dionipoleos sul luogo dell’attuale monastero Vatopediu;
Olofix, o Olofisso, che hanno offerto il posto a Filotheu;
Acrotoo, o Uranopolis, sul luogo della Provata
19
Erodoto, Storie, VII,22.Trad. it.Ed. Sansoni,1967, pag.323.
48

Nimphiopolis prima di Aghia Lavra


Thissos a Prodromou
Eleonias, o Cherasea, vicino alla cima dove più tardi sarebbe stata costruita la cappella del Profeta
Elia.
Dephtero-Cleonias sul sito del futuro Aghiou Pavlu. Lì si trova ancora oggi una torre sulla riva del
mare ed una pietra su di essa, con l’iscrizione: Dimi Athenodorou.
Tucidide, per conto suo, ci racconta che “queste città sono abitate da vari popoli barbari biligui20 e
da una piccola minoranza calcidica, mentre la maggioranza è pelasgica, di quei tirreni che una
volta abitarono Lemno e Astene. Inoltre vi sono Bisalti, Crestonesi ed Edoni, sparpagliati in piccole
cittadine”. Nelle loro guerre fratricide, i Diesi occuparono Tisso aull’Acte, punta dell’Athos, alleata
degli Ateniesi21.
Ehi, sì, matheotis, matheotitou vale anche per gli dei. Inutile il Monte Eleonico, inutile il
tempietto, inutile la statua di Athos, che facevano scendere in autunno, per la festa. Sant’Elia
rimpiazzò il superato idolo; la cappella del grande viaggiatore, mandante tuoni dalla carrozza di
fuoco, rimpiazzò il tempietto del falso dio.

La penisoletta del Monte Athos è lunga 45 km. A leggere Erodoto, l’istmo Ierissos (Xerxe)
che la lega alla Macedonia, aveva 12 stadi ed è stato tagliato all’ordine di Serse, l’Imperatore dei
persi, nel 482, per far passare la sua flotta a Cavala, ( il vecchio Neapolis) e per evitare alla flotta
persiana le tempestose acque del capo Akrathos. I persiani di Dario avevano assoggettato varie tribù
greche, più i macedoni e i Tassi. ”Da Tasso, muovendo oltre, costeggiando il continente, giunsero
ad Acanto. Compivano la circumnavigazione dell’Athos. Ma un vento di Borea, possente ed
irresistibile piombato loro addosso, mentre compivano il periplo, conciò assai male molte delle
navi, gettandole contro l’Athos. Si dice che circa trecento siano state le navi perdute e oltre
ventimila gli uomini, tanto che, essendo questo mare attorno al Monte Athos molto ricco di grossi
pesci, alcuni morirono afferrati dai pesci, altri sbattuti contro le rocce. Quelli che non sapevano
nuotare morirono già per questo motivo, gli altri perirono di freddo.”22
Tale sorte ebbe l’armata navale. L’esercito fu distrutto dalla tribù dei Brigi. Così, con questa
spedizione, dopo aver ingloriosamente combattuto, dopo il disastroso naufragio al promontorio
dell’Athos, Dario si ritirò,(nel 492, a.C.). “Pur avendo seicento triremi, non vollero più far rotta
lungo il continente, direttamente verso l’Ellesponto e la Tracia, ma muovendo da Samo e
oltrepassando Icaro e attraverso le isole facevano rotta, a quanto io credo perché temevano al
20
Greco e tracico, che alcuni studiosi fanno coincidere con il troiano, non lontano dal latino. Poche prove, ma è chiaro
che i tracci scendevano fino in Athos, questi antenati degli albanesi e dei romeni.
21
Tucidide, Storie, V,3,35, ed Sansoni, pag.684ss
22
Erodoto,Le Storie, 44.
49

massimo grado il periplo dell’Athos, dato che nell’anno precedente navigando per di lì, avevano
ricevuto un grande colpo”.23
Dario morì nel 486. Gli successe il figlio, Serse che, domata una rivolta in Egitto, si decise
di ritornare per macellare l’Europa. Si mosse contro la Grecia con, in mente, la folle idea di scavare
l’istmo del promontorio dell’Athos e costruire dei ponti sull’Ellesponto. Siccome il grave danno di
suo padre, Dario, si è verificato nel circumnavigare l’Athos, il figlio di Dario fece preparativi per tre
anni, per la zona dell’Athos. Obbligò allo scavo schiavi di ogni sorta, anche quelli che abitavano
nelle regioni dell’Athos.
Erodoto ammira l’astuzia dei fenici, che, a differenza degli altri, lavoravano con più
saggezza e meno fatica. Poi aggiunge: “A quanto io sono riuscito a scoprire con le mie congetture,
per orgoglio ( il barbaro) Serse comandò di compiere questo scavo, perché voleva far mostra di
potenza e lasciare un suo ricordo. Infatti, mentre era possibile, senza alcuna fatica, far passare le
navi attraverso l’istmo, comandò di scavare un canale fino al mare, di una larghezza tale che due
triremi spinte a remi potessero navigarvi contemporaneamente. Agli stessi schiavi fu imposto anche
di gettare ponti sul fiume Strimone. Preparava per i ponti funi di papiro e di leucolino… e faceva
raccogliere vettovaglie per l’esercito, perché non avessero a soffrire, né le truppe, né le bestie…
Così l’armata navale compì la navigazione attraverso questo canale scavato nel monte Athos, che
sboccava nel golfo nel quale si trovava la città di Assa e Piloro, Singo e Sarte24.
Altre bocche raccontano che il pagano aveva tagliato l’istmo per vendicare suo padre, che si
è salvato con poche guardie e una suite, lamentandosi che il vento che ha rovesciato e distrutto le
sue navi proveniva da sud-ovest, passando sulla cima del monte Athos. Per vendetta contro la cima
o contro il dio di questa cima, Serse avrà ordinato che fosse rasa al suolo. Con grande fatica, i
soldati hanno sbriciolato una decina di metri della punta. Delusi, i persi si sono messi ad isolare la
montagna, scavando il canale che porta ancora il nome del famigerato.
Certo, il gesto è stato folle, ma più folle l’Imperatore stesso, che dal 486 a 465 ebbe tempo di
reprimere le rivolte della Babilonia e dell’Egitto, da lui invase, ma non riuscì a vincere i greci a
Salamina, (480 a. Cr.), nella seconda guerra medica. Fu vittima degli intrighi di palazzo e
assassinato, il ché è gesto assai moderno, commesso sempre da chi prima di uccidere, adora ed
inganna il tiranno di turno.
(Racconto tutto questo, per far capire che l’antico Athos non lasciò dei buoni presagi agli
abitanti del suo futuro).25
23
?
Erodoto, Le Storie,VI, 45,95; idem, pag.285,299.
24
Erodoto, VII, 122.
25
Un greco, sembra, apostata dal Cristianesimo, Vassilis Alexakis, ha scritto un romanzo: “Après J.C”, Parigi, 2007.
Ironizza Athos, ma soprattutto porta nostalgia all’epoca pre-cristiana ed agli dei. Molte informazioni validi su Athos,
che non ho riportato in questo libro. Da leggere.
50

Il fortunato istmo fu rinchiuso, ma riaperto da Traiano imperator; fu, in seguito, ri- ostruito
per sempre.
La cima più alta, quella di 2033m, si vede da ogni parte e ti impressiona. Ora parlo di cose
che non ho visto: vicino alla sommità si trova la chiesetta della Metamorphosi, 7 metri lunghezza,
nella quale sono esposte per la venerazione 3 icone di ottone: Gesù, Maria, e la scena della
Trasfigurazione: tutte piene di buchi a causa dei fulmini: (incredibile, Sacre Icone sempre
fulminate!). Fuori, una fontana con cisterna d’acqua, per i visitatori.
La cima è calva, la sua bellezza non ha nulla da invidiare alle Alpi. Però, con tutto il rispetto per il
monte, non ha mai fatto parte dei nostri itinerari. Non perché non saremmo stati dei buoni alpinisti,
ma i giorni di permesso e l’ideale di vedere i grandi monasteri, non ci permettevano di pensare alla
cima dell’Athos.
La seconda cima, più bassa di 2-300 metri, nasconde, ai suoi piè, una cappella dedicata alla
Panaghia - La tutta Santa Madre di Dio- una kathisma- e delle casette per il riposo dei pellegrini,
più una cisterna per l’acqua potabile.
Aldilà di questo, foreste vergini, sorgenti meravigliose, acqua potabile da montagna,
paesaggi paradisiaci, povertà mediterranea, ambiente di contemplazione.
Il clima? Pieno di sorprese: freddo-caldo, neve e calura vanno insieme di estate. In aprile, in
certi posti abbiamo sofferto il freddo. Chi ha problemi di clima e di temperature, si ricordi che sentir
freddo o caldo non è questione di geografia, bensì di psicologia.

LA VISITA DI MARIA SANTISSIMA

La fama di tanto affollamento di città e di gente antica devota agli Dei è seriamente sospetta,
vista la ricchezza delle foreste ed il silenzio maestro della montagna, la cui solitudine non è stata
turbata neppure oggi, con tutto l’affollamento dei monaci e dei turisti. Ci deve essere stato, dunque,
qualche tumulto, qualche sciagura che ha annientato la vita sociale della penisola, o, meglio, un
sogno, una fantasia dei cronisti in cerca di fatti raccapriccianti da raccontare.
La questione si complica se si dà la colpa dello spopolamento dell’istmo.... alla Madonna.
Una storia che ho scovato personalmente in un antico libro, stampato dai monaci, (storia pubblicata
e forse ampliata dal futuro Santo, Nicodemo l’Aghiorita)26, racconta che la Beata Vergine, per il
desiderio di rivedere un vecchio amico, il Lazzaro, (quello, risorto il quarto giorno), diventato, nel

26
Vedi avanti il capitolo dedicato a questo santo autore: “Un santo monaco dell’Athos ricopia sant’Ignazio di
Loyola”.
51

frattempo, vescovo di Cipro, si mise in viaggio, accompagnata da San Giovanni, (l’Evangelista ed


Apostolo) ed altri discepoli (di quei 70 che il Signore aveva scelto in un secondo turno).
S’imbarcarono in segreto su una nave, la quale, per una sopravvenuta tempesta, stava per
naufragare. Per le preghiere di Maria Santissima, il battello fu portato dai venti alla riva. E la riva fu
quella dell’Athos, nel luogo chiamato „di Clemente”, dove oggi si alza il monastero dell’Iviron.
Quando scesero dalla nave, rimasero stupiti dalle folle che venivano loro incontro per salutarli,
venerarli, baciarli. Come avevano saputo della visita misteriosa della Madonna e come l’hanno
riconosciuta, per venerarla?
Ebbene, all’avvicinarsi della Madre di Dio, i demoni che dominavano la montagna, (nessuno
stupore: i vecchi dei, falsi ed inesistenti, sono dei veri demoni, o no ?) cominciarono ad urlare, a
provocare venti, tempeste, agitazione. La bufera finì con la caduta delle statue degli dei dagli altari.
Fu un vero disastro. La gente sentiva questo grido: “arriva lei, per rovinarci, siamo perduti, eccola,
alla riva di Clemente”.
La Beata Vergine, scendendo dalla nave, si vide davanti una folla inginocchiata, che la
accoglieva con affetto. Lei benedisse tutti e si mise ad insegnare loro la Fede, aiutata dai Santi
Discepoli. Fece perfino ordinare sacerdoti e consacrare anche un Vescovo. (Se ci sentisse il
Cardinale, Segretario di Stato, o, peggio, quello della “Fede”, ci manderebbero almeno un
avvertimento, per questa informazione in odore di eresia!)
La Beata Vergine Maria promise la sua speciale intercessione per quei luoghi, profetizzando che un
giorno sarebbe sorto lì un vero giardino sacro, un vero regno di conventi, tutto per soli maschi,
consacrati a Dio.
Ehi, sì, la Beata Vergine. Non sta nel destino delle vere, grandi personalità, ricevere questi onori in
vita.
Quindi passando la vergine cruda
Vide terra nel mezzo del pantano
Senza coltura e d’abitandi nuda……27
(L’episcopato di Lazzaro e il suo martirio in Cipro appaiono raccontate nell’Omelia di Giovanni d’Eubea, nel
774. Il racconto fu consacrato come storico verso il 900 sotto l’Imperatore Leone VI il Filosofo, quando costui fece
trasferire a Costantinopoli le reliquie pretese del Santo di Betania, trovatesi a Kition in Cipro.
Ma il fatto che nessuno ne parla nei primi secoli, neppure Sant’Epifanio-vescovo in Cipro, nel IV secolo-rende poco

probabile la notizia).

Quando la persecuzione arrivò anche in Athos, il terrore svuotò le città per il numero di
martiri e fuggiaschi, ma non annientò il desiderio di tenere come santo e dedicato a Maria

27
Dante.
52

Santissima questo lembo di terra. La zona ritornò pagana e si riempì di nuovo dei vecchi cultori
degli dei e delle processioni in loro onore, fino all’arrivo, sul Trono di Roma, del Santo Imperatore
Costantino il Grande.
L’Imperatore, venendo in forze e appena convertito a Cristo, ebbe la visita della Madonna in sogno;
la quale gli avrebbe detto:
-Ti ordino di deportare tutti gli abitanti, ( gli tzakonni) della zona, perché il Monte Athos
deve diventare il mio giardino sacro.
(Certamente, non prenderete sul serio questa diceria, altrimenti offendiamo la Madonna! Io la
trascrivo qui, per mostrare certe mentalità). Dal canto suo, l’Imperatore Costantino era specialista in
sogni celesti- Ponte Milvio ce lo insegna-; e, per realizzarli, non ci pensava due volte. Ma posso
giurare che questo sogno non l’ha avuto. Dietro qualche altro suggerimento, ordinò (forse) il
trasferimento della popolazione in una regione ricca e aerata, per esempio, in Peloponneso. Ma
quelle genti, incolte e sgarbate, non capirono l’eleganza del gesto di Sua Maestà e si misero a fare i
resistenti ed i partigiani ante terminem, contro l’esercito esecutore. Non volendo impicciarsi con la
guerriglia, (non c’è nulla di nuovo sotto il sole!), l’Augusto Dominus ac Deus decretò il blocco
della penisola. E ciò che non gli riuscì con le armi, gli riuscì con la fame. Dopo che finirono tutta la
cacciagione, i resistenti si arresero.
Non ci fu una gran rappresaglia, se ci mettiamo a paragonare; però gli uomini d’armi furono
mandati contro i Persi, in Asia; mentre le famiglie finirono intorno ai monti del Pindo, sul fiume
Penée, nell’attuale Albania. In seguito, le città, le fortezze, i villaggi, i monumenti, tutto fu raso al
suolo; e la penisola dell’Athos rimase in eredità alle bestie selvatiche, per più tempo. Come vedete,
gli ordini furono assai miti.
Intanto l’Imperatore Costantino, che in seguito sarebbe diventato Santo e simile agli
Apostoli, (almeno, secondo il calendario bizantino), avrebbe fatto costruire tre grandi conventi-
fortezze: il Constamonitou, nel 320, il Prothaton, nel 337 e il Vatopediou, che visiteremo insieme,
a Dio piacendo. Uspenski, senza troppe prove, sostiene che l’Imperatore Constantino II Pogonato,
(641-68) invitò dei monaci, fuggiaschi davanti all’orgia araba, a stabilirvisi. Non è impossibile che
siano stati esuli in quell’epoca, ma proprio perché esuli, non hanno organizzato nulla di stabile. 28
Ascoltando queste storie, guardi il deserto boscoso del Monte Santo e ti chiedi: è mai
possibile che questa natura incontaminata sia stata così affollata e attiva? Del resto, tutta la storia
pagana e cristiana dell’Athos, fino al secolo IX è considerata dagli studiosi come un cumulo di
leggende e storie pie, inventate per giustificare e per rendere ancora più importante l’attuale stato
monastico. Con altre parole, San Costantino, Teodosio, il Pogonato, Basilio I, con le loro chiese e

28
Per molti dettagli mi sono appoggiato a un libretto manoscritto del giovane Padre Ioan Dimulescu, Bucarest, 2000.
53

decreti non c’entrerebbero con l’Athos. Può essere, invece, tutto vero, non ci sono sufficienti
testimonianze per infirmare simili sconcertanti storie, come è vero anche per la storia di Troia, di
Romolo e Remo e di tutti gli eroi della mitologia.
Per quanto li riguarda, i monaci pensano sinceramente di aver trasformato il luogo in un
“giardino della Madre di Dio”, in un Monte Santo, (Aghion Oros), e così lo conoscono tutti. Perciò,
mettiamo il caso che il viaggio di Maria Santissima, nei suoi giorni terreni, è stato solo un pio sogno
di qualche monaco (in crisi). Ma abbiamo molte prove che la Genitrice ha visitato la Sacra
Montagna in un altro modo, perché da quando è stata assunta con il corpo in cielo fa questo ed altro.
Lei visita l’Athos come ha visitato Roma il 5 agosto, con le nevi, o Lourdes o Fatima…; come
visita migliaia di posti e anime che la amano. La presenza, anche fisica, della Beata Vergine si fa
sentire in modo evidente nella Sacra Montagna. Non fosse altro che attraverso le sacre Icone
miracolose, che piangono, trasudano olio, parlano, appaiono nei sogni, minacciano, scompaiono,
salvano, guariscono... Visite di altro genere non sono documentate.
È vero, ci sono anche gli episodi privati. Maria Santissima apparve molte volte al giovane Dimo,
per salvarlo da vari pericoli e per chiamarlo alla vita monastica in Athos. Più volte era stata
preceduta da un giovane splendente, un Arcangelo. Ambi gli fecero vedere il futuro prossimo,
perfino le scene del suo primo viaggio a Ouranopolis. In compenso, vennero anche i demoni, per
tormentarlo. Queste esperienze mistiche e la sua lotta per la perfezione fecero di lui il monaco santo
e famoso, Isichio l’Aghianita, cioè di Sant’Anna.29
Padre Ierotheo di Dionisiou, ebbe, in un periodo di Quaresima, visioni di luce, un vero sole
splendende che sgorgava dall’amatissima Icona di Maria che possedeva. Le estasi duravano tre-
quattro ore per volta.30
Senza disturbare la fantasia dei monaci, ne abbiamo, dunque, degli episodi autentici, provati
dall’esperienza di molti pellegrini. D’altro canto, non ci devono scandalizzare le sopraricordate
informazioni insostenibili sui capricci della Madonna o sulla rabbia del Santo Imperatore,
Costantino. Non c’è traccia di simili gesti negli armadi della Storia. Qui il lavoro della fantasia di
qualcuno è più evidente che altrove. Ricordiamo queste sceneggiature, solo per capire come è
penoso far scendere il livello dei Celestiali a quello della viltà umana. E, soprattutto perché, in
Athos, queste storie sono più difese del Vangelo stesso, sono la prima pietra dell’edificio.

ED ARRIVA SAN PIETRO L’EREMITA

29
Vedi la sua intervista in Damaskinos, Padri dell’Athos, op.cit. pag.93ss.
30

?
Dal libro del Padre Stefanos Anagnostopoulos, “La spiegazione della Santa Liturghia”, trad. rom. ed. Bizantina,
Bucarest, 2005, pag.428ss.
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Sotto lo Giuliano l’Apostata, (361-63), i monasteri furono distrutti. La montagna ritornò


alle bestie selvatiche ed agli uccelli rapaci. Ma, un giorno arrivò qui un uomo, un ex-capo militare,
tornato per miracolo dalla prigionia dei persi, dove, nello squallore della cella, si era ricordato di
aver giurato in gioventù di diventare monaco; invece, si era sposato ed aveva indossato la divisa.
Incatenato nella fossa, pianse, chiedendo il perdono; e la risposta venne: fu liberato
miracolosamente dal Santo Simeone lo Stilita e da San Nicola di cui era devoto. Ma non tornò più a
casa, bensì corse a Roma nelle mani del Papa Damaso, (sic!) chiedendogli di accettargli i voti. Il
Papa lo accontentò, lo consacrò, e lo fece chiamare Pietro. Però, dopo la cerimonia, lo mandò a
casa, dandoli un canone -sembra con minaccia di scomunica,- se, prima di ritirarsi in qualche
convento o deserto non fosse andato in famiglia, per rivedere e rassicurare i suoi. Ma, come spesso
succede quando non hai voglia di prestar fede ai giuramenti, sulla nave, il nostro Pietro ebbe un
sogno: la Madonna gli chiese di andare sull’Athos, per organizzarvi la vita monacale,
promettendogli ogni appoggio e miracolo.
Di nuovo la Madonna!
Il monaco novello implorò il capitano di avvicinare la nave alla riva che ancora oggi porta il nome
di Karavustas, cioè „Lì si è fermata la nave”. E lì scese. Rimasto solo in quel deserto, trovò una
grotta, dove si fermò e passò il resto della vita, in preghiera e penitenza.
Non organizzò nulla. Santificò la terra con la sua vita santa. Alla fine, trovato da un
cacciatore smarrito, gli raccontò la sua storia e morì nelle sue braccia, il giorno 12 giugno di chi sa
quale anno e di chi sa quale secolo!!!!
Il pover’uomo, lo seppellì con devozione, poi mobilitò la gente della sua città, ed in pochi anni, per
la fama di santità del nostro Pietro, la montagna si riempi di piccole celle, scete e conventi, che nei
secoli diventarono la Repubblica di monaci santi e meno santi che ora ci accingiamo a visitare.
Spero che vi immaginiate, non può piacermi del tutto questa biografia, se, Dio non voglia, è esatta.
Non posso ammirare un uomo che abbandona moglie e figli, senza il minimo scrupolo di avvisarli,
fosse per il miglior degli ideali. Eppoi, fare questo, disobbedendo apertamente a un Papa.
Mi direste:
- Ma è stata la Beata Vergine.
Ehi, sì. La Madre del Signore che ordina l’abbandono di una famiglia innocente e la
disobbedienza -dopo aver fatto esiliare una massa di gente, terroristicamente separata-. Vede rosso
quando una femmina, fosse una gallina o una principessa, tocca il suo giardino, come avrò modo di
raccontare..... Io penso che qualcuno ha confuso le visioni.
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Eppoi, questo Pietro è vissuto nel IX secolo e non nell’VIII, come scrive il monaco Nicola e
tanto meno nel IV, il secolo di Papa Damaso. Ma ci voleva un fondatore precursore di
Sant’Atanasio, per difendere la vita eremitica e solitaria, davanti alla vita cenobitica ed organizzata
che si stava affermando, in nome del secondo.
Aldilà di questi dettagli, la vita di San Pietro nella grotta fu veramente sovrumana; in questi
casi, Dio Stesso sorvola sui gesti meno umani o troppo umani, immancabilmente presenti nei
migliori degli uomini, (eccettui Gesù e la Madonna). Così Pietro divenne il patrono dei monaci
idioritmici, solitari, mentre Sant’Atanasio, patrono della vita comunitaria, (cenobitica), dentro i
grandi conventi.

Sant’ ATANASIO L’ATHONITA

Il grande fondatore nacque circa il 920 a Trebisonda, (oggi Terabron in Turchia), la città
dove, più di mille anni dopo, sarebbe stato ucciso un sacerdote italiano, tanto rimpianto in questi
giorni, mentre scrivo queste righe; (febbraio, 2006), ma la famiglia di Atanasio era di Antiochia.
Dopo le scuole nella città natale, si recò, per studi superiori, nella capitale, e strinse una viva
amicizia con l’egumeno31 del monastero di Kyminas, Michele Maleinos e con il generale- eroe,
Niceforo Fokas, nipote del Maleinos, divenuto in seguito Imperatore. Lasciò la cattedra di
professore nel 958, e si ritirò, prima nel monastero del suo amico; e poi, per poter vivere da
eremita e per sfuggire agli onori, si nascose in Athos, dove un certo Stefan, il superiore di ciò che
era l’Athos in quell’epoca, gli aveva sistemato una cella. Ma l’amico, Niceforo, lo scoprì e lo
pregò di seguirlo nella spedizione contro i Saraceni, a Creta, nel 960. In ricordo dell’ottenuta
vittoria, l’amico insistette nel dargli i fondi per costruire un monastero dedicato alla Santa Vergine
sul Monte Athos: il primo convento esistente, con regola cenobitica e con un solo igoumenos32.
Atanasio scelse il luogo dove oggi si trova il monastero della Grande Lavra. Come anno di
fondazione di questa prima comunità -Lavra- fu contato il 963.
L'origine della Grande Lavra coincide con le origini stesse della vita monastica organizzata
all'Athos, fondata proprio nei tempi dell’Impero cristiano orientale bizantino, in rottura con
l’Occidente.
“Avvenimento di grande importanza”, dice Giorgio Fedalto: la fondazione della “Lavra” di
Atanasio sul Monte Athos diede l’avvio alla colonizzazione monastica della penisola. Prima di
questo gesto, essa era abitata solo da asceti solitari ed eremitaggi di sparuti gruppi di monaci,

31
O egumeno, egumeno, staretz, superiore, abate
32
Il termine greco trasletterato.
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federati sotto la direzione di un capo; ma il 963 segnò l’inizio di una serie di fondazioni celebrate
e resistenti nel corso dei secoli.
Il termine “lavra”, in origine, non indicava un monastero, ma un insieme di abitazioni monastiche
indipendenti che facevano capo a una chiesa comune. Questo modo di vita è patronato in Athos,
appunto, da San Pietro l’eremita. Quando Sant'Atanasio creò la sua fondazione, già esistevano in
Athos dei raggruppamenti a modo di lavre. Da qui si spiega il nome di Meghisti Lavra, "la più
grande lavra", benché in seguito sia rimasta la sola a conservare questo nome, e lo conservò
nonostante che sant'Atanasio le abbia dato la struttura e la regola di un monastero cenobitico,
comunitario.
Atanasio preferiva la solitudine ma non fu lasciato, per la fama delle sue doti di Padre e di
illuminato legislatore, alla San Basilio. Divenne direttore di monaci e di monasteri. Nel 963 si
nascose di nuovo per sfuggire agli onori derivanti dall’amicizia con Niceforo, diventato oramai
Imperatore ed anche sposo contestato dell’Imperatrice vedova. Athanasio provò soprattutto
rabbia, perché la scelta di Fokas gli era sembrato un tradimento: non avrebbe promesso che si
sarebbe fatto monaco? Non aveva ordinato una cella per lui nel nuovo monastero? La delusione lo
spinse a correre al Palazzo imperiale e rimproverare il vecchio amico, oramai Basileo, di aver
preferito gli onori ed il potere alla santità per Gesù Cristo. Fokas non si offese, anzi, si difese con
tutta l’umiltà, promettendo all’amico monaco di non abbandonare la vita devota e di vivere da
fratello con l’ imperatrice. Fece tornare Atanasio nella sua montagna, arricchito di regali per i
monasteri, dopo averlo convinto che lui, Fokas, ha fatto tutto, solo per il bene dell’Impero e della
Chiesa. Parlando con gravità, Sant’Atanasio doveva seguire la sua chiamata; ma se fosse rimasto
vicino all’amico, come consigliere spirituale nel Palazzo, forse lo avrebbe avvertito del pericolo
mortale che lo avrebbe raggiunto dalla direzione della moglie e del nipote; e gli avrebbe salvato la
vita. Perché non l’avrà capito? Perché anche lui ha preferito il romanticismo delle foreste alla lotta
con i draghi del mondo.
Athanasio tornò in mezzo ai frati, per l’insistenza e le lacrime dei monaci. Fece attrezzare un
porto sul mare per facilitare la comunicazione fra i vari monasteri e stabilì il centro a Karyé, come
sede del Prothos33 e della Iera Kinothita, (Sacra Comunità). Iniziò la costruzione di ciò che
sarebbe diventata la Megali Lavra, e, quando i monaci si moltiplicarono a più di 80, fece costruire
più a Nord la chiesa di San Giovanni l’Evangelista. L’Imperatore, l’amico Fokas diede fondi,
emanò documenti, istituì privilegi e confermò la prima costituzione teocratica del Monte Santo,
emanata da Atanasio nel 972.

33
?
Cioè il primo, il più importante, il capo, il quale oggi è Arcivescovo e Superiore generale del Santo Monte e risiede
presso la Sacra Epistasia di Karyé.Da qui la basilica Prothaton.
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Con tutto ciò, al Santo non gli mancarono contrasti, odi, invidie e rivalità da parte dei nemici ed
amici, minacce di morte, che lo ferirono nell’anima e lo turbarono. Un giorno, mentre lavorava
fianco a fianco, non da superiore, ma da fratello, per la costruzione di una capriata della chiesa,
(che sarebbe diventata il katholikon della Megali Lavra, la madre dei conventi dell’Athos), fu
travolto da una trave assieme a cinque monaci … e morirono tutti schiacciati. Correva forse il
1003. Aveva acquisito la fama di guaritore e di uomo del miracolo. Infatti, una fonte miracolosa
scaturì dietro le sue preghiere e la tomba, sempre lì, diventò sorgente di grazie celesti.
Non è un finale bello, il suo; la morte precipitosa è offerta, in genere, a chi Dio ama e cura in
modo speciale, ma deve salvare da un errore di cui il soggetto non se ne accorge, o al quale non sa
rinunciare. Rimangono i fatti: una repubblica teocratica di gente che tende a raggiungere il cielo.

Ora, dopo aver ricordato tutto questo, riportiamo anche ciò che molti studiosi considerano i
due veri motivi del moltiplicarsi qui, intorno al monastero di Sant’Atanasio, dei luoghi di
preghiera e di ritiro dei monaci: prima di tutto, perché l’ideale cenobitico, restaurato a Stoudion e
riproposto all’Athos, era interessato alla politica ecclesiastica, in costante confronto o, meglio
dire, conflitto con la gerarchia. Questo spostamento topografico dei monasteri lontano dalla
capitale conveniva ad ambo le parti. Il secondo motivo è dovuto alle incursioni musulmane in
Bitinia e attorno all’Olimpo, che spinsero i monaci verso questa zona riparata e rivelatasi in
seguito benedetta. Era finita la poesia dei deserti dell’Egitto e della Palestina, della Mesopotamia
e del Caucaso, regni di monasteri e di avvenimenti cristiani unici; ma si apriva un altro giardino
che avrebbe resistito alle successive caligini.
Gli inizi, con dei piccoli conventi dalle regole non molto rigide, sotto la guida di un Prothos,
furono dunque trasfigurati dallo stesso Atanasio, che, fuggito da Trapezunda, diede loro una
regola un po’ studita, un po’ benedettina.

COSÌ SI ENTRÒ NELLA STORIA

È suggestivo il fatto che il Monte Athos entri nella storia religiosa nel periodo fra i due fatti
tremendi di scisma fra le due Chiese: 867 e 1054. E si alimenta dell’atmosfera dell’Impero
Orientale, l’Occidente entrando nella sua vita piuttosto attraverso i pirati, i crociati deviati e gli
unionisti violenti. Beh, non solamente….
La fama dei luoghi attirarono cristiani di varie parti dell’impero: georgiani, armeni, e perfino
italiani di Amalfi, che, appunto, organizzarono il Monastero Amalfitano, ( oggi una splendida
rovina).Veramente, i monaci di Amalfi fecero una visita a Sant’Atanasio, mentre costui
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organizzava la vita monacale in Athos. E, come segno di devozione, invece di presentarsi da poveri,
distaccati e esausti per i digiuni e le penitenze, arrivarono, vestiti con cura e pieni di derrate
preziose. Non solo portarono caviale, squisitamente preparato in salamoia, il “garos” che Plinio
qualificava come liquoris exquisiti genus, e di cui Seneca diceva che rallegra gli occhi prima del
palato, ma vollero insegnare ai monaci greci di prepararlo, stravolgendo la severissima regola del
Santo. L’economo greco, per concorrenza, ne preparò uno, ugualmente buono, che tutta la comunità
prese e lodò come regalo degli italiani, svegliando lo sdegno del greco. Dovette intervenire il Santo,
per far evitare l’estendersi della baldoria e il litigio che, dal caviale, sarebbe finito sul Primato del
Papa. In questo contesto, erano presenti anche i romeni, conosciuti come vlacchi. Vi erano di casa,
meno come monaci, più come tentatori dionisiaci. Noi, vlacco-italiani moderni andavamo a visitare,
vedere, toccare e baciare le Sacre Immagini, fiorite lì, nel Giardino di Maria, vincendo gli sbiancati
dirupi, con altrettanto sentimento; per rivivere qualcosa dell’atmosfera del tramontato Impero
Bizantino.
Ma “l’Impero d’Oriente significava: guerra, teologia crudele e vizi di tutti gli uomini, realizzati
però con raffinamento molto speciale”. Almeno così crede lo storico H.G. Wells e temo che abbia
ragione.34 L’Athos tentò di essere la parte purificata di questo Impero, con i suoi sublimi ideali.
La Corte imperiale, la Chiesa, ma anche la gente comune si rese conto subito di questa atmosfera
purificata e ne fu lusingata, guardando ad Athos con orgoglio e beneficandolo con entusiasmo.
Tutto fu incoraggiato a svilupparsi: monasteri, celle isolate, chiese, biblioteche, giardini profumati.
Nell’XI-esimo secolo si contavano già 6000 monaci. Erano i tempi di Basilio II, “il bulgarochtono”
il momento dell’apice dell’Impero. E di Costantino VIII con le figlie, con Zoe, la benefattrice dei
monasteri, mentre elevava al trono tre mariti : Romano il III- l’Arghiro, Michele il IV- il
Paflagoniano, e Costantino IX- il Monomacco, (che faceva un trio, fra lei e l’amante Irene); e un
figlio adottivo. Tutti, quanti, bisognosi del perdono di Dio. Tutti inetti, e gettati a terra da rivolte
militari e attentati disgustosi, permessi dallo stesso Dio che non riusciva a sfondare fra tante stanze
segrete; così i talebani arroganti delle Chiese ebbero spazio libero per provocare sotto il
Monomacco- la separazione fra le Chiese, nel famigerato 16 luglio, 1054.
È qui il momento di sottolineare la fortuna e la disgrazia del Monte Athos, che stava
apparendo e si stava sviluppando proprio nei momenti più bui delle Chiese. Tutti gli avvenimenti
dell’epoca lo toccarono direttamente, perché ciascuno per conto suo, imperiali o barbari, latini o
bizantini lo hanno considerato un loro punto di riferimento.
Sono i tempi in cui i Croati si erano dichiarati indipendenti,-1076- anche perché la loro
occupazione principale era di saccheggiare, da astuti pirati, le navi di Venezia. Apparvero i turchi di

34
Nella sua “A short History of the World”, trad. rom.Bucarest, 1944, pag.205.
59

là e gli ungheresi di qua. L’Armenia fu occupata nel 1064 e l’Imperatore, Romano IV Diogene, fu
fatto prigioniero a Mantzikert, nel 1071. I bogomili, eretici rompiscatole, aiutarono i turchi, ma poi,
quando li hanno assaggiati, come tutti i codardi che scappano per approfittarsi della prossima
combinazione, si sono rifugiati in Francia, chiamandosi Catari, e scombinando, ancora una volta, la
vita di una nazione. E poi le Crociate. Ogni nuova Crociata, un nuovo pericolo per l’Impero e per il
Monte Athos. Insomma, con un aristocrazia egoista, un popolo fiacco e turbolento, con l’esercito
alla deriva, chi faceva le scelte giuste? E tutti quei Stefan Nemanjia, Petru ed Assan, Caloiano, o i re
d’Ungheria, cristiani di nome e invasori di fatto, suicidi di se stessi e delle proprie nazioni, cantati
inettamente come grandi eroi e fondatori delle patrie! Il serbo, Stefan Dusan (1331-55) per un pelo
non invase la Città Santa di Costantinopoli. La capitale si salvò solo perché il neo-barbaro morì
all’improvviso.
Poi, i Veneziani e gli occidentali, in genere, con la grande colpa di non aver capito che il vero
nemico da tormentare non era l’Impero cristiano, bensì quello musulmano in tragica espansione.
Erano diventati troppo insolenti, gli storici veneziani lo riconoscono solo oggi. Così Ioannis
Comneno li espellò da Costantinopoli ed i veneziani si vendicarono, devastando le isole greche; e
qualche pirata arrivò anche in Athos.
Per stizza, Manuele I fece imprigionare tutti i veneziani dell’Impero, 10.000 nella sola capitale, e
confiscò tutti i loro beni e le merci. Per la gioia dei genovesi, passati coi bizantini.
La dinastia dei Comneni -comunque, grande dinastia-, cadde tragicamente, dopo che lo stesso
Manuele Comneno, invece di concentrasi sui musulmani, si mise, anche lui, a vendicarsi sui
francesi ad Antiochia. Dio gli aveva dato l’opportunità di cacciare il musulmano dall’Asia Minore e
forse anche da Gerusalemme, ma lui si sognava l’Italia, Roma, l’Occidente, come il pessimo dei
barbari.
Veramente, ci sono attimi in cui il più raffinato degli uomini è simile al più balordo, nel
genere umano.
Nel 1182, l’ultimo Comneno, Andronico, zio usurpatore del Basileo legitimo, fece
strangolare tutti i Comneni sopravvissuti della famiglia, con le loro mogli e amici, inclusa
l’imperatrice- francese- Maria, d’Antiochia. Poi spinse la plebaglia alla strage contro tutti i latini
che passeggiavano nonchalants sulla Via del Corso….
La vendetta degli occidentali si chiamò l’occupazione di Tessalonica e dei monasteri
adiacenti da parte dei normanni coi loro mercenari, raccolti da tutte le nazioni germaniche del
tempo. L’Athos fu risparmiato per miracolo. Il massacro, la strage, le distruzioni perpetrate da
questi cristiani contro la popolazione inerme, contro le chiese, contro i Sacramenti sembra non siano
state superate, né dai musulmani, né dai comunisti dei nostri giorni.
60

“Questi barbari, scrive un cronista del tempo, hanno portato la violenza nei nostri santuari.
Hanno messo nel fuoco le nostre Icone, hanno danzato sugli altari, hanno pisciato in tutte le chiese,
inondando il suolo della loro urina.” Certo, chi descrive tutto questo non ricorda i misfatti dell’altra
parte, più contro le persone che contro gli oggetti.
Fu l’inizio della fine per l’ultimo dei Comneni, gettato dal trono dal cugino, Isacco
l’Anghelos, (1185-95), che si coronò Basileus per …. pura difesa. Veramente. Com’è successo?
Una delle sue amanti- e chanteuse- gli aveva predetto il trono in un couplet di cattivo gusto, cantato
in pubblico. L’Imperatore, Andronico I, si indignò e mando “le forze dell’ordine” per arrestare il
pericoloso Isacco. La donna-profetessa poteva essere anche charmante e chanteuse, ma il
cristianissimo Basileo l’aveva presa sul serio, come per una vera indovina. Isacco, però, più svelto,
uccise la guardia e incitò l’esercito alla rivolta. L’Imperatore fu arrestato dai suoi sudditi. Dopo il
“colpo di Stato”, Andronico, incatenato, fu gastronomicamente acconciato: prima gli si tagliò la
mano destra, poi gli fu servita la prigione dura, senza cure, senza pane, senza acqua; poi gli si cavò
un occhio, poi lo si mise su un cammello, per farsi sputare dagli ex-sudditi. I quali lo hanno
picchiato, lapidato, trafitto con le lance, coperto di fango. Una gentildonna, per strada, gli versò una
tinozza d’acqua bollente sulla testa. Poi lo buttarono giù dal cammello e lo impiccarono a testa in
giù. Come avrà sopravvissuto a tutto questo?
Dopo una spaventosa agonia, morì, portando un dito della sua unica mano alla bocca, per succhiarsi
il sangue di una delle sue ferite.35 Non è tutto. Isacco fece accecare i suoi due figli davanti ai suoi
occhi, prima che la morte gliene chiudesse.
Così iniziò la dinastia degli Anghelos, la peggiore di tutte, a sentire gli specialisti. Isacco riuscì
almeno a vendicarsi sull’esercito occidentale per le rappresaglie, mentre Saladino rioccupò il regno
crociato di Gerusalemme, nel 1187, ( il cui Trono si trovava in mano a re bambini e zii corrotti). E
la giustizia della Storia, ( che è quella divina) fece cadere Isacco dal trono, gettato a terra dal fratello
maggiore, Alessio III, che lo accecò -abitudine ben radicata presso gli ortodossi bizantini- e si
autoproclamò Basileo.
Ohimé, quante opportunità impensabili si è persa la cristianità in quelli anni, pieni, non
solamente di Angheli, ma anche di eroi, alla Riccardo Cuor di Leone, Federico Barbarossa, Enrico
Dandolo, o Innocenzo III? Ma, per quanto grandi, essi non hanno guardato l’orizzonte al punto
giusto. Hanno mirato invece ad Alessio Anghelos, -figlio dell’ accecato Isacco, che fuggito dalla
prigione, venne a chiedere aiuto ai crociati organizzati a Venezia, per raggiungere Gerusalemme. Fu
questo inetto bizantinaccio a far sviare i piani e la route dei crociati dalla Terra Santa alla Santa
Capitale, “per liberare suo padre e l’Impero dalle mani dello usurpatore”. In contraccambio,

35
Dalla cronaca di Niceta Khoniates, in J.J. Norwich, Histoire de Byzance, ed. Perrin, 1999, pag.336ss.
61

prometteva mari e monti. La sanno lunga oggi, i greci, a dar colpa per tutto quanto l’accaduto ai
“franki”. Sappiamo come sono successe le cose. Del resto, l’aiuto per Alessio fu un pretesto, perché
già da tempo, Venezia si sognava di sostituirsi a Costantinopoli come capitale ideale del mondo
mediterraneo, dopo aver trafugato da Alessandria il corpo di San Marco, (nell’828). A molti
venivano le bave in bocca per la Capitale: amalfitani, pisani, genovesi, veneziani, anconetani,
tedeschi, provenzali, spagnoli, ragusani e fiorentini, tutti bramosi di privilegi e di empori vasti, il
più possibile. Tutto si trasformò nella Crociata IVa, (1204), la cui violenza, a torto, i greci la
imputano ai soli occidentali. I crociati, aizzati anche dall’infedeltà (non voluta) di Alessio agli
impegni presi, occuparono con forza la città, saccheggiandola, come di regola. Il vecchio Dandolo
era lì, presente, nel prendere le uniche decisioni possibili.
No, non si può essere d’accordo con la Crociata IVa. Ma, in quel momento, obiettivamente,
a causa della non serietà bizantina, il Dandolo non poteva prendere una decisione diversa, e gli
storici seri ne sono d’accordo. È vero pure che il vecchio nobile non si poteva immaginare ciò che i
suoi sudditi cristiani avrebbero potuto compiere, saccheggiando una città cristiana. Anch’essi, però,
erano stati manipolati dai loro Prelati contro gli odiosi “scismatici ortodossi, miscredenti”(sic!).
Perciò, la loro furia aumentò quando, invadendo la Sacra Città, si trovarono, davanti agli occhi,
tutto il clero e le monache con le Croci e le Icone di Gesù e dei Santi in mano, come per una
processione o per una festa. Ebbene, la vista di tanta devozione ebbe l’effetto che il velo rosso ha
per i torri, a Valencia. Poveri religiosi bizantini! Con quanta tremenda sorpresa subirono il martirio,
le torture, gli stupri e la profanazione delle Cose sacre da chi proprio non se l’aspettavano!
Il Vescovo, grande scrittore e teologo, Niceta Khoniates racconta:
“Fracassarono le Sante Icone, gettarono le reliquie dei santi in posti che è vergognoso
ricordare, versando dappertutto il Santo Sangue dell’Eucaristia. Nella Chiesa Madre ( Santa Sofia)
rompettero l’altare, dividendoselo fra loro. Fecero entrare nella chiesa i loro cavalli e muli, per
portarsi meglio gli oggetti sacri, i preziosi, la cattedra e le porte, i mobili ed i tappeti. E quando
alcuni di questi animali cadevano, essi le trapassavano con le loro spade, sporcando la chiesa con
il loro sangue ed i loro escrementi. Misero una puttana sul trono del Patriarca, insultarono Gesù
Cristo, abbaiarono canti sconci e danzarono in modo osceno nel sacro luogo. Non mostrarono
alcuna pietà per le matrone virtuose, per le ragazze, per le vergini consacrate, ecc…. Tutti questi
uomini portavano la Croce sul petto, la Croce sulla quale avevano giurato di astenersi dai
piaceri…. Questi precursori dell’Anticristo! Non così avevano fatto gli arabi a Gerusalemme; non
violarono le donne, non riempirono di cadaveri il Santo Sepolcro….36

36
Idem, pag. 348.Vedi Liber de rebus post captam urbem gestis, del Choniate, citato anche in G. Fedalto, Le Chiese
d’Oriente, ed. Jaka Book, 1991, pag.161ss.
62

L’illustre Vescovo non comprendeva la brama di questi barbari, che “non potevano
immaginare, esistesse al mondo una città così ricca”. Geoffroy De Villeardhouin lo completa:
”Quando videro le torri imponenti e le alte mura da cui era del tutto cinta e i ricchi palazzi, le
grandi chiese in così gran numero, che non si sarebbe potuto credere se non avessero visto con i
loro occhi, e l’ampiezza della città, fra tutte sovrana, nessuno fu tanto forte da non fremere nel
profondo. Né ciò vi sorprenda: mai, dalla creazione del mondo, era stata concepita simile impresa.
La contrada era bella, ricca, fertile di ogni ricchezza e ciascuno ne volle prendere e ne prese”37.
Fu violato il sepolcro di Giustiniano, fusa la statua di Giunone, eretta nel foro, e di altre
statue dell’Ippodromo, glorie dell’arte eterna.
I grandi Capi, nobili e prelati, arrivati dall’Occidente, fecero il resto: imposero il rito latino;
disprezzarono le regole bizantine, più cattoliche di quelle imposte dagli occidentali, (l’ignorazione
di questi due polmoni della Chiesa fu non solamente mantenuta, ma anche promossa) e agirono in
tutte le cose con il massimo di arroganza e violenza.
Si disse allora: i veneziani non dimenticheranno mai i misfatti dei bizantini; ed i bizantini
non dimenticheranno mai i misfatti dei latini. Dovettero venire i turchi, per placcare leggermente
l’odio fra le due fazioni cristiane, ma i greci, ancora oggi, non sono riconciliati nell’anima. Vivono
un po’ la stizza dei polacchi, diffidenti e aggressivi verso ambo le parti, anzi, contro tutti i 4 punti
cardinali.
Dandolo morì a Costantinopoli, dopo aver affidato il governo a Isacco II e ad Alessio V,
sotto la sua supervisione. Se i bizantini non si fossero ribellati contro questo stato di cose, forse non
avrebbero subito il saccheggio, consumato in un secondo tempo.
La realtà fu terribilmente intricata: Genova difendeva i nuclei greci, Venezia, l’Impero
latino. Per difendere i greci ( ortodossi: ma il motivo non era teologico), quella Repubblica amorale
si alleò con i bulgari, coi serbi e con l’impero di Nicea, aspettando i turchi. E, viceversa: non
raramente l’Imperatore di Nicea conseguì le proprie vittorie contro l’Impero latino con l’aiuto di
mercenari latini, (genovesi, o altro); mentre spesso l’Impero latino si alleò con i turchi selgiucidi. Il
colmo dell’assurdo è che proprio un piccolo sultano turco, quello di Rum, alleandosi coi bizantini
evita per quasi 60 anni che questo residuo dell’Impero bizantino, (Nicea), venga fagocitato dai
crociati, permettendo poi la riconquista di Costantinopoli, nel 1261. Con altre parole, se si guarda
anche all’amoralità delle alleanze, il quadro è completo.

Un francese moderno conclude: “C’erano contrasti politico-economici, di certo; ma quella


che era importante era la divergenza religiosa. Quello che non era riuscito, né ai turchi, né ai
37
Citato preso dalla magnifica sintesi di “Arte bizantina e russa”, ne “La Storia dell’Arte”, vol.8, ed.Electa,2006, “La
biblioteca di Repubblica”, pag.212ss.
63

bulgari, normanni o svevi, riuscì a Venezia, ( distruggere cioè, l’Impero). Responsabili, però,
furono i Bizantini; i quali, con la loro prepotenza e nazionalismo fanatico avevano, prima,
allontanato gli egizi, i siri, gli armeni, che, tutti, hanno appoggiato l’invasione islamica, ignoranti,
certo, delle tremende conseguenze, per tutti. Così, l’anima asiatica di Xerxes e Mitridate, incarnata
nell’Islam, ritorna come la sabbia del deserto, per ricoprire le città difese da Alessandro Magno,
Pompeo, Heraclio, o Tzimiskes”.38
Si è d’accordo che, con il sacco di Costantinopoli, la nostra civiltà perdette più che con il
sacco di Roma nel V secolo o con la distruzione della biblioteca di Alessandria. La vittoria
dell’Islam in Oriente fu indirettamente l’opera dei veneziani, pii e devoti. Come, oggi, la vittoria
della tirannia comunista- atea e militante- e poi quella islamica, è l’opera diretta dei cristiani
rinnegati e di quelli distratti che governano l’Occidente.

Nel frattempo, fra una guerra e l’altra e fra un intrigo di palazzo e l’altro, i sovrani bizantini,
ma anche bulgari e serbi moltiplicarono i monasteri e le donazioni in Athos. (Non ancora i russi:
solo il monaco fondatore delle Grotte Sante di Kiev, Antonio, venne ad ispirarsi ad Athos, già nel
1000. Gli Tzar si sarebbero mossi per i Luoghi Santi nell’epoca moderna, (e, pur permettendo ai
monaci dell’Athos di girare nelle Russie per l’elemosina, non permettevano l’accesso a tutti i centri
sacri russi , restringendo anche la quantità dei doni.)
I vari piccoli tzar slavi, invece, una volta che occupavano terre bizantine nei Balcani, si
riconciliavano con Dio, (o almeno lo pensavano), costruendo conventi. L’unico a venire in contatto,
pacificamente, con la Chiesa bizantina fu, probabilmente, il giovane principe serbo, Rastko, perché
scelse liberamente la vita ascetica, rinunciando alla carica di governatore e fuggendo da casa all’età
di 17 anni con dei monaci venuti alla Corte serba a mendicare, (1192). Grazie a lui, anche suo
padre, il re Stefan Nemanjia, ( 1165-1227) da aggressore, divenne agnello, anzi, monaco, a
Vatopediou, presso suo figlio, divenuto il monaco Sava.
Giovanni Assan II, il vlacco-bulgaro, invece, portò guerra spietata a Teodoro Comneno, (22
marzo, 1230), dopo di ché si autotrasformò in benefattore dei monasteri. Visitò la Sacra Montagna
il mese successivo alla vittoria, riempiendo gli archivi di chrysobulle, i monaci di regali ed alcuni
monasteri di privilegi, alla maniera dei Basilei. Ma era tutta una ambizione, la sua, per smontare i
serbi e soprattutto i bizantini. Assan volle anche lui un Patriarca indipendente, tutto per lui e per la
sua nuova patria, romeno-bulgara.

38

?
Réné Grousset, Bilan de l’Histoire,ed. Plon,1946,pag.210ss.Citato a frammenti.
64

Se vogliamo ragionare sulla coscienza di questi piccoli Despoti, possiamo dire che si
mostravano generosi per pura Fede; ma anche come ex-voto; meglio, come offerta di propiziazione
per le guerre imminenti; o per i gravi peccati commessi. C’ è qualcosa di superstizioso in questa
maniera di vivere la Fede, però, avevano, almeno, la coscienza, assente nei capi di Stato di oggi, di
essere dei grandi peccatori e debitori nei confronti di Dio. Grazie a questi regnanti, dal secolo X al
XIVesimo i monasteri arrivarono a 300 unità. Nel XIV-esimo, i monasteri furono gerarchizzati
giuridicamente, fra sovrani (monasteri e lavre: 25, nel 1384) e suffraganei: skiti, celle, colibbe,
cathisme e mondrye, ( in ordine discendente), forse 700, senza averi e dirigenti propri. Le più
modeste sono (erano) delle vere caverne, nelle quali, monaci solitari ed elevatisi sulla via della
perfezione, vivevano come i vecchi Padri del deserto. Ci sarà ancora oggi qualcuno che tenta questa
via eroica, ma com’è giusto, non si fa vedere, né contare.
Se nel XIVesimo secolo, erano –forse- 4000 monaci, nel 1430, l’anno dell’arrivo dei turchi,
il numero era sul 20.000, dopo di ché restarono un 3.200.
Numero alto vuol dire anche problemi e turbolenze. L’Imperatore Giovanni Tzimiskes
manda il nobile Eutimio, lo Studita che appiana le dissensioni e redatta il I Tipicon39 , approvato nel
970.
Nel 1045, gli Egumeni chiedono a Costantino IX Monomacco un consigliere per un nuovo
Tipicon. Fu inviato il nobile Cosma Tzitziloukis, e ne fu promulgato il secondo. Gli unici a non
essere sottomessi a queste regole furono i monaci amalfitani, arrivati, come già accennato, nei
tempi di Sant’Athanasio e soprattutto dopo che la loro città è stata distrutta dalla rivale Pisa. Erano
bi-rituali ed erano disciplinati da una regola piuttosto benedettina, ( e, come sappiamo, anche
Sant’Atanasio si avvicinò in certi punti alla regola di San Benedetto). Così organizzati, i monaci
furono quasi preparati per le sofferenze riservate loro dai turchi.
Sembra, però, che non i turchi, bensì gli unionisti con Roma diedero loro più sofferenze,
dopo la IVa Crociata, volendo unirli con Roma, a forza. Nel 1207, il Monte Athos fu messo sotto la
giurisdizione dell’arcivescovo cattolico, Nevelon de Soisson, istallatosi a Salonicco; e conosciamo
bene l’ostinatezza (ottusa) del francese, quando si mette a civilizzare il mondo a forza. Il monaco
Giovanni Mesarites, già dal 1204, fece ai legati pontifici una fiera opposizione, aiutato dal fratello,
il diacono Nicola. Sulla questione politica forse avrebbero ceduto. Su quella religiosa e dogmatica,
in nessun caso.
Papa Innocenzo III testimonia di 300 monasteri e “della gloriosa moltitudine dei monaci
conducenti vita stretta e povera”. Il Papa fu obbligato, per buon senso, a fare un passo indietro, a
causa degli abusi. Volle erigersi in loro protettore, ma, oltre al monastero di Iviron, quasi nessun

39
Libro di regole di vita, ma anche di liturgia e di disciplina generale.
65

altro deve aver riconosciuto il suo Primato. La vita monastica continuò, i conventi rimanendo
davanti ai “bvarvari” come baluardo ancora più accentuato delle tradizioni ortodosse e dello spirito
nazionalista.
Il Basileo, Michele VIII Paleologo, (1259-82), sperava di salvare l’Impero di fonte al
musulmano, con l’aiuto dei latini, pur avendolo sottratto ai latini. E, viste queste circostanze, come
poteva avere aiuti ed alleanze, proprio in Occidente? Non gli restava che un possibile, anche se
difficile, alleato: il Papa. Il quale però pretendeva l’unione delle Chiese; con la durezza tipica di
Urbano IV. Michele fu più fortunato con il successore, papa Gregorio X, (1271-76), il quale
sentiva più “ecumenico”. Si arrivò al Concilio ecumenico di Lyone, nel 1274, dove l’Imperatore
firmò sinceramente l’unione delle Chiese ed anche la sua personale confessione di Fede. Depose tre
patriarchi, fece tormentare i monaci; esiliò molti athoniti, fra i quali, delle vere personalità, come
Teolipto e Niceforo, i maestri ideali di San Gregorio il Palamas40; ma non capì che il re Carlo
d’Angiò si preparava di riconquistare Costantinopoli; e solo i Vespri siciliani salvò l’Impero dalla
catastrofe…. E non capì che la sua intrusione usurpatrice sul trono- usurpato a loro turno dai latini-
non gli sarebbe stata perdonata. Michele realizzò l’unione delle Chiese, attirandosi l’odio della sua
Gerarchia e del popolo da essa manovrato, ma, in cambio, non ricevette nessun aiuto, né militare, né
morale. Anzi. Il successore di Gregorio X, cioè Nicola III, sostenitore delle pretese latine su
Costantinopoli, imponeva perfino la rinuncia al rito bizantino ed ai canoni dei Santi greci; ciò che
era sacrilego ed impossibile ad attuarsi. Il Papa scomunicò Michele; e questa ingiustizia proibì a
tutti di inviare aiuti bellici o altro, a Costantinopoli. Non per motivi di Fede, dunque, giocarono le
loro Santità con la scomunica, bensì per confermare un abuso, una usurpazione, un furto.
Conosciamo, conosciamo bene questi gesti, sulla nostra pelle. E, altrove, ve li racconteremo.
Certo, il dubbio resta: il ritorno dei latini sarebbe stato una catastrofe? Dipende dal punto di
vista: con i latini a Costantinopoli, l’Europa occidentale, forse, non avrebbe permesso l’invasione
turca. Ma non è sicuro che l’avrebbe respinta. ( La Storia non si fa con se e con forse, però
possiamo essere certi che la Chiesa Ortodossa sarebbe scomparsa sotto la marea latina, molto
peggio che sotto i turchi pagani. Intendiamoci, sono il primo a desiderare l’unione delle Chiese: ma
non attraverso il massacro. E, vista la violenza e l’ingiustizia intrinseca dei piani e dei fatti già
attuati, non penso di ingannarmi in materia. Ad ogni modo, Dio ha permesso che la Storia fosse
diversa).
Infatti, nelle regioni occupate dai latini, che hanno formato l’Impero latino di
Costantinopoli, costoro hanno obbligato “gli scismatici” a fare compromessi contro-coscienza con i
conquistatori: hanno ricavato sottomissione superficiale, opportunismo da una parte, clandestinità,

40
Ce ne occuperemo nelle pagine seguenti.
66

esilio involontario, missione da lontano, dura opposizione e lavoro clandestino da un ‘altra. Le


carceri (durissime) erano piene di “antiunionisti”.
Noi, oggi, ( parlo di me, di Gigi, di Sergiu) comprendiamo la perversità di questi gesti,
perché li abbiamo vissuti sulla nostra pelle, all’inverso, gli ortodossi, dopo la seconda guerra,
volendo distruggere l’unione con Roma, appoggiati dalle forze di repressione comuniste. Il caso è
identico: obbligare un individuo o una Chiesa di cambiare fede e abitudini contro coscienza è
peccato che grida al cielo. Accontentarti con “convertiti“ a forza, intimoriti e obbligatoriamente non
sinceri è disonorante ed odioso. Esattamente ciò che succedette agli Uniti nei Paesi ortodossi e
comunisti, nei giorni nostri.41 E, quando pensi che ci sono cattolici, nel 2007, che difendono questa
linea, in nome della Verità, criticando Giovanni Paolo II, per la sua (troppo tarda) papale tolleranza.

UN SECOLO DI BUONE RELAZIONI CON I CATTOLICI ROMANI

Rimane il fatto che, perfino dopo l’arrivo dei turchi, tre egumeni dell’Athos partecipano al
Concilio di Firenze, (1438-39) e sottoscrivono la bolla di unione. Essi sono Moses della Megali
Lavra, Gherontios del Pantokrator e Dorotheos, egumeno di Vatopediou. È vero che a questo
gesto di unione è seguito il silenzio, mentre la tragica occupazione islamica invadeva terra dopo
terra, avvicinandosi al cuore dell’Europa. Ma con quale motivo avranno sottoscritto i monaci quella
unione? Per salvare la Città imperiale? Per paura dell’Imperatore? O per convinzione teologica? I
prelati romeni, Damian, Tzamblak, Constantin, lo hanno fatto per convinzione e per tolleranza.
Non l’hanno mai rinnegata.
Altrimenti, i “cattolici” non hanno mai rinunciato all’idea di riportare l’Oriente all’unione con essi,
soprattutto l’Athos. (Oggi i polemisti la chiamano uniatismo, ma è una parola offensiva e ingiusta).
Ancora nel 1628, un certo monsignor Igoli, segretario della Propaganda Fide diceva:
“Se si guadagnassero li monaci del Monte Santo, s’aprirebbe una grande strada all’unione
di quella Chiesa con la Occidentale; e questo per il gran credito ch’hanno detti monaci
presso li vescovi e li popoli della Grecia”42
Fra il 1634 e’41, i gesuiti fondarono in Athos una scuola catechistica, la Propaganda Fide mandò
l’unito Alessandro Vasilopoulos e nel 1635, Nicolò Rossi aprì una scuola di lettere greche e di casi
di coscienza, “non senza frutto”, come dissero in seguito. Essi descrivono la situazione come

41
Ogni vescovo greco poteva rimanere nei suoi diritti, nell’Impero latino, se prestava al Papa il giuramento; però, molti,
per motivi di coscienza, si ritirarono, cercando di guidare il proprio gregge da un qualche posto sicuro. Il dotto Michele
Khoniates diresse il proprio gregge di Atene dall’isola di Chios, mentre in città era stato insediato un vescovo latino,
senza gregge. I monasteri ed il basso clero pagavano tributi ai vescovi latini ed erano lasciati in pace. Orribile. ( Vedi
H. Jedin, op. cit. pag. 175.)
42
Vedi l’articolo di B. Lavagnin, Una missione all’Athos, in Le millénaire du Mont Athos, II, ed. Venezia e
Chevetogne, pag.154.
67

accettabile: a Bostangì bassà ( pascià), Prefetto del seraglio, mandavano 7 scudi all’anno ed erano
perfino protetti dai due custodi turchi che risiedevano a Prothaton.
I capi athoniti vi presero gusto e nel 1643 scrissero alle Sacre Congregazioni Romane, offrendo
celle in proprietà “ per i missionari italiani”, ricevendo in contraccambio delle stanze nei monasteri
di Roma. Poi qualcuno si rese conto che, grazie all’alleanza franco-turca dell’epoca, i missionari
francesi sarebbero stati più graditi al pascià, anche se nel 1657 (27 novembre) il Gran Duca di
Toscana, Ferdinando, prese i gesuiti dell’Athos sotto la sua protezione.
“ Ma è impossibile per i francesi vivere in quell’asprezza di vita”, borbottarono i loro capi; però,
“vale la pena di sopportarla, pur di sterminare lo scisma e l’eresia dal Sacro Monte e riportare la
vecchia pietà e la devozione religiosa” (sic!).
E quale mai sarebbe stata la vecchia pietà?
-L’amore, ecco, scrive père Richard, SJ, l’amore, che è più grande dell’astinenza;
l’obbedienza, nobile virtù che manca a questi greci, la cui superbia è connaturale, non
sottomettono a nessuno i loro giudizi; con quella abitudine orribile che hanno di tornarsene ogni
tanto a casa e poi ritornare nel convento! (Veramente, i “latini” hanno scoperto questa “brutta
abitudine” dopo il Vaticano II); i monaci amano il denaro, e quando viaggiano in Grecia, nei Paesi
Romeni, in Russia, non si contano gli scandali che combinano con donne e con personaggi
mondani; le loro astinenze sono durissime, però sono i primi a ricevere regali dappertutto; si
comunicano raramente e non assistono alle liturgie; mentre l’ignoranza dei loro preti in materia
sacramentale è cronica; se stanno fissi nelle celle, sviluppano ogni sorta di vizi e ozio, ed in
presenza delle copiose librarie che posseggono, sono ignorantissimi. Soprattutto perché i superiori
sono contrari all’istruzione dei giovani. Chi vive isolato nelle celle solitarie, lo fa più per sfuggire
al turco che per amore della vita ritirata. Dall’Athos si ricavano parroci, metropoliti e superiori
per tutto il mondo greco, romeno e slavo; è necessario perciò fermarsi qui per istruirli,
cattolicizzarli e conquistare in questo modo tutti gli scismatici alla vera Chiesa”.43
Eh, sì, certo: solo nel 2000, i cattolici occidentali hanno quasi capito il valore della libertà,
dell’obbedienza elastica, simile al disordine, ma non identica ad essa….mentre da come
descrivono la vita e le liturgie orientali, si vede che anche i più esperti “latini”, non nascondono la
loro incredibile ignoranza in materia. I Padri gesuiti dell’epoca si leggevano in segreto le opere di
Boccaccio e di Pietro Aretino, ma non facevano il collegamento con il principio di chi vede la
pagliuzza e non la trave…. L’opinione dei monaci sui “franki”, salve le eccezioni sono rimaste oggi
immutate ed altrettanto ridicole: “sono fuori della Tradizione; senza legge, barbari; idolatri di
statue, che digiunano di sabato”.

43
Trascrizione ridotta.n.n.
68

I gesuiti si stupivano: “ai nostri argomenti non possono rispondere”. Ed era vero. Ma in
molti casi, i greci non rispondevano, per puro, profondo disprezzo.
Insomma, se nel’200, Roma non aveva ancora capito che né gli Imperatori, né i Patriarchi
avevano sufficiente potere per obbligare un popolo, manipolato da secoli contro l’Occidente, ad
accettare l’unione con Roma, nel’600 era ancora più difficile, le formule teologiche allontanandosi
sempre più. Nel 2000, poi, sono diventate forse irreconciliabili.
-E perché si occupavano tanto appassionatamente dell’unione delle Chiese, senza
concentrarsi abbastanza sulla liberazione dei popoli da sotto il turco?
Risposta: -Perché sottovalutavano la tragedia di una tirannia come quella islamica,
esattamente come più tardi hanno sottovalutato il comunismo.

RITORNIAMO ALLA STORIA

Nel 1355, l'imperatore Giovanni VI Cantacuzeno, (1347-54), dopo aver abdicato, si fece
monaco, prese il nome di Ioasaf e venne in Athos. Il suo regno fu indebolito da tutti gli eventi del
tempo, non l’ultimo, la terribile controversia isicasta, con morti, feriti e offese, suscitanti l’ironia
dei musulmani invasori. Quando, diventato imperatore contro voglia, fu costretto ad appoggiarsi ad
un esercito di mercenari turchi (infedeli), capì che aveva toccato l’apice della sfortuna. Ha comprato
una proprietà sul Monte Athos, dove, dopo complicati gesti di rinuncia e di abdicazione, finì come
fra Ioasaf, mentre la moglie si ritirò in un convento di donne.
Il monaco ex-imperatore, visse in Athos per altri 29 anni e compì, forse, la sua opera più duratura:
l’estensione delle sue “Storie”, seguite dalla difesa dell’isicasmo palamitico.44
Dopo i bizantini, dopo gli occidentali, ci fu una piccola pausa, tutta bizantina, per il Monte
Athos. Manuele II Paleologo, nel 1392, dopo la disputa isicasta45 che richiedeva l’idioritmia per
riportare la calma, diede l’ultimo Tipicon imperiale, rimasto valido anche sotto i turchi. I quali, nel
1430, presero Salonicco. Nella notte della terribile occupazione il metropolita della città, Simeone,
morì di dolore. I monaci dichiararono, dall’inizio, la loro sottomissione a Murad II, (1421-51) e
Maometo II. Per questo atto di saggezza biblica, i turchi furono indulgenti ed il sultano Murad II
diede loro alcuni firman prima dell’occupazione di Costantinopoli; (Era forse ammansito anche
dalla moglie, cristiana). Così, gli invasori non mandarono musulmani ad abitare sulla Montagna e
rispettarono la proibizione per le donne, misoghini come erano e lo sono ancora, grazie al Corano.
Si decise la dimi, la tassa ed il controllo del Kaimakam, presente a Karyé. Per il resto, Dio solo, con
la Sua misericordia.
44
Vedi avanti, il capitolo dedicato a questo argomento.
45
Ce ne occuperemo fra poco.
69

Certamente, anche i monaci avevano compreso ciò che l’eroe Stefan della Moldavia46 aveva
lasciato nel testamento, dopo una vita di vittorie contro i turchi: “il turco è più forte, ma anche più
saggio degli altri, sottomettetevi a lui, non ad altri”. Ed il vescovo polacco Dlugosz scriveva a
Leopoli: “ i re cristiani si distendono nella pigrizia, nelle sfrenatezze e guerre civili, invece di
difenderci… Stefan però è l’uomo più degno d’esser posto a capo di una nuova crociata contro i
turchi.47
Coi turchi, si impose la regola idioritmica in Athos: essa era migliore per la difesa, di fronte
a possibili razzie. Si nascondeva ciascuno nella propria grotta ed offriva il proprio dolore in
riparazione a questa triste realtà: i turchi, questi grandi mangiatori di vite, hanno vinto per la
trascuratezza dei Governi cristiani e perfino con l’aiuto dei cristiani; ma se è vero che turchi o arabi,
invece di diventare grandi e felici nazioni cristiane, sono caduti sotto la semiluna islamica, il motivo
sta nella trascuratezza degli imperatori cristiani e nella disunione delle Chiese.
Del resto, quando i turchi si avvicinarono all’Europa, nazioni come quella francese li videro
come una “benedizione commerciale”, e come alleati contro la Spagna. I popoli balcanici dovettero
sorbirsi per secoli il dominio turco. Ma, come dice giustamente uno studioso, “è sommamente
ingiusto accusare i turchi se, nei Balcani, fino a pochi anni fa, una festa nuziale (dei cristiani) non
poteva dirsi ben riuscita se non si scappava almeno un morto”48.
Dal lato ideologico, non mancarono gli slogan, ante terminem. Il più celebre rimase quello
del potente megaduca, Luigi Notaras che emanò le famose parole: “Meglio per noi il turbante
turco che la mitria latina dei cardinali.” E così fu.
Certo, il grido fu blasfemo, però il problema rimane: perché Dio ha permesso la caduta della
Sacra Città sotto i terribili pagani?
I greci, stessi, rispondono con storie come questa, molto suggestiva: dicono che dopo
l’invasione della Sacra Città, un asceta, girando fra le macerie, arrivò davanti a una chiesa distrutta
e diroccata e vide un fatto che lo sconvolse: una scrofa con i suoi porcellini si adagiava sul sacro
tavolo della proskomidia.49 Il monaco ha cominciato a piangere per la profanazione di un luogo così
sacro. Stupore, ebbe l’apparizione dell’Angelo Santo che gli disse: Avva, perché piangi? Sappi che
ciò che hai visto qui è più gradito a Dio che l’inettitudine dei sacerdoti che celebravano qui”.50
Con il senno di poi, gli studiosi di oggi hanno scoperto che il più liberale ed il più tollerante
fra gli imperi ed i regni dell’Europa, fino al 1900 era l’Impero Ottomano !!! Ed anche dopo, se
pensiamo all’URSS, alla Germania nazista, ecc. ecc…
46
Il Paese romeno del Nord-Est. In romeno “Moldova”.
47
Nella Historia polonica, II, pag.527, ed. Lvov.
48
Raffaello Honig, in “Eredità del passato”, corso di storia, vol I, pag.351, ed. Vannini, Brescia, 1975.
49
Il piccolo altare laterale, a sinistra, della preparazione dell’Offertorio bizantino.
50
?
Citato in Padre S. Anagnostopoulos, op. cit. pag.203
70

I greci però ricordano anche altri fatti riguardo ai turchi, edificanti per un occupante barbaro
e senza pietà: Nel 1520, un turco, padrone di schiavi, raccontò a Jacobos, mercante greco e
cristiano non praticante, come il Patriarca, il futuro Santo Nifon gli aveva guarito la moglie con una
preghiera, adornato com’era dei paramenti patriarcali, trasformatisi in luce, durante la preghiera. Il
turco si era meravigliato della magnifica Fede dei cristiani, ciò che indusse Iacobos a convertirsi a
una vita devota, finendo martire e santo per Gesù Cristo, dopo alcuni anni di fervoroso apostolato.
Sotto i turchi, come già detto, il Monte Athos conservò i privilegi degli Imperatori bizantini.
Questo, però, si chiama miracolo e non tolleranza musulmana, inesistente. Ad ogni modo, le
incursioni e i pestaggi degli invasori non mancarono. Le anime devote le presero come segni del
cielo per le inavvertenze nella vita dei monaci. Intanto, la continua minaccia di scorrerie piratesche
costrinse le Comunità monastiche a fortificare o a costruire i monasteri in posizioni inaccessibili.
Un altro miracolo fu il permesso accordato dai turchi ai Sovrani romeni di ricostruire,
mantenere, arricchire l’Athos, per tutto il tempo del dominio ottomano, senza tassarlo, se non
casualmente. Questa prodigalità dei sovrani romeni iniziò nel’300, ma dopo il 1450 rimase l’unica
sorgente di guadagno del Santo Monte. Gli Tzar russi arrivarono tardi e senza continuità. Per i
romeni, questo fu possibile perché i loro regni godevano di autonomia, pur se limitata. Il miracolo
fu dunque doppio: i sovrani mandavano ad Athos ricchezze; ed i monaci erano liberi di accettarle.
L’occhio ingordissimo del turco, al passaggio della barca di Caronte con i doni dei sovrani, fu
accecato direttamente da Dio, e per tanti secoli!
A mo’ di esempio, un Domn come Radu Serban, dopo il 1600, versò alla Montagna carri d’oro; e
Constantin Bràncoveanu, (1688-1714) il sovrano martirizzato dai turchi, altri carri, senza
rinunciare al lusso accecante della loro Corte. Ai romeni avvisati fa sorridere l’idea che il
complesso di Cotroceni-Bucarest, l’attuale residenza del Presidente della Repubblica ed ex-
residenza reale, era stata offerta dal fondatore, Serban Cantacuzinò, nel 1682, a tutto l’Athos,
come una mucca a 20 poppe, per 20 monasteri.
Da un altro punto di vista, (e qui si cade nell’ironia della sorte), il periodo turco fu il più
proficuo, il più liberale, per l’Athos; l’indifferenza turca nei riguardi delle varie dottrine e
polemiche dei frati non coinvolgeva l’Autorità, come nei tempi dei bizantini o dei greci attuali. Al
contrario, i monaci colti organizzarono perfino la scuola greca, la famosa Accademia Athonias,
che fu istituita, nel 1743-49, dal Patriarca di Costantinopoli, Cirillo V, (1748-51 e 1752-57) e
dall’egumeno, Meletio. Un vero Istituto superiore di cultura, con soldi pompati a palate dai Sovrani
51
fanarioti romeni del tempo. È lì che studiò e si spiritualizzò Gavriil Bànulescu, il futuro

51
Fra il 1716-18 e 1821, i turchi imposero ai Paesi Romeni Domni scelti a capriccio e dietro immense tasse, piuttosto
greci ricchi, uomini fidati del Sultano,del quartiere greco di Istambul, il “Fanar”, dove ancora oggi sopravvive la
Patriarchia. Il periodo ed i personaggi si chiamano “fanarioti” ed il loro ricordo è-per metà ingiustamente- famigerato
71

metropolita moldavo; il quale, dopo l’occupazione della Bassarabia da parte dei russi, nel 1812,
abbandonò i romeni e passò con lo Tzar. Così si conservò il trono di Metropolita a Chisinàu, ma
rimase nella coscienza dei romeni addobbato della vergogna del tradimento. Certo, nessuna scuola
ti insegna, a forza, la correttezza del carattere.
Nel 1783, il Patriarca Gabriele II tuonò:
- Occorre tornare alle regole di Sant’Atanasio! Troppa anarchia qui! Serve un po’ di
controllo! Oramai i grandi pericoli sono passati! Dovete ritornare alla vita comunitaria,
cenobitica!
Così, promulgò un nuovo typicon, e programmò -con i soldi dello Tzar e di alcuni sovrani fanarioti
di Bucarest- molti restauri edilizi.
Succede questo e altro, però, quando fai il profeta anzitempo. Sua Santità si sbagliava alla grossa: i
pericoli erano da venire. Nel 1821 scoppiò l’Eteria greca52 e nubi e folgori lampeggiarono
sull’Athos tonante. La vendetta turca, durante l’occupazione militare per 9 anni, fu orripilante. I
monaci, radunati nei conventi dal cenobitismo affrettato del Patriarca, furono preda facile, rispetto
ai pochi rimasti isolati. Conteremo le vittime, fermandoci sui dettagli, durante il nostro periplo.
E tutto questo non finì con i turchi. Seguì la lotta fra greci e russi per controllare i monasteri. Per
tutto il secolo XIX. Come del resto, in tutti i Balcani. Sono interessanti, a riguardo, i libri di un
Fallmerayer, Fragmente aus dem Orient, 2 volumi, Stuttgart, 1845; di un Gass: Athos, Giessen,
1865; o Langlois, Le Mont Athos, Parigi, 1866, che riproducono a caldo le disavventure
sconvolgenti del secolo.
Dopo questo cupo rombo, si verificò una certa restaurazione: nel 1890 si contavano 8000
monaci e 1000 laici, in monasteri da 700-300-200 abitanti. All’inizio del 1900, fra 10 e 14000
monaci. ( …Dipende anche da chi ne faceva il censimento). La loro tranquillità fu interrotta di
nuovo, questa volta dai confratelli cristiani, greci; i quali, dopo la vittoria del 1913 contro l’Impero
turco, ormai in agonia, occuparono la Montagna, la incorporarono nello Stato neo-greco e si diedero
alle vecchie usanze, cioè nuove, neo-bizantine. Ci dobbiamo solo immaginare cosa avranno fatto ai
non greci, in quale minestra li avranno mangiati, letteralmente, se il numero dei monaci scadde sotto
1000, ( beh, anche perché molti monaci greci, liberati dall’ansia del giogo turco, avranno scelto una
vita laica nella nuova patria, liberata). Athos fu dichiarato “Repubblica teocratica” e “Regione
autonoma della Grecia”, nella quale la nazionalità prevalse sulla religione, (il ché è un gesto assai
diffuso nell’Ortodossia); ed il disagio fu che i monaci greci se ne compiacquero, perfino con
violenza, come vedremo nel nostro percorso.

52
La guerra di indipendenza che portò alla libertà di una parte della Grecia.
72

Durante la prima guerra mondiale, la Montagna fu occupata da truppe francesi, russe ed


inglesi. Ciò che sperimentarono gli uni e gli altri costituisce il delizio delle Memorie e dei Diari del
tempo, ancora da pubblicare. Ad ogni modo, per questa volta, i monaci diedero uno spettacolo di
alta dignità.
Nel 1923, il 24 luglio, la Grecia divenne padrona assoluta del Sacro Monte. Col trattato di
Sèvres, art. 18, fu riconosciuto qualche diritto ai non greci, confermato dal trattato di Berlino, art.
69. Questo contegno fu rinforzato dalla pressione della sconfitta totale dei greci nell’Asia Minore, e
la perdita definitiva di vecchie terre. Le cattive bocche dicono che sarebbe bastato un minimo
giudizio perché i greci vincessero quella partita, accontentandosi di meno. Di certo, però, i grandi
responsabili della sconfitta cristiana e greca e della permanenza di Costantinopoli nelle mani del
nemico turco sono, come sempre, i governi “democratici” dell’Occidente.
Una carta costituzionale fu votata nel 1926. L’articolo 186 conferma il divieto alle donne ed
alle femmine di animali, e nessun miglioramento per i non greci. Chi viaggiava negli anni’20,
trovava, comunque, allo skit Lakou 53 monaci romeni ed a Aghiou Pavlou, 78. Nel monastero
russo, 600 russi, non più rimpiazzabili, coll’avvento del bolsevismo a Mosca.
Appena dopo il 1950, si è liberalizzato lo statuto degli stranieri e piccoli gruppi di non greci
cominciarono timidamente a ritornare. Nei tempi dei nostri pellegrinaggi, c’era grande siccità di
persone e vocazioni: 1200 monaci, al massimo. Oggi, dopo la liberazione dei Paesi ortodossi, sta
crescendo il numero dei russi, romeni, bulgari, serbi e macedoni, monaci e non monaci. Nel 2000
saranno arrivati a 2000, appunto. Ma anche i greci si moltiplicano, soprattutto quelli provenuti
dall’America latina. Prima del’90, essi erano ostacolati in vari modi e per altri motivi a venire in
Athos. Ora, forse anche per fare concorrenza ai non greci, arrivano gli eleni in gran numero e Dio sa
se per pura vocazione. Organizzano il cenobitismo, a tal punto che nei grandi monasteri è quasi
sparita la vita idioritmica. I nuovi sono piuttosto laureati, in permanente conflitto coi monaci della
vecchia guardia, che sta scomparendo, per la devota gioia dei nuovi arrivati. Ritorneremo
sull’argomento, quando arriveremo al Monastero Filotheou.
Nel giugno, 1963 il Monte Athos festeggiò il Millennio e, così, i monaci sopportarono, per
qualche giorno e per pura pubblicità, ospiti cattolici, protestanti ed anglicani. Noi, invece, ne
abbiamo imparato la lezione, e non abbiamo voluto essere sopportati, bensì onorati! Presentandoci
come “teologhi roumani“ siamo stati accolti come è normale che sia: con affetto, con stima per il
nostro sacerdozio, e con liberalità d’animo. Eravamo, cioè, implicitamente orthòdoxi”! Se, invece,
avessero intuito qualcosa di più….!!!

ED OGGI?
73

I monasteri importanti, oggi? Venti, precisi, a causa della tendenza a riunire ed ingrandire
le comunità. Oltre ai grandi cenobi, gli “skit”, conventi più modesti e più nascosti, dipendenti dai
grandi monasteri. I villaggi di monaci di 30-80 case con chiesette, (kiriakà), piuttosto ricche,
spaziose, profumate di altissima arte spirituale, non sono da meno. È impressionante la
conservazione dei manoscritti nelle loro ricche biblioteche, malgrado gli incendi continui. Negli
anni’20, si contavano circa 9000 manoscritti e miniature dei secoli XI-XII. Chi sa quanti saranno
spariti d’allora ad oggi, e non a causa del fuoco! Basta confrontare i nuovi cataloghi con un
Catalogue of the greek manuscripts on Mount Athos, 2 volumi, Cambridge, 1895-1900! Lasciamo
perdere ! Meglio, non confrontare.

Oggi, il Monte Athos, sempre territorio integrante della Grecia, è sorvegliato da un


governatore civile; però si amministra internamente per mezzo della Congregazione degli abati dei
monasteri, (hierà epistasìa), che si riunisce periodicamente nella piccola capitale, Karyé. La
giurisdizione ecclesiastica appartiene tuttora al Patriarca di Costantinopoli, il quale -detto fra noi-
non è del tutto obbedito, né onorato: fra gli altri pretesti, per le sue cosiddette aperture ecumeniche.
Cosiddette perché, poveretto, non si apre più di tanto e, d’altra parte, non si è mai saputo bene cosa
vuol dire apertura in questa materia: compromesso dottrinale? Amicizia personale? Passaggio
dall’altra parte? Gli ecumenisti dei nostri tempi, quando non si sono accontentati di gesti formali,
hanno compiuto qualcuna o tutte queste scelte.

I monaci pregano, ma anche lavorano, perfino duramente. Sono agricoltori, pomicoltori,


artigiani, crescono animali, scrivono, dipingono, compongono musica e curano la teologia. Curano i
riti, ma anche i malati, gli ospiti ed anche gli stranieri. Il modo in cui sono accolti i visitatori è
impressionante.
Cenobitici o idioritmici, ( gli ultimi, quasi spariti dopo il 2000), i monasteri sono dei veri castelli di
fiaba, la cui splendida architettura, adornata dalle torri merlate, ponti, loggiati, tetti arditi, mura che
concorrono con le rupi e con i frangenti, rivela il Monte Athos come uno dei centri più belli, più
importanti, più sconvolgenti della civiltà umana. Penso di averlo sempre dichiarato.
Con questo non si può dire che fuori dell’Athos non ci siano, nella stessa Grecia, dei monasteri
abitati da monaci fervorosi e grandi asceti. Pappas Gregorios fu invitato un giorno da un monaco
misterioso a portare la comunione a tre asceti che vivevano in una grotta sull’istmo, fuori
dell’Athos, sull’Emon. Per anni andò, nello stesso Giovedì Santo, a confortarli. Ma quando, per
74

imprudenza ne parlò ad altri, i monaci lo hanno saputo per diretta ispirazione. E il monaco
misterioso apparve per l’ultima volta: era l’Angelo del Signore.53

PROIBITO ALLE DONNE.

E siamo arrivati al nodo dolente della regola athonita: dalla linea dell’istmo “Megali Vigla”
in giù, è proibito alle donne; ed alle femmine di ogni essere vivente, incluse le formiche e le donne
dei topi e dei falchi, per disgrazia, incontrollabili. Le galline, per esempio, sono perseguite con
ardore e scomunicate doppiamente, i monaci essendo obbligati di comprare le uova dagli
approfittatori di turno.
Per difendere questo atteggiamento chiuso, il sito internet dei monaci proclama: “Il Monte Athos è
un territorio monastico. I monasteri maschili sono disseminati lungo tutta la penisola. Per questo
motivo non è consentito l'accesso alle donne”.
Potreste anche replicare che l’Athos ignora l’atteggiamento del Signore e degli Apostoli, circondati
piamente, ma costantemente, dalle Pie Donne e probabilmente anche da galline, asinelle, mucche ed
altri personaggi femminili in voga; la regola athonita ignora i limiti della natura umana, che non
sopporta l’innaturalezza del sesso unico, il quale può sfogarsi in gesti raccapriccianti, peggiori di
quelli che si vogliono evitare.
Veramente le femministe greche (e non solo greche) non aspettano altro che trovare un appiglio per
appropriarsi del Monte dei monaci. I governi greci di sinistra prendono voti in più, con questa
esatta promessa ed altre, più ardite.
Bene.
Se date retta alle loro ragioni, io domando:
-Vi piacerebbe un Athos con le spiagge come la Costa Azzurra e con viali come la
Passeggiata des anglais di Nizza? Pieno zeppo di gruppi di giovani di sesso misto, sparpagliati nelle
foreste, nei parchi e nell’interno dei conventi, visionando ed imitando i film porno in DVD, sotto gli
occhi dei frati? Questo è lo stato di fatto di tutta la terra, monasteri, clausure e Vaticano incluse. Si
salva l’Arabia Saudita e il Monte Athos, per motivi diversi. Ma quando penso alla sfacciataggine di
chi ha deciso di non rispettare nulla di sacro e di intimo, in tutti i casi e senza eccezioni, preferisco
sperare che l’Athos rimanga così com’è, almeno finché resto io sulla terra.
Però! A chi è mai venuta per primo questa idea bizzarra, di conservare tutta una penisola
per soli maschi?

53
In S. Anagnostopoulos, op. cit. pag.417.
75

Ebbene, per giustificare questo gesto e dargli profumo di antichità, è stata riscritta la storia anche in
questo caso. Ricordiamoci che la Stessa Beata Vergine, durante la Sua augusta visita si sarebbe
espressa in questi termini: “ voglio monasteri per soli maschi, senza eccezione.”
Raccontano, perciò, di Placidia,(+450), la figlia dell’Imperatore Teodosio, che, nel 394,
accompagnando Arcadio ed Onorio, visitò la Vatopedia, rinnovata da suo padre, come
ringraziamento a Dio per aver salvato i due futuri Imperatori, (o solo uno di essi), dall’annegamento
in mare. Fu ricevuta con grandi onori, non essendo applicata con tutto il rigore la regola contro la
presenza delle donne. Alla soglia della chiesa, però, sentì una voce come un fulmine:
- Fermati se hai cara la vita!
Cadde a terra in lacrime di penitenza, chiedendo perdono.
Il fatto, però, si ripeté, 5-6 secoli più tardi, con un altra Imperatrice, che, neppure lei
conosceva la regola in questione.
... Come per dire che è la Madonna stessa che proibisce alle donne l’ingresso nella Sacra Montagna.
Anche se sono Imperatrici.
Però, siccome conosciamo la suprema saggezza della Beata Vergine e la suprema stoltezza
di questa regola, possiamo essere sicuri dell’inganno perfetto di queste allucinazioni. Non diamo
però sempre la colpa al diavolo; vi basta un cervello umano ferrigno e curante delle infinite vie
della disobbedienza umana. Argomento confermato anche dal fatto che tutto ciò che si racconta su
Athos fino al decimo secolo è considerato in gran parte leggendario, leggi inventato.
Rischiando di contraddirmi, io considero negativo questo divieto. Non solo per i tempi
moderni, ma per tutti i tempi. Ci vogliono, in Athos, non turiste, né femministe, non spogliarelliste,
né ballerine; bensì monasteri di Suore, donne consacrate che, disciplinate e controllate in modo
rigoroso, vadano a fare le massaie nei conventi e nelle celle dei monaci. Ci vuole la mano, l’occhio
di donna, come dovunque; (poi, se è suora, l’occhio di donna è raddoppiato). Questa assenza
l’abbiamo osservata e notata con disagio, nei nostri viaggi.
Direte:
-Ci sarebbero troppi rischi, tentazioni, scandali, ecc…
Ne vale la pena. Nella tentazione è come di fronte ai raggi del sole: ”se sei fiore, fiorisci, se
sei carogna, imputridisci.”54 Perché mi devo ripetere? In assenza di donne, le tentazioni crescono in
gravità per i poveri monaci, di ogni età e condizione. No, non sospetto nulla, non penso male. Ma è
meglio con donne che senza, parola d’onore. Ed in fondo, questo discorso vale anche per le
parrocchie dei preti celibi.

54
Shakespeare.
76

E di nuovo mi ripeto: con questo, non desidero minimamente che l’Athos diventi un luogo turistico,
rumoroso e scandaloso come tutti i luoghi turistici della nostra, davvero perversa, epoca. Poi, la
presenza femminile nelle foreste e sui sentieri del Monte Athos, intorno e dentro ai monasteri di
monaci, con quel sovrappiù di chiacchiera e di mondanità, specifico alle donne “moderne” sarebbe
veramente inopportuna. Non dicevano i vecchi contadini: “due donne e un’ oca fanno un mercato”?
E le regole non sono cambiate.
Sembra che l’idea della clausura per soli uomini appartenga a Sant’Atanasio, nel X secolo.
Non mi pare, però, che ce l’aveva anche con le femmine animali.
Appena nel 1090, l’intelligente Imperatore, Alessio I Comneno, (1081-1118) ”mise ordine” contro
i pastori romeno-macedoni che scendevano con le pecore, disturbando, dicesi, la pace dei monaci;
non per altro, ma portavano pecore femmine, misfatto proibito dalla stessa Madonna. La legge
contro ogni animale femmina fu confermata dal decreto di Manuelo I Comneno, nel 1170, con
scomuniche terribili e punizioni esemplari, (contro i proprietari e contro le bestie), dietro la richiesta
indignata del Patriarca e di 12 Vescovi.
Oggi, nel 2007, questa legge è tenuta con rigore, anche se, io sospetto che il proverbio italiano
“fatta la legge, trovato l’inganno” sia valido su tutto il pianeta. Certo è che il problema nacque
insieme alla regola della montagna- monastero. Testimoni ? Dei documenti millenari che
raccontano fatti dell’anno 1000. Possono avere come nome:

“GLI SCANDALI DEL 1088.”

Si tratta di più manoscritti millenari trovati dagli studiosi nelle varie biblioteche dei
monasteri, e pubblicati in vari modi. Ma anche vari decreti imperiali contro la penetrazione dei
pecorai valacchi sulla Montagna, prima, durante e dopo l’apparizione dei monasteri. Questo sarebbe
una prova dei “diritti storici” dei pastori di portare le loro mandrie e torme in Athos, sanciti dal
diritto naturale, da quando nulla e nessuno si era organizzato sulla penisola; da quando avevano
dato perfino nomi latini alle vallate con fiumicelli ed alle varie radure. I decreti sono di Basilio I,
(865), di Leone VI (il Saggio)- (911) e Costantino IX il Monomacho, ( 1042-1054). Io li riproduco
dal resoconto di Marcu Beza che a queste ricerche ha consacrato molti anni. 55 Qui ci imbattiamo,
strano caso, nei… romeni. Chiamati dai vicini slavi e greci col nome dato ai romani antichi:
vlacchi.

55
Marcu Beza: (1885-1949?) scrittore a-romeno, pubblicista, console, accademico della Romania. Opera letteraria,
folosofica, storica, saggistica, viaggi, ecc. Morto, ucciso dal regime comunista, dopo anni di prigione dura, in Romania.
Il documento è un manoscritto trovato nella biblioteca del monastero “Panteleimonos”, nr.5788,281, pag.69-72.
77

Non fu detto che tutti i vlacchi avessero dato fastidio ai monaci; solo i pecorai, richissimi, abili ed
esperti, che arrivavano in gran numero. Il loro formaggio si vendeva al mercato di Ragusa più caro
che quello degli altri. E, come uomini, erano i più ricercati, sulla Costa Dalmata, per la loro
resistenza non comune, in materia di… amore. Ad ogni modo, non sono stati i monaci, abitanti
dell’Athos, ad essersi lamentati contro di loro, bensì vari monaci e prelati di fuori; ed ora non si sa
se lo hanno fatto per zelo apostolico o per pura invidia.

Il documento in questione racconta come nei 37 anni di regno di Alessio Comneno, i


vlacchi, pastori di pecore e capre, avanzando, sono penetrati nell’Athos, è vero, con l’approvazione
del superiore della Lavra, che aveva avuto l’accetto del Patriarca e dell’Imperatore.
Con le greggi, però, hanno portato anche donne “in aspetto di uomo”; e “molte orge ed oscenità
hanno commesso queste sfacciate, in abiti da uomo”, e, si capisce, non da sole, bensì in dolce
compagnia di giovani novizi. I monaci -seri- dell’Athos, inorriditi, si sono lamentati all’Imperatore,
aiutati dai cori esterni dei “lamentatores”. Il devoto Alessio ha ordinato di scacciare
immediatamente tutti i pastori con tutte le loro mandrie.
Ci deve essere, però, qualche altro motivo della rivolta dei monaci contro i pastori valacchi e
non la presenza delle donne, ( il ché è stato un pretesto intelligente). Fatto certo, i valacchi hanno
ricevuto più documenti di stima e libertà di pastorizia da parte delle comunità di Zografou, o
Esfigmenou.

“Una volta, però, che il bestiame ed i vlacchi sono andati via dall’Athos, che commedia! I monaci,
invece di ringraziare Dio perché ha allontanato da loro una grande perdizione e flagello, pulendo
la montagna dove Lui, (Dio) ci ha resi degni di vivere, hanno cominciato a lamentarsi come degli
sventati. C’era grande cordoglio nell’Athos! Ma chi se ne sarebbe immaginato? I frati, giovani, ma
anche vecchi, ambivano al marciume dei vlacchi, ricordando il latte, il formaggio, la lana, gli affari
e soprattutto le gozzoviglie che combinavano insieme e le baldorie che sono state scoperte solo in
seguito. Certamente, il diavolo era entrato nelle anime dei vlacchi, perché si tenevano le donne in
abiti da uomo come “pecorai” che pascevano le greggi e servivano i monaci nei conventi,
portando loro formaggi, latte e lana; ed impastando loro il pane nei giorni di festa. Però le cose da
loro commesse è vergognoso a dirle, sentirle o scriverle.
Devo dire che i bramosi di simili fatti si sono pentiti senza indugio, hanno corretto i loro errori, dato
che, “sia gli ignobili, che i monaci virtuosi, venendo a sapere di questi mali, le hanno condannate
ad alta voce ed hanno scritto al Basileo ed anche al Patriarca”.
78

Dai manoscritti ritrovati risulta che sono stati emanati, a riguardo, 22 ordini di Sua
Beatitudine, con l’accordo del Basileo: i primi permettevano ai vlacchi di entrare nell’Athos; gli
ultimi li scacciavano, dopo le lamentele dei monaci.
Ci stanno delle lettere tra il Basileo ed il Patriarca stesso, sui vlacchi che “nascondono donne
pecoraie”.
In una di queste lettere, Sua Beatitudine si lamenta:
“Come i madianiti, che si adornavano le donne e le portavano davanti al popolo giudeo per
corromperlo ed allontanarlo da Dio, così il diavolo è entrato nelle anime dei vlacchi che ornano le
mogli e le ragazze in vestiti da uomo, per perdere quelli che vogliono vivere piamente”.
Un altro manoscritto aggiunge:
“Più della partenza dei vlacchi dobbiamo parlare della partenza dei monaci. Perché l’immondo
demonio ha trovato un bello strumento di macchinazione della cattiveria; e così, ha ispirato ai
monaci l’idea che l’ordine del Patriarca, perché i vlacchi venissero nell’Athos fosse una decisione
benedetta. Ed ora, dopo il decreto di espulsione, scacciandoli, i monaci si sarebbero resi
mortalmente colpevoli verso le loro anime. Perciò, sentendo questo discorso, molti di loro si sono
turbati profondamente: monaci e anacoreti che per 50 o 60 anni avevano lottato col diavolo e non
si erano mossi dalle loro celle. Ora,a mo’ di scemi, uscivano piangendo e dicendo uni agli altri:
ohinoi, da oggi non abbiamo più, né convivenza, né riposo, perché abbiamo cacciato via i vlacchi
ed abbiamo trasgredito un patto.
Ohi, la loro follia! E così uscivano a stuoli ed a gruppi, per la gioia del diavolo.”
I vlacchi erano quasi 400 famiglie, sulle cui greggi, il Patriarca voleva mettere la decima,
“ma poi non ha lasciato gli arconti di farlo, per non sovraccaricare i monasteri. Insieme coi vlacchi
sono usciti dall’Athos una grande moltitudine di monaci, così che vedevi i monasteri custoditi solo
da ciechi, storpi e vecchi. “
Più tardi, superata la disposizione patriarcale ed imperiale, i vlacchi, però, non sono più
entrati nell’Athos; e, per un tempo, fino alle crociate, la vita dei monaci, dicono, si raddrizzò e le
comunità risorsero dalla decadenza. Ma è d’allora che si è rafforzata la custodia della Sacra
Montagna per far rispettare seriamente la proibizione della presenza delle donne e delle femmine
animali, “sorgente di gozzoviglie e di pensieri mostruosi.”

Indubbiamente, la mente umana è imprevedibile! Se fosse vero che la presenza di donne


pecoraie sui pascoli dell’Athos, lontane dalle mura fortificate dei conventi, era un pericolo morale
per i religiosi, oggi, con le turiste seminude per tutti i conventi e le basiliche del mondo, non ci
sarebbe salvezza per i (pochi) frati rimasti. Emerge, invece, più certa, la spiegazione di questi
79

“scandali” di un millennio fa, nell’invidia e nella brama dei vari tiranni locali, barbari appena
arrivati, di tassare i pastori e di impossessarsi delle povere mogli. Le quali lavoravano travestite
anche per questo motivo. Eppoi, cosa volete? Che migliaia di uomini –pecorai- abbandonassero
migliaia di mogli o fidanzate a Ouranopolis, in compagnia delle pecore femmine, come noi, che
abbiamo lasciato la macchina in questa città di confine, presso la porta del parroco? E, siccome
avevano ricevuto il permesso di entrare con le mandrie sul Monte, cosa dovevano fare, questi
vlacchi? Non offrire ai monaci latte, formaggi e carne? Erano andati su quei pascoli solo per le
fotografie? Ora che, insieme con il latte, sfuggiva qualcosa di più, tutto questo non era
programmato. In questa materia non c’è legge che tenga, salva quella della famosa aria: “Un po’
meglio a imposturar, per potermi corbellar”56.

Nel 1142, gli Atti di Zografou menzionano dei monaci copisti e predicatori con nomi
romeni: Ioan il Vlacco, Stefan il Vlacco, ed anche una certa filosofa, Eudochia la Vlacca; mentre a
Hilandariou il gruppo di “vlacchi” richiedevano la presenza di un prete, tutto per loro, in mezzo ai
bulgari, serbi e greci. Come si vede, i vlacchi non erano solo pecorai, bensì intellettuali, artisti, o
storici, come Cosma Vlaccos57, pur se mimetizzati fra gli slavi occupanti ed i greci prepotenti. Anzi,
alcuni, per vendetta della Storia, divennero capi di stato, dignitari temuti, vendicatori terribili.

DUNQUE, CHI SONO I VLACCHI?

Ma davvero, chi sono i vlacchi?


Ecco chi sono! Sono i romani! Romani e basta! La Roma di oggi trascura o sottovaluta la
forza romanizzante, liberamente accettata e non terroristicamente imposta ai popoli che ha occupato
ed ha incivilito.
Ma, torniamo ai termini : Vlacchi, vlahi, valacchi, volochi, blachi, vlochy….sono le parole
con le quali gli antichi germani chiamavano un tribo celtico, poi i romani della Gallia, Italia e del
Est-europeo. Con questo nome barbaro furono chiamati dai germanici, dagli slavi e dagli ungheresi
anche i neo-latini, italiani e romeni.
Nelle Terre romene e nei Balcani essi sono i vecchi tracci, daci, geti o bessi romanizzati
sotto l’occupante romano. Hanno finito per parlare il latino, un latino rustico, non lontano dai vari
dialetti italiani, ancora attuali. Gli unici tracci non romanizzati sono rimasti gli attuali albanesi. I

56
Un’ aria di Don Bartolo di “Barbiere di Sevilla” di Rossini.
57
?
Autore dell’interessante libro di storia ”Chersonesos”
80

Balcani, dunque, per qualche secolo parlavano solo tre lingue: greco al sud, tracco-albanese al sud-
ovest, romano al centro e nord; e si chiamavano ufficialmente: Romània.
Poi, si patì l’invasione slava e bulgara, più brutale e più lunga di quella degli altri barbari. Il
Danubio divise in modo strano i destini: al nord, furono i romani a ingoiare gli slavi, dopo essersi
salvati nelle foreste, lungo le acque; e la Romània si salvo, spostandone l’accento e trasformando il
romano in : romeno ; ma al sud, il fenomeno fu inverso: gli slavi sopraffecero i romani, senza
ingoiarli del tutto. I figli di Roma furono in parte massacrati, in parte cacciati al Nord del Danubio,
dove si rifugiarono presso i fratelli, leggermente autonomi. I romani rimasti nella Penisola si
trasformarono in : istro, megleno ed a-romeni. Perciò, i Balcani rimasero un mondo ultravariegato,
in permanente combustione. L’unico popolo che sparì furono i bulgari, che da mongoli, arrivati nel
679 con il loro Asparuch, divennero…slavi, perdendo completamente la loro lingua turanica. Non
prima di distruggere più di un esercito bizantino per tutto l’800, uccidendo anche l’Imperatore
Niceforo. Krum, il capo dei bulgari, (802-814), ne fece incastonare il cranio in un involucro
d’argento e vi bevve nelle feste il vino, fino alla fine dei suoi giorni.
La popolazione romanizzata della Penisola Balcanica rimase assai numerosa, anche dopo
questa invasione; ma nei Balcani e nella Pannonia, non poté organizzarsi in Stati indipendenti,
(come al nord del Danubio, nell’attuale Romanìa), perché i popoli non romani, arrivati, erano e
sono ancora terribilmente intolleranti.
I vlacchi vi rimasero, (sottomessi) nei Balcani, dissimulati in varie maniere, perdendo tutto,
ma non la lingua, pur se parlata in segreto e non scritta.
I greci, poi, (i quali, per i tracci, albanesi, e per questi romeni ingombranti nei Balcani
provarono sempre disprezzo fino all’odio), li chiamano fin’oggi cutzovlacchi, distinguendogli dagli
italiani.
Ancora nel 2000, per uno vlacco dei Balcani, soprattutto della Grecia, ( che fa parte della Comunità
Europea), parlare la propria lingua è pericolo di morte. Mentre, per un italiano, ritornare nella Terra
dalmata degli avi è altrettanto improbabile.
È chiaro che l’orgoglio dei greci attuali è semplicemente infantile: la loro nuova lingua ha
adottato la sintassi e l’ortoepia neo-latina, già da secoli. Da dove se l’hanno fatta immergere
nell’anima, se non dai vlacchi italo-romeni, in millennaria coabitazione? E, con tutto ciò, un
sagrestano di Giannina58, (Costìca) che ho indovinato come vlacco, ed ho avvicinato, spingendolo
di parlare romeno, mi rispose sottovoce:

58
Vecchia città greca nel nord del Paese, che abbiamo visitato più volte, nei nostri passaggi per Athos e Costantinopoli.
Oggi la trascrivono in originale: Ioannina.
81

-Amico, nei Balcani governati dagli slavi e dai greci, noi, romeni-latini- siamo chiamati per
mistificazione, cutzovlacchi, e non abbiamo permesso neppure di pensare in romeno. Se ci sentono,
ci ammazzano.
-Non è possibile!
-Lasciami stare!
Ed era l’uomo del Metropolita.
Nel 1988, il Vescovo di Vidin rispondeva alla mia osservazione che la sua città era piena di
gente che parlava romeno:
-Oui, ils sont des bulgars qui ont appris le roumain.
Ma erano romeni puri, senza diritto di esistenza.
Intanto i vlacchi, (chiamiamoli così, dal brutto soprannome dato loro dagli invasori),
prepararono una specie di vendetta, accumulando vecchi risentimenti. Si tratta, questa volta di un
quarto gruppo di romani-romeni, resistenti nei monti Haemus-Balcani, i quali, mettendosi al
servizio dei capi tribù dei bulgari ed approfittando del fatto che questo popolo era ancora in cerca di
identità, arrivarono ad imporsi come veri comandanti dell’esercito, manovrando gli slavi e
incoraggiando la slavizzazione dei bulgari. Ma i bulgari furono mangiati vivi dall’Imperatore
Basilio II, chiamato apposta, “il mangiatore di bulgari” e la loro Chiesa grecizzata. Ai vlacchi
ordinò di sottomettersi a un certo Niculitza I (980) e al Patriarca slavo di Ochrida (1020). Perciò,
essi non godettero di un ritorno alla latinità.
Nel 1066 i romeni della Thessalia si ribellarono a causa delle tasse esagerate imposte dall’ingordo
di guadagni, il Basileo Constantino X Dukas, e mandarono il loro governatore, Niculitza II a
perorare la loro causa. L’Imperatore lo cacciò semplicemente e gli scontenti si misero a
saccheggiare le città. Dukas li accontentò per pura paura; ma esiliò Niculitza nell’Asia minore.
La storia si ripeté nel 1185, quando due fratelli vlacchi, Pietro ed Assan, si presentarono a Sua
Maestà, l’Imperatore Isacco II Anghelos, (1185-95;1203-1204;) chiedendogli di diminuire le tasse.
Sono stati scacciati in malo modo, uno di loro pure schiaffeggiato.
Inutile raccontare ciò che hanno combinato al ritorno. Riuscirono ad aizzare alla rivolta non solo i
vlacchi, i bulgari ed i serbi dei Balcani, ma anche i romeni del nord del Danubio, organizzando il
primo “Impero” Romeno-Bulgaro, con la capitale a Tàrnovo. L’Imperatore non fece in tempo a
vincere i ribelli, perché fu gettato dal trono dal suo caro fratello, Alexis, (Alessio) III, Anghelos,
(1195-1203). Così si provocò la IV-a crociata che doveva rimetterlo sul trono.
Ma, nel frattempo, un altro vlacco, cioè romeno, Ionitza Caloiano, (1197-1207) riprese la
bandiera del secondo Impero Romeno-bulgaro, con pretese moltiplicate, di essere incoronato, cioè,
Imperatore vero e di avere un Patriarca autocefalo. ( Ignoro se questa smania di sentirsi Imperatore
82

apparteneva a Ionitza, ma lui aveva capito che i bulgari non vogliono un semplice re. Ancora nei
nostri tempi, i loro piccoli re si chiamano Tzari, per tenere petto a Mosca e a Tzarigrad ! Per quanto
riguarda il Patriarcato, il discorso è uguale. I greci, ancora oggi, non sopportano di avere dei
semplici vescovi. Tutte le diocesi, anche minuscole, hanno dei “metropoliti”. Questo augusto
sentimento si chiama con una bella parola, sempre greca: megalomania).
Il Papa, il furbacchione che era l’Innocenzo III, il quale aveva sentito delle imprese d’armi
di Ionitza e non poteva lasciar perdere l’occasione di riprendersi i bulgari sotto la Chiesa di Roma,
lo riempì di lusinghe per il suo sangue romano, gli mandò la corona di Tzar, ed anche il cardinale
Leo per ordinare un Vescovo latino, mentre Ionitza accettava di far cambiare rito ai suoi sudditi,
reintroducendo la lingua latina nelle chiese, la quale era stata proibita dagli slavi, nei secoli IX-X.
Ohi, se ci fosse riuscito! Per i bulgari, non ancora del tutto slavi, non sarebbe stata una tragedia
diventare (neo) latini di lingua, invece che slavi. Se avessero conservato il Rito latino,- dato loro
attraverso il futuro Papa, Formoso-, oggi, forse, avremmo un altro popolo neo-latino: i bulgari. Ma
per i vlacchi-romeni, sarebbe stata la chance della loro storia.
Ma les chances si contano a gocce sulla terra. Quando i crociati fondarono l’Impero Latino a
Costantinopoli, Ionitza volle mettersi d’accordo con loro sulle frontiere, anche perché i nobili della
Traccia gli avevano offerto la Corona imperiale - a condizione di cacciare i latini dalla capitale-. Il
borioso Baldovino di Fiandra, (del resto, uomo affabile, per quanto manipolabile), rifiutò con
disprezzo il dialogo con lui, offendendolo gravemente. ( I franki, che in quell’epoca non avevano la
cultura raffinata della France e neppure quella bizantina, avevano però nel sangue quella speciale
alterigia, con la quale hanno divorato cinicamente le opportunità di molti popoli durante questi
millenni). Ebbene, Ionita, furioso, si alleò coi vecchi nemici contro questi ingrati parenti di sangue:
si scagliò contro il nuovo Impero, vinse Baldovino, (nella battaglia del 15 aprile 1205), lo fece
prigioniero, se lo portò a Tàrnovo, e se lo cacciò nella più nera delle carceri. Il disgraziato franko
morì lì, miseramente, con tutte le suppliche di Papa Innocenzo. Si capisce che, per stizza, Ionitza,
ma soprattutto il suo successore, Ioan Assan II, gettarono la corona papale, il rito, la lingua latina, e,
per stupida rivincita, obbligarono i romeni di ritornare all’uso dello slavo nella Chiesa e nei
documenti pubblici, imposto dai tiranni slavi già dal secolo X. Quest’obbligo, sotto il pretesto della
conservazione dell’ortodossia, umiliò i neo-latini romeni fino verso il 1700 ed anche dopo. E con
quale inaudita e non cristiana violenza ! Per più di quattro secoli, ci fu un continuo autodafé, fra i
vlacchi e nei Paesi romeni, in cui perirono (quasi) tutti i documenti, le lettere, le iscrizioni, i ricordi
scritti in latino. A chi parlava apertamente latino gli si tagliava la lingua. Era, questa, la specialità
degli ecclesiastici, in funzione anti-papale, ma anche slavo-nazionalistica ante terminem. I romeni
delle Terre romene libere ricominciarono a scrivere romeno nel 1600; e con lettere latine nel’800.
83

Bravi! E la Chiesa Ortodossa Romena, i cui preti scimmiottavano lo slavo senza capirlo, ancora
oggi si vanta di aver conservato l’identità dei romeni.
I vlacchi servivano anche da traslatori. È così vero che la parola vlacco era percepita come
nome di tutti i latini, che il Ducato di Neopatra, formato dai crociati dopo il 1204, contenendo la
Thessalia, la Pelasgia e la Locride fu chiamato ufficialmente “Il Principato della Grande
Valacchia”. Più tardi, Papa Clemente VI ( 1342-52) li chiama “olachi-romani”. Mi piace credere
che allora, più di oggi, i crociati veneziani capivano perfettamente la lingua dei vlacchi del luogo.
Sciaguratamente, c’era l’odio religioso che li divideva; per cui hanno pagato caro, tutti quanti.
È bellissimo essere stati percepiti nei Carpazi e nei Balcani come a Roma: da romani, pur se
sgorbiati con un nome malsonante. I vlacchi, romeni di un altro dialetto, furono per me, per Gigi e
Sergiu, la più bella sorpresa nei nostri viaggi nei Balcani. Gli abbiamo trovati dappertutto: negli
autobus, al mercato, per strada, in chiesa, sulla Sacra Montagna. Solo con loro, un romeno
dell’attuale Romania può fare l’esperienza che un piemontese fa con un napoletano. Nel 587, un
soldato, nei Balcani, gridò ad un altro: torna, torna, fratre! Ma oggi, con un istro-romeno ho
preferito parlare in italiano, la sua parlata sembrandomi una specie di cinese… Esperienza gioiosa,
unita con la triste constatazione che i vlacchi non hanno nessuna libertà nazionale negli Stati dei
Balcani. E così, sono condannati alla sparizione.
No, io non sono un nazionalista, da provare dispiacere per il successo dei non latini. Soffro, però,
per il loro destino. Il romano è, di certo, molto più ospitale con lo straniero, e questo si vede
fin’oggi nei paesi neo-latini. Viceversa, è un disastro, o quasi.
La casa dei miei avi e le mie vere nostalgie di cittadino della Roma italiana appartengono al Sud
della Romania, che da sempre si è chiamata in esclusività “Terra Romena 59”, chiamata dagli altri
“Valacchia” con le sue tre provincie: Oltenia-la mia, Muntenia-con le capitali storiche,
Campolongo, Argesci, Tàrgoviste e Bucarest; e Dòbrogea, la provincia situata tra il Danubio e il
Mare, (con la Tomis di Ovidio). Mio nonno materno, però, il grande artista Popian, è nato nello
judetz di Vlasca, l’unico a serbare nel nome il suono che ricorda la massima concentrazione di veri
romani nelle foreste di Vlàsia- a due passi dall’attuale Bucarest. Ho ricordato questi nomi e luoghi,
perché ognuno è legato fortemente al destino dell’Athos.

L’avventura storica della Sacra Montagna continua dopo Sant’Athanasio, con 1000 anni di
costruzioni, fondazioni, donazioni principesche, ma anche di saccheggi e ricostruzioni, fra pirati,
barbari, eretici ed invasori, provocatori di incendi e disgrazie di ogni sorta, queste ultime, sollevate
dall’invidia umana contro un luogo, comunque, paradisiaco, dedicato al vero Dio.

59
In romeno: “Tzara Romàneascà”.
84

Dal 1340 fino ai tempi di Alexandru Ioan Cuza,-1859- i sovrani romeni elargirono ad
Athos tutto, quasi tutto, come la vedova del Vangelo, dando in uso agli athoniti i migliori monasteri
delle Terre Romene. Solo Matei Basarab tentò, nel 1641, di sottrarre ai greci, (non solamente dell’
Athos, ma anche delle Patriarchie orientali, del Sinai, ecc..) i monasteri.
I greci si offesero a morte, ma, se vogliamo approfondire, Madamina, il catalogo è questo:
-In Muntenia-Oltenia,44 monasteri regalati alle Patriarchie orientali e ad Athos;
-In Moldavia, 31 monasteri, più 30 metochi da tutt’e tre le Terre romene; (il metocho, essendo un
piccolo convento a mo’ di ambasciata;)
Da questa lista, per l’Athos solo, 26 monasteri, 12 metochi e 120 poderi, ecc…..
Il 17/29 dicembre, 1863, il sopraricordato Domn romeno, Alexandru Ioan Cuza, con la legge
della secolarizzazione degli averi ecclesiastici espropriò tutti gli averi della Chiesa Ortodossa, cioè
il 25% della terra arabile del paese. (In Francia, nel 1789, la Chiesa era stata più modesta: aveva
solo 7%). Cuza volle pagare 30 milioni di franchi di indennizzo, (7 essendo il provento annuale),
ma i religiosi greci lo rifiutarono sdegnosamente; non perché non amavano il denaro, ma perché non
concepivano accontentarsi con una semplice mancia.
Cuza era un massone che spogliò la Chiesa nella migliore tradizione risorgimentale, anti, anti,
anti…. Fu, però, un patriota. Con lui, unto Domn, si realizzò la prima unificazione dei Paesi romeni,
nel 1859, e, per amor di pace, non ritornò dall’esilio nel quale lo avevano vomitato le stranezze
della storia moderna. Le bocche benevoli lo legano ai Cuza della Lorena, a Nicola Cusano, ai Cuza
della Sicilia. Quelle cattive lo rilegano fra i borghesi arrivisti, sprezzante della tradizione devota dei
grandi mecenati, suoi antecessori. Sarà anche vero: non mandò calici dorati ad Athos; ma neppure,
teste di nemici al massacro, come i Domni, suoi predecessori ultraortodossi.60
Di lui si raccontarono barzellette a palate; ma quello che noto qui fu fatto vero: quando fece la sua
visita protocollare al Sultano, come Capo di Stato della Romania moderna, andando a Messa presso
la Patriarchia del Fanar, Sua Santità il Patriarca interrompete la celebrazione e lo apostrofò
dall’altare, dandogli dell’ anticristo. Fu salvato dai giannizzeri musulmani, per non finire scalpato
dai buoni ortodossi greci.
Fin’oggi, il nome Cuza è odioso per l’anima religiosa greca. Ma nel 1876, anche lo Tzar espropriò
le proprietà athonite e non sembra che abbia avuto lo stesso trattamento. Infine.
Il vero motivo dell’ira greca è che le terre romene sono state sempre percepite come
paradiso per quei monaci. Almeno così si esprimevano, lorsignorie, nei vari documenti, nei lugubri
tempi del’400, dell’invasione turca. Resta il fatto che l’Athos, com’è oggi, esiste grazie ai Principi
romeni. Perfino uno storiografo russo, il vescovo Porfirio Uspenski riconobbe (che miracolo: un

60
A parte l’assassinio del suo primo ministro, Barbu Catargiu, di cui le stesse bocche cattive lo fanno responsabile.
85

russo che riconosce!!!) : “Devo affermare che nessun popolo ortodosso ha reso all’Athos servizi e
onori come i romeni”61

FARSI MONACI

Ma non è il monastero una fuga dal mondo corruttore, mondo che non permette all’uomo di
essere fedele a Dio, a se stesso ed ai 10 Comandamenti?
Dite di sì; il mondo contamina, perseguita il vero cristiano e il monaco spera di salvarsi da
questi tragici pericoli.
Ma, una repubblica monastica permette meglio questa fedeltà a Dio e soprattutto a se stessi?
Senza voler essere rigoristi o estremisti, la risposta corretta, in assoluto è : no. Però, un po’ meglio
del mondo.
Si ritira in convento chi sente la vocazione monastica. Ed anche chi pensa, sbagliando, di
averla; ed anche chi si programma di sbagliare.
Strano mistero, questa vocazione. Essa ti convince in modo assoluto che il vero ideale e
scopo di questa vita è quello di servire il Creatore e di prepararti all’unione completa con Lui
nell’eternità. Questa esigenza, presa sul serio, diventa così forte, che ti offre la forza di abbandonare
lussi e pompe, per fuggire nella solitudine di una foresta, o in una comunità di sconosciuti, dove
nulla di mondano ti lega a loro, dove tutto ti ripugna. Dove puoi vivere la povertà e l’obbedienza.
Dove è più facile rimanere casti.
C’è qualcuno che replica:
-Potevano rimanere nelle proprie case, nascosti nei popolosi deserti che sono le nostre
metropoli, per accudire sino alla fine le mamme o i nonni, abbandonati dai figli indaffarati; farsi
umiliare e disprezzare dai propri familiari, egoisti e maligni; farsi torturare dagli squallidi paesaggi
della propria borgata e programmarsi la preghiera incessante nella solitudine dei grattacieli. Con
altre parole, se si vuole solitudine, disprezzo e persecuzione per il Regno dei Cieli, non c’è luogo
più adatto che nella propria famiglia, nella propria borgata, nella propria parrocchia.

Ci stanno però due aspetti che diventano meriti impagabili per chi abbandona la propria casa
e va in convento: compie il comandamento di diventare straniero su questa terra, senza la
consolazione della casa avita, (la cui avvicinanza resta una consolazione, a prescindere dalla
cattiveria dei fratelli); e si mette nella condizione di non possedere nulla di proprio, neppure la
volontà, sentendo per sempre il vuoto e l’inutilità della vita. Essere sottomessi a un superiore, che,
61
In Hristianskij Vostok, tom.III,3,Mosca, 1880,pag.334; Istorija Athos, Kiev, 1877,pag.334.Vedi dettagli in “Le
millénaire du Mont Athos, II, ed. Chevetogne, 1963, pag.145ss.
86

nel bene e nel male, ti condiziona e ti umilia è un martirio più autentico della decapitazione per
Cristo, di fronte a una folla spaventata che ti ammira.
D’altra parte, il rischio di lavarti le mani, nel nome dell’obbedienza, come di cadere nell’idolatria di
te stesso, da superiore, -o di imporla ai sudditi-, è una realtà accertata.
Il giorno dopo la realizzazione dell’elevatissimo intento, la realtà si mostra più crudele: ti
smarrisci fra le piccolezze del quotidiano e ti sprofondi nei brutti intrighi delle passioni, fino ai
capelli. Cominci annodare amicizie nuove, più pericolose di quelle abbandonate; sogni carriere
gerarchiche, impensabili nella vita passata; ti fai invadere da premure di sopravvivenza, mai
immaginate prima. Insomma, ondeggi fra il terrore dell’annientamento e il desiderio sempre più
appassionato.
Molti hanno scelto i conventi isolati per il romanticismo delle foreste, dei parchi monastici,
delle architetture o delle pitture immortali, come pure per gli onori che ricevi come membro di un
Ordine famoso. Sì, anche chi ha una vera vocazione può sprecarsela con queste lusinghe.
Se, invece, nulla di tutto questo ti contamina e la purezza d’intenzioni è perfetta, beato te! Confesso
che chi vince tutto questo, sente, dentro, una felicità illimitata.
Siccome, invece, l’essere umano nasconde nel cuore un vivaio di espedienti e stratagemmi, i
monaci, anche loro, non sfuggono a questa trappola. Ciascuno sceglie un modo per raggiungere
l’agiatezza dalla porta di servizio. I monaci dell’Athos che optano, per esempio, per la vita solitaria,
(idioritmica), obbligati di pensare alla propria sopravvivenza, si trasformano in contadini, perfino in
piccoli proprietari, o mercanti, col diritto di uscire per condurre gli affari, e poi, di lasciare in eredità
la cella, la chiesa, la terra circostante ai discepoli, se non venderla, semplicemente. E, se sono
penetrati della vena nazionalistica, si fanno in quattro per eliminare i loro confratelli di altre lingue
e di altro sangue dalla Sacra Montagna. Anche con mezzi forti. Ma questa è un’altra storia che non
mancheremo di raccontare.
Poi, ci sono (c’erano: forse non ci sono più!) coloro che in base alla santità dei luoghi sono stati
considerati santi, essi stessi; e, chiamati ad alti ranghi, fuori dall’Athos, diventano, (diventavano)
grandi prelati, per esempio nei Principati romeni. Di loro, il buon Negruzzi62 dice che : ”il nostro
clero, i cui capi sono venuti dal Fanar e dalle tane del Monte Athos, si deliziavano in una vita di
lusso, infingarda e scandalosa……”
L’esempio l’hanno avuto, i miei avi, nel magnifico monastero di Horez,-Romania, (6 km. dalla casa
dei miei nonni, che oggi è, per Grazia di Dio, mia). Si tratta del temuto staretz di Horez, chiamato
Hrisant; che a noi risulta simpatico, in quanto sembra che, grazie a lui, 7 monasteri nelle nostre
fredde terre di Vàlcea-Gorj possiedono castagni commestibili, portati dalla Grecia. Hrisant, venuto

62
Illustre scrittore romeno classico, 1808-1868.
87

dall’Athos, contemporaneo del sovrano Barbu Stirbey (1850), regnava da Egumeno63 come un
satrapo su centinaia di monaci, con schiavi che faticavano su 100.000 ettari, su carovane di prodotti,
su stanze segrete piene di sacchetti con oro e diamanti, che nessun ladro sapeva scoprire. Nelle
feste, Hrisant girava in una carrozza principesca, tirata da sei cavalli, con due monachelli dietro e
tre frati cavalleggeri. Guardava le danze contadine e ordinava ai suoi sbirri di rubare le ragazze più
attraenti, con le quali si deliziava nel suo appartamento segreto dentro il convento, dove, oltre ai
suoi organi prominenti, le aspettavano ricchi regali. Per non rischiare vendette, buttava dalle
finestre e dalle verande somme importanti di denaro ai villani. Difendeva i borghigiani e, fra un
amore ed altro, ha anche curato un fratello, debole mentale, del Sovrano, immonacandolo.
Insomma, si faceva perdonare, e la gente (intelligente!) lo adorava. Sembra che abbia avuto un
finale tremendo. Forse ha fatto in tempo di leggersi Boccaccio.64
Perciò,…non è difficile capire la rivolta dei romeni contro il dominio della spiritualità greca; non
per togliere il vizio ed instaurare la virtù, bensì per godere i vizi e le virtù nella più perfetta
autarchia….

Sarò l’ultimo a disprezzare la vocazione monastica. Racconto solo i fatti che confermano le
mie riserve. Forse perché io sono idioritmico per …vocazione. Ma, piuttosto, perché Dio vuole,
nelle grandi scelte, sincerità e serietà totale, cosicché la ricompensa, anche su questa terra, possa
essere…divina.
Non è completo questo discorso, senza la menzione dell’ elemento coagulante, che è la
disciplina liturgica, teologica e ascetica, che i monaci athoniti, sparsi- per fuga o per missione-
hanno imposto a tutte le chiese ed i monasteri bizantini, anche ai più lontani della Siberia. Una vera
funzione di universalità. L’unificazione liturgica, attraverso “l’Ordo” del Superiore della Grande
Lavra, Filotheo, futuro Patriarca di Costantinopoli; e l’Isicasmo, con l’insistenza sulla preghiera
continua e sul Nome di Gesù, (aldilà delle implicazioni teologiche), hanno creato una vera riforma
della vita religiosa ortodossa.
È questa la via dei monaci, con tutte queste luci e con tutte queste ombre. Così li ho visti
dappertutto, in tutti i riti e su tutti i meridiani.

ED IL VOTO DI CASTITÀ?

63
Per il termine greco igoumenos, i romeni ortodossi usano lo slavo staretz, mentre i cattolici usano la parola superior.
Noi, qui, adoperiamo questi titoli come sinonimi, a seconda dei casi.
64
Vedi anche l’articolo"Horez”, ìn "Anuarul Soc. Soveja”,I,pag.32ss, Bucarest,1933.(rom.)
88

Non devi essere troppo maligno per farti la domanda: ma i monaci, con i loro voti, hanno
davvero il coraggio di affermare che vivono senza i piaceri proibiti del sesso?
Ebbene, sì, lo giurano e ci tentano, lottano e vincono. Nel mondo super-adultero e super-perverso in
cui viviamo, le debolezze come le loro sono ombre angeliche. (Sic!)
Sappiamo, però, che, in questa materia, il luogo sacro o profano, la compagnia o la solitudine, l’età
o l’istruzione non hanno nessuna rilevanza. Dall’ appassionata Norma, che peccava nel luogo sacro
e la cui tragedia la cantò l’immortale Bellini, fino all’ultimo di noi, le cose sono due: o vuoi peccare
ed allora inganni tutti o non lo vuoi, ed allora, lotti e vinci.
Resta il fatto che i peccati del sesso, da come siamo informati dalla Bibbia, si pagano con
molte sofferenze e castighi, in vita e dopo. Fa dunque meraviglia la leggerezza con la quale la gente
pecca in questa materia; e resti stupito della scelta di molti giovani che riempiono i conventi, in
Athos ed altrove, i quali non sembrano rendersi conto di cosa vuol dire la quaresima a vita in
materia di sesso. No, no, a molti voti puoi fare lo sgambetto, ma non a quello di castità, attraverso il
quale proibisci a te stesso il piacere sessuale di ogni tipo, in ogni momento, in ogni circostanza, per
sempre, per uno scopo supremo, divino.
Perciò, quando vedi religiosi troppo… allegri, non puoi eludere questo dubbio: ”ma come faranno a
vivere da vergini o da casti?”
Se è per questo, si dice che il cardinale Enea Silvio Piccolomini, poi Papa Pio II, (1405-1464) si
stizziva con chi osasse riternerlo casto. Compose personalmente quell’oscenissima commedia,
Chrysis, per ingannare la noia della Dieta di Norimberga….
L’astinenza dalla “carne umana” è molto più dolorosa di quella dei cibi: prova che la
Quaresima dei cibi è rispettata da masse innumerevoli di “ortodossi”, che, per mesi non toccano, se
non verdura e legumi. Ma quell’altra….. Io, a un giovane che si lamentava che il prete non gli aveva
dato l’assoluzione, perché convivente, (ma lui, seccato, protestava di aver serbato tutta la
Quaresima a pane e verdura) gli ho risposto divertito:
-Ehi, caro mio, hai retto la quaresima senza carne di maiale, ma non senza carne di donna!
Ecco perché il sapientissimo, Nuovo Testamento, dice chiaro: “non tutti possono capirlo, ma
solo coloro ai quali è stato dato; chi può capire, capisca.”65. Per gli altri, invece: “Per il pericolo
dell’incontinenza, ciascuno abbia la propria moglie ed ogni donna il proprio marito”, ecc…66
Quando uno sceglie la verginità o la castità perpetua, deve essere sicuro di possedere le virtù
della rassegnazione e della Fede in maniera eroica. Deve essere certo di voler pazientare, per
soddisfare tutte le sue brame, nel Regno dei Cieli, dove la beatitudine supera ogni immaginazione e
65
San Matteo,19,21.
66

?
I Cor.7,2.
89

piacere umano. Altrimenti claque, senza eccezione. La guerra contro il proprio corpo è molto più
dura e più eroica di tutte le guerre o gli sport performants mai visti sulla terra, perché i nemici sono
più aggressivi, più pericolosi, più insidiosi. “Opponetevi fino al sangue” ci richiamano gli Apostoli.
Ed il Signore ci invita a tagliarci la mano, o cavare l’occhio, piuttosto che cadere….
No, non fisicamente. C’è sempre spazio per il dominio di sé, nel non usare mai le tue membra per il
peccato, comportandoti come se fossero tagliate. Il santo monaco Haralambio, egumeno a
Dionisiou, in Athos, (+2001) raccontava che un giorno era venuto da loro un uomo che si era
tagliato i genitali, per salvarsi dal desiderio. Gli avevano salvato la vita, ma lui si lamentava: le
brame, i suoi desideri erano rimasti uguali. Lo Staretz gli ha amministrato altri metodi, ascesi dura e
preghiere, che hanno vinto la passione dopo anni di lotta67.
Del resto, uno che usa i piaceri sessuali, anche se benedetti nel Sacro Matrimonio, non può capire i
vergini ed i casti, non può scrivere trattati in materia, libri ingannatori di cui sono piene le librerie.
Ma neppure, viceversa. Nessuno, nessuno di coloro che parlano o solo scrivono più di tanto
sull’argomento del sesso si sottrae al segreto compiacimento dell’eccitazione… Questa verità rende
ancora più ridicoli i monachelli che compongono-e vendono- interi libri sui peccati del sesso,
rapporto uomo-donna, sodomia, ecc.., in un linguaggio superstilizzato, (volevo dire sublimato), per
lo sconcerto di tutti noi, i curiosi, che frequentiamo, voraci, le librerie. Io li sfoglio tutti, senza più
leggerli, perché mi innervosiscono. Non mi riconosco e non riconosco neppure i miei penitenti nelle
tentazioni vi descritte, come neppure nelle vittorie. E quando sento, anche sulla bocca di consacrati,
teorie moderne sulla castità, che escludono con disprezzo l’idea di guerra continua contro il corpo, -
che è tortura parossistica dei propri sensi- o deridono la fuga dalle feste mondane, anche le più
innocenti, l’unica parola che li rivolgerei, sarebbe: ipocriti!
Aldilà di ogni teoria, la realtà è questa: i celibi cristiani, consacrati o no, si dividono in due
categorie ben distinte: una minoranza esigua di vergini e casti perfetti, che non si sono mai
procurata o non si procurano più, la soddisfazione sessuale, in nessun modo; non guardano i corpi
degli altri-altre e non guardano neppure se stessi. Essi godono di grazia divina speciale, meritata
anche con la preghiera perpetua.
La seconda categoria, leggermente più numerosa, è di quelli che cadono in qualche peccato impuro,
col pensiero, con lo sguardo, anche con il corpo: da soli o con altri e altre; ma soltanto per grave
debolezza, o dimenticanza, o smarrimento; i quali non godono del peccato, perché a quel poco di
piacere che sentono gli replicano con pianti e pentimenti perpetui, non permettendosi mai di
adagiarsi nel piacere.

67
Vedi Damaskinos, Padri dell’Athos, op.cit. pag.122.
90

I falsi celibi, invece, consacrati o no, entrano nella categoria di tutti gli altri, i quali cercano il
piacere, lo sviluppano, lo incoraggiano, se lo godono quando vogliono e quando possono, da sposati
o da non sposati, benedetti o non benedetti. Il piacere sessuale divide l’umanità in due: chi se lo
gode e chi no. Non ci sono somiglianze fra i due schieramenti; ed i monaci, come anche i sacerdoti
celibi, hanno giurato in modo solenne di fare parte del secondo schieramento.
Come si comportano, a riguardo, i monaci dell’Athos?
Vista l’atmosfera di selvatico abbandono, organizzata apposta per spalleggiare i frati contro i
peccati mondani, ti convinci del fatto che l’Athos è il modo ideale per vivere la tua donazione a Dio.
Nella vita comunitaria, cenobitica, sei più controllato, condizionato, censurato; i deboli possono
resistere meglio, se sono sinceri e non si fanno “amicizie particolari”. In quella solitaria, i pericoli
sono diminuiti, in questo senso. Ma non illudiamoci. Anche in questa condizione privilegiata, chi ha
deciso di ingannare se stesso ed il mondo, vive il sesso da solo o in compagnia; riceve riviste
impure da fuori e visitatori appassionati, più o meno perversi. Ma ne saranno pochi, questi monaci,
e fra essi, pochi i peccatori incalliti; il resto, cancellando con lacrime e tristezza l’attimo di piacere
proibito, cammina sulla via della perfezione.
Non mi fate ricordare il racconto dello scrittore franco-romeno Panait Istrati, “Monaci del
Santo Monte”, che lui chiama autobiografico. Ma, oramai che ci siamo, fatemelo descrivere, perché
è possibile che non sia inventato. E poi, Istrati è stato un tipo originalissimo, se perfino un Nikos
Kazantzakis si è impressionato di lui, incarnandolo nel suo immortale Zorba il greco.
Panait parla di un suo viaggio di ritorno in Romania nel 1907. All’inizio, fa delle allusioni: il suo
amico, Mihail, gli aveva scritto che abbandonava l’Athos, perché, “mancando il sesso femminile, lì,
puoi avere un certo piacere solo se paghi con la stessa moneta. Se vuoi avere, devi dare.”
Frase ambigua, anzi, di cattivo gusto.
È più vero che l’attrazione soverchiante della castità di un monaco puro sentita dai vari depravati
mette costui in un costante pericolo di essere ammaliato e poi violentato. ( Vale ugualmente per il
genere femmineo).
Sul pontile di sbarco del monastero russo, Panteleimonos, Istrati conosce un giovane staretz68
romeno, di 35 anni, lavato, lindo ed azzimato, che recitava versi omerici e beveva un cognac
confezionato manu propria. Mentre beveva, accarezzava le guance di un imberbe, in mezzo a tutta
la gente. Il ragazzo era uno dei suoi accompagnatori, oltre a un vecchio asceta che gli stava accanto,
in continua preghiera. Istrati fa amicizia con questo Padre superiore e si ingoia tutti i suoi discorsi
filosofico-teologico- morali, culminati con un bacio appassionato che riceve vicino alla bocca. Ma
Panait prende tutti questi gesti per affetto monastico e fraterno.

68
Il termine slavo, passato anche in romeno, del Superiore, Egumeno.
91

Lo staretz comincia:
- Non posso vivere come i monaci dell’Athos, a pane, acqua e verdura. A me piacciono tutte le
bontà della terra. Esse vivono nel mio sangue. Non ho la forza di torturare il mio corpo. Sia fatta la
volontà di Dio! Avrà pietà di me!
Poi, più tardi:
-A me, il mio monastero ( in Romania), non basta. Sono monaco e sacerdote da quando avevo 25
anni, ma non ho sentito la devozione nella mia anima che solo dal momento in cui ho cominciato
frequentare il Santo Monte, ed inebriarmi della sua luce, della sua solitudine, della sua bellezza,
ecc.ecc…
Lo scrittore si entusiasma della figura di questo singolare staretz, delle sue preghiere, della sua
apertura culturale, e diventano amici, tanto da guadagnarsi un invito insistente, per tutto un mese,
nel suo piccolo monastero dei Carpazi.
Sono poi costretti a fermarsi in un piccolo albergo a Costantinopoli, per cambiare nave, ed il
religioso invita Panait Istrati con loro, pagando per tutti. Accontentato, lo staretz finisce di bere, per
troppa gioia, 7 bottiglie di birra, sufficienti per fargli cambiar volto; si alza, chiude la porta a chiave
e si scaglia addosso al giovane Istrati, “eccitato come un cavallo” con le terribili parole:
- Ed ora ti ordino di obbedirmi!
Lo scrittore si difende, ma il prete, per un po’, non gli rompe la testa con una bottiglia scagliatagli
contro. Istrati lo riempie di botte e si affretta ad abbandonare l’albergo-trappola. Con più disgusto,
ancora, sente dietro di lui i due compagni, il vecchio ed il giovane, in lacrime, che pregavano:
- Perdona Signore a questo pagano che ha osato colpire uno staretz!
“Bravi, si disse; sempre io, non lui! Bravi”!
Il racconto è pieno di allusioni maligne su quell’Athos, dove qualcuno si sente incoraggiato a
cercare la solitudine, la bellezza, lo spirito, al modo del giovane staretz….
Mah…. La verità è che Istrati grida il suo disgusto, a riguardo, con troppa foga, ricordando
l’osservazione dello Scarpia a Tosca, (conservando le proporzioni!). Di lui, come di altri due suoi
amici scrittori, si sono dette le stesse cose… Ed è, perciò, sospetto.
No, no, la maggioranza dei monaci, fra vecchi e giovani, vivono decisamente senza i piaceri
del sesso; e non sopportano quasi nulla dei gesti, abiti, ceffi e smorfie di chi viene a turbare la loro
pace. Si nascondono davanti a questa gente perduta nella lussuria, sapendo di non essere né capiti
né amati; e non puoi condannare la loro apparente freddezza, perché è l’unica difesa fisica davanti a
chi non può vivere senza i piaceri del corpo.
92

…. C’è però una virgoletta, sottile, sottile, che sospende ogni discorso a tutto campo: nel
libro del monaco Karambelas69, sotto il titolo “Diamanti spirituali” il grande Padre spirituale
Calinic, l’isicasta, dice:
“Dobbiamo stare attenti a non sporcarci con il peccato impuro. Chi cade nel peccato del
corpo, sente che Dio lo ha abbandonato. Chi ha reso una grande ingiustizia o ha commesso un
crimine, osa ancora entrare in chiesa ad accendere le candele, ma chi sporca il suo corpo con
l’impurità, non ossa neppure avvicinarsi alle icone.”
Hm! Istrate stesso si sentì dire dal giovane staretz:
-Io, per venire ad Athos ed avere il suo clima spirituale, sarei capace anche di uccidere!
Magnifico, davvero! Ecco perché sono convinto che i monaci dell’Athos non sono degli
impuri. Omicidi, sì, possono essere, anche ipocriti, invidiosi, ladri. Impuri no, né con donne né con
uomini. In nessun modo.

TEOLOGIA e SPIRITUALITÀ SPECIFICA ATHONITA

La Sacra Montagna sembra calma e quieta, ma, nel pensare e nel vivere la Teologia, i
monaci del monte Athos sono presi da una furia passionale e da un’agitazione che desta
ammirazione ed inquietudine. Siamo lontani dall’intesa fraterna e saggia fra il greco, San Nilo di
Grottaferrata e i frati di Montecassino, ( anno 1000) che, insieme, hanno scoperto l’identità del loro
sentire, con parole diverse. In Athos, fra ortodossi e fra monaci stessi, la storia ha registrato delle
vere guerre teologiche, dei veri atti di martirio, per cose essenziali, come la difesa della “Chiesa
Ortodossa”; ma anche per mille bazzecole, prese per capitali, o per tendenze liturgico- teologico-
ascetiche, che hanno ferito gratuitamente l’anima cristiana.
Nel primo caso notiamo la difesa della fede ortodossa davanti all’invasione crociata e dello
sforzo dei latini, in quel lontano 1204-1274, di latinizzare e cattolicizzare all’occidentale il mondo
bizantino; occasione perfetta perché l’avversità anti-latina si trasformasse in odio profondo ed
accecante!
Nel secondo, basta la controversia dei kollyvades, 70 alcuni secoli fa o del Santo calendario,
ancora in atto. Ce ne occuperemo.
Nel terzo, basta ricordare l’apparizione, proprio su questa montagna, della pratica e della
filosofia teologica isicasto-palamitica.

69
Su questo libro ritorneremo più volte in queste pagine:H. K., Padri spirituali contemporanei del Santo Monte Athos,
vol.I,Buc.2005, pag.170ss.(trad.rom.).
70
Parola che proviene dalle celle monastiche ma anche dalla collyva, il dolce per i defunti che si offre nei requiem
bizantini, che “i collyvades “ proibivano in giorno di domenica. Vedi avanti, cap. a loro dedicato.
93

È cosa normale, anzi, dovere, difendere la propria Fede. Il gesto dei latini di convertire, a
forza, il mondo ortodosso, è stato un errore madornale, frutto, non solo di fanatismo, ma anche di
ambizione adolescenziale (: tipica dell’Occidente, in molti altri rami della vita). Esso ha aizzato il
già innato sentimento anti-latino dei greci, dando all’Athos una tinta profondamente anti-
occidentale, vicina a quella del nemico Islam. I sostenitori dei latini-crociati fra i bizantini sono
chiamati con odio “latinofroni” ed incontreremo le loro tracce per tutto il percorso della nostra
visita e nella storia tormentata dei vari monasteri. Detto questo, però, non si possono assolvere così
facilmente, né i monaci athoniti, né l’intera Chiesa Ortodossa. I loro teologi e prelati non fanno
nessuno sforzo decisivo per capire l’equivoco teologico che separa le due Chiese-Ortodossa e
Cattolica-Romana ed i veri propositi dell’altro. La vera guerra fra le due Chiese si fa per imporre il
temperamento, la meschinità, i gusti artistici e gastronomici, le retrogradezze proprie, scambiate per
dogmi immortali. Questo fatto fu finalmente capito, (non del tutto) dai cattolici attuali. Ma
nell’unione, come nel divorzio, non si può fare tutto da soli.
Poi arrivò il terzo fattore, il palamismo, che radicalizzò in modo risibile e tragico la differenziazione
dall’Occidente, l’antipatia inclusa.
Non vi immaginiate, per favore, che i tempi portino progresso. È dei nostri giorni, (di apparente
apertura!) la teoria –greco-ortodossa- su un’ “antinomia fondiaria” (ontologica ?!) fra “la
spiritualità bizantina e la devozione occidentale”. La teoria è portata avanti da chi ambisce
l’originalità, veri talebani dentro la Chiesa. Per ogni cristiano devoto che prega e studia le Cose
sacre, una simile teoria è un falso in atti pubblici. L’identità di fede, dottrina e mentalità -a livello
delle menti di buon senso dei “due mondi”- è attestata dal modo di fare teologia nei “secoli bui”
dell’Ortodossia, secoli XVI-XIX ; quando un Patriarca come Kiril Lukaris (1620) si è ispirato a
testi calvinistici, mentre il Metropolita romeno di Kiev, Petru Movilà si è ispirato a testi cattolici
scolastici e tridentini71, per realizzare una ”Confessione ortodossa”, approvata da tutte le Chiese.
Idem, per un Patriarca anticattolico come Dositeo, (1641-1707), che scrisse la sua Confessione in
termini scolastici latini.
Oggi, gli studiosi li accusano di ignoranza teologica. Ma era solo buon senso, anche se, nel caso di
Lukaris, ci fu qualche deviazione.
Nei tempi nostri, fra i monaci dell’Athos, come in tutto l’ambiente dei teologi bizantini,
cresce la tendenza di opporsi sempre più al Cattolicesimo. Sono esaltati i Santi, (o canonizzati i
polemisti) che più furono anticattolici, tipo Fozio, Cerulario, i prelati anti-uniti; e, per amor di
grecità, un Imperatore controverso, come Giustiniano. È vero che anche i teologi e prelati cattolici,

71
Era un adattamento felice del Catechismo di san Pietro Canisio
94

con il loro Modernismo suicida e le arie di agnostici che si danno- perfino dai pulpiti- fanno di tutto
per nutrire la diffidenza degli orientali.
Se, tutti quanti, avessero l’umiltà di riconoscere che, aldilà delle Parole bibliche e del Credo dei
Concili, la speculazione teologica è approssimativa, le varie Chiese sarebbero già unite nell’unica
Chiesa di Cristo, che, ad ogni modo, nella sua parte invisibile, è rimasta Una sola; mentre se si
volessero aprire tutti gli archivi del tesoro teologico e liturgico-spirituale, nascosto negli armadi
della Chiesa Cattolica, Essa basterebbe per ogni richiesta, per ogni pretesa, per ogni temperamento.
Non capiscono inoltre che oggi la divisione fra cristiani si basa su un criterio trasversale, uno solo:
chi ancora crede e accetta la Bibbia nella sua interezza e chi non la accetta più, rigettandola in parte
o dandole significati simbolici. Per questi ultimi, confessare ancora il Credo ed i vecchi dogmi, per
non dover chiudere i battenti, è un grave atto di incoerenza e di ipocrisia. E questi cristiani, ( intere
comunità, intere chiese) sono la maggioranza.
In questo senso, Gigi, diventato sacerdote, predica una grande verità: dice che tutta questa
gente che continua ad opporre le Chiese, l’una contro l’altra, vuole restare schiava della Storia. Non
vuole superare una realtà ereditata, ingiusta, assurda. Difende bandiere illusorie, pur di battersi
falsamente a nome di Dio. Questa realtà è più vera ancora nel caso dell’Ortodossia -Cattolicesimo,
dove la Fede è identica, anche se nella teologia e nel culto si hanno alcune contraddizioni. Ma
questi contrasti, nel primo millennio, sono stati accettati da ambo le parti: a tal punto che nel
calendario “ortodosso” di oggi, si onorano decine di Santi che hanno difeso i dogmi “cattolici”,
condannando le posizioni “ortodosse”; e nel calendario “cattolico”, decine di Santi difensori dei
dogmi “ortodossi”, condannati da Roma.
Aldilà di ogni polemica, rimane un fatto che nessuna delle parti valuta nella sua interezza:
la spiritualità del Monte Athos è interamente teologica, ascetica e mistica. Non esistono altri
interessi nel cuore del vero monaco athonita. (Il non-vero vuol dire il deviato dai veri interessi
monastici). L’Athos pensa ai Dogmi, per non tralasciarne nessuno. I Dogmi devono essere
conosciuti, pensati e vissuti. Essendo ricchissimi di significati e la vita umana breve, non puoi
permetterti altro.
L’ascetica gioca un ruolo essenziale. Si comincia col digiuno e l’astinenza, la povertà,
l’accontentarsi delle briciole, in tutto. Non correre dietro le comodità della modernità.
La mistica è essenziale e promuove una sola preoccupazione: l’unione con Dio attraverso la
divinizzazione portata da Gesù Cristo. È vero che questa unica preoccupazione è lo specifico
dell’Ortodossia, ma è il merito del Monte Athos, già dalla sua apparizione, se la tendenza a questo
unico ideale è stato spinto all’apogeo ed imposto a tutta l’Ortodossia, come gesto specifico.
95

Vedere Dio, unirsi con Lui, diventare come Lui. L’occidentale, con il suo temperamento da
Marta, con l’attivismo moderno spinto all’assurdo, (che, però non si confonde con l’amore per il
prossimo), non ha tempo e forze per realizzarlo. L’Oriente attuale, invece, un po’ per la divisione
delle Chiese, un po’ per l’esagerazione palamitica, la quale toglie il realismo autentico del gesto,
(ce ne occuperemo nei capitoli seguenti), finisce anch’esso per realizzarlo solo a parole. Tutto
questo non toglie che la vera gloria del Monte Athos, sia il pensiero, l’ideale della divinizzazione,
vissuto e predicato a tutti i livelli.

ISICASTI E PALAMISTI

Chi capisce, però, la controversia “palamisti ed anti” detiene la chiave del disprezzo
reciproco che fu nutrimento delle anime per secoli e lo è, ancora oggi, fra i due mondi cristiani.
La teologia e la mistica del palamismo ruota intorno al mistero della divinizzazione; ma piuttosto
intorno a un gesto del Signore, accaduto sul Monte Tabor, quando si trasfigurò davanti a tre dei
Santi Apostoli, mostrando chiaramente di essere Dio; (vedi San Matteo, 17, San Marco e San Luca,
9.) ….. Mille duecento anni dopo questo magnifico miracolo, alcuni monaci isicasti si misero la
domanda:
-Ma noi come potremo godere in questa vita di quella luce e felicità assaporata dai Santi
Apostoli sul monte?
Prima di tutto, chi sono gli isicasti?
Se dobbiamo essere fedeli al significato originario, ( forse non più valido), ne sarebbero
dovuti essere quei monaci seri e contemplativi, (come sta bene ad un monaco: isichia, vuol dire
silenzio, pace contemplativa, quiete), la cui vita è preghiera continua, anche in mezzo alle attività.
Non nel senso di trasformare il lavoro in preghiera, bensì all’inverso. L’isicasta contempla e sfrutta
i poteri del Nome di Gesù e dell’Eucaristia. Nelle poche pause di questa attività, egli lavora,
mangia, aiuta, si riposa ; ma anche durante queste attività obbligatorie, egli prega e non torna il
pensiero dal Nome di Gesù e del ricordo della Luce divina che, pur non visibile, è presente in modo
perfetto e continuo nell’anima e nell’universo di colui che prega e che fa la Comunione con il Cristo
Eucaristico. Questo modo sarebbe un dovere per tutto il genere umano; ma solo il vero isicasta
realizza questo dovere, vivendo con gli occhi fissati al cielo, in attesa della seconda e gloriosa
venuta del Signore, il ché è un sacrificio di propiziazione per tutti gli uomini, soprattutto per i
distratti, che a questo ritorno non ci pensano. L’isicasta ricorda incessantemente il Santo Nome di
Gesù e contempla la preghiera perfetta che è il ”Padre nostro”; così riceve, per lui e per gli altri,
poteri, ispirazioni e lumi sovrumani.
96

Il merito degli isicasti è quello di aver sempre ricordato a chi ha prestato loro attenzione che,
non tanto le virtù e le opere proprie realizzano l’unione con Dio, bensì la preghiera incessante della
mente e di tutto l’essere, frutto della Fede senza dubbio e del desiderio di Lui. Essi diffusero questa
verità in mezzo al popolo, sollevando tutto un esercito di pellegrini, (non solo russi), in ricerca di
padri spirituali e di metodi di preghiera incessante, trasfiguratrice e rivelatrice di misteri.
Ammirevole ideale; il quale però si sviluppò, in seguito, nella pretesa di vedere, già su
questa terra, qualcosa della gloria divina. Si pensò dunque di forzare la Grazia, di quasi obbligare
Dio a dare questo dono a qualcuno. L’amore del prossimo, senza condizionamenti teologici è stato
messo in disparte in modo impressionante.
So che gli isicasti mi possono accusare di essere offensivo. Ma, aldilà delle frasi fatte, ci serve la
sincerità, senza la quale, anche noi, qui, galleggeremmo nella sublimazione.
I monaci, a cui per primi venne questa speranza (di vedere la Divinità attraverso qualche
esercizio ascetico), tenevano ad essere considerati successori di San Dionigi l’Areopagita, ( non il
vero, bensì il falso), di San Simeone il Nuovo Teologo, (+ 1092) e di qualche altro asceta antico. In
seguito, per autoconvincersi e per convincere, hanno stiracchiato tutti i Padri della Chiesa, per farli
corrispondere al loro punto di vista. Due piccoli opuscoli, scritti negli ultimi decenni del secolo
XIII, consigliano la pratica isicasta: ”Intorno alla custodia del cuore”, metodo della santa
preghiera e attenzione, di un monaco italiano, Niceforo il solitario, l’isicasta, (anti-romano,
sembra, ed anti-unionista, stabilitosi nel Monte Athos, in quell’epoca); 72 e un altro libro, spurio,
sotto il nome di San Simeone, il Nuovo Teologo.
All’inizio del secolo XIV, la vita isicasta era abbandonata nel Monte Athos, sia per mancanza
di risultati, che per evidenza dell’errore teologico. Si capisce, i monaci poco seri ma anche i più seri
non presero sul serio questi metodi, fin quando, un giorno non arrivò in Athos un uomo, tutto
speciale: il monaco, Gregorio il Sinaita, dall’Egitto ( 1265-1347). Il quale era venuto con la mente
piena di molti sogni e di molti piani per restaurare la vera vita contemplativa. Ma, arrivando sul
posto, ne rimase profondamente deluso. Non ne aveva la minima ragione, potete starne tranquilli: se
non fosse stato prevenuto, avrebbe potuto ammirare l’ascesi e la preghiera continua di molti devoti,
i quali non avevano né pretese, ne sogni di apparizioni, visioni o consolazioni divine su questa terra.
Ad ogni modo, l’impresa per la quale si era preparato, gli riuscì.

STUDIAMO LA BIOGRAFIA DEL SINAITA 73

72
Ma fu esiliato con un intero gruppo antiunionista, dopo il 1274. (Vedi avanti).I suoi testi sulla preghiera, in Filocalia,
trad. rom. di Padre Dr. D.Stàniloae, vol. 7, pag.10ss, Bucarest, 1977 .
73
La sua vita fu scritta da Calisto, suo discepolo e futuro Patriarca di Costantinopoli, (1350-53 e 1355-63), palamista
97

San Gregorio il Sinaita nacque nel 1265 a Kikilos, sulla riva occidentale dell’Asia Minore.
Sotto il regno di Andronico II,( 1282-1328), fu fatto prigioniero dai musulmani e fu venduto come
schiavo a Laodiceea. Fu riscattato da alcuni cristiani della Siria e, liberato, raggiunse Cipro, dove
apprese la vita ascetica da un eremita. Poi andò in pellegrinaggio al Monte Sinai dove vi rimase,
dedicandosi in tutta obbedienza all’ascesi, come pure allo studio della Scrittura e dei Padri. Per
sfortuna sua, l’ambiente del celebre convento di Santa Caterina del Sinai gli divenne insopportabile,
poiché alcuni monaci furono presi da invidia per la vita severamente ascetica che Gregorio
conduceva. Lasciò Sinai. Sarà stato minacciato di morte dai confratelli? Non è impossibile. Si portò
con sé il discepolo Gherasimo, passò per Gerusalemme e raggiunse Creta.
Lì, si mise a cercare un maestro di vita contemplativa. All’improvviso bussò alla sua porta un
monaco chiamato Arsenio, il quale si offrì di introdurlo alla piena conoscenza della vita
contemplativa.
Arsenio insegnò a Gregorio in quale maniera, (attraverso la cura della mente, -nous- ed attraverso lo
studio, la preghiera pura e la meditazione) ci si può illuminare e divenire “completamente
splendenti”. Panaghiotis Christou dice che “ proprio in questo modo nacque l’isicasmo che,
inizialmente ebbe carattere tecnico”.
Gregorio rimase a Creta per molto tempo. Poi s’imbarcò alla volta del Monte Athos, che,
forse doveva essere la sua meta iniziale. Ma qui, dice lui, dopo faticose camminate e lunghe
ricerche, non trovò monaci dalla vita contemplativa; solo asceti osservanti il monachesimo pratico.
Qualcuno avrebbe potuto chiedergli:
-E ti pare poco, questa ascesi pura?
Ad ogni modo, non cercò abbastanza in profondità, altrimenti avrebbe trovato fra Niceforo
ed i suoi discepoli, che praticavano già l’isicasmo classico, senza le implicazioni pericolose
successive. Ma lui, oramai, era convinto di aver imparato come raggiungere la visione della Luce
attraverso la tecnica isicasta e voleva arrivarci ed insegnarla ad altri.
Dopo varie peregrinazioni nella Montagna, si stabilì in una cella della skiti Magulà, presso
Filotheou, ove tre monaci si dedicavano saltuariamente alla vita contemplativa. Un giorno, mentre
era inginocchiato davanti al Crocefisso, e, con la mente rivolta dentro di sé ripeteva
incessantemente la preghiera di Gesù, una luce immensa, come quella che gli aveva descritto
Arsenio a Creta inondò il suo eremo. Rinvigorito e confermato da questo prodigio che vide come
azione dello Spirito Santo, Gregorio avvertì di aver subìto “uno straordinario cambiamento”, che,
certamente, fu osservato da altri. Fu così che un grande numero di discepoli si radunarono attorno a
lui. Oltre a Gherasimo e i tre, si unirono a lui Callisto, Isidoro, Marco e Longino. Anche il
Palamas fu considerato suo discepolo, ma l’informazione non è certa. Al contrario, pur vivendo
98

vicini sul Monte, sembra che non si sono incontrati e neppure molto stimati. Quando scoppiò la
controversia isicasta, Gregorio si è nascosto, anzi, era già lontano e, pur lasciando liberi i suoi
discepoli a diventare palamiti, lui non lo divenne mai.
In seguito all’ esperienza della Luce, ( il cui significato teologico non approfondì), Gregorio
si mise ad insegnare questo tipo di isicasmo, imparato da Arsenio, (che chiameremo originario) ai
monaci dell’Athos, anche se non rinunciò ad alcuni viaggi fuori della Sacra Montagna, sognandosi
la Palestina, il Sinai, ed altri luoghi sacri. Fuggì a Salonicco, a causa delle scorrerie turche. Lì,
lasciò Isidoro, anche per motivo missionario: insegnare ai monaci delle città la pratica
dell’isicasmo. Si rifugiò sui monti Balcani, poi nella Capitale; ma fra turchi, ladri, amici e nemici,
non era lasciato vivere. Tornò un'altra volta sul Monte in un luogo dove, più tardi, un suo discepolo,
sempre un Gregorio, fece costruire il Monastero Grigoriou, e poi abbandonò definitivamente la
Sacra Montagna, insieme con Callisto e un altro nuovo, fra Davide, stabilendosi sul monte
Katakriomenos, sul confine bulgaro. Lo Tzar bulgaro, gli offrì la sua protezione contro i briganti
del luogo, per cui gli fu facile fondare tre grandi lavre, avendo radunato molti discepoli. Il luogo fu
chiamato Paroria e divenne un centro ascetico greco-slavo- frequentato anche dai romeni, da dove
Gregorio tenne corrispondenza con i basilei ortodossi del tempo: il bizantino, il bulgaro, il romeno
Alexandru. Insomma, un piccolo Athos, fuori dell’Athos, la solita tentazione continua- e non
sincera- dei cultori dell’Athos. Qui si formò il futuro santo Maximos il Kavsokalivita, ritornato in
Athos, per insegnare l’ascesi athonita imparata fuori dell’Athos. Gregorio si occupò anche dei
discepoli bulgari, ai quali insegnò la patristica nella loro lingua: Teodosio di Tàrnovo, Romil di
Vidin, Eutimie di Bulgaria, Cipriano di Kiev, tutti, prelati santi che salvarono il salvabile della
Chiesa di fronte all’islam. Incontreremo i loro nomi ed i loro destini nel nostro viaggio nei
monasteri athoniti. Dobbiamo notare che i discepoli, Isidoro e Calisto divennero in seguito
patriarchi della Capitale e sostenitori di Palamas.

Vediamo ora quale è l’“insegnamento pratico dell’isichia”, di questo isicasmo originario,


di Gregorio il Sinaita; lo riprendiamo dai suoi testi, cap.4,2 74:
“Seduto sin dal mattino su uno sgabello basso, introduci forzatamente il tuo nous ,
distogliendolo dalla sua attività razionale, dentro il tuo cuore e trattienilo rinchiuso in esso.
Chinandoti poi forte su te stesso, e premendo il petto, le spalle, il collo, grida insistentemente in
maniera poetica e psichica: “Signore, Gesù Cristo, abbi pietà di me”! Poi, mutando la metà della
frase, ripeti: “Figlio di Dio, hai avuto pietà di me”…. Trattieni il tuo respiro, così da non poter

74
Nella “Filocalia”, trad. rom. vol. 7, pag.186ss, op.cit., ne abbiamo un testo più lungo e più dettagliato, più altri
capitoli magnifici sulla preghiera ascetica e mistica. Nella ed. italiana gli scritti di G. S. si trovano nel vol 3 e 4.
99

respirare liberamente; perché l’aria del respiro, che proviene dal cuore, offusca il nous, e fa
disperdere la mente, allontanandola dal cuore”.

Il seggiolino, in questione, deve essere sistemato in un angolo oscuro della cella, perché la
concentrazione sia perfetta. Si parla anche di una stuoia, sulla quale stendersi. Di conseguenza, una
volta seduti e recitando sotto voce, nel ritmo del respiro, la preghiera chiamata, in seguito,
“semplice”: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore”, i discepoli, e, dopo di loro, tutta la
Chiesa Ortodossa, aspettano di vedere la Luce divina del Monte Tabor. Questa pratica fu poi diffusa
dal libro del “Pellegrino russo” e fa parte della collezione di sublimazioni e dei titoli di vanto della
spiritualità “ortodossa” attuale.
Molti ne hanno riso allora, per un motivo, oggi per un altro. Furono chiamati “ombelicari”,
perché il libro spurio di San Simeone, il nuovo Teologo, aggiunge il fatto di guardare verso
l’ombelico, controllando la respirazione, secondo regole ben precise.
Ma i due Santi non si meritano questa ironica offesa di “ombelicari”, perché la frase “fissando lo
sguardo nell’ombelico” non esiste nell’opera di Gregorio il Sinaita, bensì nel sopraricordato libro
detto di San Simeone il Nuovo Teologo, ma spurio. Per la pretesa, però, di vedere la Luce divina,
furono tassati di “eunomianismo”, vecchia eresia.
Gregorio ed i suoi seguaci si sentirono dire dei rimproveri giusti ed ingiusti a palate:
- La luce che contemplate con gli occhi della mente è quella della immaginazione.
Oggi si dice:
- Con queste pratiche, lavorando male con il respiro, si può toccare lo stato di premorte, altrocché
Luce divina!
Però! Puodarsi che in questo stato, l’asceta raggiunge per un attimo l’aldilà, dove la visione
della Divinità è promessa con certezza a chi se La merita.
E, se, aldilà di tutto questo, la Luce divina si offre, davvero, a questi penitenti che vi
arrivano con questo esercizio, in stato di semiveglia o di premorte? Forse pre-sentono qualcosa di
sovrannaturale, gli isicasti. Di certo, l’immaginazione è l’icona della Luce vera, mentre è la Fede
che offre la certezza della sua presenza.

Un fatto prodigioso si è verificato, ugualmente: con la diffusione dell’isicasmo tecnico fra i


bulgari, si ottenne l’eliminazione del bogomilismo, questa eresia manichea che, nel frattempo, aveva
raggiunto la Francia del Sud, dove turbò le anime sotto il nome dei catari e degli albigensi, dando
occasione all’Occidente ed al Papa di inventarsi la sublime istituzione della Sacra Inquisizione.
100

Gregorio il Sinaita morì il 27 novembre, 1347, onorato da bulgari, greci, valacchi, ma soprattutto
da Dio, “che glorificò le sue ossa e le sue reliquie”, portate in trionfo a Costantinopoli.
Non fu particolarmente seguito perché in tarda età ignorò la nuova corrente dell’isicasmo,
sviluppata da San Gregorio il Palamas, che, in un certo senso, lui stesso aveva iniziato.
Anche se si lasciò influenzare dal palamismo, identificando la luce del Tabor con la luce divina, non
ha mai distinto con precisione la luce “energia” dalla ousia, -la natura di Dio, come fa Palamas. Il
quale fu il primo, seguito da tutta la Chiesa Ortodossa ufficiale a non rendersi conto che la sua
dottrina era e rimane una grande eresia, introdotta nella teognosia della Chiesa bizantina, eresia che
supera di gran lunga tutte le altre eresie cristiane. ( Non perché, per noi essa sia importante; ma
perché essi ci tengono alla precisione della verità teologica più che a Dio Stesso).
Ed eccoci al punto: se tutto si fosse ridotto ad una pratica, nel nascondimento della cella, forse la
polemica non si sarebbe trasformata in vera guerra di religione, con morti e feriti da ambo le parti.
Gli isicasti, però, dovevano darsi una ragione teologica per questa loro ricerca. Dicevano, sì, che la
luce del Tabor era divina, non creata, ma, come accennato sopra, erano accusati di seguire l’eretico
Eunomio, secondo cui la natura di Dio è visibile in questa vita. Ora, questa convinzione è contraria
alla Scrittura, che dichiara: “adesso, su questa terra, vediamo solo come nello specchio, in maniera
confusa; solo in cielo Lo vedremo a faccia a faccia”.75 E la felicità eterna è “ciò che l’occhio ha mai
visto, l’orecchio ha mai udito ed il cuore dell’uomo ha mai provato: questo ha preparato Dio per
coloro che Lo amano”.76
San Giovanni, nel Vangelo, dice che “Dio nessuno l’ha visto”77. San Paolo lo completa: e nessuno
lo vedrà mai, “perché abita una luce inaccessibile, che nessuno fra gli uomini ha mai visto, né può
vedere.” Si tratta però dell’uomo sulla terra. In cielo invece, come anche sulla terra trasfigurata,
quando Dio -Gesù si manifesterà, alla fine dei tempi, nella gloria, “lo vedremo così come Egli è”. 78
Gli isicasti, però, non aspettano l’ultima venuta di Gesù, quando è chiaro che lo vedranno tutti,
“anche coloro che lo hanno trafitto”79. Sono sempre più convinti che Dio premierà il loro sforzo
ascetico e di preghiera e si farà vedere a casa loro, in questa vita. Non con il Suo Corpo creato,
risorto, sarebbe ben troppo poco, bensì nella Sua Luce eterna, non creata!!! Appunto, come sul
Tabor!
Inutile mostrar loro il verso della Bibbia che dice che “possiamo contemplarlo, sì, ma con
l’intelletto, nelle opere da Lui compiute”; 80o far capire che “ se ci amiamo gli uni gli altri, Dio
rimane in noi e l’amore di Lui è perfetto in noi”.
75
Nel 1 Cor.13, 12.
76
I Cor. 2,9.
77
Cap. I, 18.
78
Colossesi, 1,15; I Timot.1,17;6,16; Ebrei, 11,27;1 Giovanni, 3,2; 4,12, ecc…
79
Apoc.,1,7.
80
Romani, 1,20.
101

-No! Se si è fatto vedere sul Tabor, vuol dire che può farsi vedere anche a noi, hic et nunc!
-Ma la luce sul Tabor non era la divinità: era solo la qualità luminosa del corpo divinizzato di Gesù
Cristo. Qualità creata, frutto dell’opera di divinizzazione compiuta dall’Essenza di Dio sulla
creatura. Dio divinizza la creatura in modo progressivo, nel senso che la arricchisce con poteri e
luce, sempre maggiori, forse all’infinito, perché siamo immortali. Questo processo inizia su questa
terra, grazie al Signore Gesù Cristo, incarnato e risorto, che, da Dio che è, ha divinizzato, per primo,
il Suo corpo; poi quello di Sua Madre, e poi di tutti i Suoi fedeli. Però, però… mentre, il Suo, fu
divinizzato subito, (ma non si mostrò tale, che per un attimo, sul Tabor, e per sempre da risorto) e
quello di Maria, tre giorni dopo la sua morte, (quando fu assunta in cielo), i fedeli saranno
divinizzati alla risurrezione. Veramente, questo processo inizia per tutti col Battesimo, si continua
con gli altri Sacramenti e si sviluppa attraverso il rispetto delle regole della vita santa. I cristiani
devoti ricevono poteri, forse anche la luminosità del corpo, vita natural durante. Non si può negare
che, se Dio vuole, può rendere visibile questa luminosità per qualche attimo, mentre il fedele è in
vita, adesso, in mezzo a noi. Le stesse reliquie dei santi, (che mandano profumi, compiono miracoli
e non si deteriorano), godono di questi doni. Ma tutto questo è effetto dell’opera di Dio invisibile.
Considerare la luce del Tabor o la luminosità di qualche Santo come Luce divina (non creata), vuol
dire confondere la Causa, (Dio, Actus purus), con l’effetto (i poteri, le qualità acquisite dalla
creatura in seguito all’opera di Dio in essa). Il “divinizzato” appare luminoso e lo è davvero. Dio,
rinforzando le virtù e le qualità del suo servo, lo rende luminoso. La luminosità di Serafino di Sarov
e di altri santi è il risultato dell’opera dell’Essenza divina sulla sua creatura che diventa luminosa.

Che delusione! Allora, la luce del Tabor è creata? È solo un effetto?


Gli isicasti non si danno pace:
-No, non è perdonabile, questo discorso! I Santi monaci che divennero luminosi godettero
della visione divina!
-Ma, sì, godettero dell’agire di Dio, dell’intimità di Dio, altrimenti non sarebbero diventati
luminosi. Però, quella luce che si vede non è Dio, bensì l’effetto, nella creatura, della Luce ancora
invisibile, che è l’essenza di Dio!
Oggi ti rispondono, offesi:
-Impossibile! Se fosse così, quale sarebbe il discorso con gli isicasti russi? I loro staretz
sono diventati famosi, proprio perché vedevano la stessa luce non creata del Tabor! Primo fra tutti,
San Serafino di Sarov, “l’ideale della santità russa” che diventava tutto luce di fronte all’amico
102

Motovilov! Come? Tutto quello splendore era una povera qualità del loro essere? No, è
inammissibile! I nostri vedono la Luce divina non creata e la fanno vedere ad altri eletti! 81
I monaci palamiti odierni danno, come esempio attuale, il monaco Agostino, russo che
viveva nel monastero Filotheou. Dio lo ha ricompensato con un miracolo eucaristico, sentendo
nella bocca il pane come carne e il vino come sangue. Ma soprattutto, illuminandolo con la “Luce
non creata”, trasformando la sua testa in una specie di lampada accesa, cosìcché leggeva di notte
senza lampada a gas82.
Se, ancora oggi, questa faccenda accende tragicamente gli animi, immaginiamocela nel
1300 !
La situazione diventava seria ed i teologi seri ne erano preoccupati, Corte imperiale di
Costantinopoli e Patriarchi inclusi. No, non si poteva ammettere la pretesa di questi monaci di
vedere l’Essenza di Dio, la Sua natura inaccessibile, la visione beatifica sulla terra, prima della
risurrezione. Cominciarono le accuse e le condanne. La mente degli isicasti fu messa in dubbio.
E così, sul più bello, apparve San Gregorio Palamas.

“PALAMITI” VENGONO DA “PALAMAS”

Ritorneremo sulla figura del Santo, per eccellenza palamita, quando arriveremo nel suo
convento preferito, la Megali Lavra, in basso alla cella per lui preparata sulla montagna vicina. Ora
ricordiamo solo la trovata da lui escogitata, un vero espediente teologico, che riconcilia capra e
cavoli, ( non ne è l’espressione adatta, ma è la più schietta).
Egli chiuse la bocca agli accusatori di eunomianismo con il seguente ragionamento:
-Sì, è vero, la luce del Tabor, come anche la luce che possono vedere gli isicasti non è
l’Essenza di Dio, né la sostanza, né la natura di Dio. Ma è ugualmente divina, perché è un’energia
non creata che sgorga dalla sostanza di Dio; è inseparabile da essa, ma distinta in modo reale. A
differenza dell’essenza, essa, l’energia è visibile agli occhi umani, come sul Tabor. Perché sul
Tabor è apparsa questa energia divinizzante, che avvolge di luce la creatura, la quale fa sua la luce
non creata emanata dall’Essenza divina.
Per persuadere la Chiesa di questo fatto, Gregorio Palamas confessò che tutta questa verità gli
aveva risuonato all’improvviso nel centro dell’anima, convincendolo a scrivere innumerevoli
trattati, pro-memorie, saggi e lettere polemiche. Prese come esempio l’esperienza di tutti i Santi del
passato che, secondo lui, avrebbero avuto questa esperienza; perfino San Benedetto, pur senza

81
I testi del “Colloquio con Motovilov” di San Serafino di Sarov sono tradotti in italiano dal russo nel libro di Irina
Gorainoff, Serafino di Sarov, ed. Gribaudi, Torino, 1981.
82
Vedi anche il libro del monaco Damaskinos di Grigoriou, op. cit. pag.78ss.
103

nominarlo.83 Si fece aiutare dagli entusiasti della nuova teoria e la pubblicizzò in tutti gli ambienti,
soprattutto dell’Athos, dove era Superiore. La pace sembrava fatta: si salvava l’Essenza invisibile di
Dio e i detti della Bibbia, ma anche la pretesa degli isicasti di vedere Dio, nelle Sue energie non
create. Agli intenditori, però, il sofisma spuntò subito negli occhi: con questa trovata si attaccava la
semplicità di Dio. Già la Trinità è difficile da spiegare, per conservare l’unicità di Dio. Ora arrivava
anche l’Energeia, anzi, le energie dal numero infinito, tante quanti nomi, quante qualità, quanti
attributi, quante operazioni, piuttosto ad-extra, che Dio possiede ed opera. Una dualità strana,
introdotta nella Personalità di Dio, che non si era ancora verificata nella storia delle eresie.
I primi a protestare furono gli Scolastici, i latini, gli occidentali, anche se la polemica si
svolgeva dentro la Chiesa Bizantina, già separata da Roma. Questo fatto, però, spinse molti greci,
per pura antipatia nei riguardi dell’Occidente, verso la teoria di Palamas, trasformato, anche lui, in
paladino di tutta l’Ortodossia. In contraccambio, molti bizantini colti furono colpiti dall’assurdità
evidente della teoria palamitica. Perfino un monaco antilatino come lo studioso Barlaam il
Calabro, (+1348) fu costretto dalla coerenza filosofico-teologica, di attaccare Palamas:
-In Dio non c’è vera distinzione fra essenza ed energie, fra sostanza ed accidenti come nelle
creature. In Dio tutto coincide, Dio è Actus purus. La Sua vita, il Suo modo di essere non dipende
dalla relazione con le creature. Dio divinizza, sì, ma direttamente, attraverso la Sua essenza; la
quale fa maturare la creatura, senza farla diventare non- creatura. Non s’incarna come in Cristo-
Uomo, la divinizza da fuori, con la Sua essenza di luce, illuminando sempre più la creatura e
l’universo intero.
In questo senso si espresse anche Pietro Lombardo ed altri.
Più tardi, gli scolastici escogitarono la grazia creata, che aprirebbe meglio la creatura al
divino. Questa teoria complicò le cose, fin’oggi, introducendo l’idea che un accidente può essere
imposto a una sostanza dall’esterno. Si sviluppò così -rivelandosi sempre più chiara- la tendenza
dell’Occidente a dualizzare la creatura, esattamente come quella dell’Oriente di dualizzare la
divinità. Errori madornali, che si rispecchiano fin’oggi nelle più insignificanti scelte, come nelle più
essenziali, provocando l’incomprensione e le forzature filosofiche degli scismi successivi, come di
tutta la vita intellettuale moderna. L’idea dell’ energia creata aggiunta da fuori presso le creature
trova finalmente critiche anche fra i teologi cattolici più seri, ma solo nei giorni nostri.

Palamas non lasciò perdere: volle convincere che le energie non distruggono la semplicità di
Dio, perché sono inseparabili dall’essenza.
83

?
Lo dimostra Padre Em.Lanne, O.S.B. in “L’interprétation palamite de la vision del Saint Benoìt”, in “Le millénaire
du Mont Athos”, ed. Venezia e Chevetogne, 1963, vol.II, pag.21ss.
104

-Sì, gli si rispondeva, ma se le energie sono diverse dalla natura, introducono dualità in Dio.
-Sono diverse ma non c’è dualità
-Invece sì.
-Non è vero, la dualità è apparente….
E così, all’infinito.
Palamas si fece forte dell’affermazione di San Cirillo di Alessandria, che chiama la grazia
“una qualità” (poiotes), o “certa forma divina”. Così, il litigio si fermò su una cosa che tutt’e due le
parti consideravano “accidente”, (creato o non creato), anche se gli ortodossi respingono la parola
“accidente”, non accorgendosi di essere perfetti successori dei sofisti, la cui patria fu, appunto, la
Grecia.
In questa foga, Barlaam riscoprì le qualità della teologia latina, arrivata al suo culmine con
l’appena defunto San Tommaso d’Aquino; e, togliendosi il velo di antipatia- tipica del greco-
contro il romano, approfondì il pensiero dei grandi Padri latini e dei scolastici e divenne cattolico
romano. Con lui e dopo di lui, molti antipalamiti fecero lo stesso passo. Dall’altra parte, furono
messe in scena tutte le denunzie anti-romane di tutti i secoli, ed il numero delle eresie cattoliche
furono moltiplicate all’inverosimile, sino ai nostri giorni. A tal punto che, oggi come oggi, gli
ortodossi sono avvezzati a considerare che proprio a causa del rigetto della teoria palamitica, (della
distinzione reale fra sostanza ed energie in Dio), i “cattolici” professano eresie come il Primato
papale, il filioque, la grazia creata e tutte le altre espressioni, loro tipiche.
Per il trionfo di una delle parti, ci furono delle vere guerre. Erano così serrati nell’ostilità e nel
sogno, che Palamas stesso rischiò la vita, mentre i Basilei, la famiglia imperiale, i Patriarchi, tutti
presero posizione per una parte o per l’altra. E le polemiche, unite a odio e sangue indebolirono ciò
che rimaneva dalle rovine di un illustre Impero.
I Latini furono intransigenti fino ai giorni nostri, in questa materia, (oggi, di meno),
permettendo la distinzione fra essenza ed energie in Dio, solo per motivi didattici. Misero i palamiti
fra gli ontologisti, accanto a Gilbert de Poitiers, Gioacchino da Fiore,(1145-1202), Malebranche,
(+1713), Gioberti (+1852), Rosmini (+1855), tutti condannati dai Papi del loro tempo, con il grido
filosofico: “Dio è Actus purus o nulla. Actus purus o idolo. “
Invano fu ricordato ai palamiti che lo gnosticismo antico aveva parlato già di eoni divini ed
emanazioni come aspetti della mente divina, incompatibili con la semplicità e l’unicità di Dio.
Invano furono avvisati sul neo platonismo vincente, che anche per alcuni Padri era stato più
influente della Bibbia stessa.
Invano furono condannati i realisti nel medioevo, che facevano distinzione reale tra atributi
e natura divina.
105

Invano, infine, fu ricordato Sant’Agostino, per il quale gli atributi sono identici con
l’essenza, l’essenza essendo la pienezza dell’esistenza che include tutto. Ed il Signore, rivelando il
Suo nome e gli atributi ai Suoi fedeli, rivela la Sua stessa natura intima, il Suo carattere intimo, il
Suo essere essenziale.
Invano è stato detto che i 150 nomi di Dio presenti nell’opera di Santa Rosa da Lima o i 550
nomi di Allach, contati da Edwin Arnold sono identici con l’essenza, sostanza, natura, ecc…..
Perfino il moderno Karl Barth riconosce che, conoscendo gli attributi, conosciamo
l’essenza intima di Dio, non in modo esaustivo, ma progressivo: nell’infinito, non all’infinito. Dio,
insomma, è anche l’unità viva dei Suoi attributi.
Il palamismo continua dirci che l’essenza di Dio non sarà vista da nessuno, né dalla Beata
Vergine Maria, né dagli Angeli e tantomeno da noialtri. Mai e poi mai. Suggerisce, cioè, che Dio
rimane arrestato intellettualmente nel quadro della sua volontaria rivelazione di Se stesso, così che
neppure i profeti, o gli apostoli ispirati non possono e non trasmettono informazioni ontologiche
obiettive su Dio come è in se.
L’espressione “energie diverse, ma inseparabili”, poteva essere sopportata. Ma essa include
l’idea di una Divinità in due parti: una invisibile ed altra visibile. E, malgrado tutte le rassicurazioni
di Palamas e dei suoi teologi, si caldeggia l’esistenza di una parte superiore e di un’ altra, inferiore,
della stessa Divinità. I palamiti vogliono convincere che ogni energia contiene la divinità per intero;
che le energie sono solo manifestazioni esterne del Dio Unico e semplice. Biblioteche intere si
stanno ancora scrivendo, per difendere l’impossibile conciliazione fra la semplicità divina e la
differenza reale fra essenza ed energie, in Dio. I palamiti isicasti continuano a credere che vedranno
le energie divine in questa vita. Ed in cielo? Sempre le energie e non l’essenza. Con altre parole,
nell’aldilà non ci sono novità essenziali per la nostra esperienza. Non capivano allora, ma non
capiscono neppure oggi che la luce nel cuore è icona fatta dalla fantasia, su base dei dati della
memoria, dati del proprio passato. Questa realtà non si conosceva nella cultura del tempo di
Palamas, o nei tempi della Bibbia. E con tutto ciò, gli Autori Sacri della Bibbia non possono essere
presi in castagna in questo senso, come invece i palamiti, perché questa confusione non l’hanno mai
fatta. (Un argomento in più del carattere divino, ispirato delle Scritture, le quali trascendono tutte le
culture ed i limiti dei tempi).
L’ascesi isicasta che brama la Luce del Tabor, fosse creata o non creata, solleva un’ altro
problema: se, per un semplice esercizio, si arriva alla Luce non creata, o anche creata, questo è
pelagianismo e razionalismo, grandi eresie, già condannate. (Invece la Dottrina della Chiesa
confessa che una visione è dono gratuito di Dio, vedi Sinai, Tabor o….Lourdes). Il colmo è che le
106

due eresie sono proprio il punto moderno di accusa dell’Oriente contro l’Occidente; ed il
pelagianesimo fu condannato da tutte le Chiese.
Insomma, se nel processo di divinizzazione, la creatura riceve “particole di Dio” ed anche
una semplice energia non creata… che discorsi sono questi? Questo miscuglio porta a un solo
indirizzo: panteismo.
Ora, il panteismo è la base della teologia pagana. Ma, come vediamo, i greci si spostano nel
panteismo da cristiani. Senza riconoscerlo, certamente: la Grecia è anche la patria dei sofisti.
In realtà, c’è, davvero, un segno distintivo in Palamas, per cui diventò il simbolo di tutta la
Chiesa Orientale Ortodossa. Pur nato a Costantinopoli, Palamas è attirato, forse inconsciamente,
con tutta la Chiesa bizantina del dopo l’anno 1000, verso un Oriente sempre più lontano dalla
nemica Roma. Sarà per questo motivo? O sarà per un altro, che la mente filosofica greca, invece di
progredire sulla scia di Aristotele-Platone, (i quali generarono l’Europa Occidentale), si lascia
adagiare sull’alveo del pensiero persiano e indiano. In certe correnti induiste, fra Brahma (il dio
trascendente) e Brahmà, (la sua manifestazione imanente), c’è diversità reale e non solo concettuale.
Brahmà è energia divina non creata, emanata dal Brahma a modo delle energie di Palamas. Ma se il
monachesimo stesso è fantasia indiana, perché la Teologia dovrebbe essere di meno?
No, non è un caso, questa simiglianza: è un indizio: gli ortodossi si orientalizzano. Questo non
sarebbe un peccato, non dobbiamo essere tutti occidentali. Però, in questa materia, la Bibbia stessa è
ultra occidentale. Una setta musulmana, gli ash’ariti sostengono la distinzione fra natura ed
attributi in Dio. Veramente, non conveniva questa assomiglianza con un’eresia islamica.
I teologi ortodossi post-Palamas contestano la differenza scolastica fra sostanza ed accidenti,
fra essenza e forma, nel mondo creato; attraverso la quale differenza, i latini spiegano molte realtà,
(non sempre adeguatamente)! Si sa, però, con quale violenza verbale è attaccata questa filosofia.
Russi, greci, serbi, romeni, americani convertiti, tutti contro San Tommaso. Alleata è anche la
filosofia moderna, laica, antiscolastica. Epperò: se non ammetti questa differenza reale nelle
creature, già di per sé composte, come la ammetti nel Dio semplicissimo?84
Per conto mio, sono d’accordo che l’essenza non si può cambiare senza che cambino anche
gli accidenti. Perciò il cambiamento di contenuto delle Sacre Specie non è correttamente spiegato
attraverso la teoria della transustanziazione, perché, in realtà, in questo miracolo della Liturgia
Eucaristica tutto cambia, ma non lo vediamo. In Dio, però, non ci sono di queste complicazioni:
tutti gli attributi, tutti gli archetipi, tutti i gesti di Dio, dentro di Sé e per noi, sono identici con la
Sua Sostanza, essenza, natura, contenuto.
84
Leggiamoci, per favore, il Trattato di Teologia dogmatica ortodossa di Nikos Matsoukas, che attacca perfino i
confratelli più celebri, come Andrutzos, Trembelas,Nisiothis, ecc…Immaginiamoci quanta passione contro la
Scolastica. E che teorie esilaranti, prive di ogni logica e coerenza è capace di introdurre fra due citati- tolti dal contesto-
dei Padri antichi!
107

Quindi, fare differenza in Dio e non farla nel Creato è il paradosso inaccettabile della teologia
ortodossa bizantina, attuale.
Inutile, inutile. Contro tutte le ragioni, in tre sinodi successivi del 1341,’47 e ’51, a
Costantinopoli : Patriarca, teologi, tutti i superiori dell’Athos firmarono il “Tomo Aghioritico”.
Così, nel luglio, 1351, la Chiesa Ortodossa, oramai profondamente anti- romana ed isolata fra le
mura del Bizanzio, consacrò un vero dogma, tutto suo, (anzi, un ‘eresia, tutta sua): il palamismo.
Padre Pourrat, nella sua “Spiritualité chrétiènne”, II, le Moyen Age, Paris, 1924, pag.494,
scrive: Le buon sens ne tardà pas à triompher. A la fin du XV siècle, l’étrange spiritualité
hésichaste tomba dans le discredit”. Si illudeva fortemente.
Divennero isicasti anche dei non greci, come il beato Paisio Velicikovski, (vedi avanti) che,
attraverso l’isicasmo, promosse un intero movimento di rinascita dell’ Ortodossia bizantina, “nel
secolo di Voltaire”. Sembra però che preferì approfondire il lato tecnico dell’isicasmo e non le
differenze fra l’Essenza e le energie.
Com’era da aspettarsi, le polemiche continuarono. Perfino nel 1696, due professori di
Giannina, (Vissarione Makris e Giorgio Sugduris) vollero sottolineare la distinzione mentale,
pedagogica e non reale fra sostanza ed energie in Dio. Ma furono condannati.
Così, impercettibilmente, (ma non troppo), l’accaduto sul Monte Tabor, il suo mistero, la
festa stessa, (del 6 agosto) divenne la bandiera dell’Ortodossia bizantina, la quale se la appropriò
come colore specifico, fin’oggi. Fu il suo errore madornale, perché questa lussuria spirituale
mantiene tutta la Chiesa bizantina-greco-slavo-romena e quella dei convertiti occidentali dentro una
illusione di immense proporzioni, oggi più che mai, e, temo, domani più di oggi.
Non immaginiamoci, però, che i monaci dell’Athos, con la loro innata propensione al
ragionamento -fino al sofisma- accettano tutti la teoria e la pratica della “ preghiera della mente”,
della “discesa nel cuore” o delle “energie non create”, visibili. Il monaco santo Spiridonos della
Nea Skiti diede la seguente risposta a un monaco intervistatore dei nostri tempi, (che con la
massima ingenuità trascrisse la risposta, nel suo libro, tradotto poi e amato dagli “isicasti”):
-Come? Se i monaci che non hanno la preghiera della mente rischiano di non salvarsi? Io ti
rispondo: Nessuno prega con i piedi. Tutti pregano con la mente. Coloro che si vantano di avere “ la
preghiera della mente” sono usciti fuori di senno. Dobbiamo pregare il “Padre nostro” con
semplicità e basta. … Il cuore non deve essere forzato. Devi fare liberamente la preghiera. Fugge la
mente? La fai ritornare. Poi, non siamo tutti uguali.”85
Come si vede, il santo monaco polemizza contro il metodo del controllo del cuore e del
respiro, durante la preghiera, che sta alla base della tecnica isicasta.

85
Nel libro del monaco Damaskinos, “Padri athoniti”, op. cit. pag.86ss.
108

I cattolici? Non gli diedero la massima attenzione, per non aggiungere olio sul fuoco e per
non complicare il processo di riconciliazione. Mentre però, nell’Ortodossia bizantina, questa
corrente divenne un paladino, una bandiera, un manifesto, un talebanismo ante terminem, fuori da
essa, la teoria palamitica risulta incomprensibile e riservata ai soli specialisti. I teologi cattolici o
protestanti si rifiutano di discuterne, qualcuno è perfino tentato di ammetterla. Noi dobbiamo
parlarne, perché se, nella vita ortodossa, il palamismo non produsse che illusioni e atti di
sublimazione nervosa, (parlo sempre con eufemismi!), nei riguardi degli altri, cattolici in
particolare, esso alimentò l’odio, il disprezzo, l’ignorazione dei valori altrui e il più funesto
sentimento di superiorità. : come se non fossero bastati i vecchi risentimenti, giusti o ingiusti, contro
“i franki”.
E qui mi permetto di improvvisarmi profeta: slavi, greci, romeni e occidentali convertiti
dell’800 e del ‘900 portarono agli ultimi risvolti questa strana teoria e sono sicuro che, su questa
scìa, nei prossimi decenni, fra i teologi ortodossi e gli altri, il divario crescerà a dismisura, con le
conseguenze di rigore.
Intendiamoci: questi giudizi così severi sulla dottrina palamitica non toccano la persona
severa, ascetica, profonda e simpatica di Gregorio Palamas, non dubitando io del giudizio sulla sua
santità di vita, proclamata dai vari sinodi. E se mi accusate di incoerenza vi risponderò che il
calendario è pieno di Santi dalla vita davvero santa e dalle teorie teologiche esilaranti! E viceversa!
Penso con tristezza, però, che in pieno ’300, l’Oriente bizantino cadde nella bizzarria palamitica,
quando poteva studiare con profitto l’appena apparsa Summa Theologica di San Tommaso, che è il
vertice incomparabile di solidità e di ordine, pensiero, erudizione e intuizione quasi divina . 86 Per
disgrazia dei tempi, la grande opera non fu letta allora e non è più letta oggi: è permeata di troppa
luce, di troppa libertà, ecc. ecc., e queste qualità non vanno d’accordo con le eccentricità
ideologiche delle menti. Sono preferite il fideismo, il soggettivismo, la confusione, l’incoerenza
logica, il fanatismo irrazionale. E, soprattutto la neo- teologia che ha più di poesia che di scienza.
Tragica poesia che ha separato le Chiese.
D’altra parte, lo ripeto: col pretesto della teologia di Palamas, la Chiesa Ortodossa ha trovato
la chiave di rottura completa con l’anima occidentale ed il segreto per accusare l’Occidente di
incompatibilità totale con il sentire biblico. I nuovi talebani palamitico-ortodossi condannano anche
il respiro, anche la circolazione del sangue di un uomo occidentale e il buon Palamas serve loro
come inatteso aiuto. Tutta la teologia è riscritta, tutta quanta è stiracchiata, forzata, in direzione
opposta a quella degli occidentali, che anch’essi stiracchiano come possono i testi sacri. (Veramente

86

?
Cito Grabmann e lo completo col mio pensiero.
109

fra i nuovi protestanti che si credono ispirati più dei profeti e degli Apostoli, ed i cattolici romani
moderni che mettono il loro Vaticano II e la nouvelle théologie, aldisopra della Bibbia, intesa
tradizionalmente, altroché stiracchiatura)!
Non ripeterò mai abbastanza che si tratta di equivoci aizzati, incoraggiati ! Un esempio opposto e
l’opera di San Nicodemo l’Aghiorita, malgrado la sua stessa intenzione: è un esempio di identità
spirituale fra i due mondi, che un Santo come lui, sincero e devoto, ha indovinato in modo istintivo.
Padre Louis Bouyer ha scritto pagine memorabili a proposito:
“Se c’è un opera che riduce al niente con la sua sola esistenza le sistematiche opposizioni
che si sono volute frapporre tra Oriente ed Occidente (fossero esse causate dai latini incomprensivi
od Orientali esasperati da questa incomprensione, ma senza accorgersi di restarne le vittime), è
proprio l’opera di Nicodemo”.87

TUTTI UGUALI NEI MODI

Con tutto questo discorso, serrato nell’ostilità e nel disagio, dobbiamo conservarci un
profondo sentimento di ammirazione nei riguardi di questi monaci intransigenti, che, in nome della
coscienza, non si sottomisero a quella Roma del 1300, fanatica anch’essa e livellatrice di valori.
Sotto i colpi dei turchi, l’Impero ortodosso dei Basilei si trasformava in una Ortodossia popolare,
sotto la guida dei monaci isicasti. Non potendo salvare l’Impero, vollero conservarsi la pace
dell’anima. Se volete, anticipo un discorso: la Roma cattolica, pur avendo ragione di esigere
obbedienza, lo ha fatto e lo fa ancora con maniere inaccettabili, imponendo agli altri, per pura
ambizione sublimata, forme e atteggiamenti settari ed umilianti. Oggi, Roma sembra sia campione
di tolleranza ed amicizia con tutti... ma non troppo! I vecchi modi, intolleranti e ricattatori, li ha
conservati nei riguardi dei (soli) tradizionalisti lefebvriani, considerati ribelli in casa. Modi che ci
rivelano il rapporto di allora con tutti gli altri. Per cui, comprendiamo Fozio, Cerulario, Lutero et &,
la cui opposizione non è stata neutralizzata. Perché nessuna opposizione si neutralizza con
l’ambizione e la caparbietà.

Per finire questo complicato capitolo, ritorno ai greci ortodossi e copio qui il testo dell’ebreo
Salomon Reinach, scritto all’inizio del’900. Un ebreo che avrà dei sentimenti negativissimi nei
riguardi di tutto il mondo cristiano: ma in questa descrizione ha azzeccato perfettamente certe
realtà:
87

?
Luigi Bouyer, La spiritualità bizantina e ortodossa, ed. Dehoniane, Bologna, 1968,pag.136, vedi nell’Introd. alla
Filocalia, I, op. cit. pag. 17.
110

“Il greco è profondamente scettico, ma tiene alla sua Chiesa come alla salvatrice della
propria nazione. É a l’ombra della sua Chiesa, che la Grecia ha atteso 5 secoli per raggiungere
l’indipendenza. Questo è vero. La Chiesa ha sostenuto la Grecia schiava come il latte sostiene il
lattante. Questo però non significa che l’adolescente deve continuare ad allattarsi. Se i greci di
oggi sono inferiori ai loro gloriosi antenati, come già lo erano i greci bizantini nel medio evo, è
alla loro Chiesa che si deve imputare in gran parte la colpa di questa inferiorità. Essi vedono
laddentro, già dall’infanzia, degli orribili coloramenti chiamati icone; sentono laddentro delle voci
prodotti col naso e strascicate; sentono storie di santi che sono una sfida alla ragione. I greci
moderni non sono per niente artisti, essi cantano malissimo e non hanno dato ancora al mondo un
uomo di genio”.
(Io replico: bastano “El Greco” e “Maria Callas”, ma mi si risponde che il sommo pittore,
di greco aveva solo il sangue, mentre la grande greca è americana di nascita ed italo-francese di
formazione. L’unica sua nostalgia per la madre Grecia -anch’essa tragicamente sbagliata- si è
chiamata Onassis).
“Insomma, le Chiese ortodosse sono prima di tutto nazionaliste. Per il popolo, il culto è più
importante dei dogmi. La forma arcaica delle lingue, il greco incluso, non si capisce dalle masse.
Nel 1903, una traduzione dei Vangeli in greco moderno ha suscitato una rivoluzione di strada ad
Atene. (Oggi, nel 2006, non è molto meglio). Le feste e tutto il calendario sono una confusione
costante fra il vecchio ed il nuovo stile del calendario, ed il vecchio per tutti, riguardo alle feste
legate alla Pasqua. I santi non si canonizzano dietro un processo serio, ma più sul fiuto popolare e
dietro gli interessi dei Gerarchi. Le icone miracolose abbondano, senza nessun esame serio.
Malgrado tutto, i preti ed i monaci sono poco considerati: “non sei buono a nulla, fatti pappas, ”
dice una canzone. Da queste chiese formaliste e invecchiate non si può intravedere nessuna
rinascenza seria per un domani.”88

TI RILEGANO ALLA PORTA?

I monaci dell’Athos, per regola, sono chiusi all’ecumenismo e non fanno amicizia con i
cattolici o protestanti. È sublimazione, questa? Il Monte Athos ha giusta fama di intollerante a
riguardo. Se la persona coinvolta non sei tu stesso, il vedere come cacciano gli eretici dalla Messa è
uno spettacolo di vera comicità. Emanano perfino simpatia ! Ti fanno ridere, di certo.
Per quanto riguarda i romeni –ortodossi-, gli athoniti hanno idee ancora più stravaganti. Se, nel
1500, si è deciso di non ricevere all’Athos romeni della Transilvania, per paura delle eresie

88
Salomon Reinach, Orpheus, Paris, Picard, 1926, pag.448-49.
111

“calviniste”, ora, i romeni della stessa regione, anche se fanatici ortodossi, ( ed i transilvani lo sono,
per contrapporsi agli Uniti) sono considerati non battezzati e respinti con orrore. I loro preti si
sarebbero lasciati influenzare dai cattolici e battezzerebbero per semplice aspersione. Che orrore,
davvero! Noi, romeni del Vecchio Reame, (Sud ed Est), non avevamo questo problema. Noi siamo
stati immersi nel battistero fino all’ultimo dito del piede, con la testa in giù.
Ma un problema c’era ed eravamo obbligati di affrontarlo.
Dovevamo avere le idee chiare sul nostro comportamento, perché noi eravamo cattolici. Non
volevamo però essere rilegati alla porta. Anzi, avevamo la pretesa di concelebrare, di fare la
comunione, o almeno di assistere a tutte le celebrazioni, di giorno e di notte.
Dunque, dire loro, semplicemente, che eravamo “ortodossi”, era la miglior cosa, perché i veri
ortodossi siamo noi, i cattolici. Fare guerra coi fanatici e coi talebani, impossessatisi di luoghi,
cose, Sacramenti, facenti parte del patrimonio comune dell’unica Chiesa di Gesù è una follia.
Decidemmo di presentarci come teologi romeni, studenti dell’Istituto Ortodosso di Bucarest. Ciò
che era stato vero, qualche anno prima. Così ci hanno presi per ortodossi puri, magari in exoria,
cioè in esilio.

Però, però…. Nel 1977, andavamo ad Athos perché nostalgici di tutto ciò che avevamo vissuto per
20 anni nell’Ortodossia, dietro la Cortina. Dimentichi delle realtà spiacevoli di quella parte del
mondo e dei cavilli non ortodossi di quella Chiesa. Dimenticando pure che, chi dimentica, paga.

Per rilegare alla porta “gli eretici”, i “teologi” dell’Athos danno spiegazioni anche
sull’internet:
“Per gli uomini non esistono proibizioni e non crea problemi la loro confessione religiosa:
essere cattolici o protestanti non è un impedimento per visitare il Monte Athos. Tuttavia non ci si
deve meravigliare se ai non ortodossi non è consentito assistere alle Liturgie, e se quest'ultimi si
devono sedere solo nella parte iniziale della chiesa, già prima della professione di fede (il Credo).
Il pasto è condiviso fraternamente con tutti, ma la chiesa rappresenta una realtà nella quale non si
può confondere l'ortodosso con chi non lo è. Il dovere di carità e di ospitalità al non ortodosso
significa ricordargli che non può assistere ad una liturgia che esprime una fede diversa dalla sua.
Infatti, la chiesa e la preghiera esprimono il contenuto della fede dei presenti. Nella liturgia è
necessario che gli oranti abbiano un cuor solo e un'anima sola, dal momento che il culto non è uno
spettacolo esterno e richiede l'adesione interiore di tutti. Non è tenuto a quest'adesione il non
ortodosso e, d'altronde, non è giusto chiedergliela. È per questo che costui viene invitato (sic!) a
non fermarsi da un certo punto della preghiera in poi. Per lo stesso motivo il non ortodosso non si
112

può accostare ai Sacramenti dell'Ortodossia. Con questo, non significa che i non ortodossi non
vengano amati ed ascoltati. Ma ciò dipende pure dal loro rispetto e attenzione”.
Ignoro se voi, amici miei, preferite questo atteggiamento agli abusi perpetrati in Occidente,
dove ciascuno fa come gli pare nelle chiese di rito latino, (nuovo). Ma io sarei l’uomo più felice del
mondo se alla mia Messa venissero ad assistere, se non a pregare, non solo cristiani non cattolici,
ma anche ebrei, islamici, buddisti, atei ed agnostici. Forse l’eretico viene per istruirsi, per edificarsi.
E se crede nei Sacramenti, io glieli impartisco. Non aspetto che sia d’accordo sul Filioque o sul
Papa. Molti, troppi cattolici fanno comunione per una vita e non sanno, anzi, non credono che Gesù
sia Dio. No, non parlo per sentito dire.
I monaci athoniti invece sono convinti che l’eretico contamina, sporca, avvelena la loro santa terra.
Quando il Cardinale, Ugo Poletti, volle mettere per un attimo il piede a Dafni, i Superiori
dell’Athos, inorriditi, gli mandarono un telegramma sulla nave dicendogli: “Se il Vicario
dell’Anticristo toccherà il Giardino della Madre di Dio, non avremo sufficiente acqua santa per
riconsacrarlo.” L’Anticristo sarebbe il Papa.
A questo punto, vi devo dire un segreto: questo Poletti mi ha fatto tanto soffrire, a suo
tempo ed anche dopo, a Roma, che al sentire questa comica storia mi sono detto soddisfatto: “i
monaci mi hanno vendicato!” .

PARTE SECONDA:

I NOSTRI VIAGGI

IL NOSTRO PRIMO VIAGGIO, 1977.

Tutto cominciò con una piacevole sorpresa, in un giorno di febbraio, del 1977, alla fine dei
corsi, nell’aula del Pontificio Istituto Orientale di Roma, nella quale aveva appena finito la lezione
il futuro Cardinale, Tomas Spidlik:
-Sarei molto onorato, e sarebbe un grande piacere per me e per la mia famiglia se veniste a
festeggiare la Pasqua a casa mia, mi disse, sorridente, il collega di studi, greco di mestiere, Nikos
Koulugliotis.
Seguivamo insieme i corsi dell’incomparabile Pontificium Institutum Orientale, dove
ritrovavo qualcosa dell’atmosfera della casa perduta, infinita consolazione nel centro di Roma.
113

L’invito era rivolto a noi tre, a me, a Gigi ed a Sergiu, inseparabili a Messa e ospiti dello stesso
Collegio Damasceno, in cima al Giannicolo.
Gli risposi impressionato ed entusiasta:
-La tua proposta è il più gradito regalo che potevi offrirmi come amico, ma soprattutto come
greco, ortodosso e compatriota dei miei bisnonni.
L’Istituto Orientale era (ed è ancora), pieno di studenti ortodossi e perfino di prelati-studenti
delle Chiese orientali; monaci greci, imbarazzati di doversi umiliare a studiare nelle scuole del
nemico; e quali (magnifiche) scuole! Russi, vantaggiati dalle borse offerte dal Segretariato
ecumenico per l’unità dei cristiani, i quali non nascondevano assolutamente la loro appartenenza
alla KGB; serbi che mal sopportavano il semplice fatto di ingoiarsi i corsi dei professori croati; e
noi, freschi esuli romeni, senza diritti e senza ritorno, che compativamo perplessi lo spreco che
questi nostri colleghi facevano dei loro privilegi!
Nikos, teologo laico e padre di famiglia, era un uomo aperto, esuberante, vero filosofo
dell’Arcadia antica, il quale ironizzava sugli scrupoli dei confratelli. Un vero greco, insomma, più
antico che bizantino; fatto per cui, non trovò insostenibile invitare tre cattolici a casa sua, nella sua
parrocchia ad Amalias-Arcadia appunto, (chiamiamola Peloponeso), dove avremmo cantato,
pregato, ma anche fatto la comunione pasquale, uniti a lui ed ai suoi familiari.
-Questa, della Comunione, è una condizione sine qua non, per venire da te, gli dicemmo;
perciò, stai attento a non dire troppe cose su di noi al tuo parroco.
-State tranquilli, essere in comunione con voi è, prima di tutto, un mio piacere!
Lo incoraggiava il fatto che io e Gigi eravamo nati, cresciuti- ed avevamo compiuto tutti gli studi-
nella Chiesa Ortodossa. Ed a Roma ci trovavamo, come lui, da soli due anni, e senza un futuro ben
determinato. Mi canzonava in modo molto fine, dopo avergli raccontato per sommi capi come le
somme Autorità vaticane avevano negato in modo assai rude la nostra richiesta di far parte della
Chiesa Cattolica e di esservi ordinati. Nikos ci considerava perciò ancora ortodossi, in vena di
avventura. Non riusciva capire la nostra ostinazione a voler essere cattolici, malgrado il rifiuto
esplicito delle Autorità supreme della Chiesa 89. Ora che penso, forse il suo invito in Grecia aveva
anche questo fine scopo di riportarci a casa, nell’Ortodossia.
-Immaginati, gli dissi, uno dei miei bisnonni era greco puro, nato e vissuto a Salonicco. Si
chiamava Stamate Hristou, e, per pure ragioni di commercio è arrivato in Romania, dove si è
innamorato della mia bisnonna materna. Tu mi fai ritornare un po’ a casa: et in Arcadia ego, no?
A queste mie parole, Nikos lacrimò per la gioia. La sua casa era davvero in Arcadia ! E gli parve
che ero ancora più ortodosso di prima.
89
Questa nostra storia l’ho raccontata nel mio scritto non ancora pubblicato: “Il Vaticano nella mia vita: diario
dell’Ordinazione sacerdotale”.
114

L’amico, Sergiu, ricevette la notizia con visibile soddisfazione. Aggiunse, però, subito:
-Se si va in Grecia e non si arriva anche al Monte Athos, è uguale a zero.
Lo guardai stupito:
-È difficile, è un rischio, è un avventura, non ne abbiamo diritti, è impossibile.
Ma appena finita la frase, mi ripresi:
-Chiederemo a Nikos un consiglio; il suo parroco, il suo metropolita ci darà la necessaria
raccomandazione!

Non racconterò in queste pagine la nostra magnifica avventura nella città dell’amico Nikos
ed il fantastico pellegrinaggio realizzato nei luoghi sacri della Grecia cristiana, come anche in
quella degli dei; questo è l’argomento di un altro libro. In queste pagine, descriverò la nostra
avventura in Athos. Ricorderò solo che, esperti in materia di clandestinità e sotterfugi sotto il terrore
comunista, dovendo ingannare ed eludere il fanatismo dei tiranni, ce la siamo sbrogliati anche fra i
greci, usando gli stessi stratagemmi, imparati nella patria socialista. Così vi abbiamo avuto le porte
ed i cuori aperti a modi principeschi, accolti come teologhi roumani, orthòdoxi, poveri esiliati e
stranieri. Con quale gusto rideva Koulougliotis, mentre gli raccontavamo come abbiamo fatto
amicizia con il valoroso metropolita di Ioannina, Theoklitos, con quali onori siamo stati ricevuti da
Lui e dalla sua Corte… poi le forti raccomandazioni per l’Athos, i pranzi, i regali, l’affetto! Con
quale devozione ci ha dato la Comunione dalle sue stesse mani! Ma con quale orrore ci ha guardato
quando Gigi, per distrazione, si era fatto- a tavola- il segno della croce a modo latino! Che momenti
di quasi terrore! E come, da bravo bizantino e fanariota, -in materia di destrezza- sono riuscito a
ricucire l’immane tragedia ed a calmare lo zelante Sevasmiothatos!
A chi si stupisce troppo di come noi, che ci pretendiamo cattolici romani, richiediamo
ugualmente la comunione presso gli ortodossi, -gesto sommamente anti-canonico- rispondo che io,
in questa materia, uso del diritto offertomi clandestinamente dal Capo della Congregazione per la
Fede, attraverso l’incomparabile Mgr. Aloisio Tàutu, nel 1970, mentre mi trovavo da teologo
ortodosso e cattolico segreto in Romania. Lo ha fatto per salvarmi il futuro e forse la vita. Un gesto
magnanimo che le fu rifiutato a suo tempo alla regina Cristina della Svezia90. Ma io uso di questo
privilegio ancora oggi, in libertà. Infatti, se i Sacramenti sono validi e leciti nella tirannia, perché
non dovrebbero essere uguali nel mondo normale? Se questa è disobbedienza, io la eseguo
volentieri ed invito tutti : disobbedite, fate l’intercomunione, pregate con gli eretici ! Disobbedite,
altrimenti non vedremo mai l’unione delle Chiese! Intanto ho sperimentato questa dolce
disobbedienza in Grecia e nel Monte Athos, soprattutto in quell’anno-1977- in cui mi mancava

90
Ho descritto questo fatto nel libro: “I 24 giorni della Fuga” ed anche in quello su Vaticano, non ancora pubblicato.
115

l’Ordinazione, cioè il diritto di consacrare, prendere e dare Eucaristia manu propria! Eh, sì, perché,
in quell’epoca non sapevo della pienezza dei poteri che Gesù ha dato a tutti noi ! E che un giorno,
non lontano, il Papa la proclamerà dalla finestra del Vaticano! Ma anche questo è argomento per un
altro libro, che sto scrivendo clandestinamente ! (sic!).
Del resto, su questo tema, siamo stati tormentati per anni dagli Ipocriti che stanno sui troni
di comando: alla richiesta di accogliere la nostra conversione alla Chiesa Cattolica ci hanno
accusato che non amiamo la Chiesa sorella, dalla quale non dovevamo uscire, perché “oggi il bon
ton è il dialogo, è il rimanere dove si è”. Per aver cantato, però, in questa Chiesa sorella, (e quale
chiesa? Quella ortodossa di Parigi di Padre Boldeanu, condannato a morte dai comunisti!),durante
una Liturghia (non hanno saputo anche della comunione) ci hanno accusato di tradimento della
cattolicità! Ehi, sì, Nikos aveva motivi sufficienti, per ironizzare su di noi.
Io gli rispondevo che, invece di rimanere ortodosso come voleva il nuovo Ecumenismo
cattolico, preferivo essere cattolico e ritornare ogni tanto nella Chiesa Ortodossa e farvi la
Comunione.
-A meno che gli ortodossi non scoprano il trucco!
Un motivo in più per Nikos di invitarci a rompere i piatti ed a danzare la sirtaki pasquale da
lui, nella Grecia ortodossa.

E così, siamo diventati “hagii”, parola avita che significava “pellegrini ai luoghi santi”,
titolo che coronava, nel passato, la vita di un cristiano serio!
Veramente, mi sembrava impossibile un simile gesto! E, d’un colpo, dietro l’ispirazione
felice di un compagno di scuola, ritornavo nell’infanzia da una porta segreta, quella della Grecia, la
madre di tutti noi, europei dispersi, ma sgorgati dalle sue radici.
Avevamo passaporti da esuli, col dovere di rinnovare il permesso di soggiorno ogni anno, a
marzo; e di richiedere anche il visto greco. Eravamo sottomessi a delle procedure più complicate
che non i cittadini italiani. Ma le abbiamo superate tutte, e nei primi giorni di aprile, ci trovavamo
già sul treno per Brindisi, poi sulla nave per Korfoù, poi a Igoumenitza, Ioannina, Amalias, ecc.
ecc… fino a Salonicco, baciando i passi del caro e ispirato mio bisnonno, Stamate Hristou, A.D.
1800.
Dio, per consolarmi dell’esilio, mi ha dato anche questa opportunità, in mezzo ad altre, pur
di non sentire sempre il mio rimprovero, invasato come ero dalla nostalgia…. sognando, fra le
lacrime, le torri e le iconostasi delle mie chiese avite. Solo Lui sa con quale disagio mi guardava dal
cielo, mentre piangevo disperatamente, dimenticando di trovarmi nella capitale della mia felicità e
della mia vera vita, la Roma eterna. Dimenticando che, in Romania, mi sognavo le vere Icone e
116

Sacre Immagini, ispirati da Dio a Raffaello, Leonardo, Michelangelo, Rembrandt o El Greco! Ed


ora piangevo disperatamente in cerca di povere icone di imitazione bizantina.

IL PRETE, LA PRETESSA ED I LORO FIGLI

16 aprile, 1977.
Siccome la penisola Calcidica si allunga per 45 km., per raggiungere la sottile lingua di terra
dell’Athos, prendiamo da Salonicco, alle ore 13, (l’unico) autobus per Ouranopolis, un curioso
villaggio, ai margini della Repubblica dei monaci. Il parroco ci accoglie con naturalezza, parla un
buon inglese e paga per noi l’albergo presso kyrios Ghiorghios. Siamo rimasti impressionati della
filoxenia dei sacerdoti ortodossi greci e dei loro bambini. Ma come siamo arrivati a baciare la mano
della signora pretessa?
-La nave non parte a causa del vento!
Preghiamo Dio che parta.
Ma non parte.…..
Siamo obbligati di pernottare e, prima, tentiamo di farlo gratis. Un uomo ci offre la sua casa
non rifinita, il sindaco ci offre una camera vuota dello ”iatrion”; però non siamo attrezzati per
dormire sul cemento, in balìa ai venti. Così siamo finiti dal parroco, che fece il nobile gesto di
mandarci all’albergo, pagando i 150 drachmi per una notte e poi per un’altra. Ammirevole è stato il
gesto, ma anche il modo di come ha trattato coll’alberghiere. Il pope, sempre barbuto, coi lunghi
capelli raccolti a crocchia, con la tunica nera e col capo coperto dal tocco rotondo, (skoufia); o
kyrios Ghiorghios, il tipo di affarista simpatico, che parla con l’occhio strizzato e tiene la bocca
chiusa, abituato com’è di non farsi mai capire dai turisti, vittime del vento. Risolto il problema,
passammo un pomeriggio di passeggiate, attesa, sole e speranza.
E venne la Domenica, 17 aprile, 1977. A causa della nave che ritarda la partenza, perdiamo
la parte migliore della Divina Liturghia, aspettando invano e recitando rosari di riparazione. Ci
consola il signore conosciuto il giorno prima, il quale, offrendoci un caffé nel ristorante più vicino,
ci invita a passare da casa sua al ritorno dall’Athos, per farci conoscere la famiglia e rifarsi per la
mancata ospitalità. Gli abbiamo ringraziato, ma non siamo più tornati da lui.
Lunedì, 18 aprile:
Saliamo sulla tanto attesa navicella, con la quale, dopo quasi due ore, tocchiamo la riva di
Dafni. “Che mare”, sospira Gigi. Ti toglie ogni memoria di altre rive.
Passiamo vicino alla costa occidentale, alta, boscosa, spopolata. Dopo circa un ora di
navigazione scorgiamo la prima skitì (Rossikì), poi un lungo tratto deserto e finalmente i grandi
117

monasteri che non avremmo fatto in tempo a visitare. Io avevo fatto i piani di viaggio e ne avevo
calcolato minuziosamente i limiti e le possibilità. Per questa volta avremo visitato i monasteri
interni, mentre quelli che si potevano contemplare dalla nave li lasciavamo per un prossimo viaggio.
A Dohiariou, scatto una foto, mentre vari personaggi dalla faccia sospetta, ( saranno stati i soliti
trafficanti e imbroglioni di anime pure), scendevano dal ponte, sollevando una fitta nuvola di talco
sudato; erano familiarizzati con la montagna, altrimenti non avrebbero avuto permesso di scendere
lì, di fronte all’alta torre dell’arsana, il porto del monastero in questione, ( che, sapremo più tardi,
fu costruito da un sovrano romeno, nel 1600).
Un paradiso di colori, purità, montagna, mare. Mi rincresce di non aver avuto una buona
macchina fotografica, per far vedere agli amici delle immagini uniche, con quel mare che si
confonde col cielo. Ho fotografato tutti i monasteri, grandi e piccoli che sono riuscito ad avvicinare,
con l’idea che, diventando docente universitario o predicatore ufficiale presso qualche Alto Prelato,
avrei illustrato le profondità teologiche con altrettante profondità estetiche. Me ne illudevo su tutto
il fronte, ma le diapositive le conservo ancora, per confrontarle con i loro archetipi quando, dopo il
2057, finirò nel secondo gradino del cielo.
ROVINE

Vedemmo dalla nave rovine appollaiate sulla roccia, come dappertutto nella Montagna.
Costruzioni con tracce di umidità, l’intonaco sgretolato da scuro che sfuma sul chiaro salendo verso
l’alto. Impalcature per cantiere edilizio, primitive ed abbandonate. Paletti in legno o triestine,
traversi impolverati, intrisi di calce, cumuli di detriti, resti di muri demoliti, mattoni, muffa. Segni
di abbandono per scarsità di vocazioni -diremo noi, in Occidente- o di vecchi saccheggi, -dicono
loro-. Quasi tutti i conventi hanno la loro parte deserta, il loro angolo di ombre, qualche torre
scampata alle fiamme ed incenerita nel volto. Però... anche se te lo nascondono, incontri sempre la
stessa nostalgia delle vocazioni monastiche, che farebbero giustizia a questi ameni luoghi. 91
Per grazia di Dio, il monachesimo ringiovanisce sempre, le costruzioni solide dominano
accanto alle rovine ed i conventi deshabillés si riempiono per miracolo. (Veramente, il miracolo c’è
stato: la liberazione dei paesi del blocco sovietico, nel 1989. In seguito, le celle che noi abbiamo
trovato deserte si sono riempite all’inverosimile di novizi stranieri, con tutta l’opposizione dei
greci).
Certamente, un santo come Simeone lo Stilita non ebbe mai la tentazione della folla; o la
schiacciò in germe. Pietro l’eremita, pure. Ma i monaci dell’Athos, i loro successori, come pure i

91
Scrivevo questo nel 1977. Ora, (2007) con la Montagna invasa da vocazioni straniere, vere o meno vere, ignoro il
vero stato di spirito dei monaci con vera vocazione.
118

nostri, dell’Ovest, temono sempre il momento quando resteranno soli. Fare i monaci da soli non
conviene, non è bello e non si fa, a dispetto della parola stessa.

Abbiamo il sole davanti, all’alba, splendente, di una calma riposante. Finalmente,


Xenofontos, Panteleimonos, da lontano, ed il porto di Zografou, che ci sembra già un monastero
con la sua chiesa e la torre medievale sulla riva.
Per chi li vede per la prima volta, i monasteri appaiono come dei possenti castelli feudali. Da
lontano, armoniosi come nelle favole; dentro, vi ci si accorge della povertà dell’ambiente e della
semplicità della vita dei monaci, i quali lasciano lo splendore dell’oro, dei marmi e dei dipinti
all’Unico Dio, nelle splendidi chiese, adornate di Sacre Immagini.
Già sulla nave incontriamo vari monaci romeni, come fra David, fra Vissarion di Provata,
fra Arsenie di Xiropotamou, perfino il superiore bassarabeano di Lakou, padre Neofit Negara.
Ciascuno ci insegna qualcosa, ciascuno ci seduce con la ricchezza delle biblioteche e delle proprie
chiese che ci invitano a visitare. Ma ecco anche un monaco che parla bene l’italiano, fra Maximos.
- Ha studiato in Italia, a Roma, è un erudito, mi dicono. Conosce bene tutti i trucchi dei
cattolici!
“Bene, ma non troppo”, ci siamo detti. O, proprio per questo, lo abbiamo evitato. Per grazia,
coi romeni non avevamo di questi problemi; molti ci sono diventati amici e ci hanno invitato nei
loro conventi. Il nostro problema non era, però, la nazionalità: era la lingua. Il nostro greco valeva
per le celebrazioni, ma non per la conversazione. Ecco perché, solo dai romeni potevamo avere
informazioni perfettamente comprensibili. A loro si sono aggiunti i convertiti all’ortodossia,
francesi, tedeschi, qualche inglese, trovatisi nei monasteri “più forti nella fede”. Manipolando le
loro lingue ed i loro argomenti, ci siamo esercitati nell’arte bizantina di rileggere tutto all’inverso.
Per questa destrezza mi felicito ancora oggi, di essere stato allevato in dei sistemi nei quali impari
tutti i trucchi, anche i più perversi: il comunismo e l’ortodossia. Con gente dall’anima attossicata!
Scendiamo a Dafni, dove, sembra, avrà messo piede anche San Pietro, l’eremita, al suo
arrivo, da fondatore della vita monastica sulla Sacra Montagna.
Da Dafni, a piedi, fino a Karyé. Una camminata indimenticabile. Viaggiare per quel tratto in
autobus è una perdita irreparabile.

DOCUMENTI E CONDIZIONI

A Karyé, presso la Direzione, (Sacra Epistasia), grazie alle forti raccomandazioni del
Metropolita di Ioannina, ci danno un visto di 10 giorni, dall’inizio. Inaudito; la regola è di 4. Ma noi
119

non siamo turisti, siamo pellegrini, “teologhi roumani”, orthòdoxi, futuri sacerdoti, inviati da Dio a
Roma per convertirla e venuti qui per prendere rinforzi.
Magari, dico io.
Se per gli altri era necessario fare una prenotazione all' "Ufficio dei Pellegrini" almeno
due mesi prima della visita, con una richiesta stilata in greco o in inglese, per noi è bastata la
raccomandazione del nostro amico, il Sevasmiothatos Theoclitos. Mentre ammiravamo la
prontezza- rara avis- con la quale gli addetti ci fornivano i permessi, pensavamo al magnifico
metropolita di Ioannina: conoscerlo, è stata una grazia; acquisire la sua fiducia, una super-grazia.
Se avesse mai saputo che eravamo cattolici, però!.....Senza di lui, non so in che modo saremmo
entrati in possesso di permessi così privilegiati presso l’ ufficio che si trova nel viale, oggi
rinominato, Kon. Karamanlis, 14, a Salonicco. Ed ora, del foglio che si chiama Diamonitirion. In
cambio di una piccola tassa d'ingresso.
Dunque, non quattro giorni, ma 10. Nel secondo viaggio, 7. Idem, nel terzo.
Dal momento in cui riceve l’ultimo foglio, il pellegrino non è tenuto a pagare più nulla perché
l'ospitalità che gli viene data è gratuita.
Sapevamo tutto questo; come sapevamo che i lunghi percorsi impegnativi che collegano tra
loro i monasteri, devono essere fatti a piedi. Che nel Monte Athos non esiste luce elettrica e che,
tranne qualche strada in terra battuta, il modo ordinario di percorrerlo è quello di seguire dei piccoli
sentieri tra i boschi e, non di rado, attraversare qualche torrentello. Solo nel secondo viaggio
abbiamo preso con noi una torcia elettrica e scarpe da montagna. I percorsi sono raramente agili,
soprattutto i passaggi rocciosi. Perciò, ci siamo muniti di zaini leggeri con le cose ultra-necessarie e
basta.
Sconsigliano la visita nel Monte Athos nei mesi estivi, quando la temperatura raggiunge e
supera i quaranta gradi; ma noi non abbiamo provato questo disaggio; al contrario, nel primo
viaggio, in aprile, ci ha accompagnato il freddo. Nei successivi viaggi, in piena estate, il caldo si
vinceva con il bagnarsi in quel mare incontaminato.
Camminare a piedi per le foreste, senza cartine! Che stupore per gli amici a cui glielo
abbiamo raccontato! I quali sono convinti che i più previdenti che programmano lunghe camminate
nei boschi, assieme ad una buona cartina, dovranno avere con sé una bussola e un altimetro.
Sebbene i percorsi siano segnati, è facile che l'inesperto si smarrisca nelle piccole strade o che si
ritrovi in un sentiero che non lo porta da nessuna parte.
Noi non avevamo nessuno di questi strumenti, né abbiamo calcolato alcuno di questi rischi.
Qualcuno ha pensato di costeggiare la penisola con un traghetto. È comunque molto raro
che il traghetto faccia il giro del Monte Athos perché, dicono, le correnti opposte agitano il mare in
120

corrispondenza della testa della penisola. In questo punto, dal quale sarebbero visibili gli
eremitaggi, il mare è molto profondo ed è pericoloso attraversarlo in condizioni avverse. I vecchi
Persi, ancora una volta, insegnano. Io, personalmente non mi ci sarei accontentato di vedere da
lontano i monasteri, senza penetrare fra le loro mura e dentro la loro anima.
Qualcun altro ci ha consigliato di chiedere il passaggio ai veicoli fuoristrada che percorrono
le polverose strade. Questi mezzi sono un po' frequenti la mattina e corrono raramente il
pomeriggio.
Io mi ci sono rifiutato ed i miei compagni, idem. Gran cosa la giovinezza ! Ed aver vissuto
l’infanzia fra le foreste e le montagne, estraneo ed avverso alle macchine che apparivano come le
armi devastatrici del regime, contro il paese degli avi. In Athos, la fatica del cammino trova la sua
ricompensa nella contemplazione di una natura che, con i suoi profondi silenzi e la sua selvaggia
bellezza, offre uno spettacolo davvero mistico.
Sapevamo pure che l'ospitalità nei monasteri prevedeva il vitto e l'alloggio. Se si ha un
regime alimentare particolare il monaco forestieraio dell'Archondariki ci pensa lui, per quanto può.
In teoria, nell'Athos non si mangia carne e nelle quattro quaresime, il tenore alimentare è piuttosto
severo (verdura, frutta, olive, pane e poco altro).
Inoltre, i monasteri seguono l'ora "bizantina". Ciò significa che il pranzo viene offerto verso
le nove di mattina, ( ora terza), e la cena verso le sei di pomeriggio. In alcuni monasteri (ad Iviron,
ad esempio) la cena viene servita anche prima. Ce ne siamo sempre approfittati, ma non era il
mangiare il nostro problema. Il mio era quello di superare la nostalgia di casa e di riempirmi del
profumo del mondo bizantino, con il quale speravo di colmare il vuoto provocato dalla fuga da casa
e dalla delusione sempre crescente offertami dall’amato Occidente libero.
(segue)p 2.

2(continua da 1)

DAFNI, 1977.

A Dafni approdiamo in un pittoresco porto –villaggio- tutto di maschi. Con la sua costa
ornata di lauri e viuzze prive di ogni segno di modernità, sembra un villaggio dei tempi remoti. Nel
traffico, troviamo dei monaci mescolati ai turisti dai molti colori, fra i quali conosciamo qualche
monaco romeno o cutzo-vlacco che si prodiga ad insegnarci il nostro primo itinerario in Athos.
121

-Fratelli… un’ora fino a Iviron, dove dormirete. Un altra mezzora fino a Karakalou, e poi 5
ore piene fino a Megali Lavra. Un altra ora fino a Prodromou, il convento romeno; da lì ad Aghia
Annis, 4 ore e mezzo; e da lì con la nave a Dafni.
Da Karakalou, potete cambiare: Filotheou, poi Provata, Lacu, Prodromou, Xiropotamou.
Ma noi, in seguito, consigliati ed ispirati diversamente, abbiamo scelto altri itinerari. E tutti
a piedi, per nostra giovanile scelta, che non a tutti pare comoda. Un testo moderno si lamenta: ci si
muove “su camionette prese a nolo da qualcuno degli strani greci provvisori. Oppure, saltando su
qualche jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo. L'Athos è per tempre forti, ascetiche. Da subito vi
torchia. Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perché sul
prezioso vostro permesso c'è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra
l'uno e l'altro ci sono ore di cammino. Il pellegrinare è d'obbligo”. Guardo la data: 2009. Ohimé,
dal tempo dei nostri viaggi le cose sono peggiorate.

Nel “grande” porto, Dafin o Dafni, a Sud-Ovest, la nave arriva e parte due o più volte alla
settimana; e con la speranza di non averne bisogno, trovi un posto di polizia, la dogana e più di un
albergo.
L’aspetto di Dafni era ed è ancora di una misera cittadina, inasprita da un elemento che
mancava e che ai miei sensi dava un vero fastidio. Cosa era? Chiaro: la tetra mancanza del genere
femminile. Davvero: Dafni è una città –porto, senza donne, senza braccia morbide, fosse pure la
regina della notte.
E perché mai doveva dare tanto fastidio l’assenza delle donne in un mondo monastico
maschile, quando è chiaro che la clausura prevede dovunque, in tutti i riti, la separazione dei sessi?
Se perfino le caserme, i collegi, anche le classi delle scuole si sottomettono a questa segregazione?
Ma no, ma no, non è la stessa cosa. Un edificio, una istituzione è un conto, mentre una città,
con strade, abitazioni, negozi, servizi, relazioni è tut’un'altra realtà. La mancanza delle donne in
questo trambusto -che non era e non poteva essere un monastero- dava un senso di frustrazione. E,
siccome l’unico motivo di assenza di uno dei sessi lo si porta per motivi morali ed ascetici, ebbene,
io, proprio per questo motivo preconizzo l’importo del sesso mancante, in un prossimo futuro su
tutti i sacri monti ed in tutte le istituzioni, clausure comprese. L’ho detto e lo ripeto. Inutile
lambiccarsi, i miei argomenti perentori, a riguardo, anche se non descritti qui, sono inopugnabili.
Intanto ci dovevamo affrettare. Il porto d’ingresso non merita più di un occhiata e più di una
meditazione, anche se la chiesa principale è importante per i resti di mosaico del 1100, soprattutto
122

laddove rappresentano l’Assunzione in Cielo della Vergine, fra le più vecchie immagini di questa
sublime scena. Il resto, strade sterrate, senz'ombra, dentro nuvole di polvere impalpabile.
Fu un bel giorno, quel 18 aprile, quando facemmo la strada a piedi, 2,5, km. da Dafni a
Karyé… pieni di una gioia sconosciuta, del tutto nobile; n’aimant que le silence, et converser
pourtant92; finché, colti dalla sorpresa di un paesaggio di sogno, mare-montagna e tanta pace fra i
verdi arbusti lungo la strada in salita, non ci accorgemmo di un fiero convento, le cui altezze
brillavano in mezzo agli alberi. A quell’ora, però, sembrava deserto, abbandonato.
Un mulo, un pozzo, resti di legna e tante porte chiuse. Era il monastero di Xiropotamou.

XIROPOTAMOU
ed il sonno dei monaci.

No, non era deserto. Semplicemente, i monaci dormivano...facendo la siesta un po’ alla
romana; o sedevano nascosti nelle celle. Lottavano col diavolo del mezzogiorno, come dicono i
Padri, Dottori della Chiesa.
Potrei forse descrivere l’essere complesso di un monaco cominciando dal suo… sonno? Sì,
perché questo non è uno scherzo: il sonno è un’attività essenziale dell’uomo; e, dal suo rapporto con
il sonno, dipende la riuscita della vocazione monacale. Il monaco cristiano orientale non ha in
comune col buddista o il brahmano l’ignoranza della conoscenza del vero Dio-Gesù, però
condivide con essi l’indole contemplativo, in automatica ricerca dell’immersione nel divino.
Per questo, i monaci dormono poco, ma si addormentano spesso: dopo il mezzogiorno, dopo
i vespri, o verso la mattina. La parte più mistica del loro sonno è però durante le funzioni liturgiche,
quando si mettono in ginocchio all’orientale o dentro i troni del coro; e, chiudendo gli occhi,
ascoltano la cantilena dei salmi e dei tropari. I sacri suoni penetrano nel loro essere nella veglia e
nel sonno, quando vegliano coricati e quando dormono seduti o in ginocchio.
Costumi simili sono, di certo, condannati dagli uomini di ”pura azione”. Considerano i
monaci come degli accidiosi, intorpiditi nell’oscurantismo e nel quietismo, vivendo solo per
dormire e mangiare, senza pensieri e preoccupazioni di salvezza.
In realtà, i monaci cristiani orientali, questi vecchi maestri di vita, sono istintivamente
contemplativi, non separando il tempo della preghiera da quello dell’azione o del riposo. Riducono
la vita pratica al minimo necessario, scegliendo “la parte migliore”. Sempre istintivamente sentono
la sacralità del cibo e dei movimenti. Non devono essere educati al Sacro come gli occidentali o
come gli uomini “pratici”. La loro preghiera è quella della mente, le cui luci misteriose divinizzano

92
Verlaine, Sagesse, VIII.
123

l’intero essere, fino al raggiungere la preghiera isicasta, portatrice di “pace”, “calma”, “tranquillità”
assoluta. (La quale, non dobbiamo confonderla con la filosofia del palamismo che abbiamo discusso
prima.)...
Da ritenere che questa preghiera non è solo una recita di parole, bensì un vivere che vuole
trasfigurare l’uomo, indipendentemente da ciò che lui, in quel momento, fa.
Il monaco, nella cella come nel coro della chiesa, dove partecipa apparentemente passivo
alla Liturghia, cerca di immedesimarsi nell’atmosfera sacra che, né il turista, né l’uomo di vita
attiva indovina. L’ultimo si formula un tipo di preghiera che vuole raggiungere sicurezza e virtù: è
meritoria, ma non difficile. La preghiera del contemplativo che vuole raggiungere Dio per arrivare a
immedesimarsi in Lui, per salire in Dio e toccare l’azione divina dentro di sé e dell’intero creato è
un gesto che supera le forze psichiche umane, coscienza compresa. In una preghiera di questa
tensione la povera polvere umana si arrende e si addormenta. Se perfino un concerto di musica
classica, in un teatro, o una conferenza di alta filosofia fa addormentare certa gente non avvisata,
tanto più una cerimonia religiosa difficile ! Addormentarsi in preghiera, o durante un concerto di
Bach è segno di profonda concentrazione; prova che hai abbandonato le preoccupazioni meschine
del domani. ( Certo, da Wagner non puoi prendere sonno, per il rumore inaudito delle orchestre,
come dice Wilde ! E gli urli dei monaci greci, come degli ulama islamici, certe volte ti rendono
insonne ! )
La preghiera resta valida nella veglia, continua nel sonno ed oltre il sonno e….oltre la
morte. Il monaco continua la sua preghiera anche in stato di semi-veglia, cercando di sottoporre il
sonno ai suoi ordini. Se, proprio, si addormenta, quando si sveglia, continua la contemplazione dei
fiumi di luce che in ogni momento sgorgano per lui dalla Fonte di Grazia che sostiene il Creato.
Solo chi ha sperimentato la dolcezza della contemplazione -non interrotta dal sonno o dalla
stanchezza- può guardare con ammirazione i monaci che cercano il raggiungere del Profondo
imperturbabile, aldilà dei movimenti e dei cambiamenti.
Il non avvisato, quando è stanco, di norma, lascia la preghiera. Lo spirito disciplinato, ma
non mistico, fa, anche lui, questa scelta, che è funesta per l’anima.
Il cristiano moderno è tentato precisamente da questa strada. Se i gesuiti devono mangiare
bene, per avere forze mentali nel ritiro spirituale, i monaci, nella preghiera, si ritirano anche dal
mentale. Riducono al minimo l’umano, inclusa l’idea della stanchezza. Il divino deve riempire tutto,
donando una conoscenza che è irraggiungibile con lo sforzo scientifico.
L’orientale con vocazione religiosa vera non ha bisogno di regole. La vocazione è il sentire
istintivamente la Regola. In Occidente, la vocazione è l’accettazione volontaria di una regola che
124

s’impara, non si sente dentro. Ecco perché parlano sempre di obbedienza, senza raggiungerla mai in
modo naturale. Perché proviene dall’educazione, non dall’indole.
E quando questa educazione fallisce, i superiori si lamentano di mancanza di vocazioni. Per portare
i novizi dentro le mura dei conventi, sono capaci di rimpiazzare il vecchio silenzio con tutti i rumori
giovanili della piazza.
Anche i monaci dell’Athos si lamentano che rimangono pochi, ma per altri motivi. Temono che,
diminuendo di numero, saranno invasi dal mondo di fuori e perderanno il diritto di conservarsi la
Repubblica monastica. E penso che abbiano ragione.
Ora dormivano. Sentivano forse la stanchezza di una guerra invisibile, le cui sembianze si
metamorfozano senza sosta.
Quante volte ho invitato i miei parrocchiani ad addormentarsi durante le mie prediche!
Avrebbero dato e darebbero esempio di profonda spiritualità. Invece, si alzano, borbottano e vanno
a denunziarmi al Vescovo e sui giornali. Ma se sono bolsevichi? E si vantano pure, con questo
immane difetto! Fortuna mia che l’ Italia è ancora libera, e, finché non tocco il tema dell’Olocausto
ebreo, non sarò decapitato. Invece, l’arditissimo predicatore di Xiropotamou, Cosma di
Misolonghi, che, in piena occupazione turca, predicò ed incoraggiò alla vita santa i cristiani di tutto
il nord della Grecia, cadde eroicamente. Dapontès racconta che era venuto anche nella sua cella,
predicando e ispirando pensieri santi. Ma, siccome nelle prediche toccò gli ebrei che organizzavano
i mercati di domenica, riuscendo a convincere i cristiani di riorganizzarli di sabato, gli israeliti lo
dennunziarono con grosse calunnie al Pascià locale, a cui diedero sufficienti soldi per far
ammazzare il monaco. È così che una notte, nel comune di Berati-Premeti, Cosma fu rapito da due
aguzzini del Pascià, decapitato e buttato nel fiume più vicino. I cristiani gli trovarono il corpo,
grazie a una luce che emanava attraverso l’acqua dalle preziose reliquie… Doxa Si, o Theos, dico
anche’io come Dapontés.

LA STORIA DEL MONASTERO DI XIROPOTAMOU

È più comodo riposarsi in un monastero idioritmico come questo, perché la regola permette
una certa autonomia ai monaci, sconosciuta in Occidente, anche nei siti più liberisti.
Xiropotamou sorge su un pianoro che sovrasta il porto di Dafni; è un quadrato che delimita
il cortile interno, entro cui, oltre la chiesa principale, il katholikòn del secolo XVIII, sorge la bassa
torre dell’Orologio (del secolo XVesimo), ornata con due busti a rilievo.
Fu fondato nel X secolo e fu dedicato ai Santi quaranta Martiri di Sebaste. Il nome, che
significa "fiume asciutto", deriva da un torrente presso il quale fu costruito.
125

La fondazione è attribuita al monaco Paolo, (Pavlos), di cui, grazie ai Minei93 ed alle


cronache monastiche, piene di dettagli e confusioni, si sa più che niente. Una delle varianti racconta
che Paolo fu uno dei figli dello sfortunato Basileo, Michele I Rangabé (811-813). Della storia
edificante, per quanto terribile, di tutt’e due, padre e figlio, ci occuperemo quando visiteremo il
monastero di San Paolo, (Aghiou Pavlou).Un'altra variante racconta che il vero fondatore di
Xiropotamou sarebbe un certo Paolo Xiropotaminos, che i Minei greci, lo creano nipote di
Rangabé, figlio del primogenito, che aveva sposato una figlia di Carlomagno. Notizie poco
probabili, visto che i figli di Rangabé sono stati, tutti, evirati da Leone l’Armeno, il traditore del
padre, secondo le abitudini dei basilei cristianissimi di allora. Questo Paolo, sposandosi con una
ricca ateniense, divenne parente del Basileo, Romano I Lecapeno (919-944). Il quale lo aiutò a
costruire il monastero, emanandovi anche una Bolla d’oro a favore. (Romano era un altro Basileo
che sperava, in questo modo, il perdono di Dio, essendo un usurpatore. E la bolla d’oro, agli
studiosi, risultò un falso ). Paolo, (vedovo? e ritirato in Athos), ebbe la fama di essere più aspro -in
materia di ascesi- di Sant’Athanasio, ascesi che lui coniugava con la scrittura di libri; e diventò
Superiore della Sacra Montagna. Per il resto, le cronache, molto tardive, lo fanno fondatore di
Aghiou Pavlou, come vedremo.

Nel XII-XIV secolo, il convento godeva di vastissimi possedimenti e fu


beneficato dai Re di Serbia, che ampliarono il monastero e fecero costruire la
cappella dedicata alla Madonna, con un'alta cupola che domina sul lato
settentrionale. Cupola magnifica, dalla risonanza mistica; la cui forza simbolica,
però, non salvò i serbi dalla sconfitta totale a Cirmen su Maritza, nel 1371 ed a
Kossovopolje, nel 1389; e dalla distruzione del loro paese da parte degli invasori
musulmani.

SAGGIO SULLA RICOSTRUZIONE. I SOVRANI ROMENI.

Guardando le verande ed i fumaioli, alti e orgogliosi, che affrontano il tempo minaccioso e


la modernità, il mio pensiero è finito sulla sorte della mia stessa fede, risorta dalle macerie
provocate da me stesso. Ho rimuginato nella mente le sofferenze che hanno risvegliato in me e nei
miei colleghi di generazione torturata dal comunismo, in patria come in esilio, giacimenti di
prudenza ed equilibrio. I ricordi cadono sull’anima facendomi sfilar davanti occasioni e sfortune.
Dio rende le cose in macerie, per riqualificare l’uomo, la storia, la civiltà. Con questo zig-
zag della sorte, Egli mette alla prova la vitalità del Sacro e del Geniale, la quale consiste, una volta
distrutta, nella sua risurrezione.

93
Il libro liturgico, in 12 volumi, dedicato alla Liturgia dei Santi.
126

Tutto il Monte Athos passò per questa esperienza. Tutto fu costruito e ricostruito più volte.
Come, del resto, tutte le vere civiltà, la Chiesa stessa, e, per ultimo, l’intero universo, la cui
trasfigurazione succederà alla sua apocalittica distruzione.
Colui che ricostruisce, però, ha un merito insostituibile. Questo merito, in Athos, fu dei
Sovrani romeni. All’infuori di Prodromou, essi non fondarono alcun convento sulla Montagna
prodigiosa, entrando nella sua Storia quattro secoli più tardi. Presero però il posto dei Basilei
bizantini e dei Re balcanici, scomparsi sotto la marea turca, per ri-costruire, abbellire, confermare,
arricchire, ecc.
Il monastero di Xiropotamou fu ricostruito dal Domn romeno Alexandru Aldea, (1431-
1437), il quale nel 6 febbraio del 1433 cominciò ad inviare annualmente 3000 aspri. Questo Aldea,
per poter regnare, si spacciava per figlio del Domn Mircea il Vecchio (eroe temuto, che aveva
mandato, anche lui, un corpo di esercito, in aiuto ai serbi, senza risultato. Aveva sconfitto i turchi
nella battaglia di Rovine, ma non ha potuto resistere all’invasione turca successiva).
Aldea era stato sostenuto dal Domn romeno-moldavo, Alexandru il Buono. Chiedeva a
Gesù-Dio la grazia di continuare a regnare anche dopo la morte del suo protettore, avvenuta nel
1432, e poter ingannare i turchi, per non offrire il suo esercito al Sultano. Dolore che non potè
evitare, perché questo era il destino crudele dei tempi e dei luoghi.
Ciò che non sapeva ancora Aldea era il fatto che i turchi, come migratori, ma anche come
islamici, nemici della Chiesa e delle nazioni cristiane, sono sempre riusciti ad invadere e distruggere
ampi spazi cristiani, con l’aiuto e collaborazione diretta e continua di governi, eserciti, personalità e
schiavi cristiani. ( Questa intelligente tradizione si ripete fra islamici e battezzati, -per non dire
cristiani- ancora nel 2015).
Gli osmanlìi, come erano chiamati con orrore, imposero ai Paesi romeni un tipo di
vassallaggio che concedeva l’autonomia del paese, a differenza dei Regni della Serbia, Bulgaria,
Ungheria, ( l’ultima, fra il 1520 e 1699) o dello stesso Impero Bizantino, soppresso; ma richiedeva
tre tributi pesantissimi: oro e cereali, figli di nobili come ostaggi e l’esercito, secondo il bisogno di
ricominciare una nuova guerra contro la Cristianità. I Domni romeni, tutti cristiani, ma anche
sufficientemente invidiosi fra loro ed ambiziosi nel voler regnare, davano tutto, pur di conservarsi il
palazzo o il trono.
In queste condizioni, in cui i genovesi ed i veneziani -a turno- preferivano il commercio col
turco e non la difesa della Cristianità, cosa poteva fare un piccolo Domn romeno? Così, Aldea fu
obbligato di entrare in guerra contro i cristiani, sotto il comando del Sultano. Il colmo è che mandò
ai re cristiani lettere, suppliche ed avvisi sull’arrivo dei turchi e sul suo obbligato doppio-gioco, nel
tentativo di aiutare i fratelli. Inutile; ai fratelli importava il commercio, non la libertà dei loro
127

popoli. Non lessero, neppure, le lettere del valoroso Domn e tutto finì nella tremenda sconfitta di
Varna, il 10 novembre 1444.
Aldea ha sperato nell’indulgenza di Dio, ricostruendo un monastero in Athos. Così ricostrui
Xiropotamou. Non sappiamo se questo gesto gli è stato sufficiente per ingraziarsi il Cielo, ma, sulla
terra, non riuscì a sconfiggere il suo rivale, alleato coi tedeschi, Vlad il Draco, terribile padre
dell’ancora più terribile Vlad Tzepesc, il calunniato Dracula, (1456-62). ( I quali, non guardate ai
nomi, oltre ad essere eroi guerrieri contro i turchi, furono molto devoti, riempiendo i conventi di ex-
voto e di regali preziosi e usando della loro estrema violenza per arginare le catastrofi create dall’
occupante turco e contro la corruzione. Anzi, Vlad il Draco era pronto a cattolicizzare il paese. Ma
quando i destini si rovesciarono, fu obbligato di fare il cicerone dei turchi, nella loro incursione
devastante in Transilvania.)
Del resto, l’anima umana è assurda, (ma, questa è un affermazione banale!). Radu il Bello,
ostaggio presso il Sultano, benché fratello di Dracula, venne coi turchi contro il fratello e fu
coronato Domn, (1462). Strano: era l’ultimo di cui il Sultano doveva fidarsi: attirato dalla sua
bellezza, il Tiranno aveva tentato di tirarselo nel proprio letto e… sposarselo. Il giovane, nella
colluttazione, lo aveva ferito con un pugnale. Mah! Come ha fatto Maometto II a fidarsi ancora di
lui? O forse l’amore ha prevalso anche nell’anima del pagano? Ma certo, cosa non riesce all’amore?
Amore che… non ha reso. Radu lo ha tradito, era il minimo che doveva fare. Poi, nel zig-zag fra i
turchi e le nazioni cristiane, finì vinto dal (Santo) Stefan il Grande della Moldavia94, che gli rapì
moglie e figlia. La figlia diventò felice amica ed in seguito sposa del vincitore, di questo futuro
santo ortodosso, eroe geniale e crudele, collezionista di spose e morose, ma costruttore di 50
monasteri e chiese e canonizzato da un patriarca, accusato come delatore a favore dell’invasore
comunista, -per Grazia di Dio alla fine del secolo XX-.
Per tutte queste venture, i sovrani si salvavano l’anima, costruendo monasteri in luoghi santi.
Il monastero di Xiropotamou fu vittima di tremendi incendi, per tutto il ‘500; e nel 1609,
dopo un ultimo incendio, decadde.
Peccato che non vi siano rimasti i vecchi edifici del convento, avremmo potuto ammirare il
refettorio e la cantina vinaria di Neagoe Basarab, (1512-17). (Avremo molte occasioni per lodare il
mecenatismo e la religiosità di questo illustre sovrano della “Terra romena”, delle cui tracce è piena
la Sacra Montagna e soprattutto le casse. Personalmente, ho un dovere di riconoscenza nei suoi
confronti, per aver fatto ricostruire nel 1519 il monastero ed il paese che sarebbe diventato perno
94
1457-1504. Fu canonizzato Santo ortodosso, dal Sinodo Romeno, nel 1991. Ma ebbe con Roma contatti affettuosi; il
Papa Pio II, Piccolomini gli diede il titolo di Difensore, Atleta di Cristo e concesse per la Moldavia l’Anno giubilare.
Gli perdonò i suoi adulteri quotidiani perché Sua Santità Stesso si era espresso in pubblico più o meno così: “ se mi dite
che sono casto, mi offendete”!... Due medici veneziani curarono Stefan. Di lui, il Doge, nel 1504, disse: “Col sangue,
potendo, lo voria varir”.Vedi Mgr A. Tàutu, Spirit ecumenic, in Acta Historica della Societas Academica Daco-
romena, VIII, pag.187,ss. Roma, 1968. E “Romania” dell’Ing. Alfredo Nicolau, Milano, 1919.
128

della mia infanzia: Bistritza-Vàlcea. E per aver curato le reliquie del Santo di Bistritza, che ha
miracolato tutta la mia vita. Merita ricordare però il fatto che, per diventare Domn, Neagoe vinse e
fece uccidere il predecessore, Vlàdutz. È vero, non manu propria: ”fu il Pascià in persona a
tagliargli la testa, in Bucarest, sotto un pero”, dice la cronaca95.
Il primo maggio, 1533, il Domn Vlad Vintilà iniziò a regalare al monastero 5000 aspri,
annualmente. Più 500 per il viaggio di elemosina dei monaci. Come vedremo, questo gesto rimarrà
come un abitudine-rito di questi sovrani, nei riguardi dei frati più o meno penitenti.
Nel 1552 fu la volta di un altro romeno, mecenate, il quale fece ricostruire il monastero dopo
un nuovo incendio: il sovrano della Moldavia, Alexandru Làpusneanu con la sua consorte
Ruxandra, che regnò per due volte: 1552-61 e 1564-68. Lo riedificò nel secondo regno, prima di
essere avvelenato (forse) dalla moglie stessa, con la benedizione di Sua Santità, il metropolita 96.
Non ce ne stupiamo: così si mescolava la devozione con la violenza estrema nell’anima dei nostri
padri fino a pochi decenni fa, ed ancora oggi, da qualche parte. Làpusneanu era nipote di Stefan il
Grande, (essendo il figlio di un bastardo del grande eroe e santo), fu un Domn violento e
vendicatore, come tutto il mondo del pianeta Terra, inclusi alcuni grandi Santi, nel 1500. Dopo ogni
esecuzione, riparava però con un ex-voto alla Madonna. Negli stessi anni, il futuro grande papa, San
Pio V, imponeva agli inquisitori di farlo chiamare per accendere per primo i roghi, per mandare in
paradiso con amore gli eretici bruciati vivi.
Il romeno Làpusneanu non provava tanto amore per il prossimo come il grande Papa.
Condannava a morte senza motivi metafisici. Ma ne aveva superato il segno, dopo aver invitato a
pranzo e poi sequestrato e ucciso nel suo palazzo 47 nobili coi loro servitori. (Non senza averli
assicurati del suo amore paterno, con un mistico discorso tenuto in chiesa dopo la Santa Messa).
Spaventati del suo sadismo, i gentiluomini, uniti al Metropolita ed alla Sovrana, si decisero di
avvelenarlo, per salvare, dicevano, migliaia di possibili vittime.
Il povero Domn era, forse, un uomo giusto, per quanto violento. Perciò, pur provando
rimorsi, non rinunciava alle esecuzioni. Si restaurava l’anima, costruendo monasteri e chiese,
aiutando i monaci, i poveri e i luoghi santi. In un momento di grave malattia, considerando che
sarebbe presto finito davanti al Trono del Giudizio, chiese di essere consacrato come monaco. Prese
perfino il nome di Pacomio, per non rimanere indietro rispetto al nobile Ban, Barbu Craiovescu,

95
Ma gli storici moderni dubitano della veridicità dell’informazione, sostenendo che la cronaca ha voluto nascondere la
responsabilità vera di Neagoe, che non solamente avrebbe ammazzato Vlàdutz, ma ha anche falsificato l’albero
genealogico, non essendo per niente un “Basarab”, cioè “ osso di regnante”.
96
Non ci sono prove sufficienti per accusare la Sovrana, Donna Ruxandra di complicità a questo assassinio. Però,
nell’immaginario romeno persiste questa tesi, lanciata da una famosa novella letteraria di Negruzzi, che prevale sulla
verità storica.n.n.
129

che fu ban dal 1495 a 1520, in Oltenia; colui che, dopo aver costruito il monastero della mia
infanzia -Bistritza-Vàlcea-, si fece monaco per gratitudine a Dio, col nome dell’antico asceta.
Alcuni mi diranno che il paragone non regge, perché Barbu rimase monaco, mentre Làpusneanu,
riprendendosi dalla malattia, minacciò di morte tutti coloro che lo avevano assistito al sacro rito,
incluso il Metropolita.
È vero. Il primo Barbu rimase fra le mura del suo monastero dove è stato anche sepolto. Suo
nipote, Barbu II riprese l’abito di guerriero quando il sovrano amico, Moise Vodà lo chiamò a
difesa del trono contro il pretendente Vlad l’Annegato, ma soprattutto per liberare il Paese dai
turchi. Cadde nella lotta di Viisoara, il 29 agosto 1530, accanto al sovrano aggredito. 97 Mentre il
finale di Vlad il VI-l’Annegato, un altro benefattore di Athos, è legato ad un momento stupido,
che gli ha lasciato il sopranome: nell' estate del 1532, „ubriaco, è cascato nel fiume Dàmbovitza e si
è annegato insieme col suo cavallo preferito”. Ohimé! Vite di personaggi sottomessi ai tempi, che
avevano superato, molto prima di Hegel, il princìpio di contraddizione: con i turchi e contro i turchi,
con i cristiani e contro di loro .
Per conto suo, Làpusneanu compì il suo errore fatale, gridando le sue minacce contro tutti,
mentre stava ancora a letto, in convalescenza. Fu facile, perciò, essere servito con un veleno
fortissimo, dato con sorrisi e carezze, (forse) dalla stessa Donna Ruxandra, mentre, nel salone
accanto, il Metropolita ungeva, come Sovrano, il figlio minorenne, Bogdàn. Sarà vero che la Sposa
vi è stata coinvolta? Insomma, umanamente parlando, ne aveva dei motivi personali. Ne basta,
come esempio, uno solo: Era stata una graziosa bambina e non aveva conosciuto la sofferenza
finché visse suo padre, l’eroico Domn, Petru Rares. Ma, rimasta orfana ed ancora minorenne, fu
costretta dai nobili, assassini di suo fratello, il Domn Stefan Rares, di fidanzarsi con uno di loro, un
comite non troppo giovane, chiamato Ioan Joldea, che i congiurati volevano come Domn (1552).
Infatti, questa era l’unica via ad un certo diritto al Trono di questo povero manichino. Joldea, però,
non vi fece in tempo, perché Alexandru Làpusneanu, svelto di mano, arrivò con passo più veloce
e arrestò il rivale mentre gli sposi entravano in chiesa. Mandò avanti la sposa e fece entrare il
povero Joldea in una carrozza, dove il carnefice stava già pronto con un temperino in mano, con il
quale gli tagliò il naso, ( per momento); dopodiché, l’esarca dei monasteri, presente apposta nella
stessa carrozza, lo immonacò con i voti perpetui. Con la stessa carrozza, Joldea fu mandato in una
clausura, (la gente ne conobbe l’indirizzo dalla traccia di sangue che rimaneva dietro la calesse)
mentre il focoso Alexandru, già vestito da sposo, gli si sostituì sull’altare, dove la sposa,
Ruxandra aspettava il marito. (La suocera, Donna Elena, vedova di Petru Rares, fu strangolata,
avendo alzato le sopracciglia, di fronte a questo spettacolo, in chiesa; ma questo gesto sublime, di
97
La tomba di Barbu si trova nel suo monastero di Bistritza, (vicino a casa mia), rinnovato nell’800 dal Domn, Barbu
Stirbei.
130

sopprimere la suocera, era normale, faceva -e fa ancora- parte della regola del gioco: anche a
Montecarlo le suocere sono spinte nel mare dalla terrazza dell’albergo che porta il loro nome !). I
preti, concentrati -come lo sono sempre stati- (sic!), sui Santi Misteri, non si accorsero neppure
dello scambio dello sposo, neppure della scomparsa della mamma della sposa; continuarono
imperterriti ad impartire il Sacro Rito del Matrimonio. Penso che, dopo un giorno di nozze così
felicemente hollywoodiano (ante terminem, anch’esso), e dopo una vita altrettanto tumultuosa con
l’ardimentoso sposo, la Ruxandra vide nel bicchiere di veleno, benedetto dal Metropolita, il calice
del Graal.98
Làpusneanu fu sepolto, con gli onori dovuti, nel monastero di Slatina –Moldavia, Sud-,
costruito da lui. Sembra avesse fatto in tempo a venire in Athos, nella sua Fondazione, ma risiedette
altrove,… perché anche lui, come gli altri Sovrani, non aveva arricchito un monastero solo: aveva
restaurato o riempito di regali e privilegi tutti gli altri.

Stupisce questo modo di pensare e di agire dei sovrani ? Molto più stupefacente è la reazione
del popolo, a riguardo, malmenato e disprezzato sempre e da chiunque, ma incapace di essere
obiettivo e giusto. Di Làpusneanu, i romeni hanno conservato un ricordo orribile, soprattutto per i
47 nobili traditi ed uccisi senza pietà, anche se, stranamente, il Domn proteggeva la povera gente.
Ma di Stefan il Grande, Sovrano della Moldavia, predecessore di Làpusneanu, il popolo, e perfino
la Chiesa, hanno conservato il ricordo di un Santo. Stefan però, nei suoi 47 anni di regno, ha ucciso
molti più nobili, con molta più durezza, 60 d’un colpo, dopo la vittoria di Baia, contro il re
d’Ungheria, Matteo Corvin- (un romeno magiarizzato); ed un altro gruppo, alzandosi dal letto di
morte, cioè un attimo prima di andarsene nell’aldilà. I motivi erano identici a quelli di Làpusneanu:
punire i tradimenti continui. Non gli contiamo però fra le cattiverie, il gesto ingegnoso di mettere al
giogo, al posto dei buoi, tutti gli ufficiali, prigionieri polacchi, dopo la lotta dei Codri Cosminului,
per fare arare la terra e piantare il “Querceto rosso” !.... perché la colpa e tutta dei polacchi:
potevano rimanere a casa, non invadere la Moldavia.
Erano complicate queste anime devote, riconosciamolo. Anche per Dio sarà difficile
giudicarle e collocarle nel posto giusto -si fa per dire-. I loro secoli erano “ un miscuglio di sangue e
rose”, come diceva Johann Huizinga: mobilità affettiva, miscuglio di pietà e crudeltà, giustificata
con argomenti inaccettabili.
Secoli dopo, Napoleone tentò di giustificare la violenza del Sovrano, quando fu incolpato,
lui stesso, di crudeltà:

98
No, non ci dobbiamo stupire dell’ISIS musulmano del 2015 !
131

“Mi si accusa di aver commesso grandi crimini; ma gli uomini del mio tenore non
commettono crimini; io ho avuto dalla mia parte la maggioranza del popolo, le grandi masse e gli
avvenimenti; quali crimini, dunque?”.99
Sarà…. Ma il Vangelo era già arrivato sulla terra nell’anno 30.
Nel 1600, il nobile e storico, Nestor Ureche dedica a Xiropotamou il grande ed importante
monastero moldavo, Secul.
Non appena il Domn moldavo Jeremia Movilà100 comincia un nuovo restauro, Xiropotamou
brucia di nuovo, nel 1609. Tutti i monasteri athoniti passarono più volte per questa tragica
esperienza. Se dovessimo approfondire il significato mistico di un incendio ripetuto in un luogo
sacro, (segno? purificazione? castigo?) dovremo poi rinunciare a scrivere queste righe.
Accontentiamoci di passarli in rivista.
Nel 1614, Radu Mihnea conferma i regali di suo padre Mihnea Turcitul101. Di tutt’e due
questi sovrani ce ne occuperemo abbondantemente, essendo, loro, presenti in mille modi nella vita
dell’Athos, il Turcitul, perfino da finto musulmano e cristiano nascosto.
Dopo il nuovo tentativo di restauro da parte del Patriarca di Costantinopoli, Timoteo II
(1612-1620: ma non ne aveva i mezzi, se non le donazioni dei romeni), venne il turno di un'altro
grande mecenate. Egli fu superiore a tutti i predecessori: il Domn romeno-valacco, Matei Basarab,
(1632-1654); il quale, con vari nobili romeni, amici suoi, riportò tutto l’Athos a un nuovo
splendore. Non solo l’Athos: tutti i luoghi santi dell’Oriente ortodosso cambiarono aspetto, dopo il
suo passaggio. Ma anche tutta la terra romena fu seminata di monasteri, chiese parrocchiali, oratori,
palazzi, castelli, cappelle ospedaliere, croci e monumenti sacri, da un’orizzonte all’altro. Solo lo
Stefan il Grande, in Moldavia, può tener petto a Matei, in materia di donazioni sacre, ma non per
quanto riguarda l’Athos. Dopo due decenni di fatica, il devoto Sovrano, morendo in grazia di Dio,
ma anche tormentato da una rivolta, nel suo palazzo di Tàrgoviste, fu sepolto nel monastero
ricostruito da lui nel luogo dove Dio lo aveva salvato dai turchi perseguitori, mentre era ancora
Aga102, ma dove il suo fedele Arnàuto perse la vita! Matei diede al monastero il nome dell’amico
scomparso e richiese che il suo corpo fosse portato lì su un carro con 4 pai di buoi. Il convento è
collocato 300 metri più in alto della casa della mia infanzia, come in una splendida vetrina, quasi in
cima al monte Arnota; si vede da decine di kilometri, le sue torri controllano tutta l’Oltenia. Per
tutta la mia infanzia ho venerato la sua magnifica tomba, raccontando ai turisti le sue gesta, e
baciando la sua corona, appena nascosta dalla calce infame dei funzionari del regime comunista 103.
99
In Emerson, Les représentants de l’humanité, Paris,1863, p.291.
100
Di questo Sovrano ci occuperemo più tardi.
101
Cioè il turchizzato, facendosi musulmano, per salvarsi la vita e il trono. Vedi avanti.
102
Titolo nobiliare (turco).
103
A chi mi accusa, in Italia, per il mio linguaggio “duro” nei confronti dei comunisti, gli chiedo cosa direbbe se tutti gli
stemmi patrizi, corone, croci sui monumenti italiani fossero stati coperti di calce, per legge governativa, perché “segni
132

Ora, (2007) la chiesa gioiello di Matei è soprafatta da costruzioni orribili della nuova -e liberata-
Chiesa Ortodossa Romena, in vena di disastroso rinnovamento (anti) artistico.
Nel 1665, il Domn moldavo, Eustratie Dabija donò a Xiropotamou il monastero di San
Nicola, trovatosi nella Citadella di Neamtz, (: quest’ultima, entrata nella leggenda a causa di una
difesa intelligente fatta da fucilieri contadini che umiliarono l’esercito del re polacco, Jan Sobietzki,
salvatore di Vienna). Dietro l’iniziativa del Patriarca Metodio III (1668-1671), il romeno Duca
Vodà, (1665-78) finì il restauro di tutto il complesso. Era, costui, un sovrano famoso per le ironie
che ha scatenato nella volgata della strada, ma anche per la sua ingordigia. Però, con l’Athos fu
generoso, lasciando qui anche il suo pastorale, la pateritza, detta di Santa Pulcheria, del sec.XIII, in
cima con due serpenti dorati e gli occhi della sapienza. Nel 1672, ha offerto anche la cittadella di
Iassi, che porta il suo nome.
Sperava di farsi perdonare da Dio per la fiscalità esagerata che impose ai contadini, nel suo
primo regno, a Bucarest, e per le torture raffinate che applicava ad amici e nemici. Ci riuscì, perché
morì sul Trono altrove104, non fu ucciso dal successore, Serban Cantacuzinò, (1678-88). Il quale si
accontentò con la moglie, Maria Duca, morosa di lui, che, in questo modo, rimase sul trono col
nuovo amante-consorte.
Veramente Madame Duca, vera Madame sans gène, si meritava un certo premio per il suo
amore fedele. Aveva conosciuto il giovane Serban, ospite di Sua Maestà, Duca; e, da moderna
maìtresse, s’innamorò del suo fisico atletico e della sua voce tuonante, che sapeva anche sussurrare
in segreto parole d’amore. Ed ecco che proprio l’amore spuntato fra i due si trasformò in vera
trama, per infinocchiare il Sovrano. Il quale se ne accorse e preparò un’esca, per far uccidere
Serban. La Dama, però, fu più agile, usando il massimo di furbizia: diede una festa per il suo
onomastico di 15 agosto, (l’Assunzione di Maria), e, favorita dalla confusione delle danze, informò
il suo amorino del pericolo, preparandogli anche una fuga segreta, Cotroceni-Adrianopoli. Serban
non fece l’errore del re di “Ballo in maschera” di Verdi e fuggì in tempo. Non si vendicò, però:
dopo aver ricevuto il trono della Valacchia, tolto a Duca, richiese al Sultano, per il suo rivale, il
trono di Moldavia, ma solo per amore della sua adorata. Con la quale, sembra che restasse sul trono
di Bucarest, venerato da tutti per il suo universale amore del prossimo105.
Non proprio universale. A tentoni, si vendicò come poté contro gli avversari. Al nobile
vornic Hrizea gli fece cavare occhi, lingua ed altro, non mi ricordo se non fece tutto manu propria,
finché il poveretto non morì. Il figlio di Hrizea, un buon storiografo si vendicò attraverso una
di dominazione dei nemici del popolo”. Questo è solo uno dei migliaia di gesti assurdi di quel regime.
104
In Moldavia, dove ha regnato per tre volte, mentre in Valacchia ha regnato una volta sola.
105
Dettagli che conosciamo dalle Memorie dell’italiano Antonio Maria del Chiaro, storico e favorito di alcuni Sovrani
romeni dell’epoca. Fatto riportato dagli storici, fra i quali Xenopol, vol. VII, p.204, Buc.1929, ma contestata come falsa
diceria da Kogàlniceanu, (Histoire, Vol.I, pag.386, Buc. 1941) e dal tedesco V.Hammer, nella sua Storia, tome III,
pag.711; (su Serban, altri dettagli, avanti).
133

cronaca inzuppata di fiele contro tutta la stirpe dei Cantacuzini e Bràncoveni, dipinti come veri
demoni. Ne vale la pena rileggerla, è firmata Radu Popescu. Constantin Bràncoveanu, però, prima
di essere martirizzato dai turchi, fece giustizia contro i nemici della stirpe: organizzò una
esecuzione esemplare del nobile Staico Bucsan, (1693) che tramava con gli Imperiali per
impossessarsi del Trono di Bucarest. La più seducente delle esecuzioni, escogitata da Bràncoveanu,
fu l’avvelenamento di Serban, aiutato dal fratello di costui, lo stolnic Constantin. Non era lui il
nipote prediletto di costui, figlio della sorella? Non doveva succedergli al Trono? Ne aveva dunque
motivi ben fondati. Altrimenti, fu uomo di piacenti virtù, senza macchiarsi di viltà. E per la Fede
pagò con la vita.
Certo, è difficile trovare nella Storia un ricco sovrano di un paese piccolo, sottomesso ai
turchi, così ricco da poter prestar soldi all’Imperatore del Sacro Impero Tedesco; a mantenere in
vita le banche di Venezia, pardon, la banca di San Marco; a lasciare per più di 100 anni un eredità
di denaro, da far vivere da re i nipoti ed i nipotini; e poi a subire il martirio per Gesù Cristo, non da
solo, ma dopo aver visto decapitare tutti i suoi 4 figli ed il cognato, incoraggiati da lui a non
rinnegare la Fede. Questo fu Constantin Bràncoveanu, questo e altro. Penso che il martirio gli
fosse stato dato da Dio anche per purificazione; mentre la sua Lavra di Horezu, il più bel monastero
della Romania del Sud, resta un simbolo della sua stessa vita: il mausoleo che lì si è preparato è
vuoto. Horezu si trova a 6 km. dalla mia casa avita; per tutta l’infanzia sono andato mille volte lì per
abbeverarmi della bellezza, della dolcezza e della coincidentia oppositorum di tutto ciò.
Mentre lo stolnic106 Constantin Cantacuzinò, (ucciso dai turchi nel 1716, insieme col figlio,
il Domn Stefan), da ex- alunno dell’università di Padova, passava i suoi giorni leggendo libri di
prediche italiane, cattoliche, piuttosto gesuitiche. Forse per comprendere se l’avvelenamento del
fratello, Serban, fosse stato un semplice peccato veniale, o no.

Per il restauro di Xiropotamou venne, poi, il turno del monaco Constantino Dapontès,
(1714-84), letterato e uomo politico e segretario alla corte dei sovrani di Moldavia, Costantino e
Ioan Mavrocordat. Aveva attivato anche presso la legazione francese di Iassi e aveva goduto di
amicizie lusinghiere a livello europeo, (di cui si era felicemente servito, guadagnandosi una
fortuna).
Dapontès era nato nell’isola Skopelos, fu un uomo coltivato e scaltro, perciò raggiunse una
carriera invidiabile per quei tempi. Ma ebbe la giusta intuizione di ritirarsi dalla vita pubblica dopo
la scomparsa dei suoi protettori, (comprendendo che le relazioni, nel mondo diplomatico, sono più
fuggevoli del vento); fattosi monaco a Xiropotàmou, vi risiedette dal 1757 al 1784. Con i suoi
106
Anche stolnic come aga e come altri nomi che incontreremo sono titoli nobiliari romeno-greco-slavo-otomani di quei
tempi.
134

mezzi e il prestigio personale, rialzò le sorti del monastero, mentre metteva per iscritto le sue
esperienze romene, descrivendo i suoi viaggi, ma soprattutto quelle dei monaci che mendicavano
nei Paesi romeni e tornavano ad Athos con carri pieni di ogni tipo di metallo e pietre preziose. 107 Le
sue collezioni di manoscritti e libri addobbano ancora le biblioteche dell’Athos. Intanto, i
documenti rimasti ci mostrano che nel solo 1700, i sovrani dei Paesi romeni mandarono a
Xiropotamou 50.000 grossi, ( fra il 1757-65), il boier Teodor Calimah,150 lei per due anni, (1757-
58), Scarlat Ghica 800, ed “una volta per sempre” 8000, più la mancia al viaggiatore, 500. E con
Dapontés, ”un sacco di fiorini”.
Così, grazie a questo raffinato levantino ed al denaro romeno, possiamo ammirare ancora, a
Xiropotamou, la sveltezza del katholicon, la chiesa grande, ricostruita nel 1761, ed addobbata per
tutto il secolo XVIII e XIX, con le donazioni dei vari nobili romeni, devoti o meno devoti, che
consacrarono i loro beni alla Sacra Montagna, in riscatto dei loro peccati.
Nel 1972, un incendio ha devastato la foresteria, tre cappelle e qualche affresco del
monastero, rendendo sempre più attuale il detto biblico: mataiotis mataiotyton, ta panta
mataiotys.108
Oggi i monaci stampano una rivista e curano i 4000 libri stampati della biblioteca ed i 409
manoscritti, codici finemente miniati, fra i quali 12 regalati dai romeni, più di 1000 documenti
romeni e qualche manoscritto ebraico. Chi sa, dopo tanti incendi, se esiste qui ancora, fra i libri
rimasti, almeno una parte della straordinaria biblioteca regalata dal patriarca di Costantinopoli,
Atanasio, esule in Moldavia, e amico del Basileo moldavo Vasile Lupu !
Nascosta fra i tesori della biblioteca, troviamo la megalinaria, la preghiera di
ringraziamento alla Madonna, appartenuta a Constantino Dapontès, dove, alla pagina 112, troneggia
l’icona miracolosa della Madonna di Sàrindar di Bucarest, disegnata da Gheorghe il pittore, nel
1759. Dovrei scrivere un vero romanzo per raccontare come si può arrivare a baciare quella icona!
…..

LE STRANEZZE DELLA PITTURA SACRA

Se non siamo ancora spossati per la stanchezza, entriamo in chiesa, per pregare, ispirati dalla
ricchissima pittura.
Io vi entro armato di un pizzico d’ironia nel profondo del cuore, perché il ricco addobbo
pitturale della chiesa madre, restaurato del 1783, non è rappresentativo per lo stile bizantino. Esso
107
Nelle sue opere: “Le efemeridi daciche, Cronaca degli avvenimenti, 1648-1704, la Descrizione della Dacia e della
Valacchia, Canone di cose interessanti, ecc. tutto in neo-greco. Tradotto da C. Erbiceanu in romeno e pubbl. su due
colonne: “Catalogul istoric”. Vedi avanti.
108
Vanità delle vanità, tutto è vanità. (gr.)
135

copia tutto l’ardire del barocco occidentale in materia di contenuto artistico e mistico, integrandolo
nei canoni bizantini. Incontriamo anche qui, come altrove, quella pienezza immaginifica nella quale
non c’è posto per il vuoto, dove i temi sono illimitati, dove tutta la Bibbia è dipinta sui muri, la vita
di Gesù, le Sue parabole, gli Atti, la vita dei Santi; talvolta tutto il calendario, i Concili ecumenici,
l’Inno acatisto, tutto in tutti ed Uno in tutto, come “Dio che abita tra i Santi e riposa sui
Cherubini”.
Il famoso Pantokrator di Xiropotamou è il Padre, non Gesù, circondato dalla Madonna
dell’Apocalisse, dai simboli degli Evangelisti e da Serafini, tutti capo, occhi e ali. Angeli come dei
ragazzi in pubertà, con note musicali in mano e costumi di principi piuttosto veneziani.
Angelicamente comici, non si trovano nella pittura bizantina. I draghi apocalittici e la Madonna
aggredita dal Serpente antico coronano uno scenario davvero impressionante.
Tutto questo è normale e bello e deve esserlo, ma la presenza di queste scene qui è una vera
ironia di Dio; gli ortodossi sono sempre più sguinzagliati dai loro ideologi contro i contenuti e le
forme dell’arte occidentale, disprezzata come “cattolica”, “eretica”. I loro padri dei secoli 18-19, ( il
tono lo ha dato lo Tzar, Pietro il Grande) furono attirati, però, dallo stile “italiano”, dalla dolcezza
romantica dei volti celesti del dopo Rinascimento ed hanno generato tutta l’iconografia russo-greco-
romena che ancora adorna le grandi cattedrali di quell’epoca. Ma poi è arrivato il XXesimo secolo
che, fra fanatismi e ribellioni manieristiche, ha fatto ritornare molti, troppi aspetti della vita e della
civiltà verso l’epoca di pietra. Così, anche a Xiropotamou, i volti “italiani” fanno lo sgambetto,
dall’alto delle mura, agli spiriti dei giovani ortodossi talebanizzati dal ritorno delle vecchie icone
smunte ed affilate, supercopiate con disgustosa mancanza di gusto ed altrettanto nauseante, irreale
devozione.
Per la nostalgia gotica dell’infinito e dello spazio vuoto dedicato al dubbio cartesiano non
c’è posto, in Athos, perché la Chiesa simboleggia la pienezza del Cielo sulla terra. A Bistritza-
Vàlcea, però, vicino alla mia casa avita, un Sovrano ed un pittore illuminato 109 hanno trovato il
posto adatto per una sintesi perfetta fra le due spiritualità, italiana e bizantina, gotica e ortodossa
rispecchiata almeno sui muri.
Ecco anche l’antica Icona portabile che si venera nella chiesa-madre, che rappresenta i
Patroni del convento, i 40 Martiri di Sebasta, annegati in un lago ghiacciato. I martiri sono torturati
e legati nudi nel rotondo lago gelato, situato ai margini della città pagana. Erano stati portati,
schiacciati, tutti, in un carro e, malgrado le varie lusinghe, non avevano voluto sacrificare agli dei.

109
Il Sovrano è Barbu Stirbey, il pittore è G. Tatarescu, istruito in Italia. Ambedue,vissuti nel XIXesimo secolo.
Hanno creato un complesso monastico, (Bistritza-Vàlcea), nel quale il bizantino, il gotico, il rinascimento si connubiano
meglio che nelle variazioni di Sacré Coeur, Westminster cattolico ed altre cattedrali della decadenza.
136

Uno solo, più giovane, più debole, alla fine si è arreso. Ma sua madre che stava dietro, gli si scagliò
contro come una tigre, pur piangendolo come una martire:
-Se non sei degno del Figlio di Dio e di una morte per Cristo, non ti riconosco più come
figlio.
Di fronte a questo coraggio sovrumano dei martiri e della madre, uno dei carnefici fu toccato
dalla Grazia e si convertì, chiedendo di essere legato insieme con gli altri, alla vista delle 40 corone
di luce che scendevano dal cielo. Fece in tempo per morire coronato anch’esso dalla 40esima
corona celeste, il cui vero destinatario aveva abiurato.
La loro storia è viva nella coscienza di ogni vero orientale, più per il dolce che si confeziona
nel giorno di 9 marzo, la loro festa, una torta in 40 pezzi, che chiamiamo “martiri”. Non mi
sottraggo mai a questo piacere, perché il dolce su base di miele e noce è davvero delizioso, mentre
lo sciroppo imbevuto di miele, noci e cannella, messo in una brocca rotonda ricorda il lago, il luogo
del martirio e il miracolo ivi manifestato. Sono quasi sicuro che i 40 martiri sono alla base dei dolci
bizantini diventati turchi, i magnifici baclavà, sarailì e kataif .

C’è da rimanere impressionati dai profondi insegnamenti e dai sentimenti che le sacre Icone
e l’atmosfera generale del monastero rivelano. Ma le sorprese non finiscono qui.
Tra i tesori di Xiropotàmou si trova il frammento più grande della Santa Croce di Cristo, di
cui conservo una diapositiva. La santa reliquia è sistemata in una croce doppia, in oro e pietre,
rinchiusa in una cassetta che i monaci aprono con devozione per la venerazione dei fedeli. Non
dubito della sua autenticità; ma è anche vero che se mettessimo tutti i resti della Croce che si
trovano nell’Athos, insieme con i frammenti che si trovano a Roma ed altrove, avremo una Croce
kilometrica. Riprenderemo altrove il discorso sull’autenticità delle reliquie, in genere; non è il
momento, per ora, di turbare le coscienze dei devoti. Fatto sta che dopo il 1650, i monaci si
inventarono un altro espediente per impressionare i Sovrani romeni: si spostavano con reliquie: per
regalarle, ma soprattutto per venderle, o, per una semplice visita sacra, che fruttava ogni volta un
patrimonio presso quelle popolazioni già immiserite dai turchi e dall’ingordigia terroristica dei
funzionari.
Nel 1780 i mercanti di Brasov, Radu e Leca fanno costruire qui la chiesetta di San
Demetrio, mentre Radu dipinge lui stesso la chiesetta della Santa Croce.

TUTTI GLI ORI PER DIO SOLO


137

Xiropotamou ha la fama delle liturgie solenni, celebrate con cura. Una celebrazione solenne
ti fa capire quanto è importante la presenza dei paramenti e dei vasi di culto preziosi. Vangeli,
calici, oggetti sacri, meravigliosamente lavorati in oro e pietre si possono ammirare un po’
dappertutto nella Montagna. Il volgo resta scandalizzato di quanto oro usa un maestro di arte sacra
per fare onore a Dio. L’uomo religioso ne comprende il contrario: l’oro e le materie preziose
servono e devono servire esclusivamente per la gloria e per la Casa di Dio, per simboleggiare la Sua
Maestà; e non per lusso personale, per avarizia e per turpitudini. Tanto meno come conti bancari.
Perciò, il monaco rimane povero, vive in celle più che modeste, i suoi abiti sono selvatici e i cambi
non abbondano. Davanti a Dio, però, si veste in paramenti preziosissimi, che rispecchiano la gloria
dei figli di Dio. Le chiese sono adornate da chi non prova i rimpianti di Giuda, l’oro appartiene a
Dio e non a Mammona. Le fabbriche, povere e brutte, che si costruiscono oggi come chiese, in
Occidente, sono frutto della falsa morale di Giuda il traditore, che ha infettato gli animi di troppi
religiosi occidentali attuali. Nella Sacra Montagna, immersa nel bizantino, come nei tempi del
romanico, del gotico e del barocco, l’oro e le pietre preziose acquistano la loro vera dignità e utilità,
per l’elevazione dello spirito alla bellezza celeste.
Il Vangelo dorato si porta in processione, perché rappresenta Gesù Cristo in mezzo al popolo
fedele; noi lo baciamo come la Maddalena, che ha baciato i piedi di Gesù; si colloca sull’Altare,
perché è uguale in dignità all’Eucaristia.
Del resto, le cerimonie sulla terra sono confermate dalle cerimonie descritte nelle Profezie e
viste nelle visioni ed apparizioni dei vari eletti. In Athos si può impasticciare una lunga lista di
veggenti, di miracolati, di liturgisti che, prima di celebrare, gioiscono di visioni della Liturgia
celeste. Come Padre Ignazio di Sant’Anna, il cui volto si trasfigurava in luce durante la
Celebrazione Eucaristica.
Come i Vangeli, anche i sacri vasi di Xiropotamou raccontano, con dovizie di particolari e
ricchissimi materiali, i misteri della salvezza. Su una patena preziosa del XVII secolo è incisa tutta
la processione offertoriale del “grande isodos”, nel rito bizantino, con dei gesti sacri che, secondo
I.D. Stefànescu, sono ispirati ai versi dell’Apocalisse XX,11 e XXI, 9. Lì è descritta, in metallo
nobile, la divina liturgia angelica, nella quale Gesù Cristo, eterno Sacerdote nel cielo, celebra
insieme con gli angeli il Suo proprio sacrificio.
Infatti, la preghiera che si legge sommessamente, prima della processione offertoriale
bizantina, è chiara: “Tu infatti o Cristo- Dio nostro, sei l’offerente e l’offerto, sei Colui che riceve i
doni e che in dono Ti dai ”. Sul disco di Xiropotamou appare, in mezzo, il trono delle tre Ipostasi
della Trinità con gli Apostoli nella zona superiore. In quella inferiore, nella stanza dell’altare, Cristo
sta coperto con l’aer, il grande velo che rappresenta -nel rito- il cielo avvolgente di mistero la terra.
138

Anche il trono “dell’hetimasia”, dove la Vergine Maria tiene Cristo dentro di sé, benedicente, trova
un posto nell’insieme del rito.
Vediamo Gesù Cristo, Vescovo, col capo circondato dal nimbo, tenendo nella mano sinistra
il rotolo della Legge. Con la destra benedice la processione degli angeli-diaconi, ciascuno con un
compito: il primo apre il rito, il secondo incensa, un terzo porta due candelieri accesi. Altri due
angeli - diaconi alzano le “ripide”, tavole dorate, scolpite con volti di serafini. Con queste ripide i
diaconi segnano delle croci in aria sulle sacre offerte. (Monsignor Ioan Ploscaru, il mio grande
amico-Arcivescovo- rideva ogni volta, durante questo rito, e mi sussurrava: “proteggono le offerte
dalle mosche”).
Angeli – sacerdoti, ornati con casula e epitrachilion,110 portano la patena, il calice e l’aer.
Nell’ultimo momento della processione, Cristo, alla destra dell’altare, riceve, al ritorno dei
celebranti, i doni, dalle mani di questi angelici diaconi……….
Quante volte ho partecipato a imperiali cerimonie come questa, nelle cattedrali ortodosse
della mia infanzia e della prima giovinezza! Nel mio cuore, ferito dall’esilio, l’incisione di liturgie
simili è risultata molto più dolorosa che su tutte le patene.

CONTINUIAMO IL NOSTRO PELLEGRINAGGIO

Usciamo commossi da Xiropotamou, salutando il monaco che si è scomodato per noi con la
parola “Evcharistomen” ed “evloghite”. Lui risponde grave: “parakalò, o Kyrios!”111
Da lontano, contempliamo alta, imponente, la chiesa russa di Sant’Andrea. Stile imperiale,
circondata da lussuosi edifici… degne di una metropoli, tipo Parigi o Berlino. Invece sono stati
costruiti qui, nascosti nelle foreste dell’Athos, sembra, non per occhi umani. Ci preannunciavano
l’avvicinarsi della capitale della Montagna, la cittadina di Karyé, dove prendevamo il permesso di
continuare il nostro pellegrinaggio. Dovevamo “fare presto”, altrimenti rischiavamo di non essere
accettati per la notte. Ci ripromettevamo di rivedere la Xiropotamou al ritorno, o, chi sa, in un
successivo viaggio. Perché, devo dire subito, appena messo il piede sulla Sacra Montagna, mi si è
svegliata la voglia di programmare spesso, questo pellegrinaggio, per la vita!!!112

KARYÉ, 1977

110
Stola bizantina.
111
?
“Ringraziamo; benedite!” “Prego, è il Signore che benedice!”(gr.) Devi assolutamente imparare queste espressioni se
vuoi avere vita serena in Athos ! Oltre tanti altri segni e movimenti.
112
Non ho mantenuto la promessa se non per altre due volte!
139

Qualche ora di noia per i documenti.


Uno sguardo generale dai gradini della Sacra Epistasia, sistemata in un edificio assai nuovo
in mezzo a uno spiazzo, ti istruisce su tutta la situazione di questo strano villaggio monacale. A
destra delle scale, la residenza dell’Arcivescovo. Nelle case, disperse come in una vera contrada
nostrana, risiedono, sia i Capi della Sacra Montagna, ( la Iera Kinothita) che i commissionari dei
Monasteri. Ogni convento ha qui le sue rappresentanze, intorno agli edifici della Direzione, che,
riparate in varie celle-villini, fungono da vere ambasciate. Infatti, stabilendosi la regola per i
superiori di radunarsi tre volte all’anno a Karyé, (o almeno per la Festa dell’Assunta), fu necessaria,
dall’inizio, la costruzione di celle ed alloggi, proprietà di ciascun monastero. Così, il luogo si
trasformò in un villaggio con un vero carattere di mercato guadagnato dai tempi di Sant’Athanasio.
Infatti, qui, oggi, come allora, i monaci comprano e vendono i prodotti necessari alla loro vita più
che modesta.
Con altre parole, Karyé è una vera capitale. (karà: capo, guida!).Infatti, siamo nel più
vecchio Skit, o “Kelliotiki Lavra”, dove troviamo la Sacra Comunità dirigente, l’Autorità
amministrativa, la polizia, l’unico dispensario medicale, l’ufficio telefonico, le poste e, curioso,
ristoranti ed alberghi. ( In questa materia è preferibile non approfondire).
Fino al 1913, quando finì il dominio turco, nella “capitale” della repubblica monastica, si
trovava il kaimakan113 turco, la dogana, la gheonomia per i passaporti marini, il limaniarcho,
(tassatore di liman - riva, porto, lido), e la Kinothita, (il Tribunale monacale) con i suoi 33 monaci
rappresentanti dei monasteri e degli skit più importanti. C’era anche la Scuola di lingua greca di 4
classi, telegrafo, posta. Oggi, trovi drogherie, negozi con ricordi, soprattutto immagini sacre, libri di
preghiera e icone. Strade vere,(?) con celle a forma di vere abitazioni cittadine e chiese, vere
cattedrali nel deserto, che appartengono ai vari skit che circondano il luogo.
Ogni casa, con la sua cupola; perché ogni casa ha la sua cappella non improvvisata, una
chiesetta bizantina, in regola, con tutto il necessario per ogni celebrazione. In tutta la Montagna
incontreremo le celle dei monaci con la cappella propria, anche nei luoghi più isolati e soprattutto
114
là. Il metocco di Dionisiou porta il nome del Santo Diacono, Stefano. Qui, nel 1958, il santo
monaco russo, Nikostrato, invitato a celebrare, vide un Diacono tutto splendente che incensava
come per la Liturgia solenne. Nessuno lo vedeva, salvo lui, e con lui concelebrò il Divino
Sacrificio. Alla fine egli disse ai monaci:
-Siete colmi di Grazia, in questa vostra chiesetta, dove lo stesso Santo Stefano viene ad
incensarvi.115
113
Luogo-tenente del Gran Vizir. Il Vizir era Primo ministro o Cancelliere nell’Impero Otomano.
114
è lo skit, la chiesetta con abitazioni che un monastero importante possiede in una capitale, a mo’ di ambasciata e
ostello per i suoi membri, in trasferta in città.
115
in S. Anagnostopoulos, op. cit. pag.420ss.
140

Altrimenti, Karyé offre l’aspetto di una misera cittadina, esacerbata dalla tetra mancanza
dell’eterno feminino. Sentimento identico a quello provato a Dafni: città senza donne, il ché è un
fatto non naturale, eccessivo.

Ma Karyé è importantissima per la sua somma basilica: Prothaton, una metropoli, un


gioiello, intorno al quale si è sviluppato il centro amministrativo del Santo Monte, Karyé, appunto.
La chiesa “Prothaton”, è forse la più antica della penisola, con la fama di essere stata fondata dal
Grande Costantino. Sarà questo un sogno pio? Come l’abbiamo oggi, non scende sotto il IX secolo.
L’abbiamo trovata sempre chiusa, nei primi due viaggi, perciò la descriverò, in dettaglio, nel quadro
del terzo viaggio. Sull’ importanza politica e culturale di questo centro del Monte dei monaci, non
ci sono dubbi. Patrona, anche qui, è la Theotokos.116
Prothaton non è un monastero, non è una parrocchia, è un epicentro: con una biblioteca
ricca di 117 manoscritti, fra i quali, 47 in pergamena, 3 date dai romeni, un typicon del santo re
serbo, Sava, casa editrice e riviste suggestive, scritte da monaci colti e più aperti alle realtà
moderne.
C’era da stupirsi, se, in questo centro di comando, tutto greco, non fosse stato presente
l’ombra di qualche romeno. Il primo, come magnate e mecenate, fu il Sovrano della “Terra
romena”, Nicolae Alexandru, nel 1364, che ordinò il restauro del monumento. Essendo figlio di
Basarab-Negru Vodà, il fondatore della dinastia e il vincitore degli ungheresi, si sentiva legato ai
monaci. Soprattutto perché, come canta la leggenda, versificata dal gioioso Pàstorel Teodoreanu117,
suo padre, gelosissimo, ogni volta che usciva, per esempio, per la caccia, ferrava il castello,
sequestrando la sposa, (la madre di Nicolae) dentro le mura circondate da terribili guardie. La
sovrana era guardata a vista da una monaca tutta devota e terribile; e soprattutto fasciata come sta
bene alle claustrali. Ebbene, la terribile monaca era un terribile maschio, con il quale la Donna
Basarab passava in felice compagnia le ore di caccia del suo intelligente marito. Può essere che
Nicolae fosse stato figlio…. della monaca.
Dopo aver organizzato giuridicamente la Chiesa ortodossa romena, il valoroso Domn pensò
anche ai Luoghi santi, come ringraziamento a Dio per l’indipendenza del Paese, da poco
guadagnata. Ma anche per tener buono il Dio ortodosso, dopo aver sposato la cattolica Donna
Clara, (odiatissima nell’immaginario collettivo romeno, fin’oggi, grazie anche a un dramma teatrale
controverso dell’inizio’900)118. Eh, sì, il Dio! Erano più visibili i serbi, apparentati con la dinastia e

116
“Genitrice di Dio”; il titolo “officiale” di Maria Santissima.(gr.)
117
Grande poeta ironico romeno, massacrato dai comunisti (1894-64) per un ilare verso nei riguardi del soldato
sovietico.
118
Si tratta di “Vlaicu Vodà” di Al. Davila, (1862-1929).Storpio nel fraseggio, plagiato, forse, dall’autore, e avvelenato
assai, per fare odiare Roma dai romani del Danubio.n.n.
141

possibili avversari. Per amore (o per il ricatto) delle troppe Donne serbe, mogli dei vari Domni
romeni, i sovrani delle Terre romene toglievano troppo spesso il pane ai figli per darlo…. ai monaci
greco-slavi dei “Luoghi Santi”, dopo aver obbligato i romeni nei secoli 9-10 di usare lo slavo antico
nell’amministrazione e nella chiesa.
Nel 1372 venne, invitato dal Domn, il monaco greco Chariton, ex-egumeno a Kutlumus,
che, all’inizio, fu consacrato metropolita in Ungrovlacchia ( che si tradurrebbe : la parte della
Romania vicina all’Ungheria; espressione che si trasformò in nome proprio). Chi sa perché lo
avranno cacciato dal trono episcopale, per finire superiore a Prothaton, nel 1376?
A parte Prothaton e gli skit tutt’intorno al centro, -esempi di nobile opulenza-, Karyé è,
tutta, ultramodesta.Ti aspetti di vedere su queste viuzze qualche contadina scalza menando i buoi...
Ma sarebbe assurdo desiderare una Karyé ammodernata, americanizzata. Qui scendi ancora in un
autentico Medio- Evo, in ciò che esso aveva di meglio e di più invidiabile, per i nostri tempi
rumorosi, confusi e sgarbati.

L’amico, Sergiu, vuole comprare qualche icona dipinta dai monaci. Per fama, Karyé sarebbe
il centro dei migliori studi di pittura bizantina. I maestri monaci di oggi si considerano discepoli
dell’illustre Panselino119, ed una volta facevano commercio ad alto livello in tutti i Balcani.
Erano troppo care per noi. Le metanie, -il rosario dei monaci fatto di seta- altrettanto care.
Ficcando il naso in più negozi, siamo presi da profonda delusione.
-Che riproduzioni mediocri! borbotta l’amico.
-Cosa ti aspettavi? Immaginavi che qui andasse meglio che nei negozi per il volgo, di mezzo
mondo, Roma compresa?
Non c’è la minima arte nella pittura neo-bizantina e non ci può essere, perché è tutta
riproduzione mediocre, dai colori zingareschi e dagli sguardi imitati, frutto di tutta una “teologia
delle icone” che abbiamo già vituperato come fanatica ideologia. Non c’è nulla di vero e di sensato
in questa falsa teologia che esalta lo stile (neo)-bizantino, condannando gli altri stili. Meglio le
riproduzioni di carta delle vere Icone, davanti alle quali, un anima, nostalgica dello sguardo
illuminato del Cristo di Santa Sofia prega bene ed è questo l’essenziale, nella vita spirituale.
Purtroppo, la bruttezza di simili realizzazioni dà acqua al mulino ai nuovi iconoclasti, che, come i
vecchi, accusano i monaci e le chiese di dubbio commercio. I laici, imparandovi la lezione, hanno
riempito perfino i negozi duty free degli aeroporti di disgustose riproduzioni della faccia bizantina
di Gesù.120
119
Manuel Panselino, grande pittore bizantino di Salonico, sec.XIV.
120
A suo tempo, il grande storico e critico, N. Iorga scrive: “Non contiamo la nuova pittura pretenziosa dei monaci
d’Oriente, che ordinariamente, malgrado la loro bella tecnica, è senza ispirazione e senza gusto”. In “Arte e Letteratura
dei romeni”, sintesi, trad. ital. Ed. Sapientia, Roma, 1931, pag105ss.
142

LA TRAGI-COMMEDIA DEL SANTO CALENDARIO

Un monaco romeno di passaggio per Karyé ci sussurra:


-Se volete conoscere e capire tutto ciò che si muove sulla Sacra Montagna, non potete
trascurare Padre Cipriàn, l’orologiaio del Monte Athos.
Lo cerchiamo con piacere e grande interesse. Come non braccare uno che in una lingua
conosciuta può darti informazioni e suggestioni inedite? Per questo motivo, i monaci romeni del
luogo dovevano essere i nostri interlocutori migliori, senza i quali, queste note di viaggio non
avrebbero preso consistenza.
Troviamo facilmente la cella- officina-orologeria di Padre Kiprianos, collocata su un
poggio in mezzo a un vero parco naturale. Forse la casa, con la chiesa adornata a dovere, è stata
quella di Padre Ioachim, nei tempi di Marcu Beza121, nel 1935, con la sua terrazza che domina il
paesaggio fino alla cima nevosa del Monte Athos.
Padre Cipriàn era davvero l’unico orologiaio dell’Athos. Il suo nome fioriva su tutte le
bocche, accompagnato da sorrisi bonari:
“Se compri un orologio nuovo e vuoi guastarlo, portalo da Kiprian”, -parola di fra
Mathias.
Cipriàn era un moldavo savio, che amava raccontare senza sosta, non prima di interrogarti
accuratamente su tutto e su tutti. Aveva una giusta fama di uomo serio ed informato.
Ci riceve con insinuante deferenza, come se ci avesse aspettato.
-E come avete trovato la strada da me?
-Ma Voi siete una persona conosciuta e stimata, chi non sa indicarci la vostra casa? lo
lusingo io.
Non passa molto, per farci capire che “non c’è pellegrino nuovo e intelligente che non si
rechi prima da lui”. Negli ultimi tempi le visite si sono rarefatte:
- Ciò vuol dire che i pellegrini intelligenti non sono più.
Ce ne siamo sentiti lusingati. E, voglio anticipare, tutte le tre volte che siamo andati
all’Athos, gli abbiamo resa la visita.
Fra Ciprian continua con una frase detta a modo arcaico che tradurrei con un verso:
“Ahi! Delle giovin’alme i novi errori/ A che biassimate?…o, Sacerdoti, esempio
Siate tra voi di pace e bei costumi!….”122

121
Scrittore, diplomatico, accademico romeno macedone, pellegrino ricercatore e professore di Studi bizantini, le cui
note e studi sono essenziali per la conoscenza dei Luoghi santi. È stato ucciso dai comunisti in prigione.(1882-1949).
122
Silvio Pellico.
143

Da lui sentiamo la storia ed il destino di tutti i romeni e non romeni dell’Athos, resisi famosi
per qualche, diciamo, originalità. Di tutti sapeva le qualità e soprattutto i difetti. Nel mestiere,
Cirpian si mostrava sicuro di sé, lamentandosi di mancanza di materiali adatti. Gigi rimase senza
cinturino all’orologio, tanto lo pregò di darglielo, perché, nel suo isolamento, era privo di materie
prime.
-Così, allora,….. siete grandi teologi a Roma? Vi metto io alla prova, vediamo!
Ed aprendo un misterioso armadietto, tirò fuori un volume grosso e imponente come un
vecchio manoscritto:
- Avete voi letto questo libro?
Era la collezione di prediche, il “Kyriakodromionio” del Vescovo greco polemista, Niceta
Khoniathes.
-Qui stanno scritte tutte le cose della terra e del cielo. Con precisione ed erudizione. Chi si
abbate a destra o a sinistra da questa dottrina sicura e ortodossa, non vale più la pena di vivere. Lo
avete letto?
Messi, così, alle strette, abbiamo risposto con un sì anemico. Pur nutrendo una certa
devozione per l’autore, nessuno di noi ne aveva approfondita l’opera. Era la dottrina ortodossa,
presentata in modo tradizionale, adibita di consigli morali e ascetici. Che, veramente, battono tutte
le culture. Aveva ragione Cipriàn, che sapeva il testo quasi a memoria: era un libro enciclopedico.
Ci mostrò anche “La guerra invisibile” di San Nicodemo l’Aghiorita, “testo di riferimento di ogni
buon ortodosso”, ma lui ne preferiva il primo.
Provo ancora oggi ammirazione e tenerezza per quell’uomo straordinario, passato in Mondi
migliori, nelle quali avrà incontrato le Verità che sosteneva, più i correttivi che solo Gesù sa dare.
Certo, il tono perentorio e la gioia con la quale ci raccontava come aveva umiliato, con questo libro,
i vari teologi di valore, in visita da lui, mi dà ancora una voglia di ridere pazzamente.
-In polvere li ho ridotti, trionfava Kipriàn: perché non studiano più la vera teologia, ma
invenzioni senza capo e coda, ispirate dal diavolo, di cui figli sono diventati tutti quelli che
sragionano, senza tener conto di Dio e dei Santi. E voi, che vivete a Roma, state attenti, perché gli
italiani non stanno più nella vera Fede. Non imitate gli italiani!
Il buon Cipriàn non ce l’aveva a morte proprio con tutti i punti di differenza teologica. Bensì
con un solo punto: il problema del calendario. Era anche lui un arsenista, discepolo di Fra Arsenie,
(che incontreremo più tardi), un ribelle contro il cambiamento del calendario dallo giuliano al
gregoriano. Cultore, dunque, dello “stile vecchio”, errore astronomico trasformato in teologia.
144

- Tutta la colpa di un famigerato papa, Gregorio XIII, il quale, come diceva il grande
Hasdeu123, “non potendo più comandare al mondo, si mise a riformare il calendario”.
Non fa in tempo di finire le sue proteste, che, dalla porta ci investe come una burrasca
furiosa un vecchio monaco dalla barba e cappelli bianchi in disordine, un po’ zoppo, addobbato di
abiti bianchi immacolati, gemello, in materia di aspetto, a Babbo Natale.
-Buon giorno a tutti i veri credenti, sentenzia deciso, in romeno, l’irruente vecchio,
fulminandoci con gli occhi. Ma è tutta un’apparenza. Ispira una simile simpatia, che ci
innamoriamo immediatamente dei suoi gesti quasi biblici, sostenuti da una grazia inafferrabile.
-Ecco, sei venuto in tempo, per conoscere dei ragazzi romeni, teologi, ci presenta Cipriàn.
E, rivolgendosi a noi, con una inesprimibile ironia, ce lo raccomanda dicendo:
-Lui è Enoch, il profeta che non conobbe la morte; il quale, dopo essere stato rapito in cielo
all’inizio dei tempi, è stato rinviato sulla terra, come rara avis della Sacra Montagna!
Veramente, il vecchio si chiamava Enoch, era moldavo, ma ci teneva a seguire nella
vocazione il suo patrono-Patriarca antico, quello che nella Bibbia camminava con Dio.
Dopo averci studiati con occhi di aquila, non senza una raffinata e discretissima ironia, fra
Enoch ha colto l’occasione per esercitarsi ancora una volta nella sua missione apocalittica. Con una
voce tenorile e profetica, quasi estatica, Enoch comincia ad annunciarci i tempi bui in cui entreremo
da lì a poco in seguito alla malvagità degli uomini. Soprattutto della Gerarchia ecclesiastica, a cui,
non bastando i vecchi peccati, ne aggiunse il più grande, un vero crimine: correggere il vecchio
calendario (giuliano), sanzionato dai Santi Concili. Cioè il Santo Calendario. Ed imporrne un altro
nuovo, imitando i grandi eretici, cattolici, con il loro calendario gregoriano, maledetto e privo della
divina Grazia!!!!
- Siamo alla fine del mondo, si mette a vociare Enoch, da quando perfino la Santa Chiesa
degli ortodossi si diede in preda alle fandonie ed alle smorfie di quell’orgolioso Papa Gregorio,
abbandonando il santo calendario dei Santi Padri.
-E, secondo Lei, questo è il sommo peccato della Gerarchia? oso io.
-Ma, certo; perché ogni delitto comincia con la perdita della ragione. Dio toglie ai superbi la
ragione e la logica, questo è risaputo! Una volta persa la ragione, si può dire e commettere tutto e
l’inverso di tutto. Ora, la ribellione contro il Santo Calendario è una vera sommossa contro la
ragione. Ed infatti, giudicate voi: Come puoi dire che il 1 ottobre sia il 14? Uno è uguale 14 ! O,
meglio, secondo il loro cervello malato, prima dell’anno 1924, 124 il tempo andava più lento… ed
123

?
Grande ed illuminato scienziato, scrittore, storico romeno, poliglotta e visionario. Non si capisce come ha potuto
proferire una simile frase, diventata proverbiale.(1838-1907).
124
Il passaggio ufficiale dal calendario giuliano al gregoriano, in Romania, fu deciso nel 1924, ma, integralmente, solo
a livello civile. La Chiesa Ortodossa stabilì un compromesso per la data della Pasqua, per rimanere unita con le Chiese
145

ora va più in fretta! No? Ebbene, questa è la loro vera follia. Hanno soppresso 13 giorni così, con un
giro di penna! 13 giorni sono svaniti nel nulla, falsando il giusto collocamento delle Sante Feste.
(Il ragionamento del profeta Enoch non faceva una piega):
- Non capiscono questi appigionati che la Santa Aghiasma125 non si santifica quando
vogliono loro, ma solamente nel santo giorno dell’Epifania, il 6 gennaio. Ora, se spostano la festa il
24 di dicembre, alla veglia di Natale, l’acqua non si santifica. Eppoi è un sacrilegio festeggiare il
Battesimo di Gesù nella notte della Nascita del Signore. Dio, Dio, che follia, che follia! … Il
Profeta Giosué fermò il sole veramente, ma quello lì era un uomo di Dio ! Invece, questi traditori
che fanno correre il sole avanti di 13 giorni non sono mica Giosuè. Cosa credono? Che il sole
obbedisce all’ordine del Patriarca Miron Cristea? Questo ladro di cose sacre, venduto agli eretici ed
ai francmassoni!?….
( Aggiunse con uno sguardo infinitamente triste): Che non era neppure battezzato! Era un
pagano. E lo hanno eletto Patriarca, per fare le voglie dell’Anticristo e correggere il tempo che solo
il buon Dio può cambiare…..
La foga non gli si’era esaurita. Oso chiedere:
-Come sa Lei che il Patriarca non era battezzato?
-Semplice, sentenziò il profeta. Era nato in Transilvania, dove gli ortodossi non difendono
più la vera Fede, ma imitano i cattolici: che invece di battezzare, danno una spruzzolata sul povero
bambino, derubandolo della divina Grazia! Maledetti, non battezzano, ma annaffiano, confondendo
i bambini con i cavoli! A proposito, voi dove siete nati?
-Aah, tutti al sud, nella Terra Romena, ci salvammo noi per un pelo.
-Bene, bene, anche se…. dovreste mandare nella povera Transilvania dei preti veri che
battezzano davvero. Intanto è inutile. Tutta la Romania ha abbandonato il Santo Calendario. Così,
per un motivo o per un altro, non celebrano più nulla di valido, né la Santa Liturghia, né alcun
Sacramento, aggiunse triste, il buon Enoch.126
Padre Cipriàn lo informa che saremmo passati per Prodromou.
-Fate bene, perché lì c’è rimasto l’unico santo vero dei nostri giorni, il nostro padre, Arsenie
Cotea; il quale, con la sua predica, con i suoi libri e con il suo martirio ci ha illuminato i passi sulla
vera strada. Resistono come possono, poveretti. Sono esclusi anche dalla chiesa, devono celebrare
per conto loro, nascosti e umiliati, perché fedeli alle vere Feste, al vero Calendario.

Orientali ( russa, serba, l’Athos, ecc..) che non hanno accettato la Riforma.
125
L’acqua santa.(gr.)
126
La posizione degli ortodossi riguardo al Battesimo non è univoca. Appena nel 1744, la Patriarchia di Costantinopoli,
d’accordo con gli altri Orientali, decise che fosse ribattezzato chi si convertiva all’Ortodossia. Fin’allora bastava la
confessione della Fede ed eventualmente il sacramento della Cresima, che nella Chiesa Cattolica non si ripete. Oggi,
alcune Chiese, come la Romena non ri-battezzano.
146

Si riferiva al Padre della contestazione romena ed ai suoi discepoli, maggioritari, in quelli


anni, nell’unico Skit romeno, con regime non ufficiale di Monastero.
Qui dobbiamo spiegare che la correzione del calendario, dopo la prima guerra, provocò uno
scisma nella Chiesa Ortodossa. Nel 1923, fu organizzato una “Conferenza panortodossa” -
congresso generale delle Chiese, per confermare l’aggiornamento del calendario, per motivi
scientifici e astronomici. Non tutte le Chiese ortodosse si sottomisero a questa riforma che puzzava
di eresia occidentale e di vendita della Chiesa al Papa, dopo una resistenza di 4 secoli.
Infatti, il ragionamento del nostro Enoch, non sopportava critica:
-Questa è una empietà inaudita! Sottomettersi oggi alle regole di Papa Gregorio che i Santi
Padri ortodossi hanno già condannato, con tutta la sua famigerata epoca. Contraddire il Santo
Concilio di Nicea, del 318, preferendo i calcoli demoniaci del papa del 1583! Non c’è più religione!
Le Chiese greco-orientali respinsero con sdegno la riforma, il Monte Athos per primo!
-Solo quei superbi di Vatopediou si credono i più intelligenti di tutta la Santa Montagna,
tuona di nuovo Enoch. Ma la superbia che ti fa salire, ti fa anche inabissare nello zolfo di
Lucifero!127
I russi non fecero in tempo per scegliere liberamente. La Chiesa russa, sotto il Comunismo,
ebbe, attraverso il calendario, un motivo di opposizione in più contro la Patriarchia di
Costantinopoli e contro il famigerato Occidente.
Poi, la Chiesa romena, la greca, più le Patriarchie orientali -meno la Gerusalemme- ed altre
piccole Chiese adottarono la riforma. Per farla accettare, nessuno disse che si allineava al calendario
gregoriano, valido da secoli in Occidente o ai calendari civili di molti stati. Si inventarono calcoli
propri di vari professorucci serbo-romeno-greci, ecc…. Insomma vi tentarono uno sgambetto che
non funzionò, se non in parte.
A causa dei resistenti, anche i riformati si riformarono a metà: per la Pasqua e le feste ad
essa legate, rimasero col vecchio calendario, adottando il nuovo solo per le altre feste, come Natale,
Epifania, ecc…. Così, ancora oggi calcolano, senza un minimo senso di ironia, l’equinozio al… 4
aprile. I “resistenti” continuano con la vecchia ridicolaggine: il 25 dicembre giuliano raggiunge il 7
gennaio, gregoriano; il capodanno giuliano- il 14 gennaio gregoriano, ecc… Di conseguenza, se il
Natale del 25 dicembre si festeggia insieme fra ortodossi riformati e cattolico-protestanti, la Pasqua
deve tener conto della luna piena calcolata dopo il 4 aprile, (l’equinozio), la quale non è sempre
identica a quella calcolata normalmente dopo il 21 di marzo. Se aggiungi a questo, l’abitudine

127
Questo lo diceva perché questo monastero è stato il primo e per molti anni l’unico ad aver accettato la riforma del
calendario; ma alla fine è dovuta ritornare al vecchio stile, per rimanere in comunione con gli altri.Non è però
“zelotista” come Esfigmenou. Li visiteremo più tardi e ne riparleremo.
147

bizantina di evitare la Pasqua ebrea, rimandando la Pasqua cristiana di una settimana, non ti stupisci
dell’eterna differenza delle date di Pasqua, un vero scandalo per molti.128
Tra i romeni, il capo della rivolta fu, appunto, il monaco dell’Athos, Arsenie Cotea, i cui
partigiani si chiamano arsenisti. I romeni li chiamano anche stilisti, dal vecchio stile del calendario,
tutti “zeloti”.
Il bello è che anche i resistenti nel vecchio stile giuliano si fanno guerra reciproca, dividendosi in
moderati e zeloti. I zeloti non riconoscono la validità dei Sacramenti di nessuna Chiesa ortodossa,
aderente alla riforma del “Santo calendario”. (Dei Sacramenti dei cattolici neppure l’ombra). E non
accettano neppure quelli “stilisti” che non si spingono così lontano. Ecco perché nell’Athos, pur se
tutto intero “stilista”129, i “zeloti”-tipo Arsenie et & - non celebrano con gli “altri” i quali
riconoscono la validità delle Chiese dal nuovo calendario. Al monaco santo, Fanurio di Capsala,
un prete zelotista gli disse che il motivo per cui il cipresso vicino alla sua cella si era seccato era
perché aveva accettato un prete “moderato” a Messa.130
Un altro zelota si era preparato a rimproverare in pubblico il Superiore del suo monastero, dopo la
Comunione, per accusarlo di eresia, ecumenismo, tradimento ed altro. Durante la Comunione però,
è fuggito sconvolto fuori della chiesa. Alla domanda di un sacerdote stupito dell’accaduto, egli
rispose: “mi sono accorto che il Superiore è un Santo. Durante la Comunione, brillava di una luce
celeste che avvolgeva anche gli altri. Adesso, mi crederanno i miei fratelli zelotisti se glielo
racconto?131
I miracoli a difesa del vecchio calendario sono più numerosi. Il primo suona come una
prova: solo nella notte della Pasqua Ortodossa si accende miracolosamente la Sacra Luce a
Gerusalemme; in Egitto, le tombe si scoprirono per offrire alla vista le ossa di alcuni santi nel
giovedì santo degli ortodossi e non in quello degli adoratori del Papa; a Belgrado, il pane di una
donna “latina” si trasformò in pietra, mentre contraddiceva un’ortodossa, in materia di calendario; i
monaci che hanno accettato l’unione con Roma nei tempi di Michele VIII e di Ioan Bekkos si sono
trasformati in diavoli ed i loro corpi sono rimasti orribilmente putrefatti a metà, fin’oggi; i bambini
“latini” contrari a San Gregorio Palamas, che hanno scommesso contro il Santo, si sono annegati
nel mare; la grande campana di San Demetrio di Salonicco non si è lasciata montare nel campanile
il giorno di 26 ottobre-festa di San Demetrio- stile nuovo, bensì 13 giorni più tardi, nel vero 26
ottobre; la Santa Croce si è mostrata nei cieli nel vero 14 settembre del 1925, cioè stile vecchio,

128
Quando la Pasqua ebrea cade nella Settimana Santa, le Chiese Orientali spostano la Festa per la domenica
successiva, (conforme, del resto, al Concilio di Nicea, il quale voleva evitare l’allegria e gli applausi ebrei durante la
Passione del Signore). L’Occidente non tiene conto di questa coincidenza.
129
Salvo il Monastero Vatoped che aveva adottato dall’inizio “il nuovo stile”.
130
Vedi la sua storia nel libro di Damaskinos di Gregoriou, op. cit.pag.62ss.
131
Dalle storie che circolano fra i monaci, molte di esse sono state notate da Pappas S. Anagnostopoulos, op. cit.
148

quando il governo ha mandato l’esercito contro i “veri ortodossi”; l’acqua santa celebrata il 6
gennaio stile nuovo, “cattolico” a Vatopediou si è infetidita; sempre a Vatopediou, il giorno di 14
settembre stile nuovo, (sempre del 1925), il grande lampadario è caduto in testa ai falsi ortodossi; a
Jasi-Moldavia, la mano del gendarme che minacciava i “veri ortodossi” si è seccata; A Vaslui, il
mulino di uno che ha lavorato nel giorno dell’Annunciazione, stile vecchio, è saltato in aria; a
Putna-Moldavia una tempesta ha sradicato gli alberi e le case di alcune famiglie passate con lo stile
nuovo; una donna in Dobrogea è stata morsicata da due serpenti mentre lavorava nella stessa festa,
stile vecchio, avendo essa festeggiato l’Annunciazione “con i latini”; ed altri innumerevoli miracoli,
per confondere i traditori e confermare i veri credenti nel santo e vero calendario.
Come si vede, i miracoli in questione sono anche anti-cattolici e perciò vanno bene per tutti gli
ortodossi, di tutti gli stili.132
Se mi chiedete della sorte degli stilisti nei Paesi ortodossi, rispondo: guardate a quella dei
tradizionalisti lefebvriani fra i cattolici “conciliari”: lo stesso sentimento, la stessa fratellanza, lo
stesso fiele, con aggravanti da tutte le parti.

-Altrimenti, come è la vostra vita, frate Enoch?


-La mia vita ? Io sono il più ricco monaco dell’Athos!
Ci spiegano: i greci gli hanno dato in custodia una fondazione abbandonata, piuttosto
grande, in Karyé, dove lui abita da solo.
-Per forza si sente ricco e comodo, per forza, ridacchia fra Ciprian.
Con la sua barba bianca e lo sguardo apocalittico come i suoi discorsi, era un simbolo
impressionante del vecchio Athos, di quelli le cui figure non si ripetono spesso. Ritornati nel
secondo viaggio, non lo abbiamo più trovato: era già salito nelle braccia del suo Patrono che non ha
ancora conosciuto la morte.
Abbiamo baciato le loro mani, santificate dalla fatica e dalle metanìe, abbiamo promesso a Padre
Cipriàn di ritornare ogni volta, per abbeverarci alle fonti delle sue interpretazioni ed abbiamo
ripreso la nostra salita verso i santi monasteri.

UN SANTO MONACO DELL’ATHOS RICOPIA


SANT’IGNAZIO DI LOYOLA

132
Ho trascritto questi miracoli dal libriccino di fra Arsenie Cottea, Epistolie, stampato in Atene, nel 1925, in romeno.
Sulla contropagina si trova la lista di altre 16 pubblicazioni, fra le quali “L’Apologia contro il servizio di leva per i
monaci”, ed una impressionante bibliografia a favore del vecchio calendario.
149

Lo sguardo profetico di Fra Enoch ci accompagna per un po’ sui sentieri dell’Athos; ma la
Sacra Montagna è ricca di tante altre figure, non meno singolari, non meno paradossali.
Passando vicini al monastero degli Skourtei, che appartiene a Karié, il pensiero vola
obbligatoriamente ad un'altra figura simbolica dell’Athos, San Nicodemo l’Aghiorita, (1749-
1809), il cui nome dovrebbe essere sinonimo di Filocalia.
Se fra Enoch può essere considerato anche comico per le sue strane affermazioni, basate su
delle false premesse, il santo Nicodemo è di quelli che scagliando la pietra, nascondono la mano.
Me lo sento gemello per similitudine di esperienza di Fede, che io, però, per Grazia divina,
ho portato fino in fondo. Lui ne è rimasto a metà strada. Perché dico così? Ve lo spiego:
Nacque a Naxos, sulla bellissima isola, nel 1749, e fu battezzato Nicola. Dopo studi
brillanti, a Naxos e Smirne, ( forse anche di lingue, Naxos essendo centro di scuole gesuitiche ed
altro), ritornò in patria, a causa delle persecuzioni turche, e fu assunto come segretario e accolito
del metropolita. In tal modo, ebbe occasione di conoscere e frequentare molti monaci importanti del
Monte Athos, quali Gregorio, Nifone e Arsenio. Da questi ultimi, fu iniziato alla vita monastica, e,
raccomandato dal monaco Silvestro di Cesarea, poté entrare in Athos, nel 1775, all’età di 26 anni.
-Arrivai in Athos e lo trovai nel fuoco di amare dispute, disse.
Era già iniziata la controversia fra “i kollyvades” e i loro oppositori, che si accusavano
reciprocamente di disprezzo della Sacra Tradizione; e che, dopo polemiche e violenze anche fisiche,
doveva portare alla condanna dei primi. ( Della disputa dei kollyvades, nel cui gruppo fu messo
anche il nostro Nicodemo, parleremo in seguito, quando arriveremo a Kutlumus, o al monastero di
Vatopediou e nel deserto degli skit del sud.)
Nicodemo era di natura mite, ma soprattutto deciso di essere un vero monaco, a cui non
possono piacere le violenze; (ora, dopo aver studiato le varie forme di vita dei monaci di tutto il
mondo, incluso quello cristiano, mi chiedo se, davvero, i monaci fanno questa eccezione!). Si decise
dunque di abbandonare la Sacra Montagna e di partire per la Moldavia, dove era finito anche il
devoto Paisio Velicikovski, dopo 17 anni di vita in Athos. Pensava che diventare discepolo di
costui sarebbe stato più fruttuoso che infierire sui vari gruppi di monaci inferociti dell’Athos. Paisio
era già diventato, per tutto il mondo ortodosso, il simbolo degli isicasti moderni. Ma…. una
tempesta sul mare fermò Nicodemo, obbligandolo di rimanere in Athos. Prendendo la cosa come un
segno di Dio, non abbandonò più la Sacra Montagna, con tutte le sofferenze lì subite da parte dei
confratelli.
Indossò l’abito monastico a Dionisiou, ma, prima di questo evento, andò a visitare i kollyvades a
Karyé in una colyva ( cioè comunità vivente in piccole celle), dove si santificavano i futuri amici,
Partenio, Stefano, Neofit e Cipriàno, iconari chiamati skourtei. Andò anche nella colyva di
150

Eftimio, Anania e Cipriàno, scultori in legno, sotto la guida di Damaschino, un vecchio devoto
che più tardi lo avrebbe consacrato con i voti perpetui. Finì, poi, nel piccolo monastero di
Sant’Antonio, invitato dal metropolita Macario Nottaràs, uomo di fama santa. Dopo la partenza di
Macario, rimase a Karyé, nel monastero degli Skourtei che però, abbandonò nel 1782, per un isola
ancora più impervia. Ritornò dopo un anno e rimase in una cella del Pantokrator, poi nel kelì degli
Skourteon.
Si mosse, così, dentro la Sacra Montagna, per due motivi: per sfuggire alle persecuzioni da
parte dei prepotenti e dei fanatici, nelle cui grinfie era cascato senza volerlo; e soprattutto per
studiare e ingoiare con la sua mente straordinaria i tesori di scienza spirituale delle biblioteche
dell’Athos.
Vedete? Il semplice fatto di voler vivere nella pace e nella lettura delle cose sacre dà sui
nervi a milioni di esseri spregevoli, infastiditi dei tuoi invisibili raggi. Questo ti sia di avvertimento,
se vuoi vivere la regola suprema del leggere le Cose Sacre, nella pace. La seconda: ecco ciò che
puoi fare della tua vita ad Athos, come a Roma, Parigi, Vienna o New York: ingoiare i tesori delle
loro biblioteche: pregando sempre e pronunciando il Santo Nome di Gesù mentre ne percorri le
pagine, traduci e componi. È ciò che il grande Nicodemo ci insegna... Un modo diverso di vita,
soprattutto in simili centri, è colpevole spreco.
Nicodemo fu ricco anche di altre originalità: da ortodosso, fu partigiano della Comunione
frequente, anche per vivificare la vita spirituale dei monaci dell’Athos. Già questo fatto, però, ieri
come oggi, rende sospetti presso i “veri ortodossi” . Perciò: quando cominciò, a Karyé, a dedicarsi
alla Filocalia133 che volle pubblicare, fu impedito dai più insospettabili ortodossi, che trovavano i
testi dei Padri, scelti da Nicodemo, in contraddizione con ciò che consideravano loro come
“ortodosso”. L’ambizioso Nicodemo, giustamente, non demorse e, completata la collezione, la
pubblicò a Venezia aiutato dal mecenatismo del sovrano romeno, (fanariota), Ioan Mavrocordat. Il
contenuto di questa nobile antologia ascetico-mistica non divenne popolare in Occidente che solo
nei giorni nostri.134 Nei Paesi slavi e romeni però, la Filocalia si diffuse prima che fra i greci, per
merito del monaco Paisio Velicikovski che la tradusse fra il 1793 e 1822. Il suo testo paleo-slavo fu
l’inizio di una vera rinascita spirituale slava nell’800, dando contenuto patristico al movimento
slavofilo ed incitando alla preghiera-invocazione- del nome di Gesù. Pratica che si trasformò in
leggenda, col libro del Pellegrino russo.

133
Antologia di testi ascetico-mistici ripresi dai Padri della Chiesa, soprattutto orientali.
134
Le traduttrici italiane della Filocalia, le Madri, Benedetta e Francesca, si lamentano perfino, scrivendo( in
“Filocalia”, I, introd. Ed. Gribaudi, 1982, pag.9): “La filocalia è troppo poco familiare al nostro palato spirituale”. Ben
li sta, rispondo io.
151

Per disgrazia, gli slavofili si spinsero a creare l’equivoco dell’identificazione di questa spiritualità
con un tipo di Ortodossia ideale, presentata come reale. Oggi, questa eredità mistificante
imperversa più che mai nelle scuole teologiche e nei conventi dei giovani illusi.
Non fu questa l’intenzione del buon Nicodemo. Egli scrisse opere spirituali per conto
proprio, compilò varie antologie di testi, associate a brevi note biografiche sui vari Santi autori, e le
pubblicò a Vienna. Fra queste opere, spunta il Pidalione, ultra-necessaria raccolta di leggi sacre e
canoni, sembra, la più importante delle collezioni canoniche bizantine. 135 Si fece aiutare dal
metropolita Macario di Corinto, arrivato anche lui ad Athos nel 1777 ed obbligato di fuggire qua e
là. L’unica opera importante che riuscì a questo prelato fu di ordinare, come sacerdote, Athanasio
di Paros-un'altra mente, che finì anche lui scomunicato e picchiato dai talebani- ante terminem.
Allora, la Filocalia, il Pidalione! Ma questo è aizzare i cani! Nicodemo si attirò i fulmini dei
confratelli inquisitori post terminem. Scrisse più di 100 opere, che non poté pubblicare e non sono
tutte pubblicate, neppure oggi. Anzi, per non essere scomunicato, fu costretto a scrivere la sua
confessione di Fede ortodossa e giurarvi sopra.
Nel farlo, comprese, però, che doveva cambiare politica.
Per primo, aveva capito che la sola Filocalia, pur se geniale, non bastava per disciplinare
l’anima cristiana sulla via ascetico-mistica. Soprattutto dopo aver letto due libri, anzi, tre: “Gli
Esercizi spirituali” di Sant’Ignazio di Loyola, “La Guerra invisibile” di Padre Lorenzo Scupoli e
“L’introduzione alla vita devota“ di San Francesco di Salles, tradotti in neo-greco da monaci
cretani, i cui manoscritti si trovano oggi a Patmos. (Orrore, orrore, leggere, anzi, ammirare libri di
eretici, e che eretici! Sant’Ignazio, fondatore dei famigerati gesuiti! I quali erano il diavolo
incarnato per i superstiziosi di quell’epoca, simili ai templari nel’300 e ad Opus Dei nei nostri
giorni!). Nicodemo si mise perciò a rielaborare i primi due libri; (oggi il verbo sarebbe plagiare, ma
non sarebbe corretto accusare l’Aghiorita di plagiato, visto che non ha mai firmato i suoi libri,
considerandoli sempre delle edizioni dei buoni pensieri dei Padri). Rielaborazione segreta,
comunque, col solo scopo devoto di aiutare le anime. Dai tre materiali, adattati con certa ingenuità
alla mentalità greco- isicasta, uscì fuori un libro che fece il giro di tutto il mondo ortodosso, vessillo
della vera fede, della vera devozione, della santità ortodossa, “in aperta contraddizione con il
famigerato materialismo cattolico” (sic!) e via dicendo: il famoso volume “Guerra invisibile”,
(Aòratos polemòs) che, appunto, fra Cipriàn ce lo raccomandava, come perno contro le eresie degli
italiani!(sic!)136
135
Padre Elia Citterio, monaco cattolico, nella sua tesi di laurea “L’orientamento ascetico-spirituale di Nicodemo
Aghiorita”,Alessandria, 1987, da una lista completa delle opere del Santo: vedi la trad.rom. ed. Deisis, Sibiu,
2001,pag.241ss.
136
Più di uno studioso cattolico si adira giustamente contro questo paradosso, condannando il continuo equivoco-alla
lunga disonesto- in cui giacciono i polemisti anti-latini:Gillet scrive: Dire che “La guerra invisibile” è un trattato
devozionale del mondo ortodosso, opera autenticamente ortodossa è ingiusto: il libro è un esempio di pirateria letteraria
152

-Come è possibile, si chiede l’uomo di buon senso, che tutto un mondo monastico ortodosso
prenda come sua tutta un’opera famigeratamente occidentale?
La risposta è semplice: l’anima, la Fede, le necessità sono identiche, le differenze fra il
mondo cristiano orientale e occidentale sono stiracchiature, forzature, convenzionalismi dei veri
famigerati, i teologi “impegnati”. Perciò, l’ortodosso fedele, se potesse leggere tutti i trattati
occidentali, senza saperne la provenienza, non troverebbe difficoltà ed “eresie”, neppure nei testi
“non purificati dagli errori dei latini”, come dicono i polemisti.137
Fra Nicodemo l’Aghiorita aveva pigliato tre colombe ad una fava: si era perfettamente
riabilitato- per l’eternità- presso i confratelli, diventando famoso come Maestro spirituale ortodosso;
ed aveva fatto genialmente ingoiare ( e lo fa ancora) a tutti i talebani ortodossi la dottrina gesuitico-
francescano-dominicano- tridentino- scolastica dei famigerati crociati franki. Suggerirne le fonti,
l’autore vero? Sarebbe stata pazzia pura! La risposta, per chi se la merita, è questa: non vi date
briga di cercar chi egli sia! E la terza: senza saperlo, era diventato un buon cattolico.
Credete, forse, che questa politica fu dell’Aghiorita? No, per bacco! È quella di Dio Stesso,
con gli ortodossi: fa loro ingoiare l’arte “italiana” attraverso l’icona russa; e la musica italiana-
corale, attraverso gli incomparabili cori russi; fa credere loro che il Santo della mia Bistritza è il
bizantino Gregorio il Decapolita, invece del francescano Giovanni da Capestrano! (È però
un’ipotesi!); e mille altri trucchi cattolici, presi per ortodossi. Forse, perché un giorno, gli ortodossi
debbano comprendere di essere e di dover essere…. cattolici.
Io, l’ho capita da un bel po’, questa semplicissima verità. L’Aghiorita, però, ha fatto la
strada a metà, continuando come molti ortodossi che si ispirano alle fonti “cattoliche”: a gettare la
pietra, nascondendo la mano.
Intorno al focoso Nicodemo si annoda, come ricordato, lo scandalo dei kollyvades, le cui
pretese erano la proibizione dei servizi funebri o requiem, la domenica e la comunione eucaristica
frequente. Gesti del tutto ortodossi, patristici e canonici, che, però, gli anti, formati alla scuola delle
abitudini trasformate in tradizione post-patristica e antilatina, contestavano fino al versare sangue.
e spirituale”. Il citato è riportato dall’ortodosso Ion Icà jr. nella traduzione in romeno (ed.Deisis, Sibiu, 2001) della
laurea di padre Elia Citterio, op.cit. Di lui e di altri studiosi cattolici. Icà dice che sono fra i migliori conoscitori di
questi Padri isicasti, di cui, aggiungo io, non possono non essere oppositori, a causa del palamismo.
137
Padre Citterio elenca un gran numero di libri cattolici tradotti, usati, letti, propagati da san Nicodemo e da altri
“ortodossi” fra i loro fedeli, senza il loro vero titolo e provenienza: Esercizi spirituali di San Ignazio, predicate da padre
G.P.Pienamonti; La via del cielo , La religiosa in solitudine ed Il Direttore dello stesso;Della pace interiore di padre
Juan de Bonilla; I dolori mentali di Gesù Cristo di beata Camilla Battista da Varano; Il combattimento spirituale,
ma anche Il sentiero del paradiso di padre Scupoli; Il Confessore istruito ed Il Penitente istruito di Padre Paolo
Segneri; La Panoplia spirituale di Padre Neofit Rodinos(greco-cattolico); La comunione quotidiana di padre M.de
Molinos;ecc…. Nicodemo leggeva anche filosofi laici, ultra-eretici, tipo John Locke; o l’Énciclopèdie de Diderot, o Il
Dizionario delle arti e scienze di Chambers, ecc… Il monaco dell’Athos Agapio Landos, nel 1641, pubblica “La
Salvezza dei peccatori”, testo che copia alla lettera da vari libri italiani e spagnoli, libro che è ancora oggi il manuale
ascetico principale del buon ortodosso. Il polemista anti-latino Ilio Miniato, (1669-1714) scrive anche lui libri ispirati
dai latini. Contro tutte le polemiche dei teologi neo-ortodossi, il libro latino più amato dagli ortodossi rimane “Imitatio
Christi”. Vedi “ Nicodim Aghioritul”, trad. rom. op.cit.pag.38, 95-122,ss.
153

Il patriarca del tempo passò dalla parte degli ultimi e gli ortodossi attuali sono piuttosto “ anti”, pure
coloro che venerano Nicodemo ed i suoi scritti 138. Storie di ordinaria follia nella Chiesa Ortodossa.
Che a me hanno aiutato a diventare cattolico; il che è gesto difficile per un greco balcanico,
imbevuto di complessi e di preconcetti come Nicodemo l’Aghiorita. ( Perfino lui, che ne vinse tanti,
ma non tutti.)
Il Santo pensò anche alla crisi di identità del popolo greco. In questo senso, all’attività
teologica, affiancò una vita monastica esemplare, piena di virtù e umiltà. Non organizzò una scuola
o una comunità di discepoli intorno a se come il contemporaneo Paisio, tanto venerato in Romania.
Per umiltà pura? Per scelta? Fatto sta che era in ricerca, anche alla fine, chiedendo consigli
spirituali a chi veniva da lui per consigli.
Padre Citterio ha ragione: Nicodemo ha voluto essere un testimone, un garante della
Tradizione, ma non un insegnante tempestoso, un guerriero, come i suoi connazionali. I suoi gesti
sono dei veri segni di santità autentica: ha sostenuto monaci, gerarchi, studiosi, professori, ma lui è
rimasto monaco semplice. Non si è preso, neppure gli è stato conferito un titolo, anche se, con la
sua cultura, i suoi libri, la sua attività, superava i suoi contemporanei, gerarchi e confratelli. Tante
volte non firmava i suoi scritti. Non ha accettato di insegnare, anche se per i monaci colti questo era
quasi un obbligo; o di fare il professore dove gli insegnanti mancavano.
Non ha avuto e non gli è stata conferita nessuna carica in Athos ed altrove, anche se avrebbe potuto
organizzare, governare, conventi, patriarcati, chiese, meglio di altri.
Non è neppure fuggito da Athos, per prevenire le calunnie e le persecuzioni da parte dei fanatici.
Non si preoccupava della pubblicazione dei propri libri, motivo per cui, ancora oggi, non sono tutti
pubblicati. Non ha ceduto neppure all’invito dei patriarchi di venire a Costantinopoli, per difendersi.
Ha riconosciuto perfino la sua debolezza nel non poter vivere nell’ascesi suprema delle spelonche, o
sul ramo di un albero, vestito con peli di animali, come i grandi asceti. È vissuto però con questo
desiderio irraggiungibile.
È chiaro che ha voluto essere un vero monaco, nascosto, emarginato, dotato di mitezza,
come sta bene a un religioso, pur se fermissimo nella fede e nella devozione che aveva intuito come
vera: la preghiera ininterrotta, isicasta, l’unirsi costantemente con il Nome di Gesù e la sua energia
divina.
Sono, tutti questi gesti, segni di santità autentica e di serietà spirituale.
Se avesse conosciuto bene la teologia scolastica ed i padri latini, senza preconcetti, almeno
come ha conosciuto gli scrittori ascetici, li avrebbe amati, difesi e seguiti.

138
P. Ellio Citterio nell’op.cit. descrive in dettaglio tutta la faccenda.
154

Ma la colpa resta sempre dei cattolici romani, arroganti, ieri in un modo ed oggi in un altro,
disincantati da sembrare tutti atei, (senza esserlo), per cui, i monaci dell’Athos, per primi, li
confondono col nemico. Per quanto mi riguarda, il fatto che, malgrado tutto l’arsenale di arroganza,
relativismo, spirito continuo di compromesso e orgoglio infantile che ho incontrato nella piccola e
grande gerarchia cattolica dei nostri tempi ultramoderni, io sono rimasto cattolico, attaccato alla
Roma eterna, lo considero il miracolo numero uno della mia vita, frutto di una grande Grazia.

L’ultimo libro dell’Aghiorita fu la Confessione di Fede, per non lasciare nessun dubbio sulla
sua ortodossia. Il motivo? Era appena scampato al linciaggio dei monaci, in seguito alla
falsificazione di una sua lettera che fu poi sparsa dagli avversari per tutto l’Athos, per poter
accusarlo di eresia. Ne ritorneremo sull’argomento. La Iera Kinothita, formata da menti equilibrate,
lo aveva difeso, ma lui voleva lasciare un documento olografo, per difendersi dall’accusa più
infamante per un cristiano: quella di essere eretico.
Non dimentichiamo il suo gesto supremo, che è segno di elevazione: nel 1809 intuì che il
giorno della sua morte si stava avvicinando; vi si preparò, accostandosi quotidianamente alla
Comunione e esercitando la preghiera mentale di Gesù, fino a che, nella notte fra 14 e 15 luglio
1809, all’età di 60 anni, si spense a Karyé presso gli amici skourtei. Era quasi paralizzato, ma
voleva, prima di morire, baciare le reliquie di Macario di Corinto, che era morto in odore di
santità. Morì senza nessuna consolazione umana, afflitto com’era delle accuse ingiuste, del tomos
patriarcale del 1807, chiaramente anticolyvaro, e dell’accusa di cattolicesimo, il ché è la più grave
accusa per un greco ortodosso. Fu sepolto vicino alla chiesetta di San Giorgio, presso gli Skourtei, a
Karyé, dove ancora oggi si conserva il suo cranio.
Fu canonizzato in mezzo a dure opposizioni, appena il 31 maggio 1955, dal patriarca
ecumenico Athenagoras I, Spyru ( colui che si abbracciò con il Papa, Paolo VI, dimostrando una
volta di più di essere un vero neo-latino: era infatti uno vlacco); e la festa ne fu fissata il 14 luglio.
In seguito, San Nicodemo fu iscritto anche nel Calendario russo e romeno.

Accusato oggi, più di ieri, dai nuovi talebani, tipo Teodoreto il Lavriota o il teologo Cristo
Yannaras, (1992) in foga di originalità, (la cui unica scoperta sarebbe l’incompatibilità di qualunque
pensiero o sentimento occidentale con il Cristianesimo, i nemici, più neri del demonio, essendo
“agostino” “i franki” e tutti gli altri “cattolici” che li hanno seguito), Nicodemo l’Aghiorita fu difeso
da menti più illuminate.
Nel 1993, La “Sacra Comunità” riunita nella Sacra Epistasia di Karié rispose con sdegno a
Yannaras, respingendo anche le sue elucubrazioni teologiche (non) ortodosse e difendendo
155

Nicodemo, assegnandolo come una “vera figura patristica, la più grande dai tempi di san Gregorio
il Palamas”. Riconosciamolo: non si può avere un Santo più anomalo, come esempio folgorante
della grandezza dell’Athos.

GLI SKIT IMPONENTI

Siamo passati vicini a un piccolo skit romeno dove, se lo avessimo saputo, avremmo potuto
salutare Padre Ilarion, già cameriere del Patriarca Justinian Marina139; (mi conosceva: non mi
introduceva lui presso Sua Beatitudine? Non si stupiva dell’affetto che il Patriarca mi mostrava, da
grato alunno di mio Tati? Non so come ho fatto a non incontrarlo, in Athos, o, forse, a non
riconoscerlo!) Ilarion aveva la fama di monaco riservato e silenzioso. Certo, nei vestiboli del
palazzo patriarcale di Bucarest, pieno di microfoni e di informatori della Securitate, aveva imparato
una prudenza eccessiva nel parlare, unita al silenzio che gli stava bene, qui, all’Athos. Lo abbiamo
appresso dopo.
A tanti anni distanza, riconsidero, però, la virtù di Padre Ilarion. Da ex-ciambelano
patriarcale, per realizzarsi il sogno di venire in Athos ed avere il passaporto per la reazionaria
Grecia, avrà dovuto dare più di una dichiarazione giurata presso la Securitate, con la promessa di
spiare tutti i movimenti interessanti nei monasteri. Questa buona opera era obbligatoria per tutti i
possessori di passaporti del Lager comunista, a vari gradi. Ilarion faceva parte del lotto guadagnato
dal superiore di Lakou, Padre Negara, presso Ceausescu: permesso di uscita dal lager chiamato
Romania, per 4 o 5 monaci per volta. Lo racconteremo a suo tempo. Io non dubito della sincerità di
Padre Ilarion e della sua firma fasulla, pur di salvarsi dai mostri. Ecco, però, il motivo per cui si sarà
nascosto in una località anodina, lontano dai contatti, sprofondato nel silenzio, tentando di farsi
dimenticare dai nemici della nostra vita. Veramente, il motivo aperto ne fu l’intransigente
opposizione contro la sua elezione a superiore dello Skit romeno Prodromou. Eletto con un alto
numero di voti, gli oppositori fecero di tutto per invalidarne l’elezione. Scovarono una fotografia
del passato, in cui, Padre Ilarion, in viaggio in Occidente, partecipando a una riunione ecumenica, si
affaccia accanto al Cardinale di Milano e a qualche altro nemico, alleato dell’Anticristo di Roma. Fu
accusato perciò di pro-cattolicesimo e di ecumenismo: e cancellato. Era chiaro che in simili
condizioni non poteva continuare a celebrare a Prodromou; e si trovò, da solo, la cella vicino a
Karyé. Negli anni’90, sentendosi malato, pregò Padre Nicodim Dimulescu di riportarlo “a casa”. E
morì in patria, senza nostalgie per il Sacro Monte e le sue intransigenze.

139
Patriarca della Chiesa Ortodossa Romena fra il 1948 e +1977.
156

Continuiamo, perciò, il percorso alla ricerca dei santi, dei loro ricordi, dei loro luoghi.
Intorno a Karyé si alzano tre skit, attualmente russi: Saraiu, ( Sant’ Andrea), priorato
cenobitico russo, dipendente dal monastero Vatopediou, Sant’Elia, e Sant’Artemio. Visitiamo i
primi due, le cui chiese sono delle vere cattedrali per vere metropoli, secondo il gusto russo
pravoslavnico e tzarista.
Per raggiungere Sant’Andrea, ti basta alzare lo sguardo da Karyé, ed ammirare la sagoma
maestosa di questo strano skit. Vi hanno istallato qui l’Accademia ecclesiastica athonita,
“l’Athonia”, rediviva. I palazzi formano un complesso ricchissimo, fantastico, per quanto nuovo,
(1849) ed in parte abbandonato: ma è simbolo della ampolosità con la quale lo Tzarismo costruiva e
prevedeva ogni cosa, meno la sua terribile caduta.
L’Iconostasis vuol dire qui icone imperiali di Gesù, di Maria e dei Santi raffigurati in piedi,
in grandezza sopranaturale di una eleganza e ricchezza degna di un Impero. (Ma è un imitazione
tardiva di un Mattia Preti, (1613-99), pittore che gli ortodossi scomunicano per motivi di fede e di
stile artistico, ma che copiano senza remora, secondo l’eterno costume di infangare per sottrarre 140.
Lo abbiamo già detto: i nuovi talebani ortodossi rendono giustizia ai vecchi detrattori, perché non
sopportano più lo stile “italiano” nell’arte “ortodossa” e, rimettono sul tappetto il manierismo delle
icone (neo-) bizantine.
Invece l’icona russa, ispirata allo stile “italiano” è un tipo di barocco rococò russificato e
ampliato, che rende più piacevole la preghiera, ( ma questo fatto lo può capire chi prega davvero).
Lo stile è passato per tutta l’Ortodossia del’800, trasformando il Luogo sacro delle chiese in un
ambiente sfarzoso, degno di Dio, iconostasis inclusa.

All’inizio, Sant’Andrea fu un modestissimo convento greco, chiamato Xistrou. Nel 1644 fu


restaurato dal Patriarca Atanasio Petelarios, con i soldi del Sovrano romeno della Moldavia, Vasile
Lupu. (1634-53). Fu chiamato Sarai per l’opulenza ostentata e trasformato in ambiente per ospiti
illustri. Questo fatto doveva accontentare il grande magnate romeno-moldavo, (albanese di sangue
e di mentalità), che, in mezzo a pericoli costanti, teneva alto il livello della sua Corte di Iassi e
viveva del sogno di essere un Basileo bizantino redivivus, essendo già il più ricco personaggio del
suo tempo, in Europa….. Ma, a causa di questa gonfiatura di carattere e di opulenza, finì nella
prigione turca di Edì Kulè e poi, nell’altro mondo, in modo poco edificante. Il mio Maestro- e
nonno- Popian mi raccontava che nella guerra fratricida con Matei Basarab, il vecchio lo
raggiunse a cavallo e lo cacciò a pugni, admonestandolo come si meritava.

140
?
Vedi anche la Cattedrale ortodossa “Sant’ Alexandr Nevski” di Sofia ed moltissime altre ancora, adornate allo stesso
modo.
157

Da un punto di vista, però, lo skit ebbe una sorte fortunata: vennero qui dei russi ricchi ed il
sogno di Vasile Lupu divenne realtà.
All’inizio del ‘900, Sant’Andrea contava oltre 450 monaci russi, persone coltivate e
raffinate, provenute dal mondo del sangue blu. Infatti, fu restaurato dallo Tzar, apposta, per
accogliere nobiltà ammonacata con le buone o con le cattive. Basta visitare la chiesa, per renderti
conto di trovarti in una piccola San Pietroburgo. Immaginiamoci i cori di questi monaci russi,
nobili, che volevano concorrere con la cappella imperiale di San Pietroburgo, in cui spaziavano le
armonie di Bortnianski e Ceaikovski. Erano e lo sono ancora, tutte italiane, quelle armonie, il
motteto immerso nel profondo slavo, che rende celeste ed anche universale la Liturgia slava, senza
più nulla di bizantino o di orientale. Ma quanta contemplazione, quanto silenzio espressivo, quanta
juxtaposizione, quanta devozione nel contrasto dei toni e delle voci, drammaticamente coinvolte
nell’esprimere il cielo e la terra in adorazione!
Ma, prima di passare in rivista i fatti ed i misfatti dei russi, ritorniamo al secondo skit
russificato, che dal centro di Karyé si affaccia con la sua sagoma elegante, dandosi il nome di
Sant’Elia.
All’inizio fu una modesta cella del monaco “vlacco” Cosma, superiore della Montagna, che
fu aiutato a costruire il piccolo convento da Vladislav II, Domn romeno,(1448-56), ( il quale forse
presentiva che sarebbe stato, da lì a poco, tagliato e succhiato da Vlad Tzepesci, il Dracula).
Il Sovrano romeno, Vlad il Monaco ( 1482-95) mandò al vecchio Cosma, per Sant’Elia, 1000
aspri all’anno, dal 1492 in poi; e 100 per viaggi. A Hilandariou, però diede un aiuto annuale di
5500 aspri, pregato dall’imperatrice Mara, (o Kyra Maro), sposa di Murat II, che adottò Vlad,
perché non aveva figli.
Sentiremo spesso di questa Mara, sultana cristiana, figlia di uno cneaz serbo e sposa di uno dei più
grandi sultani turchi, di cui, però, il suocero fu informatore; il quale sultano, per troppo amore, fu
generoso con l’anima e con gli amici della sposa. Mara se ne approffittò e fece tutto il bene che
poté: è suo, il merito, se i bulgari, nel 1469, ritrovarono le reliquie smarrite del loro santo più caro:
Giovanni di Rila.
Anche qui devo aggiungere che io, questo Vlad, lo considero parente, amico, padre,…
aldilà del tempo che mi separa da lui. Mi unisce a lui il luogo della mia infanzia, la celeste Bistritza,
con la grotta del Santo, con il monastero che lui amò, ed arricchì di doni…. Ohi, questo luogo
divino, dove, 400 anni più tardi si conobbero e si amarono Tati e Mami, i miei cari nonni materni
ed artisti che poi mi allevarono, mi amarono e mi prepararono per … Roma. La saggezza che
ricevetti da loro mi trasformò in esule, però mi diede il mio vero luogo su questa terra…..
158

Qualcuno mi replica: “ben ti sta, come parente di questo Vlad, che fu figlio di Draco e
fratello di Tzepesci-Dracula, ed anche di Radu il Bello, quello bramato dal Sultano nel letto…
Ma nò, ma nò! Con Vlad condivido il fatto che fu monaco nella sua giovinezza, ( poi buttò
l’abito alle ortiche per amor del trono; in questo, non c’è pericolo che io lo possa imitare); poi,
perchè amò ed aiutò Bistritza ed altri conventi a me cari. È pur vero che, proprio lui, che fu
intronizzato da Stefan il Grande e fu tollerante coi boieri che lo odiavano, finì per tradire Stefan e
depredargli la Moldavia, insieme coi turchi. Suo figlio se ne approfittò per fare il lupo moralista e
cacciò il padre dal trono. Ma siccome l’uno e l’altro colmavano di ricchissimi doni i monaci ed i
prelati, i reverendissimi padri li esaltarono nelle cronache come dei veri eroi e santi: Vlad il monaco
e suo figlio, Radu il Grande!
Qui, a Sant’Elia visse un altro mio avataro, Gavriil, il Prothos della Montagna, che finì
nella “Terra Romena”-( qui, sopranominato il Pròtul)- chiamato dal buon Neagoe Basarab nel
1516-17; che, nella festa di consacrazione della catedrale-monastero, fondata dal Sovrano a
Argesci141, il 15 agosto del 1517, dedicò al pensiero teologico la “Vita di san Nifon”, inestimabile
documento storico di quei tempi. (Se non ne fosse che per la lista delle immense beneficenze fatte a
tutto il Monte Athos da Neagoe, il suo protettore!). Gavriil si implicò seriamente nella difesa della
Fede: scrisse a Bogdan di Moldavia e a Ion Zapolya di Transilvania, nel 1533, contro Lutero,
dipingendo il riformatore , più nero del diavolo. (Beninteso, non fu creduto).
Qualche decennio più tardi, per motivi che a me sfuggono, lo skit di Sant’Elia fu
abbandonato da tutti. Rimase un rudere, come tanti altri che noi stessi abbiamo visto nei deserti
popolati di foreste della Santa Montagna.
Questo dramma, però, fu la cagione dell’ inserimento nella storia dello skit e
dell’Ortodossia, di una grande anima, riconosciuta come santa e maestra di altre anime: Paisio
Velicikovski.
Lo skit fu restaurato da questo monaco ucraino, isicasta, nato a Poltava nel 1722 e morto in
Moldavia, (+1794); che gli ortodossi romeni considerano più importante, per la Romania ortodossa,
di tutti gli altri padri spirituali, romeni- puri.
La trasformazione dello skit-abbandonato- in fondazione slava, e capitale della spiritualità
isicasta russa è considerata il più felice successo di Paisio in Athos. Di breve durata, perché, a causa
dell’animosità esasperata contro il suo operato e contro la sua persona, egli fu obbligato a fuggire in
Moldavia.
141
?
La quale rimane in assoluto la più bella chiesa romena ed una delle più belle chiese bizantine del mondo. Si tratta però
solo della parte esterna, l’interno essendo mal rinnovato, nel 1883. Gavril il Prothos, superiore dell’Athos che prese
parte alla sua consacrazione, nel 1517, scrive: “Non è grande e universale come la Santa Sion, neppure come la Santa
Sofia di Giustiniano… ma in bellezza le supera di gran lunga, tutt’e due”(citato dal manuale di Storia della Chiesa Ort.
Romena, vol.I, in romeno, Buc.1957, pag.408).
159

(In questa materia, Athos, come vedremo, diventerà proverbiale. Qui si formano i geni della
preghiera e della polemica e poi fuggono, per salvarsi la vita davanti ai fanatici, portando con essi
intatta, la nostalgia ed il sigillo luminoso dello stesso Athos!!!).
Occupiamoci del Velicikovski, perché è un esempio di brillante coincidentia oppositorum
nella stessa persona, che i biografi suoi non vogliono afferare. L’Athos, come anche i suoi Santi,
sono introdotti in schemi inadeguati, dai vari scrittori pellegrini. Ora, tutto l’incanto di questo
mondo misterioso sta proprio nell’ essere strano e fuori dagli schemi.

Paisio Velicikovski.

Paisio nacque a Poltava in una famiglia di 12 fratelli e fu chiamato Pietro.


Sua madre, da vedova e da addollorata per la morte di tutti gli altri suoi figli, si fece monaca.
Non prima di vedere accesa, nell’unico figlio rimasto, la scintilla di una grande vocazione
monastica. Ma, inviato all’Accademia di Kiev, modellata dal metropolita romeno, Petru Movilà,
sulle accademie gesuitiche, non sopportò la cultura impartita dalla scuola, né lo sfarzo mondano di
alcuni colleghi e professori; e volle ritirarsi. Anzi, scappò di notte da quella scuola e si mise alla
ricerca di un padre spirituale.
È interessante studiare il turbamento di questo giovane davanti alla cultura laica, come pure
davanti ai tentativi dell’unione con Roma, attuati in modo sbrigativo da diversi superiori, religiosi e
laici, ed il ritrovamento della sua pace proprio fra i romeni, che a Kiev, come nei Principati romeni
avevano appena rinunciato allo slavo e celebravano in… romeno. Ha deciso di scegliere i romeni e
magari i greci dell’Athos. I russi? Unionisti o no, non gli andarono a genio, anche se tentò più volte
di stabilirsi in qualche monastero russo o ucraino. La loro rigidezza, secondo lui, “non aveva nulla
di cristiano”, e questo lo disturbava.
Non ho la minima idea di contraddire Paisio nella sua opinione sui russi. C’è da dire, però,
che si trovavano, i poveretti, freneticamente convulsi fra chi li voleva unire con Roma e chi li
voleva distogliere da questo terribile pensiero. Ed erano tutti nervosi, tesi e scorbutici. Il gruppo di
romeni era considerato quantità trascurabile, che, perciò, si godeva- da un angolo- la pace propria e
lo sterminio fraterno degli oriundi.
Fra i romeni, Paisio imparò il romeno, prese gusto per la spiritualità athonita, ma volle
andare proprio alle sorgenti greche e finì nell’Athos, più precisamente in una cella solitaria presso
Pantokrator, (1746-49). Lì però, soffrì le più sottili tentazioni, proprie della solitudine e della
delusione. Delusione, perché? Perché, da giovane ignaro, (ci sono di questi giovani anche a 70
160

anni!), sperava di trovare un “padre spirituale”, che ognuno di questi ricercatori di “padri” se lo
sogna come un secondo dio. Alla fine si mise a scrivere così:
“Ho fatto un’esperienza penosa. È difficile guidare qualcuno per vie che personalmente si
ignorano. Soltanto chi ha sostenuto in se stesso la grande lotta contro le passioni e ha domato, con
l’aiuto di Gesù Cristo, la concupiscenza carnale, la collera, la vanità e l’avarizia, chi ha guarito la
propria anima con l’umiltà e la preghiera, può indicare la Via al suo discepolo senza inganno. Ma
dove potremo trovare una simile guida?
E poi, arriva da solo a una scoperta sensazionale, quella dell’acqua calda:
“Abbiamo una sola via di uscita: studiare giorno e notte la Sacra Scrittura e le opere dei
Padri e, chiedendo consiglio ai fratelli ed ai padri più anziani, imparare a mettere in pratica i
comandamenti di Dio ed a imitare gli asceti di un tempo. Solamente in tal modo, con la Grazia di
Dio riusciremo in questo nostro tempo a pervenire alla salvezza.” 142 Con altre parole, i nostri veri
Padri Spirituali che hanno il diritto di comandarci sono i due Libri della Scrittura e della
Tradizione. Mentre la gerarchia, gli amici anziani, sono lì per consigliarci, non per comandarci.
Verità sacra, che nessuno ammette. Non perché preferiscono obbedire alla gerarchia, ma perché pre-
sentono di non voler obbedire ai giusti dettati della Divina Rivelazione, sapendo che i capricci della
gerarchia, (chiamiamoli pure saggi decreti) sono comunque più comodi che non le Leggi di Dio.
Paisio, invece, comprese, in un primo tempo, questa verità, perciò rinunciò alla ricerca di
chiacchiere coi padri, preferendo abbeverarsi dei tesori mistici delle biblioteche dell’Athos.
Aggiungendosi, però, sette romeni e cinque slavi che vennero presso di lui, accettò di essere
il loro egumeno e, nel 1758, fu ordinato sacerdote. È questo il momento in cui si trasferirono tutti a
Sant’Elia, lo skit abbandonato, che restaurarono insieme, costruendo alla russa, una chiesa, un
refettorio e 60 celle. Furono aiutati, però, dai Sovrani romeni, non dallo Tzar e tanto meno dai greci.
Non saprei dire perché. Grazie alle doti di Paisio, i discepoli ed i fratelli si moltiplicarono, la fama
di serietà ascetica aumentò, ma anche l’invidia da parte di chi non sopporta il successo altrui.
La verità era che Paisio, umile e blando per natura, non faceva nulla di sorprendente: a
Sant’Elia si era messo -con un certo successo- a praticare ed insegnare ciò che aveva capito per
primo, come essenziale: lo studio delle Pagine Sacre.
A questo punto, il diavolo che non dorme, -ma io da tempo do la colpa alla cattiveria
dell’uomo, e non al diavolo- ispirò alcune anime misticamente devote ad accusare Paisio di far
trascurare la preghiera ai discepoli, per lo studio dei Padri: proprio lui che, per amor della preghiera,
aveva disdegnato lo studio a Kiev. E si finì con intrighi contro di lui perfino presso i turchi.

142
Vedi anche I. Kologrinov, Santi russi, Milano, 1977, pag.463ss.E la presentazione di Enzo Bianchi del libro di
Irina Gorainoff, Serafino di Sarov, ed. Gribaudi, Torino,1981.
161

No, non ci illudiamo. Chi lo accusava, non lo faceva per amor di preghiera. Leggere -anche
una sola pagina di qualunque cosa seria- è una fatica inaccettabile per la stragrande maggioranza
degli uomini, inclusi gli intellettuali ed i religiosi. Così, col pretesto della “preghiera”, non
compiono, nell’una, né l’altra. È regola.
Paisio, oramai satullo di Athos e dei capricci teologico-ascetici dei perditempo… si trasferì
alla chetichella e non troppo, in Moldavia. Prima a Dragomirna, e, dopo l’occupazione austriaca
della regione, a Secu. Poi a Neamtz, che diventò il più popoloso monastero ortodosso dell’epoca. Lì,
si sognava di ricostruire un piccolo Athos, in cui, però, le regole di San Basilio e di San Teodoro lo
Studita si applicassero alla lettera (!?). Nel senso di avere una vita comunitaria ben organizzata,
intorno a un Padre carismatico. Il quale, senza volerlo, finì per essere lui stesso. Certo, anche lui,
come il Basilio o lo Studita, prima di lui, proprio perché superdotato, come essi, di grazie e talenti
specifici, si era dimenticato che questo ideale, (Comunità più Padre onnipresente) diventa una
trappola in assenza di un supertalentato lieder. Cosa combina, invece, un superiore con poteri
assoluti, privo di Grazia e dotato, in cambio, di furbizia, formalismo e prepotenza? Un disastro! No?
Intanto, però, finché ci fu lui, egli illuminò l’orizzonte con la sua saggezza, alimentando le illusioni
dei discepoli.
Nei monasteri moldavi si mise a tradurre scritti dei Padri della Chiesa; e su base di lettura
biblica e della divina Tradizione, organizzò il Movimento filocalico ed isicasta, (preghiera e
meditazione), diventando Padre spirituale di molte anime devote. Trascrisse, pubblicò, stampò e si
mosse come un vero missionario. Certo, per riuscirci, si era portato con sé dall’Athos molti
manoscritti patristici greci, ( oggi diremo trafugati). Lo fece con frutto, e non per lucro, non ne
aveva scelta, visto che in Athos non è stato lasciato a lavorare. Ma, rarefiare le biblioteche della
Sacra Montagna fu sempre un talento di molti, soprattutto russi, in quell’epoca; motivo per cui,
come racconteremo, scoppiò una buffera inattesa. Oggi, questo nobilissimo gesto è un talento di
tutti, con tutte le precauzioni dei doganieri di Dafni. Se perfino io sono riuscito ad uscire con un bel
manoscritto, (è vero, non prezioso, ma poteva anche esserlo!), che conservo ancora oggi con amore!
Ne racconterò più tardi.
Infine, Paisio morì a 71 anni, in terra romena, consolato dall’ atmosfera riposante che si
meritava: amato, stimato e seguito da una marea di discepoli.
Come mai, ebbe più successo in Romania che non nell’Athos? Un motivo fu anche il fatto
che, provenendo dalla Sacra Montagna, fuori dell’Athos, egli significava di per sé un monumento di
santità. Poi, anche perché, avvisato oramai dall’esperienza, seppe incutere una paura magica in chi
si rifiutava di leggere le Divine Scritture. L’incanto sparì con la sua morte, perché il movimento
ispiratosi a lui ritornò con più fervore alla ricerca del Padre Spirituale, a sfavore della lettura sola.
162

Era stato lui stesso a ritornarne, dopo essere diventato staretz, (confrontato forse con episodi di
anarchia): insegnò dunque la ricerca e l’obbedienza senza riserve al Padre Spirituale, gesto che fu
sorgente dell’apparizione, in maniera sistematica, dei famosi Staretz russi. Ma che dico? In questa
faccenda, si ripete la storia della gallina e dell’uovo. Non è lo Staretz che appare per primo, (come
sarebbe normale), bensì è l’abitudine di andare in cerca degli Staretz, che diede nascita agli Staretz
stessi. Si tratta di monaci devoti che a tutto pensavano, meno che a diventare padri di popoli; i quali,
ricercati da folle affamate di miracoli e consolazioni, furono costretti a diventarlo. Un po’ per
talento, un po’ per costrizione delle circostanze, divennero Padri di povera gente. E, come sempre
succede, in simili situazioni non ritardano ad apprire anche i ciarlatani. Probabilmente, con quel
movimento, furono forgiate anime dorate, che seppero riempire la terra di martiri ed il cielo di
Santi, durante la grande prova del delirio comunista. In Russia, più dopo morte che in vita, Paisio fu
percepito come successore di Nilo Sorskij, (1435-1508), che nel XV secolo aveva introdotto
l’isicasmo in quella nazione143; e come Padre spirituale del monachesimo di due nazioni, russa e
romena, (anche se fu canonizzato solo nel 1988, nell’anniversario del millennio russo).
Come si vede, anche per lui, le cose della vita furono oltrettuto strane: non sopportò il
laicismo introdotto da Pietro il Grande in Russia e neppure le influenze occidentali, (che, in realtà,
si limitavano all’organizzazione disciplinata delle istituzioni e della pedagogia). Ma poi, tutto quel
gusto per la lettura e le pubblicazioni, per i libri e per la stampa, con le quali Paisio come Nicodemo
l’Aghiorita riformarono tutta la Chiesa Ortodossa, sono gesti specificatamente occidentali. Il gusto
per la lettura era ed è protestante, nordico. I due non sapevano che ammiravano ed imitavano autori
calvinisti come John Bunyan, (1628-68), autore del “Progresso del pellegrino da questo mondo a
quello futuro”, (1678), in cui l’anima solitaria è aiutata dagli unici veri Padri Spirituali riconosciuti
dalla Riforma: la Sacra Bibbia e lo Spirito Santo. È un testo molto più cattolico di quelli “cattolici”
di oggi, in gran parte modelli di compromesso e pensiero debole. Paisio, forse, non sapeva neppure
che la stessa origine della vecchia letteratura di Kiev, portatrice della prima conversione dei russi,
era occidentale, rafforzata da tutta una influenza posteriore, cattolica e protestante insieme.

A Sant’Elia visse pure un discepolo del Velicikovski, Isaiia Neamtz, maestro di isicasmo
e di traduzioni. Migliore in traduzioni. Pure un certo Giorgio, (Gheorghe), (1730-1806) diventato
in seguito staretz a Cernica, vicino a Bucarest e canonizzato nei tempi nostri. Discepolo, anche lui,
di Paisio, ma anche alunno di Eugenio Vulgaris144 è ordinato sacerdote in Athos; ma poi scappa via

143
Nilo di Sora fu discepolo della Scuola di San Gregorio il Sinaita, +1346 (vedi), in Athos, e dopo, ritornando in
Russia tentò di organizzare la vita monastica priva di protezioni e privilegi da parte dello Tzar.
144
Grande personalità della Grecia pre-risorgimentale. Vulgaris o Bulgaris Eugenios, teologo ortodosso, nato il 10.8.
1716 a Corfu, † 12.6. 1806 in St. Petersburg. Ha studiato in Arta (Epiro), Giannina e Padova . Ce ne occuperemo più
tardi.
163

con tutta la comunità di Paisio, nel 1763, a Dragomirna, in Moldavia, poi a Secu, e poi, nel 1779, a
Neamtz; e non ritorna in Athos, solo perché il metropolita romeno lo ferma, pregandolo di
occuparsi di Cernica. Il valoroso discepolo, improvvisato staretz, restaura il convento,
trasformandolo in una vera comunità athonita nella pianura munteana. Alle regole imparate,
aggiunge delle altre, tutte sue, molto, troppo originali, ma probabilmente efficienti, visto che ha
avuto successo, santificando gli altri e diventando santo, lui stesso: per esempio, comandò di non
ricevere stranieri ed estranei nel convento, se non pochi; non volle una comunità che superasse 103
monaci, e non permise la pratica dell’l’isichia prima che i monaci si stabilissero nelle virtù. Tutto
codificato, scritto, sistematizzato in delle scartoffie ben conservate. Incredibile come l’umile
staretz, senza leggersi i trattati ascetico-mistici scolastici, stabilì per i suoi figli, senza ombra di
polemiche, i tre gradini della perfezione, seguiti da quelle grazie della contemplazione e della
visione che Dio dà, alla fine, a chi Lui vuole.
Ed ora il commento mio preferito: ecco, ancora una volta, come spunta nel romeno, smarrito fra il
disordine slavo e l’astuzia orientale, la mente organizzata, latina e romana ! Senza volerlo!
Torniamo però ai nostri monaci greci e russi. I quali, ignoro se a causa del maligno, o per la
loro propria fantasia, a contatto, gli uni con gli altri, cominciarono con piccole polemiche per nulla,
e finirono in vere guerre e odi senza fine.145.

GRECI E RUSSI

Nel secolo XIX-esimo, (però, non posso giurare se le piccantissime cronache -di cui sotto-
non si sono verificate anche nel primo millennio), scoppiò una vera buffera fra monaci greci e russi,
per motivi etnici ed anche liturgico-artistici, con tutte le conseguenze economico-politiche e
soprattutto di scandalo per il mondo. Il dramma dei russi non era solo quello di non intendersi con
gli altri, ma neppure fra di loro: i russi bianchi, (bielorussi o piccoli russi) ed i grandi russi, ( quelli
di Mosca) si amavano (si amano?) come il cane col gatto, a prescindere dai voti religiosi. In
Romania, nei tempi di mio nonno, (1890-900) si sapeva che l’alta nobiltà russa si distillava dai
bielorussi, che guardavano con disdegno al popolo di mudjik della Russia grande, (che li superava
in numero e astuzia); fu la rivoluzione bolsevica del 1917 a dare una svolta a questo dramma, coi
suoi massacri e le sue proibizioni.
Non sappiamo neppure come sono successe esattamente le cose, perché, perfino gli
specialisti si lamentano che ciascuna delle fazioni abbia falsificato i dati.

145
Da leggere, in questo senso, l’art. di Dr. Ant. Em. Tachiaos, di Salonicco: “Controverses entre grecs et russes à
l’Athos”, in Le Millenaire, op. cit.pag 159ss.
164

Tutti prendono come data dell’inizio delle “ostilità” l’anno 1839, quello dell’arrivo al
monastero Panteleimonos dei russi.
Sarebbe gastronomico leggersi i diari del monaco Anikita Sirinski- Sichmatov, questo
principe - ufficiale della marina russa, che, congedato dalle sue funzioni, si fece hieromonaco,
nell’idea –anche- di finire in Athos. Visitò la Sacra Montagna fra il 1835-36, ma finì come prete (ed
archimandrita) dell’emigrazione russa ad Atene, dove morì nel 1837.
Seguiamo la vicenda di questo principe-monaco, arrivato in Athos da pellegrino, in giugno,
1835.146 Venne direttamente a Sant’Elia, che era già abitato dai piccoli russi. Venne con le tasche e
le valigie piene, soprattutto di denaro, pronto per restaurare più di un monastero. Io temo che, più
per l’effetto di questa calamita, che per motivi del tutto mistici, una quindicina di monaci russi di
Sant’Elia, altrimenti ben preparati dallo spirito del santo Paisio Velicikovski, (v.) abbandonarono lo
skit e lo seguirono fino a Panteleimonos, dove il principe portava in dono l’icona di un santo,
(Mitrofano) che venerava. I greci, da buoni nipoti della Pitia di Delfi, indovinarono il pensiero del
buon principe ex-marinaio e soprattutto il tesoro che teneva nelle tasche. Così, dopo un’accoglienza
principesca, offrirono a lui ed alla sua comitiva la chiesa -non terminata- di San Giovanni, con le
celle adiacenti, all’interno del monastero. Impressionato da tanto amore disinteressato, l’ex-
marinaro offrì alla comunità 300 leva, ( sarà stata una somma non indifferente), per far terminare la
costruzione e darla in uso. Poi partì per Gerusalemme.
I monaci, naturalmente, gli fecero una promessa… da marinaio, …. ma da buoni marioli,
marinarono il lavoro e si mangiarono i soldi in altro modo.
Quando, come nel Vangelo, il padrone ritornò, ( il 9 maggio, 1836), trovò la chiesa ancora
più diroccata di prima, i soldi da nessuna parte ed i monaci greci e russi in grave litigio. Mancava la
mia telecamera per filmare la faccia del principe monaco.
-Sono deluso nelle mie speranze, mormorò.
E con un gesto solenne, si riprese la comitiva dei suoi monaci –russi- e tornò con loro al
vecchio skit di Sant’Elia.
A parte il denaro ecclissato, cosa sarà successo nell’assenza del principe? Ebbene, i monaci
russi avevano cominciato a trattare i greci con disprezzo e pretendere che il monastero appartenesse
a loro, che ora avevano per superiore un principe russo. D’altro canto, i monaci di altri monasteri
incitarono i greci a cacciare Anikita ed i suoi, “per timore che si accaparrassero anche le terre di
altri monasteri”.

146
?
Alcuni elementi di questo capitolo sono meglio raccontate nel libro dell’Archim. Sofronio, Silvano del Monte Athos,
ed. Gribaudi,1978.
165

Ma questa accusa assurda era un modo per rovesciare le parti. La verità era che dal 1795 il
monastero di Panteleimonos aveva seccature nella Giustizia con lo Xenofontos, perdendo uno skit.
Poi, nel 1802, un'altra controversia con la Megali Lavra. Poi si aggiunse la rivoluzione greca, che
seccò le risorse del monastero. Era in agonia, e gli altri monasteri aspettavano il momento propizio
per dividersene le proprietà. Apparendo il principe, generoso nel denaro e nella vita ascetica, i loro
progetti sono falliti. Infatti, Sua Altezza si era vantato così:
“ Io ho amici ricchi a San Pietroburgo e l’Imperatore stesso mi conosce bene!
Con tutto ciò, ritornando a Sant’Elia, Anikita non trovò un atmosfera a lui favorevole. E
dopo una lotta insonne con se stesso, decise di abbandonare la Sacra Montagna, convinto che
sarebbe potuto vivere da athonita anche altrove. Chi sa che tipo di celesti sensazioni si sogna di
trovare un pellegrino, venendo in Athos; e chi sa per quale motivo, poi, crede di poter vivere lo
spirito e la regola dell’Athos… fuori dell’Athos? Il principe fu accolto ad Atene come sacerdote per
i russi; ma noi sapremo, forse, solo in cielo, se non è morto, per puro dispiacere, l’anno seguente.
Qualche tempo dopo, venne a Panteleimonos un egumeno di Astrachan, Evghenio, con
grosse somme, per fare le cose in grande, da russo grande. Riuscì solo ad inabissare l’inimicizia fra
i piccoli e i grandi russi: quelli dello skit Sant’Elia contro l’egumeno Pavel con i suoi compatrioti
della Russia grande. I greci non sapevano all’inizio come regolarsi fra i due gruppi fratelli ed ostili,
ma alla fine capirono che non conveniva mettersi contro l’unica potenza, (la Russia tzarista), in
grado di difenderli davanti ai turchi; ed accettarono Pavel con i grandi russi a Panteleimonos,
definitivamente, nel 1839. La gioia dei greci per l’arrivo dei russi è descritta in modo ingegnoso
dagli studiosi greci, ma, come sappiamo, essa non era disinteressata. Ad ogni modo, non durò. Nel
1870, la pace si ruppe definitivamente. Troppe vi erano e sono le differenze di mentalità ed anche
di fanatismo fra i greci ed i russi, perché, per esempio, la mistica di Paisio, tutta una sintesi greco-
romeno-russa, potesse riconciliare mondi troppo arroccati nelle proprie ambizioni. Paisio, stesso,
come sappiamo, si ritirò in zona neutra, la Moldavia romena.
Gli autori greci si vantano che i russi venienti in Athos riconoscevano la superiorità dei
monaci greci ed anche del loro monachesimo su quello russo, interpretando in questo modo il fatto
che i russi considerassero il “Rossikon” un vero paradiso.
- È giusto che pensino così. Se lo son presi, tutto pronto, sul vassoio, preparato da noi!
Ma i russi scrivono che “le regole monastiche sono strettamente osservate da noi, molto più che nei
monasteri greci, e molti sono fra noi i monaci che diventano Staretz profondi e famosi”.
Cosìcché possiamo tirare tranquillamente la conclusione che i russi ed i greci si avevano
come il fumo negli occhi, felici di vivere in permanente aria di fronda, concepita reciprocamente.
166

I motivi di litigio erano molto più numerosi di quelli dell’armonia, a parte la carità cristiana,
(la quale richiede il superamento di ogni litigio). Eccone i più gravi:
-Il modo di suonare le campane;
-Le differenze nei modi di celebrare i riti;
-I paramenti ed i vestiti monastici dei russi, con quel goffo bavero del manto e con quel
cilindro, ingozzato fino alle radici degli orecchi;
-La psalmodia greca, nasale e monodica, insopportabile per i russi, che cantavano e cantano
diversamente da tutti gli altri slavi, i quali si accordavano coi greci.
( I russi, cioè, emanano il vero canto ortodosso, a 4 se non 8 voci, all’italiana, copiato per
filo e per segno dall’orrenda Cappella Sistina!);
L’architettura russa, che ha cambiato l’armonia bizantina della Montagna, con le sue cipolle
profondamente russe, (cioè profondamente bavaresi!).
L’iconografia, tutta italiana, dei russi del dopo il 1700, per cui non sopportavano più i santi
extraterrestri bizantini, ritornati in forza solo nei giorni nostri!
A tutto questo si aggiunse un fatto rincrescioso, l’unico serio, secondo noialtri: i greci si
accorsero che “i visitatori russi rubavano dei manoscritti dalle biblioteche”. Sarà stato vero?
Indubbiamente. Ora non si sa se lo facevano con più gusto degli altri. Certamente, con più
conoscenza, perché non venivano i mudjik a mettersi il naso nelle biblioteche, bensì i nobili, colti e
con vena di ascetismo. Ascetismo che andava benissimo con lo svuotamento delle biblioteche dei
monasteri, per motivi mistici. Il fenomeno divenne preoccupante a tal punto che i superiori di
Dionisiou proibirono ai russi l’accesso alla biblioteca, cominciando con uno scienziato come
Grigorovici di Kazan, che, nel 1849, nella sua visita di studi, non trovo nessun monaco disposto ad
accoglierlo.
I furbissimi monaci greci non comprendevano l’importanza dei manoscritti in loro possesso,
ma capivano l’interesse troppo passionale dei russi a riguardo; e ne diventarono sospettosi.
Forse, ciò che infastidiva e maggiormente preoccupava, fu il numero in crescita dei
pellegrini russi che venivano sbarcati da grandi navi russe sulle coste dell’Athos, ( 600 una sola
volta, in luglio, 1844), quasi a imitare il futuro sbarco dei clandestini sulle coste europee, nel 2000.
Molti di essi non tornavano più, si facevano monaci, pur lasciando in Russia famiglie e problemi
non risolti. Scandali dopo scandali, ma in questo fenomeno degli sbarchi c’era anche qualcosa di
profondo, di specifico che era difficile condannare. I vari autori mettono in primo piano il problema
del pellegrinaggio: nel XIX secolo se ne è sviluppato in Russia una forma che constava nel visitare
quanti più monasteri, per venerare le sante icone e le reliquie. Tutti i russi devoti volevano diventare
167

come l’eroe del libro del Pellegrino russo, appunto; ciò che i greci dell’epoca o gli altri non lo
concepivano minimamente per loro stessi, anche se lo hanno scritto e predicato per gli altri.
Veramente, a me non sembra questo il motivo essenziale degli sbarchi organizzati dallo Tzar
stesso. L’occupazione dell’Athos da parte di russi, con o senza vocazione, anzi, di nobili e militi,
spietati maneggiatori di spada, ( non è questa l’epoca della morte, in duello, di Puskin?), che, a un
segno, lasciate sul petto le sante croci, avrebbero impugnato le armi per liberare la sognata, vicina
Tzarigrad, era una tappa ingegnosa, in cui si poteva pigliar due colombi con una fava. E non
dobbiamo scandalizzarcene: la Costantinopoli in mano cristiana è un atto di giustizia, ancora da
compiersi. Però, però… non ci scandalizziamo neppure, se il buon Dio non ha appoggiato
assolutamente questa impresa. Il Padre Supremo sapeva meglio ciò che avrebbero combinato i russi
nel 1917 e dopo ! Ed ha preferito lasciare gli stretti in mano turca.
Appunto. I russi venivano all’Athos, confermati da un altro privilegio: di essere gli unici
ortodossi a non essere assoggettati ai turchi. Le stesse autorità otomane li trattavano con deferenza,
mentre essi li disprezzavano profondamente, guardando con ironica pietà al greco, al romeno, al
serbo, al bulgaro e ad altri sudditi ottomani, che avevano bisogno di migliaia di permessi e di
umiliazioni per baciare una sacra icona o assistere a una Liturghia. I romeni non venivano più con
sacchi pieni d’oro sulle spalle, come nei tempi di Dracula, per restaurare i monasteri. I russi, invece,
proprio nel XIXesimo secolo, si sono ricordati di portare all’Athos anche denaro; ma non per tutti i
monasteri e per le facce sante dei greci, come avevano sbagliato di fare gli ignari romeni; bensì per
i monaci russi e per le loro chiese con torri a cipolla. L’argento russo per i monaci russi scorreva
con tanta velocità, che il padre Spiridone si lamentava nel suo libro “Le mie missioni in Siberia”
che i monaci al Panteleimonos “non vedono e non sognano altro che denaro, denaro, denaro”.
Veramente scrisse anche dell’altro:
“Questo convento non mi piacque affatto: i monaci restavano molto freddi fra di loro e
questo tratto di carattere mi allontanò da essi”.O:
“La mia esistenza in Athos, malgrado tutte le mie aspirazioni alla vita ascetica, si imbatteva
all’esterno in grandi scandali. Per i monaci, le differenze nazionali erano essenziali. Per il
Bielorusso, il Grande- russo era satana, per il Grande russo, il Bielorusso era il demonio. Il peggio
era che si dividevano in confraternite a seconda delle provincie e distretti di origine.”147
Il vero problema era invece il rapporto coi greci. Dal lato ideologico, gli slavofili hanno
costruito il resto: il russo era, nella loro visione, una specie di Messia per l’Ortodossia. La sua
presenza, una provvidenza. Partendo da questa posizione, i russi athoniti si lamentavano a mo’degli

147
?
Nel suo libro:”Missioni in Siberia”, citato in “Le millénaire”, op.cit. pag.163ss. Il libro è stato tradotto in francese e
pubblicato da P. Pascal, Parigi, 1950.
168

ebrei di essere dappertutto perseguitati, senza accorgersi di aver già riempito tutti gli angoli con la
loro presenza e con le loro pretese. Nello stesso tempo, si consolavano che “fra tutte le nazioni, la
Madonna, protettrice dell’Athos, preferisce noi, i più lontani, i più a disagio su questa montagna,
dove siamo venuti per puro amore di Dio. Noi, che abbiamo lasciato, nella nostra felice Russia,
monasteri ricchi e un Padre premuroso-lo Tzar, per venire qui a stare sottomessi ai turchi, a
pagare loro imposte e poi, a vederci perseguitati dai nostri fratelli”, (greci e piccoli russi).
Quest’idea è stata confermata dalla stessa Madonna, (come vediamo, la Celeste Madre si
impegna in moltissime azioni diplomatico- sentimentali!) in più apparizioni meravigliose a dei
monaci greci, ( come quella del 1844), in cui, nella gloria celeste, i russi erano i primi ed i greci gli
ultimi, ( in mezzo, bulgari, poi serbi, di romeni nessuna traccia), mentre la Theotokos spiegava: “Sì,
certamente! Perché voi, i greci, qui, siete in casa, che ascesi è questa? Mentre loro vengono da
lontano, provano dolori e disagi che voi non immaginate”. ( Sarà stata o no, la Madonna, a dirlo,
c’era del vero in questa frase.)
Dal merito per i dolori si è passato presto al merito etnico puro: il russo è di per sé un eletto. Un
osservatore neutro dell’epoca si stupiva che, proprio in quel secolo, in cui greci, serbi, bulgari,
romeni lottavano per la liberazione delle loro nazioni, ai russi, liberi, l’era venuta per la mente
l’idea di essere eletti.
Come sappiamo, si sbagliava. La vena nazionalistica aveva cominciato ad infettare proprio
le nazioni considerate più intelligenti: francesi, italiani, inglesi, tedeschi; e ciò che ai vari
risorgimentali sembrava una luce si è rivelata un tenebroso abbaglio, sfociato nelle guerre fratricide
ed anti-cristiane per l’unità d’Italia, della Germania, o della Serbia, poi le guerre mondiali, il
razzismo, il sionismo ed altri ismi tragici, culminati con la tragedia del social-comunismo.
I russi venivano all’Athos sempre più numerosi, felici di sentirsi amati e protetti dalloTzar, il
padre amoroso, il sovrano saggio, l’alter Christus, difensore della Fede. E, torniamo alla mia
vecchia idea: questo fatto ha acceso nel cuore dello Tzar l’idea che anche attraverso i monaci la
Russia potrebbe spingere il suo influsso, se non proprio il confine, nei Balcani. Ecco perché il buon
Papà dei russi impose la vita monastica e devota, non solo a delle persone semplici ma anche a
duchi, conti, ufficiali, prìncipi della Corte, ( come il Gran Duca Constantin, il console Titov, 13
membri della missione russa, o il Gran Duca Alessandro), che, sinceramente o per calcolo,
riempirono l’Athos della loro presenza, dei loro soldi, delle loro cattedrali. Nel 1867, il superiore
greco del Panteleimonos fu rimpiazzato da uno russo, virtuoso e devoto, come Makrij, ma
sottomesso e plagiato dal “padre spirituale”, Ieronimo, che russificò al completo, con le buone e
con le cattive, tutto il convento.
169

Si può pettegolare su tutti i fatti dei russi: ma non suul fatto che il monastero russo non si è
pagato tutti i debiti, diventando ricco ed opulento, con costruzioni che rivaleggiano col Kremlino; o
che, ed in parallelo a questo, le entrate di tutti i monasteri dell’Athos non si siano raddoppiate; o che
l’Athos non abbia radoppiato la sua fama e l’amore di milioni di cristiani, infervoriti dalle cronache,
dai giornali e dai diari di viaggio dei russi, pubblicati a dismisura in quelli anni.
È vero che i russi vollero passare ad altro: presero anche Sant’Andrea e vollero anche
Kutlumus, a suon di moneta. I greci ne vinsero-temporaneamente- la partita, ma nel 1870, a
Panteleimonos, scoppiò una vera guerra, sanguinosa, ( pugni e legnate, non pistole!) fra i russi ed i
greci. (No, non per questioni teologico-mistiche: le bufere iniziano dappertutto per una parola in
più!). Sembra che i russi abbiano vinto, perché il monastero è diventato completamente russo e in
onore della vittoria furono costruiti tutti gli edifici che vediamo oggi in rovina, tutti quei palazzi che
per decenni servirono solo ai passeri solitari. Dopo il 1918, erano tutti convinti che il monachesimo
russo sarebbe finito. Ma nel 2000, con tutti i difetti e i sentimenti talebanici delle nuove
generazioni, le vocazioni russe hanno riempito la Russia ed anche l’Athos. Da tutto ciò, Dio estrarrà
al momento giusto la sua società di eletti. È vero pure che la cronaca degli odi in Athos è stata
esagerata come altrettanto si può dire di quella della Chiesa romana con i suoi Borgia demonizzati e
falsificati perfino dalle migliori enciclopedie. Intanto, le ombre dei Luoghi santi, per definizione,
sono prova e occasione di vittoria per i futuri Santi.
È così vero tutto questo, che, fra i monaci russi vivevano già allora, in mezzo alla bufera,
Santi come Padre Stefano, che celebrava nella chiesa della Santa Croce, presso la Lavra
Sant’Alessandro Nevski. Ha visto l’Eucaristia come carne e sangue, prima della Comunione. Ha
pregato per un quarto d’ora, prima che il Signore decidesse di far ritornare il Sacramento nelle sue
speciae148.

Malgrado la presenza russa, la cui nazione era per i romeni simultaneamente, amica e
nemica, lo skit fu aiutato dai sovrani e nobili romeni fino al Domn Cuza, (1859-1866), questo
colonnello massone, che da patriota, o da liberale chiuse i battenti delle cantine preparate per i
Luoghi Santi ed espropriò, come abbiamo raccontato già, le proprietà alla Chiesa, facendosi odiare
dai greci e russi ( senza essere mai stato amato) nei secoli dei secoli, amen.
Sant’Elia, prega per noi, peccatori!149

Uno skit bulgaro, della Bogoroditza,150 integra il quadro slavo dei conventi intorno a Karyé.
Non l’abbiamo visto; ci faceva fretta l’avvicinarsi della notte. Dovevamo raggiungere un convento
148
In S. Anagnostopoulos, op. cit. pag.439ss.
149
Veramente da quasi 200 monasteri romeni, 64 erano state offerte ai Luoghi santi, da Athos a Gerusalemme ed Egitto,
lungo 5 secoli.
150
Genitrice di Dio, La Vergine Maria.(sl)
170

nel quale potevamo cenare, pernottare e seguire una Veglia Sacra, degna del Monte Athos. Ora, un
simile luogo ci aspettava a 500 m. di camminata: era il monastero di Kutlumus.

KUTLUMUSIOU

Adagiato sul fianco della collina, al centro della penisola, il monastero di Kutlumus spicca
tra il verde della foresta e la costa che ti conduce dalla vicina Karyé fino alle porte del convento. È
un complesso quadrangolare di modeste proporzioni, dove fanno bella mostra di sè tre piani di
loggiati simili a chiostri sovrapposti. Appena vi entri, un atmosfera di luce interiore ti avvolge; ti
immergi nelle sembianze divine della Croce di Gesù, che appare dappertutto, dalla pianta generale
delle chiese fino al tocco della più modesta finestra.

Oggi, Kutlumus è monastero a statuto cenobitico (dal 1856), da sempre dedicato alla
Trasfigurazione del Signore, (la festa del 6 di agosto). Se ci immergiamo nella sua storia, la
scopriremo piena di eventi paradossali.

Dicono che sia stato fondato nel secolo X , però fu abbatutto da una invasione barbara. La
prima attestazione documentaria arriva dal 1169. Poi, arrivò Costantino, figlio di Azz ed-Din della
famiglia turca dei Kutlumush, imparentata con i sultani selgiucidi di Konya. Dopo la morte della
madre Anna, che era cristiana, egli raggiunse Costantinopoli al tempo dell’imperatore Andronico II,
(1282-1328) e si fece cristiano ortodosso. In seguito si ritirò sull'Athos e ricostruì il monastero che
ne porta il nome.

La sua creazione fu distrutta, però, dai “latinofroni”, i soliti crociati, i franki, gli unionisti, i
catalani151 cattolici, chiamiamoli come ci pare: che probabilmente lasciarono tutto l’Athos in una
situazione lamentevole. (Solo così si spiega la ricostruzione generale dei monasteri da parte dei
Sovrani bizantini, serbi e bulgari, per tutto il ‘300, e poi dei sovrani romeni, dal’300 fino all’800,
con una stizza anti-latina ragionevolmente comprensibile).

È difficile giudicare in nero tutta la situazione. Il padre di Andronico II, Michele VIII, il
Paleologo, era morto nella fede romana, per cui la Chiesa greca gli aveva rifiutato qualunque
servizio funebre. Fu accusato di essere stato un persecutore dei monaci e rinnegato; fu sepolto da
scomunicato e profondamente disprezzato, avendo –tutti- dimenticato che si trattava dell’imperatore
che aveva ristabilito l’Impero bizantino, togliendolo dalle mani latine. Il colmo del suo destino fu
che anche il Papa lo scomunicò, per motivi molto più indegni che non quelle dei greci. È difficile
trovare nella Storia un Basileo scomunicato per innocenza, da due Capi di Chiese avversarie. Suo
151
La storia e le motivazioni dei catalani, distruttori dei monasteri dell’Athos le ricorderemo a proposito della storia del
monastero Vatopediou, v.
171

figlio, Andronico II, non volle rischiare la sorte del padre. Egli rinnegò l’unione con Roma,
pubblicamente, fece deporre il patriarca unito, Giovanni Bekkos, e dopo un tempo fece eleggere
come patriarca un monaco di fama santa, dell’Athos, Athanasio. L’Imperatore credeva che questa
insistenza sull’ortodossia antiromana avrebbe salvato l’Impero. Invece, i sinodali ed i prelati
influenti furono i primi ad aborrire il ”fanatico dell’Athos, che non sapeva altro che condannare il
loro lusso e le loro feste pompose”. Profittando della debolezza dell’Imperatore, obbligarono il
Sommo Prelato a ritornare nel suo Monte santo, (nell’estate del 1293) ed egli lo fece, davvero, dopo
aver scomunicato e gettato l’anatema su tutto e su tutti.
La stessa sorte, -quella di farsi monaco a forza-, toccò anche al gran logotheta-ministro di finanze- e
in seguito primo ministro di Andronico II, Teodoro il Metochita, (1270-1332). Pur se di umili
origini, fu un letterato colto e divenne ricco lucrando sugli incarichi pubblici. Tentò di farsi
perdonare da Dio, restaurando la magnifica chiesa di San Salvatore in Chora, di Giustiniano II (oggi
moschea e museo). Ma l’imperatore fu costretto ad esiliarlo, a causa dei furti e dei sorprusi
perpetrati, si pensava col suo avallo. Teodoro divenne monaco presso la sua stessa chiesa, dove un
mosaico incantevole lo raffigura nell’offrire l’edificio sacro al Signore. Morì in miseria: e questa è
l’azione più importante del suo destino mistico. E, forse, anche il fatto che gli storiografi posteriori
trovarono calunniose le accuse di corruzione contro di lui.
Ritornando però al padre di Andronico, l’Imperatore Michele, alcuni studiosi hanno
dimostrato che il racconto sulla durezza della persecuzione degli antiunionisti da parte sua è stato
esagerato. Che non ci fu una vera persecuzione dei monaci del monte Athos. 152 La conversione di
Michele all’unione con Roma fu sincera, ma non la impose più di tanto, anche perché le circostanze
vi furono tragiche.
Di Giovanni Bekkos, invece, dobbiamo dire che, da chartophylax, era anti-latino e per
nulla disposto a sostenere gli sforzi unionistici dell’Imperatore. A parte questa posizione, era il più
dotto teologo del suo tempo, usando la sua scienza per confondere i latini. Godeva anche di un
carattere integro, visto che ha avuto il coraggio di condannare la posizione allora vincente: l’essere
pro-latini. Cosicché, a sentire la cronaca, “poiché si era espresso in maniera troppo franca, fu
imprigionato”, accompagnato, per fortuna sua -ma questa era la bellezza dei tempi- da una piccola
biblioteca teologica, “per rivedere le proprie idee teologiche. “
Il fresco del carcere (o la Grazia di Dio?) lo convertirono davvero all’unione con Roma. In prigione,
Bekkos lesse anche le opere di un altro grande bizantino-pro-latino-, a lui contemporaneo, Niceforo
Vlemmydes, che lo convinsero a diventare il più abile e teologicamente più ferrato sostenitore

152
A riguardo vedi la bibl. in H. Jedin, Storia della Chiesa, Civitas medievale, vol V, 1, pag. 176, ed. Jacca Book, 1975.
172

dell’unione con Roma. Si deve proprio ai suoi scritti se d’allora in poi nella storia spirituale
bizantina è stato sempre presente un piccolo ma importante partito di latinophrones.
Non ci immaginiamo però che questa trasformazione -conversione fu imposta dalle circostanze.
Quando uscì di prigione, l’aria era cambiata; lo liberarono come eroe della resistenza anti-latina ed
invece si trovarono davanti a un uomo convinto fino al midollo dell’unione con Roma e della
veridicità della Chiesa Romana, Cattolica ed Ortodossa, Occidentale ed Orientale, insieme. I dolori
non vennero subito per lui. Dopo la firma dell’unione, nel Concilio di Lyone, (1274), ebbe ancora il
vento in poppa. Così, in maggio, 1275 Bekkos fu fatto Patriarca (unito) di Costantinopoli. Ma, come
sappiamo, anche a Roma l’aria era cambiata. Il Papa successivo ed i cardinali, ignari e distanti dalla
realtà, fecero di tutto per indebolire i greci-cristiani- uniti o non uniti- e dar tempo ai musulmani di
rinforzarsi. Tutto questo, solo perché i cristiani orientali non erano di loro gusto: non si radevano la
barba, continuavano a cantare Alleluia in Quaresima, non schiacciavano il pane eucaristico a mo’ di
azzimo e non amavano (più) le statue dei Santi. Per questi imperdonabili crimini andavano almeno
isolati. (Se vi immaginate che i latini volevano davvero difendere la Vera Fede, vi illudete
colpevolmente. L’Occidente faceva già d’allora la prova generale della stolta tolleranza sprecata nel
XX-esimo secolo, nei confronti del Comunismo e dell’Islam). Ad ogni modo, Giovanni Bekkos non
godette di giorni sereni e finì perseguitato amaramente. Questa è la prova principale che, se fosse
stato un calcolatore, se la sua conversione fosse stata di circostanza, o per i rigori della prigione,
avrebbe rinnegato tutto e l’inverso di tutto e sarebbe ritornato all’ovile, per godersi i privilegi
perduti. Ma non lo fece mai, dando eterno esempio, non solo di sapienza teologica, ma soprattutto
di dignità e di integrità di carattere.

È chiaro che la sua conversione è stata sincera, vista la passionalità dei suoi scritti e della sua
vita pro-romana, ma soprattutto la sua grande preparazione teologica, patristica, filosofica e storica.
La quale è di per sé un mezzo infallibile per riconoscere la veridicità della Dottrina cattolica e la sua
non contraddizione con la Sacra Bibbia e con la teologia dei Padri e dei Concili orientali, ortodossi
e cattolici insieme. Questo non vuol dire che la teologia latina non è sempre stata piena di gravi
difetti, che un “convertito” vede per primo. Paragonandone i difetti e studiando attentamente i Padri
orientali, reputati come ortodossi, arrivi senza esitazione alla Fede… cattolica. La quale fu anche la
mia esperienza, reputandomi io un sottile conoscitore dei segreti teologici delle due parti della
Chiesa. Esserlo è lo stato autentico e vero che ti fa comprendere l’anima di un Bekkos et &. E di
non voler ricompense da nessuna parte.

Per disgrazia, gli ultimi anni del secolo XIII furono testimoni di guerre e lotte, sia fra i
genovesi ed i veneziani, dentro le mura della stessa Costantinopoli, che fra i greci, unionisti e
antilatini, dentro e fuori. Nel mentre, il potere del Turco cresceva, facendosi beffe dei litigi continui
173

fra i cristiani. Non ci si stupisce, se il Santo Monte, stesso, fu immerso in tante bufere. Anzi, ne fu
protagonista, visto che aiutò il nuovo Basileo, Andronico II, ad esautorare la Chiesa dall’unionismo.
Cominciò la persecuzione contro i “latinofroni”. Bekkos fu rovesciato, messo sotto processo e
scomunicato, insieme con tutti gli unionisti, prelati, clero e laici. Il vecchio patriarca, Iosif, fu
rimesso sul trono ed il successore, Gregorio di Cipro lo quasi beatificò, come “difensore della
Fede”. I monaci dell’Athos richiedevano ortodossia e moralità sul trono e nelle periferie della
Chiesa. Ma da stranissimi ignari, non si accorgevano che, per riformare i costumi, non avevano
scelto i migliori personaggi. Il protettore di Kutlumus, Andronico II, fu tolto di mezzo ( in modo
del tutto burrascoso) dal suo nipotino, diventato Andronico III, durante una cena elegante nel
palazzo imperiale. Era il 23 maggio, 1328. Immediatamente fu inviato sotto scorta in un monastero,
mentre un’altra scorta, suggestivamente allegra, riportava sul trono patriarcale il brioso patriarca
Isaia, circondato da una truppa di musicisti, danzatrici e commedianti. I quali si dice che lo fecero
ridere a tal punto da farlo cadere dal cavallo. Andronico III, ( sposato con Anna di Savoia, figlia di
Amedeo V) fu pro-latino e le sue scelte, nella vita pubblica e privata, furono imbarazzanti per
Roma. Ma i tempi permettevano il rovesciamento delle parti a brevissima distanza. Costantinopoli
fu unionista ed antiunionista, palamitica e antipalamitica in ben pochi anni. Ed anche altro. Tutto a
danno della Fede ed anche della libertà, che soccombeva davanti ai turchi invasori.

L’Athos, invece, ebbe un merito, uno grande: non cambiò mai la posizione. Fu,
teologicamente, sempre anti-latino e, in genere, palamitico. Nelle forme, si capisce, perché, troppe
volte, i monaci non sapevano e non sanno neppure oggi, di essere più cattolici dei romani.

ARRIVANO I ROMENI

Dal XIVesimo al XVIIesimo secolo, Kutlumus fu abitato da molti monaci romeni che
affiancarono i greci, i quali godettero insieme dei benefici dei Sovrani romeni, moldavi e
valacchi153. Del resto, fu il monastero Kutlumus ad inaugurare le relazioni fra i Domni ed il Monte
Athos, nel 1350, con il giovane Domn Basarab I. Codesto lo avrebbe fatto prima, però, non poteva
occuparsi dell’Athos, senza essersi preliminariamente sbarazzato dagli ungheresi, vincendo
l’esercito del re d’Ungheria, (: che, in fondo, come quasi tutti i re di quella nazione era un non
ungherese, Carlo Roberto d’Angiò) gettandogli in testa pietre, sassi e massi nelle gole di Possada,
(9-12 novembre, 1330).

Il successore, Nicolae Alexandru, (1352-64), continua con le beneficenze, tanto da


considerarsene “proprietario e fondatore”, trasformando Kutlumus in un monastero ricco e fiorente,
fra i più potenti dell’Athos. Non senza legame con l’invito nel paese del primo Metropolita della
Valacchia, Iacinto da Vicina.
153
In romeno: moldoveni e munteni.
174

Suo figlio, Vlaicu Vodà, (16 nov.1364-1377 circa), quello del dramma controversato,
continuò l’opera del padre, trasformando il complesso in una vera “lavra della Terra romena”. Qui
si formò Chariton, (il secondo metropolita dell’Ungrovlacchia, nel 1372).

Ehi, sì. Si formò lui e poi riformò il monastero che lo aveva formato. Perché Chariton, verso
la vecchiaia, agli inizi del’400, per quanto fosse stato debole come giovane metropolita, per tanto
diventò forte come vecchio egumeno. Beninteso, fortificato, come lo è stato, dal denaro e dagli
oggetti preziosi regalatigli dai Domni romeni. I quali, in cambio, chiesero ai Padri che Kutlumus
diventasse convento romeno. Non ne furono accontentati, ma i romeni vi arrivarono in gran
numero, per mettere i loro destini nelle mani di Chariton, un uomo che aveva capito anche troppo il
loro carattere. E quale mai ne sarà stato? Veramente, quello di tutti i tempi: libero, anarchico, non
lontano da quello dei vecchi greci. E, siccome aveva trovato a Kutlumus la regola cenobitica, di vita
comunitaria, Chariton gli fece cambiare la regola in idioritmica154; Si illudeva ancora che per il
romeno, ci poteva essere una regola che tenesse. Se mi fossi mai fatto monaco non avrei sopportato
un'altra regola, se non quella idioritmica. Ed anche quella, a modo mio. E, siccome l’Occidente non
conosce il privilegio dell’idioritmia, eccomi, sono monaco per conto mio. A proposito: nel 1856, i
greci fecero ritornare il Kutlumus al cenobitico ed oggi, (1977) hanno appena 16 monaci. Nel 2000,
ne saranno stati cento.

ALTRI MONACI, ALTRI SOVRANI

I Padri di Kutlumusiou ci ricevono con tutta la naturalezza devota che li caratterizza. Il


primo gesto, appena arrivati nei monasteri, è offrire lukumi ed un altro dolce, acqua e poi caffè. In
seguito, il resto: cena, letti, qualche volta, stanza separata, tocco di simandra155 e campane per la
liturgia. E, sorpresa: era qui, di casa, Maximos, il monaco che aveva studiato in Italia e che
volevamo evitare. Ma facciamo buon viso a cattivo gioco, non parlando delle nostre scelte: per lui,
come per tutti, noi, -da romeni-, siamo ortodossi, senza commenti. Così abbiamo le porte aperte,
chiuse ai profani, e possiamo godere dei vespri, della veglia e delle ricchezze artistiche, senza le
cenzure riservate ai “nemici”.

Fra Maximos pensò di farci piacere, pronunciando il nome di San Nicodim, conosciuto in
Romania come “di Tismana”, il primo ed il più importante monaco dei Paesi Romeni ortodossi.
Non solo piacere, ma anche dolce sorpresa. Tismana si trova nella mia Oltenia ed il nome di
Nicodim, monaco dell’Athos, alzava ancora una volta un ponte fra la terra che visitavo e la Patria

154
Vedi la spiegazione delle due regole più sopra.
155
?
In romeno, toaca: oggetto sacro di legno o di ferro, battuto in modo ritmico, dai monaci, prima o insieme con le
campane, preannuncianti i sacri momenti della preghiera.
175

perduta, forse, per sempre. Che scuola, che faro è l’esilio! Come ti fa sentire e provare legami che
mai avresti immaginato di apprezzare!

Nicodim era di Prilep- Serbia ed arrivò a Kutlumus dopo la partenza di Chariton. Sua madre
era serba, ma il padre era vlacco di Kastoria. Sentento la vocazione monastica, partì per l’Athos,
dove, dopo anni di studio e penitenze, ( noviziato e professione a Hilandariou) diventò superiore di
Kutlumus.

Due opere grandiose gli riuscirono a livello internazionale: riconciliò la neo- Patriarchia
serba con quella di Costantinopoli, andando nella Capitale a nome del Prothos di tutto l’Athos,
Theofanos, inviato dallo Cneaz Lazzaro; ed in seguito, emigrando nell’Oltenia romena, fece
costruire nella “Terra romena” i magnifici conventi, i primi, della Vecchia Romania: Voditza e poi
Tismana. Divenne così il fondatore della vita monastica ortodossa organizzata in Romania, a secoli
dopo quella cattolico-latina, che non attirò i romeni. Morì nel 1406-7. Il suo corpo, per misteriosa
coincidenza, rimase segreto.

I romeni lo glorificano come isicasta asceta e mistico. Sarà vero. Le incomprensibili


antinomie di Palamas le avrà accettate, come sottomissione alla Chiesa. Ad ogni modo, abbandonò
l’Athos, andò in quelle lontane terre, legò amicizia col Sovrano romeno, Vladislav e cominciò le
costruzioni e le fondazioni, (Voditza, Tismana, ecc.). I documenti fondatori di questi conventi
descrivono la ricchezza del Sovrano, del paese e dei suoi abitanti, l’opulenza dei pranzi e del lavoro
artigiano di un popolo ancora libero, che in seguito fu sempre più umiliato. Inoltre, i legami di
sangue e di simpatia con i Reali serbi fruttò a Tismana ben 10 villaggi serbi. Erano i tempi del vento
in poppa. A Ponoare però, a Nicodim non gli andò per il meglio: gli abitanti non lo lasciarono
alzare un nuovo monastero nel loro villaggio, per timore che il Sovrano avrebbe donato ai frati il
villaggio con tutti i loro beni- era un abitudine dei potenti che cessò appena nel 1864-. Perciò
passarono all’attacco: lo accusarono di furto, nascondendogli un tacchino nella bisaccia. Così
ebbero il pretesto di cacciarlo via. Dicesi che il buon Nicodim li avrebbe maledetto, che non si
nutrissero più del lavoro dell’aratro, ma che vivessero della fabbricazione di zampogne…
Suggestivo, non è vero? Solo un Santo musicista poteva inventarsi una simile maledizione.

Ed ora, un tema che abbiamo già toccato: il fatto che la sua partenza dall’Athos precede
altre partenze illustri, lungo i secoli, creando il precedente di lasciare dietro il Giardino della
Madonna ed andare altrove, magari il più lontano possibile, per ricostruirsi un Athos proprio. Ne
sarà un gesto fortunato per gli altri luoghi, ma una domanda, se non due, si impone: non c’è nulla di
bIassimevole, in questo Athos, incapace di tenersi coloro che fuori di esso diventano Padri di
popoli? O è meglio chiedersi se non ci sia nulla di sospetto in questi fuggiaschi, incapaci di
176

sopportare l’anonimato e le prove, giuste o ingiuste, di quel Monte che amano da lontano e vogliono
ricostruirlo sotto la loro guida, nelle provincie marginali della Fede? È una semplice domanda.
Soprattutto perché abbiamo anche il contrario: Dapontès racconta del monaco Fozio, un vero santo
in vita, che nel 1700 viveva sotto il cielo aperto, senza cella, in una semplice cavità nel tronco di un
piopo, sulla strada per Iviron. Cadendo l’albero, lui si è spostato in una ripa vicina, dove è morto a
più di 80 anni, ed è stato sepolto nel cimitero di Kutlumus. Scolpiva cucchiai di legno, non
eccessivamente elaborati, ma lui diceva che in molti casi erano miracolosi. Altrimenti portava legna
ai monasteri, predicava, evitava gli altri ed anche la Liturghia. Profetizzava però: che un giorno
sarebbero arrivati i russi, i francesi, gli algerini; e si lamentava di come si sarebbero comportati i
frati in simili circostanze. Dapontés nota con stupore questi dettagli, nel’700; ma ora, quando
sappiamo che tutto questo si è realizzato nell’800 e durante le due guerre mondiali, come non
possiamo ammirare anche noi il folle per Cristo, fra Fozio? Il quale non volle costruire un altro
Athos.

Più vicino a noi, è vissuto il monaco, in seguito canonizzato, Paisio l’Aghiorita, (1924-94),
di Panaguda, cella di Kutlumus; il quale, chiamato a confessare le suore di un monastero, a Suroti,
in Grecia e sentendo l’avvicinarsi della morte, volle ad ogni costo ritornare per morire in Athos. Ma
ogni volta che gli programmavano il ritorno succedeva un fatto: o una tempesta, o un guasto della
nave, cosicché il vecchio comprese che era Dio Stesso che non voleva il suo ritorno. E, rassegnato,
morì nelle braccia del convento di suore dove ancora le sue relique sono venerate con devozione.
Venerate accanto a un Icona di Gesù, dipinta dalle suore, in seguito a una visione raccontata loro
dal Vecchio, il 26 maggio, 1977. Un icona bizantina del Signore, con faccia assai italiana, essendo
Gesù assai ecumenico in materia di Immagine. Paisio lasciò epistole, pubblicate dalle suore e
tradotte dai Padri di Lakou a mo’ di trattato di teologia pastorale e ascetica 156. Il libro ha il merito di
manifestare una teologia-frutto delle fatiche ascetiche e non di ricerche dotte e sterili, scritte o
parlate in punta di forchetta.

Dopo la partenza di Nicodim, Kutlumus rimase per un tempo nelle mani dei romeni. Radu
il Grande, (1497-1507) ne cominciò la ricostruzione in stile grandioso, aiutato anche da Stefan il
Grande; ma solo Neagoe Basarab portò a termine il lavoro: aggiunse la bellissima chiesa di San
Nicola, la trapesi, la grande cantina, la bolnitza,157 la mensa per gli ospiti, la clausura d’intorno, il
giardino…..fece erigere il porto Ascalon, con torri di guardia poderosi… adornando tutto questo con
preziosissime icone in argento dorato, che avranno lasciato i depredatori senza fiato.

156
P.A., Epistole, ed. Skit Lacu, M. Athos, 2000.
157
Cappella per i malati, ( term.slavo).
177

Appunto. I Sovrani romeni erano lontani. Potevano mandare carri di aiuti e maestri, ma non
eserciti per difendere i conventi dai saccheggiatori; tanto meno potevano inventarsi corpi di guardia
che fronteggiassero le passioni scatenate dei propri connazionali. Le cronache raccontano che in
questo periodo “i romeni furono emarginati e il convento si trasformò in una fondazione bulgara,
dal 1475 al 1541”.

Si fa per dire, bulgara. I superiori sì, erano bulgari, ma i frati erano romeni, confusi perché
cantavano in slavo, come tutti i romeni dell’epoca, senza capire nulla. Barbugliavano, facevano il
verso, semplicemente. E, sia per spirito di- vino, che per rabbia, diedero filo da torcere ai superiori
bulgari, tanto da portarli alla disperazione. Le lamentele arrivarono fino al Patriarca Eremia, che nel
1541, in varie lettere circolari, gli accusò di ubriachezza, indifferenza ed altri peccati imperdonabili.
Però li battezzò bulgari. I bulgari veri ne pagarono le polizze ed il monastero fu dato ai greci, non
senza aiuto ottomano. Oggi è un monastero greco, anche se tutto ciò che si vede e soprattutto non si
vede, fra mura, oggetti, pitture, beni, argenteria, tesoro, sono sgorgate dalle braccia dei sovrani e dei
nobili romeni, compromessi anch’essi dal comportamento dei connazionali monaci, presi per…
bulgari.

I COSTUMI DEVOTI DEI SOVRANI ROMENI

Certamente, coi romeni succedono cose curiose. Non è un’impressione, questa; sono i fatti
che parlano:

Nel 1532, Vlad Vintilà Voevod di Slatina, (cioè Sarata-Buzàu), ( 1532-35) con la moglie, Donna
Rada, regalano dei drappi preziosissimi di seta ricamate in oro, per l’iconostasi. Sono dei veri
vessilli in onore della Trasfigurazione di Gesù e dell’Assunzione della Madonna. I sovrani appaiono
in vesti lussuosissimi: porpora, oro, diamanti, rubini, gusto ineccepibile. Raggi d’oro sgorgano dalle
loro favolose corone, mentre stanno in ginocchio, piegati sotto i raggi divini. Saranno, questi
addobbi ingioielliti, mostri di riscatto per le innumerevoli violenze perpetrate dal sovrano contro i
nobili sospettati di tradimento? Avrà voluto rimpiazzare con diamanti, in cielo, le teste dei nobili
tagliate e buttate nella spazzatura? O quelle dei 75, altri nobili, a cui furono tagliate labbra e naso? E
degli altri desaparecidos, giustiziati dopo raffinate torture? Giustificava la sua violenza con la
necessità di salvare il Paese e la libertà precaria di fronte al turco. Sapeva poi che i suoi avversari o
amici facevano a gara con lui in questo amabile sport. I nobili ungheresi, arrestando un loro
oppositore, uomo venduto ai turchi, l’italiano Aloisio Gritti158, gli fecero tagliare: la mattina, le
158
Aloisio Gritti era veneziano, figlio illegittimo dell’ambasciatore a Costantinopoli- diventato poi il Doge Andrea
Gritti-. Campione di corruzione, conosciuto per questa qualità alle corti di Istambul, Moldavia,Valacchia e Ungheria,
finì miseramente, nessuno volendo accettare il ricchissimo riscatto che offriva in cambio della vita. Il carrettiere, l’unico
che accettò di essergli boia, richiese in cambio gli stivali di Gritti; ne indovinò bene, perché negli stivali, il disgraziato
aveva nascoste una gran quantità di diamanti e perle che sperava di salvare. Gli ungheresi fecero regalo la testa del
veneziano al sovrano romeno Petru Rares, ( vedi avanti nel testo), insieme con i suoi due figli, vivi; che Rares fece
178

mani, a pranzo le gambe e la sera, la testa. ( Il giorno : 28 settembre, 1534). È vero, che, da buoni
cristiani, gli permisero la Divina Comunione. E, come ringraziamento a Dio, per simili buone opere,
avranno mandato alla Chiesa qualche drappo dorato. Così, il nostro Vintilà: mentre si sposava due
volte, in chiesa, da divorziato, perseguiva con tenacia tutti i possibili concorrenti al trono, tagliando
a destra e manca tutte le teste e le lingue disponibili. Nello stesso tempo, pregava Dio con ardore e
devozione, che lo aiutasse nella sua politica perfettamente doppia, di segreta, ma vera amicizia per
le nazioni cristiane e pubblica, ma falsa amicizia nei riguardi dell’invasore turco. Sotto il suo regno
sì confermò il controllo della Patriarchia di Costantinopoli sulla Chiesa Ortodossa romena,
indebolita dal Concilio di Ferrara-Firenze, dove i Prelati romeni avevano firmato, senza mai più
rinnegarla, l’unione con Roma.Vintilà ne fu ricompensato con tradimento da parte dei cristiani e
punizione da parte del musulmano, salvandosi più volte, nell’ultimo momento. Cioè, il penultimo,
perché alla fine fu ucciso nella notte di 10 giugno, 1534, a Craiova, nella foresta di Leamna-
Bucovàtz, dai suoi compagni di prodezze, (non dai turchi). Anche in quel giorno si era
programmato di tagliare a pezzi, (ad litteram) suo cognato ed altri nobili, attirati ad una caccia
innocente. Costoro, però, indovinandone il bel pensiero, gli tirarono un laccio e lo strozzarono. Lo
seppellirono, poi, con tutti gli onori nella sua fondazione, il monastero di Menedic-Buzàu, vicino
alla moglie, Donna Rada. Restano i drappi sacri a rendergli giustizia; e migliaia di doni e voti in
tutti i monasteri dell’Athos ed in decine di chiese e monasteri costruiti o restaurati in Romania da
questo straordinario poveraccio; spicca fra essi lo skit dell’Arcangelo, nella mia città natale,
Rìmnic.A proposito dei drappi: il drappo- bandiera di Vlad Vintilà, con Gesù in cima all’albero
della vita ed i sovrani in ginocchio, tutto cucito in oro e pietre, è il primo vessillo romeno che si è
conservato, per la gioia e l’orgoglio della tribolata nazione.

Se vogliamo altre prove di devozione, per non dire di … forza, dei sovrani romeni di quell’epoca,
basta ricordarci di quel prelato etiopico, copto, fra Matteo l’Andriota, che demissionando dal
rango di vescovo copto, venne a Kutlumus per…. riposare. Aveva una faccia devota e un desiderio
sincero di diventare ortodosso. Non voglio essere maligno, ma, forse, la sua tempra non era fatta per
il riposo in Athos, parola che per gli uomini pubblici si traduce col rientro insopportabile
nell’anonimato. Cosìcché pensò di raggiungere Bucarest, dove cadde simpatico al sovrano, romeno-
fanariota, Constantin Vodà Mavrocordat. Il quale, consigliato dal cronista che ha notato questi
fatti159, lo scelse come padre spirituale, (pur se, Sua Maestà leggeva con passione Voltaire et &). Il

uccidere, l’uno annegato, l’altro decapitato. Erano informati, tutti,( ma sarà stato vero?) che l’ambizioso italiano voleva
diventare Domn in Transilvania e, unificando tutti i Paesi Romeni in una Grande Romania, l’avrebbe governata lui
stesso da pascià, sottomesso ai turchi. Voleva mandare, come primo passo, i suoi due figli come Domni nei Paesi
Romeni. Più tardi, Rares arrestò anche il capo degli ungheresi e lo mandò regalo al Sultano.(v. Xenopol, Istoria, vol IV,
pag.240, (rom.) con vecchia bibl. latina, ungherese e tedesca).
159
Cesare Const. Dapontès, ( lo abbiamo già incontrato), Catalogul istoric al oamenilor sec. XVIII, testo greco e
romeno, pubbl. in “Cronicarii greci”, da C. Erbiceanu, Bucarest, 1890, pag.101.
179

Copto fu davvero bravo, se il Domn si decise di raccomandarlo fortemente presso l’Alta Porta, per
farlo promuovere a Patriarca Ecumenico (1749). Insomma, la storia finisce bene ed il nuovo
Patriarca tentò perfino di riconvertire all’Ortodossia il suo paese, l’Etiopia. Non ci riuscì, ma rimase
in sella per molti anni: prova che il riposo a Kutlumus, e soprattutto a Bucarest gli è giovato assai.

VISITIAMO IL MONASTERO DI KUTLUMUS

Entrare nel katholikon160 è stato come varcare la soglia di qualunque santuario della mia
infanzia. Non ha importanza se, dall’esterno, la sobrietà sino alla povertà dello stile greco ti tiene a
distanza; dentro, la brillante illustrazione in affresco del 1540, di scuola cretese, ridipinta nel XIX-
esimo, l’iconostasi in oro del 1800, lignea ed intagliata, il magnifico policandro adornato con
decine di candele di pura cera, gli affreschi votivi romeni, dei boieri e dei pittori, ti inondano, ti
estasiano, ti soverchiano, ti senti felicemente devastato. Veramente, questa è la sensazione
paradisiaca che provi in quasi tutti i santuari della Montagna. Ma le prime volte rimangono
indimenticabili.

In qualche angolo si conservano, qui, affreschi incredibilmente belli di un certo


Theophanos, del secolo 15, anche se la chiesa fu ricostruita insieme ai palazzi circondanti nel
1540-45, dal sovrano romeno Petru Rares, dopo che un incendio, nel 1497, aveva quasi
interamente distrutto il monastero. Il tremendo Alexandru Làpusneanu fece costruire la bolnitza,
(la chiesa con l’ospedale) e la trapesi. L'ultima ricostruzione risale al XVIII secolo, dopo l'incendio
del 1767, quando il monastero fu salvato dall’ex patriarca di Alessandria, Matteo III, che vi si
ritirò, vivendo come un monaco. Egli fece ricostruire il refettorio, abbellendo anche il katholikon.

Nel 1856 il complesso arse di nuovo, in gran parte. Non so come è rimasto ciò che è rimasto,
perché, anche privato dalle molte ricchezze artistiche arse, continua ad essere favoloso. Il pronaos161
con due torri interne, che da fuori si vedono un po’ basse, può sembrare sproporzionato. Ma se
guardi bene, alla fine, la perfetta proporzine degli edifici appare chiara e consolante.

Adorabile il paradiso, dipinto sui muri principali, custodito da un cherubino. Le scene


apocalittiche (le quali sovrabbondano in tutti i monasteri), rivelano la profonda fede (giustissima)
nella profezia biblica e nel futuro grandioso che ci aspetta, nel quale i veri fedeli saranno salvati
dagli orrori.Il pronaos è adornato delle scene dei tormenti dei martiri e dedicate a Maria Santissima
ed a San Giovanni l’Evangelista.

160
Così chiameremo tutte le chiese principali dei monasteri.
161
La chiesa bizantina classica, in forma di Croce, è divisa in veranda esterna, pronaos-il primo braccio della croce dopo
l’ingresso, il naos- la parte centrale con il braccio N-S della croce, sovrastata dalla grande cupola con il Pantokrator e
l’altare, il braccio orientale della croce.
180

Insomma, una meravigliosa chiesa che, all’interno, rivela uno stile quasi romeno.
L’Assunzione di Maria Vergine in Cielo è dipinta secondo la regola classica, e non come a Pendele,
senza “cielo”. Certo, in quel centro ufficiale della Chiesa Ortodossa, vicino ad Atene, la pittura,
tutta nuova, è in tono con la nuova teologia ortodossa dove la Beata Vergine non è più assunta in
cielo, dove San Pietro ha perso le chiavi, ecc.ecc., tutto, per decreto recentissimo del Santo Sinodo.

Vogliamo entrare nella biblioteca? È una meraviglia: piazzata presso lo “skevafilakion”,


contiene oltre 3500 libri stampati e 662 manoscritti. I ricercatori, nel passato, avevano contato a
Kutlumus 1000 hrisoave imperiali, documenti e lettere antiche. Restano 6 manoscritti rari, donati
dai romeni.
La biblioteca, da sola, può offrire un alta atmosfera di spiritualità e devozione. Qui si
radunnarono gli oppositori dei kollyvades (v.) nel 1774, sotto la responsabilità del ex-patriarca
ecumenico, Cirillo V, di Matteo di Alessandria ed altri otto vescovi, tutti esiliati sull’Athos. Due
cento egumeni e monaci si disputarono le loro ragioni, invano. I kollyvades, sicuri della condanna
da parte di coloro che consideravano traditori della vera tradizione, (e, come sappiamo, un po’ ne
avevano ragione), si alzarono ed andarono via. Alcuni dicono che non furono neppure presenti,
perché si erano riuniti per conto loro nella cella di Partenio degli Skurtei, dove Athanasio di Paros
redattò una Confessione di fede. Inutile, perché furono sanzionati più tardi, scomunicati, insultati,
picchiati anche. Come vediamo, i libri non ispirano, sempre, gesti di urbanità. Anzi, i kollyvades si
sentirono carezzati da vezzeggiativi come questi:
-Ciarlatani, corruttori, empi, simulatori della devozione, vasi putridi di satana, sprezzanti,
menti luciferiche, kakodossi, apostati, ribelli, bestemmiatori,ecc….

Ci fermiamo a un Vangelo greco del secolo XII, adornato da miniature straordinarie, a molti
colori, in piena pagina e lettere in oro, scritto su pergamena. È appartenuto alla Doamna romena,
Elisabetta Movilà della Moldavia, che lo ha legato in argento, oro, pietre, con bordi d’oro, e lo ha
regalato il 5 luglio del 1605. Ti si riempiono gli occhi di lacrime ammirandone tanta bellezza. E
calcoli se Madame Movilà ha capito davvero cosa ha avuto per le mani. O, forse perché l’avrà ben
capito, lo ha regalato al monastero, per purificare l’inimicizia di suo marito, il Domn Ieremia
Movilà, nei confronti del grande crociato, sovrano e confratello, Michele il Bravo (Mihai), ucciso
anche lui da buoni cristiani cattolici, apostolici e romani 162. Beh, se vogliamo essere giusti, anche
Ieremia fu generoso con l’Athos. Le cronache lo descrivono come “mite, blando e devoto; non

162
Si tratta dell’uomo dell’Imperatore d’Austria, generale Basta, che fece uccidere Michele –Mihai- per tradimento,

(1601).
181

uccide, non espropria le bestie e gli averi senza legge”. La gente lo amava. Noi, oggi, lo
giudichiamo col senno del poi; ed il giudizio è negativo: occupò il trono con l’aiuto dei polacchi,
facendo guerra al vecchio Domn, Stefan-Ràzvan ( lo tzigano), eroe di guerra contro i turchi ed
alleato di Michele: lo prese e lo fece impalare, (dicembre, 1595).
Povera Donna Elisabetta! La sua grandezza, ma anche la sua tragedia fu cantata dai poeti,
secoli più tardi. Questo per capire che non ti puoi salvare con un ex-voto, semplicemente. Da
gloriosa sovrana, che regnava sul marito come sui figli e nipoti, -concorrendo le sue coeve, Madame
Chiajna, ma soprattutto Caterina de Medicis, si firmava “ Per Grazia di Dio, Padrona e Sovrana
del Paese Moldavo”; ma, perse le battaglie contro i turchi, si vide strascinare nella capitale in catene
e poi dentro una gabbia di fronte ai nobili spaventati e traditori.
No. Non potè sopportare tanta inezia e, dal di dentro della gabbia portata da due asini,
menati da un cocchiere turco, urlò alle loro signorie che la guardavano muti di terrore:
-I pagani hanno colpito, nel mio onore, quello della Patria. Vi maledico ad essere umiliati
nella vostra stirpe per sempre! Che le vostre mamme finiscano kadìne e schiave, peggio di me!
Ma, dice il poeta, i nobili tremavano come ignobili, erano e sono rimasti fin’oggi, sotto tutti
i regimi, semplici torme di schiavi.
I turchi la buttarono in uno harem a Stambul, non prima che la poveretta lasciasse le sue
trecce castanee al monastero di Sucevitza, fondazione della famiglia. Ohi, ohi!
Non auguro a nessuno il dominio musulmano o comunista. Questo ne è il mio commento.

Intanto Michele il Bravo (Mihai), accanto a Neagoe, Radu, Vintilà, Serban, è di casa a
Kutlumus, come in tutta la Sacra Montagna, più piena di ricchezze romene che la Romania stessa.
Offrì interi villaggi come omaggio al bel monastero, come più tardi, Matei Basarab, Vasile Lupu ed
altri.
L’avranno presentita, i Domni romeni, l’orgia comunista, che sarebbe arrivata sui loro paesi,
secoli dopo? Non per nulla hanno riempito la Sacra Montagna di tesori. Qui se ne sono conservati
meglio, mentre in Patria sono stati trafugati dagli invasori.
A un esule romeno fa comodo che i Sovrani romeni avessero costruito una specie di
Romania bizantina al Monte Athos. Offrendo, però, ai Luoghi Santi, le cose migliori, diedero
sbocco agli speculatori greci, più che ai religiosi. Fu Neagoe, per eccesso di zelo, a dare inizio
all’opera di sottomissione dei monasteri romeni-con le loro vastissime proprietà terriere- ai Luoghi
Santi. Alexandru il Coconul ( 1623-7) offrì a Kutlumus la sua fondazione di Clocociov, seguito da
una lunga schiera di Sovrani. Così, alla spogliazione turca dei contadini romeni, si aggiunse per
interi secoli la spogliazione da parte dei monaci e degli speculatori greci. Con l’avallo diretto dei
182

nobili romeni. Puzzava di superstizione, tutto questo, e neppure oggi non ne siamo esenti: i nostri
vecchi pensavano che i greci coi loro luoghi santi fossero più santi dei connazionali, e la
sottomissione a loro di un convento patrio avrebbe aggiunto qualche tonellata di santità alla terra
romena. Questa mistica idea si incolla oggi a meraviglia alla superstiziosa filosofia delle Icone,
secondo la quale solo l’Icona bizantina è “santa”, e “miracolosa”. Quella romanica o barocca,
“cattolica”, insomma, è un semplice quadro. La beffa è che molti cattolici prendono sul serio questa
balordaggine, mentre le chiese ortodosse, vecchie e nuove sono strapiene di icone “cattoliche”.
A proposito: baciamo un’icona, ( bizantina, si capisce, cioè neo-bizantina, copia esilarante),
donata nel 1972 da una famiglia romena.

UN PRIMO CONFRONTO CON I TALEBANI

Prima di andare a dormire, faciamo il solito giro degli edifici. Constatiamo che, a causa degli
incendi, molte costruzioni rifatte nel 1780-1897 portano il segno dell’improvvisato. Peccato! Forse
lo skit di San Panteleimon (da non confondersi col monastero russo) si sarà conservato meglio.
Intanto andiamo a cena, dove incontriamo di nuovo Fra Maximos –“l’italiano”- contento di
continuare gli omaggi rivolti ai romeni, in certissima funzione anti-romana. Omaggi che, proprio
per questo, li riceviamo con certa ansia.
Il giovane talebano ci descrive la vita semplice dei monaci, ma soprattutto la sua felicità di
aver carpito l’abisso della grande eresia cattolica, del (solito) Occidente putrido, delle tentazioni
perverse della società occidentale, ecc. ecc.. di cui, il principale responsabile è sempre il Papa, con
il suo luciferico appetito di dominio.
Gli chiedo dove ha studiato a Roma. Constato con stupore che ha conseguito i diplomi del
Pontificium Institutum Orientale, negli stessi anni nostri, con gli stessi nostri professori, i dottissimi
eruditi, Michele Lacko, Rezaç, Déjaivfe, Schultze, Matheos, Thomas Spidlik163. Con la differenza
che questi savants, ci hanno confermato nella Fede cattolica e romana, mentre in lui…..:
-Proprio lì, con loro, ho capito, ancora meglio, che la Chiesa Ortodossa è la vera Chiesa.
E… daje, ancora con gli italiani, che, proprio perché cattolici, non sono altro che una
combutta di imbroglioni.
Io non aprì bocca, non strepitai, tacqui liquefatto. Cosa dovevo dire ? Timeo danaos et dona
ferentes? Sorrisi, falsamente compiaciuto. E così pregammo e dormimmo… tranquilli.
Ma la mattina, prima di salutarlo, sentì il vermicciuolo del dovere apostolico passeggiare
nelle mie viscere, perciò lo attaccai con tutta la (inutile) precauzione possibile:

163
Creato Cardinale nel 2000, oggi ancora vivente, (2006).
183

-Bene, fra Maximos, ma in Oriente abbiamo un materialismo peggiore, i prelati non danno
grande prova di distacco dalle ricchezze, mentre la teologia usa tutti i mezzi occidentali per mettersi
in mostra.
Non l’avessi mai detto! Mi ripose sempre più piccato, stizzito, risentito e minaccioso:
-“È un dovere per l’ortodosso, usare tutti i mezzi moderni, anche se inventati dai nemici; ma
l’orgoglio del papa è peggiore di qualunque brama di ricchezze; la teologia ortodossa è la tradizione
personificata dei Padri, che il cattolico non capirà mai, se non si converte all’ortodossia”.
-Bene, ma la sua ammirazione per i professori dell’Orientale, tutti cattolici, come la
mettiamo? Non sarebbe meglio che anche lui, Maximos, fosse più tollerante con gli “italiani”,
esattamente come i professori a Roma sono aperti verso l’Ortodossia? Proprio lui, che ha studiato a
Roma….
Maximos passò all’attacco:
“Voi, romeni, siete più tentati degli altri a dar retta ai romani. Sarebbe meglio per voi
lasciare l’Italia, altrimenti finirete nelle grinfie del Papa. Il vostro pellegrinaggio all’Athos dovrebbe
rinfrescarvi la fede, prima di perderla, attenzione”! Ecc.ecc….

Non riuscì a replicare, rimasi confuso davanti a lui, come un cane battuto, soprattutto perché
non era più lui, il fronte della mia battaglia, bensì i miei confratelli, Gigi e Sergiu. Irritati al
massimo per il mio improvviso insulso missionario, neri in volto, si erano messi a correre con tutti
quegli zaini addosso, per sfuggire alla vista del greco fanatico che aveva loro guastato la giornata.
Ma il vero guastafeste, secondo loro, ero io, che sapevo, che avevo giurato di non attaccare brighe e
discussioni teologiche, ecc. ecc… Inutile tentare di spiegare loro che era dovere di coscienza
snervare il fanatismo di un uomo di Dio, in fondo intelligente…. Il quale, chi sa, un giorno, a causa
delle mie allusioni, si sarebbe ravveduto…..

-Intanto, potrebbe avvisare qualche altro fanatico e finiremo con le porte chiuse in faccia.
Come farai, proprio tu, se ti chiedono direttamente: sei cattolico? Cosa fai? Neghi?

Borbottando per tutto il percorso, passarono alle “minacce”: che, se ripeto la figura, loro mi
abbandonano e vanno per conto loro. Che sono stufi di fanatismo gratuito, vogliono godersi in pace
questa passeggiata, le chiese, i riti, il cibo ed il paessaggio, ecc.ecc.

-Perché mi impedite, insistevo io, senza troppo humour, di compìre il verso mistico che il
momento mi ispira: “l’amore copre tutto”?…..

-Perché, mi rispondono, ciò che non sono mai riusciti tutti i concili unionisti e neppure il
turbano del turco, di certo non ci riuscirai tu, il nuovo crociato, coi monaci .
184

Continuai a pensare, nuvolosamente alterato, pieno di stizza nei confronti di Gigi,


soprattutto; che a Giannina, a pranzo dal Metropolita, si era segnato, per errore con croce latina,
guastando l’appetito del Sevasmiothatos. Lì, davvero c’è stato il rischio di essere gettati dalle scale,
se non avessi fatto funzionare uno dei miei trucchi bizantini. Ed ora se la prendeva con me….
Nessuna replica. Medito su di loro: sono troppo uomini, ed io non mi posso convincere che
non devo pretendere di essere da loro capiti.
E così, mi tormento con loro fino ad Iviron. Arriviamo al monastero prima di fare pace.
“Va bene, va bene, va bene, prometto di tenere la bocca chiusa. Non voglio darvi brutte
emozioni”.
Poveri e dolci miei fratelli! Come eravamo bambini! E come avevano ragione! Come siamo
sempre finiti, prima e dopo, in garbugli più grandi di noi!

Con tutta la rigida sferza delle polemiche, la camminata sulla strada verso Iviron, l’abbiamo
percepita come paradisiaca.
Contempliamo torri e cupole di chiese lontane che sorgono in mezzo alla foresta. Sono
certamente celle, (kellia) di monaci solitari, la cui chiesa privata è più ricca, più bella, più grande di
qualunque chiesa delle nostre orgogliose città.
Ed ecco Iviron, che sono stato ispirato-e fortunato- ad immortalarlo in fotografia dall’alto, per
l’ammirazione dei miei amici.

IVIRON

Troviamo il monastero dell’Iviron in un vallone presso il mare, collegato a Karyé da una


strada piuttosto agevole. Quasi sulla riva del mare, forma un vasto quadrilatero di edifici, addossati
alle mura e disposti attorno al cortile centrale, dove sorge il katholikon, come di consuetudine.
Da quella valle esso muove alle alte soglie immortali del cielo, aggrappandosi alle rocce. Lo dico
perché, vedendolo per la prima volta, sono stato preso da una incredibile gioia. Lo dissi ai miei
amici e ne furono d’accordo:
-Un'altra volta, ancora, mi sento a casa mia, per due motivi sentimentali; perché anche
Iviron, come Kutlumus è romeno fino all’ultimo mattone; e poi, perché porta il nome della patria di
un Santo amato, benefattore dei romeni, uno dei loro padri spirituali, metropolita di Bucarest e
martire della Fede, ucciso dai turchi nel 1716. Era dell’Iberia, l’attuale Georgia caucasica, e si
chiamava Antim Ivireanul.
Pensando a un simile genio, mi passa ogni volta per la mente questa strana considerazione:
185

-Che fortuna per noi, gli europei, avere georgiani ed armeni geniali in mezzo a noi! E tutto
questo, a causa della terribile invasione islamica, dalla quale sono fuggiti!
Al sentire che eravamo romeni, un monaco greco, sensibile alla nostra gioia andò a chiamare
un confratello di mezza età, di una dolcezza incomparabile, seguìto a breve distanza da un altro più
alto, più giovane: erano due monaci cutzovlacchi, che diventarono subito amici. E siamo rimasti
amici anche dopo, visto che ogni volta ci hanno accolto con una delicatezza difficilmente narrabile.
Erano Theofil ed Antim. Abbiamo fatto la foto con loro nel 1977 e nel 1983, davanti alla chiesa,
interamente romena, che Iviron conserva gelosamente. Del resto, senza la loro collaborazione non
avrei potuto fotografare fuori e dentro tutto il monastero, secondo il mio gusto e beneplacito.

L’ idioma di questi fedeli amici è un miscuglio di latino e romeno, con inflessioni greche ed
albanesi; lo capimmo abbastanza, per comprendere il loro disagio di doversi nascondere, di non
poter dire apertamente di non essere greci. I confratelli eleni li conoscevano come kutzovlacchi . Ma
essi non avevano il permesso di riconoscere di non essere greci puri. Veramente, non ho mai capito
questa assurda pretesa degli slavi balcanici, identica a quella dei russi nei confronti dei moldavi
dispersi in Russia. Più con gesti che con parole ci fecero toccare tutte le tracce di romanità che
caratterizzano Iviron, soprattutto quelle che i turisti non vedono. I romeni kutzo o non kutzovlacchi,
furono la nostra chance ad Athos: con loro vedemmo e sentimmo quella parte segreta e discreta,
chiusa ai profani.

Sempre, in loro compagnia, partecipiamo alla Veglia, fino a tardi. I piccoli paralumi gialli, in cima
ai candelieri colorano la chiesa, l’iconostasi, i sacri vasi, d’un lume dorato e misterioso. Mura e
soffitti sembranno d’argento; lontano dalle candele, l’ombra s’addensa più nera del carbone.
Mormoriamo coi frati la cantilena dei salmi. Mi scendono le lacrime a fiotti. Lacrime di emozione,
di nostalgia, di esilio, di ricordo d’infanzia. Non c’è pericolo di ripetere la brutta esperienza con il
monaco greco, studiato in Italia. I romeni, i vlacchi in particolare, sono di una liberalità naturale,
come sta bene a una nazione civilizzata e cristiana. Alla quale liberalità rinunciano, quando sono
aizzati; o quando diventano complessati di fronte a chi considerano superiori a loro, (slavi e greci).

LA LUNGA STORIA DI IVIRON

Entriamo in punta di piedi nella celata cattedrale dell’infanzia, dove il muro di pietra ha la
forma di un arco; e, tra i fiori che s’intessono alle barre, palpitano fiammelle e bruccia incenso
dall’aroma pungente. La prima impressione su Iviron? Da monastero organizzato e sicuro di sè. A
statuto idioritmico, che pochi anni più tardi sarebbe decaduto allo statuto cenobitico, comunitario,
186

(ma essi dicono che si sono progrediti). Sprofondiamoci anche qui nel significato della storia e del
simbolo.
La storia salta in fluidi spruzzi e vi comincia nel secolo IV-V, se è vero che qui, fra le rovine
di un tempio pagano, sarà esistito un piccolo convento “di Clemente”, di cui solo la chiesa è
sopravissuta; ed è rimasta fin’oggi come cappella di San Giovanni il Battista. Il grande Iviron fu
costruito vicino ad essa.
Qui vennero, nel 975, dal monte Olimpo, due georgiani di nobile famiglia, discepoli,
anch’essi, di sant'Atanasio: Giovanni e suo figlio, Eutimio, detto il Bisanthios,–che suo padre
aveva abbandonato per farsi monaco, ma poi è andato a riscattarlo, in quanto era stato preso in
ostaggio alla Corte di Costantinopoli. Dopo un certo tempo, altri georgiani li raggiunsero, qui, in
Athos: tra questi il loro parente, il generale Giovanni Tornikios, detto l’ibero ( greco: Ivironitis,
romeno: Ivireanul; da qui il nome: Iviron) che aveva reso grandi servigi all'Impero. Per loro,
Giovanni fece costruire vicina alla Megali Lavra la chiesa con le cellette di San Giovanni
Evangelista.
Vissero un anno di calma, uno solo, prima di essere re-inghiottiti dal turbine della vita
passata. Cosa era successo?
La storia è leggermente complicata: il giovanissimo Basileo bizantino, Romano II (959-963) e
l’imperatrice, Theofana, ( o Theofano) avevano avuto quattro figli. Morto l’imperatore, il 15 marzo
del 963, (non avvelenato, come fu detto, dalla bellissima moglie, bensì per una caduta incidentale
dal cavallo, durante una festa: ed è strano il tipo di morte che può subire perfino un eroe che ha
vinto gli arabi in più battaglie, liberando Kandia ed Aleppo), la sovrana, vedova a 22 anni, “di una
bellezza radiosa, divina”(Charles Diehl), rimase sola. Rimase soprattutto nel pericolo, con 4 figli, i
due maschi aventi diritti al Trono: Basilio di 5 anni e Costantino di 2 anni; e con un primo ministro
despotico, Giuseppe Bringas, che minacciava la situazione dei figli. La vedova-non troppo allegra-
manovrò per far avvicinare al palazzo il grande generale eroe, Niceforo II Focas, con l’idea di
essere difesa da costui. Non si sa chi ha fatto-per primo- l’occhiolino all’altro, ma si sa che la
Sovrana lo sposò quasi subito, senza amore, -per puro interesse-, essendo lui di 30 anni più vecchio,
ed anche grasso, piccolo e brutto. Niceforo diventò imperatore, a condizione di rispettare il diritto
dei due bambini di regnare, una volta cresciuti.
Fokas era un militare asceta- con voglia di misticismo, soprattutto dopo la vedovanza e la morte per
incidente del figlio. Anche da generale, digiunava, dormiva per terra, viveva da monaco, col voto di
castità. Si era scelto come confessore nientemeno che San’Athanasio, che stava costruendo le sue
comunità in Athos. Si era legato al Santo da non poter fare a meno di lui; se lo prendeva anche sui
campi di battaglia. Lo pregò perfino di far costruire per lui una cella nella sua nuova Lavra, dove si
187

sarebbe ritirato dopo la vittoria sui musulmani. La quale si verificò davvero, Fokas riuscendo a
liberare l’isola Creta. Ecco perché non poco fu lo stupore di Athanasio nel sentire che il suo amico,
generale e asceta, si era sposata la bella Basilea, il 20 settembre, 963, diventando Imperatore a
Costantinopoli. Con la sua tempra famosa- e focosa-, Athanasio andò a rimproverarlo, direttamente
nel palazzo e davanti alla Corte. Fokas fu umile con lui, non si offese, ma gli spiegò che aveva
accettato questo onore per il bene dell’Impero, per salvare i piccoli futuri imperatori, per salvare se
stesso dall’odio di Bringas e per fare del bene alla Chiesa, l’Athos incluso. Promise che avrebbe
conservato il voto di castità, ciò che sembra non essergli stato difficile, la bella Theofano non
avendo per lui nessun’attrazione erotica.
Athanasio fu calmato, ricevendo la promessa che, appena possibile, Fokas si sarebbe ritirato
all’Athos; e, certamente, con le braccia piene di regali e soldi per la costruzione dei monasteri.
Gli storici insinuano, però, che il generale sentiva vero amore per la bella Theofano, anche
se troppe cose disturbavano la felicità del suo amore. Il patriarca gli mise, contro, tutta la Chiesa
che, pardon, condannava un matrimonio fra due vedovi. Nel loro fanatismo, questi prelati, degni
successori dei farisei dei Vangeli filtravano il moscerino e ingoiavano il cammello: hanno fatto
guerrra a imperatori amici, ma vedovi164, che volevano risposarsi e poi hanno lasciato libero e
impunito il matrimonio dei divorziati, anche tre volte, essendo questa la oramai gloriosa abitudine
della Chiesa ortodossa .
Senza voler essere cattivi, rintracciamo l’avversione degli uomini della Chiesa contro l’Imperatore
Fokas, non nell’ inesistente immoralità scandalosa del suo matrimonio ( da vedovo), bensì nel fatto
che, scandalizzato dalle ricchezze dei monaci e dei gerarchi, come anche dei traffici illeciti
perpetrati all’ombra dei conventi, ha emanato varie leggi, decreti e disposizioni per controllare le
entrate, le donazioni e le speculazioni sui terreni, fatte senza nessuno scrupolo
dai vari prelati e monaci aventi il sacro voto della povertà.
Niceforo Fokas, ”capace di clemenza come di perfidia” resistette per ben 10 anni a tutte le
manovre di tutti, patriarca e vescovi inclusi, che, alla fine, trovarono un altro arzigogolo per
separare i nuovi imperatori. Che cioè, il generale sarebbe stato padrino di uno dei figli dell’attuale
moglie. Il povero Fokas trovò un prete che giurò (probabilmente falso) che il vero padrino sarebbe
stato il padre dell’imperatore ed il patriarca, solo contro tutti, pur capendone la fandonia, lasciò
perdere la faccenda, ma convinse tutto l’ambiente del palazzo che il matrimonio dei sovrani era un
vero incesto.

164
Lo scandalo maggiore fu organizzato contro l’Imperatore Leone VI il filosofo-886-912- che voleva sposarsi da
vedovo la quarta volta. I Prelati, in Sinodo, proibirono fin’oggi il quarto matrimonio- ai vedovi-ma permettendo tre
matrimoni religiosi ai divorziati.
La mancanza di discernimento teologico degli ortodossi attuali si vede anche nel fatto che considerano il secondo ed il
terzo matrimonio non più Sacramento, bensì un ”sacramentale”, il ché è un assurdo logico e teologico.
188

Fu, per grazia, la bella Theofano impressionata da queste cattiverie? Fatto sta che, dopo 10 anni, si
stufò della situazione, del marito, della pace ritrovata, e dell’adorazione stessa che Fokas sempre le
offrì. Né lei, né il popolo, neppure i prelati videro i meriti di Fokas nelle vittorie contro tutti i nemici
dell’Impero, nemici acerrimi, che alla fine lo avrebbero divorato: arabi, slavi, occidentali, ecc….
Ancora meno furono impressionati dal suo fuoco mistico, della sua fede e delle opere buone, per
cui parlava sempre del ritiro in Athos.
Il suo errore fatale fu di punire il nipote, Giovanni Tzimiskes 165, generale ed eroe, anche lui, per
qualche irregolarità, e mandarlo a casa, non lontano dal palazzo e libero di ordire vendette.
Siccome, a differenza dello zio, Tzimiskes era forte, bello e attraente, esso piacque all’imperatrice,
che, sembra, trovò in lui l’unico vero amore della sua vita.
Usò, dunque, tutti i suoi incanti di donna bella presso il marito innamorato, per far venire il nipote
al palazzo. Per non destare sospetti, sparse anche la diceria che lo avrebbe fatto sposare a una dama
della corte. Così il povero Fokas non indovinò tutta la trama, che lo portò ad una morte orrenda,
ucciso con la spada dal proprio nipote, circondato da ufficiali e guardie corrotte, nel nascondiglio
della stanza segreta lasciata aperta apposta dalla moglie, diventata, nel frattempo, amante del
parente traditore.
Per sfortuna di tutti loro, Dio non batte col bastone.Theofana non potè diventare moglie dell’uomo
sognato, prima perché scoprì troppo tardi la semplicissima verità che l’amore è sempre a senso
unico: Tzimiskes non la amava; poi, perché l’odioso patriarca Polyeucto proibì al nuovo imperatore
l’incoronazione, pur se acclamato con entusiasmo dalla vedova, dal popolo e dall’esercito.
Chiedeva a costui, giustamente, la punizione degli assassini del vecchio Basileo e almeno
l’allontanamento dell’imperatrice.
Ma era una richiesta farisaica, che il patriarca avanzava col masssimo di cinismo, ben sapendo (con
tutti gli altri) chi era stato il vero assassino.
Fu facile dunque per Tzimiskes negarsi ogni colpa e dare la colpa all’imperatrice ed a vari ufficiali
marginali, che furono giustiziati, mentre la Vedova allegra ante terminem, fu mandata in un
convento (Proti) sull’isola Prinkipo, (non ad Athos, certamente). Lei non si rassegnò e fuggi dalla
sua prigione, rifugiandosi nella Santa Sofia.
Non si sa perché ciò che non si osava con altri si osò con lei. Fu incalcato il diritto di asilo, essa fu
strappata dall’altare e mandata con violenza verso l’ Armenia, sulle tracce di San Giovanni
Crisostomo, strappato anche lui dallo stesso luogo, secoli avanti, da altri pii governanti bizantini.
Sembra che fosse riuscita a rivedere l’Imperatore, per poter rimproverargli, a dovere, il tradimento e
tentando anche di graffiarlo a segno di disprezzo.

165
O Zimisces.
189

Tzimiskes non si impressionò. Però, morì anche lui, nel 976, senza illudersi sul Paradiso che
non lo aspettava. Dopo tredici anni, i bambini con diritto al Trono erano cresciuti e vennero
riconosciuti imperatori: erano Basilio II (976-1025) e Costantino VIII (976-1028). Non se ne
godettero la festa: un pretendente al trono, Bardas Scleros, mosse guerra ai giovanissimi basilei.
Ed ecco che, a questo punto, riappare Theofana, la madre dei due giovani figli basilei.
Come avrà fatto ad abbandonare il suo esilio monastico per ricoprire il ruolo di imperatrice madre?
Appena arrivata a Costantinopoli si rese conto della situazione.
-Non c’è più nulla da fare, l’unico capace di salvarci, l’unico fedele, l’unico onesto è
Tornikios.
Febbrilmente, gli scrisse
-Ti prego, lascia il monastero alla cura dei frati, vieni, riprendi le armi in aiuto ai legittimi
imperatori, difendi l’altezza dei loro natali. E Dio ti ricompenserà con la Sua Grazia, ed anche noi,
con ciò che potremo.
Tornikios si dimostrò all’altezza della situazione. Lasciato l'Athos, ottenne dal principe di
Georgia, David, vassallo dei bizantini, un fortissimo contingente di 12000 cavalieri con i quali
sgominò e disperse le schiere nemiche, buttando nel Bosforo gli squadroni di Skleros, il 24 marzo,
979.
Vittorioso, festeggiato e colmato di regali, Tornikios ritornò ad Athos e, con i mezzi propri,
con il permesso di Sant’Athanasio e l'appoggio fornito da Basilio II e di Theofana, costruì la chiesa
della Theotokos e quella di San Giovanni Battista che diventarono poi il monastero Iviron. Si fece
aiutare dai suoi parenti, Giovanni ed Euthimio, appunto, che furono tosati monaci da Sant’
Athanasio, insieme con lui. Gli diedero l’ultimo ritocco, con pomposa consacrazione, dedicandolo
alla Dormizione di Maria Santissima -15 agosto-. Iviron divenne il monastero "degli iberi", cioè dei
georgiani sempre più numerosi in Athos, che i greci chiamarono Iviron . Per questa ragione, i due
monasteri, Lavra, ( di Sant’Athanasio), e Iviron tengono ancora una relazione spirituale particolare.
Grazie a Tornikios, gli imperatori diedero privilegi a tutti i monasteri dell’Athos, allora in funzione.
Fu proprio Basilio II (976-1025), a dare avvio a questo finale felice. Basilio II, che si sarebbe
guadagnato nella Storia il magnifico titolo di mangiatore di bulgari, aveva 31 anni quando salì al
trono, anche se era Basileo vero da 29. Per 16 anni aveva fatto il Basileo da minorenne, per 9 anni
fu una marionetta in mano ad altri, e per gli ultimi quattro fu vessato da vari disastri, (come le
ribellioni dei due Bardas, il terremoto, la caduta della cupola della Madre Chiesa ed il ricatto di
Vladimiro di Kiev, che poi fu provvidenziale: dalle manovre fra i due testardi uscì fuori il
battesimo-bizantino- dei russi).
190

Con tutto ciò, il Basileo continuò a programmarsi l’opera della sua vita: la distruzione dei
bulgari. Mentre il suo occhio devoto si indirizzava verso il Monte Athos che proteggeva.
Tornikios morì, anche lui, nel 983. Giovanni si sentì scoraggiato in Athos, dopo la morte
dell’amico, parente e protettore. Penso, perché spaventato dal terrore di ogni genere che soffiava da
Costantinopoli. Volle fuggire addirittura in Ispagna, con il figlio ed i discepoli più fedeli. E non solo
per motivi politici, bensì religiosi. Ma Basilio II, con le sue spie alla Meternich, ante terminem lo
scoprì: mandò delle guardie che ricondussero i fuggitivi all’ovile, e inviò loro una lettera in cui li
implorò di rimanere in Athos, per aumentare la devozione e la Fede fra i monaci appena insediati.
Da questa curioso incidente uscì fuori un altro fatto curioso e originale: la costruzione del
monastero degli italiani, amalfitani, la cui avventura la racconteremo nel capitolo dedicato al nostro
passaggio vicine alle splendide rovine.
Giovanni morì rassegnato verso il 1009, senza essere stato ordinato sacerdote. Il figlio
invece lo era. Lo seppelì con tutta la devozione, costruendo per lui la chiesa dei Santi Arcangeli.
Eutimio rimase superiore di Iviron, ma anche di Lavra, finché decise di rinunciarci per dedicarsi
alle traduzioni dei testi sacri in georgiano. Ma perché, mai, avrà rinunciato a comandare? Chi, mai,
ci rinuncia felicemente, per libera scelta? Nessuno, lo giuro. Avrà esagerato, per santo zelo,
nell’intransigenza assoluta sulla rinuncia alla proprietà, non esitando a dare alle fiamme gli oggetti
più preziosi, compresi i paramenti e i vasi sacri, (pur di soprimere il desiderio di proprietà nei
monaci). Ma quelli oggetti erano sacri e non andavano distrutti, anzi, potevano essere regalati ai
poveri. Ora, un simile zelo si ricompensa con la santità e si punisce con una tribolazione. Non sarà
stato obbedito e, stizzato, o meglio, indignato per la caparbietà dei monaci di non distruggere tutto,
ha dato le dimissioni con rumore e umiltà….E poi, un giorno, non ancora riconciliato con i suoi
pensieri, salì su un muletto riottoso, per andare a prendere un po’ d’aria nella foresta vicina.
Impauritosi per un povero che si avvicinava a chiedere l’elemosina, l’animale lo gettò a terra.
Gravemente ferito, il nostro fu portato al monastero dove morì, pregando e lodando Dio, il 13
maggio 1028. Fu canonizzato; il suo corpo si trova in un sarcofago dentro la chiesa di San Giovani
Battista.
Rimase il discepolo Giorgio, come egumeno di Iviron (e co-fondatore, perché restaurò le
costruzioni e riedificò la chiesa madre, rimpiazzandola con un’altra, molto più grande).
La fine di Eutimio ha la sua morale. Dio, in casi come il suo, usa specialmente l’ironia: a
causa di un povero e di un mulo, il santo dovette morire. Ciò vuol dire che, se per un minuto solo
sei mulo, paghi, perfino con una morte banale, pur di finire in cielo.
191

Che strada lunga e complicata, fra i meandri della Storia, perché sgorghi alla fine un
convento, capace, forse, di lavare il sangue di tante coscienze impregnate, incomprensibilmente ed
insostenibilmente, di devozione e crudeltà.
La storia successiva di Iviron fu più drammatica delle faccende di altri conventi. I georgiani
lo tennero solo per qualche secolo. Poi arrivarono i monaci greci ed i cutzovlacchi, che la popolano
fin’oggi, (fra i quali, i due romeni segreti che si spogliarono dal loro grecismo solo per noi).
Iviron ebbe a soffrire da parte dei pirati. Ma non così terribilmente come da parte dei
crociati. I quali devastarono e sacchegiarono il monastero, come del resto tutto il Monte Athos, con
tutta la devozione possibile. L’egumeno e 13 fratelli del monastero, anti-unionisti, furono annegati
dalle truppe del patriarca lationofrono Giovanni Bekkos e dell’Imperatore Michele Paleologo. Le
quali truppe, invece di combattere i pagani se la presero con i monaci. Stupisce poi l’intervento
dell’imperatore, appena vittorioso sui latini nella capitale, desideroso però di realizzare l’unione
delle Chiese, che i monaci mandavano a monte come potevano. Sappiamo però che del povero
Basileo in questione si sono dette troppe cose inesatte.
È il XIVesimo secolo che segnò la risurrezione ad alti splendori dei sacri monasteri, per
mano dei Sovrani ortodossi.
Tra i benefattori dell’Iviron vi fu il re di Serbia Stefano VII Dusan (1331-1355), che
allargando le sue conquiste si rese padrone della Macedonia e dell'Athos (1334). Quando, nel 1346,
si fece Incoronare “Tzar dei greci e dei romani", erano presenti alla cerimonia anche i
rappresentanti dei monasteri dell'Athos. In seguito, lo stesso Dusan visitò l'Athos, elargendo i suoi
benefici a destra e manca. Ma, come sappiamo, la Serbia cadde sotto il turco, per non risorgere più
sino agli ultimi dell’800. Così venne il turno dei Regni romeni, proclamati dai monaci come Campi
elisi dell’Ortodossia.

IL CONTRIBUTO DEI ROMENI. DONNA RUXANDRA E DONNA CHIAJNA

Cominciò Neagoe Basarab, (1512-21). Nel 1517, l’egumeno andò alla consacrazione di
Argesci e ritornò con le braccia piene di regali preziosi, ( ed il contratto per 200 talleri all’anno)
oltre ad essere accompagnato da ingegneri ed operai specializzati. I quali costruirono l’acquedotto e
vari edifici. Nel 1523 si misero ad ampliare e rifare il katholikòn dell'XI secolo, dedicato alla
Dormizione di Maria Santissima. Gli affreschi furono eseguiti più tardi. Donna Despina, la sposa di
Neagoe, regalò il suo velo in oro e perle; Radu Paisio166, dopo aver abbandonato lo stato monacale

166
192

per il trono e prima di essere esiliato in Egitto dai turchi, fece in tempo per riscattarsi presso Dio
con regali ed ex-voto; volle fare di più: arrivò fino a Carlo V, per perorare la causa cristiana, contro
i turchi, ma non ne ebbe successo. Venne poi il turno di due spose di Domni, sorelle e sovrane, che,
sottomesse ai tempi, si riempirono l’esistenza di astutissimi e sanguinosi piani. Si tratta di Donna
Ruxandra e Donna Chiajna, che, fra un disegno e l’altro, offrirono ricami preziosi ed altri oggetti
di lusso ad Iviron, (1558). Pare che questi gesti fossero stati ricompensati dal Cielo, ritardando la
caduta non gloriosa dal Trono e dalla vita delle due Gran Signore.
Perché mai mi sarei espresso con tanta asprezza, nei riguardi di due Sovrane della Terra
Romena e dei devotissimi cristiani ortodossi che abitavano ed abitano ancora quelle Terre?
Tentiamo, intanto, di raccontare qualcosa delle loro patetiche avventure, che, dai secoli sprizzano
ancora sangue nelle cronache patrie. Di Ruxandra abbiamo contemplato la vita sfortunata, per cui
certe scelte sono comprensibili. Ma Chiajna?
Madame Chiajna sposò il Domn Mircea Ciobanul in giugno, 1546 e morì dopo il 1588.
Odobescu 167gli descrisse la sua tumultuosa vita e la morte atroce, (ma non storica, bensì letteraria)
in una famosa novella, sottolineandone la genialità amorale. Io la chiamerei passione da estremo
panico. Del resto era sorella della famosa Ruxandra, l’avvelenatrice del marito, Làpusneanu, come
lo abbiamo raccontato prima. Chiajna, però, non volle seguire la sorte dolorosa della sorella. Anzi,
imparandone la lezione, giurò a se stessa di non lasciarsi mai giocare, né dai mariti, né dai sudditi. E
pregò Dio con lacrime che le desse tutte le astuzie che il Creatore avesse mai concepito per una
donna.
Pensiamo che ella fosse esaudita, se perfino gli storici francesi dell’epoca raccontano con stupore le
sue piccanti gesta. Un fatto bizzaro di madame Chiajna li impressionava, particolarmente: come
riusciva lei a comprare -a suon di moneta pregiata- sultani, visiri, nobili pagani e cristiani, governi
interi coi loro cortigiani: senza errore e senza interruzione; e si meravigliavano, pure, di come aveva
avuto tutto questo patrimonio, tanto da riuscire a superare gli orgoliosi re di Polonia, Ungheria o gli
inviati di Venezia?
Di lei, due ambasciatori veneziani, (castissimi concitadini di Casanova) si lamentano al
sultano che “è una meretrice infrenatae monstruosae libidinis, circondata da cortigiani”, mentre nei
loro block-notes segreti scrivono che “per tener a bada il sultano gli manda la figlia nello harem e
“quello lì qual signor ora la tien per moglie e molto la amma”. Obbligò un figlio a farsi musulmano
ed un altro a fare il paggio del sultano, pur di tenerselo come protettore.

?
Sovrano romeno, regnò due volte fra il 1534-45. Fu cacciato dal trono da suo fratello, Mircea Ciobanul, sposo di
Donna Chiajna,(v.)
167
Storico, famoso scrittore e ministro romeno, (1834-95).
193

Alla morte del marito- Domn di Valacchia- Muntenia o Terra Romena, nel 1559, Madame Chiajna
era rimasta sul trono con il figlio minorenne, Pietro il Giovane, che voleva piazzare sui troni dei
due paesi romeni: a Bucarest, ma anche in Moldavia. Si mise a capo dell’esercito per sconfiggere i
nobili ostili, come non fece nessun’ altra donna romena. Ordinò la costruzione della Chiesa dei
Domni dell’antica capitale, Campolongo ed altre chiese e monasteri. Ma poi capì che l’unica
possibilità per riuscirci era di comprare le sultane del’harem. Dando loro 80.000 ducati, riuscì a
mantenere sul trono di Bucarest il suo incapacissimo figlio, Pietro il Giovane, per 8 anni, finché i
turchi lo destituirono, a causa della vendetta del cognato Cantacuzinò, come vedremo. Con altri
soldi dati nello stesso luogo, (si vede che, con tutta la mancanza di diritti delle donne nell’islam, le
sultane riuscivano a fare la voce grossa presso i sultani), Madame Chiajna tenne sul trono il suo
figliastro, Alessandro II, (figlio del marito, non suo)168, per altri 10 anni. Ma, siccome temeva la
vendetta di suo fratello, un altro Pietro, comprò per lui il trono di Moldavia. I turchi, ( cioè le
sultane dell’harem!) la accontentarono, e inviarono un esercito in Moldavia, rovesciando il sovrano
regnante, (Giovanni il terribile), e spingendo sul trono il nostro, che, siccome zoppicava, fu
chiamato Pietro lo Zoppo.
È inutile e gratuito condannare la sovrana romena di amoralità: le due ultrapagate sultane, educatrici
delle kadyne, erano la catolicissima veneziana, Donna Safigi e l’ebrea, Donna Nurbani.
La straordinaria sovrana romena pensò anche alla figlia, Marina, che fece sposare, a 15 anni,
col furbissimo amministratore dei palazzi del sultano, Mihail Cantacuzinò, cristiano rinnegato detto
lo Sciaitan-Oglu, (“figlio di Satana”)- i turchi stessi lo chiamavano così; il quale, da rampollo
imperiale che era, aveva giurato di rimanere nei palazzi dei suoi avi bizantini, anche col prezzo di
farsi turco, (e ci era riuscito!). Ma nel viaggio di nozze, la povera sposa-bambina si schifò del
marito di 58 anni e litigarono; e la mammina preoccupata, inviò dei corsieri che rapirono la sposa
per strada con tutta la dote e i beni dello sposo 169. Sciaitan-Oglu si vendicò duramente e tutti i
230.000 ducati d’oro di Chiajna non riuscirono a vincere la sua influenza presso il sultano. Madre e
figlio, (Pietro il giovane) furono esiliati in Siria per 8 anni, dove gli storici che non confondono
questo Pietro con Pietro lo Zoppo lo fanno morire. Un viaggiatore tedesco descrive la povera
sovrana in disgrazia come “donna saggia e buona che parla bene il turco e l’arabo”. L’ha
conosciuta per caso ad Aleppo, prendendola per una mendicante. Ma, nel suo isolamento, Chiajna
trama la vendetta e si fa aiutare dall’ambasciatore francese per riprendere il contatto con la Sultana
madre, vecchia amica. La quale la fece richiamare e la ospitò nel suo palazzo a Istambul, da dove

168
Nuove ricerche confermano invece che Alexandru era figlio di Mircea III, (1509-1510), nipote di Mihnea il reo,
fratello di Petru lo Zoppo. I due dunque non sarebbero figli in nessun modo di Donna Chiajna.
169
Lo storico J.M. Cantacuzène nel suo “Mille ans dans les Balkans”, ed. Christian, Paris,1992 sostiene che lo sposo
era il fratello di S.Oglu, Giovanni, riferendo però il fatto in modo identico ai vecchi storici.
194

Chiajna si mise a tramare e mandare ordini, come se fosse stata la vera imperatrice. Anche perché
aveva regalato allo harem del sultano un'altra delle sue figlie.
Alla morte di Alessandro II, la mamma premurosa comprò il trono di Valacchia per il nipote,
Mihnea II, dovendo concorrere con un italiano lombardo, Leonardo Rosso, che da bravo
avventuriere, era arrivato nei Paesi romeni, dandosi per figlio bastardo di un principe romeno, (non
era una vergogna, questa, bensì un’opportunità, in quei tempi, e, perché no? Anche nei nostri),
tentando di convincere i turchi di nominarlo Domn. I soldi di Chiajna prevalsero, e il Rosso finì in
galera; ma la vecchia indomita dovette far fronte al prottetto di Henri III di Valois170, re di Francia,
un certo Pietro Cercel. Il quale non era un anonimo, bensì figlio vero di un Domn, Pàtrascu il
Buono, e fratello del grande eroe romeno ”araldo di Cristo”, secondo il Papa, Michele il Bravo
(Mihai), figlio (non sicuro) dello stesso.
Ma non era questo Cercel un amico-amante dei favoriti del re di Francia,( i mignons) ed
anche del re, che gli insegnarono a mettersi un orecchino, da cui il nome ?171
-Ma, certo! Henri III, “fervente cattolico e amico dei piaceri”, come lo qualifica un Lavasse,
è lui! Guardiamo questo Henri in un quadro a Louvre: si vestiva da far vedere la sua vita tutta
snella; si dipingeva le guancie, si dava la cipria, portava corsetto ed orecchini. Amava follemente i
cani, le scimmie ed i papagalli, ma sveniva per paura di un gatto. Non so quale scrittore si chiedeva
ironicamente se era un re-donna o un uomo-regina.
Il romeno Petru non era per nulla un effeminato, insomma, non era della stessa natura del Re. Da
bravo romeno, però, - ed oggi questa butade è ancora più valida di allora- aveva calcolato assai
bene le direzioni dei venti. (Infatti, se oggi abbiamo tutta un Europa piena di romeni -e romene-
disponibili per le molte pretese dei datori di lavoro occidentali, il motivo ne è identico). Cercel si
mise non due orecchini, ma uno solo, come voleva il bon ton; non visitò solo il re, la notte, come
costui avrebbe voluto, ma, per puro altruismo, anche la regina, l’infelice Louise dei Conti de
Lorena; non parlò una sola lingua, bensì tutte le lingue dei vari cortigiani del re, in tutti i sensi; per
poco non fece parte degli otto gentiluomini che uccisero il rivale del re, Henri de Guise ed il fratello
di costui, il Cardinale. Per tutti questi meriti ed altri ancora, iscrivibili, Sua Maestà voleva installare
Cercel in Romania come alleato o vassallo della Francia. I romeni non ne ebbero tanta fortuna,
perché Chiajna fu assalita da una smania irresistibile e pagò più dei francesi, per il suo nipotino,
Alessandro II Mircea, che regnò per sei anni. ( Io non chiamo fortuna il fatto di avere un sovrano
come Cercel, bensì il fatto di avere come protettore un re di Francia !).

170
Nato nel 1551, regnò dal 1574 al1589. Leggiamoci tutto il capitolo su Henri III, in Lavisse-Rambaud, Histoire
générale, tome V, pag.710ss e 149-173, Colin-Paris, 1905; è appetitoso, ne vale la pena. Oggi non si trascrivono più
certe picanterie nei libri di Storia.
171
Cercel= orecchino, (rom).
195

Poi, i turchi, immaginando che la mamma d’oro era rimasta a secco, per farsi un alleato a Parigi,
nominarono Cercel. Il quale partì da Parigi, nel marzo 1581, come in processione. A Venezia fu
accolto come un re, ciò che irritò i turchi. E poi, quando la nemica Venezia mise a disposizione del
valacco tutta una nave da Ragusa, per farlo viaggiare comodamente, la corte di Istambul vide
questo gesto come una sfida. Per suo conto, Madame Chiajna gli organizzò trappole per tutto il
viaggio.
Dopo due anni di tergiversazioni, Petru Cercel fu nominato Sovrano della Terra Romena, (nel
1583), al posto di Mihnea II, (figlio di Alessandro II), che aveva regnato bambino, sotto il patronato
di Doamna Chiajna. Forse Cercel non era un mostro: proteggette il Vescovo-letterato- Luca di
Cipro e tentò di beneficare la Chiesa ed i poveri. Nel suo breve regno, fu capace di far costruire più
monasteri in Terra Romena e di mandare aiuti anche in Athos. Fu però accusato di ingratitudine nei
confronti del suo prottettore, Henri III. Non si sa in quale maniera precisa. Forse quella
sentimentale, com’era normale, Cercel, personalmente, essendo un etero. Il re di Francia lo
abbandonò, ed i soldi di madame Chiajna vinsero un'altra volta: non più 80.000, bensì 600.000 al
sultano, 100.000 al beglierbeg di Rumelia, e regali ricchissimi a tutti i grandi della Corte di
Istambul. Cercel fu rimpiazzato da Mihnea II,(1585).
Ma il nostro non demorde. Passa in Transilvania, dove gli amici cristiani lo rinchiudono per due
anni in una terribile prigione a Hust; dalla quale riesce ad evadere a mo’ di Holywood, (scusate
sempre l’anacronismo, è illuminante per quell’epoca!), e finisce ai piedi del Papa di Roma, Sisto V,
che interviene per lui presso Henri III; il quale lo riammette, perché “era bello, con occhi grandi e
cappelli lunghi, e parlava e scriveva in un elegantissimo italiano”, (ciò che era di bon ton alla Corte
di Parigi, essendo regina (Madre), la raffinata Caterina de Medicis, che si intratteneva volentieri,
anche da sola, con l’avventuroso romeno); e poi, il valacco aveva il proprio palazzo e la propria
gondola nella rivale Venezia, punto di osservazione per le loro Majestà. 172 In fondo, come
consigliere e storico ebbe accanto un genovese, rivale dei veneziani, Franco Sivori, dai cui scritti
conosciamo questi dettagli173. Cercel, che nei pochi anni di regno aveva vessato a tal punto i romeni
da raccogliere averi favolosi, inviò al sultano, come regalo, un grossissimo diamante. Sufficiente
per guadagnarvi un udienza.
Ormeggiando la fiera, Madame Chiajna si trovò a Istambul quando Cercel fece la sua imprudente
apparizione.
Quando lo vide, per un po’ la Madama non svenne. Capì che per domare il Turco doveva pagare
non più soldi contati, ma pesati. Promise e inviò davvero al Sultano tanto oro quanto potevano

172
Vedi anche N. Iorga, Lettere di Sovrani, rom.1925, pag.219ss.
173
Il libro di Sivori: “ Memoriale delle cose occorse a me”, trad. rom, Buc. 1970, in “Viaggiatori stranieri, III, pag.6-
70.
196

portare 600 cavalli. Chiedendo però, cristianamente, che il rivale fosse ucciso. Anche il povero
Cercel promise un millione di ducati. Invano. Ignorava che i suoi 550.000 ducati gli erano stati
derubati dagli amici in Transilvania. Fu arrestato, mandato a Edì Kulé 174, e poi programmato per un
viaggio di piacere verso l’isola Rhodos. Sulla nave, fu strangolato e gettato ai pesci del Bosforo, in
un giorno di marzo, A.D.1590. Anche perché il protettore, il re di Francia era stato anche lui ucciso
-cristianamente però- un anno prima, dal padre domenicano, Jacques Clément175.
Donna Chiajna, dunque, fu accontentata, anche se, probabilmente, post mortem;176 i turchi erano
persone oneste. Dico questo perché non sappiamo con precisione quando Madame fu trasportata in
cielo. Le cattive bocche dicono che fu elevata nello stesso carro celeste di Caterina de Medicis, la
grande contemporanea, nel 1589. Pace, pace, piccola anima buona!
Intanto, però, Mihnea II, con uno dei figli, furono obbligati a farsi musulmani! Avrà ruggito
il sultano qual leone infuriato, ma i due non furono proprio forzati, anche perché, pur di restare
simpatico presso l’Alta Porta, Mihnea si dava per “turco” già da prima. Questa volta, però, i suoi
affari si mettevano male ed il brav’uomo aveva imparato la strada verso il cuore del sultano. Gli
disse che lo stesso profeta gli era apparso in sogno e gli aveva chiesto di abbraciare la vera fede. Il
Padisciach fu così impressionato, che gli regalò il proprio pugnale, segno di intimo onore, e, non
potendo nominare un musulmano come Domn dei romeni, lo nominò pascià di Nicopole. Così,
Mihnea rimase nella storia con il sopranome di Mihnea Turcitul “il turchizzato”177.
Mihnea, in questione, è un esempio di conversione all’islam per paura, o per l’interesse di
non perdere il trono e la vita. Prova che, quando il Patriarcato subì l’umiliazione di essere cacciato
dai vecchi palazzi dagli incontentabili turchi (1586), Mihnea offrì, come nuova sede del Patriarcato,
la chiesa e le abitazioni che i romeni, a mo’ di “centro nazionale”, tenevano a Istambul. La
Patriarchia fu salva, il luogo si chiamò Vlah Sarai ed era assai spazioso, se poté ospitare nel 1593
tutto un Sinodo di Patriarchi d’Oriente, che decise l’istituzione del Patriarcato russo. Con altre
parole, Mihnea diede, involontariamente, una spinta propulsiva all’infinita superbia di Mosca di
chiamarasi “la terza Roma”. (È vero pure che, qualche anno più tardi, un greco-furbo per
antonomasia- Meletios Pigas, scongiurò con la solita pitoccheria il Metropolita romeno Eftimio e il
Sovrano Mihai il Bravo per dargli i soldi sufficienti per riscattare dai turchi le chiese di San
Demetrio e della Madonna di Xiloporta e per costruire una nuova sede del Patriarcato. In cambio, il
greco promise che avrebbe alzato a rango di Patriarchia, la Metropolia romena di Moldavia. I soldi

174
Celebre e terribile prigione turca, nella vecchia Istambul: 7 torri ( turco).
175
Dico “cristianamente”, perché l’assassino fu incitato dall’opinione pubblica dei teologi, prelati e popolo fedele,
trovando anche apologisti come il parroco di San Benedetto di Parigi, Jean Boucher, fougueux ligueur”(1548-1644),
che lo giustificò nel suo amabile libro “De justa Henrici III abdicatione”
176
Non sappiamo la data esatta della morte di Donna Chiajna. Probabilmente ebbe la soddisfazione di vedere morto il
rivale Cercel, già in questa vita.
177
Cioè “colui che è diventato turco”, passando all’Islam. Mihnea II regnò più volte fra 1577 e 1591.
197

furono dati, il palazzo terminato, le chiese recuperate già nel 1599. Ma il Pigas fu eletto Patriarca ad
Alessandria e quasi per scherno scrisse al Sovrano Ieremia: “ ho cambiato idea, niente
Patriarchia”).
Ritorniamo al “Turcitul”. Il suo uomo di fiducia era il metropolita Serafim. Che poi cacciò
dal trono per il semplice motivo che “era rimasto anche sotto il regno dell’avversario”. No, non lo
fece per “cattiveria musulmana”, bensì per la cattiva abitudine dei cristianissimi Sovrani romeni e
non romeni, di avere ciascuno il “suo” metropolita. I monasteri romeni, (come anche l’Athos, del
resto) gemevano di Alti Prelati cacciati dai loro troni canonici, con o senza colpa. Mihnea non
doveva farne eccezione. In parallelo a queste eccentricità, offriva all’Athos, (al monastero
Xenofontos), tutto un grande monastero di Bucarest, il Plumbuita. E poi “si fece turco”, per non
finire a Edi Kulé, bensì almeno come Pascià. E… per ringraziamento a Dio, (quello cristiano, però)
beneficò, da (falso) musulmano, molte chiese.
No, non si conoscono orientali sinceramente delusi di Cristo e entusiasti di Maometto. Sono
semplicemente uomini segnati dall’essere spaventoso dell’Islam e dei suoi metodi, per tutti i secoli
avvenire.
Mihnea con suo figlio, diventati musulmani, ebbero però la gioia di sapere che l’altro figlio
e fratello, il pupillo, Radu Mihnea, era stato nascosto e inviato poi da sua madre a Monte Athos,
più precisamente a Iviron. Qui completò gli studi bizantini, dopo di ché i monaci lo mandarono a
Venezia, (poi a Padova) per studi superiori, (cattolici). È incredibile. Ne riparleremo.
Negli stessi anni, in Moldavia, Despot-Vodà, (1561-63), un altro protetto dei sovrani
francesi, ( più precisamente della Caterina de Medicis, regina Madre), ma anche del rivale, Carlo
Quinto178, (il sovrano romeno, greco di origine e cosmopolita era riuscito ad essere intimo di due
nemici acerrimi), ed anche di Melanchton et &, protestante, tramava per detronizzare Madame
Chiajna che regnava allora con il figlio, Pietro il giovane, (1559-68). Despot voleva intronizzarsi a
Bucarest e lasciare la Moldavia al fratello. Non prima di chiedere all’abile sovrana la mano della
figlia, Dobra. Le nozze non si fecero, perché l’atroce Madre aveva indovinato “i progetti perversi di
quel rinnegato protestante”; tutti i piani fallirono e Despot perse il trono e la vita, ucciso da Stefan
Tomsa179 mentre suo fratello divenne prigioniero e fu venduto -alla terribile Chiajna- dall’altro
terribile, Làpusneanu, il cognato. Aha, aha! La tremenda sovrana non aspettava altro: lo fece
torturare orribilmente, o lo torturò lei stessa, non si sa. Poi gli fece tagliare la testa e durante un
festino, come una nuova Erodiade, ordinò di farla esporre sul tavolo, per aumentare l’appetito degli
ospiti ostili. Dopo ironiche considerazioni, sputò su questa testa sanguinante.180
178
1500-1558.
179
…E cantato ammirevolmente nel dramma teatrale del poeta romeno Vasile Alecsandri.
180
Leggo questi splendori non solamente nelle cronache romene, ma anche in E.Lavisse-A.Rambaud, Histoire
gènérale,op.cit. t.V, Paris,1905, pag. 802.
198

Certo che per tutte queste opere sante doveva regalare all’Athos almeno un codice dorato. Ma non
finì qui. Riuscì a far salire per ben tre volte, sul trono della Moldavia l’ altro figlio del marito, (o
semplice parente, sposato ad un’italiana, Maria Amirali), Pietro lo Zoppo, dopo la morte di tutti i
suoi grandi avversari, soprattutto di Giovanni il Terribile, un eroe di guerra, (armeno di mestiere),
che i turchi vincitori, dietro il tradimento dei suoi amici, fecero dilaniare, legandolo alle code di 4
cameli, (1574).
Il protetto di Madame Chiajna, fu accompagnato, oltre che dall’esercito turco, anche dal napoletano
rinnegato, Scipione Cigala, chiamato da musulmano, Djigalà-Zadé, il quale compì il primo gesto
del sacrificio del principe moldavo: lo accoltellò a tradimento. Per pura pietà, si capisce, gli italiani
essendo, in genere, compassionevoli. Così, Giovanni non sentì in pieno lo strazio del dilaniamento
dei camelli, però ebbe il tempo di sospirare: “tante morti ho dato ai miei nemici: ma a questa non ci
avevo pensato “.
Giovanni il Terribile non fece in tempo di costruire -anche lui- ad Athos qualche chiesa, perché
regnò solo per due anni. Abbastanza, però, per fare scomunicare e poi bruciare vivo il Vescovo
Gheorghe di Roman, per togliergli i beni. Mi sembra però che lo accusò di pedofilia. (Accusa facile
e quasi sempre gratuita, anche nei nostri giorni, soprattutto nei confronti di un Prelato). Il
metropolita Teofan, (quello che benedisse l’avvelenamento di Làpusneanu), fece in tempo a
fuggire. Le prigioni erano strapiene di monaci. Molti di loro, fra i quali popa Cozma e Molodetzu, il
monaco, furono sepolti vivi. Non c’è da stupirsi: Giovanni il Terribile, nella sua vita, nacque
armeno monofisita, in Polonia si fece luterano, a Stambul musulmano, da Domn in Moldavia, fu
cristiano ortodosso, e Hajdeu181 dice che, se fosse finito sul trono di Spagna, sarebbe stato
concorrente di Filippo II nella difesa del Cattolicesimo.
Ma il grande storico lo difende: anche Cesare in Gallia adorò gli dei degli druidi; e Napoleone,
l’Alach dei mameluchi, in Egitto; io aggiungerei: Carlo II o Michele della Romania, pur di regnare,
furono battezzati ortodossi. I Grandi, dunque, hanno una sola religione: quella del potere e della
gloria. Le eccezioni si contano a dita.
Il successore, protetto di Madame Chiajna, era l’opposto di Giovanni. Un cronista turco
scrive che: “Petru lo Zoppo fu collocato sul trono di Moldavia fra le lacrime del popolo che
rimpiangeva Giovanni”. In realtà, Giovanni il Terribile si fece amare dal popolo moldavo, più per
aver massacrato i nobili che per essere riuscito a migliorare la vita dei poveri. Lo stesso popolo,
come spesso succede ai popoli, si è sbagliato sul conto di Pietro, che, da vecchio e zoppo, fu un
Sovrano devoto e magnanimo.

181
Uno dei più grandi storici e letterati romeni, di colossale cultura universale. Parlava 12 lingue e lasciò un opera
straordinaria. Negli ultimi anni, per dolore della morte della geniale poetessa e figlia, Julia, si occupò di spiritismo.
(1838-1907)
199

Chiajna si pentì subito del suo gesto, perché Pietro la disprezzava; e proteggette (con sacchi di
denaro-oro) presso i turchi il proprio fratellastro (o presupposto tale), Jancu Sasul, (1579-82) che
fu subito portato sul trono moldavo, cacciando Petru. Madame si aiutò in questa nuova impresa dal
ricchissimo italo-albanese, intrigante, per quanto colto, Bartolomeo Brutti.
L’avventura durò poco, Madame Chiajna rimase subito delusa di questo fratello ingordo che
s’inventò una nuova tassa sulle mucche, ( ogni 10 ne voleva 1), pur regalando ai monasteri qualche
drappo. E…se Chiajna rimane delusa, la fine del caduto in disgrazia è vicina. Jancu fuggì in
Polonia, presso gli amici, trascinandosi dietro 100 carri di ogni ben di Dio, di cui 40, pieni di sacchi
di denaro in oro. A Leopoli, i cristianissimi polacchi lo accolsero con cene festose e pompose
cerimonie, finché riuscirono a mettere le mani sul correddo dei carri. Un attimo dopo, il Sasul fu
accusato di alto tradimento (?!) e, dopo un processo-farsa, decapitato festosamente, con tanto di
tamburri, nella miglior piazza della città. Dopo di ché gli fecero un funerale maestoso e lo
seppelirono nella chiesa dei Bernardini, sempre a Leopoli, dove fu decretato il lutto nazionale.
Intanto, lo Zoppo riuscì a tornare sul trono di Moldavia, aiutato da Madame Chiajna e da Brutti,
(pentiti, per il gesto…!). Il nuovo Domn si riportò indietro anche il proprio Metropolita, Teofan,
troppe volte fuggiasco, anche lui, aldiquà e aldilà dei Carpazi.
Ma poi finì anche lei, l’imperturbabile Chiajna, ( forse nel 1589, forse dopo), non si sa se
uccisa o nascosta, in casa o in esilio, da cristiana o da (falsa) musulmana, maledetta ma anche
ammirata dalle cronache e dagli storici di quelle terre.
È stata un mostro, questa Doamnà? Forse; ma non più dei suoi avversari e neppure della
concorrente, Caterina de Medicis; né più dei civilizzatissimi contemporanei, fautori della notte di
San Bartolomeo o dell’Inquisizione calvinista di quei tempi, in paesi che ancora oggi si considerano
superiori! I soldi di Madame Chiajna fruttavano regni, nei tempi di un Henri il IV che gridava :
“Paris vaut une Messe” e di qualche regina inglese, che, tagliandosi il petto (si fa per dire) trovava
nel cuore il nome “Calais”.
A me, questa Doamnà, Chiajna mi è simpatica. La mia infanzia è piena delle storie delle sue
gesta. E lo skit Iezerul, la sua fondazione, si alza ancora, a due passi dalla mia città natale! Però! Se
pensi che quando Lady Chiajna si inventava i suoi benefici delitti, dall’altra parte del continente
viveva e scriveva l’amico Shakespeare! Puoi perciò meditare alle azioni della Chiajna, sugli accordi
dell’opera Machbeth di Giuseppe Verdi!

Quando il Patriarca Geremia II, nel 1589, passò per Iassi, Petru lo colmò
(disinteressatamente) di regali e tesori al punto che il cronista presente, Ieroteo, scrisse:
”quest’uomo era degno di regnare, non in Moldavia, ma a Costantinopoli”. Geremia fu
200

riconoscente, tentò, ma non riuscì a convincere i turchi a dare a Petru gli ambi i Troni dei Paesi
Romeni. Era arduo. Significava unificare la Romania. Petru era stato già cacciato tre volte dal trono
di Moldavia e ricevette questo rifiuto come una minaccia. Alla fine, per paura che suo figlio
minorenne e amatissimo, Stefan, nominato Domn dai turchi, potesse finire violentato e trasformato
in musulmano –come di regola succedeva- si fece le valigie in perfetto segreto e fuggi con tutta la
famiglia, perfino con il metropolita, pro-cattolico, Gheorghe Movilà, nell’Impero Austriaco,
(cristiano), a Bolzano, più precisamente. Laggiù fu umiliato, sospettato, emarginato e visse deluso.
Il Metropolita, ( un dotto) era ironizzato dai gozzutti tirolesi che lo cognominavano “bue nero, asino
ignorante”. Petru, (benché diventato cattolico in tempi non sospetti, con un segretario come
Bartolomeo Brutti, che gli aveva insegnato come farsi raccomandare al Papa dal suo stesso
metropolita - convertito anche lui, o almeno ecumenista ante terminem-) morì deluso della bontà
dei cristiani occidentali. Che, ieri come oggi, da credenti o da rinnegati, si considerano superiori,
senza nessunissima prova. Deluso…e felice di non aver saputo che i suoi sudditi, i Vescovi
ortodossi moldavi avevano offerto al Papa Sisto V nientemeno di 50.000 ducati per farlo cacciar
via dal trono; ed il Papa, ingannato da tutta quella confusione, aveva accettato. Solo grazie a Brutti,
che pagò ai turchi 260.000, Petru era riuscito a conservarsi il trono, per un altro po’, magari come
aiutante del figlio Stefan. Brutti fu ricompensato per questo soccorso con una morte atroce dal
successore di Petru, Aronne; e questo, perché non fu ispirato a scappare in tempo.
A proposito: il suo fedele metropolita, Teofan, che più di una volta aveva rischiato la vita
insieme con il suo Sovrano, si ritirò dal trono e partì per il Monte Athos, in pieno dicembre del
1587. Avrà capito l’inclinazione di Petru per l’Occidente cattolico ed il desiderio del Sovrano di
proporsi un metropolita dalle sue stesse idee. Ciò che fu fatto davvero. Teofan partì per Dohiariou,
il monastero restaurato da Làpusneanu, dove lo troveremo anche noi, guardandoci da un curioso
dipinto. Non poteva fare meglio. Avrebbe finito forse… evirato. E non scherzo: il Domn che i turchi
misero per stizza, dopo la fuga di Petru, fu Aronne il Tiranno, ( un altro “terribile”), 1591-92.
Anche se regnò per poco tempo e per due volte, in combutta col fratello, Petru il Cazacco, erano,
ambi, figli di Làpusneanu e questo la dice lunga. Ce li immaginiamo al lavoro del mattatoio di
nobili, se, perfino i turchi, schifati dalla terribile fama delle torture ed assassini che ordinavano,
decisero di mazilirli. Intanto, Aronne ordinò che il Vescovo di Roman, Agaton, sia coronato
metropolita, ma, pochi mesi dopo, lo cacciò, per far salire sul Trono primaziale lo zio Nicanor, che
aveva già tolto dall’isichia del suo monastero, Agapia, per farlo consacrare Vescovo a Roman. È
stato tutto un gioco, uno scherno per il povero zio. Il quale, mentre si preparava-controvoglia- per la
cerimonia di incoronazione a Primate, fu rapito dalla polizia del Sovrano-nipote- e portato nelle
cantine reali, dove…. fu castrato. Fra i dolori terribili si sentì dire:
201

-Questo è il minimo che ti meriti, per avermi picchiato, quando ti ho visitato, da ragazzo, ad
Agapia.
L’infelice non morì. Resistette sul Trono metropolitano, obbligato di star vicino al nipote ed
alle sue gozzoviglie. Fin quando, non si sa come, fu lasciato tornare nel suo eremo, dedicato
anch’esso ad Athos. Uno dei suoi successori, Mardarie,-greco di mestiere- fuggì in Athos pochi
anni dopo, “per trovare la pace, dopo tanti batticuori in paesi stranieri”.

Gheorghe Movilà, invece, si consolò meglio. Dopo la morte di Petru in Tirol, tornò in
Moldavia, dove regnava suo fratello, Jeremia Movilà. Il quale lo incoronò di nuovo Metropolita
Primato. Per dimostrare pienamente la sua ortodossia, Gheorghe andò a Costantinopoli a firmare
anche lui la petizione per il riconoscimento del patriarcato di Mosca. Il gioco durò poco! Fu
costretto a rifugiarsi in Polonia, dove le figlie di Jeremia, sue nipoti, erano diventate cattoliche; ma
facevano costruire chiese ortodosse. Mentre i Domni romeni che giuravano fedeltà al Papa ed anche
ai turchi, facendo i cattolici o i musulmani, continuavano a beneficare il Monte Athos ed a costruire
monasteri attoniti-ortodossi- nelle terre romene.
Provi qualcuno ancora a dire che l’ecumenismo e la confusione dei riti e delle fedi è opera dei nostri
tempi.Semmai, escludendo i Paesi romeni.
Ma perché sto raccontando queste storie sui grandi benefattori, devoti e sanguinari, di un
monte santo come il Monte Athos? Ecco perché: tento di spiegarmi il motivo per cui il Signore Dio
si trova nella situazione spiacevole di dover purificare più volte col ferro e col fuoco un luogo santo
offeso da doni macchiati, regalati da esseri macchiati, per monaci, ogni tanto, macchiati.
Tornando a Iviron, osserviamo che della chiesa del X secolo rimase il pavimento solo, con
un mosaico originale e quasi intero, che vale quanto tutto il monastero.
Intorno al 1600, Radu Mihnea, nipote di doamna Chiajna e figlio di Mihnea Turcitul, passò
l’infanzia a Iviron. I monaci, come ricordammo sopra, gli pagarono gli studi a Venezia e poi a
Padova, presso l’università cattolica “Il Bò”, dove imparò ad amare il lusso, il fasto e l’arte,
manovrando con facilità le principali lingue europee ed anche il turco. Non si sa perché i monaci
non lo mandarono a Mosca. Lui, riconoscente, regalò al monastero dei preziosi manoscritti, legati in
oro e argento, nei quali ancora dorme la sua ombra da secoli. Così, il Dio cristiano lo aiutò a
sfuggire all’ira turca; anzi, con il cambio di guardia a Costantinopoli, diventò simpatico presso la
Sublime Porta, a cui, -a sentir le cronache- rese molti servigi, ( chi sa di che tipo?) e diventò Domn.
E da Domn, dedicò il monastero Radu Vodà di Bucarest, proprio a Iviron, come riconoscenza ai
monaci, (1613 o 15). E, forse, per farsi perdonare della fiscalità eccesiva con la quale impoverì il
paese. Pare che ci sia rimasto il suo volto affrescato nel katholicon accanto al superiore Gregorio
202

(1626) ed alla figura di suo padre, il Turcitul; ma è più sicuro che il giovane sia il moldavo
postelnic182 Nicolae Catargì, (1619). Intanto diede annualmente un’ offerta di 26000 di aspri,
seguendo l’antecessore, Radu Serban, (1605)
Fino al XIX secolo, i sovrani romeni offrirono a Iviron terre agricole sterminate e monasteri
con villaggi e montagne. Nel 1625, Alexandru il Coconul, il figlio di Radu Mihnea, nel suo primo
regno a Bucarest, (1623-27) dedica a Iviron i due monasteri vicini al villaggio di mio nonno,
l’artista Popian; si tratta di Bolintinul e di Glavacioc. La prima non esiste più. Nella seconda,
aspetta la risurrezione il Domn, Vlad Càlugàrul, (il Monaco), le cui opere le abbiamo ammirate più
volte, durante questo nostro periplo.
(Povero Cocon183! Fu investito dai turchi come Domn della Terra Romena, per fare un
piacere a colui che nel frattempo era diventato un loro protetto, Radu Mihnea,- suo padre- diventato
Domn in Moldavia. In realtà, governava sua madre, Donna Arghira in combutta con un gruppo di
nobili, mentre presso la Alta Porta tirava le redini il suocero, il mercante greco, Scherletto, che gli
aveva infilato controvoglia sua figlia Ruxandra, come moglie. Però, malgrado i loro artefatti talenti,
le loro astuzie non funzionarono abbastanza presso i turchi, la cui ingordigia è sempre stata infinita.
Malgrado le elemosine ad Athos, il poveretto fu mazilito 184. Non sono riuscito a scoprire con quale
morte ha finito i suoi pochi anni di vita).
Il più importante dei suoi successori, l’albanese-romeno Vasile Lupu, (1634-53) fece
costruire nella sua capitale, Iassi, la meravigliosa cattedrale, in onore dei tre Padri della Chiesa, ( la
Tre Gerarchi) la più bella della Moldavia ed una fra le più belle chiese bizantine del mondo.
Ebbene, la offrì interamente a tutto il Monte, soprattutto alla Megali Lavra, e ad Iviron, e così
rimase fino a Cuza, nel 1863. Zografou, Vatopediou, Karakalou, Hilandariou ricevettero, nello
stesso periodo, i migliori conventi moldavi in omaggio. Vasile fu chiamato “il sostituto dei Basilei
sacrissimi ed ortodossissimi”, che nella bocca greca sono parole vuote.
Stiamo tranquilli, i monaci greci, ma anche gli “studiosi specialisti” non muovono parola su questo
tema. Restano i documenti ed i fatti, ma la riconoscenza non esiste da nessuna parte. Questo è uno
dei finali. Il secondo è che con tutti questi doni elargiti a vanvera, se i sovrani romeni avessero mai
pensato al proprio popolo, in questi (ultimi) due millenni di storia, oggi la Romania sarebbe il paese
di Bengodi.
Leon Vodà (1629-32), invece, in Muntenia, obbliga la famiglia del nobile Stelea di dedicare
a Iviron la ricca chiesa Stelea di Bucarest.

182
Titolo nobiliare del personaggio che si occupava delle stanze intime del sovrano romeno.
183
Era un bambino, cocon è un vezzegiativo ironico, “ principìno”(rom.)
184
Destituito, bandito. Parola tecnica turca in quei tempi per annunciare la caduta in disgrazia.
203

Da qui, da Iviron, partirono per diventare metropoliti primati a Bucarest i colti monaci Luca
di Cipro, ( 1603-29) e Gregorio di Stelea, (1629-36), fautore, il primo, dell’influenza greca,
diventata soffocante in Romania, sotto Radu Mihnea 185 e sotto il rivale, Alessandro Iliasci.
Gregorio, il metropolita successiva, romeno di origine, fece cambiare l’aria, implicando anche il
Domn, Leon Vodà, (1629-32). Ambedue iniziarono la fronda contro i greci e diminuirono la torta
per Iviron et &. Nel loro tempo pascolava la gregge di Kiev il metropolita romeno, Petru Movilà.
La sua Confessione di Fede, approvata e pubblicata da un vero Concilio panortodosso, nel 1642,
incluse non solamente i metodi, ma perfino alcuni contenuti della teologia scolastica. Oramai è
pacifico che la ragione illuminata dalla Fede, pur se critica e perplessa, porta a Roma. Il testo di
Movilà, diventato un vero catechismo, scritto con l’ingenuità dell’anima pura, è una testimonianza
della Fede cattolica degli ortodossi, contraddetta dai preconcetti. Ma Petru segnò per i romeni
l’influenza russa, contrapposta a quella greca, e gli interessi cambiarono direzione. Perciò, il
Concilio di Kiev, del 1642 è stato un‘occasione mancata per la riscoperta delle radici identiche delle
due Chiese.
Intanto Iviron continua ad essere beneficato dai romeni. Costantino Serban
Basarab186dona 10.000 aspri. Gheorghe Stefan (1653-58) e Grigore Ghica (1672-73) seguono
con altri 3000 e 7000 aspri, dati fino al 1672, per restaurare la pittura.
La decorazione interiore, gli affreschi, le icone, sono il merito del sovrano Serban Cantacuzinò, il
grande mecenate della Bibbia in romeno.
Ecco la cappella, tutta romena, segnata in greco. (Mai, i romeni hanno considerato degna di
attenzione la loro lingua. Dopo la moda dello slavo e del greco, è arrivato il francese, il tedesco, ed
oggi l’inglese). “O Evsevetatos ke lamprotatos ighemon panta Ungrovlahias, Kyr Serban
Kantakuzinò e figlio suo, Ghiorghios”; lui con il re dell’Iviron tengono la chiesetta nelle mani.
Damian,“epitropo”, presente anche lui. Splendori in oro, sculture, pittura bizantina italianeggiante,
l’anno 1683. Nel 1686, la chiesa è stata dipinta interamente, con la spesa di Serban Cantacuzinò,
il “Domn della Valacchia romena” e sotto Teofan, il metropolita, votivo sul muro del nartece.
Serban fa dipingere di nuovo anche la chiesa della Madonna portaitissa, nel 1680, che visiteremo in
seguito.
Abbiamo già incontrato prima, questo Domn, Serban Cantacuzinò (1678-88), che, proprio
perché atletico ed attraente, rubava al suo antecessore e benefattore, Duca – Vodà, corona, trono e
moglie, (senza aver forse letto Hamlet, che era già scritto da 70 anni!). Ebbene, è corso anche lui ai

185

?
Il quale fu troppo turbolento per non dover fuggire più volte e regnare più volte ancora, fra 1601 e 1626 nei due regni
romeni, come, del resto molti dei Sovrani del tempo, tartassati dai turchi.
186
Figlio di Radu Serban, 1654-58.
204

ripari con il Padre Eterno: bellissime chiese a Bucarest 187, chiese in Athos, doni di qua, doni di là,
culminando con la prima traduzione e pubblicazione della Sacra Bibbia nella lingua del suo paese,
un profumatissimo romeno, (1688). E, poi, finita la stampa della Bibbia, fu avvelenato dal suo
devotissimo nipote, fra un salmo e l’altro.
Forse l’azione che gli avrà purificata l’anima sarà stata l’aiuto clandestino e furbissimo dato
all’esercito imperiale sotto le mura di Vienna, nel 1683. Come sappiamo, in quella battaglia, la
partita era perduta per i cristiani. I turchi vi erano oltre 200.000, decisi di impugnare Vienna e tutta
l’Europa, una volta per sempre; e di abbevverare i cavalli alle fontane di San Pietro. Da parte
occidentale, l’unico a muoversi con serietà era il Papa Innocenzo XI che, tramite un generoso
finanziamento, era riuscito a distanziare il re polacco Sobietzki III, (1674-96) dal re francese, Luigi
XIV, alleato dei turchi. E mandò, come legato, il padre cappuccino, il futuro santo, Marco
d’Aviano. Che fu il vero stratega della battaglia e l’uomo del miracolo. Riuscì a radunare soli
22000 cristiani più 700 studenti, assediati, in attesa delle armate di Jan Sobietzki che ritardavano.
I Domni romeni erano stati forzati dai turchi a venire di persona, in testa ai loro eserciti, contro i
loro fratelli cristiani. Cosa s’inventa Serban? Ce lo dice lo storico fiorentino, Antonio Maria del
Chiaro188, presente sul fronte: “caricava i cannoni con palle di paglia, mentre informava i cristiani
su tutte le mosse del turco; e faceva imbrogliare le azioni turche, per ritardare l’assalto”. Gli
storici sono concordi: se Serban non avesse fatto indugiare, con mille astuzie, l’assalto turco,
l’esercito ritardatario del re polacco, salvatore di Vienna, avrebbe liberato solo un cumulo di
macerie. Ma la gratitudine delle nazioni occidentali non si è fatta mai sentire nei confronti del
valacco; neanche nella storiografia. Per di più, Serban non fu ucciso dai turchi, bensì dal proprio
fratello e dal nipote, il futuro martire e santo della Chiesa Ortodossa Romena, il magnifico
Bràncoveanu Constantin, boier vechi si Domn crestin.189……
Nel ‘700, un certo Stavracoglou, che Dapontès chiama “beato” mandò più di 10.000 leoni
d’oro per ricostruire e restaurare le mura e le celle di Iviron, più il paraclisos di San Giorgio.
“Anche a me diede 500 leoni, per adornare la Santissima Croce con pietre preziose. E 150 per
comprare un lampadario d’argento. Ma le due più grandi che ho regalato a Xiropotamou me le
sono portate dai Paesi Romeni.”190 Grazie, Dapontès per la tua sincerità !
Nel 1764, il banchiere Stavrache manda anche lui 10.000 grossi, unendosi a un coro di
anonimi benefattori che tennero in piedi la gloria e la bellezza di questo romantico monastero.

187
La più importante chiesa di Serban a Bucarest, nel cortile del monastero-palazzo reale di Cotroceni è stata demolita
con odio e passione negli ultimi anni della dittatura comunista della famiglia Ceausescu, (fra 1985-88).
188
Viaggiatore fiorentino, storico e fine osservatore dei costumi europei del suo tempo, (1669-1730). Diventa segretario
di più Sovrani romeni e scrive in un suggestivo italiano dell’epoca “l’Istoria delle moderne rivoluzioni della Valacchia”
ripubblicato a Bucarest in originale, nel 1914.
189
Verso del poeta V. Alecsandrì. (rom.)
190
Citato abbreviato dal “Catalogul istoric”, op. cit. pag.195ss.
205

Intanto i due cutzovlacchi ci accompagnano con stile e umiltà. Grazie a loro, possiamo
vedere, venerare e fotografare le magnifiche relique, che tirano fuori solo per ospiti speciali.
Sono tanto amorosi, anche perché romeni originali, che si sentono stimati, venerati da noi.
E, soprattutto perché possono sfogarsi senza pericolo. Ma, sempre qui, a Iviron, circola la storia
che, durante la terribile fame del 1917, il superiore, già avaro di mestiere, ha trovato la scusa per
proibire ogni elemosina. Per cui, invece di stare meglio, i monaci si sono ridotti a triste indigenza. E
non ne comprendevano il perché.
Un giorno, venne Gesù Stesso in forma di povero. E l’unico a impietosirsi di lui fu il
monaco portinaio che, disobbedendo al superiore, gli infilò la sua porzione di pane. Con la faccia
brillante di Luce, il Signore gli disse: “finché non ritornerete alla virtù dell’elemosina, sarete sempre
più indigenti. Perché solo colui che dà, avrà”.
Il portinaio non fu creduto, ma il giorno dopo, lo videro in una luce gioiosa, mentre faceva la
Comunione -segno della sua sincerità e santità. I Padri, pentiti, aprirono i provigi ai poveri e Dio
ritornò a colmare il monastero di ogni benedizione. 191

ICONE FELICI, MIRACOLOSE

A Iviron si può ammirare e venerare un’icona tutta speciale di San Giovanni Battista, di cui
ti raccontano che, essendo lui il Capo e l’Inizio dei monaci e degli eremiti, alla fine dei tempi sarà
coronato capo del nuovo battaglione di angeli, al posto del vecchio Lucifero. Il mio patrono,
dunque, con tutti i monaci e chierici degni dovranno rimpiazzare gli angeli caduti. Un’icona del
XIII-esimo secolo, dell’Arcangelo Michele completa il quadro.
Però: l'icona più venerata a Iviron è quella della Beata Vergine, chiamata Portaitissa
("custode della porta"), conservata in un'apposita cappella. È del tipo dell'Odighitria, ed è
conosciuta in Russia col nome di Ivriskaja, “la Madonna di Iviron”. Sarebbe stata dipinta da san
Luca, il quale, stando alle icone rimaste da lui, con la sua collezione riempirebbe da solo il Louvre.
(Forse per questo non ebbe il tempo di scrivere un Vangelo un po’ più dettagliato)192.

191
In S. Anagnostopoulos, op. cit. pag.308.
192
La vera “Odighitria”, che per l’Impero d’Oriente fu quasi un palladio durante vari secoli, passò dalla Terra Santa in
cui era stata scoperta, a Costantinopoli. Athenais Eudokia, sposa di Teodosio II, (408-450) l’avrebbe inviata a
Pulcheria, sorella del sovrano. Fin dal suo arrivo nella Capitale, fu oggetto di culto, essendo considerata autentica, di
San Luca. Fu onorata prima delle icone di Cristo, ( ma sempre dopo il Concilio di Efeso, 431), l’iconografia bizantina
ed il suo culto, sviluppandosi appena dopo Giustiniano.Vedi lo studio di A. Grabar, Le vie della creazione
nell’iconografia cristiana, ed. Jaka Book, 1999, pag.113.
206

La storia che raccontano inizia con una vedova che teneva l’icona nella sua casa, ma l’ha
dovuta buttare nel mare, a causa degli iconoclasti minacciosi. Questo vuol dire che il fatto è
accaduto intorno all’800.
Un suo figlio, dopo la morte della madre, si fece monaco all’Athos e raccontò questo fatto ai
padri. 170 anni più tardi, il 16 aprile 1004, martedì dopo Pasqua, i monaci di Iviron videro questa
icona nuotare sul mare davanti al loro monastero, avvolta in una fiamma che sembrava toccare il
cielo. Si seppe in seguito che, prima di finire ad Iviron, l’icona era stata raccolta dall’acqua da un
saraceno che l’ha colpita al viso e l’aveva ributtata nel mare.
Veramente essa porta i segni di una ferita al viso; fu vista nuotare vicino alla spiaggia di Iviron
scortata da due piccoli lumi.
Un eremita georgiano, di nome Gabriele, la raccolse nuotando e la portò sopra l'ingresso della sua
grotta; aveva ricuperato anche i due piccoli lumi, che fissò vicino all’icona. Nel luogo dove fu
collocata, uscì acqua benedetta e guaritrice.
Saputa la cosa, l'egumeno fece trasportare l'icona nella chiesa del monastero, ma il giorno dopo fu
ritrovata al posto di prima. Il superiore decise di non opporsi al volere della Madonna. Dopo
qualche tempo, nell'aprire l'ingresso del monastero, il portiere si accorse che l'icona miracolosa si
trovava al di sopra del portone principale. Corsero allora i monaci alla grotta dell'eremita. Gabriele
era morto e i due piccoli lumi erano spariti.
D’allora, i miracoli si moltiplicarono e l’icona diventò “la guardiana “ del Monte Athos.
Una riproduzione di quest’icona fu portata in Russia e guarì la figlia paralitica dello Tzar
Alessio Michailovici Romanov, (1645-76) che, per riconoscenza, donò al monastero di Iviron un
metocco ricchissimo a Mosca, la chiesa di San Nicola al Kremlino, che rimase athonita fino alla
disonesta rivoluzione del 1917. Lo Tzar in questione non si dimostrò particolarmente rinsavito da
questo miracolo: si mise a riformare la Chiesa, tutt’intera, con il suo Codice del 1649 e gli usi
liturgici con le leggi del 1666-67, provocando il doloroso scisma dei “Vecchi credenti”.
Nella chiesa di Iviron, davanti all’Icona Portaitissa, fu collocata, a mo’ di candeliere, una
pianta di limone d’ argento dorato di 50 kili. Oggi vi vediamo un rivestimento sontuoso fatto da pii
russi nel sec.XIX ma, sotto di esso, esiste un altro, in argento dorato, cesellato, una sorte di diadema
data forse da Donna Despina, sposa del Domn Neagoe Basarab, (1521). Non ce ne sarebbe da
stupirci, visto che per la rifinitura degli ornamenti del monastero di Argesci, lei si vendette i propri
gioielli. Ma i monaci non permettono nessuno studio a riguardo.
Nel 1865 il monastero fu devastato da un grande incendio; di qui il carattere recente di molti
suoi edifici. Che guardi con disagio e sospiri: “chi sa quante bellezze ci siamo perse!”
207

Ritardiamo, fissando i nostri sguardi stupiti sulla magnifica illustrazione dell’atrio,


affrescato secondo tutte le regole della teologia e della pittura sacra. Intorno alle porte, è
rappresentato, meglio che altrove, il Giudizio supremo, in un tardissimo bizantino. Appare anche il
terremoto finale, con le sue catastrofiche conseguenze. La Trinità e le corone per i martiri si
gloriano in nuvole di splendore. In un piccolo spazio come quello sono presenti tutti i dettagli del
Giudizio, nessuno escluso.
Nel katholikon il Pantokrator ti guarda con una dolcezza incomparabile. Il policandro splende nel
buio, perfino nella mia foto fatta senza flash.

MANOSCRITTI E LIBRI

Sant'Eutimio, il primo egumeno di Iviron, nel 1000, si rese celebre per l’immenso lavoro di
traduzione e adattamento di scritti ecclesiastici dal greco in georgiano. Per mezzo suo, i georgiani
conobbero le opere di San Basilio, di san Gregorio Nazianzeno, come pure I Dialoghi del Papa, San
Gregorio Magno. Per fortuna, non fu gettato dal mulo prima di finire questa grandiosa opera.
Verso 1040 venne a Iviron il monaco georgiano Giorgio l'Athonita, che succedette a
sant'Eutimio come egumeno e come traduttore; per opera sua, il patrimonio letterario costituito dai
libri liturgici bizantini passò nella letteratura georgiana.
Iviron rimase un centro culturale georgiano fino all'inizio del XVI secolo; da allora lo
abitarono solo monaci cher scrissero e leggettero in greco. Tuttavia, nella biblioteca vi sono ancora
preziosi manoscritti georgiani. Del resto, dall’incomparabile arricchimento della biblioteca lungo i
secoli, ti rendi conto del movimento culturale, oltrecché religioso, espresso fra queste mura da
intelligentissimi monaci. Infatti, Iviron possiede una biblioteca, tra le più ricche dell'Athos, la più
ricca in libri stampati, dopo quella della Grande Lavra: 15000 titoli. Possiede oltre 2000
manoscritti, di cui settanta su pergamena, fra i quali 18, regalati dai romeni. Ricordo un manoscritto
greco con molte miniature del XIII secolo che contiene il romanzo dei santi Barlaam e Ioasaf (o
Giosafat), che è una trasposizione (fatta probabilmente da San Giovanni il Damasceno) della vita di
Buddha sulla persona di Ioasaf, figlio di un re dell’India. Il quale, convertito al Cristianesimo dal
santo eremita Barlaam, riuscì a convertire anche il padre e, rinunciando al regno, si diede con
Barlaam alla vita monastica. Questo fu un libro che produsse molta impressione in quei secoli.
Oltre ai manoscritti, agli incunaboli ed ai codici miniati dei secoli XI-XIII, ti stupisci per i
preziosi paramenti sacerdotali e gli oggetti di oreficeria, sparsi fra la biblioteca, le chiese, l’archivio,
la tesoreria.
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Per poter vedere queste meraviglie, ti costa un avventura. La biblioteca ed il tesoro sono
ospitati in un edificio in mezzo al cortile. Nella biblioteca, dopo la prima porta si apre la seconda,
poi la terza, chiuse con ferriate grosse, oggi inutili. Sono aperte ogni volta con tre chiavi tenute
separatamente da tre testimoni. Un rito intero per salvarsi dai ladri. Ma spariscono lo stesso, le
cose: manoscritti, libri, oggetti sacri, qualunque cosa. Oggi, ignoro se la regola è uguale. Ma in
materia di sparizioni, le regole sono identiche dai tempi di Caino.

Un po’ per vocazione, un po’ per disgrazia, nel 1300 visse qui Calisto, il futuro patriarca;
nel 1800, il georgiano Benedicto; nel 1900, vari monaci teologi e storici che pubblicarono libri e
album sull’Athos.
Qui viveva, esiliato, il patriarca ecumenico, Gregorio V, quando il Santo, (copiatore dei latini e
anti-latino), Nicodemo l’Aghiorita gli scriveva, pregandolo di ribattezzare un cristiano venuto
dall’Ungheria, non si sa se cattolico o ortodosso, ma “bisognoso di Battesimo, perché battezzato,
forse, per aspersione”.
Per quanto era colto e aperto, (un greco aperto avete mai visto dai tempi di Epicuro?)
Nicodemo non sapeva che si può battezzare validamente in tre modi. I greci attuali hanno
l’aggravante di non leggere la Didaché apostolica, scoperta proprio da un vescovo greco 193, in una
biblioteca tutta greco-ortodossa, libro in cui si riconosce chiaramente la validità dei tre modi: per
immersione, per aspersione, o versando sul capo.
Fuori del monastero, presso il mare, ti abbeveri alla fontana ritenuta miracolosa: sul porto,
ammiri la torre dell’arsanà, del 1626, romena anch’essa. C’è anche lo skit di San Eutimio, di
Ignatie il romeno, un famoso copista e disegnatore di manoscritti. Ho sentito anche dello skit
Hairu, dove il monaco Eusebio ha copiato molti manoscritti, nell’800.
Da Iviron dipende lo skit dedicato a san Giovanni Battista (Prodromou), distinto
dall'omonimo, dipendente dalla Grande Lavra.

Andiamo via da Iviron con un’immensa gioia lasciataci nel cuore dal senso di familiarità e
di parentela coi sovrani della nostra infanzia, col metropolita Antim Ivireanul e coi nostri ricordi
esiliati. I due vlacchi ci accompagnano con stile e umiltà, la separazione da loro ci sembra
straziante. La loro realtà gesta in noi delle reazioni contrastanti. Commentando la loro situazione ed
in genere, le cose viste e sentite, ricevo da Gigi risposte stizzite. Alla fine constato che non gli va

193
Il Metropolita di Nicomedia, Philoteos Bryennios, che la scoprì nel 1873 o’75 e la pubblicò nel 1883, fondandosi su
un manoscritto greco su pergamena del 1056-57, del Patriarcato di Gerusalemme, ( portato da Costantinopoli), scritto
dal notaio Leone. Esistono frammenti della Didaché su manoscritti del III e IV secolo.
209

bene nessun discorso mio. Qualunque cosa vede e sente, continua a ripetere: “che si sente
scandalizzato da tutti: dagli ortodossi, dai cattolici e anche da me”.
In queste circostanze, continuiamo a camminare verso sud. Il Santo Rosario che recitiamo
cambia l’atmosfera, che ci porta a Karakalou.

KARAKALOU

Sono contento di essere riuscito a prendere una bella foto col monastero che sorge alto
vicino al mare, sul versante di una collina. Si innalza fra spigoli di rocce e vette d’alberi, mentre le
querce vicine sembrano sentinelle giganti, dando importanza solo ai flutti roteanti che carrezzano le
fondamenta del castello. Ci troviamo nella parte nord- est della penisola, e te ne accorgi dal sole
che, durante il nostro viaggio a zig-zag, sbucca dal mare, sia all’alba che al tramonto.
Il nome ha creato la leggenda (e non l’inverso), che il primo fondatore fosse l'imperatore
Caracalla (211-217); motivo per cui, la figura dell’imperatore romano è stata dipinta su uno dei
muri della chiesa. Sembra invece che se ne riferisca a un certo monaco, Nicola Karakalas. Un atto
del prothos Niceforo attesta l’esistenza del convento nel 1018.
Da piccola kellion-cella- nel XI secolo, il fondatore la trasformò in un grande monastero. Lo
sappiamo da un documento chrysobulla- dell’Imperatore bizantino, Romano IV Diogene, (1068-
1071); e fu dedicato ai santi Apostoli, Pietro e Paolo.
Povero, grande Basileo: un bell’ uomo, personificazione dell’aristocrazia (come dice Julius
Norwich), era diventato imperatore da sposo scelto con astuzia dall’ imperatrice Eudoxia, vedova di
Costantino X; (Il quale, prima di morire, l’aveva fatta giurare che non si sarebbe risposata; ma lei fu
costretta di disonorare il giuramento, per non perdere il trono. Siccome, per questo fatto assai
innocente, aveva contro il Patriarca ed il Senato, Eudoxia fece sapere che avrebbe sposato il fratello
di Sua Santità Stessa; e, ovviamente, ne ottenne il consenso. Subito dopo il proclama, annunciò il
suo matrimonio con il bello Romano IV Diogene; che, il 1 gennaio, 1068 fu coronato Imperatore).
Per riconoscenza a Dio, il giovane Basileo emanò più documenti difensori dei privilegi della Chiesa
–ed anche del monastero Iviron e Karakalou-, poco prima di essere inghiottito dal tragico della
Storia. E vi fu inghiottito, perché, oramai si sa, tutti i privilegi dati, offerti, emanati per la Chiesa di
Gesù Cristo non potevano -e non possono neppure oggi- superare l’offesa fatta al Patriarca,
rappresentante di Cristo. Per questo motivo, il Basileo non ebbe nessun momento di tregua da parte
delle loro Santità.
Romano andò a tener petto ai barbari turchi selgiucidi e, come sappiamo, perse la battaglia a
Mantzikert, nel 1071. Non sappiamo se le (ingiuste) maledizioni del Capo della Chiesa e del Sinodo
210

ebbero un peso essenziale in questa tragedia, però, è certo che nessuno raccontò abbastanza della
bravura, dell’onestà e del coraggio del giovane Romano IV; e neppure dei continui tradimenti da
parte dei generali, della Corte, dei Prelati ingordi, dei concorrenti al Trono e dell’esercito imperiale.
Solo per questi ultimi motivi cadde prigioniero nelle mani del sultano Alp Arslan, ( cioè, pardon,
leone robusto: il quale di robusto aveva solo il mustazzo lungo fino al ginocchio). Il barbaro non lo
uccise, ma, da bravo turco, gli chiese come riscatto una grossa somma di denaro in sacchi d’oro.
Salvandosi dai turchi, Romano ritornò nella sua Capitale, e… sorpresa: incappò nelle mani dei
parenti, dalle quali non si salvò. Trovò l’imperatrice esiliata dal cognato Giovanni Dukas e tosata
come suora in un convento-prigione. Il nipote, Andronico Dukas, invece di abbracciarlo e di
risolvere il problema che era di tutto l’Impero, lo aspettò con un esercito di balordi e lo vinse in una
battaglia fraterna; e, contrariamente alle promesse, gli fece cavare gli occhi, facendolo morire
miseramente in una lunga marcia nel deserto. Il suo nemico, Michele Psellos, (raffinato scrittore,
quasi beatificato), gli mandò a dire che “doveva essere felice per la sua cecità forzata, dono di Dio,
pegno per vedere la Luce eterna”.
Il trono però rivenne a Michele VII, Dukas, il quale distrusse sistematicamente ciò che rimaneva del
prestigio dell’Impero. L’unico gesto positivo: promosse l’unione con Roma, senza riuscirci. E come
poteva riuscire se i normanni, cristiani occidentali, attaccavano, saccheggiavano, massacravano da
tutte le parti, in special modo i monasteri ed i luoghi sacri? È fuori di discussione che l’Impero
cristiano fu diminuito e poi sommerso dalla rivalità fra i cristiani, più che dalla potenza dei pagani.

I SOVRANI ROMENI VENGONO ANCHE QUI

Dopo ripetute devastazioni da parte dei pirati, (anche qui si lamenta la barbarie dei
“latinofroni”), Karakalou fu restaurato nel XVI secolo.
Cominciò Neagoe Basarab, nel 1517, riempiendolo di donazioni ricche, come di regola. Un
incendio distrusse però l’opera di Neagoe, nel 1530, forse per le maledizioni dei contadini romeni
arrivati alla disperazione per la prodigalità del Sovrano, che a tutto pensava, meno che a lasciare
qualche traccia di pane anche per loro.
Ma alcuni monaci di Karakalou arrivarono in Moldavia, dove Petru Rares (1527-38 e 41-
46) si impressionò delle loro lacrime … e si mise subito a concepire un piano, come riconciliare la
punizione degli avversari con il desiderio di aiutare il Santo Monte. Il piano ne fu ingegnoso:
obbligare i caduti in disgrazia a ricostruire il monastero.
All’inizio, mandò un boier, Pietro, un nemico che doveva decapitare, ma poi lo graziò,
obbligandolo di ricostruire Karakalou. Il poveraccio venne accompagnato da ingegneri ed operai, i
211

quali considerarono che l’opera più urgente sarebbe stata la costruzione della torre di controllo (e di
difesa) del porto. Edificarono la torre alta e merlata, con caditoie e l’arsanà, il porto, tutto nuovo e
ammodernato, una vera fortezza con un ammirevole apparato difensivo; vi si vede ancora
l’iscrizione col nome del sovrano: Petru Voevod. L’ex-condannato si fece monaco ( liberamente?),
col nome di Pacomio, imitando, anche lui, Barbu Craiovescu; 194 Però è vero che ci sono due
Pacomio negli affreschi votivi, che, secondo Marco Beza, sono i due spàtari 195 mandati a turno da
Petru- Voevod, per costruire il monastero. Infatti, il Domn non fu contento della prestazione del
primo e vi mandò un secondo, che fece finire la torre famosa nel 1534. Tutti e due presero il nome
di Pacomio e si fermarono in uno skit vicino, chiamato Spartaghiò, come monaci. Vocazioni vere
od obbligatorie, Dio solo lo sa. Sono dipinti entrambi alla sinistra del nartece della chiesa con
l’iscrizione: “I fondatori di questo Monastero: Pacomio e Pacomio”! ( Marcu Beza dice però che
questa è una leggenda, simile a quella dei fondatori del monastero di Sinaia, nei Carpazi munteni.)
Petru Rares ricostruì tutto il monastero durante il suo secondo regno: 1541-1546,
presentendo che doveva ingraziarsi Dio per i suoi peccati, mescolati ad ammirevoli virtù e ad alto
patriotismo.
Rares, da figlio naturale del Santo Stefano il Grande, fu lodato dagli storici come un vero
principe rinascentista, un figlio spirituale di Macchiavelli, o, meglio, figlio di tutta la Firenze
d’allora. Agli storici francesi bastò questo fatto per comprendere il suo carattere: quando, nel 1538,
perdendo il regno, si rifugiò dalla Moldavia in Transilvania, nudo, ferito alle mani, scalzo, ecc…
appena arrivato nella città romena di Ciceu, si fece dorare gli speroni e la propria uniforme.
Tentò di organizzare una crociata contro i turchi, ma non ebbe, se non tradimenti, da parte
dei buoni cristiani dell’Occidente. Allora, si mise a costruire monasteri, chiese, ospedali e scuole,
come i suoi antecessori. Il Karakalou fu solo un inizio.
Il bello fu che, nel 1535-6, il sultano Solimano il Magnifico diede un firman, dal quale si
capisce che i Domni romeni restauravano Karakalou con un impegno che sembrava un dovere,
senza esserlo davvero. E ordinava che nessuno si mescolasse in questo affare. Con altre parole, i
Domni dovevano avere, anche per il futuro, mano libera.
Con tutto ciò, nel 1568, tutto il Monte Athos passò ore drammatiche: il sultano aveva deciso
la confisca di tutti i beni dei monasteri. Dove potevano lamentarsi i monaci, se non dai sovrani
romeni?

194
Sul sito Internet dell’Athos, le informazioni sui vari sovrani sono molto aprossimative, per non dire sbagliate. Ad
ogni modo, i nobili Craiovesti, pur essendo devoti e prodighi nei confronti dell’Athos, furono addetti della politica pro-
turca e contro i Sovrani che tentavano l’indipendenza. La politica dei nobili era però più realista, vedendo essi
l’indifferenza delle nazioni cristiane dell’Occidente e la mancanza di mezzi per affrontare la marea musulmana.
195
Titolo nobiliare romeno di uno dei principali comandanti dell’esercito regio, nel Medioevo.
212

Così, Donna Ruxandra, la felice vedova di Làpusneanu e figlia di Petru Rares, riscattò il
monastero, pagando a destra e manca fino a 35000 aspri, a condizione che sino alla fine dei secoli
fosse ricordata nelle preghiere. Altri nobili e sovrani fecero ugualmente e l’Athos fu salvato.
Karakalou divenne uno dei monasteri più popolati e fiorenti, nel XVII secolo.
Petru lo Zoppo aggiunge anche lui la sua parte di beneficenze. Mihai il Bravo con la sua
devotissima sposa, Donna Stanca, nel 1597, regalarono una preziosa Croce con scene di sacre feste,
tutta in filigrano. I monaci non la fanno vedere; io la conosco da una rara foto. Mihai la diede come
ex-voto, dopo la vittoria contro i turchi, nella quale strappò loro la fortezza di Giurgiu, ricacciandoli
oltre il Danubio; a questa azione presero parte cento toscani inviati dal Granduca De Medici e
“tutta la nobiltà dell’esercito furono insieme spettatori e testimoni della virtù e del valore degli
italiani” come chiacchiera la cronaca.
Da Matei Basarab, (1640), Karakalou conserva un epitrachilion in fili d’oro, decorato con
santi, frange e ricami. Lo contemplammo con devozione.
Nello stesso periodo le fu offerto il monastero di San Nicola, nella città moldava di Ismail,
città romantica e altrettanto strategica: la costruirono i greci, la ereditarono i moldavi, poi la
grande Romania, poi la Russia, che la invase. Oggi è di nessuno, in terra ucraina.
Intanto a Karakalou, i vari incendi fecero ravagi quasi ogni secolo. Molto andò in fumo
nell’incendio del 1878. Come si sono salvati i manoscritti e le reliquie preziosissime è un miracolo.
Dico questo, perché la biblioteca possiede quasi 2500 libri stampati e 279 manoscritti, di cui 36 su
pergamena. Due sono romene. Ecco anche un Messale con la Liturgia di San Basilio, del sec.XVI
regalato da due monaci romeni. Ammirevole un epitafios,196 del secolo XVIII-esimo, romeno,
(moldavo) davanti al quale i fratelli dell’Eteria giuravano fedeltà. Prova che i massoni eteristi,
nazionalisti e desiderosi di liberare la loro patria dal giogo turco trovavano appoggio qui,
nell’Athos; qui, i greci imparavano la lingua e la religione dei Padri, preparandosi per il giorno
vittorioso della libertà. La quale arrivò, mai completa, per tutto il territorio dei greci, nel 1821,
1877, 1913.
Karakalou fu idioritmico; solo dal 1813 ricevette statuto cenobitico, sempre meglio
organizzato. Noi avemmo un’ accoglienza degna di un luogo sacro, e, pur senza intenderci molto
con il nostro greco aprossimativo, conservo un dolce ricordo della filoxenia e la tolleranza con la
quale fui lasciato a girare, fotografare, baciare icone, pregare e commentare senza cenzure fra quelle
ammirevoli mura.

196
L’icona, ricamata su un panno prezioso, di Gesù morto, che si porta in processione nel Venerdì santo bizantino ed è

poi deposta sull’altare sino alla Pentecoste.


213

LAKOU (O LACU) E LE SPIE COMUNISTE

Segue un viaggio lungo, estenuante, con la paura di non arrivare di giorno da qualche parte.
Restare in foresta è un disastro, soprattutto per noi, oramai abituati con le comodità dell’Urbe. Si
vede da lontano una chiesa, sembra vicina, ma dopo 5 ore di camminata ( assai dura) è ancora lì,
lontana, come una stella che si muove in parallelo con te, impallata nella sua freddezza. Ce ne
siamo smarriti, ecco tutto. Vogliamo raggiungere Lakou, dove si trovano i fratelli che ci hanno
invitato; ma, a differenza dei sentieri per i grandi monasteri, la strada per i piccoli skit non è
sufficientemente segnata. Scorre, zampillando, un fiumicello, segno buono, perché sappiamo che i
romeni hanno scelto apposta la riva del fiume per costruirvi accanto. Intanto la cima dell’Athos
sembra seguirci maestosa. Nella foresta vergine, i rami ci picchiano il volto, è romantico,
voluttuoso, la luna sembra quella di Eminescu, aspetta il suo turno, ma la notte si avvicina. Si sale
con fatica, non per nulla, lo skit si chiama “Katafighi”. Ma non si vede nulla, se non foresta densa,
che appare più grande e sembra venire più vicino. Il disco della luna padroneggia l’atmosfera di
sacro timore. Il buon Dio deve intervenire, per forza. E vi interviene. D’un colpo ci si è aperto
davanti un sentiero più largo ed in pochi minuti siamo davanti allo skit romeno Lakou.
Che gioia, che rumori da bambini ritrovati, che saluti affettuosi e seminati di proverbi, quando a
quell’ora tarda, in cui i frati non sono abituati ad aspettare estranei, siamo apparsi noi, come dei veri
eroi che abbiamo vinto le tenebre ed i burroni della notte!
Il superiore, Padre Neofit Negara coglie l’occasione per cucinare la sua specialità preferita:
zuppa di pesce, che nessun’altro sa cucinare. Ed è vero: una minestra di pesce, così gustosa e
saporita come quella, non ho mai mangiato in vita mia, né prima, né dopo. Il pane era però pieno di
formiche, e me le sento ancora oggi fra i denti.
Più imbarazzanti sono stati i temi toccati nella nostra lunga chiaccherata. Padre Negara si
vanta a tutti di aver parlato con Ceausescu e perorato con successo la causa dei monaci. Infatti, è
andato ad Atene quando questo mostro è venuto in visita ufficiale in Grecia, e, non si sa come, è
stato ricevuto. Gli ha detto: “Vi interessa ancora la sorte della presenza romena in Athos? Noi siamo
gli ultimi monaci romeni, dopo di ché, se non permettete l’arrivo di monaci dalla Romania, essa si
spegnerà”.
Ceausescu sembra aver risposto che “lui ed il suo governo erano interessati alla presenza
dei romeni in Athos”, per cui concordarono per l’invio di 50 monaci. La Patriarchia di
Costantinopoli diede il permesso per soli 25 ed il governo greco, d’accordo con i Capi athoniti,
decisero di scaglionare l’arrivo dei monaci a gruppi di 4-5 per volta. Spuntò ancora una volta
l’orgoglio greco, che teme concorrenza non greca in questo luogo, l’unico che la Grecia può
214

controllare senza interferenze. Ma non è tutto. La Grecia libera, prima del crollo del Lager
comunista, doveva far fronte ai monaci-spia, che provenivano dal famigerato Lager. Ed è questo il
vero motivo dei vari impedimenti che s’inventava contro l’arrivo dei candidati romeni, russi o
bulgari.
Noi, i fuggiti, ma anche i nostri, rimasti laggiù, sapevamo con certezza che tutta la Gerarchia
ecclesiastica dei paesi comunisti, di ogni confessione o rito, era controllata, asservita, obbligata e
compromessa. Si salvava chi viveva nel domicilio coatto, chi stava ancora rinchiuso nelle patrie
galere o chi, come noi, fuggivano sinceramente; (perché eravamo sommersi anche da falsi profughi,
con doppio passaporto). Non dovevamo aspettare dunque le rivelazioni dei giornali, nel 2007, sui
scandali della Chiesa polacca e di altre chiese, per sapere che 90%, fra frati, suore, preti, vescovi o
cardinali avevano venduto agli organi segreti di repressione ogni tipo di informazione, incluso il
segreto confessionale. (Non che le altre categorie di cittadini, artisti, medici, operai o bidelli si
sarebbero comportati meglio. Al contrario. Però la Chiesa di Gesù Cristo era ed è un'altra cosa.) In
contraccambio, le lorsignorie avevano -dai comunisti- dollari -proibiti agli altri-, viaggi in
Occidente, borse di “studio” e carriera, e, nel caso dei cattolici, forti raccomandazioni in Vaticano,
(il quale accoglieva con sollecitudine ogni gesto dei governi comunisti). Non, non lo dico con
cattiveria: questa e non altra era l’Ostpolitik: riempire i troni vescovili e le parrocchie scoperte, che
furono dei martiri e dei confessori, ( Vasile Aftenie, Suciu, Hossu, Durcovici, Beran, Trochta,
Stepinac, Mindtzenty, Slypi, Wyszinski, ecc…) con i candidati ammessi dai regimi comunisti. Il
criterio non era più la morale, bensì il poter celebrare validamente, magari in modo sacrilego, i
Sacramenti, per il povero popolo, venduto ogni giorno da costoro. Ostpolitik: genialmente illusoria
politica, inaugurata dallo spirito del Papa buono, Giovanni XXIII-esimo e dei suoi ammiratori, nel
Concilio e dopo. Noi lo sapevamo da sempre. Il disagio di allora era che queste Giude ci
contraddicevano con disinvoltura, immaginandosi che mai, in questo mondo, sarebbero stati
scoperti, perché il Comunismo non sarebbe mai caduto. Ora, che, dopo il crollo del baraccone,
finiscono tutti nella vergogna generale, piangendo con lacrime di coccodrillo in mondovision, come
l’ex-arcivescovo di Varsavia, noi, gli esuli e gli emarginati a causa loro, non ci vendichiamo.
Sappiamo che molti di loro sono scesi al patto col diavolo sotto tortura o per paura di essere uccisi.
Questa però è un’attenuante, non una scusa. E se questa era la non divertente situazione dei
cattolici, immaginiamoci quella di una Chiesa sottomessa, come l’Ortodossia.
Guardavo perciò con disagio il povero, vecchio illuso, Padre Negara che si lamentava del clima di
sospetto contro questi poveri diavoli arrivati da Bucarest, da parte delle autorità greche. Come si sa,
la Chiesa Ortodossa si è compromessa dall’inizio, col Regime. La Cattolica, in Romania, solo dopo
il 1964 e non ufficialmente. Era dunque chiaro che il regime comunista mandasse in Athos
215

esclusivamente spie e basta. Data la circostanza e la disponibilità di inviare vocazioni in Athos, da


parte di un mostro come Ceausescu che, in Paese, ha perseguitato i monaci ed ha distrutto città e
chiese, nel nome del Comunismo, con l’aiuto della Securitate, non capisco perché qualcuno si
stupisce ancora oggi che quelle barbe arrivate in quelli anni da Bucarest fossero stati accusati di
comunismo, spionaggio e tradimento. In mezzo a loro ci stavano monaci seri come Petronio,
Ilarion ed altri, che, però, non potranno mai dimostrare la loro perfetta innocenza, nei riguardi della
Securitate. È questa, la maledizione che accompagna ogni cittadino che esce normalmente, cioè non
clandestinamente, da un lager comunista.197

Lacu può essere considerato un vero nido romeno, anche se la chiesa fu costruita nel 1754
con l’aiuto dell’Imperatrice russa Elisabetta (1741-61), dal monaco Daniel, discepolo dell’isicasta,
il beato Paisio Velicikovski, di cui abbiamo già parlato. Rispetto ai 75 monaci, dell’inizio del’900,
noi, nel 1977, trovammo due o tre, più alcuni padri da Sichàstria198.
Lo Skit Lacu, dipendente ora da Aghiou Pavlou, con la chiesa di San Demetrio, tutta dei romeni,
aveva 60 case, nel 1890. Nel 1977-83, rovine… ed alcune decine di case ancora in piedi, che, però,
custodiscono chiese bellissime, e piccole biblioteche con manoscritti e regole, più 30 volumi di
antologia musicale psaltica. Dopo il 1990, i romeni, ritornati in forza, hanno restaurato, costruito,
rinnovato, introdotto tutte le modernità, togliendo al Monte l’aria di aretratezza, ma anche quella di
povertà per motivi ascetici. È stata spazzata via soprattutto la purezza artistica, vista l’invasione del
kitsch in grande forma. Ma questo discorso è valido per tutti i luoghi, dopo il 2000. Fra Varsanufio
Gogea dopo aver fatto il gallinaro a Crasna in Romania, da Padre Nicodim Dimulescu, venne qui e
si costruì, dopo il 2000, con l’elemosina radunata in Cipro ed in Grecia, un casa pomposa con 14-15
celle per i frati, con la propria chiesa e con tutti i confort che ha visto altrove. Padre Stefan, l’attuale
Superiore, tende di cancellare ogni segno di povertà passata. No, questo non è un discorso a favore
della ricchezza; è a favore della diligenza, del lavoro sodo, del buon senso, che spunta ogni tanto da
qualche parte.
A Padre Neofit mi confesso. Non mi ha sfiorato il dubbio che anche lui fosse una spia, che
anche lui avrebbe potuto vendere il mio segreto, boccone prezioso come ero di esule anticomunista.
No. Ancora oggi la considero una confessione magnifica, anche se mi ha dato un canòne piuttosto
pesante, all’ortodossa: 100 metanie per 50 giorni, il salmo 50 contro l’impudicizia, e la preghiera
della mente, da solo, nel silenzio, contro la superbia. Il dubbio me ne viene solo ora, nel 2007, ora
che Padre Nicodim Dimulescu, mi dice che Negara era solo diacono. No, io credo che si sbagli.
Impossibile! Se invece questo è vero…beato lui!
197
Non dimostrano, no, anzi. Ho trovato i loro nomi nei Dossier della Securitate e non troppo puliti.
198
Monastero moldavo in Romania, famoso per la durezza delle regole.
216

Dopo la cena, prolungata con la sopradescritta conversazione imbarazzante, i Padri ci


prepararono i letti. Dio mi ha consolato in quella notte con un sogno meraviglioso; anche se ho
bisticciato in modo stupido con i miei due amici, senza capire che non avevo ragione. Mi
accusavano della stessa imprudenza che avevo mostrato con fra Maximos. Contraddire un vecchio
illuso e convertirlo all’anticomunismo! Chiaro, la mente mia non era illuminata. Ma anche loro:
volevano ad ogni costo essere sempre politically correct.
Mi rimane un buon ricordo di padre Neofit Negara, di fra Julian e soprattutto di fra Ifrim,
al quale mi lamento per la nostalgia di avere un libro di musica psaltica. Senza esistazione, si mette
a scrivere per me una lettera di raccomandazione indirizzata ad un frate che avrebbe potuto offrirmi
un libro di musica psaltica, o addirittura un manoscritto. Certo, dovevo trovare il modo di uscire
indenne con il manoscritto dall’Athos, superando il controllo della polizia greca. Me ne sono
affidato a Dio.
Intanto, visito la biblioteca. È qui, a Lakou che trovo, in un Minei del 1831, un inno dedicato
alla Madonna in cui la Madre di Dio è chiamata kukoanà, cioè sovrana, padrona, nobildonna. Ma
per il romeno di oggi il termine suona troppo mondano, quasi oltraggioso.
- Però, comunità romene sono anche quelle di Provata, la Decapitazione, San Giovanni
l’Evangelista, e Morphonou. Certo, il più importante, un vero monastero, ma non riconosciuto
come tale è lo skit Prodromou con i suoi 3-6 ettari di terra.
-Grazie, carissimi Padri, ci andremo, sicuramente.

LA PROVATA DI FRA IOSIF

La mattina dopo, ci bastarono pochi passi per raggiungere un'altra abitazione facente parte di
tutto il complesso di celle e chiesette chiamato Provata; e trovammo un uomo che –realizzai alla
fine - fu il massimo amico, in quei luoghi; ed una situazione che fu per me la massima sorpresa dei
miei viaggi all’Athos.
“L’episodio più dolce”: ecco l’espressione che mi arriva sulle labbra, sgorgata direttamente dal
cuore, mentre penso a quel monaco quasi vecchio che ci venne incontro con una gioia inesprimibile
e con una disponibilità mai vista; che portava il nome di Iosif Andreothis.
Ci accompagnava un frate romeno che ci presentò e lo mise a corrente del nostro intento di visitare
tutti gli skit di Provata, in cerca dei romeni. Il Vecchio tirò la conclusione che non ci sarebbe
bastata tutta una giornata per questo piacere, perciò, alla fine del periplo, sarebbe stato felice di
ospitarci per la notte.
217

Per dimostrare che parlava sul serio, già mentre si spiegava, si mise a prepararci la collazione,
tirando fuori dai cassetti delle magnifiche tazze antiche con cucchiaini d’argento e con tutto
l’addobbo per gli ospiti illustri, che sistemò sul largo tavolo del grande soggiorno adornato con
magnifici tappeti all’antica e quadri dei vecchi re greci.
Il romeno ci lasciò soli con lui, mentre la felicità del frate cresceva, fino a mettersi a cantare per
noi: prima dei troparion, cominciando con l’inno di Sant’Andrea; per finire con dolci romanze e
tanghi che ci ricordavano i gusti del altrettanto amico di Giannina, il Metropolita Theoclitos.
Mentre bevevamo il thè, fatto con tutto il dichis199 dei vecchi bizantini, fra Iosif tirò fuori tutte le
foto ricevute da vari- e rari- visitatori, piuttosto occidentali; aprì le credenze piene di vasellame
prezioso, ci fece ammirare una spada antica, il vanto della sua collezione, che, se ho capito bene, era
stata di un Bey turco…E poi, con la stessa allegria, ci fece visitare i 4-5 edifici, di cui era pieno
proprietario, e la chiesa, che era una meraviglia. Ma come poteva accudire così bene tutto questo?
Pulizia, ordine, profumo di antico e gioia inesprimibile. Il lampadario, piuttosto solenne, della
chiesa era ben nascosto contro la polvere da un tendone messo ad arte. I forzieri di ferro, pitoreschi
ed inutili. Spiegava, cantava e poi rideva, quasi ironizzando su se stesso. No, non c’entra
l’appartenenza nazionale. I romeni erano preziosi per noi, per la lingua, potevamo capirci, e
raccontare; ma con questo greco, con il quale ci comprendevamo attraverso segni e poche parole,
abbiamo sperimentato un amicizia e una fraternità, difficilmente descrivibile in parole. Con me, poi,
ha creato un feelling del tutto speciale, perché, in verità, fra Iosif si attaccava a chi era più tenero;
ed io lo sono sempre stato. Quando ci parlava sembrava che il cuore gli crescesse da ogni lato. Il
mio, pure, vigeva simile a rivoleto che procedeva scherzando tra le foreste e le radure di
quell’imcomparabile penisola. Lo posso e lo voglio considerare il mio amore in Athos, e di tutti noi,
con simpatia crescente. Ma solo nel terzo viaggio, la nostra amicizia ha raggiunto il culmine,
scoprendo in lui un essere amoroso, dolce, sottile, un essere superiore.
Non sapevamo che parole, che mosse affettuose, che promesse potevamo concepire per fra
Iosif, nel separarcene la mattina seguente, dopo aver gustato la dolcezza arcaica della sua casa e del
suo grande cuore. Per quanto mi riguarda, mi ha fatto dormire nello iatak, la stanza riservata ai
Vescovi; ma tutta la casa sembrava preparata per accogliere grandi nomi…. Abbraciandolo, mi
sono ripromesso di ritornare in Athos con i miei amici e con altri, pur di non perdere i contatti con
esseri così luminosi, spontanei e eternamente aperti come fra Andreothis.
Quel che ricordo, eccolo. Risalgo da vecchie allegrie. Anche i romeni sparpagliati nei vari
piccoli centri della Provata si sono dimostrati altrettanto affettuosi, attenti e curiosi di noi. Ecco lo

199
Cioè secondo tutte le regole d’arte.
218

Skit Coucouvino, del 1861, ecco la cella “San Giovanni l’Evangelista”; che cuore aperto, che
ricordo nobile, che amicizia spontanea con lo Ieromonacho Vissarion Moisei.
-Ma Provata era, prima, un monastero italiano, apparteneva a Morfonio, ci dissero i frati,
sicuri di farci piacere.
Per loro, per questi romeni a metà fra emigranti ed esuli, fra profughi o inviati, il nostro
rimanere in Italia, o, meglio, la fuga dalla Romania invasa, era segno di serietà. Ci fecero visitare
anche altre celle di romeni, con chiesa e tricolore, abbandonate, però, da quando, nel 1927, i greci
non hanno più dato permessi per i non greci.
-C’è voluto l’intervento del Prea Sfintzitul Vicario di Bucarest, Antonio Plàmàdealà, per far
venire il 4 marzo, 1975, i primi 4 monaci, poi altri 7-8.
Li conoscemmo tutti. Figure devote, umili, semplici, aperte, con noi si aprivano meglio,
eravamo in esilio, lontani e contrari al regime satanico dal quale si erano appena salvati. Plàmàdealà
stesso, vescovo scrittore, vittima e uomo del regime, era lontano; mentre noi non eravamo un
pericolo per loro. Solo in cielo sapremo, però, chi di loro avrà riempito meglio le note informative
su di noi e se avranno superato i limiti, oltre i quali non c’è, né perdono, né salvezza.
Mentre ci salutavamo con un inesprimibile affetto, ci indicavano in tutti i modi la strada per
la Megali Lavra, preoccupati di non perderci nella foresta e di non stancarci per il numero di ore
che ci servivano per la camminata.

ROVINE DI UN MONASTERO ITALIANO

Per diverse ore di viaggio, affrontammo la foresta ed il deserto umano. Oramai ci eravamo
convinti che, spostandoci verso Lacu-Provata, eravamo usciti dal circuito normale degli altri
pellegrini e turisti, agevolati dalle strade conosciute e segnate. Poi non vorrei raccontare in
continuazione un punto imbastito dopo l’altro, anche quando si tratta di cose di piatta importanza.
Ciò di cui sono sicuro è che ci sono ore antiche rimaste più vicine a noi di altre recenti. E, quelle
ore, nella mirabile foresta mi sembrano di ieri.
In una radura a nostra sinistra ci sorride una maestosa rovina, nella quale riconosciamo
l’unica torre italiana-benedettina sopravvissuta fra i ruderi dell’antico monastero italiano
Morfonou. Esso fu fondato da monaci amalfitani prima del 1000; rimase in piedi fino nel XIII
esimo secolo, e fu abitato da molti monaci arrivati da varie città italiane. Raccontiamo in breve la
loro storia:
219

Ci ricordiamo dei nobili giorgiani, San Giovanni e sant’Eutimio l’Aghiorita, che, depressi
per la morte del loro parente, l’ex generale, monaco Tornikios-, tentarono la fuga verso la Spagna.
Furono fermati dagli uomini dell’imperatore e quasi obbligati di restare in Athos.
Però, il loro gesto fu interpretato- e forse vi era la pura verità – che i nobili in questione avrebbero
covato il desiderio di spostarsi nella zona occidentale, non solo dell’Europa, ma anche della Chiesa.
Questa loro presunta simpatia attirò l’interesse di alcuni italiani, soprattutto del monaco Leone
l’Amalfitano, fratello del Duca di Benevento, e di sei dei suoi discepoli, che un giorno fecero la loro
apparizione ad Iviron. Chiesero di rimanere con i frati e vi furono ben accolti. Ma i latini di
Costantinopoli lo vennero a sapere ed un gran numero di candidati vennero anche dalla capitale.
Allora, Giovanni ed Eutimio consigliarono Leone di far costruire un monastero a parte. Detto e
fatto. I due amici e santi acquistarono il terreno, fornirono tutto il necessario e aiutarono Leone a far
alzare il suo monastero. Così nacque la comunità detta degli Amalfitani, in cui si celebrava il rito
latino e si seguiva la regola di San Benedetto.
Felici e saggi tempi in cui le differenze di rito non provocavano il sospetto di invalidità. Ma si era
agli sgoccioli. Entro pochi anni sarebbe scoppiata la crisi che –amministrata dai talebani delle due
Chiese- avrebbe portato alla rottura definitiva fra i due polmoni della Chiesa.

LA MEGALI LAVRA

Se, invece di spostarci verso Provata, fossimo partiti direttamente da Karakalou, avremmo
dovuto affrontare solo 3 ore e mezzo di cammino per raggiungere il più importante dei monasteri
athoniti. Noi ne abbiamo speso 5 o 6, ma le emozioni regalatici da quelle ore sono state impagabili.
D’un colpo ti vedi davanti una specie di città fortificata, a mezza costa tra il mare, spesso agitato, e
il picco piramidale del Monte Athos.
Megali Lavra è la madre dei monasteri dell’Athos, grazie al Padre, Sant’Athanasio, amato
e venerato giustamente come iniziatore di tutta quella felicità. Nel 1977 trovammo la Lavra nelle
mani di un altro Padre Atanasios, proistamenos, aiutato da 3 epitropi e 45-50 monaci. Con le sue
arsanas, con il porto del convento, maestoso, come una vera cittadella, la Megali Lavra sembra ed è
veramente una metropoli.
Era monastero idioritmico, dedicato a sant'Atanasio l’Athonita, (925-1003), che ne fu il fondatore,
nel 963. Ora, la tendenza verso il cenobitismo ha spinto anche la capitale dei monasteri ad
adeguarvisi.
La Grande Lavra, il più antico e il più bello dei monasteri athoniti, sorge presso l'estremità
orientale della penisola, di poco elevata sul mare. Dal piccolo porto, una strada, fiancheggiata da
220

folti oleandri, in venti minuti di salita, conduce davanti all'ingresso, il quale è una specie di pronaos
coperto da una cupola e protetto in alto da grandi vetrate a colori. Superando i portoni blindati e
chiodati si arriva in un cortile quasi rettangolare (120 per 45 metri circa): l'area occupata dal
katholikon, dalle fiali ( le fontane per la benedizione dell’acqua), e dal refettorio.
Gli edifici del monastero sono quasi tutti racchiusi dentro mura merlate, munite di torrazzi
coperti e vegliate dall'alta torre merlata dalla parte della montagna. Tutto questo dà al monastero un
aspetto di castello fortificato. Due cipressi altissimi occupano gli angoli del cortile davanti al
refettorio; secondo la tradizione, furono piantati mille anni fa da sant'Atanasio.
Lo abbiamo già detto: l'origine della Grande Lavra coincide con le origini stesse della vita
monastica organizzata all'Athos per opera di sant'Atanasio, nel 963, con l'appoggio degli imperatori
Niceforo II Focas (963-969) e poi di Giovanni I Tzimiskes (969-976), dopo aver assassinato il
predecessore… La loro edificante storia l’abbiamo già meditata.
Anche il successore di Giovanni I Tzimiskes, Basilio II (976-1025), “il mangiatore di
bulgari” favorì la Grande Lavra, assegnandole in proprietà vasti territori. Come si vede, incontriamo
spesso questo degno figlio della Theofano, in mezzo alle opere di beneficienza. Ne fu ricompensato
( da Dio) riuscendo a elevare la prosperità dell’Impero a quote mai più raggiunte, dopo aver
appunto mangiato vivi i bulgari invasori. Non interamente, però: solo i loro occhi, che fece cavare a
tutti, mandando a casa tutto un esercito di ciechi mutilati. Si curò di farli accompagnare da alcuni
commilitoni, a cui fece cavare un occhio solo, per non applicare alla lettera il Vangelo che dice : i
ciechi che guidano altri ciechi.
Poveri bulgari; erano dei prodi, organizzati da generali vlacchi, altrettanto prodi, non tanto
apprezzati dai bizantini e perciò in vena di vendetta.
Ma quella vendetta (dei vlacchi-romeni) fu stupida vendetta, dico io oggi. Romeni che hanno
preferito l’idioma slavo a quello proprio, (romano), o a quello greco, lingue di un grande impero! I
loro calcoli miravano, però, a gabbare i bulgari: “adottiamo la loro lingua, ma li conduciamo noi”. E
così fu per alcuni decenni: furono generali, furono Tzari dei bulgari…ma poi, l’incanto finì. Anche
in Athos, i romeni furono presi per bulgari e trattati di conseguenza.
Il secolo XIV segnò l’apogeo della Lavra, con la vittoria dell’isicasmo iniziato dal buon
Gregorio il Sinaita (+1347), e dal probabile discepolo, Gregorio Palamas, superiore del
monastero, con Nilo, Nichiforo, ecc… I primi due furono beatificati, il Palamas, canonizzato come
“il più grande teologo dell’Ortodossia del secondo millennio”, lo abbiamo già detto…. Con questo
abbaglio, (di trasformare un immenso eretico in un immenso teologo e di fare di una teoria assurda
il suo perno teologico) la Chiesa Ortodossa supera in eresia tutte le comunità eretiche messe
insieme; e legge tutta la sua Tradizione con occhi strabuzzati.
221

Nello stesso secolo, qui a Lavra, il monaco Ioannis inizia la semplificazione dell’ortografia
slava e inaugura una forte corrente di traduzione in slavo dei libri di culto greci.
È il secolo dell’apparizione delle donazioni romene, ma anche del monaco vlacco200
Eftimio, diventato poi patriarca di Tàrnovo e corrispondente col metropolita greco della Valacchia
romena, Antimo Critopoulos e con San Nicodim di Tismana,( +1406).

I ROMENI ED IL MIRACOLO DELLE LOCUSTE

I romeni considerano la Lavra la seconda fondazione romena dopo Kutlumus, vista la


ricchezza delle donazioni dei loro sovrani e nobili romeni: dalle mura esterne a quelle interne, dalla
grande chiesa alle cappelle, dalle strade all’acquedotto, dai tappeti ai calici, dalle reliquie alle icone,
culminando con tonellate di denaro prezioso, per più di 500 anni.
Forse nessun gesto è più significativo per questa presenza romena a Lavra, se non il
collocamento della sacra Icona di Sant’Atanasio, il fondatore, sopra il trono episcopale della grande
basilica. I monaci l’hanno messa lì, perché dicono, “è ancora lui che conduce la Sacra Montagna”.
L’icona è forse del secolo X, ma fu rivestita in argento e oro cisellato artisticamente dal sovrano
romeno del’300, Vladislav- Vlaicu Vodà, (figlio di Nicolae Alexandru, e temerario figliastro di
Donna Clara, la seconda moglie, cattolica, di suo padre), insieme con la sposa, Anna. Ambedue
sono presenti ai piedi del Santo, sull’Icona. A loro, dunque, deve l’Athos la sua più importante
Immagine sacra . Per il fatto di aver restaurato dalle basi il Katholikon, Vlaicu fu chiamato il primo
fondatore romeno nell’Athos.
I monaci collocarono nella stessa chiesa l’icona “Oeconomissa” del 12-esimo secolo, della beata
Vergine, per non rimanere indietro rispetto ad altri monasteri nell’onorare l’Immacolata e
soprattutto nel richiamare i pellegrini per i miracoli.
Riguardo ai doni romeni, gli studiosi lamentano un silenzio totale dei documenti fino al 1500, e
danno la colpa all’inaccessibilità programmata degli archivi della Lavra. Questo si vedrà: alla fine
tutti gli archivi si aprono, è divertente come escono fuori le opere buone, ma anche le vergogne;
tutto a tempo opportuno.
Intanto, nel 1501, Radu il Grande conferma la donazione di denaro elargita annualmente dai
sovrani romeni già dai tempi di Vladislav, e continua il restauro della chiesa grande.

200
Gli storici bulgari non riconoscono il sangue latino a nessuno di questi personaggi e neppure a decine di migliaia di
vlacchi viventi nell’odierna Bulgaria. Come neppure i serbi o i greci. Per il medioevo hanno almeno la scusa che i
vlacchi, i romeni, usavano lo slavo nel culto (ortodosso) e negli atti ufficiali, ma il popolo non lo ha mai capito, perciò
ne faceva il verso, anche nella liturgia, inventando barzellette simili a chi nella Chiesa Romana usava il latino
incomprensibile.
222

Neagoe Basarab (1512-1521) procura la copertura di piombo del katholikon, ricostruisce


interamente la sagrestia ed offre vari oggetti sacri preziosi. Alla festa della consacrazione di Argesci
il Domn fu generoso con tutto l’Athos, ma soprattutto con la Lavra. Poi si decise di rifare
completamente il complesso di questo monastero. Le cifre elargite sono astronomiche, (comincia
con un’offerta annuale di 200 talleri). Mentre i drappi che regala sono adornati dai simboli imperiali
bizantini, che per i sovrani ortodossi e non solamente, furono sempre punto di riferimento. La sua
opera fu continuata da Vladislav III ( 1523-25).
Scopriamo sul muro dei fondatori il Domn Vlad Vintilà Voevod, di Slatina, (1532-1535), quello
strozzato durante una caccia, affrescato accanto al delfino, Dràghici Voevod. Dal 10 gennaio, 1535,
diede annualmente 10.000 aspri ed altri 1000 per il viaggio dei monaci, come propiziatori per la
difesa del suo regno romeno, acquisito con l’aiuto dei potenti principi Craiovesti. Nell’iscrizione
traspare un grande sentimento che provava per i monasteri e per il Santo fondatore. Ed anche per i
propri familiari che li raccomanda vivamente, faccendo scrivere i loro nomi su un bellissimo
trittico. Non ho controllato se fra questi c’è anche il cognato che voleva ammazzare e che, per pura
prevenzione, fu più rapido e lo ammazzò.
Non contiamo poi il denaro mandato da Mihnea “il turchizzato” e dei suoi intimi, Dragomir,
Maria, Calota e Caplea.
Petru lo Zoppo, dalla Moldavia mandò, dal 20 febbraio 1579, 6000 aspri, ogni anno, per due anni
soli, perché perdette il trono. Mentre lo hatman Ion Sturza, già dal 1562 mandava 400 fiorini.
Un tremendo terremoto fece crollare la cupola, la volta e la trapesi, nel 1585. Al restauro ci
pensò Donna Maria, la sposa di Stefan Surdu, detto “il pellizzaro”201, cominciando con la
donazione di un terreno nel proprio giardino, per un metocco dei frati in Bucarest. Si prodigò tanto,
aggiungendo il voto perché suo marito potesse salire sul trono. La preghiera gli si realizzò nel 1591,
per un anno, però il poveraccio dovette dare ai turchi 400.000 corone- oro, somma favolosa.
Quando in luglio del 1592, Alessandro detto “il cattivo” lo cacciò dal trono, Stefan non chiese più
aiuto ai santi dell’Athos, ma al doge di Venezia. Inutilmente, Venezia non ritorna. Si rivolse allora a
Enrico IV, re di Francia, ma costui, al contrario, favoriva il rivale, che aveva pagato meglio, a tutti.
Dio, però, che non dorme, come dice l’antica cronaca, fece schifare i turchi da questo “reo” che
rimpiazzarono con il magnifico principe Mihai il Bravo, senza che sapessero che il grande crociato
sarebbe diventato il loro terrore, un anno più tardi. Detto fra parentesi, Alessandro “il cattivo”
regalò anche lui tutto un podere (Bàicoi, in Terra Romena) con tutti gli schiavi zingari, legati con
giuramento di non abbandonare i monaci. Poi fu impiccato dai turchi a Istambul, il 25 marzo, 1597.

201
Figlio di Giovanni il Terribile, quello scorticato dai cameli turchi.
223

Nei primi del’600, il Domn, Ieremia Movilà della Moldavia, dona 6000 aspri all’anno.
Gavrilà Movilà, fratello e metropolita, altri 15000 all’anno, per suo padre Simeon e sua madre
Marghita, più mille per le spese dei viaggi dei monaci che portavano tutto questo denaro nella sacra
Montagna, attraversando i pericoli dei Balcani. Matteo delle Mire, il metropolita in esilio che
risiedette nella mia Bistritza, e scrisse, copiò, stampò e predicò senza sosta, in piena invasione
ungherese, offrì un Evangeliario, manoscritto, mirabilmente dipinto da se stesso, il 7 marzo, 1624.
Lo ha fatto per prepararsi per il paradiso. Infatti se ne andò il 14 aprile dello stesso anno e
certamente, in cielo avrà capito se le reliquie del Santo di Bistritza che cantò nei suoi troparia sono
di Gregorio Decapolita o di Giovanni da Capestrano.
Intanto una grande fortuna venne incontro ai monaci: nel 1640-42, la Terra Romena fu
invasa terribilmente dalle locuste; e per salvare il paese, il Domn, Matei Basarab pregò l’abate
Iosifos di compiere un pellegrinaggio al nord del Danubio con la cassa con reliquie di San Michele
di Synnada, (un iconodoulo del VIII secolo), per salvare il paese da questi ingombranti ospiti. Il
miracolo si compì e il monastero ricevette dal Sovrano Matei evangeliari preziosi, manoscritti ed
altre molte ricchezze, più i soldi necessari per costruire una chiesetta per il Santo dei miracoli. (I
monaci, felici del successo, rimandarono le reliquie nel 1691 e ‘96 con lo stesso successo. Infatti
ebbero da Bràncoveanu 6000 aspri all’anno e il capo del Santo, adornato in un magnifico
reliquario. Nel 1729, le reliquie ritornarono con maggior successo e il Sovrano, Nicolae
Mavrocordat diede altri 100 grossi all’anno. Le locuste si spaventavano delle benedizioni divine,
ma anche del suono delle campane, che suonavano continuamente durante gli spostamenti della
santa cassa).
Peccato che un terremoto del 1911 ha rovinato la chiesetta, sul cui muro dedicato ai
fondatori brillava la figura di Matei Basarab in tutto lo splendore dei suoi fasti, più l’iscrizione con
tutta la storia.
Matei non dimenticò la forza miracolosa di quel Santo, le cui reliquie erano state regalate a
Sant’Athanasio stesso dai due Imperatori bizantini, suoi amici. Si decise dunque di comprarne
almeno un pezzo per tenerselo in Romania. Non sappiamo quanti sacchi d’oro diede ai poveri
monaci lavrioti per la sola mano del Santo, che, meravigliati della generosità del sovrano gli diedero
( regalo, o per altri sacchi?) anche la mano di San Filippo, Apostolo. Matei Basarab fece collocare i
due tesori nella chiesa del suo monastero preferito, l’Arnota. Ohi, la mia Arnota, edificata sul lago
nel quale l’Aga Matei trovò la salvezza davanti ai turchi vendicativi.
Gli sposi, sovrani, Don Matei e Doamna Elina Basarab offrirono alla Lavra anche un
ricchissimo e artistico coffanetto in argento e smalto, in forma di chiesa cattedrale a 5 torri, un
gioiello d’arte pura, che fa concorrenza ad altri tesori simili offerti da altri sovrani, che i monaci
224

tengono gelosamente (e giustamente) nascosti, evitando di mostrarli agli sconosciuti. Ora, esso
troneggia come un magnifico tabernacolo nella stanza dell’altare, nella Sancta Sanctorum, dove
tengono ben custodito il legno della Ss.ma Croce, qualche osso di San Giovanni il Battista e il capo
di San Basilio.Ne troveremo un’altro, magnifico, ma diverso, a Dionisiou, dato da Neagoe.
La cassa in questione doveva conservare il resto delle reliquie di San Michele di Synnada,
il salvatore dalle locuste. Non sono riuscito a capire come, perché e quando, i monaci hanno deciso
di espropriare il grande difensore delle terre coltivate e di mettervici dentro la mano di San
Giovanni il Crisostomo data dal Sovrano e futuro martire, Constantin Bràncoveanu, (1688-1714).
Certo, il Crisostomo era ed è più famoso; e poi, le locuste erano un affare interno della Romania,
non dell’Athos. Fatto stà che oggi nessuno ci sa dire dove sono finite le reliquie di questo Michele
di Synnada. A meno che non siano state collocate e nascoste sotto ed accanto alla mano protettrice
del grande predicatore dalla bocca d’oro; (le cui reliquie sono lunghe ed estese da Roma a
Costantinopoli e dall’Athos all’attuale Romania ortodossa e moderna 202). Ma perché, poi,
Bràncoveanu doveva estraniare perfino delle reliquie così preziose ? Ohimè, Bràncoveanu: mai
animo fu più sconsiderato a forza di essere gentile 203. Se ne rese conto solo quando sentì sul collo il
colpo dell’ascia.
Forse il più grande benefattore della Megali Lavra, fra i romeni, fu, però, Vasile Lupu della
Moldavia, (che associò al merito dell’elemosina sua moglie, Donna Tudosca e suo figlio, Ioan).
Egli pagò tutti i debiti dell’Athos ai turchi, tasse e annue, offrendo quanti potè dei monasteri
moldavi in omaggio ad Athos. Il ché significava che tutta la ricchezza di questi conventi finiva sulla
Sacra Montagna, i proventi della Tre Gerarchi, soprattutto, ma non solo. Erano gesti di riparazione,
questi, per i peccati dei sovrani, lo abbiamo già capito. Ma non ne erano contenti, le loro Maestà.
Volevano raccogliere la santità da tutte le terre “ortodosse” e portarsela vicino a letto, per
protezione e sicurezza. Così, il nostro Vasile si ricordò della santità delle Icone russe e di un debito
vecchio dei monaci pravoslavniki ; e, prima di essere mazilito , pensò di riaversi almeno con i russi.
Aveva come Metropolita, sul trono primaziale, un dono di Dio, il dotto, letterato e santo Varlaam.
Che, anni prima, inviato dal devotissimo Domn, Miron Barnowski204 con documenti e soldi in
regola, era andato a Mosca in cerca di icone “che facevano miracoli”. Dopo un anno di attesa presso
i maestri iconari, che, pur pagati profumatamente, dipingevano a modo dei maestri della fiaba di
Andersen, tornò a casa senza icone e senza soldi. Nel frattempo, il povero Domn, Miron, era stato
202
Le reliquie di San Giovanni il Crisostomo (+404): una parte è conservata ancora in San Pietro a Roma e di questa,
una parte fu data dal Papa stesso alla Chiesa Ortodossa di Bucarest, dopo il 2000. Una mano, dunque, per merito di
Bràncoveanu è venerata alla Megali Lavra.
203
Shakespeare.
204

?
Il povero Miron regnò per poco, due volte, 1626-29 e per tre mesi nel 1633, prima di essere arrestato dai turchi ed
ucciso da vittima innocente.
225

già mazilito e mandato in cielo dalla spada perversa del turco a Stambul. Aveva già dato in
elemosina i suoi averi ai monasteri, nel testamento, ma non aveva obbedito all’amico polacco che lo
scongiurava di non accettare di regnare per la seconda volta in un paese vessato dal turco.
Rosicchiato dalla vanità aveva risposto: “Com’è dolce regnare in Moldavia”. Poi sentì la dolcezza
della spada dell’invasore sul proprio collo. Per quanto riguarda le icone russe, i monaci russi non
furono più onesti dei turchi. Ebbene, il Lupu volle riavere le icone o i soldi; e mandò una
commissione a Mosca per ben due volte. Altre spese, altri guai! Non sono in grado di confermare se
ha mai ricuperato soldi o icone, o nulla.
Prima di lui, anche il nobile Ioan Sturdza aveva accordato alla Lavra 100 fiorini all’anno,
(nel 1552), con l’idea che un giorno potesse diventare Domn. Nello stesso anno fece la prima mossa
(sbagliata): appoggiò il boier Joldea a raggiungere il Trono; sappiamo come questo poveretto fu
battuto, mutilato, lasciato senza naso, immonaccato e sostituito sull’altare delle Nozze da
Làpusneanu. E Sturdza dovette scegliere l’esilio.

Alla fine del XVI secolo, tutta la comunità del Monte Athos attraversò un periodo di
decadenza e di povertà, che ridusse di molto il numero dei monaci. Come gli altri monasteri, anche
la Grande Lavra era passata allo statuto idioritmico, che conserva ancora, pur se viene tentato di
passare al cenobitismo organizzato ed oppressivo. La ripresa della vita religiosa e culturale inizia
intorno al 1655, in seguito ai cospicui lasciti dei Basarabi e dei Musatini romeni. Più tardi, però, i
turchi rimpiazarono i sovrani romeni con fanarioti del tutto sottomessi e soprattutto incapaci di
versare sufficienti sacchi d’oro per i restauri. Ci pensò il patriarca Paisios II, nel 1744, al suo terzo
patriarcato (1744-1748: fu patriarca quattro volte), che aiutò finanziariamente il monastero e lo
restituì al suo antico grado, il primo posto nell'ordine gerarchico. Non si sa però come avrà avuto il
denaro: come, se non dai monasteri romeni e russi sottomessi al Patriarcato dai vecchi sovrani? Dal
23 ottobre del 1735, Constantin Mavrocordat offre 6000 aspri all’anno. Dal 1747, Grigore Ghica
manda 8800 all’anno; Idem, Constantin Racovitza; Scarlat Ghica, un nobile, alza il prezzo a
11.200. E dal 1780 al 1800, il boier Petrache Caramanliu paga i debiti dello skit Sant’Anna.
Del resto, il secolo XVIII, “miscuglio di rovine e ricostruzioni, di declino e restaurazione”-a
sentire Cosma Vlaccos, fu un secolo di rinnovamento, non solo architetturale, grazie alle esagerate
polemiche e vendette, tipiche del progresso storico dei greci, in genere.

LA TRAPEZA E LA TEOLOGIA
226

Alcuni teologi del luogo vedono nella Trapeza, questo refettorio coi tavoli rotondi, di
pietra, con la mensa del silenzio di 23 tavoli, sistemati a forma di ferro di cavallo, coi muri
affrescati come a Sucevitza, con lo spirito del grande Palamas, santo, ma anche teologo polemico,
asceta ed illusionista, il Luogo che racconta meglio il vero spirito dell’Ortodossia: comunione ed
umiltà. Io aggiungerei la terza: la mancanza completa di spirito pratico, tutto dentro un’arca per i
detenuti, una galera. L’albero di Jesse ed altre Sacre Immagini presenti sui muri rallegrano la vista,
ma non ti tolgono da questa atmosfera che è della terra, in attesa della liberazione dopo la morte.
Ecco la Torre Tzimiskes, ecco la cella di Palamas vicina alla cima della montagna. Ho fatto
in tempo a fotografarla, prima di essere coperta da schiumose nuvole come nei tempi di Mosè,
sull’Horeb. In cima all’Athos, se sali, almeno fino alla capella della Trasfigurazione, ti ammiri
un’indimenticabile panorama. Io, però, non sono salito, per… pura stizza e nostalgia. Infatti, dopo
aver goduto per tutta la giovinezza il panorama dell’Oltenia dall’alto del monastero di Arnota, non
mi è servito più nessun altro panorama. Forse solo quello di Roma, vista dal Cupolone.
Se vogliamo entrare nella chiesa grande, ci imbattiamo davanti nei meravigliosi cipressi di
Sant’Athanasio, vecchi di dieci secoli. Dentro, però, mi impressionano di più le sculture in avorio,
rare e poche, dopo le tante ruberie. Nell’atrio, pittura nuova del sec.XIX, molto curata nei
particolari e ricca di sacre immagini bibliche, rare o inesistenti altrove. Non manca la Scala delle
virtù, col monaco nella bocca del dragone. Ecco anche i sinodi ecumenici, con il Papa Onorio
condannato dal concilio sesto, messo bene in vista - come avviso agli amatori.
Il Quinto Concilio arde i libri di Origene, il grande eretico, odiato di conseguenza. L’Origene che i
miei professori dell’Orientale mi hanno insegnato, giustamente, di amarlo e di considerarlo santo,
pur se non canonizzato. Infatti i suoi errori furono involontari, per zelo e amore nei riguardi del
Signore e della Chiesa.
I sinodi I, II, VII: sempre presente un santo che scrive qualcosa; gli accusati, gli unici senza aureola.
Ecco anche l’Apocalisse: Nella caduta degli angeli, si vede la loro trasformazione: quanto più in
basso cadono, tanto più diventano orribili, perdono le vesti, diventano diformi, carnali, unghiosi,
neri; mentre tutte quelle corna, color cenere, escono direttamente dalla loro mente sviata. Nella cella
di Sant’Athanasio, oggi paraclisos (1318, data scritta sulla porta), ho sentito il desiderio di non
separarmi mai più da questa iconografia, da questi affreschi che mi hanno nutrito l’infanzia e la
Fede. Poi mi ricordo di Rubens, di Matteo Preti, di Tintoretto, dai quali i neo-bizantini,
involontariamente (?) hanno rubato i contenuti. E mi calmo.
L’atmosfera di pace che ti invade quando entri nella chiesa-madre, quando ti lasci coronare dal
lampadario e dagli occhi del Pantokrator è divinamente calda, come in tutte le chiese dell’Athos,
anche le nuove. I monaci fanno vedere la grande Croce pettorale di Sant’ Athanasio, del secolo X,
227

pesante, più di 5 kili che, se vuoi, te la appendono al collo. Per la Festa, il 5 luglio, i cimelli del
Santo sono mostrati con meritato orgoglio.
La Divina Liturghia non rispetta molto il Typicon e non è pomposa come le celebrazioni
romene o slave. Almeno così l’ho sentita io, nel 1977, con monaci sonnolenti e vecchi che
cantavano più col naso che con le labbra, saltavano i canti e non si permettevano fantasie, come i
romeni o gli slavi. Malgrado ciò, attirava. Era inedito, devoto, religioso e sobrio: rito, quadro, tono,
tutto. Perciò piaceva e forse piace ancora.
Il museo e la biblioteca le descrivo come l’hanno viste gli altri, con più raccomandazioni.
Stanno assai ben collocate nell’edificio alle spalle della chiesa, che racchiude anche il tesoro.
Si potrebbero ammirare qui antiche icone e preziosi reliquari, più il vestito che forse fu di Niceforo
Fokas, del secolo X. La trapesis di Theofanos supera però gli altri valori.
Si calcola che vi siano nella biblioteca 10.000 libri e 2046 manoscritti, di cui 690 su
pergamena, e di questi, 23 regalate dai romeni. Sopra un Tetravangelo del secolo IX si può
ammirare, in prima pagina, il Domn Matei Basarab e Donna Elina, benedetti da San Michele, 1643.
Argento e smalto a discrezione su quasi tutti i codici miniati e gli incunaboli, preziosissimi, perché
rarissimi.
C’è però anche il manoscritto pagano, il Dioscoride. E, molte altre rarità che solo il tempo
permetterà di scoprire, semmai i monaci si potranno organizzare in tal modo da evitare i furti
clamorosi.
Chiamati a pranzo, andammo con devozione. Molti stranieri, con noi a tavola. Evitammo
ogni conversazione o confidenza, l’Occidente libero e sfuggente insegnandoci e rivelandoci, meglio
della tirannia, la pericolosità inutile delle amicizie improvvisate.
A Marcu Beza, però, un monaco della Lavra aveva raccontato con occhi romantici il suo
amore per una pastorella vlacha, vicino a Cassandra. E sempre qui, nel 1845, ad Avva Arsenio,
dopo una vita devota, a 80 anni, gli successe un prodigio: dopo una veglia in cui rimase in piedi per
16 ore, fece a piedi il sentiero di ritorno alla sua cella, lungo, tre giorni di viaggio, in una mezza
giornata. Nel 1846 ebbe un finale luminoso, con profumi, luci e splendori celesti, visti da molti.
Raccontano anche del finale orribile di un monaco sacerdote che celebrava distratto, sparpagliando
per terra il Corpo ed il Sangue del Signore. 205 Ma sempre qui, il volto che emmerge, fa scuola ed
ispira, rimane San Gregorio Palamas.

PALAMAS

205
Citato in Anagnostopoulos, op. cit. pag.274-75.
228

Lo abbiamo incontrato più volte e lo incontreremo ancora, ogni volta che percorriamo i
sentieri o le pagine teologiche dell’attuale Chiesa Ortodossa, la cui Nouvelle Théologie porta un
solo nome: quello di Palamas, (1297- + 13 nov.1359). Di famiglia proveniente dalle regioni
orientali dell’Impero, Gregorio nacque a Costantinopoli, dove portò con ritardo gli influssi
brahmanici che nascondeva inconsciamente nel cuore. Studi e originalità brillanti lo fecero
abbandonare la filosofia e le cariche pubbliche, per dedicarsi alla preghiera e alla vita ascetica.
Questo, almeno credeva lui di fare. Finì in vari luoghi del Monte Athos: eremita a Vatopediou, poi
nel cenobio della Grande Lavra, poi eremita nei Glossia. Fece bene il suo lavoro ascetico, perciò fu
costretto ad abbandonare il Monte, insieme con i discepoli, temendo, dicono gli oppositori, che per
le loro tendenze eremitiche estreme venissero considerati messaliani,-bogomili-cathari. Accuse
infondate, dicono i sostenitori. Io, idem, pur non essendo un sostenitore di Palamas. (Intendiamoci:
sono oppositore, non della sua vita, tutta onesta e severa, bensì della sua filosofia che pensava di
aver abbandonato, e che invece la introdusse nella Teologia).
Fu ordinato sacerdote nel 1326, dopo di ché ritornò all’Athos nel 1333, nel kellion di San Saba-
presso la Grande Lavra. In seguito, la comunità lo mandò egumeno a Esfigmenou, dove ebbe sotto
obedienza 200 monaci. Rimase qui solo un anno, poi ritornò all’eremo suo. Lì si armò di tutto la
foga polemica iniziata e vinta contro l’italo-greco Barlaam il Calabro, che durò più di 25 anni. Si
capisce che io, pur avendo simpatie per l’uomo e per il santo Palamas, confesso la posizione del
monaco Barlaam, anche se io non sono stato ricompensato per la mia Fede cattolica, come lui, con
un vescovato a Gerace. E ne sono fiero. Ma anche il Patriarca del tempo si schierò contro la teoria
di Palamas, che considerava assurda, per un cristiano, e che, il colmo, i neo- teologi ortodossi non
vedono più così.
La polemica fu scintillante e terribile. Stravaganza mai vista, gli oppositori si accigliarono,
mandando faville. L’avrebbe ammazzato, quel popolume che sempre si pigia intorno alle stranezze
e si gonfia con intervalli di brividi, con chiaccherii da papagallo.
Gregorio lasciò tracce della sua fatica anche a Vatopediou, dove è raffigurato nell’affresco
dedicatogli nella chiesa dei Santi Medici, 1371.
Nel 1341, eletto Arcivescovo di Salonicco, non venne accettato dalla popolazione, (non
c’entrano però i motivi teologici!), e dovette fuggire di nuovo sul Sacro Monte. Appena nel 1350
riuscì a raggiungere la sua diocesi, anche se Niceforo Gregoras vinceva contro di lui. Alla fine,
come sappiamo, vinse lui ed il suo isicasmo palamitico, in più concili locali che per l’Ortodossia
hanno valore di ecumenici. D’allora, la teologia ortodossa ha cambiato volto, com’era normale.
Dopo i vari scismi, le Chiese intraprendono una via tutta loro, originale, che li allontana le une dalle
229

altre, con ogni anno che passa. L’Ecumenismo attuale non fa altro che prendere atto di questa
malattia.
Palamas subì anche una dura prigionia turca, ma fu liberato grazie a una grossa somma di riscatto:
segno che era già onorato e considerato persona importante per l’Impero e per la Chiesa. Nell’estate
del 1355 fu pregato dall’Imperatore (Giovanni V il Paleologo) di esporre le sue tesi davanti al
legato del Papa, il vescovo latino di Smirne, Paolo, giunto a posta a Costantinopoli. Il legato papale
non fece alcun intervento, forse per esprimere in questo modo il suo rifiuto verso un uomo che,
secondo lui, era un eretico, o, forse perché lo considerava privo di adeguata preparazione per
affrontare una discussione millenaria sullo Spirito Santo. L’Imperatore, dal canto suo, sperava in
una intesa teologica con Roma, per avere aiuti militari. Non se ne fece nulla. Palamas ritornò a
Salonicco, stimato vincitore e dedicò alla predicazione ed alla sua opera filosofico teologica il resto
dei suoi giorni, fino al 14 novembre, 1359, quando morì, per malattia, all’età di 63 anni.
Possiamo non essere d’accordo con la sua filosofia teologica e non lo siamo. Però l’ammirazione e
la stima per quest’uomo deve rimanere inalterata, come lo facciamo per Origene, o per Gioacchino
da Fiore, grandi e santi erranti sulle vie della parola.

Dall’alto, e chi sa come si vede dall’altezza-in tutti i sensi- della cella di Palamas,-la Megali Lavra
pare una vera città-metropoli. Un convento ben mantenuto: è chiara la parte del leone, non si
ammette contraddizione. Dalla Grande Lavra dipendono gli skit di Sant'Anna, il Prodromou
(dedicata a San Giovanni Battista, con monaci romeni), e lo skit chiamato Kavsokalivia (o
Kapsokalvia); inoltre, gli eremi Sant'Anna minore, San Basilio (Aghios Vasilios), Katunkia e
Karlia, si alzano tutti agganciati sulle pendici meridionali del Monte Athos.

PRODROMOU e L’ISOLARSI DEI ROMENI

Abbiamo fretta di raggiungere Prodromou, il monastero romeno che sopravvive col rango di
skit, dipendente dalla Megali Lavra. L’unico in cui i romeni si chiamavano romeni e non vlacchi,
cutzovlacchi o altro. Metto il verbo al passato, perché nel 2007, quando trascrivo queste note,
qualcosa è cambiato, non per amore, né per giustizia, bensì per l’obbligo di far parte dell’Unione
Europea e di non mostrare troppo apertamente la faccia ipocrita di una falsa modernità.
Il paesaggio è roccioso e selvaggio. Sarà pure grandioso, ma è povero ed i monaci che qui
devono vivere del lavoro della terra sentiranno poca estasi per le coste alte e rosastre, rosicchiate
dall’azione del mare e dai venti, famosi dai tempi della mitologia.
Certo, non contiamo gli eremitaggi cenobitici abbarbicati a strapiombo di roccia e
raggiungibili attraverso difficili percorsi con corde e scale sospese. Lì sperano di star felici i monaci
230

che hanno scelto di trascorrere la vita in solitudine, ascesi e preghiera. Questa landa pietrosa ricorda
loro il deserto della Palestina o dell’Egitto, quello dei grandi Padri degli inizi, il cui ideale e
capacità sono romanticamente irragiungibili. Qui viveva il vecchio Ghedeone, che, da bracciante al
Monte Athos, si era promesso di restarvi come monaco, ma poi ci aveva rinunciato. Andando un
giorno in chiesa, nel suo paesino, si sentì schiaffeggiato per strada da una mano invisibile, mentre
una voce tremenda gli gridava: “Non è qui il tuo posto”. Comprese e ritornò in Athos per tutta la
vita.
Ci stanno romeni anche lì, a Kavsocalivia o a Vigla Ianicopoli, già dal 1300. Qui, i ribelli e
gli scontenti di Prodromou venivano e si rifugiavano e forse lo fanno ancora oggi. Perché ribelli?
Perché così è il romeno, in genere: all’estero si rifugia presso altri, fugge i suoi, li teme, li disprezza,
li odia forse. La sapevamo da sempre, questa realtà, ma in Athos ne abbiamo avuto la conferma.
Altrimentri non si capisce perché centinaia di romeni preferivano e preferiscono ancora starsene
nascosti fra greci e bulgari, desertando l’unico skit che, con un po’ di insistenza, potrebbe essere
proclamato monastero. Se non lo è ancora, la colpa non è tutta dei greci. I romeni non formano da
nessuna parte del Globo una comunità organizzata come gli altri esuli o emigrati. A prima vista,
sembra una cosa condannabile, di cui si lamenta ogni buon patriota. Ma poi, questo timore- schifo
che ti obbliga di fuggire i connazionali vince su ogni altro sentimento. E, giustamente: costoro che
in patria ti hanno perseguitato, distrutto, offeso, sfruttato, devono farlo ancora in terra straniera ?
Infatti, se te nei sei fuggito proprio per ritrovare la libertà da straniero, è un gesto evangelico,
questo, perché è vero che i più grandi nemici dell’uomo stanno in casa propria e che “non c’è
profeta in patria”-parola di Dio. Non vedo allora perché tutta questa condanna contro un popolo che
all’estero non vuole organizzarsi, bensì mimetizzarsi fra gli altri, per raggiungere, ciascuno, se
stesso, la propria libertà, e non inventarsi una seconda, terza Romania altrove, come altri popoli più
gregari.
Ohimé, come abbiamo vissuto sulla propria pelle tutto questo, anche noi, a Roma, già dal
primo giorno, in Vaticano, se volete, poi altrove, dappertutto, e soprattutto, quando, dopo 15 anni di
esilio, siamo ritornati in patria. Come sono contento, aver sentito e ritrovato la mia vera patria
terrestre a Roma! Ma, dicendo questo, sono sulla linea dei monaci athoniti romeni che preferiscono
tutto, pur di non starsene coi loro connazionali! No, non sono tutti così, ma chi sta insieme, non lo
fa se non per debolezza, per meschinità, o per nostalgia. No, non per motivi puramente divini. E non
mi parlate dell’amore del prossimo, in questa materia. Esso non esiste, se non in casi del tutto rari,
che non sono autorizzato di raccontarli in questa sede.
231

Beh, veramente, solo durante una camminata nel deserto possono spuntare pensieri simili.
Quando si arriva al monastero romeno di Prodromou, si entra di nuovo nella normalità di una vita
contadina, pacata e perfino riposante.

TUTTI I CONVENTI SONO VOLUTI DA DIO !!!

L’esistenza di questo convento è un atto tardivo ed incompleto di giustizia per i romeni,


iniziato nel 1750. Ma anche questo luogo ebbe un segno di riconoscimento giuridico da parte del
cielo, una vera predizione, senza la quale nessun santuario funziona sull’Athos. Nel 1337, quando
nulla di costruito esisteva da queste parti, il monaco Marco, discepolo di San Gregorio il Sinaita,
che abitava col maestro sopra il convento della Megali Lavra, sul monte Palamas, uscendo una
notte dalla cella per la preghiera, vide verso l’Est, nel luogo chiamato „Vigla” una gran Signora
troneggiante come Imperatrice del Cielo, circondata da angeli ed arcangeli che incensavano intorno,
cantando e lodandoLa.
San Gregorio, interpretando la visione rispose: “è la volontà della Madonna che un giorno, in
futuro, si costruisca lì un santuario in suo nome”. Con queste parole, il buon Gregorio divenne,
senza saperlo, l’angelo di buon augurio del futuro convento romeno ivi costruito.
Ma, appena nel 1750 il monaco romeno, Macario, realizzò la profezia, costruendo qui una casetta
con alcune stanze. Poi il greco Iosif Hiotos costruì la chiesa dedicata a San Giovanni Battista, come
skit, nel 1754, che i monaci romeni comprarono a suon di (molta) moneta. Dopo di ché, il primo
fondatore si ritirò in una grotta che fanno vedere ancora, nella quale, certamente non portò il sacco
di monete ricevute dai romeni, che credo, finirono nella tesoreria della Lavra.
Nel 1810, 3 monaci moldavi vollero portare acqua potabile da una sorgente ”Kir Isaia”, ma
non ottennero il permesso dei greci; portare acqua potabile voleva dire organizzare legalmente un
nuovo convento, la quale cosa, i greci, non la volevano in nessun modo. I monaci si dovevano
accontentare con la cisterna riempita dalla pioggia.
Ed ecco il miracolo di Maria Santissima, a favore dei poveri monaci perseguitati: mandò le locuste,
nel 1820, le quali distrussero i giardini della Megali Lavra e di Kir Isaia.
I frati tentarono di scongiurare il disastro, portando in processione il capo di San Michele di
Synnada, (vi era rimasto il capo, dopo la divisione dei tempi di Matei Basarab, il quale, ha comprato
a peso d’oro la mano del Santo per la sua- e la mia- Arnota). Come ci ricordiamo, queste sante
reliquie, dopo la celebrazione con l’acqua santa e con le litanie, avevano il dono di scacciare gli
insetti. Niente, non funzionò, il santo non ascoltò la preghiera dei greci, come aveva ascoltato quella
dei romeni, nel’600.
232

I frati greci, rinsaviti, chiamarono uno dei monaci romeni, Padre Giustino il Vlacco. Lo
conoscevano come iniziato sulla via della santità. La sua celebrazione funzionò, le reliquie del
Santo obbedirono; nel momento in cui Padre Giustino alzò la divina Croce, le locuste si alzarono
come una nuvola pesante e fuggirono; ed i greci ne capirono il segno e permisero l’apportare
dell’acqua da Kir Isaia.
Nel 1821, fu organizzata la Zavera, il sollevamento dei greci, la riscossa nazionale. Come
sappiamo, essa è stata un opera buona della Massoneria, che trovò d’accordo tutti i greci, ortodossi
o meno. I turchi occuparono mano militari la Montagna e bloccarono i conventi. Furono assassinati
in molti, il sangue scorrette anche sugli altari. L’organizzarsi del convento romeno ritardò.
Nel 1852, Grigore Ghica rivestì in argento l’Icona di San Giovanni, patrona della chiesa e
del luogo. Ma il convento romeno fu costruito in ritardo anche per la divisione dei romeni fra
valacchi e moldavi, pur se, entro pochi anni, nel 1859, questa secolare divisione doveva scomparire.
Mah…. alla fine, il 7 luglio, 1853, il Domn, Grigorie Alexandru Ghica della Moldavia, (1849-56)
emanò un documento di fondazione di Prodromou, dopo estenuanti trattative con i greci della
Megali Lavra. Poi, finalmente, con i doni dei romeni, fu costruita l’attuale chiesa, 30/8 metri, sotto
colui che fu il primo superiore, Padre Nifon Ionescu.
La nuova chiesa non è patronata solo dall’Icona di San Giovanni. Possiede anch’essa un’ Icona
miracolosa della Beata Vergine, dipinta dal pittore Iordache, che ha raccontato e lasciato per
iscritto, in dettaglio, il modo miracoloso come l’ha dipinta, ispirato dal Cielo. Descrive come l’ha
finita il 28 giugno, 1863. Come è stato ispirato a dipingere la Madonna, come una ragazza di 17
anni col bambino di 3 anni, che tiene sulla mano sinistra. Ricorda perfino la polemica, su quale
braccio di Maria deve essere collocato il bambin Gesù nell’iconografia, litigio mai assopito.
L’Icona della Beata Vergine guarì dei malati già prima di arrivare sulla Sacra Montagna, scacciò
demoni, difese i poveri. Non c’è da stupirsi se in Moldavia non volevano che i monaci la portassero
nell’Athos. La vestirono in argento, ma essa continuò i miracoli, salvando la vita e convertendo
perfino un ebrea a Galatzi, che si battezzò con tutta la sua casa.
Nel maggio del 1864, pur se il Domn Cuza aveva già dato un decreto “che l’Icona rimanesse in
paese”, i monaci s’imbarcarono in segreto su un bastimento austriaco, la Loyd, e la portarono in
Athos. Gli austriaci trattarono i monaci e l’Icona con grande rispetto, invitandoli in prima classe.
Oggi, l’Icona della Vergine fa la pedagoga dei monaci, cambiando colori e modi, per insegnar ai
frati il giusto comportamento.
La chiesa ricevette, in seguito, relique di San Giovanni Battista, di San Nilo dell’Athos e di San
Giovanni Crisostomo, oltre a una certa quantità di sangue dei 40 martiri ed una parte del legno della
SS.ma Croce, tutto in 5 scatole d’argento.
233

Il convento e l’arcondarico era abitato da 120 monaci, fra 1858-1866. Fu istituita una scuola romena
e la biblioteca, dove il buon Nifon si mise a tradurre la “Salvezza dei peccatori206”, il libro di
spiritualità ortodossa più famoso, il quale, come sappiamo, è, più di tutti gli altri, una copia,
plagiato, o trascrizione di un libro degli odiatissimi Padri gesuiti.
Ad ogni modo, la caratteristica di questi monaci coltivati è di continuare la tradizione manoscritta in
pieno secolo XXesimo. ( È una debolezza(?) dei bizantini odierni di fare cose, altrove tramontate,
secoli fa). Padre Micle ha allestito una lista di almeno 50 capiscuola fra copisti e traduttori che,
quasi contemporanei a noi, con pazienza e talento da Rinascimento, hanno realizzato delle piccole
preziosissime opere. Puoi ammirare a Prodromou, e non solamente lì, libri scritti a mano ed
adornati di meravigliosi disegni e pitture perfino in colori e oro, repliche suggestive delle
pergamene del medioevo. Sono più preziose delle icone stesse, le quali, in fondo, sono copie e
repliche sbiadite di quella che fu la grande arte bizantina.
Così, in mezzo a sufficienti libri vecchi, i quali, nell’epoca dei nostri viaggi- 1977-83, non erano
sistemati, si conservano almeno 219 manoscritti, lavorati fra il ‘700 e ‘900. Il più vecchio, del 1766,
l’ultimo del 1947 : date simboliche.
Con l’aiuto di fra Ioanichie, il quale divenne subito un grande amico, feci alcune fotografie dei
manoscritti e delle pitture a mano, inserite fra le pagine, che ho trovato di una bellezza
incomparabile. Lui mi fece vedere anche il manoscritto con icone, lavorato a mano da un ebreo
diventato monaco cristiano.

Le cose potevano continuare bene per i romeni del convento; con l’unione dei Paesi romeni,
(del 1859), il Prodromou poteva entrare in una nuova era di importanza ed anche l’Athos poteva
ritornare ai vecchi splendori, se i sovrani romeni avessero continuato ad appoggiarlo. Ma Cuza
cambiò completamente direzione e, non solamente non diede neppure un drappo ai Luoghi Santi,
ma espropriò tutti i beni ecclesiastici, quelli dell’Athos con più gusto. Così, pensava lui, vendicava i
romeni dal plurisecolare sacco greco, turco e di altre nazioni ingorde.
Se questo fu vero per i romeni della Romania, non fu la stessa cosa per i monaci romeni dell’Athos.
L’era nazionalistica che si era aperta, non solo nella storia, ma anche nella coscienza dei popoli,
inabissò quella minima intesa fra le nazioni che aiutava superare le tirannie degli Imperi. Ognuno
dei popoli dei Balcani si considerò l’unico proprietario della Penisola. Così, gli altri dovevano
scomparire o metamorfosarsi. Gli unici ad adottare quest’ultimo metodo furono i romeni, non difesi,
o difesi male dalla patria lontana. Se, all’odio ed al disprezzo secolare dei greci, aggiungiamo anche

206
Libro compilato dal monaco dell’Athos, Agapio Landos, 1606-1676. Stampato per la prima volta a Venezia, nel
1641, come libro ortodosso, scritto, cioè tradotto e rifatto in neo-greco.
234

la stizza contro Cuza, per la perdita degli averi, ci stupiamo come avrà resistito il Prodromou, da
semplice skit-monastero romeno, in quegli anni!
Si arrangiarono intanto con la vecchia chiesa di San Giovanni Battista, comprata dai monaci romeni
cento anni prima; con l’icona miracolosa del più grande dei Profeti; e con la spelonca di
Sant’Athanasio, la cui chiesetta è curata dai romeni.
Intanto fu costruita la nuova chiesa, spaziosa e luminosa e il paraclisso. Benché nuova, -secolo
XIX-, la loro pittura è (era) rovinata, fino al 1983. Era, però, magnifica, stile Tatarescu, Grigorescu,
italiana, insomma, non più gradita ai talebani del 2000, i quali riempirono gli spazzi con disgustose
copiature neo-bizantine, (che, fortunatamente, ho visto solo in televisione).
A tutti i dolori dei romeni di Prodromou, si aggiunse, dopo il 1924, anche la polemica sul
calendario, che abbiamo già descritto, il cui fornitore di libri e di aggettivi terribili è stato fra
Arsenie Cotea. Le reazioni vi sono state trasversali. Non so dire se, con questa ridicola guerra di
religione, i romeni sono saliti o scesi negli occhi dei greci; ma tutto un monastero, (Esfigmenou,
per precisione, di cui ci occuperemo in seguito) segue fin’oggi la linea ridicolmente intransigente di
fra Arsenie, il romeno, il “santo” di Prodromou.
Nel nostro primo viaggio vivevano a Prodromou 5 zeloti, 3 moderni, ( il superiore, fra
Mathias e fra Vlasie)e i 4 nuovi, arrivati dalla Romania comunista. Vlasie, semicieco, faceva il
cantore, presso la cattedra del coro; con gradazione 26 agli occhiali, non aveva molto bisogno di
leggere, perché sapeva la Divina Scrittura a memoria, i Salmi li recitava con ardore e senza errore;
ha avuto un incidente a 64 anni, che non gli ha lasciato tracce pesanti. Lo abbiamo ammirato con
venerazione.
Devo dire che siamo stati accolti come dei senatori, come esseri speciali, o forse come i figli del Re
in esilio. Non si poteva ripetere questo miracolo nei prossimi due viaggi, ma nel 1977 vivevano
ancora delle figure uniche, le quali, senza nostro merito, ci hanno fatto immergere nei veli della
Storia.
Il più profondo fra i vecchi resta per me Padre Mathias Stoica, un monaco pieno di fervore, di
spirito, di arguzia, con lo scherzo e il proverbio sempre pronto. Si assomigliava a fra Iosif, nel
prepararci i letti e nel commentare la sua gioia. Mi vide nervoso per un piccolo ritardo e mi insegnò
come non perdere tempo e realizzare bene la Preghiera della mente.
-Ma io non voglio perdere tempo, aspettando loro.
-Tutta la vita è una perdita di tempo, mi rispose sorridendo. La preghiera di Gesù ne è
l’unico rimedio.
Ma quando cominciò a raccontarmi delle reliquie dei 3 Magi che si trovano in Athos ed io sbagliai
chiedendogli: “ma saranno autentiche”? fra Mathias si amareggiò:
235

-Non si fanno mai di queste domande. Sono offensive e dannose per l’anima. Con questo
modo si arriva a contestare tutto, anche la Risurrezione del Signore.
Intanto ci mostrarono il monaco dall ’idea fissa di fare legna per l’inverno. Cominciava già da ora,
in primavera, a pensare all’inverno futuro. Che trauma avrà vissuto con il freddo? Chi lo sa?
I quattro nuovi arrivati erano ultra simpatici e sinceri, la Securitate non ha potuto
corromperli, ne ero certo, (beh, ora, un po’ meno!); sarà rimasta con le mosche in mano. Promesse
ne avranno fatto, mai poi, i frati si sono nascosti qui, senza l’idea di ritornare in visita a casa, per
scendere poi a patti col demonio. Fra Ioan Mutrescu, però, nutriva un sogno diverso. Né Athos, né
Bucarest, bensì Gerusalemme, dove è veramente andato dopo la nostra partenza. Lo abbiamo
trovato lì nel 1981, come mano destra del Patriarca greco, fuggito da ogni realtà romeno-comunista
che lo schifava. Intanto, senza troppe cerimonie, vedendo una ferita nei pantaloni di Gigi, rimasta
dalle nostre avventure nella foresta, si mise subito a restaurarla. Si intendeva di tutto, dalla cucina,
al trattore, curava anche un mulo, non so se tutto questo se l’ha portato dalla Romania. Quando gli
feci vedere la lettera a lui indirizzata da parte di fra Ioanichie di Lacu, non ebbe alcun dubbio: ce
l’avrebbe fatta. E, prima della nostra partenza, arrivò con un manoscritto nascosto in un giornale.
Era un quaderno di musica psaltica, magnificamente scritto a mano da qualche monaco, pagine che
avrebbero assopito la mia dolorosa nostalgia per i miei quaderni, libri e cimelli della casa perduta.
Fra Martinian, un altro giovane, con il suo affetto fraterno, sormontava tutti. Era capace (e
poi lo fece davvero, in due turni), ad accompagnarci nei vari monasteri, pur di aiutarci a non perdere
la strada. I tre giovani facevano gara nell’essere calorosi e dolci, soprattutto perché si potevano
fidare di noi, esuli e liberi, confessori di tutti i dolori degli schiavi. Infatti, come e cosa potevi
confidare a chi veniva dal Paese, quando sapevi benissimo che aveva firmato una promessa di
spionaggio? Poi, noi eravamo dei veri ortodossi non contaminati con i venduti del regime.
S’immaginavano che eravamo legati alla Chiesa Ortodossa di Parigi, di Padre Boldeanu, il grande
guerriero legionario, che tuonava dalla radio segreta, Europa libera. Questo fatto era vero,
conoscere e tenere i contatti con quel sacerdote venerato e ricercato in un mezzo mondo è stata per
noi la prima preoccupazione, in esilio. Con lui e con tutti i nidi controrivoluzionari e reazionari del
mondo. Un onore più forte non ci poteva esistere. Ohimé, Gesù, però! Se i frati dell’Athos avessero
saputo in quale maniera, veritiera, ma a loro sconosciuta, eravamo noi i veri ortodossi,…… Vedete,
io non ho mai apprezzato l’ospitalità e l’amicizia fondata sull’identità di vedute! Ed invece,
quest’erba ingannatrice vince sempre.
Ancora oggi provo compassione per quelle anime innocenti… scandalizzate da troppe assurdità che
dovevano incontrare nella dialettica fra fede e tradimento politico del fratello, attuato ogni giorno
dentro il Lager socialista.
236

Ci raccontano come il Vescovo Birdas si è salvato per un pelo dalla furia delle donne, solo perché
si è dato alla fuga; le furie se ne sono scagliate contro il diacono Luca. Piccoleze, peccati veniali, in
paragone al tradimento di Giuda, attuato ogni giorno dagli informatori.
Certo, i nostri nuovi amici, monaci, non erano consapevoli che la vita non dà tregua in niente. Si
erano induriti anche loro in fretta ed avevano perso l’occasione di diventare gli uni con gli altri
vicini d’affetto, in mezzo, com’erano, a quei pericoli di fatto.
Il più anziano fra loro, diventato in seguito superiore, aveva tutt’un altro stile. Parlo di Padre
Petroniu Tànase, che ebbi il piacere di conoscere e di ammirare mentre si ritirava discretamente a
zappare la terra e dire le sue preghiere nascoste. Ho parlato a lungo con lui, volevo-per pura strana
nostalgia- dettagli sulla vita della Patriarchia e dei monasteri da me appena abbandonati, a causa del
mio lungo esilio. Padre Petroniu, in quell’epoca, doveva far fronte al folto gruppo dei zeloti e dei
moderati, essendo capo dei soli 4 monaci arrivati dalla Romania in un clima di sospetti, non privo di
realismo. Si ritirava, invece di stare a chiacchierare, o descriveva con competenza il suo viaggio a
Roma, i monumenti dell’Italia eterna che aveva ammirato nell’ultima uscita, da rappresentante della
(Sovrom)Patriarchia romena, prima di venire in Athos. Sergiu ha avuto per lui espressioni davvero
commoventi. Ma, ora, a distanza di decenni, perché non pensare che noi avevamo ammirato l’Italia
eterna da esuli e condannati a morte, mentre Padre Petroniu, con la sua faccia devota e l’aspetto
silenzioso, l’ha ammirata, in tasca con un passaporto della Repubblica Socialista, in cambio del
quale doveva dare almeno ogni mese un foglio pieno zeppo di informazioni controllabili…. Era la
nostalgia, allora, che non mi spingeva alla furia contro questi personaggi. Ed ora è la delusione, che
mi apre gli occhi, provocandomi l’unico sentimento coerente a riguardo: lo schifo. Schifo, sì: al solo
pensiero che tutta questa gente andava avanti-indietro con la vanità di poter servire non due, bensì
mille padroni.
Anni dopo, Padre Petroniu avrebbe tradotto e pubblicato testi di San Nicodemo e di Neofit il
Kavsokalivita, oggi santi ammirati, ma in nessun modo imitati, essendo i loro oppositori d’allora i
veri vittoriosi, oggi, nella spiritualità ortodossa.
Certo, la storia più eloquente di Prodromou è quella che si sviluppa intorno a fra Arsenie
Cotea, circondato da zeloti che non si mescolavano con gli altri, non partecipavano alle liturgie, e
non avevano nessun contatto con “gli officiali” per non sporcarsi e non finire all’inferno. Un fatto è
certo: gli arsenisti erano fanatici, ma puliti; terribili, ma innocenti; “gli altri” erano normali, ma
venduti; ospitali, ma traditori. O, almeno fuggiaschi, semplicemente.
Nel 1977, Arsenie Cotea, stava malato. Sergiu, curioso come sempre di cose e mutrie eccentriche,
lo ha voluto vedere ad ogni costo. E, dal primo momento, ha sempre chiesto di lui. Sulle prime, i
monaci, guardiani del segreto, non si espressero. Poi, arrivò uno, con aria di fronda, fece come un
237

giretto intorno a noi che raccontavamo balle ai monaci più giovani e gli fece un segno: “seguimi.
Solo tu, però, non gli altri.” Ci andò; lo introdussero in vari corridoi e anticamere, fino alla sua
stanza da letto, custodita dai monaci fedeli a mo’ di sbirri. Sergiu lo vide, lo conobbe, e ne rimase
soddisfatto: era un vecchietto che stava per morire e continuava a inveire: che senza il santo
calendario, nessuno si salva.
Arsenie morì non molto tempo dopo la nostra partenza. Il convento gli celebrò il funerale secondo
la regola, ma i suoi seguaci non vollero unirsi in preghiera con i “regolari” neppure in questa
occasione.
Arrivarono a ben più macabri riti. Nella notte successiva alla sepoltura, andarono e dissepellirono il
corpo del loro “padre”, gli tolsero la testa e, celebrato ancora una volta il funerale, (meglio dire,
dopo averlo celebrato validamente, perché se non sei stilista sei nulla, e questo è un pensiero
talebano onnipresente in tutte le strutture, antiche o moderne), nascosero la testa in un luogo
segreto, saputo solo da loro. Ignoro se ne è mai stato ritrovato.
Va be’! Storie edificanti, in mezzo a monaci che, per darsi coraggio, si armano della preghiera di
Gesù. ( Lo dico per scherzo, anzi, per scherno, convinto che essi tutto fanno o credono di fare, meno
che la preghiera di Gesù).
Aldilà di tutto questo, vivemmo due giorni e notti di felicità a Prodromou. Quel che là non
mancava era il mangiare abbondante, per quel che subito vidi (ed in fine rapporto a tutto il tenore
del Santo Monte). Cibi e bevande buoni. Di dove veniva tutto quello, in vicinanze così povere,
trovandoci noi, fermi, quasi in un deserto e con la poca terra che la Lavra permetteva ai romeni di
Prodromou? È chiaro, il romeno si organizza meglio dei balcanici, cominciando dal verniciare le
case, i muri, i recinti, perfino i tronchi d’albero e finendo con il mettere tappeti sparpagliati per le
stanze ed in chiesa. Se deve mangiar fagioli, li prepara con gusto squisito, da farti dimenticare le
carni; e le minestre, una meraviglia, che nessuna nazione è così ghiotta e fantasiosa da saper
preparare. Assistemmo alla Santa Liturghia cantata meglio che dai greci e meno bene che dai russi,
ma, insomma, era la cerimonia della nostra infanzia. La gustammo con lacrime. Ed io, come
sempre, entrando furtivamente nella stanza dell’Altare, rubai il Santissimo Corpo e Sangue, lasciato
per un attimo nel Sacro Calice e me ne comunicai felicemente e clandestinamente. Per chi vuole
imitarmi, sappia che deve usare il cucchiaino specifico del rito. Insomma, facevo ciò che mi era
stato permesso da Padre Rafael, già in Romania, gesto che la riforma del Vaticano II, solo anni più
tardi, ha messo a disposizione della gente. L’Ora nona, i Vespri romeni, nella chiesa grande e la
Messa, il 22 aprile, ohi, che meraviglia! Era la nostalgia che trasformava tutto in oro e l’oro in
diamanti. Non dimentico, anzi conservo, la nostra foto con i monaci, vecchi e giovani, tutti
238

commossi, dopo la Santa Messa di San Giorgio, che non era di San Giorgio, se non nel cuore, il
Monte Athos obbligando tutti a seguire il vecchio stile207.
Appunto: dopo la Messa di San Giorgio, il 23 aprile, ci accomiatammo dai monaci con lacrime. E,
accompagnati per un po’ dal passo competente e dalle spiegazioni assennate di fra Martinian, ci
rivolgemmo verso il decimo luogo di questo nostro primo pellegrinaggio in Athos: Sant’Anna.

IL DESERTO DI SANT’ANNA

Ore lunghe e difficili di camminata, di salite e discese avventurose, in mezzo ai burroni e


precipizi da brivido, da incubo. Sparpagliate sulle lande pietrose, le casupole inaccessibili, abitate
da eremiti, danno il tono alla gravità della vita in quelle parti. Ecco i muri ed i ruderi quasi spalmati
di calce e le chiesette con le loro croci sghembe ed il luttuoso lamento delle loro piccole campane.
Ora voglio descrivere celle che non ho visitato, ho solo studiato o di cui ho sentito dire storie
suuggestive, a tal punto che si dà l’impressione che il cuore in tumulto del Monte Athos batte
proprio qui, sulla parte arida, che imita i deserti dei grandi asceti degli inizi.
Per primo, lo skit di Kapsokalvia208 : nome rimasto da San Massimo, che qui visse nel
1300, e che aveva l’abitudine di bruciare la sua cella ogni volta che cambiava posto. Fu seguito ed
imitato da San Nifone, un altro folle per Cristo, nel’400.
Ma il fondatore ne fu l’Ossios Akakios il giovane, che morì verso il 1606, non prima di pregare,
per far uscire una sorgente che ha trasformato lo skit del deserto in giardino fiorito.
Qui, nel dopo -guerra, è rimasto il monaco di Kalamata, Gioacchino, dopo aver girato l’America e
dopo essersi imbevuto della comodità della vita americana. Grande merito, poter, dopo tanta
agevolezza, ritornare nell’Epoca di pietra. Qui, con altri due americani, ha incontrato Gregorio, un
ex-ufficiale, severo e duro, che era passato per Konstamonitou, ed ora si santificava con aspre
penitenze in questo deserto. Diventati discepoli di costui, sono passati tutti a Sant’Anna.
La chiesa più importante di tutto il complesso è dedicata alla Santissima Trinità, in mezzo a
più di 40 celle, sparse intorno ad essa. I monaci vi si occupano di icone, sculture in legno e
creazione di metanie, rosari bizantini e immaginette sacre. Data la loro vita di veri padri del
deserto, molti si degnano di visioni e segni celesti. Nei tempi della nostra visita viveva ancora un
monaco balbuziente, il cui difetto proveniva da un fatto della sua infanzia. Infatti, a 12 anni si era
messo a celebrare da solo la Santa Messa, rubando, per così dire, i paramenti ed i vasi sacri dalla
chiesa del villaggio, dove lo zio era parroco. Se li è portati in camera e, su un tavolino, ha celebrato
tutta la Liturghia secondo il complicato rito bizantino: proskomidia, offertorio, consacrazione….. Il
207
Il loro 23, il loro San Giorgio arrivava dopo 14 giorni.
208
O Kavsokalivia: Divorato dal fuoco e rimasto arido: da , bruciare( gr.)
239

primo prodigio della sua vita fu proprio questa precocità di un bambino innamorato della Messa e
del Signore, che ha celebrato sul serio e non per gioco. Alla comunione, però, ne provò il secondo,
straordinario: ha sentito Carne cruda e Sangue in bocca ed è svenuto, per la paura. Tutto è finito
con la processione di tutto il villaggio, parroci, vescovo, e tanta gente, venuta per “riparare” il
sacrilegio(sic!); mentre il povero ragazzo è rimasto balbuziente per troppa emozione. A 20 anni si
è deciso di andare all’Athos e farsi monaco. Gli è rimasta, sino alla fine, la paura di farsi la
Comunione, per non sentire un'altra volta in bocca sangue umano e carne vera.209
Ora, i miei commenti: Questo non è l’unico esempio di racconti di Liturgia eucaristica, celebrata
validamente da parte di bambini temerari, che circola fra i greci. Gli ortodossi raccontano questi
prodigi come avvertimenti negativi, ma se pensassero senza preconcetti, vedrebbero in questi
episodi delle vere prove che l’Eucaristia potrebbe essere validamente celebrata da ogni battezzato.
O, almeno da battezzati innocenti. O, meglio, che Dio trasforma le Sacre Specie anche all’infuori
dell’Ordinazione. Certo, sono troppo inabissati nei vari tabù auto-inventati, per capire che
raccontare simili storie -soprattutto se vere- è darsi la zappa sui piedi. I cattolici, che potrebbero
incorrere nello stesso problema, si guardano bene dal raccontare simili episodi nei libri di
devozione. Mi risponderete che lo fanno per pura ed ipocrita cecità. Io vi replico: no comment.

Da Prodromou fino allo skit Sant’Anna abbiamo messo tre ore a piedi e non eravamo per
niente lenti. Lo abbiamo intravvisto da lontano e lo abbiamo contemplato per quasi tutto il viaggio.
Sant’Anna, fra tutte le piccole fondazioni qui disseminate, è il più vecchio skit con più privilegi,
fondato da San Gherontios nel 9-10 secolo. Idioritmico, simile a un villaggio greco di case, 65
celle, 105 monaci, (anni’70; è possibile che oggi, -2017-, ce ne siano 2-300), santificandosi attorno
a una chiesa comune. Ciò che vediamo oggi è del 1666, la chiesa invece fu riedificata nel 1754-55.
Festa, il 25 luglio. Due secoli si è godute le donazioni dei romeni. Almeno tre manoscritti, nella
biblioteca, non preziosi, sono dei romeni.
Da Gherontios fino a Savva il nuovo (+1948), 16 santi canonizzati, ex-abitanti di
Sant’Anna.
Qui visse Eutimio da Dimitsana, prima di diventare ( neo) martire, giustiziato dai turchi nel
1814. Aveva studiato a Costantinopoli, a Jasi e a Bucarest, dove gli è sorta la vocazione per l’Athos.
Ma la raffinatissima e dissoluta capitale romena, ingorgo di astuzie levantine e formalismo
occidentale, lo adescò nelle sue reti di perversioni, e rinunciò, non solo al monachesimo, bensì,
anche a Gesù Cristo, chiedendo al Pascià Efendi l’ingresso nell’islam. Dopo aver subito la
circoncisione, gli tornò la ragione e pianse amaramente, attraversò una tortuosa strada per uscire
209
?
In S. Anagnostopoulos, op. cit. pag 344.
240

dall’islam; ma non potè, senza il martirio, che gli fù servito davanti a una folla di cristiani attoniti, a
Costantinopoli il 22 marzo 1814. Era riuscito a godesi la luce dell’Athos per un po’ di anni.
A Sant’Anna, ricordano padre Teodosio (+1950), che pensava, pregava, piangeva e
conversava su un solo tema: della salvezza. Aveva una sola parola: Salvaci, Panaghia!
Ricordano anche altri, pittori di icone e santi come padre Kartzonas, (+1956) coi suoi tre fratelli,
Serafimo, Dionisio e Hrisostomo, figli del sindaco di Messini.
Qui padre Eleutherio, (+1933) vide angeli in abiti sacerdotali bianchi che gli annunziavano la sua
partenza per il cielo. Mentre fra Nicandro li vedeva mentre soffriva dolori terribili di cirosi.
Sant’Anna apparve personalmente al monaco santo, Clemente, in forma di donna povera,
profetizzandogli la sua vocazione per l’Athos. Così, quando venne allo skit di Sant’Anna, in
semplice pellegrinaggio, riconobbe nell’icona della Santa, la vecchietta devota apparsagli per
strada, anni prima210. Mentre il monaco santo e famoso, Isichio l’Aghianita guariva o trovava le
cose perdute dei vari cristiani, con l’aghiasma celebrata in onore di Sant’Anna e con le reliquie
della Santa che portava con sé. Veramente, questo Isichio è diventato monaco santo, grazie a un
altro monaco che si è scelto come padre spirituale, Padre Leonzio. Verso il quale, andando lui a
piedi, gli apparve il diavolo in figura di asceta, tentando, senza riuscirci, di sviargli la strada. Sentì
in seguito il diavolo lamentandosi che “quel caprone di Leonzio mi ha tolto tutti i monaci”. 211
Qui i padri devoti mangiano, di lunedì, di mercoledì e di venerdì, una sola volta al giorno,
soli vegetali e senza olio.

La Nea Skiti, non lontana, è del 1754-60, dipendente da Aghiou Pavlou, e nota per essere abitata,
più di altre fondazioni, da monaci pittori di icone. Le pie celle con le loro mura scalcinate arrivano
fino alla riva del mare.
Qui visse il monaco santo, Spiridonos - lo abbiamo già ricordato- colui che si è reso famoso con le
sue uscite fuori dall’ordinario, da sembrare non-ortodosse. Alla fine era arrivato alla conclusione
che “il miglior stato del Santo Monte di tutta la Storia è quello attuale”, ( parlava degli anni’80).
“Oggi, i giovani che vengono qui hanno studi, sono educati in famiglia, hanno una certa
esperienza sociale, leggono la parola di Dio e i libri ascetici dei Padri….”
Certamente, rispondo io, l’albero del Bene è cresciuto accanto a quello del male, per cui, il
mondo di oggi è più sveglio. Inoltre, alla Nea-Skiti, l’aridità della zona incita di più all’ascetismo
che non le zone ricche, questo è ormai regola. Ascesi e serenità… se fosse vero che la bellezza
esteriore ti da serenità! Ma non è mai stato vero questo; un bel paesaggio, uno splendido ritiro sono
da sempre l’eterna illusione dei capricciosi.
210
Vedi il libro di Damaskinos, op.cit. pag.70ss.
211
In S. Anagnostopoulos, op. cit. pag.406ss.
241

LA GUERRA DEI KOLLYVADES E DEGLI ANTI…

È così vero, che proprio qui, in questa atmosfera che doveva ispirare pace, scoppiò la disputa
212
fra i kollyvades e opponenti, la “ crisi kollyvita”, che finì nella violenza più degradante,
insanguinando la Sacra Montagna, per motivi talebani, ridicoli.
Tutto cominciò proprio a causa della ricostruzione della chiesa, nel 1754, con l’aiuto di
ricche donazioni, i cui donatori pretendevano però la lettura assidua delle liste dei loro defunti,
durante i requiem.
La celebrazione per i defunti cominciava da venerdì sera e si ripeteva di sabato durante la Messa,
con l’offerta della kollyva,213 il dolce specifico per la liturgia dei defunti.
Molto presto, i monaci sentirono difficoltà, per la lunghezza insostenibile delle liste, (12000 nomi
da leggere ad alta voce) per cui la celebrazione riempiva loro la giornata. Ma il sabato era anche il
giorno di mercato a Karyé, al quale i monaci non potevano mancare per poter sopravvivere. Di
conseguenza, alcuni decisero di spostare le celebrazioni la domenica dopo la Messa solenne,
lasciando il sabato libero anche per il lavoro di costruzione della nuova chiesa.
Apriticielo ! Il diacono Neofit Kavsocalivita, grande professore e studioso, ex direttore- appena
sbarcato- dell’ Accademia athonita di Vatopediou, ma anche monaco devoto, -circondato da
sostenitori- gridò al sacrilegio:
-La Domenica è giorno di gioia, della risurrezione; celebrare funerali o liturgie funebri
è contro ogni regola.
E, riconosciamolo, ne aveva un po’ di ragione.
Gli aghianiti che non misero a cuore i suoi discorsi furono bollati come eretici e condannati
in blocco, da lui e dai suoi colleghi professori dell’Accademia athonita, come Athanasio di Paros,
Cristoforo di Arta, Agapio di Cipro, Iacoppo di Peloponeso e il caligrafo monaco Paisio che
poi, fu ucciso. (Furono tutti, in seguito, condannati dalla Patriarchia del Fanar nel 1776). A loro si
aggiunsero Partenio di Zografou ed i più famosi, Nicodemo l’Aghiorita e Macario di Corinto.
-Disprezzate la risurrezione, nekrologountes che siete, idolatri, privi di grazia, eretici.
Erano studiosi illuminati, costoro, precursori di un Vulgaris e Theotokis, che, a loro turno, furono
teologi di valore, iniziatori dell’ enciclopedismo ortodosso, formatori dell’Accademia di
Vatopediou, ecc., come vedremo. Però, in questa direzione, si mostrarono fanatici, esattamente
come i loro oppositori.

212
Vedi sopra, nella prima parte del libro.
213
Da , , focaccia.(gr).
242

Gli aghianiti non si lasciarono sopraffare e passarono all’attacco: gli rimproverarono a


Neofit la sua origine ebrea214. (Come vediamo, un ebreo, pure se convertito, non può fare la voce
grossa, neppure se ha ragione!) I bravi monaci riuscirono, con la loro devotissima fantasia, a calcar
la mano fino al parossismo:
-Hai nostalgia del riposo di sabato, giudeo inferocito e non convertibile.
I reverendissimi Padri, però, non badavano ai canoni più antichi ed ai libri di culto che tenevano
ogni giorno in mano, i quali sono chiari: le celebrazioni funebri si fanno di sabato, mai di
domenica; aldilà del fatto che, per simili motivi, non si dichiara una guerra spietata.
Il povero giudeo smarrito fra i buoni cristiani dell’Athos, pur se buon cristiano, studioso,
devoto e successivamente canonizzato come Santo, dopo i primi schiafi subiti, (schiafi e pugni,
forse anche qualche accoltellata), dovette fuggire dall’Athos, nel 1759, insieme con pochi suoi
fedeli, rifugiandosi, prima a Chios e poi a Adrianopoli, purtroppo per lui, sempre in ambiente greco
e sempre in pericolo di vita. Fuggì infine nei Paesi Romeni, prima a Brasov, poi a Iassi e poi a
Bucarest, dove morì nel 1784, dopo aver insegnato nelle appena- aperte Accademie romene.
Dietro di loro i fuggiaschi si sentirono dire epiteti come questi:
-Fuori, sabbatiani maledetti, giudei uccisori, kollyvades sporcacioni, nemici degli ultimi
versi del Credo Niceno. (Oramai l’accusa di non credere alla Risurrezione le si era rigirata contro).
I kollyvades non demordettero e replicarono agli aghianiti:
- Siete voi i veri nemici e detrattori della Risurezione del Signore, voi che pensate alla morte
dei cristiani in giorno di risurrezione.
I superiori della Grande Lavra, istigati dal ex-patriarca Cirillo V, esiliato a Sant’Anna (ed
irrequieto sostenitore dei monaci che dovevano lavorare di sabato, invece di celebrare requiem)
scomunicarono i kollyvades di Sant’Anna, considerandoli i promotori dello scandalo: non potevano
più entrare nelle chiese, non potevano usare il mulino per macinare la farina, ecc.ecc. Ciò che
voleva dire, morte di fame.
E, come sempre, il talebanismo porta al crimine. Alcuni monaci del grande Skit pagarono un pirata,
il “capitano” Marko, (di capitani di questo genere è sempre stata piena la Balcania, vedi le guerre
iugoslave attuali). Costui, in un momento di ispirazione e con la benedizione dei benemeriti monaci
fece annegare manu propria due kollyvades: Paisio il calligrafo e il suo padre spirituale, Theofano.

214
Infatti, Neofit, (1713-84) era nato in Lacedemonia, da padre ebreo convertito e di madre parente di un vescovo greco
che viveva nei paesi romeni. Con il loro aiuto studiò presso l’Accademia del Fanar, a Patmos e a Giannina, diventando
professore di filologia classica e canonista. Però, sentendo vocazione ascetica e amore per la Tradizione, venne a farsi
monaco in Athos, senza capire che le sue preoccupazioni erano incompatibili con l’ascetismo athonita e soprattutto con
il clima spirituale dell’Athos. Questo è dimostrato dal fatto che una volta arrivato a Bucarest, in libertà, scrisse e
sistematizzò un immenso materiale teologico e canonico, il “Nomocanon”, che accanto al “Pidalion” di Nicodemo
l’Aghiorita è il vero Codex Iuris Canonici dell’attuale Chiesa Ortodossa.
243

I due si beccarono dunque il Paradiso, anzi, la canonizzazione, da parte del loro partito, con inni e
liturgie in loro onore. Ma i kollyvades dovettero abbandonare la Sacra Montagna nel 1759.
Le botte e le violenze, con morti e feriti, degne dei monaci parabolani dell’Egitto di San Cirillo
(secolo V), continuarono.
Perché ? Perché i kollyvades non si accontentavano della libertà di celebrare di sabato come di
domenica, secondo le abitudini oramai radicate dei vari conventi; essi volevano la condanna
pubblica e definitiva degli altri. Era, questa, una controversia degna dei grandi Concili Ecumenici di
un tempo, per cui si dava eroicamente la vita? No, di certo. Ecco perché il dito di Dio non funzionò
in loro favore e proprio loro, pur avendo più ragione (teologica) degli altri, nel 1772 e ‘76 si
beccarono la condanna pubblica della Chiesa.
Per disgrazia di cose, a questo litigio delle kollyve si aggiunse anche la disputa sulla
frequenza alla Divina Comunione; e la Sacra Montagna si trasformò, per decenni, in un teatro di
guerra teologico-liturgico-ridicola, che fu assopita solo da un’altra controversia, ancora più ridicola,
quella del Santo Calendario.
La disputa sull’Eucaristia che seguì a quella sulle kollyve ebbe due tempi e due contenuti: il
primo ne fu ridicolo, vera zampa del diavolo, una tonellata di olio sul fuoco, senza ragione. Il
secondo, in un successivo momento, fu una polemica su un aspetto più serio della Comunione
Eucaristica; è un modo di dire, “più serio”, perché, quando si arriva alle mani ed ai coltelli, ogni
buona ragione sparisce.
Infatti, il buon giudeo, Neofit si mise ad esagerare, elaborando una dottrina eucaristica, a dir
poco, stravagante, che difese, contro l’evidenza, sino alla morte.
Leggendo, lui, due scritti, creduti di un cristiano arabo dell’ottavo secolo, Pietro Mansur, -
che poi si scoprirono come apocrifi- Neofit fu impressionato da una certa teoria trovata in quelle
pagine, riguardo alla Divina Eucaristia. Che, cioè dopo la Consacrazione, il Corpo di Cristo
presente sugli altari non è il Cristo glorificato e risuscitato, incorruttibile e immortale, identico a
quello che sta in cielo alla destra del Padre; bensì il corpo mortale di prima della Risurrezione, che
Gesù aveva all’ultima Cena. Questo Corpo non glorificato passa attraverso una morte reale durante
la Messa, essendo sbriciolato davvero durante il rito dello spezzare il pane, ucciso durante la
comunione e sepolto nel corpo di colui che si comunica. Risorge dentro costui, mescolandosi alla
sua anima e comunicandogli l’incorruttibilità della Risurrezione. Ecco perché, se uno riceve un solo
pezzo di ostia o di pane, si comunica solamente con una piccola parte di Cristo. Necessita dunque di
comunicarsi spesso, e con tutto il Pane eucaristico presente sull’altare, per riempirsi di tutto il
Cristo.
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Neofit arrivò fino al punto di chiedere, durante una Messa, a Bucarest, tutto il Pane
eucaristico per sé, senza lasciare nulla agli altri concelebranti, pur di avere almeno una volta il
Cristo completo.
Strana motivazione, davvero unica, della Comunione frequente e soprattutto della non
concelebrazione, che i tradizionalisti cattolici, in lotta contro il Vaticano II, non hanno scoperto, per
mettersela nel loro arsenale di argomenti. Scherzo, non lo farebbero mai, ma puoi saperlo? Se
perfino un professore eminente di grammatica, uno studioso coltissimo, può arrivare a simili
elucubrazioni, riguardo all’Eucaristia? Eludendo il fatto che Gesù è oramai risorto e che la Sua
presenza nell’ Eucaristia non può essere, se non gloriosa, in plurilocazione, rispetto alla Sua
presenza in cielo, dove è glorificato, alla destra del Padre?
Senza essere neofitani, i neo-teologi ortodossi, come Padre Dumitru Stàniloae applicano lo
stesso ragionamento, nella loro polemica acerba, contro il culto delle stigmate e del Cuore
addolorato di Gesù in Occidente: se Gesù oramai è risorto, quale sangue, quale Passione pre-
resurrezionale può ancora verificarsi?
Se il povero Neofit non l’avesse descritta in varie lettere conservate negli archivi, questa sua
teoria sarebbe rimasta dimenticata e la sua persona, insieme con la sua opera non avrebbe avuto la
sorte del suo collega più grande, Origene: la scomunica, cioè, dopo la morte. Infatti, il poveraccio
fu accusato di ”kakodoxia” perfino dall’amico, Athanasio di Paros a distanza di 30 anni dalla
morte.
Del resto, la teoria di Neofit non era neppure originale. Essa fu inventata dal segretario
dell’Imperatore, Manuelo Comneno, un certo Michele Glykas, nel 1100, per consolarsi della
punizione dell’accecamento in seguito a uno processo di necromanzia. Divenuto monaco e teologo
improvvizzato, lasciò in eredità questa elucubrazione, che provocò, dopo la sua morte, grande
scandalo presso la Corte degli sfortunati Imperatori, Isacco II Anghelos e del fratello Alessio III,
essendo d’accordo perfino i Patriarchi -ignoranti- Giorgio II e Ioannnis X, che incoraggiarono, su
questa linea, Giovanni Kastamonitis, diventato nel 1191 metropolita di Calcedonia. Si scatenò un
furore bestiale, durante il quale furono commessi oltraggi e litigi indescrivibili. Che tristezza, non è
vero? Proprio questo mancava all’Impero in deriva, il quale si trovò diviso e sconcertato nel
momento dell’invasione veneziana del 1204 -la IV Crociata-, anche se un sinodo nel 1200 aveva già
condannato gli eretici.
A distanza di secoli, Athanasio di Paros combattè la dottrina del Glykas, e condannò
indirettamente anche l’amico Neofit, opponendole la famigerata dottrina scolastica della
transustanziazione. Apriti, cielo! Lo sfortunato professore ne aveva scelto il mezzo peggiore. Una
simile teoria, ingegnosa e considerata corretta, è inaccettabile per i bizantini di ieri e di oggi….
245

Stando alle critiche degli slavofili, essa sarebbe irreale e falsa; e se vuoi spingere il ragionamento
fino alle soglie del divino, finisci per dare loro ragione. Lo abbiamo fatto altrove.
Ora torniamo ai nostri inquieti personaggi.
Neofit, dal canto suo, non lasciò correre nulla. Continuando a radunare materiale polemico
inutile e provocando l’ira dei migliori amici, spinse tutti alla dimenticanza delle sue magnifiche
opere giuridiche, proprio a causa del miscuglio che fece fra le regole dei Padri e le sue strane idee.
Rimase da lui l’idea che gli ortodossi devoti vivono una “devozione senza devozione”
l’indolenza essendo il vero motivo, e non lo scrupolo, per cui non si accostano spesso alla
Comunione. Ma, con tutte le sue critiche non in linea, Atanasio riuscì a ritornare in Athos nel 1776,
come direttore dell’Accademia. Nel 1775 era venuto anche il giovane Nicodemo il futuro Santo -
aveva 27 anni- e il metropolita di Corinto, Macario, che ordinò Atanasio come sacerdote. Tutto
questo, in mezzo a un fuoco passionale ed a polemiche terribili, da far dire al Patriarca Samuele, nel
1774, che il Monte Athos “è diventato monte selvatico, non più santo”.
I kollyvades non si salvarono; furono condannati nel 1776 dalla Patriarchia Ecumenica.
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La seconda generazione di kollyvades fu formata, appunto, da Nicodemo l’Aghiorita e da
Macario di Corinto,vescovo; non più guerrieri come Neofit et&, bensì devoti più cauti, più
discreti, avendone, forse, imparato la lezione. Nicodemo, che realizzò una vera enciclopedia
dell’Ortodossia- la Filocalia- portò la controversia a livello europeo, per il semplice fatto di aver
pubblicato i suoi libri a Venezia.
Venezia! Metropoli che ancora una volta interviene nell’anima bizantina, sembra, per rifarsi dal
disonore della quarta Crociata. La sorte di Nicodemo l’abbiamo già contemplata, resta a vedere ciò
che è successo con i suoi devoti.
La disputa dei kollyvades e opposanti si spense nel fuoco di un’altra rivolta, quella politico-
nazionale dell’Eteria e di altri gruppi patriotici greci, nella terribile guerra dell’indipendenza greca
del 1821-29, in cui 2000 dei 6000 monaci athoniti uscirono dai conventi, per partecipare al
conflitto. Come rappresaglie, furono uccisi nell’Impero turco un numero di 6000 sacerdoti, fra i
quali, vescovi-metropoliti e lo stesso Patriarca Ecumenico, impiccato l’11 aprile, 1821, notte din
Pasqua, presso la porta della Catedrale.
Ma, se crediamo che la bellissima calma del paesaggio del deserto athonita, intorno a
Sant’Anna, non poteva ispirare nuove guerre di religione, ci illudiamo semplicemente. Dalla
rivoluzione greca sgorgò un nuovo Stato, pro-occidentale, illuminista, avversario della Chiesa, e
convinto che Essa avrebbe portato indietro il destino della nazione-. Così, la nuova Grecia, pur se
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monarchica e piena di simboli sacri-, mostrò tutta l’ingratitudine possibile verso una Chiesa, senza
la quale, la grecità stessa sarebbe scomparsa.

Nel nuovo clima secolarizzante, i kollyvades incominciarono una nuova polemica sull’
Eucaristia, pressando sulla comunione, sulla devozione e sui valori della vera sacra Tradizione,
anche se in chiave antilatina, che è poi la chiave di tutti i greci.
I nomi della nuova disputa sono: Apostolos Makrakis (1835-1905) e l’arcimandrita Mathopoulos
(1849-1929) il fondatore della confraternità “zoi”, “per la comunione frequente e contro la rigidezza
della falsa tradizione”. Ambedue condannati dalla Gerarchia. Nel nuovo fuoco ritornano i libri di
Nicodemo e dei suoi amici. In verità, la nuova fase della polemica tocca aspetti più seri della vita
spirituale, che i cattolici, grazie a San Pio X, realizzavano già con successo. Ma proprio questa era
la disavventura di questa corrente fra gli ortodossi: si assomigliava alla disciplina cattolica.
Negli anni 1969-71, i monaci di Sant’Anna e San Basilio, forse per rifarsi sul passato,
cominciarono la propaganda e la pratica della comunione frequente. Immediatamente, vi riscoppiò
la stessa polemica, negli stessi termini e quasi con le stesse violenze, con la differenza che le
autorità furono più sbrigative. Accusati dai superiori della Grande Lavra di risuscitare le idee di
Makrakis, i monaci neo-kollyvades in questione furono sottoposti a un processo canonico. In
seguito al rapporto dei monaci, Theoclitos di Dionisiou ed Eftimio di Karakalou, furono
condannati. Invano presentarono la loro apologia. Furono scomunicati e cacciati nel 1971 dal Santo
Monte dalla Iera Kinothita stessa.
Nel 1972 un monaco, Teodorit, presentò un apologia completa a favore dei condannati e si dedicò
alla publicazione dei libri più importanti dei kollyvades. Ci mise un po’ di tempo, perché si era
messo da solo contro tutta una corrente. Cominciò con i testi di Neofit, sulla Comunione frequente,
nel 1975, commettendo anche l’imprudenza di portare in prefazione le motivazioni del Papa, San
Pio X, (pur senza citarlo). Come sappiamo, la linea del grande Papa è perfettamente ortodossa, ma i
teologi ortodossi non la accettano, proprio perché viene da Roma. E, per rifiutarla, fanno al Papa un
intero processo di intenzioni, che è, a dir poco, ridicolo.
Noi li abbiamo trovati in questa situazione: vittoriosi, i rigoristi, che richiedono pause fino a 6
settimane fra una comunione e l’altra, con digiuni ed astinenze da tre a sei giorni, il minimo. Non lo
fanno per rigore, bensì per indolenza, indifferenza e fanatismo, come dice troppo bene il nostro
ebreo, Neofit. È, questa, la linea di tutta la Chiesa Ortodossa attuale, anche se, timidamente, alcune
cerchie tentano di addolcirla, a favore della Comunione frequente.
247

I rigoristi dalla Comunione rara non pregano bene, né amano assai il Signore, malgrado i loro
proclami. Se pregassero con il vero fervore e se avessero il vero sentimento di amore eterno per
Dio, non potrebbero vivere senza la comunione quotidiana.
Di questo parere è, dentro la Chiesa Ortodossa, la Madre Veronica, la straordinaria fondatrice,
veggente e superiora di Vladimiresti, che, per questo motivo e per altri, altrettanto sublimi, fu
perseguitata dalla Chiesa Ortodossa Romena e dal governo comunista.
Ad ogni modo, questa linea, formalmente, ma non realmente rigorista è quella dei
giansenisti di Port Royal, senza voler mescolare, in questa mediocrità, il grande Pascal. Devo
riconoscere che tutte queste tempeste ascetico-liturgiche dei monaci di questi deserti athoniti erano
per me le grandi sconosciute negli anni della nostra visita. Ne ho fatto il collegamento in questi
ultimi anni, da quando posso vivere e pensare senza nessun condizionamento prodotto dalla
nostalgia. Veramente: senza diventare spoetizzati, quanto è fantastico tornare liberi, dentro!

AGHIOU PAVLOU.

Ricordo il lunghissimo tratto, consumato tutto a piedi, fra Prodromou ed il Monastero di


San Paolo, come affascinante e non eccessivamente faticoso. Non avevamo neppure la
preoccupazione di rimanere fuori per la notte, come nel caso di Lacu. O che la giovinezza ce lo
imponeva, o che non ce ne siamo accorti, ebbene, non abbiamo usato nessun mezzo, neppure un
mulo, per realizzare tutto questo pellegrinaggio, nel 1977.
Aghiou Pavlou: Sta all’ovest, 20 minuti di strada dal suo arsanà, che abbiamo lasciato a
sinistra. Costruito fra due torrenti, il monastero è arroccato a 140 metri altezza, tra le pendici
rocciose, sul versante occidentale, in un vallone ai piedi del monte Athos. Sublime, lo scenario
naturale di quelle piramidi invecchiate della roccia che slanciano verso il cielo il loro gran vertice.
Monastero a statuto cenobitico (dal 1839), dedicato alla Presentazione della Vergine al
Tempio, (la Festa, il 21 novembre). Uno dei migliori monasteri cenobitici, con più di 100 monaci.
Ne dipendono la Nea Skiti (della Torre), e lo skit romeno di Lacu.
Le origini di questo monastero sono oscure; secondo la tradizione, risalirebbe a un eremo
anteriore alla venuta di sant'Atanasio. Cioè, verso il 377, quando un monaco di nome Stefano,
avrebbe costruito qui una cella, dedicata alla Presentazione.
Le cronache confuse dicono che nel IX secolo, il monaco Pavlos, figlio dell’Imperatore Michele
Rangabè, dopo aver fondato Xiropotamou, venne qui per più tranquillità, aggrandì la cella vi
trovata, in onore di San Giorgio, e, con i suoi discepoli, la trasformò in un vero convento.
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Rangabè (811-813) era il cognato dell’Imperatore Niceforo, quello ucciso dai bulgari, dal cui
cranio, il capo bulgaro Krum aveva bevuto, quasi per bergli l’anima. Era più teologo che guerriero,
perciò obbediva in tutto al Patriarca Niceforo ed a San Teodoro lo Studita, che ammirava
(giustamente) come i massimi rappresentanti della serietà cristiana dell’epoca, richiamandoli
dall’esilio e istaurando la pace fra i cattolici- ortodossi, iconodouli. Riempì di regali e donazioni le
chiese ed i monasteri al punto che fu perfino accusato di sperpero. Fu delicato anche con i massimi
dirigenti occidentali, leggi il Papa e l’Imperatore Carlomagno, il quale fu acclamato come
Imperatore dell’Occidente da parte della delegazione bizantina inviata ad Aquisgrana dal Basileo
Rangabé. Fu devotissimo, iconodoulo, ma debole come stratega; si sa che in mezzo alla guerra
contro i bulgari invasori, nel 812, tradito dal suo generale più importante, il futuro Basileo
iconoclasta, Leone V, l’Armeno, volle abdicare, rifugiandosi con l’imperatrice ed i 5 figli in una
chiesa. Fu amnistiato dal traditore diventato imperatore, ma la sua famiglia fu sfilacciata: le 2 figlie
mandate in un convento, i 3 figli castrati e lui, per dolore, finito in un monastero come “monaco
Athanasio”. Ebbene, uno dei suoi figli fu questo Paolo, che, pieno di esperienze amare si ritirò in
Athos, per salvarsi almeno l’anima. Uno degli altri figli ne è stato Ignazio, il futuro Patriarca di
Costantinopoli, che il destino sfavorevole della Storia lo ha messo come avversario dell’altro
sfortunato, il Patriarca Fozio. L’ingiustizia fatta al primo e la colta furbizia dell’altro stanno alla
base del grande scisma fra le due parti della Chiesa, conclusasi nel 1054. Come vediamo, anche da
evirati, si puo essere spinti avanti per fare la Storia e perfino cambiarla. Ma non anticipiamo. Anche
perché, se tutta l’organizzazione, in Athos, comincia nel 900, con Sant’Athanasio, il monaco
Paolo poteva, al massimo, ritirarsi in una grotta, ma non realizzarvi un monastero. Perciò, non lui,
ma l’altro Paolo, lo Xiropotaminos è più plausibile che abbia dato il proprio nome in eredità alla
sua fondazione. E, non ci sarebbe riuscito, se non gli fosse venuto in aiuto lo Tzar bulgaro del
tempo, la cui moglie, Elise, era la figlia dell’imperatore bizantino, Romano Lekapenos. Intanto, il
re bulgaro offrì al nuovo monastero i 6 pezzi della divina Croce che possedeva, e, che, collocati in
una splendida Croce d’argento e cristallo forma la più preziosa delle reliquie di Aghiou Pavlou.
Il finale di Paolo fu bello, la barca con la sua cassa finì forse a Costantinopoli, dove le sue reliquie
aspettarono l’invasione turca per smarrirsi fino alla gloriosa risurrezione.
L’altro Paolo, invece, il figlio del Basileo, dovette affrontare, non solo l’antipatia del
successore del padre sul trono, Leone V, l’Armeno,(813-820), ma anche la sua persecuzione
iconoclasta. Leone, come gli altri imperatori eretici, aveva il suo asso nella manica nella connivenza
dei vari Alti Prelati che ne condividevano l’eresia, non tanto per devozione religiosa, quanto per
calcoli ben meschini. Nel caso suo, godeva della simpatia, si fa per dire, di un Giovanni il
Grammatico, futuro patriarca iconoclasta, o, peggio, di Antonio, vescovo di Sillaeum, un vecchio
249

vezzoso, seducente e depravato, che passava quasi tutto il suo tempo a raccontare storie lubriche al
Sinodo.
Passano secoli fin quando Aghiou Pavlou appaia per la prima volta in un documento –bolla
del 1259, dell’imperatore Michele VIII, il Paleologo, emanato da Lui, mentre stava ancora a Nicea
e pensava di come ingraziarsi Dio, per riconquistare Costantinopoli. Michele VIII, come sappiamo,
è stato sempre accusato di essere un usurpatore, (ha deposto i Lascaridi); di aver tradito
l’Ortodossia, realizzando l’unione con Roma al concilio di Lyone, nel 1274; e di aver perseguitato i
monaci. Chi dice questo, fa finta di dimenticare che con i Lascaridi i bizantini non avrebbero mai
riavuto la Capitale, (ciò che, veramente, sarebbe stata una buona cosa, visto che non sono stati
capaci a sottrarla all’invasione turca). Infatti, il Basileo, Teodoro Lascaris, prima di morire, aveva
collocato, come reggente, vicino al suo piccolo Giovanni, un uomo corrotto ed incapace, il
Muzalon. Costui regnò nove giorni, perché il nono giorno, durante il requiem per il defunto
imperatore, le guardie lo assalirono e lo tagliarono, letteralmente, a pezzettini. Michele, che forse
non è stato estraneo a questo nobile gesto, salì al posto dello spezzettato, mise il piccolo successore
accanto a lui sul Trono e riconquistò la Capitale, il 25 luglio, 1261. ( Veramente, fu un generale
mediocre, Alessio Strategopoulos, che ricuperò la Santa Città, con l’appoggio dei genovesi,
accerrimi nemici e concorrenti commerciali dei veneziani. I quali, a Costantinopoli, furono sostituiti
dai genovesi, che ebbero in dote Galata e Pera, quartieri rimasti un po’ occidentali fin’oggi).
Quando fu incoronato di nuovo a Costantinopoli, Michele VIII si è dimenticato, si fa per
dire, del piccolo successore lascaride, Giovanni, che aveva compiuto i suoi 10 anni. Anzi, lo fece
rinchiudere in una fortezza, dove il poveretto mori dopo… 60 anni.
Il figlio di Michele, Andronico II, il Paleologo, come ricordiamo, rompette con Roma,
approfittando dei Vespri siciliani, senza i quali, il Bisanzio rischiava ancora una volta essere
occupato dagli imprudenti occidentali. Veramente, i Vespri frenarono costoro, come più tardi, il
terribile Timur –Lenk, (Tamerlano) che frenò l’impeto di Baiazid. Se stiamo bene a pensare, Dio ha
mandato almeno due volte la provvidenza per la salvezza dell’Impero cristiano. Timur,
massacrando i nemici della Cristianità, fece alzare a Bagdad, davanti agli occhi sbalorditi del califo,
un obelisco di 90.000 teste tagliate. Che segno straordinario, che i cristiani non hanno compreso!
Loro, infatti, si facevano guerra avvicenda, guerre di 100 anni, guerre di 30, guerre e scismi,
collezionando Papi con lo scisma d’Occidente! Quante occasioni perse, per riportare nell’mondo
cristiano popoli e terre assettate di verità!

Nel 1307, il convento di Aghiou Pavlou fu distrutto dai Crociati e ridotto a cella dipendente
da Xiropotamou. Così fu ceduto ai serbi, Gherasimo Radonia e Antonio Pagases.
250

Appena nel 1370 riottenne il grado di monastero autonomo, non più dipendente da Xiropotamou e
fu abitato da monaci serbi e greci fino al 1710, quando i serbi sparirono o furono fatti sparire. In
questo contesto è normale che i benefattori siano i Despoti della Serbia e i Domni dei Paesi romeni.
Il katholikon, fu costruito nel 1447, dal despota serbo, il famigerato Gheorghi Brankovic (1444-
1456), con l’aiuto di sua figlia, Kyra -Maro, o Mara, sposa del sultano Murat II (1421-51); la
quale fra i regali e privilegi emanati per il monastero infilò anche un tesoro originale: i doni che i
Magi avevano fatto a Gesù Bambino. Volle venire di persona ad offrirle al monastero, ma
avvicinandosene a mezzo kilometro, laddove oggi esiste un’iconostasi, sentì una voce che le disse:
“fermati, qui è il paese della Regina dei Cieli”.
La Maro aveva dimenticato anch’essa come altre sovrane che era comunque donna. Forse per
amore di lei e per gratitudine nei riguardi del sultano che l’aveva sposata, che suo padre, il
Brankovic, si umiliò a fare l’informatore del turco e il traditore degli eserciti cristiani, rivelandosi
peggiore dei rinnegati. Ed anche per conservarsi qualcosa come un povero trono. La figlia pensava
di salvare Padre e Paese con i doni dei magi, offerti all’Athos! Il cielo, però, usa un’altra
aritmetica. La Serbia, invasa e distrutta dai turchi, nel 1499 scompare, ridotta a semplice pascialìk.
Riappare alla fine dell’800, e nel 2000, per altri motivi, rischia di scomparire di nuovo.
Come per regola, in Athos, scomparsi i balcanici, arriva il turno dei Sovrani romeni. Vlad il
Monaco, (quello che la sultana Mara-Maro- lo chiamò “figlio”, da vedova di Murat II), nel 1499, ed
altri Domni offrono, per secoli, ad Aghiou Pavlou un po’ di tutto: chiese, terre, schiavi tzigani, carri
di soldi e di alimenti, ecc….
Nel 1500 è la volta di Stefano il Grande a svuotare la Moldavia, a favore del nostro monastero. Nel
1501, precisamente, il 28 gennaio, i nobili Craiovesti, fra i quali appare anche Neagoe Basarab
come “postelnic” di 19-20 anni, offrono 2000 aspri all’anno, in onore di San Paolo. Avranno
presentito il pericolo in cui sarebbero caduti, tutti quanti, pochi anni dopo!
Neagoe, diventato Domn, fa costruire la torre principale del monastero, continuato da Radu
Paisio, dal nobile, Teodor Cluceru e dal Pàtrascu il Buono, (verso il quale nutro affetto, non fosse
per altro se non per la chiesa di Santa Parasceve costruita e adornata da lui nella mia città natale, di
Rìmnicu-Vàlcea). Se Stefan diede inizio alla costruzione dell’aquedotto, Làpusneanu, Vasile
Lupu, Bràncoveanu fanno costruire, abbellire e completare la chiesetta adiacente, il paracliso.
Forse nel 1654, il magnifico Matei Basarab offre un monastero, il ricco Jitianu, sempre della mia
provincia, l’Oltenia.
Nel 1816-20 il monaco Antimo Komneno di Silibria radoppia gli edifici del monastero.
Questo ingrandimento non sarebbe stato possibile senza l’aiuto degli Tzar, Alessandro I (1801-
1825) e Nicola I (1825-1855). Appena rifatto, nel 1839, il monastero subì un incendio e
251

l’inondazione. Non saprei raccontarne come. Il nuovo katholikon fu terminato nel 1844-45, e
dedicato alla Presentazione, (Festa del 2 febbraio). Molto ampio, ma senza pittura. Affreschi della
scuola cretese sono conservati nella cappella di San Giorgio, quella costruita dai romeni, e databili
dalla metà del XVI secolo. Altrimenti, essendo così nuovo, non ha nulla di speciale, salve le sacre
relique: ( S.ssima Croce, S. Haralambio, S.Panteleone, S.Giorgio, S.Basilio, S.Gregorio il Teologo,
e i doni dei Magi); vedemmo alcune icone vecchie, in un ordine bello, pulito; e sentimmo la
tenerezza dei monaci per tre futuri sacerdoti “ortodossi”, che eravamo noi.
La biblioteca, ben organizzata, si è salvata dagli incendi: 12.500 libri e 494 manoscritti fra i
quali, 4 romeni. Oltre 30 manoscritti di musica psaltica romena, donate da un cantore romeno di
Lacu.
Qui si trovava quel Padre spirituale, al quale il giovane, futuro monaco, Teoctisto il
Dionisiato appellò, per ritrovarsi la pace dell’anima, dopo essersi dichiarato distrattamente
musulmano, per salvarsi dall’esecuzione, durante la guerra del 1944. Il Padre lo consigliò di rifare
la Cresima, anzi glielo impartì lui stesso. Non per nulla, ma per farlo comprendere quanto sia grave
il rinnegamento di Cristo, anche per sbaglio.
Non mi ricordo perché, indirizzandoci verso l’uscita, scrissi nel mio diario di viaggio queste
gravi e strane parole:
“1977. Ad Athos comprendi meglio che altrove come l’Ortodossia non è così raffinata nel
peccato e nell’organizzazione sociale come il Cattolicesimo. La loro perfidia è di un altro genere,
forse più sincera, perché più rozza.”

L’ossario di Aghiou Pavlou è altrettanto pitoresco, anche se non l’ho fotografato come
altrove. Ma in quelli anni non sapevo che qui, una notte della Resurrezione, mentre si cantava per la
decima volta il “Hristos anesti”, al superiore di questo monastero gli è venuto per la mente di
ordinare a un monaco vicino di andare all’ossario e dire anche a quelle ossa: “Cristo è risorto”!
L’umile frate andò vicino all’ossario, con la candela accesa e disse ai teschi ed alle ossa gettate lì a
mo’ di piramide:
“-Fratelli e padri, il Padre superiore mi ha mandato ad annunziarvi con voce di cielo che
Cristo è risorto”!
Miracolo: Tutte le ossa e i teschi dei morti assiepati in quella caverna si alzarono a un metro
di altezza, sono rimaste immobili per qualche minuto e sono ritornate al loro posto 215.

12. DIONISIOU

215
Raccontata da P. S. Anagnostopoulos, in op. cit. pag. 299.
252

I nostri viaggi in Athos sono stati sempre simili a una processione a cerchio, la quale
cominciava e finiva a Dafni, dopo tentativi sempre più coraggiosi di abbracciare quanti più
monasteri. Dalla parte dell’ovest, le ilustrissime fondazioni monastiche stanno schierate come
soldati in prima linea, difese da montagne come torri e da torri come montagne. Non ne abbiamo
saltato alcuna.
Il monastero Dionisìou sorge poco discosto dal mare, appunto, nella parte sud-ovest della
penisola. Le mura altissime poggiano su una roccia alta, circa cento metri sul mare, e da esse
sporgono balconi e loggiati come sospesi nel vuoto. Data la ristrettezza della base, tutti gli edifici,
anche all'interno, sono addossati attorno al cortile quasi inesistente e al katholikòn non molto grande
e dipinto di rosso. La pittura, una meraviglia di immagini ed icone dello stile bizantino mi ha
impressionato più che altrove. È strana, la Dionisiou, come pianta e come costruzione. Ne ho
realizzato una foto da lontano, che tengo come una reliqua.
Dionisiou, la dodicesima fondazione visitata nel ’77. Non dimentico la delicatezza e l’amore
dei monaci per i tre giovani e stanchi viandanti: subito, confetura, luhumi e caffé; per cui rimango
due volte impressionato; una volta per l’ospitalità, un'altra per l’identità di abitudini con quelle di
casa nostra, nell’indimenticabile Romania, perduta. Squisito servizio: so, però, che non saremmo
stati così serviti, se avessero mai saputo della nostra vera identità: cattolici, convertiti, traditori,
ecc….. Ehi, sono passati molti anni di esperienza per arrivare alla saggia conclusione di non dare
peso all’amore non vero ed alla cortesia di parte. Admirandum, sed non imitandum.
Per pura fretta, non abbiamo potuto sapere che lì si trovava un Padre aromeno, con fama di santità,
che avrebbe potuto darci delle grandi gioie: Teoctisto il Dionisiato216. Il quale, per molto tempo, ha
fatto da cicerone per gli ospiti.
D’altronde, il monastero si vanta di aver ospitato, nella sua lunga storia, ben 12 santi, fra gerarchi,
martiri e asceti, veri atleti nella lotta contro il peccato, nostalgici della Luce divina. Ricordiamo
Leonzio, il Merovlita, verso il 1600, chiamato così, perché dalle sue reliquie sgorgava olio
profumato. Era di Argos, nel Peloponeso. Bramando la vita monastica, raggiunse l’Athos ed entrò a
Dionisiou, ove visse per 60 anni. Per la dura ascesi da lui praticata, ricevette da Dio il dono della
profezia. Dio lo ha salvato dalla troppa fama, perché, come lo sappiamo, i profeti finiscono sempre
in tragedia.
Nei tempi nostri viveva qui il monaco David, il quale, a sentirlo dire, a 5 anni aveva avuto la
prima visione del Cielo, col Trono di Dio e la Corte celeste. A 16 anni, invece, dopo una visione
che si è permesso di raccontare ad altri, è rimasto muto per ben mezz’ora: -segno che non si

216
Storie su di lui nel libro di Damaskinos di Grigoriou, op. cit. pag.9-18.
253

possono rivelare a tutti certi privilegi che Dio riserva a te stesso-. Fra David vinceva i demoni,
sistemando croci, anche improvvisate, in tutti gli angoli della cella ed intorno al letto, ma non in
posti sconvenienti, che doveva segnare personalmente con la Croce, per chiudere ai demoni tutti gli
ingressi. È morto nell’83, dopo 28 anni di vita santa, famoso per la sua preghiera incessante e la sua
innocenza. L’originalità della sua vita, però, consisteva nel fatto che, pur desiderando diventare
monaco, a causa dei genitori, si era sposato, aveva messo al mondo due figli ed appena dopo, a 66
anni, accordandosi con la famiglia- abbandonò il mondo e venne in Athos. Se, per qualunque
motivo, cadeva nella tentazione di tornare a casa, era la stessa famiglia che lo cacciava indietro, per
esempio, con la forca per il fieno. Una vera carezza, si può dire, che lo ha salvato dalla tentazione di
ritornare dai suoi tenerissimi familiari.
Qui viveva anche il monaco Agapio, che, da lavoratore in Francia, ubriacone e donaiolo,
ebbe in visione San Demetrio, che poi lo salvò, quando cadde dal settimo piano senza un grafio.
Lasciò tutto e a 50 anni si fece monaco in Athos.217

Dionisiou è monastero cenobitico, fra i migliori oggi, (dal 1907), dedicato a san Giovanni Battista.
Chiuso come una fortezza da mura potenti e guardato a vista da un’imponente torre merlata del
1520, sembra che possa fermare la tentazione di qualche frate di uscire fuori dalle mura. La
riconoscemmo: era la torre presente in tutti i nostri manuali di Storia, come segno della munificenza
dei sovrani romeni, anche qui.

Chi ha fondato questo monastero, verso il 1366-76, sulla roccia a picco sul mare, ha pensato di farla
sembrare un fiore sbocciato da questa rupe, che sembra radice naturale di questo gioiello. Porta il
nome del suo fondatore, il santo monaco Dionisio de Koryssos de Kastoria, che, aiutato dai suoi
discepoli, ma soprattutto dall’imperatore, Alexis III Comneno, ideò e iniziò la costruzione di
questo originale complesso monastico.
Il vero nome ne è “Timios Prodromos” e Dionisio fu una delle figure più rappresentative fra i
monaci della Grecia del 1300. Anche se le due versioni della sua biografia “ti lasciano un po’
perplesso”, esse ci raccontano che il nostro, già nella seconda infanzia provò nostalgia per la vita
monastica, ma solo a 19 anni riuscì ad abandonare la famiglia e ritirarsi a Filotheou, in Athos. Lì,
per grazia, il superiore era il fratello, Teodosio, futuro metropolita di Trebisonda. Quando, nel 1346,
il metropolita di Ierissos lo ordinò sacerdote, aveva già acquisito fama di santità; epperciò, da
questo punto in poi la storia si ripete come per molti santi dello stesso stampo: da un lato fugge la
fama, la gente ed il rumore, da un altro è disposto a costruire fondazioni, monasteri, case o azili per

217
La sua storia citata in S. Anagnostopoulos, op. cit. pag.193ss.
254

i devoti accorsi intorno a lui in gran numero. Se per tre anni visse isolato sulla costa occidentale,
inospitale, dell’Athos, quando, dal Prothos del Santo Monte fu nominato “egumeno delle celle” si
sentì obbligato di creare per i devoti un vero monastero, con tutto il correddo di preoccupazioni e di
angoscie legate al suo sostentamento. Ma perché doveva complicarsi la vita in tal maniera? Ecco
perché: Dionisio ha avuto una visione: gli apparve una fiamma immobile, alta, presso la riva. Così
comprese che doveva costruire in quel posto un monastero. In cerca di aiuti, finì a Trebisonda,
presso il fratello metropolita, dove anche l'imperatore, Alexis III Comneno (1349-1390) con
l'imperatrice Teodora, furono felici di aiutarlo. Finì la costruzione verso il 1375. Mentre però si
trovava, per la seconda volta, in quell’ultima isola felice di ciò che fu l’Impero Romano d’Oriente,
i turchi, nella loro solita incursione sulle coste greche, saccheggiarono il monastero di Dionisio e
facendo prigionieri tutti i monaci. Dionigi li cercò per tutta la Bitinia e li trovò- e questo si può ben
chiamare miracolo-. Pagò un riscatto per la loro liberazione e li ricondusse nuovamente nel suo
monastero. Questo doveva succedere verso il 1377. Nel 1382, lo troviamo a Costantinopoli, per
trattare con il Basileo, Giovanni V la convalida della proprietà del monastero. E poi, come quasi
sempre succede nella sorte dell’Athos, colui che sarebbe diventato San Dionisio, santificato sulle
coste impervie del deserto athonita, morì fuori dell’Athos. A Trebisonda, appunto, dopo una grave
malattia. Suo fratello lo fece seppellire con grandi onori e fasti. Era il 25 febbraio, 1388. Dionisio,
come fondatore, è festeggiato il 25 di giugno, insieme con l’amico, l’igoumeno Dometio.
Trebisonda era ancora la capitale del piccolo impero sul Mar Nero, sommo centro
commerciale e culturale, frutto della quarta crociata. Qui, il principe Alessio Comneno si fa
incoronare imperatore, nel 1204; i suoi discendenti regnano sino al 1461, quali ombre gloriose di
una Costantinopoli ultragloriosa. Nel tesoro di Dionisiou si conserva la carta di fondazione, del
1366, con una grande miniatura che rappresenta l'imperatore Giovanni V il Paleologo(1341-91, con
pause) con la moglie, nell'atto di tenere un rotolo sigillato, cioè la crisobolla con i privilegi concessi
al monastero; mentre sopra di loro è rappresentato San Giovanni Battista. È chiaro che già da allora
esisteva la parentela fra i Comneni di Trebisonda ed i Paleologi di Costantinopoli, con la speranza
di sostenersi avvicenda contro il musulmano. Come sappiamo, non ci riuscirono. Il documento è
autentificato dal metropolita della Muntenia romena, Geremia: è la prima mano romena a
Dionisiou.
La seconda mano romena non ritardò: il Domn valacco, Mircea il Vecchio, (1386-1418),
riempì di doni, regali e privilegi i carri dei monaci di Dionisiou.
I benefattori successivi ne furono i Domni, Radu il Grande (1495-1508) e Neagoe Basarab; e di
Moldavia, Petru Rares (1527-1546); ai primi si deve la torre che domina il paesaggio (1520),
l’acquedotto e le costruzioni dalla parte della montagna.
255

Colui che più di tutti lasciò tracce del suo mecenatismo a Dionisiou fu Neagoe Basarab. Si
occupò di questo convento, per amor di Nifon II, il metropolita cacciato da Bucarest, che lui fece,
in seguito, canonizzare. Ma, come è arrivato Nifon in Romania, e come è finito in Athos? È troppo
importante il personaggio e la sua storia per non occuparcene.
Veramente, questo secondo santo Nifon fa concorrenza al primo Nifon, santo in Athos,
addormentatosi in pace nel 1330 e festeggiato il 14 di giugno. Ma, sembra che, almeno dal lato
terreno, il primo fu più fortunato.

NIFON IL SANTO TRADITO

Nato nel Peloponeso, verso il 1435, da madre greca e padre serbo, (o forse aromeno) e
battezzato Nicola, sapeva di cultura greca ma anche slava, da suo padre 218, ex- precettore dei figli
del penultimo despota serbo e l’informatore dei turchi, Gheorghe Brankovici (+1456). Siccome
tutto torna, il nipote di costui, Maxim, fu consacrato in Terra Romena come Vescovo di Rìmnic (la
mia città natale), e succedette a Nifon II, come Metropolita del Paese. Col suo comportamento
saggio, Maxim lavò la vergogna di suo nonno, a tal punto che la Chiesa Ortodossa lo canonizzò.
Nicola continuò i suoi studi greci e slavi presso vari monaci colti, come Zaccaria, in Arta,
dove fu anche ordinato diacono. Fuggì poi, davanti all’invasione turca, in Albania, presso la corte
dell’eroe Skanderbeg, che lo fece ordinare sacerdote. All’arrivo dei turchi, fuggì a Ochrìda, per
perdersi di vista; ma gli sbiri del Sultano lo scovarono e lo deportarono insieme con tutti i religiosi a
Costantinopoli. Strana deportazione nella Capitale, che mi ricorda la mia, secoli più tardi, a ….
Roma. Io ebbi anche il coraggio di lamentarmene al Cardinal Vicario, Ugo Poletti, (:“mi sento
isolato, Eminenza!”) e lui mi rispose ironicamente: “Isolato a Roma? Bravo, ragazzo, bravo!”
Senza essere disturbato dai turchi, il deportato abbandonò il luogo della deportazione e andò
al Monte Athos, “sentendo la vocazione monastica”. Cominciò con Kutlumus, poi frequentò alcune
spelonche della Montagna, presso alcuni monaci confessori; passò per la Megali Lavra, poi si
fermò a Dionisiou, dove rimase edificato dalla regola semplice e severa dei monaci. Edificato così
profondamente da… spostarsi a Vatoped. Divenne famoso, sia per la devozione, la cultura e la
calligrafia che per la santa furbizia, tanto utile in quei tempi, per sconfiggere la furbizia musulmana.
Così, nel 1483, fu scelto metropolita di Salonicco. Fu cacciato, poi fatto tornare… non si capisce
bene se per la cattiveria turca o quella dei fratelli, greci. Nel 1486 fu eletto patriarca di
Costantinopoli e regnò due volte, (1486-1489; 1497-1498).

218
Però, Ion Ionescu lo fa morire quando Nicola aveva 6 anni. In “Santi romeni”,ed. Patriarchiei, Bucarest, 1987,
pag.338, in rom.
256

Mentre in Terra Romena regnava il Vlad il Monaco- che io, come già detto, considero uno
dei miei amici ideali attraverso i secoli- suo figlio, Radu, passava le sue vacanze a Costantinopoli.
Lì, ha conosciuto e stimato, (ricambiato), il famoso patriarca. Quando ritornò, da Domn, per pagare
il tributo a Bayazid II, Radu non trovò più il suo amico, Prelato. Il Patriarca, cacciato dal Trono, si
era rifugiato nel convento di San Giovanni Battista su un isola del Mar Nero, di fronte alla città
bulgara, Sozopoli. I rifugiati, sotto i turchi, con un po’ di cautela, erano più liberi degli uomini
pieni di diritti dei nostri tempi, prelati inclusi. L’ex patriarca, per esempio, ebbe la libertà-e le
finanze- da far costruire una chiesa dedicata al Santo Profeta. Ma, dopo il secondo pontificato, fine
estate, 1498, fu esiliato e rinchiuso dai turchi ad Adrianopoli, e tenuto sotto stretta sorveglianza. Lo
accusarono di aver falsificato documenti per darsi come parente e succesore del defunto patriarca
Simeone, per poi, accappararsi i suoi favolosi averi. ( La verità era tutt’altra. Nifon, come
successore canonico di Simeone, teneva che gli averi del defunto rimanessero alla Chiesa, secondo i
canoni. Come si faceva però, a infrangere l’ingordigia dei turchi? Gli otomani, per fama, sono più
onesti dei greci, in materia di parola data e mantenuta; ma di fronte ai beni altrui, non vi resistono e
non possono non impossessarsene ad ogni costo. Perciò si sbarazzarono di Nifon per la seconda
volta. E lo mandarono a sopravivere presso la chiesa di Santo Stefano, rimpiazzandolo con un
prelato più accondiscendente, Ioachimos).
Radu, come del resto anche gli altri cristiani, non credettero una parola della calunnia turca,
anche se, nei nostri giorni, qualche malizioso ne insinua dubbi nei dizionari. Concepì, dunque, un
piano grandioso: nel 1499, andando a baciare la mano al Sultano ed a pagare il tributo ed i vari
pescikesci, lo implorò di liberare Nifon e di permettergli di venire in Romania, per puri scopi
religiosi. Era un lusso e un lustro avere in Paese un ex-patriarca, ( rovesciato dal trono, sì, ma dagli
infedeli, ciò che era segno di serietà e di martirio). Ora, Radu lo voleva come Metropolita, per
riformare la Chiesa ed insegnare al popolo la Legge divina. Il Sultano accettò. Radu disse a Nifon:
“Tu devi essere Padre e a me ed al mio popolo, e Pastore, avvocato presso Dio”.
Il povero Nifon, non solo vi credette, ma dimostrò coi fatti di non essere stato un truffatore,
ma vittima di calunnie: la sua vita fu tutta un soffio di santità e di apostolato validissimo. Riformò
la vita dei romeni, insegnò loro la teologia, la pastorale, convocò sinodi, ed eresse due diocesi:
Rìmnicu- Vàlcea219, (quella della mia infanzia, dei miei Vescovi, dei miei ricordi) e Buzàu, quella
dell’amico Gigi…. Dobbiamo dunque a Nifon, le nostre Diocesi, il nostro primo lustro, di tutt’e
due.

219
?
Veramente, la Diocesi di Rìmnic fu la resurrezione della scomparsa Diocesi di Severin, nella stessa regione. Perciò fu
chiamata di “Noul Severin”.
257

Mentre si deliziava nel riformare la vita dei romeni, ( e ne sopportava i primi mormorii barbugliati
da essi, a denti stretti) fu raggiunto da una delegazione da Costantinopoli che gli propose una terza
elezione al patriarcato. (I turchi avevano cacciato dal Trono anche il loro uomo, Ioachimos,
accusato di aver permesso ad alcuni fedeli di costruire una chiesetta sulla costa orientale del
Bosforo. Poi, era loro abitudine riproporre gli stessi uomini da loro maziliti, come prelati, o
governatori, ecc.. con l’idea che lo stesso uomo sarebe stato più fidabile e più ricattabile di un altro,
nuovo.) Ma Nifon, da vittima esperta del tritacarne bizantino-turco, proprio per questo, ne rifiutò
seccamente, “sapendo gli intrighi e conoscendo le trappole intorno al Trono patriarcale, da parte
dei turchi e dei non turchi”. Ignorava, però, l’ingenuo furbo greco, le trappole di cui erano capaci i
figli di Roma, al nord del Danubio.
Il Sinodo scelse Pacomio di Zihna come Patriarca, ma Ioachimos riuscì a convincere i turchi
con una grossa somma di monete gialle di ridargli il Trono. I romeni si vendicarono su
quest’ultimo, a modo loro: quando venne in Moldavia, nel 1505, il Domn mandò gli sbirri a
cacciarlo fuori del confine: non si sa se per lavare l’onore del deposto Patriarca o, meglio, per
essersi stancati delle richieste di denaro, tanto necessario a Sua Beatitudine. Ioachimos morì di
dolore (sic!) a Tàrgoviste, la nuova capitale della Terra romena. Pacomio fu riammesso dai turchi
sul trono patriarcale, e le cose si sarebbero concluse in gloria… ma questa volta fu un santo monaco
dello staff a terminarlo, avvelenandolo, non solo moralmente. Perché lo avrà fatto? Mah! Ne sarà
stata la sua santa fantasia, o, meglio, il lavorìo del Metropolita di Giannina, Teoliptos, che, con una
grossa somma, si assicurò il Patriarcato !?
Noo, Nifon non era più disposto a tornare in mezzo a tanta bolgia. Voleva rimanere fra i
romeni, dove si vedeva utile ed anche in sicurezza. Dove la gente, umile e devota, gli sorbiva, come
il miele, la saggezza dalle sue labbra. Ed il Domn lo venerava come se fosse stato un patriarca
biblico.
Finché un giorno….. arrivò al palazzo un nobile fuggiasco dalla Moldavia di Stefan, chiamato
Bogdan. Era accusato dal suo Domn di alto tradimento. Il cosiddetto traditore piacque, però, e non
si sa a chi, per primo: al Domn Radu, per tenerselo come alleato contro lo Stefan il Grande, o alla
sorella del Domn, la vedova Donna Caplea, la quale fu programmata a diventar moglie dell’illustre
esule, (o si programmò da sola, non si sa bene!). Fatto sta che Radu ha organizzato per la sorella
nozze festose, quasi a dispetto di qualcuno. Sul più bello, però, il Metropolita, Sua Eminenza, Nifon
ricevette una lettera- denuncia- contro il nobile in causa, da parte della… moglie legittima, rimasta
con i figli in Moldavia, abbandonata e disonorata. Il severo Prelato chiamò a sé il nuovo promesso
sposo e lo rimproverò dolcemente, dimenticando che un anima volontariamente colpevole è più
aizzata dalla dolcezza che dalle minacce, diventando ancora più ostinata nel suo peccato.
258

L’impenitente nobile, offeso, corse dal Sovrano e si lamentò di essere perseguitato dal Metropolita.
Ed allora, il grande devoto, religioso e mistico Radu, dimentico di ogni figliolanza spirituale e di
ogni legame di amicizia che vantava col povero Nifon, non solamente mise le ragioni di Stato e la
pura ambizione personale aldisopra di ogni regola divina e umana, ma si offese pure di tanta
intransigenza. Invano, Nifon gli mostrò la lettera della moglie abbandonata, invano gli aprì le
Scritture, invano gli dimostrò che il gesto del moldavo era pura bigamia. Il Domn lo accusò
pubblicamente che “vuole disprezzare le sante abitudini e le antiche tradizioni del paese”,(sic!) e,
che, se non gli piaceva, si tirasse giù la tiara e andasse via dalla superba Terra Romena.
Certo, Nifon non si poteva immaginare che l’ostinatezza del Domn cristiano superasse
quella dei Sultani! Ma neppure Radu non si aspettava ad una replica più degna di quella dei soliti
metropoliti, cappellani dei Sovrani. Infatti, il Presule non si piegò neppure alla maniera romana, che
vuol dire sottomettersi senza onore e poi vendicarsi in incognito. Nifon prese le parole del Domn, à
la lettre: si addobbò con i paramenti di festa, radunnò il Santo Sinodo ed il popolo nella Cattedrale,
e dopo aver tenuto loro l’ultima predica, si giustificò, raccontandovi tutto l’accaduto. Non poteva
non finire in gloria; maledisse e scomunicò tutti, dall’alto in basso: i due sposi, adulteri, con i loro
padrini e con tutta la suite; il Domn con tutto il suo governo e cortiggiani; e la stessa nazione, se
avesse obbedito al Sovrano. Finì, profetizzando a tutti un futuro terribile, un finale spaventoso ed
una eternità nell’inferno. Terminata la cerimonia, si spogliò di tutte le vesti festose, e si avviò verso
il confine, coperto da un modesto cappotto.
Riconosciamolo: in questo gesto, l’Alto Prelato ha avuto degli illustri emuli nella Storia cristiana;
un secolo più tardi, per altri motivi, non meno profondi, lo fece la Regina Cristina, in Svezia; e
qualche secolo prima, il Papa, San Celestino V, a Roma. Pur se non corredati dalle tempestose
scomuniche. Ma i casi erano diversi e Nifon non aveva il permesso canonico e morale di fare
diversamente.
Radu, al colmo dell’ira, non lo fece uccidere, come, per ben più futili motivi, facevano gli
altri sovrani, massacrando gli oppositori. Prova che non era proprio un mostro. Ordinò però, sotto
minaccia di morte e di esproprio dei beni propri e della famiglia, che nessuno lo salutasse, nessuno
lo rispettasse più come Vescovo, nessuno lo accettasse in casa o gli offrisse un bicchiere d’acqua.
Baraccato dagli sbirri, il povero vecchio, non si sa come, finì in una casuccia ai margini di un
villaggio, dove colui che, da lì a poco, sarebbe diventato Domn, Neagoe Basarab, lo nascose,
dandogli alloggio e vitto all’altezza del suo rango. Neagoe rischiava non solamente il Trono, ma
anche la vita; però, lo fece per pura amicizia, per ammirazione nei riguardi del Primate che
considerava come padre confessore ed anche per timore superstizioso, viste le maledizioni e le
scomuniche proferite dalla sacratissima bocca.
259

Forse per lo stesso timore, Radu si ravvedette e mandò ambasciatori in tutti gli angoli del paese, per
ritrovare Nifon, avere da lui il perdono e reintegrarlo nella sua sacra funzione.
Nifon, -incredibile-, venne al Palazzo senza un minimo timore. E, di fronte alle scuse ed alle
preghiere del Sovrano, proclamate davanti a tutta la Corte, ripeté la scomunica, le maledizioni e le
profezie di sventura. Inutile l’insistenza del Domn nel chiedere perdono e nell’offrirgli regali e atti
di riparazione. Il Metropolita si rifiutò di esaudirlo, perché, dice la cronaca, “Radu non aveva
sciolto il matrimonio impuro della sorella; voleva solo ingannare Nifon, il quale se ne accorse”.
E così, il sogno durò poco. Con tutta la sua esperienza, Nifon era stato imprudente nel fidarsi del
capriccioso Domn romeno. Ma anche nel rinunciare alla terza elezione a Patriarca.
E, perché l’ingiustizia recatagli fosse completa, lo si volle uccidere moralmente. La Corte continuò
ad accusarlo di “interferire nelle belle abitudini e costumi dei romeni”; perciò fu diffidato ad
andarsene. E quali mai sarebbero stati questi bei costumi? Fra i tanti, barbari e primitivi, eccone
quello della facilità con la quale gli uomini della Chiesa approvavano ed approvano ancora i
divorzi, celebrando anche 3 volte matrimoni a persone separate per puro capriccio. Questa è oramai
l’abitudine di tutta la Chiesa Ortodossa, che oggi si troverebbe condannata in blocco dal povero
Nifon, suo ex-Patriarca.
Ecco il motivo per cui, assai presto, scoppiò il litigio fra lui e il Principe. Non perché tentando
davvero di riformare la Chiesa e proibire abitudini estraneee alla Fede ed alla morale, si innasprì col
clero e coi monaci ubriacconi e superficiali. Neppure perché creò le due diocesi, dividendo il Paese,
per controlare meglio la vita religiosa.
Il colmo è che alcuni prelati e perfino storici moderni di questa Chiesa amorale che lui aveva
scomunicato, ( infatti le nozze furono celebrate in chiesa, concelebrate dai colleghi di Nifon a cui
poco importava delle leggi divine), continuano a calunniarlo sullo stesso tono. Una tradizione dello
stesso carattere sostiene che “abbandonò la Terra Romena con le braccia piene di regali e di
denaro, per ricostruire e adornare il monastero di Dionisiou, dove voleva stabilirsi”. Si è perfino
portato con sé il suo sakkos in filo d’oro, che lo addittano come suo, nel museo di Dionisiou.
Io mi sento obbligato di difenderlo: a prescindere dal fatto che aveva tutto il diritto di portarsi dietro
l’uniforme del suo mestiere di Vescovo (e che Vescovo! Patriarca due volte e Metropolita), nessuno
può giurare che quello che mostrano in Athos fosse il suo sakkos. Sarà come il sakkos di Lavra che
dicono di Niceforo Fokas e forse è del 18 secolo? O quello di Iviron, che dicono di Giovanni
Zimiskes, mentre, idem, può essere del 18esimo?
Nifon fuggi in incognito ed arrivò in incognito in Athos: questo è sicuro. Venne prima a
Vatopediou, dove fu riconosciuto e gli sembrò di essere circondato da troppo successo (apostolico)
e di onori, (meritati, lo diciamo noi, ma lui non li voleva!). Fuggì, perciò, attraversando le impervie
260

vallate fino a Dionisiou, dove nessuno lo riconobbe. In verità, la partenza da Vatopediou fu causata
anche dal dolore per la perdita di due discepoli fedelissimi che li vide morire. Il terzo, Macario,
volle andare a Salonicco, per difendere la Fede. Nifon lo benedisse, ma sapeva che lì, il discepolo
avrebbe trovato il martirio. E così fu.
A Dionisiou, dicono, trovò tutte le regole e le bellissime abitudini devote, nella forma in cui le
aveva lasciate. Ma i suoi amici erano saliti già in altri mondi migliori e nessuno lo riconobbe. Fu,
perciò, programmato custode di asini, presso le stalle, come ogni principiante. E ci andò volentieri.
Assai tempo dopo, fu identificato attraverso un miracolo, una vera rivelazione celeste,
probabilmente apparsa al suo Padre spirituale. I monaci corsero subito a baciargli le mani patriarcali
ed a venerarlo come si meritava, mentre lui, comprendendo che non poteva ripetere la fuga come da
Vatopediou, accettò come volontà di Dio di continuare l’apostolato, battezzando turchi ed altri,
predicando e confessando, in mezzo a digiuni e opere devote straordinarie. Terminò la sua corsa
l’11 agosto, 1508, conoscendo da prima -come i grandi santi- il momento della sua fine, e
benedicendo a destra e manca, la moltitudine di discepoli che si calcavano intorno a lui, in Athos ed
altrove.
Un'altra variante della cronaca del suo finale è però meno ottimistica. Nifon avrebbe capito
che i suoi princìpi, davvero evangelici, non erano accettati da nessuna parte. E fece di tutto per non
farsi riconoscere, vivendo nell'umile condizione di semplice monaco, sconosciuto, a Dionisiou, sino
alla fine, l’11 agosto 1508. Solo dopo la sua morte se ne scopri l'identità, attraverso il segno divino,
e, per l'esempio delle sue virtù, fu proclamato santo, (gesto che, diciamo noi, dopo la morte
dell’interessato, fa comodo a tutti.)220 Si raccontò dopo che nella sua cella-abitata negli anni 1980
dall’aromeno Teoctisto- gli era apparso il Signore in persona per benedirlo e confermarlo nella sua
scelta immacolata. In ricordo di questa apparizione, fu dipinta, nei tempi nostri, un’icona di Gesù, in
quello stesso luogo,visitata da molti devoti e considerata miracolosa.
Neagoe, che aveva aiutato Nifon clandestinamente e col rischio, pensava con ardore al suo
Padre spirituale, morto da santo in Athos. Una volta diventato Domn, lo volle ricuperare, almeno da
morto. Inviò a Dionisiou una delegazione di nobili per pregare i monaci di mandare in Terra
Romena le reliquie del Vecchio, già venerato come santo. Lo fece canonizzare solennemente ad
Argesci, il 16 agosto, 1517, dal metropolita Macario e dal novello Patriarca di Costantinopoli,
Teolipto, venuto anche lui per l’inaugurazione della nuova Cattedrale. Fu la prima canonizzazione
in Terra Romena. Neagoe portò le reliquie a Dealu, il Monastero edificato da Radu il Grande, il
Domn che aveva scacciato Nifon e che il santo patriarca aveva scomunicato. Fu celebrata una

220
C’è da dire che l’internet riporta una versione completamente fantasiosa.
261

liturgia di espiazione, dopo di ché “il santo venne in visione a Neagoe, dicendogli che aveva
perdonato” al suo predecessore, Domn e parente stretto.
Alla fine delle feste, Neagoe rimandò le reliquie di Nifon a Dionisiou, in un preziosissimo
sarcofago d’argento dorato, del 1515, fra bizantino e gotico, a forma di chiesa con 5 torri, lavorato
in filigrana d’argento dorato, con frizze di smalto prezioso, con due file di icone: Gesù, Maria
Santissima, San Giovanni il Battista e Santi Evangelisti su un piano, Profeti e Santi da un altro, e
con una storica iscrizione di ricordo e l’anno: 1515. Dalla parte interna del coperchio è dipinto il
magnifico quadro che mostra il Domn, Neagoe, mentre offre il dono della cassa al Santo amato,
(scena che mi fa fatto piangere di emozione e di nostalgia). È il più bello di tutto l’Athos e uno dei
più preziosi ed artistici gioielli del mondo. (In realtà, esso è il bozzetto, il modello della splendida
chiesa episcopale di Argesci, con cinque torri, in costruzione in quell’anno, la più bella della
Romania attuale ed una delle più raffinate chiese bizantine del mondo. La data-1515- è la prova che
Neagoe aveva in mente dall’inizio di far venire le reliquie di Nifon e di offrire per esse quella
cassa).
I monaci ce l’hanno fatta vedere con gioia e l’hanno aperta con immensa devozione, per noi.
I loro colleghi del’500, impressionati, anch’essi, del gesto del Domn e dei sacchi di denaro in oro
inviati, ritornarono il capo e la mano destra di San Nifon, con benedizioni e ringraziamenti. Il
Domn, impressionato a sua volta, fece costruire sulla tomba di Nifon, in Athos, tutta una chiesa, più
le altre costruzioni che portano il suo nome. Mandò regolarmente regali e denaro a non finire, fino
alla fine dei suoi giorni. Portava con se le reliquie di Nifon in tutti i suoi viaggi, per devozione e per
riparazione. Poi le donò alla cattedrale della capitale, Tàrgoviste, (diventata già la terza, dopo
Campolongo-Muscel ed Argesci; ma i sovrani stavano ormai anche a Bucarest). Nel 1949, sotto il
comunismo, furono portate nella cattedrale di Craiova, in Oltenia.

Con le torri della cassa di Neagoe negli occhi, abbiamo contemplato, con più emozione ancora, la
grande torre della corte centrale, del 1520, gli edifici e la chiesa sulla tomba del santo, tutte edificate
dallo stesso Domn. Tutte grandiose, splendide, di materiale pregiato, segno della grande prodigalità
del sovrano che aveva fatto di Argesci il gioiello della Chiesa Ortodossa. La torre principale è di 25
mettri, a 4 piani. Uno, dedicato alla biblioteca. Un altro, pronto per la difesa contro i pirati. Visto lo
stile identico a quello di Argesci e di Dealu, si può dire che gli stessi costruttori hanno realizato
tutte queste meraviglie. E forse anche la chiesa principale. L’acquedotto, pure.

Le TESTE DI SAN GIOVANNI


262

In cambio della testa e della mano di San Nifon, Neagoe Basarab donò a Dionisiou un altro
feretro prezioso, lavorato minuziosamente e adornato di pietre preziose, con la testa e la mano di
San Giovanni Battista. Ma i turchi, nelle loro scorrerie nell’Egeo, a fine ‘700, informati da chi sa
quale bocca perversa, sul gesto del Domn romeno, invasero il monastero, si impossessarono della
mano e la portarono in omaggio al Sultano. (Non dimentichiamo che il Corano parla bene di San
Giovanni e questa fu la sua fortuna in mezzo alla bolgia musulmana!) Il Padisciàch la collocò nel
suo palazzo, (oggi, il museo Top-Kapì), dove si ritrova ancora, fra le ricchissime curiosità offerte ai
turisti. (Pochi giorni dopo la visita all’Athos, abbiamo venerato la mano del Battista, trafugata dal
Sultano, a Costantinopoli).
I monaci non seppero rassegnarsi e trovarono un'altra mano, reliquia anch’essa, che non
seppero dire se era di San Giovanni Crisostomo o del Battista. Il reliquario che la contiene è
prezioso, ma più modesto, essendo regalo di un certo signor Anghelakis Rodosianos, del 1810. La
testa, però? Dov’è la testa del Profeta? I turchi non la trovarono più a Dionisiou, perché a fine ‘700,
proprio durante le battaglie fra i turchi ed i russi, i monaci incauti, invece di cautelarsi per la guerra,
si preoccuparono a scongiurare le cavallette; epperciò, inviarono l’insigne reliquia del capo del
Profeta a un metocco di Dionisiou, trovatosi nell’isola di Sant’Eustratio, nell’Egeo. Non vi arrivò
mai, perché fu, disgraziatamente-o providenzialmente- trafugata dai pirati o dalla marina turca- in
quell’epoca non ce n’era differenza-. Non sappiamo come fu ricuperata dal Sultano stesso e portata
nel suo palazzo di Istambul. In seguito, essa fu donata, forse da Sua Maestà stessa, alla grande
moschea di Damasco, nella quale Giovanni Paolo II andò a venerare il Santo. Il Papa, senza nessun
dubbio, non sapeva che la reliquia tanto bramata, per la quale ha compiuto il precedente unico di
pregare, da Papa, in una moschea, ebbene, era dono di un sovrano romeno, destinato a tutto un altro
luogo. Ma non questo è il punto. Importante è che le due reliquie del più grande dei Profeti sono
arrivate in luoghi internazionali, e non in una isola nascosta; venerate -o derise!- da milioni di
persone, un Papa in testa-ed anche da sultani e dervisci, re e maghi-, tutti in riga, a Istambul o a
Damasco… Ma neppure questo è il punto. Una testa di San Giovanni si trova a Roma, piazzata in
un ostensorio assai indisscreto. In realtà, sembra che si siano conservate più mani e teste del Grande
Profeta ed anche di qualche altro martire.
- Ma è naturale, spiega l’amico Gigi, con assai sottolineata competenza: in un posto
veneriamo la testa del grande Profeta, quando era bambino, mentre in un altro veneriamo la sua
testa matura.
Beh, neppure questo sarebbe il punto. Puòdarsi che la testa provenuta dalla Terra Romena
fosse l’autentica. E… se non lo fosse? Per me sarebbe ugualmente consolante se la testa, tanto
venerata dal Papa, a Damasco, (per cui sfidò tutte le regole classiche, entrando in un tempio dei
263

grandi massacratori dei cristiani), invece che del mio Patrono-Profeta 221, fosse la reliquia di uno
degli antenati di mio nonno, l’attore drammatico Popian, che si chiamava Giovanni ed era sepolto
in un cimitero vicino a Bucarest, dove i monaci frugavano per trovare reliquie bibliche……
No, non ce ne scandalizziamo per così poco: alla fine è la devozione che conta. I Santi fanno
miracoli a prescindere dall’autenticità dei loro resti. Dio, poi, compie miracoli, a prescindere da tutti
e da tutto. O no?

PATRIARCHI IN PENA, ROMENI DEVOTI E MAGNIFICHE ICONOSTASI

Non ci scandalizziamo neppure per la sorte scostante che ebbero troppi Patriarchi in visita in
Terra Romena. Erano accolti da Re, ( Ioachimos ne fece eccezione), erano acclamati lungo le strade
e coperti di tesori e di onori… ma quando volevano ritornare a casa, al sud del Danubio, ciascuno
s’imbatteva in qualche disgrazia. A parte Nifon e Pacomio, vediamo il successore di Teoliptos,
Ieremia, ex-metropolita di Sofia. Tutto contento della sua ultima visita a Bucarest, prolifica in
regali, sacchi d’oro e di ogni ben di Dio….. a Vratza, al ritorno, un incendio gli divorò tutti i beni,
tutto il denaro, perfino il prezioso sakkos e la salute. Morì di dolore; o per le fiamme, (nel 1545), la
cronaca non lo dice.
Ioasaf II, nel 1564, accompagnava i due generi di Madame Chiajna, da Costantinopoli a Bucarest,
allé-retour. Non l’avesse mai fatto: la sua avventura è finita nel sangue. Teolipto II, (1585) proprio
222
a Bucarest ricevette la notizia da un ceausci che era stato mazilito in assenza. Inghiottì amaro,
agitò la testa, spalancò le mascelle…..

Ritorniamo però a Dionisiou:


Si disse che Neagoe costruì la chiesetta in onore di San Nifon, che sarebbe quella del
cimitero. Ma essa è tutta nuova, del’700 ed anche dell’800, proteggendo la tomba del Santo, ed
anche l’ossario, pieno di teschi e resti non del tutto decomposti.
La vera chiesa di Neagoe è il katholikon, nella cui cripta si conserva la preziosa urna con il corpo di
San Nifone. Questo vuol dire che da San Dionisio è rimasta ben poca cosa.
Nel 1534-35, scoppiò l’incendio con majuscola e ridusse tutto o quasi… in ceneri. Beh,
notizie come questa servivano per maggiori movimenti. I monaci si rivolsero ancora una volta ai
Domni romeni. I quali si appressarono a ricostruire il convento. Iniziò Petru Rares, che si sentiva
responsabile, come cognato di Neagoe e parente dei Reali serbi, a continuare la loro prodigalità nei
riguardi dei Luoghi santi. Egli ricostruì la chiesa grande, (ammiriamo lì i volti di Rares e della
221
Mi chiamo anche Ioan-Giovanni.
222
Messo, usciere, inviato, bidello. (turc.)
264

Doamna –Elena- e dei figli , sul muro di destra, accanto al successore, Alexandru Làpusneanu,
alla vedova di costui, Ruxandra e al Domn che allora regnava in Terra Romena-Valacchia, Petru
Schiopul-lo Zoppo (1559-1567), il quale dava al monastero 6000 aspri ogni anno. Il vescovo
Macario di Roman ricostruì la chiesa dei Santi Medici. Làpusneanu fece molto di più. Dopo aver
perso il trono, a causa dell’aventuriero Despot, si sentì obbligato a complotare presso l’Alta Porta
per riaverlo. Doveva guadagnarsi, però, l’aiuto di Dio, ma soprattutto la propiziazione di San
Giovanni Battista. Perciò, fece costruire l’iconostasis e diede molto denaro a Dionisiou. In
parallelo, come padre amoroso, anche se aveva fatto uccidere molti figli di molti nemici, per la
guarigione di suo figlio, Constantin, ha donato anche una preziosa Icona del Battista, che abbiamo
ammirato con devozione. Nel 1564 il suo sogno si è avverrato: Làpusneanu ha vinto il suo
concorrente, Stefan Tomsa, e ha riguadagnato il Trono. Tomsa si rifugiò presso il suo fedele amico,
il cristianissimo re Sigismondo della Polonia. Costui, per compiacere ai turchi, lo fece decapitare. È
anche vero che gli organizzò dei bei funerali nella chiesa ortodossa di Leopoli, costruita coi soldi di
Làpusneanu, il rivale di Tomsa. Ora, Tomsa, da morto, penso che ironizzi sul suo nemico, facendo a
gara con altri morti illustri, altrettanto nemici, sepolti nello stesso sacrario. Làpusneanu, intanto, si
era messo a riempire i merletti delle torri delle città di teste mozzate, fino a quando fu consacrato a
monaco, Pacomio, sul letto di morte e poi mandato alle dogane del firmamento, proprio da chi
considerava più fedele. La storia ce l’abbiamo già raccontata.
Donna Ruxandra, invece, dopo aver salvato, forse personalmente, il Paese dal proprio
marito, con la benedizione del metropolita, salvò i monaci del Dionisiou dagli usurai ebrei, ai quali,
da incauti, i monaci si erano rivolti. Lo avevano fatto per salvare i beni del convento dai turchi
oppressori, senza pensare che sarebbero cascati in mani ben più ingorde. Tonellate d’oro si
versarono dai Paesi romeni sull’Athos, ora per i turchi, ora per gli ebrei, ora per i greci, e gli
sgoccioli per i monasteri. Della prodigalità di Ruxandra rimangono oggi i magnifici affreschi
dell’Apocalisse e quelle dell’ ospizio e del refettorio, più le meravigliose pitture, oltre la grande
Icona della Festa, offerta dalla sfortunata Doamnà ancora in buona compagnia del marito,”per suo
figlio Constantin, e per l’anima sua”. A causa della prodigalità dei sovrani, i monaci conclusero con
la famiglia di Làpusneanu una specie di contratto perenne di preghiera e di venerazione. Mah! Non
mi direte che questo gesto è il dito di Dio, per salvare simili anime da tremende pene?
Se gli affreschi della chiesa e del refettorio (1547), dovuti a Zorzi il Cretese, si sono
conservati, l’iconostasi di Làpusneanu, pare si sia persa. L’attuale è settecentesca, pur contenente
icone di scuola cretese del XVI esimo. Anche le bellissime pitture esterne della trapesi, con
l’Apocalisse, sono del XVII secolo.
265

L’iconostasi originale è davvero sparita. Grande peccato! Forse aveva su di essa il sigillo
della bellezza dell’arte di Trebisonda, dove è possibile che l’iconostasi sia apparsa per la prima
volta, come muro di separazione del “vima”-la stanza dell’altare, dal resto della chiesa.
Gli ortodossi bizantini si fanno dell’iconostasis un titolo di vanto, ma anche di polemica pungente
contro le altre Chiese. Non sopportano più una chiesa con la sola balaustra di marmo traforato o a
transennatura collonata. Dimenticano che la stessa Santa Sofia e tutte le chiese bizantine furono
dotate con la sola balaustra, fin quando la geniale immaginazione di qualche artista di Trebisonda
non s’inventò per la cattedrale, ( sempre Santa Sofia) l’artistico muro, ( o parapeto di legno di tiglio
dorato, ricamato con ogni tipo di adorno), con tre porte, tutto adobbato di icone, sistemate secondo
regole precise. All’arrivo dei turchi, però, la Santa Sofia di Costantinopoli si assomigliava molto di
più alla San Marco di Venezia, con balaustra e statue, o alla vecchia San Pietro, che non a
qualunque chiesa ortodossa attuale.
L’iconostasi, fu, dunque, imposta in tutte le chiese bizantine ortodosse per nostalgia di Trebisonda,
l’ultima isola felice di un Impero invaso. La cattedrale di quella meravigliosa, perduta città è
attorniata da un portico che corre su tre lati, poggiata su un terrazzamento e con una cappella sopra
il nartece; è unica nella storia dell’architettura bizantina. ( Oggi è museo in rovina). Non poteva non
fare scuola in mezzo a un mondo bizantino che provò, sulla propria pelle, la tragedia di Adamo ed
Eva quando persero l’Eden. Ma “Trebisonda” è simbolo anche di resistenza di fronte ai latini, al
loro rito, alla loro prepotenza del 1204 e di dopo. Il mondo di Fozio-Cerulario sbatte in faccia a
costoro un muro splendido, sacro, una genialità artistico-liturgica, l’ultimo rifiuto di una qualsiasi
comunione con essi, presso il loro altare inaccessibile.
A parte la polemica, l’Iconostasi è molto pratica. Ne furono aggiunte delle porte pesanti e
poi le tende alle porte, a tal punto che molto spesso durante la Liturghia, il popolo sente solo la voce
dei celebranti, senza poter vedere come si scambiano le notizie, come si soffiano il naso, come
litigano per le offerte, come guardano furtivamente le donne, infine, come si preparano la faccia
devota, per la prossima apparizione in publico. Parlo per esperienza diretta.

Nel 1609, il metropolita Teodosio di Suceava, fa costruire la chiesetta di San Giorgio,


dentro il complesso del monastero. Leon Vodà, invece, dedica a Dionisiou il monastero di
Càscioarele- Vlasca, che domina la campagna a due passi dal villaggio di mio nonno, l’artista
Popian.
Matei Basarab offre 4000 aspri, mentre Vasile Lupu paga l’annua-lo haraci- per tutto l’Athos, al
Sultano, dopo aver pagato i debiti del Patriarcato di Gerusalemme e di Antiochia. A questo punto, il
Patriarca di Costantinopoli si lammenta che anch’esso ha dei debiti. Vasile paga anche per lui. Anzi,
266

per coronare tanta munificenza, offre alla Megali Lavra la più ricca delle sue fondazioni, la chiesa
dei Tre Gerarchi, di Iassi. Riconosciamolo, il Patriarca non è rimasto in debito al grande magnate.
Per il fatto di aver pagato tutti i debiti del Patriarcato, il Sinodo ed il Patriarca Partenio I, offre alla
Moldavia le reliquie di Santa Parasceva. Collocate nella cattedrale, le sacre reliquie trasformano la
Tre Gerarchi in centro di pellegrinaggio internazionale, con tutte le conseguenze di rigore. Cioè:
con il ricavato delle offerte portate alla mirabile Santa, tutta la Moldavia sarebbe potuta vivere un
epopea di benessere. Sarebbe… perché, per tre secoli e più, tutto il ricavato ha ripreso la strada
verso Costantinopoli e Athos, la Moldavia rimanendo solo con il piacere mistico di baciare le
reliquie di una Santa molto amata. Sottolineo però, con massimo di obiettività, che dal 1864 al
2007, le allucinanti offerte di Santa Parasceva non hanno più preso la strada dell’Athos o di
Costantinopoli. Ma la Moldavia è più povera che mai.
Nel 1700, il Domn Bràncoveanu, rinnova il dono dei 4000 aspri. Stefan Cantacuzinò li
radoppia: 8000. Nicolae Mavrocordat, dopo aver fatto uccidere il nobile Bàlàceanu, (1737) dà
anche lui 8000 aspri, per la sua beatificazione.
Mihai Racovitza, nel 1717, offrendo il metocco Hotàrani con i suoi 5 poderi, fa vivere ai monaci
giorni sereni e senza preoccupazioni per altri due secoli. Molti altri metochi sono stati regalati fino
al 1864 quando, con le leggi di Cuza, tutto è stato espropriato. “Dionisiou, fondazione romena”, si
disse. “Senza pretese da parte dei romeni”, si rispose. Ma dal momento in cui i romeni cessarono di
offrire e si misero ad espropriare, furono trattati come se non avessero mai dato nulla.

STORIE PATETICHE A PROPOSITO DELLA BIBLIOTECA

Nella biblioteca si conservano 5000 libri e 804 manoscritti, codici miniati dalle preziose
rilegature del secolo XII-esimo, 13, regalati dai sovrani romeni. Il più ricco, più festoso, -meglio
dire sfarzoso- è il manoscritto dei Divini Vangeli, bizantino, proveniente da Stoudion, (del 1059),
legato in ricchissime coperte di argento e preziosi, donato da Mircea Ciobanul e dalla sua sposa,
Doamna Chiajna, (dipinti sulle coperte, insieme coi figli, i prìncipi, Pietro e Stana, ancora
bambini). Li abbiamo incontrato tutti, lungo il nostro percorso. Mircea, (due regni fra il 1545 e
1559) “non era né turco, né cristiano”-a sentire le cronache; e dopo aver fatto il pecoraio ed il
traficante di pecore e di lana intorno a Istambul, aveva comprato il Trono romeno dai turchi,
complotando contro il Domn e cugino, Radu Paisio, (anche lui, in due regni, 1534 e 1535-45,
grande benefattore dell’Athos). Raggiunto il Trono, ha macellato nobili e cortigiani con
l’accelleratore, e, perdendo e riguadagnando il Trono per tre volte, ha ucciso gli oppositori con una
foga tre volte aumentata: 200 boieri, una sola volta, nel suo secondo regno; ed anche due vescovi.
267

Sembra assurdo dunque che il più religioso dono a Dionisiou sia sgorgato dalle sue mani. Inoltre,
senza questo nipote di Vlad il Monaco, la chiesa della Madonna, nel centro della mia città di
Rìmnicu-Vàlcea o la Chiesa Curtea Veche di Bucarest ed altre ancora non sarebbero esistite.
Di Madame Chiajna ce ne siamo occupati abbondantemente e, visto il suo carattere complesso, non
ci stupiamo di trovare le sue tracce in tutte le parti, anche le più imprevedibili. In questo caso, da
buona figlia di Pietro Rares, benefattore di Dionisiou a suo turno, non poteva non continuare a
beneficare il monastero, caro a suo Padre.
%%%

Nella biblioteca esiste un altro manoscritto con le date della Pasqua, copiato nel 1588 dal
vescovo di Buzàu, Luca, diventato poi Metropolita primato ( dal 1605 al 1629). Il merito di portare
da Cipro nella Terra romena questo prelato, dopo l’invasione dell’isola da parte dei turchi, (prima
era veneziana), fu di Radu Mihnea, (uno dei figli di Mihnea II il Turcitul), rimasto cristiano e
diventato Domn, ( 4 volte, fra 1611 e 1626: è quello con gli studi presso i cattolici, pagati dai
monaci dell’Athos; il quale, per riconoscenza, offrì loro il monastero Snagov, di Bucarest.) Radu
tentò di essere diverso dal padre, senza riuscirci. Buon diplomatico, si prese come consigliere
spirituale il metropolita esule, Matteo delle Mire, colui che, nascosto nella grotta del Santo, a
Bistritza, (a pochi passi dalla mia casa avita), ne scrisse la vita, i miracoli e la liturgia, prolungando
senza volere una leggenda su delle reliquie, disputate da due santi. 223 Per il semplice fatto che Radu
Mihnea venne, con tutta umiltà, a baciare le mani del Santo nascosto nella spelonca di Bistritza,
montandogli un feretro nuovo, (lo stesso Santo che nutrì di miracoli la mia infanzia), avrei provato
tenerezza per lui. Ma i consigli del metropolita e gli studi ad Athos e nelle più prestigiose università
cattoliche non fecero altro che ampliargli la fantasia di torturare e uccidere con più gusto centinaia
di nobili ed oppositori. Basta questo, per metterlo accanto ai suoi lontani successori, (governanti
comunisti), che, vicino alla stessa spelonca, uccisero, nel’900, centinaia di innocenti.
Di Luca di Cipro si può asserire il suo gesto lodevole di venire da greco in Terra romena e
diventare un buon romeno, nel senso di fedeltà alla gregge ed al valoroso Sovrano di cui fu
consigliere ed amico, Mihai il Bravo. Passò la vita conducendo ambasciate presso i Grandi-
cristiani-, per organizzare la Crociata anti- turca. Ritornò dalle capitali dell’Ovest, portando denaro
a Mihai, ma non soldati, neppure armi. Il suo magnifico Sovrano non fece in tempo di vincere la
potenza turca- e ne sarebbe stato capace, in fronte a un vero esercito cristiano- perché fu ucciso a
tradimento dal generale ungherese, (e cattolico), Basta; nel quale l’invidia contro un cristiano
superò la paura del turco musulmano.
223
Manoscritto finito nella Biblioteca di Vienna, e trovato lì dal grande storico Nicola Iorga. Il quale, per troppa
grandezza fu barbaramente ucciso dai legionari, nel 1940.
268

Luca riempi le biblioteche di manoscritti, da lui copiati con arte, e diede lustro alle Diocesi
da lui guidate ed ai monasteri dell’Athos che aiutò. Ma non diede abbastanza denaro al Patriarca di
Costantinopoli, che aspettava un aiuto volontario- obbligatorio, come da ogni suddito; per cui, Luca
fu giudicato, condannato, maledetto e scomunicato. Per grazia, vi fece in tempo di riparare e la
bustarella (proeminente) fece cessare il fuoco. In questo modo il Metropolita Luca morì sul Trono,
vecchio e calmo, nel 1629. Oggi, qui a Dionisiou contemplavamo il frutto delle sue mani,
santificate dalla grazia e dal talento. Qualcuno ha notato un suo Vangelo anche a Iviron. Speriamo,
ci sia ancora.
Un altro documento della biblioteca del convento racconta dei 4000 aspri all’anno, arrivati da
Matei Basarab e da quasi tutte le casseforti dei conventi sparsi per la Terre romene. L’ultimo
grande benefattore ne fu il sovrano martire Costantino Bràncoveanu, che abbiamo rimpianto a suo
tempo.
A Dionisiou si conservano libri letti ed annotati da san Nicodemo l’Aghiorita, il quale, se pensiamo
meglio, è stato uno fra i pochi monaci dell’Athos consapevole della ricchezza culturale e spirituale
delle biblioteche della Sacra Montagna.

OSSARIO E PURGATORIO

Dipendente da Dionisiou, sta la cella di Serafino di Adino, abitata da romeni copisti e disegnatori
di delicati manoscritti.
Se qualcuno ci riesce, (noi non lo abbiamo fatto, per ignoranza delle cose) vada a visitare anche lo
skit “San Giacomo, il fratello del Signore”, dove, nel 1843, Avva Sava l’Aghiorita, dopo aver
ricordato, in preghiera, per 39 giorni, le anime dei defunti, ebbe in sogno la visione di un altro
padre, Stefan, defunto, che, con il cucchiaino pieno di Sangue di Cristo preso dal Calice, cancellava
tutti i nomi della lista dei defunti, uno per uno. Il significato ne era che, dopo il 40-esimo giorno di
requiem le anime sono perdonate e salvate.224
È bellissimo ed è vero. Se dici, però, agli ortodossi, che questa, e non altra, è la Dottrina del
Purgatorio, nella Teologia latina, ti girano le spalle. Il Purgatorio è un punto dolens di polemica fra
le due Chiese. Le accuse si riferiscono piuttosto alle espressioni elucubrate dai vari teologi
medievali da ambo le parti, considerate dalla parte avversa come inesatte. La realtà della
purificazione dopo la morte, atto giusto e amoroso del Signore, per portare quante più anime in
Paradiso è identica nella Fede delle due Chiese. Come anche quella delle indulgenze e delle offerte.

224
L’episodio è citato da Padre S. Anagnostokopoulos, op.cit. pag.175.
269

Gli uomini però, gerarchia e fedeli, preferiscono le apparenze e non il contenuto. Perché aiutano e
danno argomenti all’odio ed alle legnate reciproche.

Vicino alla ottocentesca chiesa di San Nifon, -non quella costruita da Neagoe-, facendo due
passi, abbiamo trovato l’ossario con le ossa dei monaci, i più recenti, sembra non ancora
completamente decomposti. Più interessante la piccola grotta, in aria aperta, piena di soli crani,
buttati a mo’ di piramide, che io, togliendovi l’erbaccia, ho sistemato per la fotografia. Ne ho fatto
vedere la diapositiva per mezza Italia, per la meraviglia di molti. Devo riconoscere che in tutti i
viaggi, siamo tornati qui, a salutare e fotografare gli ammirevoli teschi, che nulla hanno di brutto,
salva l’attesa, che, penso, è sempre ansiosa.
Seguiti dallo sguardo eterno ed improvvisato dei teschi, abbiamo abbandonato il monastero
Dionisiou, premurosi di raggiungere il suo collega vicino, sullo stesso pendio della penisola, il
magnifico Grigoriou.

13.GRIGORIOU

Lo abbiamo trovato situato sopra una roccia a picco, da cui si domina il mare, sul versante
occidentale. È tardi; dobbiamo chiedere ai blandi monaci l’ospitalità per la notte. Cioè, no, non
dobbiamo schizzare nessun gesto, perché, vista l’ora tarda, il monaco arhondarikos ci indica
dolcemente le stanze, i letti, il soggiorno con luhumi e caffè già preparati ed il refettorio per la cena.
Voglio dormire, senz’altro, dopo oltre 8 ore di camminata. Ma desidero ardentemente partecipare ai
Vespri, alle Ore, al Mattuttino, alla Santa Messa, che, secondo le indicazioni, dovrebbe coronare la
celebrazione. Se abbiamo capito bene, alle 2, la notte, dovrebe essere tutto finito. Senonché la
Messa non comincia mai; alle 7 la mattina ancora siamo in mezzo alle Ore sacre ed agli Akatisti. Lì,
la gente non avverte il volgere delle ore. Finalmente inizia: e finisce alle 10. Magnifico!
Trent’ anni sono passati d’allora; e mi vedo uscire dalla chiesa, morto di sonno, ma anche di gioia,
come se fosse stato ieri.
Qui, a Grigoriou, viveva in quelli anni e forse gliene abbiamo baciato le mani, il vecchio
monaco santo, Avxentio, cieco già da ani, ma felice con le sue penitenze e beato per la sua scelta
rigorosa di vita comunitaria dalle obbedienze più umili e più dure. Il suo finale è stato glorioso. Un
giovane discepolo ha avuto il dono di vedere come dalla bocca dell’anziano, appena morto, è uscito
un altro Avxentio, intero: era l’anima, che aveva conservato tutte le apparenze del corpo. Anima già
glorificata, che, in seguito, in sogno, ha raccontato al giovane come aveva superato tutte le dogane
celesti225.
225
270

E cominciamo da capo, noi, i maligni: le storie dei monaci sui segni verificatisi dopo la morte di
Avxentio, con le dogane celesti e l’assalto dei demoni, sono la cronaca di colui che si salva dagli
esami del Purgatorio. Con qualche elemento contemplato dagli antroposofi. Beninteso, i monaci
non lo sanno e l’Ortodossia respinge il Purgatorio. I cattolici, dal loro canto, dicono di credere nel
Purgatorio; ma respingono come leggende pie le storie dei monaci. Cosa e come replicare? Diciamo
che, alla fine, chi respinge, resta a mani vuote.
Noi, no, perché non respingiamo nulla di ciò che potrebbe aumentare le nostre conoscenze. Ed ecco
una sorpresa: in mezzo ai monaci che ci vengono incontro avanza un monaco romeno, puro,
vlacco, cioè: fra Cosma. Dalla saggia conversazione con lui impariamo tanti detagli sulla vita dei
monaci e constatiamo ancora una volta cosa vuol dire essere un latino di sangue, in mezzo ai non
latini, chiunque essi fossero. La sorpresa però diventa pazza allegria nell’incontrare un grossissimo
e panciutissimo diacono (cattolico) tedesco, perplesso, sbigottito, scandalizzato, addolorato, per il
fatto che il monaco ostiario lo aveva semplicemente tirato fuori dalla chiesa e spinto come un
immondo, lontano dal sacrario. Il poveretto aveva avuto il coraggio di assistere alla Messa, da non
battezzato com’era, (sic!) e, giustamente, alla fine della liturgia dei catecumeni, doveva
abbandonare il sacro tempio. Se vi chiedete come ha fatto il monaco a riconoscerlo, vi rispondo che
noi lo abbiamo incontrato, conosciuto e intrattenuto già a Salonicco, presso l’ufficio per i
documenti. Portava la tonaca latina, che da sola da sui nervi ai greci; ma il suo crimine davvero
imperdonabile era che portava appese al collo più croci e crocefissi, col Gesù non dipinto alla
bizantina, bensì scolpito alla cattolica; ciò che negli occhi di un vero ortodosso è come il velo rosso
negli occhi di un toro. Noi glielo avevamo fatto notare, scherzosamente:
-Troppe croci cattoliche, Bruder, toglietene qualcuna!
-Nein, das ist Ecumenismus, io voglio dimostrare di essere un cattolico che ama gli
ortodossi.
Non ne abbiamo insistito. La sua sicurezza però ci ha lasciato qualche dubbio.
-Io non lo vedo bene, sussurava Sergiu. Scommetto che restera sulla barca.
Beh, no; lo hanno fatto scendere. Ma, quando ci vide a Grigoriou, si avventò verso di noi e
cominciò quasi a piangere:
-Non mi hanno fatto vedere nessuna chiesa. Mi hanno cacciato dapertutto, persino con
violenza. Ho girato cinque monasteri, ma ho visto solo i muri esterni. Grazie a Dio mi hanno fatto
dormire e mangiare. Ma io volevo assistere alle funzioni, ecc…..
Ridevamo da morire e lui s’impiccioliva sempre più.
-Te l’abbiamo detto, ripetevo, ne ero sicuro, mi seguiva Sergiu…. e tu non ci hai creduto….

?
Sempre nel libro del monaco Damaskinos di Grigoriou, op.cit.
271

-Ma non mi sarei mai immaginato…


-La tua Croce non è valida !
-Ma le Croci sono tutte uguali !
Tenta di far capire a un tedesco che le Croci non sono tutte uguali. Soprattutto perché non potevamo
astenerci dalle risa fortissime.
Intanto, dopo aver fatto gli inchini regolari,-alla bizantina- noi siamo entrati in chiesa. Erano
cominciati i Vespri. Lui, tenta di introdursi con noi. Nulla da fare. Spuntò uun demonietto di
monaco che stava vicino alle porte dell’altare, attraversò tutta la chiesa, gli acchiappò con furia il
lungo manico latino e con gridi poco ortodossi lo fece uscire già prima che entrasse. L’omaccione
tedesco gridava e ripeteva in deutsch:
-Anche loro sono cattolici, anche loro. Perché solo io devo uscire? Warum, nur ich?
Cretino, che non era altro! Siamo stati fortunati che la lingua di Adolf non era conosciuta a
Grigoriou.
Lo abbiamo lasciato sfogarsi, mentre noi non riuscivamo a dominarci l’ilarità, baciando le Icone. La
sua mungitura sembrava quella di un gozzuto che andava portando una latta di risciacquatura verso
il porcile. Si muoveva come una faraona che va razzolando in mezzo allo scopeto.
Dopo la funzione, i frati portarono il caffè per noi, in tazzine. Sembra che non lo
guardassero, anche se si lamentava forte. Noi restammo lì intorno, bighellonando, dopo questa
chiacchierata tutta speciale. Finalmente mi sono deciso di salvarlo, passando sopra il fatto che il suo
infantile gesto di smascherarci era, comunque, slealtà pura.
-Quanti giorni di permesso ti restano?
-Drei !
-Ebbè… Devi ubbidire a tutte le mie direttive, se vuoi uscire vivo da qui!!! Prima di tutto,
togliti questa gonna! Anzi, togliti tutte le Croci! Vestiti normale. Ora impara come si fa la Croce: le
tre dita unite ed il movimento, prima a destra. E le metanìe si fanno così; e, per niente al mondo,
non farti la genuflessione con un solo ginocchio. Solo un inchino profondo, così! Poi devi dire: ego,
orthòdoxos. Impara: evharistò, parakalò, evloghite. E null’altro. Così potrai vedere il resto dei
monasteri. Verstanden?
-Verstanden, rispose non tanto convinto, guardandomi con occhi incredibilmente fuori dalle orbite.
E ci siamo salutati con grande amicizia.(sic!)
A questo punto devo anticipare: ci siamo reincontrati all’uscita, a Dafni. Era tutto soddisfatto, aveva
obbedito ai miei precetti come un vero tedesco e la cosa aveva funzionato a meraviglia. Lo avevano
circondato con tutto l’affetto, questi monaci athoniti, convinti che si trattava di un tedesco eretico,
272

passato all’Ortodossia. Lui si mise a protestare, per scrupolo di coscienza, ma io gli misi il palmo
sulla bocca e gli urlai:
-Mein Bruder, è difficile capire che la vera Ortodossia, malgrado tutto, sta a Roma.
Inutile descrivere il suo sguardo, il suo mutismo, la sua pancia immobile!

… Sprofondiamoci ora nella storia e nella spiritualità del monastero Grigoriou.

STORIA E MIRACOLI A GRIGORIOU

È un monastero a statuto cenobitico (dal 1840), dedicato a san Nicola (Festa, il 6 dicembre);
fondato nel 1345 da San Gregorio detto il Siriano, l’isicasta che fece le prime costruzioni dove
San Gregorio Sinaita, suo padre spirituale,(v.) pochi anni prima, aveva radunato la prima comunità
dei suoi discepoli. Di qui il nome del monastero, che ricorda i due fondatori. Il primo documento
arriva a noi dal 1347.
La costruzione originaria fu totalmente riedificata, in tre turni, dal Domn di Moldavia, il Santo
Stefano il Grande, verso l'anno 1495, (in onore di uno dei suoi figli, il defunto Alexandru), perché
i pirati , (turchi, saraceni ed altro), avevano saccheggiato il santo luogo ed ammazzato quasi tutti i
padri, presenti nel convento. L’anima di questo restauro fu il superiore Spiridono. Sulla torre
rinomata e specifica, simbolo del monastero, appare la lapide di Stefan, lodato per aver mandato
denaro, materiali, ingegneri, operai, ma anche l’Icona della Beata Vergine, qui onorata, e qui
arrivata nel 1496. Si tratta della Madonna Galaktotrofusa, cioè “allattante”; è un tema raro
nell'iconografia bizantina e forse di origine italiana; tuttavia esso si trova nell'antica iconografia
copta.
Veramente, l’iscrizione sull’Icona ricorda più nomi: oltre al nome del Sovrano, sta quello di Maria
di Mangop, la terza moglie di Stefan, morta nel 1477; ed anche del figlio, Alexàndrel, morto nel
1496, che era stato associato al regno, per controllare soprattutto la zona del Sud della Moldavia.
Interessante che l’Icona porta l’anno della morte del giovane. Vuol dire che Stefan mandò ad Athos
il denaro e l’Icona in ricordo dei due, figlio e moglie.
Ma chi era questa sposa, di cui, a distanza di tempo, il Sovrano si ricorda con tanto fervore?
Precisiamo che il piccolo Alex. non era figlio di costei, bensì della prima moglie di Stefan ed era
stato mandato a Istambul come ostateco presso l’Alta Porta. È morto lì nel 1496, ( per malattia? Per
nostalgia della madre? Per essere stato violentato? Chi lo sa!)
273

La prima moglie del grande guerriero e santo è stata Eudokia, figlia di Olelko, lo Kneaz226 di Kiev e
nipote dello Kneaz di Mosca. Questo primo matrimonio aveva anche scopo strategico, antipolacco.
Maria di Mangop-Crimea è la terza moglie legitima del santo, grande amatore, Stefan, rimasto
vedovo due volte fino allora. Si chiamava Maria Assanina- Paleologhina, appunto della famiglia
dei Paleologhi, fuggiti da Trebisonda ( o come la traducevano, Trapezundo). Nella loro tragedia di
fuggiaschi, i Paleologhi conservavano ancora un possedimento cristiano, vassallo del Chanato
tartaro, in Tedoro, Crimea. Stefan era interessato a quel punto strategico ed aveva già mandato un
gruppo di 300 militi moldavi in aiuto di suo cognato Alexandro. Si era perfino alleato coi tartari,
pur di difendere la zona contro l’espansione turca. Le nozze furono celebrate nel 1472 e sarebbe
azzardato dire che erano più strategiche che amorose. Stefan era un anima molto amorosa e non
perdeva nessuna occasione in nessun villaggio, città o paese dove accampava… Non ci stupiamo se
in breve tempo, la Mangop divenne “la sovrana, abbandonata”. Ed infatti:
Già un anno prima delle nozze, nel 1471, il Domn di Moldavia aveva preso in ostaggio la moglie e
la figlia (bellissima) del rivale munteano, Radu il Bello, come lo abbiamo già notato altrove (v.).
La figlia di Radu, Voichitza, la munteana, insomma, la valacca, crescendo, aveva aizzato la
passione di Stefan, che decise di prendersela come amica, e non divorziare dalla moglie, attraverso
la quale aveva diritti sulla Crimea. Infatti, dopo la morte del suocero, egli divenne anche principe di
Mangop; per poco perché i turchi hanno occupato il principato nel 1475. Ma dopo questa tragedia,
Stefan si sentì libero di divorziare da Maria, mandarla in giro e poi, (con tutte le benedizioni degli
alti e piccoli prelati e monaci, riconoscenti per le decine di monasteri da lui edificati ed aiutati),
portare all’altare, in pompa magna, Voichitza.
Maria non riuscì a superare il rodimento del cuore, né la sferza della gelosia, per quanto si
sforzasse. E morì di dolore nel 1477, nel monastero di Putna, dove si era ritirata; mentre Voichitza
morì nel 1511, e fu sepolta sempre a Putna. Così, le mogli stanno unite nella morte, nella stessa
fondazione, la più fastosa, del loro marito, come furono in vita, spose fedeli, attraverso il grande
santo e a turno, loro sovrano.
Nel frattempo, Stefan aveva adottato molte altre concubine, fra le quali Maria Rares di Hàrlàu,
madre del famoso Petru Rares.
Queste ed altre stranezze può ricordare ed insegnare un monastero dell’Athos!
Al terzo piano della torre, l’iscrizione, piena di Domni moldavi, presenti con doni, restauri, regali,
icone, denaro: Bogdan, il figlio di Stefan, Stefànitzà, nel 1520, poi Làpusneanu, nel 1553.
E, siccome il mito di Sisifo è sempre vivo, nel 1761 un incendio distrusse o danneggiò quasi tutti i
ricordi preziosi e le costruzioni di questi sovrani. Furono modestamente sostituite, negli anni

226
Principe.(sl)
274

successivi, sempre dai romeni e dal Metropolita di Bucarest, Gregorio, seguiti da fanarioti
eminenti, e dallo skevofilax Joachim Macroghenis di Acarnia. Il quale è considerato il terzo
fondatore del monastero, negli anni 1760-69.
Questo Ioachim è dipinto sul muro dedicato ai fondatori, con una barba eccessivamente lunga. Il
superiore di Grigoriou ne raccontò a Marcu Beza il significato: il frate, in questione, aveva
radunato una grossa somma di denaro -dono dei sovrani romeni- con la quale voleva riscattare dei
cristiani, schiavi dei turchi. I colleghi vollero mandarlo dal Sultano per perorarne la causa, ma lui,
siccome era glabro di volto rispose chiaramente: “che autorità può avere davanti al Sultano, un
monaco senza barba”?
Ne aveva ragione lui. Se non puoi celebrare senza barba in nessuna chiesa ortodossa greca o slava,
rischio- l’invalidità della Messa, se la presenza del rasoio nei bagagli dei latini è stato un importante
argomento nell’armamentario polemico anti-romano, se gli islamici, fra tutte le meraviglie della
Chiesa Orientale hanno tenuto per essi solamente le ilarità, perché non dare retta al buon Ioachimo?
Ebbene, il Signore Dio gliela data; ed in quella stessa notte gli fece crescere una barba lunga fino a
terra. Così, fu mandato con successo dal Sultano ed ebbe pure tanta sostanza da restaurare il
Grigoriou.
Il katholikon fu ricostruito e riaffrescato nel 1779, in onore di San Nicola e di Santa
Anastasia la Romana, ( le cui relique, parziali, sono conservate qui).
È noto il nome dei pittori che lo hanno affrescato: Gabriele e Gregorio di Castoria. Al posto di
onore brilla l’icona miracolosa della Madonna, regalo di Stefan, qui proficuamente venerata. Sta al
disopra del trono “guerondicos”, nel coro, a sinistra. L’abbiamo venerata ed amata con ardore.
Al monastero rinnovato, il Domn, Alexandru Grigore Ghica III dedica il monastero
Vizante di Moldavia. E quando il Domn passa sul trono della Muntenia, dedica la chiesa San
Spiridone il Nuovo di Bucarest, allo stesso Grigoriou.
I Ghica erano a-romeni dell’Albania, arrivati a Bucarest nel 1600. Il più eroico di loro fu
proprio il nostro, il quale regnò due volte in Moldavia ed una volta a Bucarest in Terra romena, tutto
fra 1764 e 1777). Suo padre fu decapitato, da innocente, a Istambul, nel 1741. (Normale: è raro che
in quella zona e da quella gente fosse decapitato un colpevole).
Ma anche il figlio ebbe la stessa sorte, non però, per mano turca, ma a causa dei
cristianissimi Imperatori dell’Austria e della Russia, che aizzarono il turco contro i Paesi romeni e
contro i loro sovrani. Così, dopo intrighi e rapine troppo complicate per essere raccontate qui,
finirono uccisi in modo umiliante il Domn moldavo, il 12 ottobre, 1777, il Domn munteano, Nicola
Mavrogheni, in un villaggio bulgaro, nel 1790 e il successore, Costantino Hangerliu, in mezzo alla
folla, a Bucarest, il 1 marzo, 1799. Tutti massacrati da un semplice funzionario turco, che nessuno
275

osava contraddire. L’opinione pubblica europea ne fu sconvolta, ma nessuno disse di sapere


dell’origine di tanta foga.
Gli ultimi aiuti romeni attestati, per il monastero Grigoriou, sono del 1793, da parte di
Alexandru Moruzi, ( 1793-96), in suffragio dei 5 nobili, membri della famiglia, decapitati dai
turchi. Il suo predecessore ha contribuito all’assassinio di Ghica, mentre lui si arricchiva comprando
a prezzo di nulla tutto il grano disponibile e vendendolo a prezzo decuplicato alla folla affamata.
Doveva dunque, per forza, tentare di ingraziarsi i monaci, se non Dio direttamente.
Anche qui, la ricchissima biblioteca passò per vari incendi. Conserva ancora 4000 libri e
297 manoscritti, 163 su pergamena, fra i quali, 6 regalati dai romeni.
Antiche icone incantano la vista nei corridoi, mentre le reliquie che i frati mostrano destano
meraviglia: sarebbero di San Dionigi l’Areopagita. Ma quale di loro? Magari sarà l’ignoto del VI
secolo, che ha lasciato mirabili scritti mistici, se non quello vero, discepolo atheniense di San Paolo.
Come e chi ne farà la prova del carbone 14? Se si potesse dimostrare che l’anonimo del sesto secolo
non è mai esistito e che i scritti sono del vero Dionigi, del secolo apostolico, come si è sempre
creduto nel mondo antico, vedremo tutto il nostro passato con altri occhi!

La camminata ci fa ritornare presso la riva del mare. Ci avviamo verso il prossimo


monastero, sulla stessa parte della penisola, fraseggiando poeticherie.

14. SIMON PETRA

Questo luogo sacro è uno tra i più noti per la sua arditissima mole strapiombante che si
affaccia al mare con lunghe balconate in legno a file sovrapposte. È simile a un inaccessibile nido
d’aquila ed è raggiungibile per un ponte a due ordini di arcate. Fu collocata il più alto possibile:
saliamo un po’ troppo. Il libro dice: 30 minuti sul sentiero, ma fu di più. Come per ricordarci che è
in onore della “pietra –Pietro” che stà lì, fissa sulla montagna; in chiaro contrasto con la nuova
teologia ortodossa che diminuisce, fino a farla scomparire, la funzione di San Pietro, Capo effettivo
degli Apostoli.
Mi rimane una foto scattata da me per loro due, Sergiu e Gigi, alla stessa altezza del monastero,
quando Gigi si è ricordato di aver dimenticato il maglione a Grigoriou.
I monaci di Simon Petra, altrettanto ospitali, ci sistemano al settimo piano.È troppo
appollaiata, la costruzione, e noi con essa; in un oceano di bellezza e di ardimento.
276

Veramente è solo a 333 metri aldisopra del mare, ma ne sembrano 3000. Mi impressiona
negativamente la chiesa grande, nuova, del 1892, priva di supellettili. Gli incendi, certamente, ne
sono la spiegazione.
Immergiamoci, dunque, anche qui, nella storia.
Simon Petra è oggi un monastero a statuto cenobitico, (dal 1801),dedicato alla Natività di
Cristo, (25 dicembre). Fondato nel 1357. La denominazione indica la roccia su cui e costruito
(petra) e il nome del fondatore, Simone: "la Roccia di Simeone".
La sua origine risale al monaco Simeone, che, nella notte di Natale del 1356, ebbe la visione di una
stella ferma sopra questa roccia altissima. Interpretò, questo, come un’indicazione celeste che Dio
voleva lì un monastero. Questo sentimento gli fu confermato da canti di Natale che sentì venire dal
cielo durante la visione. Perciò nominò la chiesa “La nuova Betlemme.” Gli vennero in aiuto tre
nobili di Salonicco i quali si fecero monaci qui. E, soprattutto, il Despota della Macedonia,
Giovanni Ugles, fratello del re di Serbia, Vukakin (1366-1371), che fornì i mezzi per completare la
costruzione. Dopo la guarigione della figlia, da parte di Simone, Ugles si sentì in debito e dovere di
offrire tutti i mezzi disponibili per aggrandire il monastero, donandone anche varie proprietà in
Grecia e Serbia. Completata la donazione, ambedue i fratelli- Re perirono, combattendo contro i
turchi.
Il primo romeno che aiutò Simon Petra fu Alexandru Aldea, l’ultimo, Alexandru Ghica,
(1834-42), tutt’e due Domni della Valacchia. Sotto Radu Paisio, (figlio illegittimo di Radu il
Grande), la sua zia, Donna Caplea offrì a Simon Petra un intero villaggio-Scurtesti- di sua
proprietà, ( anche questo, non lontano dalla casa dei miei avi, in Argesci) per riscattare il peccato
del suo secondo matrimonio con Bogdan, quello arrangiato da Radu il Grande e proibito da San
Nifon II.
I superiori di Simon Petra vennero anch’essi a Argesci, nel 1517 e furono colmati dei regali del
Domn romeno Neagoe e dei successori: proprietà, beni, icone, denaro. Nel 1570, il figlio di Mircea
Ciobanul, Alexandru, conferma tutto e dona un altro villaggio, confermato anch’esso da Mihnea il
Turcitul.
Ma, il 12 dicembre del 1580, il monastero è sconvolto dal primo incendio. Brucia tutto, proprio
tutto, non solo i documenti, ma anche gli edifici. Restano alcune mura, e, per grazia, la parte più
importante: la cassa col denaro.
I monaci sono accolti a Xenofontos…. Così finisce che, nel 1588, il superiore del monastero
in fiamme accompagna il patriarca di Costantinopoli, Geremia II, nei Paesi Romeni ed in Russia, in
cerca di elemosina. Il patriarca vide nel gesto del superiore di Simon Petra un aiuto ed un ossequio
per lui stesso; perciò, quando i sovrani romeni si affrettarono di regalare a Sua Santità la chiesa di
277

San Nicola di Bucarest, Geremia II la offrì, a suo turno, a Simon Petra, come riconoscenza. Colui
che ne conferma la donazione è il Domn Michele il Bravo,(Mihai), che, nel 1599, vi aggiunge 14
villaggi, vasi sacri, più 472 aspri, in oro. Subito dopo, il 21 agosto, offre anche il magnifico suo
“Mihai Vodà” di Bucarest, il bellissimo monastero spostato, praticamente distrutto, dai comunisti
negli anni’80..
I soldi di Mihai bastarono per far ricostruire il monastero Simon Petra. Cosi, dopo il 1599, i monaci
ritornano. Nel 1613 si consacra il nuovo katholikon. Esso fu restaurato più volte dopo gli incendi,
che si divertirono a distruggere qui, più che altrove. Come quello del 1625, quando i monaci
rischiarono di nuovo di spostarsi altrove: solo ché, questa volta, il monastero possedeva molti skit e
metochi in Terra Romena, sgorganti oro; perciò si alzò dalle ceneri nel 1626. Il trucco era che, per
esempio, il monastero “Mihai Vodà” di Bucarest possedeva per se stesso altre chiese e poderi in
Muntenia. Nel 1850, fruttava da solo un milione di lei all’anno; ed i soldi finivano a Simon Petra.
L’unica riconoscenza, il quadro di Michele il Bravo collocato nella sala ospiti e nella trapesi, al
posto d’onore, il sovrano essendo considerato il più importante dei fondatori e benefattori del
monastero.
Nel 1633 è il turno di Matei Basarab a far pitturare la nuova chiesa; e nel 1640-50, a ricostruire
tutto il monastero. Ignoro come, nel 1755, il monastero rimase indebitato ai turchi. So solamente
che Paisio Velicikovski, il rinnovatore della vita ascetico-mistica in Romania, passò da qui, dove fu
superiore per 4 mesi.
Nel 1840 prese fuoco. La Russia degli Tzar aiutò il monastero e lo riempì di regali, per la
ricostruzione. Nella notte di 8 maggio 1891, però, si comincia da capo: tutto arde. Si salvano le
sacre reliquie ed i documenti.
Neofit, il superiore, si trovava in Russia in cerca di elemosina, portando le reliquie in processione.
Sentendone la triste notizia, predicò con maggior ardore. La devozione dei russi superò se stessa e
con il loro obolo, con l’aiuto del Patriarca e di vari nobili romeni fu ricostruito tutto come prima,
sempre nello stesso sito e con lo stesso stile, con i balatoi e le logge sporgenti sul precipizio, a 7
piani, però, e con pretese più modeste. Nel 1893 è stato terminato anche il katholikon ; le altre
costruzioni furono finalizzate nel 1902. La costruzione attuale è dovuta alla munificenza
dell'ultimo Tzar, Nicola II (1894-1917).

Le pitture e gli affreschi della chiesa sono scomparsi nell’incendio. Solo nelle cupole interne
restano alcune parti, commoventi. Il resto, senza pitture.
Cosa curiosa, come Feste patronali, festeggiano il Natale, San Simone (28 dicembre) e
l’Assunzione di Santa Maria Maddalena, il 22 luglio. La mano sinistra di questa Santa si troverebbe
278

qui, offerta dallo Tzar, insieme con altre sacre relique di San Paolo il Confessore, Haralambio,
Sergio e Baccho, Paraschiva, Pantaleone, più 8 pezzi della S./ssima Croce. Reliquie e Croce di cui
si attestano continui miracoli- che i monaci raccontano con devozione-.
Fatto commovente per noi, i frati tengono riservati questi tesori solo per persone altolocate, o
semplicemente simpatiche. Ebbene, le hanno portate davanti all’Altare e le hanno aperte con una
cerimonia suggestiva, tutte per la nostra faccia, per i “teologhi roumani”.
La Maddalena! Ora ne rido, perché i fautori di leggende e calunnie sulla grande Santa, nel
2007non sono arrivati anche a Simon Petra, per baciarle la mano tzarista. Agli Tzar parve
essenziale il fatto di possederne le reliquie. Costruirono anche a Gerusalemme, nell’orto degli Ulivi
una belissima chiesa a lei dedicata.
La magnifica biblioteca fu distrutta, con tutto il monastero, nell'incendio del 1891, che per
questo si può chiamare il più disastroso tra gli incendi. Inestimabili tesori furono perduti. Il
Babbino, lo Tzar Nicola II, fece di tutto per ricostruire, ri- arricchire… ma inutile, non risorgono i
morti, almeno per ora. È rimasta una piccola biblioteca senza valore, con manoscritti recenti. Si
perdettero nell’incendio 7 manoscritti regalati dai sovrani romeni, fra i quali un Vangelo di Michele
il Bravo (Mihai) ed altri, meravigliosamente adornati.

I CONVERTITI E NOIALTRI

Negli ultimi anni’70, il convento divenne internazionale. Ora, nel 2007, la situazione è
migliorata quantitativamente ed è certamente peggiorata dal lato spirituale. Ma questa è una regola
generale, che interpela lo kitsch ed il talebanismo ideologico.
Cutzovlacchi in tutti i monasteri dell’Athos; basta saperli trovare. Padre Dionisio,
ieromonacho cutzovlacco di Trikala: eccolo con la sua bontà diversa, più latina, meno greca. È così
contento, nello sforzarsi di parlare un romeno corretto con noi, sospeso com’è fra il dialetto a-
romeno e la grecità, in mezzo alla quale deve vivere nel segreto. Da lui sappiamo che Simon Petra
è per eccellenza cenobitica e comunitaria come Filotheou e possiede ora alcuni edifici ed una
capella a Dafni, dove si arriva in due ore.
Faccio notare che qui, a Simon Petra, “vedo molti monaci giovani”. Dionisio mi da retta, ma senza
entusiasmo. Loro, i vecchi, si trovano in disagio davanti alle nuove leve. Ne avevamo già notato
questo a Prodromou, fra i romeni, ma lì i motivi erano più politici che mistici. Qui, c’entrava
l’incomunicabilità. Iniziava già d’allora l’espansione di monaci teologi intellettuali, magari neo-
convertiti, simboli di talebanismo, in confronto ai quali, gli anziani erano campioni di tolleranza ed
apertura mentale.
279

Li ho visti a Messa, me ne sono piaciuti dal lato musicale, ma non li ho ammirati. Un monastero con
uomini giovani, colti, laureati, ma retrogradi, fanatici, infinocchiati da frasi pompose e vuote e da
speranze ingannatrici…..!
Ed in mezzo a tanta grazia, ci stavano i convertiti, ancora in fase catecumenale, da pagani che
erano, ex- cattolici o ex- protestanti. Ecco un francese, schifato dalla riforma del Vaticano II, un
sudafricano, un americano, e qualcun’ altro che mi è sfuggito.
Ne ho messo un po’… prima di decidermi di rivolgere loro la parola. I miei amici me ne stavano
contro, memori dell’incidente provocato da me con fra Maximos, di cui temevano una riedizione.
-Ma, no, ma no, non vi lasciate prendere dal panico. Voglio porre una sola domanda a
questo francese, sacerdote cattolico, ex-superiore carmelitano che ora funge da catecumeno insieme
con gli altri ed aspetta di essere ribattezzato. E mi hanno lasciato fare, rassegnati:
-Mon père, excusez-moi la curiosité: ma voi credete davvero che il vostro primo battesimo è
stato invalido? Che la vostra hirotonia227 sacerdotale è stata nulla? Che per tutti questi anni avete
confessato, consacrato l’Eucaristia, impartito i Sacramenti in modo invalido? E che tutti i vostri
Sacramenti erano nulla?
I miei amici erano neri in volto, e, mentre io mi avvicinavo al frate “catecumeno” con questa
perfida domanda, si sono nascosti dietro il katholikon.
-Oui, mon frère, oui, è stata la risposta dell’ex-carmelitano, detta con eleganza tipicamente
parigina, ma senza la minima esitazione. L’eresia invalida ogni gesto sacro. Ed il Vaticano II ha
tolto anche quel poco di Grazia rimasta ancora fra le rovine dell’Occidente.
Ha continuato ad enumerarmi le innumerevoli nefandezze, inezie, sacrilegi, sconcezze,
obbrobri, tradimenti commesse nella liturgia, nella teologia, nella pastorale, nel diritto della Chiesa
Cattolica nell’ultimo millennio, ma soprattutto con l’ultimo Concilio, devastatore di ogni virtù e
buon senso. Concilio promosso da Papi e teologi, veri nemici di Dio, (ne sarebbero stati i primi due,
Giovanni XXIII e Paolo VI, e non eravano ancora arrivati gli altri tre di dopo!!); Concilio che non si
sarebbe verificato se non fosse esistito, nell’anima occidentale, il veleno dell’eresia propagata già
dai tempi di “Agostino”!
Difficile non dargliene retta, almeno in parte. Non venivamo noi esattamente da quella
direzione -l’Occidente-, scandalizzati al massimo e rattristati, umiliati, e lacerati, sia nell’anima che
nel corpo, dai promotori di quelle nefandezze? Ciò che mi sconcertava, però, era che l’ex superiore
carmelitano non aveva, né visto né sofferto, tutto quello che noi, ben più giovani e più poveri di lui
avevamo sperimentato nella Chiesa Cattolica. Le sue sofferenze erano delle bambinate, i suoi
motivi di scandalo, risibili. Noi, invece, eravamo appena usciti-sconfitti- dalla nostra battaglia per

227
Ordinazione.(gr).
280

vincere il divieto -papale- di diventare cattolici -per non offendere l’ecumenismo-; con
l’interdizione di presentarci come fuggiaschi ed esuli, per non offendere il governo comunista
romeno, che era la grande simpatia dell’Occidente, il Vaticano incluso; con la negazione della
nostra incardinazione ed ordinazione sacerdotale- da parte di Paolo VI in persona, attraverso la
bocca di Monsignor Agostino Casaroli,- “per non intralciare l’inizio delle trattative per una futura
relazione diplomatica fra il Vaticano e la Romania comunista”. Non avevamo vinto il disprezzo e la
sfiducia mostrataci dai Prelati Uniti dell’Occidente, che ci dipingevano come “spie della Patriarchia,
spie comuniste, falsi cattolici, avventurieri”; e neppure la diffidenza dei Prelati latini-modernisti, di
segno opposto, che ci accusavano di essere “anti-comunisti, antiecumenici, retrogradi”, ecc….
Motivi per cui non eravamo diventati neppure chiericchetti, tanto meno professori o superiori,
secondo i nostri diplomi, meriti, lotte o raccomandazioni.
E, con tutto ciò, e malgrado ciò, non siamo “ritornati nell’Ortodossia”, dalla quale eravamo
partiti per completare la nostra Fede ed anima nella Chiesa Romana; neppure ritornati a Bucarest, a
metterci al servizio della Securitate, per diventare vescovi. Neppure ci siamo persi d’animo di
fronte alle nefandezze promosse dai cattolici neo-pagani che avevano occupato la Chiesa Cattolica.
Mentre lui che aveva avuto tutto: studi, onori, carriera, libertà, (ciò che vuol dire sapere e
potere adoperare tutti gli innumerevoli mezzi dati dalla Chiesa Cattolica ed a Questa da Gesù
Stesso, per raggiungere la Perfezione divina)… all’età venerabile di 60 anni, rinnegava tutta una
vita di Grazia, si considerava pagano e veniva in Athos a farsi battezzare, per salvarsi l’anima!....
Ben li stava. E, con tutta l’insistenza dei miei amici di farmi smettere, io continuai con la
seconda domanda:
-J’ai compris votre position, mon père! Ma le faccio notare che fuori dal Monte Athos, quasi
tutte le Chiese Ortodosse riconoscono la validità dei Sacramenti cattolici. Non ribattezzano, dunque,
chi si converte. E voi non negate che siano dei veri ortodossi. Mi riferisco alla Patriarchia
Ecumenica, ai romeni, ai russi, ecc…
Il carmelitano che fù, ribattè, senza esitazione:
-Si sbagliano, comunque. La loro tolleranza è un grande errore. Io non voglio incorrere in
questo pericolo. Preferisco essere ribattezzato, che rischiare. Io voglio morire cristiano.
-Dunque, fino adesso non considerate di essere mai stato cristiano?
-Cristiano anonimo, sì, col battesimo del desiderio. Ma Dio ha avuto pietà di me e mi ha
tolto dall’illusione in cui vive tutta la mia nazione, (francese,n.n.). Voi che siete ortodossi,(sic!)
battezzati validamente, non potete capire.
Lo saluto con tutta la cortesia possibile. Ridendo dentro di me… e tentando di far
comprendere ai miei amici quanto utile mi fosse stata questa conversazione. In che senso? Nel
281

senso di capire quanta devastazione avranno creato il Concilio ed il Post-Concilio in migliaia di


anime, perfino negli eletti! Sviluppando le incoerenze di prima, per dirla con il frate ex-superiore.
Però, però! Come si vedeva che le Père non era un orientale! Che aveva conservato tutta l’élégance
di un popolo che considerava pagano ed illuso. Élégance et droiture provenute dal Vangelo, perché,
dai tempi di San Remigio, quel popolo era stato battezzato troppo bene, per resistere, poi, a secoli di
obbrobrio,- leggi rivoluzione, socialismo, sette occulte, ecc… che non hanno soffocato la Divina
Grazia. Neppure nella peggiore putaine de Moulin Rouge.
Gli altri convertiti che si sono avvicinati per confermarlo, erano ancora più convinti nel
ribattere i loro argomenti; ma, dicevo io, venivano da ambienti protestanti, anglicani, era normale.
Ebbene, no, mi sbagliavo. Con il Concilio, i cattolici erano diventati più moderni dei protestanti. Il
fatto sicuro era che tutti quanti confessavano di aver trovato nell’Athos la vera Fede, la vera Chiesa,
la vera Vita. Come rispondere? Vista la situazione spaventosa della vita e della preghiera cattolica,
iniziando dal 1960 in poi, non esisteva una risposta.
Insisto con loro sulla conversione e sul ribattezzo.
-Io non contesto il vostro passaggio all’Ortodossia, bensì il fatto che avete accettato l’idea di
non essere mai stati battezzati e ordinati. Di essere stati pagani. Dichiarare l’invalidità dei
Sacramenti veri è un orrore, non è una conversione.
-Siamo convinti che in Occidente i Sacramenti non esistono, replicano educatamente.
Io non mi lascio abbattere:
- Questa però non è la Dottrina dei Padri ortodossi. Avete lasciato, di certo, brutti ambienti,
oramai ce li abbiamo conosciuti tutti, anche noi; ma poi venite qui per riempirvi di frasi, di poesia,
di mistica ingannatrice. Voi non riuscite a vedere la parte brutta, illusoria della nostra Ortodossia!
Non siete del tutto obiettivi. Non dovete parlare come la Scuola Russa di Saint-Serge228, tutta un
encomio illusionista nei riguardi di una realtà che non c’è.
( E, vedendo la faccia, tutta nera, dei miei amici che mi ascoltavano con orrore, ho finito
così):
-In fine, sono troppe cose da dire su questo argomento.
Fortuna di tutti, ce ne dovevamo andare. Gli occidentali, a differenza di Fra Maximos, non
sono passati alle minacce. Spero però di avervi messo, per ciascuno di loro, una pulce nell’orecchio.
C’è un monaco francese, in Athos, che ha descritto in un bel libro la sua conversione ed
anche quella di alcuni suoi amici, cisterciensi, ri-battezzati ed accettati nella Chiesa Ortodossa, a
Simonpetra. Credo di averli conosciuti, se non nel 1977, di sicuro nel’79 e certamente di averne
polemizzato. Il loro libro l’ho scoperto dopo il 2000.

228
In esilio, a Parigi.
282

C’è poi Gérard Bonnet, diventato Hieromoine Macaire, (l’ho conosciuto? Ho avuto tempo
di attaccare anche lui? ) Ha scritto uno studio- come tesi di laurea- sul Triodion, nel 1978, che i
romeni hanno tradotto dopo il 2000. I padri, ( forse anche l’ex-carmelitano, ma non sono ora in
grado di controllarvi), hanno scritto altri libri come “La nostalgia dell’Ortodossia”, di cui io, pur
lodandone la competenza, condanno la cecità, il soggettivismo, la sublimazione, il crescendo
nell’auto-illusione…. a causa delle quali, essi, i convertiti, non vedono i grandi e inaccettabili mali
dell’Ortodossia. Una mancanza completa di obiettività, che fa aumentare la confusione.
Io, invece, convertito alla Chiesa cattolica, da questa Ortodossia, nuova e riscritta, (e non da
quella di 1000 anni fa), vedo tutti i mali del Cattolicesimo, li cerco, li critico e li condanno con tutti
i mezzi: predica, libri, conversazioni, perfino preghiera. Questa è la differenza fra le nostre
conversioni intrecciate.
L’amico cistercense, o anche colui che poi è diventato un teologo, asceta di valore, Serafim
Rose, si spiegano così: “l’Occidente, solo, ha pensato di costruire una società senza Dio. Né i
pagani, né gli ebrei, né gli islamici, nessuno ci ha mai osato arrivare a tanto”.
Ebbene, chi è colpevole di tutto questo? Per loro -ma questa è una maniera- il primo e
l’unico colpevole è il Papa con il suo Filioque.
Inutile rispondere che “preferisco una società senza Dio, come l’Occidente, ( ammesso e non
concesso che lo fosse), a una società con Dei falsi e false, terroristiche religioni, come quelle date
come esempio”.
Replicano:
-“Da ragazzi, non abbiamo trovato niente di mistico nella nostra educazione cristiana
cattolica”.
Io rispondo: “siccome la gente brama la mistica prima dell’ascetica, o senza di essa, finisce
in India (nel buddismo, ecc…) e dall’India all’Athos”. È stato questo il loro percorso.
Ad ogni modo, l’Athos è un finale positivo. Anche se vi saranno ribattezzati. Lì, almeno,
l’ex-carmelitano non mangerà carne nel Venerdì Santo. E quando canterà gli inni delle varie feste di
San Pietro e dei Vescovi di Roma, ribbatterà, senza volere, tutti gli aspetti più luminosi del Primato
e dell’Infallibilità pietrina e pontificia, inneggiate nei libri di culto ortodossi.

Lunedì, 25 aprile, 1977. Salutiamo, baciamo le sacre Icone e ce ne andiamo. Via. Un


giorno davvero benedetto. Conquistare tutto l’Athos, solamente a piedi, è il primo bilancio
positivissimo del nostro primo viaggio. Ma sono pensieroso, ancora fresco della conversazione
penosa con i convertiti e per la stizza non esaurita dei miei amici. Anche loro sono felici: è finito un
283

viaggio in cui hanno patito più per me che per le ore di camminata o per i letti approssimativi
offertici nei conventi.
Chi sa perché, in una pausa, sotto qualche albero di quella strada incantevole che ci riportava a
Dafni, mi sono messo a scrivere le seguenti righe, di cui, ora, a distanza di 40 anni, non ne capisco
interamente il significato?
“Penso alla mia situazione di cattolico respinto e di ortodosso non riconosciuto. Il
“vecchio” sacralizza; così, alcuni si fermano al culto del gusto, o della bellezza, come i
rappresentanti di questi monaci che pensano e dettano legge per loro. Gli altri si fermano al culto
del potere ed all’unità, come quelli di Roma e dell’Occidente. Per me, che sono dedicato al culto
del Tutto, non basta nessuna di queste scelte. Ecco perché posso essere ortodosso e cattolico
insieme, oltre che Unito. Cerco sempre la faccia e la conoscenza di Dio. Penso alla mia
scontentezza, riguardo alla vita, alla conoscenza, alla preghiera, ai sensi. Penso e rimpiango il
fatto di non aver vinto la paura, per aver coraggio davanti ai fantasmi”.

Dafni. Controllo della dogana, facile. Non mi trovano il manoscritto, nascosto bene fra vari
giornali. Segue il ritorno consolante su un mare dolcissimo. L’autobus ci salva in fretta dalla
Ouranopolis.
Mi sono calmato riguardo a Gigi, ma sono ancora lezioso e lo faccio pesare a tutt’e due,
parlando in punta di forchetta. A distanza di un giorno noto: “ Non sono mite e umile di cuore”.
Un greco gioviale ci accompagna su una strada non asfaltata attraverso i monti, con la sua
macchina medioevale. Splendido paesaggio e selvaggio come in Romania, anzi, peggiore, fino
all’autostrada, simile a un dromos regionale delle nostre parti romene. La nostra prossima meta è la
Capitale eterna dell’eterno Impero Bizantino. Appunto per questo, godiamo ogni momento
dell’ospitalità incredibile di vari greci, fino alla frontiera turca, che passiamo a piedi, attraversando
il ponte sull’Evros, la bulgara Maritza. Io confondo i militi custodi delle frontiere. Per educazione,
ma anche per voluttà, dico al primo che vedo: “Christos anesti”! Quell’altro mi guarda immobile in
volto.
-Perché non te ne stai zitto, mi sgrida Gigi. Non vedi che è il turco? Sarà anche musulmano!
Poi comincia Sergiu coi rimproveri: “sempre il solito provocatore, proprio in frontiera, a
piedi, mentre i due paesi sono in stato quasi di guerra!
Alla fine tento di calmarli:
-Non c’entra nulla! Alla fine anche il turco fa bene a sapere che Cristo è risorto!
Ed invero, in Turchia ci aspettavano magnifiche sorprese da parte di un popolo che
consideravamo ostile e non lo era; mi sono convinto allora, nel 1977, e lo sono ancora, che fra poco,
284

quando i turchi diventeranno cristiani, saranno mille volte più blandi, più dolci, più fedeli dei greci
o dei neo-latini, germanici, slavi, ecc…. La migliore sorpresa, di certo, era ed è ancora, un'altra: la
vista devota di quella che una volta era, e per noi sarà sempre, la santa Città di Costantinopoli.

II

IL SECONDO VIAGGIO IN ATHOS, 1979.

Premessa su altri viaggiatori cattolici

Spero che gli amici che leggono queste righe hanno compreso perfettamente il nostro
atteggiamento di Fede nei confronti della realtà dell’Athos. Noi ci comportiamo alla stessa maniera
nei confronti di tutti i cristiani separati da Roma. Se uno non è cattolico romano, lo critico, lo
ironizzo, ma non rompo con lui. Sono sempre disposto a concelebrare con lui, ad accettarlo
all’altare e ad ammirarlo in ciò che ha di cattolico, perché so che tutti i suoi Sacramenti sono validi
(nelle Chiese Orientali), so che è un cristiano, battezzato validamente, (da protestante appartenente
ai gruppi che praticano il battesimo trinitario) ed è un fratello che, pur sbagliando, in bona o in mala
fide tiene in mano la Luce di Cristo.
Ti amareggia lo scisma, l’errore, la chiusura che vedi nell’altro, ma ti ricordi, da cattolico, di tutte le
inezie scritte, confessate e commesse dai cattolici, la cui unica superiorità consiste nel fatto di
trovarsi dentro l’Istituzione giuridicamente giusta. I buoni cattolici, obbedienti ai vechi modi,
buttavano l’acqua insieme col bambino, per poi passare, da moderni, dalla parte opposta
dell’altalena.
Ecco perché non voglio passare alla descrizione del secondo nostro viaggio in Athos, prima di
trascrivere qui una parte delle osservazioni pubblicate da vari padri cattolici del passato, visitatori
complessati di un Monte che dovevano vedere come obbligatoriamente ostile. In questo imitavano
gli ortodossi che hanno conservato questi complessi fin’oggi.
Frère Richard del Cor Jesu, scriveva nel 18 agosto 1669 che “ se dico la Messa in
qualunque loro chiesa, i monaci non possono più dire la loro, e sono obbligati di riconsacrare la
chiesa...
Gerasimo, il giovane chirurgo italiano che vive a Karyè insieme con un altro monaco italiano nella
cui cella io celebro la Messa, mi dice che piacerebbe loro diventare francescani, per non finire
285

nell’inferno, se muoiono tra gli scismatici. Infatti, Gerasimo è stato consigliato dal padre spirituale
ortodosso che lo seguiva di non pregare per i suoi genitori, perché erano morti da latini, dunque
condannati….”
Padre Gaudio da Massa è ancora più timorato: “servo la Messa in camera, ne ho le debite
facoltà. Noto qui subito che saprò bene evitare di comunicare in divinis con gli scismatici”.
Descrive tutto con grande disprezzo. Io penso che solo così ha potuto ottenere l’imprimatur per il
suo libro. Segue:
“Per resistere (al turbamento) mi leggo sempre San Bonaventura!”
A Esfigmenou, impressionato dalla devozione dei padri, pieno di compassione avrebbe voluto
gridare: “ Vi auguro, monaci, fra le altre cose, che sentiate il bisogno del Padre, del Padre delle
anime, del Santo Padre”, (cioè del Papa).
… Per strada, dico il mio rosario. In chiesa seguo la funzione e ho voglia di dire: Sentitemi, cari
scismatici, tutti: io devo guardare ora e guardarmi dal comunicare con voi per non macchiare
l’anima mia. Lo so: devo anche pregare e prego; prego che Dio mi continui la luce, la chiara luce
che mi fa vedere eccelso monte la Chiesa Cattolica Romana, laddove è il faro universale della
verità.(…)
Recisamente ricuso il pane benedetto che mi si offre….Le Chiese scismatiche non potranno
mai avere le virtù di grado eroico…
…Ecco un giovane laico, molto intelligente; è in buona fede e cerca di convertirmi; ma lo riduco al
silenzio. Iddio illumini l’Oriente! Amiamolo, l’Oriente! Iddio lo circondi di luce, onde comprenda il
“Tu es Petrus et super hanc Petram”….
Ecco, ho scornato i nemici del Papa e Satana con essi!
Ignorante del fatto che i gesti bizantini sono tutti cattolici, Padre Gaudio continua: “In chiesa mi
faccio il nostro segno di Croce, alla latina229, una genuflessione a Gesù Sacramentato ( dunque era
convinto anche lui della veridicità dell’Eucaristia Ortodossa), un inchino devoto ad un’immagine
sacra e vado al mio posto”.230
Anche noi viviamo tempi confusi e forse lo saranno sempre. Ma con le cose sacre non si
scherza, in nessun tempo. Pur attuando molti dei gesti di questi Padri, (Rosario, celebrazione
privata, augurio per il riconoscimento del Primato Pontificio, ecc.) noi siamo scesi nei nostri
pellegrinaggi armati da una conoscenza superiore, a noi data grazie all’esperienza orientale, come ai

229
La quale è una innovazione tardiva, forse di origine egiziana, copta, dato che i latini nei tempi di Papa Innocenzo III
avevano dimenticato a farsi il segno della Croce, obbligando il grande Pontefice di insegnare loro in una enciclica intera
come si fa la Croce, descrivendola a modo “orientale”, che in realtà era quello romano. L’enciclica è rimasta lettera
morta, i protestanti hanno ripudiato il segno della Croce, mentre i cattolici latini hanno adottato il modo attuale, tutto
orientale, copto e armeno.
230
Vedi M. Basil Pennington, OCSO, O Holy Mountain, N. York, 1978; Padre Gaudio da Massa, cappuccino, Una
visita al Monte Athos, appunti di viaggio,Roma, 1928; G. Hofmann, SJ. Die Jesuiten und der Athos, Roma, 1939.
286

latini moderni la conoscenza fu data dalle aperture del Concilio Vaticano II. In ambi i casi, però, è
importante sapersi fermare in tempo.

A più di due anni dal nostro primo viaggio, una mattina, baluginò in me un’idea, per cui fui
invaso da un’euforia incontenibile, tanto da telefonare subito ai miei vecchi amici di prepararsi
immediatamente, perché “dobbiamo tornare al Monte Athos.” Era fine agosto, del 1979.
Un motivo di tanto entusiasmo doveva esserci, per forza. Era l’amico Sergiu, che ripeteva
sempre: in Athos si deve tornare. Ma l’idea non avrebbe preso corpo se non ci fosse stata l’amicizia
con delle magnifiche famiglie pugliesi, i cui ragazzi, due giovani studenti, si erano entusiasmati dei
miei racconti e delle mie diapositive con gli splendidi luoghi, tanto da esprimersi in questo senso:
come ci piacerebbe, ecc.. L’amico Gianni di Trento, aggiunge la ciliegina: vi do la macchina mia.
Così, Gigi, novello autista, si esercita sulle montagne russe… della Grecia.
Ma, certo. Che altra occasione migliore? Rifare in tre, questo viaggio, e tutto treno, nave,
autobus bizantini ed a piedi, non sembrava probabile. Ma aiutarci da altri due entusiasti, non era
cosa da poco. Non diceva Pascal: “Il y a assez de lumière pour ceux qui ne désirent que de voir”?231
Presto, dunque, la decisione, la preparazione, i documenti, i bagagli e soprattutto l’istruzione con i
due italiani, cattolici e latini, che dovevano imparare a farsi la Croce bizantina, a lasciarsi crescere
un po’ di barba, a rinunciare a molte (troppe) comodità per 10 giorni e soprattutto a imparare
starsene completamente zitti. Dovevano apparire romeni e ortodossi. Altrimenti, inutile andarci.
Fare la figura del diacono tedesco non ne era il caso. Con i monaci romeni, in Athos, era più
semplice. Avevamo imparato la loro tolleranza, non avrebbero in nessun caso escluso i nostri amici
dalle Sante Liturghie. Infine, le loro difficoltà, meglio dire le nostre difficoltà con i due nuovi amici
sono state risolte. Ce n’era una, però, tutta nostra:
Nel frattempo eravamo diventati sacerdoti. La Chiesa Cattolica aveva accolto ufficialmente
la nostra professione di Fede, salda nell’intimo da 10 anni e confessata apertamente, senza successo,
dal primo giorno del nostro arrivo, da fuggiaschi, a Roma. Ed aveva pure dato l’avvio alla nostra
ordinazione, il 12 ottobre, 1978. È vero, sono morti due Papi nel frattempo, rara fortuna per la sorte
di due giovani come noi, ed altrettanto insperata, dato che proprio per questo avevamo avuto la
Grazia della “hirotonia”. Avevamo imparato sulla nostra pelle la dolcezza dello scetticismo di chi
recita spavaldo il detto: “se muore un Papa, se ne fa un altro”. Ma di questi dettagli straordinari
della nostra vita mi sono occupato nel libro sulla Sacra Città del Vaticano. Ora devo dire che essere
sacerdoti cattolici e pellegrinare in Athos è incompatibile. Non per noi, che, come bizantini

231
“Vi è abbastanza luce per coloro che non desiderano altro che vedere”, in Frammenti, XI,APR, ed.Rizzoli,

1983, pag.232, testo bilingue.


287

abbiamo imparato ogni sorta di trucchi. L’unico vero problema era come introdurre, oltre la dogana,
le ostie. Altrimenti non esistevano problemi. Con il “Liturghier” romeno e italiano, con una
bottiglia di vino per la Messa, con l’antimension, con l’epitrachilion bizantino, una Croce dipinta,
una candela e molta Fede nel cuore, si celebrava la Santa Messa italiana dovunque: in foresta,
presso il mare, in una radura, perfino nelle stanze riservate a noi dai buoni monaci.
Tonaca? Ma, certo. Le nostre tonache erano tutte latine, ma ne avevo già preparata
l’apologia: “noi siamo romeni, viviamo in Occidente e le nostre tonache sono simili a quelle
italiane”. E punto. Speravo anche di esserne creduti. Così, con un po’ di barba, -e quella di Gigi era
cresciuta a sufficienza, barba ortodossa, insomma-, speravamo anche di celebrare in qualche
katholikon, coi monaci o senza. Sergiu era ancora laico, poi non aveva barba, ciò che per i greci era
la stessa cosa. Mentre Luigi Locchi e Vincenzo Stranieri si sono acconciati da veri novizi,
consumati da dura ascesi.
Intanto le loro mamme hanno preparato per tutti noi delle magnifiche pizze e gustosissime
focacce, aggiunte agli zaini pieni con ogni ben di Dio, come sta bene a dei viaggiatori nei mondi
esotici.Ed io, per prepararmi ai digiuni del Santo Monte ne avrò ingoiato con troppa avidità quei
cibi apetitosi… Sarà per quello o per altro, ma sulla nave sono stato preso da dolori inconcepibili; a
Igoumenitza ci siamo fermati in cerca di una farmacia, a Giannina siamo finiti all’ospedale, e dopo
una immediata annalisi al Pronto Soccorso, (sottolineo: immediata!), il chirurgo di turno, in un
perfetto italiano-aveva studiato a Padova- mi dice:
-Padre, lei ha apenditzitis; serve intervento immediato; altrimenti, perithonitis e morte.
Nel mutismo che seguì, pensai con brivido: ed ora continua il viaggio sul Monte Athos!
Ho descritto altrove la mia avventura nell’ospedale di Giannina, il successo dell’intervento, la visita
del Metropolita amico, in persona, le raccomandazioni confermate per il Santo Monte per tutti e
cinque “roumani orthodoxi”, (due ierevs e tre novizi), la venerazione di cui ho goduto, il mio
celebrare Messa, bizantina-ortodossa per tutti, latina da solo, in segreto, nella cappella
dell’ospedale…. Mi sembra un sogno di felicità, la mia permanenza di 10 giorni in quell’ospedale,
circondato da greci che parlavano italiano, greci della Romania che avevano sentito di un pappas
romeno in difficoltà, vlacchi che mi baciavano le mani, la Curia metropolitana che mi riempiva di
onori ed il Sevasmiothatos, in persona, che si curava dei miei amici, per farli superare la tristezza
dell’attesa.
Intanto i miei compagni di viaggio erano scettici nei miei riguardi, si preparavano a ritornare
in Italia.
-Invece, no, cari, no, illustrissimi, no, io mi sento in grado di affrontare bene il viaggio:
andate avanti, visitate le Meteore e qualche altra cosa, ed il 29 agosto ci diamo appuntamento a
288

Salonicco, nei posti già conosciuti. Venereremo San Demetrio e poi continueremo il nostro
pellegrinaggio, aiutati dalle sue preghiere.
Io mi trovavo sempre fermo in quella mezza-incertezza. E li trovai tutti d’accordo,
coraggiosi nell’affrontare l’ignoto. E, quando penso che non c’era il telefonino e tutti gli
alleggerimenti della vita presente!

In breve: dopo l’operazione ed i dieci giorni di degenza, abbiamo continuato davvero il viaggio;
durante la camminata, tenevo lo stomaco stretto con le mani. Mi sedevo, ogni tanto, spingevo leggermente
verso l’interno il luogo con la ferita appena chiusa e salivo ugualmente sui sentieri montagnosi e difficili del
magnifico Monte Athos. Cosa dovevo fare? Rinunciare al viaggio? Guastare anche il piacere dei miei
compagni di avventura? Ehi, no. Un po’ l’onore, molto, la giovinezza e moltissimo, la divina Grazia; e tutto
si è svolto a meraviglia. Dovevo camminare un po’ dietro a loro, fare attenzione alle fosse, fermarmi più
volte, zoppeggiare in regola, ma non rinunciare a un secondo viaggio di sogno nella terra di sogno, meglio,
di Eden, del Monte Santo. Lo dico, perché fino a oggi conservo ogni particolare di quel viaggio, tracciato in
me, e la memoria così vigile dietro gli occhi.

Il 30 di agosto visitiamo il Vicario metropolitano di Salonicco che conferma le


raccomandazioni per il Monte Athos del nostro grande amico di Giannina. Interpretando, più che
leggendo le lettere del Metropolita, il Vicario riscrive le raccomandazioni, presentandoci per Athos
come “sacerdoti della Patriarchia Romena”, (ortodossa e comunista!) Il Reverendissimo aveva
capito e scritto proprio così e ne era molto lusingato. Raccomandare 3 persone, partite ufficialmente
dalla Repubblica Socialista, operatori, a Roma, di chi sa quante attività religiose e para-religiose, in
collaborazione con altri due, raccolti fra gli italiani: questo vuol dire che aveva davanti dei pezzi
veramente grossi. A lui, proprio questo importava e non il fatto che i pezzi di questo genere
sarebbero potuti essere dei farabutti, infami informatori e ladri di cose sacre, come dicono i Santi.
No, non ce ne siamo scandalizzati. A Roma, le preferenze erano uguali e se fossimo stati gente di
quel tipo, oggi saremmo tutti a cena dal Papa.
Sergiu borbotta:
-Ben ci sta!
Perdiamo molto tempo all’ufficio di polizia, che, come tutte le polizie, lavora estremamente
lento. Poi facciamo conoscenza con una greco-romena, la signora Elpida, che si raccomanda alle
nostre preghiere e ci insegna molti altri trucchi per la nostra sopravvivenza nei Balcani.
Dove dormiremo prima di Ouranopolis, per salvarci dal solito “albergo” di Ghiorghios, in
quel paese di passaggio? Osserviamo a destra, sul monte, il monastero di Santa Anastasia, con le
sue ammirevoli relique, con la tomba din Teophane, la moglie dell’Imperatore Leone il Saggio,
(883); con San Theonas, del secolo XV. Con 150 monaci una volta, 10 soli, oggi.
Ci ricevono come se fossimo stati ospiti illustri. Ed il diacono Athanasios, macedo-romeno, ci
accompagna dovunque, con promessa di amicizia eterna.
289

Si lammenta della persecuzione da parte dei greci, e come non può e non deve pronunciare una sola
parola romena. Registro la Santa Liturghia cantata da lui.
Monastero bello ma nuovo, benché così vecchio. I paesaggi dintorno, a mozza fiato. Non possiamo
concelebrare perché l’egumenon non è in casa. Celebriamo la Liturgia bizantina, inter nos, nella
nostra stanza, metà in italiano, Gigi e Vincenzo presenti.
Così, la mattina, siamo a Ouranopolis, dove la nostra illusione di partire subito con la nave si è
dileguata: la nave non parte, con il mare leggermente agitato.

Ritorniamo da Padre Ilios, il parroco del paese, che ci accoglie con grande gioia, ma anche con
meraviglia: gli piaciono le nostre tonache, ortodosse, ma diverse dalla sua; tanto da pregarci
insistentemente di mandargliene una.
Invano gli spiego che la nostra è di tipo italiano, simile alla “cattolica” e che lui non l’avrebbe mai
potuto portare, in Grecia. Niente, “non vi preoccupate, col Vicario me la vedo io”. Non sapeva
l’ignaro che non la poteva portare, perché “cattolica”.
-Ma voi siete ortodossi!
-Sì, ma romeni.
Era pur vero che i romeni ortodossi portano una tonaca diversa da quella greca o slava, la differenza
stando nell’abbottonatura. Ma non era simile a quella “cattolica”. Fiumi di inchiostro e gocce di
sangue fraterno si sono sparsi per questa fondamentale differenza fra le Chiese. Arrivati a Roma,
noi gliel’abbiamo mandata, ridendo di noi e di lui, e, con Dio, di tutti.
Non può ospitarci tutti, non c’era posto, ma l’avrebbe fatto con gioia. Lasciamo la nostra macchina
davanti a casa sua, ad aspettare il nostro ritorno: infatti era di genere femminile.
Sempre con l’aiuto del parroco, dormiano nell’albergo di “Ghiorghios” che ci riconosce e ne è
contento. Al suo sorriso, sempre sornione, aggiunge una originale tentennatura del capo, guardando
le nostre tonache “ortodosse”, identiche a quelle famigerate, cattoliche, degli italiani. Mica abbiamo
presentato i nostri due amici, anche a lui, come “romeni”. E lui ha di nuovo tentennato la testa,
guardando verso i letti. Forse ha pensato con pietà ai due giovani, che saranno obbligati ad
aspettarci, nel suo albergo, semmai saranno espulsi dal monte incontaminato. Peggio delle donne,
insomma. Ma noi superiamo la consueta burocrazia, anche questa volta, ed il 1 settembre, 1979, alle
5 la mattina prendiamo la navicella. Testimone della bellezza inesprimibile che ci ha avvolto, mi
resta la diapositiva, con il sole all’alba sul mare. L’ho letta anche come un simbolo, arrivato
direttamente da Dio per noi: i due italiani dovevano approfondire la loro Fede attraverso forme, a
loro sconosciute.
290

Appaiono le solite rovine, poi il porto di Zografou, poi Dohiaroiu, dove io mi faccio
fotografare sulla nave, in sottana. Ancora oggi mi chiedo come pensavamo di ingannare i seriosi
monaci con le nostre tonache latine, presentate da “ortodosse”?
La nave ferma a Dochiariou, poi a Xenophnontos, poi a Panteleimonos, dove rimangono o
salgono monaci con sacchi e pacchi per le comunità.
Vicini a me, due serbi facevano apologia nazionalistica del loro paese, stuzzicati da me che mi ero
messo a commiserarli, per il regime terribile del loro paese.
-Perché parli con loro, mi dice Sergiu. Non vedi che faccia di trafficanti? Non li posso
soffrire. A causa loro, fanno difficoltà anche a noi. Loro rubano le icone e noi paghiamo la tassa.
Come rapida risposta, scatto a Sergiu una foto sulla navicella. Molto riuscita. Mistico, tutto
pensoso, adora Athos; ma è questione di estetica pura e, se vogliamo, di strana filosofia. Riconosco,
da allora ha cambiato; ma è questione di vecchiaia.
Ed ecco Dafni. Noi tutti, fotografati sulla nave, dal serbo con la faccia da trafficante.
Dopo aver guardato un po’ i piccoli negozi che vendono anche crocette fatte dai monaci, cartoline e
sliders, prendiamo l’autobus per Karyé, la capitale. Non l’avessimo mai fatto. Anzi, ne abbiamo
fatto un opera intelligente, era giusto gustare anche questa esperienza d’inferno con l’autobus su
una strada costruita dai Domni romeni 5 secoli fa e rimasta intatta, d’allora. Cioè, peggiorata.
In fine, Karyé. Qualche ora di noia per i documenti. Ci danno 7 giorni di permesso. Ottimo.
Di nuovo diamo uno sguardo generale dai gradini della Sacra Epistasia su questo strano villaggio
monacale, il cui significato ancora lo dobbiamo spiegare, con massimo di dettagli, ai nostri amici
italiani. Sono, poveretti, tutto occhi ed orrecchi e soprattutto stupore e perplessità. Ma è solo
l’inizio. Un inizio buono, perché sento Luigi filosofare in questo senso: o uno tesse il proprio vivere
nello svergognato comune, o si preoccupa solo e soltanto di religione.
Intanto, non possiamo lasciare Karyé senza salutare il buon fra Ciprian, che, a sentire lui,
non può essere evitato da pellegrini intelligenti. Abbiamo fretta, però, perché, dalle informazioni
ricevute da lui, il super-informato, i nostri amici romeni, monaci della Sacra Montagna hanno
cambiato le loro residenze. Ed i nostri zaini sono pieni di piccoli regali, album e ricordi per
ciascuno di loro, le cose pesano ed abbiamo tutto l’interesse di sbarrazzarcene al più presto. Perciò,
questa volta dobbiamo programmare il nostro itinerario, tenendo conto dei loro nuovi indirizzi.
Kiprianos, sempre molto pulito, signorile, sornione, ci riconosce subito, ci rivela una gioia
degna di un nobile come lui, e ci racconta sempre dai libri.
Dando la mano ai due italiani, si sente ispirato di raddoppiare la foga:
-Così, siete grandi sacerdoti e teologi a Roma? Avete voi letto questo libro?
E di nuovo, i suoi libri infallibili e completi, senza i quali non c’è salvezza.
291

-Qui stanno descritte tutte le cose della terra e del cielo. Chi se ne abbate a destra o a
sinistra, invano vive.
Questa volta non so, né come tradurre, né come spiegare -ai due italiani- la gioia di fra
Ciprian nell’umiliare con i suoi libri i grandi teologi che gli rendono visita. Ho, però, una gran
voglia di ridere; e questa reazione è ancora più difficile a tradurre e spiegare.
-In polvere li ho ridotto, trionfa Ciprian, perché non studiano più la vera teologia, ma
invenzioni senza capo e coda, ispirate dal diavolo. ( E, guardando con un occhio bizantino ai due
italiani): Poi, voi che vivete a Roma, state attenti, perché gli italiani non stanno più nella vera Fede.
Non imitate gli italiani.
Luigi e Vincenzo intanto non capiscono e noi non glielo traduciamo.
Ciprian aveva dimenticato che anche l’altra volta ci aveva mostrato lo stesso libro e ci aveva
fatto lo stesso discorso; è chiaro, dunque che lui ripete il ritornello con la docilità dell’”ancora e
poi ancora” delle litanie bizantine.
Non ci esorta, però, con le deliziose prediche anticattoliche ed antipapali, e lo abbiamo
capito subito: non vuole offendere la sensibilità degli ospiti. “Vedi, l’ho commentato io, dopo: si
vede che è un latino. Un serbo o un greco avrebbe preso la pala al balzo ed avrebbe riempito di
improperi gli eretici che gli contaminavano la casa.
Ed infatti. Non mi scordo di un monaco serbo, in Iugoslavia, che nel 1988 mi attaccò:
-Sei servo del Papa?
Ma neppure noi abbiamo provocato la voglia polemica di fra Ciprian. Abbiamo però
appreso con emozione la notizia che il suo amico, Fra Enoch, era già salito in cielo, presso il suo
immortale patrono.
Anche noi, abbracciando con la stessa emozione fra Ciprian e benedicendolo con
benedizione sacerdotale perfettamente ortodossa, ci siamo avviati verso il monastero Iviron, per
lasciare qualche ricordo ai due monaci vlacchi. Avevamo l’idea di raggiungere, entro il tramonto, la
Provata di fra Iosif, il mio amatissimo amico greco, degno di ogni ricordo.
A Giorgio gli svolazzava la talare già vezzeggiata dalla polvere del viaggio, mentre le barbe
monacali e la frugalità dei desideri ci avvicinavano di più a quell’ambiente.
È prima di mezzo giorno, quando passiamo vicino al porto di Iviron. La programmazione
era ed è sempre il mio forte, cosicché mi fermo e dico:
-È qui che celebreremo la Santa Messa.
Da una parte all’altra dell’Europa, amici e non amici ne hanno ammirato la diapositiva:
Messa latina-italiana all’ombra della grande torre ( romena) del porto, con il volto inchinato verso
l’oriente, al mare. L’ostia in alto, a coprire il monte. Che bravura! Ed i due italiani in ginocchio,
292

devoti, accompagnati dall’onda in salita. Un giorno prima, avevamo celebrato la Messa


nell’albergo di Ghiorghios. Abbiamo santificato, così, con le nostre Sante Messe, tutti quei posti
che si guardavano bene dal farsi contaminare dall’Ostia latina.

2. IVIRON, PROVATA, FRA IOSIF E BELLISSIME STORIE

Ammiro ancora una volta la chiesa triplice, elevatissima, di Iviron e provo il dolore di
fermarvici poco. Osservo meglio lo stile armeno del baldacchino e le icone splendidi presso
l’iconostasi. Bacio con gli occhi i nomi di Mihnea Voevod e Radu scritte in slavo.
La chiesa, quella tutta romena, è chiusa ed i vlacchi introvabili. Suona per i vespri, così
Ghervasios, monachos, ierodiakonos, esce con la simandra, la toaca,(in romeno), il cui suono
romantico spacca i nostri cuori per la nostalgia. Lo registro, il registratore essendo questa volta uno
strumento più prezioso della macchina fotografica.
La nave non viene alle 5 per portarci alla Megali Lavra. Perciò, rinunciamo per momento alla Lavra
e riprendiamo il programma iniziale: il viaggio a piedi verso la Provata di fra Iosif e dei vari amici
romeni. Camminata su una strada dorata. Il verde inconfondibile dell’Athos, il mare azzurrissimo, i
sentieri come sulla direzione Horezu, tutto mi dà lacrime di gioia. Parliamo di continuo, spieghiamo
ai nostri giovani amici italiani migliaia di significati e temiamo per la loro stanchezza, anche se
l’unico problematico potevo essere io, con la ferita coperta dal palmo della mano, zoppicando in
mezzo alla foresta. Suggestiva foto sulla strada, non c’è che dire.
Di lontano si vede la torre del porto dei due monasteri: Iviron e Zografou.
E d’un colpo appare davanti a noi un piccolo monaco. Piccolo, non perché giovane, ma perché era
un vero nano. Simpaticissimo, ci spiega molte cose in un greco difficile e ci chiede una zigaretta.
Aveva una radiolina che lasciava emettere ogni tipo di suoni, mentre pascolava i suoi animali o
mentre lavorava nell’orto.
-Ma fra Iosif è lontano?
No, non era lontano. Anzi, il nano si rallegrò che saremmo andati da fra Iosif. L’avremmo
salvato dalla sua nera solitudine, almeno per una notte. Ci accompagnò verso la direzione giusta e
ci lasciò con un sorriso innocentissimo. Dal picco della sua proprietà ammirammo l’elevata lavra di
Stavronichita, poi Filotheu e Karakalou.
Era già sera. “Non lontano” in Athos vuol dire qualche ora buona di camminata, con la
precisa conoscenza dei luoghi. Altrimenti….
-Sbrighiamoci, fra Iosif chiude i battenti.
293

No, non li avrebbe chiusi. Soprattutto per noi, che siamo rimasti vivi nel suo cuore,
altrimenti non ci avrebbe riconosciuto con tanta rapidità ed allegria.
-Iosif, Iosif, gridavo allegro, mentre lo abbracciavo, lo baciavo e gli presentavo i nuovi
amici. Gigi e Sergiu fecero altrettanto, Iosif a tutti noi era simpatico. Poi ci divertiva questo
incontro serale, così improvviso, e per niente difficile per Iosif. Un altro se ne sarebbe rimasto
seccato, pensieroso, “come faccio ora”, ecc… Iosif, al contrario, sembrava che ci aspettasse. Questo
fatto gradevole ci ha dato una vera euforia. La sua prima parola fu: se abbiamo cenato; e subito si
mise a scavare i piatti migliori, la tovaglia migliore, il pane più fresco, perfino uova, (di dove?
Qualcuno gliele aveva regalato e lui le sacrificava volentieri per vecchi amici).
Senza parole, solo a gesti e la nostra comprensione è stata sempre totale. Durante la cena si prodigò
di mostrarci le foto ricevute, la spada, i vasi, i sopramobili di altri tempi, e poi la sua casa immensa.
Sui muri, sempre lì, le foto dei vari re e regine della Grecia, oramai in esilio o in paradiso. E lui,
solo, e tentato dall’ubriacchezza, (aveva perfino del vino buonissimo), nostalgico, desideroso di
amicizia, di comunicazione…. insomma di essere miracolato con la presenza di almeno un
discepolo.
A proposito, per tutto il tempo ed anche all’indomani, scherzosamente o seriamente, Iosif ci ha
corteggiati in tutte le maniere perché almeno uno di noi rimanesse con lui per sempre; per esempio
Gigi Locchi, l’italiano più giovane e più biondo… che con un po’ di barbetta e con una tonaca
perfettamente sproporzionata sarebbe diventato il suo vantato discepolo.
Ancora oggi mi chiedo perché nessuno di tutti quei giovani novizi, greci o non greci, vaganti sul
Santo Monte, non si sarà fermato nella sua kellia ultra ospitale… e perché un vecchio così generoso
e comunicativo sarà stato lasciato a vivere tutto solo e rattristato dalle debolezze…. Iosif è stato il
massimo di simpatia che ho trovato sul Monte... Credo che sia l’unica persona della cui sorte ho
sofferto, nel momento della separazione.
Mi fa dormire nella camera d’onore, dello “iereus”, come l’altra volta. Nel suo letto, grande e
pomposo, ho controllato il mio stato post-operatorio. Magnifico, l’operazione non mi tormenta. Il
giorno dopo, riposati ed euforici, scattiamo come per dovere le foto più comiche di tutto il viaggio:
noi tutti, con Iosif o a turno, vestiti con le tonache dell’Athos: da novizi, da frati, da preti. Sergiu
vuole la foto con la camilafca di Iosif. Iosif non s’infastidisce, perché tiene stretto Luigi, che si
sogna come successore.
Ma questo giorno, il 2 settembre è domenica; Celebriamo, dunque, la Liturghia greca, solenne,
nella sua bellissima chiesa. Iosif, tutto felice per un regalo simile, ( non credo che sarebbe andato a
Messa, quel giorno, altrove), fa il cantore e lo fa bene, sa quasi tutto a memoria. Noi cantiamo in
greco, romeno e italiano; e adoperiamo vasi sacri e paramenti da tempo messi nel museo. Non ho un
294

granché di barba, ma per Iosif va benissimo. Gigi concelebra solo con l’epitrachilion. Gli altri
partecipano devotamente ( sic!).
Sono da vedere ed ammirare le foto durante la Messa. Iosif bacia il Santo Vangelo nelle mie mani e
poi anche la mia mano sacerdotale. Voglio mettergli il calice sopra la testa, come in Romania, ma
Iosif non conosce questo gesto. Bacia la mano a Gigi mentre prende l’anafora. Tutti sembriamo
abitanti eterni del Santo Monte.
Mentre ci prepara il pranzo, Iosif canta, anzi, canta per noi. Non più inni sacri, bensì
romanze e tanghi della sua giovinezza. Lo registro con una sua romanza e con l’inno di
Sant’Andrea, mentre ci spiega perché si chiama Andreothis. Senza sapere che il suo nome è
omonimo del presidente del Consiglio, passato o futuro, dell’Italia, il grande onorevole Andreotti,
che in quell’epoca stimavo, oggi, (2009), molto meno.
Fuori, paesaggi di sogno. Le foto non mostrano nulla a confronto. Più triste è che i romeni
vari che avevamo conosciuto 2 anni prima si erano dispersi. Fra Ioan, diventato Ioanichios è andato
a Gerusalemme, come si sognava. Ma i regali erano quasi tutti per lui: album, cartoline, immagini
sacre diverse da quelle dell’Athos, ecc….
Lasciamo alcuni ricordi a Iosif, che, commosso, mi scrive il suo indirizzo in greco: ”Kelliou
Aghiou Andreas, Provata, Aghiou Ora, Athos.” Questo perché ho promesso anche a lui le nostre
foto e qualche album con Roma o Venezia, che si sognava.
Dopo il ricco pranzo, il buon Iosif ci vuole accompagnare alla Provata dei romeni, per
rivedere gli amici, fra Nectario, Athanasio, Martinian, Iulian e Iosif.
Tutti questi frati romeni, più Vissarion di Cucuvino, oggi con Martinian in casa, non hanno avuto
Eucaristia, perché mancava loro la prescura.232 (Ed hanno un pane fatto in casa purissimo! Ma
questo si chiama scrupolo). Fra Iulian serve in obbedienza Vissarion, il monaco cieco che, a sua
volta, ha servito fino alla fine un altro monaco cieco, senza aprire bocca, cioè senza permettersi mai
di fargli notare un minimo disappunto. Anche quando il povero vecchio confondendo la scala col
cesso si libera sui gradini, due tre volte al giorno, ebbene, Iulian lava tutti i giorni, più volte, la
lunga scala, senza un mormorìo. Era, questa, ed altro, l’obbedienza con la quale Julian sperava di
salvarsi l’anima.
-Nessun rimprovero al vecchio, il vecchio è sacro.
Ci ha commossi. E ne ho imparato la lezione, tentando, poi, di applicarla, con tutti i miei Vecchi
rimasti in vita, della mia famiglia e degli amici. Mi ha commosso fino alle lacrime l’opera
magnifica di Iulian, che compiva e raccontava col massimo di naturalezza. Soprattutto perché ho

232
Pane adatto per la S. Messa, con la Croce ed i simboli sacri vi scolpiti. ( rom).
295

pensato alla mia nonna adorata, la Mami, Maria C. Popian, che, pur comportandosi in modo
perfetto, come una vera giovane, sentiva da me rimproveri assai penosi.
Da Padre Nicodim Dimulescu apprendo appena il 19 novembre, 2005, il finale della storia
fra Padre Vissarion ed il discepolo. I risparmi di Vissarion -si sapeva e lui lo diceva- erano assai
importanti e crescevano di giorno in giorno. Ma lui rimandava sempre di rivelare al discepolo dove
se li nascondeva.
Perfino nell’agonia, il povero vecchio non glielo diceva, anche se il discepolo, non tanto per
cupidigia, quanto per buon senso, lo implorava di dirgli dove si trovavano, perché, se il vecchio se
ne fosse andato nei campi elisi, il denaro, tanto utile per ristrutturare casa e chiesa si sarebbe
perduto per sempre. Il monaco ripeteva: “te lo dirò, te lo dirò”: ma quando lo disse davvero, stava
morendo e non se ne è capito nulla. Così fu sepolto insieme con il suo segreto ed il discepolo non
cavò un ragno da un buco. No, non giudicate un vecchio che non si fida di un discepolo, fino
all’ultimo momento. Immaginate che il padre aspettasse la visita di un superiore o di un vescovo
santo, più fidato; che non è mai venuto a curare la pecorella malata. Immaginate che il confessore
non trovava il discepolo all’altezza di un simile risparmio. O che lo ha messo alla prova. O che
considerasse che faceva tutto quel sacrificio per il denaro. Ecc.Ecc. Mai giudicare e mai condannare
i casi segreti e delicati.
Qualche anno più tardi, però, quando il giovane monaco si decise a restaurare la cella del vecchio
Padre confessore, per trasferirvisi laddentro, mentre sistemava la stanza, gli sembrò di osservare un
buco vero nel pavimento. Incuriosito, si mise a togliere il pezzo di tavola imputridita che copriva
vari giornali vecchi, sotto i quali il felicissimo successore di Crusoe trovo un vero maloppo: era
tutto il risparmio del suo padre spirituale, un vero tesoro formato da galletti e napoleoni d’oro.
Come vediamo, i padri non bevono sempre acqua dal palmo della mano, perché i danari sono
sempre il secondo sangue. Non direte ora che il denaro è l’occhio del diavolo, che è sottile come
individuo e fila grosso; e qualche volta quando è vecchio, si fa romita. Ma non è riuscito ad
imbrogliare i frati in questione. Con tutta la gioia e soprattutto l’opportunità di conservare tutto per
se e darsi alla vita allegra, fra Iulian si mostrò un vero uomo di Dio: andò di corsa al convento
romeno di Prodromou, a dire tutto ai Padri. Offrì loro metà del denaro, mentre con l’altra metà si
mise a ristrutturare il convento di Coucouvino in decadenza e compì altre innumerevoli opere
buone. Con il suo denaro, i monaci di Prodromou aprirono una strada dal convento fino al porto,
benedicendo la prodigalità del vecchio e l’onestà del discepolo.
Questa è una storia vera, fra tante, edificanti, in Athos. Io mi sento onorato e felice di aver
conosciuto un essere come fra Iulian e di aver imparato da lui più che da tutte le università da me
frequentate.
296

Mi rimangono le registrazioni, come testimonianza luminosa delle lunghe conversazioni


piene di spirito e di saggezza avute con questi frati; non dimentico l’umiltà gioiosa con la quale
hanno ricevuto i nostri pochissimi regali.
Fra Martinian, come nel 1977, nel nostro primo viaggio a Prodromou, si mostrò più
disponibile e più scaltro di tutti nel guidarci di qua e di là, per farci scoprire nuove sorprese. Ci
accompagnò a Katafighi ed a Coucouvino, per pregare e fotografare in un altra chiesa, piccola, ma
splendidamente adornata. Poi, si offrì lui stesso di mostrarci la strada verso il prossimo monastero,
il Filotheou, per non rischiare di perderci e non arrivarvi prima del tramonto.
La più tenera separazione fu quella da fra Iosif, che quasi piangeva. No, nessun quasi. Ma da lui ho
imparato come vincere le lacrime: cantando romanze e preghiere, come fece lui, mentre ci
concedevamo, con promessa di scrivere, mandare foto, album e soprattutto ritornare e rimanervi….
Avemmo la consolazione di incontrarlo ancora una volta, il giorno dopo, nel nostro viaggio verso
Filotheou, sulla strada, mentre accompagnava dei turisti tedeschi. Il registratore è testimone
dell’intensità delle nostre esclamazioni nei suoi riguardi.
Poi il viaggio ritornò ad essere lo stesso di sempre: per pedes apostolorum, affrontando la
foresta, le valli, i rami lussureggianti, il tramonto, la mia ferita. In compagnia di fra Nectarie e di
Fra Martinian, che obblighiamo a parlare di continuo per svelarci quanti più dettagli sulla vita, sulla
liturgia, sui pensieri dei monaci.
-Porti nostalgie forti, fra Martinian? oso io. Per esempio della Romania.
-Si, certo, ho nostalgia dei monasteri e di alcuni padri e amici. Non della Romania. Mi dispiace solo
che ho perso il collegamento con alcuni amici dai quali puoi sempre imparare…
-Per esempio?
-Per esempio, di George Bàlan.
-Il musicologo? Il filosofo? Come lo conosci?
- L’ho incontrato presso lo skit del mio noviziato, lo Schija. Quanto ho imparato da lui, nella sua
villa di Sinaia, accanto al discepolo Leonida! Poi ho appresso con tristezza che era diventato
antroposofo. Rimane però una grande anima.
-Frate caro, ma Bàlan è fuggito in Occidente. Ed anche Leonida, che è diventato prete ortodosso e
antroposofo. Una contraddizione che loro vivono allegramente. Ora George sta in Germania, ma ci
ha reso già visita a Roma. Anch’io l’ho conosciuto alle conferenze di musica. Trasmettili un
messaggio registrato, ecco qui, il registratore.
Grande fu la gioia di Fra Martinian di comunicare per via orale con il suo amico, dal quale, come
me, avrà imparato tanti segreti su Mozart, Bach o Wagner. Ed il quale, dopo una vita di alta
filosofia, sembra abbia preso una strada assai strana. Ma che importa? Noi lo stimiamo ugualmente
297

e preghiamo per lui. Lo dico oggi a distanza di decenni, con le stesse parole di fra Martinian, che
era innamorato come me, (in Athos, però!) dei paesaggi simili ai Carpazi e della Musica di Bach .

Da lontano, brilla lo Stavronikita, con il suo santo Nicola solcato da una scure nemica. Non
arriviamo a Lakou, dove avrei voluto rivedere la più grande delle chiese romene dell’Athos, la San
Demetrio e salutare Padre Negara. Sul fatto della sera raggiungiamo però il quinto luogo sacro del
nostro secondo viaggio: Filotheou. Ci siamo smarriti, abbiamo speso più ore del normale, anche se
la strada maestra mostrataci da fra Martinian sembrava assai battuta. Poi, i lumi si andavano
avvicinando, i ragazzi italiani, assai provati, non tanto per la fatica del viaggio, quanto per tutta
quella romenità che non capivano, si sono incuorati. Noi traducevamo per loro, rivelando solamente
degli sprazzi di realtà, il cui fondo restava misterioso. E poi, ohimé, tutta quella folta vegetazione,
guardata con lacrime, che ricordava le valli perdute della mia Oltenia lontana!

5.FILOTHEOU

Siamo entrati in un monastero organizzato esattamente come piace a tutte le persone per
bene, amanti delle regole e della disciplina, in cui nulla si perde e ciascuna cosa trova il suo posto
naturale. Regola cenobitica, regola comunitaria, che in quelli anni si imponeva solo qui ed in altre
due o tre conventi; mentre ora, dopo il 2000, dicesi, è diventata magnifica regola generale del Sacro
Monte, la realizzazione di un piano pensato già d’allora. Da questo punto di vista sono felicissimo
aver visto la Sacra Montagna in quelli anni, in cui il perfettissimo Filotheou mi è piaciuto meno di
tutti gli altri, proprio perché perfettissimo.
State a vedere ciò che ci è sucesso in questa perfezione: non abbiamo finito neppure di
salutare ed i due- tre frati addetti all’accoglienza ci hanno separato già, senza la possibilità di
rivederci fino al giorno dopo; Gigi è stato subito accolto come “iereus”, con deferenza sacra, bacio
della mano e separazione dalla folta folla dei mortali; non solo perché indossava la tonaca, ( la quale
ha incredibilmente funzionato: l’hanno presa per “romena ortodossa”, prendendoci in parola) ma
soprattutto per la lunga barba, davvero ortodossa. Ricevuto, dunque, con tutti gli onori. Noialtri,
senza barbe serie, e senza tonache ( non l’ho indossata apposta, per timore di rappresaglie; ad ogni
modo, senza barba non avrebbe funzionato); inviati con i laici, nel dormitorio, cattegoria 2. Gigi
sembrava molto orgolioso, mostrandosi perfino distante per questa inattesa onoratezza. Ma era tutta
un’ironia. Sergiu ironizzava come sempre, a modo suo.
Il giorno dopo me ne sono vendicato a modo mio: ho scattato a Gigi una fotografia davanti
all’ingresso, tutto assorto, si fa per dire, nella meditazione delle energie non create emanate sul
monastero.
298

Ho fotografato anche dentro, nella chiesa, davvero stupenda, e non so come mi sono salvato
dall’occhio vigile del monaco ekklesiastikos, in genere intollerante. Policandro 233rotondo, come in
molte parti dell’Athos. Le icone, passate sicuramente per mani romene. Ripercorriamo perciò anche
qui, la storia e la cronaca delle cose e degli uomini.

LA STORIA DEL MONASTERO E DEI SUOI FONDATORI

Questo luogo sacro, a 2 ore da Karyé e un ora da Iviron, è nascosto in mezzo a una
vegetazione lussureggiante, che tuttavia non impedisce, data la sua elevazione, (533 m.) una
splendida vista sul mare. Ha il suo porto sulla sponda orientale, ma dista alquanto da essa. Chi ci
va, rimane affascinato: -è la regione più bella della Sacra Montagna- e qui penso di esserne
d’accordo con il giovane prete Ioan, nipote dell’amico, Padre Nicodim, pellegrini abituali in questi
luoghi.
Anche questo monastero era, prima, idioritmico, dedicato all'Annunciazione della Vergine,
(la Festa del 25 marzo). Divenne a statuto cenobitico dal 1973, quando alcune giovani vocazioni di
intellettuali decisero di organizzare una specie di vita comunitaria modello, con preoccupazioni
teologiche. I risultati vi si vedranno, anzi, io glien’ ho già intravvisti e sono ritornato alla mia
vecchia idea: meglio idioritmico. E, meglio senza intellettuali.
Dicono che anche questo convento fu istituito da San Costantino il Grande, del 323. Però,
verso il 870, un monaco, Filotheo, sembra aver costruito un piccolo monastero sulle rovine, da cui
il nome.
A meno che non si tratti di una confusione; nel 990-92 la tradizione notò di nuovo, qui, un
kellion abitato da tre fratelli: Arsenio, Filotheo e Dionisio. E, siccome l’esistenza documentata
dell’insediamento è del 1015, non si sa quale dei due Filotheo è storico.
Nel 1078 l’Imperatore, (usurpatore), Niceforo III Botaniatis, (1078-81), pur se per poco sul
Trono, fece in tempo a restaurare il monastero, a estenderlo ed a colmarlo di tesori. Per diventare
imperatore, si era alleato coi turchi pagani, offrendo loro regioni dell’Anatolia e facendo cavare gli
occhi al rivale, il generale Bryennio. Si vede che né i doni accordati ai monasteri, né la propria
vecchiaia non gli fornirono indulgenza plenaria davanti a Dio. Il ventiquattrenne comandante,
l’intrepido e temerario, Alèxis Comneno, (1081-1118), lo fece rinchiudere in un convento,
proclamandosi imperatore. La cronaca dei fatti è bizantinamente più pittoresca. Alexis fu un
comandante vittorioso già all’età di 14 anni; e la prima che si innamorò (segretamente) di lui fu
l’Imperatrice, vedova di Michele Dukas, Maria d’Alania, che, per restare sul trono e per conferire
il diritto a un usurpatore di diventare Basileo, si era sposato il Botaniatis. Immaginiamo come aveva
233
Candelabro pomposo, ( gr. e rom.)
299

mal sopportato nel suo letto matrimoniale, questo anziano, di sufficienti decenni più vecchio di lei.
Così, quando il giovane Alessio ( in originale non addolcito, Alexis), scatenò la rivolta contro il
vecchio, lei gli fu complice (e amante?) diretta. Alexis fu coronato Basileo nel giorno di Pasqua, il
4 aprile, 1081. Era però sposato con Irene Dukas, che, nel momento dell’incoronazione non
riconobbe più come moglie. La offese pubblicamente, non volendo, in nessun modo, farla
incoronare con lui. (Fu chiaro, così, a tutti, il disegno segreto di tenersi la vecchia Basilea che, per
puro calcolo-sentimentale- lo aveva trasformato in figlio adottivo). Alla fine il Patriarca trionfò,
minacciando il giovane con la morale cristiana. Alexis rimase con Irene, ma non disprezzò la ancora
giovane Maria d’Alania. Fu organizzata una seconda incoronazione, che non annullò la prima.
Alexis salì sul Trono, circondato da due imperatrici: madre (adottiva) e moglie. Questo, di giorno, si
capisce. Di notte? Non facciamo illazioni arbitrarie: i giovani sposi ebbero insieme nove figli. Ma
chi lo sa ? Proprio questa prodezza è una mirabile copertura per un giovane Basileo di convivere
more uxorio con due imperatrici. Lo vogliamo giudicare? La nostra epoca (del 2000) ispira ad ogni
ragazzo, (non imperatore) l’ideale di raggiungere il numero delle concubine del re Salomone. E
viceversa. Inoltre, Alexis si sarà immaginato che per queste opere buone, più per qualche drappo
regalato ai monasteri, sarà aiutato da Dio a ricuperare alcune terre perdute dell’Impero…. Costruì
un vasto ospedale, moderno per quei tempi, sul posto dell’attuale Topkapì. E dopo un lungo regno
morì soddisfatto per aver fondato una dinastia, malgrado tutte le inimicizie e le incomprensioni
specifiche della vita bizantina.
Insomma: contemplando l’Athos, è quasi un obbligo ricordarsi di tutti questi titani
dell’antico mondo cristiano, che, toccando con una mano la spada e con un’altra i seni delle loro
ispiratrici, tenevano sempre un occhio vigile e benevolente sui Luoghi Santi.

MONASTERO GRECO, POI BULGARO, POI DI NUOVO GRECO.

Nel 1492, quando Cristoforo Colombo scopriva l’America, il re georgiano, Leontio, in


piena occupazione turca, mandava ingegneri ed operai a Filotheou a costruire il grande refettorio,
che ancora ammiriamo.
Per evidente necessità, i vari egumeni misero le mani a restaurare, ora la chiesa, ora gli
edifici. Il risultato ne fu imbarazzante, almeno dal punto di vista estetico. Si aggiunse a questo,
l’arrivo dei monaci slavi che trasformarono il monastero in un vero convento bulgaro. I greci
videro in questo l’origine di tutti i mali di Filotheou. Decisero dunque di ri-grecizzarlo. Ma come
fare? Non erano più in grado di controllare la situazione come nei tempi dell’Impero Bizantino.
300

Diciamo che la sorte venne loro in aiuto. Apparve colui che sarebbe diventato San Dionigi di
Olimpo.
Nato in Tessaglia, intorno al 1500, da famiglia povera, finì alle Meteore, poi a Prothaton
dove prese i voti e fu ordinato sacerdote. Dal 1519 condusse una vita ascetica in una cella della skiti
del monastero di Karakalou, nei pressi di cui costruì una piccola chiesa dedicata alla Santissima
Trinità. Durante una visita a Gerusalemme, si mostrò esperto di teologia, liturgia e di vita devota, al
punto che il patriarca Dositeo ( un altra capoccia) gli espresse il desiderio di tenerlo con sé per far di
lui il suo successore. Ed egli rifiutò. Incredibile, ma vero. Tornato ad Athos, diventò egumeno di
Filotheou, trasformandone l’ordine interno: da bulgaro in greco.
Infatti, dal XIVesimo al XVIesimo secolo, il monastero fu popolato in prevalenza da monaci
bulgari, ( ma puodarsi che fossero anche romeni, confusi con gli slavi, perché celebravano in slavo).
Per loro si affrettarono a intervenire anche qui i sovrani del Nord. Come sappiamo da altre
esperienze, i greci, a ragione o a torto, mal sopportavano questi barbari che rimpiazzavano il greco
dei Santi Padri con lingue confuse e misere. A questo si aggiunsero motivi disciplinari e San
Dionigi, genio di disciplina, mise mano forte e grecizzò il convento.
(Non voglio essere cattivo, ma non è impossibile che, anche in questo caso, i “bulgari”
fossero in realtà vlacchi ubriaconi, che, ieri come oggi, facevano a gara con gli slavi nello
spiritualizzarsi con grappa dalle prime ore del mattino. Ci immaginiamo che tipo di liturgie
celebravano, dopo tanta ispirazione. I greci, i latini, per mediteranietà, più che per motivi razziali,
non sono capaci neppure oggi di ubriacarsi in massa. I romeni, fra i latini, ne fanno dolce eccezione,
per cui San Dionigi, comprendendo che il dio Dioniso era uno scolaretto in materia, rispetto ai
nordici, passò ai fatti, preferendo i greci. Forse per questo, la Chiesa greca lo canonizzò; di sicuro,
questo Dionigi non ci sarà nel calendario bulgaro).
Non immaginiamoci, però, che se la passò liscia. Fu minacciato di morte: da chi, se non da monaci
seri e devoti? E dovette fuggire. L’avrebbero davvero ucciso, se non si fosse rifugiato in tempo in
uno skit della città di Veria. Trascorse il resto della sua vita fondando monasteri un po’ dovunque,
insegnando e portando avanti una vita davvero santa. Ma tutta, fuori dal Monte Athos.

ANCHE QUI I ROMENI

Il primo rapporto di Filotheou coi romeni è attestato nei tempi di Vlad Tzepesci,
cominciando dal 1457, da quando il grande impallatore ( e falso Dracula), donò a Filotheou 4.300
aspri all’anno, (una somma favolosa, forse tolta ai boieri ed ai turchi che impallava, per esempio,
2000 osmanlìi in un giorno solo, dopo di ché aveva imbandito la mensa nel bel mezzo della selva di
301

torturati che urlavano, mentre lui beveva alla salute del Pascià, infisso, per onore, in un palo alto il
doppio degli altri). Aggiunse 3000 aspri, per i viaggi dei monaci. Lo imitò e seguì, nelle offerte, il
fratello, Vlad il Monaco, dopo il 1497. Di nuovo il mio “parente”.
Da queste parti passò, per andare ad Argesci, nella Terra Romena, il famoso Gavriil il
Protul, che, ritornando dalla festa, venne con le braccia piene di denaro e regali per tutti i
monasteri, incluso Filotheou.
Nel 1734, intervengono, a concorrenza, il Domn Grigore Ghica da Bucarest e Constantin
Mavrocordat dalla Moldavia, (il quale offrì 6.600 aspri all’anno, a condizione che i monaci
portassero in pellegrinaggio in Moldavia la cassa con la mano di San Giovanni il Crisostomo, per la
benedizione dei romeni); e vari altri Domni fino a Cuza, nel 1859, quando il rubinetto romeno si è
fermato.
Nel refettorio possiamo ancora ammirare gli affreschi della scuola cretese, del 1746,
mentre quelli del katholikon, ristrutturato nel 1752, sono posteriori e senza grazia. In compenso,
nella chiesa principale possiamo venerare l'icona della Glykofilousa, la “Madonna del dolce amore
o del dolce bacio", dipinta forse del secolo VIII, le cui copie sono assai diffuse nel mondo
ortodosso.
Nel 1871, tutte le celle dei monaci furono distrutte da un incendio che, tuttavia, risparmiò il
katholikon e gli edifici centrali. Le ricostruzioni attuali datano da quell'epoca.
La biblioteca è ricchissima, però più per gli oltre 20.000 libri stampati, mentre i 250
manoscritti che custodisce (54 su pergamena, uno romeno del 1837) sono meno preziosi che in altri
monasteri.

MA I MONACI TEOLOGI?

Ho detto, anzi, loro stessi lo dicono, che, dal 1973, il monastero Filotheou “è al centro di un
risveglio della vita cenobitica tra i giovani e gli intellettuali”. Probabilmente questo è vero, se a me
è bastata una sera, per poter leggere nel volto dei giovani monaci tutti i frutti di questo malaugurato
risveglio. O, meglio, trascrivo qui ciò che mi viene per la mente, mentro penso ai volti di quei
giovani monaci: la cristalizzazione del risultato dell’involuzione dell’umanità, sezione bizantina:
scendono verso un modo di pensare e di fare, settario, soggettivo, ristrettissimo, che concentra tutta
la pochezza dell’anima e tutta l’aggressività e l’antipatia contro i mondi da sempre odiati. Il
fenomeno è identico nell’islam, nell’ebraismo, e perfino nel cattolicesimo, a tutti i livelli. Ecco
perché possiamo usare tranquillamente il termine famigerato, che si è imposto all’inizio del terzo
millennio: talebani. Tornano alle forme che i nostri padri hanno tentato di debellare, di riformare, di
302

pulire. I modernisti cattolici ritornano sempre più modernisti, proprio perché erano stati condannati
e vinti. I musulmani, idem, dopo il mal riuscito tentativo di Ataturk et &. di laicizzarli. I
tradizionalisti cattolici, spinti dall’odio dei neo-modernisti si dirigono verso la tana del passato,
rifiutando ogni riforma. Ibidem gli ebrei osservanti, perfino i comunisti ed i massoni. Si risveglia la
parte più brutta di tutte queste anime che si industriano a riempire il mondo di pamfleti sugli altri, e
di apologie e favole su se stessi. Così i monaci athoniti eliminano oggi tutto ciò che la Chiesa greca
aveva imparato di sano e di ordinato nel secolo XIX e l’inizio del XX-esimo dall’Occidente
cattolico e protestante. Ritornano a quella confusione fra ascetica e mistica, fra morale e sofisma,
fra creato e non creato specifica all’anima orientale, che l’antico pensiero greco e la rivelazione
cristiana erano riusciti a correggere. Ora i frati dell’Athos scrivono anche teologia, nella quale si
semina tutto questo con incredibile spavalderia e mancanza di humour. Sarebbe stato meglio se ne
fossero rimasti analfabeti.
Scommetto che, chi legge, pensa che esageri. Ma il sentimento da me provato lo ha intuito
prima di me il diplomatico viaggiatore serbo Iovan Ducici negli anni’30, quando, studiando
l’atteggiamento dei giovani monaci greci di allora scriveva: “I giovani monaci ci servirono fichi,
caffè, tabacco e vino. In fondo avevano più aspetto di haiduki che di uomini di preghiera. Ridevano
di ciò che essi stessi dicevano e se ne stupivano. Gente antropofaga e sprofondata in una fossa
inenarrabile. Non esiste presso di loro scienza, ma solo cerimonie, né vita, ma solo penitenza. Una
penitenza per qualcosa che non hanno vissuto né capito, per i peccati degli altri, non per i propri.
Questi monaci vivono di preghiera e di pestaggi reciproci. A differenza dei monaci cattolici che
conoscono i versi di Orazio, di Catullo, di Properzio per la bella Cinzia, che ripetono più
dolcemente dei salmi del re Davide, per questi monaci greci la vita eterna comincia laddove finisce
la loro balordaggine smisurata di questo mondo.”234
Frasi dure, durissime, che ho letto decenni dopo aver provato gli stessi sentimenti di questo serbo di
fronte ai monaci teologi di Filotheou o di Grigoriou, nel Santo Monte.
La prova di tutto questo ce la da questo francese dell’Ordine di Foucauld, che vuole passare
all’Ortodossia, ma intanto dice a tutti che è cattolico e così non ha accesso in nessun convento. Lo
abbiamo incontrato qui e, come di regola, mi sono intrattenuto assai con lui, en francais, senza
troppe censure. Ed aggiungendo un po’ di afa al respiro dei miei amici.
-Je veux passer, j’y veux passer, ripeteva incantato e perplesso.
- Lo lasci passare, Padre, intervene il giovane Vincenzo. Quando se ne stuferà, ritornerà indietro. La
Chiesa Cattolica non lo ribattezzerà.

234
Dalla “Lettera dal Mare Ionico”, “Città e Imere”, di Iovan Ducici, trad. romena, Bucarest, 1939, pag 159-161.
303

…Ma non tutto è sottomesso alle regole talebane; né ai versi di Aretino. Scoviamo le tracce
di santità e ne troviamo magnifici modelli di vita, fra i monaci santi.

MONACI SANTI:

Nella cella con la chiesetta dedicata alla Presentazione della Madonna al Tempio, vicina a
Filotheou, viveva Padre Agostino, a cui è apparso il diavolo, durante la preghiera, in forma di cane
arrabbiato. Il monaco lo ha colpito con passione. Ma, dopo averlo fatto, si sentì dispiaciuto, ed è
andato a confessarsi, pentito di aver usato violenza, anche se si trattava del Nemico. Il confessore di
Provata gli ha detto di farsi la Comunione, il giorno dopo. Felicissimo, lui si è avvicinato al Santo
Corpo del Signore. Ebbene, miracolo: vide nel cucchiaino Carne e Sangue vero. Superando il primo
chok, inghiottì tutto e fu preso da una gioia divina, accompagnata da lacrime di estasi. ….C’è da
dire che, nel Monte Athos, i miracoli eucaristici, nel senso della trasformazione eucaristica rivelata,
sono assai frequenti, come nell’Italia di una volta, prendendo, dunque, la forma vera di Carne e
Sangue divino, vincendo le apparenze, per la certezza dei Padri.235
Intanto, se, nell’usare violenza contro il diavolo, i monaci provano scrupolo, presi come
sono da amore universale per tutte le creature, inclusi i diavoli, non succede la stessa cosa se si
tratta di monaci non greci o di turchi invasori… nei riguardi di cui, il disprezzo e l’animosità, in
molti, sono qualità assolute. Di questo, però, mi riservo a raccontare più tardi.

DIARIO A FILOTHEOU

Eccellente il programma di preghiera e delle celebrazioni che non vogliamo perdere. Dalle
3/40, fino alle 7: Mattutino, Ore, Cerimonie dei Santi, inni. Primitivo, non sofisticato come presso i
romeni o gli slavi. Ma è un bene. Purtroppo, siamo stanchi per la mancanza di sonno e per la lunga
camminata. Ma vi resistiamo, ne vale la pena.
I frati si erano alzati all’1. Abbiamo sentito la toaca nel sogno. Secondo la regola, alle 2 si
radunano tutti e si da la benedizione per l’ortros, seguita da tutte le altre ore, culminando con la
Messa. Dopo l’Axion della Madonna, i cuochi escono dalla Messa per preparare la mensa nella
trapesis, dove si legge lettura spirituale. Non vi si entra più durante. A tavola hai tutto davanti, non
si servono i pasti come nelle mense comuni. Dopo mangiato, si recita una lunga preghiera. Rischi
di ingoiarti anche una lunga predica, necessaria per la digestione.

235

?
Vedi anche questo episodio in S. Anagnostopoulos, op. cit.pag.424ss.
304

Fra Nectarie ce lo aveva detto:


-A Megali Lavra si fanno 15-16 ore di veglia, ed anche a Filotheou, non poca cosa come
nei monasteri romeni. E vi partecipano tutti, non solo alcuni. Ed il Metropolita si mescola coi
cantori, non si da arie. Tutto si fa insieme nell’armonia, anche quando si entra e si esce, il saluto ed
il baciamano del Vescovo, l’inizio come pure la fine del lavoro, l’andare in cella a file come i raggi
di sole, la giornata programmata in modo armonioso. Da noi non è così bello.
Abbiamo capito. Lo splendore della vita cenobitica sarebbe nel viverla come un rito
continuo, come una sacra rappresentazione, in cui tu sei attore di te stesso e vivi in funzione della
comunità. Tutta un’ armonia delle parti, tutta una precisione di una simfonia (di Beethoven?), tutta
un’imitazione della Liturgia del Cielo, non quella vera, bensì quella da noi stessi immaginata.
Bellissimo. Perciò fra Nectarie che tanto bramava e lodava questa vita, stava lì sopra a Cucuvino,
quasi da solo, vivendo più nel sogno o nell’immaginazione gli splendori della vita comunitaria, tutta
una liturgia perfetta, imitazione di quella del cielo.

Lunedì, 3 settembre.
Ci offrono halvà e un thé strano; ma di lunedì, il pranzo è per i soli sacerdoti; e secondo la
regola, di lunedì, l’olio manca. Lo danno solo agli ospiti. I monaci se lo mettono davanti, ma non lo
toccano. Ancora una volta ho fatto il laico. Insomma, “mangia poco e bevi meno, a lussuria poni
freno”.
Il superiore ha una voce piacevole e sdolcinata. Tratta tutti bene, ma noi che non abbiamo
barba seria siamo di seconda cattegoria, anche nei suoi occhi; chiaro che la simpatia non basta. Non
posso concelebrare ai Vespri, come Gigi, per esempio, perché mi manca il celebret chiamato barba.
Resto dunque, coi “laici”. E, quando ce ne siamo edificati abbastanza, quando ho tradotto ai due
studenti amici tutto ciò che era possibile tradurre, (e gli aspetti più importanti sono intraducibili!)
andiamo via da Filotheou, contenti comunque dell’accoglienza gentile fatta a dei teologhi roumani,
( non c’era traccia, in noi, di cattolicesimo!). Impressionante, di certo, il canto ordinato e giovanile
dei cori che eseguivano, secondo tutte le regole, la splendida, per quanto curiosa, musica psaltica
bizantina, alla greca.
Più certo, però, il dover celebrare la “nostra “ Messa, italiana e cattolica, in qualche altro
posto, nella foresta, possibilmente. Come, infatti, lo abbiamo fatto con devozione raddoppiata.
Ahi, dimenticavo: all’uscita, ci imbattiamo nel nostro nuovo amico francese dell’ordine di
Foucauld, quello che voleva passare all’ortodossia, (il quale, dicendo a tutti che era cattolico, non
vide neppure da lontano l’altare di qualche chiesa). Inutile per lui tentare di ficcarsi in mezzo alla
folla dei frati. La sua tonaca era troppo evidente, la sua barba troppo diversa, aveva perso l’appetito,
305

era disperato, preso dal panico, quasi piangeva. La sua sorte era simile a quella del diacono tedesco,
sorte che sopportava con più accoramento, perché, a differenza del tedesco, (solamente) ecumenico,
lui si considerava già ortodosso, cioè anti-cattolico, ( era, questo, il primo distintivo di fede giusta,
simile all’antifascismo in Occidente). Era patetico, ciò che aumentava la nostra ilarità, italo-romena.
A parte che ridere di un francese ti dà un orgasmo superiore. Lo abbordo finalmente, morendo dalle
risate, dopo che l’ho lasciato bollire nel suo brodo per due giorni, non per altro, ma i miei mi
avevano avvertito di non ricominciare un'altra storia, proprio ora che ci trovavamo con la coda di
paglia, leggi la presenza dei due italiani eretici .
-Lasciatemi salvare questo illuso, volete che impazzisca?
Aveva ricevuto la risposta chiara, o almeno come l’aveva capita lui: se voleva diventare ortodosso,
doveva cominciare il catecumenato, con un percorso lungo e difficile, cominciando dai documenti
che non aveva, per potersi fermare a lungo in Athos, passando per l’esame dei Capi di Karyè,
Simon Petra o Grigoriou, con tutti i giuramenti, anatemi e le abiure di rigore. Culminate col
battesimo valido (sic!). No, non ce la faceva e doveva tornare a casa per momento o almeno da
qualche consolato francese o da qualche amico di Salonicco. Ho capito: gli ho dato 20.000 lire per
raggiungere la città ed ho finito con lui più o meno così:
- E, per il passaggio all’ortodossia, prima devi passare il ponte della Senna, da Notre Dame
al Quartiere Latino. Solo dopo, vedrai…
Mi ha guardato perplesso, e mi ha ringraziato de tout coeur per l’inatteso aiuto.

6. IL VUOTO DI KARAKALOU

Dalla registrazione della lunga discussione con i miei amici, in un romeno che ha esasperato
i poveri giovani pugliesi, si capisce che l’atmosfera fra noi era leggermente tesa; non mi ricordo se
a causa del francese in via di conversione o per qualche altro disappunto in mezzo ai frati teologi.
Intanto rivisitiamo Karakalou dove ci fermiamo anche per la notte. Dopo il pranzo, servito con
deferenza, ma senza le formalità del monastero degli intelletuali, ci godiamo gli splendori sacri che
conoscevamo già, assistiamo alle cerimonie e poi, dopo cena, ci facciamo accompagnare ai
dormitori. E sono sopravissuto per provare una sensazione sconosciuta, proprio in questo convento
piccolo, col precipizio sotto, le cui stanze da letto sono anch’esse sospese far il cielo e l’abisso. Le
latrine sono delle semplici camerette isolate in alto, dal cui traforo, adatto per i bisogni, puoi goderti
il paesaggio del vuoto sopra il quale ti sei avventurato di salire. Attento, la cacca scende per più di
100 metri, per toccare qualcosa come la terra… ma, per contemplarne la caduta, rischi di sentirti
306

incollata sul viso la carta che il vento rimanda indietro. Tentaci, ne avrai una esperienza più unica
che rara, per cui vale la pena di andarci. Dormiamo lì. Cioè nei dormitori di Karakalou.

UN PARROCO PER LA SVIZZERA

Martedì 4 settembre. Mandiamo avanti due dei nostri, Vincenzo e Sergiu, per salvarli dalla troppa
stanchezza, con un camion che fortunatamente avrebbe raggiunto Karyé; mentre io con Gigi e
Luigi, restiamo a piedi, per attraversare la foresta, un’avventura che consideriamo oramai di nostra
specialità. Ebbene, in realtà, non fu proprio così; ce ne siamo smarriti completamente. Splendido il
viaggio, ma, per ignoranza dei sentieri, abbiamo toccato 6-7 ore di camminata a dirupi, dalle 8 fin
dopo le 14. Foresta, sentieri smarriti anch’essi in mezzo alla vegetazione lussureggiante… ho
perfino fame; mi mangio ogni tipo di erbe ed erbette, perfino funghi di bosco, raccolti durante il
percorso. Ed ai bivii, prego in modo molto originale, domandando al Signore quale sentiero sia il
giusto; e mi pareva di essere chiaroveggente, di capire la voce divina, in questa conversazione fra
Dio e l’ego: “vai, fai questo”. In verità, non ho cominciato questo esercizio dall’inizio del cammino.
Così, trovo la spiegazione di non aver riconosciuto bene quei sentieri da taglialegna che si
perdevano nel nulla… e di essere ritornati a Filotheou. Ciò che voleva dire smarrimento serio, ma
anche semplificazione del problema: da lì a Karyé era tutto più chiaro. E, oltretutto, magnifico, il
paesaggio, l’atmosfera, la preghiera, la fede.
Ci siamo dati appuntamento con gli altri di fronte a un “ristorante” della “città”, dove una porzione
di qualunque piatto costava 50 drachmi.
Sono rassegnato. Se ci fosse stato posto per tutti nel camion, avremmo risparmiato quella giornata
perduta nei boschi ed avremmo visitato un monastero in più. Ma l’affratellamento con la foresta è
stato così naturale, da sentire di esserne diventati fratelli di Croce, come i vecchi haiduci. A tal
punto che preferisco comprare, per 60 drachmi, un kilo di nocciole da fra Daniel, un romeno che
per raccoglierle, avrà perso più ore nel bosco. E, come coronamento di tanto successo apostolico,
non poteva mancare una sorpresa. In uno dei negozi, si avvicina a noi un signore romeno. Era
vestito troppo bene per essere cittadino dell’Athos o della Romania. Infatti, si raccomanda:
-Sono dottor Buzi di Ginevra, fuggito 5 anni fa dalla Romania.
Era venuto in Athos per cercare fra i Padri romeni un parroco per la loro chiesa di Ginevra.
-Ma lì ce l’avete, un parroco.
-Sì, però è mandato dalla Securitate, non vale per noi, gli esuli; e neppure per Sua Maestà il Re,
(esule, anche lui, in Svizzera). Ora noi vogliamo organizzare una parrocchia ortodossa in esilio, non
sottomessa alla Sovrompatriarchia ed al governo comunista.
307

Il nuovo amico ci è piaciuto, ma non gli abbiamo fornito, ugualmente, i dettagli essenziali su di noi;
perciò, capendo che eravamo romani ed anticomunisti, quest’uomo non ci ha lasciato più:
-Se Vossignorie vivono a Roma, almeno uno di Loro potrà diventare un magnifico parroco
ortodosso per la nostra comunità svizzera…….
A me piaceva quest’ avventura, di finire parroco in Svizzera….che poteva durare tre giorni, come il
ballo della Cenerentola. Ma era assurdo, si capisce, loro non volevano un prete cattolico, pur se
orientale, bensì ortodosso puro, la cui parrocchia avrebbe fatto da controaltare al prete spia…. E
poi, in questei arrangiamenti, la Fede è l’ultima cosa. In un attimo mi venne un’ispirazione. E gli
dissi che un parroco glielo abbiamo trovato e glielo manderemo. Così, semplicemente. Come un
giocatore di carte che sfida tutti con un asso che non ha. Ho guardato Sergiu negli occhi e lui aveva
già capito: ma, certo, ce l’abbiamo, eccome! Gigi rideva. I due italiani, a cui avevo spiegato il
trucco, si divertivano in dialetto. Intanto, avevo già escogitato un piano che ho messo in
applicazione non appena arrivati a Roma. Non ci eravamo impelagati, un mese prima,
nell’impossibile storia del teologo Ghitza Ursachi, (fratello del più famoso poeta di Iassi, collega e
amico di Sergiu), il quale, arrivato a Roma con passaporto comprato, era impaziente di chiedere
asilo politico.? Noi eravamo disperati per lui, perché no, non era quella la mossa giusta. I Paesi
liberi aiutavano i profughi, non c’era dubbio, ma ponevano dei veti e delle condizioni così assurde
che, per forza, dovevi usare trucchi ed astuzie continue per far valere un minimo diritto a un
innocente. Le spie che arrivavano regolarmente, forniti di passaporti “dei governi riconosciuti dalla
Repubblica Italiana”ecc., non avevano problemi di sorta: erano e lo sono ancora: accolti, applauditi,
pagati ed ammirati dai loro padroni e dai nemici dei padroni. Ma i fuggiaschi? No, per quest’esule
che lo nascondevamo in casa, senza speranze, non potevamo lasciar perdere una proposta così
ghiotta: la Svizzera. L’abbiamo vista come una Grazia di tutti i Santi dell’Athos e dell’Occidente
insieme. Ma come arrivare in Svizzera? Ebbene, ci si arriva con la preghiera e con l’astuzia, si
capisce; mica esistono altri mezzi regolari. Al nostro uomo, glielo abbiamo detto: “il prete ce
l’abbiamo, è all’altezza, ma stà a Roma, clandestino”.E dottor Buzi, fuggiasco anche lui, come noi,
ed immediato nelle reazioni, ha capito in un colpo d’occhio: “va bene, la frontiera non è un
problema”!.
Mi è piaciuto. Lui e la sua comunità, tutti reazionari incalliti e magnifici nemici del popolo si sono
comportati all’altezza della situazione. Il piano partorito in Athos, lo abbiamo applicato alla lettre,
appena tornati nella Penisola italica. Dopo il rendez-vous con i romeni-svizzeri aldiquà della
frontiera, in Aosta; dopo aver bevuto sufficiente caffè per far passare il tempo fra l’uscita e il
reingresso di lorsignorie nel Paese del cioccolato e delle banche, siamo andati tutti quanti a fare
cerimonie in frontiera per ingannare le guardie e per far “scappare“ in Svizzera il povero futuro-
308

prete. Con una stecca di cioccolato a forma di passaporto, mostrata dal finestrino e con un saluto
truccato, Padre Ghitza Ursachi è passato nel paese dalla Croce bianca ed è diventato parroco
svizzero. Gli hanno fatto giurare obbedienza alla Patriarchia Ecumenica, lo hanno fatto ordinare da
un vescovo greco, altrettanto reazionario, e d’allora, vive ancora oggi in dolce compagnia della
moglie, la pretessa, dei figli e di Sua Maestà, il Re. E, penso, anche di qualche altra persona.
Grazie, grazie Sant’Athanasio, grazie San Gregorio Palamas e tutti i santi palamiti!

Via, presto, arriva la notte, raggiungiamo un altro Sacro Convento del Monte Athos, questo
Monte che ogni giorno ci forniva nuove sorprese e nuovi trucchi.

7.STAVRONIKITA.

È fra Martinian che ci ha spinto a visitarlo, lodandocene il superiore, buono e devoto,


ricercato per i suoi doni spirituali. Ma noi, pur intravvedendolo, non potevamo consultarlo, senza
incorrere in gravi pericoli, non tanto spirituali. Diamo, meglio, la colpa alla lingua greca, che non
sapevamo esprimere adeguatamente.
Il monastero di Stavronikita si raggiunge dopo un ora a piedi da Iviron o da Pantokrator, o,
come abbiamo fatto noi, camminando 7 kilometri, 1 ora-due, da Karyé. Ma se non sai le strade...
Quanto abbiamo allungato, in questo viaggio! Ora, a distanza di anni, ne sono contento: è stato un
felice smarrimento, in mezzo a quelle foreste benedette.
Il monastero, ora, funziona a statuto cenobitico (dal 1968), ed è dedicato (dal 1535) a San
Nicola (Festa il 6 dicembre). Sorge sul versante orientale della penisola e domina le onde, dall'alto
di una roccia, a picco sul mare. Come si vede, nulla è apparso a caso e senza il miglior gusto, qui. Il
nome viene spiegato da alcuni come derivato dai nomi di due eremiti, Stavros e Nikita, che
vivevano nel luogo dove poi fu edificato il monastero. Secondo un'altra tradizione ne sarebbe il
nome del fondatore, Niceforo Stavronikita, ufficiale del Basileo Giovanni I Tzimiskes, (969-76).
Ad ogni modo, chi lo ha fondato, ha iniziato con una semplice cella dedicata alla “Presentazione
della Madonna”, il 21 novembre. Nell’XI-esimo secolo, divenne proprietà del monastero Filothèou,
il cui superiore si decise di aggrandirla a livello di un vero convento. Costui deve aver avuto
audience presso la Corte, perché l’Impero Bizantino, ancora non del tutto disfatto, si fece presente
con la possente torre merlata, per difesa; oggi, ancora, questo magnifico mastio è il vanto del
monastero. Qualcuno spinge tutto verso il XIII-esimo secolo. In questo caso servirebbe un po’ di
Carbone 14 per stabilirne la data.
309

Qualunque sia stata l'origine, la sua storia e quella degli edifici attuali incomincia dal fatto
documentato nel 1533, quando il primo egumeno, Gregorio Geromeriatis, acquistò lo Stavronikita
dal monastero Filotheou con tutto il territorio annesso e lo riedificò, aiutato dal sovrano romeno
Vlad Vintilà, (1532-35) ottenendo dal patriarca Geremia I (1522-1545) nel 1541 il decreto di
istituzione come monastero a pari diritti con gli altri, cioè, autonomo. Intanto, ha preso fuoco un
anno prima, ciò che spiega il gesto benevolo del Patriarca, il quale non si era emozionato per la
bellezza della ricostruzione, bensì per le rovine lasciate dal fuoco. Nel frattempo, gli fu attaccato
anche il convento rimasto deserto, chiamato Fakianou, con la sua foresta ed alcune celle presso
Karyé. Gregorio morì presto, ma la sua opera continuò, perché si era fatto aiutare dal Domn romeno
Radu Paisio, nel 1543. Il Domn riuscì a completare il monastero, prima di essere esiliato dai turchi
in Egitto, dove visse nella preghiera e nella penitenza fino alla morte. (I turchi erano terribili, ma,
come il Satana, non facevano nulla da soli. Misero le mani su Radu, dopo che il fratello, Mircea
Ciobanul con la sua Donna Chiajna lo cacciarono dal trono. I due erano figli di Radu il Grande, il
sovrano amico e poi avversario di San Nifon II, come ci ricordiamo). Forse, Paisio voleva venire a
Stavronikita, creatura sua; era già stato monaco in Argesci, aveva rifinito la metropolia di
Tàrgoviste. Ma non fece in tempo a salvarsi dai gianizzeri. La sua opera, qui, come quella del
superiore Gregorio fu portata a termine dal Patriarca Geremia in persona, il quale, nel 1545,
volontariamente, o, come spesso succedeva, obbligato dai turchi, aizzati dai sinodali greci, entrò
qui, prendendo voti perpetui col nome di Giovanni ed occupandosi del suo sviluppo.

Per la data tardiva in cui è stato completato-1543- Stavronikita è considerato il più giovane
dei monasteri. I vari Domni e boieri romeni gli offrono vari conventi dei loro Paesi. Nel 1607, però,
Stavronikita arde una seconda volta. Lo salva Matei Basarab e Vasile Lupu, nel 1641. I monaci si
lamentano che il loro monastero è il più piccolo di tutti, senza acqua e senza legna. I sovrani
romeni ne capiscono l’allusione e, nel 1680, Serban Catacuzinò fa costruire e ricostruire con i
propri soldi l’acquedotto ad archi che lo unisce al monte sovrastante, con basini diversi. “Un lavoro
costosissimo”, a sentire Anna Comnena. Nel 1760 gli si dedica anche il monastero dei Santi
Apostoli di Bucarest, mentre Nicolae Mavrocordat e Serban gli offrono altri skit.
Dopo un lungo periodo di prosperità, Stavronikita decade. Arde nel 1741; restaurato, arde
di nuovo nel 1819, quando rimane quasi abandonato, perché aveva perso, in vari terremoti, anche i
piccoli conventi da esso dipendenti. Ritorna come all’inizio: sotto la tutela della Comunità dirigente
dell’Athos; e rimase spopolato al tempo della guerra d'indipendenza greca (1821). È, però, aiutato
dai romeni fino a Cuza, nel 1859. Dopo di ché, il rubinetto romeno si è chiuso, come per tutti gli
altri luoghi.
310

Nel 1875-79, un incendio distrugge la parte est. Alcuni superiori, davvero intrepidi, come
Teofilo di Brusa, lo fanno rialzare, per tenerselo come indipendente.
Nel 1968, popolato da nuovi adepti, Stavronikita passa al sistema cenobitico ed è ora in
fase di espansione. Così lo abbiamo trovato noi e le poche ore vi passate sono indimenticabili.
Il katholikon è dedicato a San Nicola; e conserva preziosi affreschi di Theofane di Creta e di
suo figlio Simone, del 1546. Affreschi della stessa scuola si trovano anche nel refettorio.
L’iconostasi è settecentesca.
Piccola, la biblioteca, ma con i 171 manoscritti preziosi ed i vari libri altrettanto rari è una
delle più interessanti della Sacra Montagna. Non so dire se- e quanto- avrà perso nei vari incendi;
ma il Liturghier episcopale, del metropolita Matteo delle Mire, del 1609, copiato manu propria si
è salvato. L’avrà lasciato qui, il Sevasmiothatos, quando ha preso la via dell’esilio, per finire nella
grotta del Santo, presso la mia casa di Bistritza, in Vàlcea, in Oltenia. Ne vedremo un altro,
ugualmente prezioso a Dohiariou. Le copie lasciate altrove se ne sono perse.
Nella chiesa e nelle cappelle ci aspettano reliquie ed oggetti d’arte preziosi. L’icona del
Signore, portabile, del secolo 16 e l’altra della Vergine Santa sembrano davvero soprannaturali, ma
il più raro cimelio resta sempre l'Icona di San Nicola (detto Stridis), finissimo esempio di mosaico
dell’ottavo o undicesimo secolo. L’icona è miracolosa. Fu tirata dal mare nel 1535, agganciata alle
reti dei pescatori. Quando la trovarono, sul volto aveva attaccata un ostrica. (strida, in greco).
Quando l’hanno tolta a forza, l’icona ha sanguinato…. Come mai ? Ebbene, è normale, spiegano i
monaci. “San Nicola, come tutti i Santi, vive nell’Icona. Tutti i Santi vivono anche nelle Icone,
pregano anche lì, dentro, per noi”.
Certamente, non questa fu la spiegazione del Concilio anti-iconoclasta di Nicea, del 787 236, e gli
oppositori sinceri delle icone, di ieri e di oggi, temono proprio questa caduta -dentro l’oggetto- della
fede nella Persona sacra. No, non è ancora idolatria, ma è trasfert. E, finché tutto si riduce a
semplici credenze pie, potrebbe anche andare. Più tragico è quando si passa alle armi, ai pugni,
all’odio interminabile, che gli iconoclasti e gli iconoduli non hanno mai esaurito in questi ultimi
10.000 anni.
D’allora in poi, il convento fu dedicato a San Nicola.
Del resto, San Nicola si mostrò a forma di Icona al monaco Teoctisto di Dionisiou, di cui
ne abbiamo già parlato. Da giovane, nel mondo, si era ammalato di TBC ed era dato per morto. Ma
il Santo gli disse nel sogno:
-Da ora in poi, tieni le astinenze di mercoledì e di venerdì, volute dai Padri.

236
Il Sacro Concilio si limita a confessare che :” l’onore reso all’immagine appartiene a Colui che vi è rappresentato, e
chi venera l’immagine,venera la realtà di chi in essa è riprodotto”. In Conciliorum Oecumenicorum Decreta,
EDB,1991, pag.136.
311

Spaventato, ma anche rincuorato, il giovane si confessò e rispetto i digiuni già comandati


nella Chiesa, dai tempi della Didaché Apostolica. Ed in breve tempo, guarì perfettamente.
Io, per conto mio, do a tutti la ricetta dei digiuni, come medicina per la salute e per la felicità. Ma, a
differenza del nostro giovane Teoctisto, i cristiani in Occidente hanno dichiarato guerra ai digiuni
ed alle astinenze di ogni genere. Il buon esempio in materia lo danno proprio i monaci e le monache
nei conventi del Post-Concilio, dove i piatti di carne brillano di venerdì e nella Quaresima più che in
qualunque momento dell’anno.

Da Stavronikita, dipende qualche skit, sempre in Athos, come quello dei Tre Gerarchi, dove, prima
del 1940, viveva il monaco santo, Ioachim, romeno, puro sangue. Di lui si ricorda il suo finale
santo, che aveva appresso un giorno prima, attraverso una visione di angeli, mentre consumava la
Divina Eucaristia, dopo la Santa Messa. Annunciato dai celesti Inviati che eravo venuti per
accompagnarlo in cielo, ha loro risposto:
-Datemi almeno un giorno di tempo, per prepararmi e per prevenire i Padri.
E gli angeli gli avevano obbedito.
Il giorno dopo, ha celebrato l’ultima sua Messa, dopo una notte di preghiere e di lacrime. Il
momento della Grande Partenza, dopo il pranzo che ha appena toccato, è stato un episodio degno
della Risurrezione finale.237

Anche a Stavronikita siamo trattati con deferenza, le nostre tonache hanno funzionato, (non
sempre le facevamo vedere; solo dove speravamo di concelebrare). Dappertutto ci hanno offerto
“kaloumi” ed acqua, ma il cibo è poco, siamo sempre affamati; beh, così sta bene ai veri pellegrini,
penitenti e stanchi. Noto nel mio quaderno: “Oltre alla mia vecchia stanchezza ed al tempo post-
operatorio, per me, questo faticoso pellegrinaggio è una sacra follia. Sacra, ma sempre follia”.
Dovunque, la nostra celebrazione italo-romeno- bizantino-latina si svolge fuori, in vari punti
della foresta o in cima a qualche vetta o perfino nei dormitori, quando siamo soli, perché i monaci
in genere non ammettono la concelebrazione con gli estranei, neppure con i veri ortodossi dalle
lunghe barbe. Ma noi siamo felici di pregare, prima con loro e poi, fra di noi.
Così, dopo la partenza da Stavronikita, abbiamo innalzato la Divina Ostia in una radura,
prima di raggiungere un altro, piccolo, ma splendido monastero, dove dormiamo: Pantokrator.

8. PANTOKRATOR

237
Citato in Anagnostopoulos, op. cit.pag. 234-35.
312

Come hanno fatto a costruirlo, da farlo sembrare uscito dal mare? Così com’è posto su uno
sperone di roccia a strapiombo, sulla riva settentrionale della penisola, ti fa venire l’anima al volto.
Ti piace, lo vuoi dire con una forza di affetto. Il nome, pure, sembra che vuole imitare la bellezza
onnipotente del Creatore. Dicono che si chiama così da un campo presso il monastero, detto "del
Salvatore". Suggestiva, la nostra foto con i due giovani italiani, non ancora convinti.
Il Pantokrator è un monastero idioritmico, dedicato alla Trasfigurazione (6 agosto). È stato
fondato intorno al 1343238 da due fratelli imparentati con la famiglia imperiale dei Comneni: il
grande stratopedarca (generalissimo) Alessio e il grande primicerio (cancelliere) Giovanni, aiutati
dall’Imperatore Giovanni V il Paleologo, (1341-91). Le loro tombe si trovano nel katholikon.
I due dignitari avevano passato dei brutti momenti prima di arrivare nella relativa pace dell’
Athos.
Lasciavano dietro il luminoso ed efimero Impero di Trebisonda, e, pur simpatici al Basileo
Paleologo, avevano vissuto lo spavento delle sue follie, coronate dall’invasione turca in Europa, con
l’occupazione di Gallipoli. Il fatto che non una battaglia, bensì un terremoto aveva aiutato i pagani a
invadere la costa occidentale è stato interpretato come un brutto segno. Ma i tempi erano altrettanto
turbati dalla controversia isicasta, dalla peste, dalla rivalità fra Genova e Venezia, tutto in
detrimento dell’Impero cristiano, e dalla bancarotta morale e finanziaria di Costantinopoli. Si
aggiungeva la follia del serbo Stefan Dusan, che si voleva imperatore romano; ( ma non avendo
mai flotta, i serbi non andarono lontano, né allora, né oggi, se non nelle loro smisurate ambizioni);
ed anche la pretesa di Venezia di annettersi l’Impero bizantino, magari per salvarlo dai turchi.
Mancavano solamente le guerre civili che, infatti, furono messe in moto dai pretendenti al Trono,
accendendo il fuoco negli animi e nelle città rimaste libere. Un Giovanni VI Cantacuzinò si fa
coronare imperatore al posto di Giovanni V Paleologo con l’appoggio del sultano otomano Orchan.
Così l’Impero ricupera l’Epiro, ma i turchi occupano quasi tutta l’Asia Minore e nel 1354, Gallipoli,
il primo loro possedimento in Europa. Giovanni V si allea coi genovesi, sbarca a Costantinopoli e
recupera il trono. Giovanni VI si fa monaco, ( aveva acquistato per lui un terreno in Athos) anche se
il figlio, Matteo conserva Mistra fino al 1382. Inutili precauzioni, l’Impero si indebolisce ogni
giorno di più, al punto che nel 1362 perde la lussuosa (e lussuriosa) città di Adrianopoli. Il dolore
della caduta della più importante città europea dell’Impero ha prostrato i bizantini nella più nera
depressione. I turchi si avvicinavano ai Luoghi santi dell’Athos, a tal punto che solo un aiuto
dall’Occidente avrebbe salvato la situazione. Con questa speranza, il Basileo bizantino (Giovanni

238
Il testo su Internet dell’Athos dice 1363. Ma già nel 1358, il dotto monaco diacono Athanasio di Pantokrator, tiene
nella grande sala del monastero già costruito anni prima, una conferenza critica sul Primato del Papa, davanti al legato
pontificio, Pietro di Patti, venuto qui in pellegrinagio, con molti dignitari-teologi romani. Vedi R.Janin, la
presentazione e la traduzione del testo in francese, in Mélanges, nella Revue des études byzantines, Paris, 1961,
pag.87ss.
313

V Paleologo), si mise in viaggio, per andare di persona al re d’Ungheria, (1366); ma, al ritorno, fu
fatto prigioniero dai bulgari e salvato per un pelo dal suo cugino, la “mosca cocchiera”, come uno
studioso chiama Amedeo di Savoia. Finì poi a Roma, dove fece confessione di Fede cattolica. Andò
a Venezia, per riscattare i gioielli della corona, (senza riuscirci), e chiedere aiuti militari. Il finale di
tutto questo trambusto fu segnato dal tradimento del figlio associato, fatto che obbligò Giovanni a
diventare vassallo del Sultano. Costui accettò l’onore di farsi baciare la scarpa dall’imperatore
romano e cristiano; ma, in cambio lo salvò dalle mani dei cristianissimi amici del suo marmocchio.
Come ringraziamento, il Basileo decise di costruire un monastero, o almeno di aiutare chi lo
costruiva. Così, Sua Maestà si affrettò a venire incontro ai suoi amici, fondatori di Pantokrator. La
chiesa principale, il katholikon era già costruita, (1343), un gioiello di piccole dimensioni, che
resistette assai bene fino al 1854, quando fu danneggiato da un incendio. Perdette allora gli affreschi
del grande Panselino che furono guastate anche da un restauro infelice. Si continuò con i palazzi e
le celle, di un inestimabile armonia; è lì, che il legato papale, d’accordo con l’Imperatore, venne a
sentire la posizione dei teologi dell’Athos nella spinosa questione della riunificazione delle Chiese.
Senza nessun successo, ovviamente.
Nel 1384 un incendio distrusse in gran parte gli edifici del monastero. Fu ricostruito dal patriarca
ecumenico Antonio e dal futuro Basileo Manuel II Paleologo, prima di fuggire da Thesssalonico,
(dove era governatore), a Lesbos, mentre i cittadini aprivano le porte della città al turco, salvandosi
dal massacro, (9 aprile, 1387). In quei giorni, i musulmani occuparono anche Athos con tutta la
zona, senza preoccuparsi però di prendere in possesso tutto ciò che lì si trovava. Se almeno i serbi-
(cristiani a modo loro)- ne avessero capito il pericolo e lasciato in pace l’Impero! Ricevettero però
la lezione giusta: furono sconfitti, annientati, distrutti ed eliminati a Kosovopljie, il 15 giugno,
1389, mi sembra per sempre. È d’allora che piangono, trasformando la sconfitta in giorno di festa,
solo perché un prigioniero serbo riuscì ad uccidere il sultano Murad, padre di Bajazid. Il terribile
figlio fu proclamato sultano sul campo ed il gesto del serbo lo aizzò con più furia contro la
Cristianità. Fu chiamato Ilderim, il fulmine; e questo fu l’unico effetto della prodezza serba.
Intanto, il Pantokrator diventò nel 1400 metropoli di molti monasteri, aiutato da Manuele
II, che era diventato Basileo pieno (1391-1425). Pieno, nei confronti dei suoi confratelli, perché per
tutto il concorso di eventi che aveva coinvolto l’antecessore, era già vassallo del sultano, obligato a
venire con le sue truppe ad occupare per i turchi la città bizantina di Filadelfia, l’ultima piazza forte
dell’Impero nell’Asia Minore. Andò a Filadelfia con lacrime negli occhi, comprendendo quanto il
suo regno fosse collocato sopra una tragica, sottile ironia della vita.
Manuele II, Paleologo, dotto e devoto, teologo sottile e diplomatico consumato viveva in
quei tempi in cui c’era poco spazio per la grandezza. Mandava aiuti in Athos, mentre, con un occhio
314

costernato, vedeva alzarsi davanti alla capitale, sulla costa asiatica del Bosforo il grande palazzaccio
turco conosciuto oggi come Anadolu Hisar. Ricostruì Pantokrator per assicurarsi l’aiuto di Dio e
dei cristiani, nel viaggio a Venezia, a Parigi, al re di Francia ed a Londra. In tutta l’Europa ricevette
lodi, applausi, simpatie, lacrime di emozione. Ma aiuti militari, niente. Il Papa Benedetto XVI, lo
cita in un discorso dotto, nel 2006, ricordando la diatriba che il Basileo ebbe con un musulmano
istruito, ad Angora, nel 1391, dialogo che annotò durante l’assedio di Costantinopoli, tra il 1394 e il
1402. Egli si era rivolto in modo brusco al suo intelocutore, chiedendogli: “Mostrami pure ciò che
Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come l’ordine di
diffondere la fede con la spada… Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione
(logos) è contrario alla natura di Dio”.
L’Imperatore vi perse tempo, ma, a distanza di secoli, che un Papa lo citasse, dimostra il
valore perenne della sua affermazione, anche se, con questo, il Papa aizzò il finimondo nel mondo
islamico, rimasto identico a se stesso, sempre pronto ad attentati e offese gratuite nei riguardi delle
varie Chiese cristiane 239.
Manuele ebbe ricompensa da altrove. La sua devozione, le sue preghiere, la sua elemosina
ai monasteri gli meritarono una grazia grande quanto un miracolo, arrivata, non dai fratelli cristiani,
bensì direttamente dal Cielo: Dio mandò i mongoli con il loro Tamerlano, che imprigionò Baiazid,
il temuto sultano, facendolo morire per le troppe umiliazioni subite. Al ritorno a casa, a mani vuote
dall’Europa occidentale, il 9 giugno, 1403, l’Imperatore bizantino ebbe la incredibile sorpresa di
ricevere l’omaggio da parte del sultano successivo, non più come padrone, ma come vassallo.
Questo cambio di ruoli è stato compiuto in modo del tutto unilaterale, da parte dei turchi, e non ne
esistono sufficienti spiegazioni storiche. A parte il regalo della libertà da ogni vassalaggio,
l’Imperatore bizantino ricevette indietro Tessalonica, il Monte Athos e i dintorni, la costa del Mar
Nero dal Bosforo a Varna e isole nell’Egeo, i prigionieri liberati e il rispetto della marina turca che
non poteva entrare nel Bosforo senza autorizzazione. Come coronamento di tutto, era il sultano che
si dichiarava vassallo dell’Imperatore. In cambio chiedeva pace e armonia, e la autorizzazione di
governare la Traccia dal suo palazzo di Adrianopoli, diventato Edirne.
No, era troppo, era un miracolo, era una grazia mai avuta da un altro. Si sa però che Dio offre delle
opportunità che poi ritira, ai ritardatari e indegni. Il momento sublime in cui una Cristianità seria
avrebbe potuto far tornare turchi ed arabi nel loro paese era arrivato. E Dio fece questo dono due
volte, anche nei tempi del sucessore, il debole Maometo I. Morendo lui, il 21 maggio, 1421, la
tregua di Dio per i cristiani dell’Impero era finita. Il mondo cristiano pensava alle proprie guerre
239
La cosa sorprendente è che il discorso del Papa Benedetto XVIesimo, a Regensburg ( il 12 settembre, 2006), con la
citazione contestata e la brutale reazione islamica sono successse per strana coincidenza proprio mentre stavo scrivendo
queste righe sull’imperatore Manuele II. Un occasione per includere qui la citazione papale e provare il valore dello
sfortunato Basileo, che come ho annotato qui è stato miracolato in maniera straordinaria, Lui e tutto l’Impero.
315

fratricide, perciò…. Manuele fu d’accordo di offrire la Tessalonica ai veneziani- che la


accettarono- per salvarla e 25 giorni prima di morire pronunciò i voti monacali, col nome di
Matteo. Se ne andò il 25 giugno, 1425, come esempio unico di uomo fedele, la cui penitenza si
meritò la ricompensa divina.
Il successore, Giovanni VIII, il Paleologo, (1425-1448), a 32 anni, ereditò la Città e un po’ di
terreno intorno. Una miseria. Ma non esitò ad aiutare Athos, anche se pochi anni dopo, nel 1430, la
Montagna cadde –definitivamente- nelle mani dei turchi. I monaci se ne erano sottomessi ed i turchi
avevano rispettato- con varie eccezioni- i sacri luoghi. L’Imperatore ritornò vassallo del turco. Il
suo gesto più coraggioso fu la partecipazione ai Concili di Ferrara-Firenze, accompagnato dal fior
fiore dell’aristocrazia religiosa, politica e culturale bizantina, dove, in mezzo a difficoltà senza
numero, riguardanti il protocollo e la presidenza, firmò l’effimera unione con Roma e la sua
personale adesione alla Fede cattolica, nella quale anche morì. Riguardo agli aiuti militari, il Papa
Eugenio IV ne era convinto; ed in verità, la crociata fu organizzata. Essa finì, però, in modo
lamentevole, il 10 novembre, 1444, a Varna. Fra i capi, solo Giovanni Hunyadi (Ioan de
Hunedoara, se lo chiamiamo con il suo vero nome, romeno), e pochi altri si salvarono.
Poi cadde Costantinopoli, sotto l’eroico Constantin IX Dragases, (il quale non ha cancellato
l’unione con Roma, morendo anche lui, riconciliato con la Chiesa Cattolica.) Dopo la caduta della
Nuova Roma, il mondo continuò a vivere. Ma è meglio finire con un espressione diversa: “il resto è
silenzio”.

UN PRELATO DI NOME TZAMBLÀK

Intorno al 1400, non si sa in quali circostanze, diventò superiore di Pantokrator un prelato


a-romeno, una sommità culturale e teologica del tempo, chiamato Grigore Tzamblak. Era nato a
Tàrnovo nel 1379, e, scrivendo solo in slavo, chi vuole, lo da per bulgaro. Era parente con
Teodosio, un'altra personalità ascetica del tempo. Dopo la gaveta all’Athos, fu mandato (nel 1401),
dal Patriarca ecumenico in persona, in Moldavia, per mediare una impossibile pace con Alexandru
il Buono, (1400-32), che pretendeva un metropolita autocefalo. Tzamblak era un semplice chierico,
ma, in simili questioni, neppure grandi Papi riescono sempre a mediare; mentre lui ci riuscì. Tornò
in Athos, fu ordinato sacerdote e diventò giovanissimo superiore di Pantokrator240. Veramente, è
ancora difficile capire come lo è diventato; certamente, non come premio per la bravura diplomatica
mostrata in Moldavia, perché nella controversia fra le due parti, Tzamblak diede ragione ai moldavi.
Il Domn moldavo rimase impressionato di lui e lo richiamò alla corte di Suceava. Così il nostro finì

240
Altri dicono che si tratti del monastero omonimo di Costantinopoli, ma non vi sembra verosimile.
316

nella Moldavia del Nord, dove divenne superiore del monastero romeno di Neamtzu. Era uno spirito
coltivato, per nulla fanatico, perciò lo chiamarono come predicatore ufficiale della Metropolia di
Moldavia, scomunicata assai duramente- e senza motivi seri- dalla Patriarchia Ecumenica.
Tzamblak fece dunque un grosso lavoro di mediazione, ma sembra che, pur riuscendo nell’opera di
riconciliazione, dovette essere sacrificato. Infatti, il Patriarca, pur accettando il compromesso con il
Domn, non poté soffrirne la sconfitta e chiese la testa dell’abile diplomatico. Inutili le magnifiche
prediche dello Tzamblak, rimaste in vari codici, per il nostro stupore; inutile il magnifico servizio
prestato al Domn per il trasferimento delle reliquie di San Giovanni il Nuovo, (fonte di miracoli e
di guadagni per la Moldavia fin’oggi). Lo cacciarono, i moldavi -non senza rimorsi- e Gregorio
arrivò a Vilnius, nella Lituania da poco unita alla Polonia e appena battezzata 241. Intanto, suo
fratello, Ciprian, era diventato metropolita a Kiev e lo chiamò a sostituirlo. Ma, dicono le cronache,
”eletto contro la volontà del Patriarca, aborrito da Fotio, il nuovo metropolita di Mosca che si
voleva patriarca, invidiato e bollato come venetico dai suoi sufragani vescovi, preti” ed altri buoni
cristiani-aggiungo io-, non resistette sul trono ucraino. Mise olio sul fuoco, a Costanza, dove
partecipò al Concilio (unionista) del 1414-18, come “Arcivescovo ortodosso di Kiev”. Era stato
mandato lì come una specie di nunzio patriarcale per confutare “gli eretici latini”; ed invece firmò
l’unione con Roma: gesto che si rivelò come fatto essenziale della sua vita di teologo, asceta,
pastore e linguista sommo. Penso che lo scomunicarono per telefono, perché comprese di non poter
tornare a Kiev e lasciò lì, sulla costa del superbo lago svizzero, le sue insegne episcopali. Lasciò,
forse, anche il cuore, perché era troppo saggio per non capire che aveva fatto bene ciò che aveva
fatto. Beh, questa si chiama “la forza del Destino”, (cioè del Buon Dio) che sceglie i tempi ed i
luoghi per quei pochissimi che Lo amano con innocenza….
Non ritornando a Kiev, non accetto in Moldavia, nel 1419 si ritirò in Serbia, dove fu eletto
igoumeno del monastero Déciani, fondazione dello stesso Despota serbo. Ritornò in Moldavia nel
1431, ed assistette alla morte del suo vecchio prottetore, Alessandro, dopo di ché, sembra che il
Domn Ilias lo abbia nominato metropolita della Moldavia del nord. Un prelato caduto in disgrazia
patriarcale, come lui, bollato poi di “unionismo”, cacciato dalla Moldavia, ritorna trionfale e diventa
Capo della Chiesa locale? Ecco, tutto era possibile nell’atmosfera dei Concili unionisti dell’epoca,
l’ultimo, di Ferrara-Firenze, (1438-43) essendo firmato anche dai prelati moldavi del dopo
Tzamblak, (e forse, grazie alla sua influenza benefica). Nel 1435, Papa Eugenio IV gli dà un
salvacondotto, in cui dichiara che “Gregorio, riconoscendo la verità della Fede cattolica, è
ritornato all’unità ed alla nostra obbedienza e della Chiesa romana”.

241
La cui regina, Edvige, grazie alla quale si battezzò Wl.Jagello con tutti i lituani, fu canonizzata dal Papa, nel 1998.
317

Ma lui, a Firenze non arrivò più. Le fonti russe lo confermano morto e sepolto a Vilnius, in zona
cattolica-latina, forse nel 1439.242
La sua ombra benevola sul monastero athonita, dedicato all’Onnipotente, ispirò i nobili Stan
e Barbu, ad aiutare Pantokrator, nel secolo 15. Barbu Craiovescu, a cui si devono le pitture del
katholicon, è considerato fondatore del monastero. Vlad il monaco e Neagoe Basarab, a sentire le
cronache, vi fecero costruire molti edifici come a Iviron.
Il Logofeto Trotusan, nel 1537, donò l’aquedotto e le case. Furono offerti, però, tanti metochi, nei
Paesi Romeni, che nel 1600 arrivò la reazione romena. Alexandru Iliasci,-1628- impedisce la
trasformazione di Snagov in metocco di Pantokrator. Ma i monaci non si rassegnano. Con minacce
di scomuniche e inferno, riuscirono a convincere un nobile, Ivascu-Dragul, (nome come il mio) di
dedicare al convento il proprio monastero di Càscioarele, (con la foresta Càscioreanca, quella della
infanzia e delle storie incredibili del nonno Poppian), e molti villaggi della provincia di Ilfov-
Vlasca. Non senza l’assenso del Domn, Leon Voda. Così, gli antenati miei da parte materna erano
diventati sudditi di Pantokrator. Intanto, il metropolita, Matteo di Mira, prima di arrivare nel mio
paesino di Bistritza, nel 1628, regalò anche lui un manoscritto prezioso al Pantokrator.
Dalla Moldavia, Vasile Lupu e la Principessa Caterina, danno almeno un calice trransilvano.
Il fanariota Ioan Mavrocordat (1716-1719) non si lascia sorpassare. Restaura tutto, edifici,
refettorio di fronte alla chiesa…. L’ultimo sovrano che mandò aiuti da Bucarest fu Scarlat Ghica,
nel 1757.
L’ultimo incendio, nel 1950, fu vinto con l’aiuto dello Stato greco che ricostruì come potè cose
irricostruibili.
Nella massiccia torre merlata del 1536 si nasconde una parte della biblioteca, mentre in un
edificio recente sta il grosso dei 3000 libri e 350 manoscritti e miniati, 243 fra i quali un Vangelo del
XIII secolo in oro e colori, legato in argento dorato, con molte icone scolpite in argento, regalato dai
nobili romeni, Barcan ed il figlio, Radu. I nobili Craiovesti hanno dato un altro Vangelo,
manoscritto del secolo XVI. Mi chiedo: ci sarà ancora qui il salterio greco del IX-X secolo,
(Pantokrator, 61) con illustrazioni marginali -Cristo nell’Orto, scene della Passione, - simile al
Salterio Cludov-Mosca, ed al greco 20 di Parigi, con scene realistiche, stile dell’antichità, non
ancora intossicate dal bizantino?

242
Sui dettagli e sulla cronologia di Gr. Tzamblak, né gli storici del tempo, né gli storici moderni non si sono messi
d’accordo. Io ho scelto i dati secondo la logica dei fatti, senza tralasciare le informazioni parallele.
243
Marcu Beza dice 234 codici, fra manoscritti e miniati.
318

Il monastero è ricco di reliquie, ma nessuna così venerata come l’Immagine miracolosa


della Madonna, in piedi, tutta in argento, data dai romeni. La fotografo con l’aiuto di una lanterna
tenuta in mano da Vincenzo. È del 16 secolo, e si chiama “Guerontissa”.
Il miracolo che la consacrò alla celebrità si compì quando, una volta, mancando l’olio nel
monastero, l’egumeno s’inginocchiò davanti all’icona e pregò con ardore. Mentre pregava, sentì una
voce che gli diceva: “la Guerontissa si prenderà cura che non manchi mai l’olio dalle dispense”.
Ebbene, il barattolo si riempì da solo, colmo da traboccare.
Nel 1954, il monastero, appena restaurato, rischiò di essere travolto da un nuovo incendio. I
monaci organizzarono una processione davanti all’Icona, cantando le litanie. Così, malgrado il
vento, il fuoco non toccò il monastero. Il secondo miracolo, ecco.
Sotto gli occhi pietosi della Vergine, brillante da questo quadro, i monaci cominciano ogni mattina,
alle 3 o alle 5, il mattuttino e le ore, magnificamente riempite da un atmosfera mistica e romantica,
degna da sola, di un pellegrinaggio.
Anche noi, in quella mattina del 5 settembre, 1979, ci siamo svegliati presto, per festeggiare,
io e Gigi, 4 anni dalla nostra fuga dalla Romania, attraverso la Cortina di ferro. La Libertà, celebrata
in Athos, con una Messa solenne e intima, inter nos, questo non è poco, davvero. Le celebrazioni
dei monaci che seguirono alla nostra Messa latina (clandestina) unirono ancora una volta nei nostri
cuori le due Chiese testarde, che aspettano separate, la Risurrezione.
Dal cortile si vede lontano, alta, maestosa, la chiesa dello skit Sant’Elia, russa ed imperiale
insieme, che dipende da Pantokrator. Più molte celle di Karyé ed il vecchio monastero
Ravdouchon, presso Karyè, che ne dipende pure. Lì si trova il vecchio mosaico del 12 secolo
raffigurante San Pietro. Vale quanto metà Athos. Vicino e sufraganeo vi sopravvive l’ex-monastero
Xanthopol, dove è vissuto il discepolo di San Gregorio il Sinaita, Calisto II diventato Patriarca, nel
1397.(Ignoro se le sue affascinanti pagine ascetiche pubblicate nella Filocalia le ha scritte qui, o sul
trono patriarcale, ma il merito di tanta altezza deve essere di questi luoghi; o, almeno della isichia
che Sua Beatitudine avrà goduto da queste parti).

9. VATOPEDIOU

Da Pantokrator a Vatopediou, 3 ore di camminata. Faticoso ed incantevole, con la vista


quasi continua dell’infinito del mare; prima di comprendere che ci siamo smarriti nella foresta
vergine dai capelli fittissimi. Tagliando le liane per continuare il cammino. Impossibile fotografarci,
se non vestiti di foglie e di rami come il Papagheno del grande Mozart.
319

Finalmente, il nono monastero da noi visitato: Vatopediou. È il secondo dell’Athos, dopo la


Grande Lavra, come grandezza ed importanza economica. Monastero idioritmico, dedicato
all'Annunciazione della Vergine (25 marzo).
È davvero grandioso, questo complesso monastico, adagiato presso la curva graziosa di
un'ampia baia. Le sue mura disposte a triangolo spariscono quasi sotto il cumulo di terrazze,
loggiati e balconi; gli edifici dipinti di rosso delimitano un vasto cortile. Vi si trova il katholikon,
del secolo XI, intonacato in rosso vivo, dalla consueta struttura "a trifoglio"; la cupola poggia su
quattro colonne di porfido che, si dice, provengano da Ravenna. Due cappelle (parecclesia)
fiancheggiano la chiesa principale. A destra, la graziosa fiala rotonda con due giri concentrici di
colonne, la fontanella centrale, con affreschi nelle volte. In questo senso, Vatopediou è fortunato:
conserva un bellissimo mosaico (Deisis) a sfondo d'oro sul timpano del portale, entro il nartece,
(XIesimo secolo). Un altro mosaico dello stesso secolo, all'interno della chiesa, rappresenta
l'Annunciazione, a cui la chiesa stessa è dedicata; e una cappella isolata nel cortile dedicata ai Santi
Anarghiri ("senza denaro": Cosma e Damiano, medici che curavano senza farsi pagare), con le
pareti esterne non a intonaco dipinto, ma tali da mostrare, con bellissimo effetto cromatico, fasce
orizzontali alternate di pietre e di mattoni. Le porte esterne di bronzo della chiesa sono del secolo
XIV, forse provenienti dalla chiesa di Aghia Sofia di Salonicco, dopo l’occupazione da parte dei
musulmani.
Gli affreschi datati dal 1312 e più volte restaurati sono della scuola macedone; mentre le icone del
sec. XI- XVI ed una ricca iconostasi ne completano il magnifico quadro.
Di fronte alla chiesa si alza la trapesi ( il refettorio) cruciforme del sec. XII-esimo, rifatto
nel XVIII-esimo. Dal vecchio refettorio è rimasta solo un icona del XII-esimo, nascosta nel tesoro,
che rappresenta la Crocifissione, circondata da scene evangeliche.
Gli affreschi delle pareti lungo le quali sono allineati tavoli dai caratteristici lastroni in marmo
lavorato sono del 1787 .
Come abbiamo fatto ad incontrare proprio il Superiore, non lo so. Vedendoci, cambia volto,
(se ne aveva uno diverso prima, non ne sono certo); ci guarda con nervosità, non sopportando le
nostre talari “cattoliche”. Invano gli ripeto: “siamo orthodoxi”, roumani”, “teologhi, “en exoria”,
missionari! Ma che missionari! Prendendo in mano la manica, me la tira di qua e di là, ripetendo :
-Talare catholica, non buona!
Per Grazia di Dio non abbiamo molte cose da chiedergli. Perciò, lo salutiamo con
devozione, all’ortodossa, scendendo la destra fino a terra, per la evloghia e ci allontaniamo in santa
pace. Tutto si svolge poi, normalmente.
-Toglietevi quelle gonne, borbotta Sergiu, servono solo a farci cacciare.
320

Segue una piccola polemica riguardo le gonne, fatto che non mi impedisce di farmi la foto
nella tonaca eretica dietro la splendida trapesi, che appare come una chiesa, tutta in mattoni
bizantini, fatta costruire da Stefano il Grande, il Domn moldavo. È lo stesso che inviò qui l’Icona
di San Giorgio che lo aiutò a vincere la più importante delle sue battaglie. I miei sono già più
nervosi del Padre Superiore, gli italiani non ne capiscono ancora il significato e 30 anni dopo non lo
hanno ancora capito.
Dopo il pranzo, scendiamo al mare, dove Gigi fa lo spericolato, nuotando fra le rupi. Ed io,
più spericolato ancora, nello scegliere il posto per la Santa Messa italo-latino-romeno-bizantina su
un vero altare di pietra sovrastato da una grandissima Croce, su una cima dalla quale potevi vedere
tutto il Vatopediou e la Montagna.
Neppure iniziamo la Messa, che Sergiu si mette a borbottare:
-Proprio qui dovevi scegliere il posto per la Messa latina, dove puoi essere visto da tutti,
soprattutto dal Superiore di Vatopediou, che forse già ci segue dalla sua finestra con un
cannocchiale.
All’inizio, io ho creduto che Sergiu parlasse in ironia, ma poi quando l’ho visto sbattere,
perfino durante la consacrazione, ho capito che parlava stupidamente sul serio. Era convinto che lo
staretz mi vedeva col binocolo da kilometri distanza, mentre io alzavo l’Ostia santa cantando anche
a gran voce: Mistero della fede!
Com era nervoso, mamma, mamma! Perfino mentre ci faceva la fotografia, adornati coi nostri
epitrachili, e con le sante ostie in mano, sbatteva e commentava.
Intanto un minimo di ragione ne aveva: l’egumeno non ha voluto assolutamente farci vedere i tesori
del convento, avuti in dono dal Domn Romeno, Stefano il Grande; e neppure i due evangeliari con
le iscrizioni dei Domni, Miron Movilà e Jupan Neagoe, ban di Craiova, 1563. Neppure il libro
scritto a mano, proprio nella mia Bistritza, nel 1544.
Seccati relativamente per queste piccole avversità, finiamo per osservare il paesaggio senza
aureole. Giriamo il monastero che sembra una città ricca e bella ma decadente, piena di edifici
svelti, maestosi, diversi, giocondi, ma di stili mescolati e sovrapposti, in mezzo a una visibile
miseria. I monaci lo lodano come il più pulito e curato...Mah! Non capisco. I latini avrebbero alzato
città e supercittà, qui.
Forse è meglio sprofondarci nella sua non leggera Storia:
Il nome, di non facile spiegazione, fu interpretato dalla tradizione mediante un episodio che
attribuisce la fondazione del monastero a Teodosio I (379-395). I figli di questo imperatore,
Arcadio e Onorio, ancora fanciulli, navigavano da Roma a Costantinopoli, quando, presso l'Athos,
una tempesta furiosa mise in pericolo la nave. Il piccolo Arcadio (era più grande di Onorio di 7
321

anni), si aggrappava al bordo della nave invocando la Madonna, ma un ondata più forte lo fece
cadere in mare. Vani furono gli sforzi per ripescarlo. Cessata la tempesta, il piccolo Arcadio fu
trovato non lungi dalla spiaggia che dormiva pacificamente sotto una pianta di lampone; era stato
salvato dalla Madonna.
Ecco perché, più tardi, l'imperatore, per gratitudine, fece costruire sul posto, vicino alla città
antica “Dion”, nel 383, (o ricostruire, perché alcuni attribuiscono a San Costantino la prima
fondazione) un monastero in onore della Beata Vergine Maria che chiamò Vatopediou per ricordare
la salvezza del figlio. Infatti in greco vlos significa "rovo, lampone" e pedion (scritto paidion)
indica il "bambino". Forse la vera etimologia viene, non da paidion, ma da pedion "pianura":
Vatopediou sarebbe ”la piana dei lamponi”, che infatti ancora vi crescono allo stato selvatico.
Ad ogni modo, il generoso gesto dell’Imperatore fu funestato, come sappiamo, dal massacro
degli abitanti della vicina Tessalonico, qualche anno più tardi, per il quale Teodosio si attirò su di
lui la scomunica di Sant’Ambrogio di Milano, seguita dalla penitenza pubblica dell’ Imperatore.
Non ne approfondiamo; le notizie su una fondazione così antica del monastero non sono certe.
Se c’è del vero in questa storia della fondazione così antica, gli edifici sarebbero stati
distrutti dai barbari nel VII secolo, (questi possono essere gli slavi), e furono ricostruiti nel 676
sotto il regno di Costantino Pogonato, ( l’imperatore che fece esiliare ed uccidere il Papa Martino,
e convocò, per completezza, il sesto Concilio ecumenico, nel 681).
Distrutto dai pirati nel 862, il monastero fu ricostruito da tre notabili. Ma sarà vero?
Storicamente, l'origine del monastero di Vatopediou risale al tempo di sant'Atanasio. Tre
notabili di Adrianopoli, Atanasio, Nicola e Antonio vennero alla Grande Lavra e fecero
professione monastica sotto la direzione di sant'Atanasio. In seguito, si ritirarono per fondare il
nuovo monastero, la cui data si può porre nel 972, anno in cui fu emanato il typikon di Giovanni I
Tzimiskes. ( Ecco un altro gesto di questo Basileo per tentare di lavare dalle sue mani il sangue
dell’antecessore e zio, Niceforo Fokas. Non ci riuscì meglio della Lady Machbeth).
Un documento del 985 menziona Nicola, egumeno di Vatopediou. Nel typikon di Costantino IX
Monomaco (dato nel 1046, pochi anni prima della scomunica reciproca fra Roma e Costantinopoli)
il nostro monastero figura già al secondo posto nell'ordine gerarchico, essendo assai popolato di
frati.

I MARTIRI ED I LATINOFRONI
322

Nel secolo XIIIesimo, i monaci condannano, atraverso una lettera, Michele VIII, Paleologo
e il Patriarca di Costantinopoli, Ioan Bekkos,(1275-82), per la loro simpatia per la Chiesa di Roma e
per i loro tentativi di perseguire l’unione delle Chiese nel concilio di Lione, 1274, anche dopo lo
sgombero dei latini dalla Capitale.
Per questo loro coraggio, i dodici furono tutti impiccati per decreto imperiale. Poi, i messi
dell’imperatore li incatenarono e li gettarono in mare. La festa dei dodici beati e del loro egumeno,
Eutimio, cade il 4 gennaio.
Nell’estate del 1308, Vatopediou, insieme con tutto l’Athos e con tutta la regione, dalla
Capitale fino a Atene, “ebbe a soffrire del saccheggio da parte dei mercenari catalani di
Andronico II, dopo di ché, lo stesso imperatore restaurò il monastero”. Il testo su internet dei
monaci accusa a distanza i “latinofroni” e l’Imperatore. Non dice però che i catalani erano stati
prima chiamati dagli stessi bizantini a difendere l’Impero; ed una volta vinta la battaglia, furono
miserabilmente traditi; ed il loro capo, il geniale stratega e pirata, il megas dux Ruggero de Flor,
ucciso in un agguato durante una festa nel Palazzo. E da chi? Da agguzzini alani, pagati da Sua
Maestà, l’associato Michele IX, figlio di Andronico. Gli alani erano un resto dei barbari che
invasero la Galia nel 406 e passati in Ispagna erano stati vinti dai visigoti! No, non è possibile. Non
si fa! Non c’entravano dunque, motivi di fede. I buoni monaci non dicono neppure che, malgrado la
loro arroganza di bravi pirati e anarchici, i catalani hanno salvato più di una volta la Capitale e tutto
il sud- est dell’Asia minore dai turchi. È vero che Ruggero si sognava di conservare per lui l’Asia
Minore. Forse per questo i bizantini lo vollero morto. Però! Che ragione era questa? L’Asia minore,
da tempo non era più bizantina, ed i catalani rimasti lì- gli storici sono d’accordo- avrebbero
ritardato o addirittura compromesso l’invasione turca. Nel frattempo, quando i bulgari si alzarono di
nuovo contro la Capitale, Ruggero fu chiamato a difenderla. Egli lasciò i territori dell’Asia Minore
e s’incamminò in marcia forzata con i suoi mercenari -tutti professionisti ed abilissimi guerrieri-
verso la Bulgaria. Ad Adrianopoli, l’imperatore associato li offese, dicendo che non ne aveva più
bisogno. E, durante la festa, fece uccidere i comandanti. L’esercito catalano, rimasto senza il
migliori capi, si vendicò, distruggendo la regione fino ad Athene, Athos compreso. I catalani
effettuarono una vendetta leggera, vista l’offesa, l’inganno e la cattiveria dei Basilei ortodossi. È
vero che si consolarono con il Ducato di Atene che lo occuparono e lo governarono per 77 anni. Ma
l’Impero perse l’Asia Minore, fu vinto dai bulgari e si preparò alla terribile scomparsa che tutti
conosciamo. Alla fine, come sappiamo, anche Andronico II finì esiliato in un convento, (forzato
dal suo nipote, nuovo Basileo); questa si chiamerebbe la gratitudine dei fedelissimi.
323

L'ultimo Tzar di Serbia prima della dominazione turca, Lazzaro I Greblianovic-Brankovici,


ebbe modo di beneficare Vatopediou, a cui donò la reliquia della cintura della Madonna, che prima
era conservata a Costantinopoli.
Troppo poco, in cambio degli errori commessi. I serbi come i bulgari hanno sulla coscienza la sorte
dell’Impero bizantino. Durante il regno di Giovanni VI, Cantacuseno, (1347-54), il re serbo con lo
Tzar bulgaro fecero alleanza, nell’idea di farla finita con l’Impero e dividerselo. Certo, era più
semplice rubare le province, ancora civilizzate, dei fratelli cristiani, invece di coalizzarsi contro il
nemico comune, il pagano. Come sappiamo, la Storia, (Dio) non dimentica: furono tutti inghiottiti
nel mare musulmano.
E così, la storia si ripete: anche per Vatopediou, venne il turno dei romeni.
Il primo romeno benefattore, fu Vlad il Monaco, il benefattore della mia Bistritza, nel 1494. Ecco
perché io torno in questi monasteri come a casa mia, la casa dei miei prottetori. Per conto suo,
Stefano il Grande di Moldavia, (1457-1504), nel 1496, mentre finiva i famosi monasteri moldavi
di Putna, Neamts, Voronets, costruisce il porto, (l’arsana) ed altri edifici necessari, a Vatopediou ed
altrove….
Dopo Vladislav, anche Vlad Vintilà pretende una Liturghia per lui ogni settimana, dal 1533; ed in
cambio dona 10.000 monete gialle. Radu il Grande, nel 1500, restaura la cappella di San Giovanni
Battista. Neagoe Basarab regala il pomo d’oro di sotto l’icona della Madonna e fa abbellire ed
impreziosire in oro e pietre l’Icona di cui si parlava che aveva nutrito un bambino abbandonato da
suo padre. Copre di piombo il tetto della chiesa e degli edifici principali, fa dipingere la magnifica
iconostasi della Paraclisis. E non dimentica di far costruire una cantina vinaria, la torre, la cuccina
ed i granai. Il vino, poi, si portava sempre dalle Terre Romene, terre di vino pregiato, nordico,
diverso dal pur eccellente vino greco. Come mancia, invia per 3 anni 200 talleri, che pesavano tanto
in quell’epoca.
Per conto suo, Làpusneanu, l’uccisore dei nobili, non lasciò nulla non restaurato, arricchito,
impreziosito; tanto da poter chiamare Vatopediou “la nostra vecchia fondazione”. La mancia che
inviò annualmente fu di 300 monete d’oro rosso e 65 piastri turchi. In cambio ricevette delle
reliquie (di San Gregorio di Nazianz: solo in visita, però) dai monaci di Vatopediou. Li portò con
tutti gli onori nella sua fondazione, in Moldavia, a Slatina, dove poi, fu sepolto.
Le reliquie del Nazianzeno furono portate in Terra Romena per la seconda volta secoli più tardi,
quando la vedova di Serban Cantacuzinò, Maria, più la Donna Maria Bàlàceanu hanno rivestito
letteralmente in oro il sacro feretro. La povera Bàlàceanca, era rimasta anche lei vedova, perché il
Sovrano –fanariota greco- Nicola Mavrocordat, buon cristiano, del resto, le fece giustiziare il
marito, solo per aver pronunciato incautamente -in compagnia di buoni amici- la frase: ”Faccia Dio
324

che vengano i tedeschi a salvarci dai greci”. La Cantacuzinò, invece, è la vedova allegra, la ex
Maria Duca, la quale aveva da espiare il tradimento del primo sposo.
Il moldavo Vasile Lupu offre il metocco vicino a Golia. Gli vediamo il volto con il berretto
romeno, ( la càciùla) accanto al Logofàt Golia nella chiesa principale.
Suo figlio e successore, Stefànitzà, (1659-61) dopo aver rifinito l’imponente monastero
barocco di Golia, (iniziato dal logofàt Golia, in piena capitale, Iassi, e continuato dal Lupu), l’ha
donato a Vatopediou, sembra con l’assenso di Donna Anna, la vedova del logofàt; continuò con una
lista lunga di conventi moldavi regalati, che hanno dato da mangiare ai monasteri serbi, bulgari e
greci dei Balcani. Per far questo, ha imposto ai contadini romeni la tassa sul fumo dei camini, senza
tener conto della grande fame, arrivata con l’invasione tartara e poi con quella delle locuste. Fece
tagliare il naso allo scienziato Nicola Milescu e minacciò come poté i nobili, uccidendo a destra e
manca. La gente si vendicò, chiamandolo Papurà Vodà, (il biodo), ma solo post mortem, come fa
sempre.
L’epitrachilion con l’albero di Jesse fu dato da una nobile moldava. I munteni capirono di
essere rimasti indietro coi regali rispetto ai moldavi, così, nel 1692, Constantin Bràncoveanu regala
21000 aspri all’anno, realizandone il sorpasso.
Un fatto è sicuro: i monaci di Vatopediou furono i più convincenti, rispetto ad altri, presso i
Sovrani romeni. Perciò, il loro monastero tiene il record dei monasteri ad esso dedicati e dei regali
in denaro, arrivati dal Nord del Danubio. I monaci, qui, bevevano il miglior vino, perché la
logofetessa Anna, già dal 1608, donava a Vatopediou le vigne di Cotnari, ancora oggi, fra le
migliori dell’Europa dell’Est.
Le costruzioni monastiche attuali molto devono alle donazioni dei patriarchi di
Costantinopoli, Cipriano (1708/1709, 1713/1714) e di Alessandria, Gerasimo XI (1689-1710) ed a
nobili romeno-greci come Matteo Ghica. Posteriori a questi restauri sono gli affreschi del refettorio
(1780). Dopo l'incendio che, nel 1965, distrusse l'ala sud-est, con la foresteria e molte camere, il
progetto e le spese della ricostruzione furono assunti dal governo greco.
Con tutte le disgrazie, Vatopediou ha conservato una eccellente biblioteca, ricca di 10.000
libri stampati, 1700 manoscritti, ( fra i quali la Geografia di Ptolemeo del secolo II dopo Cristo,
illustrata con 42 carte a colori) e 33 manoscritti regalati dai sovrani romeni.
Nessun’ idea di visitare tutto questo e vederlo con i nostri occhi. Siamo stati accolti
malissimo, a causa delle nostre tonache. Qui l’incanto non ha funzionato, al contrario. Già è tanto
che siamo entrati nelle chiese. (No, non a causa dei monaci. In un convento importante, basta il
Superiore, a fare la voce grossa o a guardarti con l’occhio del prefazio. Ma questa è regola
universale, cattolica, cioè. E funziona benissimo, anche presso i musulmani).
325

L’ACCADEMIA ED I SUOI DRAMMI.

Approdando a Vatopediou, non puoi e non devi non toccare la ferita chiamata l’Accademia
Athonias, con tutta la mareea di benefizi spirituali, di ispirazioni profonde e di polemiche
sbalorditive. Ce ne siamo occupati prima, nel nostro periplo nella spiritualità athonita; ora ci
avviciniamo meglio ai personaggi ed ai luoghi.
Veramente, la scuola, chiamata Accademia Athonias fu istituita nel 1749, dal patriarca di
Costantinopoli, Cirillo V, (1748-51 e 1752-57) e dal superiore di Vatopediou, Meletio, come
Istituto superiore di cultura, destinata ad accogliere 170 studenti di tutta la Grecia. Fu data nelle
mani del focoso tradizionalista, e futuro Santo, Neofit, detto “il kavsokalivita”,(1713-84), una
nostra vecchia conoscenza. Vi ricordate, aveva sangue ebreo e talento di reinterpretare i dogmi, ma
nel periodo del suo direttorato all’Accademia non aveva ancora dimostrato questi talenti. Era
specialista in ascetismo, però brillava anche come professore di filologia classica. Iniziò col piede
sinistro: si mostrò troppo severo con gli studenti, (a sentire gli studenti stessi, i quali, pur se
monaci, restano sempre studenti, cioè ribelli ed insofferenti della disciplina). Nel 1753, Neofit fu
cacciato, a causa della loro rivolta. ( Io commento: se gli studenti della Parigi del’68 pensavano di
essere moderni, si sbagliavano).
Al posto di Neofit, fu chiamato Eugenio Vulgaris, (v.) che dal 1742 fu insegnante di greco,
di filosofia ed astronomia a Giannina, e dal 1750 professore in casa di ricchi e predicatore in
Kozani. Diresse l’Accademia dal 1753 al 1759. Era uno studioso serio, conoscitore di 9 lingue e,
probabilmente, come uomo, leggermente più mondano, qualità che, agli studenti, pur se monaci,
piace tanto. Lo dichiararono “aperto, tollerante, paterno”. (Qualità che noi che abbiamo frequentato
seminari e colleggi sappiamo ben tradurre in parole più adeguate). Programmò l’Accademia come
vera università di studi classici e moderni, con materie come la logica, la filosofia, (occidentale,
eretica), la matematica, la fisica, e le varie scienze aggiornate. Insomma, Eugenio Vulgaris volle
fare qui il secondo Origene post terminem. Insegnare liberamente Locke, Leibnitz, Wolf, oltre al
Vecchio Testamento in originale ebraico, ( un vero orrore per i greci che considerano la Septuaginta
greca l’unica attendibile). Ma, come dice bene il suo biografo, Cosma Vlaccos, (un vlacco,
appunto), non poteva avere discepoli sinceri fra i monaci, convinti com’erano che le scienze
occidentali fossero ispirate dal diavolo. Infatti, l’immondo nemico delle anime fece vedere neri ai
loro occhi non solo Vulgaris, ma tutta la pléiade di professori scelti fra il fior fiore degli studiosi.
Cosa credeva Vulgaris? Che bastava essere “aperto, tollerante, paterno”? Ebbene, scoppiò la rivolta,
326

peggiore della prima, tanto che Vulgaris et & rischiò la vita e dovette fuggire insieme coll’amico
Niceforo Theotokis244,- un'altra mente- fuori della Penisola Balcanica ; e la scuola fu chiusa.
Però, dobbiamo essere giusti. Questa, seconda rivolta fu alimentata dal primo escluso,
l’asceta Neofit, il cui zampino vi fu fondamentale. Dalla sua santa cella del deserto di Kavsokalivia,
ha orchestrato bene, fra preghiere e digiuni con lacrime di coccodrillo, la guerra invisibile contro il
suo rivale, riuscendo alla fine di spiazzarlo. E vi riuscì con l’aiuto del fanatismo degli stessi che
avevano, prima, spiazzato lui, per motivi opposti. Credetemi, è geniale poter manovrare folle di
talebani, già manovrati nel senso opposto; e tutto questo, in così breve tempo. Il sentimento di
Neofit non fu cattiveria pura: bensì zelo contro le scienze moderne, scienze del demonio.
Il successore, Nicola di Metsovo tentò di salvare il salvabile. Ma gli oppositori non
capirono che la via per l’emancipzione e l’indipendenza del popolo greco, a cui ci tenevano con lo
stesso fanatismo con il quale eliminavano i non greci, passava per i metodi scientifici e per la
severità di coloro che avevano cacciato. Gridando all’anticristo che avrebbe macchiato la Sacra
Montagna, i bravi studenti monaci, “ortodossi” fino al midollo, assediarono la scuola, devastarono
gli edifici dell’Accademia e diedero fuoco a ciò che trovavano sotto i loro occhi inferociti e devoti.
Tutto, in presenza dei turchi divertiti.
Vediamo ora cosa è successo ai due amici, Vulgaris e Theotokis. Ebbene, andarono in
esilio. Vulgaris, fuggendo da Athos, arrivò a Bucarest, nel 1763, seguito da Theotokis nel 1764;
da lì passarono a Lipsia, a Viena e poi dal 1769 a Berlino, dove pubblicarono vari libri di
patristica, logica e matematica. Furono chiamati nel 1771 in Russia dall’illuminata Caterina II,
essendo raccomandati dallo stesso Konig, Friedrich II von Prussia. Theotokis finì in Moldavia,
mentre Vulgaris fu nominato bibliotecario a St. Petersburg. Nel 1774 fu ordinato sacerdote e nel
1775 consacrato Vescovo di una illustre cittadina, chiamata Cherson. Nel 1776 egli invita
Theotokis a rimpiazzarlo come Vescovo, dopo che quest’ultimo fu caciato dalla Accademia della
Moldavia per“illuminismo”. Non erano illuministi, i due, anzi, erano ortodossi fanatici, ingentiliti,
però, dalla cultura, dalla scienza e dalle forme occidentali. Dettaglio sufficiente per essere odiati e
respinti dalle loro comunità, le quali, come dice bene l’Evangelista, non sapevano cosa volevano.
Però, nel 1801, Vulgaris si ritirò in un monastero russo, l’Alexander-Nevski- dove completò la
sua opera teologica. È considerato fra i maggiori teologi greci di quel secolo. Ma per raggiungere
questo traguardo, dovette mescolare il nord d’Europa con il sud delle sue origini.245

244
E. Vulgaris. 1716-1806. ( vedi sopra); N. Theotokis, 1731-1800. Ambi, nati a Corfù, studiarono le scienze a Padova
e Bologna e, con tutto ciò, ebbero la vocazione monastica dura, tipo Athos. Ma non furono capiti, come era normale,
(questo dettaglio non lo avevano studiato bene a Padova).
245
Opere: Manuale sistematico della Fede Ortodossa, ( composta con colleghi cattolici e protestanti),Amsterdam 1767,
Aegina 1828; Opere di Teologia Biblica e Morale, pubblicazioni di Opere di Padri come Teodoret di Ciro, o teologi
come Iosif Bryennios, 1768-75, ecc…
327

Suggestivo è il fatto che Vulgaris perdonò la bagarre al vecchio Neofit, invitandolo in


Russia, per salvarlo dalle nuove sventure in cui si era immerso. Neofit vi rifiutò gentilmente e
rimase a Bucarest. Non senza portare una interessante correspondenza con il suo vecchio rivale, in
cui, fra altre cose, contestava, d’accordo con l’altro, il miracolo della luce nella notte di Pasqua
ortodossa a Gerusalemme. Ohimé! Basterebbe questo, ai due scienziati fuori luogo, per essere di
nuovo schiafeggiati o forse uccisi dai nuovi talebani dei monasteri A. D. 2007. Ma il cervello
stravagante di Neofit non si fermò a questa bagatelle. Ricordiamoci che da lì a poco iniziò una
nuova polemica riguardo alla Divina Eucaristia. Idee bizzarre che lui stesso comunicò ai nuovi
amici. Fortuna sua, tutti erano distanti abbastanza, uno dall’altro, per non bastonarsi ancora: Neofit,
a Brasov, in Transilvania; Theotokis a Lipsia, in Germania; e Vulgaris nel sud della Russia. Correva
l’anno 1771.
Il successivo direttore dell’Accademia, fu l’antilatino Athanasio di Paros, (1721-1813),
amico iniziale di Neofit; (rompette con lui, a causa delle eresie dell’ultimo riguardo all’Eucaristia).
Prima, ci ricordiamo, seguì Neofit ed altri colleghi, nel dare inizio alla stranissima disputa dei
kollyvades. Poi, sperò di rifarsi, scrivendo due principali libri anticattolici, imitati con successo
fin’oggi: Palamas e Antipapas, 1775, (l’ultima, la vita del grande oppositore al concilio di Firenze,
Marco l’Eugenico, canonizzato). Era così convinto della demonicità dell’Occidente in blocco, che
finì per difendere la tesi della providenzialità dell’Impero Otomano che, occupando le terre sacre
dell’Ortodossia, le avrebbe salvate dal veleno delle idee rivoluzionarie ed atee, occidentali.
Condannato insieme a tutti i colleghi rimasti, (ma non per quest’ultima teoria), fu anche deposto dal
sacerdozio. Dovette lasciare l’Athos, diventando direttore laico del liceo greco di Salonicco. Nel
1781 è reintegrato dal patriarca Gabriele IV, che riconobbe l’ingiustizia a lui fatta. Ma non torna
più nell’Athos, ne è guarito. Va a Chios, dove insegnerà fino al 1811 e morirà vecchio nel 1813,
polemizzando col cattolicesimo, come col voltairismo e con l’illuminismo greco, difendendo, con lo
stesso fuoco, perfino i turchi davanti all’Europa corrotta e infedele (sic!).
Per il monastero Vatopediou e la sua fama, la fatica di questi intellettuali monaci dei secoli
passati non fu vana. Nel 1930, l’intera Chiesa Ortodossa considerò Vatopediou degno di ricevere il
Congresso internazionale pan-ortodosso, che voleva preparare un futuro concilio, forse ecumenico
per l’Ortodossia. Nel 2000, i monaci superarono 100 unità, di cui 17 romeni, tutti laureati, fra i
quali, due medici.246
Ed il finale dell’Accademia? Da Vatopediou oltre lo skit di San Demetrio, dipende la ricca
skiti di Sant'Andrea, ora senza più monaci russi, ma adibita a ospitare l’Accademia ecclesiastica
athonita, “l’Athonia”, rediviva. Non sono a corrente di ciò che può covare sotto la calma apparente

246
Informazione da Padre Nicodim Dimulescu.
328

del nuovo, affollatissimo, Monte Athos. L’Accademia è però ben piazzata qui, data anche la sua
vicinanza con Karyé, dove il monastero possiede almeno 30 celle.

LE ICONE MIRACOLOSE

Vatopediou non poteva essere priva di icone miracolose. La “Antifonitria”, del VIII secolo, è
la più importante. La sua storia è assai originale, soprattutto perché inattendibile. La basilissa Zoì
venne qui per offrire in dono al monastero la cintura della Beata Vergine. Ma, nel momento in cui
si preparava di entrare in chiesa, sentì una voce ( celeste!) che le diceva:
-Fermati, non avvanzare più, qui è la Regina del Cielo.
L’Imperatrice cadde in ginocchio, s’inchinò e ritornò.
Si ricordò, certamente dello stesso segno avuto dall’Imperatrice Placidia, la figlia di
Teodosio, venuta a Vatopediou, a ringraziare Dio per i suoi Arcadio ed Onorio. Lo abbiamo già
raccontato, questo leggendario episodio, col sincero dispiacere di non sapere se conserva qualche
bricciolo di verità.
La Placidia sarebbe caduta a terra in lacrime di penitenza, chiedendo perdono per la sua visita.
Tornata a Costantinopoli e raccontando all’Imperatore, suo padre, l’accaduto, Sua Maestà diede un
decreto imperiale che proibiva l’accesso alle donne. Sarebbe stato, dunque, provvidenziale l’evento
di Placidia, per poter arrivare a tanto decreto.
Sul luogo dove Placidia cadde in ginocchio, fu alzato, come ringraziamento, l’oratorio in onore di
San Demetrio, che esiste ancora oggi. Ma quando? Nel quarto-quinto secolo? O nel nonno? Dopo il
gesto della Zoì, nell’ottavo secolo, fu dipinta, per quella cappella, l’Icona della Madonna, messa sul
posto dove fu sentita la voce celeste. Così ricevette il nome: Antifonitria.
Che sia dell’ottavo secolo, possono non esserci dubbi. Che sia stata portata qui dopo l’anno mille, è
più sicuro.
Per quanto riguarda la Zoì, non sono stato in grado di scoprire quale delle basilisse fosse
stata così immediata, da venire ai piedi della Madre di Dio per ringraziarla per qualche miracolo: la
Zoì zautzina, la seconda moglie di Leon il Saggio, (886-912), colei che era stata l’amica del futuro
Basileo ed obbligata, nel frattempo, di sposarsi più in basso? Ella, sì che aveva motivo di
ringraziare: morta la basilissa, morto il marito proprio, potè diventare imperatrice. O, forse, la
quarta sposa dello stesso, la Zoì Carbonopsina, quella scomunicata insieme all’imperatore da parte
della Chiesa Ortodossa, i cui Capi e teologi dimenticarono troppo presto che, mentre scomunicano
il quarto matrimonio di un vedovo, ( gesto benedetto dal Signore), approvano fino a tre matrimoni
di divorziati, (gesto aborrito da Dio).
329

La Madonna è onorata qui anche in un mosaico dell’11 secolo, trasportato da


Costantinopoli.
Ma, forse, la più commovente è La Madonna sul trono, circondata da Santi, un’icona portata
nel 13 secolo, miracolosa. Si chiama “La massacrata”.
Il nome le viene da un fatto altrettanto strano: un giorno, un monaco, responsabile del
refettorio, si rifiutò di dare il pane ed il pranzo al diacono che si occupava della chiesa, per motivo
che era diventato ritardatario per abitudine. Il diacono, adirato al colmo, tornò in chiesa e, per
vendetta, colpì con un coltello il volto della Madonna. All’istante, dall’Icona uscì un fiume di
sangue, mentre il volto della Vergine divenne livido come massacrato. Il diacono, spaventato e
pentito, si mise a pregare tutti i giorni davanti a quest’ Icona, per averne il perdono. Morì tre anni
più tardi, in piena penitenza. Qualche attimo prima della morte, la Vergine rivelò a lui ed
all’egumeno che era stato perdonato, ma la sua mano con la quale aveva ferito l’icona sarebbe
rimasta incorrotta come testimonianza. I visitatori possono vedere questa mano, ben nascosta come
una sacra reliquia. (…Noi non l’abbiamo vista, perché l’egumeno, avendo dubbi sulla nostra
ortodossia, a causa della talare troppo italiana, non ci fece vedere nulla di ciò che era nascosto. Alla
fine, debbo riconoscere che ne aveva ragione lui, la talare era perfettamente italiana, anzi,
latinofrona!

SANTI ROMENI e TURCHI A VATOPEDIOU

Lo studioso e nostro predecessore come pellegrino, Marcu Beza, ha visitato e fotografato


vicino al Vatopediou un kellion romeno, dedicato a Sant’Ipatio, che non abbiamo saputo trovare,
se non con l’aiuto dei frati vlacchi, i quali ci hanno mandato lì, per conoscere l’illustre monaco
romeno, Padre Dometian. Come pure lo skit Colkio appartenente a Vatopediou, abitato pure da
monaci romeni. Quattro ore di camminata, da Karyé verso est, attraversando la valle della Kapsala
dove ci siamo smarriti fra celle disabitate e prospettive paesaggistiche di sogno. Senza sapere che
qui potevamo conoscere il monaco santo Trifon, romeno che per 40 anni visse tutto solo in una di
queste celle isolate. Negli ultimi 20 anni era quasi cecco, ma non accettava aiuti, volendo vivere
tutta la sofferenza della solitudine e la sua malattia, tutta, offerta al Signore. Lo visitava il romeno
Xenofon, ma Trifon lo rifiutava con grazia:
-Non venire spesso, altrimenti mi parte l’angelo.
-Padre, ma quando non viene nessuno, cosa mangi?
-Io sono una pecorella. Mangio erba.
330

Faceva finta di essere pazzo, ma non ci riusciva, le massime che diceva superavano in saggezza i
Saggi più famosi.
-Dove vai a fare la comunione?
Rispondeva:
-Come sai, se non sono sacerdote? (Con altre parole, celebrava da solo la Divina Eucaristia,
nascondendo persino l’Ordinazione).
Morì il 15 agosto del 1978. Lo hanno trovato a 15 giorni dopo la morte, piegato su se stesso in
fondo alla sua poverissima cella. Morto felicissmo, nella povertà assoluta e nel distacco assoluto.
Dicono che la fondazione di Colkio fu costruita da un eremita italiano nel’600 del primo
millennio. Poco probabile. Più sicura è la costruzione dello skit da parte del monaco santo, Agapio,
giovane del secolo XVIII esimo. Si racconta che durante un atacco dei turchi, il giovane monaco fu
fatto prigioniero e schiavo. Tenuto in catene per 12 anni, ha servito con fedeltà i suoi padroni, al
punto che i turchi gli lasciarono molta libertà di movimento. Se ne approfittò, giustamente, e riuscì
a fuggire nel segreto, ritornando in Athos. Il suo confessore, però, gli ordinò di ritornare presso i
suoi padroni, per umiltà. I turchi furono così edificati dalla virtù del giovane schiavo, che alla fine si
convertirono anch’essi, e partirono per Athos, (il padre con due dei figli) per battezzarsi e farsi
monaci. Vi sono morti in odore di santità.
Nel 1821, i giovani monaci andarono a lottare contro i turchi, ma le rappresaglie ne furono
terribili. Tutti i monaci di Colkio furono legati in sacchi e buttati nell’abisso dall’alto della
montagna vicina. I turchi applicarono qui anche altre torture, per cui in quel periodo il Monte si
svuotò. Un romeno, Ilie Vulpe, ( 1851-1928) fece riprendere vita allo skit, dopo il 1894, dopo che
aveva fatto il suo apprendistato a Lakou, Vigla e Prodromou.
Sempre a Colkio, nella cella dell’Annunciazione, Padre Dionigi, il romeno, lottò per anni
con ogni tipo di apparizioni diaboliche e demoni orribili, che vinceva con la potenza della Croce. La
vittoria contro queste tenebrose apparizioni ebbe luogo nel 1933. Poco dopo, divenne cieco, ma
felice, e pare che vive ancora, in fama di perfezione, (1979). Del resto, la lotta con demoni visibili
che vengono, bussano, picchiano e rumoreggiano è un fenomeno normale in Athos, come nel
Paterico. Il demoniaco accanimento contro i monaci è però inutile. Gli esseri maligni sono vinti
dall’umiltà e dalle veglie con lacrime dei veri fedeli di Gesù - Dio.
Pare che nel nostro periplo siamo passati vicini alla cella di San Giorgio, veramente non
molto vicina al Vatopediou, dal quale dipende. Lì viveva (e, purtroppo, lo abbiamo saputo dopo) il
vecchio Ghedeone, un altro romeno della Bassarabia, (1894-1979). Da giovane, arrivato nel 1920
in Athos, ebbe la cattiva ispirazione di tornare in patria nel 1940, per raccogliere fondi. Ma, in
quell’anno, proprio la Bassarabia, fra tutte le altre provincie del Regno Romeno, fu invasa dai
331

sovietici, e tutti gli esseri viventi vi furono bloccati, secondo il solito modo comunista. Ghedeone
passò la vita nei gulag della Siberia, e poi nelle patrie galere, adornato dai tormenti applicati a tutti i
veri sacerdoti e uomini di Dio. Appena nel 1963, con un sotterfugio, riuscì a tornare nel suo Athos.
Era vecchio, sofferente e deluso, ma rinsavito dalla terribile sofferenza.

ESFIGMÉNOU

Racconto ora di un monastero che non abbiamo avuto la grazia di visitarlo ed


esperimentarlo, se non nelle fotografie e nelle cronache sempre affascinanti e incredibili. Sta
lontano dall’itinerario comune, sulla costa nord-est della penisola, a 5 ore a piedi da Karyé ed a
circa due ore e mezza da Vatopediou. Vi si arriva su strade poco battute, almeno nel nostro periodo.
Se oggi avranno costruito un autostrada, ebbene, proprio questo sarebbe un motivo valido per non
andarci mai.
È isolata da altri monasteri; ed insuperbita per la scelta della durezza dottrinale, fatta dalla
comunità. Abbiamo, comunque, conosciuto frati e pellegrini che sono stati segnati dalla peculiarità
di questo convento, che è oggi, la capitale degli stilisti, adoratori del Santo Calendario, come dice
Padre Nicodim, mio amico.
Esfigmenou è monastero a statuto cenobitico (dal 1796-1797), dedicato all'Ascensione di
Gesù Cristo. Dalla torre d’ingresso utilizzata come campanile, si entra nella corte quadrangolare,
con al centro il katholikon del 1806-1810, ornato da un ‘iconostasi intagliata e dorata: ottocenteschi
anche la fiàla e la trapesa. E come sembrava stretto fra le due colline “Zoodochos Pighi” e
“Samaria” fu chiamato Esfigmenou. Potrebbe indicare la sua posizione, quasi "schiacciato"
(esfigmenos) tra due colline. Oppure era l'appellativo dell'ignoto fondatore (stretto dalla cintura).
A 500 metri dall’attuale convento si trovano le rovine del vecchio monastero, che vogliono
farlo risalire all’Imperatrice Pulcheria (408-454), sorella di Teodosio II (414-450), raccontando la
stessa versione di Xiropotamou. È più sicuro il riferimento a Pulcheria, sorella di Romano III
Argiro (1028-1034), che l’avrà restaurata, perché il primo documento la nota nel 1016, sotto
Basilio II, il Bulgarochtono.
Con Pulcheria ritorniamo alla strana storia della famosa Zoe dai quattro imperatori e tre
mariti, per amor del Trono. Figlia cinquantenne di Costantino VIII, (l’imperatore morente e fratello
inetto del Bulgarochtono), lei voleva rimanere sul trono. O forse era suo padre che lo voleva, per far
continuare la dinastia, chiedendo a una donna di mezzo secolo di generare un figlio. Il sessantenne
Romano, per amor del trono, l’avrebbe sposata, ma… lui stesso era sposato. Nessun problema di
questo tipo, a Bisanzio: siccome il padre-imperatore- e la figlia avevano messo gli occhi su di lui,
332

gli si diedero poche ore per scegliere: o avrebbe divorziato, o sarebbe stato accecato. Romano era
un cristiano devotissimo, innamorato della propria moglie, ed ora obbligato a rinunciare al vero
amore, per sposare Zoe. Gli venne incontro la moglie che capì; si fece radere i cappelli e chiese i
voti monastici, dando al marito il motivo valido per il divorzio. ( Forse queste belle abitudini dei
cristianissimi basilei spinsero la Chiesa Ortodossa ad essere più misericordiosa di Gesù e di
permettere i tre -uno più due- matrimoni religiosi per divorziati- un suo titolo d’onore in materia-).
Zoe è nostra conoscenza vecchia; ma come l’abbiamo raccomandata, potrebbe sembrare un
mostro di superbia e di lussuria. Invece, dal canto suo, da ragazza, fu sfortunata. Promessa sposa,
(contenta), dell’imperatore Ottone III, trovandosi in viaggio verso il futuro sposo, apprese che
costui era morto di febbre, il 24 gennaio del 1002, all’età di 22 anni. Alcuni storici sono certi che
questo matrimonio avrebbe trasfigurato la sorte dell’Europa intera e della Chiesa. Ma Dio non
intervenne per compiere questo miracolo, e Zoe tornò a Costantinopoli. Lì, nel suo letto verginale
aspettò altri 26 anni per diventare moglie di un eletto forzato, usando, come lo abbiamo raccontato,
i raffinati costumi bizantini. Però… anche se i due sposi gareggiarono nel far costruire monasteri
grandiosi, per purificarsi dei peccati, non vissero soddisfatti. Erano vecchi e non potevano avere
successori. (Senza riprendere il discorso dell’invalidità intrinseca del loro forzato matrimonio). Poi,
Romano si era trovata la Madame o più di una e Zoe turbava. Si fa per dire, turbava, perché
superava lo sposo nel trovare amanti che tutta la Corte conosceva, eccetto il felice consorte.
Un giorno però, Pulcheria, la sorella di Romano, donna devota e attenta, si era accorta-forse per
ultima, nella Corte,- che l’imperatrice si era innamorata di un giovane paflagoniano, bello, pur se
epilettico, Michele, fratello del sinistro eunuco, Giovanni l’Orfanotrofio.
Inutile è stata la sua messa in guardia: l’imperatore era troppo credulone, e poi non era legato a Zoe
sentimentalmente. Lui la maltrattava, non sapendo se portarle gratitudine o stizza.
Pulcheria aveva ragione. Pochi giorni dopo, il Giovedì santo, Romano III, l’Arghiro si ammalò e
morì nel bagno. Crisi cardiaca? Veleno? La testa spinta con violenza sotto l’acqua? Da chi? Dagli
uomini di Michele? Fatto sta che il suo cadavere era ancora caldo e non sepolto, quando Zoe,
vestita in pompa magna obbligò il Patriarca di unirla in matrimonio col bellissimo epilettico, che fu
dichiarato Basileo, prima del funerale del predecessore, il 12 aprile, 1034. Non si poteva
diversamente: quando la vedova si rimarita, la penitenza è sparita. Eppoi…tutto quanto, il Venerdì
santo! Dobbiamo essere comprensivi: devoti come erano, i Basilei e le loro basilisse avevano fretta,
per poter celebrare la Pasqua in grazia di Dio.
La vedova allegra, però, si illusionava. L’ingrato Michele, pochi giorni dopo essere stato
esaltato sul trono, cominciò a maltrattarla davvero, anche perché, da plebeo, odiava il sangue blu di
colei che l’aveva coronato Basileo. L’ha perfino messa agli arresti. Morì presto, per fortuna di Zoe,
333

ucciso dalla sua malattia, però, non prima di scegliere come successore un plebeo ancora più basso
ed intrigante, che Zoe fu obbligata di adottarlo come figlio: Michele il Calafatto. E, con il cuore
cieco che aveva, se ne era persino innamorata. Ma il plebeo numero due maltrattò Zoe con più
perfidia, ancora, accusandola di regicidio e mandandola in esilio; (ha esiliato anche il proprio zio,
Giovanni, il suo benefattore), nella domenica dopo Pasqua del 1042. (Sceglievano la Festa massima
per le loro opere buone).
L’improvvisato imperatore, però, non si era reso conto che aveva superato ogni limite. Il popolo e i
monaci beneficati da Zoe si ribellarono a tal punto che l’incauto perse il regno, mentre la folla
acclamò Zoe e Teodora ( l’odiata sorella, mandata da Zoe in convento) che furono messe sul trono
e obbligate a riconciliarsi a furor di popolo. Il disgraziato ex-imperatore con un altro suo zio furono
torturati ed accecati, dietro l’ordine della ex-suora e co-basilissa Teodora, ( il 20 aprile, 1042, la
sera). Lo studioso Michele Psellos si è divertito nel trasmetterci dettagli interessantissimi a
riguardo. Non dimenticò di ironizzare sul regno condiviso dalle due sorelle che si odiavano
reciprocamente. Applicava loro il proverbio: “Se è bella è vanitosa, se è brutta è fastidiosa”. E, per
finire, Psellos aggiungeva: ”Per parlare senza reticenze, -non sono qui a tessere elogi ma a cercar
di comporre una storia scrupolosamente veritiera-, nessuna delle due aveva abbastanza cervello
per governare…. Per lo più lasciavano che le vacuità del gineceo si mescolassero ai gravi problemi
dell’impero.”247
Per tutto questo tempo, Pulcheria, sorella del primo, e zia del secondo Basileo coronato da
Zoe, affogava il tormento della vita edificando il monastero di Esfigmenou ed altri sacri luoghi.
Pensava di fornire dei posti di penitenza per i futuri basilei caduti in disgrazia. Per dar retta a chi
dice che “se i matti non errassero, i savi s’impiccherebbero”.

Se è vero che prima di Pulcheria, qualcun altro avrà costruito qui qualche cella, essa fu
devastata dagli arabi ed abbandonata fra 830-870; ma fu la tragedia iconoclasta a far soffrire di più i
monaci devoti, la sacre icone, l’arte sacra, le biblioteche, la Fede stessa, in tutto l’Impero.
Esfigmenou fu ricostruito dopo ogni nuova devastazione, nel 873, (?), 1077, e 1534, quando
fu di nuovo totalmente devastato.
Nel XIVesimo secolo, per poco tempo fu qui egumeno, San Gregorio Palamas, prima di
entrare nel fuoco delle teorie che hanno trascinato tutta la Chiesa Ortodossa.
Poi, come sempre, venne il turno dei romeni. Neagoe Basarab invitò il superiore alla festa
di Argesci, nel 1517 e dopo l’incendio, Radu Paisio la restaurò due volte, nel 1534 e nel 1546-
(prima di essere esiliato dai turchi, aizzati dal fratello, Mircea Ciobanu). Il quale continuò il restauro

247
Nel suo libro, “Imperatori di Bisanzio”, (Cronografia), VI,4-5, ed.bilingue, Mondadori ed.1984, vol I, pag.251.
334

di Esfigmenou, per non lasciare l’opera del fratello incompiuta, (sic!). Petru Rares, nel 1546, donò
alcuni carri di denaro ed un epitrachilion. Poi arrivò la mano fraterna e ricchissima di Vasile Lupu.
Non prima della mano del Papa stesso, il magnifico Clemente VIII, che il 24 gennaio, 1604,
raccomanda i monaci di Esfigmenou alla generosità del re Filippo III di Spagna. Direte: come è
possibile ? Li raccomanda al figlio del fanatico? Del boia? Dell’inquisitore? Del mangia-ebrei?
Filippo III, il re di Cervantes e di Lope de Vega? È mai possibile? Senza chiedere la conversione al
cattolicesimo dei poveri monaci? Il Papa fa l’ecumenista ante terminem?
Ebbene, sì, amici. Cancelliamo i preconcetti ed i falsi storici ed ammiriamo senza pregiudizi i geni
del passato, tanto calunniati!
Nel 1622 il gran vornic di Moldavia, dedica un monastero romeno a Esfigmenou. Più tardi il
metropolita greco di Salonicco, Damaschinos, che si era ritirato qui nel 1796, prese una strana
iniziativa: dare il monastero ai romeni, i quali se lo meritavano, dopo tanta prodigalità per i luoghi
santi. Aveva scritto al metropolita moldavo, l’erudito Veniamin Costache (1768-1846),
richiedendogli un aiuto annuale. Il sovrano della Moldavia di allora, il greco Callimachi avrà
rifiutato, per avarizia; il Sinodo avrà rinviato per stoltezza e non se ne fece nulla. Una seconda
occasione non ne venne più. Inutile che i romeni continuino ancora oggi a lamentarsi che i greci
sono ingiusti, non permettendo un monastero romeno, ecc…. Non hai permesso di sprecare le
occasioni della storia. Nessuna.
Veniamin, per consolazione, anzi, per debolezza, dedicò a Esfigmenou il monastero di Floresti, il
più importante della Bassarabia, che, da lì a poco, fu persa, per invasione russa. Ma lo Tzar, per
mostrarsi generoso con i Luoghi Santi, confermò la proprietà dei monaci athoniti sul monastero
romeno, diventato russo.
Aldilà di questo episodio, lo Tzar Alessandro Michailovici, nel 1806, fece quasi ricostruire
il monastero in rovina, katholikon inclusa; poi gli regalò una chiesa a Mosca. Perciò, oltre all'icona
del Salvatore crocefisso- mosaico del XII secolo- ed a frammenti di affresco antico, tipo l’
originalissima “Comunione della Santa Maria Egiziaca”, non si sono conservate pitture sotto il 19
secolo. In compenso, ci sta il museo e la biblioteca, straordinariamente ricche. Raccontano di un
menologio (calendario dei santi) del 1100, ornato con sessanta miniature, tenuto vicino a una
curiosità: un tessuto appartenuto a Napoleone, parte della tappezzeria della sua tenda da campo.
Le molte reliquie si venerano e si offrono con esagerata parsimonia ai visitatori. Non
dimentichiamo che qui è il centro della severità suprema nei confronti dei “traditori della fede”. La
biblioteca è ricca, e, visti i risultati, forse inutile: 8000 libri stampati, 372 manoscritti, 8 rimasti dai
romeni. Spicca un Vangelo greco del secolo XI, illustrato con iniziali in oro e colori e 6 miniature,
legato a Bucarest, nel 1587.
335

Uno degli studiosi aveva contato 233 manoscritti, di cui 60 su pergamena; in mezzo aveva trovato
un bel numero di manoscritti bulgari.
Nel 1900, il monastero aveva debiti insolubili, circa 100.000 franchi in oro. Per grazia di
Dio ai monaci non venne in mente di vendere la biblioteca. Perciò è sopravvissuta ancora.

KOLYVARI ED ANTIKOLYVARI

La biblioteca è stata frequentata e curata da un grande anticolyvaro e studioso,Teodorit di


Giannina, egumeno e restauratore del monastero, andato via come semplice eremita presso la
Grande Lavra. Fu il primo storico vero dell’Athos.
Nella sua foga anticolyvara si mise a escogitare formule valide per sconfiggere il nemico
ideologico. Pubblicò, perciò, in anonimato, a Lipsia, un commentario all’Apocalisse, falsificando il
Pidalione di San Nicodemo, in senso anticolyvaro, introducendo 18 aggiunte. Nicodemo se ne
lamentò all’ allora ex-patriarca Neofit VII, ritirato all’Athos nel 1801, (cioè fatto ritirare dal
successore che aveva pagato di più ai turchi), il quale intervenne a favore del vero autore.
Teodorit vi aggiungeva cose gravi e strane, fra le quali il fatto che Gesù sarebbe risorto di sabato.
(Facile soluzione per accusare Nicodemo di non rispettare la Domenica, ecc.) Come era naturale,
Teodorit fu difeso dal patriarca, in sede, Calinicco V (1801-6), (perché costui era l’avversario
carrieristico di Neofit, protettore di Nicodemo). Egli alzò Teodorit come egumeno a Esfigmenou,
proprio allora, mentre, nel 1803 sospendeva come confessore il padre Ierotheo, “colyvaro”.
Nicodemo decise di lamentarsi a Costantinopoli a tutto il Sinodo, ma fece l’imprudenza di
scriverne la lettera e mandarla nella capitale attraverso qualche personaggio non proprio onesto.
Costui, invece di portarla a Stambul, la portò a Sant’Anna, dove era in visita un diacono di
Esfigmenou, amico dell’egumeno. Il buon diacono diffuse la lettera in tutta la Montagna, non senza
che i monaci di Sant’Anna e di Esfigmenou aggiungessero qualche frase screditoria. Dopo di ché, la
copiarono e la trasmisero, falsificata, in tutto l’Athos, rialzando contro Nicodemo ed i suoi
simpatizzanti un muro di odio e di fanatismo ancora più sfumato di prima. L’accusa di kakodoxia
era la più dolce.
Come sappiamo, Nicodemo era un perfetto ortodosso, ed anche un quasi perfetto cattolico, senza
saperlo; le sue opere sono ineccepibili, gli avversari non potevano condannarle senza falsificarle.
Certo, la lettera dei guai conteneva frasi interpretabili, con le quali Nicodemo voleva coprire
l’esagerazione dell’amico Neofit, ( l’ebreo!), che a Bucarest aveva chiesto ai concelebranti l’intero
agnetz della Comunione. Sicuro del fatto suo, il 19 maggio, 1807, egli scrive una nuova ( tremenda)
lettera che trasmise per quanto poté in tutta la Montagna. In essa denuncia le calunnie del diacono di
336

Esfigmenou, buttate, non solo contro di lui, ma anche contro il confessore Ieroteo, dimostrando che
i kollyvades erano autentici ortodossi e non frammassoni ed eretici.
Come sappiamo, la Iera Kinothita gli fece giustizia il 13 luglio, 1807, condannando la violazione
della corrispondenza e la falsificazione calunniosa dei testi. Inoltre, proclamò l’ortodossia perfetta
di Nicodemo, minacciando con l’esilio chi l’avrebbe contestata.
Occoreva dare però un colpo alla botte. Perciò, il patriarca Gregorio V, in un concilio con 18
metropoliti convocato in agosto 1807, diede un Tomos ufficiale, in cui accontentava di più gli
antikollyvades, con teorie rigoriste ancora valide nelle Chiese ortodosse attuali. Rigoriste, si fa per
dire: contro la comunione frequente, per i digiuni e le astinenze asprissime e complete, compensate
con la libertà di celebrare dei requiem la domenica, e di sposarsi tre volte, da divorziati, senza un
minimo di processo canonico. Non ci stupiamo dell’ autoisolamento del povero Nicodemo
l’Aghiorita, degli ultimi anni.
La decisione fu confermata, però addolcita, con un decreto nell’agosto, 1819, firmato da altri 15
metropoliti. Ma Nicodemo era già morto nel 1809, ed il Patriarca fu martirizzato dai turchi nella
notte di Pasqua, il 10 aprile del 1821, impiccato alla porta della chiesa patriarcale del Fanar, per lo
scoppio della rivoluzione greca a Patrasso, il 25 marzo.
Mi consolo di non aver visto Esfigmenou, con l’idea che ciò che potevo vedere era troppo
nuovo, per arricchire gli occhi e la mente. Mentre le cose nascoste non le avrebbero forse mostrate a
noi. Come dice l’amico Nicodim, Esfigmenou è l’unico monastero zelotista, in cui si venera il
Santo Calendario, l’unico grande santo ridicolo dell’Ortodossia, santo di carta; esattamente come
l’unica santa ridicola del Cattolicesimo è una santa con 4 gambe: la Santa Sede.

PADRE DOMETIAN ED I MASSACRI NAZIONALISTICI


DEI GRECI E DEI BULGARI

6 settembre, 1979.
Da Vatopediou finiamo anche noi nello skit Sant’Ipatio, presso il padre romeno,
Dometian248. Avevamo bisogno di un cuore caldo e di una parola saggia, dopo le freddezze provate
nel grande monastero.
L’incontro con quest’uomo ha dell’inesprimibile. Mi vuole subito medicare, sentendo la
storia dell’operazione ed ammirandomi il coraggio di continuare uun simile viaggio, e mi offre erbe
“naturaliste” per lo stomaco. I suoi racconti, le leggende romene ed i proverbi che dissepelisce per
noi ci commuovono. Tentiamo di tradurre per i nostri amici, ma la nostra traduzione ne è ben

248
Padre Dometie Trihenea. Skit Sant’Ipatio. Vatopediou. Vedi la sua lettera a noi indirizzata, 1980, al cap. fotos.
337

misera. Poi, dopo una simile calorosa accoglienza, vuole accompagnarci. Cammina con noi per un
lungo tratto, per rassicurarsi che troveremo davvero il monastero di Zografou. È disposto a
percorrere con noi tutta la strada, ma noi lo obblighiamo, quasi, di riprendere il sentiero di ritorno
per il suo skit, Sant’Ipatio. Con rincrescimento, si capisce, e con dei sentimenti profusi come per un
incontro celeste. Lui è un pozzo di scienza e soprattutto di informazione preziosa. Le pile ci hanno
tenuto ed ho registrato tutta la conversazione, durante la camminata. Obbligatorio, sentirne la
registrazione. “Fantastico uomo”, ripeteva Sergiu; quanti segreti abbiamo capito dalla
conversazione con lui! Ne trascriverò una piccola parte in queste pagine.

- Padre, Lei è stato superiore a Zografou. Ed ora ? Perché vive in questo skit?
Veramente, non ci ha risposto. Quale sara mai stato il suo segreato? Lo sapremo più tardi. Ora,
trascrivo frasi e frammenti dei suoi raccapricianti discorsi.
Non ho capito tutta una storia con delle campane, che per lui era come una risposta chiarificatrice;
non l’ho capita, perché, mentre parlava, io mi lamentavo che non abbiamo dato ai ragazzi italiani la
confetura, il luhumi e l’alvà.
…..- Vedete, qui tutte le strade ed i ponti sono state fatte dai romeni, le squadre di operai pagati dai
Domni romeni, dai nobili. Lastricate. Da secoli. I greci non hanno restaurato nulla, sanno solo
comandare, mangiare, ubbriacarsi, ed angariare….
E continua:
-A Vatoped vivono, in silenzio, 30 romeni, fra monaci e apprendisti….A Zografou, però,
60 romeni furono uccisi dai monaci e dai civili bulgari. Beh, i bulgari sono specialisti nell’istruire
haiduci pagati, vere commitive di criminali che hanno massacrato i nostri, nei vari metochi.
-Qui, in Athos?
-Non solamente qui, ma in tutti i Balcani da loro controllati; ad ogni modo, io parlo di
Athos. Fucilati o bastonati. Li trovavamo ammucchiati ed era difficile ricomporre i corpi per
seppelirli cristianamente.Per molti anni non ho creduto a simili storie. Come potevano dei monaci,
dei sacerdoti, insomma, dei cristiani così devoti, ritirati qui, per la Gloria del Signore, pagare dei
criminali per compiere simili delitti o commetterli con le proprie mani? Ebbene, un bulgaro mi ha
detto tutto, con lingua di morte, come si dice. Sì, erano monaci. Anche lui era monaco e ne ha
combinato degli assassini, ma non poteva morire senza confessare un crimine così orrendo. Io parlo
di storie prima della guerra, fra il ’20 e ’40, in piena pace. Non dell’occupazione bulgara del 1942,
che lasciò traccie di sangue e di vendette dappertutto.
-E…. tutto questo, perché, secondo Lei?
338

-In patria, per non dover dare diritti alle minoranze. Qui, per non perdere Zografou, l’unico
monastero nelle loro mani; e, forse, per impossessarsene di qualcun altro. Prima, con i re, ora con i
comunisti. Una longa manu in Grecia non fa male.

I romeni li temono. È pur vero, non sai se scegliere fra greci e bulgari. Ecco, i ponti costruiti
con ganci di piombo. Hanno rubato il piombo dai ponti e dai tetti per fare proiettili. No, non i turchi,
non più i turchi. Così hanno guastato i ponti.
Incontriamo un giovane monaco con un cane. Stava guardando, mentre il suo animale
mangiava un coniglio morto. Fra Dometian continua imperterrito:
-Molti misfatti, 2-3, non tutti.
Non l’ho capito.
-Ho scritto tutto, documentato. Tutta la verità, ma per dirla devo fuggire in India o in Russia.
No, coi nostri, qui, non puoi fare molto. I greci ci usano per il lavoro, approfittando della disunione
dei romeni.
-Ma…Quando la patria sarà libera, farà qualcosa?
-Sì, forse, sì, se vivrò. Ora, è impossibile. I diritti dei romeni, dei non greci, oggi come oggi,
non esistono. Da 30 anni subisco con tutti gli altri la nostra comune sottomissione, ebbene, nessuno
ci ha mai chiesto se abbiamo qualche necessità. I greci ti chiedono di non parlare nemmeno il
romeno. Devi stare attento, ecco. Persino oggi, il governo greco non permette l’arrivo a più di 2 o 3
non greci. Lo dico sine ira et studio.
Lo guardiamo pensierosi. Tento di dire la mia, per “equilibrare” il discorso, senza riuscirci:
-Padre, io non giudico i criminali -cristiani orientali- più aspramente degli occidentali, la cui
storia è piena di crimini: dai battesimi forzati all’Inquisizione, ecc... Gli uni e gli altri, in
quell’epoca, non erano consci della gravità del fatto di uccidere. Prima del’45, anche i migliori
cristiani trovavano per i massacri una santa giustificazione: difesa della verità, della patria, della
Chiesa, della vita. Alla coscienza che “uccidere non è mai lecito” arrivavano allora solo i grandi
santi; oggi, questo fatto è evidente anche per un cristiano mediocre. Forse, la società cristiana
doveva passare anche per la tragedia della seconda guerra mondiale, che ha scosso finalmente la
coscienza della massa ed ha aperto gli occhi sul grande peccato dell’uccidere.
L’aggravante forse, per gli orientali, è il fatto che essi continuano i massacri, oggi, e lo giustificano
con delle teorie esilaranti.
Dometian mi dà retta in tutto. E nessuno di noi sapeva in quel lontano 1979 che nel 2000,
per la “fede” e per la propria “parte”, il terrorismo ortodosso, o islamico, ebreo o post-comunista,
(e, nel caso dei croati, anche cattolico) sarebbe cresciuto a dismisura, nei Balcani, in modo ridicolo
e tragico insieme.
339

Mi lamento che i monaci non permettono ai non ortodossi l’ingresso in chiesa. Non possono
partecipare alle veglie, e, pur accolti nei conventi, durante le migliori cerimonie, sono obbligati a
dormire.
Dometian fa un gesto nei riguardi sei suoi colleghi monaci, con l’aria di chi vorrebbe dire: Raglio
d’asino non giunge in cielo!
-Sì, hai ragione, sono degli ignoranti. I non ortodossi dovrebbero conoscere le nostre
liturgie. Ebbeh, sono zeloti, tutto qui. Già coi veri zeloti di Esfigmenou o di Prodromou, non
abbiamo legami. Sono gentili, garbati, ma non cedono… Nessuno, proprio nessuno capisce che la
Chiesa del Signore è una sola!
Padre Dometian mostra tutta l’apertura mentale che può avere un latino (neo-latino!) che ha
viaggiato ed ha visto molte cose. Forse per questo ha rischiato, più di una volta, la vita, proprio qui,
in Athos. Sentiamo la sua storia, decenni più tardi, da Padre Nicodim, a cui Dometian l’ aveva
raccontata:
-Era superiore. e, da superiore, ha rischiato la morte violenta per mano di un nano, bulgaro e
soprattutto monaco.
-È incredibile. Com’è successo?
-Ecco. I monaci di Zografou erano rimasti senza egumeno e non potevano sceglierne un
altro, a causa dei litigi fra i vari partiti. In questo caso si affacciava come obbligatoria una clausola
del testamento del fondatore della comunità bulgara, in cui si diceva che, se non trovavano un
candidato fra di loro, non dovevano ricorrere a nessun altro se non a un monaco romeno. Così, gli
occhi dei frati elettori si piegarono su Dometian che diventò superiore e vi restò per almeno due
mandati, stimato e amato per le cose spirituali e amministrative che realizzava. A questo punto, non
ho capito se fu tutto suo il desiderio di far ritornare romeno questo convento, o qualcuno glielo fece
notare, perché ne cominciò delle trattative segrete con la Chiesa di Bucarest. Però, però, se sei di
carattere espansivo e ti piace confidarti col primo simpatico che ti trovi davanti, non ti mettere in
simili affari. Dometian se ne confidò ingenuamente con troppi amici. La notizia arrivò presto alle
orecchie dei monaci bulgari che, alertati, si lamentarono a Sofia. Il governo comunista o della
Chiesa ortodossa bulgara-era la stessa cosa in quelli anni- rispose con un certo ritardo ed esitazione:
i monaci dovevano disfarsi al più presto di Dometian.
Il Consiglio dei monaci gli chiesero le dimissioni, ma Dometian non ne accettò assolutamente. Al
contrario, minacciò i frati di processo in Grecia per danni morali, sicuro che ce l’avrebbe vinta....
Perciò, non si mosse. Un giorno, però, vide avvicinarsi a lui un monaco nano, dal quale non si
sarebbe mai aspettato a qualcosa di brutto. Vicino a lui, il disgraziato tirò fuori un lungo coltello da
340

cuccina gridandogli con il massimo di odio sul volto: “se non te ne vai, ti uccido in questo
momento”!
Il suo viso, indurito dal rancore, era tutto diverso da quello del buon cuoco che tutti conoscevano. Il
povero egumeno, col cuore in tumulto, fuggì nella torre e gridò aiuto alla polizia stazionata presso le
porte del convento, che, per un pelo, lo salvò dalla violenza omicida dell’ energumeno. I poliziotti,
però, d’accordo con la Comunità, lo condussero nella sua vecchia cella solitaria, di Sant’Ipatio,
lontana dal convento e vi rimase. Lì lo trovammo noi nel nostro viaggio; e, sempre lì, ha trovato lui
la sua fine di monaco degno e onesto, consolato anche dal fatto di aver vinto il processo contro i
bulgari. I quali furono obbligati a riscattare l’offesa a lui fatta con una grande somma, che
Dometian, prima di morire, mandò in elemosina.
Veramente, quando lo abbiamo conosciuto noi, non erano passati troppi anni da questa
spiacevole avventura. Ma non ne fece alcun cenno. Mi spiego, ora, però, la sua profonda avversione
contro i bulgari, monaci o non monaci che fossero….
A un certo punto, lo preghiamo di mostrarci la strada, per risparmiargli la fatica di
continuarla con noi.
Diciamo una preghiera comune, un Padre Nostro in due lingue, benedicendoci avvicenda. Io lo
invito a venire a Roma. Come risposta ci dà il suo indirizzo: ”Vatopediou, S. Ipatie”. Ma lui non
verrà e neppure noi insistemmo. Non avrebbe capito più nulla di noi!… O, forse, sì. Intanto
risponde così:
-Cari miei, ogni albero con la sua ombra. Voi, osate nella preghiera!…
E poi con una piacevole smorfia di scherzo, ricordandosi forse che venivamo dalle vicinanze del
Papa:
-Indulgenza, pazienza!
Ridiamo. Egli si commuove.
-Bene. Andate sempre avanti. Dove trovate tre sentieri, prendete quello avanti….
Posso dire che la separazione da Fra Dometian, almeno per me, è stata altrettanto dolorosa
come quella da Fra Iosif.

La sua vicenda mi ricorda la tragedia chiamata “i crimini dei comitangi bulgari, greci, o
macedoni” di lingua slava, per pulire i Balcani di nazioni a loro estranee. In quelli anni non
indovinavamo ancora, se non per pura speculazione, le pulizie etniche serbo-croato-albanesi che
avrebbero insanguinato, negli anni’90, per l’ennesima volta, la famigerata penisola. Però: se la
violenza di questi popoli contro i turchi, (nel 1877 o 1913) può trovare una spiegazione nella
liberazione da un giogo infernale, quella fratricida, contro altri cristiani, nessuna.
341

E quella contro i neo-latini come si spiega? Io penso che gli slavi dei Balcani, come anche gli
ungheresi, vivono male la coscienza di essere arrivati più tardi, che non hanno diritti storici rispetto
ai romeni, italiani o albanesi.
Il loro caso è chiaro: ma i greci?
I greci, insomma, i greci di oggi, non quelli di Aristotele, vogliono un paese perfettamente greco.
Se, in pieno 2000, teologi ortodossi, considerati importanti, formati, tutti, alla nuova teologia,
spacciata per tradizionale, giustificano la violenza greca contro il nemico, cosa ci può stupire
ancora? Da bravi lupi moralisti accusano gli occidentali, (cito), “di aver inventato la teologia della
liberazione per giustificarsi e tranquillizzarsi la coscienza, avida da sempre della salvezza
individuale e della morale privata”.
Gli ortodossi greci, invece, “vescovi, preti e popolo, si sono dimostrati superiori a questi
scrupoli. Acchiappando le armi, mettendosi in testa alle folle scatenate contro i turchi (e contro i
cristiani non greci, n.n.), questi eroi non hanno più cercato giustificazioni nella Bibbia per
tranquillizzarsi la coscienza, (come gli occidentali, n.n.);… “Certamente, essi sapevano benissimo
che la violenza si trova agli antipodi della verità e della morale della Chiesa e che, secondo la
lettera dei canoni ecclesiastici (sic!), rischiavano tutto: il sacerdozio, la scomunica, la salvezza
eterna. Malgrado ciò, è stata primordiale nei loro occhi la salvezza del popolo (quella nazionale)
non quella egoistica, individuale, (eterna)249. Hanno pensato al “noi”, non all’ ”io”, come dice
Makrigiannis”; alla “comunione eucaristica”, non all’individualismo di tipo occidentale.
“Perciò, era loro indifferente essere condannati o no, (da Dio o dalla Chiesa, n.n.). La loro lotta,
per chi non lo capisce, è un opera eroica di massima abnegazione, è il rischio estremo dell’amore,
un avvenimento di libertà e di comunione. Chi, per questa opera di amore supremo, vuole trovare
scappatoie nella Bibbia è un inetto individualista dalla falsa cultura occidentale, che si preoccupa
della morale, della virtù e di altre piccolezze. Invece i greci in questione sono il modello dei veri
santi ortodossi, folli per amore, educati nel vero spirito ortodosso, dall’etica di libertà e di
comunione. “Ciò che è giusto o falso, buono o cattivo non si giudica, se non con la misura della
realizzazione della libertà, che è superamento di sé,” ecc…. .250
Vi pare che questi deliri sono ironie, tutte mie? No, sono citazioni da un teologo in voga,
maestro e figlio della teologia attuale greco-ortodossa, il cui nemico principale è “agostino”, il cui
odio si esercita contro il mondo dei “franki”, e contro il prelato tenuto come demonio: il Papa.

249
Le parentesi con le precisazioni di rigore non sono mie, bensì dell’autore.
250
Chr. Yannaras, La libertà della morale, pubbl. a Ginevra. Trad. rom.ed. Anastasia, 2004. Traduzione benedetta da
un metropolita romeno; vedi pag.229ss. È lo stesso teologo che accusò San Nicodemo l’Aghiorita e fu condannato dal
Sinodo per questo. Però siamo giusti: i neo-ortodossi, greci e meno greci pensano come lui, non come il Sinodo.
Le ultime due frasi citate sono abbreviate da me.
342

Non credo che i monaci assassini descritti da Padre Dometian si consideravano paladini
dell’amore estremo. Li sopravaluteremmo. Ma, neppur’essi si sarebbero sognati che un giorno, in
pieno 2000, sarebbe sorta tutta una corrente “teologica “ a trasformarli in eroi e santi. E, a chi,
come Sergiu, continua a ripetere che fra i greci di Aristotele o del Crisostomo e i greci di oggi non
c’è più continuità che fra uomo e scimmia, io gli balzo avanti la Maria Callas. “Sì, dice, con quella-
lì si salvano ancora”.

Però…saremmo dei farisei, se ci scandalizzassimo per i monaci orientali, assassini. Per motivi
altrettanto spirituali, il padre domenicano, Jacques Clement assasinò il re Henri III, il monaco
visionario Ravaillac uccise il re Henri IV, mentre i monaci francesi pagavano le canaglie, assassine
di ugonotti, prima e dopo la notte di San Bartolomeo, con lo stesso zelo apostolico. Il Santo Papa
Pio V ordinava di preparare il rogo, ma di aspettare che accendesse lui stesso il fuoco,
altrimenti!!.... Ohimé, il Vangelo era troppo moderno per loro; all’altezza della lettera evangelica si
è arrivato a fatica soltanto nei giorni nostri, quando è evidente per tutti che uccidere non è
cristianamente scusabile, in nessun caso. Di conseguenza, il fatto grave per i terroristi cristiani dei
Balcani è che i crimini della notte di San Bartolomeo li ripetono in pieno 2000.

ZOGRAFOU

Con, in mente, i racconti e le sensazioni forti lasciatici dal destino di Padre Dometian,
arriviamo a Zografou, il monastero bulgaro, di cui il nostro amico è stato superiore poco ispirato. È
un monastero cenobitico (dal 1840), dedicato a san Giorgio (23 aprile), nascosto dai boschi in una
vallata dell'interno della penisola, a più di un'ora di cammino dal suo porto -arsana- posto sulla
sponda occidentale. Fondato agli inizi del X secolo, secondo alcuni, sotto l'imperatore Leone VI il
Filosofo (886-911-12), secondo altri verso il 980, data più probabile. Oggi è riservato ai bulgari.
Per la sua fondazione come per il nome, Dio si è dovuto trasformare in un buon pittore, se è
vero che tre fratelli di Ochrida, Mosè, Aronne e Giovanni, non accordandosi sul patrono a cui
dedicare il monastero, misero nella Kellion vicino alla chiesa una tavola non ancora dipinta e
iniziarono a pregare; la tavola si dipinse da sé (cioè, per forza, è Dio che l’ha dipinta ed anche col
fiato).Apparve l'immagine di San Giorgio che i monaci chiamarono Zogrifos, ed è ancora in grande
venerazione. Da qui, il nome: "(monastero) del pittore".
Storicamente, l'icona di San Giorgio in questione sembra del XIV secolo e secondo gli
esperti, sarebbe di stile italiano. Io ne sono certo, Dio non poteva dipingere in un altro stile.
Altri dicono che la pittura miracolosa fu trasferita prodigiosamente da un monastero dell’Arabia e
impressa sulla tavola già preparata. Questo, perché certi monaci di quel monastero distrutto dai
343

musulmani vennero ad Athos in pellegrinaggio e diedero testimonianza, riconoscendo lì il volto di


San Giorgio del loro convento distrutto. Perciò restarono per tutta la vita in Athos. Anche in questa
seconda versione, il pittore è sempre Dio e lo stile non cambia. Come è chiaro, il nome è più nuovo
del monastero stesso.
La traccia che si vede alla destra del naso del Santo è stata causata dall’estremità del dito di un
vescovo, il quale, arrivato qui in pellegrinaggio, dubitò della storia della traslazione della pittura. E
toccando l’icona disse:
-È propria questa l’icona che dite voi che si è dipinta da sola?
Il ditto gli si è incollato sull’icona a tal punto che, non potendo più ritirarselo, i monaci sono stati
obbligati di tagliargliene la punta, che vi è rimasta come testimonianza.
Se il monastero divenne famoso con una pittura divina, fu privilegiato dai pellegrini e dai
vari sovrani a causa di questa e di altre icone, tutte miracolose ed artistiche e soprattutto ricche.
Un’icona con San Giorgio del 1484, rivestita di metallo prezioso, fu mandata, come
ricordiamo, da Stefano il Grande della Moldavia. Già fra le battaglie di Chilia e Baia vi ha inviato
ogni anno 100 ducati d’oro. Intervenne però un elemento nuovo: prima della terribile battaglia di
Vaslui, del 9 gennaio, 1475, contro i turchi, “al Sovrano apparve in sogno San Giorgio, patrono del
suo esercito; lo rincuorava per il giorno dopo, quella della battaglia”, in cui vinse e stravinse.
Come ringraziamento, Stefan mandò la splendida icona di San Giorgio a Zografou. In seguito, la
fece restaurare completamente. E la restaurò un'altra volta, rivestendola di preziosi, nel 1502, prima
di morire. È piazzata nel katholikon sotto un baldacchino scolpito meravigliosamente e fa
concorrenza all’altra, in materia di Grazie celesti.
Due icone della Madonna non lasciano soffocati nell’incertezza coloro che le baciano con
ardore: La Vergine dell’Acathisto del XVI-esimo secolo, davanti alla quale i monaci cantano
l’acathisto; e l’altra, sempre del XVI secolo, la “Maddonna epakousa”, “l’Esauditrice immediata”:
i monaci pregano davanti ad essa nei momenti difficili e sono subito esauditi.

I bulgari dicono che già dall'XI-XII secolo il monastero sia stato di proprietà esclusiva dei
bulgari. Prima di essere restaurato dai basilei bizantini, Andronico II (1282-1328) e III (1328-41) il
convento fu quasi ricostruito dal Kral Giovanni (Ioan) Assan II,( dopo il 1230), che l’internet
chiama serbo, i bulgari bulgaro ed io vlaccho-bulgaro, avendo io, ragione…Considerato il
principale co-fondatore del convento, è nominato ancora oggi durante le Liturgie.
Giovanni Assan sperava che, per così poco, avrebbe avuto dai monaci dell’Athos l’appoggio
necessario per rimpiazzare in toto il Basileo con tutto il suo Impero (bizantino). Da Capo di una
minuscola nazione (bulgari e vlacco-romeni con serbi, albanesi ed altri) contro un Impero ancora
344

onorato, mostrò quella sfacciataggine necessaria per imporsi e forse anche per intimidire, pur di
arrivarci, i governanti della seconda Roma. Nominò un metropolita per Tessalonicco, suffraganeo di
Tàrnovo, come se la città fosse stata già sua; ed anche in virtù di questo gesto incredibile, i bulgari
pretendono ancora oggi la possessione di questa città, tutta macedone, (nel senso di città di Filippo e
di Alessandro Magno), greca, tracca e romana. Ma i monaci non ci cascarono e protestarono contro
tutte le pretese del neo-bulgaro, che voleva anche l’Athos, o forse anche Roma. In tre mila
andarono i monaci a lamentarsi contro il re e contro i suoi bulgari. L’Impero di Nicea fece poco per
loro, ma alla fine il potere bulgaro finì schiacciato sotto il pro-romano Michele VIII-Paleologo, e
scomparve qualche secolo dopo, nella marea turca.

Ad ogni modo, il monastero, con o senza l’appoggio politico dei bulgari e dei serbi, fu
centro di cultura e liturgia slava. Eftimio, il futuro patriarca di Tàrnovo partì da Megali Lavra e
venne nello skit Selin di Zografou, poi direttamente qui, nel monastero, dove continuò i suoi studi
slavi. Ma lui era romeno, vlacco, ed ai vlacchi, già dal secolo IX-X, i re ed i prelati bulgari avevano
imposto il rito bizantino slavo e la incomprensibile, per loro, lingua slava.
Gli studiosi, su base di documenti, dicono che i bulgari vennero a Zografou solo all’inizio
del 18-esimo secolo e dal 1845 ne formano la maggioranza, celebrando oggi in slavo. La verità è in
mezzo: la classe conducente fu sempre greca, ma i monaci erano mescolati e, salvi i greci, tutti gli
altri, romeni inclusi, celebravano nel vecchio slavo che accomunava gli ortodossi di tutto l’est
europeo.
L'aspetto regolare e quasi senza balconi sporgenti della chiesa principale accusa lo stile
razionale e monotono del XIX secolo. Infatti il katholicon fu costruito nel 1800-1801, (le pitture del
1817), l’ala nord e l’entrata, negli anni 1862-1869. Di poco più antica è l'ala sud-est (1716), mentre
delle ricostruzioni operate dai Paleologhi rimangono pochi elementi, dopo il saccheggio dei pirati
catalani, “latinofroni”. Qui, una pittura del 1817 mostra il Papa in persona che mette fuoco al
monastero, nel quale, per mano papale, muoiono arsi vivi 26 monaci resistenti.
Queste realtà assai nuove raccontano a modo loro ma non lontano dalla verità delle storie
antiche, nelle quali facciamo bene a immergerci. La più terrificante resta quella del martirio dei
monaci anti-unionisti, 26 appunto, in quel secolo famigerato in cui la Crociata IV fece penetrare il
diavolo fin nelle increspature degli altari di questi luoghi.
In quel periodo, in un kellion nei pressi del monastero, viveva solitario un monaco, il quale
aveva l’abitudine di recitare più volte al giorno l’Inno acatisto davanti all’icona della Theotokos. Un
giorno, mentre recitava l’ “Ave”, sentì l’Icona pronunciare queste parole:
345

-“Salve a te, o monaco, anziano di Dio”. Stupito, prestò attenzione al sussurro celeste che si
sentiva dall’icona. Era un ordine:
-Vai subito al monastero, ad annunciare all’egumeno e agli altri fratelli che i nemici si
avvicinano. Chi ha paura può fuggire, chi no, sarà coronato del martirio.
Il monaco si precipitò ad annunciare ai fratelli la rivelazione. Arrivato alla porta del monastero vide
davanti a sé la stessa Icona che egli aveva nella cella e che gli aveva parlato. Dopo averla baciata e
presa con sé, riconoscendo in questo fatto la dimostrazione chiara della verità tremenda che aveva
appreso, raggiunse i monaci e narrò loro i fatti. Molti fuggirono, e, come dice la cronaca, “non
commettevano nessun peccato, perché il Signore Stesso aveva ordinato ai discepoli di fuggire, non
essendo obbligatorio il martirio, prima del tempo”. Ma 26 di loro, compreso l’egumeno, vollero
restare, in attesa del nemico.
Ben presto “arrivarono i filolatini, empi, latinofroni, azymiti, l’Imperatore in persona con il
suo esercito ed i suoi preti unionisti251, che cominciarono a convincerli della bontà dell’unione con
Roma. I monaci risposero che per loro, l’unico capo della Chiesa era Gesù Cristo e che erano pronti
ad affrontare il martirio.
Come sollecita ed accademica risposta, il monastero fu incendiato. Si cominciò con una torre,
quella costruita da Giovanni Assan II, dove i 26 si erano rifugiati. Morirono arsi vivi 21( 22)
monaci e 4 laici trovati con loro. Era il 10 ottobre, 1275. Una cronaca non molto posteriore ai fatti
indica anche i loro nomi, in parte greci, in parte slavi, per essere ricordati come santi e martiri. La
Chiesa greca gli commemora il 22 settembre, insieme con l’eremita Cosma del 1323. La loro vita è
stata scritta nel Nuovo Martirologio da San Nicodemo l’Aghiorita, nel suo periodo più anti-latino.
Dalla torre, l’incendiò divampò anche nella chiesa madre, distruggendo più di 200
manoscritti, vasi preziosi, paramenti, ornamenti rarissimi ed altri oggetti di valore. Ciò che non
distrusse il fuoco fu trafugato dagli invasori. Perirono anche i doni fatti dagli Tzar vlacco-bulgari,
Simeone, (893-927), Pietro, ( 927-969) e Giovanni II Assan.
Il risentimento anti-latino è oggi intatto. E con tutto ciò, nel novembre, 1599, i procuratori
del monastero di Zografou presentarono nelle mani del Cardinale Santoro una professione di fede
cattolica. Il Papa, Paolo V, ne fu impressionato ed attraverso un documento ufficiale, volle
assicurare i monaci della sua paterna sollecitudine nei loro riguardi. Chi sa se un giorno non avrò
tempo di trovare negli Archivi Vaticani indizi ancora più suggestivi! 252 Noto che Paolo V è il Papa
della restaurazione della Basilica in croce latina e del nome che ne investe la facciata.

251
Sull’esagerazione di questa versione, ( presenza dell’imperatore e del patriarca, soccorsi da truppe militari ecc…)
che, secondo la (falsa) leggenda nera, raggiunsero il Monte Athos e soffocarono con la forza la resistenza dei
monasteri, vedi sopra.
252
?
Vedi Hofmann, citato in “Millennaire”, op. cit. pag.157.
346

La conferma del risentimento anti-latino ci arriva anche da un pellegrino: un avvocato serbo


in esilio, con il quale mi misi a discutere sui gradini di Zografou e a tavola coi monaci. Non mi è
piaciuta la sua pacatezza nei confronti del Comunismo che aveva distrutto la nostra vita e la sua. E
neppure il suo fervore anti-romano. Ma non me ne ha stupito più di tanto. Anni dopo ho collegato la
sua avventura di fuggiasco con quella del serbo diplomatico in esilio, Branko Bokun, autore del
libro di memorie, “Una spia in Vaticano” ; il quale, da bravo serbo, per quanto simpatico, non può
non nutrire se non disprezzo per il Papa e per ciò che è cattolico, facendo di tutta l’erba un fascio,
come sta bene a un vero balcanico.
A proposito: i Serbi arrivarono più tardi a Zografou, sotto Stefan Dusan, (1331-1355),
manifestando le stesse pretese pompose dei bulgari. Il sovrano fu coronato solennemente imperatore
(Tzar) dei romani (sic!), il 16 aprile, 1346, in presenza del “Patriarca“ di Tàrnovo, dell’Arcivescovo
di Ochrida e dei superiori dell’Athos, (: gesto che oggi mi dà l’idea di farmi coronare Gran Duca di
Civitavecchia e Patriarca di Allumiere). La cronaca dice che “l’Imperatore” serbo venne a far visita
ad Athos accompagnato dalla “Imperatrice” Elena, sorella del re bulgaro, Giovanni Alexandr,
(1331-1371), rimanendovi per 4 mesi; ma non si capisce se, frangendo le regole, si è portato
l’Imperatrice nei conventi ed ha dormito con lei nella cella di qualche egumeno. O, nel loro caso
non c’ era bisogno di acqua santa per purificare i luoghi e neppure qualche icona della Madonna che
si ribella !!!
Ad ogni modo, Dusan diede immunità totale ai monasteri, attraverso decine di chrisobulle, sparse
negli archivi di tutto l’Athos. I greci se ne accorsero in tempo e si misero con le scomuniche contro
tutti: contro la Chiesa Serba, contro il Patriarca e anche contro i bulgari. Tutto il ‘300 è testimone di
queste tensioni, parallele alla controversia (sanguinosa) isicasta e anti-latina, finite tutte sotto la
melma islamica: Nel 1393, cadde Tàrnovo e, nel 1396, anche Vidin con tutti i loro Tzar e Patriarchi
da operetta.

IL TURNO DEI DOMNI ROMENI

Dopo un periodo di decadenza, Zografou, venne aiutato da Alexandru il Buono, dopo il


1400,(come testimonia un documento ancora esistente nella biblioteca);e restaurato il 9 febbraio,
1433 da Alexandru Aldea della Terra Romena. Si è preoccupato della sorte di Zografou, per
essere aiutato da Dio nella lotta per il trono con il suo cugino Dan. (Raggiunto l’obiettivo, offrì il
Paese ai turchi, fu il primo a farlo). Arrivarono, dicono, in quella occasione, moltissimi monaci
romeni dalla Muntenia ed Oltenia. Continuarono la loro emigrazione sotto Iliasci di Moldavia, il
figlio di Alexandru il Buono, (1436-42), forse perché costui si era fatto musulmano e lo temevano.
347

Negli stessi anni, però, l’Athos fu occupato dai turchi, che, sembra, lo rispettarono meglio dei
cristiani dell’Occidente, non obbligando i monaci a cambiare fede o abitudini, pur chiedendo tasse e
pescikesci sempre più serie. Perciò, Radu il Grande mandò in offerta qualcosa come 3000 aspri,
per quasi tutti i monasteri, a Zografou, con più attenzione; e Vlad Vintilà, Rares lo seguirono.
Fu ricostruito dalle fondamenta da Stefano il Grande il Domn romeno della Moldavia, a tal
punto che fu chiamata lavra moldava. Oggi, dalle sue costruzioni rimangono in piedi il faro del
porto, la trapesi, i palazzi e le iscrizioni che si stanno perdendo. Contiamo pure gli oggetti sacri e
l’Icona di San Giorgio, sopra ricordata, più i 100 ducati d’oro all’anno, (dal 1466) che portano
avanti l’esistenza stessa di Zografou. Fu ripopolato (da monaci romeni-moldavi) nel 1502, che
celebravano in slavo da bravi ortodossi, senza capirne nulla, preoccupati che l’idioma latino, nativo,
non cambiasse loro direzione spirituale.
Bogdan, figlio di Stefan, continuò ad inviare doni e fece finire la torre. Nel 30 luglio,1628,
Miron Barnovski gli dedicò la chiesa parrocchiale Uspenia di Vaslui, fondazione di Stefan il
Grande. Mentre nel 1631, la città di Vaslui fu costretta dal Domn di regalare a Zografou la bella
chiesa di San Giorgio. Nel 1651, Vasile Lupu gli dedicò Dobrovàtz, fondazione di Stefan.
Dobrovàtz! Mia nonna ne parlava con orrore, lo aveva attraversato durante il rifugio nella prima
guerra del 1916.
Il caso del monastero Càpriana della Bassarabia è addirittura ridicolo: il Domn Constantin
Cantemir lo regalò a Zografou, nel 1698, per essere difeso e ripristinato dalla povertà nella quale
l’avevano ridotto i monaci serbi. I greci gli pigliarono tre volte in più la cute. Del resto, questa fu la
sorte di tutti i monasteri dedicati. I monaci stranieri tolsero loro la pelle, li seccarono e li lasciarono
in rovina.
Il vecchio Cantemir avrà avuto la scusa della vecchiaia? (71 anni !). A sentire le cronache, “era un
grande ignorante; mangiava e beveva bene”. Il cronista aggiunge, però, che fece uccidere dei veri
luminari per l’anima romena, come lo storico Miron Costin. Decisioni da ignoranti gelosi. Stava
con i turchi contro i polacchi, ma comunicava a Jan Sobietski tutti i movimenti del turco. Perfetta
controinformazione. In questo fu ultracolto. Poi disse a se stesso: “non voglio che i miei figli
soffrano dell’ignoranza mia” . E fece di Dimitrio, suo figlio, uno dei più raffinati dotti fra i Sovrani
romeni di tutti i tempi, non fosse che per le 14 lingue che parlava correntemente.

La biblioteca di Zografou conserva 8000 libri stampati e preziosi, 514 manoscritti, fra i quali
259 manoscritti slavi e 107 greci, (20 di essi, regalati da vari sovrani romeni, soprattutto da Stefano
il Grande). Un Vangelo copiato nella mia Bistritza e finito qui già nel 1500.
348

Qui, il monaco romeno Vissarion, nel 1503, copia un commentario al libro di Giobbe. Fu
contemporaneo di Filip, un altro calligrafo, discepolo del metropolita Teoctist II. Poi ci fu Cirillo
Hluboceanu, grande talento, che copiò almeno un salterio, nel 1640. I manoscritti antichi hanno
questo di speciale, che contengono miniature ispirate dai lezionari latini. Altrimenti, fra la biblioteca
e il museo, ti trovi davanti dei tesori preziosi, sacre immagini di San Giorgio, con i Pomelnic, le
liste dei defunti di Stefan, Petru Rares, Làpusneanu, Vasile Lupu e molti nobili di vari ranghi coi
loro figli, nipoti e benefattori.
Nel 1966 e (o 76 ?) un incendio distrusse gran parte dei tesori e della biblioteca. Dato che la
mia rassegna ne è anteriore, non sono in grado di controllare cosa sarà rimasto dagli splendori qui
sopra ricordati.

Dopo Zografou ci aspetta una camminata generosa in paesaggi felicemente ameni,


scendendo dirupi e sdruccioli. La vegetazione, un po’ alpina, un po’ da giungla. E, davanti, ci
appare una Croce con un altare di pietra. Segno di Dio, si capisce. Lì ci fermiamo e celebriamo la
Santa Messa, tutta latina, tutta italiana, tutta mescolata, come sta bene a una Messa cattolica.
Discussione con i nostri ragazzi italiani - co-pellegrini- sul senso di tutto ciò che vediamo,
sullo spirito di preghiera e di penitenza di questi luoghi e dei monaci che furtivamente guardiamo
negli stalli dei loro cori, mescolando le nostre anime alle loro. Gigi e Vincenzo sono devoti,
rispettosi, curiosi e pazienti. Ma anche divertiti e sbalorditi del fatto che possono ricrearsi con cose
fatte seriamente. Poi il tempo si gonfiò per la pioggia. E chi può misurare o pesare gli eccessi
d’acqua?

HILANDARIOU
E così finiamo nella piccola Serbia dell’Athos.

In una bellissima vallata verdeggiante, in piena foresta, a Nord Est, a un’ora di cammino da
Esfigmenou, verso l’interno, ed a più ore da Zografou, si alza Hilandariou, questo monastero
idioritmico serbo, dedicato alla Presentazione di Maria Santissima al Tempio (21 novembre). È il
convento più vicino al confine settentrionale della Repubblica monastica, a 6 ore a piedi da Karyé.
Il nome, che sembra significare "mille uomini" (chilioi andres), dimostra ancora una volta
che la nomenclatura del Santo Monte ha delle origini a volte segrete o dimenticate, spiegate a
posteriori, forzando la grammatica: mille sarebbero stati i monaci del convento; mille, anzi mille e
tre, i musulmani che un giorno assalirono il monastero, ma per un miracolo della Madonna,
trovandosi improvvisamente all'oscuro, si uccisero combattendo tra di loro; i tre scampati
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“abbracciarono la fede cristiana, furono battezzati e divennero santi monaci”. Ma chi lo sa? Può
darsi che il nome si debba a un cerco monaco Chilandarios che, nel IX secolo, aveva iniziato un
eremitaggio in quel luogo, poco prima della fondazione del monastero. E, di tutto questo, in
succinto, corse la fama.
L'origine dell’attuale Hilandariou è legata alla fuga dalla corte paterna di Rastko (o
Rastmir), figlio del re di Serbia, Stefano Nemanjia (1186-1195); il giovane si fece monaco col
nome di Sava. (1176-1236).
Occupiamoci di questo eminente personaggio, il primo Arcivescovo della Chiesa Serba
autonoma.
Nacque verso il 1174, col nome Rastko-Crescens, (sopranome latino: da crescere). Nel
1190 ebbe da suo padre l’incarico di governare la regione di Hum, ma lui pensava piuttosto alla vita
religiosa. Cosìché, nel 1192, fuggi di casa e, all’insaputa dei genitori, si nascose sul Monte Athos,
con l’aiuto di un monaco athonita russo che lo presentò al superiore di quel monastero incipiente
che diventò poi Panteleimonos. Quando i messi di suo padre lo rintracciarono, lui non volle
ritornare con loro, ma indossò la tonaca monastica, ed assunse in nome di Sava. Il novizio si trasferì
a Vatopediou dove imparò bene il greco, la patristica, la liturgia, la teologia. I genitori gli inviarono
molto oro per farlo tornare, ma lui li distribuì ai monasteri ed ai poveri. Era un vero monaco, ma
non aveva dimenticato le sue origini di guerriero: in certi scontri con i briganti, ebbe la meglio,
difendendo i monaci, grazie ai trucchi della lotta corpo a corpo, imparati alla Corte.
Il padre, dopo aver riuniti i territori serbi della Rascia e della Zeta in un grande regno,
abdicò e si fece monaco al monastero da lui eretto a Studenica, col nome di Simeone. Poi nel 1197
raggiunse il figlio a Vatopediou, circondato da tutta la servitù e di molti nobili serbi che vollero
diventare monaci, portando come sussidi le loro proprie ricchezze.
Sava fu mandato da tutti loro a Costantinopoli, dove il Basileo Alessio III Anghelos, (1195-
1203)- suocero del re serbo-, commosso per la devozione di questo gruppo ex-barbaro diede ai
monaci serbi tre crisobolle con il permesso di occupare il piccolo convento di Chilandàri -allora
in decadenza- e dipendente da Vatopediou. Chiese loro di ricostruirlo e di stabilirvisi. Così fu
fondato il monastero di Hilandariou sulle rovine del romitaggio iniziale, con un atto di fondazione,
un vero vanto della lingua e letteratura serba degli inzi: Hilandarska povelja, (1198). I monaci serbi
ex-reali furono aiutati dal successore del re, Stefano Nemanjia II, (1196-1227). Un nuovo decreto
di Alessio III Anghelos stabili nel 1199 che questo monastero fosse destinato ai serbi, per i quali
divenne un importante centro spirituale. Non sapeva, Sua Maestà, che, da lì a poco, la Serbia
sarebbe scomparsa nel mare turco e gli unici a poter ricostruire e mantenere Hilandariou sarebbero
350

stati i sovrani romeni, (molti di essi sposati a delle principesse serbe e parlando lo slavo nella vita
pubblica.) Stefano Nemanja morì a Hilandariou e vi è venerato sotto il nome di San Simone.
Sava (o Saba), come monaco in Athos, si mostrò un Padre spirituale, ma anche un giurista:
compose il Tipikon di Karié, (1199), il Tipikon di Hilandariou, e il Tipikon di Studenitza (1208),
attraverso i quali volle regolare la vita dei monaci serbi, che ancora oggi, per devozione, tentano di
rispettare le sue regole, (ustav). Sava, nel 1219, si avviò a Nicea, nella capitale dell’Impero di
Teodoro Lascaris. Costui, per tener buoni i serbi e sottoporli alla giurisdizione di Bisanzio, fece
loro in dono un arcivescovo, nella persona stessa di Sava. Ecco, dunque, il nostro, Capo di una
Chiesa autonoma, arcivescovo di Ipek (ora Peç). Dopo la proclamazione dell’autocefalia della
Chiesa Serba, dai 12 arcivescovi che i serbi ebbero, 8 provennero da Hilandariou. Non sottomessi
ai patriarcati bulgari di Ochrida o di Tàrnovo, i serbi mostravano in questo modo la loro identità nei
riguardi di altri slavi. Beh, se è per questo, i serbi sono slavi veri, mentre i bulgari, non si sa come lo
sono diventati. Certo, l’arcivescovo di Ochrida, Demetrio, protestò contro l’autocefalia di Peç. Ma
c’erano troppi imperatori e patriarchi paralleli nell’epoca, per far valere seriamente i propri diritti.
San Saba ed i re serbi del suo tempo, per saggezza politica o forse anche religiosa,
conservarono buoni rapporti con Roma; cosìcché il re serbo fu coronato due volte: dal legato
pontificio e dall’arcivescovo Sava.
In un’epoca ambigua, di odio, alleanza e confusione, un Santo sa mantenere l’equità e la
verità; e Sava lo seppe fare. Anche quando rinunciò all’incarico arcivescovile, dopo che i bulgari
imposero la loro volontà, vincolando tutti gli slavi balcanici al loro patriarca. Per mantenere la pace
religiosa, preferì andare in pellegrinaggio in Terra Santa, nella Nicea greca, nella Costantinopoli
occupata dai latini e nel Monte Athos, per morire a Tàrnovo nelle braccia del suo cognato, lo Tzar
Ioan Assan II, lo Tzar vlacco del Impero romeno-bulgaro, (14 gennaio,1235). Sava fu venerato in
vita e canonizzato a pochi anni dopo la morte. Ma i turchi, il 27 aprile,1594, bruciarono le sue
venerate reliquie, esposte nel monastero di Mjlesevo. Dando –inconsapevolmente- buon esempio ai
rivoluzionari francesi che (poco) tempo dopo bruciarono tutte le reliquie di santi che trovarono nella
cattolicissima Francia.

Nel 1293 il re di Serbia Stefano V Milutin (1275-1322) fece restaurare il monastero di


Hilandariou, e, in quell'occasione, fu costruito il katholikòn, che conserva nell’interno affreschi del
secolo XIV, restaurati, e un’iconostasi intagliata del 1774. Pare che proprio Stefan Dusan, con tutta
la sua megalomania imperiale, non diede del suo tempo e denaro a Hilandariou; e suo figlio, il
santo Stefano Urosci V, (1355-71) l’ultimo re serbo col titolo di Tzar, dovette assistere deluso alla
frantumazione della “Grande Serbia” in piccoli feudi, prima che scomparisse. Lo abbiamo già
351

detto: le beneficenze ed i segni di devozione non salvarono i serbi dalla sconfitta totale a
Kosovopolje, nel 1389, da parte degli invasori musulmani.
Del resto, il difetto dei sovrani serbi era identico a quello dei romeni e dei cristiani in genere: farsi
guerra avvicenda, per il giubilo del nemico; era ed è il loro divertimento preferito. Non fu, forse, un
Brankovici, il Gheorghi che tradì il grande eroe cristiano, il sovrano di Transilvania, Jancu de
Huniady? Con quel tradimento, l’ultima chance per Costantinopoli di essere salvata si evaporò.
L’ultimo Despot autonomo dei serbi fu Lazzaro Brankovici, che perì nel 1458 nella marea
turca. Dopo questa tragedia, l’unica sopravvivenza per i cristiani sottomessi nei pascialìk era la
professione dei mestieri proibiti dal Corano, che servivano all’occupante. Così molti cristiani fecero
carriera presso le corti turche, pur se qualcuno rinnegava. Mehmet Sokolovici, fratello del vescovo
serbo, Macario, diventato Gran Vizir, lo appoggiò a ristabilire, nel 1557, il patriarcato di Ipek-Peç.
Facile capire: era un falso musulmano, (gli invasori se lo meritavano!). Il colpo sottocintura lo
ebbero però i serbi e tutti gli altri non greci dal patriarca di Costantinopoli in persona, che, con la
scusa dei turchi, nel 1766 e 67, eliminò gli altri patriarcati, “rivali”, (Ipek, Ochrida, ecc…), mai più
risorti.
Vogliamo forse riprendere il discorso riguardo all’estrema violenza degli slavi del sud? Essa
fu punita dalla Storia, - ma la Storia è la mano di Dio- con la trasformazione di questi paesi in
pascialìk, per tutto il tempo dell’invasione turca; poi in repubbliche comuniste-nelle quali la
violenza del regime fu superata solo da quella dei vicini albanesi. Poi, la fine del’900 ha visto degli
orrori ben maggiori, perpetrati dagli uni contro gli altri.
Questo difetto grave non toglie nulla alla corona delle bellissime figure di re, santi, eroi e
poeti nati in mezzo ai serbi, croati, bulgari o albanesi.
Nel 1722 Hilandariou fu devastato da un incendio e visse anni difficili. Il re di Serbia
Alessandro I Karagheorgevici (1843-1858), recatosi all'Athos, dispose che vi si facessero a sue
spese i restauri necessari e che vi fossero inviati monaci dalla Serbia per ripopolare il monastero.
Entriamo anche noi a visitarlo e a pregare, il luogo rispondendo a simile convenienza.
Gli edifici, dominati da un'alta torre, si addossano alle alte mura, disposti in forma di rombo attorno
al katholikòn dal caratteristico esterno, non intonacato, ma con bella alternanza di mattoni rossi e
bruni e decorazioni in ceramica attorno alle finestre. Pur non essendo dei più grandi, questo
monastero è tra i più belli dell'Athos. Gli affreschi del katholikòn e del nartece appartengono alla
scuola macedone (dal 1319 in poi); furono restaurati, dicono, con fedeltà nel 1804. Il refettorio -la
trapesa- si trova di fronte alla chiesa; fu affrescato nel 1623 dal monaco serbo Giorgio
Mitrofanovic, ma vi furono scoperti frammenti del XIV secolo.
352

I ROMENI ANCHE QUI

I romeni elargirono a Hilandariou molti preziosi, da quando diedero il cambio ai potenti dei
Balcani, nel XVesimo secolo. Si trovano ancora, nella chiesa grande, lampadari con stemmi delle
dinastie romene ed icone e vasi sacri di straordinaria bellezza, donate dalle nobildonne del Nord del
Danubio.
Vlad il Monaco, dal 1492, diede un aiuto annuale di 5500 aspri, pregato dall’imperatrice (serba),
Mara, sposa di Murat II, quella che adottò Vlad come figlio. Neagoe introdusse l’acqua come a
Iviron e fece redigere un vero programma di vita ai monaci, che “ogni anno dovevano venire per la
festa dell’Epifania in Terra Romena, per ricevere 7000 aspri all’anno, in cambio di preghiere”.
Radu dela Afumati nel 1525, e Vintilà offrirono 10.000 per ciascuno, Petru Rares, nel 1533,
Mihnea Turcitul nel 1589 offrirono 15000 aspri, seguiti con ardore da Matei Basarab e Vasile
Lupu.
L’ultimo Domn romeno attestato come fondatore a Hilandariou è il fanariota Ioan Gheorghe
Caradgea, (1812-1818). Nel 1813, un piccolo nobile, Alessio di Slobozia, dedica la chiesa da lui
costruita, con giardino e case ai monaci di Hilandariou. È uno dei centinaia di coloro che hanno
compiuto simili gesti.
Più vicino a noi, il padre dello studioso romeno, Marcu Beza, le cui esperienze e studi sul
Monte Athos sono essenziali e perfino consolatori, si espresse il desiderio di morire in Athos. Ne fu
incoraggiato da un amico monaco che gli disse:
-Da qui, figlio, andrai direttamente in paradiso.
Lo speriamo; non per nulla aveva fatto per tutta la vita un bel zig-zag fra Bucarest e la Santa
Montagna. Ebbene, nel suo ultimo viaggio, del 1935, si sentì male e non poté, né volle tornarsene a
casa. Morì e fu sepolto nel cimitero di Hilandariou.

ICONE E RELIQUIE MIRACOLOSE


Ma su quale braccio Maria tiene il Bambin Gesù?

Hilandariou possiede l’icona della Vergine, la “Papadiki”, del XIIIesimo secolo,


miracolosa. Ed anche l’icona dell’Acathisto, dello stesso secolo, dove la Vergine tiene il Figlio sul
braccio destro, come nella Tricherousa, mentre nella Papadiki il Figlio è tenuto sul sinistro.
Problema grosso, questo delle braccia di Maria Santissima, che ha aizzato fino alla guerriglia gli
animi degli ortodossi. Mentre i turchi invadevano Costantinopoli, loro, per devozione, ancora ne
discutevano, animatamente, a fior di pugni e calci, urlandosi avvicenda accuse come questa: “ come
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poteva disonorare a tal punto il Signore da tenerLo sul braccio sinistro?” Risposta: “E, se Lo teneva
sul destro, come si faceva il segno della Croce? “ Corse sangue per questa fondamentale questione.
Se vi fossero stati leggermente più ragionevoli si sarebbero risposti da sé: quando si
stancava di tenerLo sul destro, Lo spostava sul sinistro.
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Ehi, sì, ma cosa dite dell’Icona con la Madonna a tre mani? Ebbene, proprio il
Hilandariou possiede una di queste Icone, particolarmente venerate nel mondo ortodosso: la
Madonna Tricherousa, cioè "dalle tre mani". Beh, non proprio tre, a meno che non si tratti del
solito osservatore superficiale, assai fanatico, al quale può sembrare che la Madonna (del tipo
Odighitria ma col Bambino a destra) abbia una terza mano al disotto di quella che sostiene il Figlio.
In realtà, si tratta di una mano votiva. La leggenda riferisce il fatto miracoloso successo a San
Giovanni Damasceno (+ 749) che, prima di diventare monaco a San Sabba, nel deserto a est di
Betlemme, era funzionario del governatore di Damasco (città conquistata dal califfo Omar nel 637).
Citato in tribunale per il suo zelo nel difendere i cristiani, ebbe recisa la mano sinistra. Allora il
giovane coraggioso prese la mano amputata e la presentò come segno di fedeltà davanti a un’Icona
della Vergine, senza nulla chiedere. Ma dall'icona usci una mano della Madonna che riattaccò
perfettamente l'arto amputato. Per riconoscenza, Giovanni fece applicare all'icona una mano
d'argento, poi si fece monaco e divenne un grande dottore della Chiesa. Un'altra storia dice che
l'icona era finita nel monastero di Studenica, e venne a Hilandariou da se stessa, a dorso di un
mulo.
La verità è che è stata portata da San Sava al ritorno dal suo pellegrinaggio in Palestina, nel 1233,
quando fu mandato dal sovrano romeno-bulgaro per ottenere il consenso dei patriarchi orientali per
la restaurazione del Patriarcato bulgaro, distrutto dal l’Imperatore Bulgarochtono.
Posta dai monaci sull'iconostasi, a tre riprese fu trovata alla mattina sul seggio dell'egumeno. Da
quel tempo, la Vergine è considerata la Superiora del monastero, e non venne eletto più nessun
egumeno. Fu rivestita da Matei Basarab e Donna Elena, con una corona d’oro e perle e più collane
di perle sotto l’aureoola.
Se giri gli sguardi, scopri anche le reliquie della vera Croce, icone portatili a mosaico,
oreficerie e candele con stemmi romeni.
E, se sai chiedere, ti mostreranno una vite avvolta nella leggenda. Leggiamo ciò che scrive a
proposito il poeta e filosofo Luciano Blaga253:
“Voglio dare un esempio di espressione poetica del sentire ortodosso, attraverso una
leggenda athonita: Sul muro principale della chiesa del monastero di Hilandariou cresce,

253
In “Trilogia culturii”, cap. “Spatiul mioritic”, Bucarest, 1944, pag.183ss.(In romeno).
354

arrampicandosi verso la luce con un potente ceppo e forti ramificazioni, una vite. I monaci del
luogo ti informano che questa vite sgorga dal sepolcro del santo Simeone, (Stefano Nemanjia)
fondatore del monastero; e che la vite non sia mai stata piantata da qualcuno: è spuntata da sola,
per miracolo. L’uva di questa vite avrebbe il dono miracoloso della fertilità per le donne sterili. I
monaci sanno pure che i maschi partoriti in seguito a questa medicazione, quando crescono,
trovano sempre la via verso il convento. Nati già benedetti, si sentono irresistibilmente attirati alla
vita monastica ed alla luce dello spirito. “254
Se vi domandate come fanno le sfortunate donne sterili ad avere fra le mani quest’ uva
miracolosa, mettiamo che mandano a Hilandariou i propri mariti, a posta; se non, per caso, i
monaci stessi regalano, meglio, vendono quest’uva sul mercato delle interessate. I risultati devono
essere colossali, visto il gran numero di vocazioni monastiche nel mondo cristiano ortodosso.
Questa spiritualità, Blaga ed altri filosofi la considerano esempio di mentalità ortodossa, chiamata
“organica”; fecondità organica, risultato miracoloso della rinuncia alla vita, di un anacoreta.
Mettiamola così.

La biblioteca contiene 990 preziosi manoscritti miniati, slavi e greci; 60 di essi, donati dai
romeni. Se contiamo anche i 20.000 libri stampati, non c’è che dire: hanno ragione i serbi a
considerarla una vera università per loro, nei tempi bui dell’invasione musulmana: fra copisti,
calligrafi e traduttori della Bibbia. Lo staretz Isaia, una sommità per quell’epoca, fu l’egumeno di
San Nicodim di Tismana, all’inizio del’300.
Anche per i bulgari, il Hilandariou fu un vero centro di resistenza politica, sotto copertura culturale
e religiosa, perché la scuola slava tenne sveglio anche in loro lo spirito di fronda contro i turchi ed
anche i piani dell’indipendenza nazionale. Le attività si svolgevano e si svolgono ancora attraverso
le dipendenze a Karyés ed altrove.
Quando si va via, meglio non dimenticare a salutare un cipresso di 35 metri di altezza.

KONSTAMONITOU

Fra Zografou e Dochiariou, lasciamo in disparte con dolore il Monastero di Konstamonitou


con i suoi 10 monaci. Posto all'interno, in una valle boscosa e quasi affondato nella vegetazione, è
piccolo ma grazioso, a statuto cenobitico (dal 1799), dedicato al Santo Stefano, Protomartire (27
dicembre). Fondato nell'XI secolo, sono stati scoperti dei documenti che attestano la sua esistenza
già da prima.

254
Citato da Blaga da Fr. Spunda, Der heilige Berg, Athos, 1928.
355

Anche in questo caso, il nome viene spiegato in vari modi. L'ignoto fondatore proveniva da
Kastamoni, dell'Asia Minore? Oppure apparteneva alla famiglia bizantina dei Kastamoniti? Forse è
Ioannis Kastamonitis, che nel 1191 divenne metropolita di Calcedonia e turbò l’Impero con la sua
stranissima teoria sulla corruttibilità del Corpo di Gesù nell’Eucaristia, di cui abbiamo parlato in
un'altra occasione. Ci ricordiamo che la teoria fu inventata dal segretario dell’Imperatore Manuelo
Comneno, un certo Michele Glykas, nel 1100, per consolarsi della punizione dell’accecamento in
seguito a uno processo di negromanzia. Divenuto monaco e teologo improvvisato, mise in piazza la
sua elucubrazione, il cui effetto fu incredibilmente deleterio; indebolì il Paese a tal punto che
qualcuno dà a questo turbamento che divise gli animi la colpa dell’invasione veneziana della
Crociata IV. Dio la permise, di certo, per ripagare il grave peccato dell’accecamento degli avversari,
usanza barbara ripetuta troppe volte per mano cristiana.
Leggendaria è l'attribuzione della costruzione di Konstamonitou all'Imperatore Costantino, il
quale avrebbe costruito una piccola cappella, vicina a una città antica che esisteva qui, le cui rovine
si possono vedere ancora. Cappella terminata dal figlio di Costantino, Costanzo, dal cui nome
alcuni monaci deducono l’intitolazione del monastero.
Nel 1278 “fu bruciato dai latinofroni del Patriarca Bekkos e dei suoi famigerati compagni”,
che distrussero anche il monastero vicino, scomparso in seguito, lo Skamandrinou. Con l’aiuto
dell’Imperatore Andronico II Paleologo, Il Konstamonitou fu ricostruito.
La principessa della Serbia, Anna la Gentile, fece in dono al Monastero il piccolo convento vicino
di Sant’Antonio il Neakita, che lei ha comprato dal Prothos del Monte Athos. Ma Anna era romena,
“Domna Anna” come la chiamano nei documenti, moglie del grande celnik di Serbia, Radici e
figlia ignorata di Mircea il Vecchio. Siccome, però, nel 1428, il monastero fu incendiato di nuovo,
a tal punto che fu abbandonato, il Radici si mise a restaurarlo, nel 1433. E, dopo la morte della
moglie, venne a farsi monaco qui, prendendo il nome di Romanos.
Vengono poi, come in regale processione, i doni e gli aiuti costanti dei Domni romeni.
Stefan il Grande regala 5000 aspri all’anno; Neagoe apre ancora una volta la sua cassaforte; Vlad
l’annegato, nel 1531, nei suoi 3 mesi di regno, dà 15 000 aspri a Sinai e due documenti con regali a
Konstamonitou e Kutlumus. Aggiunge 6000 aspri, programmati anche per gli anni successivi, e 600
per il viaggio dei monaci. Vi è rimasta scritta la motivazione, provenuta da un animo sincero:
“perché non è capace di santificarsi altrimenti, né di avere virtù”. Lo segue Petru Rares, nel 1538,
con 6000 aspri; nel 1583, Mihnea il turcitul; il 12 maggio 1612, Radu Mihnea, per farsi
perdonare per il massacro dei nobili. Un atto inedito indica Pietro lo Zoppo, zio di Radu, con 5000
aspri all’anno, prima di ritirarsi in Occidente.
356

Nel 1717, il monastero fu di nuovo incendiato. Aiutato da più sovrani, romeni e russi, si
riprese lentamente. Il katholikòn, restaurato a fondo solamente nel 1860-67, non è affrescato. La
principessa Kira Vasiliki, moglie del Pascia Alì di Giannina, diede al monastero le sue bigiotterie.
Non posso controllare se era cristiana o musulmana: cioè, per quei tempi, cristiana segreta.
È qui che visse il futuro beato e martire, Paolo Konstamonitou, al secolo Pietro, nato a
Giannina negli anni 1780-90, il quale ebbe una evoluzione curiosa verso la santità, (che vale la pena
ricordarla:) Sentendo la vocazione monastica, rivelò questo suo pensiero proprio alla Donna
Vasiliki, moglie del Pascià, alla cui corte probabilmente serviva. Lei lo affidò a un monaco del
soprarricordato monastero dell’Athos al quale lei stessa si confessava. Pietro lo seguì nel suo
convento, dove indossò l’abito monastico e vi visse in santità fino al 1821. Fu arrestato dai turchi, a
causa dell’Eteria greca; e si sarebbe salvato se, portato a Salonicco in tribunale, avesse rinnegato
Gesù Cristo e si fosse fatto musulmano. Affrontò la morte con dignità, accanto al suo padre
spirituale, fra Benedetto. Brutti tempi…. in cui, però, la Balcania si riempì di eroi, ed il cielo di
Santi.

La biblioteca conserva oltre 3000 libri stampati, 110 manoscritti, dei quali, 14 su
pergamena, ed uno regalato da un nobile romeno. Fra i preziosi, spicca l’icona del XIVesimo
secolo, del Patrono, Santo Stefano.

Attraversiamo ombrosi deserti e boschi soligni, il viaggio è lungo, la stanchezza dolce,


facciamo la vita dei haiduki, ohi, giovinezza ben organizzata! Arriviamo al monastero Dohiariou,
insieme col tramonto. Con questa mossa ci avviciniamo alla riva ovest, a noi familiare, che abbiamo
contemplato dalla navicella. Infatti, abbiamo ammirato e fotografato la Dohiariou già due volte,
dalla nave, prima di visitarla. Ed ora eccoci lì. Ci accolgono con la tipica devozione data ai
pellegrini rispettosi. La cena, i letti, le liturgie notturne, le tonache che funzionano, la mia ferita che
sembra scomparsa, il buon umore, il sonno senza ricordi.

DOHIARIOU

Finalmente un monastero idioritmico in toto, popolato da 12 monaci nel 1977. Secondo le


mie informazioni, si sta trasformando in comunitario ed i monaci traboccano anche qui, come una
benedizione o come una illusione del dopo il 2000. Il futuro ci mostrerà la pura verità in materia. La
seconda caratteristica: possiede il katholikon più grande e alto dell'Athos, opera del Domn romeno,
il tiranno Làpusneanu. “Te pareva”…, potrebbe dire qualcuno.
357

Dedicato prima a San Nicola, ma poi, in seguito a un miracolo operato dagli Arcangeli
Michele e Gabriele, fu dedicato a loro, con la festa nell’8 di novembre.
Perché a San Nicola? Perché il nome del monastero sembra riferirsi ad un fondatore che si
chiamava Nicola, il quale cambiando il nome in Neofit, diventò monaco e primo egumeno. Un
documento del 1092 lo attesta. Egli sarebbe stato dochiris, cioè addetto alla custodia del vino nel
dochio, il deposito, la cantina della Lavra di sant'Atanasio.
Altri storici però vedono spuntare questo luogo sacro nel X secolo (976 circa), per opera di
sant'Eutimio Bisanthios, discepolo di sant'Atanasio; sarebbe quell’Eutimio, figlio di Giovanni il
georgiano, il quale, diventato, accanto a suo padre, discepolo di Sant’Athanasio, edificò Iviron.
Il suo edificio fu distrutto più volte, ed era normale, in quei tempi bestiali, perché Dohiariou
si vede da lontano, come in vetrina; fu restaurato dall’imperatore Giovanni IV Lascaris255 ( forse
per chiedere il miracolo di guarire dalla forte epilessia) e poi nel XVIesimo, da Stefano il Grande,
il Domn romeno; e da suo figlio, Bogdan; seguiti da altri romeni, nel -XVII secolo.
Vlad Càlugàrul nel 1490 offrì anche qui 3000 aspri all’anno, ricevendo la delegazione dei monaci,
venuti a mendicare. Nel 1497, Radu il Grande, il figlio, lo copiò, dando poi il turno a Vlad
Vintilà. Radu Paisio radoppiò : 6000. Alessandro il Cattivo, per cattiveria, aggiunse, oltre alla
moneta, anche una vigna, presso Stelea, nel centro di Bucarest. Cosa mai avrebbe aggiunto, per
bontà? Il crudele Làpusneanu aiutò un famoso prete greco di Adrianopoli che, guarito da Dio si era
fatto monaco e voleva restaurare il monastero. L’aiuto del terribile Domn era in realtà una
ricostruzione, il monaco in questione offrendo le preghiere e la buona volontà. Così fu alzato il
famoso katholikon.
Il metropolita della Moldavia di quei tempi, Teofan, è sepolto qui. Lo abbiamo incontrato, mentre
benediceva l’avvelenamento del Làpusneanu e poi si ritirava in Athos, per lasciare libero il Domn
Petru lo Zoppo, di alzare sul trono metropolitano un prelato pro-occidentale. Due volte metropolita,
due volte fuggito e poi finito a Bistritza della Moldavia nel 1587, è quasi scappato di là, a
Dochiariou, dove lo hanno sistemato nella torre, con diritti in cucina. Oggi contempliamo la sua
tomba, nel cimitero dei monaci. Elisabetta, la moglie del Domn Jeremia Movilà, dopo la morte di
Teofan, nel 1598, fece mettere sotto il quadro con grandi occhi e barba bianca, un epitafio in versi,
“perché è orgogliosa di lui, parente amatissimo”.
Durante il suo governo, da Primate, nel 1564-67, il Domn Làpusneanu aveva fatto, appunto,
costruire il katholicon, affrescato nel 1568 da Theofane di Creta o dalla sua scuola, tutti pittori di
scuola cretese. (L’iconostasi intagliata è però del 1783.) Come si vede, grazie a questo enfant

255
?
Non sono certo se non si tratta di Giovanni V, Paleologo, ( 1341-91)che forse restaurò il convento, dopo la scomparsa
del tutore, Giovanni VI, Cantacuseno, (1347-54).
358

terrible della storia romena che fu Làpusneanu, il Dohiariou possiede il katholikon più grande e
alto dell'Athos. Grande, per comprendere, sullo stesso muro, dedicato ai fondatori, le immagini di
amici e nemici che si prodigarono in vita per la gloria di questo monastero: Làpusneanu,
Ruxandra, Constantin, Bogdan e Petru, Domnitza Ralu ed altri. Làpusneanu diede anche la
Vera Croce, in un reliquario- per forza a forma di croce -, che, deteriorato, fu mandato nel 1779 a
Bucarest per il restauro. Donò anche una cassa d’argento a forma di Vangelo, che fu rimandato
anch’esso nella capitale romena dove regnava Alexandru Ipsilanty. Sua figlia, Domnitza Ralu,
ragazza devota, fece restaurare tutt’e due i sacri oggetti, riargentandoli. Curioso: un sentimento
delicato mi lega a questa principessa dell’inizio’800, che fu la salvatrice di Jancu Jianu, l’eroe delle
storie della mia infanzia. Ohi, come non dormivo per ascoltare Tati, l’artista Popian, mentre mi
raccontava la storia della salvezza di Jianu, mediante la grazia richiesta da Domnitza Ralu a suo
Padre, a cui chiese la benedizione per sposare il giovane haiduk! Io, giovanissimo cicerone dei
turisti, a 7-10 anni, raccontavo a questi curiosi della sua bellezza, come se l’avessi vista. Ero molto
fiero dello stupore che provocavo, a prescinderne dai motivi.

Singolare e ardito, però, fu il gesto compiuto da Ruxandra e figlio, Bogdan, dopo e senza il loro
terribile tutore, Làpusneanu. Nel 1570, un inviato del Sultano fece conoscere ai frati che tutti i beni
del Monte sarebbero stati confiscati. I monaci disperati vennero a lamentarsi da Ruxandra e da
Bogdan. I due, il Domn e sua madre, riscattarono tutti i beni, mobili ed immobili del Monte. Ignoro
come ed in che modo la ricchezza di una povera principessa romena potè saturare l’ingordigia
musulmana e non so in quale biblioteca romena si conservano due lettere di ringraziamento dei
monaci, indirizzate a questa coraggiosa sovrana. Donna Ruxandra morì il 12 novembre 1570 e fu
sepolta a Slatina, accanto allo sposo da lei (forse) avvelenato. Làpusneanu era morto il 5 maggio,
1568, e, come sappiamo, si era fatto ammonacare col nome di Pacomie. Svegliatosi dal religioso
fervore, aveva voluto mandare nei conventi dell’altro mondo metà Moldavia, ma la mano dei
nemici e dei familiari fu più svelta. Fecero bene a seppelirlo in Moldavia, perché, per le ultime 2700
monete d’oro che aveva mandato a Dohiariou prima di morire, ed anche per la fama di essere
diventato religioso, per poco i monaci non lo hanno canonizzato accanto al suo metropolita
preferito, finito fra loro. Nella tabella dei soccorritori del monastero ci stanno anche il boier
Stroici, nemico acerrimo di Làpusneanu; e, s’intende, Vasile Lupu.
I romeni continuarono le donazioni fino al XIXesimo secolo. Alexandru il Coconul non
poteva mancare : offrì a Dohiariou 12 poderi in Terra Romena. Ancora un po’ e vi avrebbe offerto
anche la capitale.
359

Matei Basarab e tutto il suo secolo di Domni e nobili valacchi aiutarono Dohiariou in mille modi,
il più prodigo essendo proprio lui, questo inimmaginabile vecchio, guerriero, crociato e ultradevoto;
che, da 116 donazioni che firmò, 87 furono rivolte ai monasteri. Fondò da solo 30 luoghi sacri nella
sola Terra Romena, (Valacchia) e restaurò quasi tutto l’Athos: Xenofontos, la Lavra, Dionisiou,
Hilandariou, Simopetra, Kutlumus, Pantocrator e Russikon. Ma, sempre lui, a differenza del
rivale, Vasile Lupu della Moldavia, proibì la soggezione dei monasteri della Romania ad Athos,
eccetti quelli già offerti dai fondatori. Per questo motivo, i greci perdettero molti privilegi in Terra
Romena e molte occasioni per mostrare i loro magici poteri di corruzione. Matei Basarab fu odiato
immensamente dai greci, che si dimenticarono di tutti i doni da lui elargiti. Perciò, il nome di Matei,
come quello di Cuza non è pronunciato con piacere dai reverendissimi dell’Athos, neppure oggi. Ha
detto bene il Poeta: date con qualche ritegno se non volete che le vostre divinità siano
disprezzate.256
Veramente, in quell’epoca di mezzo fra la rottura del 1054 e il talebanismo moderno
mascherato dietro varie facezie, i monaci athoniti arrivano anche a Roma a lamentarsi,
dimenticando i grandi rancori teologici. Il Papa, Clemente VIII, dà per loro una bolla, precisamente
l’11 luglio 1593, attraverso la quale autorizza i monaci di Dohiariou a raccogliere offerte per il loro
monastero, in Italia ed altrove, nell’Occidente cattolico, pardon, eretico!

Ci godiamo, intanto un buon albero di Jesse, dipinto come in Bucovina ed un affresco di una
piccola cappella, a destra del refettorio.
L’affresco più originale resta qui il “trimorfon” i tre visi: il Signore Gesù sul Trono, implorato dalla
Madonna e da San Giovanni. Ne vale la pena sostarvisi più a lungo in preghiera.

LA MADONNA MALTRATTATA

Una cappella conserva l'icona della Madonna Gorgoepikoos, ossia “Colei che risponde
prontamente”. La povera Icona fu vittima del cattivo scherzo di un monaco, servitore della cappella,
che, ogni volta che passava davanti all’icona, la affumicava con una torcia. Un giorno, mentre
completava questo gioco stupido e sacrilego, sentì una voce che proveniva dall’icona:
-Finiscila! Chiama piuttosto i peccatori davanti a me. Io esaudirò loro prontamente; ma gli
impenitenti saranno puniti.
Fu misericordiosa, Maria Santissima, col povero babbeo.

256
Shakespeare.
360

La seicentesca torre campanaria ospita la biblioteca, che conserva oltre 3000 libri stampati,
441 manoscritti, dei quali 395 codici miniati e 6 romeni.
Nel tesoro, custodiscono un Vangelo greco del XII-XIII secolo, regalato nel 1599 dal grande
logotheto della Moldavia, Lupu Stroici, che lo ha anche legato in argento dorato. Conservano
anche un Messale greco, il Liturghier scritto a mano dal metropolita Matteo delle Mire-conoscenza
vecchia- nel 1609, tutto in oro e con colori vivaci.

È il 7 settembre, 1979. I monaci ci accolgono con dolcezza e semplicità. Ci fanno assistere


senza problemi al servizio delle ore, ma, come altrove, “non c’è Aghia Liturghia oggi”, o “ la regola
richiede un solo celebrante”, perciò non possiamo concelebrare. Abbiamo dovuto improvvisare
come sempre un altare fuori, (in questo caso, sulla spiaggia), per la nostra Messa. Ma le sorprese
non sono finite. Se le nostre tonache strane, (italo-cattoliche, cioè) hanno funzionato come
“ortodosse romene”, i nostri cappelli non avevano nulla di ortodosso. Non basta, cioè, avere la
barba, o, semplicemente cappelli lunghi o corti, importante è…..! Un monaco, in un buon italiano,
(e non abbiamo capito se anche lui aveva studiato in Italia, per tornarsene a casa più avvelenato di
prima contro i franki-italiani), ci teorizza:
-Un vero ortodosso, fili mou, vuol dire avere barba, i cappelli non tosati e legati a coda,
dietro, e, oltre tutto, seguire il calendario, stile vecchio. Punto e basta.
Ma non ci guardò con occhi terribili come il superiore di Vatopediou, anzi, ce ne salvammo
presto, perché io rispondevo solo né, né 257 e gli altri correvano avanti come dei pazzi.

Poca strada ancora… e 5 minuti più tardi, presso la riva del mare ci trovammo comodamente
davanti al monastero di Xenofontos.

13. XENOFONTOS

Un altro monastero, dunque, -fra i più vecchi- adagiato in riva al mare, (a statuto cenobitico
solo dal 1780-1785), dedicato a San Giorgio (23 aprile). Si erige sempre sulla costa sud-ovest,
perciò, ogni volta l’abbiamo salutato e fotografato dalla navetta.
Come molti altri luoghi sacri dell’Athos, ha un nome che aiuta i mitologizzanti a riportare la sua
storia indietro nel tempo, (in questo caso, il nobile senatore Xenofon, il 520) ma gli storici
collocano la fondazione all'inizio dell'XI secolo, quando visse il santo monaco Xenofon
(Senofonte), discepolo di Sant’Athanasio. Il primo documento che lo attesta è, appunto, del 1083.

257
Cioè sì,sì, in neo-greco.
361

Le prime costruzioni solide furono dovute alla munificenza di Basilio II, (976-1025). In
seguito, un certo Stefano, ammiraglio (drougarios) di Niceforo III Botaniate (1078-1081), si fece
monaco col nome di Simone. Divenuto egumeno, ingrandì il monastero con una certa irruenza, da
provocare l’ira degli altri egumeni. I quali, giudicandolo troppo invadente, lo deposero.
Certamente, possiamo indagare in tutti i modi, come fa un uomo che fugge gli onori, si
nasconde e diventa monaco, a finire poi superiore - comandante- volens nolens di altri? E, se si
mette a costruire in casa propria, perché mai dovrebbe infastidire i cervelli altrui? Soprattutto
quando si tratta di monasteri dedicati bene o male al Dio vero? Non ho ancora capito, questo
mistero, dopo anni di scuole teologiche e di vita religiosa in mezzo ai miei colleghi di ogni fede,
nazione e livello. Il nostro Stefano è stato l’uomo di un generale capace, (Il Botaniate), ma
usurpatore del trono, che è diventato (incapace) imperatore, facendo abdicare Michele VII e
accecando il rivale, il generale Niceforo Bryennio. L’ammiraglio ammonacato rimase con certe
abitudini specifiche alla gente delle Corti: l’intransigenza per gli altri, pur non contestando la
severità per se stesso. Alessio I Comneno (1081-1118), salito sul trono in seguito all’abdicazione
del Botaniates, lo fece riammettere e lo impose alla comunità degli egumeni. Così sopravisse a
lungo, con i suoi pochi amici, per la stizza dei nemici. Dice bene il Poeta: Dio li lasciò invecchiare,
sì che si saranno ridotti a carogne ripugnanti alla vista.258
Nel 1225, il convento “fu distrutto dai pirati latini”, ( non potevano esserci altri, se non
latini). Nel XV secolo si spopolò, per venir popolato poi da monaci serbi e bulgari in fuga. Saranno
stati anche romeni, ma a nessuno interessava questo, perché tutti celebravano nel sempre più
incomprensibile slavo vecchio.
Barbu Craiovescu, oltre ai soldi per la ricostruzione ed all’argenteria per il culto, consacra
a Xenofontos lo skit Zdralea in Oltenia; è il primo luogo di culto delle Terre Romene dedicato
interamente al Monte Athos, accanto allo skit Roaba, sempre delle mie parti oltene. Neagoe
Basarab, invita il superiore alla festa, con tutti gli egumeni dell’Athos. Dal devoto Domn rimane
qui una ricchissima stola, che, se sei fortunato, te la fanno vedere. I due mila aspri donati nella
stessa occasione, penso si siano evaporati. Li ha rimpiazzati Radu della Afumatzi, dal 1526, con
altri 2000, suoi. E per tutto il secolo, 8 Domni, mandarono la stessa somma per tutta la durata del
loro regno259.

Ad ogni modo, dalle vecchie costruzioni, di antico rimane il vecchio katholikon, con affreschi di
Antonios del 1544 –(dono dei romeni, Constantin il Vornico e Radu,)- a destra del katholicon

258
Il poeta, per eccellenza è Dante e Shakespeare, oltre a Omero. Nel nostro caso è Shakespeare.
259
Essi furono: Vlad Vintilà, Radu Paisio, Alexàndrel, Mihnea il Turcitul, Stefan il Sordo, Alexandru il Cattivo, Mihai
il Bravo, Simeon Movilà; mentre Radu Serban, (1607) Gavrilas Movilà e Radu Mihnea, (1621) offrirono 11000 aspri.
362

attuale, enorme, del 1819. Ma cosa c’era al posto di questa enormità, così centrale? Forse una
vecchia chiesa che l’ha preceduta? Forse è proprio Làpusneanu che l’ha fatta costruire nel 1563,
dopo che, nel 1554, ha regalato un Evangeliario, manoscritto, in pergamena, pianificando anche i
restauri del convento. È un’ipotesi, però; vi mancano i documenti.
Poi fu ricostruito il refettorio, (trapesis) affrescato nel 1575 dai romeni Ion di Simeon,
Dumitru e Teodosio. Oggi lo vediamo con aggiunte posteriori, del 1624, con le spese del monaco
Pacomio e Donna Jdrelea. Nel 1600, anche le offerte dei Domni crebbero a 10-11.000 aspri e
durarono così fino a Mihai Sutzu, nel 1820.
Senza fare i conti, alzando gli occhi, ebbi una grande sorpresa: sulla facciata di questa
trapesis, (all’origine, una vera chiesa) dove fecero eseguire le scene dell’Apocalisse nel 1637
contempliamo l’affresco murale delle ieratiche figure di Matei Basarab ed Elena la Doamna. Me
ne sono commosso fino alle lacrime: di nuovo lui, il cui corpo glorioso giace nel monastero di
Arnota vicino alla casa della mia infanzia, a Bistritza. Lui, dappertutto, in Athos, ma da nessuna
parte così ben conservato e glorificato, almeno nell’affresco.
Nei tempi successivi a Matei, il monastero entrò in una lunga crisi. Si riprese nel 1785,
quando il patriarca Gabriele IV (1780-1785) lo restituì allo statuto cenobitico. Però, nel 1817, gran
parte del monastero fu distrutta da un incendio. Perciò il grande katholikòn e gli edifici circostanti
risalgono alla ricostruzione del 1809-17; la chiesa grande fu ricostruita un'altra volta con le spese di
alcuni nobili romeni, nel 1917.
Nel 1903 il monastero contava 103 monaci. Ora, dopo il 2000, si sta riempiendo, ma anche
deturpando dal lato artistico, con le artefatte del nuovo fanatismo pitturale neo-bizantino, in
planetaria crescita .
La biblioteca è bene organizzata, ma soprattutto ricca: 4000 libri e 300 manoscritti, 163 su
pergamena, di cui 12, offerte dei romeni. Il più bello è del violento Làpusneanu, legato in argento
dorato e adornato di preziosi dipinti in oro e colori.
L’archivio è testimone del grande numero, quasi esclusivo, di documenti delle donazioni dei
sovrani romeni. Da Neagoe a Radu Mihnea, passando per Mihnea il turchizzato e Michele il
Bravo, 12 sovrani sono ricordati come donatori e fondatori. Matei Basarab attesta di aver visto i
documenti di altri 10 benefattori Domni, prima di lui. Ma la schiera di donatori di metochi e denaro
si ferma al 1820. Comico il chrisobullo di un Domn romeno, (Mihnea III ?) del 1658, dove si
dichiara che i documenti in questione sono maltenuti, vecchi e cancellati.
Ci si consola con gli oggetti preziosi d’arte che incantano occhi e cuore: due grandi icone a
mosaico del XII-XIV-esimo secolo, che rappresentano i santi, Giorgio e Demetrio. Preziosa, la
363

cappella di San Giorgio con affreschi della scuola di Theofane di Creta. Ne dipende la skiti
dell'Annunciazione, che si trova più in alto.
La sorpresa più mistica rimane l’antica Icona miracolosa, della “Vergine Panaghia
Odighitria”, la quale, secondo il racconto antico, fu più volte traslata a Vatopediou e
miracolosamente ritornata qui. Si aggiunge alle altre icone portatili a mosaico ed al pregevole
reliquario, con pietre preziose.

Ed ecco che spunta il nostro francese, che voleva passare all’Ortodossia. Era come prima:
égaré e désolé , ma non gli andava di lasciare l’Athos da un giorno all’altro. Non gli ho chiesto se
aveva ancora in tasca i miei 20.000 lire. Ma non ho messo in dubbio la sua buona fede. Non fosse
per altro se non per lo sguardo radioso che mostrò quando ci vide e dai modi disperati di come si
riattaccò a noi, italiani e occidentali per mestiere, sangue e sciolta andatura… Come gli sembrava
tutto straniero in questa Montagna, quando camminava vicino a noi, gli eretici simili ai suoi
connazionali! I tedeschi, però, da turisti, qui, fanno pena: che facce e che comportamenti da
pagani, poveretti! Disincantati, scettici, miscredenti, disabituati al Sacro, delusi! Ed i monaci li
trattavano di conseguenza. Ma che arie e che colori sui loro abiti!
Continuiamo il nostro pellegrinaggio, parlando in francese, italiano e romeno; cantando,
anzi, canzonando in greco. A un ora distanza a piedi si trova lo skit Xenofontos, con 26 Kalyve, e
10 monaci, nel 1977. Fondato nel 1766 dall’egumeno Silvestro, egli lo dedicò all’Annunciazione.
Lo lasciammo in disparte. In verità, il Monte Athos, come tutti i luoghi di genio ed ispirazione,
richiede una vita, più vite, per goderselo pienamente.
Così, raggiungemmo, dopo un ora di camminata, Panteleimonos: il monastero russo.

14. AGHIOU PANTELEIMONOS (ROSIKON)

Il grandioso monastero, dalle cupole a bulbo di cipolla, non circondato da mura, sorge sul
versante occidentale della penisola, vicino al mare, a un‘ora di cammino da Dafni, lasciando sulla
destra lo Xiropotamou. Meglio dire, a metà strada fra Xiropotamou e Xenofontos. Conosciuto
anche come Rossikon.
Lo abbiamo salutato e fotografato ogni volta che vi siamo passati accanto, mentre in queste nostre
pagine esso è anche troppo presente, viste le passioni sfolgoranti dei russi, che sono stato obbligato
a descrivere.
Se consideriamo i ruderi degli edifici costruiti nel X –XI secolo e situati a una certa
distanza, come fondazione originale, possiamo dichiararlo fra i più vecchi dell’Athos. Altrimenti, i
364

palazzi che vediamo, grandiosi e funzionali ma non pittoreschi, sono del XVIII-XIX secolo, più
precisamente dopo il 1765; il monastero originale, detto tessalonicese, rimanendo “il vecchio”. È di
regola cenobitica, (dal 1803), dedicato a san Panteleimon, o Pantaleone, (festeggiato il 27 luglio).
Dal monastero dipendono gli skit della Nuova Tebaide e di Xylourgu (o Bogoroditsa, "la Madre di
Dio", perché dedicato alla Dormizione di Maria).
La storia di Panteleimonos è alquanto movimentata; della sua ultima parte ce ne siamo
occupati all’inizio del nostro racconto. Vediamo ora le sue fasi iniziali.
Nel 1050, un cristiano ricco di Salonicco costruì un piccolo monastero,(o ricostruì una cella del X-
imo secolo?) chiamato poi “del tessalonicese”, che dedicò a San Panteleimon. Ignoro se vi è andato
lui, personalmente, ad abitarlo, o lo ha costruito per altri; intanto, la sua fondazione è rimasta
disabitata per 119 anni. Poi divenne dipendenza del monastero “Xylourgou”, che si trova a un ora e
mezzo di camminata più a nord; il quale, in quell’epoca –dopo il 1030- era occupato da monaci
russi. Nel 1169, la comunità dell'Athos donò ai russi (e ad altri slavi) divenuti numerosi, questo
convento inutilizzato, nel quale, dall’inizio, i fuggiaschi-a sentire le loro cronache- istituirono un
movimento culturale slavo fortissimo, con traduzioni ed opere originali.
Furono gesti consolatori e fruttuosi, questi, in quei tempi terribili nei quali, immersi dal fango turco
e coranico, gli slavi impararono dai loro monaci athoniti un po’ di alfabeto, un po’ di Bibbia, un po’
di liturgia, un po’ di civiltà. San Sava, il serbo, o Dometiano, Teodosio, Eutimio di Tàrnovo,
lasciarono opere manoscritte preziose, testimoni di una attività pastorale e ascetica esimia; copisti
anonimi, slavi, ma anche romeni, inondarono di scrittura slava i Balcani, ( in slavo antico, motivo
per cui non è rilevante che gli autori fossero bulgari, serbi, russi o romeni); ma anche di icone
stilizzate diversamente da quelle greche; mentre il romeno Cipriano, metropolita di Kiev, e suo
fratello, il grande Gregorio Tzamblak portarono in Russia tutta la loro scienza ed il loro talento,
cesellato fra le mura dei conventi dell’Athos.
A causa dell'invasione dei tartari in Russia, l'afflusso dei monaci russi cessò (1237) e i
monaci serbi ne presero possesso fino all'invasione turca, che distrusse il regno di Serbia (1417).
Anche i monaci bulgari di Rila vollero una specie di alleanza, sancita con un contratto, fra loro e i
monaci slavi già presenti qui. Nel 1300, un gruppo di monaci (slavi?) abbandonarono Xylourgou e
vennero anch’essi al convento del tessalonicese… così che, assottigliandosi, Xylourgou finì per
diventare skit del vecchio suddito.
Qui venne il figlio del principe serbo, Stefano Nemania, Rastko e si fece monaco col nome
di Sava. Molti serbi, bulgari e vlacchi lo seguirono. La sua storia l’abbiamo già accennata. Come
pure quella dell’aromeno Gregorio Tzamblak, la cui figura è alquanto emblematica e le cui scelte
non sono superate dalla Storia. Ci ricordiamo come, giovanissimo, andò in Athos; e, se diventò in
365

breve tempo un dotto in materia teologica, filologica, storica e giuridica, non è impossibile che una
parte del merito non l’abbia la scuola slava organizzata nel “monastero del tessalonicese”.

I BENEFATTORI ROMENI

Vlad Tzepes, (prima che la leggenda intelligente di un inglese lo trasformasse in Dracula),


fu il primo sovrano romeno che mise le mani a Panteleimonos. Lo ricostruì nel 1457 coronandolo
di denaro ed averi immobili. (Lo fece prima di penetrare nel campo di Maometto II, onde uccidere
lo stesso sultano; sbagliando, come l’antenato Muzio Scevola, ed uccidendo solo il primo pascià,
non fu scrupoloso come il romano, a bruciarsi il braccio; anzi, fuggendo, raccolse i suoi, attaccò e
vinse). Nel 1487, Vlad il Monaco alzò il livello delle donazioni: 6000 aspri all’anno. Nel 1495, il
figlio, Radu il Grande e sua moglie, Catalina, pensarono a San Panteleimon, l’anarghiro, l’unico
che avrebbe potuto guarire Radu della brutta malattia in cui era scivolato. Pregarono, ma non
ottennero il miracolo. Pensarono allora al monastero a lui dedicato in Athos. Lo avrebbero coperto
di oro se qualcosa si fosse mosso. Nulla, nulla, però, succedette. Alla fine, donarono solo 3000
aspri, invece di 6 del padre. Lo avrà fatto per delusione? Mistero. Certo è che restaurò qualche
edificio. Ed alzò a 4000, l’obolo, nel 1502, forse per la gioia che il suo rivale Stefan il Grande si
preparava a morire.
È vero che nel 1496 il pitar Ivan andò a Mosca e venne con doni preziosi dagli kneazi russi. I
monaci, però, non si sentirono al sicuro fin quando non apparve il buon Neagoe Basarab, che,
invitando tutti gli egumeni alla sua festa di Argesci, (1517), li coprì letteralmente d’oro, destinato a
tutti i monasteri. Un secolo più tardi, Vasile Lupu raddoppiò. E, se ci chiediamo che fine ha fatto
tutta questa miniera d’oro e di preziosi versatasi in Athos, rispondiamo: nelle tasche senza fondo
dell’Islam, dagli occhi ingordi, nei riguardi dei monasteri. Sapendo, i turchi, da bravi mercanti e
buoni figli del Profeta –mercante, anch’esso- che i Luoghi sacri non sarebbero stati abbandonati dai
sovrani cristiani, non persero mai tempo. Ma non c’era solo il Turco. Nel caso dei monaci, non
dimentichiamo che il voto di povertà comporta una specie di maledizione per chi non lo osserva
scrupolosamente; e poi, si sa che le donazioni non sono mai apprezzate, né tenute di conto. Resta
sempre valido il proverbio che dice: il povero che riceve soldi resta sempre povero; ed il ricco che
dà soldi, resta sempre ricco.
Nel XVIII-esimo secolo, i documenti trovatisi negli archivi di questo monastero erano i più
numerosi dell’Athos, attestanti le donazioni dei principi romeni. Ma dei soldi, nessuna traccia.

VENGONO I RUSSI
366

Dal 1480 al 1735, la Russia riprese a proteggere il monastero, inviandovi anche numerosi
monaci. Il 20 marzo 1509, Anghelina, l’ultima Despini della Serbia e sorella dello Tzar Basilio III
scrive al fratello che “Panteleimonos non ha un protettore, come tutti gli altri”. I romeni, però,
continuarono a donare, soprattutto perché i monaci in cerca di elemosina, prima di lasciare la
Russia, passavano per i Paesi Romeni, dove si lamentavano dell’ avarizia (vera o falsa) dei russi. I
romeni, creduloni e devoti, pur di riparare e sentirsi migliori dei russi, davano offerte all’impazzata.
Buttavano i loro averi in un sacco senza fondo che finiva nelle mani dei russi. Ma poi, la guerra
russo-turca (1734-1739) creò dei grandi guai. Gli aiuti russi non trovarono più una strada per Athos.
I Domni romeni di quell’epoca, tutti fanarioti, ( fra il 1716-1821) non mostravano devozione per il
monastero russo. Perciò, comprendendo la nuova ventata, nel 1735, i frati fecero capire che
avrebbero offerto la direzione del monastero ai greci. E, per esserne convincenti, con l’aiuto del
Domn Grigore III Ghica, alzarono vicino al mare un piccolo monastero dedicato a San
Panteleimon, abbandonando il vecchio, il “tessalonicese”. Dal 1735 al 1821 il monastero divenne
idioritmico e puramente greco, sostenuto dai vari Domni fanarioti degli ambi Paesi Romeni,
soprattutto i Ghica, i Racovitza ed i Kallimaki. Passando gli anni, la tensione si smorzò. I Domni
fanarioti erano, un po’ greci, un po’ vlacchi, qualche volta quasi romeni. Ricominciarono perciò a
regalare, senza approfondire.
Scarlatos Kallimachis, nel suo primo regno di due mesi, (1806) diede inizio ad alcuni edifici e poi,
nel suo terzo regno, (1812-19) cominciò il nuovo katholikon, in onore di San Panteleimon, (1814),
beffandosi della guerra russo-turca, dell’occupazione russa dei Paesi Romeni, della sconfitta turca,
dell’arrivo di Napoleone, del rapimento della Bassarabia da parte dei russi, ecc… I Domni fanarioti,
pur provenendo dal Fanar di Istambul, pur essendo più greci che altro e, ufficialmente, gli uomini
del Sultano, una volta mandati sui Troni romeni, imparavano le dolci abitudini dei Carpazi: un
occhio alla farina ( i turchi ) un altro al lardo, ( i russi o gli austriaci), secondo il proverbio locale.
Così, un po’ per fede, un po’ per attirarsi la benevolenza dei russi, ed un po’ per mantenere la loro
influenza nel convento, a favore dei connazionali greci, aiutarono Panteleimonos, a
prescindere…… Ed impararono dai romeni a non essere sciovinisti più di tanto.
Poi, per i greci, venne il favoloso: l’Eteria e l’indipendenza di una parte della Grecia. Il Monte
Santo rimase però nella zona turca e patì assai per la sua grecità. Per salvarsi dalle rappresaglie, il
Panteleimonos si appellò alla sua russicità, pur avendo da tempo aborrito i russi. Col nodo in gola, i
buoni greci dovettero ridare la staffetta ai russi, il cui Babbino, lo Tzar, si prevalse subito dei suoi
diritti; fu però una mossa salutare, anche se i russi arrivarono in forza appena nel 1839-40, non
tanto per pregare, quanto per rimpiazzare gli stemmi, cioè le iscrizioni greche con quelle slave.
367

Ricordiamoci, infine, del monaco Anikita Sirinski- Sichmatov, questo principe - ufficiale
della marina russa, che, congedato dalle sue funzioni, si fece hieromonaco e visitò la Sacra
Montagna fra il 1835-36, per finire la vita ad Atene, con le tasche vuote. Intanto i russi, nobili o
meno nobili, riempirono l’Athos della loro presenza, dei loro soldi e delle loro cattedrali. Nel 1867,
il superiore greco del Panteleimonos fu rimpiazzato da uno russo, devoto, Makrij, di cui abbiamo
detto che era plagiato dal “padre spirituale”, Ieronimo, che russificò al completo, con le buone e
con le cattive, il convento. I greci, però, non rinunciarono ad avere almeno l’egumeno del loro
sangue e ci riuscirono, fino ai tempi nostri.
Nel 1888 venne costruita la splendida chiesa di stile moscovita, dedicata alla Protezione della
Vergine, dentro, tutta, in foglio d’oro. Fu chiamata “Aghia Skepi”, nell’ala nord. Nel 1892-7 fu
costruito l'enorme refettorio e nel 1899 la grande chiesa della skiti di Sant'Andrea.
Come era naturale, grazie ai russi, il convento divenne enorme quanto la Russia, tanto per
accogliere migliaia di monaci; nella sola trapesi, ne entravano 800. Si tratta di questi enormi edifici
a cinque piani, che si affacciano sul mare e, da lontano, ti lasciano sbalordito. Dovevano finire
abbandonati, però, per legge di natura. Mi hanno ricordato i conventi enormi costruiti in Occidente,
dopo il Vaticano II, e rimasti vuoti, perché gli illusi pensavano di riempirli con giovani attirati dalle
nuove Messe in rock and roll. Lo Tzar, invece si sognava tutta la Russia condensata in Athos, per
proseguire per Tzarigrad. Ma l’uomo propone, ecc….Perciò, le festosissime cupole verdi e a bulbo
di cipolla, o il possente campanile con una campana di 13 tonellate e 8,71 metri di circonferenza; o
il refettorio del 1897 per 800 persone, le abbiamo trovate nel 1977-79-83, come un sogno infranto.
Dicono che nel 1903, la metà dei circa 7000 monaci che formavano la popolazione dell'Athos era
costituita da russi: 2500 solo qui. Era normale che il monastero diventasse di loro spettanza. Fu un
culminare dello spirito russo, in Athos, se perfino Alexander Soloviev gli dedicò un libro, in
momenti tragici per il convento e per la Russia 260. Appunto: con la rivoluzione del 1917, cessò
l'afflusso di monaci e di mezzi dalla Madre Patria e il monastero andò spopolandosi.

“L’ERESIA” DEL SANTO NOME

Un altro fatto, però, (non le guerre o le rappresaglie turche, neppure la rivoluzione


bolsevica), diede il colpo decisivo a tanta grazia di vocazioni, di preghiere comunitarie e di cori
dalle energie scatenate. (Immaginiamo, infatti, migliaia di monaci a cantare la liturgia, a modo
russo, imparato da Palestrina)!
Ebbene, la spada di fuoco sui russi radunati in Athos venne, incredibilmente, da parte del grande
protettore, lo Tzar.
260
Parlo del libro di Alexandre Soloviev, Histoire du Monastère Russe au Mont Athos, Belgrado, 1933.
368

Tanto tragico fracasso non poteva cominciare se non dalla solita elucubrazione, sgorgata insieme
con la forfora, dal cervello esaltato di qualche frate. Così, un monaco greco sessantenne,
considerato santo, Calinicco l’isicasta,261 che viveva recluso in una cella vicina a Karyé, si mise ad
accusare a gran voce alcuni monaci (russi) di onomatolatria, cioè dell’adorazione esagerata ed
inadeguata del Nome di Gesù. È, questa, una sottigliezza resasi importante per le persone
dall’intensa preghiera e vita mistica; ed a prima vista non dovrebbe fare difficoltà –soprattutto- alla
mente latina, la quale, separando gli elementi divino-umani, li adora come parte di un intero: il
Sacro Cuore, le 5 piaghe, il divin Capo, ecc.
In realtà, la teoria è più sfumata e porta dove nessuno vuole.
Come è successo? I difensori dicono che si tratti di una caratteristica dell’isicasmo e della
Preghiera del cuore, elementi diventati normativi già dal 1500 per la spiritualità athonita.
A qualcuno, però, come al monaco dell’Athos, Ilarione, non sembrò che i monaci del suo tempo
fossero stati così impregnati di questa spiritualità e, cercando di ridare slancio alla preghiera di
Gesù, pubblicò nel 1907 un libro: “Sulle montagne del Caucaso”, che ebbe in poco tempo tre
edizioni in Russia ed in Athos. L’idea fondamentale vi era che Dio è presente nel Suo Nome e
perciò, il ricordo continuo del Nome di Gesù, nella preghiera, unisce a Dio. Che il ricordo del
Santissimo Nome ti può unire con Dio è vero; la novità, però, si rivelava nell’accento da lui posto
sulla stessa Presenza di Dio (essenziale, energetica? Non lo sappiamo, questo dipende dall'essere o
non essere palamiti), presenza di Dio nel Nome di Gesù Cristo, nella sua materiale pronuncia.
I discepoli ed i sostenitori di Ilarione si autochiamavano “insegnanti del Nome”, mentre i loro
avversari, dall’inizio, tremendamente aggressivi, li chiamarono onomatolatri- “adoratori del
Nome.”
In breve tempo, la polemica, vivacissima, con accuse reciproche di eresia, si è trasformata in gara
di insulti, schiaffi, pugni ed altro. Era ritornato il Medioevo.
Prima di continuare la cronaca di questo incidente spiacevole, mi domando come avrà fatto
il recluso, santo, isicasta Calinicco a creare questa baraonda, a spingere il putiferio fino nelle celle
più nascoste della Sacra Montagna? Non so darne una risposta.
Spinto alla disperazione per lo scandalo fra i monaci, il Superiore di Panteleimonos chiese una
pronuncia sull’ortodossia di Ilarione al Patriarca Gioacchino V, (1901-1912). Il quale dichiarò
questa dottrina non ortodossa. Con tutte le conseguenze di rigore.
Se i frati, isolati in varie celle, furono messi in inferiorità e ridotti a una resistenza silenziosa,
i monaci “onomatolatri” di Sant’Andrea si attaccarono alle funi del cielo e cacciarono gli altri.
Questo fatto attirò una seconda condanna, da parte del nuovo Patriarca, Ghermano IV, (1913-18),
261
?
Nato nel 1853.
369

seguito dallo stesso Santo Sinodo russo, dopo ripetute denunzie presso lo Tzar, da parte dei
“normali”. Non riuscendosi in alcun modo ad ottenere ubbidienza, si passò alla punizione degli
”eretici”. Così, il 9 luglio 1913, una nave russa fu mandata dalla Madre Patria, diretta al Santo
Monte. Gli sgherri del Babbino e del Sinodo, anticipando gli sgherri sovietici in Francia nel ’44,
ricercarono gli appestati per tutto il Monte Athos. Ignoro se è mai stato scritto un libro che
raccontasse come sono stati identificati i colpevoli, in mezzo alla massa dei monaci russi: si
autodennunziavano? Erano mostrati a dito dai loro colleghi? Portavano qualche stella gialla sul
braccio? La nave patriottica portò via, a forza, 621 monaci. Il 17 luglio, ritornò e ne acchiappò altri
212, ( ma alcuni contano in tutto 1200 monaci rapiti), tutti, russi, ( ma sarà scappato anche qualche
“moldavo”, o altro), che furono puniti con l’esilio in Caucaz, dove, come scrivono i rapporti della
polizia segreta, “hanno insistito nella loro opinione”. Sarà stata la rivoluzione bolsevica a falciarli o
a liberarli dalle mani dei loro confratelli “isicasti- normali” .
Così in Athos restarono 833 monaci russi, da 3000, fra i quali 1500 solo a Panteleimonos. Nel 1920
erano ancora 600, 200 nel’35, 60 nel’55 ed una decina negli anni’70, quando li visitammo noi.
Nel 1936 un monaco colto, bibliotecario del convento, Basilio, pubblicò a Praga uno studio
riguardante la Preghiera della mente, come è praticata dai monaci athoniti. Per chi lo ha letto, il
libro dissipò le calunnie ed i malintesi provocati intorno a un soggetto, di per sé divinamente serio,
come la Presenza di Dio ed il Potere del Suo Nome.

Ora, che le polemiche sanguinose si sono spente, gli isicasti “adorano” il Santissimo Nome
come un fatto normale. Père Guyou, grande domenicano ed ecumenista, in visita alla Facoltà
Ortodossa di Bucarest, negli anni’70, credendo di fare piacere agli anfitrioni, parlò con entusiasmo
agli studenti del Nome di Gesù, abitazione di Dio.
Ed alcuni, incluso il sottoscritto, giovanissimo studente ortodosso (e cattolico clandestino) se ne
entusiasmarono. Serve infatti per il fervore della preghiera pensare che Dio si nasconde dietro la
pronuncia, nella propria lingua, del Nome ineffabile. Il pensiero vola lontano, al Logos, al potere
della parola, al fatto che il Verbo è Dio. Valutando meglio, però, i Patriarchi di Costantinopoli che
condannarono questa dottrina furono più cauti degli ecumenisti. Dio è dappertutto, ma la Teologia
ne ha fissato i termini, per non confondere e per non scivolare in facili panteismi, o, peggio,
restrizionismi. Chi sa poi, in quali modi, i devoti di questa stranezza teologica si manifestavano
nella vita pratica e nel contatto con gli altri, tanto da attirarsi tanti anatemi e pugni! Come in ogni
loro esagerazione, gli athoniti avranno messo anche qui qualche salsa stravagante.
Il 23 ottobre, 1968, un furioso incendio distrusse sei cappe, parte della foresteria e tutta l'ala
est del quadrato centrale del monastero Panteleimonos. Cioè quasi ¾ di tutto.
370

Poi venne la libertà di religione in Russia ed ora il Santo Monte si sta riempiendo di monaci russi
con o senza vocazione, come sempre. Sono rivalutati tutti gli edifici, le cerimonie, i cori e,
certamente anche i fatti di santità. Vogliamo sperare che non disseppelliranno anche i vecchi odi, le
vecchie tragedie, le vecchie eresie.
Fino al 1975, il Superiore continuava ad essere greco. Sino agli anni’90 è vissuto qui
l’ultimo monaco greco, Basilio di Zaintos, le cui opere meravigliose furono raccontate in vari
libri.262

SILVANO DELL’ATHOS

In mezzo a tanti drammi, passioni e sconfitte dello spirito, sopravvisse, nella discrezione più
compatta, che è l’abitat della vera perfezione, un faro di luce veramente grande ed originale: si
chiamò Silvano dell’Athos, (1866-1938). Di lui, uno dei biografi scrive:
“La vita del beato staretz, Silvano trascorse senza alcun fatto di particolare importanza.
Fino al momento della coscrizione, la sua esistenza fu quella di un povero contadino russo; durante
il servizio militare, quella di un semplice soldato; ed infine, per 46 anni, al Monte Athos, quella
monotona di un semplice monaco”.
Gli archivi del monastero conservano i suoi dati: Simeone Ivanovici Antonov, contadino,
nato nel villaggio di Sciovsk, presso Tambov, nella Russia profonda.
Da giovane fu carpentiere, operaio, ma soprattutto uomo di mondo alla russa, fra danze,
donne, votka e violenze. Dotato di una grande forza e resistenza fisica, (una volta mangiò una
frittata di 50 uova, dopo altri kili di carne già ingoiata, ogni sera beveva fino a tre litri di votka-da
70 a 90 gradi- senza ubriacarsi; più volte riuscì a tener fermo un cavallo, stringendogli la testa con il
braccio; rompeva pezzi grossi di legno con un pugno; sollevava grossi pesi; poteva mangiare molto,
ma anche lavorare più di tutti; con un pugno al petto mandò ammalato per due mesi un giovane
sbronzo; ecc. ecc..), commetteva tutti quei peccati di violenza unita alla vanità, tipici dei cultori dei
muscoli e dell’orgoglio fisico.
Ma…. come succede in questi casi, Dio, sapendo che simili tipi non si possono convertire se
non attraverso dei grandi segni divini, mandò al giovane Simeone sogni, segni e visioni chiare, che
lo fecero impaurire, commuovere, vergognare e convertire. Sentì la voce della Beata Vergine, che
non dimenticò per tutta la vita. Questi segni, non solo lo convertirono, ma gli diedero la vocazione
monastica.

262
Come quello del monaco Damaskinos, op.cit. pag.25ss.
371

Con sentimenti rinnovati e con la consapevolezza che doveva finire in Athos, Simeone
compì il servizio di leva, il servizio nell’esercito, nel battaglione del genio, a San Pietroburgo, nella
Guardia imperiale…. e, ritornato a casa, si congedò con affetto dai suoi e si indirizzò verso la Sacra
Montagna, per sempre.
Nel 1892 giunse in Athos, a Panteleimonos. È magnifica la descrizione, nei suoi diari, delle
tentazioni, tipo ”va’ nel mondo e sposati” dei pensieri peccaminosi, oltreché di tutta la sua
giovinezza dissoluta; descrizione che ci permette di condannarlo e di ammirarlo insieme. Sta sulla
scia degli Apostoli e di Sant’Agostino, cioè fra i pochissimi Santi che non si sono vergognati di
descrivere le loro debolezze, piuttosto che i fatti onoranti. Provò, in seguito, delle sofferenze
sataniche e visioni vere e false che seppe distinguere e descrivere con umiltà. Ebbe l’ispirazione di
raccontare tutto a un grande asceta, Padre Anatolio, il quale gli diede quel consiglio giusto per
coloro che hanno delle allucinazioni demoniache: “pensa, spoglio da ogni immaginazione, da ogni
immagine visiva, mantieni lo spirito puro”. Sembra una frase di San Giovanni della Croce, che
Anatolio non avrà mai letto.
Nel 1896, Simeone ricevette la prima tonsura e nel 1911 la grande schima, adottando il
nome di Silvano. Cominciò, come di norma, con i lavori più umili; ma da mugnaio, a Kalamareia,-
di proprietà del monastero situato al di fuori del Monte Athos-, malgrado il lavoro continuo ed
estenuante -anche per lui-, trovò il tempo di leggere quante più opere dei Santi Padri e superare con
umiltà le tremende dispute fra greci e russi, o il litigio sull’eresia della presenza di Dio nel Nome e
la diminuzione del monachesimo russo a causa della rivoluzione sanguinaria del 1917. Dio lo
ricompensò per questo: ebbe una visione chiara di Gesù Cristo, che lo riempì di una felicità che solo
chi l’ha sperimentata capisce. Nel frattempo svolse i compiti abituali affidatigli dal monastero, fino
a diventarne economo; ma, dichiarò per iscritto : “l’apparizione di Cristo fu l’evento più importante
della mia vita”. In seguito, per lunghi anni si sentì abbandonato da Dio. Qualcuno vede un parallelo
fra la sua esperienza e quella di Santa Teresina.
Pur non distinguendosi in niente dagli altri monaci, acquistò fama come staretz di grande
esperienza. Si diceva: “Silvano fu vero teologo, perché veramente pregava.” Le testimonianze
confermano che Silvano visse, pregò e morì santamente, (il 24 settembre,1938), ma soprattutto
discretamente, pur lasciando dei preziosi scritti spirituali.
Suggestive sono certe uscite sue, tipo:
“ Noi ora siamo gli ultimi monaci. Ma anche ai giorni nostri sono degli asceti, e non pochi, che il
Signore ha nascosto alla nostra vista”.
372

Da uomo eletto, non fu mai polemico anticattolico, come i confratelli: “Alcuni discutono
sulla fede e queste contese non hanno fine, mentre, invece di discutere, dobbiamo incessantemente
pregare Dio e la Madre di Dio; allora il Signore ci illuminerà, senza contese, e ciò avverrà presto”.
Dal 1925, ha come discepolo padre Sofronio, che da Parigi dove era fuggito, arriva
all’Athos per dedicarsi alla vita ascetica, diventando alunno di Silvano, e trasmettendone i suoi
scritti e pensieri.
A Sofronio dobbiamo la conservazione soprattutto del Diario, con tutti i dettagli di cui abbiamo
ammirato la virtuosità.263
Silvano fu canonizzato nel 1987 dal Patriarca Ecumenico. Se avesse avuto la capacità di
essere ortodosso, cattolico, unito, in ammirabile completezza cristica, lo avrei canonizzato anch’io.
Scherzo; però è necessario che su questo tema disertiamo altrove.

LA NOSTRA VISITA

Per quanto ci riguarda, dandoci per quelli che eravamo, romeni ed italiani insieme, i monaci
russi fecero chiamare per noi i quattro romeni bassarabeni, giovani e incredibilmente accoglienti,
che, altrettanto incredibilmente, avevano potuto lasciare l’URSS e la loro Bassarabia invasa e
venire in Athos. Saranno stati mandati come spie della KGB? Certamente, altrimenti non avrebbero
mai avuto un passaporto URSS per un Monte come Athos, religioso ed in zona“americana”. Ma,
intanto, poveretti, pregavano, cantavano alla russa, si sforzavano di non dimenticare il “moldavo”, e
facevano fatica a considerarsi romeni. I due più vecchi, nati nei tempi di Sua Maestà il Re della
Romania, si ricordavano di essere nati romeni e sotto l’alfabeto latino. Alla mia domanda, però, se i
bassarabeni si sentivano più felici in Romania -la Madre Patria- che non nell’URSS, mi risposero
con certa esitazione – risposta che ora, a distanza di decenni, capisco come codice di paura- che la
polizia romena era ingiusta e picchiava molto i propri connazionali. Certo, quella comunista,
sovietica, era blanda e giusta. Soprattutto con i romeni, che hanno obbligato a cambiare nome,
alfabeto, luogo di nascita ed anche storia nazionale. Cosa rispondere a dei poveri frati tormentati ed
impauriti? Come facevano a fidarsi di noi? Hanno già parlato molto e non sono in grado di
controllare se non sono spariti un giorno dopo, rapiti dagli sgherri nascosti sotto le tonache e
mandati in Siberia, solo per aver salutato tre fuggiaschi dal paradiso comunista.
Ora ci penso: 4 frati simpatici, di Bàltzi e di Soroca, nostre città perdute e torturate! Ad un
certo punto, i due, meno giovani, si schiudono con me, che insistevo con le domande ed i

263
Infatti, molti dettagli qui trascritti sono tratti dal libro dell’Archim. Sofronio, Silvano del Monte Athos, ed. Gribaudi,

Torino, 1978.
373

complimenti: raccontano dettagli sulla tragedia della vita dei loro cari. Argomenti che neppure io,
l’informato per eccellenza sulle cose bassarabene, non sapevo. Per esempio: loro erano informati
che la Bassarabia doveva essere presa e tenuta dai sovietici per soli 15 anni e poi ridata alla
Romania. Che illusione, che ha costato la vita a molti di loro! Nel 1979 non sapevamo ancora che la
loro Bassarabia, pur se morsicata qua e là, sarebbe diventata indipendente dopo il 1989, col nome
della “Repubblica Moldova”. Alla fine giustificano gli invasori con queste parole: “ ebbene, hanno
costruito molti palazzi, (popolari: i terribili blocchi comunisti, senza servizi, n.n.) e “fanno
indorare alcune chiese, prima danneggiate”. “Per gli occhi dei turisti e degli ignari”, replico io. E
non rispondono, abbassano solamente i loro occhi, tristi ed incerti.
Ci accompagnano per tutto il monastero visitabile. La chiesa principale è immensa, nel miglior stile
russo. Ha bruciato nel 1968; come avranno fatto a rifarla? Idem, le chiese a gusto russo, una
sull’altra, l’una dall’altra. Ci fanno aprire le molte reliquie, i tesori, gli oggetti di culto. Baciamo l’
Icona della Beata Vergine, del secolo XVIII, venerata come miracolosa. Naturalmente, data
l'origine recente delle costruzioni, non vi sono cimeli antichi.
In cambio, la biblioteca è ricchissima: 20.000 libri stampati, 1320 manoscritti greci e 800
slavi, di cui 99 su pergamena; 18, provenienti dai sovrani romeni, di cui il primo, slavo, è stato
donato nel 1493, dal solito Vlad il Monaco.
A fine ‘800, la tipografia fu ingrandita e le pubblicazioni russe “per arginare le idee antireligiose e
materialiste che percorrono la Russia” si moltiplicarono. Teofane Sovorov (+1894), tradusse in 5
volumi la Filocalia in un buon russo, (la vecchia era in slavo antico), per rieducare le masse alla
religione. Ci riuscirono, ed anche troppo: sopravenne il bolsevismo, come semplice prova che i libri
non convertono.
Ci conducono all’archondarico, fuori dal convento, per riposare. Li rivedremo nel refettorio ed alle
Sacre Celebrazioni, che aspettiamo con emozione. Infatti, l’occasione di sentire cori a più voci,
dopo tanto gracidio greco era davvero ghiotta.
L’8 settembre era per loro Festa della Nostra Signora di Vladimir, l’Icona miracolosa che in
quel momento brillava al mondo da Fatima, dove miracolosamente era arrivata; ma non ce n’era
nessun collegamento con la festa della Natività della Vergine, che in Athos si festeggia 14 giorni
più tardi, sullo stile vecchio. Me ne è piaciuta però la coincidenza e poi, la celebrazione slavona
che ho registrato; i monaci cantano à la russe, in coro, a 4 voci e non male. Come nel caso delle
icone, i russi ortodossi hanno imparato dall’Occidente l’armonia ed il coro polifonico, raggiungendo
con Bortnianski, Rachmaninov, Ceaikovski, ecc… vette inespugnabili di bellezza liturgico-mistica.
Lo spirito armonico è entrato come un istinto sacro nell’anima russa. La più isolata delle contadine
ti realizza un duo perfetto, a qualunque melodia. Ed il basso russo raggiunge Vergilio nell’Averno.
374

Ma, perché potessero arrivare a tanta raffinatezza, dovevano passare per l’armonia italiana di
Palestrina, cioè per l’ispirazione del magnifico Pierluigi, che gli italiani stessi ammirano senza più
imitare. Palestrina, l’incomparabile compositore religioso, che canta quel Cristianesimo che tutto
trascende e che emana l’armonia pura, madre della grande Musica, ( la cui essenza è il sentimento
infinito: ma dopo la Belle epoque, l’armonia è finita. Continua a vivacchiare nella strozza della
contadina russa, la quale sta scomparendo, a suo turno.)
I monaci cantano sommessamente. Hanno ancora da prendere in prestito dall’Occidente la
musica strumentale. Sentire i magnifici cori slavi, durante le Liturghie ortodosse, accompagnate
dall’orchestra ! Anche ! Magari!
No, questo non succederà mai più, il momento di grazia per simili prestiti è passato. Oggi
sono in voga i talebani, con le loro musiche, coi loro gesti, sentimenti e iniziative degne dell’Epoca
di pietra.
Gli ortodossi accusano gli strumenti musicali di inferiorità rispetto alla voce dell’uomo, nel lodare il
Signore. Per un po’ è vero. Ma il Largo in re maggiore del celebre Quintetto di Mozart, nel quale
la melodia strumentale riceve la tenerezza ineffabile della voce umana, fa vibrare la sua musica fino
nell’aldilà. Parla di un altro mondo, chiama alla vita eterna, di cui gli ortodossi si dichiarano
specialisti, senza esserlo.
Intanto ammiro questi russi radunatisi da tutta la Russia, questi tartari, questi semi-russi
della Siberia che mi sorridono con dolce ironia: come cantano, come fanno i loro inchini, come
godono qui, nel nascondiglio dell’Athos, la libertà che hanno perso da 60 anni. Ora, i nuovi venuti
con pasaporto KGB saranno le spie perfette di una inutile strategia del criminal regim?
No, non lo sono, ma essi devono esserlo, o, almeno apparire come tali sulle tabelle dei Servizi
segreti sovietici, a loro turno, in cerca di giustificazione di lavoro; perciò, ogni possessore di un
passaporto dei paesi del Lager social-comunista deve sottoscrivere la dichiarazione di
collaborazione. Poi, nel caso degli athoniti, devono trovarsi, ogni mese, almeno a Salonicco, o,
magari ad Athene, per motivi seri: riparazione degli occhiali, controllo medico, rinnovo del
soggiorno, ecc… Se non è vero, è ben trovato, anzi, importante, perché serve loro per passare dal
Consolato patrio e lasciarvi la dichiarazione firmata su tutte le visite, tutti i movimenti sospetti, tutte
le ironie sentite contro il regime, su tutto ciò che avrebbe potuto far comodo al governo nella lotta
contro i famigerati capitalisti. Lotta pagata a suon di moneta forte agli informatori specializzati e
sostenuta gratuitamente dagli esordienti. Non esiste la terza possibilità, perché il terrore comunista
decompone gli spiriti ed avvelena la coscienza. E, se non hai la forza di scappare lontano, col
rischio di rinunciare a tutto ciò che hai avuto di più caro, esso ti raggiunge dovunque. Fare il
monaco chiedendo l’asilo politico vuol dire perdere i legami con le abitudini di casa, con il parroco
375

del villaggio, con le superstizioni del tuo popolo, elementi deleteri che la maggioranza confonde
con la Religione…. Molti fuggono da casa, ma pochi rompono con le bestialità di casa, che
rovinano le loro anime e ne compromettono la salvezza. ( È il caso dei tanti romeni o russi, ecc….
ortodossi, fuggiti in Occidente, che, invece di approfittare della libertà per scoprire la vera Fede e la
vera Chiesa, Romana, continuano nella perniciosa nostalgia delle candele gialle e dell’illusoria
energia palamitica). Mi sono stupito anche del fatto che i bassarabeni più giovani non si
consideravano romeni ed hanno risposto con leggera stizza a un russo che diceva: ecco, sono
arrivati i vostri fratelli: “Nostri? No, noi siamo moldavi, non romeni.”264 Ma non era solo
ignoranza: era la linea del Partito; il contrario si chiamava tradimento in tutta regola. Le loro
precauzioni, forse anche i referti consegnati al Consolato saranno stati assai innocenti; ma chi lo sa?
Mi sono chiesto all’inizio, se il prezzo di stare in Athos, per esseri che, almeno ufficialmente, erano
lì per salvarsi l’anima non era troppo alto! Poi ho trovato l’attenuante da solo: la vita umana
nell’URSS era così infernale, così compromessa, così sottomessa alla menzogna, così obbligata alla
delazione, che, in mancanza di un carattere integro, valeva la pena di affrontare il console sovietico
di Salonicco una volta al mese.
La registrazione dei loro canti è l’unico ricordo palpabile che mi rimane dei 4 simpatici figli della
Bassarabia. Una foto di gruppo? Mai e poi mai, ed il motivo non ne era ascetico. Ma li abbiamo
capiti. Spiegare tutto questo ai nostri giovani italiani? Vedevano e non capivano, ascoltavano e
restavano paralizzati. Come potevano comprendere, questi figli della libertà? Come potevamo avere
questa pretesa nei loro confronti? Avevamo, però, la pretesa che gli italiani liberi fossero
anticomunisti perfetti….ma questo significava sopravalutarli.

Finalmente, siamo sulla nave verso Ouranopolis. Il passaggio della dogana, perfetto. Non
avevo più manoscritti da nascondere. Di fronte alla casa del parroco ci aspettava la nostra macchina,
la macchina dell’amico Gianni di Trento.
-Non dimenticate di mandarmi la tonaca, ripeteva il reverendo.
Non sapeva ciò che chiedeva.
Avevamo fretta di raggiungere l’Italia, ma era sera e dovevamo fermarci. No, non racconto la nostra
notte ed il giorno dopo a Lithorion vicino all’ Olimpo, dove, meglio degli antichi Dei, ci
aspettavano onori immensi, da parte di un umile sacerdote e dei suoi parrocchiani, sindaco e
ufficiali inclusi.

264
Infatti, anche qualche siciliano dice : io sono siciliano, non italiano; e l’austriaco: io non sono tedesco, ecc….Non

c’è limite all’imbecillità umana, parola d’onore!(n.n.)


376

Attraversammo il mare con la nave “Sant’Andrea”, tutta la notte. Sul battello, un mondo variopinto,
tutte quelle coppie che fanno amore come possono, vestite con un totale cattivo gusto nordico, non
hai dove guardare. Un giovanotto sdraiato, occupando tutta una panca, con indosso un cappotto
sbottonato che spenzolava sul pavimento… meglio non raccontare cosa faceva. A Brindisi, il mare
era ed è sporco, addio al mare azzurro, greco-athonita. Il 10 settembre, raggiungemmo la costa
italiana, dove ci aspettavano i pranzi e l’amore davvero illimitato dei nostri amici di Manduria,
Nardò e Sava. Luigino e Vincenzo, discesi da un altro pianeta, ridiventavano persone normali.
Noialtri non lo siamo mai stati. Ed è così vero, che nel 1983 abbiamo compiuto il terzo viaggio sulla
Sacra Montagna.

IL III VIAGGIO, 1983.

“Tutti i sorprendenti ed eclatanti esempi di cattiveria,


malvagità, tradimento, trivialità, invidia, stupidità
e perversità che uno deve subire e sopportare
non vanno buttati al vento…Vanno continuamente rievocati,
per avere sempre davanti agli occhi le reali qualità degli uomini
e per non compromettersi in alcun modo con loro….
Spesso frequentavamo già da anni quelli con cui
abbiamo fatto esperienze del genere
senza che li credessimo capaci di tanto, e dunque è stata solo
l’occasione che ha consentito di distinguerli.”

Siccome questo viaggio è stato segnato da un tipo specifico di dispiacere, ecco che mi metto
a citare Schopenhauer, (L’arte di conoscere se stessi, 35, ed. Adelphi) nelle cui frasi ritrovo la
descrizione di questo dispiacere.
Com’è successo? A fine primavera, del 1983, il sacerdote Gheorghe Ursachi, che noi,
mostrando dal finestrino della macchina la stecca di cioccolato a mo’ di passaporto, abbiamo
trasbordato in Svizzera per i romeni in esilio, telefona a me ed a Gigi 265, ci visita e ci implora di
organizzare con lui un viaggio al Monte Athos. Inutile raccontare qui i dettagli, le perplessità e poi
il modo come abbiamo deciso di assecondarlo. Fatto stà che nei primi di luglio era tutto

265
Gigi è sempre il mio confratello, compagno di Fuga, oggi, Mons. Giorgio Picu.
377

programmato, organizzato, sistemato. Dalla nostra compagnia non poteva mancare Sergiu, oramai
novello sacerdote, battezzato Unito, ordinato Latino ed ancora innamorato dell’ortodossissimo
Athos.
Senonché, per motivi che ora mi sfuggono, l’Ursachi, scusandosi, a più non posso, ci informa
candidamente che “non viene più”. Rinunciarci? Alla fine l’idea era stata geniale, eravamo da poco
cittadini italiani, perciò le nostre formalità per la Grecia si erano alleggerite…. beh! andiamo noi
tre, soli?
-Invitiamo Gheorghe Vasilescu, esclamo io. Non si lamenta lui sempre che l’Athos è il suo
sogno, l’Athos, il suo paradiso irraggiungibile? Con noi lo raggiungerà! E, siccome è povero, lo
aiuteremo!
Ecco le mie solite stravaganze, che Gigi chiama “il talento di appiccicarmi sempre una coda”. Poi,
mi commenta, dicendo: “i poveri che tu aiuti, sono sempre più ricchi e più furbi di te”. Ohimé, temo
che dopo tanti decenni d’allora, ha ancora ragione lui.
Vasilescu era ed è ancora il sacerdote ortodosso della comunità romena di Torino, ma
qualche anno prima (fra il 1970-75), era stato il mio collega di seminario e teologia, nell’Ortodossia
di Bucarest. Poi, io e il più giovane, Gigi, siamo fuggiti; e lui, tre anni dopo, ci ha raggiunto, sempre
in Italia, ma non fuggito, bensì mandato dalla Patriarchia Romena, a Torino: prima come studente
borsista dei cattolici ecumenisti e, in seguito, come sacerdote in missione, con passaporto socialista
approvato dalla Securitate. Era, ufficialmente, una spia in regola, informatore e delatore. Ma noi lo
abbiamo creduto innocente e sincero; nel senso che sapeva formulare e riempire i suoi rapporti, da
non fare male a nessuno. È possibile questo ? Me lo chiedo da sempre. E, se è vero, per quanto
tempo è possibile? Lui lo ha fatto dal 1978 all’89 e, dopo la caduta dei mostri, non è stato rimosso
da Torino, come, del resto, nessuna vera spia, nessun collaborazionista religioso, militare e civile è
stato rimosso dai nuovi “democratici”, istallatisi in regime di libertà. Però… mentre per tutti gli
altri, trovatisi nella stessa situazione, io non rintraccio scuse, scappatoie e possibilità di farla franca
coi servizi segreti comunisti -per così tanto tempo-, per Vasilescu l’ho pensato come possibile. Più
di una volta glielo chiesto e sempre mi ha risposto alla stessa maniera: riesco a tener loro petto.
Considerarlo un fortunato? Un graziato? Chi sa perché non dubitavo di lui, pur sapendo che non
c’era e non c’è possibilità di farla franca? Riceveva uno stipendio minimo (?) da Bucarest, ma lo
riceveva in dollari, mentre per i romeni normali toccare un dollaro significava tortura e condanna a
galera pesante. Scendeva due tre volte all’anno nel Lager romeno, e tornava in Italia, giurando che
“per questa volta avrebbe chiesto asilo politico”. Non l’ha mai chiesto, anzi. Dovevo, forse, essere
comprensivo con le sue lacrime e le sue nostalgie? Non credo che qualcuno abbia sofferto, pianto e
perduto quanto ho pianto e perduto io, che non sono mai tornato nel Lager. E, con tutto ciò, lo
378

abbiamo accolto con il massimo di fiducia; il mio invito ha trovato d’accordo Gigi e Sergiu, era
scherzoso e dolce con noi, ha perfino concelebrato la Messa latina con noi, la sua fede e la sua
apertura mentale erano irreprensibili…..Non abbiamo dubitato della sua sincerità, la sua ingenuità
era palese. Lo commiseravamo come vittima, aiutata da Dio a non sporcarsi (troppo). E non me ne
pento, perché ancora oggi sono convinto che era innocente, diciamo, per miracolo. Posso essere
accusato di “due misure” e forse è vero. Ora che penso, ora che tutto è finito, sono meno sicuro
della sua “purezza”; soprattutto dopo aver letto i Dossier segreti della Securitate, nell’archivio da
poco aperto a Bucarest. Ma allora ero sicuro, per un inspiegabile soggettivismo provenuto dalla
nostalgia. Gigi, idem, non ne ha dubitato. Eppure, in quel viaggio in Athos, Vasilescu si è
comportato come se fossimo stati noi al posto suo, bisognosi della sua comprensione.
Nel 1983, io e Gigi stavamo in mezzo al guado di varie tribolazioni, che avevamo superato
eroicamente. Ma non erano finite.266 L’Athos era un cambiamento d’aria necessario per i nostri
umori di quell’estate. Vasilescu, invece, lottava con una malattia e con vari dispiaceri dalle quali vi
era appena uscito. Penso che vi si trovava ancora in convalescenza; solo così posso giustificare i
suoi continui momenti di panico, la sua continua irritabilità e la suscettibilità soprattutto nei miei
confronti, per tutto il viaggio. D’altro canto, il suo stato di ortodosso officiale ci aiutava, riguardo
all’intricata burocrazia, (tappa sine qua non di penetrazione nei Sacri Monasteri). C’era poi un
dettaglio in più. Noi eravamo rimasti senza macchina, in quell’ estate, i nostri molti amici ce ne
avrebbero allegramente prestato una, ma Vasilescu insisté: “andiamo con la mia, non è fantastica,
ma per le strade greche non andrà male”. Non l’avessi mai approvato, quel piano. Mah!
Così, il mio terzo viaggio in Athos, si è avviato sotto auspici pseudo-comici, logorati anche
da un episodio alle Meteore. Dove, in tutta quella bellezza di affreschi dovevamo imbatterci anche
in un sacerdote romeno con il genero e la figlia, in “visita turistica con passaporto RSR267 ”. Il
vecchio fu discreto, il genero, con faccia da spia, borbottava sempre qualcosa, ma la moglie mi
voleva convincere che abbiamo fatto male a fuggire, perché in Romania “ stanno benissimo e hanno
di tutto”. Che Dio li aiuti a stare sempre così bene, con la Securitate sulla testa, per tutta la loro
vita!

25 luglio, 1983. Ci troviamo a Salonicco, questa volta io, Gigi, Sergiu, da preti cattolici e
romeni in esilio, cittadini italiani; e Vasilescu Gheorghe quello che era, più una pomposa barba, la
sua, il più valido di tutti i passaporti.
Presso l’ufficio della Mitropoli di Salonicco, i nostri vecchi documenti del 1977-79, con le
raccomandazioni di Giannina, sono ancora in grazia, e la presenza di un sacerdote autentico della
266
Le ho descritte nel mio libro “Voci che gridano insieme”, scritto nel 1983 e pubblicato in parte a Tolfa nel 1988.
267
Cioè della Repubblica Socialista la Romania, dato dalla Securitate.
379

“Patriarchia”, (Vasilescu) dà il massimo di slancio al sacerdote addetto alla compilazione dei


permessi. Dopo il solito rito al Ministero, alla Polizia, finito tutto in breve tempo, ecco la prima
trappola: si rompe il filo della frizione della macchina. Ben ci sta, andare in giro con una Dacia,
pessima copia romena della peggior Renault francese e col suo proprietario. Tutto il disagio,
successivo a queste brutte scelte, ce lo siamo meritato, soprattutto io, il fautore dei piani, il pianista,
come dice la mia ammiratrice, Mady.
Loro si agitano da un’officina all’altra, in una Salonicco banale ed ostile. Io non posso fare altro che
pregare perché riparassero la macchina.
Finalmente si parte. A Ouranopolis, come di solito, tutto pieno, negli alberghi e pensioni. Ma il
parroco, padre Elias con la sua famiglia, ci accolgono con grande gioia ed ospitalità. Non solamente
ci improvvisano letti, due da loro ed altri due dai parenti, ma siccome avevano già organizzato una
splendida cena con degli amici, noi siamo risultati ospiti graditi.
-Evharistò per la tonaca, ripete Don Elias. La porto solo nelle grandi occasioni.
Poi abbiamo capito che non la portava mai e non solamente perché nel frattempo si era raddoppiato.
Ci offre davvero una cena regale. Cantano i buoni greci e noi, più di loro, canti greci, romeni,
italiani, perché si finisce sempre nel Sole mio, e nel sirtaki, con la rottura dei piatti.
Più tardi, in Italia, ho fatto divertire perfino i militari di una caserma, mostrando loro la diapositiva
del 26 luglio, ’83, del sacerdote con la moglie ed i figli e noi con i suoi coulion in testa.
Ma non siamo felici, perché a Vasilescu gli saltano i nervi per nulla e non finisce con le accuse
contro di me: che io provoco tensione, che sono sempre complicato, che gli rincresce di essere
venuto con me, che sarebbe rimasto meglio a casa, ecc…
Veramente io avevo detto solo una frase:
-Dopo cena lasciatemi 5 minute da solo, perché mi voglio concentrare per separare i bagagli.
Mi riferivo ai vari regali per i monaci che stavano mescolati con il nostro corredo e soprattutto con i
sacri oggetti per la Santa Messa che volevo mimetizzare meglio. Ma Vasilescu che non celebra ogni
giorno e neppure si porta dietro armamentari pericolosi, (beh, almeno non di quelli che avevamo
noi!), non capisce, anzi, sta sul binario della continua accusa. Anche Gigi e Sergiu mi criticano:
“lascia perdere, è inutile questa separazione, la faremo sul posto”.
Avranno avuto anche ragione, ma io non chiedevo il loro concorso. Mi stupisco ancora oggi perché
li disturbava la mia richiesta: voglio 5 minuti da solo.
-Come sei insistente, dicono.
Io mi difendo, dentro me stesso: “è vero, sono insistente; però solo grazie alla mia insistenza
realizziamo questo viaggio ed altri; grazie alla mia insistenza siamo ricevuti con tutto questo calore
dappertutto, riceviamo regali e conquistiamo nuovi amici. Vogliono tutto questo ma non vedono
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che non si può … senza le mie “insistenze”. Mi adombra il fatto che davanti alle strane affermazioni
di Vasilescu, non mi difendono, preferiscono lasciar perdere….

Va bene. Ecco. Mattina. Domenica.


Celebriamo così: Vasilescu e Gigi, avendo barbe, concelebrano solennemente col Parroco;
io, senza barba, non posso celebrare in nessun modo, neppure a porte chiuse: il vero celebret
nell’Ortodossia greca è sempre una grossa barba. Prendetela come vi pare, ma è vero. Perciò, dal
coro, canto, prego e consacro clandestinamente; poi vado nella stanza dell’altare a fare la
Comunione. Sergiu, idem; senza un pizzico di barba, si doveva nascondere per forza in mezzo al
pubblico. Sbuffa ma anche ride e guarda con filosofia. Il problema, come sempre, non è la Fede,
bensì la barba, che dovrebbe essere testimonianza di ortodossia. Anch’io guardo e sospiro dentro di
me: “Ma il vero ortodosso sono io, il cattolico senza la barba. Il resto sono poveri attori; è questo il
vero motivo per cui codesto povero Vasilescu sta male e sbuffa contro chi può: sta con i piedi in
due barche, se non in tre, quella della Securitate, illudendosi di “tener petto” .
Alla fine una magnifica processione in fondo alla chiesa chiude il Sacro Rito, con la benedizione
dell’acqua. Splendido, commovente, sacro.
Faccio una migliore fotografia all’icona romena che sovrasta l’altare. E mi fermo di nuovo con
sguardo ironico davanti alle due icone perfettamente latine, che adornano la chiesa: l’una con il
Sacro Cuore di Gesù; l’altra con il Cuor Immacolato di Maria. Ortodosse, certamente. Cioè
cattolicissime, dipinte in quell’odiatissimo stile occidentale, dei “franki”. Signore, grazie che ridi
con noi! E ridi bene.

26 luglio, 1983.
A Karyè, tutto si svolge ottimamente, in regola. 1000 drachmi per tutti. Certo, io ho tentato
di convincere il monaco responsabile dei documenti presso la porta dell’Epistasia che siamo
sacerdoti; e lui non aspettava altro: mi fece un cicchetto degno di cause migliori che lo “iereus”,
porta la sottana e noialtri “non abbiamo la sottana: Dove è la sottana? “
No, non l’avevamo più portata. Ce l’aveva Vasilescu per tutti quanti, ortodossa fino all’ultimo
bottone. Noi abbiamo preferito il cicchetto, invece della messa a berlina ed il rischio dell’altra volta,
con la sottana dei “ franki” adoratori del Papa.
Ma le ansiose sorprese non sono finite.
Non abbiamo fatto in tempo di congratularci per il facile viaggio con l’autobus da Dafni a Karyé,
che, appena scesi dagli uffici, Vasilescu intravede un professore di musica di Bucarest che
conosceva, accompagnato dal monaco ex-direttore del Seminario di Bucarest, Veniamin Micle.
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Nessuno di noi tre aveva visto ancora il volto di questi delatori, obbligati a vendersi l’anima per una
settimana di preghiera in Athos; l’averli davanti poteva non crearmi impressione, visto che a Roma,
tipi simili, forniti di borse vaticane, brulicavano sui banchi di tutti gli Atenei Pontifici, ecc. ecc. Ma
per Vasilescu era diverso, lo conoscevano, era l’orgoglio dell’Ortodossia romena (securista) a
Torino, che non poteva in nessun modo accompagnarsi con i traditori della patria, della chiesa, del
partito e della loro feccia….

Il professore di musica, sì, sì, di musica; certo che suonava su tutti i tasti guasti e non me ne
importava; ma nel sentire il nome famigerato di Veniamin Micle, provai una sensazione confusa di
duplicità, qualcosa di simile a una peste assidua. Si trattava dell’ex-direttore del Seminario
ortodosso di Bucarest, di cui la Securitate e la Sovrom-patriarchia usufruirono, per perseguitare,
cacciare e poi arrestare e torturare Padre Gheorghe Calciu nel 1977, in coincidenza con l’arresto
dell’unico scrittore dissidente e torturato, allora, Paul Goma. Micle poteva aver agito per paura, ma
anche perché sperava in una carriera scientifica, la quale, in tempi ed in paesi normali se l’avrebbe
meritata attraverso vie normali. Ha fatto il gioco dei mostri, ma in seguito, lo hanno cacciato da
Bucarest -questa è la gratitudine degli orchi- ed è finito proprio nel monastero della mia Bistritza,
dove lo avrei ritrovato al mio ritorno dall’esilio, nel 1990. Cambiato: profondo anticomunista, (dopo
la fine del Comunismo), ma identico nelle maniere.
Fra parentesi, devo dire che ora, mentre scrivo queste note di viaggio, mi aiuto, mi correggo e
completo i dati, sfogliando il libro dedicato da costui al Monte Athos. Studiava proprio in quelli
anni le biblioteche dei monasteri e pubblicava poi informazioni scientificamente preziose.
Sottolineo questo, per convalidare la certezza che competenza nella professione non è sinonima con
moralità.
A Karyé siamo riusciti ad evitarli, tutt’e due, con la speranza di non incontrarci di nuovo.
Purtroppo non è stato così.
Fra Ciprian, la nostra vecchia conoscenza, ci riceve con molta, dolce ironia. È, come
sempre, a corrente degli spostamenti dei monaci romeni in tutto l’Athos; ci racconta come Meletie
ha rubato, senza essere sorpreso, come fra Ioan se n’é andato a Gerusalemme…. e come “soffre
all’idea che fra poco morirà, senza vedere su questa terra la conversione degli ortodossi alla vera
fede, cioè al rispetto del vero calendario”. Oltre alla tenerezza, conservo di lui la foto scattata nel
1979 e poi l’altra del ‘83 con i suoi orologi e con la visione stupenda del monte che ammirava
devotamente dalla finestra.
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Altrimenti, la solita Karyé: che, in questo viaggio mi sono detto di non trascurare più e di
visitarla in dettaglio. Patetica, pittoresca, ma sempre città-villaggio senza donne. Un solo sesso,
anche santo, vuol dire grande tristezza. E non c’entra la concupiscenza.

PROTHATON

Ci mancava, però, un gioiello di chiesa, non ammirata se non nelle poche fotografie
esistenti; l’abbiamo sempre trovata chiusa negli altri viaggi. Questa volta era aperta, sembrava che
ci aspettasse: si tratta della chiesa centrale, la basilica Prothaton, appunto.
Ohi, che splendore! Con la sua Madonna Prothaitisa, con il suo San Giovanni in contemplazione,
col Gesù manueliano, cioè di Panselino, con l’officina delle icone, a portata di mano….
Le sbalorditive immagini sacre di Prothaton hanno riempito la mia macchina fotografica,
suscitando le reazioni di Vasilescu che temeva il monaco portiere più di me.
Meglio scendere nella storia della famosa basilica. Sarà davvero fondata dall’Imperatore, San
Costantino? È più sicura la sua fondazione da parte di Sant’Athanasio nel 962, aiutato dai suoi
amici imperatori, Niceforo Focas e Giovanni Tzimiskes. La Prothaton è un’eccezione
nell’architettura dell’Athos antica: basilica dalla pianta quadrata, a tre absidi cilindriche.
Nell’interno, i muri creano uno spazio centrale cruciforme. Il tetto ricorda le basiliche, aventi delle
grandi finestre laterali. No, non è del tutto bizantina: è più romana, la più romana, l’unica romana.
Guardandola, ti sembra giusto che San Costantino l’avesse davvero costruita.
Dicono che l’hanno distrutta i Crociati, nel 1280. Io ne dubito; ma chi lo sa? La chiesa com’è ora
appartiene al XIV-esimo secolo,-1320- cioè all’Imperatore Andronico il Paleologo, che l’ha quasi
ricostruita, calcando l’antico edificio. Bogdan III e Petru Rares della Moldavia, l’hanno
restaurata, mentre gli affreschi sono uscite dalle mani di Manuel Panselino di Salonico, in pieno
‘300. La più preziosa ne resta l’Immagine di Gesù Bambino, “o anapeson”, sul muro occidentale.
Tutto l’edificio s’inclina leggermente dall’Ovest all’Est. Così, i muri interiori coperti dai
meravigliosi affreschi di Panselino, come la parete della Cappella Sistina, non sono del tutto
verticali e sono difesi meglio dalla polvere.

Nel 1954, i greci intervennero sugli affreschi, allontanando la fuliggine del tempo e rafforzando il
tetto e la copertura con cemento armato e tegole romane.

“AXION ESTIN”
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Se riesci ad entrare nella Prothaton, quasi sempre chiusa, lo devi fare soprattutto per l’Icona
miracolosa chiamata “Axion estin”, che devi baciare ed implorare per un miracolo. Com’è successo,
per la prima volta?
Tutto ha cominciato negli anni 980, regnanti gli Imperatori Basilio II e Costantino VIII,
Porfirogeniti; mentre la suddetta Icona si trovava nel possesso di un certo monaco di santa fama, in
una cella nei pressi di Karyé, nella valle chiamata più tardi Adini. Egli aveva un suo discepolo con
il quale celebrava le ore. Un sabato sera, del 10 giugno, il vecchio gli disse:
-Figlio, io vado a sentire la veglia a Prothaton, e tu resta in cella a leggertela per conto tuo.
Il discepolo rimase solo. Il resto della storia la conosciamo da lui stesso: A notte inoltrata, ecco che
qualcuno bussò alla porta della cella. Il frate andò ad aprire e si trovò davanti un monaco
sconosciuto che chiese ospitalità. All’ora del Mattutino si alzarono e lo cantarono insieme. Ma
quando arrivarono al canto mariano “Tu che sei più onorata dei Cherubini” il monaco straniero si
mise a cantare un verso sconosciuto che cominciava con le parole “Axion estin” cioè “ è veramente
degno beatificare Te, Genitrice di Dio, la perennemente felice e sovranamente pura e Madre del
nostro Dio”. Il giovane frate rimase impressionato da questa aggiunta e pregò lo straniero di
scrivergli i versi su qualche foglio. Ma non ne trovarono uno. L’ospite chiese una lapide e scrisse
sulla pietra con il dito come se fosse stato un chiodo di ferro. Le parole rimasero incise sulla lapide,
per la meraviglia del giovane frate. Dicendo poi queste parole: “da ora in poi, così dovete cantare
questo inno, voi, gli ortodossi”, lo sconosciuto scomparve. Il beato testimone comprese che, in
realtà, il monaco straniero era niente meno che l’Arcangelo, San Gabriele.
Arrivato il vecchio Padre, il discepolo gli raccontò ogni cosa, gli cantò l’inno con l’aggiunta
e lo convinse di rivelare tutto quanto al Sinodo della Sacra Montagna. Infiammati, tutti, dal
portento, mandarono la lapide al Patriarca ed all’Imperatore, raccontando con dichiarazioni giurate
tutto l’accaduto. Così, il canto completato con le parole angeliche diventò canonico per tutto il Rito
bizantino fin’oggi, mentre l’Icona davanti alla quale l’Arcangelo cantò insieme col giovane monaco
fu trasportata in processione e giubilo nella chiesa del Prothaton dove si trova ancora, aspettando la
lode dei fedeli.
La lapide fu dispersa durante l’invasione della Sacra Città di Costantinopoli da parte dei turchi,
insieme con quasi tutti gli altri tesori della Fede.
Del resto, tutta la basilica abbonda di sacre Immagini di Angeli e Cherubini, più numerosi che negli
altri luoghi sacri, per la consolazione dei devoti; mentre la valle dove si trova la cella visitata
dall’Alto, prese il nome di Adini, “la valle del canto”. L’abbiamo vista da un’altura ed abbiamo
lodato anche noi la Beata Vergine, uniti in spirito con il divo Arcangelo... Senza rinunciare alla
maliziosa idea che il giovane monaco, irritato per essere stato lasciato solo nella cella, si è inventato
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tutto, vendicandosi contro il vecchio e contro tutta la Montagna. No, non lo condannerei, anzi, lo
loderei: sarà stato un poeta religioso, un secondo Cosma di Maiuma268, o un Romanos il Melodo,
messi in disparte, come lui stesso, con tutti i loro inni di genio, dalla società del loro tempo; per cui,
l’unica possibilità che aveva era di chiamare in aiuto il Santo Arcangelo Gabriele. A favore della
mia ipotesi sta il fatto che l’aggiunta comprende la parola “Madre di Dio”, espressione maldestra,
assolutamente sconosciuta ai vecchi Maestri che usavano l’espressione “Theotokos”, “Genitrice”,
adatta meglio per Colei che ha partorito il Verbo incarnato. Con questo non nego il fatto che l’Icona
della Prothaton sia miracolosa o che l’Arcangelo possa apparire com’è già apparso in vari luoghi,
mandato dal Buon Dio.
Prothaton è però il luogo adatto per miracoli e conversioni indirizzati ai giovani, soprattutto
attraverso quest’Icona della Madonna miracolosa. Negli anni’90, 10 anni dopo il nostro passaggio,
un vecchio confessore, Padre Ioannis, rettore della Adini riferiva in un libro la storia di un giovane
che lui aveva mandato nel deserto athonita di Katounakia, a vivere la sua chiamata. Costui gli
aveva raccontato che da piccolo è caduto ed è morto. La Madonna, però, aveva scoperto a sua
madre che si doveva vestire per la morte, andare presso il figlio morto e dirgli all’orecchio: alzati, la
Madonna vuole che io muoia al posto tuo, mentre tu dovrai andare al Monte Athos. Il bambino si
alzò, la madre morì, ed il figlio, diventato grande, di 25 anni, venne in Athos. Padre Ioannis,
impressionato, lo mandò in quella cella isolata dove il giovane morì in odore di santità. Ioannis
trasmesse tutto, prima di andarsene anche lui… ma “non raccontò nulla di ciò che il giovane aveva
riferito di aver visto durante la sua assenza dai viventi”. 269
Durante le cerimonie si leggono ancora i pomelnic con i nomi dei fondatori e donatori, quasi
tutti sovrani e nobili romeni. Marcu Beza ha sentito il diacono cantare: “Stefan Voevod, Bogdan,
Alexandru, Petru, Neagoe, Teodosie,… e in fondo alla chiesa ha trovato un battistero d’argento
nascosto, di cui l’ecclesiarca gli disse: è dai tempi dei vlacchi, vi si battezzavano i loro bambini”.
Ancora i vlacchi: i quali nell’ottavo secolo scendevano da queste parti, battezzandosi, ma anche
incoraggiando i frati a guardare con interesse le donne vlacche.
Nella biblioteca è superfluo fermarti, dopo aver visitato i veri cimeli della Sacra Montagna.
Lasciando, però, spazio al sentimento, mi impressiona il gesto di una ricca nobile romena del’600,
Donna Anca, figlia del Ban Udriste, che ha offerto alla biblioteca della Prothaton un Mineio per
novembre, manoscritto slavo del secolo XVI-esimo. Lo ha fatto per l’anima e in ricordo di suo
papà, morto ammazzato. Gli Udriste erano nobili attestati nel 1300 a Segarcea e Bàilesti, nella mia
Oltenia. Ma il padre di questa ragazza, Udriste Nàsturel, (1596-1659), era un grande letterato e
storico, ambasciatore e ministro, cognato del Domn, Matei Basarab, lo stesso che regalò al
268
L’autore dell’Inno iniziale della Madre di Dio
269
Questa storia ed altre, in Stefanos Anagnostopoulos, op.cit. pag.108ss.
385

superiore di Hilandariou un suo Trattato sulle virtù, come introduzione al libro liturgico Triod-
Penticostar. Sono tutti, lì, firmati dalla mano delicata di Elina Doamna, la moglie del grande Matei
e sorella di Udriste. Me lo sento vicino, questo Nàsturel, non solo per le sue preoccupazioni
poetiche, o per aver tradotto –fra i primi- in romeno, l’Imitazione di Cristo; e non solo per aver
trattato con gli uomini del Papa; ma soprattutto perché la sua vita ha ruotato intorno a quelle terre, a
quei conventi, a quelle città e villaggi in cui, secoli più tardi, avrei goduto i miei primi dieci, felici,
anni della vita. Fu ucciso per ordine di Mihnea III, che in un anno di regno non seppe fare altro che
giustiziare questo innocente, amico di suo padre, Radu Mihnea.
Altrimenti, i documenti di Prothaton attestano come Matei Basarab paga le imposte di
tutto l’Athos, nel 1645; Grigore Ghica e Serban Cantacuzinò, (prima di essere avvelenato dal
santo nipote e mentre consolava la sposa dell’antecessore, Duca), inviano offerte dai proventi delle
saline di Ocnele Mari-15 km. da casa mia, ecc. ecc….O, tempora !.....

DIARIO ARRABBIATO

Usciamo dalla basilica scossi e commossi. Non ce ne siamo dati troppe mosse, perché
eravamo convinti di fermarci a Cutlumus, che si alza lì vicino; ma i frati non vi ci hanno ospitato
per la notte. Aveva preso fuoco proprio la parte del convento con l’arcondarico ed ospitavano già
troppi turisti. Lo avevamo visto due volte, ce ne siamo rassegnati e dopo le fotografie e le preghiere
di rigore, abbiamo ripreso la strada per raggiungere l’Iviron prima del tramonto. Ora che penso, in
quella occasione abbiamo sperimentato sul vivo- anche se spento da poco- il tragico divampare
degli incendi nell’Athos.
Passiamo, perciò, la prima notte a Iviron in dolci conversazioni coi monaci amici, vlacchi,
Teofilo ed il più vecchio Antim. Quando stavamo per assaporare la gioia di non essere stati
dimenticati da questi angeli oranti, ecco che riappaiono il buon Veniamin con il professore di
musica di Bucarest, quello dei tasti guasti, di cui Vasilescu temeva il tradimento. Ohimé, Vasilescu!
Alto com’è e con la sua imponente barba, si nasconde come l’elefante nel ciliegio. Lo conoscono
anche le oche, in quegli ambienti ambigui, di cui è vittima e inconsapevole (?) complice; perciò,
per forza, si obbligò di andare a salutarli, dicendo loro che si trovava in compagnia di amici italiani.
( Le nostre facce stanno filmate negli archivi della Securitate, ma non proprio nella memoria di tutti
i loro uomini). A bella posta, facciamo buon viso a cattivo gioco e con un sorriso alla Gioconda,
risolviamo la questione per quella sera. Però, sbrigarsi di un incomodo non è facile, perché a
Karacalou i balordi appaiono di nuovo ed è stato più difficile per Vasilescu a nascondersi e non
fornire dettagli inventati a quei curiosi per mestiere.
386

Di più: a Provata, fra Martinian ci racconta di loro, (schifato), ma pure del sacerdote con il genero
e la figlia, quelli incontrati da me a Meteora. Quella brava figlia di prete dalla bocca puzzolente di
menzogna, obbligata di aspettare i suoi tutori a Ouranopolis, non voleva perdere l’occasione di
compiere il suo dovere patriottico e voleva convincere anche lui, il saggio frate, che in Romania
“stanno benissimo ed hanno di tutto”.
I monaci di Karakalou ci ricevono con grande riverenza. Perfino con amore. È la prima
volta che qualcuno sul Monte ci offre del vino. Ci danno dei bei bicchieri; ma il vino era aggiunto di
resina! Veramente, li abbiamo trovati che accompagnavano la partenza di qualche Vescovo o
dignitario importante. Dopo il commiato riservato a costoro, rigirandosi verso di noi, ci hanno
trattato allo stesso modo di quei dignitari.
Rivisitiamo il bellissimo convento, ricco e mistico. La ricchezza teologica e artistica della
chiesa madre non ha nulla da invidiare alle grandi metropoli. Il trono regale, l’Icona in argento con
i santi Apostoli in abbraccio fraterno, i due santi votivi con la chiesa in mano, l’aria non terrestre di
tutta l’atmosfera del katholikon… cosa vi mancava? Vasilescu, imbozzacchito sotto il grande
candelabro centrale, accanto a un piccolo monaco immortalato da me in una comica fotografia; e la
bandiera greca sulla residenza del Superiore.
A questi monaci austeri e semplici offro la prima magliettina con la scritta “Italia” e il primo album
della mia collezione preparata per i vari amici del Monte. Ma sono spoetizzato: appaiono gli uomini
di Vasilescu e mi portano via il buon umore. Ohimé, incontrare, nell’Athos stesso, i servitori del
diavolo e non poterli evitare. Ma cosa cercano sul Sacro Monte? Materia di spionaggio o tentativo
di riscatto, per i loro tradimenti? Ora so che padre Micle era lì per compiere un lavoro molto serio,
la riordinazione della biblioteca di Prodromos e lo studio di alcuni manoscritti. Certo, però, che si
sono abituati, da sempre, a tentare di comprarsi il perdono di Dio, senza rinunciare al lavoro di
Giuda. Ed ora che ho letto negli archivi segreti finalmente disponibili a Bucarest tutti i loro dossier
con tutta la loro vita ed i miracoli, ho la conferma che davvero…. non c’è più religione…..

FRA IOSIF

Il 27, pomeriggio, raggiungiamo la Provata dell’amico, fra Iosif Andreothis.


Che consolazione! Quale discesa nel profondo del cuore! Una specie di ritorno a casa, ecco
l’effetto di chi riesce ad amare senza confini. Nella sua casa, come nelle braccia paterne di fra Iosif
mi sento quasi difeso dai miasmi sgorgati dalla presenza dei delatori. Non riusciva a riconoscerci,
accompagnati com’eravamo da barbe prolungate nel tempo. Poi, mi pare che il primo a far
scintillare nella sua mente il ricordo e la gioia sono stato io, seguito da Gigi con la barba
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maggiorata. Da quel momento, non mi diede più tregua. Mi parlava di continuo nella sua bellissima,
incomprensibile lingua greca, troppo bella per non essere compresa da chi te la pronuncia con
amore….. Quando smetteva di parlare, cantava, dicendo lo stesso verso: rimani con me, oramai sei
sacerdote, io no. Celebrerai la Liturghia pe me ed io ti lascerò in eredità tutto questo podere, le
case, la chiesa ed il mio cuore…. Tu non vedi come sono solo? Tu non vedi che sto invecchiando?
Tu non vedi come ti amo?
E, girandosi verso tutto il gruppo, mi sembrava che dicesse: in fondo, perché non rimanete tutti qui?
-Ma lui è sposato.
-Va bene, rimanete voi che siete monaci. Cosa cercano nel mondo monaci come voi?
Ohi, se avesse saputo la verità su di noi! Ebbene, io sono convinto che non se ne sarebbe
scandalizzato come gli altri più santi di lui. Avrebbe detto: fa niente, abbiamo lo stesso Gesù
Cristo. Basta che vi fermate qui con me! E, per convincerci della sua sincerità (semmai ce ne fosse
stato bisogno), ci fece vedere ancora una volta, (la terza, per noi) le spade, la casa, le romanze da lui
composte, le cartoline ricevute, i pacchi e l’album con Roma inviategli da me, e le camere per gli
ospiti che sarebbero diventate nostre, per sempre, se noi….. A me, però, strizzando l’occhio con
santa furbizia, mi fece guardare in esclusiva varie riviste un po’ più mondane, portate da
sfacciatissimi turisti tedeschi. Questo per dimostrami la fiducia totale di cui godevo nei suoi
ammirevoli occhi. Allegro, rideva, svuotando un altro bicchierino di rakì, che se lo trascinava
dietro, da una stanza all’altra. Rideva, sì, ma la sua risata era così commovente, forse disperata, che
a me venivano le lacrime…..
Prima di raggiungere il podere di Iosif, riannodiamo l’ amicizia con il monaco nano, la cui
presenza l’avevamo avvertita anche nei viaggi precedenti; ma ora lo abbiamo collaudato
nell’esercizio dei suoi programmi ascetici. Con una voce di fumatore incallito che si propagava
fuori dalla sua bocca, strisciando un sigaro più grande di lui, ci descrive la sua attività di mugnaio,
con il suo mulino privato, i suoi due muli che gli carreggiavano la merce, mentre lui, vestito in
blujeens e con altri abiti del tutto secolari, lavorava la terra e curava il giardino e le varie specie di
fiori che aveva collezionato. Con grande modestia e devozione ci ha fatto visitare la sua chiesa,
grande e ricca. Dall’alto del suo podere osserviamo un altra cella, perfin troppo isolata in un
meraviglioso ambiente di foresta, mare e cielo sereno. Ce la commenta con tristezza e con aria
preoccupata ma, solo il giorno dopo l’abbiamo capito: visitandola, l’abbiamo trovata abbandonata e
saccheggiata in modo selvatico.
Buono, il nostro nano, savio, umile, semplice. Gli ho offerto una maglietta con la scritta “vendiamo
mobili a Ruffano“ ed è stato così contento che, il giorno dopo, al mare, venne dietro di noi,
388

indossandovi la maglietta. Ho scattato delle foto con lui nel suo giardino e nella sua chiesa, vicino
al quadro del nostro caro Santo, Giorgio di Joannina.
Con la stessa dolcezza, ci accompagnò, accanto a fra Martinian, da Iosif, cogliendo da lui
ringraziamenti inesprimibili.
E, così…. come posso definire Iosif ? Il più amorevole monaco di tutta la Sacra
Montagna, il mio più grande amico.
-Fra! oggi è il compleanno del mio confratello, Pappas Ghiorghios Picu!
-Ghiorghios! Né, né! Ghiorghios Pikus, kalà, kalà. E non poteva ballare abbastanza per la gioia
di festeggiarlo, tirando fuori per la cena le migliori posate, bicchieri da champagne, piatti con la
corona reale e vino di massima qualità. Per lui si è tenuto il rakì, che beveva da destare
preoccupazione. Mancava lo tzigano con il suo violino lacrimogeno. Lo rimpiazzava bene fra Iosif
che non esauriva il suo répértoire di romanze e tanghi dei migliori tempi….. Serviva e ripeteva:
”ego agàpo poli”.
Mi vide il più disponibile, perché, in realtà, io sono così con persone amorose, soprattutto
anziane e spero di non cambiare e di non imitare tutta questa gente distaccata che mi ruota intorno.
Iosif mi offre lo iatak, come negli anni passati; che fortuna, salvarmi dalle zanzare, e soprattutto dal
russare e dalle punzecchiature di Vasilescu!
Mi sistema il letto, il più decorativo e festoso di tutta la casa, a una piazza e mezzo, con
elegantissime lenzuola, estratte da armadi segreti, preservati per Reali o Sevasmiothati…. Poi, mi si
mette in una specie di poltrona, accanto, dove, dai tempi dei re, sembra nessuno si sia più
appoggiato…. e, continua a dirmi: vedi come stai comodo e fresco? è così facile rimanere qui! Io
scrivo alla Sacra Epistasia, tu porti una raccomandazione del tuo Vescovo ed è fatta. Ti servirò per
tutta la vita ( lui a me, non io a lui!) e ameremo insieme il nostro Kyrios, Iisus Hristos!
Non sapendo esprimermi bene, ripetevo le poche parole: “kardia, agapi, amartia, fede, non bere
più, ti fa male, sii bravo, non ti devi ammalare, torneremo da te”…. E con una certa difficoltà, dopo
che lo accarezzo e lo bacio con sufficiente tenerezza, lo faccio andare a riposare…
La mattina, celebriamo la Liturghia nella sua ricca chiesetta, (non troppo piccola). Partecipa
anche Martinian, che comunica il nostro arrivo a Prodromou. Risponde come cantore, accanto a
Fra Iosif; e, neppure lui si scandalizza che qualcuno di noi ( io, Sergiu) celebra senza barba. Questa
volta anche Gigi si veste e celebra. Vasilescu, però, no. Aveva i suoi capricci, o, meglio, temeva che
alla fine indovinassero le nostre vere origini. Iosif, triste, con tristezza mortale, si è prodigato di fare
il cantore alla Messa. Ma gli si addicevano di più le romanze tristi che lui stesso componeva,
bevendo dalla bottiglia di rakì, mentre ci serviva. Fuori, vestiti con le deplorevoli sottane dei
monaci, scattiamo le foto. Iosif mi offre il suo abito migliore.
389

Di pomeriggio andiamo insieme a Katafighi e fra Iosif vuole, ad ogni costo, accompagnarci.
Partiamo con Martinian e con lui. Da lì si vedono meglio gli edifici, proprietà di Iosif, in una
visione davvero sconcertante: case semivuote, che non si sperava più vederle piene di nuovi
monaci.
A Katafighi mi diverto come altrove, a sistemare meglio le teste dei monaci nella cella dei morti,
per la fotografia. L’ossario è una specie di spelonca, dove, però, le teste sono collocate su palchetti,
non stanno buttate a capocchia, mescolate alle ossa ed alle erbacce, come a Dionisiou. Dico al frate:
-Però, le dobbiamo allineare con le protesi dentarie rivolte verso di noi, non una di quà ed
una di là. Così ci sorridono per la foto.
Faccio fatica, ma alla fine riesco a sistemarle come i libri in una biblioteca, o come le tazze
ed i bicchieri preziosi in una vetrina; e scatto la diapositiva che ho fatto ammirare in mezza Europa.
La chiesa di Katafighi è altrettanto preziosa come quella di Iosif. Nel visitarla, anche i frati romeni
ci dicono: ma perché non rimanete qui? Al sentirli, fra Iosif stava per svenire per la gioia. Non
capiva, ma partecipava con incredibile interesse alla nostra conversazione in romeno. A pranzo, dai
frati, parliamo a lungo con loro di Calisto il katafighiota, i cui scritti brillano nella Filocalia 270e poi
sulla figura di San Giuseppe –Iosif- , il patrono del nostro amico, che nell’Ortodossia è
semplicemente “il Giusto”. I frati in Athos e gli ortodossi in genere, lo percepiscono avvolto in
leggenda, soprattutto nei nostri giorni di risveglio delle vecchie superstizioni e fanatismi, prese per
ritorno alle fonti…..

SAN GIUSEPPE.

Lo sposo legale, non vero, di Maria Santissima era Giusto, non Santo, per la Chiesa antica,
come, del resto, tutti i Patriarchi del Vecchio Testamento, eccetto Sant’Elia che fu rapito in cielo.
Nei tempi più moderni, soprattutto in Occidente, la precisione delle parole e dei titoli conta di
meno. E per le cose non essenziali, forse è meglio. Egesippo 271 ci dice che il giusto Giuseppe aveva
un fratello, Cleofa. Sarà stato colui che vide il Signore risorto sulla strada di Emmaus!
Presso i monaci dell’Athos ha trovato credito la versione accreditata, in genere, nella Chiesa
Orientale, ripresa dagli apocrifi di Giacomo e di Tommaso, secondo i quali, a 40 anni, Giuseppe
sposa Meleha; vive con essa per 49 anni; ha da essa 4 figli, “i fratelli del Signore” : Giuda, Giusto,
Simone, Giacomo; ed anche le due figlie aggiunte da un altro apocrifo: Assia e Lidia.

270
Nella trad. rom. op. cit. vol.VIII, pag.393ss.
271
?
In Eusebio, 3,11
390

A 89 anni, rimasto vedovo, continua il suo lavoro a Betlemme, dove lo raggiunge il bando
del sommo sacerdote, che aduna a Gerusalemme tutti i vedovi della Giudea, per scegliere tra essi lo
sposo della dodicenne Vergine Maria.
La scelta è affidata a Dio Stesso: infatti, è stato l’Angelo a dire al Sommo Sacerdote: “ ognuno porti
un bastone; sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”.
Ed infatti, dal bastone di Giuseppe, una colomba uscì e volò sul suo capo. Il sacerdote disse allora:
tu sei stato eletto. (La storia del bastone è ammessa in Occidente; ma è combinata con lo stato
verginale del nostro). Giuseppe si oppose, essendo vecchio ed avendo figli. Si vergognava. Il
sacerdote lo minacciò con il castigo divino. Così Giuseppe vi acconsentì, ma per paura. Secondo il
codice Arundel, disse: sarò custode suo fino a tanto che la volontà di Dio farà conoscere quale dei
miei figli la debba prendere in moglie.”
Poi venne il momento in cui Giuseppe riconobbe Maria come incinta. E vi fece una magra
figura, volendo licenziarla di nascosto, o semplicemente fuggire e nascondersi. Superarono il
problema, perché fu il Cielo ad intervenire. Ma il biografo, da vero specialista in materia di
riconoscimenti di adultere incinte, descrive: “Giuseppe vide inoltre nel suo collo le vene gonfie, il
viso assottigliato, il colore che cambiava quotidianamente, e non si trattava del rosso della faccia
di una vergine. I suoi passi si erano fatti pesanti e comprese che essa era gravida”.
Poi, andarono a Betlemme, per iscriversi e Giuseppe si prese anche i 4 figli e le due figlie.
Il biografo descrive anche la nascita verginale di Gesù; ma senza afferrare la contraddizione
del proprio racconto: l’incompatibilità fra un parto verginale ed i segni evidenti dello stato
interessante di un’adultera.

Nella “Storia di Giuseppe, il falegname” Giuseppe raggiunge l’età di 111 anni, sempre in ottima
salute, sano di vista e con tutti i denti; non si era affatto indebolito nella mente, conservando sempre
il suo vigore nel lavoro. Ed anche quello sessuale, visto che doveva apparire come vero padre di
Gesù e sposo di Maria. Gli inventori para-evangelici di queste storie non si sono accorti che proprio
per questo motivo non serviva gonfiare o diminuire la vera età dei due sposi. Il Codice lo fa morire
a 111 anni, il 26 abib, di una morte sofferta, (che nulla ha a che fare con una morte santa: pieno di
rimorsi per il pensiero contro la Vergine -Madre, profferisce dei lamenti e delle premure che sono
state riprese nell’ufficio funebre delle Chiese orientali, le stesse lamentele, quasi scandalose).
Secondo un altra tradizione, Gesù promette benessere e prosperità in questa vita e salvezza
nell’altra a chi compirà un’opera buona a ricordo di Giuseppe o ne imporrà il nome a uno dei propri
figli.
391

Insomma, gli hanno divisa la vita così: 40 anni prima del matrimonio vero, 49 anni di
matrimonio; 1 anno di vedovanza; poi l’affidamento della Vergine, 2 anni. Il terzo anno, nacque
Gesù, la Vergine avendo 14 ma anche 16 anni. Padre putativo di Gesù per 18 anni.
Ascolti i monaci che si sono imparati a memoria queste storie tramandate, convinti che siano
dati della Divina Tradizione. Non sono toccati dal sospetto che queste fantasie, neppure riuscite,
neppure credibili, possano provenire dagli apocrifi. Alzare l’età di Giuseppe e diminuire quella di
Maria, per quell’epoca era un buon mezzo per non destar sospetti sulla verginità della Madonna…
Nei nostri giorni, pieni di ragazze di 8 anni, specialiste in sesso estremo o di pedofili di 80, in
marcia orgogliosa per le strade di Roma, queste precauzioni sono ridicole. Ma neppure la versione
occidentale della verginità di un Giuseppe, giovane sposo finto di Maria, è più storica. Sarà più
logica, ma è più recente, frutto di meditazioni e di rivelazioni private, non riconosciute.
L’argomento chiave della grandiosità di Giuseppe è la mancanza di dettagli della sua vita, comune a
tuttti i grandissimi. E le informazioni del ristrettissimo testo dei Vangeli rimangono le più chiare.

Non mi ricordo per quale motivo Iosif doveva assentarsi; prima di andarsene, però, ci si è
raccomandato di avvisarlo quando saremmo andati via, perché voleva venire con noi alla nave.
Perdendoci in chiacchiere, invece, si era fatto tardi ed i miei, per timore di perdere il battello,
vollero alzarsi. Dissi ai frati di salutarlo da parte nostra, ma col cuore assai stretto; e ci sbrigammo a
scendere. Così, Iosif non ebbe la felicità di accompagnarci nell’ultima camminata. Ma, siccome
l’amore è capace di tutto, ecco che apparve anche lui, più tardi, venendo da solo, un po’ brillo, sotto
il sole cocente. Ci ha ritrovati nell’acqua, perché i miei co-viandanti non si perdevano mai
l’occasione di affrontare quella bellezza di mare azzurro e pulito. È entrato anche lui, con il costume
da bagno che gli avevo dato io e con la maglietta di Ruffano, offerta da me, in più copie, a mezza
montagna. Era teneramente comico, soprattutto vicino a Vasilescu: un torrone grosso vicino a un
altro più piccolo che era il povero Iosif ! Ci accompagna fino al porto e non vuole separarsi da noi
fin quando saliamo sulla navicella. Lo abbiamo salutato ed abbracciato con tutto l’affetto possibile.
Mi si struggeva il cuore, con la segreta, tristissima intuizione, che l’avrei visto per l’ultima volta.
Quando la nave si è mossa, lui ha cominciato cantare una delle sue canzoni travagliate, addolcita
dalla bellezza della lingua greca. È stata una separazione drammatica, io l’ho avvertita più degli
altri. Ohi, come avrebbe voluto che non partissimo più! Come avrebbe, forse, desiderato venire con
noi! Tutto si è srotolato come in una tragedia greca, appunto, di un fatto non compiuto, di una
incompiutezza esistenziale. Iosif aveva 62 anni, allora.
392

O, Iosif, Iosif! Per il solitario, tutto dipende dal pensiero, diceva Isaacco il Siro, e pregava: “non
farmi entrare Signore, in queste prove, perché anche i forti ed i provati escono a stento vittoriosi da
questa porta!”
È chiaro che, pur non potendo comunicare con lui, se non con pochissime parole, considero
il vecchio Iosif Andreothis il mio amico numero Uno della Sacra Montagna. Ora, a distanza di
decenni, che mi sto avvicinando alla sua età di allora, lo capisco mille volte meglio! Come
sentiamo la solitudine, più banale di prima! Ma non perché amiamo la società o perché non ci piace
la vocazione ricevuta da Dio, bensì perché avvertiamo più verace e più inflessibile l’ingratitudine e
la freddezza di tutti coloro che ci parlano di amore, di giustizia, di amicizia ed altre sciocchezze…..
…. Piango, scrivendo di lui. Che Dio lo beatifichi in Cielo!
Anni dopo, ho sentito che, dopo la sua morte, negli anni’90, le sue case sono state date a giovani
greci che hanno restaurato tutto con cura ed hanno riempito le stanze di nuove leve. Io penso ai
bicchieri con effigie dalle corone imperiali di fra Iosif. Sapranno bere meglio, i nuovi frati e con più
evlavia,272, ma cuore d’amore e mente acuta come fra Iosif è difficile che abbiano ereditato.

DIARIO SCHIFATO

Il nostro viaggio riprende il suo vecchio volto. Arriviamo a Megali Lavra con la navicella.
Un gruppo di italiani, felicemente sorpresi della nostra compagnia, si attacca a noi, spaesati
com’erano e stupiti della nostra familiarità con i luoghi e con le stranissime regole di questi luoghi.
Ecco anche il greco fanatico che urla per farmi smettere di fotografare la chiesa. Lo lascio urlare,
aiutato dagli sbuffi di Vasilescu e non esco dal Sacro Tempio prima di immortalare il tabernacolo
del Domn Matei Basarab! Anzi, perché si finisca in malora, sotto i suoi urli elenici prolungati, mi
metto a carezzare languidamente la mano di San Giovanni Chrisostomo, regalata al convento dal
Domn, Constantin Bràncoveanu, santo e martire. Quando passo al trono reale di Matei Basarab,
che carezzo e riprendo in una riuscita diapositiva, Sergiu era già riuscito a infilare una moneta
piuttosto pesante nella tasca del ecclesiarco, il quale, con un forte grugnito sfratta l’energumeno e
mi permette devotamente di continuare. Scatto molte foto, alla faccia dei fanatici, fuori e dentro: il
trono glorioso del Despota e qualche scena coi Sinodi ecumenici, più la dolce Maria Santissima,
neo-bizantina. Non mi sfugge la quercia, il battistero, il cortile interno principale, di una bellezza
che non trova pari. Come anche la trapesi storica che non usano se non per le grandi feste e che si
trova sbarrata per gli occhi estranei. Scattavo foto agli splendori già ripresi negli anni passati,

272
Pietà, devozione religiosa.gr.
393

perché Sergiu mi aveva appena regalata una Canon ultimo grido, che mi ha permesso poi di
presentare l’Athos al massimo livello accademico in vari athenei e luoghi sottili d’Europa.
Scatto una fotografia anche a Vasilescu con tutto il paesaggio. Così si calma.
Dopo Vespri e cena discuto fino a notte inoltrata con i giovani italiani, accompagnati da
amici greci che parlano italiano e tentano di far capire loro qualcosa della realtà intricata dell’Athos.
Sono, però, confusi, di sinistra, e proprio per questo non possono capire nulla né di ciò che vedono
né di coloro che incontrano. Sono socialisti ed antiamericani, in modo gratuito, com’è normale che
sia.
Per le prime ho evitato di abbassarmi nella politica; ma, siccome il discorso anti-americano
continuava senza ragione, mando in orbita una sola pastiglia, riservata al bolognese che si
dimostrava più infiammato.
-Ehi, caro mio, vai piano con la Resistenza e con la prodezza degli antifascisti! Stai certo
che, con tutta la loro resistenza, i 2-3 uomini che c’erano, senza gli americani, non avrebbero vinto
la Germania ! E neppure avrebbero evitato la terribile occupazione sovietica; ed i Greci, idem,
perché sono troppo piccoli per difendersi da soli.
Non l’avessi mai detto! Si infuria il bolognese, diventa rosso, peggio del ragù. Ma io lo
avevo intuito e l’ho fatto a posta. Non so come finisco per dire che “noi, gli scampati dal
comunismo, amiamo i greci e la Grecia e siamo preoccupati per loro di fronte ai turchi ed ai
comunisti in avanzata”. L’atmosfera è oltremodo infiammata, i miei sono neri, come sempre,
mentrre io, probabilmente, mi preparavano qualche risposta offensiva. Sennonché sopravviene una
Grazia, inaspettata: il greco più cordiale fra loro salta giù dal letto di sopra dove si era collocato e
viene e mi abbraccia, con un gesto immenso e concludente, senza dire una parola. Fu, questa, una
mossa impagabile, che mi ha consolato per tutte le inezie viste e sentite in quei giorni. Nella stanza
piomba un silenzio estatico. La mia vittoria è definitiva.

PRODROMOU.

I frati, tutti romeni, avvisati da Fra Martinian, ci accolgono con signorilità. Per poco non
hanno suonato le campane come per il Vescovo. Perciò, mi permetto un attimo di respiro….
Ora vedo lo stato doloroso delle pitture della chiesa, fatte forse in fretta a loro tempo, (fine
‘800); sarà difficile il restauro. Nel 2000 hanno rimpiazzato i vuoti con pitture neo-bizantine
disgustose. Non tanto per restaurare, quanto per far sparire le immagini di stile italiano, che i
talebani moderni non sopportano.
394

Riprendo l’icona miracolosa, in una foto molto riuscita. Invito al canto dell’ “Apàràtoarei”273, i
Padri, uniti a noi. Ma la felicità dura poco, perché oramai siamo seguiti da uno zodiaco stranissimo.
Sul meglio, riappaiono i due romeni: Veniamin con il “professore”. Ed ora ti voglio vedere,
amabile Vasilescu! Come fai a dire, anche qui, che sei con “amici italiani”? A Prodromou ci
conoscono tutti, sanno che siamo “ortodossi”, e romeni purissimi, arrivati, forse, direttamente dalla
Romania.
Ignoro che tipo di jonglerie avrà inventato Vasilescu per ri-presentarci come amici, sacerdoti
ortodossi; ma Veniamin era informato che Lino, il figlio del Magistrato della Diocesi di Rìmnic e
Diacono, Don Petru Dragu era diventato cattolico. Peggio che andar di notte. E come fai a
continuare a dire ai monaci che siamo “ortodossi” ? Diventava spiacevole anche per me, non solo
per Vasilescu.
Ridendo dentro di me, mi dico: fai Tu, Signore, come Ti piace.
Per fortuna, in Veniamin, come in tutti i veri informatori, scattava, come primo obiettivo, la
formula da usare nel rapporto per i suoi Direttori d’orchestra; non aveva in mente di denunciare “il
mio stato ereticale“ ai monaci, forse non ne aveva fatto neppure tutti i collegamenti; anzi, è sicuro
che non li ha fatti, le spie non sono intelligenti come credono di essere, soprattutto in materia di
sottigliezze . Non ritardò però di compiere il suo dovere di propagandista del regime infame e dirmi
“in confidenza”, dopo avermi riempito di elogi che “in Romania, le cose sono cambiate”, le
mentalità anche; e che potrei far ritorno nella “patria socialista”.
Mentre parlava, mi sembrava che la sua bocca puzzasse orrendamente; ma era l’odore dell’infamia
che sgorgava da quest’ uomo infame, il torturatore di Padre Calciu! Faceva questo e altro per una
settimana di libertà nelle biblioteche dell’Athos.
Ma non lo perdono. Dopo che lo lascio a sviluppare le sue candide logoree, gli pongo una
sola domanda, che gela i miei compagni di viaggio, più di lui:
-Ascolti, Reverendo! Può un uomo che torna nella “patria socialista” non dare il suo pro
memoria informativo alla Securitate?
-Può, risponde lo sfacciato.
Io continuo imperterrito:
-Può un uomo non sporcarsi, mentre riceve un passaporto dalla più infame istituzione del
mondo?
-Può, dice.
Mi disarma con la sua perversa perseveranza. Volevo cominciare una teoria, tutta per lui, per
spiegargli che la sua propaganda del “ritorno degli esuli” non era solamente immorale, ma anche

273
Il canto –kondakion- della Vergine, “Invincibile Stratega”, in romeno.
395

criminale, perché chi è caduto nella trappola di questa disinformazione è finito direttamente sul
patibolo, ecc… ecc… ma capisco che non mi si dava il tempo necessario, ecc... ecc…. Ed allora, lo
guardo negli occhi, giusto, giusto, per farlo crepare e gli replico:
-Non può, non può. Ha capito? Non può!
Veniamin non crepa, ma rimane senza risposta, come un cane abbrustolito da un fulmine. Giro i
tacchi e mi allontano, portando gli altri dietro, sbollentati. Gigi, solo, è più sereno e ne sembra
compiaciuto.
Certo; se avessi mai indovinato in quell’epoca che le spie della Securitate non denunziavano solo
per paura o per interesse di carriera, ma anche per soldi, a 1000 lei pagina, i miei urli sarebbero stati
più terribili. Fra il 2009 e 2012 mi sono studiato almeno 100 dossier della Securitate, messi
finalmente a disposizione del pubblico, nella Bucarest liberata; ed ho visto, nero su bianco, ciò che
sono capaci di ordire fratelli contro fratelli, sposi, amici e nemici, preti compresi, per un piatto di
ortiche bollite….
Non celebriamo, per non fare male a Vasilescu, anche se abbiamo convinto tutti, il
Veniamin stesso, che siamo stati ordinati da Kir Iosif (?) e che siamo simbolicamente sottomessi
alla Patriarchia di Costantinopoli.
Anche Vasilescu prova schifo, dice lui; “si schifa dei romeni e della Romania di oggi”.
Schifo, ma anche paura. Come farà a giustificare questo trovarsi in compagnia di traditori come
noi, davanti ai suoi Direttori di galera? Poteva pregare Veniamin di non denunciarlo? No, non
poteva.
Sulla spiaggia di Aghiou Pavlou sbuffa: Non ritornerò mai più in Romania, fino alla morte, perché
i comunisti l’hanno distrutta”
Passa pure lui, da un estremità all’altra. Non ha mai avuto il coraggio e la voglia di fare questo
passo di semplicissimo onore.
Ma anche noi passiamo per una piccola crisi. Inizia Gigi:
-Basta con le zanzare e con la miseria, coi romeni securisti, informatori e spie, basta col
fanatismo e con l’arretratezza dei greci, basta con tutto questo; non per nulla siamo fuggiti a Roma.
Non per nulla, Dio ci ha regalato un altro mondo, un altro modo, e un altra Chiesa, degne di questo
nome!
Beh! Anch’io, dopo tutte le delusioni coi greci e coi romeni sul Sacro Monte, Vasilescu in
testa, vedo chiaro, aldilà delle nostalgie e degli infantilismi, il nostro legame con l’Occidente,
voluto, programmato e realizzato da Dio Stesso, per noi.
396

Continuiamo il viaggio nella foresta, più densa che mai, verso Nea Skiti e Sant’Anna.
Qualcuno passa con il mulo. Noi, sempre a piedi, siamo dei veri alpinisti, non lo avrei mai
concepito. Ed ecco che ci si presenta la visione straordinaria della valle, ripiena di piccole celle,
dalla cima fino al mare, della Nea Skiti.
Non avrei mai immaginato una bellezza simile e un regalo di Dio più forte di questo. Riprendo
l’Icona di Sant’Anna in piedi, con la Madonna in braccio, in una entrata speciale, una nicchia
festosa. Non ci si stupisce, se qui ha potuto vivere, studiare e fare penitenza un professore come
Vissarione di Rapsani, alunno di Vulgaris, portavoce dei kollyvades presso la Patriarchia. Durante
questo viaggio, intravediamo le moltissime celle del deserto di Kavsokalivia, col pensiero ai santi
monaci che lì si sono santificati. Come il monaco Ghedeone, il quale, a quasi 90 anni, rimasto
cieco, ricevette l’ultima comunione dalle mani di Pappas Elpidios, nella propria chiesetta. Nel
supremo momento della Comunione, gli si aprirono gli occhi e vide ancora una volta, fisicamente il
suo amato Monte e poi la Luce divina. Se ne andò al Cielo, pronunciando con gioia sovrumana, “Ho
visto la vera Luce, il Signore, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero”.274
Con questi piccoli monasteri nella mente e con la speranza di ritornare, per vederli, ci lanciamo nel
mare. Conservo la foto con i tre, immersi nell’acqua, in lotta con le onde.
Moni Aghiou Pavlou, come Simon Petra non ebbero fortuna, nel grande Athos: hanno
subito troppi incendi e sono stati restaurati. Ohimé, malissimo, s’intende.
Conservo del Monastero di San Paolo una foto scattata dal basso nel 1977 e dall’alto, nel 1983.
Contemplo ancora oggi, con gli occhi della mente, quelle torri genovesi o veneziane, tipicamente
latine, in un mare greco e di odio anti-romano.

31 luglio, 1983.
Sera. Raggiungiamo Dionisiou dove ci fermiamo per seguire i Vespri e per pernottare. Ne
conservo una fotografia scattata da lontano, con i miei compagni avvicinandosi all’ingresso. I
monaci sono oltremodo gentili, perciò posso scattare foto a volontà. Mi resta una magnifica
immagine del tabernacolo di Neagoe Basarab con il suo volto devoto, mentre offre il dono a chi è
dentro, cioè a San Nifon. Riprendo una foto con la Madonna, tutta in argento dorato, circondata
da santi, lei in un ovale, di inesprimibile bellezza.
Riprendo lo spirito maligno che esce dal pozzo dell’abisso apocalittico, cioè la sua immagine
affrescata su un muro esterno; il Basileo georgiano con la sposa, benedetti da Gesù Pantokrator in
un manoscritto prezioso. Rivediamo un manoscritto greco del XI-esimo secolo; e, poi,
accompagnati da un umile frate, il solito ossario pieno di teschi in disordine. Io, oramai specialista

274
In S. Anagnostopoulos, op. cit. pag. 463ss.
397

in design di scheletri, li ordino quasi tutti con la “faccia” ridente verso di noi e scatto loro una
magnifica fotografia che dedico al mio pubblico durante le conferenze:
“Tal fosti; or qui, polvere e scheletro sei. Muto, di memoria solo e di dolor custode, il simulacro
della scorsa beltà”. 275

Da lì a Grigoriou, la peggiore camminata che abbiamo affrontato in tutta la Sacra


Montagna. Difficile e faticosissima. Ora penso che mi trovavo già stanco, ma soprattutto svogliato,
desideroso di finire. E non a causa della Sacra Montagna. Altrimenti, non mi ricordo di essermi
lamentato dello stesso percorso nei viaggi precedenti.
A Grigoriou, mi sembrò di trovare dei giovani monaci ancora più retrogradi che a
Filotheou, per esempio. Cominciava da quelli anni, nei soprannominati monasteri, la puericultura
dei talebani ortodossi, la cui puerile cultura si sarebbe propagata nel 2000 per tutto l’Athos. E,
siccome il malanno non arriva mai da solo, sul più bello ci spunta davanti il mio ex-collega di
seminario, (di qualche anno più giovane), Cassian, diventato monaco e in lista per il vescovato
ortodosso-securista, in Romania. Passaporto RSR, studi all’Ovest, viaggio in Athos..... chi più ne
ha, più ne metta. Era in “pellegrinaggio” di preghiera ; e, troppo felice per una caccia così saporita
come noialtri, ci saluta con entusiasmo e ci segue come un ombra. Eravamo preda facile, pensava
lui, in vista di qualche gallone essenziale per la sua carriera. Così mi dà l’occasione di non
risparmiargli nessuna accusa diretta e indiretta. Infatti, comincio:
-Maledico gli informatori, i lecchini della Securitate, complici dei crimini e della disgrazia
di un terzo del pianeta, e mi riferisco a coloro che hanno l’aggravante di essere “consacrati“ nella
Santa Chiesa. Parlo della Sovrom-patriarchia, del Patriarca rosso, (+ Justin Moisescu, n.n.) della
loro sporcizia e delle bestie comuniste nella Chiesa, dei Giuda che hanno distrutto perfino la regola
di Fràsinei.276
Cassian ride, rispondendo che “lui con la Securitate non c’entra”.
Siccome avevo già sopportato la sfrontatezza di Micle, con Cassian sono ancora più duro, anche se
Vasilescu mi sussurra che il piccolo furfante è più pericoloso di Micle.
-Sai una cosa, compagno innocente? La differenza fra te e Veniamin è come fra i film sexi e
porno, cioè quelli a metà e gli altri, completi, a luce rossa, che certamente avrai visionato nei tuoi
viaggi di studi nel putrido Occidente, come dice il compagno Lenin.

275
Leopardi.
276
Il monastero vicino al mio Rìmnic che conservava la regola athonita e che il Sinodo, per lecchinaggio nei confronti
del Governo comunista, (ma forse anche per buon senso), aveva rimosso, per assolvere le donne mandate a lavorare
sulle terre espropriate.
398

E rideva ancora, compiaciuto. Perché sapeva meglio di me che da lì a poco sarebbe


diventato Vescovo e che, per rispetto del suo rango sacro, un giorno gli avrei baciato la sua
sporcissima mano, consacrata. Ciò che ho fatto davvero, nel 1991.
Qualcuno può chiedersi perché sono più aspro con questi figuri che non con Vasilescu
stesso, che tenevo come compagno di viaggio. Non so neppure ora perché ero convinto che
Vasilescu era un innocente in questa impossibile materia; (fin quando, 30 anni dopo, ho letto il suo
dossier di informatore penoso ed il giuramento composto da lui stesso per la Securitate!)….
supponevo che questi altri ritornavano nella Repubblica Socialista ed erano subito aggrediti dai lupi
che li pascevano; ed in cambio di qualche rapporto, sarebbero diventati dei boss sulla scala
gerarchica. Come Ioan Robu, nello stesso anno, Vescovo cattolico-latino di Bucarest, come Petru
Gherghel a Iassi, come il Vescovo ungherese di Alba Iulia, al posto dei prelati martiri sgozzati.
Come Moses Rosen, al posto dell’onesto rabbino Safran, esiliato. Mi potete dire che, nello stesso
anno, un infame sacerdote polacco sarebbe diventato sempre più influente in Vaticano, presso il
Papa-sempre polacco- e, quando in troppi se ne sarebbero resi conto, lui sarebbe stato inviato a
Varsavia come Arcivescovo e poi denunziato dai giornali come spia e delatore perfetto e pagato.
(Molto dopo il 2000, nominato da un Papa che si considerava serio !).Ma questo è un argomento a
mio favore, scusate!

Con questi dolci e devoti sentimenti abbiamo abbandonato, credo, per sempre, la Sacra
Montagna, nel mio terzo viaggio sull’Athos, nel 1983. Athos che, non meno di tutti gli altri luoghi
della terra, è testimone di tutta la sporcizia umana, accanto a sprazzi di santità.
A Simon Petra, saliamo moltissimo. Non prima di addentrarci nel mare, gesto oramai
diventato abitudine. Scatto una foto con Vasilescu vicino alla riva. Poi, più vicino al monastero,
sempre lui. Idem nell’ingresso a forma di tunel. Si era rassegnato e si formulava nella mente il
modo come si sarebbe difeso davanti alle accuse anonime di Cassian, Veniamin, ed altre decine di
monaci, professori e futuri vescovi devoti alla Securitate.
Scatto foto nella chiesa neo-bizantina, riprendo le icone nuove, che, anche se in argento
dorato, sono più modeste e più “umane”. L’ icona dei due grandi Apostoli è una composizione
originale, sembra un albero.
I frati, anche questa volta, sono gentilissimi, aprono per noi le molte Reliquie, ci fanno
baciare i resti dei Santi, vestiti in oro, messi in scatole d’argento e donate dai Domni romeni, in
eterna penitenza.
Fuori, stanchi, scattiamo le ultime foto. L’altezza impressionante degli edifici e l’idea che un
giorno, senza restauro, possono cadere nell’abisso, con tutti i monaci dentro, mi fanno venire i
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brividi. Soprattutto dopo le storie di maledette ingiustizie che abbiamo sentito dalla bocca di Padre
Dometian, e che, secondo lui, richiedevano vendetta al cospetto del Cielo.

Il nostro viaggio finisce con una foto comica sulla nave.


Ritornati a Roma, Vasilescu non cessa di essere ironico, critico, e soprattutto ingiusto con
me. Io copro tutto con dolcezza, non perché penso di essere migliore di lui, ma semplicemente
perché mi sembrava assurda ogni sua affermazione e la consideravo frutto della stanchezza.
Due anni più tardi, però, rompo definitivamente con lui, gesto che io non faccio, in genere.
Ma con lui l’ho fatto; perché, in casa sua, a Torino, dove mi aveva invitato, è stato capace, a ciel
sereno, di emanare dalle sue fauci, contro di me e contro Gigi le stesse accuse, calunnie e
nefandezze che la Securitate aveva scritto, detto e usato, quando ci ha condannato per la nostra
Fuga dal suo Dominio di tenebra:
-“Siete dei traditori della patria, della Chiesa e della fede degli avi, vagabondi ed
avventurieri, traditori della famiglia e del nostro popolo, ecc. ”
Gli ho ingiunto, anzi, l’ho supplicato di ritirare quelle immondizie, per ritornare all’amicizia
di prima. Non lo ha mai fatto. Aspetto ancora questo gesto, ora, che sto scrivendo queste righe, nel
2009. (Anzi, non lo aspetto più, perché, come ho già detto, nel 2010 ho letto il suo dossier di
informatore presso la Securitate, negli archivi finalmente aperti. Centinaia di pagine penose in cui,
poveretto, sperava che scrivendo inezie poteva salvare capra e cavoli. Speranza vana).
No, non puoi stare con i piedi in tre barche. Eccone la spiegazione.

EPILOGO

Andate, andate in Athos. Fin quando non si riempirà tutto di talebani intolleranti ed
aggressivi, che non vi permetteranno di avvicinarvi a nessuna cosa sacra. Fin quando non
copriranno tutte le vecchie bellezze artistiche, più o meno occidentali, con le loro deviazioni mentali
e le loro caricature. Fin quando non scopriranno e metteranno in uso qualche nuova antichità
retrograda, come bandiera contro il putrido Occidente.
Io continuo a sperare in un miracolo per il Santo Monte Athos. E prego perché sia
risparmiato. La Bellezza e la Verità, immerse nel Bene, vinceranno, questo è certo, perché sono i
poteri di Dio. Vinceranno anche in Athos, ma non è certo che noi saremo ancora vivi nel giorno
della vittoria. Perciò, occorre sbrigarsi.

FINE E A DIO LODE.


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Roma, nella Festa dei Santi Pietro e Paolo, 2007-2018.

Padre Linus Dragu Poppian

Bibliografia.
Non sufficientemente vasta.
Da leggere: 1 millennaire du Mont Athos, 1963
Arhim.Veniamin Micle, Manuscrisele romànesti de la Prodromul, Bistritza,1999, importante per la
ricca lista bibliografica, in romeno.
Dr. Teodor Bodogae, Gli aiuti romeni al Monte Santo dell’Athos, Sibiu, 1941, romeno.
Dr. Badea Ciresianu” Il mio viaggio al Santo Monte dell’Athos, in BOR XXX, Bucarest, 1907,
(romeno).
Alex. Pencovici, “Impressioni dal Santo Monte”, (romeno). ecc….
Don Ioan Dimulescu, Monte Athos, saggio, manoscritto /romeno.

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