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I volumi di questa collana sono stati curati dal «Dicastero per l’Evangelizzazione.

Sezione per le
questioni fondamentali dell’evangelizzazione nel mondo».

© 2022, by Dicastero per l’Evangelizzazione. Sezione per le questioni fondamentali


dell’evangelizzazione nel mondo

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La Chiesa nel mondo di oggi

(GS 1-3)

Giovanni Cesare Pagazzi

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INDICE

Capitolo 1: Tutta la terra è piena della sua gloria

Il tempio e il mondo

A partire dalla stima di Dio

Capitolo 2: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi»

La gioia che è speranza

Tristezza e vicinanza

Capitolo 3: Il parto, il cantiere e la guerra

Un mondo creato

Sulla scena del mondo

Capitolo 4: La luce e la casa

Edificare la società umana

Tra economia e ecologia

Gaudium et Spes 1-3

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CAPITOLO 1

TUTTA LA TERRA È PIENA DELLA SUA GLORIA

Il tempio e il mondo

È all’interno del tempio di Gerusalemme. Forse è un sacerdote, perciò ha accesso alla parte
più esclusiva e riservata della casa del Signore. Isaia si trova nella Terra Santa, nella città più santa
della Terra Santa, nel luogo più santo della città santa – il tempio, appunto – e nella zona più santa
del tempio. In breve: nel posto più santo del mondo. Proprio lì (dove, se no?) il profeta vede Dio:
seduto su un trono alto, avvolto di un manto sontuoso, attorniato dai serafini, angeli infuocati dalle
fattezze meravigliose. La stanza è piena di incenso; la presenza divina è così potente da far tremare
gli stipiti delle porte, come ci fosse un terremoto. Rapito dalla visione, Isaia sente il coro dei serafini
che cantano: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!». In breve: qui tutto è così santo che più
santo non si può! Gli angeli proseguono cantando: «Tutta la terra è piena della sua gloria» (Is 6,3).
Ma come? Non è il tempio il luogo più santo del mondo e quindi l’unico abilitato all’incontro con
Dio? Per le Sacre Scritture la «gloria di Dio» indica la sua manifestazione e la sua presenza. Sicché,
affermando che tutta la terra è piena della gloria di Dio, i serafini dichiarano che egli si trova e
agisce in ogni angolo del mondo. Non esiste luogo, tempo, creatura (cose, alberi, animali, uomini e
donne, galassie, atomi, forme, forze, paesi, città, stagioni, epoche, culture…) in cui non vibri
qualcosa della potente e garbata presenza di Dio, dove non si possa incontrarla. Il Salmo 19 afferma
addirittura che il cielo, sereno o nuvoloso, è in grado di «narrare la gloria di Dio» (Sal 19,2).

Ma se Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo, a cosa serve il tempio, la sua distinzione, la sua
differenza specifica da tutto il resto? Esattamente per annunciare e ricordare a tutti la presenza di
Dio in ogni luogo e nel più feriale dei giorni! Infatti, proprio a causa della sua incessante, universale
presenza, il Creatore viene dimenticato. Come capita con l’aria: essendo ovunque e sempre a
disposizione, la respiriamo senza accorgerci, ce ne scordiamo, ritenendola scontata. Come succede

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con la vita: dato che viviamo, ci dimentichiamo di essere in vita, considerandola ovvia, banale, non
meritevole di cura e gratitudine. Il Signore è dimenticato non a motivo della sua assenza; al
contrario: la sua presenza incessante nella creazione lo pone fuori dal nostro campo visivo, come
chi «non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53,2). Eppure, come l’aria, come
la vita, possiamo dimenticarci di lui senza perderlo, tanto ci è fedele.

Ecco: l’onore e l’onere del luogo santo, il suo compito, il suo vanto, consiste nell’annunciare
che «tutta la terra è piena della sua gloria». Certo, il tempio è uno spazio differente e unico: solo lì
Dio si rivela in modo sontuoso ed evidente. Tuttavia, l’esclusiva del tempio non esclude, anzi
include l’universo intero. In ciò consiste la sua santità. Solo nel tempio Dio appare, ma –
mostrandosi in quel luogo – rivela che lo si incontra dappertutto, sempre. Quando, invece, il
riconoscimento della santità del tempio diventa la scusa per separarlo dal mondo, quasi che il
mondo fosse un luogo senza Dio, il Signore non è più l’ospite, ma l’ostaggio del tempio; non è
accolto, ma sequestrato. Naturalmente Dio non ci sta! È troppo grande e vivo per essere rinchiuso in
una gabbia dorata. Questo era l’avvertimento rivolto a Israele dal profeta Geremia, circa
cinquecento anni prima della nascita di Gesù. Infatti, ritenendo che il Signore abitasse
esclusivamente nel tempio, molti consideravano il resto del mondo un ambiente profano e
indifferente, dov’era perfino auspicabile praticare l’ingiustizia e la prevaricazione. Nel tempio si
osservava la legge di Dio; fuori, quella del più forte: stranieri, orfani, vedove venivano offesi, il
sangue innocente sparso; si rubava, uccideva, non si era né fedeli né affidabili (Ger 7,1-10). Le
parole di Geremia sono durissime: se si continua a disonorare la missione del tempio – annunciare e
ricordare che Dio s’incontra ogni giorno e in ogni luogo – il Signore è disposto a distruggere il suo
tempio (Ger 7,11-15).

A partire dalla stima di Dio

La Chiesa è il popolo che crede che Gesù è il Figlio di Dio Padre, divenuto nostro fratello e
salvatore. Lui è la salute dei malati, il rifugio dei peccatori, il consolatore degli afflitti, la
risurrezione dei morti, la promessa certa della vita che verrà. È il Santo dei Santi. Nessuno è come
lui. Chi poteva immaginarsi una fortuna così grande? Il gesto più santo della vita della Chiesa è la

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celebrazione dell’Eucaristia, la sua sorgente e la sua vetta. Dopo la proclamazione della Parola di
Dio, si entra nel momento più intimo, riservato, esclusivo della Messa: l’invocazione dello Spirito
Santo, affinché il pane e il vino diventino il Corpo e il Sangue del Signore Gesù. Così la Chiesa è
messa nella condizione di svolgere quanto la distingue, la rende unica, insostituibile, diversa dal
resto: annunciare la morte del Signore, proclamare la sua risurrezione, attendere il suo ritorno. Solo
i cristiani possono celebrare l’Eucaristia, con gesti, canti, preghiere, riti che appartengono
esclusivamente a loro; di solito viene celebrata in un luogo speciale, distinto, differente da qualsiasi
altro posto. Eppure, proprio nel momento più esclusivo della Messa risuona il medesimo canto dei
serafini apparsi a Isaia: «Santo, santo, santo, il Signore, Dio dell’universo; i cieli e la terra sono
pieni della tua gloria». Incontrando Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, in un modo unico, solo a loro
riservato, i cristiani confessano che tutto il mondo è pieno della sua gloria e si impegnano a
riconoscerla e onorarla dall’alba al tramonto, da Oriente a Occidente. Se scorgessero la Trinità solo
in chiesa, offenderebbero la sua grandezza e la sua fedele, incessante presenza in ogni cosa, in ogni
luogo, in ogni tempo; in breve: nel mondo.

Del resto, Cristo, presente nell’Eucaristia, è il medesimo che, nei giorni della sua vita
terrena, rivelò la bontà e la competenza del Padre additando animali e fiori, degni di essere
«osservati» dai discepoli (Mt 6,25-34). Egli scorse il riverbero di Dio nel seme che cade a terra (Mt
13,3-9), nel vento (Gv 3,8), nel sole e nella pioggia (Mt 5,45), nel lievito che fermenta la pasta (Mt
13,33), nel lavoro agricolo (Mt 13,24-30), nella pesca e nell’allevamento (Mt 13,47-50; Lc 15,4-7),
nell’edilizia (Mc 12,10-11), nella faticosa bellezza della vita matrimoniale (Gv 2,1-12), nel legame
tra genitori e figli e tra fratelli (Lc 15,11-32), nella vita domestica e nel vicinato (Lc 15,8-10; 11,5-
8), nella campagna e nella città (Lc 19,11-27), nell’economia e nel mercato (Mt 13,44-46), nella
politica (Lc 14,31-32), nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nel malato, nel prigioniero – non
solo nel prigioniero innocente, ma in tutti i prigionieri (Mt 25,31-46), perfino nel nemico (Lc 6,27-
35). Insomma, il Figlio di Dio nella carne era così legato al mondo da intuire in ogni suo aspetto,
feriale o festivo, l’opera discreta ed efficace del Padre. Cristo percepisce il Padre così presente e
attivo nel mondo, da sentirsi a casa nel mondo. Egli non ha luogo per posare il capo (a differenza di
volpi e uccelli che possiedono tane e nidi) non per difetto di casa, ma per eccesso; non a motivo di
austerità, ma per sovrabbondante ricchezza. Infatti, egli si sente a casa nel mondo intero, perfino nei
suoi aspetti oscuri e difficoltosi, tanto da riposare tranquillo – come appunto fosse a casa –
addirittura in una situazione mortale, quale la tempesta sul lago di Tiberiade (Mt 8,18-27).

Descrivendo il «regno dei cieli», cioè Dio all’opera nel mondo e nella storia, dato che il
significato di tale espressione è simile a quello di «gloria», Cristo afferma: «Il regno dei cieli è

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simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose. Trovata una perla di grande valore, va,
vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13,45-46). Il Signore Gesù rivela che Dio, verso il mondo,
si comporta come un gioielliere, un esperto di preziosi, in cerca di perle e gemme. Già questo
dettaglio dice molto: il primo atteggiamento di Dio è la ricerca di cose belle. È risaputo che nessuno
si metterebbe a cercare senza la speranza di trovare. La speranza è forza intima e potente di Dio. Fin
dall’inizio Dio trovò cose belle: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen
1,31). L’aggettivo ebraico che significa ‘buono’ indica anche ‘bello’. Ma poi venne la rovina e la
bruttura dell’ingiustizia e della colpa e «Dio si pentì» (Gen 6,6) d’aver creato. Eppure, in
quell’ammasso di bruttezza e male riuscì a trovare (chissà con quanta attenzione e speranza avrà
cercato!) l’unico giusto: Noè. Quell’uomo era così prezioso ai suoi occhi, come «una perla di
grande valore», che decise di non farsela scappare. E il mondo fu salvato. Da allora Dio è in cerca
di perle. Ed è capace di scovarle là dove nessuno le cercherebbe, tant’è che scopre tesori nascosti
perfino nella terra (Mt 13,44), in un ambiente certo fertile, ma anche sporco e sporcante. La terra
nutre, ma infanga; è una mistura di polvere, letame e chissà quanti esseri viventi ormai morti e
decomposti. Dio non teme di frugare perfino in questo luogo così imbrattante e repellente, pur di
scoprire tesori e perle preziose. Generalmente si cercano in mare o nelle gioiellerie; egli le cerca
addirittura nella terra, in ciò che «non ha bellezza», «non attira», «davanti a cui ci si copre la
faccia» ed è «indegno di stima» (Is 53,2-3). È proprio la stima il tratto signorile e ospitale di Dio. La
stima è la capacità di cogliere un valore che merita di pagare prezzo.

Tra le cose incomprensibilmente belle di Dio, un aspetto mozzafiato è la sua stima nei
riguardi del mondo. Egli non lo riempie di benefici come un riccone aiuterebbe un poveraccio, ma
si comporta come un intenditore d’arte, disposto a pagare un prezzo altissimo, anzi il più alto, pur di
non lasciarsi scappare quanto egli ritiene un capolavoro, nonostante agli occhi di molti sia solo uno
sgorbio. Il bello sta proprio nel fatto che Dio cerca perle, tesori e capolavori, perfino in quanto
assomiglia a una discarica. Dio cerca insistentemente la perla anche nell’ingiusto, nel mio nemico,
perfino in me. E chiede a ciascuno di fare altrettanto: il mondo è pieno di perle, pieno della sua
gloria! Cercala! Amare come Dio, innanzitutto, non significa donare, perdonare, servire, aiutare.
Amare come Dio significa prima di tutto stimare. Accorgersi che in ciascuno (perfino in chi
somiglia alla terra che imbratta) si trova qualcosa di stimabile e quindi meritevole del prezzo del
mio dono, del mio perdono, del mio servizio, del mio aiuto. Se non nascono dalla stima, perfino
queste azioni magnifiche possono camuffarsi in armi, o in gesti che offendono. Gesù, il Figlio
unigenito, era tutto ciò che il Padre aveva. Non l’ha risparmiato, pur di non lasciarsi scappare niente
e nessuno uscito dalle sue mani, insistendo nel rovistare perfino a terra e nelle discariche, convinto
che siano miniere, perché anche lì abita la sua gloria.
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A questo punto sorge una domanda: è mai possibile amare un Dio così, senza amare il
mondo, questo mondo santo e sporco, magnifico e ingiusto, fiero e disperato, abbietto e miracoloso?
Il concilio Vaticano II, soprattutto grazie alla Gaudium et Spes, risponde forte e chiaro: «No!».

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CAPITOLO 2

«LE GIOIE E LE SPERANZE,

LE TRISTEZZE E LE ANGOSCE DEGLI UOMINI D’OGGI»

Così inizia la Gaudium et spes, partendo dagli affetti. Non solo i cristiani, ma anche le donne
e gli uomini di tutto il mondo vivono negli affetti e grazie agli affetti. Non esiste gesto umano che
non abbia nei sentimenti, sereni e oscuri, lo spunto iniziale e l’energia che lo sostiene. Tutta la terra
vibra alle forze dei sentimenti, luminosi e opachi, come fosse un unico cuore. E se «tutta la terra è
piena della sua gloria», lo sono certamente anche gli affetti. Ne è sicuro il libro dei Salmi, che
custodisce l’intera gamma delle emozioni; esse diventano voci e parola umane rivolte a Dio; voce e
Parola di Dio rivolta ai cuori e alle menti. Il Libro dei Salmi afferma che quanto accomuna la
famiglia umana è capace di esprimere la specifica, riservata, unica relazione tra il Dio d’Israele, il
suo popolo e il singolo credente. L’inizio della Gaudium et Spes riecheggia la stessa convinzione,
evidenziando la stretta parentela che lega ogni umano e i “discepoli di Cristo”: nelle gioie, speranze,
tristezze e angosce di ogni cuore (anche il più cattivo) vibra la gloria di Cristo. Non esiste affetto
che non porti le impronte digitali di Cristo, poiché tutto è stato creato grazie a lui e in vista di lui
(Col 1,15-20). Ecco la perla da cercare, anche nell’affetto più sinistro. Chi cerca, trova!

La Gaudium et Spes s’interessa degli affetti cattolicamente. Che significa? ‘Cattolico’ deriva
da un’espressione greca traducibile così: «tenendo in considerazione il tutto». Occupandosi
‘cattolicamente’ dei sentimenti, la Chiesa intera e i singoli fedeli si appassionano a tutto il mondo
affettivo e non solo a un suo emisfero (quello della felicità, o al contrario, della tristezza), poiché in
tutte le sue latitudini e longitudini vibra la «gloria» di Dio. In effetti esiste un’eresia affettiva a cui
sono esposti tutti, credenti e non: ritenere degna dell’uomo e degna di Dio solo una regione del
paese degli affetti, o quella della gioia, o quella del dolore… a seconda dei gusti. Se la gioia
ammutolisse la voce del dolore di vicini e lontani (e propria!), sarebbe solo euforia eccitata, dal
fiato corto; non cura le ferite, ma le copre e, in tal modo, le infetta. Se, al contrario, il dolore
sbattesse la porta in faccia alla speranza, diverrebbe la scusa per esimersi dal rischio, dal coraggio di
investire nuovamente nella vita, anche se ha deluso. Il dolore diviene il pretesto per disprezzare il
pane quotidiano della consolazione, che il Signore non fa mancare nemmeno nella giornata più

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dura. Il Signore non ha mai promesso un banchetto di nozze ogni giorno, ma un po’ di pane sì! La
gloria del Signore riempie sia le gioie sia i dolori; scansare le une o gli altri espone al rischio di non
incontrare né Dio né i suoi figli e le sue figlie. Non per nulla il Salmo 19 afferma che la gloria di
Dio e il suo messaggio vengono tramandati di giorno in giorno, di notte in notte. Non solo i giorni
luminosi del cuore, ma anche le sue notti oscure mostrano qualcosa di Dio (Sal 19,3).

La gioia che è speranza

Il primo affetto di cui parla Gaudium et Spes, e su cui Papa Francesco insiste fin dall’inizio
del suo servizio alla Chiesa universale, è la gioia. La gioia è come la vita: necessaria e indefinibile.
È una costellazione di molte esperienze, ma nessuna di esse la esaurisce. Non c’è gioia senza
piacere; eppure, non tutti i piaceri danno gioia, anzi alcuni procurano tristezza. Non solo: la gioia è
così misteriosa da essere presente perfino in chi è duramente provato dalla vita. L’allegria è una
voce della gioia; tuttavia, in alcuni casi, è anche il trucco preferito per nascondere la malinconia e
può avere lo sconforto come suo combustibile. A volte, la gioia ha motivi perfettamente
riconoscibili, è la conseguenza di scelte e decisioni costose; in altri casi essa appare totalmente
immotivata, proveniente da chissà dove. Avvicinando la gioia alla speranza, il concilio fa di
quest’ultima il sinonimo e la definizione della prima. La gioia è la speranza. La gioia è impossibile
senza speranza che è l’acqua rimasta sul fondo del pozzo perfino nella siccità. La speranza è la
stima verso sé, gli altri, le cose, il mondo, la storia; stima che non viene mai meno, a motivo della
certezza che esiste sempre qualcosa di apprezzabile e sensato, perfino nel nemico, perfino nel
dolore. Ecco perché, paradossalmente, si può provare gioia anche nella sofferenza, poiché perfino lì
c’è un gusto da assaporare. La speranza scansa l’euforia e la malinconia; non si accompagna né con
l’eccitazione né con la pigrizia. Infonde coraggio, fa accettare il rischio, perché sempre presagisce
la riuscita. La speranza ci fa alzare dal letto al mattino, perfino quando siamo certi che ci aspetta
una giornata faticosa e amara. Anche a motivo di questa speranza che accomuna tutta la famiglia
umana, le donne e gli uomini sono fatti a immagine e somiglianza di Dio. Infatti, la speranza è la
sua forza, il suo vigore, la sua potenza. Egli stima ogni uomo, ogni donna, ogni stagione del mondo;
intuisce un non so che di onorabile e promettente addirittura in quanto noi consideriamo
irrimediabilmente perduto. La speranza quotidiana e universale, senza la quale è impossibile
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incominciare (o ricominciare) una giornata, un lavoro, un legame è come l’alfabeto e la profezia
della speranza, effusa dallo Spirito di Cristo nel cuore dei battezzati, a motivo del perdono dei
peccati e della risurrezione dei morti. Grazie al Salvatore del mondo, né il peccato più grave, né la
morte sono parole definitive sull’esistenza nostra e degli altri. Cristo può restituire l’innocenza al
malvagio e dopo la morte, a suo tempo, ci restituirà (cosa inimmaginabile, insperata!) il nostro
corpo e il corpo dei nostri cari.

Nei pressi di una città chiamata Nain, Cristo s’imbatte in un corteo funebre: viene portato
alla tomba l’unico figlio di una donna già da tempo vedova. Una scena da strappare il cuore,
romperlo, farlo ammalare. La morte sigilla l’abbandono di questo ragazzo senza più padre, di questa
donna privata di marito e figlio. Per le Sacre Scritture l’orfano e la vedova sono l’emblema degli
abbandonati. Gesù non scansa la donna, ma la «vede» e ne sente «una grande compassione».
L’affetto del Signore non risuona solo a motivo della sua bontà, ma perché in lui pure vibra la corda
dell’abbandono, provato sulla sua stessa pelle: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(Mc 15,34; cfr. Sal 22,2). È in empatia con questa abbandonata. Rivolgendosi a lei, dice: «non
piangere» (Lc 7,13). Com’è possibile chiedere una cosa simile? È quasi una violenza; oppure
esprime la sicurezza di chi sa che può. Il Signore si approssima alla bara e la tocca. Ordina al morto
di svegliarsi. Il morto obbedisce. Il ragazzo si mette seduto e comincia a parlare. Giustamente
conquistati dalla sequenza impressionante e dall’efficacia delle azioni di Cristo, sorvoliamo l’ultimo
suo gesto che, in realtà, è la corona e il vanto della pagina evangelica: «Egli lo restituì a sua madre»
(Lc 7,14). Tutto mira a questa restituzione, quasi che Cristo si senta in debito con la donna. La
restituzione è il culmine delle altre scene evangeliche di risurrezione: la figlia di Giairo è
riconsegnata ai genitori (Mc 5,21-43), Lazzaro è reso alle sue sorelle (Gv 11,1-44). Così pure negli
Atti degli Apostoli: Tabità, risuscitata da Pietro, è ridata alla comunità di Giaffa (At 9,36-42); allo
stesso modo, Paolo riconsegna agli amici un ragazzo riportato in vita (At 20,7-12). In questi
racconti la consolazione prende la forma della restituzione; certo, ancora provvisoria, una specie di
anticipo di quella definitiva che verrà. Ci sarà restituito chi e quanto ritenevamo perduto, quanto
abbiamo perduto, quanto ci hanno sottratto, quanto ci siamo fatti sottrarre, quanto abbiamo buttato,
quanto pensavamo non ci fosse mai stato dato. Ci verrà restituito il corpo, la terra, le cose, gli altri, i
luoghi e i tempi, tutto quanto ha acceso, animato, reso sensibile la nostra irripetibile anima e il
nostro singolarissimo corpo. Dio prende come impegno la restituzione di quanto ci ha dato come
pegno. Come? Quando? Non si sa. Ma certamente onorerà l’accordo. La forza che Cristo ha di
restituirci tutto e tutti è la radice della speranza cristiana, albero sempre verde, anche in pieno
inverno e nella terra arida. Il mondo non è un prestito che sul più bello ci verrà revocato, ma
l’aperitivo che prepara il palato a un banchetto di nozze.
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Se così è, la speranza è il criterio per giudicare la qualità davvero cristiana della fede e della
carità. Quanta speranza accende in me e negli altri la mia fede? È fede se non produce speranza?
Davvero si crede se si agisce da disperati? Quanta speranza suscita in me e negli altri la mia carità?
È carità se è disperata?

La Chiesa di sempre, e la Chiesa di oggi specialmente, ha bisogno di giovani, uomini e


donne pieni di speranza. Gente in grado di scorgere nella zizzania l’alimento del fuoco che cuoce il
pane, quello fatto col grano cresciuto insieme alla medesima zizzania (cfr. Mt 13,36-46). La Chiesa
ha bisogno di giovani, uomini e donne palpitanti di speranza, che non annunciano un Dio disperato.
È bestemmia contro lo Spirito Santo annunciare un Dio senza speranza; anche perché gli stessi
sacramenti sono segni efficaci dell’incrollabile speranza di Cristo. Secondo Gaudium et Spes, la
gioia, la speranza di ogni umano e quella cristiana stanno tra loro come la diastole e la sistole del
cuore, come il suo ritmo vitale che si allarga e si raccoglie, ampio come la terra intera, intimo come
la stanza del tempio di Isaia e la celebrazione eucaristica. Un cuore non vive né di sola diastole né
di sola sistole. Cristo è il Signore dei cuori.

Tristezza e vicinanza

Essendo ‘cattolico’, lo sguardo sugli affetti si rivolge anche alle «tristezze e angosce» di
tutta la famiglia umana e dei discepoli di Cristo. Con la gioia, la tristezza è la seconda sorgente di
tutte le sfumature emotive. La prima infonde forza, energia, coraggio di decidere; la seconda
indebolisce, sfibra il corpo e l’anima, spegne ogni desiderio. Presto o tardi, in un modo o in un altro,
la scelta di agire ingiustamente rende tristi; oppure costringe a continue ulteriori ingiustizie, nel
tentativo di ammutolire la voce della stessa tristezza. Prima o poi, comunque, la tristezza presenterà
il conto! La tristezza è una specie di reclamo emotivo dell’anima che ci dice: «Non farlo più! Fa
male a te e agli altri!». Anche così, la gloria di Dio riempie tutta la terra. Tuttavia, a volte la
tristezza bussa la porta della nostra vita (o meglio, la sfonda), senza essere stata invitata. È come
una violenza subita: la malattia di una persona cara, un tradimento patito, una delusione, ogni forma
di perdita e separazione, fino a quella tragica della morte di un caro. Si prova un atmosferico senso
di abbandono che spegne il gusto della vita. Si aprono, invitanti, due scorciatoie: la prima è quella

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di riempire subito e sempre il vuoto in cui la tristezza riecheggia, sostituendo immediatamente chi o
quanto abbiamo perduto con qualcun altro o qualcos’altro. La seconda, al contrario, è quella di
compiacersi del vuoto, immaginandolo permanente e universale. Ritenendosi abbandonati da tutti
(anche da Dio!), scansiamo nuovi legami, progetti e impegni, convinti che certamente deluderanno.
Inoltre, sentendoci perennemente in credito con il deludente mondo, ci autorizziamo ad
autorisarcirci, ad ogni costo e a spese degli altri. Lasciarsi attrarre dal nulla è una scorciatoia
pericolosa come quella di garantirsi una continua eccitazione tappabuchi. Eppure, la tristezza
dovuta a una perdita è la condizione affinché appaia qualcosa di nuovo. Se il papà e la mamma
abbandonassero il loro bambino, la tristezza lo amareggerebbe per tutta la vita. Se i genitori fossero
sempre presenti, il bambino non si sentirebbe abbandonato, ma neppure proverebbe quel vuoto che
lo invita a inventare, a giocare, giocarsi, giocarsela. Un buon genitore favorisce il sorgere di alcuni
vuoti, nonostante il pianto e il dolore del piccolo; altrimenti non imparerebbe a giocare, a creare un
mondo, a vivere.

Affermando che i discepoli di Cristo provano le medesime tristezze e angosce di tutta la


famiglia umana, Gaudium et Spes pone una domanda precisa: di che Dio parliamo, quando lo
annunciamo come una presenza che satura ogni vuoto, sigilla ogni fenditura, azzittisce il senso di
mancanza e abbandono, assicura una pienezza costante? Di certo non stiamo parlando del Dio delle
Sacre Scritture, del Dio di Gesù Cristo. Basta, infatti, leggere la pagina di Isaia (Is 66,10-14) dove,
con audacia mozzafiato, si dice che Dio consola allattando come una madre. Certo, un’esperienza
gratificante. Eppure, l’allattamento agisce alternando poppata e astinenza, stretto contatto e
distacco. L’allattamento non satura, ma prepara pian piano alla separazione tipica dello
svezzamento. Nel momento preciso della sua efficacia, mentre consola un bimbo che gridando e
piangendo si sente abbandonato, avvia una procedura di separazione. Insomma, si inizia un
processo di allontanamento nell’atto stesso di consolare; come se il distacco non fosse solo il
motivo del conforto, ma anche la sua condizione e il suo compimento.

Tale dinamica freme nel primo annuncio di Cristo circa la presenza di Dio nel mondo:
«Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Cioè Dio è “nelle vicinanze”.
Esattamente come una mamma che non resta sempre presso il suo bambino, ma, deponendolo dopo
la poppata, pian piano lo abitua a stare solo, allenandolo allo slattamento. Ella rimane nelle
vicinanze (in cucina? in un’altra stanza?), pronta alla chiamata del piccolo. Tuttavia, egli la
percepisce assente e considera interminabile l’attimo tra il grido, le lacrime e l’arrivo della madre.
Urlando e piangendo, il bimbo lamenta il suo abbandono. Eppure, quando “incuorerà” che la
mamma è nelle vicinanze ne sarà “rincuorato”, riuscendo a stare nella solitudine. Insomma, agli

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occhi di Cristo, Dio non si comporta come un genitore ansioso che il bimbo riesce a trattenere al
proprio fianco, quale garante di continua, totale pienezza, ma, similmente a una mamma sicura del
proprio amore, resta nelle vicinanze; non satura il senso di mancanza, semmai lo accende e consente
di abitarlo. Del resto, perfino la Terra promessa non era una sconfinata prateria, ma un deserto
punteggiato qua e là di oasi, attraversato dal Giordano, stretto fiume non sempre in piena, sfociante
in un lago salato, privo di vita.

Se i discepoli di Cristo non si sentissero parte dell’intera famiglia umana anche grazie alle
tristezze e alle angosce, perderebbero la cura con cui Dio educa, stando nelle vicinanze, consolando
e allattando come una madre; non coglierebbero la gloria di Dio che abita anche le tristezze e le
angosce. Non solo: estraniandosi dalle domande suscitate dalla tristezza, dalle perdite e mancanze,
rischierebbero di non conoscere né Cristo né i suoi fratelli e le sue sorelle. Infatti, davanti al mistero
di Cristo è perfino banale dire che egli, essendo la verità, è la risposta alle nostre domande. Infatti, il
Salvatore del mondo non si limita a rispondere, ma pone egli stesso domande. Non alla maniera del
professore antipatico, smanioso d’interrogare gli studenti, magari godendo dei loro errori, ma come
chi apre il cuore, rivelando quanto vi freme, come un’“esposizione del Santissimo”. A differenza
dei problemi che, prima o poi, trovano sempre una soluzione, le domande esigono di dissolversi in
esse, poiché non lasciano più come prima. Sono pericolosissime: chi le pone passa alle dipendenze
di chi risponderà e chi le ascolta ne rimane disturbato. Il Signore pone una delle più rischiose
domande: «Chi sono per voi?», «Chi sono per te?» (cfr. Mc 8,27-30). Probabilmente avremmo
molta paura ad esprimerci così, perfino con la persona più amata, poiché non sappiamo con certezza
come risponderà. Gesù afferma di essere «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) e al contempo chiede:
«Chi sono per te?», «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67), «Dio mio, Dio mio perché mi hai
abbandonato?» (Mc 15,34), «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv 21,15), «Mi vuoi bene?»
(Gv 21,17). Cancellare le sue domande dalla verità che è Gesù, quelle domande che legano il Figlio
di Dio ad ogni nato da donna, significa trasformarlo in un ricettario di puntigliose risposte a
questioni che magari più nessuno pone. Avessimo il coraggio di rivolgere le medesime domande di
Cristo, di sentirne il peso, l’inquietudine, il rischio, il dolore! Ci sentiremmo davvero fratelli e
sorelle di tutti; non ci vergogneremmo di nessuno, come lui non si vergogna di noi. La mia anima è
uno scaffale di risposte, o trema ancora alla voce di qualche domanda? Quale? Un metodo efficace
per ammutolire le domande è moltiplicare i problemi: si resta dinamici, attivi, ma lontani dalla vita.

Gaudium et Spes parla di gioie, speranze, tristezze e angosce «degli uomini d’oggi».
L’accidia è una delle più pericolose tentazioni a cui sono sottoposti i cristiani (e non solo!). Cos’è?
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Si tratta del desiderio di vivere in un tempo, in un luogo diversi da quelli in cui si è chiamati a stare.
Quando è inverno, l’accidioso si lamenta del freddo, immaginando l’estate; quando è in estate
rimpiange la frescura invernale. Quando è in città, desidera la quiete della campagna; quando è nei
campi non vede l’ora delle comodità urbane. Quando lavora, vorrebbe riposare; quando è in ferie, si
annoia e desidera tornare al lavoro. Quando sta con certe persone, le trova insopportabili; quando è
con altre, sente la mancanza delle prime. Insomma, per l’accidioso il vero, il bello e il buono stanno
sempre da un’altra parte, o in un altro tempo. Questo, naturalmente, vale anche per Dio: egli agì
solo nel passato; agirà unicamente nel futuro; in ogni caso, non qui e ora. Per l’accidioso il “qui e
ora” del mondo, della società, della cultura, della Chiesa è senza significato; perciò si rifugia nel
passato o si proietta nel futuro. Gaudium et Spes afferma che la famiglia umana da amare, il mondo
in cui scorgere la gloria di Dio è questo, con la sua meschinità e il suo splendore, la sua fame e sete
di giustizia e la sua prepotente voracità. Abitare il mondo d’oggi, la Chiesa di adesso significano
credere al mantenimento della promessa del Risorto: «Io sono con voi tutti i giorni» (Mt 28,20). Sì,
nei giorni solari, in quelli piovosi e perfino in quelli col cielo che nasconde il sole e non regala la
pioggia. Nei sabati pieni di attesa, nelle domeniche del compimento, nei lunedì e martedì faticosi,
nei venerdì dai misteri dolorosi, nei mercoledì e giovedì che ci trovano in mezzo al guado. Nei
giorni vittoriosi, dove l’anima si espande per santità, e in quelli dove si ritrova rattrappita per i
peccati. Nei giorni in cui la gloria di Dio si tocca e nei quali è “nelle vicinanze” e non si vede.
«Ecco, io sono con voi tutti i giorni». Non ce ne accorgiamo?

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CAPITOLO 3

IL PARTO, IL CANTIERE E LA GUERRA

Un mondo creato

In poche righe, il numero 2 di Gaudium et Spes espone la visione che la Chiesa ha del
mondo, pieno della gloria di Dio. Innanzitutto, il mondo è «creato». Come? Quando? Non
sappiamo. Del resto, nulla sappiamo della nostra nascita, dei nostri primi mesi di vita, dei nostri
primissimi anni. La consapevolezza di essere venuti al mondo ci è arrivata molto tempo dopo il
nostro arrivo. Non conosceremmo nemmeno il giorno del nostro compleanno, il nostro nome e
neanche l’identità dei nostri genitori, se non ci fosse stato detto da altre persone. Sappiamo chi
siamo, da chi siamo venuti, dove e quando siamo nati poiché i nostri genitori, o chi per loro, ce lo
hanno raccontato. Noi ci siamo fidati (ci fidiamo tuttora!) del loro racconto. Qualora non ci fossero
apparsi degni di fiducia, non ci saremmo consegnati alle loro parole; se non avessimo avuto il
coraggio di confidare in loro, il dubbio e il sospetto avrebbero prevalso, non sapremmo chi siamo,
da dove veniamo e ci ritroveremmo obbligati a darci un nome da soli. Non deve spaventarci
l’ignoranza dell’origine dell’universo, poiché la nostra stessa nascita è avvolta nel mistero e solo il
racconto di altre persone può gettarvi luce. Una cosa è certa: dal fatto di ignorarne l’origine non
deriva che l’universo sia sorto per caso o esistito da sempre; esattamente come non posso dedurre
d’esser sorto per caso o esser sempre esistito, dal fatto di non esser stato testimone oculare della mia
origine. I cristiani ritengono affidabile il lungo racconto dello Spirito Santo attraverso la storia di
Israele e soprattutto grazie alla vita terrena del Figlio di Dio, Gesù Cristo, il Salvatore del mondo;
racconto custodito nelle Sacre Scritture e trasmesso da una generazione all’altra della Chiesa. Quel
racconto ci narra che l’amore potente di Dio ha creato ogni cosa e tutto porta le impronte digitali
della sua bellezza. Come un artista geloso della propria opera, il Creatore custodisce il suo
capolavoro e lo ripara dove è rovinato.

Su questa commovente spinta biblica, con gli occhi spalancati grazie all’astronomia
contemporanea (e all’intera indagine scientifica), potremmo dire: se davvero esiste uno che ha
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creato la nostra galassia, lunga e larga decine di anni luce, composta da miliardi di stelle; se esiste
uno che plasma, riplasma e accende gli astri, coagulando nebulose dalle forme e colori mozzafiato;
uno che ci incanta modellando miliardi di galassie a perdita d’occhio; uno che ci sollecita a scoprire
energie e materie oscure, forze e forme appena intuite, ma di cui nulla sappiamo ancora; se davvero
esiste uno così, non saprà egli sorprenderci anche con la sua inimmaginabile, imprevedibile,
insperata capacità di consolare e salvare?

Chissà quanto può consolare e salvare chi ha potuto creare le margherite, le rondini, i
delfini, i cagnolini, i ciliegi, il quarzo, le nuvole e tutto quanto serve a creare le margherite, le
rondini, i delfini… Alla medesima conclusione giunse l’afflitto Giobbe, dopo che Dio gli mostrò
l’intera creazione: «Comprendo che tu puoi tutto e nessun progetto per te è impossibile» (Gb 42,2),
nemmeno quello di consolare un uomo disfatto da perdite e lutti. Se Dio ebbe il potere di creare dal
caos, avrà certamente in serbo un’inimmaginabile e insperata inventiva di soluzioni, anche nel
consolare il dolore per quelle separazioni che si direbbero definitive, anche per salvarci dalla morte.

Il mondo creato è il «teatro della storia del genere umano» (GS 2): si danno spettacoli di
danza, dove tutto il corpo di ballo si muove armoniosamente, ma anche sanguinose tragedie. Sulla
scena del mondo si offrono meravigliosi concerti: diversi strumenti musicali compongono un’unica
orchestra, una sola, commovente sinfonia. Ma si odono pure le urla stonate dell’ingiustizia e della
violenza, lo stridore della fame di molti e dell’indigestione di pochi, la marcia funebre d’ogni morte.
Dalle mani del generoso Creatore era uscito un giardino dalla bellezza mozzafiato. C’era posto e
cibo per tutti, ma in un modo o in un altro, chi più chi meno, ci siamo comportati da guastafeste,
incapaci di giocare e divertirci, perché smaniosi di vincere sempre e ad ogni costo trofei senza gioia,
adatti solo ad abbellire le tombe. Il sipario stava chiudendosi per sempre su questo spettacolo
doloroso e triste, quando Dio inaspettatamente l’ha riaperto, mandando in scena il suo Figlio eterno,
come protagonista del mondo nuovo, dove più nessuno desidererà rovinare la festa preparata, dove
si crederà che c’è posto e cibo abbondante per tutti, dove ogni lacrima verrà asciugata, perché
l’ingiustizia e la morte saranno espulse dalla scena.

Sulla scena del mondo

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Tuttavia, a duemila anni dalla venuta del Figlio di Dio nella carne, sembra che la scena sia
sempre la stessa e invariati gli spettacoli rappresentati. Perciò appare motivato l’indebolimento della
speranza che, di epoca in epoca, assume forme e modalità diverse. Eppure, Gaudium et Spes 2
invita a scorgere il lampo della speranza proprio nelle nuvole nere dei dolori e delle ingiustizie del
mondo. In ciò riecheggia lo sguardo che, nonostante tutto, il Nuovo Testamento mantiene sul
mondo e sulla storia. Sono almeno tre le immagini a cui ricorrono le Sacre Scritture: il parto, il
cantiere, la guerra.

La prima immagine è offerta da Gesù stesso, in prossimità della sua morte ingiusta e
violenta (Gv 16,21-23). Egli interpreta l’afflizione dei discepoli – motivo di disperazione – alla luce
del travaglio e dei dolori di una donna, durante il parto: è una scena straziante e paurosa sia per la
donna sia per chi l’assiste. Eppure non si tratta di uno spasimo inutile, poiché si compirà con la
nascita di un bambino. Nella sua Lettera ai Romani, San Paolo ha la medesima visione, anzi
l’allarga all’intera creazione, alla storia tutta, descrivendola come una donna che «geme e soffre le
doglie del parto» (Rm 8,22-23), mentre aspetta che i figli di Dio si rivelino come tali, cioè liberi
dalla paura, poiché finalmente capaci di riconoscere l’affidabilità, la fedeltà, la potenza di Dio. Solo
così smetteranno di sentirsi orfani e abbandonati e rifiuteranno ogni ingiustizia. Quest’ultima,
infatti, altro non è che la risposta maldestra al terrore infiltrato dal Tentatore nei nostri cuori, fin dal
principio: chi ci ha messi al mondo ci abbandona, o, nella migliore delle ipotesi, è incapace di
proteggerci. Agli occhi di San Paolo, il mondo, la storia, fecondati dalla presenza dei cristiani,
stanno partorendo figli e figlie di Dio… con tutti i dolori tipici del parto. In qualsiasi caso, durante il
travaglio, una donna necessita aiuto. Preferisci ricorrere alla disperazione come scusa della tua
pigrizia, o rimboccarti le maniche e aiutare chi sta gridando di dolore?

La seconda immagine è quella del cantiere. Il Signore Gesù la utilizza per indicare la sua
passione e la sua vittoria (Mc 12,10-11). Secondo il progetto del Creatore, il mondo è un enorme
cantiere che dovrebbe compiersi nella casa comune, capace di custodire e promuovere la vita. Tutti,
in un modo o in un altro sono all’opera: chi costruisce rifugi per sé, regge e palazzi, tane, fortezze
impenetrabili… Anche chi costruiva la torre di Babele era convinto di edificare qualcosa di
buono… Gesù parla di sé come la pietra che i costruttori scartano, perché considerata troppo fragile
e inadatta alla costruzione del mondo. In effetti, il Vangelo di Cristo è troppo ingenuo e debole agli
occhi di molti: amare i nemici, fare del bene a quelli che ci odiano, perdonare, condividere vestito e
pane con chi ne è privo, visitare i malati e i carcerati, credere che il Padre non farà mancare il pane
quotidiano, credere che la morte non è l’ultima parola sull’esistenza, poiché il Padre, fedele e
potente, restituirà tutto e tutti… Ebbene, proprio quella pietra gettata in discarica dai costruttori, il

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Padre l’ha scelta come la più adatta a reggere l’intero dramma del mondo. In qualsiasi caso, il
mondo continua ad essere un cantiere, dove i cristiani costruiscono tenendo Cristo come pietra
angolare: solo appoggiandosi a lui l’edificio cresce affidabile, sicuro, bello, capace di garantire un
posto per tutti e per sempre (Ef 2,19-22). Ma un cantiere è un ambiente complicato: un ammasso di
materiali diversi e disordinati. Paradossalmente, per innalzare la casa, si comincia scavando; si
accumulano macerie e scarti. È un luogo faticoso e molto pericoloso: in cantiere si esauriscono le
forze, ci si può ferire, o addirittura morire. Non solo: per lungo tempo, un cantiere non assomiglia
affatto a una casa; non se ne percepisce né la forma né il progetto; perciò scoraggia come una fatica
inutile. Ebbene, la Chiesa crede che il progetto ci sia, lo si può scorgere, nonostante tutto; merita la
nostra speranza e il nostro impegno, affinché la casa giunga al tetto. Accampando la scusa della
fatica e dell’incompletezza, preferisci costruirti una tana, un palazzo tutto per te, o al contrario non
muovere un dito? La tua speranza si vedrà dal tuo sudore, dal tuo coraggio, e dal tuo occhio lungo.

La terza immagine è ancora più drammatica e occupa gran parte dell’ultimo libro delle Sacre
Scritture: l’Apocalisse. In quel testo, si alternano scene piene di pace e scontri all’ultimo sangue. Le
battaglie vengono combattute su diversi fronti: militare, economico, religioso e politico. Anzi, i
quattro fronti si mescolano e si camuffano l’uno con l’altro, partorendo strani mostri omicidi (cfr.
Ap 12–13; 17,8-18). «Fino a quando?» (Ap 6,10): questo è il grido di lamento di chi non vede la
fine di tale sofferenza. Il Signore invita a resistere, perché la guerra l’ha già vinta lui, che era
ritenuto sconfitto. Tuttavia, è necessaria la resistenza della speranza, poiché la guerra è sì vinta, ma
non ancora tutte le battaglie: angoscia, dolore, lacrime, lutto verranno tolti, ma non ora (cfr. Ap 19–
21). Con la scusa del pericolo e della paura, vuoi disertare? O hai buon fiuto e giochi la tua unica
vita con chi ha vinto e vincerà?

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CAPITOLO 4

LA LUCE E LA CASA

Edificare la società umana

Sentendosi solidale con tutto il mondo e per amore dell’intera famiglia umana, la Chiesa
intende contribuire alla «salvezza dell’uomo» (di ogni uomo e donna!), all’«edificazione» della
società umana (GS 3). Come? Grazie alla «luce che viene dal Vangelo» (GS 3). Un altro documento
del concilio Vaticano II, la Lumen Gentium, definisce Cristo «la luce delle genti» (LG 1). Infatti,
cos’è la luce irradiata dal Vangelo se non Cristo? Egli stesso ha parlato di sé come «la luce del
mondo» (Gv 9,6); sicché portando Cristo al mondo, i cristiani onorano il diritto del mondo stesso a
ricevere la luce che gli spetta, poiché Cristo è già suo, gli appartiene, come il mondo (ogni cuore,
ogni sasso, ogni foglia, ogni animale, ogni stella…) appartiene a lui! Se i cristiani, la Chiesa, il
mondo capissero il mistero potente, generoso, mitissimo della luce, quanti miracoli apparirebbero
dovunque! Cosa ha voluto dire di sé Cristo, definendosi «la luce»? La luce consente l’apparizione di
ogni forma e colore, perché non mette mai in mostra sé stessa. Infatti, quanto noi chiamiamo luce,
non è la luce, ma il suo riflesso sulle cose e l’atmosfera. La luce rimane invisibile, piena di
munifica, disinteressata modestia. Essa gode nell’esibire il mondo, perciò è disposta a uscire dal
campo visivo. In ciò è totalmente differente dal protagonismo del buio: dove arriva lui, occupa tutto
lo spazio, tutto il posto, impendendo la manifestazione di qualsiasi forma e colore. Se il mondo
capisse che Cristo è la sua luce, comprenderebbe che è il suo migliore amico, disposto a tutto pur di
salvare e custodire la sua bellezza. Se i cristiani, la Chiesa credessero che Cristo è la luce,
diventerebbero davvero servi del mondo uscito dalle mani di Dio, quel mondo, nonostante tutto,
così stimato dal Creatore, da non risparmiare il proprio Figlio, pur di non perderlo.

La Chiesa sa bene che dove arriverà la luce del Vangelo, lì si ‘edifica’ la società umana.
Cosa significa “edificare la società”? Trasformare in ‘casa’ l’umanità tutta. Ma una casa cos’è?
Nella casa delle nostre origini, abbiamo imparato a camminare. I primi passi arrivano presto – un
anno, un anno e mezzo di vita, ma sono l’esito di un processo intenso e complesso. Comincia con
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l’accensione del senso di fiducia. Per l’adulto è scontato che domani sorga il sole, camminando
passo dopo passo il terreno continui a sostenere il corpo e non frani sotto i piedi. Ci si aspetta
accadano queste cose poiché sono attendibili. Per il neonato non è così; la fiducia gli è accesa da
esperienze che ripetutamente gli dimostrano l’esistenza di persone e cose attendibili: come la
mamma che arriva ogni volta che piange, i giocattoli ritrovati al loro posto, anche dopo la notte;
oppure il pavimento che esibisce metro dopo metro la sua solidità mentre il piccolo, gattonando, lo
tasta, lo mette alla prova. Se, quando chiamata, la mamma arriva, il piccolo si abitua alla sua venuta
e la immagina ‘attendibile’: la si può aspettare, perché è affidabile. Dopo aver misurato a quattro
zampe il pavimento di casa chissà quante volte, il bimbo incorpora la resistenza sicura del suolo, la
sua capacità di sostenerlo quando è fermo o si muove. Acquisita la fiducia negli oggetti – i
giocattoli, il pavimento, le cose di casa – il bimbo, aggrappandosi a un sostegno, si mette in piedi.
Questa posizione è già un miracolo ed è esclusiva dell’uomo. Grazie a essa si guarda la realtà da
una prospettiva unica e si liberano le mani dalla fatica della deambulazione, introducendole nel
mondo degli affetti e della cultura. Senza la posizione eretta non potremmo accarezzare, scrivere,
cucinare, costruire un tavolo, contare sulle dita, curare, dare una mano… Siamo diventati uomini e
donne perché, fidandoci dei piedi e della terra che li sostiene, abbiamo liberato le mani. Mettersi in
piedi è condizione necessaria per camminare, ma non sufficiente. Infatti, in quella posizione si può
restare immobili. Il bambino alzatosi, afferrando le gambe del tavolo o un angolo del divano, al
primo tentativo di fare un passo da solo, cade. E così anche al secondo, al terzo… Per muovere i
primi passi, rimanendo in piedi, deve stare saldato alla terra e alzare le mani verso l’alto, affinché,
prendendogliele, il papà e la mamma lo tengano in equilibrio e lo incoraggino. È una delle scene più
toccanti di un’intera vita: un uomo o una donna che, mani nelle mani del proprio bambino, gli
permettono di camminare, camminando a loro volta. È un gesto così intenso che Dio stesso se ne
appropria per parlare di sé: «A Efraim io insegnavo a camminare, tenendolo per mano» (Os 11,3).
Abbiamo cominciato a camminare, camminando insieme, con i piedi per terra, le braccia e le
manine in alto, come a pregare, invocando aiuto, allungando il corpo come la scala di Giacobbe,
tesa tra il mondo e Dio. Il bambino comincia a camminare non raggomitolandosi o ripiegandosi, ma
distendendosi in tutta la sua altezza, lasciandosi prendere le mani dall’alta statura del papà e della
mamma.

Insomma, la casa delle nostre origini è stata il nostro primo mondo, il luogo dove persone e
cose ci sono parse degne della fiducia che libera dalla paura, alimento prediletto dell’ingiustizia e
del male. La casa delle nostre origini, il nostro primo mondo, ci ha dato lo spunto per uscire nel
mondo più grande: la strada, il paese, la città, il popolo, l’universo intero. Ci ha promesso che pure
lì avremmo trovato cose e persone affidabili, in grado di liberarci dalla paura. Non saremmo mai
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usciti di casa, se essa non ci avesse promesso che avremmo trovato nel mondo una casa più vasta.
«Edificare la società umana» significa trasformarla in una casa, vale a dire: un ambiente capace di
mantenere le promesse che la casa delle origini ha fatto a ciascuno, invitandoci a uscire verso il
mondo. Mi è stata mantenuta quella promessa, o è stata tradita da chi ho incontrato? Accostandomi
agli altri, ho onorato quella promessa, o l’ho tradita, generando uomini e donne impauriti e incapaci
di fidarsi?

Tra economia ed ecologia

Il nome di due dimensioni significative della società umana custodisce al proprio interno la
parola casa: l’economia e l’ecologia. Infatti, entrambe, derivano dal termine greco ôikos (‘eco-’) che
significa ‘casa’. Il vocabolo ‘economia’ è composto da ôikos e da un’altra parola greca, nómos,
indicante ‘norma’, ‘regola’, ‘legge’. Pertanto, economia significa “regola della casa”. L’economia è
l’insieme delle norme da osservare per la buona conduzione di una casa. L’economo è colui che
conosce tali ordinamenti e li pratica. ‘Economico’ è quanto favorisce il buon andamento della vita
domestica. ‘Economia’ indica la contabilità di una famiglia, il bilancio di un’azienda, come pure
l’amministrazione di una nazione e del mondo intero. Tant’è che si parla d’economia domestica,
aziendale, nazionale e mondiale, quasi auspicando che un’azienda, un paese e il mondo intero
funzionino come una casa. Ma forse la parola ‘economia’ include un altro senso, non solo riferito
alle norme necessarie alla buona gestione della casa, ma indicante nella casa stessa la norma e il
criterio dell’agire; cioè: “la casa è la norma”. Se un’azione ‘edifica’, costruisce la casa, è giusta,
Altrimenti è fuori norma, immorale. Azione non edificante è quella che disonora la promessa
inscritta nell’esperienza della casa delle origini, che ha acceso il senso della fiducia, di affidabilità e
affidamento, liberatore dalla paura. Dove si accende fiducia, lì si sta costruendo la casa. Dove si
incute paura, la si sta demolendo.

Il vocabolo ‘ecologia’ – composto dai termini greci ôikos e lógos (‘parola’, ‘discorso’) –
raccoglie tutti i saperi e gli atteggiamenti necessari a conoscere e rispettare l’ambiente, casa
dell’umana famiglia. Come nessuno distruggerebbe la propria dimora, così tutti dovrebbero
concorrere al buon mantenimento dell’ecosistema del mondo. Tuttavia, una casa non è formata

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dalla sola struttura architettonica (una camera d’albergo non è una casa), ma è composta dalle
relazioni e dagli affetti che trasformano uno spazio geometrico nel luogo della nostra anima. Se
l’ecologia si riducesse alle conoscenze e alle tecniche per tutelare l’ambiente, smarrirebbe la
complessa ricchezza dell’esperienza domestica: manuterrebbe il tetto, i muri, i serramenti,
l’impianto elettrico e idraulico, ma non custodirebbe la casa, poiché essa è molto di più della sua
impiantistica. La stessa parola lo afferma. Infatti, il vocabolo greco lógos non significa solo
‘scienza’, ‘conoscenza’, ‘sapere’, ma anche ‘legame’, ‘relazione’. Perciò è ‘eco-logico’ tutto quanto
salvaguarda i legami e gli affetti tipici di una casa. Di conseguenza, l’ingiustizia e l’infedeltà
(affettiva, professionale, economica, politica, sociale) sono quanto di più anti-ecologico esista,
poiché disonorano e distruggono proprio la casa che s’intende custodire. È quanto Papa Francesco
ha richiamato con forza nell’enciclica Laudato Si’: la casa comune si costruisce e custodisce
rispettando il luogo abitato dall’intera famiglia umana e promuovendo legami giusti; se non si
promuove la giustizia nelle relazioni tra i singoli e i popoli, la casa del mondo crolla.

Ecco cosa dicono, con simpatia e convinzione, i primi numeri della Gaudium et Spes: dove
arriva la luce di Cristo nella vita di tutti i giorni (di questi giorni!), il mondo comincerà a diventare
il luogo dove le promesse verranno mantenute e nessuno avrà più paura di essere tradito. Così sarà
più lieve l’attesa del giorno in cui il Signore, della cui gloria è piena la terra, asciugherà le lacrime
da ogni volto (Ap 21,4).

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Gaudium et Spes 1-3

PROEMIO

1. Intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana


Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono
guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno
ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il
genere umano e con la sua storia.

2. A chi si rivolge il concilio


Per questo il concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della
Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti
coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. A tutti vuol esporre come esso
intende la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo che esso
ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l’intera famiglia umana nel contesto di tutte
quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano,
e reca i segni degli sforzi dell’uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo che i
cristiani credono creato e conservato in esistenza dall’amore del Creatore: esso è caduto,
certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo, con la croce e la risurrezione ha spezzato
il potere del Maligno e l’ha liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi
e a giungere al suo compimento.

3. A servizio dell’uomo
Ai nostri giorni l’umanità, presa d’ammirazione per le proprie scoperte e la propria
potenza, agita però spesso ansiose questioni sull’attuale evoluzione del mondo, sul posto
e sul compito dell’uomo nell’universo, sul senso dei propri sforzi individuali e collettivi, e
infine sul destino ultimo delle cose e degli uomini. Per questo il concilio, testimoniando e
proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio riunito dal Cristo, non potrebbe dare una

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dimostrazione più eloquente di solidarietà, di rispetto e d’amore verso l’intera famiglia
umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi
sopra accennati, arrecando la luce che viene dal Vangelo, e mettendo a disposizione degli
uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal
suo Fondatore. Si tratta di salvare l’uomo, si tratta di edificare l’umana società.
È l’uomo dunque, l’uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e
anima, l’uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra
esposizione.
Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione
dell’uomo e la presenza inlui di un germe divino, offre all’umanità la cooperazione sincera
della Chiesa, al fine d’instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale
vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare,
sotto la guida dello Spirito consolatore, l’opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel
mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non
ad essere servito.

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