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Chiesa di San Torpè; Catechesi Gaudete et exsultate; I vizi capitali e la chiamata alla santità

20 X '19: IV. La vanagloria “primo frutto della superbia”, la modestia e la magnanimità che “riguarda i grandi onori”
La vana e la vera gloria:
Dopo la superbia, “principio di ogni peccato”, s. Gregorio Magno nomina la “vanagloria”. La definisce “il primo frutto
della superbia” (Moralia 31,89). Vale a dire, essa viene quasi a coincidere con la superbia, come una sua specie.
Il termine latino “gloria”, come il suo sinonimo “claritas”, è molto
presente nella S. Scrittura AT e NT. Vi appare infatti che la gloria vera
appartiene unicamente a Dio. L'episodio eminente, che ha segnato la
storia d'Israele, è la teofania sul monte Sinai: “La Gloria [kabod] del
Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei
giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La
Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco
divorante sulla cima della montagna” (Es 24,16s.). Anche l'evangelista
Giovanni nomina la gloria legata strettamente al Verbo divino, Dio che
si è incarnato in Gesù Cristo: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria [doxa], gloria come di
unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14).
Invero, nella S. Scrittura la gloria ha un significato ampio. Comprende
oltre al senso etico (notorietà, fama, onore) anche “splendore”,
“magnificenza”, “chiarezza”, “luminosità”... Dunque, nella S. Scrittura
questo significato viene attribuito propriamente a Dio, e ai santi come
partecipazione alla gloria di Dio (Ef 1,18). Così insegna s. Ambrogio:
la gloria è “una chiara notorietà accompagnata dalla lode” (glossa Rm
16,27). A Dio appartiene la chiara conoscenza e ogni lode. Di qui si
spiega la “vana gloria”. La preposizione “vana” significa la negazione
della gloria. Viene in mente il poema del Qoelet: “Vanità delle vanità,
Oh vanagloria dell’umane posse, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava
com’poco verde in su la cima dura, l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole?”. Ovvero, tutto ciò
se non è giunta da l’etati grosse!
(Divina Commedia, Purgatorio, canto XI) che non è Dio, è vanità, e tutto il fare dell'uomo, se non è secondo il
volere di Dio, non è che un “inseguire il vento” (Qo 1,2.12).
Giovanni Climaco tratta la vanagloria unitamente con il tema della superbia. Per impostare l'argomento l'autore descrive
un “ritratto del vanaglorioso” - e mostra subito le conseguenze di questo difetto: “Chi si gonfia per le sue doti di natura,
intelligenza e facilità di apprendere, capacità che ci vengono da natura senza nostro merito, non otterrà mai i doni che
superano la natura, perché chi non è fedele nel poco sarà infedele nel molto (cfr. Lc 16,10). Tale è il vanaglorioso” (Scala
d. XXII, 124). Vale a dire, chi ricerca la propria gloria, l'onore o la considerazione umana, per esaltare se stesso, perde
progressivamente la misura della giustizia e della verità della sua vita e attività, che costituisce la vera gloria dell'uomo.
È da osservare tuttavia, che nonostante la stretta dipendenza dalla superbia, i teologi non valutano la ricerca della gloria
sempre come peccato mortale. È anzi giusto, che un artefice riceva il riconoscimento per una sua opera riuscita e che goda
del successo per il bene, umano, sociale e spirituale che porta a tutti: “Non è un peccato volere che la propria virtù sia
approvata dagli altri, poiché si legge nel Vangelo [Mt 5, 16]: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini». Perciò il
desiderio della gloria di per sé non dice nulla di peccaminoso. Invece il desiderio della vanagloria implica un peccato:
infatti è peccaminoso desiderare qualsiasi cosa vana, come si legge nei Salmi [4, 3]: «Perché amate cose vane, e cercate
la menzogna?»”. Tommaso menziona tre criteri di discernimento a proposito: “La gloria può dirsi vana prima di tutto
dalla parte dell‘oggetto nel quale viene cercata: p. es. quando viene cercata in ciò che non esiste, o in cose che non sono
degne di gloria, come nelle realtà fragili e caduche. Secondo, [la gloria può essere vana] dalla parte di coloro presso i
quali viene cercata: cioè presso gli uomini, il cui giudizio non è certo. Terzo, [può essere vana] dalla parte di colui che la
desidera, se egli non la ordina al debito fine, cioè all‘onore di Dio e al bene del prossimo” (S.th. II-II, q. 132, a. 1).
Vale a dire, la ricerca di gloria diventa peccato mortale solo quando l'uomo dimentica o nega Dio come datore del suo
dono e come ultimo fine della gloria e attribuisce il merito a se stesso. (cfr. ibi q. 132, a.3). I santi godano delle grandi
opere, che Dio compie per mezzo loro, ma riferiscono il merito a Dio (Lc 1,49). La vanagloria come figlia della superbia
fa parte dell'“uomo vecchio” che deve rinnovarsi nell'esercizio delle virtù. Non sempre i credenti giungono durante la vita
terrena a “a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (cfr. Ef 4,24). Perciò, per
entrare nella gloria eterna del cielo devono ancora purificarsi dalla vana gloria che rende schiavi del mondo coloro che la
ricercano. Pertanto Dante Alighieri colloca nel Purgatorio gli artisti e scrittori, avidi di vanagloria (canto XI, 84-105).
D'altro canto, l'angelico dottore dichiara che la vanagloria è pericolosa non tanto per la gravità propria, ma perché dispone
l'uomo ad altri peccati. Egli spiega infatti, che il vizio capitale della vanagloria genera altri sette vizi: la disobbedienza, la
iattanza, l'ipocrisia, lo scontento, la discordia, la presunzione e la pertinacia (cfr. S.th. II-II, q. 132, aa. 3.4).
Per contro, illuminato dalla parola del Signore (cfr. Gv 8,12) e credendo in Lui, il cristiano ha già nella vita terrena parte
alla vera gloria che non passa: “La gloria dei santi è senza successione, per una certa partecipazione dell‘eternità, nella
quale non esiste il passato e il futuro, ma solo il presente” (S.th. I-II, q. 67, a. 4).
La modestia:
Riguardo al rimedio della vanagloria dobbiamo rilevare due virtù in specie, complementarie tra di loro. In quanto la
vanagloria è una forma di superbia, padri orientali considerano la modestia (specie di umiltà) come virtù morale
corrispondente (cfr. Evagrio Pontico, Gli otto spiriti malvagi, c. 16; Giovanni Climaco, La scala del paradiso, d. 22).
Nella traduzione del versetto Gal 5,22 s. Girolamo annovera la modestia all'elenco dei frutti dello Spirito. La parola latina
modestia è come la moderatio (moderazione, disciplina) legata alla radice modus (modo, misura, criterio ragionato).
Girolamo la desume dall'etica classica (Aristotele Eth. 2,7; Cicerone, De invent. 2,54). La modestia è la misura del giusto
applicato a tutti gli atti interni ed esterni dell'uomo (cfr. II-II, q. 160, a. 2); è la potenza dell’anima, che ordina i sentimenti
e i movimenti della persona sulla regola della giustizia e della verità. Essa esclude quindi il gloriarsi per cose vane.
Il Climaco descrive una “terapeutica adatta” per rimediare la vanagloria. Essa consiste nella pratica della modestia e della
compunzione. “Spesso il Signore converte dalla vanagloria... permettendo che capiti a chi ne è affetto di subire
un'ingiuria. Principio della guarigione dal suddetto vizio è la custodia della lingua accompagnata da amore per il
disprezzo... [Poi si deve tagliare con decisione ogni comportamento ispirato da pensieri di vanagloria...; perfezione della
modestia è di non cercare di nascondere pubblico le proprie debolezze...]” (La scala del Paradiso, d. 22, 126).
In precedenza l'autore ha già parlato della “compunzione letificante” come pratica per acquisire la virtù della modestia.
Egli segue il pensiero di s. Paolo (2Cor 7,8ss), secondo cui la “tristezza secondo Dio” è un esercizio morale per vincere la
vanagloria e la superbia. Come conseguenza dell'amore per Dio nasce nel credente la “santa afflizione” o “compunzione”
per i peccati commessi (quelli propri e quelli degli altri). Questi infatti recano dolore a Dio che ama così teneramente gli
uomini: “La compunzione secondo Dio è... disposizione spirituale a cercare sempre appassionatamente ciò di cui si ha
sete [Dio]... [Essa] è stimolo aureo dell'anima: libera da ogni attaccamento e condizionamento” (Scala del Paradiso, d.
7,62). La pratica del dolore per i peccati e della modestia serve a mortificare i desideri e le passioni che contrastano con la
“Legge dello Spirito”; essa purifica il cuore del credente per ricevere la vera gloria: la luce di Cristo (cfr. Gv 8,12).
Nel suo Commento a Giobbe s. Gregorio Magno ha sempre un attenzione speciale all'attività del predicatore. Giungendo
al discorso di Eliu (Gb cc. 32-37) Gregorio vede in questo giovane, esperto nelle sacre scienze, ma arrogante e
presuntuoso, il modello del predicatore vanaglorioso, come dell'eretico. Questi dice cose vere, ma la sua scienza non
edifica e non illumina, bensì gonfia e divide: “Eliu è simbolo di quei vanagloriosi che si trovano anche all'interno della s.
Chiesa e sono incapaci di esprimere umilmente la loro scienza... L'intervento divino li redarguisce come per Eliu: non
rimprovera ad essi dottrine erronee, ma una mentalità e un'esposizione altezzosa” (Lib 23,7). L'orgoglio obnubila la
mente del predicatore vanaglorioso. Egli si ferma alla “corteggia” e ignora il “gusto del sapore interiore” della Parola di
Dio. La vera scienza di Dio porta il predicatore non alla vanagloria, ma alla modestia, e l'ascoltatore non alla presunzione
ma alla compunzione e conversione (Lib 23, 31), e con l'atteggiamento di umiltà e modestia essa dev'essere predicata.
La magnanimità che “riguarda i grandi onori”
Nella questione sulla vanagloria, s. Tommaso parte dall'aspirazione dell'uomo alla gloria, che in sé è buona, ma deve
essere formata per non degenerare. La disposizione adeguata per giungere alla vera gloria è l'insieme della modestia con
la magnanimità. Secondo l'etica classica, la magnanimità fa parte della virtù cardinale della fortezza. Essa guida il pensare
e l'agire della persona a conseguire le “cose grandi, degni di grande onore”, che costituiscono la vera gloria: “ La
magnanimità non ha di mira qualsiasi onore, ma i grandi onori. Ora, se a una virtù è dovuto l‘onore, ai grandi atti di
virtù sono dovuti grandi onori. E così il magnanimo tende a compiere grandi azioni in ogni virtù: in quanto mira ad atti
che sono degni di un grande onore” [S.th. II-II, q. 129, a. 4 ad 1]. S. Tommaso distingue nella magnanimità un senso
generale e uno speciale. In quanto al senso generale essa abbraccia tutte le virtù morali, perché spinge l'uomo a esercitarle
tutte. In ciò sta l'onore più grande e degno di lode dell'uomo giusto: “la magnanimità si fonda sulla preesistenza delle
altre virtù. Infatti essa ne è come un ornamento” [S.th. I-II, q. 66, a. 4]. La S. Scrittura lo conferma: come tutte le virtù
morali, la magnanimità è propriamente un attributo di Dio: “La magnanimità del Signore nostro giudicatela come
salvezza ” (2Pt 3,15). Dio per prima opera cose grandi degne di onore: la creazione, la salvezza, la vita eterna... E Dio si
compiace che la creatura umana Lo imiti, curando gli attributi, che rendono l'uomo grande: le virtù teologali e morali.
In quanto al significato di virtù speciale, è utile ricordarsi che la parola greca, ricorrente nelle lettere apostoliche:
makrotymia viene reso da s. Girolamo con tre termini: magnanimitas, patientia e longanimitas (cfr. Gal 5,22). Essi sono
“frutti dello Spirito”, ma – come vale per tutti i frutti dello Spirito -, per quanto riguarda l'esercizio, dipendono dall'uomo.
Invero la storia della salvezza è un'espressione di questa pazienza di Dio con gli uomini. Tante volte Dio ha liberato e
salvato il suo popolo dai nemici, oppressori, da calamità e ogni genere di male e ciononostante il suo popolo ogni volta è
ritornato ad offenderlo e tradirlo con l'idolatria e l'infedeltà al suo patto (la Legge di Mosè e le parole dei profeti). La
santità di Dio si manifesta proprio nella sua misericordia e nel perdono del peccatore: “Il mio cuore si commuove dentro
di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim,
perchè sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira. ” (Os 11,8s.). Ma in conseguenza a
questa rivelazione della magnanimità di Dio, l'uomo, che ne ha fatto esperienza è chiamato ad imitare questo attributo di
Dio: Vediamo a proposito il gesto della magnanimità di Davide quando risparmia la vita del re Saul, che lo sta
perseguitando (1Sam 26,9). Tuttavia è Cristo crocifisso l'icona eccellente della pazienza e della magnanimità. Mentre gli
aguzzini Lo stanno inchiodando alla croce Egli prega: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).
Animati dal Suo Spirito gli apostoli e i santi hanno saputo imitare la magnanimità e l'amore di Cristo: i santi, umili e
magnanimi rigettano la gloria vana delle cose effimere e manifestano al mondo la gloria vera: la santità della Chiesa.

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