Trinità (C)
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Giovanni Paolo II
Meditazione sul Salmo 8
«L'uomo..., al centro di questa impresa, ci si rivela gigante. Ci si
rivela divino, non in sé, ma nel suo principio e nel suo destino.
Onore, dunque, all'uomo, onore alla sua dignità, al suo spirito,
alla sua vita». Con queste parole nel luglio 1969 Paolo VI affidava
agli astronauti americani in partenza per la luna il testo del Salmo 8,
che ora è qui risuonato, perché entrasse negli spazi cosmici
(Insegnamenti VII [1969], pp. 493-494).
Questo inno è, infatti, una celebrazione dell'uomo, una creatura
minima se paragonata all'immensità dell'universo, una «canna»
fragile per usare una famosa immagine del grande filosofo Blaise
Pascal (Pensieri, n. 264). Eppure, una «canna pensante» che può
comprendere la creazione, in quanto signore del creato, «coronato»
da Dio stesso (cfr. Sal 8, 6). Come accade spesso negli inni che
esaltano il Creatore, il Salmo 8 inizia e termina con una solenne
antifona rivolta al Signore, la cui magnificenza è disseminata
nell'universo: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome
su tutta la terra» (vv. 2.10).
Il corpo del canto vero e proprio sembra supporre un’atmosfera
notturna, con la luna e le stelle che s'accendono nel cielo. La prima
strofa dell'inno (cfr. vv. 2-5) è dominata da un confronto tra Dio,
l'uomo e il cosmo. Sulla scena appare innanzitutto il Signore, la cui
gloria è cantata dai cieli, ma anche dalle labbra dell'umanità. La lode
che spunta spontanea sulle labbra dei bambini cancella e confonde i
discorsi presuntuosi dei negatori di Dio (cfr. v. 3). Essi sono definiti
come «avversari, nemici, ribelli», perché si illudono di sfidare e
contrastare il Creatore con la loro ragione e azione (cfr. Sal 13, 1).
Ecco aprirsi, subito dopo, il suggestivo scenario di una notte
stellata. Di fronte a tale orizzonte infinito affiora l’eterna domanda:
«Che cosa è l'uomo?» (Sal 8, 5). La prima e immediata risposta parla
di nullità, sia in rapporto all'immensità dei cieli, sia soprattutto
rispetto alla maestà del Creatore. Il cielo, infatti, dice il Salmista, è
«tuo», la luna e le stelle sono state «da te fissate» e sono «opera
delle tue dita» (cfr. v. 4). Bella è quest'ultima espressione, invece
della più comune «opera delle tue mani» (cfr. v. 7): Dio ha creato
queste realtà colossali con la facilità e la raffinatezza di un ricamo o
cesello, con il tocco lieve di un arpista che fa scorrere le sue dita
sulle corde.
La prima reazione è, perciò, di sgomento: come può Dio
«ricordarsi» e «curarsi» di questa creatura così fragile ed esigua?
(cfr. v. 5). Ma ecco la grande sorpresa: all'uomo, creatura debole,
Dio ha dato una dignità stupenda: lo ha reso di poco inferiore agli
angeli o, come può anche essere tradotto l'originale ebraico, di poco
inferiore a un Dio (cfr. v. 6).
Entriamo, così, nella seconda strofa del Salmo (cfr. vv. 6-10).
L'uomo è visto come il luogotenente regale dello stesso Creatore.
Dio, infatti, lo ha «coronato» come un viceré, destinandolo a una
signoria universale: «Tutto hai posto sotto i suoi piedi» e l'aggettivo
«tutto» risuona mentre sfilano le varie creature (cfr. vv. 7-9). Questo
dominio, però, non è conquistato dalla capacità dell'uomo, realtà
fragile e limitata, e non è neppure ottenuto con una vittoria su Dio,
come vorrebbe il mito greco di Prometeo. E' un dominio donato da
Dio: alle mani fragili e spesso egoiste dell'uomo è affidato l'intero
orizzonte delle creature, perché egli ne conservi l'armonia e la
bellezza, ne usi ma non ne abusi, ne faccia emergere i segreti e
sviluppare le potenzialità.
Come dichiara la Costituzione pastorale Gaudium et spes del
Concilio Vaticano II, «l'uomo è stato creato "a immagine di Dio",
capace di conoscere e amare il proprio Creatore e fu costituito da lui
sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e
servirsene a gloria di Dio» (n. 12).
Purtroppo, il dominio dell'uomo, affermato nel Salmo 8, può
essere malamente inteso e deformato dall'uomo egoista, che spesso si
è rivelato più un folle tiranno che un governatore saggio e
intelligente. Il Libro della Sapienza mette in guardia contro
deviazioni del genere, quando precisa che Dio ha «formato l'uomo,
perché domini sulle creature... e governi il mondo con santità e
giustizia» (9, 2-3). Sia pure in un contesto diverso, anche Giobbe si
appella al nostro Salmo per ricordare soprattutto la debolezza umana,
che non meriterebbe tanta attenzione da parte di Dio: «Che è
quest'uomo che tu ne fai tanto conto e a lui rivolgi la tua attenzione
e lo scruti ogni mattina?» (7, 17-18). La storia documenta il male
che la libertà umana dissemina nel mondo con le devastazioni
ambientali e con le ingiustizie sociali più clamorose.
A differenza degli esseri umani che umiliano i propri simili e la
creazione, Cristo si presenta come l'uomo perfetto, «coronato di
gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la
grazia di Dio egli sperimentasse la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,
9). Egli regna sull'universo con quel dominio di pace e di amore che
prepara il nuovo mondo, i nuovi cieli e la nuova terra (cfr. 2Pt 3, 13).
Anzi, la sua autorità regale - come suggerisce l'autore della Lettera
agli Ebrei applicando a lui il Salmo 8 - si esercita attraverso la
donazione suprema di sé nella morte «a vantaggio di tutti».
Cristo non è un sovrano che si fa servire, ma che serve e si
consacra agli altri: «Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere
servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti»
(Mc 10, 45). Egli in tal modo ricapitola in sé «tutte le cose, quelle
del cielo come quelle della terra» (Ef 1, 10). In questa luce
cristologica il Salmo 8 rivela tutta la forza del suo messaggio e della
sua speranza, invitandoci ad esercitare la nostra sovranità sul creato
non nel dominio ma nell'amore.
(Giovanni Paolo II, Udienza Generale, 26 Giugno 2002)
https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/2002/
documents/hf_jp-ii_aud_20020626.html
Garofalo
Il più grande mistero
La scelta del brano evangelico per la festività odierna è motivata
dal fatto che esso contiene una delle formulazioni neotestamentarie
più chiare sul mistero di Dio Uno e Trino, anche se non in chiave
metafisica e anche se il tema dominante è il compito che avrà lo
Spirito Santo inviato da Cristo ai discepoli per il tempo della sua
assenza fisica dal mondo e della sua presenza operante nella Chiesa.
Mentre sta per compiersi il suo mistero pasquale della morte e
della gloria, Cristo, nel corso dell’ultima Cena, annunzia ai discepoli
di avere ancora «molte cose» da dire, ma, per il momento, essi non
sono capaci di «portarne il peso». Poco prima aveva detto: «Tutto
ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15, 15).
Le due affermazioni non sono in contrasto: altro è conoscere tutto
e altro è capire tutto fino in fondo o almeno fino al punto di poter
capire, specialmente quando si tratta di un insegnamento riguardante
il mistero di Dio.
Nella Bibbia, la rivelazione divina è espressa non soltanto con le
parole – le nostre povere parole – ma anche con i fatti. «L’economia
della rivelazione – dice il Vaticano II – avviene con eventi e parole
intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella
storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà
significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono
il mistero in esse contenuto» (Dei Verbum, n. 2). Gesù, rivelazione
del Padre (Gv 14, 9), «col fatto stesso della sua presenza e con la
manifestazione di Sè, con le parole e con le opere, con i segni e con i
miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i
morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la
rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è
con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e
risuscitarci per la vita eterna» (ibid., n. 4).
Gli apostoli sono a un punto critico della conoscenza di Cristo
perché stanno per scontrarsi con la tragedia del Calvario, per essi
impenetrabile e inaccettabile, il che significa che essi sono
praticamente ai primi passi nella comprensione piena del messaggio
e dell’amore di Gesù. La loro fede in lui è leale e generosa, dal
momento che hanno abbandonato tutto per seguirlo, ma resta ancora
oscura, sfuggendo ad essi il significato definitivo e profondo delle
parole ascoltate da Cristo e dei suoi fatti, di cui erano stati testimoni.
Per restare nell’ambito del quarto vangelo, gli apostoli, pur avendo
ascoltato ciò che Gesù aveva detto della risurrezione del tempio in
tre giorni, soltanto dopo la gloria di Cristo «si ricordarono che Gesù
aveva detto questo e credettero» (Gv 2, 19-22).
I Dodici erano stati coinvolti felicemente nel generale entusiasmo
col quale era stato accolto Gesù Messia a Gerusalemme la domenica
delle palme, ma soltanto in seguito compresero il fatto, alla luce delle
profezie (Gv 12, 16). E che dire delle frequenti incomprensioni dei
convitati di Gesù nel Cenacolo puntualmente rilevate da Giovanni
(Gv 13, 7; 14,4-5.8-9.22; 16, 18-19)?
Sarà compito dello Spirito Santo dono di Cristo, «guidare» i
discepoli «alla verità tutta intera»: un peso per sostenere il quale essi
avranno bisogno della «forza» che verrà dall’alto (At 1, 8) in
soccorso della loro umana pochezza e fragilità di fronte all’empito
dei divini misteri. Le «molte cose» che Gesù non può dire per ora
non sono dunque, necessariamente, verità nuove, ma rappresentano
la nuova intelligenza del «tutto» che i discepoli hanno ascoltato e
visto, nuova nella misura in cui è perfetta, corrispondente cioè alle
intenzioni di Cristo.
Come è la Verità, Gesù è anche la Via (Gv 14,6: in greco, òdos),
ma lo Spirito Santo sarà la «guida» (in greco: odegòs) per percorrerla
fino in fondo. Senza il dono delle Spirito i discepoli rischierebbero di
brancolare inerti sui pascoli della salvezza, di costeggiare il gran
fiume della Vita (cf. Gv 7,38-38; Ap. 22, 1) senza raggiungerne la
fonte.
Di importanza fondamentale è la affermazione di Cristo secondo la
quale lo Spirito, nell’assolvere al suo compito, «non parlerà da sé,
ma dirà tutto ciò che avrà udito». Come Gesù, che nulla ha detto o
fatto che non abbia udito o visto fare dal Padre perché è uno con Lui,
e perciò in intima e perfetta comunione di pensieri e di intenti, così si
comporterà lo Spirito nei riguardi del Figlio, ad indicare la unità
delle tre divine Persone e la unità intangibile e armoniosa della
divina rivelazione.
I discepoli – la Chiesa, perché lo Spirito Santo dovrà rimanere
sempre con loro (Gv 14, 16) – saranno in grado di mantenersi fedeli
all’insegnamento e alla volontà di Cristo anche quando nuove
situazioni esigeranno una netta e coerente applicazione del Vangelo
o la sua legittima esplicitazione. In tal senso sembra doversi
intendere ciò che Gesù dice a proposito delle «cose future» che lo
Spirito dovrà annunziare. Indubbiamente nella Chiesa sarà all’opera
anche lo «spirito di profezia» (Ap 19,10), ma non ci sembra di
doverlo limitare all’escatologia; pensiamo piuttosto, come abbiamo
accennato, ai gravi problemi diversi da quelli del tempo di Gesù, che
gli apostoli dovranno affrontare. Si pensi, per esempio, alla decisione
di liberare i convertiti al Vangelo dal paganesimo dalla osservanza
delle prescrizioni di Mosè, che fu presa, appunto, in seguito a un
significativo intervento dello Spirito Santo (At 11, 12; cf. 10, 44-45).
Lo scopo della presenza e della azione dello Spirito nella Chiesa
resta la «glorificazione» di Cristo, come scopo della presenza e della
azione di Cristo sulla terra era stata la glorificazione del Padre (Gv
17, 4), dal quale Gesù ha ricevuto tutto (Cf. Gv 3, 35; 5, 22. 28; 13,
3; 17, 2), come lo Spirito prenderà da ciò che è del Figlio per
annunziarlo alla Chiesa, garantendo in tal modo, in essa, la
permanenza dell’autentico messaggio evangelico, perché Cristo sia
glorificato «nei suoi» (Gv 17, 10).
Risulta chiaro, da tutto questo, che l’arduo mistero della
Santissima Trinità è essenziale al cristianesimo di tutti i tempi; senza
questo mistero, infatti, lo stesso Gesù non sarebbe più il Figlio di Dio
al quale e necessario «credere» per ottenere la salvezza.
Il Vaticano II ha esemplarmente riassunto la dottrina biblica sul
disegno salvifico universale del Padre realizzato con la missione del
Figlio e dello Spirito illuminatone e santificatore della Chiesa
(cf. Lumen gentium, nn. 2-4, e Ad Gentes, nn. 2-4). «Questo disegno
scaturisce dall"`ámore fontale", cioè dalla carità di Dio Padre, che
essendo il principio senza principio, da cui il Figlio è generato e lo
Spirito Santo attraverso il Figlio procede, per la sua immensa e
misericordiosa benignità liberamente creandoci e inoltre
gratuitamente chiamandoci a comunicare con sé nella vita e nella
gloria, ha effuso con la liberalità e non cessa di effondere la divina
bontà, sicché lui che di tutti è il creatore possa anche essere "tutto in
tutti" (1 Cor 15, 28), procurando a un tempo la sua gloria e la nostra
felicità» (Ad Gentes, n.2). La Chiesa «adunata dall’unità del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo» (Lumen gentium, n. 4), fatta in
Cristo sacramento o segno e strumento della intima unione con Dio e
della unità di tutto il genere umano (ibid. n. 1), ha il compito di
«rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e il Figlio suo incarnato,
rinnovando se stessa e purificandosi senza posa sotto la guida dello
Spirito Santo» (Gaudium et spes, n. 21).
La Liturgia «ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa in
tempo santo nel Signore, in abitazione di Dio nello Spirito Santo,
fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, nello stesso
tempo in cui in modo mirabile irrobustisce le Loro forze per
predicare il Cristo» (Sacros. Conc., n. 2).
La vocazione cristiana, infatti, è quella di «vivere in intima
comunione e familiarità col Padre per mezzo del suo Figlio Gesù
Cristo nello Spirito Santo» (Optatam totius, n. 8).
Soltanto così si rende la testimonianza di una fede viva e matura,
che manifesta la sua fecondità penetrando l’intera vita dei credenti e
anche la vita profana in quanto la fede al Vangelo rivela ed attua
l’amore «effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm
5, 5), che solo potrà cancellare l’odio e la violenza che si scatenano
nel mondo all’ombra del mistero della iniquità.
In quel giorno Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a
guarire quanti avevano bisogno di cure.
(Garofalo S., Parole di vita, Vaticano 1981, 192-197).
Stock
Gesù e lo Spirito della verità rivelano il Padre
I discepoli di Gesù sono abituati al fatto che egli è con loro.
Hanno creduto e riconosciuto che egli è il Santo di Dio e ha parole di
vita eterna (Gv 6,68-69). Perciò rimangono con lui e si affidano alla
sua guida, nonostante egli sia respinto dai capi del popolo d’Israele.
Ma Gesù ha annunciato loro che uno di essi lo tradirà (13,21) e che
essi presto lo abbandoneranno (13,33). Perciò sono scoraggiati, tristi
e confusi. Nel suo grande discorso di addio (cc. 14–17) Gesù li
prepara al tempo in cui egli non sarà più visibilmente con loro. Dice
loro che non li lascia orfani (14,18), ma rimane unito ad essi in molti
ed efficaci modi. Il brano del Vangelo di questa domenica appartiene
a questo discorso di addio ed è rivolto ai discepoli, che sono pieni di
tristezza (16,6) e ai quali Gesù dice su che cosa possono contare nel
futuro. La situazione di fronte alla quale essi provano paura è la
nostra situazione. Noi non abbiamo più Gesù visibilmente in mezzo a
noi, ma ciò che egli ha comunicato ai suoi discepoli vale anche per
noi, e anche noi possiamo affidarci alla sua parola.
Gesù dice loro: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il
momento non siete capaci di portarne il peso» (16,12). Gesù qui non
menziona nessun contenuto, ma deve trattarsi di qualcosa di pesante,
gravoso, di cui i discepoli non sono all’altezza. Presto si dirà di Gesù
stesso che ha portato la sua croce verso il Golgota (19,17). La sua
morte in croce, con tutte le sue circostanze terribili, fa parte del peso
che i discepoli non sono ancora capaci di portare. Qui si vede che
Gesù ha riguardo per la forza limitata dei suoi discepoli e che non
espone davanti a loro tutto ciò che egli stesso sa del suo e del loro
destino. Li attenderanno molte cose pesanti, che essi non
conoscevano in precedenza. Gesù non le anticipa nei loro dettagli,
ma mostra Loro come possono superarle, quando si presenteranno.
Gesù dice loro che verrà lo Spirito della verità, che li guiderà in
tutta la verità e annuncerà loro le cose future (16,13). Di questo
Spirito dice ancora: «Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e
ve lo annunzierà» (16,14). E: «Tutto quello che il Padre possiede è
mio» (16,15). Qui si manifesta la comunione più stretta possibile tra
Dio Padre, Gesù e lo Spirito. Il Padre ha comunicato a Gesù tutto ciò
che gli appartiene. E lo Spirito prende di ciò che Gesù ha ricevuto dal
Padre e lo comunica ai discepoli. Tutto proviene dal Padre. Egli è
l’unica sorgente di tutto ciò che Gesù e lo Spirito comunicano.
In precedenza Gesù aveva già annunciato due volte ai discepoli lo
Spirito della verità: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro
Consolatore, perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della
verità» (14,16-17). E aveva aggiunto: «Ma il Consolatore, lo Spirito
Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa
e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (14,26). Finora Gesù è
stato il Consolatore dei discepoli, che li ha istruiti, fortificati e
guidati. Quando sa di essere vicino alla morte, promette loro un altro
Consolatore, che assumerà presso di loro il suo stesso compito.
Come il Padre ha inviato Gesù (17,3.8), così invia anche lo Spirito.
Questi non porta un messaggio diverso dall’annuncio di Gesù. Al
contrario, i discepoli devono aderire al messaggio di Gesù. Ma lo
Spirito li istruirà, perché sappiano capire in modo giusto questo
messaggio, e lo ricorderà loro, perché esso rimanga vivo ed efficace
in loro.
Nel suo secondo annuncio Gesù dice: «Quando verrà il
Consolatore, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che
procede dal Padre, egli mi darà testimonianza; e anche voi mi date
testimonianza, perché siete con me fin dal principio» (15,26-27). Di
nuovo qui si vede il legame strettissimo tra Padre, Figlio e Spirito.
Gesù invia lo Spirito, che procede dal Padre e rende testimonianza a
Gesù, cioè fa conoscere Gesù e ne conferma l’opera. Di nuovo lo
Spirito appare come il Consolatore dei discepoli. Viene dato loro,
perché rendano testimonianza a Gesù. La loro principale
caratteristica è che conoscono tutta l’opera di Gesù come testimoni
oculari. Lo Spirito della verità li rende capaci di capire in modo vivo
l’opera di Gesù e di rendere a lui davanti a tutto il mondo una
testimonianza degna di fede.
Se vogliamo comprendere bene l’espressione «lo Spirito della
verità», dobbiamo considerare che Gesù stesso è legato nel modo più
stretto possibile con «la verità». Di lui si dice: «La legge fu data per
mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù
Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: l’unico Figlio, che è Dio ed è
in seno al Padre, è lui che lo ha rivelato» (1,17-18). E Gesù stesso
afferma: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre
se non per mezzo di me» (14,6). Gesù è la verità, perché solo per
mezzo di lui in quanto Figlio Dio viene rivelato nella sua vera realtà,
ossia in quanto Padre. Perciò egli è anche la via e la vita: solo per
mezzo di lui si può accedere a Dio, che è la fonte di ogni vita. L’
Antico Testamento conosceva Dio come il Creatore del mondo, che
nel suo essere divino è solo con se stesso. Soltanto per mezzo di
Gesù Dio viene conosciuto come colui che sul piano divino e nella
pienezza divina è comunione e vive in comunione, precisamente
nella comunione del Padre con il Figlio nello Spirito Santo. Ciò che
Gesù, che è la verità sul Padre, fa conoscere, viene confermato dallo
Spirito della verità. Si tratta sempre della rivelazione della vera realtà
di Dio, che finora era sconosciuta (cfr 1,18): Dio è in se stesso
comunione, pieno di vita e di scambio, conoscenza e amore, e vuole
rendere partecipi noi uomini di tale comunione.
Ora possiamo capire questa affermazione di Gesù: «Tutto quello
che il Padre possiede è mio» (16,15; cfr 17,10). Nella comunione tra
Gesù e il Padre, il Padre ha dato a Gesù tutta la sua realtà; Gesù la
possiede, la conosce e la può rivelare. Si capiscono anche queste
parole di Gesù: «Egli [lo Spirito Santo] prenderà da quel che è mio e
ve lo annunzierà» (16,14). Anche lo Spirito conosce la realtà di Dio,
come il Padre la dà al Figlio e come viene fatta conoscere dal Figlio.
Ai discepoli, che non sono ancora capaci di portare il peso di tutto,
Gesù dice: «[Lo Spirito] vi annunzierà le cose future» (16,13). Le
cose future hanno chiaramente a che fare con ciò di cui i discepoli
non sono ancora capaci di portare il peso. Delle cose future si parla
ancora solo là dove si dice: «Gesù, sapendo tutto quello che doveva
accadergli, si fece innanzi...» (18,4). Qui si tratta dell’intero destino
di Gesù, che viene respinto dagli uomini e crocifisso. Questo
soprattutto verrà annunciato ai discepoli dallo Spirito della verità in
quanto Consolatore. Tuttavia «annunciare le cose» non significa
«predirle» (solo nel loro semplice accadere esterno), bensì
«manifestarle» (nel Loro senso e nel loro significato). Lo Spirito
della verità, che procede dal Padre e che, in continuità con l’opera di
Gesù, rivela il Padre, manifesta ai discepoli le cose future,
mostrandone il legame con il Padre e il significato nel piano di
salvezza del Padre. Così glorifica nello stesso tempo Gesù, che con
la sua obbedienza si dimostra Figlio del Padre (cfr. 6,38). Anche tutte
le altre cose, di cui per i discepoli sarà difficile portare il peso nel
futuro, verranno manifestate ad essi nel loro significato dallo Spirito,
con il fatto che egli le mostrerà loro nella luce di Dio, nel loro
rapporto con il Padre,
Gesù ha rivelato il Padre ai discepoli, che sono stati testimoni
dell’intera sua opera, con cui egli ha fatto conoscere il Padre. Nel
tempo in cui egli non è più visibilmente con loro, lo Spirito mantiene
vivo il suo messaggio presso di loro, e insegna loro a capire tutto, in
particolare tutte le cose pesanti, nella luce del Padre.
Domande
1. Come sono uniti tra loro Padre, Figlio e Spirito Santo? Qual è il
compito del Figlio, e quale quello dello Spirito Santo?
2. Perché lo Spirito Santo si chiama “Consolatore” e “Spirito
della verità”?
3. Come può far capire lo Spirito Santo ai discepoli ciò di cui essi
ora non sono capaci di portare il peso? Che cosa possiamo aspettarci
da lui?
(Stock K., La Liturgia de la Parola. Spiegazione dei Vangeli
domenicali e festivi, Anno C (Luca), ADP, Roma 2003, 175-179).
Vanhoye
Celebriamo oggi la solennità della SS. Trinità. Il mistero della
Trinità c’introduce nell’intimità stessa di Dio. Ci rivela che Dio in se
stesso è amore. È amore tra tre Persone distinte, ma che sono
talmente unite tra loro da formare un solo Dio.
Questo mistero non è stato rivelato subito. Nell’Antico
Testamento non si sapeva dell’esistenza di tre Persone in Dio.
Tuttavia questa rivelazione vi era preparata.
La prima lettura di oggi ci manifesta appunto una delle
preparazioni della rivelazione della vita intima di Dio. Essa ci parla
della Sapienza di Dio, che esisteva prima di ogni sua opera, come lei
stessa dice: «II Signore mi ha creato all’inizio della sua attività,
prima di ogni altra sua opera, fin d’allora». La sua esistenza risale a
prima della creazione: «Dall’eternità sono stata costituita, fin dal
principio, dagli inizi della terra».
In questo brano del libro dei Proverbi la Sapienza fa l’elogio di se
stessa, rivela che esisteva prima della creazione, ma la sua attività si
è manifestata nella creazione.
Qui abbiamo un testo poetico, che evoca in maniera concreta gli
inizi della creazione. La Sapienza si esprime così: «Quando non
esistevano gli abissi, io fui generata; quando ancora non vi erano le
sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei
monti, prima delle colline, io sono stata generata».
La Sapienza stava con Dio come architetto per costruire il mondo
e si rallegrava davanti a lui in ogni istante. Afferma infatti: «Io ero
con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, mi
rallegravo davanti a lui in ogni istante; mi ricreavo sul globo
terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».
Qui possiamo vedere già un aspetto del mistero della Trinità, nei
suoi rapporti con l’uomo: la Sapienza era in relazione con l’uomo da
parte di Dio.
Ci sono altri testi dell’Antico Testamento che preparano la
rivelazione del mistero della Trinità: in particolare i testi che parlano
della Parola di Dio e dello Spirito di Dio.
Il libro della Genesi ci rivela come Dio ha creato tutto: «Dio
disse: "Sia la luce", e la luce fu. [...] Dio disse: "Sia il
firmamento" [...]. Dio disse...» (Gen 1). Tutta la creazione è un’opera
di Dio per mezzo della sua Parola. Dio non ha bisogno di affaticarsi
per creare: basta che egli dica qualcosa, e questo si realizza.
Assieme alla Parola, c’è lo Spirito di Dio. Lo si può chiamare
anche «soffio di Dio», perché il termine ebraico ruah (che traduciamo
«spirito») significa appunto «soffio».
Lo Spirito Santo è il soffio di Dio. Dice il Sal 33: «Dalla parola
di Dio sono stati creati i cieli, e dal soffio della sua bocca ogni loro
schiera» (v. 6).
In effetti, per produrre suoni e parole con la nostra bocca, noi ci
serviamo del soffio: non c’è possibilità di comunicazione senza il
soffio, che poi viene articolato nella parola.
Così in queste espressioni noi vediamo una prima rivelazione
della vita intima di Dio: Dio che parla e Dio che ha un soffio.
Questo soffio è creatore, ma anche rivelatore, in quanto ha
ispirato i profeti, che così ci hanno potuto comunicare i progetti e i
pensieri di Dio.
Con questi due elementi – parola e soffio di Dio – abbiamo già
nell’Antico Testamento una preparazione del mistero della Trinità.
Ma occorrerà aspettare Gesù, perché questo mistero venga
pienamente manifestato.
Gesù si è rivelato Figlio di Dio nel senso più pieno della parola:
Figlio unico, prediletto, primogenito. È il Figlio unito al Padre in
modo unico, come fa notare egli stesso: «Io e il Padre siamo una
cosa sola» (Gv 10,30).
Lo Spirito Santo è stato comunicato da Gesù agli apostoli dopo la
sua ascensione, come aveva loro promesso.
Nel Vangelo di oggi Gesù parla dello Spirito Santo che dovrà
venire, che sarà mandato dal Padre nel suo nome (o che sarà mandato
da lui, venendo dal Padre).
Gesù lo chiama «Spirito di verità», cioè lo Spirito che rivela tutto
il mistero di Dio. Promette agli apostoli: «Quando verrà lo Spirito di
verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera». Così suscita nei loro
cuori un forte desiderio di riceverlo.
Il modo in cui Gesù parla dello Spirito di verità mostra l’unione e
la distinzione tra le tre Persone divine. Egli dice: «Lo Spirito mi
glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello
che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del
mio e ve l’annunzierà».
In questa frase abbiamo una rivelazione della Trinità: vengono
menzionati il Padre, Gesù in quanto Figlio del Padre, e lo Spirito, che
prende ciò che appartiene al Padre e a Gesù per annunziarlo ai
discepoli.
Il modo in cui Gesù parla dello Spirito manifesta che è uno
Spirito di amore, che non cerca la propria gloria, ma quella di Gesù e
quella del Padre.
Gesù stesso nel Vangelo si è presentato come colui che non cerca
la propria gloria, ma quella del Padre (cf. Gv 8,50). Egli non
pretende di avere l’iniziativa, ma sa che tutto in lui – le sue parole, le
sue azioni, i suoi miracoli – viene dal Padre (cf., ad esempio, Gv
5,26-30; 7,16; 12,49-51; 14,24; 17,4). Il Padre dà a Gesù anche i
discepoli (cf. Gv 10,29; 17,2.12; 18,9). Gesù non è venuto per fare la
propria volontà, ma quella del Padre (cf. Gv 4,34; 14,31).
Questa abnegazione è l’aspetto negativo dell’amore, è la
condizione dell’autenticità dell’amore. Chi vuole fare la propria
volontà e cercare la propria gloria, si chiude all’amore. Invece, chi
pratica questa abnegazione, non cercando la propria volontà, ma
quella di colui che l’ha mandato, vive veramente nell’amore.
Allo stesso modo, dice Gesù, «lo Spirito di verità non parlerà da
sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future».
Così possiamo capire che la vita intima di Dio è uno scambio
continuo di amore tra tre Persone distinte, ma unite tra loro. Nel
Vangelo la loro unione si manifesta proprio nel modo in cui esse si
occupano di noi.
Il mistero della Trinità non è stato rivelato in maniera astratta,
bensì nel disegno di salvezza di Dio per noi. Questo lo possiamo
capire dal Vangelo di oggi, ma anche dalla seconda lettura, in cui
Paolo parla del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella loro
relazione con noi, ma anche della nostra relazione con loro.
Paolo afferma che siamo giustificati per mezzo della fede in
Cristo Signore. Chi crede in lui e lo riconosce come Figlio unico del
Padre, viene giustificato, cioè viene reso giusto, purificato dai
peccati, santificato, e quindi unito a Dio.
Grazie alla fede nel Figlio unico di Dio, accediamo alla grazia e ci
troviamo in una situazione di grande speranza: la speranza di
condividere la gloria di Dio dopo la nostra morte. Ma già adesso
questa speranza comincia a realizzarsi, in quanto la vita cristiana è
illuminata dalla gloria di Dio.
Paolo fa notare che questa speranza «non delude, perché l’amore
di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo
che ci è stato dato». Qui incontriamo la terza Persona della Trinità
nella sua funzione di comunicare l’amore di Dio.
Tutta l’esistenza terrena di Gesù e la sua morte hanno avuto come
fine quello di donarci lo Spirito Santo, che c’introduce nell’amore di
Dio. Lo Spirito Santo ci manifesta l’amore che Dio ha nei nostri
confronti e suscita nei nostri cuori l’amore verso Dio e verso i
fratelli. Così ci fa entrare nella vita intima di Dio in modo non
teorico, ma reale.
Tutta la nostra vita cristiana è illuminata dal mistero della Trinità.
Non soltanto illuminata, ma anche trasformata da questo mistero.
Dobbiamo prendere sempre più coscienza delle nostre relazioni con
il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La nostra vita è una vita in
comunione con queste tre Persone.
Tutta la nostra vita cristiana è segnata dalla Trinità. Siamo stati
battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il
battesimo ci ha introdotto nel mistero della Trinità, nella comunione
di amore delle tre Persone divine. E i sacramenti che riceviamo dopo
il battesimo – in particolare l’Eucaristia – servono a rafforzare la
nostra comunione con la Trinità.
Nell’Eucaristia preghiamo il Padre di mandare lo Spirito Santo,
perché il pane e vino che offriamo diventino il Corpo e Sangue di
Gesù. E lo preghiamo perché, ricevendo il Corpo e Sangue di Gesù,
siamo trasformati dallo Spirito Santo e introdotti sempre più
profondamente nella vita di amore della Trinità.
Chiediamo allora al Signore farci apprezzare questo dono
veramente straordinario della conoscenza della sua vita intima. Noi
abbiamo il privilegio non solo di conoscerla, ma anche di esserne
partecipi. «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio
dimora in lui», dice la prima lettera di Giovanni (4,16).
(Vanhoye, A., Le Letture Bibliche delle Domeniche, Anno C,
ADP, Roma 2003, 159-163).
Briciole
I. Dal Catechismo di san Pio X
Della festa della santissima Trinità.
104. Quando si celebra dalla Chiesa la festa della santissima
Trinità?
La santissima Trinità si onora dalla Chiesa in ogni giorno
dell'anno e principalmente nelle domeniche; ma se ne fa una festa
particolare nella prima domenica dopo la Pentecoste.
105. Perché nella prima domenica dopo la Pentecoste si celebra
dalla Chiesa questa festa particolare della santissima Trinità?
Nella prima domenica dopo la Pentecoste si celebra dalla Chiesa
la festa della santissima Trinità, affinché comprendiamo che il fine
dei misteri di Gesù Cristo e della discesa dello Spirito Santo, è stato
di condurci a conoscere la Trinità santissima, e ad onorarla in ispirito
e verità.
106. Che cosa vuol dire santissima Trinità?
Santissima Trinità vuol dire: Dio uno in tre persone realmente
distinte: Padre, Figliuolo e Spirito Santo.
107. Dio è purissimo spirito: perché dunque si rappresenta la
santissima Trinità in forma visibile?
Dio è purissimo spirito; ma le tre Persone divine si rappresentano
con certe immagini per far conoscere alcune proprietà od azioni che
loro si attribuiscono, od il modo in cui qualche volta sono apparse.
108. Perché Dio Padre si rappresenta in forma di vecchio?
Dio Padre si rappresenta in forma di vecchio per significare così
l'eternità divina, e perché Egli è la prima Persona della santissima
Trinità e il principio delle altre due Persone.
109. Perché il Figliuolo si rappresenta in forma di uomo?
Il Figliuolo di Dio si rappresenta in forma di uomo, perché Egli é
anche vero uomo, avendo assunta l'umana natura per la nostra salute.
110. Perché lo Spirito Santo si rappresenta in forma di colomba?
Lo Spirito Santo si rappresenta in forma di colomba, perché in
questa forma discese sopra Gesù Cristo quando fu battezzato da S.
Giovanni.
111. Che dobbiamo noi fare nella festa della santissima Trinità?
Nella festa della santissima Trinità dobbiamo fare cinque cose:
1. adorare il mistero di Dio Uno e Trino;
2. ringraziare la santissima Trinità di tutti i benefici temporali
e spirituali che riceviamo;
3. consacrare tutti noi stessi a Dio, e assoggettarci interamente
alla sua divina provvidenza;
4. pensare che nei Battesimo siamo entrati nella Chiesa, e
divenuti membri di Gesù Cristo per l'invocazione e per la virtù del
nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo;
5. risolvere di far sempre con divozione il segno della Croce, che
esprime questo mistero, e di recitare con fede viva e con intenzione
di glorificare la santissima Trinità quelle parole che la Chiesa ripete
così sovente: Sia gloria al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo.
San Tommaso
Sant’Agostino
Quanto è mirabile il tuo nome, Signore, su tutta la terra.
Il significato di " torchi ".
1. [v 1.] Per la fine, per i torchi: salmo di David stesso. Non
sembra che nel testo di questo salmo, che ha un simile titolo, si dica
qualcosa dei torchi; dal che risulta che, spesso, nelle Scritture, sotto
molte e diverse similitudini si intende una sola e medesima cosa.
Possiamo perciò nei torchi vedere le chiese, per la stessa ragione per
cui vediamo anche nell'aia la Chiesa. Sia nell'aia sia nel torchio
infatti non si compie niente altro se non la liberazione dei frutti dai
tegumenti, necessari perché nascessero, crescessero e giungessero
alla maturità sia della mietitura che della vendemmia. Orbene,
quanto a questi tegumenti e peduncoli, il frumento si libera nell'aia
dalla pula, e il vino si libera nel torchio dalle vinacce; allo stesso
modo, nelle chiese, si separano in forza di spirituale amore, ad opera
dei ministri di Dio, i buoni dalla moltitudine degli uomini del secolo
che sta riunita insieme con loro; moltitudine che era necessaria ai
buoni perché nascessero e divenissero idonei a ricevere la parola
divina. Questa divisione si verifica anche ora, in modo però che i
buoni sono separati dai malvagi, non nello spazio ma nell'amore,
anche se gli uni e gli altri stanno insieme nelle chiese per quanto si
riferisce alla presenza corporale. Verrà poi un altro tempo nel quale il
frumento sarà raccolto nei granai e il vino nelle cantine. Dice: il
grano raccoglierà nei granai, mentre brucerà la pula nel fuoco
inestinguibile (cf. Lc 3, 17). In un'altra similitudine si può intendere
la stessa cosa: il vino raccoglierà nelle cantine, mentre getterà le
vinacce al bestiame in modo che i ventri delle bestie possano
raffigurare - in similitudine - le pene dell'inferno.
2. Possiamo interpretare i torchi anche in un altro modo, senza
tuttavia rinunziare a vedere in essi le chiese. Possiamo infatti
scorgere nell'uva anche il Verbo divino: anche il Signore è stato
chiamato grappolo d'uva, che portarono dalla terra promessa, sospeso
a un ramo come fosse crocifisso (cf. Nm 13, 24) coloro che erano
stati mandati in avanscoperta dal popolo di Israele. Ora, allorché il
Verbo divino, per la necessità dell'enunciazione, assume suono di
voce per giungere all'orecchio degli ascoltatori, nel medesimo suono
della voce si racchiude il significato come il vino nelle vinacce; e
così questa uva giunge all'orecchio come al pressatoio ove sono
situati i torchi. Si compie infatti qui la separazione, per cui il suono si
ferma alle orecchie, mentre il senso si raccoglie nella memoria di
coloro che ascoltano, come in una specie di tino, da cui passa nella
disciplina dei costumi e nell'atteggiamento della mente, come (il
vino) passa dal tino nelle cantine, ove, se non diverrà aceto per
negligenza, acquisterà vigore con l'invecchiare. Presso i Giudei è
divenuto aceto, ed essi diedero da bere al Signore questo aceto (cf.
Gv 19, 29). È infatti necessario che quel vino, generato dalla vite del
Nuovo Testamento e che il Signore berrà insieme con i suoi santi nel
regno del Padre suo (cf. Lc 22, 18), sia dolcissimo e robustissimo.
3. Si suole scorgere anche il martirio nel torchio, in quanto,
essendo stati premuti dalla violenza delle persecuzioni coloro che
hanno confessato il nome di Cristo, i loro resti mortali rimarranno in
terra come le vinacce, mentre le loro anime voleranno nella pace
della dimora celeste. Neppure questa interpretazione si allontana
dalla fruttificazione delle chiese. Quindi si canta il salmo per i
torchi, cioè per la fondazione della Chiesa, quando il nostro Signore
è asceso al cielo dopo essere risorto: è allora che ha mandato lo
Spirito Santo, ricolmi del quale i discepoli hanno predicato con
fiducia la parola di Dio, onde costituire le chiese.
4. [v 2.] Per questo è detto: o Signore, Signore nostro, quanto è
ammirabile il tuo nome in tutta la terra! Chiedo: perché è
ammirabile il suo nome in tutta la terra? Mi si risponde: perché la
tua magnificenza è innalzata sopra i cieli. Il senso è dunque questo:
o Signore, tu che sei il nostro Signore, quanto ti ammirano tutti
coloro che abitano la terra! Perché la tua magnificenza si è innalzata
dalla umiltà terrena fin sopra i cieli. Di là infatti si è reso manifesto
chi eri tu che, ne discendevi, quando alcuni hanno visto, e altri hanno
creduto, ove tu salivi.
La Chiesa è costituita anche da peccatori.
5. [v 3.] Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto perfetta
lode, contro i tuoi nemici. Non posso ritenere che si tratti di fanciulli
e di lattanti diversi da quelli ai quali dice l'Apostolo: come a
fanciulli in Cristo vi ho dato da bere il latte, non il cibo solido (cf. 1
Cor 3, 1 2). Tali fanciulli erano raffigurati da quei bambini che
precedevano il Signore inneggiando a lui, ai quali applicò il Signore
stesso questa testimonianza quando, ai Giudei che gli dicevano di
rimproverarli, rispose: non avete letto: dalla bocca dei bambini e
dei lattanti hai tratto perfetta lode? (cf. Mt 21, 16) Giustamente non
dice: hai tratto lode, ma: hai tratto perfetta lode. Vi sono infatti nelle
chiese anche coloro che non bevono più il latte, ma mangiano il cibo
solido, ai quali allude lo stesso Apostolo dicendo: parliamo della
sapienza tra i perfetti (cf. 1 Cor 2, 6) Le chiese, peraltro, non si
compongono solo di questi, perché se vi fossero soltanto perfetti non
si provvederebbe al (bene del) genere umano. Ed invece si provvede,
quando anche coloro che non sono ancora capaci della conoscenza
delle cose spirituali ed eterne, sono nutriti con la fede della storia
temporale, la quale, dopo i Patriarchi e i Profeti, è stata governata per
la nostra salvezza dalla superiore potenza e sapienza di Dio anche
con il mistero dell'assunzione della natura umana, nella quale [fede]
risiede la salvezza per ogni credente, in modo che mosso
dall'autorità, obbedisca ai comandamenti; e ciascuno, purificato da
essi e radicato e stabilito nella carità, possa correre insieme con i
santi non più come un bambino [da nutrirsi] con il latte, ma come un
giovane capace del cibo solido, e comprendere la larghezza, la
lunghezza, l'altezza e la profondità e conoscere anche la
sovraeminente scienza della carità di Cristo (cf. Ef 3, 18 19).
Scienza e fede.
6. Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto perfetta lode,
contro i tuoi nemici. Per nemici di questa [opera di] salvezza,
compiuta per mezzo di Gesù Cristo e della sua crocifissione,
dobbiamo intendere in generale tutti coloro che dicono di non
credere nel Mistero, e promettono una scienza certa; come appunto
fanno tutti gli eretici e coloro che sono detti filosofi nella
superstizione dei gentili. Non perché la promessa della scienza sia da
condannarsi, ma perché costoro pensano di poter trascurare quel
salutare e necessario gradino della fede, mezzo indispensabile per
elevarci a qualcosa di certo, che non può essere se non l'eterno. Da
ciò risulta che costoro non posseggono neppure quella scienza che
promettono disprezzando la fede, perché disconoscono questo
gradino tanto utile e necessario. Per questo il nostro Signore ha tratto
perfetta lode dalla bocca dei bambini e dei lattanti dando dapprima
il precetto per mezzo dei profeti: se non avrete creduto non
intenderete (cf. Is 7, 9 sec. LXX), e dicendo poi egli stesso di
persona: beati coloro che non avranno visto e crederanno (cf. Gv
20, 29). Contro i nemici, ossia contro coloro a proposito dei quali
dice anche: ti confesso, Signore del cielo e della terra, perché hai
celato queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli (cf. Mt 11,
25). Ha detto ai sapienti non perché sono sapienti, ma perché
credono di esserlo. Per annientare il nemico e difensore. Chi è
costui se non l'eretico? È infatti insieme nemico e difensore colui
che, mentre combatte la fede cristiana, sembra difenderla. Tuttavia
possono essere definiti correttamente nemici e difensori anche i
filosofi di questo mondo, dato che il Figlio di Dio è Potenza e
Sapienza di Dio, da cui è illuminato chiunque diventa sapiente per
mezzo della verità. Costoro si proclamano amici della verità, e anche
per questo sono detti filosofi: ecco perché sembrano difenderla,
mentre sono suoi nemici, perchée non cessano di insinuare nocive
superstizioni per fare adorare e venerare gli elementi di questo
mondo.
Lo Spirito Santo dito di Dio.
7. [v 4.] Giacché vedrò i cieli, opera delle tue dita. Leggiamo che
è stata scritta dal dito di Dio la Legge data per mezzo di Mosè, suo
santo servo (cf. Es 31, 18; Dt 9, 10); e molti in questo dito di Dio
riconoscono lo Spirito Santo. Per questa ragione se intendiamo
giustamente come dita di Dio i ministri stessi ricolmi dello Spirito
Santo - poiché è lo Spirito stesso che opera in essi, ed è per loro
mezzo che è stata redatta a nostro vantaggio tutta la divina Scrittura -
altrettanto giustamente intenderemo che sono detti cieli, in questo
passo, i libri dell'uno e dell'altro Testamento. Sta di fatto che i maghi
del re Faraone, dopo essere stati vinti da Mosè, dissero di lui: questi
è il dito di Dio (cf. Es 8, 19); sta inoltre scritto: il cielo sarà piegato
come un libro (cf. Is 34, 4); anche se così è detto di questo cielo
etereo, opportunamente tuttavia con questa stessa similitudine si
nominano i cieli per intendere allegoricamente i libri. Giacché vedrò
- dice - i cieli, opera delle tue dita, cioè vedrò e comprenderò le
Scritture, che tu hai scritte per mezzo dei tuoi ministri grazie
all'opera dello Spirito Santo.
Non c'è vera scienza senza fede.
8. Possiamo vedere questi stessi libri anche in quei cieli che ha
menzionato prima, quando ha detto: perché la tua magnificenza è
innalzata sopra i cieli, in modo che il senso integrale sia questo:
invero la tua magnificenza è innalzata sopra i cieli, in quanto la tua
gloria supera l'eloquenza di tutte le Scritture. E hai tratto perfetta
lode dalla bocca dei bambini e dei lattanti, affinché inizino dalla fede
nelle Scritture coloro che desiderano pervenire alla conoscenza della
tua gloria, che si innalza sopra le Scritture stesse, in quanto trascende
e supera le espressioni di ogni parola e di ogni linguaggio. Dio ha
dunque piegato le Scritture fino alla capacità dei bambini e dei
lattanti, come si canta in un altro salmo: piegò il cielo e discese (cf.
Sal 17, 10), e ha fatto questo a cagione dei nemici, i quali,
contrastando con la superbia della loro loquacità la croce di Cristo,
anche quando dicono qualcosa di vero, non possono tuttavia giovare
ai fanciulli e ai lattanti. Così è annientato il nemico e difensore, il
quale, mentre sembra tutelare la sapienza e anche il nome di Cristo,
allontanandosi dal gradino di questa fede, combatte quella verità che
promette con tanta prontezza. Ecco perché mostra chiaramente di
non possederla, dato che, opponendosi al gradino che a lei conduce,
cioè alla fede, non conosce in qual modo si può giungere ad essa.
Viene così annientato colui che - temerario e cieco - promette la
verità (ed invece è nemico e difensore), allorché si manifestano i cieli
opera delle dita di Dio; quando cioè vengono comprese le Scritture,
piegate fino al livello della debolezza dei fanciulli, e questi,
attraverso l'umiltà della fede nella storia che si è attuata nel tempo,
sono innalzati, ben nutriti e rinvigoriti, alla sublimità della
conoscenza delle cose eterne, e in esse confermati. Dunque questi
cieli, cioè questi libri, sono opera delle dita di Dio: perché sono stati
redatti dallo Spirito Santo che opera nei santi.
Infatti coloro che si sono curati della propria gloria piuttosto che
della salvezza degli uomini, hanno parlato senza quello Spirito
Santo, che ha le viscere della misericordia di Dio.
9. Giacché vedrò i cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle
che tu hai fondate. La luna e le stelle sono fondate nei cieli, perché
anche la Chiesa universale (ad indicar la quale spesso si pone la luna)
e le chiese particolari di ogni singola regione (che credo siano
simboleggiate con il nome di stelle) sono collocate in quelle stesse
Scritture che riteniamo essere rappresentate nella parola cieli. Perché
poi la luna designi a ragione la Chiesa, lo considereremo con più
agio in un altro Salmo, laddove si dice: i peccatori hanno teso
l'arco, per saettare i retti di cuore mentre oscura è la luna (cf. Sal
10, 3).
Rapporto tra uomo e figlio dell'uomo.
10. [v 5.] Che cosa è l'uomo, che tu ti ricordi di lui, o il figlio
dell'uomo, che tu lo visiti? Ci si può chiedere quale differenza vi sia
tra l'uomo e il figlio dell'uomo. Se non vi fosse alcuna differenza, il
salmista non avrebbe scritto così: l'uomo, o il figlio dell'uomo,
separandoli con la disgiunzione. Se fosse scritto infatti: che cosa è
l'uomo che tu ti ricordi di lui, e il figlio dell'uomo che tu lo visiti,
sembrerebbe trattarsi di una ripetizione della parola uomo; ma
siccome qui leggiamo l'uomo, o il figlio dell'uomo, si suggerisce
chiaramente che vi è una differenza. Dobbiamo senz'altro intendere
così, perché mentre ogni figlio dell'uomo è uomo, non ogni uomo
può essere ritenuto figlio dell'uomo. Adamo infatti era uomo, ma non
figlio dell'uomo. Ecco perché è fin d'ora lecito esaminare e
distinguere quale differenza vi sia in questo luogo tra l'uomo e il
figlio dell'uomo, in modo che coloro che portano l'immagine
dell'uomo terreno - che non è figlio dell'uomo - siano indicati con il
nome di uomini; mentre coloro che portano l'immagine dell'uomo
celeste siano piuttosto chiamati figli degli uomini (cf. 1 Cor 15, 49).
Quello, infatti, è detto anche uomo vecchio, e questo nuovo (cf. Ef 4,
22 24); ma il nuovo nasce dal vecchio, perché la rigenerazione
spirituale si inizia con il mutamento della vita terrena e secolare; e
perciò l'uomo nuovo è detto figlio dell'uomo. Orbene, in questo
passo l'uomo è quello terreno, mentre il figlio dell'uomo è l'uomo
celeste; il primo è ben lontano da Dio, il secondo è presente a Dio:
ecco perché il Signore si ricorda del primo, come di chi si trova
lontano, mentre visita il secondo, che, presente, illumina con il suo
volto. Lontana - infatti - è la salvezza dai peccatori (cf. Sal 118,
155), e impressa è in noi la luce del tuo volto, o Signore (cf. Sal 4,
7). Così, in un altro salmo, avendo associato gli uomini agli animali,
non per la loro attuale interiore illuminazione ma per quell'effusione
della misericordia di Dio, a motivo della quale la sua bontà si estende
fino alle più basse creature, dice che [gli uomini] sono salvati
insieme con gli stessi animali; poiché la salvezza degli uomini
carnali è carnale come quella delle bestie. Invece, separando i figli
degli uomini da quelli che - [chiamati] uomini - aveva associato agli
animali, annunzia che saranno beati in un modo di gran lunga più
sublime, nella illuminazione della stessa verità e come in una sorta di
inondazione della fonte di vita. Dice infatti: uomini e animali
salverai, Signore, così come si è moltiplicata la tua misericordia, o
Dio. Ma i figli degli uomini spereranno nella protezione delle tue
ali. Si inebrieranno nella abbondanza della tua casa, e tu li
disseterai al torrente delle tue delizie. Perché presso di te è la fonte
della vita, e nella tua luce vedremo la luce. Dispiega la tua
misericordia su coloro che ti conoscono (cf. Sal 35, 7-11). Si
ricorda dunque dell'uomo, come degli animali, nella moltiplicazione
della sua misericordia poiché la misericordia moltiplicata giunge fino
a coloro che sono lontani; invece visita il figlio dell'uomo al quale
porge, dopo averlo posto sotto la protezione delle sue ali, la
misericordia, e al quale offre la luce nella sua luce, e lo disseta alle
sue delizie, e lo inebria nell’abbondanza della sua casa, affinché
dimentichi le sofferenze e gli errori della vita passata. La penitenza
dell’uomo vecchio partorisce, con dolore e gemito, questo figlio
dell’uomo, cioè l’uomo nuovo. Questi, sebbene sia nuovo, è tuttavia
detto ancora carnale, quando è nutrito con il latte: non vi ho potuto
parlare come a uomini spirituali, ma come a uomini carnali, dice
l’Apostolo, e, per mostrare poi che sono già rigenerati, aggiunge:
come fanciulli in Cristo vi ho dato da bere il latte, non il cibo
solido. Se, come spesso accade, costui ricadrà nella vecchia vita, si
sentirà dire, con tono di rimprovero, che è uomo: forse che non siete
uomini - dice – e secondo l’uomo camminate? (cf. 1 Cor 3, 1-3)
11. [vv 6.7.] Orbene, il figlio dell'uomo è visitato dapprima nello
stesso Uomo del Signore, nato da Maria Vergine. Di lui, a cagione
della stessa debolezza della carne che la Sapienza di Dio si è degnata
di assumere e della umiliazione della passione, è detto giustamente:
lo hai fatto di un poco inferiore agli angeli. Ma si aggiunge poi
quella glorificazione nella quale, risorgendo, è asceso al cielo: di
gloria - dice - e di onore lo hai coronato; lo hai costituito sopra le
opere delle tue mani. Poiché anche gli angeli sono opere delle mani
di Dio, comprendiamo che anche al di sopra degli angeli è stato
costituito il Figlio Unigenito, che abbiamo sentito, e crediamo, essere
stato reso un poco inferiore rispetto agli angeli a causa della umiltà
della sua generazione carnale e della passione.
Nobiltà e grandezza di Cristo.
12. [vv 8.9.] Tutte le cose - dice - hai poste sotto i suoi piedi. Non
eccettua niente, dicendo tutte le cose. E per evitare che si intenda
altrimenti, l'Apostolo così ci ordina di credere: eccetto colui che
tutto gli ha sottomesso (cf. 1 Cor 15, 27). Scrivendo agli Ebrei si
serve della medesima testimonianza di questo salmo, quando vuol far
intendere che tutte le cose sono sottomesse al nostro Signor Gesù
Cristo, tanto che niente è eccettuato (cf. Eb 2, 8). Non sembra
tuttavia aggiungere niente di straordinario, dicendo: le pecore e i
buoi tutti, in più anche gli animali dei campi, gli uccelli del cielo e
i pesci del mare, che percorrono le vie del mare. Sembra infatti aver
sottomesso al Signore soltanto gli animali, avendo lasciato da parte
le Virtù e le Potenze, e tutti gli eserciti degli angeli, e tralasciando gli
uomini stessi; a meno che non si vedano nelle pecore e nei buoi le
anime sante [nel senso] che o danno i frutti dell'innocenza, oppure si
adoperano affinché la terra dia frutto, cioè affinché gli uomini terreni
siano rigenerati nella abbondanza spirituale. In queste anime sante
dobbiamo perciò vedere non soltanto gli uomini, ma anche tutti gli
angeli, se vogliamo con queste parole intendere che tutte le cose sono
soggette al nostro Signore Gesù Cristo. Non c'è infatti creatura che
non sia soggetta a colui al quale sono soggetti, per esprimerci così,
gli spiriti superiori. Ma come possiamo provare che si possono
vedere nelle pecore anche gli spiriti supremamente beati, non gli
uomini, ma gli spiriti angelici? Forse con le parole del Signore, che
dice di aver lasciato sui monti, cioè nei luoghi più sublimi,
novantanove pecore, e di essere disceso a causa di una sola (cf. Mt
18, 12)? Se intendiamo infatti per quella sola pecora l'anima umana
caduta in Adamo, in quanto anche Eva fu fatta dal suo fianco (cf. Gn
2, 22) - tutte cose di cui ora non è il momento di trattare e di trarne il
senso spirituale -, non ci resta che vedere nelle novantanove pecore
lasciate sui monti gli spiriti non umani, ma angelici. Riguardo ai
buoi, l'affermazione si delucida facilmente, dato che gli uomini stessi
sono chiamati buoi in quanto imitano gli angeli nell'annunziare la
parola di Dio, come risulta dalle parole: non metterai il freno alla
bocca del bue che trebbia. Premesso questo, quanto più facilmente
possiamo vedere nei buoi gli angeli messaggeri di verità, dato che
sono chiamati buoi gli stessi Evangelisti, poiché partecipano del loro
nome (cf. Dt 25, 4, cf. 1 Cor 9, 3, 1 Tm 5, 18)? Hai sottomesso - dice
dunque - le pecore e i buoi tutti, cioè tutte le creature sante e
spirituali; nelle quali intendiamo anche i santi uomini che sono nella
Chiesa, cioè in quei torchi che, in un'altra similitudine, sono
raffigurati nella luna e nelle stelle.
13. In più - dice - anche gli animali dei campi. L'aggiunta in più
non è affatto inutile. In primo luogo perché gli animali del campo
possono essere anche le pecore e i buoi; in modo che, se gli animali
delle rupi e dei luoghi scoscesi sono le capre, giustamente si intende
con pecore gli animali del campo. Cosicché, anche se fosse scritto: le
pecore e i buoi tutti e gli animali del campo, ci si chiederebbe
giustamente che cosa significano questi animali del campo, dato che
in essi possiamo vedere anche le pecore e i buoi. Siamo pertanto
indotti a riconoscere l'esistenza di una certa differenza, proprio
perché è aggiunto anche in più. Ma sotto queste parole - che
suonano: in più - son posti non solo gli animali del campo, ma anche
gli uccelli del cielo e i pesci del mare che percorrono le vie del mare.
Ebbene, di quale differenza si tratta? Ricordiamoci dei torchi che
hanno le vinacce e il vino, dell'aia che contiene la pula e il grano (cf.
Mt 13, 24 ss), delle reti in cui sono chiusi i pesci buoni e cattivi (cf.
Mt 13, 47 s), e dell'arca di Noè nella quale stavano gli animali puri e
quelli immondi (cf. Gn 7, 8), e vedrai allora che le chiese di questo
tempo transeunte contengono, fino all'ultimo giorno del giudizio, non
solo le pecore e i buoi, cioè santi laici e santi ministri, ma in più
anche gli animali del campo, gli uccelli del cielo, e i pesci del mare
che percorrono le vie del mare. In modo quanto mai preciso sono
raffigurati negli animali dei campi gli uomini immersi nei piaceri
della carne, stato dal quale non si innalzano a niente di arduo, a
niente di faticoso. Infatti il campo è anche la via larga che conduce
alla morte (cf. Mt 7, 13), ed è nel campo che è ucciso Abele (cf. Gn
4, 8). Ecco perché è da temersi che uno, discendendo dai monti della
giustizia di Dio (perché la tua giustizia - dice - è come i monti di
Dio Sal 35, 7), scegliendo la larghezza e la facilità dei piaceri carnali,
sia così trucidato dal diavolo. Vedi poi ora negli uccelli del cielo i
superbi, a proposito dei quali leggiamo: hanno messo la loro bocca
in cielo (cf. Sal 72, 9). Guarda come siano trasportati in alto dal
vento coloro che dicono: innalzeremo la nostra lingua, le nostre
labbra sono con noi, chi è il nostro Signore? (cf. Sal 11, 5)
Considera anche i pesci del mare, cioè quei curiosi che percorrono le
vie del mare, ossia ricercano nell'abisso di questo mondo le cose
temporali; le quali, simili alle vie [che si aprono] nel mare, all'istante
svaniscono e scompaiono come l'acqua che subito si ricompone dopo
aver fatto posto alle navi che passano o a qualsiasi altra cosa che
transita o nuota in essa. Non ha detto infatti soltanto: camminano per
le vie del mare, ma percorrono, mostrando così lo sforzo tenacissimo
di coloro che ricercano le cose vane e passeggere. Orbene, questi tre
generi di vizi, cioè il piacere della carne, la superbia e la curiosità,
racchiudono tutti i peccati. Mi sembra che essi siano elencati
dall'apostolo Giovanni, quando dice: non vogliate amare il mondo,
perché tutte le cose che stanno nel mondo sono concupiscenza
della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione del secolo (cf. 1
Gv 2, 15 16). La curiosità si esercita soprattutto per mezzo degli
occhi; a chi poi appartengano le altre cose, è evidentissimo. Del
resto, la tentazione dell’Uomo del Signore fu appunto triplice: per
mezzo del cibo, cioè della concupiscenza della carne, là dove gli
viene suggerito: Di’ a queste pietre che diventino pani (cf. Mt 4, 3);
per mezzo della vanagloria quando, dopo essere stato posto sul
monte, gli vengono mostrati i regni di questa terra e gli vengono
promessi se adorerà [il tentatore]; per mezzo della curiosità, quando
gli viene proposto di gettarsi giù dal pinnacolo del tempio, per
provare se sarebbe stato sorretto dagli angeli. Perciò, dopo che il
nemico non riuscì a vincerlo con nessuna di queste tentazioni, è detto
di lui: il diavolo dopo avere esaurito ogni tentazione (cf. Lc 4, 13). I
torchi significano quindi che sono sottomessi ai suoi piedi, non
soltanto il vino, ma anche le vinacce; vale a dire non soltanto le
pecore e i buoi, cioè le sante anime dei fedeli, sia tra il popolo che tra
i sacerdoti, ma, in più, anche gli animali del piacere, gli uccelli della
superbia e i pesci della curiosità. Vediamo che ora nelle chiese tutti
questi generi di peccatori sono frammisti con i buoni e i santi. Operi
dunque nelle sue chiese, separi il vino dalle vinacce; quanto a noi
adoperiamoci per essere vino, o pecore, o bovi; non vinacce, o
animali del campo, o uccelli del cielo, o pesci del mare che
percorrono le vie del mare. Tutti questi nomi, peraltro, possono
essere anche intesi e spiegati in altro modo, a seconda del contesto:
in altri passi infatti hanno un altro significato. Ma in ogni allegoria
dobbiamo tenere presente questa norma: che nei confronti
dell'argomento di cui si tratta si consideri quel che si dice in
similitudine: è infatti questo l'insegnamento del Signore e degli
Apostoli. Ripetiamo dunque l'ultimo verso, che si legge anche
nell'esordio del salmo, e lodiamo Dio dicendo: o Signore, Signore
nostro, quanto è ammirabile il tuo nome in tutta la terra! Invero
opportunamente, dopo lo svolgimento del discorso si torna all'inizio,
cui si deve riferire il sermone tutto intero.
(Agostino S., Commento al Salmo 8, ed. digitale, pp. 77-89).