Sei sulla pagina 1di 4

Salve, sono Cinzia Craus, sono architetto e mi occupo di pianificazione di protezione civile dal

1998; in particolare, dal 2014, ho iniziato a lavorare per alcuni comuni dell’area dei Campi Flegrei e
quindi alla pianificazione per il rischio vulcanico.
Mi è stato chiesto - in questo delicato momento in cui il fenomeno del bradisismo che interessa da
sempre quest’area, in particolare Pozzuoli, è tornato prepotentemente alla ribalta, sia a causa della
maggiore energia e quantità degli eventi sismici connessi al fenomeno in atto, dal 2005, di
sollevamento del suolo, sia perché proprio questi hanno acceso i riflettori su quello che dal 2012 è
lo stato del vulcano cui questo fenomeno è connesso – di “raccontare” il piano nazionale di
protezione civile per il rischio vulcanico Campi Flegrei.
Credo che non ci sia niente di più difficile di “raccontare” un piano, ancor più un piano come quello
dei Flegrei, o del Vesuvio anche, solo con le parole, senza poter far ricorso alle immagini. E tuttavia
mai come in questi giorni mi sono resa conto di quanto ci sia bisogno di chiarezza, non solo sul
piano, ma, forse ancora di più, su una serie di concetti che chi, come me, opera nel campo, ritiene
scontati e che invece scontati non sono affatto: tanta confusione, e sfiducia anche, derivano
probabilmente proprio da questo.
Quindi mi sono detta: ok, proviamoci. Ma proviamoci in un modo diverso: parliamo prima di cosa è
un piano, di come nasce, da cosa e perché nasce, e dei tanti termini di cui è costellato che troppo
spesso per chi non è del mestiere non solo non hanno un significato chiaro, ma spesso si
assomigliano, generando incomprensioni. Dopo, soltanto dopo, parliamo del piano per i Flegrei.

Per poter parlare di un piano dobbiamo prima di tutto definire il rischio, che è il motivo primo della
sua esistenza. Il rischio è per definizione il prodotto di due fattori, tre in realtà, ma al terzo ci
arriviamo dopo: la possibilità/probabilità che un evento – naturale o antropico - accada
(pericolosità) e la popolazione e i beni che a questo evento saranno esposti (valore esposto, noi, le
nostre case, le nostre strade, le nostre scuole). Ovvio dunque che non vi è rischio laddove un
pericolo non esiste, come non vi è rischio laddove il pericolo esiste ma non vi è valore esposto.
Come è ovvio che il rischio aumenta enormemente al crescere del valore esposto, anche in caso di
pericoli non necessariamente grandi.
Di fronte ad un rischio, e in funzione di questo, delle sue caratteristiche (gli scenari, di impatto e di
danno, che i diversi possibili eventi che le fonti di pericolo possono generare in relazione al
territorio esposto – questa attività, che rientra nelle attività di protezione civile, è l’attività di
PREVISIONE), si pianifica, ossia si elaborano misure e strategie per salvaguardare in primo luogo
la vita umana, poi tutto ciò che è possibile. Si pianifica quindi per mitigare il rischio, in particolare
per ridurre il danno, che un evento calamitoso può arrecare. E’ questa l’attività di PREVENZIONE.
Esistono due tipologie di interventi per mitigare il rischio: gli interventi strutturali e quelli non
strutturali.
Gli interventi strutturali sono quelle opere tese a ridurre o la pericolosità di un evento (si pensi alle
opere di prevenzione degli incendi boschivi, ad esempio, quelle di regimazione delle acque, gli
interventi sulla stabilità dei versanti; no, non si può evitare un terremoto e no, non si può impedire
un’eruzione), o a ridurre la vulnerabilità (ecco il terzo termine della nostra equazione!) del valore
esposto (l’adeguamento sismico degli edifici ad esempio serve a questo; no, mi spiace, non protegge
dalle nubi ardenti).
Vengono definiti interventi non strutturali generalmente quelli che agiscono sul valore esposto
riducendo il livello di esposizione dei vari elementi che lo costituiscono: rientrano tra questi i
sistemi di allertamento, monitoraggio e sorveglianza, gli interventi legislativi e normativi ai diversi
livelli di competenza (dalle norme sismiche al divieto di nuova edificazione, ad una pianificazione
territoriale e urbanistica e vincolistica rispettosa del territorio e della memoria, che integri e si
coordini con i Piani di Protezione Civile – come disposto dall’art. 3 della Legge 100//2012 ed oggi
dal comma 3 dell’art.18 del Codice di Protezione Civile, a tanti altri, compreso l’obbligo, magari
fosse sanzionato, di dotarsi di piani di protezione civile), la Pianificazione di Emergenza, la
formazione del personale chiamato alla gestione della stessa, l’informazione alla popolazione e la
diffusione di una cultura di protezione civile che promuova la resilienza nelle comunità e l’adozione
di comportamenti consapevoli e di autoprotezione negli individui.
Aggiungerei che interventi legislativi potrebbero ulteriormente ridurre il danno favorendo politiche
assicurative, così come potrebbero intervenire più decisamente – mi rendo conto della estrema
difficoltà e delicatezza dell’argomento, considerando anche che, persino nelle ricostruzioni post
disastri è estremamente difficile far sì che esperienza e memoria abbiano la meglio su radici e
appartenenza - nella riduzione quantitativa dell’esposto nelle aree a rischio sia favorendo la
delocalizzazione di attività, anche e soprattutto residenziale, sia pianificando per le stesse possibili
modelli di riconversione.

E siamo dunque arrivati ai piani. Ma dovrei dire a quali piani, se già parlando di previsione e
prevenzione ho parlato di pianificazione e già, en passant, ho nominato in poche righe i Piani di
Protezione Civile e i Piani di Emergenza.
Oggi le due denominazioni a livello comunale si usano ormai come sinonimi: il PEC (Piano di
Emergenza Comunale) è a tutti gli effetti un Piano di Protezione Civile, e i suoi contenuti, ivi
comprese le attività di Previsione con l’analisi dei rischi e la definizione degli scenari e la
programmazione delle attività di Prevenzione, dai sistemi di allertamento al Piano di
Comunicazione, sono normati da linee guida regionali e nazionali, che ne regolano anche i formati
grafici e i database. In realtà un Piano di Emergenza è più strettamente quella parte del piano che
sulla base dei rischi presenti sul territorio e in funzione delle risorse del sistema di protezione civile
locale definisce l’insieme di azioni e attivazioni necessarie alla gestione di una emergenza, mentre il
Piano di Protezione Civile è il più ampio contenitore nel quale si esplicitano le analisi e gli scenari,
la Previsione appunto, le attività di Prevenzione (per esempio i sistemi di allertamento esistenti ed
implementati o implementabili in emergenza o il citato piano di comunicazione), la Gestione
dell’Emergenza (nel modello operativo di Emergenza) e le attività (questo, va detto, è raramente
affrontato) da porre in essere per il superamento dell’emergenza.
Ancora, i piani di protezione civile più completi comprendono un cronoprogramma di azioni per
rendere vitale il piano: dalla formazione del personale del sistema di protezione civile locale, agli
schemi di convenzione con gruppi di volontariato e con ordini professionali – per le verifiche
sismiche e tecniche in genere, all’organizzazione di un servizio h24, alla predisposizione di
protocolli di collaborazione e di attività, alla programmazione di esercitazioni di vario livello, ecc.
Ma anche azioni più impegnative ed interventi strutturali, come aprire una nuova strada, creare
nuove aree aperte e sicure (aree di attesa, punti di raccolta per la popolazione destinati ad ospitarla
per alcune ore, dove portarsi a piedi e ricevere assistenza e informazioni), ma anche edifici e aree
polifunzionali che possano essere rapidamente in emergenza convertite in strutture ed aree di
ricovero e accoglienza (per assistere la popolazione che non può rientrare nelle proprie abitazioni
per periodi più lunghi di un giorno) o in aree di ammassamento (no, non sono aree per ammassare la
popolazione, sono aree destinate ad accogliere i soccorritori), programmare l’adeguamento di
edifici strategici e sensibili, realizzare sistemi di monitoraggio locali (pluviometri, stazioni
meteorologiche) e sistemi di comunicazione dedicati, approfondire le conoscenze sulla risposta
sismica delle diverse aree del territorio (dotandosi di microzonazione sismica di terzo livello) e
sull’edificato (analisi di vulnerabilità qualitative), analizzare nel complesso le criticità del sistema
urbano (Condizione Limite per l’Emergenza CLE) a fronte di un evento avverso per programmare
ulteriori interventi strutturali.

A questo punto potremmo dire che il Piano di Evacuazione è quella parte del Piano di Protezione
Civile che potremmo chiamare Piano di Emergenza, essendo di fatto una strategia e una azione, pur
dovendo specificare che con emergenza in questo caso intendiamo l’allarme e non l’evento visto
che è in questa fase che si attua. Non tutti i Piani di Emergenza però sono Piani di Evacuazione.
Da quando si parla più diffusamente del Piano Nazionale Campi Flegrei questo è l’equivoco più
ricorrente: di fronte ai terremoti connessi al bradisismo sembra non esistano altro che le fasi di
allerta del piano vulcanico, le zone rosse e le zone gialle, l’evacuazione, l’esodo, i gemellaggi,
l’allarme, il preallarme. Che è giusto, è giustissimo che se ne parli, del piano nazionale, del piano di
evacuazione, delle fasi di allerta e di quelle operative, sia perché comunque il bradisismo è legato
all’attività del vulcano, che c’è, si fa sentire, sia perché dal 2012 il vulcano è in allerta giallo, come
stabilito da Dipartimento della Protezione Civile su indicazioni della Commissione Grandi Rischi,
stato di allerta cui, nel modello operativo del piano corrisponde una fase operativa di Attenzione, ed
è giusto quindi che si diffonda la conoscenza del piano. Ma. Non esiste solo il piano per il rischio
vulcanico. E che oggi si parli di un piano per il bradisismo da realizzare, che dunque non c’è, anche
se volendo potremmo dire che ben due volte è stato applicato, in modo diverso e al mutare delle
conoscenze, non significa che di fronte ad un terremoto non si possano applicare (da parte dei
cittadini nei comportamenti, ma anche delle amministrazioni, e va sottolineato) i modelli operativi
del rischio sismico. Che non sono piani di evacuazione – anche se comportano talvolta che ci siano
sfollati, evacuati, allontanati, anche per periodi più o meno lunghi. Che sono piani per la gestione
dell’emergenza, non legati ad alcuna fase di allerta ma direttamente all’evento, all’interno dei piani
di protezione civile.
Ho nominato più volta il termine allerta. C’è una confusione sull’uso di questo termine, spesso
anche negli amministratori e in chi comunica che è spaventoso. Molto credo sia legato alle allerte
meteo, che sono sempre più frequenti ai nostri giorni. L’allerta discende direttamente da una analisi,
dal monitoraggio, e da una previsione, per lo più basata su modelli probabilistici: sta succedendo
questo (lo vedo), che può, se procede, diventare quest’altro, quindi devo stare più attento (nel
monitorare gli sviluppi) e se posso, devo fare anche delle cose in anticipo per evitare danni
maggiori o di doverle fare ad evento in corso, se arriva. Abbiamo quattro livelli di allerta:
- Allerta verde: non sta succedendo proprio niente, continuo a controllare che le cose restino così.
- Allerta giallo: sta cambiando qualcosa (o sta arrivando il maltempo, ma solo in una zona, e non è
poi una cosa così terribile), devo avvisare chi è interessato, devo stare più attento nel monitorare
quello che può ancora cambiare; sono stato avvisato: devo anticipare delle azioni (forse) ? = scatta
la fase di protezione civile di Attenzione, che NON è l’allerta ma sono l’insieme delle azioni di
protezione civile da attivare in corrispondenza a quell’allerta (non è strettamente necessario nel
rischio idrogeologico, può bastare un preallerta, in attesa degli sviluppi, ma non parleremo di questo
oggi; nel rischio vulcanico viene implementato il monitoraggio, la comunicazione e
l’informazione).
- Allerta arancione: beh accidenti sta cambiando qualcosa di più, la situazione peggiora (il
maltempo che sembra arrivare è proprio bello pesante), continuo a monitorare, più attentamente e
devo avvisare perchè è il caso che si cominci a fare delle cose, ora, prima che sia tardi = scatta la
fase di protezione civile di Preallarme (perché questo avvenga nel rischio idrogeologico deve già
piovere, si devono superare dei livelli di soglia – quantità di acqua caduta; ciò non toglie che pur
non avendo dichiarato il Preallarme io posso prendere dei provvedimenti sulla base dell’allerta =
chiudo i parchi, chiudo le scuole se so di avere possibili problemi di gestione dei flussi di traffico,
chiudo i sottopassi, interdico la circolazione ai camion telati, ecc); nel rischio vulcanico, vedremo
tra poco, dichiaro lo stato di emergenza, chiudo gli accessi all’area più a rischio, posiziono le
strutture operative, metto al sicuro le persone più fragili e agevolo l’evacuazione spontanea.
- Allerta rosso: beh sembra proprio che ci siamo (non è ancora detto, neanche per il vulcano), non
posso rischiare assolutamente, monitorare monitoro ma mo’ basta si deve mettere tutto al sicuro =
Allarme (beh se in allarme meteo il COC non è almeno in preallerta o in attenzione qualche
problema l’ufficio ce l’ha, anche e soprattutto se poi l’evento arriva ed arriva rapido e non si riesce
a costituire per tempo la struttura operativa; in allarme il COC può andarci al superamento delle
relative soglie o in relazione a quanto si ritiene possa avvenire a breve sul territorio e, qualora
necessario, udite udite, anche per il rischio idrogeologico è in questa fase che, all’occorrenza, si
attiva l’evacuazione preventiva, non di tutto il comune o dell’area rossa ovviamente, ma dell’area
rossa per il rischio idrogeologico nella quale i pluviometri, ah averli, o l’esperienza, ci dicono che
potremmo avere più danni); nel rischio vulcanico scatta l’evacuazione preventiva dell’area rossa.
Che viene dopo? Nel rischio meteo l’evento in corso che può diventare emergenza o può diventare
il nulla (ha chiuso le scuole ed è tornato il sole; non è successo niente! io aggiungo, meno male!) ma
anche nel rischio vulcanico eh. Nulla, e si ripristinano lentamente le condizioni precedenti
all’allarme; o si perpetuano a lungo le condizioni di allarme; o il vulcano erutta ed allora è vero,
evento in corso. La zona rossa è vuota. Ora devo capire tante cose per pensare alla zona gialla. Ma a
questo ci arriviamo dopo.

Ultime cose: un terremoto può avere un’allerta e di conseguenza le fasi di attenzione, preallarme e
allarme, compresa la messa in salvo preventiva? NO. Non può. Sebbene sappiamo che tutta l’italia è
sismica, che i terremoti hanno periodi di ritorno e si ripetono, noi non possiamo sapere in anticipo
quando e dove. Niente allerta e dunque niente fasi. Neanche evento in corso. Emergenza e gestione
dell’emergenza. Fase unica. Rischio NON prevedibile.
Un evento meteo avverso e le sue possibili conseguenze anche e soprattutto idrauliche e
idrogeologiche invece è un rischio prevedibile e va affrontato per fasi. Anche il rischio vulcanico lo
è. Eh ma dicono che un’eruzione non si può prevedere con certezza, che non si possono prevedere
le sue dimensioni e, in una caldera, dove si aprirà la bocca. Vero. Ma anche di un evento meteo, di
quello che provocherà, dove, la sua durata, la sua potenza. L’incertezza della previsione è
inevitabile, ma direi meglio questo che niente. E gli scenari? Anche gli scenari cambiano, possono
cambiare, anche in corso di evento, è parte della necessaria flessibilità dei piani, la capacità per
come sono strutturati di adeguarsi agli eventi, attraverso un sistema decisionale costruito su
competenze ed esperienze di settore, è anche questo compreso.

Bene, spero di essere riuscita a fare un po’ di chiarezza e di ordine.


Nel prossimo appuntamento parleremo finalmente del Piano Nazionale Campi Flegrei e del Piano di
evacuazione.

Potrebbero piacerti anche